Rivista lasalliana - trimestrale di cultura e formazione pedagogica

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Rivista lasalliana Direzione: 00149 Roma - Via dell’Imbrecciato, 181 ( 06.552.100.243 - E-mail: donato.petti@tiscali.it Amministrazione: 00196 Roma - Viale del Vignola, 56 Sito web: www.lasalliana.com

2014

Rivista lasalliana

RL

Rivista Lasalliana, pubblicazione trimestrale di cultura e formazione pedagogica, fondata in Torino nel 1934, si ispira alla tradizione educativa di Jean-Baptiste de La Salle (1651-1719) e delle Scuole Cristiane da lui istituite. Affronta il problema educativo in un’ottica prevalentemente scolastica, offrendo strumenti di lettura valutativa dei contesti culturali e stimoli orientativi all’esercizio della professione docente. Promuove studi storici sulle fonti bibliografiche della vita e degli scritti del La Salle, sull’evoluzione della pedagogia e della spiritualità del movimento lasalliano, aggiorna su ricerche in corso, avvalendosi della collaborazione di un gruppo internazionale di consulenti. È redatta da un Comitato di Lasalliani della Provincia Italia e di altri esperti in scienze umane, pedagogiche e religiose operanti con ruoli di ricerca, docenza e formazione in istituzioni scolastiche, para-scolastiche e universitarie.

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ISSN 1826-2155

Rivista lasalliana

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trimestrale di cultura e formazione pedagogica Donato Petti Fede e ragione nel magistero di Papa Benedetto XVI Francesco Trisoglio La fede serena: S. Paolino da Nola Enrico dal Covolo “Io credo in Dio Padre…”: la prospettiva relazionale trinitaria Vincenzo Rosito Verso una teologia politica della partecipazione Dario Antiseri Quale futuro per la scuola italiana? Domande al presidente Matteo Renzi Marco Camerini Scrivere oggi. Senza Márquez Marco Paolantonio Valutarsi per valutare. Autoanalisi e autovalutazione del docente Magali Devif-Philippe Moulis Il conflitto giansenista a Troyes: lettera di Fr. Stefano a Mons. Languet de Gergy Bérnard Pitaud Nicolas Roland e Jean-Baptiste de La Salle

OTTOBRE - DICEMBRE 2014 • ANNO 81 – 4 (324)


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Rivista Lasalliana, pubblicazione trimestrale di cultura e formazione pedagogica, fondata in Torino nel 1934, si ispira alla tradizione educativa di Jean-Baptiste de La Salle (1651-1719) e delle Scuole Cristiane da lui istituite. Affronta il problema educativo in un’ottica prevalentemente scolastica, offrendo strumenti di lettura valutativa dei contesti culturali e stimoli orientativi all’esercizio della professione docente. Promuove studi storici sulle fonti bibliografiche della vita e degli scritti del La Salle, sull’evoluzione della pedagogia e della spiritualità del movimento lasalliano, aggiorna su ricerche in corso, avvalendosi della collaborazione di un gruppo internazionale di consulenti. È redatta da un Comitato di Lasalliani della Provincia Italia e di altri esperti in scienze umane, pedagogiche e religiose operanti con ruoli di ricerca, docenza e formazione in istituzioni scolastiche, para-scolastiche e universitarie.


RIVISTA LASALLIANA Trimestrale di cultura e formazione pedagogica fondato nel 1934 Anno 81 • numero 4 • ottobre-dicembre 2014 Direttore DONATO PETTI

Comitato scientifico DARIO ANTISERI (Metodologia delle Scienze Sociali)

GAETANO DAMMACCO (Diritto di libertà religiosa)

CARLO NANNI (Scienze dell’educazione)

PAOLO ASOLAN (Teologia pastorale)

GABRIELE DI GIOVANNI (Direttore “Sussidi per la catechesi”)

EDGAR GENUINO NICODEM (Studi lasalliani)

GILLES BEAUDET (Ricerche lasalliane)

FLAVIO FELICE (Dottrine Economiche e Politiche)

STEPHANE OPPES (Filosofia teoretica)

DENIS BIJU-DUVAL (Teologia dell’evangelizzazione)

ITALO FIORIN (Pedagogia speciale)

CARMELA PALUMBO (Autonomia scolastica)

GIORGIO CALABRESE (Scienze dell’alimentazione umana)

REMO L. GUIDI (Questioni umanistico-rinascimentali)

MARCO PAOLANTONIO (Studi lasalliani)

PASQUALE CAPO (Gestione risorse professionali)

PASQUALE MARIA MAINOLFI (Bioetica)

MAURIZIO PISCITELLI (Didattica)

LUCIANO CHIAPPETTA (Legislazione scolastica)

ANTONELLO MASIA (Legislazione universitaria)

MARIO RUSCONI (Management scolastico)

MARIO CHIARAPINI (Direttore “Lasalliani in Italia”)

PHILIPPE MOULIS (Ricerche storiche)

LORENZO TÉBAR BELMONTE (Pedagogia lasalliana)

GIUSEPPE COSENTINO (Ordinamenti scolastici)

DIEGO MUÑOZ (Ricerche e Studi lasalliani)

ENRICO TRISOGLIO (Storia e Letteratura patristica)

ENRICO DAL COVOLO (Letteratura cristiana antica)

RAIMONDO MURANO (Formazione tecnico-professionale)

ROBERTO ZAPPALÀ (Antropologia filosofica)

Comitato di Redazione Luca Amati - Marco Camerini - Stefano Capello - Michele Cataluddi - Giovanni Decina - Francesco Decio Antonio Iannaccone - Annalisa Malatesta - Sara Mancinelli - Virginio Mattoccia - Alberto Rizzi - Maria Chiara Sidori - Enrico Sommadossi - Biancamarta Tammaro - Monica Zanchini Di Castiglionchio.

Collaboratori Edwin Arteaga Tobón, Antonio Augenti, Gilles Beaudet, Bruno Bordignon, Graziella Bussoni, Emilio Butturini, Angelo Piero Cappello, Italo Carugno, Umberto Casale, Giovanni Chimirri, Terry Collins, Robert Comte, Sergio De Carli, Renato Di Nubila, Paulo Dullius, Grazia Fassorra, Paolo Fichera, Italo Fiorin, Matthieu Fontaine, Andrea Forzoni, Emma Franchini, Antonio Gentile, Claudio Gentili, Oreste Gianfrancesco, Pedro Gil, Eugenio Guccione, Edgar Hengemüle, Alain Houry, Léon Lauraire, Lino Lauri, Herman Lombaerts, Anna Lucchiari, Vito Moccia, Patrizia Moretti, Israel Nery, José María Pérez Navarro, Raffaele Norti, Laura Pappone, Marina Pescarmona, Francesco Pesce, A.M. Pezzella, Massimo Pisani, Francesco Pistoia, Bérnard Pitaud, Óscar A. Elizalde Prada, Jaume Pujol, Hilaire Raharilalao, Francis Ricousse, Vincenzo Rosito, Carlo Rubinacci, Filippo Sani, Marica Spalletta, Giuseppe Tacconi, Cesare Trespidi, Joan Carles Vázquez, Ciro Vitiello.


DIREZIONE Donato Petti - Via dell’Imbrecciato, 181 - 00149 Roma ( 06.552.100.243 - E-mail: donato.petti@tiscali.it Le riviste in cambio e i libri per recensione vanno inviati alla Direzione

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Rivista lasalliana 81 (2014) 4

SOMMARIO - SUMMARIES EDITORIALE - EDITORIAL 441 Donato Petti Fede e ragione nel magistero di Papa Benedetto XVI Il rapporto tra scienza e fede costituisce il filo conduttore della riflessione filosofica e teologica di Benedetto XVI. Egli parte dal riconoscimento del valore positivo della ricerca scientifica e della tecnologia, segnata da indubbie conquiste e da grandi progressi. Una corretta comprensione delle sfide lanciate dalla cultura contemporanea e la formulazione di risposte significative ad esse presuppongono, tuttavia, un ampliamento del concetto di ragione, che sia in grado di esplorare e comprendere quegli aspetti della realtà che vanno oltre la dimensione empirica. Per Ratzinger, ragione e fede sono due ali dello spirito per contemplare la verità. Il mondo della ragione ed il mondo della fede hanno bisogno l’uno dell’altro e non dovrebbero avere timore di entrare in un profondo e continuo dialogo, per il bene dell’uomo e della civiltà. Faith and reason in the teaching of Pope Benedict XVI The relationship between science and faith is the leading thread in the philosophical and theological thinking of Benedict XVI. His starting point is the positive value of scientific research and of technology, marked by undeniable achievements and great progress. Nevertheless, a correct understanding of the challenge of contemporary culture and the formulation of meaningful responses to it presuppose a broadening of the concept of reason to one which is capable of exploring and understanding those aspects of reality which go beyond the empirical dimension. For Ratzinger, reason and faith are twin wings of the mind in the contemplation of truth. The world of reason and the world of faith need one another and should not be afraid to enter into a profound and continuous dialogue for the benefit of human civilization.

STUDI - STUDIES 461 Francesco Trisoglio La fede serena: S. Paolino da Nola Paolino è il prototipo della fede serena; è un temperamento aperto alla pace luminosa con Dio e con gli uomini. È un signore tanto nell’anima quanto nella parola, sempre incline alla finezza del tratto come all’eleganza dell’espressione, entrambe nella più genuina schiettezza. Il suo verseg-


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giare scorre limpido, senza subire nessuna costrizione da parte delle leggi metriche. Ha compenetrato, in agevole spontaneità, trascendenza e immanenza. Serene Faith: St Paolino da Nola Paolino is the prototype of serene faith; open by temperament to a luminous peace with God and men. He is a master of the soul as well as of the word, always tending towards delicacy in treatment and to elegance in expression, with equally genuine purity in both. His verses develop clearly, not constricted by the laws of metre. With easy spontaeity, he has penetrated into both trascendence and immanence.

469 Enrico dal Covolo “Io credo in Dio Padre…”: la prospettiva relazionale trinitaria, fondamento della preghiera cristiana L’autore scandisce lo studio in due momenti: il viaggio di andata e il viaggio di ritorno. La domanda che guida il viaggio di andata è: “Che cosa ci dice il primo articolo della nostra fede?”. La domanda che guida il viaggio di ritorno è invece: “Come rispondo io, con la mia preghiera, e soprattutto con la conversione della vita, al medesimo articolo di fede?”. “Io credo” è, dunque, un’esperienza spirituale tutta guidata dalla grazia di Dio, che sempre interpella ogni uomo. Si tratta di un cammino che non sottrae la persona al faticoso discernimento, né alla tentazione, né al dubbio. Questa opzione (“io credo”) rappresenta la risposta libera e personale dell’uomo. Così la vocazione alla fede precede la risposta dell’uomo ed efficacemente l’accompagna. “I believe in God the Father …”: the Trinitarian relational view, foundation of Christian prayer The author divides his study into two movements: the outward journey and the return. The question governing the outward journey is: “What is the first article of our credo saying to us?”. The question governing the return journey is, on the other hand: “How do I respond to that same article of faith, through my prayer and especially through the conversion of my life?”. The “I believe” is, therefore, a spiritual experience completely guided by the grace of God, which constantly challenges human beings. It is a journey which does not free the individual from the effort of discernment or from temptation to doubt. The option of “I believe” represents a free, individual human response. In this way the call to faith precedes our response and accompanies it efficaciously.

477 Vincenzo Rosito Verso una teologia politica della partecipazione L’articolo intende sviluppare un’analisi del concetto di partecipazione in quanto principale modello interpretativo della teologia politica contem-


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poranea e dell’attuale crisi economico-finanziaria. Il concetto di partecipazione può essere definito come la condizione intersoggettiva, sociale e politica, che permette una piena autorealizzazione, all’interno dell’esperienza umana e religiosa. L’autore si sofferma su tre specifici aspetti: le trasformazioni formali e sostanziali della soggettività nel contesto del tardocapitalismo finanziario; il legame tra autorità e responsabilità nel mondo contemporaneo; un possibile paradigma teologico-politico della partecipazione fondato sull’assunzione della condizione “mondana” e sull’adesione inclusiva ai processi decisionali. Towards a Political Theology of participation This article aims to develop an understanding of participation as ideal-typical mode of framing Political Theology and contemporary financial and economic crisis. The concept of participation can be defined as the social and political condition that prevents such self-realization within human and religious condition. The author focus on three specific aspects: The formal and substantive transformations of subjectivity in the context of late capitalism, the relationship between authority and responsibility in the contemporary global context, a paradigm of Political Theology of participation based on a new concept of inclusivity in decision-making processes.

PROPOSTE - PROPOSALS 485 Dario Antiseri Quale futuro per la scuola italiana? Domande al presidente Matteo Renzi È dell’11 luglio 2014 il documento della Conferenza Episcopale Italiana “La scuola cattolica risorsa educativa della Chiesa locale per la società” dove, puntando sulle ragioni, il valore, il significato sociale e civile della scuola cattolica, i vescovi ribadiscono il principio che in ambito educativo alle famiglie sia consentito di scegliere «senza condizionamenti il percorso di studi e la scuola reputata migliore per sé e i propri figli». Di continuo viene additato come un furto il contributo pubblico alla scuola paritaria. Ora, però, sta il fatto che parecchi affaccendati tribuni nascondono a se stessi e agli altri “interessati” che non è più che una miseria il contributo dello Stato italiano alle scuole paritarie, soprattutto se paragonato al contributo elargito alle scuole non statali da Stati come la Francia, il Belgio, l’Irlanda, la Germania, la Spagna o l’Inghilterra. What future is there for schools in Italy? Questions for President Matteo Renzi On 11 July 2014 last the CEI issued a document entitled “The Catholic school – an educational resource of the local Church for society”. In it, the bishops point-


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ed to the grounds for, the value of and the social and civil significance of Catholic schools, and they stressed the principle that in the sphere of education families should be allowed the right to choose «unconditionally the course of study and the school they think best for themselves and their children». One often hears the public contribution to ’paritarian’ schools being referred to as a ’theft’. However, it is a fact often concealed, from themselves and from other “interested parties”, by a number of busybody demagogues that the contribution made by the Italian government to ’paritarian’ schools is miserly, especially when compared to the contribution given to non-state schools in countries such as France, Belgium, Ireland, Germany, Spain and England.

489 Marco Camerini Scrivere oggi. Senza Márquez La scomparsa dello scrittore Gabriel García Márquez ha avviato una riflessione sull’intera opera e, insieme, sulle prospettive della letteratura latinoamericana che, per l’originale capacità di tradurre realismo ed attualità dei temi nelle cadenze di uno stile onirico e “meraviglioso”, si propone come “terza via” della narrativa contemporanea, accanto all’opzione europea ed (anglo)americana. D’altra parte i recenti, stimolanti interventi critici di Max Frisch, Giorgio Agamben, Julio Cortázar consentono di approfondire aspetti essenziali – ed in parte nuovi – dei romanzi dell’autore colombiano, pervasi da un incombente senso di attesa e scanditi da un “tempo lento” e suggestivamente sospeso. Writing today. Without Márquez The death of the writer Gabriel García Márquez has triggered off a discussion on his entire work and also on the prospects for Latin American literature which, by its special capacity for expressing realistic and current themes in a style that is honorable and “wonderful”, provides a “third way” for contemporary narrative, alongside the European and (Anglo) American. Moreover, the recent, stimulating critical studies by Max Frisch, Giorgio Agamben and Julio Cortázar allow us a deeper insight into some essential– and in part new – aspects of the Colombian author’s novels, pervaded as they are with a heavy sense of expectation set out in a ’slow motion’ time that is suggestively held in suspense.

495 Marco Paolantonio Valutarsi per valutare. Autoanalisi e autovalutazione del docente La valutazione è da sempre un tema di attualità nella scuola, ma di solito è stata gestita in senso autoreferenziale, ossia la scuola si è data da sé le regole in base alle quali osservare, misurare e controllare il proprio servizio. In sostanza è sovente mancata l’etica del ’render conto’ cui sono tenute tutte le istituzioni che erogano un servizio sociale. L’ottica qui proposta è quella dell’insegnante in esercizio, che deve saper vedere con chiarezza senso e posizione della sua funzione pro-


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fessionale: autonoma senza essere indipendente, collaborante senza essere eterodiretta. Altra considerazione d’evidenza palmare: l’autovalutazione acquisisce utili elementi sia dalle domande e dai giudizi di allievi e famiglie, sia dalle esperienze dei colleghi e dalle valutazioni variamente espresse dei dirigenti. Self-assessment and evaluation. Self-analysis and self-evaluation as a teacher Evaluation is always a current theme in schools, but it has usually been implemented in an auto-referential manner, by which the school itself lays down the basic rules for observing, measuring and checking on the service it provides. In practice, there is a deficiency in the spirit of ’giving an account’ to which all institutions providing a public service should be held. The point of view presented here is that of the practicing teacher who needs to be able to see clearly the meaning and position of his/her professional activity: autonomous without being independent, collaborative without being otherdirected. Another clearly self-evident idea is that self-evaluation has its useful aspects in relation to the questioning and judgements of pupils and families, and to the experience of colleagues and the evaluation by management expressed in different ways.

RICERCHE - RESEARCH 505 Magali Devif-Philippe Moulis Testimonianza del conflitto giansenista a Troyes: lettera di Fr. Stefano, Direttore dei Fratelli, a Mons. Languet de Gergy, arcivescovo di Sens. La Biblioteca municipale di Sens ha conservato nella collezione Languet de Gergy una lettera scritta nel 1731 da Fratello Stefano, direttore della Casa dei Fratelli delle Scuole Cristiane a Troys, e indirizzata a Mons. Languet de Gergy, arcivescovo di Sens; essa riferisce del dibattito acceso sul giansenismo, suscitato dalla Bolla Unigenitus in Francia e in particolare tra l’arcivescovo di Sens e il vescovo di Troyes, Mons. Bossuet. Il documento mette, altresì, in evidenza il sostegno offerto dai Fratelli Lasalliani all’applicazione delle Bolle e dei Brevi di Papa Clemente XI. Evidence of the Jansenist conflict in Troyes: a letter by Brother Etienne, Director of the Community, to Mgr. Languet de Gergy, Archbishop of Sens. The municipal library of Sens, in its Languet de Gergy collection, possesses a letter written in 1731 by Brother Etienne, Director of the Brothers Community in Troyes, addressed to Mgr. Languet de Gergy, Archbishop of Sens. It refers to the debate on Jansenism aroused in France by the Bull “Unigenitus”


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and in particular the debate between the archbishop of Sens and the bishop of Troyes, Mgr. Bossuet. Among other things, the document shows the support given by the Brothers to the application of the Bulla and the Brevi of Pope Clement XI.

525 Bérnard Pitaud Nicolas Roland e Jean-Baptiste de La Salle Nella sua Raccolta di vari trattati brevi Giovanni Battista de La Salle ha mutuato un certo numero di argomenti riguardanti gli Avvisi per il comportamento di persone regolari da Nicolas Roland, suo direttore spirituale e fondatore, a Reims, delle Suore del Bambin Gesù. Il de La Salle ne fece una “rilettura”, adattandoli alla missione educativa dei Fratelli. Ad una comparazione tra il testo di Nicolas Roland e la “rilettura” fatta dal de La Salle si evince chiaramente il carattere più affettivo e mistico del Roland e il senso pedagogico del fondatore dei Fratelli delle Scuole Cristiane, la maggior importanza che egli dà alla virtù della fede e, qua e là, l’accentuazione maggiore al senso comunitario ed ecclesiale. I due autori sono entrambi appassionati della Sacra Scrittura e fedeli seguaci della scuola francese di spiritualità. Nicolas Roland and Jean-Baptiste de La Salle In his “Collection of Short Treatises” Jean-Baptiste de La Salle has adapted a certain number of ideas expressed in the “Advice on the behaviour of people living according to a Rule” by Nicolas Roland, his spiritual director and founder of the Sisters of the Child Jesus in Rheims. De La Salle does a “re-reading” of the text, adapting it to the educational work of the Brothers. A comparison of the text of Nicolas Roland and the “re-reading” done by De La Salle shows clearly the affective and mystical character of Roland and the pedagogical approach of the Founder of the Brothers of the Christian Schools, who attaches greater importance to the virtue of faith and frequently shows a community and ecclesial approach. Both authors show a passion for Holy Scripture and are faithful followers of the French school of spirituality.

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RECENSIONI E NOTE - REVIEWS AND NOTES

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SEGNALAZIONE LIBRI - BOOK REPORTS

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INDICE ANNATA 2014 (ANNO 81°)


Rivista Lasalliana 81 (2014) 4, 441-459

EDITORIALE

FEDE E RAGIONE NEL MAGISTERO DI PAPA BENEDETTO XVI DONATO PETTI

SOMMARIO: 1. Critica alla ragione moderna. - 1.1. Il distacco della fede dalla metafisica. - 1.2. La fede empirica del XIX e del XX secolo, - 1.3. Distacco della fede dalla cultura. - 2. Scienza e fede: la pericolosa supremazia esclusivista della ragione. - 2.1. La scienza è limitata: non spiega il mondo umano della libertà e le domande di senso. - 3. Allargamento del concetto di ragione: la “Ragione creatrice”. - 3.1. Il libro della natura e il linguaggio della matematica. - 3.2. Struttura razionale dell’universo. - 3.3. Dio è “Ragione creatrice” e “Amore”: il male nel mondo. - 4. Scienza e fede: distinzione non opposizione. - 4.1. L’uso “dispotico” e l’uso “umile” della ragione. - 4.2. La ragionevolezza della fede. - 5. Dialogo tra fede e ragione: due ali dello spirito per contemplare la verità. 5.1. Il problema della verità: incontro della ragione con la fede. - 5.2. Dal fenomeno al fondamento: sintesi umanistica della conoscenza. - 5.3. Il “Cortile dei gentili”.

1. Critica alla ragione moderna

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apa Ratzinger, nella sua prolusione all’Università di Regensburg, il 12 settembre 2006, in occasione del viaggio apostolico in Germania, ha delineato la radice della crisi «strutturale», che attraversa tutti i settori della vita individuale e sociale del nostro tempo, nella rottura del fortunato connubio tra il pensiero greco e la fede cristiana, all’inizio dell’età moderna. Egli, infatti, parte dal convincimento della profonda e feconda concordanza tra il pensiero greco e la fede in Dio, secondo il fondamento della Bibbia. Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, l’evangelista Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole: “In principio era il logos, e il logos è Dio”, offrendoci la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio. Logos significava insieme ragione e parola – una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi, appunto, come ragione. Il termine logos segna, per Papa Benedetto, la necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e la filosofia greca; l’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non è stato un semplice caso. In realtà, già l’audefinizione misteriosa di Dio (“Io sono”) dal roveto ardente1 rappresenta, nei confronti del mito, una 1

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EDITORIALE

Donato Petti

contestazione con la quale sta, in intima analogia, il tentativo di Socrate di superare il mito stesso. Così la fede biblica, durante l’epoca ellenistica, andava interiormente incontro alla parte migliore del pensiero greco. Per Ratzinger, questo incontro, potenziato successivamente dal patrimonio culturale di Roma, ha dato vita alla cultura europea.2 1.1. Il distacco della fede dalla metafisica La richiesta di “deellenizzazione” del cristianesimo, cioè il distacco tra fede e patrimonio culturale greco, avviene, secondo Papa Benedetto XVI, attraverso tre tentativi (“onde”) che, pur collegati tra di loro, sono, tuttavia, chiaramente distinti l’uno dall’altro. Il primo di essi emerge in connessione con i postulati della Riforma protestante del XVI secolo: i riformatori rilevavano una sistematizzazione della fede condizionata totalmente dalla filosofia; la fede non appariva più come parola storica vivente, ma come elemento inserito nella struttura di un sistema filosofico. Il sola Scriptura di Lutero, invece, cercava la forma primordiale della fede, come essa è presente originariamente nella Parola biblica. Dunque, occorreva liberare la fede dalla metafisica per farla tornare ad essere totalmente se stessa. Esemplare è la radicale affermazione di Immanuel Kant di aver dovuto accantonare il pensare per far spazio alla fede, ancorandola esclusivamente alla ragione pratica.3 1.2. La fede empirica del XIX e del XX secolo La novità del secondo tentativo di “deellenizzazione” è evidente soprattutto in Adolf Harnack, con la rappresentazione di Gesù come padre di un messaggio morale umanitario. Egli avrebbe dato un addio al culto in favore della morale. Lo scopo di Harnack è, in fondo, quello di riportare il cristianesimo in armonia con la ragione moderna, liberandolo, appunto, da elementi filosofici e teologici, come, ad esempio, la fede nella divinità di Cristo e nella trinità di Dio. In tal modo, l’impostazione dell’esegesi storico-critica del Nuovo Testamento riporta anche la teologia nell’ambito del mondo universitario: teologia, per Harnack, è qualcosa di essenzialmente storico e, quindi, di strettamente scientifico. Per Benedetto XVI, alla base della posizione di Harnack c’è l’autolimitazione del concetto moderno di ragione, che si basa, per dirla in breve, su una

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BENEDETTO XVI, Discorso ai rappresentanti della scienza, Aula Magna dell’Università di Regensburg, 12 settembre 2006. 3 BENEDETTO XVI, Ibidem.


Fede e ragione nel magistero di Papa Benedetto XVI

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sintesi tra platonismo (cartesianismo) ed empirismo: da un lato, si presuppone la struttura matematica della materia, dall’altro la possibilità di controllare verità o falsità mediante l’esperimento che fornisce la certezza decisiva. Il criterio fondamentale della scientificità, dunque, sarebbe dato dalla sinergia di matematica ed esperienza. Anche le scienze umane, come la storia, la psicologia, la sociologia e la filosofia, devono cercare di allinearsi a questo canone di scientificità. A giudizio di Papa Benedetto ci troviamo, con questa conclusione, di fronte ad una riduzione del raggio della scienza e della ragione. Tale metodo esclude il problema “Dio”, facendolo apparire come problema ascientifico o pre-scientifico. Alla luce di questa prospettiva, gli interrogativi della religione e dell’ethos non possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta dalla “scienza” e devono essere spostati nell’ambito del soggettivo. Ognuno decide, in base alle proprie esperienze, che cosa gli appare religiosamente sostenibile, e la “coscienza” soggettiva diventa, in definitiva, l’unica istanza etica. In questo modo, però, l’ethos e la religione perdono la loro forza e scadono nell’ambito della discrezionalità personale. 1.3. Distacco della fede dalla cultura La terza “onda” (tentativo) di “deellenizzazione” della fede cristiana ha le sue radici nel nostro tempo. Parlando dell’incontro della fede con la molteplicità delle culture contemporanee, si afferma che la sintesi tra la fede e la cultura greca, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, ma essa non dovrebbe vincolare l’approccio con le altre culture del nostro tempo. In altri termini, le culture contemporanee dovrebbero poter scoprire autonomamente il messaggio semplice del Nuovo Testamento ed inculturarlo, poi, di nuovo, nei loro rispettivi ambienti. Per Papa Benedetto, questa tesi non è semplicemente sbagliata ma è anche imprecisa e grossolana. Il Nuovo Testamento, sottolinea il pontefice, è stato scritto in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco, che era maturato nello sviluppo precedente dell’Antico Testamento. È fuori dubbio, continua Benedetto XVI, che non tutti gli elementi del processo formativo della Chiesa antica devono essere integrati in tutte le culture, ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ragione umana, fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura.4

4

BENEDETTO XVI, Ibidem.


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EDITORIALE

Donato Petti

2. Scienza e fede: la pericolosa supremazia esclusivista della ragione Il rapporto tra scienza e fede costituisce il filo conduttore di tutta la riflessione filosofica e teologica di Benedetto XVI. Egli parte dal riconoscimento del valore positivo della ricerca scientifica e della tecnologia, segnata da indubbie conquiste e da grandi progressi. La scoperta e l’incremento delle scienze matematiche, fisiche, chimiche e di quelle applicate sono frutto della ragione ed espressione dell’intelligenza con la quale l’uomo riesce a penetrare nelle profondità del creato.5 Chi potrebbe negare che la ricerca scientifica offre opportunità uniche per esplorare la meraviglia dell’universo6 e la tecnologia produce benefici straordinari alla società, migliorando grandemente la qualità della vita degli esseri umani?7 Tuttavia, mentre, da una parte, essa viene considerata la panacea in risposta a tutte le domande circa l’esistenza dell’uomo e anche alle sue più alte aspirazioni, dall’altra, lo sviluppo scientifico pone inquietanti interrogativi sul futuro dell’umanità, di fronte alla costruzione e all’uso terrificante di armi nucleari. Di certo, la scienza non è definita da nessuno di questi due estremi. Il suo compito è e rimane una ricerca paziente e appassionata della verità sul cosmo, sulla natura e sulla costituzione dell’essere umano. In questa ricerca ci sono stati molti successi e molti fallimenti, trionfi e battute d’arresto.8 Ratzinger puntualizza che nell’età moderna la ricerca scientifica si è dedicata soprattutto all’osservazione della natura nel tentativo di scoprirne i segreti. Il desiderio di conoscerla si è poi trasformato nella volontà di riprodurla. Questo cambiamento non è stato indolore: l’evolversi dei concetti ha intaccato il rapporto tra la fides e la ratio con la conseguenza di portare l’una e l’altra a seguire strade diverse. La conquista scientifica e tecnologica, con cui la fides è sempre più provocata a confrontarsi, ha modificato l’antico concetto di ratio; in qualche modo, ha emarginato la ragione che ricercava la verità ultima delle cose per fare spazio ad una razionalità volta a scoprire la verità contingente delle leggi della natura.9

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BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al Congresso Internazionale promosso dalla Pontificia Università Lateranense, nel X anniversario dell’Enciclica “Fides ed ratio”, 16 ottobre 2008. 6 BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al Convegno internazionale promosso dal Pontificio Consiglio della cultura, 12 novembre 2011. 7 BENEDETTO XVI, Discorso alla benedizione della prima pietra dell’Università di Madaba del Patriarcato Latino, 9 maggio 2009. 8 BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti alla plenaria della Pontificia Accademia delle scienze, 28 ottobre 2010. 9 BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al Congresso Internazionale promosso dalla Pontificia Università Lateranense, nel X anniversario dell’Enciclica “Fides ed ratio”, 16 ottobre 2008.


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Le ideologie del positivismo e del materialismo hanno condotto a uno sfrenato entusiasmo per il progresso che, animato da spettacolari scoperte e successi tecnici, determina la concezione della vita di ampi settori della società. Il passato appare, così, solo come uno sfondo buio, sul quale il presente e il futuro risplendono con ammiccanti promesse di un paradiso sulla terra, malgrado le disastrose esperienze consegnate alla storia.10 2.1. La scienza è limitata: non spiega il mondo umano della libertà e le domande di senso La scienza si scopre limitata, in quanto non può dar risposta a tutte le questioni riguardanti l’uomo e la sua esistenza.11 L’uomo non può riporre nella scienza e nella tecnologia una fiducia talmente radicale e incondizionata da pensare che il progresso scientifico e tecnologico possa spiegare qualsiasi cosa e rispondere pienamente a tutti i suoi bisogni esistenziali e spirituali. E la scienza non può sostituire la filosofia e la religione rivelata rispondendo in modo esaustivo alle domande più radicali dell’uomo sul significato della vita e della morte, sui valori ultimi e sulla stessa natura del progresso. Ricco di mezzi, ma non altrettanto di fini, l’uomo del nostro tempo vive spesso condizionato dal riduzionismo e dal relativismo, che conducono a smarrire il significato delle cose. Su questo sfondo, il pensiero diventa debole e acquista terreno anche un impoverimento etico, che annebbia i riferimenti normativi di valore.12 Ci sono, infatti, dimensioni dell’esistenza umana che stanno al di là di ciò che le scienze naturali sono in grado di determinare, ossia il mondo umano della libertà e della storia. Mentre il cosmo fisico può avere un proprio sviluppo spaziale-temporale, solo l’umanità, in senso stretto, ha una storia, la storia della sua libertà. E quest’ultima, come la ragione, non può essere ridotta a un’analisi deterministica. La sua trascendenza rispetto al mondo materiale non può non essere riconosciuta e rispettata, poiché è un segno della dignità umana.13 Negare questa trascendenza in nome di una supposta capacità assoluta del metodo scientifico di prevedere e condizionare il

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BENEDETTO XVI, Discorso ai membri del Pontificio Comitato di scienze storiche, 7 marzo 2008. BENEDETTO XVI, Discorso alla benedizione della prima pietra dell’Università di Madaba del Patriarcato Latino, 9 maggio 2009. 12 BENEDETTO XVVI, Discorso alla visita all’università Cattolica del Sacro Cuore, in occasione del 50°anniversario dell’istituzione della Facoltà di Medicina e Chirurgia “Agostino Gemelli”, 3 maggio 2012. 13 BENEDETTO XVI, Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 6 novembre 2006. 11


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mondo umano comporterebbe il grave rischio che la dignità unica e l’inviolabilità della vita umana possano essere subordinate a considerazioni meramente utilitaristiche. La sua dignità trascendente dà all’uomo il diritto di restare sempre il beneficiario ultimo della ricerca scientifica e di non essere mai ridotto a suo strumento.14 Benedetto XVI mette in guardia: il pericolo del mondo occidentale è dato oggi dall’uomo che si arrende davanti alla questione della verità; in particolare, dalla ragione che si piega davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, considerandoli come criterio ultimo. In tal modo, essa si scompone e si frantuma, con la conseguenza che la filosofia, non sentendosi più capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che la teologia con il suo messaggio rivolto alla ragione venga confinata nella sfera privata.15 Per questo motivo, il Concilio Vaticano II, dopo aver riconosciuto i benefici ottenuti dai progressi scientifici, ha sottolineato che “il metodo di investigazione (...) viene innalzato, a torto, a norma suprema di ricerca della verità totale”, aggiungendo che “vi è il pericolo che l’uomo, troppo fidandosi delle odierne scoperte, pensi di bastare a se stesso e più non cerchi cose più alte” (Ibidem, n. 57).16 Una mentalità fondamentalmente tecnopratica genera un rischioso squilibrio tra ciò che è possibile tecnicamente e ciò che è moralmente buono, con imprevedibili conseguenze per il futuro dell’umanità.17 Se il progresso, per essere tale, ha bisogno della crescita morale dell’umanità, allora la ragione del potere e del fare deve altrettanto urgentemente essere integrata mediante l’apertura della ragione alle forze salvifiche della fede, al discernimento tra bene e male. In caso contrario la situazione dell’uomo, nello squilibrio tra capacità materiale e mancanza di giudizio del cuore, diventa una minaccia per lui e per il creato.18

3. Allargamento del concetto di ragione: la “Ragione creatrice” La critica della ragione moderna dal suo interno, secondo Ratzinger, non include assolutamente l’opinione che si debba ritornare a prima dell’illumi-

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BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al Convegno internazionale promosso dal Pontificio Consiglio della cultura, 12 novembre 2011. 15 BENEDETTO XVI, Allocuzione per l’incontro con l’Università degli Studi “La Sapienza”, 17 gennaio 2008. 16 BENEDETTO XVI, Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 6 novembre 2006. 17 BENEDETTO XVVI, Discorso alla visita all’università Cattolica del Sacro Cuore, in occasione del 50°anniversario dell’istituzione della Facoltà di Medicina e Chirurgia “Agostino Gemelli”, 3 maggio 2012. 18 BENEDETTO XVI, Enciclica “Spe salvi”, n. 23.


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nismo, rigettando le convinzioni e le conquiste dell’età moderna. Si tratta, invece, di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa. È a questo cercano di rispondere la fede religiosa, le varie arti, la filosofia, la teologia e le altre discipline scientifiche, ciascuna con il proprio metodo.19 Il concetto di ragione deve essere “ampliato” per essere in grado di esplorare e comprendere quegli aspetti della realtà che vanno oltre la dimensione meramente empirica.20 Papa Benedetto pone il dilemma: Dio o c’è o non c’è. Ci sono solo due opzioni. O si riconosce la priorità della ragione, della Ragione creatrice, che sta all’inizio di tutto ed è il principio di tutto - la priorità della ragione è anche priorità della libertà – o si sostiene la priorità dell’irrazionale, per cui tutto quanto funziona sulla nostra terra e nella nostra vita sarebbe solo occasionale, marginale, un prodotto irrazionale - la ragione sarebbe un prodotto della irrazionalità. Non si può ultimamente “provare” l’uno o l’altro progetto, ma la grande opzione del Cristianesimo è l’opzione per la razionalità e per la priorità della ragione, che ci dimostra come dietro a tutto ci sia una grande Intelligenza, alla quale possiamo affidarci.21 Religione del Logos, il Cristianesimo non relega la fede nell’ambito dell’irrazionale, ma attribuisce l’origine e il senso della realtà alla Ragione creatrice, che nel Dio crocifisso e risorto si è manifestata come amore e che invita a percorrere la strada della ricerca di Dio: «Io sono la via, la verità, la vita» (Gv 14,6).22 3.1. Il libro della natura e il linguaggio della matematica Joseph Ratzinger esplicita il suo ragionamento: «Evolvere» significa letteralmente «srotolare un rotolo di pergamena», cioè, leggere un libro; l’immagine della natura come libro ha le sue origini nel cristianesimo ed è rimasta cara a molti scienziati. Galileo Galilei vedeva la natura come un libro il cui autore è Dio, così come lo è delle Scritture. È un libro la cui «scrittura» e il cui significato «leggiamo» secondo i diversi approcci delle scienze, presupponendo per tutto il tempo la presenza fondamentale dell’Autore che vi si è voluto rivelare. Questa immagine ci aiuta a comprendere che il mondo,

19 BENEDETTO XVI, Discorso durante l’incontro con il mondo accademico, in occasione del viaggio apostolico nella Repubblica Ceca (26-28 ottobre 2009), 27 settembre 2009. 20 BENEDETTO XVI, Omelia alla Messa nella solennità dell’Epifania del Signore, 6 gennaio 2011. 21 BENEDETTO XVI, Colloquio nell’incontro con i giovani della Diocesi di Roma in preparazione alla XXVI Giornata Mondiale della Gioventù, 6 aprile 2006. 22 BENEDETTO XVVI, Discorso alla visita all’università Cattolica del Sacro Cuore, in occasione del 50°anniversario dell’istituzione della Facoltà di Medicina e Chirurgia “Agostino Gemelli”, 3 maggio 2012.


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lungi dall’essere stato originato dal caos, assomiglia a un libro ordinato. È un cosmo. Nonostante elementi irrazionali, caotici e distruttivi nei lunghi processi di cambiamento del cosmo, la materia in quanto tale è «leggibile».23 Il linguaggio della natura – questa era la convinzione di Galilei – è la matematica; quindi, essa è un linguaggio di Dio, del Creatore. Riflettiamo ora su cos’è la matematica: di per sé è un sistema astratto, un’invenzione dello spirito umano, che come tale nella sua purezza non esiste; è sempre realizzato approssimativamente, ma – come tale – è un sistema intellettuale, è una grande, geniale invenzione dello spirito umano. La cosa sorprendente, continua Papa Benedetto XVI, è che questa invenzione della mente umana è veramente la chiave per comprendere la natura, che la natura è realmente strutturata in modo matematico e che la nostra matematica, inventata dal nostro spirito, è realmente lo strumento per poter lavorare con la natura, per metterla al nostro servizio, per strumentalizzarla attraverso la tecnica.24 La mente umana, quindi, può impegnarsi non solo in una «cosmografia» che studia fenomeni misurabili, ma anche in una «cosmologia» che discerne la logica interna visibile del cosmo. Esiste un processo razionale nel mondo inorganico fra microstruttura e macrostruttura, nel mondo animale e organico fra struttura e funzione, e nel mondo spirituale fra conoscenza della verità e aspirazione alla libertà. L’indagine filosofica e sperimentale scopre gradualmente questi ordini. Grazie alle scienze naturali abbiamo molto ampliato la nostra comprensione dell’unicità del posto dell’umanità nel cosmo.25 3.2. Struttura razionale dell’universo Papa Ratzinger rileva che nel mondo occidentale domina largamente l’opinione che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall’universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione sorda di fronte al divino, che respinge la religione nell’ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture. E tuttavia, la moderna ragione propria

23

BENEDETTO XVI, Discorso alla Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze , 31 ottobre 2008. 24 BENEDETTO XVI, Colloquio nell’incontro con i giovani della Diocesi di Roma in preparazione alla XXVI Giornata Mondiale della Gioventù, 6 aprile 2006. 25 BENEDETTO XVI, Discorso alla Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze , 31 ottobre 2008.


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delle scienze naturali, con l’intrinseco suo elemento platonico, porta in sé un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico. Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste e deve essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare, cioè alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l’ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell’umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi ad essa significherebbe una riduzione inaccettabile del nostro ascoltare e rispondere.26 Per Ratzinger la matematica, inventata dall’uomo, ci dà realmente accesso alla natura dell’universo. Quindi la struttura intellettuale del soggetto umano e la struttura oggettiva della realtà coincidono: la ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura sono identiche. Tale coincidenza tra quanto l’uomo ha pensato e il come si realizza e si comporta la natura sono un enigma ed una sfida perché, in definitiva, è “una” sola ragione che le collega ambedue: la nostra ragione non potrebbe scoprire quest’altra, se non vi fosse un’identica ragione a monte di ambedue. In questo senso per Papa Benedetto, proprio la matematica - nella quale come tale Dio non può apparire - ci mostra la struttura intelligente dell’universo. Il Papa rileva che, sì, ci sono anche teorie del caos, ma sono limitate, perché se il caos avesse il sopravvento, tutta la tecnica diventerebbe impossibile. Solo perché la nostra matematica è affidabile, la tecnica è affidabile. La scienza, che rende finalmente possibile lavorare con le energie della natura, suppone la struttura affidabile, intelligente della materia. Dunque, c’è una razionalità soggettiva e una razionalità oggettivata nella materia che coincidono. Naturalmente adesso nessuno può provare - come si prova nell’esperimento, nelle leggi tecniche – che ambedue siano realmente originate in un’unica intelligenza, ma Ratzinger sostiene che questa unità dell’intelligenza, dietro le due intelligenze, appaia realmente nel nostro mondo. E quanto più noi possiamo strumentalizzare il mondo con la nostra intelligenza, tanto più appare il disegno della Creazione.27 26 BENEDETTO XVI, Discorso ai rappresentanti della scienza, Aula Magna dell’Università di Regensburg, 12 settembre 2006. 27 BENEDETTO XVI, Colloquio nell’incontro con i giovani della Diocesi di Roma in preparazione alla XXVI Giornata Mondiale della Gioventù, 6 aprile 2006.


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3.3. Dio è “Ragione creatrice” e “Amore”: il male nel mondo Papa Benedetto rileva che il vero problema contro la fede sembra essere la presenza del male nel mondo: ci si chiede come esso sia compatibile con questa razionalità del Creatore. A questo punto abbiamo bisogno realmente della rivelazione di Dio che si è fatto carne e che ci mostra come Egli non sia solo una ragione matematica, ma che questa ragione originaria è anche “amore”. Se guardiamo alle grandi opzioni, quella cristiana è anche oggi la più razionale e la più umana. Per questo possiamo elaborare con fiducia una visione del mondo che sia basata su questa priorità della ragione, su questa fiducia che la Ragione creatrice è amore, e che questo amore è Dio.28 La conoscenza non si può mai limitare alla mera sfera intellettuale. Essa include anche una rinnovata abilità di guardare alle cose senza pregiudizi e preconcetti, lasciandoci “entusiasmare” dalla realtà, la cui verità si può scoprire unendo l’amore alla comprensione.29 E per questo la nostra fede è una realtà che ha da fare con la ragione, può essere trasmessa mediante la ragione e non deve nascondersi davanti ad essa. Ma questa Ragione eterna ed incommensurabile, appunto, non è soltanto una matematica dell’universo e ancora meno qualche prima causa che, dopo aver provocato il Big Bang, si è ritirata; essa, invece, ha un cuore, tanto da poter rinunciare alla propria immensità e farsi carne. Qui risiede l’ultima e vera grandezza della nostra concezione di Dio: Egli non è un’ipotesi filosofica, non è qualcosa che forse esiste, ma noi Lo conosciamo ed Egli conosce noi.30

4. Scienza e fede: distinzione non opposizione Per Papa Benedetto, la ricerca scientifica e la domanda di senso, pur nella specifica fisionomia epistemologica e metodologica, zampillano da un’unica sorgente, da quel Logos che presiede all’opera della creazione e guida l’intelligenza della storia.31 Tra fede e scienza, dunque, non vi è opposizione, nonostante polemiche e incomprensioni che si sono registrate nella storia; un uomo di fede e di pre-

28

BENEDETTO XVI, Ibidem. BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti all’incontro dei Rettori e Docenti delle Università Europee, 23 giugno 2007. 30 BENEDETTO XVI, Discorso a conclusione dell’incontro con i Vescovi della Svizzera, 9 novembre 2006. 31 BENEDETTO XVVI, Discorso alla visita all’università Cattolica del Sacro Cuore, in occasione del 50°anniversario dell’istituzione della Facoltà di Medicina e Chirurgia “Agostino Gemelli”, 3 maggio 2012. 29


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ghiera può coltivare serenamente lo studio delle scienze naturali e progredire nella conoscenza del micro e del macrocosmo, scoprendo le leggi proprie della materia, poiché tutto questo concorre ad alimentare la sete e l’amore di Dio. Scienza e fede, in dialogo tra di loro, possono cooperare armoniosamente alla scoperta dell’autentica vocazione dell’uomo, assetato di verità e di beatitudine.32 4.1. L’uso “dispotico” e l’uso “umile” della ragione Benedetto XVI approfondisce la sua analisi, mutuando da San Bonaventura la distinzione di un duplice uso della ragione. Il dottore serafico, infatti, nel prologo al suo Commento alle Sentenze ha parlato di un uso che è inconciliabile con la natura della fede (uso “dispotico” della ragione) e di uno che, invece, appartiene proprio alla natura della fede (uso “umile della ragione). Il dispotismo della ragione sperimentale consiste nella dichiarazione: ciò che non può essere scientificamente verificato o falsificato cade fuori dell’ambito scientifico. Con questa impostazione sono state realizzate opere grandiose, come sappiamo; che essa sia giusta e necessaria nell’ambito della conoscenza della natura e delle sue leggi nessuno vorrà seriamente porlo in dubbio. Esiste, tuttavia, un limite a tale uso della ragione: Dio non è un oggetto della sperimentazione umana. Egli è soggetto e si manifesta soltanto nel rapporto da persona a persona: ciò fa parte dell’essenza della persona. E questo lo riconosce soltanto la ragione “umile”, che considera l’uomo nella sua globalità e non soltanto nella sua razionalità; in questo metodo, la ragione può esprimere tutte le sue possibilità, si allarga, diviene più grande.33 Tale ragione, camminando sulla pista tracciata dalla fede, non è alienata, ma risponde alla sua altissima vocazione. Quando non c’è questo uso della ragione, allora le grandi questioni che interessano il destino dell’uomo e dell’umanità vengono lasciate all’irrazionalità.34 Papa Ratzinger annota che alcuni ritengono che le domande sollevate dalla religione, dalla fede e dall’etica non rientrino nell’ambito della ragione pubblica. Tale visione, a suo parere, non è per nulla evidente. L’anelito per la libertà e la verità è parte inalienabile della nostra comune umanità. La libertà, che è alla base dell’esercizio della ragione, ha lo scopo preciso di ricercare la verità e, come tale, esprime una dimensione propria del Cristianesimo; non per nulla le prime università nacquero ad opera della Chiesa.

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BENEDETTO XVI, Udienza generale, 24 marzo 2010. BENEDETTO XVI, Omelia alla S. Messa con i membri della Commissione Teologica Internazionale, 1° Dicembre, 2009. 34 BENEDETTO XVI, Discorso al Conferimento del “Premio Ratzinger”, 30 giugno 2011. 33


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La grande tradizione formativa, aperta al trascendente, che è all’origine delle università in tutta Europa, è stata sistematicamente sovvertita dalla riduttiva ideologia del materialismo, dalla repressione della religione e dall’oppressione dello spirito umano. Nel 1989, il mondo è stato testimone in maniera drammatica del rovesciamento di una ideologia totalitaria fallita e del trionfo dello spirito umano.35 A sostegno della sua tesi, Ratzinger chiama in causa John Bordley Rawls,36 figura di spicco della filosofia morale e politica all’Università di Harvard che, pur negando a dottrine religiose il carattere della ragione “pubblica”, riconosce alle grandi tradizioni religiose un valore che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee; ad esempio, nella comunità della Chiesa Cattolica, durante i secoli, è maturata un tale tesoro di conoscenza, di sapienza di vita e di esperienza etica, che risulta importante per l’intera umanità. In questo senso rappresenta l’esperienza di una ragione etica.37 4.2. La ragionevolezza della fede Papa Benedetto pone la questione: la tradizione ci dice che la teologia è scienza della fede. Ma è davvero possibile questo? O non è in sé una contraddizione? Scienza non è forse il contrario di fede? La fede non cessa di essere tale, quando diventa scienza? E non cessa la scienza di essere scienza quando è ordinata o addirittura subordinata alla fede? In definitiva, la teologia è, dunque, scienza? Tali questioni, che già per la teologia medievale rappresentavano un serio problema, con il moderno concetto di scienza sono diventate ancora più impellenti, a prima vista addirittura senza soluzione. Si comprende così perché, nell’età moderna, la teologia, per dimostrare la sua scientificità, si sia ritirata prima nel campo della storia e, successivamente, nell’ambito della psicologia e della sociologia, riducendosi a una scienza pratica che dona indicazioni concrete per la vita degli uomini. Ma se la teologia si ritira totalmente nel passato, lascia oggi la fede nel buio; se la fede, quale fondamento della teologia, non diviene contemporaneamente oggetto del pensiero, se la prassi vive unicamente dei prestiti delle scienze umane, allora essa diventa vuota e priva di fondamento.38

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BENEDETTO XVI, Discorso durante l’incontro con il mondo accademico, in occasione del viaggio apostolico nella Repubblica Ceca (26-28 ottobre 2009), 27 settembre 2009. 36 Baltimora, 21 febbraio 1921 – Lexington, 24 novembre 2002. 37 BENEDETTO XVI, Allocuzione per l’incontro con l’Università degli Studi “La Sapienza”, 17 gennaio 2008. 38 BENEDETTO XVI, Discorso al Conferimento del “Premio Ratzinger”, 30 giugno 2011.


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Per Papa Benedetto XVI, soltanto se la ragione e la fede si ritroveranno unite in un modo nuovo, la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come interrogativo sulla ragione della fede, potrà avere il suo posto nell’università e nel vasto dialogo delle scienze.39 Per Papa Ratzinger, resta decisiva la domanda: è vero ciò in cui crediamo oppure no? Nella teologia è in gioco la questione circa la verità; questa è il suo fondamento ultimo ed essenziale. Il Papa, richiamandosi a Tertulliano, approfondisce l’argomento: se Cristo è il Logos, la verità, l’uomo deve corrispondere a Lui con il suo proprio logos, con la sua ragione. Per arrivare fino a Cristo, egli deve aprirsi al Logos, alla Ragione creatrice, da cui deriva la sua stessa ragione e a cui essa lo rimanda. Da qui si capisce che la fede cristiana, per la sua stessa natura, deve interrogarsi sulla ragionevolezza della fede, anche se naturalmente il concetto di ragione e quello di scienza abbracciano molte dimensioni, e così la natura concreta del nesso tra fede e ragione doveva e deve sempre nuovamente essere scandagliata. Per quanto si presenti, dunque, chiaro nel cristianesimo il nesso fondamentale tra Logos, verità e fede, la forma concreta di tale nesso ha suscitato e suscita sempre nuove domande.40

5. Dialogo tra fede e ragione: due ali dello spirito per contemplare la verità Benedetto XVI riprende la riflessione di Giovanni Paolo II che, approfondendo la relazione tra fede e ragione, le considera “come le due ali con le quali lo spirito umano si innalza alla contemplazione della verità”.41 L’una sostiene l’altra ed ognuna ha il suo proprio ambito di azione.42 Il mondo della ragione ed il mondo della fede – il mondo della secolarità razionale e il mondo del credo religioso – hanno bisogno l’uno dell’altro e non dovrebbero avere timore di entrare in un profondo e continuo dialogo, per il bene della civiltà.43 Ragione e fede hanno bisogno l’una dell’altra per realizzare la loro vera natura e la loro missione.44 Tra fede vera e auten-

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BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti all’incontro dei Rettori e Docenti delle Università Europee, 23 giugno 2007. 40 BENEDETTO XVI, Discorso al Conferimento del “Premio Ratzinger”, 30 giugno 2011. 41 Cfr. Fides et ratio, Proemio. 42 BENEDETTO XVI, Discorso durante l’incontro con il mondo accademico, Salone di Vladislav del Castello di Praga, 27 settembre 2009. 43 BENEDETTO XVI, Discorso durante l’incontro con le autorità civili nella Westminster Hall - City of Westminster, 17 settembre 2010. 44 BENEDETTO XVI, Spe Salvi, n. 23.


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tica scienza non vi può essere alcun conflitto perché ambedue, anche se per vie diverse, tendono alla verità.45 La fede suppone la ragione e la perfeziona, e la ragione, illuminata dalla fede, trova la forza per elevarsi alla conoscenza di Dio e delle realtà spirituali. Il dialogo deve avvenire nella distinzione delle caratteristiche specifiche della scienza e della fede. Infatti, ognuna ha propri metodi, ambiti, oggetti di ricerca, finalità e limiti, e deve rispettare e riconoscere all’altra la sua legittima possibilità di esercizio autonomo secondo i propri principi;46 entrambe sono chiamate a servire l’uomo e l’umanità, favorendo lo sviluppo e la crescita integrale di ciascuno e di tutti.47 Papa Benedetto ricorda il suo incontro, a Monaco, con Jürgen Habermas, prima di essere eletto Pontefice, durante il quale il filosofo, a significare l’urgenza, nel mondo, del dialogo tra fede e ragione, gli disse che occorrerebbero pensatori capaci di tradurre le convinzioni della fede cristiana nel linguaggio del mondo secolarizzato per renderle così efficaci in modo nuovo. Un compito particolarmente urgente della religione è di rendere manifesto il vasto potenziale della ragione umana, che è essa stessa un dono di Dio ed è elevata mediante la rivelazione e la fede. In realtà, fede e ragione si sostengono a vicenda, dal momento che la religione è purificata e strutturata dalla ragione e il pieno potenziale della ragione viene liberato mediante la rivelazione e la fede.48 La fede è chiamata, come nei secoli passati, ad offrire il suo insostituibile servizio alla conoscenza, che, nella società contemporanea, è il vero motore dello sviluppo.49 Scienza e fede hanno una reciprocità feconda, quasi una complementare esigenza dell’intelligenza del reale. Ma, paradossalmente, proprio la cultura positivista, escludendo la domanda su Dio dal dibattito scientifico, determina il declino del pensiero e l’indebolimento della capacità di comprensione della realtà. Ma la ricerca di Dio da parte dell’uomo si perderebbe in un groviglio di strade se non gli venisse incontro una via di illuminazione e di sicuro orientamento, che è quella di Dio stesso che si fa vicino all’uomo con

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BENEDETTO XVI, Lettera Apostolica in forma di Motu proprio “Porta Fidei”, 11 ottobre 2011, n. 12. Cfr. CONCILIO VATICANO II, Gaudium et spes, 36. 47 BENEDETTO XVI, Discorso all’Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per la Cultura, 8 marzo 2008. 46

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BENEDETTO XVI, Incontro con i rappresentanti della Comunità musulmana del Camerun, 19 marzo 2009. 49 BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al primo incontro europeo degli studenti universitari, promosso dalla Commissione Catechesi-Scuola-Università del Consiglio delle Conferenze Episcopali europee (CCEF), 11 luglio 2009.


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immenso amore: “In Gesù Cristo Dio non solo parla all’uomo, ma lo cerca.... È una ricerca che nasce nell’intimo di Dio e ha il suo punto culminante nell’incarnazione del Verbo”.50 La fede in quel Dio che è in persona la Ragione creatrice dell’universo deve essere accolta dalla scienza in modo nuovo come sfida e chance. Reciprocamente, questa fede deve riconoscere nuovamente la sua intrinseca vastità e la sua propria ragionevolezza. La ragione ha bisogno del Logos che sta all’inizio ed è la nostra luce; la fede, per parte sua, ha bisogno del colloquio con la ragione moderna, per rendersi conto della propria grandezza e corrispondere alle proprie responsabilità. Si tratta non di una questione accademica, ma del futuro degli uomini.51 5.1. Il problema della verità: incontro della ragione con la fede Per Benedetto XVI, la lezione di sant’Agostino è sempre attuale: “A che cosa perviene - si domanda il santo Vescovo di Ippona - chi sa ben usare la ragione, se non alla verità? Non è la verità che perviene a se stessa con il ragionamento, ma è essa che cercano quanti usano la ragione... Confessa di non essere tu ciò che è la verità, poiché essa non cerca se stessa; tu, invece, sei giunto ad essa non già passando da un luogo all’altro, ma cercandola con la disposizione della mente”.52 Come dire: da qualsiasi parte avvenga la ricerca della verità, questa permane come dato che viene offerto e che può essere riconosciuto già presente nella natura. Gli scienziati non creano il mondo; essi cercano di studiarlo, seguendo una costante, una legge, un logos che egli non ha creato, ma che ha, invece, osservato. L’intelligibilità della creazione, infatti, non è frutto dello sforzo dello scienziato, ma condizione a lui offerta per consentirgli di scoprire la verità in essa presente. Il ragionamento non crea queste verità ma le scopre. Esse perciò sussistono in sé prima ancora che siano scoperte e una volta scoperte ci rinnovano”.53 La ragione, insomma, deve compiere in pieno il suo percorso, forte della sua autonomia.54 L’esito positivo della scienza del ventunesimo secolo dipenderà sicuramente, in grande misura, dalla capacità dello scienziato di ricercare la veri-

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GIOVANNI PAOLO II, Tertio Millennio Adveniente, 7. BENEDETTO XVI, Discorso alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, 22 dicembre 2006. 52 S. AGOSTINO, De vera religione, 39, 72. 53 S. AGOSTINO, Ibidem, 39, 72. 54 BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al Congresso Internazionale promosso dalla Pontificia Università Lateranense, nel X anniversario dell’Enciclica “Fides ed ratio”, 16 ottobre 2008. 51


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tà e di applicare le scoperte in un modo che va di pari passo con la ricerca di ciò che è giusto e buono.55 La verità è il luogo dell’incontro della ragione con la fede: insieme al bisogno di amare, il desiderio della verità appartiene alla natura stessa dell’uomo. Ponendo la domanda intorno alla verità allarghiamo, infatti, l’orizzonte della nostra razionalità, liberandola da limiti angusti entro i quali essa viene confinata quando si considera razionale soltanto ciò che può essere oggetto di esperimento e di calcolo. E proprio qui avviene l’incontro della ragione con la fede: nella fede accogliamo, infatti, il dono che Dio fa di se stesso rivelandosi a noi, creature fatte a sua immagine; accogliamo e accettiamo quella Verità che la nostra mente non può comprendere fino in fondo e non può possedere, ma che proprio per questo dilata l’orizzonte della nostra conoscenza e ci permette di giungere al Mistero in cui siamo immersi e di ritrovare in Dio il senso definitivo della nostra esistenza.56 5.2. Dal fenomeno al fondamento: sintesi umanistica della conoscenza Di fronte ai prodigiosi progressi nella conoscenza dell’uomo e del suo universo, la tentazione del ricercatore è quella di voler circoscrivere completamente l’identità dell’essere umano nella conoscenza empirica. Per non intraprendere questa via, a giudizio di Benedetto XVI, è importante dare voce alla ricerca antropologica, filosofica e teologica, che permette di far apparire e mantenere nell’uomo il suo mistero, poiché nessuna scienza può dire chi è l’uomo, da dove viene e dove va. La scienza dell’uomo diviene, dunque, la più necessaria di tutte le scienze. È il concetto espresso da Giovanni Paolo II nell’Enciclica Fides et ratio: “Una grande sfida che ci aspetta al termine di questo millennio è quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento. Non è possibile fermarsi alla sola esperienza; anche quando questa esprime e rende manifesta l’interiorità dell’uomo e la sua spiritualità, è necessario che la riflessione speculativa raggiunga la sostanza spirituale e il fondamento che la sorregge” (n. 83).57

55

BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti alla plenaria della Pontificia Accademia delle scienze, 28 ottobre 2010. 56 BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al Convegno ecclesiale della Diocesi di Roma, 5 giugno 2006. 57 BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al convegno inter-accademico “l’identità mutevole dell’individuo” promosso dalla “Académie des sciences” di Parigi e dalla Pontificia Accademia delle Scienze, 28 gennaio 2008.


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La cosmologia moderna ci ha mostrato che né noi né la terra su cui viviamo siamo il centro del nostro universo, composto da miliardi di galassie, ognuna delle quali con miriadi di stelle e pianeti. La conoscenza non si può certamente ridurre a calcoli e ad esperimenti, ma deve essere compresa e perseguita in tutta la sua ampiezza liberatrice, aspirando a divenire sapienza, capace di orientare l’uomo alla luce dei suoi primi inizi e della sua conclusione finale, impegnandosi nella ricerca della verità ultima che, pur essendo sempre al di là della nostra completa portata, è, nondimeno, la chiave della nostra felicità e della nostra libertà autentiche (cfr Gv 8, 32), la misura della nostra vera umanità e il criterio per un rapporto giusto con il mondo fisico e con la più grande famiglia umana. D’altro canto, la nostra epoca, al centro di scoperte scientifiche forse ancor più grandi e di più vasta portata, trarrebbe solo beneficio dal desiderio di ottenere una sintesi veramente umanistica della conoscenza che ha ispirato i padri della scienza moderna.58 La fede, da parte sua, non teme il progresso della scienza e delle sue conquiste, quando queste sono finalizzate all’uomo, al suo benessere e al progresso di tutta l’umanità. Come ricordava l’ignoto autore della Lettera a Diogneto: “Non l’albero della scienza uccide, ma la disobbedienza. Non si ha vita senza scienza, né scienza sicura senza vita vera”.59 La scienza, d’altronde, non è in grado di elaborare principi etici; essa può solo accoglierli in sé e riconoscerli come necessari. La filosofia e la teologia diventano, in questo contesto, degli aiuti indispensabili con cui occorre confrontarsi per evitare che la scienza proceda da sola in un sentiero tortuoso, colmo di imprevisti e non privo di rischi.60 Una religione genuina sta alla base di ogni autentica cultura umana. Essa rifiuta tutte le forme di violenza e di totalitarismo: non solo per principi di fede, ma anche in base alla retta ragione.61 Ovviamente la religione, come la scienza e la tecnologia, come la filosofia ed ogni espressione della nostra ricerca della verità, possono corrompersi. La religione viene sfigurata quando viene costretta a servire l’ignoranza e il pregiudizio, il disprezzo, la violenza e l’abuso.62

58

BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al colloquio patrocinato dalla specola vaticana in occasione dell’Anno internazionale dell’astronomia, 30 ottobre 2009. 59 XII, 2.4. 60 BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al Congresso Internazionale promosso dalla Pontificia Università Lateranense, nel X anniversario dell’Enciclica “Fides ed ratio”, 16 ottobre 2008. 61 BENEDETTO XVI, Incontro con i rappresentanti della Comunità musulmana del Camerun, 19 marzo 2009. 62 BENEDETTO XVI, Discorso alla benedizione della prima pietra dell’Università di Madaba del Patriarcato Latino, 9 maggio 2009.


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EDITORIALE

Donato Petti

C’è bisogno del ripristino di una ragione integrale che faccia rinascere il pensiero e l’etica. Senza un pensiero morale che superi l’impostazione delle etiche secolari, come quelle neoutilitaristiche e neocontrattualiste, che si fondano su un sostanziale scetticismo e su una visione prevalentemente immanentista della storia, diviene arduo per l’uomo d’oggi accedere alla conoscenza del vero bene umano. Per questo, occorre sviluppare sintesi culturali umanistiche aperte alla Trascendenza. Infatti, senza la conoscenza del bene integrale dell’uomo, la carità scivola nel sentimentalismo, la giustizia perde la sua «misura» fondamentale, il principio della destinazione universale dei beni viene delegittimato. È quanto è dato di registrare con evidenza nella società contemporanea, segnata dai vari squilibri globali, nella quale vengono alimentate disparità, differenze di ricchezza, ineguaglianze, che creano problemi di giustizia e di equa distribuzione delle risorse e delle opportunità, specie nei confronti dei più poveri.63 5.3. Il “Cortile dei gentili” Benedetto XVI per favorire il dialogo tra credenti e non credenti ha promosso l’iniziativa del “Cortile dei gentili”, immagine che richiama quello spazio aperto sulla vasta spianata vicino al Tempio di Gerusalemme, che permetteva a tutti coloro che non condividevano la fede di Israele di avvicinarsi al Tempio e di interrogarsi sulla religione. E se, all’epoca, il Cortile era allo stesso tempo un luogo di esclusione, poiché i “Gentili” non avevano il diritto di entrare nello spazio sacro, Papa Ratzinger ha dato nuovo impulso all’incontro rispettoso ed amichevole tra persone di convinzioni diverse, che desiderano un mondo nuovo e più libero, più giusto e più solidale, più pacifico e più felice, per trovare, nel profondo delle coscienze, in una riflessione solida e ragionata, le vie di un dialogo precursore e profondo. Le religioni non possono aver paura di una laicità aperta che permette a ciascuno di vivere ciò che crede, secondo la propria coscienza. Se si tratta di costruire un mondo di libertà, di uguaglianza e di fraternità, credenti e non credenti devono sentirsi liberi di essere tali, eguali nei loro diritti a vivere la propria vita personale e comunitaria restando fedeli alla proprie convinzioni,64 abbattendo le barriere dell’ignoranza reciproca, dello scetticismo o dell’indifferenza.65 Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o

63

BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti all’incontro promosso dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace nel 50° anniversario dell’Enciclica “Mater et Magistra”, 16 maggio 2011. 64 BENEDETTO XVI, Video-Messaggio nella serata conclusiva del “Cortile dei Gentili”, iniziativa promossa dal Pontificio Consiglio della Cultura a Parigi, 25 marzo 2011. 65 BENEDETTO XVI, Ibidem.


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anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha, invece, mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità.66 Il passo fatto dal Concilio verso l’età moderna, che in modo assai impreciso è stato presentato come “apertura verso il mondo”, appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto tra fede e ragione, che si ripresenta in forme sempre nuove. San Pietro, nella sua prima lettera, aveva esortato i cristiani ad essere sempre pronti a dar risposta (apo-logia) a chiunque avesse loro chiesto il logos, la ragione della loro fede (Cfr. 3,15). Questo significava che la fede biblica doveva entrare in discussione e in relazione con la cultura greca ed imparare a riconoscere mediante l’interpretazione la linea di distinzione, ma anche il contatto e l’affinità tra loro nell’unica ragione donata da Dio.67

66

Cfr. CONCILIO VATICANOII, Lumen gentium, 8. BENEDETTO XVI, Discorso alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, 22 dicembre 2005.

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Rivista Lasalliana 81 (2014) 4, 461-467

LA FEDE SERENA: S. PAOLINO DA NOLA FRANCESCO TRISOGLIO Professore emerito di Storia e Letteratura Patristica (Università di Torino)

SOMMARIO: 1. S. Paolino, chi era? - 2. La personalità di Paolino attraverso ai Carmi. 3. Dinanzi a Dio. - 4. Dinanzi a Cristo. - 5. Dinanzi a Felice. - 6. Dinanzi ai santi. - 7. Dinanzi ad Ausonio. - 8. Il clima spirituale di Paolino.

1. S. Paolino, chi era?

È

un’anima fine, un ingegno brillante, un vero signore nello spirito e nel ceto sociale, appartenente all’aristocrazia senatoriale romana, proprietario di vasti poderi in Campania, Spagna ed Acquitania. Nacque a Burdigala (Bordeaux) tra il 353 ed il 355, dove era celebre come retore e poeta Ausonio, il quale fu precettore alla corte di Valentiniano I e di Graziano (365367). Paolino ne frequentò le lezioni, stringendo con lui un’amicizia fatta di devozione affettuosa. Nel 381 Paolino era governatore in Campania, dove rimase profondamente impressionato dai miracoli che S. Felice compiva.1 Tornò poi in patria attorno al 383-384 e attorno al 385 andò in Spagna, dove sposò Terasia, dalla quale ebbe il figlio Celso, che morì a 8 anni. Questo evento e la morte violenta del fratello nel 390 lo convinsero a consacrarsi alla pratica dell’ascetismo, alla quale si sentì chiamata anche Terasia. Nel 394 fu ordinato prete a Barcellona; nel 395 a Nola si dedicò effettivamente, insieme a Terasia, alla vita monastica, vendendo i suoi beni in favore dei poveri. Tra il 404 e il 415 divenne vescovo di Nola, dove morì probabilmente il 22 giugno 431.2 Di lui abbiamo 51 Epistole, che vanno dal 395 al 426, e 31 Carmi.3 1

S. Felice nacque a Nola, dove fu nominato lettore e poi presbitero; rifiutò l’episcopato e si mantenne coltivando un piccolo lembo di terra; le circostanze però lo indussero, successivamente, ad accettare l’episcopato della città. Fu vittima di una persecuzione che non riusciamo ad identificare, ma in essa non perse la vita. Morì in data imprecisa e fu sepolto a Nola, dove la sua tomba divenne presto un santuario veneratissimo. La sua festa cadeva il 14 gennaio. 2 Su S. Paolino da Nola cfr. S. PRETE in Bibliotheca Sanctorum, vol. X, 1968, coll. 156-162 e M. SKEB in Dizionario di Letteratura cristiana antica di S. DÖPP e W. GEERLINGS, ediz. italiana a cura di C. Noce, Urbanian Universiy Press - Città Nuova, Roma 2006 pp. 666-669. 3 L’edizione critica dei Carmi fu curata da W. HARTEL nel Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum di TEMPSKY, Vienna 1894.


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2. La personalità di Paolino attraverso ai Carmi Della sua figura psicologica, intellettuale, artistica e morale possediamo una ricca documentazione nei suoi 8.495 versi, i quali ci aprono un panorama in immediata sincerità di testimonianza. Paolino ci appare un temperamento equilibratissimo, intimamente aperto al buono, al bello, al nobile; sente in profondità ma senza inquietudini; pensa in esattezza ma senza turbarsi in questioni astratte; sta nei limiti che l’intelligenza può naturalmente raggiungere; non ha l’ansia di inoltrarsi in aree irte di problematiche che poi finiscono col tendere ad esiti irraggiungibili e quindi di sterile perseguimento. Sta al quia, ma lo vuole chiaro e preciso. Così con gli uomini e così con Dio. Dinanzi alla verità si pone in una semplicità d’animo che implica finezza di gusto; la mente è sveglia in naturalezza di movimenti ed in florida agevolezza di espressione; è distinto ed elegante senza cercare la raffinatezza, la quale gli sorge nativa. 3. Dinanzi a Dio Paolino gli si rivolge in fidente tranquillità di domanda e gli chiede «di poter trascorrere giorni senza tristezza; che nessuna notte ne interrompa una placida quiete, nessuna passione sregolata ne agiti lo spirito, al riparo da qualsiasi ostilità di nemici» (Carm. 4,1-7). Non chiede sublimità nell’ambito della trascendenza, chiede serena tranquillità in questa vita; persegue l’onesta pratica della virtù e della spiritualità in un quadro di pace psicologica. Nel carme 5 eleva a Dio un inno nell’immediatezza della visione naturale; la teologia sta sullo sfondo della teodicea; è una preghiera nella quale la sincerità emerge nella naturalezza del rapporto; è una supplica in una contemplazione e questa contemplazione della natura divina è tranquilla e fiduciosa. Dinanzi all’infinita trascendenza di Dio si pone in un atteggiamento equilibratissimo: «Abbiate timore di Dio per la sua giustizia e gioite per la sua benignità» (8,25). Di Dio ammira la generosa magnanimità; infatti egli equipara a quelli che hanno subito il martirio quelli che erano pronti a subirlo: «A lui piace un martirio senza uccisione se la mente è disponibile a sopportarlo e se lo spirito e la fede fervono di amore per lui» (14,7-11). Uno dei più frequenti motivi di scandalo è sempre stato l’emergere della sventura e della sofferenza nel mondo; Paolino non imbastisce una densa orazione come aveva fatto S. Basilio per dimostrare che Dio non è l’autore dei mali che capitano; inquadra piuttosto il problema guardando dall’alto: «Dio varia le vicende umane in modo che sempre le nubi si succedano al cielo sereno e di nuovo le nubi fuggano al ritornare del sereno» (26,89-91); Paolino non specula sulla natura di Dio e sui criteri con i quali egli conduce


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il mondo; rileva soltanto che in questa conduzione si manifesta un equilibrio tanto sicuro quanto calmo; ne traspaiono insieme potenza di signoria e sapienza di guida. A tema della poesia propone di tralasciare i vani miti pagani e le guerre profane ma di cantare i miracoli di Dio: «Amando Dio si viene riamati da Cristo» (22,29-32).

4. Dinanzi a Cristo Per Paolino, come persona e come poeta, Cristo è tutto, «è la sua sola arte, la sua sola fede, la sua sola musica» (20,32). È grato a Felice che lo ha indotto a rinunciare al suo patrimonio in favore di Cristo, facendo di Cristo il suo patrimonio personale» (21,444-445). Cristo è sollecito Salvatore; in un naufragio in cui Martiniano era destinato a perire, Cristo intervenne sottraendolo alla morte come prendendolo per mano (24,181-190). E ribadisce che Cristo non è Salvatore soltanto nelle dimensioni eterne ma che lo è anche nella cronaca terrena, infatti dinanzi ad un incendio che poteva assumere un’estensione disastrosa «la mano di Cristo e la forza della croce bloccarono le fiamme; tale è la potenza della croce» (28,126-130) e, compiacendosi di una misteriosa antinomia che è insita nelle cose, sottolinea che, a spegnere il fuoco non servì a nulla ‘l’acqua’, che i soccorritori si affannavano a versare, ma agì il ‘legno’ della croce (vv.135-136): Cristo sta su un piano ben più alto della materia. Le belle realizzazioni delle opere umane avvengono «per le preghiere dei santi e per il soccorso di Cristo» (28,269). A sigillo della sua silloge poetica Paolino pone un’invocazione accorata: «O Gesù Salvatore, spezza la pietra del mio cuore, perché nella mia intimità, ormai resa soffice, scorra la sacra fonte; ti prego, o Cristo, tu che sei la fonte, nasci all’interno della mia persona affinché mi scaturisca viva la corrente della tua acqua; infatti tu sei la fonte da cui defluisce la vita, da cui emana la grazia, da cui si riversa la luce sui popoli più diversi» (31,425-430) e continua in un inno fervido di una rasserenante fiducia (431-450).

5. Dinanzi a Felice Felice è il centro focale dei suoi versi; da lui partono ed a lui arrivano, citato o sottinteso. Felice gli dà un motivo di vita come uomo, gli scandisce le composizioni come poeta e gli è guida come cristiano. È la sua Musa. I carmi a lui diretti costtuiscono l’amplissimo nucleo, al quale, in qualche modo, gli altri si connettono. Felice è un santo presente; dimora nell’eterno ma opera nel tempo; non è un santo da venerare, è un santo da invocare, perché è un santo che risponde, anche per rimediare alle disavventure che appartengono alla cronaca più banale.


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In 18,211-447 si tratta del furto di una coppia di buoi. Paolino ci presenta lo smarrimento angosciato di un modesto coltivatore, al quale è stata sottratta l’unica risorsa per un lavoro che, solo, gli permetteva di vivere. Il racconto è lento; Paolino, quasi più che del prodigio, si compiace di raccontarlo; in un clima di tenerezza emergono del pittoresco e del patetico. La supplica che il defraudato rivolge a Felice (254-312) è animata di un fervore appassionato; non è un lamento languido, vi spira una franchezza di deplorazione; ci sono accenni che sanno di originalità, fuori dagli schemi che sono ipotizzabili per casi analoghi; il supplicante è un temperamento energico, intima categorico: «Dunque rendimi i buoi e acciuffa il ladro» (298); con Felice sancisce un patto (306) e incalza: «Affrettati a tirarmi fuori dall’affanno» (308). Nella sua angoscia arriva al ricatto: «Non mi strapperò dalla tua porta, morirò qui, se non riceverò subito lo strumento con cui vivo» (321-323). E su tanto affanno si era già acceso il sorriso di Felice che implicava esaudimento (315-316). Paolino ha abbozzato un dramma, tanto più genuino quanto più alieno da pose oratorie; c’è naturalezza di sentimento e di toni espressivi. Il prodigio dei buoi che rientrano da soli nella stalla di loro iniziativa è ricco di particolari evocativi felicemente disegnati. Al loro rientro risoluto Paolino traccia con perizia la cornice: era il momento del primo albeggiare, quando progressivamente si vanno rarefacendo gli astri all’avanzarsi dei primi chiarori (405-409). A tanta sfumata delicatezza di tinte fanno da drammatico contrasto le brutali cornate con le quali i bovini sfondarono la porta della stalla per entrare (389-390). Il ricupero era stato davvero integrale. Al miracolo, in se stesso poco spettacolare, Paolino conferisce il rilievo di un’aura di simpatia. Ma con Felice il miracolo non è un episodio, diventa regola; si susseguono: infatti egli interviene prodigiosamente ancora a proposito di animali (20,312-387) e ancora su animali ripete il suo intervento (20,388-444); guarisce un indemoniato che si abbrutiva nelle azioni più ripugnanti (26, 307353); spegne un incendio che minacciava di dilagare per tutto il vicinato (26,395-412) e provvede ancora in un caso identico (28,75-166); sventa un furto sacrilego e fa catturare il ladro (19, 378- 603); risana un ragazzo che si era ferito ad un occhio (23,148-264); ottiene la pioggia durante una siccità persistente (16,192-214) e rinnova ancora il suo favore in un analogo frangente (21,653-678). Questi sono prodigi operati in altri, tangibilmente controllabili, ma Paolino ne avverte un altro, impercettibile ma reale, compiuto in se stesso, egli infatti si senti da lui personalmente diretto; da lui fu avviato alla vita ascetica e fu un cambiamento che ne investì tutta l’esistenza (21,344-411): «Il solo Felice era colui che mi allontanava le avversità e mi forniva le prosperità; tu, o Felice, perché io non fossi infelice, mi sei sempre stato custode e padre affettuoso» (412-415).


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A Felice Paolino si rivolge in molteplicità di circostanze e di toni. Lo celebra con una divozione viva ma non tesa; il santo non è allontanato in una sublimità irraggiungibile; è avvicinato nella supplica: gli chiede felicità nella navigazione verso Cristo e di riposare nel porto nel quale si trova ora lo stesso Felice (39 esametri nel carme 12) e sono accenti che si rinnovano in 13,3136. Di Felice Paolino celebra il coraggio nella persecuzione: nulla di forzato, piuttosto, con un sorriso ironico, ne ammira l’abilità con egli riuscì a depistare il persecutore che lo cercava (16,63-128): è una storia che attrae come una bella leggenda. Paolino esprime il voto di non avere nulla di proprio nella sua vita ma che tutto gli pervenga da Felice (20,12); lo riconosce patrono della pace (21,6); dichiara che Felice è per lui «un rcco motivo di parlare in modestia di ritmi» (29,2-3) e chiede a Cristo di poter variare ogni anno i suoi carmi in onore di Felice con un originale cambiamento di toni (23,37-41). Al tornare di ogni anniversario Paolino ne celebra la festa: vi vede un tripudio anche della natura, che fa da ambiente all’accorrere dei devoti da tutte le regioni; è tutta la carta geografica che attua una manifestazione entusiasta (14,44-48). Nella natura inserisce anche se stesso: «La primavera apre le voci agli uccelli e la mia lingua ha la sua primavera nel giorno natale di Felice» (23,1-2). Quasi come riflesso del merito di Felice, Paolino stende una minuta descrizione del tempio che gli è stato dedicato (27,360-541) e sulla sua bellezza ritorna in 28,4-59. Sintetizza: «Felice nella sua munificenza mette in atto i doni di Cristo» (29,34): è un ristabilire le proporzioni: Felice è eccellente, ma lo è pur sempre in quanto proiezione di Cristo.

6. Dinanzi ai santi Paolino compone anche un encomio di Giovanni Battista in 330 esametri (carme 6); gli esprime la propria devozione in genuinità di tono; non è quindi né arido né artificioso; con i suoi versi si propone «di allettare e di distendere la mente dei lettori» (vv. 18-19). La presentazione del santo si svolge in una chiarezza, nella quale è la realtà stessa che diventa celebrazione; non c’è ombra di quella enfatizzazione artificiosa che spesso nei panegirici dei santi, e soprattutto dei martiri, per esaltare il merito toglieva credibilità alla persona del protagonista rendendolo irreale; lo trasformavano da eroe ad esaltato. Paolino lo vede nella realtà della sua figura e nell’autenticità della sua eccellenza; ne racconta la storia avvolgendola in una misteriosa predestinazione.

7. Dinanzi ad Ausonio Paolino gli si rivolge in un polimetro, nel quale si succedono distici elegiaci (10,1-18), senari giambici intrecciati con quaternari giambici (19-102),


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esametri dattilici (103-331): era il biglietto da visita che insieme rendeva omaggio alla valentia del maestro e testimoniava il profitto che il discepolo aveva tratto dalle sue lezioni. Paolino si lamenta che da quattro anni Ausonio non gli abbia più scritto e cerca di dissipare quella che gli appare come una delle divergenze che sogliono capitare nelle relazioni umane; il tono è cordialmente conciliante. Spiega ad Ausonio che non può tornare alla poesia paganeggiante nella quale, in passato, era sceso in gara con lui, in quanto erano argomenti che non contribuivano in nulla alla salvezza e alla verità (vv. 12-42). «Perdonami, in cordialità, se faccio quello che si deve; rallegrati con me, se vivo come mi piace» (101-102): compenetra, in signorile disinvoltura, il rispetto verso di lui e quello verso di sé; agisce in una dignità che compone ossequio e autonomia; scorge che la fine eleganza della fantasia poetica si dissolve nell’inconsistente se non si fa tramite dei valori effettivi e definitivi. «Finché il tempo glielo permette, si propone di vivere con un premuroso impegno secondo il precetto di Cristo Signore» (293-294); era un ammonimento ed era una distinzione dalla vaga velatura di cristianesimo alla quale si era ristretto Ausonio. Paolino con la sua scelta si prefiggeva «di aspettare con cuore tranquillo la morte nella sua cupa crudeltà» (329) e concludeva con una risolutezza che contiene una sfida, sia pure pacata: «Se questo ti piace, congratulati che il tuo amico possegga una così ricca speranza; se sei di parere contrario, lascia che ad approvarmi sia solo Cristo» (330-331). È la sua apologia, franchezza permeata di garbo. Riapre poi di nuovo la conversazione con Ausonio (carme 11) rivolgendoglisi in 48 esametri dattilici seguiti da distici giambici (49-68). Gli scrive perché Ausonio lo aveva accusato di aver interrotto i rapporti e trascurato l’amicizia (2-5); protesta di avere sempre avuto per lui una deferenza affettuosa (8-9); è una rassicurazione di devozione e di stima. Paolino ha il culto dei rapporti sociali; anche in indipendenza dal precetto biblico dell’amore del prossimo; gli scaturisce dall’anima la benevolenza verso gli altri, che si traduce in una dignitosa cortesia di rapporti.

8. Il clima spirituale di Paolino È quello della purezza dell’anima in una pace tranquilla; in lui si distende un fervore tanto genuino quanto pacato per il bene; la sua è una santità senza asperità. Non persegue ardue aspirazioni; il dogma è sentito presente, non è il caso di travagliarsi andandolo a cercare. Passeggia volentieri attraverso la Bibbia, dalla quale trae una rassicurazione che gli conferisce una pace corroborante. La trascendenza non gli opprime l’immanenza, gliela motiva e gliela arricchisce. In lui domina un sereno equilibrio che perdura senza essere superficiale. «Voi, fedeli, esultate nella gioia, mentre pure siete


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inquieti, perché ad essa si mescola il timore; abbiate una discordia concorde, unendo in cuore sentimenti diversi; il timore non angosci le menti né la gioia le rilassi» (8,19-22). Appare un’adesione alla concretezza della vita in una saggia pacatezza di osservazione: né pessimismo né ottimismo. La sua è una meditazione nella quale talora affiorano sentenze, che non sono però precetti impositivi, sono piuttosto conclusioni personali. Dopo un’esperta descrizione di una croce istoriata in complessità di forme (19,604-694) eleva un inno alla croce con un fervore che si conclude col voto: «Che la mia nave possa procedere agganciata alla croce, raggiungendo, grazie alla fede ed alla croce, la corona» (vv. 729-730). È un auspicio in distesa sicurezza. E accanto alla croce sta Felice: «O Felice, te ne prego, il tuo amore mi tenga sempre stretto a te con la sua catena» (20,283-284). È una devozione serena, come sereno è il rimpianto per Celso, il suo bimbo morto nel suo primo fiorire: «Il suo amore mi spinge a piangere e il suo amore mi invita a gioire» (31,9): c’è rammarico, ma non sorpresa né dispetto; Cristo lo chiamò perché era degno della vita celeste; ora è diventato intercessore in favore del padre presso Dio (596); nell’affetto intenso per il figlio penetra la serenità di una fede assoluta. Paolino è un’anima nobile che riflette in se stessa e con se stessa dialoga in distinta dignità di colloquio; parla con un’eleganza semplice e spontanea; è fluido ma sempre nel comunicare una confidenza o un messaggio; non ci sono nè il vuoto né lo sciatto della chiacchera; parla in agevole dominio del ritmo della frase ed in ricca disponibilità lessicale; è piacevole nella sua candida grazia; sullo sfondo del suo discorso emerge non di rado una lieve sfumatura di pittoresco. In uno dei ricorrenti anniversari chiede a Felice che gli conceda di celebrare sempre questa festa «come un giorno sereno di pace e di gioia nella luce di Cristo» (14,116-119).


LA SALLE BIOGRAFIE DI GIOVANNI BATTISTA DE LA SALLE FRÈRE BERNARD Vita di Giovanni Battista de La Salle trad. it. e presentazione di Bruno Bordone, Vercelli 2007, pp. 153 L’autore ha vissuto in comunità con il La Salle ed ha attinto dalla viva voce dei primi Fratelli le testimonianze che trasmette. Più che biografo è un testimone che offre con limpidità il La Salle nella sua veste di fondatore di una comunità di uomini affascinati da un giovane prete e votati a tenere insieme e in associazione le scuole gratuite.

FRANÇOIS-ELIE MAILLEFER Vita di Giovanni Battista de La Salle trad. it. e presentazione di Bruno Bordone, Vercelli 2007, pp. 301 Nipote del La Salle, l’autore scrisse su incarico della famiglia La Salle. Suo scopo è delineare il volto dello zio in tutta la sua autenticità attingendo a fonti sicure e trattandole con competenza. Con esemplare incisività presenta il giovane Jean-Baptiste alla ricerca della sua vocazione, teso a realizzare il piano di Dio tra l’affetto dei suoi figli spirituali e le resistenze di quanti non capivano il valore profetico delle sue scelte.

ELIO D’AURORA Monsieur de La Salle – una fedeltà che vive Editrice A&C, Torino 1984, pp. 275 La vita del La Salle si svolge nell’irriducibile realismo di una società dibattuta da crisi di coscienza, statolatria, ambizioni del potere, sete di ricchezze, necessità di rigenerarsi. La Salle non colloca la sua pedagogia nelle belle lettere, ma nelle arti e nei mestieri, presagendo il travaglio di un rivolgimento politico e sociale che l’Europa stava covando. Nella Francia del Re Sole, tra guerre miserie e pestilenze, ad onta dello splendore del Grand Siècle, La Salle rovesciò le concezioni pedagogiche di una società che nutriva solo disprezzo o falsa pietà per i ceti popolari. D’Aurora mette tutto questo in risalto con una brillante e documentata biografia.

MICHEL FIÉVET Giovanni Battista de La Salle maestro di educatori trad. it. di Serafino Barbaglia, Città nuova, Roma 1997, pp. 190 L’autore è un professore, sposato, che ha collaborato a lungo con i Fratelli scoprendo poco a poco il loro Fondatore. Affascinato dalla personalità del La Salle ne ha approfondito il profilo come santo e come pedagogista, tanto da riuscire a svelare agli stessi Fratelli aspetti inesplorati della fisionomia del loro Padre e Fondatore. •••

Per informazioni e ordinazioni: Viale del Vignola, 56 - 00196 Roma tel. 06.322.94.503 - E-mail: gabriele.pomatto@gmail.com tel. 06.322.94.235 - E-mail: fedoardo@pcn.net


Rivista Lasalliana 81 (2014) 4, 469-476

“IO CREDO IN DIO PADRE…”: LA PROSPETTIVA RELAZIONALE TRINITARIA, FONDAMENTO DELLA PREGHIERA CRISTIANA  ENRICO DAL COVOLO Rettore Magnifico della Pontificia Università Lateranense

SOMMARIO: 1. Viaggio di andata al primo articolo della nostra fede. - 2. Viaggio di ritorno, per la preghiera e per la conversione della vita. - 3. Conclusione.

R

itengo indispensabili due brevi premesse per inquadrare questo breve contributo. Anzitutto, non vorrei configurare il mio studio nei termini di un’erudita conferenza teologica – pure legittima, ma che qui non ho l’intenzione di proporre –. La via che scelgo è ben precisa: è l’itinerario suggerito dalla lectio divina. Anche se non svolgeremo una lectio divina (come tutti sanno, la lectio divina si esercita esclusivamente sulla sacra pagina delle Scritture), tuttavia ne adotteremo il metodo.1 Scandiremo dunque la nostra riflessione in due momenti: il viaggio di andata e il viaggio di ritorno. La domanda che guida il viaggio di andata è la seguente: “Che cosa ci dice il primo articolo della nostra fede?”. La domanda che guida il viaggio di ritorno è invece questa: “Come rispondo io, con la mia preghiera, e soprattutto con la conversione della vita, al medesimo articolo di fede?”. In questo modo non ci limiteremo alla teoria (per quanto si tratti di una sublime teoria!), ma giungeremo alla prassi, cioè alla conversione della nostra vita nella carità. C’è un’altra premessa da fare, assolutamente ineludibile. La prima parola di riferimento, che qui propongo, è la seguente: “Credo”. Dovrei spiegarla come essa merita. Ma non posso farlo, per ragioni di equilibrio del contributo: essa meriterebbe da sola un intero volume. 1

Cfr. E. DAL COVOLO, La lectio divina nei Padri della Chiesa. Dalla «svolta origeniana» alle Regole monastiche, fino a Guigo II, in G. ZEVINI – M. MARITANO (curr.), La lectio divina nella vita della Chiesa, Studi di Spiritualità della Facoltà di Teologia dell’Università Pontificia Salesiana 15, LAS, Roma 2005, pp. 97-111 [anche in: C. PASTORE – R. VICENT (curr.), Ripartire da Cristo, Parola di Dio. Lectio divina e vita salesiana oggi. Atti del V Convegno Mondiale ABS. Kraków 27.12.2004 - 3.01.2005, Roma 2005, pp. 73-85].


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Mi limito a rammentare che, alla luce del Catechismo della Chiesa Cattolica (nn. 144 ss.), “io credo” rappresenta “l’assenso libero a tutta la verità che Dio ha rivelato” (n. 150): “È la libera risposta dell’uomo all’iniziativa di Dio, che si rivela” (n. 166). “Io credo” è dunque un’esperienza spirituale tutta guidata dalla grazia di Dio, che sempre interpella ogni uomo. Si tratta di un cammino che non sottrae la persona al faticoso discernimento, né alla tentazione, né al dubbio. In ogni caso, la parolina credo “designa l’opzione, ossia la franca ammissione, che l’elemento non suscettibile di essere visto non è affatto l’irreale, ma è anzi l’autentica realtà”.2 Peraltro, come già abbiamo detto, questa opzione (“io credo”) rappresenta la risposta dell’uomo – libera e personale – al dono gratuito di Dio. Così la vocazione alla fede precede la risposta dell’uomo, ed efficacemente l’accompagna.

1. Viaggio di andata al primo articolo della nostra fede Per questo viaggio di andata (che è una sorta di lectio e di meditatio del primo articolo della nostra fede, sempre nella prospettiva relazionale trinitaria, che presiede alla nostra riflessione) le mie fonti sono soprattutto – nell’ordine cronologico di pubblicazione –: * la già citata Introduzione al cristianesimo di Joseph Ratzinger (ed. tedesca 1968, trad. italiana 1969, più e più volte riedita: interessa qui il capitolo quinto della prima parte, intitolato La fede nel Dio uno e trino); * il Catechismo della Chiesa Cattolica (nn. 238-248, La rivelazione di Dio come Trinità); * Giovanni Giorgio (cur.), Dio Padre Creatore, EDB 2002. Io stesso vi ho contribuito con un saggio, Dio Padre e Creatore nella tradizione patristica (pp. 231-250), che ho steso insieme a Mario Maritano. Ciascuna di queste tre opere si riferisce – nell’ordine preciso – ai tre punti che affronteremo nel viaggio di andata e nel viaggio di ritorno. 1.1. Bisogna partire – proprio come ha fatto Ratzinger – dalla constatazione che Dio è sì sostanzialmente Uno, ma pure esiste in lui il fenomeno di un’attività dialogica, di una distinzione, di un rapporto di colloquio. Il nostro Dio non è soltanto Logos, ma anche dia-Logos. Questo introduce nel pensiero cristiano la categoria di relazione. Tale categoria viene così ad assumere un’importanza completamente nuova. Per Aristotele, essa rientrava fra gli “accidenti”, che si distinguono dalla “sostanza”, unica forma portante della real-

2

Così J. RATZINGER, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia 1969, p. 21.


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tà. La rivelazione cristiana scardina tale suddivisione. Ora appare chiaro che, accanto alla sostanza, si trova anche il dialogo, la relatio, intesa come forma ugualmente originale dell’essere. È tutto un modo nuovo di pensare la realtà. Certo, Dio in quanto sostanza, in quanto “essenza”, è assolutamente Uno. Se noi però dobbiamo parlare di lui tirando in campo anche la nozione di Trinità, non può qui trattarsi di una moltiplicazione della sostanza divina, ma si viene invece a dire che, nell’unico e indivisibile Iddio, esiste il fenomeno del dialogo, del vicendevole scambio di parola e di amore. Sant’Agostino ha trasfuso questo pensiero nella seguente formula: “Egli viene chiamato Padre non in relazione a sé, ma solo in relazione al Figlio; considerato in se stesso, egli è semplicemente Dio” (Enarrationes in Psalmos 68). Con questa idea di relazione che si esprime nella parola e nell’amore, ben al di là della distinzione aristotelica tra “sostanza” e “accidente”, il pensiero cristiano ha trovato il nucleo centrale del concetto di “persona”, che dice qualcosa di diverso e di infinitamente più alto della semplice idea di “individuo”. Ascoltiamo ancora sant’Agostino: “In Dio non si danno accidenti, ma solo… sostanza e relazione” (De Trinitate 5,5,6). In questa semplice ammissione, si compie un’autentica rivoluzione del quadro del mondo: la supremazia assoluta del pensiero centrato sulla sostanza è scardinata, in quanto la relazione viene scoperta come categoria co-essenziale della realtà. 1.2. Benché in molte religioni Dio sia invocato come Padre (nell’ambiente greco-romano prevale il nome di Zeus Pater, o Iuppiter), tuttavia Gesù ha rivelato che Dio è “Padre” in un senso inaudito. Non lo è soltanto in quanto Creatore di tutte le cose. Egli è eternamente Padre in relazione al Figlio suo unigenito, il quale, a sua volta, non è Figlio che in relazione al Padre. Incorporati a Cristo in forza del battesimo, tutti i cristiani sono figli nel Figlio. Così, in un modo del tutto nuovo rispetto alle altre religioni – e anche rispetto alla tradizione religiosa antico-testamentaria – essi credono che Dio è Padre. Chiamando Dio con il nome di Padre, il linguaggio della fede mette in luce soprattutto due aspetti: certamente, che Dio è origine primaria di tutto; ma, al tempo stesso, che egli è bontà e sollecitudine d’amore per tutti i suoi figli. Questa tenerezza paterna è espressa nella Bibbia anche con il riferimento alle “viscere materne” del nostro Dio. Il linguaggio della fede (“Io credo in Dio Padre”) si rifà così all’esperienza umana dei genitori che, in certo qual modo, sono per l’uomo i primi rappresentanti di Dio. Conviene ricordare però che Dio trascende la distinzione umana dei sessi. In realtà, egli non è né uomo né donna. Allo stesso modo, egli trascen-


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de la paternità e la maternità umane, pur essendone l’origine e il modello. Nessuno è Padre quanto Dio. 1.3. Da parte loro, i Padri della Chiesa considerano la preghiera del Padre nostro come il compendio di tutto il Vangelo (breviarium totius Evangelii: Tertulliano, La preghiera 1,6). Molti di essi lo commentano dedicandogli un libro apposito.3 Per esempio Cipriano di Cartagine (+ 258) – nel suo trattato su La preghiera del Signore – rileva con acutezza che la preghiera, come la fede, è donata al cristiano con il Padre Nostro. Essa è data al plurale (la categoria di relazione risulta così ampliata), “affinché colui che prega non preghi unicamente per sé. La nostra preghiera è pubblica e comunitaria e, quando noi preghiamo, non preghiamo per uno solo, ma per tutto il popolo, perché con tutto il popolo noi siamo una cosa sola” (La preghiera del Signore 8). Così preghiera personale e liturgica appaiono inestricabilmente legate tra loro. La loro unità proviene dal fatto che esse sono ugualmente risposta alla medesima Parola di Dio. Il cristiano non dice “Padre mio”, ma “Padre nostro”, fin nel segreto della camera chiusa, perché sa che in ogni luogo, in ogni circostanza, egli è membro di uno stesso corpo. “Preghiamo dunque, fratelli amatissimi”, scrive ancora il vescovo di Cartagine nel medesimo trattato, “come Dio, il Maestro, ci ha insegnato. È preghiera confidenziale ed intima pregare Dio con ciò che è suo, far salire alle sue orecchie la preghiera di Cristo. Riconosca il Padre le parole di suo Figlio, quando diciamo una preghiera: colui che abita interiormente nell’animo sia presente anche nella voce, e poiché lo abbiamo come difensore presso il Padre per i nostri peccati, quando, da peccatori, supplichiamo per i nostri peccati, pronunciamo le parole del nostro difensore. Infatti, poiché dice che qualunque cosa chiederemo al Padre nel suo nome, egli ce la concederà, quanto più efficacemente possiamo ottenere quello che chiediamo in nome di Cristo, qualora lo chiediamo con la sua stessa preghiera?” (3-4).

2. Viaggio di ritorno, per la preghiera e per la conversione della vita In questo viaggio di ritorno, dopo la lettura e la meditazione del primo articolo della nostra fede, riprendo e trasferisco nella preghiera e nell’impegno di conversione le tre osservazioni che abbiamo appena svolto.

3 Cfr. E. DAL COVOLO, La preghiera nella tradizione cristiana dei primi secoli dopo il Nuovo Testamento, fino a Gregorio Magno. Tematiche emergenti e figure significative, in L. MESSINESE - C. GÖBEL (curr.), Verità e responsabilità. Studi in onore di Aniceto Molinaro, Studia Anselmiana 142, Pontificio Ateneo S. Anselmo, Roma 2006, pp. 683-699.


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2.1. La persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio, ri-creata nel battesimo come figlia del Padre, è costitutivamente un essere in relazione. Di conseguenza, l’uomo e la donna non potranno mai realizzarsi in pienezza, non potranno mai essere felici, quando cedono alla tentazione originaria, che è quella di avvitarsi su se se stessi, di rinchiudersi nel proprio io. Solo nella relazione filiale – solo nell’ascolto dell’altro – la persona umana raggiunge la piena realizzazione di sé (cioè la santità, la felicità in questo mondo e nell’altro). Si tratta di quel primato dell’ascolto, che la Bibbia e i Padri proclamano costantemente. La grande consegna biblica è: “Ascolta Israele: Shema’, Israel!”. Nel primo libro dei Re ci viene raccontato un episodio interessante. Salomone era ancora molto giovane, poco più di un ragazzo, quando fu consacrato re di Israele. Una notte, il Signore gli apparve in sogno, a Gàbaon, e gli disse: “Chiedimi ciò che vuoi, e io te lo concederò”. E Salomone, raccogliendo l’invito del Signore, formulò la richiesta di quel dono che, all’inizio del suo ministero regale, gli sembrava il più importante di tutti: “Concedi al tuo servo”, così prega il giovane re, “concedi un cuore docile, perché io sappia rendere giustizia al tuo popolo…”. In questa maniera viene tradotta di solito la richiesta di Salomone nelle nostre lingue moderne. Ma una traduzione più fedele al testo originale dovrebbe dire piuttosto: “Dammi, o Signore, un cuore in ascolto…”. Il “cuore docile” è solo una conseguenza. Salomone, in verità, chiese anzitutto a Dio un “cuore in ascolto”, “un cuore ascoltante”. E il Signore mostra di gradire a tal punto la richiesta di Salomone, da concedergli questo dono – un cuore in ascolto – e tanti altri doni in più. Da parte sua, san Benedetto abate, raccogliendo la tradizione della Bibbia e dei Padri, inizia così il Prologo della sua celeberrima Regola: Obsculta, o fili, praecepta magistri, et inclina (tendi) aurem cordis tui. Notate qui che obsculta è ben più di ausculta. Obsculta allude a un ascolto che passa attraverso il cuore. Al termine degli Esercizi Spirituali in Vaticano, il 27 febbraio 2010, il Papa ha detto una parola importante su questo primato dell’ascolto nella vita dell’uomo e del credente. Ha detto così: “L’uomo non è perfetto in sé. L’uomo ha bisogno della relazione, è un essere in relazione. Ha bisogno dell’ascolto, dell’ascolto dell’altro… Solo così conosce se stesso, solo così diviene veramente se stesso”. Nella stessa occasione il Papa ha ricordato anche una curiosa interpretazione di alcuni Padri della Chiesa. Ebbene, alcuni Padri sostengono che Maria concepì il Verbo di Dio, per opera dello Spirito Santo, attraverso


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l’orecchio: nell’ascolto fedele della Parola, l’umile ancella divenne la Madre di Dio.4 Così è nel docile ascolto che nasce il Figlio; è nel docile ascolto del Padre che nascono i figli di Dio! È per questo che nella vita di fede – e in particolare nella preghiera – bisogna riconoscere il primato dell’ascolto. San Benedetto, fin dall’inizio della sua Regola, ci richiama a questo atteggiamento fondamentale di figli: ci richiama all’ascolto dell’altro, sia questi l’altro con la “a” maiuscola, cioè Dio; oppure siano gli altri, cioè i nostri fratelli e le nostre sorelle. E dunque, obsculta fili, se vuoi essere veramente te stesso!5 A ogni credente rimane l’impegno di declinare questo primato dell’ascolto filiale in termini di conversione di vita. Spesso noi ci dimentichiamo che Dio ci ha dato una sola lingua, e due orecchie: in verità noi parliamo troppo, e ascoltiamo troppo poco… Tutti parlano e nessuno ascolta. Ma soprattutto il primato dell’ascolto ci invita a coltivare la vita interiore. In questa cultura, dove l’esteriorità è continuamente esaltata – tanto che sembra più importante l’apparire dell’essere –, in questa cultura, troppo pochi sono gli apostoli della vita interiore! E ancora: qual è il mio atteggiamento verso la Parola di Dio? La custodisco, come Maria, nel mio cuore? Mi confronto generosamente con essa, per convertire la mia vita? 2.2. Le viscere di misericordia con le quali Dio visita il suo popolo (cfr. Luca 1,78) rivelano contemporaneamente il vero volto di Dio e il vero volto dell’uomo. È un Dio che si fa lui, per primo, prossimo, vicino a tutti. Dio ama tutti, è prossimo ad ogni uomo. È Padre di tutti, è il padre del figlio prodigo, sempre in agguato per la nostra salvezza. L’incarnazione del Figlio è l’atto supremo della sua synkatabasis (letteralmente: condiscendenza) nei confronti degli uomini. È da questa concezione di Dio che nasce una corretta visione del prossimo. Come il Padre si è fatto prossimo a noi in Gesù Cristo, così dobbiamo fare anche noi.

4

Cfr. E. DAL COVOLO, In ascolto dell’Altro. “Lezioni” di Dio e della Chiesa sulla vocazione sacerdotale, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010. 5 Il codice O (Oxford, intorno al 710 d.C.), il più antico testimone completo della Regula, riporta la variante ausculta: ma la tradizione manoscritta è pressoché concorde con obsculta, che sembra rafforzare l’invito all’ascolto interiore. Cfr. BENEDETTO, Regula, Prol. 1, edd. A. de VOGUÉ - J. NEUFVILLE, SC 181, Paris 1972, p. 412.


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Siamo sempre lì: creati a sua immagine, dobbiamo somigliare sempre di più a lui. Ne va della nostra vera felicità. In ogni caso, è significativo che Luca colleghi la parabola del buon Samaritano (cioè il discorso del nostro rapporto con il prossimo) con l’insegnamento di Gesù sulla preghiera e con la “consegna” del Padre nostro (cioè il discorso sul nostro rapporto con Dio) mediante il piccolo brano di Marta e di Maria. Ciò significa che l’amore di Dio e l’amore del prossimo sono inseparabili tra loro (i Padri parlano di “comandamento gemello”); ma perché il servizio agli altri sia “autenticamente evangelico”, e non ci sia alcuna frattura nel medesimo amore, bisogna che sia sempre salva “la parte migliore”, cioè una gerarchia dei valori che parte dalla contemplazione e dall’ascolto della Parola. 2.3. “Con la semplicità tipica dei bambini”, così il beato Papa Giovanni Paolo II concludeva il suo Messaggio per la Quaresima 2004, “noi ci rivolgiamo a Dio chiamandolo, come Gesù ci ha insegnato, Abba, Padre, nella preghiera del Padre nostro”. “Padre nostro! Ripetiamo frequentemente questa preghiera, ripetiamola con intimo trasporto. Chiamando Dio Padre nostro, avvertiremo di essere suoi figli, e ci sentiremo fratelli tra di noi. Ci sarà in tal modo più facile aprire il cuore ai piccoli, secondo l’invito di Gesù: Chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me”.

3. Conclusione Lo Spirito santo – esito della relazione d’amore tra il Padre e il Figlio – santifica la Chiesa, e rende possibile – lui solo – la preghiera dei figli al Padre. È questa la sua peculiare azione di grazia nella storia della salvezza. Ne consegue immediatamente il nono articolo del Simbolo: “Credo la Chiesa santa”. Qui dovremmo avere il coraggio e la volontà di sciogliere, una volta per tutte, alcuni equivoci pesanti, che ancora vigono in certa teologia e in certa predicazione. La Chiesa non è insieme santa e peccatrice! Non è la casta meretrix: locuzione, questa, falsamente attribuita ai Padri della Chiesa!6 La Chiesa è santa, anche se è madre di figli peccatori.

6

Cfr. E. DAL COVOLO, Casta meretrix: un’espressione fraintesa? Nota in margine all’ecclesiologia di sant’Ambrogio, in “Salesianum” 60 (1998) 337-344.


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Tale chiarimento ecclesiologico è uno dei più grossi vantaggi del Grande Giubileo dell’Anno Duemila. Da questo punto di vista, la Bolla di indizione del Giubileo (Incarnationis Mysterium, 29 novembre 1998) rappresenta un sicuro progresso nella dottrina, e un punto di non ritorno, anche nei confronti del CCC. Conviene rileggerne tutto il n. 11, alla luce della solenne affermazione centrale: “Come Successore di Pietro”, vi ha lasciato scritto il beato Papa Giovanni Paolo II, “chiedo che in questo anno di misericordia la Chiesa, forte della santità che riceve dal suo Signore, si inginocchi dinanzi a Dio, e implori il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli”. Sì, la Chiesa è santa, grazie allo Spirito che la santifica. E tale rimane, nonostante i peccati dei suoi figli. Perché, se la Chiesa non fosse santa, chi ci santificherebbe? Lo Spirito, saremmo tentati di rispondere. Già, ma proprio la Chiesa è la via di santificazione che lo Spirito ha scelto… Concludo così – sempre adottando il metodo della lectio divina – con qualche spunto per il discernimento spirituale, suggerito dall’esempio della vita e dalla meditazione degli scritti del santo vescovo Ambrogio di Milano (+ 397):7 * Tu preghi, per l’intercessione dello Spirito che prega in te? coloro che educhi alla fede ti vedono pregare? colgono il fatto che sei uomo di Dio, uomo della Parola? in altri termini, come è la dimensione contemplativa della tua vita? * Tu pratichi la carità, che è la vita feconda di Dio, nella quale è generato lo Spirito? sai accogliere il “povero”, il più bisognoso, il meno simpatico, quella persona che tutti mettono da parte perché dà fastidio? sai farti prossimo? sai stare insieme, dando la tua vita (non soltanto alcune parole) ai destinatari del Vangelo? solidarizzi con loro, anche quando ti sembra di perdere tempo? * Tu ami la Chiesa, corpo e sposa di Cristo, perennemente santificata dal medesimo Spirito? servi la Chiesa, o ti servi della Chiesa? ti impegni a contribuire con ogni forza alla sua edificazione, sia nella liturgia sia nella pratica della vita quotidiana? sai vedere – anche nelle vicende di oggi, della Chiesa pellegrinante nel mondo – la “foresta di santità che cresce”, ben oltre l’“albero che cade”? È vero: anche all’interno della Chiesa ci sono molti scandali, tante “sporcizie”, che sono la dolorosa conseguenza del peccato dell’origine. Ma sai cogliere “il grande fiume” della santità e della grazia di Dio, per il quale la Chiesa stessa è santa? Oppure ti accodi troppo facilmente alle critiche ipocrite e senza amore di tanti rotocalchi e media?

7

Cfr. E. DAL COVOLO, Sant’Ambrogio maestro di formazione spirituale, in “Ricerche Teologiche” 8 (1997) 125-136.


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VERSO UNA TEOLOGIA POLITICA DELLA PARTECIPAZIONE VINCENZO ROSITO Docente di Filosofia teoretica presso la Pontificia Facoltà Teologia “San Bonaventura” – Seraphicum (Roma) DI

SOMMARIO: 1. Gli abiti nuovi dell’alienazione. - 2. Portare insieme il peso del popolo 3. Prendere parte al mondo.

1. Gli abiti nuovi dell’alienazione

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a crisi che il mondo globalizzato sta attraversando non può essere ridotta alla sola componente economico-finanziaria da cui è stata generata. Le disfunzioni dei mercati globali e la virtualizzazione degli scambi economici hanno ormai da diversi anni condizionato non soltanto le scelte dei soggetti politici nazionali e internazionali. Il concetto di crisi ha infatti permeato il lessico contemporaneo dell’interazione sociale, ricoprendo un valore quasi antropologico o addirittura assurgendo a categoria interpretativa di un’intera epoca. Nel tentativo di leggere e interpretare l’attuale crisi, si è fatto ricorso all’immagine di un triplice fallimento: quello dei mercati, quello delle istituzioni e quello della morale1. Secondo questa visione la natura clientelare e speculativa di alcuni rapporti economici avrebbe generato l’implosione delle nuove strutture finanziarie su scala planetaria. Allo stesso tempo le istituzioni politiche nazionali e sovranazionali non sono state in grado di ricorrere a strumenti sufficienti per la regolamentazione giuridica delle trasformazioni globali. In questo quadro ricostruttivo un ruolo imprescindibile spetta alla dimensione eminentemente sociale. Collocare “socialmente” la crisi significa infatti riconoscere quanto essa sia implicata con l’ambito specifico della produttività simbolica. La natura sociale della crisi interessa infatti la dimensione dell’interazione umana ovvero la produzione di quelle categorie collettive con cui gli individui sono in grado di influenzare il proprio ambiente sociale e culturale. In tal senso è possibile descrivere il contesto globale con-

1 1

Cfr. H. KÜNG, Onestà. Perché l’economia ha bisogno di un’etica, Rizzoli, Milano 2011, pp. 94-96.


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temporaneo nei termini di una situazione post-sociale2. Con questa espressione non si vuole decretare la scomparsa della società, bensì il fatto che i meccanismi attraverso i quali la sfera sociale riesce a interagire con quella economica e politica sono stati profondamente sconvolti. Parlare di crisi eminentemente sociale significa situare l’esperienza critica al livello dei meccanismi di interazione e di comunicazione tra i diversi ambiti dell’esistenza, significa parlare di una crisi della partecipazione dei singoli individui agli spazi e ai processi di interazione. La situazione post-sociale designa dunque un contesto in cui le strutture sociali convivono con l’incapacità di creare nuove relazioni dalle quali possano emergere linguaggi, pratiche e condotte di vita, a loro volta in grado di riconfigurare i rapporti economici e politici. Ciò che viene profondamente scosso non è l’essere “socialmente situato” di ciascun individuo, bensì la sua capacità di partecipare, ovvero di “prendere parte” in maniera autonoma, cosciente ed efficace alla costruzione del proprio ordine sociale. A entrare in crisi non è tanto il radicamento sociale, inteso come appartenenza storicamente data a un gruppo o a una tradizione, quanto la scelta deliberata ed efficace di mutare il proprio orizzonte collettivo attraverso il reciproco influenzarsi tra le parti che lo costituiscono. Il capitalismo finanziario ha dunque contribuito, nel corso degli ultimi decenni, a una espropriazione degli strumenti di partecipazione economica e sociale. La stagione del cosiddetto “tardocapitalismo” è stata caratterizzata dalla quasi totale virtualizzazione degli scambi economico-finanziari, riproponendo nuove forme e modelli di alienazione3. Il dato antropologico maggiormente rilevante per la comprensione dell’attuale crisi è quello dell’estraniazione dei singoli individui rispetto alla logica funzionale dei processi economici e politici globali. Ci sentiamo stranieri in un mondo che ci appare non tanto vasto quanto complesso, facciamo continue esperienze di alienazione ogni qual volta non siamo in grado di padroneggiare il linguaggio nascosto e inconscio che regolamenta gli scambi, non solo economici, su scala planetaria. La difficile libertà del soggetto contemporaneo coincide in realtà con un reale deficit di partecipazione; ciascun individuo è scisso tra un sovraccarico di aspettative pratiche e un senso di inefficacia gestionale nei confronti delle istituzioni sociali e politiche. L’impulso alla produttività individuale, la spinta alla riscoperta delle potenzialità personali e l’invito all’autenticità biografica del singolo, contraddicono l’incapacità del soggetto a

2

Cfr. A. TOURAINE, Dopo la crisi. Una nuova società possibile, Armando, Roma 2012, p. 13. Per uno studio delle recenti interpretazioni filosofiche e sociologiche del concetto di alienazione si veda il numero monografico Reificazione e alienazione della rivista “Politica e Società. Periodico di filosofia politica e studi sociali” 3/2012 il Mulino, Bologna. 3


Verso una teologia politica della partecipazione

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gestire “individualmente” le ambivalenze strutturali e la complessità generale dei sistemi economici, politici e sociali: «La condotta di vita individuale diventa la soluzione biografica delle contraddizioni sistemiche»4. La matrice prevalentemente finanziaria dell’attuale crisi ci porta quindi a individuare nella sfera economica l’ambito più rilevante per la comprensione dei mutamenti sociali e politici in atto. Un’espressione in particolare, quella di “bolla finanziaria”, è in grado di esplicitare il carattere profondo della fase più recente del capitalismo globale. Si è parlato di un’economia della bolla usando quest’immagine per esprimere la natura di un sistema di operazioni finanziarie disancorato dalla verificabilità dei valori economici reali. Internamente inconsistente e virtuale, una bolla può accrescersi a dismisura senza rivelare, se non con un improvviso effetto sorpresa, la vacuità del suo contenuto. Questa metafora riassume efficacemente la logica sottesa a quella che negli anni Novanta si è attestata a livello planetario con il nome di new economy, inaugurando la progressiva tendenza all’investimento dei risparmi privati nel mercato azionario. Da quel momento in poi l’attore economico non è stato più identificato con il semplice consumatore, ma è diventato prima di tutto un investitore ovvero un risparmiatore che, anche nella gestione del suo piccolo patrimonio, si lega all’andamento dei mercati azionari. La finanza con le sue logiche e i suoi ruoli (agenti, operatori, analisti) è ormai da decenni entrata nella nostra vita ordinaria. Abbiamo da tempo iniziato a familiarizzare con un nuovo lessico che aveva già implicitamente annunciato la natura virtuale dei propri valori di scambio. Le borse hanno un umore (mood) e si autoregolamentano in funzione di una logica quasi “sentimentale” basata sulle sensazioni di fiducia o sfiducia nelle virtù di un intero sistema, piuttosto che sulla riscontrabilità oggettiva delle sue operazioni reali. Le borse danno segnali più o meno positivi, esse esprimono non tanto un giudizio verificabile in relazione ad alcuni riscontri evidenti, quanto l’indicazione di un andamento che ha la certezza vaga e parziale di una “proiezione”5.

2. Portare insieme il peso del popolo La criticità di un determinato momento storico invita molto spesso a una più intensa attività riflessiva e culturale. È questo il caso della tradizione religiosa ebraico-cristiana contraddistinta da una maggiore produzione di

4

U. BECK, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2000, p. 197. Per un maggior approfondimento delle implicazioni antropologiche e culturali del tardocapitalismo si veda: V. Rosito, La partecipazione salvata. Teologia politica e immagini della crisi, Cittadella, Assisi 2013, pp. 37-59.

5


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testi mistici e sapienziali proprio in concomitanza dei momenti più critici e problematici della propria storia. Gli scritti dell’Antico Testamento non esorcizzano né relativizzano le esperienze di crisi vissute sia a livello personale che comunitario. Quello ebraico è un Dio che entra e attraversa la crisi a tal punto che sembra indugiare in essa, sembra trattenerla per far scaturire, proprio dall’esperienza critica, una rinnovata relazione con l’uomo, un più solido patto con il popolo che ha scelto. Allo stesso tempo il concetto di crisi non è estraneo ai paradigmi teologici della tradizione cristiana. Il cristianesimo si attesta infatti sulla scena storica delle religioni rivelate in quanto movimento critico nei confronti della religiosità stessa. Il gesto che maggiormente contraddistingue l’annuncio cristiano è un atteggiamento di critica verso la stessa declinazione “religiosa” delle condotte pratico-morali presenti in un determinato contesto socioculturale. La dimensione storica e sociale dell’esperienza cristiana si presenta quindi come una messa in crisi delle immagini storiche di Dio e delle configurazioni dottrinali che ne definiscono i contenuti. In tal senso la natura critica dell’annuncio cristiano non si esaurisce nel riconoscimento della natura “ulteriore” di Dio, ma nel permanere all’interno dell’esperienza critica che questo Dio inaugura, riconoscendo la criticità del contenuto di fede; esso coincide infatti tanto con un insieme normativo di principi morali o di orientamenti pratici, quanto con la persona stessa del Figlio di Dio. La narrazione biblica dell’esodo può rappresentare un importante contesto letterario per analizzare le diverse declinazioni del concetto di crisi. Il popolo dell’esodo non è soltanto un’entità culturalmente eterogenea, liberata da una condizione servile e per questo unificata e uniformata, esso è principalmente una realtà sociale chiamata a un radicale passaggio che non sarà quello del mare bensì quello del deserto. In questo spazio vuoto la nuova entità collettiva che si sta costituendo inizia ad assumere la consapevolezza di essere non solo un popolo liberato ma un popolo di libertà. È in questo difficile processo di creazione di un nuovo lessico e di nuove pratiche di libertà che il popolo inizia a “mormorare”. Quelle che vengono comunemente indicate con il termine mormorazioni costituiscono veri e propri momenti di interruzione del cammino del popolo; esperienze di crisi che scandiscono il fluire di un percorso collettivo di consapevolezza e di autonomia. Un episodio è particolarmente incisivo in quanto più denso di suggestioni e dettagli: «Nel deserto tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e contro Aronne. Gli Israeliti dissero loro: “Fossimo morti per mano del Signore nel paese d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatti uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine”» (Es 16,2-3). Questa scena può essere considerata un’esperienza di crisi nel rapporto


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tra una comunità e la propria leadership; il popolo sembra infatti sollevare le proprie lamentele e rimostranze nei confronti delle guide rappresentate da Mosè e Aronne. In realtà non si tratta di un semplice episodio di insurrezione popolare da parte di una collettività che non a caso si definisce “moltitudine” piuttosto che “popolo”. Chi decide di gestire la crisi in atto non è Mosè, infatti è Dio stesso che prende l’iniziativa scegliendo di parlare al popolo e promettendo il dono della manna. La crisi si consuma interamente all’interno di una comunità che fa saltare sia le categorie politiche che i ruoli istituzionali ai quali aveva fatto ricorso per intraprendere il cammino di liberazione; al centro della mormorazione del popolo non ci sono tanto le difficoltà pratiche legate alla fame e alle comodità materiali, quanto la condizione stessa di essere schiavi liberati. La crisi collettiva che emerge nella forma delle mormorazioni è dunque essenzialmente il segno di come non sia stato sufficiente, per il popolo, essere stati liberati dallo stato di schiavitù in terra d’Egitto. Questa libertà negativa diventa infatti il presupposto per la ben più difficile costruzione comunitaria di una libertà positiva: nel deserto, lontani dalle pentole di carne, il popolo scopre che può essere libero di costituirsi in qualcosa che prima non esisteva. Il cammino dell’esodo si conferma il locus letterario che più di ogni altro esprime la proficuità religiosa, sociale e politica dell’esperienza di crisi. Le mormorazioni sono particolarmente rilevanti perché raccontano quelle situazioni in cui la dialettica della crisi nasce da una presa di coscienza collettiva e si sviluppa mediante un’impresa comunitaria di partecipazione. Questo è ancora più evidente nel capitolo undicesimo del libro dei Numeri in cui si narra come, partito dal monte Sinai, ancora una volta il popolo inizi a lamentarsi per la fame e le asprezze del viaggio. Dio interviene questa volta mediante un gesto di condivisione delle responsabilità di Mosè al quale così parla: «Radunami settanta uomini tra gli anziani d’Israele, conosciuti da te come anziani del popolo e come loro scribi; conducili alla tenda del convegno; vi si presentino con te. Io scenderò e parlerò in quel luogo con te; prenderò lo spirito che è su di te per metterlo su di loro, perché portino con te il carico del popolo e tu non lo porti più da solo» (Nm 11,16-17). La nuova dinamica che vene qui sperimentata ha il volto della condivisione: alla mormorazione si risponde con la possibilità di allargare il numero di coloro che comprendono, ovvero di coloro che, sotto la guida dello spirito, portano insieme il peso del popolo. Alla collettività che mormora si risponde con una collettività che condivide uno stato di comprensione partecipata6. Sarà infatti sorprendente la reazione di Mosè alla richiesta di Giosuè di prendere dei provvedimenti nei confronti di Eldad e Medad, due uomini che 6

Cfr. C. CONROY, “Leadership” e profezia come doni carismatici, in “Parola Spirito e Vita”, 4 (1981) 1.


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avevano profetizzato pur senza essersi recati nella tenda del convegno insieme a tutti gli altri. Mosè reagisce infatti dicendo: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore dare loro il suo spirito!» (Nm 11,29). In questa frase si concentra il risvolto propositivo dell’esperienza critica rappresentata dalle mormorazioni, ovvero ricercare insieme le condizioni per la cooperazione all’interno di un popolo che è tale in quanto opera di compartecipazione. Nel deserto della crisi la risposta definitiva alle mormorazioni coincide sempre con l’invito a un’opera di condivisione delle responsabilità attraverso una consapevole partecipazione alle decisioni collettive.

3. Prendere parte al mondo Insieme al concetto di autorità, la partecipazione è uno dei temi più ricorrenti all’interno della teologia politica contemporanea. Molto spesso, però, la ricerca dei fondamenti teorici della sovranità ha generato paradigmi politici in cui il ruolo della partecipazione è stato marginalizzato. Il pastore e teologo protestante Dietrich Bonhoeffer è tra coloro che hanno maggiormente contribuito a riformare il paradigma teologico-politico emerso della riflessione filosofica moderna. In seguito alla sua opera di opposizione al regime nazista, Bonhoeffer venne arrestato il 5 aprile 1943, e detenuto nel carcere berlinese di Tegel. Due anni dopo, all’alba del 9 aprile 1945, viene giustiziato presso il campo di concentramento di Flossenbürg. Nel periodo della prigionia il teologo tedesco ha raccolto, in numerose lettere, lo spirito della sua riflessione spirituale e intellettuale, da questo ricchissimo lascito e patrimonio nascerà Resistenza e resa7, l’opera che più di ogni altra contribuirà alla conoscenza della sua vita e del suo pensiero. Alla luce della propria esperienza personale, ma soprattutto immergendosi nel dramma oscuro che avvolgeva il suo popolo, Bonhoeffer interpreta l’esperienza cristiana dalla prospettiva di un «mondo diventato adulto» e nell’assunzione di una piena mondanità (Weltlichkeit) da parte dell’uomo contemporaneo: «Dio ci dà a conoscere che dobbiamo vivere come uomini capaci di far fronte alla vita senza Dio. Il Dio che è con noi è il Dio che ci abbandona (Mc 15,37)! Il Dio che ci fa vivere nel mondo senza l’ipotesi di lavoro Dio è il Dio davanti al quale permanentemente stiamo. Davanti e con Dio viviamo senza Dio. Dio si lascia cacciare fuori del mondo sulla croce, Dio è impotente e debole nel mondo e appunto solo così egli ci sta al fianco e ci aiuta. È assolutamente evidente, in Mt 8,17, che Cristo non aiuta in

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D. BONHOEFFER, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, San Paolo, Milano 1996.


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forza della sua onnipotenza, ma in forza della sua debolezza, della sua sofferenza!»8. Se il mistero più intimo e profondo del cristianesimo è racchiuso nella possibilità di compartecipazione tra uomo e Dio, allora, tale riconciliazione può avvenire solo in virtù della piena e consapevole assunzione di un mondo senza-Dio (gott-los), ovvero solo riconoscendo criticamente il rigetto (Verwerfung) di Gesù Cristo da parte del mondo stesso. Il rifiuto di Dio da parte del mondo diventa dunque la condizione di possibilità per una consapevole e libera assunzione della stessa realtà del mondo. Ciò che in modo apparente si manifesta come espulsione di Dio dal mondo, è in realtà il gesto supremo di un Dio che apre e fonda nuove possibilità di azione e di relazione tra gli uomini9. Il Cristo rigettato dal mondo attraverso la croce non è semplicemente l’immagine di un Dio che si fa piccolo o lontano per far posto ad altro da sé; il suo non è tanto un movimento di contrazione quanto un atto di fondazione trascendentale delle possibilità umane. Il Dio che viene rigettato è il Dio che fonda, nel mondo, la possibilità di una partecipazione libera e consapevole degli uomini al mondo; il suo allontanamento non è un semplice “farsi da parte” rispetto alla scena degli uomini, ma un allestire la scena su cui si possa svolgere l’azione drammatica della partecipazione umana al mondo. La mondanità assunta consapevolmente in virtù della cacciata di Cristo non coincide con il vivere religiosamente la propria condizione umana e sociale, ma con il concepire areligiosamente la totalità delle relazioni umane. Cristo si è lasciato escludere non per fondare uno spazio, all’interno della realtà mondana, in cui poter instaurare rapporti “diversi” e “particolari” in quanto religiosi, ma perché si potessero inverare, per gli uomini tutti, dei processi di piena partecipazione alla complessità dei rapporti che configura-

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Idem, p. 440. Sono molti gli autori che hanno riletto il mistero dell’incarnazione e della redenzione alla luce di una funzione trascendentale del sacrificio di Cristo. Secondo questo filone di pensiero l’azione di Dio nella storia può essere interpretata non tanto in termini di presenza o di tutela dell’agire umano, quanto come un’opera che rende possibile il pieno esercizio della libertà umana. Per François Varillon è questa la prospettiva di un Dio che prepara e allestisce lo spazio necessario al pieno dispiegamento delle facoltà e delle potenzialità umane: «Il compito dell’uomo è fare l’uomo. Qualunque sia la nostra condizione – sposati, celibi – la nostra età, il nostro sesso, la nostra professione, si tratta sempre, direttamente o indirettamente, di fare in modo che l’uomo sia, perché l’uomo non è cosa fatta. Un mondo già fatto sarebbe un mondo di cose; un uomo già fatto sarebbe una cosa fra le cose, sarebbe insomma una natura fra le altre. Ora l’uomo è insieme natura e libertà. È essenziale, per la libertà, doversi creare essa stessa. Dio non crea l’uomo libero. Dio fonda la possibilità, per l’uomo, di creare la propria libertà» F. VARILLON, Traversate di un credente, Jaca Book, Milano 2008, p. 71. 9


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no lo stato dell’umanità nella sua generalità più inclusiva. La struttura di un cristianesimo areligioso e la movenza partecipativa dei rapporti all’interno di un mondo senza Dio, può essere riscontrata in diversi passaggi della celebre lettera scritta da Bonhoeffer il 18 luglio 1944: «Essere cristiano non significa essere religioso in un determinato modo, fare qualcosa di se stessi (un peccatore, un penitente o un santo) in base ad una certa metodica, ma significa essere uomini; Cristo crea in noi non un tipo d’uomo, ma un uomo. Non è l’atto religioso a fare il cristiano, ma il prender parte alla sofferenza di Dio nella vita del mondo»10. La dimensione pratica dell’esistenza, nella misura in cui si colloca in una prospettiva cristiana, è dunque caratterizzata dall’atteggiamento di chi prende parte, di chi partecipa alla concretezza storica del farsi della realtà mondana. Contrariamente a tutte le tradizioni normative ancorate al dualismo bene/male, Bonhoeffer non mette al centro della riflessione etica la questione dell’intenzione dell’agente o della valutazione di ciò che nel mondo può apparire conforme o difforme alla volontà di Dio. I verbi su cui bisogna soffermarsi e da cui è necessario partire per comprendere e orientare la domanda circa l’agire umano, sono verbi che indicano un coinvolgimento totalizzante come partecipare, prendere parte (teilnehmen), essere partecipe o accettato (angenommensein). Tutti questi verbi descrivono la movenza di un approccio integrale e coinvolgente nei riguardi delle realtà mondane, piuttosto che un giudizio dirimente sulla realtà umana: «La questione del bene diventa la questione dell’aver parte alla realtà di Dio rivelata in Cristo. Ora il bene non è più una valutazione dell’esistente, quindi ad esempio della mia essenza, della mia intenzione, delle mie azioni o anche di una situazione del mondo; non è più un predicato che viene attribuito a un qualcosa di sussistente e esistente in se stesso, bensì è il reale stesso, cioè non quel reale astratto sganciato dalla realtà di Dio, bensì il reale che ha realtà soltanto in Dio»11.

10 11

Idem, 441. D. BONHOEFFER, Etica, Queriniana, Brescia 2010, p. 30.


Rivista Lasalliana 81 (2014) 4, 485-487

QUALE FUTURO PER LA SCUOLA ITALIANA? DOMANDE AL PRESIDENTE MATTEO RENZI DARIO ANTISERI Professore di Metodologia delle Scienze Sociali

È

dell’ 11 luglio 2014 il documento della Conferenza Episcopale Italiana “La scuola cattolica risorsa educativa della Chiesa locale per la società” dove, puntando sulle ragioni, il valore, il significato sociale e civile della scuola cattolica, i vescovi ribadiscono il principio che in ambito educativo alle famiglie sia consentito di scegliere «senza condizionamenti il percorso di studi e la scuola reputata migliore per sé e i propri figli». E insistono su quanto stabilito il 14 marzo del 1984 dal Parlamento europeo nella Risoluzione sulla “libertà di insegnamento nella Comunità europea”, e cioè sul fatto che «il diritto alla libertà di insegnamento implica per sua natura l’obbligo per gli Stati membri di rendere possibile l’esercizio di tale diritto anche sotto il profilo finanziario e di accordare alle scuole le sovvenzioni pubbliche necessarie allo svolgimento dei loro compiti e all’adempimento dei loro obblighi, in condizioni uguali a quelle di cui beneficiano gli istituti pubblici corrispondenti, senza discriminazione nei confronti degli organizzatori, dei genitori, degli alunni e del personale». Senza parità economica, la parità giuridica è solo un ulteriore inganno. Scriveva nel 1918 Antonio Gramsci: «Noi socialisti dobbiamo essere propugnatori della scuola libera, della scuola lasciata all’iniziativa privata e ai comuni. La libertà nella scuola è possibile solo se la scuola è indipendente dal controllo dello Stato». Se non fa, in ogni caso, meraviglia che i cosiddetti “sinistri” di ogni provenienza abbiano occultato questo insegnamento nei fumi della mitologia statalista, sconcerta, invece, l’acquiescenza degli ascari cattolici a loro servizio, così come il silenzio dei cattolici cosiddetti liberali schierati a servizio di cosiddetti liberali laici intossicati di laicismo illiberale – la peggiore specie di clericalismo. Sedicenti liberali laici dimentichi della lezione di J. Stuart Mill, di B. Russell o, più vicini a noi, di M. Friedman e F. A. von Hayek; sedicenti liberali cattolici, per i quali suonano strani i nomi di A. de Tocqueville, F. Bastiat, A. Rosmini o di L. Einaudi, e che hanno rigettato il monito di Luigi Sturzo stando al quale «finché in Italia la scuola non sarà libera, neppure gli italiani saranno liberi». La scuola statale è un patrimonio grande e prezioso che va protetto – salvato innanzi tutto dallo statalismo, cioè a dire dal monopolio o quasi-mono-


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Dario Antiseri

polio statale – inefficiente e sciupone – nella gestione del sistema formativo. La realtà è che il rifiuto di quel grande principio che è il principio di competizione – principio che anima la crescita della scienza, la vita della società democratica e la libera economia – equivale a restare nella caverna o a farvi ritorno di gran fuga. E se è vero che è la competizione – quale procedimento di scoperta del meglio – a costituire la più alta forma di collaborazione, perché, allora, seguitare ad ostinarsi nella demonizzazione di una proposta come quella del buono-scuola? Su quale base, con quali argomenti, è possibile contrastare l’idea che è proprio una misura come il buono-scuola ad essere la migliore terapia per i mali sia della scuola statale che di quella paritaria? Di continuo viene additato come un furto il contributo pubblico alla scuola paritaria. Ora, però, sta il fatto che parecchi affaccendati tribuni nascondono a se stessi e agli altri “interessati” che non è più che una miseria il contributo dello Stato italiano alle scuole paritarie, soprattutto se paragonato al contributo elargito alle scuole non statali da Stati come la Francia, il Belgio, l’Irlanda, la Germania, la Spagna o l’Inghilterra. E quel che più conta è che i nominati poco lungimiranti statalisti – ciechi dinanzi agli esiti nefasti delle loro magari buone intenzioni – si guardano bene dal fare i conti e dal dire quanto la scuola paritaria (cattolica e laica) fa risparmiare allo Stato. Dai dati Miur 2012: Alunni delle Scuole statali 7.737.639; Alunni delle Scuole paritarie 1.036.403, di cui 702.997 iscritti alle Scuole cattoliche. Finanziamento totale alle Scuole statali: e 40.596.307.956; Finanziamento totale alle Scuole paritarie: e 498.928.558. Costo allo Stato in media per alunno di Scuola statale: e 5.246,60; Costo allo Stato in media per alunno di Scuola paritaria: e 481,40. Le scuole paritarie, dunque, in un anno, hanno fatto risparmiare allo Stato la bella cifra di e 5.000.000.000 (cinque miliardi). In dieci anni – con un calcolo per difetto, dato che il numero degli alunni iscritti alle Scuole paritarie è progressivamente diminuito – la scuola paritaria ha fatto risparmiare allo Stato oltre 50 miliardi di euro. Non è giusto e soprattutto non è libero un Paese dove una famiglia che iscrive un figlio ad una scuola paritaria debba pagare per questa sua scelta di libertà. Uno Stato che costringe a comprare pezzi di libertà non è uno Stato di diritto. E, intanto, negli ultimi anni è morta una Scuola libera ogni tre giorni – ogni tre giorni è morto un pezzo di libertà. Non dice proprio niente questo massacro di libertà ai cattolici impegnati in politica, i più audaci dei quali fanno ogni tanto qualche timido capolino tra le pieghe delle tende dei più svariati accampamenti? Non parlano perché non sanno o perché, per dirla con Cioran, hanno il bavaglio spalmato di miele? I vescovi hanno parlato – e, prima di loro, sul problema della libertà di insegnamento, erano a più riprese intervenuti Papa Giovanni Paolo II e Papa


Quale futuro per la scuola italiana? Domande al Presidente Matteo Renzi

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Benedetto XVI e, solo pochi giorni fa, lo ha fatto Papa Francesco; gestori, insegnanti e genitori mantengono viva la fiaccola della libertà in una lotta quotidiana per la sopravvivenza delle scuole paritarie – cattoliche e non; e tutto ciò mentre l’intellighenzia culturale e politica cattolica, quando riesce a sporgersi appena fuori dalla gabbia dei propri interessi, si diletta in “banchetti di parole” all’interno di “nicchie ecologiche protette”. È David Hume a ricordarci che «la libertà non si perde tutta in una volta». E di Karl Popper è il monito per cui «il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza». E, infine, ma prima di tutto: una volta messi al sicuro gli edifici scolastici – provvedimento sacrosanto e prioritario – il presidente Matteo Renzi, politico “pragmatico” e “non ideologico”, come pensa di risolvere il problema della parità scolastica? È d’accordo o no con la Risoluzione del Parlamento europeo sulla libertà di insegnamento? Pensa che abbiano ragione i vescovi, e non solo loro, o si sente schierato dalla parte dei tanti pretoriani del monopolio statale dell’istruzione? Considera o no il buono-scuola una urgente e necessaria terapia per i mali del nostro sistema formativo? Pensa anche lui che è servizio pubblico solo ciò che è statale? Aveva torto quel rappresentante di sinistra il quale, alcuni anni fa, dichiarò che il buono-scuola è una carta di liberazione per le famiglie meno abbienti?


LA SALLE BIOGRAFIE DI GIOVANNI BATTISTA DE LA SALLE CHARLES LAPIERRE, FSC Giovanni Battista de La Salle - cammina alla mia presenza Città Nuova, Roma 2006, pp. 234 L’autore ricostruisce l’itinerario del La Salle nel realizzare la vita che Dio gli ha chiesto “camminando alla sua presenza” e risponde a quanti desiderano conoscerlo come pedagogista e istitutore di grande attualità, ma anche a genitori ed educatori, che vedono in lui un modello da incarnare e un ideale da trasmettere ai giovani.

TERESIO BOSCO, SDB Giovanni Battista de La Salle – la forza di donare la vita Elledici, Leumann (To) 2004, pp. 44 Tratteggia la figura e l’opera del La Salle, pioniere dell’educazione in un tempo decisamente diverso dalla nostra epoca, specie in ambito scolastico ed educativo. La lettura del breve ritratto rende attuale la passione che il santo ebbe per la gioventù dell’epoca. E che i Fratelli delle scuole cristiane continuano a vivere oggi.

MANUEL OLIVÉ, FSC Giovanni Battista de La Salle – una vita per i giovani Istituto Gonzaga, Milano s.d., pp. 96 Biografia agile, incisiva, essenziale. Ricca di illustrazioni, è quanto mai adatta anche ai preadolescenti per iniziare un percorso di conoscenza di un santo educatore che per dedicarsi alla promozione dei ragazzi più poveri ha lasciato il ceto dei benestanti coinvolgendo nell’avventura altri giovani generosi per istituire le scuole gratuite.

LEO C. BURKHARD, FSC Un birichino di Parigi trad. it. di Camillo Coffano, Editrice A.&C., Milano 1961, pp. 160 Una storia romanzata alla gloria del pioniere e santo protettore delle scuole popolari. Tutte le vicende richiamano dei fatti storici. Al fine di garantire l’unità del racconto, l’autore ha ideato il personaggio del narratore attribuendogli dei fatti accaduti a molti. È lui – questo birichino di Parigi trascinato nella scia dell’eroe – che vi parla.

Giovanni Battista de La Salle Fondatore dei FSC e Patrono degli educatori fumetto di G. Signori e F. Pescador – Prov. Italia FSC, Roma 2008, pp. 207 I disegni, il testo e la sceneggiatura del fumetto, mentre non impediscono l’accostamento degli adulti alla vicenda storica e all’opera del La Salle, favoriscono invece un interessante e attento approccio all’opera del santo anche ai più piccini. •••

Per informazioni e ordinazioni: Viale del Vignola, 56 - 00196 Roma tel. 06.322.94.503 - E-mail: gabriele.pomatto@gmail.com tel. 06.322.94.235 - E-mail: fedoardo@pcn.net


Rivista Lasalliana 81 (2014) 4, 489-493

SCRIVERE OGGI. SENZA MÁRQUEZ MARCO CAMERINI Docente di lingua e lettere italiane presso il Liceo Classico dell'Istituto paritario "Villa Flaminia" (Roma)

SOMMARIO: 1. Il racconto tra fuoco e utopia. - 2. L’alternativa latinoamericana. - 3. Il “tempo lento” di Macondo, “l’attesa amorosa” di Florentino.

La morte di G.G. Márquez, la cui scomparsa ha prodotto un prevedibile moltiplicarsi di saggi ed interventi critici sullo stato della letteratura latinoamericana, offre lo spunto per ampliare (certo non concludere) il discorso avviato al termine dello scorso anno sulle principali tendenze della narrativa contemporanea, analizzando la possibile “terza opzione” costituita proprio dalla produzione ispanoamericana, accanto a quelle sommariamente identificate nella “linea europea” e in quella “americana” al romanzo

1. Il racconto tra fuoco e utopia

R

ecenti, interessanti riflessioni di autori “europei” facilitano l’approccio a quella forma particolare ed inconsueta che il realismo assume in larga parte di questa narrativa (si chiarirà perché non ricorriamo all’abusata formula di realismo magico): termini chiave – tanto poco americani! – di Frisch e Agamben sono, infatti, l’utopia e il fuoco. Per Max Frisch lo scrittore, consapevole di non possedere un linguaggio per esprimere oggettivamente e con sincerità assoluta il caos di una realtà che si lascia “circoscrivere”, “accerchiare” ma mai riprodurre, può, come legittima difesa contro la resa artistica, solo trasformarla, scrivere ciò che “non è” la vita, sapere di essere scritto da essa anche quando “tiene la penna come l’ago di un sismografo. La storia che è in grado di esprimere la nostra esperienza non ha mai bisogno di essere accaduta, ma affinché venga capita e creduta e affinché crediamo a noi stessi, diciamo: è andata così! […] ogni essere umano si inventa perciò una storia che poi, spesso a prezzo di enormi sacrifici, considera la sua vita. Lo scrittore è l’unico a non crederci. Sapendo che ogni storia è la mia finzione sono uno scrittore”1. Alla fine, per l’autore di “Homo faber”, al

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MAX FRISCH, Quadrato nero, due lezioni sulla letteratura, Goffi, Roma, 2014, p. 35.


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narratore non rimane altro – ma è tantissimo – che alimentare l’utopia secondo la quale la condizione umana potrebbe essere diversa, attraverso un’immaginazione che è facoltà altra e superiore rispetto alla fantasia, dichiarando, di fatto, la propria convinta alterità al modello americano: per quanto inerisce il patto con il lettore (inventato dallo scrittore, di volta in volta “nemico, indifferente, al limite partner”2), l’impossibile mimesi del reale, la presunzione di possederne piena conoscenza attraverso l’esperienza del proprio vissuto, la valenza “alta” della scrittura come temibile e temuto contropotere. Differente, ma non distante, l’idea di Agamben sul romanzo come “perdita e commemorazione del mistero, smarrimento e rievocazione della formula e del luogo”3, con riferimento alla mistica ebraica di Sholem ma, sorprendentemente, all’image en disponibilité di H. James, che ammetteva di costruire una successione di situazioni ed episodi intorno alle figure di un uomo o una donna disponibili a divenire personaggi, chiudendoli (non diversamente, ci pare, dalla concezione pirandelliana di forma) in una storia che è, insieme, perdita del fuoco primordiale e costruzione di una trama narrativa definita. E’ evidente che Carver se ne sarebbe già andato a spaccare un po’ di legna ed Hemingway non riuscirebbe a contare con lucidità i bicchieri di fronte a lui, ma tant’è: sono queste suggestioni critiche – alla fine per nulla lontane dall’universo di Márquez – che ci consentono di parlarne, ora che la scomparsa ha stimolato interrogativi sulle prospettive della prosa ispanoamericana del futuro – “lo scrittore colombiano, insieme a Julio Cortázar e Roberto Bolaño costituiscono quella di sempre, di ieri e di oggi”4 – e ne ha, insieme, avviato una doverosa rilettura dell’intera opera.

2. L’alternativa latinoamericana In ordine al “perché” si scrive, la letteratura latinoamericana della II metà del ‘900 si è orientata alla (ri)scoperta delle radici autentiche e della

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MAX FRISCH, op. cit., pp. 53-54. GIORGIO AGAMBEN, Il fuoco e il racconto, Nottetempo, Roma, 2014, pp. 39-60. La suggestiva ipotesi critica, che rielabora intuizioni di Gilles Deleuze, riguarda la produzione lirica, musicale, artistica in genere e, come tale, non esclude affatto il campo della narrativa. Non diversamente, sia pure nella prospettiva cattolica della sua scrittura, l’americana Flannery O’Connor affermava che “uno scrittore serio descrive l’azione solo per svelare un mistero. Naturalmente può essere che lo riveli a stesso, oltre che al suo pubblico. E può essere che non riesca a rivelarlo nemmeno a se stesso, ma credo che non possa farne a meno di sentirne la presenza” (ROSEMARY M. MAGEE, Conversation with F. O’Connor, Jackson&London, University press of Mississippi, 1987, p.9). 4 Cfr. l’intervento resoconto di Luca Mastrantonio “LLosa, Onetti, Neuman, Pauls, Herrera e Nettel faranno boom?” su Il Corriere della Sera del 4 maggio 2014, da cui è tratta la citazione. 3


Scrivere oggi. Senza Márquez

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identità etnica, sociale e politica delle diverse nazioni, affrancandosi dall’imitazione di –ismi, generi e modelli stranieri nella convinzione che la finzione, più o meno immaginaria, di un romanzo non escluda, anzi imponga il senso profondo di appartenenza ad una ben preciso contesto geo-politico: “Alla fine, leggere un libro latinoamericano vuol dire quasi sempre entrare in un territorio di ansia interiore, di aspettative e, a volte, di frustrazione”5 dinanzi alle attese ed ai fallimenti di un continente travagliato e complesso: possiamo dirci sicuramente in prossimità di una letteratura di impegno, che mira all’emancipazione da colonizzazioni culturali ed oligarchie locali attraverso il legame con un lettore al quale non è concessa, come afferma ancora Cortázar, alcuna “vacanza” nel puro immaginario ma, semmai, richiesta l’accettazione di un patto narrativo condiviso per essere trasportato dal piano della mera fruizione estetica a quello superiore di una consapevolezza etica e civile. Più Sartre che Joyce, insomma… più Zola che Dostoevskij: non c’è racconto senza fuoco, per dirla con Agamben, e l’utopia di Frisch è veramente ad un passo. L’apparente anomalia – la “terza via” cui accennavamo – si genera quando questa dichiarata (e tutta europea) adesione al contingente diviene stile, genere, racconto che assumono spesso – ecco il punto – cadenze e tonalità fiabesche e surreali. Diciamo apparente perché condividiamo la tesi di Vittoria Martinetto la quale – recensendo “Le reputazioni”, dell’emergente scrittore colombiano J.G. Vasquez – sostiene vada “sfatata l’idea che tutti gli scrittori latinoamericani debbano collocarsi nel canone del realismo magico: tale visione meravigliosa della realtà non è più tratto distintivo della latino americanità e se qualcosa di simile è esistito vale soltanto per il grande Gabo”6. Giusto, anche se, forse, includere nel “magismo” il solo Márquez è riduttivo: una vocazione onirica è, probabilmente, connaturata (lo è comunque stata) a più di qualcuno fra questi scrittori, comunque, dovendo parlare di quest’ultimo, sarà opportuno non abolirla.

3. Il “tempo lento” di Macondo, “l’attesa amorosa” di Florentino La questione può, alla fine, risolversi sottolineando come il fantastico, per tale narrativa, non è alternativa fittizia e favolosa al quotidiano, ma uno degli aspetti del suo manifestarsi per assumere dimensioni nuove, inattese, più ricche7: lontana dal rispecchiamento minimalista, è una “alchimia pro-

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JULIO CORTÁZAR, Lezioni di letteratura, Berkeley 1980, Einaudi, Torino, 2014, p. 203. VITTORIA MARTINETTO, La Stampa, 5 luglio 2014. 7 “Il fantastico è una delle possibilità che può darci la realtà quando riusciamo ad aprirci a cose inattese”, JULIO CORTÁZAR, op. cit., p. 40. 6


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PROPOSTE

Marco Camerini

fonda”8 che consente di cogliere in profondità le pulsioni inattese (in questo senso fantastiche) ad esempio delle protagoniste femminili di “Cent’anni di solitudine” – straordinario romanzo di donne in cui proprio queste ultime possono (sanno?) sottrarsi alla clamorosa, ripetitiva serialità di quelle maschili – o dell’anima nobile e appassionata di Florentino Ariza ne “L’amore ai tempi del colera”. La realtà, nei libri di Márquez, anche quando è analizzata con meticolosa precisione, è quella che dovrà – forse – realizzarsi, come in “Cronaca di una morte annunciata” e ne “L’amore ai tempi del colera”, o quella che è stata e sembra vada solo (ri)conosciuta, come in “Cent’anni di solitudine”, ma non è mai quella dell’attimo e del tempo in cui vivono i personaggi, costretti ad immaginare ciò che avrebbe potuto essere o magari – è il caso dell’innamorato Florentino – fermamente convinti di poterle conferire consistenza prima o poi, anche se (in contrasto con la vaghezza cronologica del titolo) dovranno trascorrere 53 anni, 7 mesi e 11 giorni prima che la passione per Fermina Daza, talmente assoluta ed esclusiva da divenire inevitabile, venga (magicamente?) corrisposta. Se è vero, allora, che uno degli elementi essenziali negli intrecci dello scrittore colombiano è l’attesa – in particolare amorosa, come ha felicemente dimostrato Elisabetta Abignente9 - il tempo (lo si definisca “stirato”10, “lento”11 o, come preferiamo, “non tempo”) risulta il vero archetipo che ne sostanzia la poetica, originale e suggestiva partitura dall’andamento disteso in cui si iscrivono tutti i suoi romanzi. Siano, oltre a quelli citati dell’”Amore ai tempi del colera”, i 100 anni durante i quali Macondo vede riproporsi nascite e morti, contingenze storiche e incubi naturali, improvvise narcolessie e mitiche aspettative di amori o quelli dell’attesa senile di Angela Vicario che, per metà della sua vita, scrive una lettera alla settimana al marito che la respinse la prima notte di nozze per motivi d’onore in “Cronaca di una morte annunciata”, si tratta di un tempo unico ed originalissimo, proprio perché, insieme, misurabile e simbolico, non mimetico ed oggettivo né solo interiore e coscienziale ma parossisticamente, quasi narcisisticamente dilatato, con effetti di lucida sospensione o ciclica iterazione di eventi all’apparenza del tutto credibili e concreti. Evidente l’affinità con le proustiane “intermittenze” (differenti tuttavia gli esiti dell’estensione temporale, che nella “Recherche” enfatizza il vissuto, in Márquez l’aspettativa di ciò che si dovrà vivere) ma anche con lo struggente

8

Ibidem. ELISABETTA ABIGNENTE, Quando il tempo si fa lento, l’attesa amorosa nel romanzo del ’900, Carocci, Roma, 2014. 10 JULIO CORTÁZAR, op. cit., p.35. 11 ELISABETTA ABIGNENTE, op. cit. 9


Scrivere oggi. Senza Márquez

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“tempo del deserto”, ipnotico ed angosciosamente cristallizzato in una sorta di immobilità disincantata e paralizzante, ineludibile ricerca/esigenza di identità smarrite ed epifania del Nemico da parte di soldati ed ufficiali della buzzatiana Fortezza Bastiani. E se Florentino Ariza incontrerà, alla fine, la sua Fermina, a Drogo non rimarrà che la forza di un sorriso – dignitoso, coerente, a suo modo eroico – nel finale più emblematico ed aperto del romanzo novecentesco europeo. Un’ultima osservazione. L’autore cui tutti i critici ed i narratori citati in questa prefazione hanno fatto riferimento, più o meno esplicito? Franz Kafka. A quanti hanno avuto la pazienza di leggerci sin qui, intuire perché.


JEAN-BAPTISTE DE LA SALLE

OPERE COMPLETE in 6 volumi, rilegati con sovracoperta, 22 x 15 cm. Prima edizione italiana a cura di SERAFINO BARBAGLIA

1. Scritti Spirituali / 1 Raccolta di vari Trattati brevi – Regole – Scritti personali. Presentazione di A. HOURY – Introduzione di M. SAUVAGE e M.-A. HERMANS, pp. 544.

2. Scritti Spirituali / 2 Meditazioni – Spiegazione del metodo di orazione. Presentazione di J. JOHNSTON, pp. 1194.

3. Scritti Pedagogici Guida delle Scuole cristiane – Regole di buona creanza e di cortesia cristiana. Edizione italiana a cura di R. C. MEOLI, pp. 480.

4. Scritti Catechistici I doveri del cristiano verso Dio. Traduzione e note a cura di G. DI GIOVANNI e I. CARUGNO, pp. 862.

5. Istruzioni e Preghiere Istruzioni e preghiere – Esercizi di pietà – Canti spirituali, Traduzione e note a cura di S. BARBAGLIA e I. CARUGNO. Presentazione di Á. RODRIGUEZ ECHEVERRÍA, pp. 470.

6. Le Lettere Traduzione e note a cura di S. BARBAGLIA. Introduzione di R. L. GUIDI, pp. 560. CITTÀ NUOVA EDITRICE Via degli Scipioni, 265 – 00192 Roma tel. 063216212 – comm.editrice@cittanuova.it Per informazioni e ordinazioni: Viale del Vignola, 56 - 00196 Roma tel. 06.322.94.503 - E-mail: gabriele.pomatto@gmail.com tel. 06.322.94.235 - E-mail: fedoardo@pcn.net


Rivista Lasalliana 81 (2014) 4, 495-503

VALUTARSI PER VALUTARE AUTOANALISI E AUTOVALUTAZIONE DEL DOCENTE MARCO PAOLANTONIO Studi Lasalliani

SOMMARIO: 1. Modello gerarchico delle abilità educanti. - 1.1. Abilità di primo livello. - 1.1.1. - Saper comunicare. - 1.1.2 – Affrontare i problemi. - 1.1.3. – Autocontrollarsi. - 1.2. Abilità di secondo livello. - 1.3. Abilità di terzo livello. - 1.3.1. Far lezione. - 1.3.2. Avvio della lezione. - 1.3.3. Svolgimento della lezione. - 1.3.4. Conclusione della lezione. - 2. L’insegnante ‘etico’. - 2.1. I tratti di un profilo professionale.

1. Modello gerarchico delle abilità educanti Da un capitolo dell’Insegnante di qualità1 di Paolo Meazzini, attingiamo orientamenti metodologici coerenti e proposte operative praticabili, che si possono riferire a tre livelli di abilità/competenze. 1.1. Abilità di primo livello Comunicare - Affrontare i problemi e decidere - Autocontrollarsi Si tratta di quelle abilità che caratterizzano la persona, ancor prima dell’insegnante. In altri termini, sono elementi che dovrebbero essere presenti nell’insegnante prima ancora che intraprenda la sua carriera di ‘mediatore di conoscenze’. La loro assenza, anche se parziale, potrebbe pregiudicare seriamente la sua capacità di raggiungere le finalità educative alle quali è orientata la sua attività. 1.1.1. - Saper comunicare 䊲 Spunti per l’autoanalisi • Qualità del linguaggio: il lessico (anche del testo in uso) è adeguato al gruppo-classe cui è rivolto? • coerenza logica: il collegamento tra i concetti esposti risulta chiaro? (l’interazione verbale con gli uditori è un insostituibile strumento di verifica) • Qualità dei contenuti: il grado di conoscenza che ne ho è superiore a

1

PAOLO MEAZZINI, L’insegnante di qualità. Alle radici psicologiche dell’insegnamento di successo, Edizioni Giunti, 2000.


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PROPOSTE

Marco Paolantonio

quello che espongo agli allievi (e sono quindi in grado di rispondere a eventuali domande di approfondimento e/o di chiarimento senza limitarmi a ripetere termini e formulazioni)? • Comunicazione non verbale: il mio modo di fare (sguardo, movimento delle braccia, postura, posizionamento nell’aula,...) è rilassato e sicuro o incerto e teso? • Struttura della lezione: ho ben previsti i tempi da dedicare alle varie attività (esposizione, interazione verbale per l’attivazione dell’interesse e la verifica della comprensione, eventuali lavori di gruppo, uso di materiali didattici...)? • Disponibilità educativa: sono capace di accettare, e sollecitare, gli interventi degli allievi anche quando sembrano mettere in discussione la mia capacità di comunicare oppure mi adombro e metto a tacere gli ‘importuni’? Sono in grado di far fronte a situazioni impreviste, modificando il progetto di lezione che avevo predisposto? 1.1.2 – Affrontare i problemi 䊲 Spunti per l’autoanalisi • Interazione docente/allievi: gli allievi mi apprezzano come persona (equilibrio, equanimità, disponibilità), e non solo come insegnante? Quali sono le doti che i miei allievi apprezzano maggiormente nei miei colleghi e che potrebbero migliorare la mia azione educativa? • Interazione fra gli allievi: il rapporto tra gli allievi è improntato a reciproco rispetto e disponibile alla collaborazione? Il gruppo-classe è unitario o frazionato? Ci sono leaders positivi/negativi che condizionano o possono condizionare il clima della lezione? se sì, come penso di comportarmi? • Regole e aspettative: esiste un regolamento di classe? È stato discusso e condiviso con i colleghi e gli allievi? Quali forma di intervento prevede? • Coerenza educativa: l’impostazione metodologica è stata progettata e programmata dal consiglio di classe? È attuata e verificata con frequenza? Gli interventi riguardanti regole e comportamento sono concordi? • Partecipazione degli allievi: gli studenti assumono spontaneamente (sono portati ad assumere) un ruolo attivo nel porre domande e fornire risposte? È attuato con frequenza un corretto lavoro di gruppo? 1.1.3. – Autocontrollarsi 䊲 Spunti per l’autoanalisi • Forme dell’ascolto attivo: mi propongo sempre di far corrispondere la mia esposizione all’essenziale del messaggio che intendo comunicare? Mi accerto abitualmente che i segmenti della mia esposizione siano stati capi-


Valutarsi per valutare. Autoanalisi e autovalutazione del docente

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ti, ponendo domande, problematizzando, reiterando i concetti in forma diversa? • Circolazione condivisa del feed-back: sollecito, senza esasperarla o pretenderla, la collaborazione tra gli allievi nei vari momenti dell’apprendimento (ascolto, interventi, conclusioni)? Mi preoccupo che essa avvenga in modo corretto e tra loro rispettoso? • Regole come strumenti di maturazione sociale: quando devo intervenire per stigmatizzare, correggere o reprimere un comportamento, faccio sempre riferimento a una regola conosciuta e condivisa? Evito di trasformare il rimprovero in un conflitto personale? Mi curo di evitare, o mi rendo subito conto che gli interventi disciplinari possano aver creato in classe gruppi antagonisti tra loro o con i docenti? • Concretezza della proposta didattica: programmo la mia esposizione in modo che l’attenzione dell’intero gruppo (o di buona parte di esso) sia sollecitata e tenuta desta? So adattare la comunicazione al grado di attenzione dell’uditorio senza far abitualmente ricorso a rimproveri o atti d’impazienza? Accetto la richiesta di spiegazioni o di ripetizioni senza considerarla un segno di disistima, ma un valido contributo alla comprensione di ciò che intendo esporre? • Le forme di disattenzione: verifico nei vari momenti della lezione il livello di attenzione prestati da tutti gli allievi (o dalla maggior parte di essi)? Cerco di capire le ragioni della mancanza di attenzione (mancanza di preconoscenze, scarsa comprensione del linguaggio, astrattezza od osticità dell’argomento, monotonia dell’esposizione,...)? 1.2. Abilità di secondo livello Programmare i contenuti - Prevedere i tempi, predisporre le attività Si tratta di abilità che non vengono usate nel contatto con l’allievo e il gruppoclasse. Costituiscono, però, un fondamento all’insieme delle altre abilità che possono essere definite terminali o di contatto. 䊲 Spunti per l’autoanalisi • Previsioni di metodo: quale tipo di lezione (frontale ‘classica’, centrata su problemi, sequenziale, comparativa, a tesi) intendo porre in atto? Quali intrecci fra i vari tipi prevedo di stabilire? • Previsioni di contenuti: che cosa sto cercando di fare con questa lezione? Che cosa devono imparare gli studenti dal suo svolgimento? A quali conclusioni intendo farli arrivare? Con che mezzi penso di poter appurare l’apprendimento? • Previsioni di fasi: a) introduzione: quali motivazione al lavoro ritengo più efficaci? in che modo intendo stimolare l’attenzione; b) sviluppo: quali stru-


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PROPOSTE

Marco Paolantonio

menti didattici (testo, illustrazioni, multimedialità) intendo affiancare alla mia esposizione per mantenere in vita l’interesse? quali tipologie di lavoro associato intendo adottare?; c) conclusione: in che modo intendo valutare il grado di comprensione e attivare le eventuali forme di ricupero? 1.3. Abilità di terzo livello Sono le abilità usate dall’insegnante nel contatto diretto col singolo allievo e con il gruppo-classe. Ognuna di esse è articolabile in una serie di sottoabilità. Naturalmente, accanto a queste abilità che costituiscono il nocciolo duro del concetto pedagogico d’insegnamento, spazio rilevante deve essere accordato alle specifiche conoscenze disciplinari possedute dall’insegnante. 1.3.1. Far lezione Il modo più diffuso di far lezione nella scuola secondaria è quello della lezione espositiva.2 Ne elenchiamo volutamente gli aspetti meno eticamente accettabili per stimolare un riesame professionale. 䊲 Spunti per l’autoanalisi La lezione frontale-espositiva diventa oggetto di forti critiche in quanto: • sviluppa esclusivamente le funzioni intellettive; • utilizza prevalentemente il linguaggio verbale; • non considera né il ritmo né la durata della capacità di attenzione degli allievi; • non tiene conto degli interessi, delle curiosità, delle motivazioni degli allievi; • con la comunicazione monodirezionale mantiene gli studenti in uno stato di recettività passiva; • risulta faticosa, per insegnante e allievi, se sviluppata in modo intenso e continuativo; • la sua efficacia è limitata ai primi processi dell’apprendimento, relativi alla percezione e all’acquisizione delle conoscenze, e non considera i successivi processi di assimilazione, di accomodamento, di consolidamento, ecc;

2 I modelli alternativi a quello tradizionale di ‘far lezione’ oppongono alla centralità dell’insegnante 䊳 quella dell’allievo; - alla priorità data ai contenuti da insegnare in modo sistematico 䊳 quella del metodo con cui proporli, partendo dagli interessi (spontanei o indotti) della classe per giungere a sintesi culturali adeguate alle caratteristiche cognitive dei discenti (scuola primaria/scuola secondaria di primo e secondo grado); al lavoro individuale 䊳 quello per gruppi; alla monodisciplinarità del testo 䊳 la multimedialità possibile con i laboratori, a partire da quelli informatici.


Valutarsi per valutare. Autoanalisi e autovalutazione del docente

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• riduce al minimo l’interazione tra l’insegnante e lo studente, e tende ad annullare l’interazione fra gli studenti stessi; • costringe la valutazione al controllo delle capacità mnestiche, ed in particolare alla memoria verbale e riproduttiva; • nega agli allievi la possibilità di contrastare l’informazione ricevuta con proprie riflessioni o con giudizi critici; • si presenta per lo più come ripetizione di ciò che è esposto nei libri di testo, o con fonti bibliografiche accessibili, che possono essere consultate direttamente dagli studenti. Premessa: la dissezione ‘anatomica’ delle varie fasi e di una lezione e delle loro articolazioni ha solo valore illustrativo. Ogni insegnante le conosce, le applica in gran parte o ne esclude alcune a ragion veduta. Vale tuttavia la pena di offrirne una panoramica, che inevitabilmente presenta e ribadisce alcuni degli spunti per l’autoanalisi già offerti. 1.3.2. Avvio della lezione Per ‘catturare’ interesse e attenzione: • determinare il tema della lezione e degli obiettivi: Quale tema o quali temi saranno sviluppati? Quali obiettivi di apprendimento dovranno essere raggiunti al termine della lezione? • individuare, selezionare e condividere i saperi preesistenti: Quali preconoscenze necessarie sono da appurare negli allievi? Quali sono le loro misconoscenze (carenze o stereotipi culturali) più diffuse e radicate sugli argomenti proposti?; come si possono appurare (per mezzo della conversazione o discutendo i risultati di un questionario somministrato preventivamente,...)?; • promuovere la motivazione iniziale: A quali stimoli il gruppo-classe è più disposto (problematizzazione, lavoro di gruppo, uso di mezzi multimediali)? • creare il ‘clima’: Quali sono i comportamenti verbali (tono, pause, uso di un lessico adeguato all’uditorio) che meglio servono per una comunicazione efficace con questo gruppo-classe? Quali sono i comportamenti paraverbali più idonei (atteggiamenti, mimica posizione e postura)? Quali le condizioni ambientali più vantaggiose (disposizione dei banchi, scelta dell’aula o del laboratorio, formazione dei gruppi)? 1.3.3. Svolgimento della lezione Per puntare all’essenziale, creare catene logiche, chiarire temi/concetti/lessico:


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PROPOSTE

Marco Paolantonio

• sviluppo ordinato e coerente dell’argomento: Quali sono i mezzi con cui è resa evidente l’esposizione dei concetti (schemi alla lavagna. paragrafi o illustrazioni del testo, slides alla lavagna luminosa,...)? • transfer delle conoscenze: Con quali esempi o quali analogie si agevola il collegamento dell’argomento proposto sia con le esperienze vissute dagli studenti (transfer esistenziale) sia con temi e concetti precedentemente sviluppati (transfer disciplinare)? • stimolo continuo verso l’obiettivo: In che modo è costantemente monitorata l’attenzione degli allievi (sguardi, atteggiamenti)? Con quali mezzi si superano i momenti di disattenzione o di stanchezza (con richiami e reprimende o con momenti di relax e nuove modalità di procedimento)? • uso formativo della ridondanza: Concetti fondamentali e passaggi logici importanti sono debitamente richiamati, riesposti - magari in termini più efficaci per favorire un’adeguata e personale organizzazione mentale delle conoscenze acquisite? A quali mezzi è possibile ricorrere (termini e codici diversi, esempi, casi, metafore, immagini)? • rinforzi tematici: Per quali elementi della trattazione (concetti, principi, eventi e situazioni) gli allievi dimostrano particolare interesse o, avvertiti come problematici, impongono un approfondimento per rinforzarne l’apprendimento? • feedback parziali: Con quali modalità esplicite (domande aperte, formulazioni problematiche)sono poste in atto osservazioni e controlli sul grado di comprensione? Con quali modalità implicite (dedotte dal comportamento degli allievi: atteggiamento sbadato, sguardo errante,...)? • conclusioni intermedie: Con quali brevi sintesi dei concetti fondanti la lezione sono poste le basi per il loro apprendimento (con ricorso ad appunti, a schemi,...)? Come tali sintesi saranno inserite in quella conclusiva, riguardante l’intera lezione? • uso degli esempi: È abituale e adeguato all’uditorio (alle sue capacità cognitive, esperienziali e linguistiche) il ricorso a citazioni, esempi, analogie, situazioni e casi reali dedotti dall’esperienza o riferibili ad essa? • uso di mezzi didattici: Quali strumenti multimediali sono previsti per confermare e rafforzare (mai per sostituire interamente) l’esposizione dell’insegnante? Insieme con la loro efficacia è chiaro - anche agli allievi – la loro funzione strumentale (mai sostitutiva per un apprendimento significativo)?


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• partecipazione degli studenti: Gli interventi degli studenti sono utilizzati (e sollecitati) produttivamente per rinforzare, chiarire e approfondire aspetti importanti dell’argomento trattato? Sono proposte situazioni problematiche da affrontare e approfondire per conto proprio? Sono previsti esercitazioni, personali o di gruppo, che assicurino la comprensione degli argomenti trattati e possano introdurre quelli successivamente proposti? 1.3.4. Conclusione della lezione Per contestualizzare, riassumere, prevedere (fase fondamentale, spesso trascurata per mancanza di tempo o imprevidenza): • riassunto finale: In quali forme è possibile una sintesi finale (con l’aiuto del testo, schemi già eseguiti da riconsiderare, brevi suggerimenti per produrne in vista di una prossima rilettura)? Quali interrogativi è opportuno formulare per stimolare la curiosità degli studenti in funzione degli argomenti futuri? • controllo finale - assegnazione di esercitazioni: In che modo, e con che mezzi (questionari da completare, esercitazioni da svolgere, letture e approfondimenti da operare) è possibile sondare ulteriormente il livello medio di riconoscimento, comprensione e acquisizione personale dei contenuti proposti? • presentazione di riferimenti anticipati: È possibile (e opportuna) la presentazione a grandi linee del tema o dell’argomento della lezione successiva? È possibile (e opportuno in questo momento) mettere in rilievo i collegamenti concettuali e la progressione di sviluppo con la lezione appena conclusa? • clima finale: Quali sono gli atteggiamenti prevalenti nel gruppo-classe: insoddisfazione per un’attività interessante interrotta; sollievo dovuto al momento della giornata scolastica, alla difficoltà dell’argomento, alla scarsità d’interesse suscitato; indifferente - o preoccupata - attesa della lezione successiva? Quali di questi fattori positivi/negativi sono imputabili a me insegnante (e perciò da iscrivere fra quelli da reiterare/rimuovere in futuro)?

2. L’insegnante ‘etico’ Tra le diverse accezioni che può offrire l’espressione ‘etica professionale’ pare più corretta quella che risponde alla domanda: per quale fine si insegna? I principi a cui ci si dovrebbe ispirare e dai quali dipendono le scelte degli strumenti idonei (= un sapere esperto) sono giustizia e verità. • Giustizia significa saper stabilire un corretto rapporto educativo con il singolo allievo, improntato al rispetto reciproco nella distinzione dei ruoli; saper gestire


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Marco Paolantonio

un potere che non deve trasformarsi in arbitrio; saper improntare la convivenza a principi di vera democrazia¸ saper valutare in modo oggettivo – ma per promuoverle – le capacità individuali (ricche di stimoli le pagine sulla giustizia fra i diversi) ; dar giusto valore a premi e punizioni. Ma è col suo comportamento stesso che l’insegnante si fa agente morale, perché il suo agire – nel bene e nel male – è sicuramente più convincente delle sue parole. • La ricerca della verità è guidata dall’ insieme di valori che l’insegnante persegue e propone in forza della ‘strategicità’ del suo ruolo, ‘che in ultima istanza determina il sapere effettivamente insegnato in classe, assegnando il tempo all’uno o all’altro contenuto, nel lavoro di aula, sia alle priorità attribuite al momento della valutazione di quel che conta ai fini del giudizio, del buon voto per la promozione o della sanzione che può concludersi con la bocciatura. Necessaria dunque, e prioritaria per una moralità professionale, la conoscenza aggiornata di contenuti e di metodi che rendano valida e fruttuosa la sua mediazione didattica. 2.1. I tratti di un profilo professionale I. L’insegnante etico non deve essere ‘perfetto’. Piuttosto deve essere aperto e ricettivo nello sviluppo e nell’arricchimento della sua personale conoscenza etica. Ed inoltre unito agli altri colleghi per far avanzare e incrementare la conoscenza etica collettiva. II. Non c’è un modello uniforme o generale di insegnante etico. Ciascuno è tenuto a interpretarlo a suo modo, nella personale unicità e nella particolarità delle situazioni. E tuttavia i principi di riferimento sono i medesimi, primariamente la giustizia, la benevolenza e il rispetto degli altri. III. L’insegnante etico si comporta con imparzialità anche con gli studenti che sbagliano. Sempre empatico, egli sa bene che non conta solo quello che dice, ed il tono con cui lo dice, ma anche la sua gestualità e lo sguardo servono per incoraggiare ed impegnare gli studenti, come per comunicare loro il suo rispetto e le sue attenzioni. IV. L’insegnante etico si sforza di proteggere i suoi studenti dall’imbarazzo che possono provare davanti ai loro compagni, per i loro difetti fisici come per le loro difficoltà scolastiche. Allo stesso modo rispetta la loro privacy e la dignità loro e delle loro famiglie. Allo stesso modo non tollera meschinità e richiama agli studenti gli imperativi della cura e del rispetto degli altri, compagni e personale scolastico a tutti i livelli. V. L’insegnante etico ritiene un segno di rispetto per gli alunni esamina-


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re attentamente, valutare e restituire prontamente le prove di valutazione con i suoi commenti e giudizi. Il lavoro degli studenti va riconosciuto degno di attenzione come il proprio. VI. L’insegnante etico esamina, soppesa, prende in carico, coscienziosamente e regolarmente, i bisogni dei singoli studenti ed il benessere generale del gruppo-classe. Applica i criteri dell’uguaglianza e dell’imparzialità, escludendo qualsiasi forma di privilegio ed assicurandosi che ciascuno sia certo di essere seguito con la stessa attenzione riservata agli altri. VII. L’insegnante etico sente il bisogno morale di evitare qualsiasi forma di falsità e di inganno, non solo nelle relazioni e negli scambi interpersonali, ma anche nella valutazione degli studenti e nell’insegnamento delle discipline di studio. La scelta dei contenuti e dei material didattici è accurata, anche per quanto concerne la loro valenza morale ed il loro potenziale educativo. Inoltre l’insegnante etico si guarda bene da ogni attivismo a riguardo delle controversie politiche ed ideologiche, imponendo le proprie opinioni agli studenti. E ancora, evita di coinvolgere gli studenti fuori della loro portata, p.e. nel contenzioso che può insorgere per ragioni contrattuali con l’amministrazione scolastica VIII. L’insegnante etico tiene fede agli stessi principi, anche nell’interesse degli studenti, nei rapporti con i colleghi e con tutto lo staff della scuola. Vede la scuola come una comunità che esprime gli stessi valori e non si presta a ignorare e tanto meno a coprire le cattive pratiche dei colleghi nei riguardi degli studenti, ma li denuncia pubblicamente. Inoltre, trova la maniera di discutere con i colleghi i dilemmi morali che possono insorgere e di studiare le alternative che possono servire a migliorare le intese educative per la conduzione collegiale dell’istituto scolastico (E. CAMPBELL, The Ethical Teacher,in L’insegnante etico, E. Damiano, Cittadella Editrice, 2007).



Rivista Lasalliana 81 (2014) 4, 505-524

TÉMOIGNAGE DU CONFLIT JANSÉNISTE À TROYES: LA LETTRE DU F. ÉTIENNE, DIRECTEUR DES FRÈRES DES ÉCOLES CHRÉTIENNES À MGR LANGUET DE GERGY, ARCHEVÊQUE DE SENS MAGALI DEVIF ET PHILIPPE MOULIS1

SOMMAIRE: 1. La présence des Frères à Troyes. - 2. Un contexte national de répression du jansénisme en France. - 3. Les Frères face à la querelle janséniste. - 4. Troyes, un diocèse refuge pour les jansénistes? - 5. Mgr Languet de Gergy, archevêque antijanséniste de la province ecclésiastique de Sens.

L

a Bibliothèque municipale de Sens a conservé dans la collection Languet de Gergy, t. XXXI, 4m, une lettre datée de 1731. Ce document, écrit par Fr. Étienne, alors directeur de la Maison des Frères des Écoles chrétiennes de Troyes, et destiné à Mgr Languet de Gergy, archevêque de Sens, évoque la querelle qu’a suscitée la bulle Unigenitus en France et en particulier dans le diocèse de Troyes. Rédigée par ce Frère, cette lettre retranscrit l’atmosphère pesante qui pouvait régner dans le diocèse. Reflet du conflit janséniste qui touchait alors le royaume de France, le texte s’arrête plus particulièrement sur le combat idéologique mené entre l’archevêque de Sens, Mgr Languet de Gergy et l’évêque de Troyes, Mgr Bossuet. Les Frères, présents à Troyes depuis de nombreuses années, ont subi, bien malgré eux les répercussions de cette crise.

1. La présence des Frères à Troyes L’implantation des Frères à Troyes a lieu en août 1703 grâce à l’appui de plusieurs personnalités: François Bouthillier de Chavigny, évêque de Troyes de 1678 à 1697 puis son neveu Denis-François de 1697 à 1716 - qui souhaitaient tous deux encourager l’instruction des enfants pauvres - et M. Lebey, curé de la paroisse de Saint-Nizier.2 Ce dernier reçoit, par legs de Mlle de Gal-

1

Magali Devif, directrice des Archives lasalliennes à Lyon et Philippe Moulis, Université de Paris 13, Sorbonne Paris Cité, CRESC (E. A. 2356). 2 Nous rappelons ici seulement les grandes lignes, pour plus de détails voir: Yves POUTET, Le XVIIe siècle et les origines lasalliennes, tome II: L’expansion (1688-1719), Rennes, Imprimeries réunies, 1970, p.164-172.


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RICERCHE

Magali Devif et Philippe Moulis

met veuve de M. de Launay, une rente de 200 livres pour établir une école de charité. Il prend contact directement avec Jean-Baptiste de La Salle qui lui envoie deux Frères pour faire la classe. Ceux-ci sont logés au presbytère jusqu’en juillet 1710, date du décès de M. Lebey. Son successeur ayant besoin des locaux, les Frères doivent trouver un nouveau logement, ce qui ne fut pas chose aisée. Ils trouvent cependant une maison dans la paroisse SaintJean. En 1719, la communauté s’installe dans la maison dite du Petit Larrivour que le Frère Thomas (Charles Frappet), alors directeur, loue à M. de Rozières.3 L’année suivante marque un tournant pour les Frères, sous l’impulsion du Père Chantereau, célèbre prédicateur de l’Oratoire, et avec l’appui de Mgr Jacques-Bénigne Bossuet,4 évêque de Troyes de 1716 à 1742, deux nouvelles écoles voient le jour: une sur la paroisse de Saint-Jean et l’autre sur la paroisse de Sainte-Madeleine. Les Frères sont alors au nombre de sept, deux pour chaque école paroissiale et un pour le temporel. Les Frères rencontrent, au fil des ans, quelques difficultés financières: les bienfaiteurs viennent à manquer et les rentes permettent tout juste de vivre, ce qui les oblige

3

«Le 25 août 1719 fut passé par devant notaire le bail ci-après, entre Jean-Baptiste de Rozières marchand de bois et Charles Frappet dit frère Thomas, 1er des Frères de la maison des Écoles chrétiennes de Troyes, y demeurant, pour en jouir pendant trois, six ou neuf années, à partir du jour de saint Jean-Baptiste. Ladite maison, dite du petit Larrivour, consistait en trois chambres en bas, trois chambres au-dessus, chapelle publique y attenant, grenier dessus, cave dessous, galerie faisant façade à ladite maison sur le jardin; ledit jardin clos de murs donnant sur la Seine, et vignes en icelles etc. Ledit bail était fait moyennant la somme de 60 livres par an.», copie manuscrite, Archives lasalliennes Lyon, boîte Troyes Saint-Pierre (C412); Y. POUTET, op.cit., p.171. 4 Transcription de la copie manuscrite de l’ordonnance, Archives lasalliennes Lyon, boîte Troyes Saint-Pierre (C412). Le document original est conservé aux Archives départementales de l’Aube comme indiqué dans la copie manuscrite. Ordonnance de Monseigneur Bénigne Bossuet, évêque de Troyes Nous Jacques Bénigne Bossuet, par la permission divine, évêque de Troyes. Sur l’avis qui nous a été donné par nos vicaires généraux que dans l’assemblée générale qui a été tenue dans la ville de Troyes le 1er juillet de la présente année, il a été résolu, sous notre bon plaisir et pour le bien public d’établir deux nouvelles écoles, pour les enfants de ladite ville de Troyes, qui seront tenues par les Frères des Écoles chrétiennes qui sont déjà chargés d’en tenir une sur la paroisse Saint-Nizier de ladite ville ; Savoir l’une sur la paroisse de Sainte-Magdeleine, et l’autre sur celle de Saint-Jean, et que pour cet effet, les deux Frères des Écoles chrétiennes seront obligés de faire venir quatre autres Frères de leur communauté* pour lesdites nouvelles écoles, avec un Frère pour avoir soin de préparer ce qui leur est nécessaire pour leur subsistance, en sorte qu’ils seront au nombre de sept demeurant dans la même communauté. Nous souhaitons de tout notre cœur, autoriser une œuvre aussi bonne et aussi utile pour l’instruction de la jeunesse… Nous approuvons ledit établissement et nous permettons auxdits Frères des Écoles chrétiennes de tenir lesdites écoles sur lesdites paroisses ci-dessus nommées de ladite ville de Troyes. Fait à Paris en notre hôtel, le 24 juillet 1720. Signé: Jacques, évêque de Troyes.*(Nous pensons que le 5e est arrivé peu après).


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à aller quêter auprès des familles. Les locaux où ils vivent ne leur appartenant pas, leur situation devient très précaire. Il faut attendre l’année 1741 pour qu’enfin ils puissent acheter une demeure, grâce au versement de 400 livres du Frère Timothée, Supérieur général. Cette maison, achetée à Mlle Victory par le Frère Narcisse, était située au bout de la rue du Grand-CloîtreSaint-Pierre, appelée alors, rue des Trois-Cochons. Elle fut la résidence de la communauté jusqu’en 1792. En 1731, Frère Étienne, Directeur des Frères des Écoles Chrétiennes de Troyes écrit une lettre à l’archevêque de Sens, dans laquelle il évoque la querelle que suscite la bulle Unigenitus.

2. Un contexte national de répression du jansénisme en France En septembre 1713, la bulle Unigenitus condamne 101 propositions extraites du livre du chef de file de la dissidence janséniste, Pasquier Quesnel, intitulé: le Nouveau Testament en français accompagné de Réflexions morales.5 Louis XIV réunit les quarante évêques présents à Paris au mois d’octobre sous la présidence du cardinal, archevêque de Paris, Louis-Antoine de Noailles. L’Assemblée est partagée et quelques évêques refusent l’acceptation, pure et simple, de la bulle sans que le pape Clément XI n’explique les condamnations. Pour les prélats récalcitrants, la bulle outrepasse les droits du Saint-Père en France et porte atteinte aux libertés de l’Église gallicane. À la mort du roi, le Régent est conciliant avec les contestataires et adopte la position des évêques gallicans. Aucune des nominations épiscopales faites à Paris n’est avalisée à Rome. C’est seulement après un combat de deux ans que le Régent obtient la victoire sur le pape qui octroie enfin les bulles d’investiture canonique. Toutefois en 1717, la rupture est consommée. Quatre évêques, MM. de Montpellier (Mgr Colbert), de Mirepoix (Mgr de La Broue), de Boulogne (Mgr de Langle) et de Senez (Mgr Soanen) appellent à un futur concile général de la bulle Unigenitus. Peu après, la Sorbonne adhère à l’appel, ainsi que douze autres évêques dont le cardinal de Noailles lui-même. «Le Régent impose dès lors le «silence respectueux» aux protagonistes de l’affaire et espère voir les tensions se calmer en proposant la rédaction d’un corps de doctrine chargé de préciser le sens des propositions condamnées par la bulle. Les rédacteurs de ce nouveau texte forment un triumvirat

5 Pasquier Quesnel, Le Nouveau Testament en français avec des Réflexions Morales sur chaque verset pour en rendre la lecture plus utile et la méditation plus aisée, Paris, augmenté et réimprimé plusieurs fois de 1668 à 1706. À cette date, l’ouvrage contient quatre volumes. Il est condamné, le 13 juillet 1708, par le pape Clément XI


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improbable composé, pour les appelants du cardinal de Noailles, pour les constitutionnaires le cardinal de Bissy, évêque de Meaux et le cardinal de Rohan, prince évêque de Strasbourg. Noailles finit par accepter l’Accommodement le 3 mars 1720».6 Pour le Régent, la querelle de l’Unigenitus est finie. À Troyes, l’évêque Jacques-Bénigne Bossuet, reçoit l’accommodement mais refuse catégoriquement de recevoir la Constitution. Dans une lettre commune au Régent, Mgr Bossuet et sept de ses confrères refusent d’être intégrés dans le nombre des purs accommodants. En septembre 1720, les quatre évêques renouvèlent leur Appel et rejettent l’accommodement: Acte d’appel de Messeigneurs les évêques de Mirepoix, de Senez, de Montpellier et de Boulogne; par lequel ils renouvellent et confirment les appels par eux interjetés le 1er Mars 1717 de la constitution de N. S. P. le pape Clément XI qui commence par ces mots: Unigenitus Dei Filius et au mois d’Avril 1719 des lettres Pastoralis officii: et protestent de nullité contre tout ce qui aurait été fait ou pourrait l’être, tendant à infirmer les dits appels. Le 3 décembre, les efforts du Régent et du ministre Dubois permettent d’obtenir du Parlement l’enregistrement des lettres patentes et de la Déclaration du roi concernant l’accommodement relatif à la constitution Unigenitus qui devient loi du royaume. Un arrêt du Conseil d’État du 31 décembre supprime le mandement des quatre évêques appelants et le nouvel acte d’appel qui y était joint.7 En février 1724, l’évêque de Fréjus, directeur des affaires ecclésiastiques, encouragé par de nombreux évêques, conçoit un projet de déclaration concernant la juridiction des évêques et appelants qui seraient privés de leurs bénéfices et déclarés inhabiles à les posséder s’ils s’obstinaient à ne pas se soumettre.8 Ce bref obtenu de Rome «donnait aux évêques appelants et à leurs adhérents un temps préfix au bout duquel le pape déclarait qu’ils auraient encouru l’excommunication portée tant par la bulle Unigenitus que par les lettres Pastoralis Officii, s’ils refusaient d’y donner leur adhésion». Le duc de Bourbon, «dans la crainte de mettre tout le royaume en combustion», refuse de publier le bref sous l’autorité royale. Lors de l’Assemblée du Clergé de 1725, le sort des évêques récalcitrants est évoqué, notamment celui de l’évêque de Bayeux et celui de l’évêque de

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Olivier ANDURAND, «Mgr Jacques-Bénigne Bossuet, évêque de Troyes (1716-1742), champion du jansénisme?», dans Séverine Daroussat [dir.], Troyes et la Champagne méridionale entre absolutisme et Lumières: un pays à l’épreuve de la modernité (à paraître). 7 A. D. Pas-de-Calais, 62 J: Arrest du conseil d’Estat du Roy, qui ordonne la suppression de trois mandemens donnez par les Srs evesques de Senez, de Montpellier Charles-Joachim & de Boulogne, & des actes qui y sont joint, 31 décembre 1720, Paris, 1721, 4 pages. 8 G. CHAUSSINAND-NOGARET, Le cardinal de Fleury. Le Richelieu de Louis XV, Paris, Payot, 2002, p. 141-159.


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Montpellier. On songe à convoquer des conciles provinciaux à Rouen et à Narbonne, mais le renom et le lignage des évêques concernés font reculer les membres de l’Assemblée. Par contre, Jean Soanen, évêque de Senez, n’est pas issu d’une puissante famille. Il va devenir la cible idéale. De 1726 à 1730, la politique nationale relative à la bulle Unigenitus du cardinal de Fleury est draconienne. Des milliers de lettres de cachet contraignent au silence les ecclésiastiques opposants.9 La stratégie du cardinal consiste à tarir le recrutement des clercs jansénistes en imposant la signature pure et simple du Formulaire. Cette démarche éloigne de fait ces derniers de l’épiscopat et du sacerdoce.10 Le «Brigandage d’Embrun» amplifie la répression envers les jansénistes. L’assemblée, voulue par le cardinal de Fleury, a pour objectif de mettre un terme au mouvement de contestation. Les prélats de la province ecclésiastique d’Embrun se réunissent en août 1727 et déposent Mgr Soanen, évêque de Senez. Douze évêques écrivent au roi pour dénoncer le jugement rendu à Embrun: Lettre des XII Evêques au Roi pour la défense de M. l’Evêque de Senez condamné par le Saint Concile d’Ambrun. Octobre 1727.11 L’année 1728 sonne le glas de la résistance religieuse à la Constitution romaine. En mai 1728, une déclaration royale établit des peines «contre les auteurs de libelles et écrits qui attaqueraient les Bulles reçues dans le royaume et s’écarteraient du respect dû au pape et aux évêques». Une seconde déclaration, en date du 29 mai, interdit: «d’imprimer, sans permission, tout ce qui peut avoir trait à la Bulle, à la religion, sous le titre Mémoire ou de Nouvelles ecclésiastiques»; la peine du bannissement est réservée aux auteurs.12 Le concile d’Embrun impressionne tellement le cardinal de Noailles, que ce dernier, donne, en octobre 1728, son mandement d’acceptation pure et simple de la bulle.13 Le cardinal Fleury prend une mesure générale destinée à écraser toute opposition. Le 24 mars 1730, une déclaration royale fait de la bulle Unigeni-

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Selon l’estimation des Nouvelles ecclésiastiques, 600 ordres de lettres de cachet, concernant 879 personnes, sont parties de la Cour sous le ministre Fleury de juillet 1726 à 1731; Catherine MAIRE, De la cause de Dieu à la cause de Nation. Le jansénisme au XVIIIe siècle, Paris, Gallimard, 1998, p. 121-122. 10 E. PRÉCLIN, Les Jansénistes du XVIIIe siècle et la Constitution civile du Clergé. Le développement du richérisme. Sa propagation dans le Bas Clergé (1713-1791), Paris, Gamber, 1929, p. 118. Les douze signataires sont: le cardinal de Noailles, archevêque de Paris, les évêques d’Auxerre, d’Angoulême, de Bayeux, de Castres, de Mâcon, de Montauban, de Montpellier, de Rodez, de Troyes et l’ancien évêque de Tournai. 12 Georges HARDY, Le cardinal de Fleury et le mouvement janséniste, Paris, Honoré Champion, 1925, p. 100-101. 13 Catherine MAIRE, op. cit., p. 111-112. 11


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tus une loi d’État comme une loi de l’Église. Les déclarations sur le formulaire et en partie l’édit de 1665 sont renouvelés. L’article I stipule que les bénéfices des ecclésiastiques qui n’ont pas signé purement et simplement le Formulaire seront réputés vacants. En vertu de l’article V, les évêques ne doivent admettre aux saints ordres et aux bénéfices aucuns réappelants, ou auteurs de brochures contre la Bulle. L’article VI interdit au Parlement d’accueillir les appels comme d’abus qui ont pour origine le refus de signature du Formulaire ou l’opposition à la Constitution.14 C’est dans ce contexte que Fr. Étienne écrit à Mgr Languet de Gergy:15 À Troyes, ce 7e novembre 1731, Monseigneur, Les catholiques de cette ville se servent de ma plume pour vous donner avis que l’ouvrage, dont Mgr notre évêque vous a menacé, est sur le métier de M. l’abbé Duguet, qu’il y travaille fortement.16 Cet abbé est sans doute connu de votre grandeur, il y a quelques années que caché sous un nom de guerre, il animait ici tout le parti auquel il faisait des conférences sur la bonne doctrine, mais il prit l’alarme sur certaines nouvelles qu’il reçut de Paris, lesquelles lui firent appréhender la Bastille, il se sauva à Utrecht, où l’air trop rude pour sa constitution et son grand âge lui

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E. PRÉCLIN, op. cit., p. 129; DUFRESNE de CHAUVINIÈRE, Les nouvelles ecclésiastiques et la bulle Unigenitus, Maîtrise d’Histoire de l’Université de Paris I, 1953, p. 61-62. 15 Les informations relatives à Frère Étienne (Jean Perotin) sont lacunaires. Il est né le 28 février 1688 à Termes (département des Ardennes) dans le diocèse de Reims, il est entré dans la Société le 17 juillet 1712, il fait vœu pour toujours. En 1716, il enseigne à Saint-Yon. En 1720, il est à Chartres, puis devient Directeur des Frères des Écoles Chrétiennes de cette ville. Au Chapitre général de 1734, il est élu Second assistant du Frère Supérieur général. En 1745, il devient Premier Assistant. Il démissionne l’année suivante pour raison de santé. Il meurt à Reims le 4 octobre 1752. Son passage à Troyes n’est pas signalé par ces biographes. Georges RIGAULT, Histoire générale de l’Institut des Frères des Écoles chrétiennes, Paris, Plon, 1937-1938, t. 406 et t. 2, p. 108, 149-150, 186, 243 et 318. 16 Jacques-Joseph Duguet (1649-1733), oratorien, fut professeur de théologie au séminaire oratorien de Saint-Magloire à Paris. En raison de ses opinions jansénistes, il fut envoyé, en 1682, à Strasbourg. Il refusa de signer le Formulaire et quitta l’Oratoire en 1685. Il rejoignit, à Bruxelles, Antoine Arnauld et Pasquier Quesnel. Opposant à la bulle Unigenitus il se retira en Savoie. De retour à Paris, il mena une vie de semi-clandestinité et d’exil. Il collabora aux Nouvelles ecclésiastiques. On lui doit entre autres textes: Institution d’un prince qui est considéré comme l’une de ses œuvres fondamentales. Voir Monique COTTRET, «La Querelle janséniste», dans Histoire du Christianisme, tome IX, «L’âge de raison 1620-1750», Marc VENARD [dir.], Paris, Desclée, 1997, p. 389-390 et dans J. LESAULNIER et A. McKENNA, op. cit., p. 622-623.


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firent solliciter son retour en France, sous la promesse sans doute qu’il n’écrirait rien en faveur du parti. Voilà cependant qu’il se promet de fronder votre grandeur, sous la protection et le nom de votre suffragant. Si vous le trouvez bon, j’aurai l’honneur de vous informer de ce qui se passera en cas que quelques nouvelles viennent jusqu’à moi, et qui touchera la saine doctrine. Votre dernier ouvrage est chéri et estimé de tous les catholiques, et si le pouvoir nous l’eut permis nous nous serions fait un plaisir de le répandre secrètement, à cause que Mgr notre évêque aide à notre subsistance par une somme de cent livres qu’il nous donne annuellement, et que notre petit revenu qui ne montait qu’à huit cent livres, pour sept que nous sommes, est diminué cette année de plus cent écus, par la mort de plusieurs de nos bienfaiteurs, qui est arrivée depuis peu, et nous sommes d’autant plus embarrassés que gens du parti nous persécutent secrètement et qu’ils ont empêché depuis Pâques que nous ayons des chambres pour faire les écoles dans un des quartiers de la ville, et que nous avons été obligé de louer nousmêmes, des greniers pour y instruire, mais ils ont encore si bien fait en sorte que nous serons obligés d’en sortir sans savoir où nous pourrons aller. Ils font semblant de s’en mettre en peine mais ce que pour être plus à couvert et éviter des reproches. Je suis ravi d’avoir cette occasion pour vous présenter mes très humbles respects, au nom de notre communauté et que je suis parfaitement de votre grandeur, Monseigneur, le très humble et très obéissant serviteur. Frère Estienne, directeur des frères et des écoles chrétiennes de Troyes.17

Ce document met bien en lumière les tensions existantes, les forces en présence et surtout la situation délicate des Frères. Leur position vis-à-vis de la nouvelle doctrine a toujours été très claire et reste conforme aux décisions et directives de l’Institut.

3. Les Frères face à la querelle janséniste Les Frères des Écoles Chrétiennes de Troyes, depuis leur installation en 1703, sont appréciés par la population et par les autorités ecclésiastiques. Leur rôle auprès des enfants est souvent cité en exemple. En atteste, ce certificat daté du 12 décembre 1712 de l’évêque Mgr Denis-François Bouthillier de Chavgny: Nous, Denis François Bouthillier de Chavigny, par la miséricorde de Dieu et par la grâce du Saint-Siège apostolique, évêque de Troyes, certifions à tous ceux qu’il appartiendra qu’il y a en cette ville des Écoles chrétiennes établies depuis plusieurs années, lesquelles sont tenues par des Frères de la doctrine chrétienne de la conduite desquels nous sommes très contents, tant pour leur doctrine chrétienne, la lecture, l’écriture et autres choses nécessaires à leur éducation, ce qui est d’une grande res-

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Bibliothèque municipale de Sens, collection Languet de Gergy, t. XXXI, 4m.


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source, et est très utile aux pauvres enfants de cette ville. En témoignage de quoi nous avons signé les présentes, icelles fait sceller du sceau de nos armes, et contresigner par notre secrétaire. Fait à Troyes, en notre palais épiscopal, le douzième jour du mois de décembre mil sept cent douze. Signé: D. François, évêque de Troyes, par Monseigneur, Jacquot.18

Deux autres attestions de même nature sont rédigées par Mgrs Bouthillier de Chavigny en 1722, l’une de Denis-François, alors archevêque de Sens, et l’autre de son oncle, François, ancien évêque de Troyes.19 L’ordonnance de Mgr Bossuet, pour la fondation de nouvelles écoles en 1720, et l’attestation signée par Mgr Languet de Gergy, archevêque de Sens en 1722 montrent bien les faveurs obtenues auprès des responsables ecclésiastiques du diocèse.20 La communauté ecclésiastique de la ville exprime aussi sa reconnaissance par le certificat délivré en 1722: Les grands biens que produit sous nos yeux dans toutes les paroisses de cette ville, l’instruction des enfants pauvres par les Frères des Écoles chrétiennes tant pour les bonnes Mœurs que pour leur apprendre gratuitement à lire, à écrire, avec l’arithmétique, etc.; nous ont toujours fait regarder ce pieux établissement comme nécessaire au troupeau que le Seigneur nous a confié, pour bannir l’ignorance et le vice du petit peuple […] Car d’ordinaire, ils ont leur source dans la pauvreté des parents qui n’ayant pas le moyen de faire instruire leurs enfants par des maîtres qui les forment de bonne heure aux principes de la piété et les rendent capables de s’instruire eux-mêmes de plus en plus par la lecture, ils sont obligés de les abandonner à leurs inclinations dans une longue oisiveté; ainsi, ils croissent et vieillissent dans le libertinage et l’irreligion qui se communiquent des pères aux fils et infectent toutes les basses conditions des gens de métiers. Les écoles chrétiennes remédient à tous ces maux. L’enfance, y trouve de quoy s’occuper utilement, les pauvres s’y instruisent sans frais, ils se forment et se plient dès l’âge le plus tendre à la pratique de leurs devoirs, en sorte que, devenus grands dans la suite et pères de famille, ils sont en état de la gouverner avec sagesse et de laisser à leurs enfants une bonne instruction, comme le plus précieux héritage. De ces écoles sortent des domestiques fidèles, des artisans de bonne foy. On bannit la grossièreté de la populace, et chacun est capable de sanctifier, par de bonnes lectures, les fêtes et les dimanches, que passent dans l’oisiveté et la débauche, après les offices de l’Église, ceux qui n’ont aucune teinture des lettres. Ce serait donc une chose très préjudiciable à toutes les paroisses de laisser tomber une œuvre si sainte faute de revenus.

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Y. POUTET, op. cit., p.169. Frère Maurice-Auguste (Alphonse HERMANS), «L’institut des Frères des Écoles chrétiennes à la recherche de son statut canonique: des origines (1679) à la Bulle de Benoît XIII (1725)», Cahiers Lasalliens n°11, Rome, Maison Saint-Jean-Baptiste de La Salle, 1962, p. 381. 20 Ibid., p. 382. 19


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Ainsi nous conjurons tous les bons citoyens qui s’intéressent à la Gloire de Dieu et à l’avantage de leur patrie de soutenir de tous leurs pouvoirs la pauvre communauté de ces bons Frères dont les services produisent des fruits merveilleux, selon l’expérience que nous en faisons continuellement. En foy de quoy nous avons signé ce présent certificat à Troyes ce janvier 1722.21

Malgré tous ces écrits favorables aux Frères, réalisés quelques années auparavant, la lettre du Frère Étienne laisse apparaître les tensions qui existaient alors dans le diocèse entre les deux prélats. Cette supplique transmise à l’archevêque de Sens montre la situation délicate où les Frères se trouvent : tiraillés entre leur soumission à l’évêque d’un côté et par leur obéissance à l’Église catholique et aux règles de l’Institut de l’autre. La réaction du Frère Étienne qui s’exprime au nom de catholiques locaux, n’est pas habituelle. Rappelons d’abord que la correspondance est très réglementée dans la congrégation que ce soit pour les simples Frères de la communauté ou pour leur directeur.22 Celui-ci a dû, comme on le suppose, évoquer au préalable cette situation auprès du Supérieur général auquel il doit se référer.23 Mais la position instable a pu obliger le Frère directeur à prévenir Mgr Languet de Gergy sans en demander l’autorisation car il le savait en accord avec les convictions de l’Institut. Il semble de cette façon vouloir montrer son obéissance à l’archevêque et surtout chercher un appui auprès de cet antijanséniste notoire. D’autre part, les Frères des Écoles Chrétiennes, mis en porte-à-faux entre l’évêque et l’archevêque pour les questions doctrinales, n’avaient pas à intervenir sur le sujet. Les règles communes des Frères l’expliquent clairement: Ils ne se mêleront d’aucune affaire temporelle et ils n’en entreprendront aucune spirituelle, qu’elle ne soit selon l’esprit et la fin de l’Institut; c’est à quoi les frères Directeurs auront un très grand égard.24

La mission des Frères des Écoles Chrétiennes est avant tout d’enseigner aux enfants pauvres de la ville. Ils leur étaient interdits d’évoquer les ques-

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Copie manuscrite, Archives lasalliennes Lyon, boîte Troyes Saint-Pierre (C412). Cf. FD 1,38 (Règle du Frère Directeur d’une Maison de l’Institut, chapitre 1, article 38): «Il n’écrira aucune lettre qu’elle ne soit nécessaire, et n’en écrira pas même à aucun Frère ni à qui que ce soit, excepté au Frère qui sera chargé de pourvoir aux habits, sans l’ordre ou la permission du Frère Supérieur de l’Institut.» 23 Cf. FD 1,3: «Le Frère Directeur de chaque maison sera dépendant du Frère Supérieur de l’Institut, ne faisant rien d’extraordinaire que par ses ordres ni rien que par soumission à son égard.» 24 Cf. RC 14,10 (Règles communes des FEC, chapitre 14: De la manière dont les frères doivent se comporter avec les personnes externes, article 10.) 22


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tions de religion, ils n’étaient d’ailleurs pas formés à cela. De plus, l’Institut s’est toujours conformé à la position du Fondateur sur ce point, à savoir son attachement indéfectible au pape et à l’Église catholique romaine.25 Régulièrement, lors des Chapitres généraux, les Frères réaffirment cette position comme en 1725 où «les Capitulants dressèrent un acte par lequel ils promirent à Dieu et à N.S.P. le Pape, tant pour eux que pour tout le Corps de l’Institut, de maintenir la Règle dans sa force et vigueur, à perpétuité, et d’avoir toujours une entière obéissance et soumission à l’Église catholique, apostolique et romaine, suivant la dernière volonté de M. de la Salle, leur digne Instituteur.». De même en 1745 où les décisions du Chapitre général se font plus radicales.26 Est-ce les persécutions subies par les Frères dans différentes villes (Boulogne, Calais, Troyes, Marseille…) qui ont amené les Chapitres successifs à prendre de tels arrêtés? Tout porte à le croire.

4. Troyes, un diocèse refuge pour les jansénistes? Le prélat auquel fait référence Fr. Étienne dans sa lettre à l’archevêque de Sens est Jacques-Bénigne Bossuet (1664-1743), évêque de Troyes de 1716 à 1742. Il est le neveu du Grand Bossuet, évêque de Meaux de 1681 à 1704. Proche des évêques de Montpellier et Senez, il signe avec d’autres prélats une lettre de soutien à Mgr de Soanen, condamné par le concile d’Embrun de 1727.27 Fervent défenseur de l’augustinisme, l’évêque de Troyes publie plu-

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J.-B. de La Salle, dans des Méditations qui ne seront imprimées qu’après sa mort, met les Frères en garde contre les personnes qui contredisent la doctrine du Christ: «Il y en a qui ont peu de respect pour les décisions de l’Église, il y en a quelquefois qui se mêlent de raisonner sur les matières de la Prédestination et de la Grâce, sur lesquelles ceux qui ne sont pas savants doivent ne jamais dire un seul mot, parce qu’elles sont au-dessus de leur portée et, si quelqu’un leur en parle, ils n’ont alors autre chose à répondre, sinon en général : Je crois ce que l’Église croit. […]. Laissons aux savants les disputes savantes, laissons-leur le soin de réfuter les hérésies et de confondre les hérétiques; mais, pour nous, ne parlons que de la doctrine commune de Jésus-Christ, et ne prenons pour pratique de suivre en tout ce que l’Église enseigne aux fidèles dans les catéchismes qu’elle approuve, c’est-à-dire dans les catéchismes dressés ou adoptés par les évêques unis au Vicaire Général de Jésus-Christ, et ne prenons jamais la liberté de dogmatiser, sur les difficultés de la religion»; dans Jean-Baptiste de La Salle, Méditations 5,1 Pour le Dimanche dans l’octave de Noël (1er point). 26 «III. Toutes les maisons de l’Institut feront en sorte d’avoir le livre intitulé la Bibliothèque janséniste, en deux volumes, afin de connaître les livres défendus. IV. On ne se servira plus, dans nos maisons, du Catéchisme de Montpellier, par Colbert, parce qu’il contient des propositions jansénistes», dans Chapitres généraux de l’Institut des Frères des Écoles chrétiennes, historique et décisions, Paris, Maison-Mère, 1902, p. 22. 27 Lettre des XII Evêques au Roi pour la défense de M. l’Evêque de Senez condamné par le Saint Concile d’Ambrun. Octobre 1727. Les douze signataires sont: le cardinal de Noailles, archevêque de


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sieurs mandements, notamment contre la Légende de Grégoire VII. Le pape Benoît XIII décide d’intégrer au Bréviaire romain la légende de Grégoire VII, pape qui a déposé l’empereur germanique Henri IV, et qui fait figure en France de modèle de pape théocrate prétendant imposer son pouvoir aux rois de la terre. Les gallicans et les jansénistes y voient une attaque contre les maximes du Royaume et l’indépendance de la France. Avec les évêques d’Auxerre, de Montpellier, de Castres et de Metz, Mgr Bossuet condamne la légende de Grégoire VII par un mandement, daté du 25 septembre 1729: Mandement et instruction pastorale de monseigneur l’évêque de Troyes. Au sujet d’un office imprimé sur une feüille volante, qui commence par ces mots Die xxv. maii, in festo S. Gregorii VII.28 Il publie, pour la défense du jansénisme, des textes inédits de son oncle.29 Diocèse refuge pour les jansénistes persécutés, l’évêque de Troyes les y accueille et leur confie des bénéfices ecclésiastiques ou des fonctions importantes au sein de l’évêché.30 Un contemporain de Mgr Bossuet a écrit: [Le prélat] en usait pour les chaires comme pour les bénéfices. Il ne les donnait point à ceux qui les demandaient pour eux même et il n’en accordait aucune à la simple recommandation de qui que ce fut; mais il s’informait avec soin du mérite des Prédicateurs et il n’en prenait aucun dont il ne croit être assuré.31

De nombreuses personnalités du mouvement janséniste trouvent asiles auprès de l’évêque troyen. L’abbé Boursier, par exemple, a une influence importante sur les directeurs du séminaire diocésain.32 Nicolas Legros,33 Paris, les évêques de Mâcon, d’Angoulême, de Montpellier, de Montauban, d’Auxerre, de Castres, de Blois, de Rodez, de Troyes, de Bayeux et l’ancien évêque de Tournai. 28 Chez Charles Osmond, 1729. 29 Élévations à Dieu sur tous les mystères de la religion chrétienne, ouvrage posthume de messire Jacques-Bénigne Bossuet,... publie � par J.-B. Bossuet, évêque de Troyes, Paris, J. Mariette, 1727. 30 Olivier ANDURAND, Roma autem locuta. Les évêques de France face à l’Unigenitus. Ecclésiologie, pastorale et politique dans la première moitié du XVIIIe siècle, thèse de doctorat d’histoire sous la direction du Pr. Monique Cottret, Université Paris-Ouest, Nanterre La Défense, 2013, t. 3, p. 39. 31 Dans Vie de messire Jacques-Bénigne Bossuet, évêque de Troyes Bibliothèque Nationale de France (désormais B.N.F.), ms. fr. 11431, fol. 26. Le texte a été publié par Ernest JOVY, Une biographie inédite de J.-B. Bossuet, Vitry-le-François, Tavernier, 1901. Nous utilisons le document de la B.N.F. 32 François-Laurent Boursier (1679-1749). Prêtre et docteur en théologie, il est connu pour ses traités théologiques et pour ses œuvres de controverses comme Les Hexaples ou les six colonnes sur la constitution Unigenitus, Amsterdam, 1714-1721, 7 vol. in-4. 33 Nicolas Le Gros (1675-1751), docteur en théologie et chanoine de Reims, il est connu en particulier pour son traité ecclésiologique: Du renversement des libertez de l’Église gallicane dans l’affaire de la Constitution Unigenitus, dans Dictionnaire de Port-Royal, élaboré sous la direction de Jean LESAULNIER et Antony McKENNA, Paris, Honoré Champion, 2004, p. 362-365.


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Jacques-Joseph Duguet34 (cité dans la lettre de Fr. Etienne) et surtout Nicolas Petitpied font partie du nombre. Olivier Andurand écrit au sujet de ce dernier: «Proche de Quesnel, dont il partage l’exil hollandais à partir de 1706, il revient à Paris sous la Régence […]. C’est une plume bien connue de la propagande janséniste et Bossuet le sait et utilise ses talents. Petitpied est le rédacteur des textes de l’évêque lors de la querelle sur le Missel de Troyes, témoignage de la confiance dont jouissait cet ecclésiastique auprès du prélat et plus largement de celle accordée aux prêtres anticonstitutionnaires dans le diocèse».35 Il est en conflit avec son métropolitain, Mgr Languet de Gergy.

5. Mgr Languet de Gergy, archevêque antijanséniste de la province ecclésiastique de Sens La mort, le 9 novembre 1730, de Denis-François Bouthillier de Chavigny (1665-1730), archevêque de Sens depuis 1716 et la nomination d’un antijansénisme notoire, Mgr Jean-Joseph Languet de Gergy (1677-1753), évêque de Soissons de 1715 à 1730, ouvrent une période de conflits dans la province ecclésiastique de Sens, dont dépendent les évêchés d’Auxerre, de Nevers, de Sens et de Troyes. Protégé du cardinal de Fleury, le nouvel archevêque,36 qui est depuis 1729, membre du Conseil de Conscience, a reçu pour mission d’extirper le jansénisme dans le diocèse de Sens et si possible dans la province toute entière.37 «Il est, écrit Olivier Andurand, à la tête de la province

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Vie de messire Jacques-Bénigne Bossuet, évêque de Troyes, Bnf, ms. fr. 11431, fol. 46: «Le célèbre M. Duguet qui demeuroit à l’abbaye de St-Martin en Aires, où il avoit une chapelle domestique dans laquelle il disait la messe avec la permission de Mgr Bossuet». 35 Nicolas Petitpied (1665-1747) théologien janséniste, docteur de Sorbonne, fut l’un des quarante signataires du Cas de conscience (20 juillet 1701). Après la condamnation du Cas de conscience par un bref du pape Clément XI du 13 février 1703, il rejoignit, aux ProvincesUnies, Pasquier Quesnel. Il s’opposa à la bulle Unigenitus. Voir Olivier ANDURAND, «Mgr Jacques-Bénigne Bossuet, évêque de Troyes …, op. cit., et J. LESAULNIER et A. McKENNA, op. cit., p. 821. 36 Nommé archevêque de Sens en 1730, il reçoit ses bulles de Rome le 5 avril 1731. 37 Sur ce personnage voir les travaux de: Nelson-Martin DAWSON, Le paradoxal destin d’un catéchisme à double nationalité: l’histoire du manuel de Mgr Languet à Sens et à Québec, Doctorat de l’Université de Laval (Québec), 1989; «La correspondance dans la collection Languet de Gergy: reflet d’un réseau antijanséniste au XVIIIe siècle», dans Correspondance Jadis et Naguère, Editions du CTHS, Paris, 1997, p. 349-360; [sous la direction de], Crise d’autorité et clientélisme. Mgr Jean-Joseph Languet de Gergy et la bulle Unigenitus, Sherbrooke, Éditions Les fous du roi, 1997; [sous la direction de], Clientélisme ecclésiastique et antijansénisme. Jean-Joseph Languet de Gergy et la bulle Unigenitus, Sherbrooke, Éditions Les fous du roi, 1998; [sous la direction de], Fidélités ecclésiastiques et crise janséniste: Mgr Jean-Joseph Languet de Gergy et la bulle Unigenitus, Sherbrooke, Éditions Les fous du roi, 2001; René FOURREY, Le champion de la bulle Unigenitus, Jean-Joseph Languet de Gergy, Archevêque de Sens, manuscrit inédit achevé vers 1953, Maison


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ecclésiastique la plus janséniste du royaume. Sa nomination est très mal reçue par les évêques de sa province, en particulier par Mgr de Caylus, évêque d’Auxerre,38 Mgr Bossuet, «Bossuet le neveu», évêque de Troyes, et par le fuyant évêque de Nevers, Mgr des Montées. À Sens, il fait face à l’hostilité de ses curés et doit lutter de toutes ses armes pour résister aux pressions des jansénistes. Il est, en particulier, l’un des premiers prélats français à refuser les sacrements aux mourants qui ne présentent pas de billets de confession signés par un curé constitutionnaire».39 Il emploie à Sens les mêmes méthodes autoritaires qu’à Soissons: les curés sont exilés, les confesseurs et les prédicateurs fortement contrôlés. L’archevêque recommande aussi comme lecture principale ses propres ouvrages très fortement bullistes et en particulier la Vie de Marguerite Marie Alacoque.40 Les évêques d’Auxerre et de Troyes s’opposent à leur métropolitain. À la lettre des cinquante-neuf curés de son diocèse, Mgr Languet répond par une lettre à ses suffragants et par une instruction pastorale. Mgr Bossuet lui répond le 10 octobre 1731, par un libelle intitulé: Réponse de Mgr l’évêque de Troyes à Mgr l’archevêque de Sens. Jean-Charles Courtalon Delaistre écrit dans son ouvrage intitulé Topographie historique de la ville et du diocèse de Troyes: A peine eut-il [Mgr Jacques Bénigne Bossuet] donné ces ouvrages au public qu’il eut à soutenir une guerre théologique avec M. Languet, nouvel archevêque de Sens, au sujet d’une instruction pastorale de ce métropolitain. Il lui écrivit que cet ouvrage avait fait sur lui «un effet tout contraire à celui que l’auteur paroissoit s’être proposé, que les idées les plus simples & les plus nettes y étoient embrouillées & obscurcies sur le rapport des actions à Dieu, sur l’amour de Dieu & la charité, qui sont des termes synonymes dans l’écriture, dans toute la tradition, dans les Pères, dans la saine théologie & dans tout le langage de la piété». Il lui marque, en outre, qu’il y trouve «des choses contra-

diocésaine d’Auxerre, 1992 et Moreau (Bernard), «Les relations de Jean-Joseph Languet de Gergy et de Charles de Caylus de 1691 à 1753», Bulletin de la Société des Sciences historiques et naturelles de l’Yonne, n°124, 1992, p. 77-100; «Jean-Joseph Languet de Gergy (1677-1753)», Transversalités, Revue de l’Institut catholique de Paris, n°70, avril-juin 1999, p. 165-185; «JeanJoseph Languet de Gergy et la lettre des dix-huit évêques (fin 1715-début1716», Bulletin de la Société des Sciences historiques et naturelles de l’Yonne, n°131, 1999, p. 99-114; «La famille et la jeunesse de Jean-Joseph Languet de Gergy de 1677 à 1715», Bulletin de la Société des Sciences historiques et naturelles de l’Yonne, n°132, 2000, p. 37-58 et «La complicité des frères Languet au printemps 1721», Bulletin de la Société des Sciences historiques et naturelles de l’Yonne, n°134, 2002, p. 67-88. 38 Charles-Daniel-Gabriel de Caylus, évêque d’Auxerre de 1704 à 1754. 39 Olivier ANDURAND, Roma autem locuta. Les évêques de France… t. 3, p. 96. 40 Olivier ANDURAND, «Mgr Jacques-Bénigne Bossuet,…».


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dictoires, des raisonnements peu concluans, même des imputations qui lui paroissent injustes, & qu’il ne peut assez s’étonner que M. Languet ne s’en aperçoive pas le premier.» Enfin, il renvoye M. l’archevêque aux écrits qu’il cite de M. de Meaux, pour le convaincre que ce savant prélat ne s’est jamais démenti de la vraie doctrine dans aucun endroit de ses ouvrages, & quelque temps après, M. de Troyes donna encore au public le traité de son oncle de l’amour de Dieu dans le Sacrement de pénitence.41

Les Frères des Écoles Chrétiennes, fervents admirateurs des écrits de Mgr Languet de Gergy, entretiennent des liens étroits avec lui.42 Bien qu’il ne soit pas à l’origine d’installation d’école dans son diocèse, Mgr Languet de Gergy a une influence non négligeable auprès des Frères de la ville. Son attestation,43 datée de 1722, en faveur des Frères a permis d’appuyer la demande de reconnaissance de l’Institut auprès du pape et d’obtenir la Bulle d’approbation en 1725. Les relations entre la famille Languet de Gergy et l’Institut existaient déjà depuis quelques années. En premier lieu, le frère de l’archevêque, Jean-Baptiste-Joseph, vicaire de la paroisse de Saint-Sulpice vers 1704-1714, avait des contacts avec Jean-Baptiste de La Salle au sujet de l’école de la paroisse.44 Le vicaire était chargé d’enregistrer les élèves et de leur délivrer un certificat de pauvreté afin qu’ils puissent suivre l’enseignement des Frères. De même, leur sœur, Thérèse Odette Languet, femme de François Rigoley, premier président à la chambre des comptes de Dijon connaissait l’œuvre des Frères, installés depuis 1705 dans la ville des Ducs de Bourgogne. C’est sur leurs recommandations que Mgr de Languet de Gergy, alors grand-vicaire d’Autun, aida l’action du père Aubery, qui souhaitait voir s’implanter une école des Frères à Moulins. Ce fut chose faite en 1710. Que le Frère Étienne lui adresse une lettre peut plus aisément se comprendre par la fonction ecclésiale qu’il occupe, par la position radicalement antijanséniste qu’il défend et aussi peut-être par les relations un peu privilégiées énoncées ici. La lettre du Frère Étienne est intéressante par de nombreux aspects. Tout d’abord le document lui-même est rare pour l’époque; en effet la correspondance des Frères avec des personnes extérieures à l’Institut n’était pas chose

41 Jean-Charles COURTALON DELAISTRE, Topographie historique de la ville et du diocèse de Troyes, Tome I, Troyes, 1783, p. 470-471. 42 Y. POUTET, op. cit., p. 213-214. 43 Il y a eu d’autres attestations dans ce sens fait par des évêques, voir Frère Maurice-Auguste, op. cit., Cahiers Lasalliens, n°11. 44 cf Charles HAMEL, Histoire de l’église de Saint-Sulpice, Paris, Librairie Victor Lecoffre, 1909, p. 188.


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courante. C’est aussi un témoignage sur la situation locale et plus précisément sur les tensions existantes entre les autorités ecclésiales. Il illustre très bien le contexte de l’époque et la querelle janséniste qui sévissait alors. Les Frères ont été souvent témoins et acteurs de ces événements, ayant généralement été pris à parti par les représentants de doctrine condamnée par le Saint-Siège. Ce document met aussi en évidence le soutien que les Frères apportent à l’application des bulles et des brefs du Saint-Père.


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TESTIMONIANZA DEL CONFLITTO GIANSENISTA A TROYES: Lettera di Fratello Stefano, Direttore dei Fratelli delle Scuole Cristiane, a Mons. Languet de Gergy, arcivescovo di Sens* La biblioteca municipale di Sens conserva nella collezione Languet de Gergy (t.XXXI, 4m) una lettera datata 1731. Questo documento, redatto da Fr. Stefano, allora direttore della Casa dei Fratelli delle Scuole Cristiane di Troyes e indirizzata a Mons. Languet de Gergy, arcivescovo di Sens, riferisce sulla disputa che era sorta in Francia, e in particolare nella diocesi di Troyes, dopo la pubblicazione della Bolla Unigenitus. La lettera riferisce della pesante atmosfera che regnava in quella diocesi, a proposito del conflitto giansenista presente in Francia, soffermandosi in particolare sullo scontro ideologico sorto tra l’arcivescovo di Sens, Mons. Languet de Gergy e il vescovo di Troyes, Mons. Bossuet. I Fratelli, presenti a Troyes da numerosi anni, ne subirono, loro malgrado, qualche ripercussione. Nel 1731, Fr. Stefano, direttore dei Fratelli delle Scuole Cristiane di Troyes, scrisse una lettera nella quale evoca la disputa suscitata dalla Bolla Unigenitus. È il caso di ricordare che nel settembre del 1713 la Bolla Unigenitus aveva condannato 101 proposizioni estratte dal libro del capofila della dissidenza giansenista, Pasquale Quesnel, intitolata “Il Nuovo Testamento in francese, corredato di riflessioni morali”. Nel mese di ottobre Luigi XIV convocò i quaranta vescovi presenti a Parigi sotto la presidenza del cardinale, arcivescovo di Parigi, Luigi-Antonio de Noailles. L’assemblea era divisa ed alcuni vescovi rifiutarono di accettare la Bolla sic et simpliciter, dal momento che il papa Clemente XI non spiega le condanne. Per i prelati recalcitranti, la Bolla andava oltre le compettenze del Santo Padre e riduceva le libertà della chiesa gallicana. Alla morte del Re, il Reggente si mostrò piuttosto conciliante con i contestatori e caldeggiò la posizione dei vescovi gallicani. Nessuna delle nomine episcopali fatte a Parigi fu approvata da Roma. È solo dopo un conflitto durato due anni che il Reggente ottenne una vittoria sul Papa che avallò le bolle di investitura canonica. Tuttavia nel 1717 la rottura diventò definitiva. Quattro vescovi, Mons. Colbert, vesvovo di Montpellier, Mons. de La Broue, vescovo di Mirepoix, Mons. de Langle, vescovo di Boulogne e Mons. Soanen, vescovo di Senez, fecero appello ad un futuro concilio generale della Bolla Unigenitus. Poco dopo la Sorbona aderì all’appello, e così fecero anche altri dodici vescovi tra cui lo stesso cardinale de Noailles. Il Reggente impose allora un “rispettoso silenzio” ai protagonisti della vicenda e sperò di vedere stemperare la tensione, proponendo la creazione di un gruppo di esperti incaricati di precisare il senso delle proposizioni condannate dalla Bolla. I redattori del nuovo testo si costituirono in un impossibile triumvirato, formato dal cardinale de Noailles per gli appellanti, dal cardinal de Bissy, vescovo di Meaux, e dal cardinal de Rohan principe e vescovo di Strasburgo per i costituzionari. Noailles finì per accettare l’accordo il 3 marzo 1720. Per il Reggente la disputa sull’Unigenitus era chiusa. * Traduzione dalla lingua francese di Italo Carugno


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A Troyes, il vescovo Jacques-Benigne Bossuet accolse l’accordo ma rifiutò categoricamente la Costituzione. In una lettera comune al Reggente, Mons. Bossuet e sette dei suoi confratelli rifiutarono di essere integrati tra i puri accomodanti. Nel settembre del 1720, i quattro vescovi rinnovarono il loro appello e rifiutarono l’accomodamento. Il 3 dicembre gli sforzi del Reggente e del ministro Dubois permettono di ottenere dal Parlamento la registrazione delle Lettere Patenti e della Dichiarazione del Re concernenti l’accomodamento relativo alla costituzione Unigenitus, che diventa pertanto legge del regno. Una sentenza del Consiglio di Stato del 31 dicembre sopprime la lettera pastorale dei quattro vescovi appellanti e il nuovo atto d’appello che vi era allegato. Nel febbraio del 1724 il Vescovo di Fréjus, direttore degli affari ecclesiastici, incoraggiato da numerosi suoi colleghi, abbozza un progetto di dichiarazione concernente la giurisdizione dei vescovi appellanti che sarebbero privati dei lor benefici e dichiarati inabili a possederli se si ostinavano a non sottomettersi. Questo Breve, ottenuto da Roma, dava ai vescovi appellanti e ai loro aderenti un tempo ben preciso, al termine del quale il Papa avrebbe dichiarato che erano incorsi nella scomunica. Il duca di Bourbon, temendo di mandare tutto il regno alla malora, rifiuta di pubblicare il breve sotto l’autorità reale. Con l’Assemblea del Clero del 1725 la sorte dei vescovi ricalcitranti viene evocata, specialmente quella del vescovo di Bayeux e del vescovo di Montepellier. Si pensa allora di convocare i Consigli Provinciali a Rouen e a Narbonne; ma la grande reputazione e il lignaggio di quei vescovi frenano i membri dell’assemblea. Tuttavia Mons. Soanen, vescovo di Senez, non discendendo da una una famiglia potente, diventa il bersaglio preferito. Dal 1726 al 1730 la politica nazionale relativa alla Bolla Unigenitus del cardinal de Fleury è draconiana. Migliaie di lettere timbrate costringono al silenzio i preti oppositori. La strategia del Cardinale consiste nel fare esaurire il reclutamento dei preti giansenisti imponendo la firma pura e semplice del formulario. Di fatto questa pratica allontana questi ultimi dall’episcopato e dal sacerdozio. “Il Brigantaggio di Embrun” amplifica la campagna contro i giansenisti. L’assemblea voluta dal cardinale de Fleury ha per obiettivo mettere fine al movimento di contestazione. I prelati della provincia ecclesiastica di Embrun si riuniscono nell’agosto del 1727 e depongono Mons. Soanen, vescovo di Senez. Dodici vescovi scrivono al Re per denunciare la sentenza pronunciata ad Embrun: Lettera di 12 Vescovi al Re a difesa del Vescovo di Senez condannato dal Santo Concilio di Embrun. Ottobre 1727. L’anno 1728 segna la fine della resistenza religiosa alla Bolla papale. Nel maggio 1728 un Decreto del Re stabilisce sanzioni “contro gli autori di libelli e scritti che avrebbero attaccato le Bolle Papali ricevute nel Regno e avrebbero mancato di rispetto al Papa e ai Vescovi.” Una seconda Dichiarazione, datata il 29 maggio, proibisce di “stampare, senza permesso, tutto ciò che può aver riferimento alla Bolla, alla Religione sotto il titolo di Memorie o di Novelle”; la pena dell’esilio è previsto per gli autori. Il concilio di Embrun impressiona talmente il cardinal di Noailles che dà in ottobre 1728 il suo assenso di accettazione pura e semplice della Bolla. Il cardinale Fleury prende una misura generale destinata a schiacciare ogni dissenso. Il 24 marzo del 1730, una dichiarazione del Re fa della Bolla Unigenitus una legge di Stato e una legge della Chiesa.


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Ed è proprio in questo contesto che Fratello Stefano scrive a Mons. Languet de Gergy la seguente lettera. Da Troyes, oggi 7 novembre 1731 Monsignore, i cattolici di questa città si servono della mia penna per notificarvi che l’opera, di cui il nostro Vescovo vi ha minacciato, è stata affidata a Mons. abate Duguet, che vi lavora intensamente. Questo abate, senza dubbio da voi conosciuto, da diversi anni, sotto falso nome, animava tutto il partito a cui faceva le conferenze sulla buona dottrina, ma si mise in apprensione per certe notizie che riceveva da Parigi, che gli fecero temere la Bastiglia; egli si rifugiò a Utrecht, dove l’aria troppo rude per la sua costituzione e la sua età lo convinsero a fare ritorno in Francia con la promessa che non avrebbe scritto nulla in favore del partito. Tuttavia, ora si permette di criticare la Signoria Vostra, sotto la protezione e il nome del vostro suffraganeo. Se Lei gradisce, avrei l’onore di informarvi di quanto avverrà, qualora qualche notizia arrivasse a me e che riguarda la sana dottrina. La vostra ultima opera è molto bella ed apprezzata da tutti i cattolici e, se l’autorità l’avesse permesso, avremmo avuto il piacere di divulgarla segretamente, dato che il Monsignore nostro Vescovo contribuisce alla nostra sussistenza con una somma di cento lire l’anno e che il nostro piccolo reddito che ammontava a solo ottocento lire per i sette fratelli che siamo, è addirittura diminuito quest’anno di oltre cento scudi per la morte di alcuni nostri benefattori avvenuta poco tempo fa. Siamo rimasti in imbarazzo che alcuni del partito ci perseguitano segretamente ed ci hanno impedito da Pasqua di avere aule per fare scuola in uno dei quartieri della città, per cui siamo stati obbligati a prendere in affitto, a nostre spese, alcuni granai per fare scuola; ma di più, hanno fatto in modo che saremo obbligati a uscirne senza sapere dove andare. Costoro sembrano dolersi della situazione, ma questo lo fanno per rimanere al sicuro ed evitare rimproveri. Sono pieno di gioia per avere avuto l’occasione di presentarvi i miei più umili ossequi anche a nome della nostra comunità. Sono, Monsignore, l’umilissimo e obbediente servitore della vostra grandezza. Fratello Stefano, Direttore dei Fratelli e delle Scuole Cristiane di Troyes. Questo documento mette in luce molto bene le tensioni che esistevano, le forze presenti e sopratutto la situazione delicata dei Fratelli. La loro posizione di fronte alla nuova dottrina è stata sempre chiara, restando fedele alle decisioni e alle direttive dell’Istituto. I Fratelli di Troyes, fin dal loro ingresso nel 1703 furono apprezzati dal popolo e dalle autorità ecclesiastiche. La loro missione con i fanciulli è spesso portata come esempio. Purtroppo, malgrado tutti questi scritti favorevoli ai Fratelli, réalizzati qualque anno prima, la lettera di Fratello Stefano lascia intravedere le tensioni che esistevano allora nella diocesi tra i due prelati. Questa supplica inviata all’arcivescovo di Sens rivela la delicata situazione in cui i Fratelli si trovano: tirati tra la sottomissione al loro Vescovo da una parte e la loro obbedienza alla Chiesa Cattolica e alle Regole del Istituto dall’altra. La reazione di Fratello Stefano che rispecchia quella dei cattolici locali non è abituale. Ricordiamo che nella Congregazione la corrispondenza è ben regolamentata


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sia per i semplici Fratelli della communità che per il loro Direttore. Questo ha dovuto, come si suppone, parlare della situazione inanzitutto al Superior Generale al quale deve riferire. Ma la posizione instabile ha potuto obbligare il Fratello Direttore ad avvisare Mons. Languet de Gergy senza chiedere l’autorizzazione perché lo sapeva in piena sintonia con la convizioni dell’Istituto. In questa maniera sembra mostrare la sua obbedienza all’arcivescovo e soprattutto voler cercare appoggio presso quel noto antigiansenista. D’altra parte, i Fratelli, messi di fronte al Vescovo e all’Arcivescovo per le questioni dottrinali, non potevano intervenire nel merito. Le Regole Comuni dei Fratelli lo dicono chiaramente. “Non si immischieranno in nessuna vicenda temporale, e se fossero implicati in qualcuna di carattere spirituale si accertino che non sia contraria allo spirito e alle finalità dell’Istituto. A tal fine i Direttori veglieranno con la massima attenzione.” La missione dei Fratelli delle Scuole Cristiane è innanzitutto quella di insegnare ai ragazzi poveri della città. Era loro proibito di evocare le questioni di religione, non essendo affatto preparati a ciò. Inoltre in ciò l’Istituto si è sempre attenuto all’atteggiamento del Fondatore, cioè ad una adesione indefettibile al Papa e alla Chiesa cattolica, romana. Regolarmente nei loro Capitoli Generali i Fratelli riaffermano questo atteggiamento, come avvenne nel 1725, quando “i Fratelli Capitolari sottoscrissero una dichiarazione in cui promettevano a Dio e al Santo Padre il Papa, sia per essi che per tutto il corpo dell’Istituto, di mantenere la Regola nella sua forza e nel suo vigore per sempre, e di nutrire sempre una totale obbedienza e sottomissione alla Chiesa cattolica, apostolica e romana, secondo l’ultima volontà di M. de La Salle, loro degno maestro”. Nel 1745 le decisioni del Capitolo Generale furono più radicali: 3° Tutte le case dell’Istituto faranno in maniera di possedere i due volumi dell’opera “Biblioteca giansenista” per poter subito individuare i libri loro proibiti; 4° Nelle nostre case non è permesso tenere il Catechismo di Montpellier scritto dal Colbert, perché contiene proposizioni fortemente giansenistiche. Furono proprio le persecuzioni subite dai Fratelli in diverse città (Boulogne, Calais, Troyes, Marseille ….) che suggerirono ai Capitoli successivi di prendere tali decisioni? Tutto porta a crederlo. Il prelato al quale fa riferimento Fratello Stefano nella sua lettera all’arcivescovo di Sens è Giacomo-Benigno Bossuet (1664-1743) vescovo di Troyes dal 1716 al 1742. Era nipote del grande Bossuet vescovo di Meaux dal 1681 al 1704. Vicino ai vescovi di Montpellier e Senez, firma con gli altri prelati una lettera in difesa di Mons. de Soanen, condannato dal concilio di Embrun del 1727. Appassionato difensore dell’agostinismo, il vescovo di Troyes pubblica diverse pastorali, specialmente contro la leggenda di Gregorio VII. Il papa Benedetto XIII decide di inserire nel Breviario Romano la leggenda di Gregorio VII, il Papa che aveva deposto l’imperatore germanico Enrico IV, e che è considerato in Francia come modello di papa teocrate pretendendo imporre il suo potere anche ai re della terra. I gallicani e i giansenisti ci vedono un attacco contro le massime del Regno e l’indipendenza della Francia. Assieme ai vescovi di Auxerre, Montpellier, Castres e Mets, Mons. Bossuet condanna la leggenda di Gregorio VII con una Lettera pastorale, datata 25 settembre 1729: “Pastorale e Istruzione Pastorale di Mons. il Vescovo di Troyes a proposito di un uffizio stampato su un volantino, che inizia con le parole”. Die XXV maii, in


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festo S. Gregorii VII. Egli pubblica a difesa del giansenismo dei testi inediti di suo zio. Definsore dei giansenisti perseguitati, il vescovo di Troyes li accoglie e concede loro benefici ecclesiastici o funzioni importanti in seno al vescovado. Numerose personalità del movimento giansenistico trovano asilo presso il vescovo di Troyes, che era in conflitto con il suo metropolitano, Mons. Languet de Gergy. La morte, avvenuta il 9 novembre 1730, di Denis-François Bouthillier di Chavigny (1665-1730), arcivescovo di Sens dal 1716 e la nomina di un notorio antigiansenista, Mons. Jean-Joseph Languet de Gergy (1677-1753) vescovo di Soissons dal 1715 a 1730, aprono un periodo di conflitti nella provincia ecclesiastica di Sens, da cui dipendono i vescovadi di Auxerre, Nevers, Sens e Troyes. Protetto dal cardinal de Fleury, il nuovo arcivescovo ha ricevuto per missione di estirpare il giansenismo nella diocesi di Sens e, se possibile, nell’intera provincia. Egli è al capo della provincia ecclesiastica più giansenistica di tutto il regno. La sua nomina è male accolta dai vescovi della provincia, in particolare da Mons. de Caylus, vescovo di Auxerre, da Mons. Bossuet, “il Bossuet nipote” vescovo di Troyes e dallo sfuggente vescovo di Nevers, Mons. de Montées. A Sens, affronta l’ostilità dei suoi parroci e deve lottare con tutte le sue forze per resistere alle pressioni dei giansenisti. In particolare, è uno dei primi prelati francesi che negano i sacramenti ai moribondi che non esibiscono attestati di ravvedimento firmati da un parroco costituzionalista. Adopera nella diocesi di Sens gli stessi metodi autoritari come a Soisson: i parroci sono esiliati, i confessori e i predicatori puntigliosamente controllati. L’Arcivescovo raccomanda anche come lettura principale le sue proprie opere fortemente “bolliste” e in particolare la Vita di Margherita Maria Alacoque. I Vescovi di Auxerre e di Troyes si oppongono al loro Metropolita. Alla lettera dei 59 parroci della sua diocesi Mons. Languet risponde con una lettera ai suoi suffranganti e con una istruzione pastorale. Mons. Bossuet gli risponde il 10 ottobre 1731 con un libello dal titolo “Risposta del vescovo di Troyes all’arcivescovo di Sens”. I Fratelli delle Scuole Cristiane, ferventi ammiratori degli scritti di Mons. Languet de Gergy, tengono stretti i legami con lui. Anche se non è all’origine dell’istallazione della scuola nella sua diocesi, Mons. Languet de Gergy ha una sensibile influenza presso i Fratelli della città. Un suo attestato, redatto nel 1722 a favore dei Fratelli, ha permesso di appoggiare la domanda di riconoscimento dell’Istituto presso il Papa, e di ottenere la Bolla di Approvazione nel 1725. I rapporti tra la famiglia Languet de Gergy e l’Istituto esistevano già da qualche anno. Che il Fratello Stefano gli possa scrivere una lettera, si può capire, visto la funzione ecclesiale che occupa, la posizione radicalmente antigiansenista che difende e anche, forse, grazie ai rapporti privilegiati enunciati qui sopra. La lettera di Fratello Stefano è interessante per diversi aspetti. Innanzitutto, il documento di per se è raro per quell’epoca: in effetti la corrispondenza dei Fratelli con le persone “esterne” all’Istituto non era di tutti i giorni. È anche una testimonianza sulla situazione locale e più precisamente sulle tensioni esistenti tra le autorità ecclesiali. Egli illustra molto bene il contesto dell’epoca e la polemica giansenistica che allora infieriva. I Fratelli sono stati spesso testimoni e attori di questi avvenimenti, essendo stati generalmente perseguitati da rappresentanti della dottrina condannata dalla Santa Sede. Questo documento mette anche in evidenza il sostegno che i Fratelli portarono all’applicazione delle Bolle e dei Brevi del Santo Padre.


Rivista Lasalliana 81 (2014) 4, 525-558

NICOLAS ROLAND ET JEAN-BAPTISTE DE LA SALLE BERNARD PITAUD Professore incaricato emerito di Storia della spiritualità all’Institut Catholique de Paris

SOMMARIO: 1. Introduction. - 2. Quelques remarques préliminaires. - 3. La Lettre 21. 4. Quand Jean-Baptiste de La Salle relit Nicolas Roland… - 5. Conclusions.

1. Introduction

I

l ne sera pas ici question de refaire l’histoire des relations entre Jean-Baptiste de La Salle et Nicolas Roland, son directeur spirituel. Sur ce point, il n’y a rien à ajouter d’important au travail effectué par le Frère Yves Poutet dans Le XVIIème siècle et les origines lasalliennes.1 La masse des manuscrits explorés, la précision avec laquelle il a traité les documents à sa disposition, laissent le lecteur admiratif. On y trouve de plus rassemblés d’innombrables renseignements sur la vie à Reims, aussi bien du point de vue civil que du point de vue religieux. C’est dans cet ouvrage qu’on trouvera l’essentiel sur les relations entre nos deux personnages, si différents et pourtant si proches. Il ne sera pas question non plus de rechercher, à travers une comparaison de l’ensemble de leurs écrits, l’influence exercée par le fondateur des Sœurs de l’Enfant-Jésus de Reims sur le fondateur des Frères des Ecoles chrétiennes. Le Frère Poutet s’y est également essayé dans le même ouvrage, avec un peu moins de bonheur peut-être.2 Ce serait une tâche trop complexe pour tenir dans les limites d’un simple article, d’autant plus que Jean-Baptiste de La Salle a subi bien d’autres influences. Il y a cependant un créneau limité où demeure possible un dialogue avec le Frère Poutet: c’est celui de la comparaison entre les Avis pour la conduite des personnes régulières de Nicolas Roland et le Recueil de différents petits traités à l’usage des Frères des Ecoles chrétiennes de Jean-Baptiste de La Salle. En effet, ce dernier a manifestement repris à son directeur quelques-uns de ses textes en les modifiant, parfois très légèrement, parfois plus nettement. Ces modifications sont intéressantes pour l’historien; elles peuvent en effet révéler les différences de pédagogie, de tempérament spirituel, voire de théolo-

1 2

2 tomes, Rennes, 1970, particulièrement le premier tome: Période rémoise. Tome 1, p. 579-622.


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gie, et permettre ainsi de mieux connaître l’un et l’autre en les comparant. Le Frère Poutet a répertorié tous ces textes dans son ouvrage.3 Précisons que nous n’avons repris que les textes qui, de toute évidence, constituent une relecture de Nicolas Roland par Jean-Baptiste de La Salle; nous avons laissé de côté les textes où celui-ci a simplement effectué quelques emprunts. Il faut ajouter que ce travail a été récemment repris à nouveaux frais par le Frère Joseph Le Bars dans Lasalliana.4 Le dialogue que nous entreprenons s’enrichira donc d’un deuxième interlocuteur.

2. Quelques remarques préliminaires Avant d’entrer dans le vif du sujet, quelques remarques à propos des relations entre Nicolas Roland et Jean-Baptiste de La Salle dans l’ouvrage du Frère Poutet. Ces remarques concernent des détails, parfois insignifiants, mais qu’il vaut mieux préciser tout de même. Par exemple, le Frère Poutet déclare à propos de la direction spirituelle de Nicolas Roland: «D’ailleurs, Roland n’était pas un directeur tyrannique. Souvent éloigné de Reims pour des motifs apostoliques, il adressait alors ses dirigés à Claude Bretagne, prieur de l’abbaye Saint-Remy».5 Il cite à l’appui de cette affirmation, dans la note 8, les Archives des Sœurs du Saint-Enfant Jésus de Reims, Lettres autog. de Roland. En fait, la lettre6 où il est question de Claude Bretagne ne fait pas partie des lettres autographes. Mais surtout, il est difficile d’en tirer la conclusion dégagée par le Frère Poutet. Nicolas Roland écrit simplement à une personne qui s’est adressée à lui pendant l’absence du prieur de Saint-Remi. Il lui dit qu’il a tardé à répondre à sa lettre, à la fois par manque de temps et aussi parce que, Dom Claude Bretagne étant de retour, il a cru que cette personne allait s’adresser de nouveau à lui. La situation est donc exactement inverse que celle imaginée par le Frère Poutet dont la conclusion sur ce point a été hâtive. Les Constitutions de 16837 demeurent également un point délicat: le Frère Poutet tient ces Constitutions comme un texte écrit par Nicolas Roland et approuvé par l’archevêque 5 à 6 ans plus tard. Nous avons suggéré ail-

3 4

Tome 1, p. 612-622.

N. 25, f. 3, A-105; N. 26, f. 4, A-115; N. 29, f. 3, A-126; N. 33, f. 4, A-143; N. 36, f. 2, A-155; N. 37, f. 9, A-166. 5 o.c., tome 1, p. 538. 6 Lettre 23, Guide spirituel et fondateur, p. 69. 7 Guide spirituel et fondateur, p. 259-279.


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leurs8 que cette hypothèse éveille un certain malaise. Le texte de 1683 n’est pas écrit dans le style habituel de Nicolas Roland. L’absence ou la quasiabsence de références scripturaires en particulier laisse le lecteur sur une question quant à l’origine de cet écrit. Le Frère Poutet raisonne à partir de ce qui est, selon lui, une évidence: «Evidemment, ces Constitutions auxquelles renvoie Nicolas Roland9 sont celles qu’il avait soumises à l’approbation de Le Tellier. De telles Constitutions devaient toujours être jointes au dossier des lettres patentes. Mais les hommes de loi recommandaient de ne pas trop en étendre le contenu. La véritable orientation spirituelle d’une communauté s’exposait par conséquent dans d’autres textes moins canoniques. Le petit Traité des vertus devait y pourvoir». Il est en effet vraisemblable que Nicolas Roland ait rédigé ce texte pour accompagner sa demande de Lettres patentes; dans ce cas, il l’a fait en respectant les conseils des juristes: un texte assez bref et pas nécessairement original. Il a renoncé ainsi aux multiples citations scripturaires explicites et implicites dont ses écrits sont habituellement tissés. Cette différence permetelle de rester sur une question? Curieusement, l’archevêque, en promulguant les Constitutions en 1683, n’a jamais cité le nom du fondateur ni laissé entendre que le texte aurait été écrit par lui. Mais il est vrai que la propension de Mgr Le Tellier à vouloir affirmer son autorité, à balayer d’un revers de main tout ce qui pourrait lui porter ombrage ou laisser entendre qu’il la partage avec quelqu’un d’autre, est bien connue des historiens. En ce cas, il a dû blesser la Communauté de Sœurs pour lesquelles le souvenir du fondateur et l’attachement à sa personne étaient encore très vivants. Il faut remarquer aussi que le Frère Poutet ne fait aucune allusion au texte des Usages10 qui sera promulgué en 1693, dans le but de conserver l’esprit du fondateur, ce qui montre au moins que les Constitutions n’y suffisaient pas.

3. La Lettre 21 En dehors de la comparaison des textes de Nicolas Roland avec ceux de Jean Baptiste de La Salle, une question demeure ouverte: ce dernier serait-il 8

Nicolas Roland et les Sœurs de l’Enfant-Jésus de Reims, Le Cerf, 2001, p. 138-141. Nous reconnaissons ne plus pouvoir tenir aujourd’hui l’hypothèse alors formulée selon laquelle le Petit Traité des vertus les plus nécessaires aux Sœurs aurait été une partie des Constitutions proposées par NR. 9 Le Frère Poutet parle ici du Petit Traité des vertus les plus nécessaires aux Sœurs où il voit la quintessence de la pensée spirituelle de NR sur sa communauté. Or le dernier numéro de ce Petit Traité est intitulé: «De l’obligation d’observer les Constitutions». 10 On se reportera à l’étude effectuée sur ce sujet dans un numéro précédent de Rivista Lasalliana.


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le destinataire de la lettre 21 envoyée par Nicolas Roland à «un ecclésiastique, son pénitent»?11 La question est controversée. Cette lettre n’est pas datée. Par ailleurs, nous ne savons pas exactement quand le chanoine théologal Roland devint le directeur de son cousin et jeune chanoine. L’accession au sous-diaconat de Jean-Baptiste de La Salle le 2 juin 1672, «veille de la Trinité», après avoir obtenu les lettres dimmissoriales le 27 mai, peut servir de point de repère. En effet, il est alors revenu à Reims après avoir suivi, du 12 au 19 mai, une retraite au Séminaire Saint-Sulpice, à Paris, dont il était l’hôte depuis deux ans. Il peut donc, dès ce moment-là, s’être confié à Nicolas Roland, s’il ne l’avait fait déjà, dès avant de partir étudier à Paris. Il semble alors avoir franchi un grand pas dans sa marche vers le sacerdoce. Mais il retombe ensuite dans une période de doute, puisqu’il ne sera ordonné diacre que le 21 mars 1676. Son ordination sacerdotale interviendra le 9 avril 1678 (le samedi saint cette année-là), quinze jours avant le décès de son directeur spirituel. C’est la tutelle de ses frères et sœurs qui, manifestement, le retint d’aller plus vite. Sa mère en effet était décédée en 1671 et la mort de son père survint le 8 avril 1672; elle l’obligea à revenir à Reims et à accepter de devenir le tuteur de ses jeunes frères et sœurs. C’est pour cette raison qu’il poursuivit ses études à Reims, sans retourner à Paris. Or dans la lettre 21, il est justement question de tutelle. Le directeur presse son pénitent de quitter cette charge et d’obtenir un procureur pour le remplacer. Cela sera peut-être moins avantageux au plan financier pour ceux dont il est chargé, mais pour lui, il ne perdra ni son temps, ni son salut. D’autre part, Nicolas Roland donne à son dirigé des conseils sur la chasteté, l’invite à se confier à la miséricorde de Dieu, plus grande que son infidélité, à ne jamais perdre confiance, à faire une retraite et à lire Mr Olier; on sait que Nicolas Roland était un familier de l’Introduction à la vie et aux vertus chrétiennes, petit ouvrage destiné aux paroissiens de Saint-Sulpice et publié juste après la mort de leur curé. Olier y donne, entre autres, des conseils sur la vertu de chasteté.12 Si c’est bien à Jean-Baptiste de La Salle que cette lettre est adressée, elle a forcément été écrite entre juin 1672 et avril 1678, dans le but évident de stimuler le jeune étudiant en théologie à recevoir les Ordres. Etant donné l’appel pressant à quitter la tutelle, on peut penser qu’elle aurait été rédigée plutôt quelque temps avant l’ordination diaconale (mars 1676).

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Cette attribution est donnée après coup par les copistes qui suppriment le nom par discrétion. 12 Introduction à la vie et aux vertus chrétiennes, Le Rameau, 1954, p. 136-141.


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4. Quand Jean-Baptiste de La Salle relit Nicolas Roland… Parmi les écrits de Nicolas Roland, les Avis pour la conduite des personnes régulières ont un statut particulier. Ils sont en effet présentés par quelqu’un dont l’anonymat n’a pu jusqu’ici être levé de manière certaine. Il a dressé pour les Sœurs «ce petit recueil» qui «contient un précis des sentiments de Mr Roland, Théologal, votre bon père et instituteur»; il ajoute: «je les ai rangés conformes à vos besoins et règlements pour vous être plus profitables». Il a également ajouté quelques lettres du fondateur et le précis de la première conférence qu’il a faite aux Sœurs sur la perfection. Le tout a «été trouvé écrit de sa main». Mais il reconnaît avoir pu ajouter «quelques mots» dont il est sûr qu’ils ne trahissent pas la pensée du fondateur puisqu’il les a luimême appris de lui-même. Le texte des APR13 n’était pas originairement destiné aux Sœurs de l’Enfant-Jésus, puisqu’il s’adressait à des «personnes régulières», c’est-à-dire des religieuses cloîtrées, alors que la communauté de la rue du Barbâtre était une communauté de «Filles séculières». Mais celui qui a préfacé le texte a pensé que les avis de Nicolas Roland pouvaient facilement s’adapter à celles-ci. Quant au Recueil de différents petits traités à l’usage des Frères des Ecoles chrétiennes, il porte bien son nom. C’est un recueil, donc un rassemblement de textes divers. Publié en 1711 sous sa forme actuelle (quelques manuscrits ont un contenu nettement moins important), il fut l’objet d’une approbation du Saint-Siège en 1725. D’après le Frère Alain Houry,14 il fut longtemps, avec les Règles communes et le Livre IV de Blain (Esprit et Vertus) la base de la formation lasallienne des novices et des jeunes frères. Il porte la marque d’influences diverses, entre autres le Père de Saint-Jure, Nicolas Roland, Tronson, Jean de la Croix. Encore une fois, nous n’avons étudié de manière comparative que les textes où Jean-Baptiste de La Salle se livre à une relecture d’un texte complet de Nicolas Roland et pas seulement à des emprunts, fussent-ils importants. Puisqu’il s’agit d’une relecture, nous avons pris les textes dans l’ordre où ils se présentent dans le corpus des APR. Notre étude se limite donc finalement à 9 textes: Pour le réveil et premier exercice de la journée; l’oraison; du respect envers le saint sacrement; du silence; de la rénovation intérieure; de la lecture spirituelle; de la réfection, de la pauvreté; de l’humilité. Comme on pourra le constater au fur et à mesure de la lecture des textes, Jean-Baptiste de La Salle a légèrement modifié le titre de certains textes. 13

A partir de maintenant, nous désignons les Avis pour la conduite des personnes régulières par le sigle APR 14 Edition électronique des O.C.


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Le Lever Pour le réveil et premier exercice de la journée

Du lever

Au moment de votre réveil, considérezvous devant Dieu comme un néant, et le reconnaissez pour le souverain Créateur et Conservateur de votre être, qui ne vous donne et conserve la vie qu’afin que vous l’employiez à son service; dans ces sentiments, reconnaissez sa bonté, adorez-le de tout votre cœur, offrez-vous à lui en vous consacrant entièrement à son service, demandez son secours, abandonnez-vous à sa conduite pour faire et souffrir tout ce qui vous arrivera de sa part, levez-vous promptement et avec ferveur, précisément à l’heure ordonnée par vos Règles, sans consulter votre chevet un seul moment, vous imaginant que Dieu vous dit ce qui est dans l’Ecriture: levez-vous mon épouse, mon amie, ma colombe. Correspondez à ses paroles, et dites au fond de votre âme, je me lèverai, et chercherai celui que mon cœur aime. Levezvous donc promptement, et vous attachant à son service, tâchez de vous avancer en son saint amour, lui disant qu’il vous revête de son amour; en prenant vos habits, résolvezvous dès ce temps de vous rendre très ponctuelle à tous les exercices de la Communauté; car souvent la fidélité dépend de cette bonne résolution (NICOLAS ROLAND, Guide spirituel et fondateur, p. 91).

Aussitôt votre réveil, tenez votre esprit appliqué à Dieu et dès le premier son de la cloche, imaginez-vous que c’est JésusChrist qui vous dit ces paroles: Réveillezvous vous qui dormez, levez-vous d’entre les morts et Jésus-Christ vous éclairera; ou ces autres du Cantique, Levez-vous et hâtez-vous mon épouse, ma bien-aimée, ma colombe. Correspondez à ces paroles, et dites au fond de votre cœur: je me lèverai et je chercherai celui que j’aime de toute mon âme. Levez-vous donc promptement et avec ferveur, précisément à l’heure ordonnée par vos Règles sans hésiter un seul moment. Habillez-vous aussi promptement, vous appliquant à Dieu, et en prenant vos habits, priez-le qu’il vous revête de son esprit, en disant du fond de votre cœur: Revêtez-moi du nouvel homme qui est créé selon Dieu et dans la sainteté. Etant entièrement habillé, tenez-vous devant Dieu comme un néant, et reconnaissez-le comme votre créateur et votre souverain Seigneur, qui ne vous donne et ne vous conserve la vie, qu’afin que vous l’employiez à son service. Gardez fidèlement le silence jusqu’au temps de l’oraison, et soupirant après l’heure que vous la devez commencer, résolvez-vous dès ce moment de vous rendre très exact et très ponctuel à tous les exercices de la communauté; car souvent la fidélité à se bien acquitter de tous les exercices qui se font pendant ce jour, dépend de cette première action et résolution (JEAN-

BAPTISTE DE LA SALLE, Recueil, 14, 2, 1 et 14, 2, 2, O.C., p. 93).


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Analyse comparative L’analyse comparative des deux textes a été effectuée par le frère Joseph Le Bars dans «Lasalliana» n° 29, fiches 3, 4, et 5. Cette analyse est très détaillée. Nous pourrons revenir plus tard sur tel ou tel point. Mais il est bon de prendre d’abord une vue d’ensemble sur les deux textes. Ce qui frappe, c’est que le texte de Nicolas Roland est d’un seul tenant, alors que celui de Jean-Baptiste de La Salle se présente sous la forme de trois paragraphes. Le premier paragraphe parle du réveil, du lever et de l’habillement. Le deuxième paragraphe parle de l’attitude intérieure que les frères doivent avoir une fois habillés. Le troisième parle du temps qui s’écoule jusqu’au moment de l’oraison. Cela produit un texte plus long. Le fondateur des Frères est un pédagogue; il distingue, il trie. Dans le premier paragraphe aussi, il distingue soigneusement le réveil, le lever et l’habillement. Cela produit un texte bien clair, où chaque geste est bien à sa place et assorti des textes scripturaires et des exhortations qui lui conviennent. Autrement dit, il met de l’ordre dans le texte de Nicolas Roland. Par le fait, il peut l’enrichir. Mais il s’expose aussi à en perdre le dynamisme et l’intention majeure. Nicolas Roland, lui, est moins habité par ce type de préoccupation. Il a par contre une intention qu’il veut communiquer, et il convient de dégager cette intention pour mieux comprendre ensuite le remaniement effectué par Jean-Baptiste de La Salle. On peut remarquer déjà que le mot «service» revient 3 fois dans le texte (1 fois seulement chez Jean-Baptiste de La Salle). Le souci apostolique de Nicolas Roland transparaît ici. Le but de la vie est d’être au service de Dieu; il convient donc de se consacrer à ce service, afin de s’avancer, dès le début de la journée, en s’y attachant. Tel est le mouvement que Nicolas Roland imprime à son texte. Son souci est celui du dynamisme vital qui doit habiter les sœurs dès le début de la journée. Il commence donc par une prise de conscience fondamentale (qu’il veut établir dès le commencement du jour parce qu’elle est à la base de la vie chrétienne elle-même): les sœurs doivent se considérer devant Dieu comme un néant et le reconnaître comme leur Créateur et Conservateur de leur être. Si Dieu crée et conserve leur être, c’est pour qu’elles mettent celui-ci à son service,16 puisqu’elles ne sont rien sans lui. L’acte créateur et conservateur de Dieu est en même temps un acte de bonté qui suscite donc à la fois l’adoration et la reconnaissance amoureuse (exprimée ici par le mot cœur).

16

C’est nous qui soulignons


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A cet acte créateur et conservateur de Dieu, la sœur répond par une offrande qui est une consécration d’elle-même au service de Dieu. Faite pour être au service, elle se consacre librement à ce service. Librement et amoureusement (ce qui s’exprime dans la promptitude et dans la ferveur); plus que cela, c’est un dialogue amoureux qu’elle entame avec Dieu dès le début du jour. En effet, elle doit imaginer que c’est Dieu qui lui dit les paroles de l’Ecriture: levez-vous, mon épouse, mon amie, ma colombe; elle cherche à correspondre à ces paroles (c’est-à-dire à préparer son cœur pour être vraiment l’épouse, l’amie de Dieu), et elle répond au fond de son âme: je me lèverai et chercherai celui que mon cœur aime. La sœur se lève donc promptement, motivée par cet amour; et elle va marcher tout au long de la journée dans cet esprit: «vous attachant à son service, tâchez de vous avancer en son saint amour». Cette expression montre combien, pour Nicolas Roland service et amour sont liés. La fin du texte ne fait que confirmer ce qui est dit précédemment: pour s’avancer ainsi dans l’amour de Dieu, en étant attachée à son service, la sœur doit d’une part se revêtir de son esprit (ce qui est une bonne occasion d’utiliser le symbolisme du vêtement que l’on revêt), car on ne fait rien de bon sans l’esprit de Dieu, et d’autre part se rendre très ponctuelle aux exercices, car la fidélité dans le service dépend souvent de cette résolution. En effet, il faut aussi que la personne engage sa liberté. Le dialogue amoureux commencé dès le réveil va donc se poursuivre tout au long de la journée dans l’accueil du don de Dieu qui suscite la réponse de la sœur. Il est inutile de comparer les deux textes si l’on n’a pas d’abord compris le mouvement du texte de Nicolas Roland, repris avec des variantes. Si nous voulons aujourd’hui comprendre le sens des variantes introduites par JeanBaptiste de La Salle, nous devons comprendre l’intention et le dynamisme du texte de Nicolas Roland. Sinon nous risquons de faire une comparaison purement matérielle. Qu’a donc voulu faire, de son côté, Jean-Baptiste de La Salle, en reprenant le texte de Nicolas Roland? Nous pouvons remarquer d’abord qu’il a gardé et développé la dimension du dialogue amoureux entre Dieu et la personne du frère. Aussitôt le réveil (le frère Le Bars fait remarquer à juste titre l’urgence exprimée par le mot «aussitôt. De manière habituelle, le fondateur des frères est préoccupé par le temps: il n’y a pas de temps à perdre), le frère doit tenir son esprit appliqué à Dieu (ce mot «appliqué» est fréquent dans le langage religieux de l’époque); il entre par cette application dans un dialogue amoureux avec le Christ. C’est le Christ qui lui dit les paroles de l’Ecriture: «réveillez-vous


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vous qui dormez…», ou bien «levez-vous mon épouse, ma bien-aimée, ma colombe». Il est vrai, comme le dit J. Le Bars que Nicolas Roland, dans ce texte, parle toujours de Dieu alors que Jean-Baptiste de La Salle parle du Christ. Il ne faudrait pas cependant en tirer des conclusions trop hâtives sur l’appartenance du fondateur des frères à l’Ecole Française de spiritualité; il n’y a pas que les membres de ce courant spirituel qui parlent du Christ à cette époque, et il ne semble pas que la fréquence d’utilisation du mot soit particulièrement significative. D’autre part, la question est surtout celle de la manière dont on parle du Christ: l’expression: «qu’il vous revête de son esprit», par exemple, est bien plus révélatrice d’une proximité avec l’Ecole Française que la fréquence du mot Jésus-Christ. Par contre, le souci des distinctions qui anime le grand pédagogue qu’était Jean-Baptiste de La Salle lui permet de glisser une citation d’Ecriture très appropriée qui ne figure pas dans Nicolas Roland. Distinguant bien le réveil et le lever, il peut mettre le réveil en relation avec la parole de saint Paul: «Réveillez-vous, vous qui dormez, levez-vous d’entre les morts et Jésus-Christ vous éclairera». Citation bien venue, étant donné le rapport symbolique du sommeil et de la mort. Cela présente un autre avantage, celui de donner une autre possibilité de méditation de l’Ecriture, la citation du Cantique des cantiques étant plus adaptée à des femmes qu’à des hommes. Le début de la journée, réveil et lever, est donc tout entier sous le signe du dialogue amoureux, l’amour s’exprimant ici par la promptitude, la précision de l’horaire et la ferveur. Cela vaut également pour le troisième temps qui est celui de l’habillement; celui-ci doit être aussi effectué dans la promptitude et dans l’application à Dieu (ce qui est un rappel du début du texte), et toujours avec l’aide de l’Ecriture par laquelle le frère répond à JésusChrist qui lui parle: «Revêtez-moi de nouvel homme qui est créé selon Dieu et dans la sainteté». Cette citation ne figure pas chez Nicolas Roland qui se contente de l’allusion: «priez-le qu’il vous revête de son esprit», ce qui constitue tout de même un dialogue puisqu’il y a prière. De cette brève analyse, il est possible de tirer surtout deux conclusions: la première, c’est que Jean-Baptiste de La Salle a fait du réveil, du lever et de l’habillement du frère le lieu d’un véritable dialogue amoureux avec Dieu et Jésus-Christ. Il a sur ce plan amélioré le texte de Nicolas Roland en l’ordonnant, en l’ouvrant sur d’autres citations scripturaires, en le rendant plus proche de nous avec la mention de Jésus-Christ. Mais globalement, il n’a pas innové, car le texte de Nicolas Roland relève également, nous l’avons vu, du dialogue amoureux. J. Le Bars semble voir une différence entre: «imaginezvous que c’est Jésus-Christ qui vous dit ces paroles» et «vous imaginant que Dieu vous dit ce qui est dans l’Ecriture». Cette différence est-elle majeure? Il


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est permis d’en douter, car il faut lire: «vous imaginant que (c’est) Dieu (qui) vous dit ce qui est dans l’Ecriture». La deuxième conclusion est que JeanBaptiste de La Salle a pratiquement laissé de côté ce qui est la finalité du texte de Nicolas Roland: le service de Dieu. Ce qui est suggéré de la dimension apostolique par ce mot service disparaît donc en grande partie du texte de Jean-Baptiste de La Salle. Le mot «service» n’est repris par le fondateur des Frères que dans son deuxième paragraphe, très proche du texte de Nicolas Roland et qui ne concerne plus que l’habillement. Autrement dit, Jean-Baptiste de La Salle a déplacé vers un moment particulier du début de la journée ce qui pour Nicolas Roland est l’attitude de base qu’il propose dès le réveil pour entrer en relation avec Dieu. Bien sûr, on peut estimer à juste titre que l’expression «tenez-vous devant Dieu comme un néant» est plus dynamique et moins intellectuelle que «considérez-vous devant Dieu comme un néant». Mais il s’agit d’un détail. En d’autres endroits, Jean-Baptiste de La Salle utilise aussi le mot «considérer». De même il remplace «conservateur de votre être» par souverain Seigneur (le mot souverain se trouvant chez Nicolas Roland avant les deux substantifs créateur et conservateur). Il est vrai que le mot «conservateur» n’est pas du meilleur effet, mais à l’époque il n’a pas le sens que nous lui donnons spontanément aujourd’hui et d’autre part, il est théologiquement plus juste dans la perspective de création continuée qui est celle de Nicolas Roland: Dieu est créateur, mais il ne cesse de créer et par là de nous conserver la vie; reprendre conscience de cette création qui ne cesse pas, qui n’a pas cessé pendant la nuit, permet de se mettre dans l’attitude d’adoration et d’amour à partir de laquelle le dialogue amoureux va se poursuivre. Sur le troisième paragraphe de Jean-Baptiste de La Salle, il n’y a pas grand chose à dire. Il ajoute au texte de Nicolas Roland la recommandation du silence jusqu’au temps de l’oraison. D’autre part, là où Nicolas Roland parle de la fidélité sans autre précision, Jean-Baptiste de La Salle précise: «la fidélité à se bien acquitter de tous les exercices qui se font pendant ce jour». C’est un peu restrictif, Nicolas Roland voyait peut-être plus large. Que conclure en définitive de cette relecture de Nicolas Roland par JeanBaptiste de La Salle. Ce dernier a-t-il bien compris l’intention de son ancien directeur spirituel? Si c’est le cas, il s’en est délibérément dégagé, car il a clairement privé le «service» de la place qu’il tient dans le texte de Nicolas Roland. A notre avis, c’est justement autour de ce mot que s’articule l’exhortation de Nicolas Roland sur le lever.


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L’Oraison L’oraison

De l’oraison

Soyez très fidèle à ce saint exercice de l’oraison, d’autant que c’est le fondement de toutes les vertus, la fontaine où vous pouvez puiser toutes les grâces et les lumières dont vous avez besoin. Tant pour vous sanctifier, que pour vous bien acquitter de vos emplois; gardez toujours, par un humble sentiment de vous-même, la méthode et les voies ordinaires tant que Dieu vous y laissera. Mais si sa bonté vous donne un attrait, ou sentiment de sa présence, ou bien la vue de quelque mystère ou vérité, laissez-vous conduire à son esprit. Ne recherchez rien de sensible, attachez-vous à ce qui est de la foi, et qui vous porte à une plus grande abnégation de vous-même, et de toutes choses créées: ne changez pourtant pas de sujet ni de méthode sans le conseil de ceux qui conduiront votre âme, prenez garde soigneusement de conserver la présence de Dieu pendant tout le temps de l’oraison, plutôt que de vous bander la tête à des considérations qui pourraient dans la suite vous retarder plutôt que de vous avancer; chassez avec fidélité toutes les distractions, mais doucement, sans vous en inquiéter. Employez plus de temps à produire des affections, et à faire des résolutions qu’à des considérations. Entrez toujours dans une grande défiance de vous-même dans la vue de vos infidélités, mais confiez-vous entièrement à Dieu dans la vue de ses bontés. Autant que subsistent les affections et l’attrait de Dieu, vous ne devez point passer à d’autres considérations; quand il se communique à l’âme, l’opération doit cesser, ou elle se rend infidèle; persévérez

Estimez beaucoup le saint exercice de l’oraison, d’autant qu’elle est le fondement et le soutien de toutes les vertus; et qu’elle est la source des lumières et de toutes les grâces dont nous avons besoin, tant pour nous sanctifier que pour nous acquitter de nos emplois. Soyez très fidèle à vous rendre au premier son de la cloche au lieu où vous devez faire oraison; et ne vous croyez point exempt de faute, lorsque vous tardez tant soit peu, même un seul moment. Gardez toujours par un humble sentiment de vous-même, et par esprit de régularité la méthode et les voies ordinaires de l’oraison; à moins que Dieu ne vous donne quelque attrait, qu’il faut beaucoup examiner, et ne pas suivre sans conseil et sans l’ordre de votre Directeur. Ne cherchez rien de sensible dans l’oraison, attachez-vous à ce qui est de la foi et qui porte à la haine et à la destruction du péché, au détachement des choses créées, à l’imitation de Jésus-Christ et à l’exercice des vertus qu’il a pratiquées, tâchant de l’imiter le plus parfaitement qu’il vous sera possible. Prenez garde d’employer utilement tout le temps de l’oraison, donnez plus de temps aux affections et aux résolutions qu’aux raisonnements et aux considérations. Ne faites pas seulement des résolutions vagues et générales, mais faites-en toujours de particulières, et prenez des moyens propres pour les exécuter. Persévérez continuellement dans l’oraison, et employez-y fidèlement tout le temps prescrit par vos Règles; portez-vous y même avec plus d’affection lorsque vous


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constamment dans l’oraison quelques sécheresses, aridité, tentation et difficultés que vous puissiez avoir, souvenez-vous que vous êtes toujours trop heureuse que Dieu ne vous abîme pas pour vos péchés, que c’est beaucoup pour vous que de vous souffrir en sa présence: et pour cela lorsque vous vous présentez devant sa Divine majesté, jetez toujours un regard sur votre indignité et renoncez à tout ce qui peut satisfaire l’amour-propre (NICOLAS ROLAND, Guide spirituel et fondateur, p. 91-92).

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êtes dans les sécheresses et dans les tentations, quelque peine ou quelque difficulté que vous y ayez, ou que vous puissiez y avoir, croyez que vous êtres trop heureux que Dieu ne vous abîme point pour vos péchés, et que c’est beaucoup pour vous qu’il vous souffre en sa sainte présence. Quand vous conversez avec Dieu dans l’oraison ou que vous pensez à lui, ayez toujours un regard sur votre bassesse et votre indignité infinie, qui vous tiennent dans un profond respect et anéantissement devant Dieu (JEAN-BAPTISTE DE LA SALLE, Recueil, 14, 3, 1, 3, 4, O.C., p. 93-94).

Analyse comparative Les deux textes sont très proches. Ils présentent cependant des différences. Nous laisserons de côté les différences de style: par exemple, il est sans grande importance que Nicolas Roland appelle l’oraison «la fontaine où vous pouvez puiser toutes les grâces et les lumières dont vous avez besoin» et que Jean-Baptiste de La Salle la nomme plutôt «la source». Il vaut mieux noter ici leur accord sur le fait que l’oraison est «le fondement de toutes les vertus» (Jean-Baptiste de La Salle ajoute: «le soutien»). Décidément, ils ne sont ni l’un ni l’autre avares de ce titre puisqu’ils disent la même chose de l’humilité (avec un appui plus solide dans la théologie morale, et avec une nette différence sur laquelle nous reviendrons) et de la pauvreté. Jean-Baptiste de La Salle a ajouté un paragraphe sur la nécessaire ponctualité: «Soyez très fidèle à vous rendre au premier son de la cloche au lieu où vous devez faire oraison; et ne vous croyez pas exempt de faute, lorsque vous tardez tant soit peu, même un seul moment». Ceci ne nous étonnera pas; nous savons le fondateur des Frères des Ecoles chrétiennes très soucieux de l’utilisation du temps et de la ponctualité. C’est aussi pourquoi, dans le passage où il recommande, à la suite de son directeur, de garder toujours, par un humble sentiment de soi-même «la méthode et les voies ordinaires de l’oraison», il ajoute: «et par esprit de régularité», ce qui ne figure pas dans le texte de Nicolas Roland. Par contre, une différence s’impose tout de suite. S’ils sont d’accord l’un et l’autre pour conseiller de suivre «la méthode et les voies ordinaires» de


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l’oraison, ils n’ont pas la même attitude quand il s’agit de suivre l’action de Dieu qui peut faire sortir des «voies ordinaires». Nicolas Roland dit: «gardez toujours, par un humble sentiment de vous-même, les méthodes et les voies ordinaires, tant que Dieu vous y laissera. Mais si sa bonté vous donne un attrait ou sentiment de sa présence, ou bien la vue de quelque mystère ou vérité, laissez-vous conduire à son esprit». Quelques lignes plus loin, il ajoute quand même, comme par précaution: «ne changez pourtant pas de sujet ni de méthode sans le conseil de ceux qui conduiront votre âme», mais il fait passer ce souci en second. Jean-Baptiste de La Salle, au contraire, semble tout de suite guidé par la prudence: «gardez toujours par un humble sentiment de vous-même et par esprit de régularité la méthode et les voies ordinaires de l’oraison, à moins que Dieu ne vous donne quelque attrait, qu’il faut beaucoup examiner et ne pas suivre sans conseil et sans l’ordre de votre Directeur». On voit qu’en la matière, Nicolas Roland est plus ouvert, plus audacieux, que son ancien dirigé. En bon disciple de Jean-Jacques Olier dont il conseillait la lecture, il invite à se laisser conduire à l’esprit de Dieu quand celui-ci se manifeste par une sollicitation, par un «sentiment de sa présence». N’oublions pas qu’Olier commence un exposé de sa «méthode d’oraison» par les mots suivants: «La méthode que Notre-Seigneur enseigne à ses disciples ne se donne qu’au défaut des soins plus particuliers de l’Esprit, qui conduit ses enfants dans la prière».1 7 Certes, Nicolas Roland précise qu’il faut en conférer avec son directeur. Mais il laisse la porte largement ouverte, d’autant plus que c’est la bonté de Dieu qui donne l’attrait ou le sentiment de sa présence; si donc on est invité à quitter parfois les voies ordinaires, c’est un effet de la bonté de Dieu. Un autre passage du texte de Nicolas Roland qu’on ne retrouve pas chez Jean-Baptiste de La Salle invite également à suivre les impulsions de l’Esprit: «Autant que subsistent les affections et l’attrait de Dieu, vous ne devez point passer à d’autres considérations; quand il se communique à l’âme, l’opération doit cesser, ou elle se rend infidèle». Par «opération» ici, Nicolas Roland indique l’activité de l’âme qui doit s’arrêter pour se laisser à «l’attrait de Dieu». De son côté, Jean-Baptiste de La Salle est un homme minutieux, soucieux de pédagogie et de méthode. Il tient à ne rien laisser de côté. Il veut aider les Frères à mettre leur vie entière, dans tous ses détails, sous la conduite de Dieu. Pour cela, il leur balise le chemin par le moyen de nombreux exercices. N’y a-t-il pas 9 actes à effectuer pour la première partie de l’oraison, 9 pour la seconde partie et 3 pour la dernière? Bien sûr, il faut prendre tout cela avec

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Introduction à la vie et aux vertus chrétiennes, présentation par François Amyot, Le rameau, 1954, p. 22


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souplesse, et quand on en a bien compris le sens, cette complexité se simplifie. Il reste qu’il ne laisse pas beaucoup de place à l’imprévu. Par ailleurs, il est d’accord avec Nicolas Roland pour s’attacher plus aux «affections» et aux résolutions» qu’aux considérations» (le vocabulaire est salésien); également pour ne pas rechercher ce qui est sensible mais plutôt ce qui procède de la foi, pour s’enraciner dans le renoncement à soi-même et l’abnégation, pour persévérer au milieu des sécheresses, des tentations et des difficultés (au contraire, dit Jean-Baptiste de La Salle, il faut s’y porter avec plus d’affection dans ces moments-là), pour rester conscient de son indignité, de sa bassesse. Deux points, apparemment mineurs, sont révélateurs de l’esprit de l’un et l’autre fondateur: Nicolas Roland, parlant des distractions, déclare: «chassez avec fidélité toutes les distractions, mais doucement, sans vous en inquiéter»; pour lui, les distractions dans le cours de l’oraison sont normales; il faut faire ce que l’on peut pour s’en débarrasser bien sûr; mais il faut le faire doucement et ne pas s’en inquiéter. Il ne suscite pas la tension intérieure, il cherche au contraire à la réduire. Jean-Baptiste de La Salle n’a malheureusement pas repris ce passage. Par contre, à propos des résolutions, il a tenu à préciser: «Ne faites pas seulement des résolutions vagues et générales; mais faites-en toujours de particulières, et prenez des moyens propres pour les exécuter»; c’est un homme concret; il veut que l’oraison produise des fruits visibles, et il veut que les Frères prennent des moyens à cet effet.

Respect envers le très Saint Sacrement L’Office La sainte Messe Du respect envers le très Saint Sacrement Soyez modeste et respectueuse dans les églises, n’y parlant jamais, sinon en cas d’extrême nécessité, et pour lors à voix basse, et en peu de mots. Veillez exactement sur vous yeux, ne regardant jamais volontairement. Allez les yeux baissés ou arrêtés sur des objets de dévotion, renouvelez souvent la pensée de la présence de Dieu, et du respect que les anges ont devant sa majesté. Si vous êtes obligés de réciter quelques prières ou offices, appli-

De l’office Lorsque vous réciterez l’office de la très sainte Vierge, récitez-le avec toute l’attention possible et avec un très grand respect intérieur et extérieur. Appliquez-vous y autant que vous pourrez, ou au sens des paroles, ou aux mystères qui y sont contenus, ou simplement à la présence de Dieu, ou à quelques vertus de la très sainte Vierge. Prenez quelque moment pour faire réflexion et rentrer en vous-même avant que de le commencer. Entrez alors dans les dispositions de


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quez-vous autant que vous pourrez au sens des paroles, et aux mystères qui y sont cachés… prescrivez-vous une méthode pour entendre la Sainte Messe avec fruit, attachez-vous particulièrement à celle de l’Eglise, qui offre ce divin sacrifice pour remercier Dieu, pour l’honorer de la manière la plus excellente dans sa souveraine grandeur, pour satisfaction des péchés commis, et pour impétrer les grâces dont on a besoin; faites souvent l’application du sacrifice qui est offert pour vos particuliers besoins (NICOLAS ROLAND, Guide spirituel et fondateur, p. 92).

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Jésus-Christ priant au Jardin des Olives, puisque vous faites la fonction d’un pénitent public qui priez, louez et remerciez Dieu au nom de toute l’Eglise, et plus particulièrement de toute la communauté. Tenez-vous toujours dans la posture la plus humble, la plus modeste, la plus respectueuse et la plus édifiante qu’il vous sera possible; faites toujours avant l’office, intérieurement aussi bien qu’extérieurement la préparation exprimée par ces paroles: Aperi Domine etc… Appliquez-vous surtout à ces paroles, distincte, distinctement, attente, attentivement, ac devote, et dévotement; et l’office étant fini, terminez-le comme l’oraison, par l’action de grâce, l’examen, et la contrition des fautes que vous y aurez commises.

De la sainte messe Soyez toujours fort modeste et très respectueux dans l’Eglise, n’y parlant jamais que pour des choses absolument nécessaires, et en ce cas faites-le à voix basse et en peu de mots. Ayez les yeux baissés ou arrêtés sur quelque objet de dévotion, et ne vous donnez point la liberté d’y regarder de côté et d’autre. Renouvelez-y souvent la pensée de la présence de Dieu, et du respect que les anges ont devant la divine majesté. Lorsque vous entendez la sainte messe, unissez-vous toujours aux dispositions de Jésus-Christ, victime immolée pour la gloire de son Père, et accompagnez toujours votre action de préparation et d’action de grâces. Servez-vous pour entendre la sainte messe avec fruit de la méthode qui est ciaprès, mais que cette méthode ne vous empêche pas de vous y appliquer selon l’intention de l’Eglise, qui offre ce sacrifice


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pour les quatre fins ordinaires des sacrifices de l’ancienne loi, qui étaient ou eucharistiques pour rendre grâces à Dieu, ou propitiatoires pour obtenir le pardon de ses péchés, ou impétratoires pour lui demander quelques grâces, ou des holocaustes pour honorer Dieu et lui rendre ses devoirs (JEAN-BAPTISTE DE LA SALLE, Recueil, 14,4, O.C., p. 94).

Analyse comparative Le titre donné par Nicolas Roland (ou plutôt par celui qui a transmis ces textes aux Sœurs de l’Enfant-Jésus) ne correspond pas complètement au contenu de son texte. Il parle de la Messe, des Offices, et non pas seulement du respect envers le Saint-Sacrement. Son texte est très condensé. Selon son habitude, Jean-Baptiste de La Salle a classé, organisé de façon à rendre la pensée plus accessible. Ainsi a-t-il établi deux parties: tout d’abord «De l’office» et ensuite: «De la sainte messe». C’est au début de la deuxième partie, celle qu’il consacre à la messe, qu’il a inséré les paroles de Nicolas Roland sur l’importance de la modestie et du respect dans l’église, ainsi que du sens de la présence de Dieu. Dans la première partie où il parle de l’office, il a intégré les remarques de Nicolas Roland sur ce sujet, mais ce dernier est beaucoup plus succinct. Jean-Baptiste de La Salle détaille davantage. Surtout, il ajoute la recommandation d’entrer dans les dispositions de Jésus-Christ pénitent au jardin des Oliviers, puisque les Frères qui prient font fonction de «pénitent public». Il ajoute également la recommandation de s’appliquer à la préparation exprimée par les paroles: aperi Domine, et de s’y appliquer distincte, distinctement, attente, attentivement, ac devote, et dévotement. On retrouve la même préoccupation à propos de la messe: «Lorsque vous entendez la sainte messe, unissez-vous toujours aux dispositions de Jésus-Christ, victime immolée pour la gloire de son Père...» Ceci est à signaler d’autant plus que dans tel ou tel autre passage, comme nous l’avons vu, Jean-Baptiste de La Salle a plutôt tendance à minimiser la référence au mystère du Christ et la communion avec lui. Ici au contraire il la développe largement, et laisse apparaître davantage sa proximité avec l’Ecole Française de spiritualité. Notons encore que Jean-Baptiste de La Salle, tout en invitant les Frères à bien suivre la méthode qui est indiquée après, reprend les 4 fins de la messe que Nicolas Roland cite pour rappeler que la première méthode «pour


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entendre la Sainte Messe» est celle de l’Eglise; Nicolas Roland conseille donc aux Sœurs de s’appliquer à «remercier Dieu», à «l’honorer de la manière la plus excellente dans sa souveraine grandeur», à s’unir au Christ pour «la satisfaction des péchés commis» et à «impétrer les grâces dont on a besoin».

Le Silence Du silence

Du silence

Estimez et gardez volontiers le silence comme le gardien de toutes les vertus, et l’obstacle à tous les vices puisqu’il empêche la médisance et toutes les paroles contre la charité, vérité et modestie. Il empêche qu’on ne s’occupe de nouvelles et qu’on ne se dissipe. Considérez souvent qu’une âme parleuse ne peut devenir spirituelle, celui qui ne pêche pas par la langue est un homme parfait, dit le Saint-Esprit. Quand vous serez obligé de parler hors les récréations, que ce soit toujours à voix basse et en peu de mots. Evitez même les choses nécessaires lorsqu’elles ne sont point de saison, et qu’elles se peuvent remettre à un autre temps; cette mortification et suspension est d’un très grand profit et avance la perfection d’une âme en peu de temps, d’autant que les grâces et communications de Dieu sont semblables à une liqueur qui s’épanche, et se perd par la superfluité des paroles. S’il arrive que quelqu’une de vos sœurs se dissipe ou s’oublie en cet article, vous devez par un esprit de charité, l’avertir avec respect et civilité en mettant le doigt sur votre bouche, pour lui donner à entendre qu’il n’est pas temps de parler, ce sera à elle de s’humilier (Nicolas Roland, Guide spirituel et fondateur, p. 94).

Estimez et gardez volontiers le silence, car il est le gardien de toutes les vertus et l’obstacle à tous les vices, puisqu’il empêche les médisances et toutes les paroles contre la charité, la vérité et la modestie, et qu’il fait qu’on ne s’occupe que des choses nécessaires, et qu’on ne se dissipe pas par des entretiens trop extérieurs et par des paroles inutiles. Considérez souvent qu’un homme qui n’est pas retenu en paroles ne peut pas devenir spirituel, et qu’un moyen sûr pour être bientôt parfait est de ne pas pécher par sa langue. Ne parlez pas sans nécessité hors le temps des récréations et quand vous y serez obligé, faites-le toujours avec permission et avec retenue, à voix basse et en peu de mots. Evitez même de parler des choses nécessaires quand elles se peuvent remettre à un autre temps; cette mortification est d’un très grand profit et sert beaucoup à avancer une âme dans la perfection, d’autant que les grâces et les communications de Dieu sont semblables à une liqueur qui s’évente et se perd par la superfluité des paroles. Tâchez de joindre toujours le silence intérieur avec le silence extérieur de votre langue, oubliant ce qui est créé pour vous souvenir de Dieu et de sainte présence, dont vous tâcherez de vous entretenir toujours intérieurement (Jean-Baptiste de La

Salle, Recueil, 14, 11, 1, O.C., p. 98).


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Analyse comparative Ici, Jean-Baptiste de La Salle a suivi très strictement la pensée de Nicolas Roland dans son contenu et dans son développement. Les seules modifications qu’il apporte sont des modifications de style. Comme à son habitude, il retouche, clarifie, enlève les mots qu’il estime inutiles, divise en paragraphes pour que le déroulement de la pensée apparaisse plus clairement. Mais rien de notable qui toucherait au fond de la pensée de Nicolas Roland. Cependant, il a modifié le dernier paragraphe. Là où Nicolas Roland invite les Sœurs à la correction fraternelle, Jean-Baptiste de La Salle insiste sur la nécessité de joindre le silence intérieur au silence extérieur, en s’appuyant sur la conscience de la présence de Dieu. Cet accent n’est pas du tout étranger à Nicolas Roland qui en parle à diverses reprises dans ses écrits, mais pas à cet endroit. Notons également que Nicolas Roland emploie une expression qui est, selon lui, une citation scripturaire: Considérez souvent qu’une âme parleuse ne peut devenir spirituelle, celui qui ne pêche pas par la langue est un homme parfait, dit le Saint-Esprit. Jean-Baptiste de La Salle ne signale pas que cette phrase est une citation de l’Ecriture (de fait difficile à identifier de manière très précise). Enfin, là où Nicolas Roland parle des grâces de Dieu comme une liqueur qui s’épanche, et se perd par la superfluité des paroles, Jean-Baptiste de La Salle utilise le mot s’évente au lieu de s’épanche. Y a-t-il eu erreur de copiste? Ou bien Jean-Baptiste de La Salle a-t-il volontairement changé le mot?

De la Rénovation intérieure De la rénovation intérieure

De la rénovation

La pratique de la rénovation intérieure nous est d’autant plus nécessaire et efficace que notre nature corrompue est portée au relâchement dans les résolutions que nous avons prises, en nous engageant au service de Dieu. C’est cette rénovation qui nous tient et remet dans la ferveur, avec laquelle nous devons servir Dieu puisque maudit est celui qui sert Dieu négligemment. Partant, rendez-vous y fidèle tous les ans dans votre retraite, toutes les grandes fêtes, les vingt-cinquième de chaque mois, et même toutes les semaines, et s’il y a moyen tous

La pratique de la rénovation intérieure est d’autant plus nécessaire que notre nature d’elle-même nous porte toujours au relâchement, et que nous nous démentons aisément des meilleures résolutions que nous avons prises, en nous engageant au service de Dieu; c’est pourquoi, outre les retraites annuelles, prenez toutes les semaines une heure, comme il est marqué dans la Règle, la veille du jour que vous devez rendre compte de votre conscience, et employez-la toute entière tant en oraison qu’en lecture spirituelle, prenant pour


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les jours, rentrant en vous-même pour voir si vous êtes dans les premiers sentiments que Dieu vous a donnés en vous engageant à son service. Voyez ce que vous avez entrepris pour son service, de quelle manière vous le continuez, ne vous flattez point en cet article. Reprenez votre première ferveur, si vous ne voulez vous rendre désagréables à Dieu. Croyez qu’il vous demandera compte de tous les bons mouvements négligés (NICOLAS ROLAND, Guide spirituel et fondateur, p. 95).

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votre lecture le directoire, vos Règles et vos résolutions, examinant si en toutes choses vous vous êtes conduit selon l’ordre de Dieu, et comme vous vous l’étiez proposé: marquez sur un papier en cas de besoin afin de vous en mieux souvenir, toutes les fautes que vous aurez remarqué avoir commises pendant la semaine, afin d’en rendre exactement compte au Frère Directeur. Faites en sorte que vos principales vertus soient la fermeté et la fidélité dans la pratique du bien, et particulièrement à l’égard de vos Règles et de vos exercices, et prenez garde de ne vous relâcher en rien là-dessus; demandez souvent cette fermeté et cette fidélité qui est nécessaire pour obtenir le don de persévérance et pour ne pas tomber dans le malheur de ceux dont il est dit dans l’Ecriture: Malheur à celui qui fait l’œuvre de Dieu avec négligence (JEAN-BAPTISTE DE LA SALLE, Recueil, 14, 12, O.C., p. 99).

Analyse comparative Rappelons que la rénovation (que Nicolas Roland qualifie d’intérieure, alors que Jean-Baptiste de La Salle n’utilise pas de qualificatif) est toute manière de s’examiner pour se ressaisir dans les engagements qu’on a pris. Le texte de Jean-Baptiste de La Salle est nettement plus long que celui de Nicolas Roland. Il commence de la même manière, moyennant les aménagements de style que Jean-Baptiste de La Salle apporte selon son habitude. Mais Nicolas Roland, après avoir affirmé la nécessité de la rénovation, en raison de notre propension au relâchement, définit tout de suite son objectif: «C’est cette rénovation qui nous tient et remet dans la ferveur, avec laquelle nous devons servir Dieu, puisque maudit est celui qui sert Dieu négligemment». C’est seulement à la fin de son texte que Jean-Baptiste de La Salle affirmera l’objectif de la rénovation et reprendra la citation d’Ecriture avancée par Nicolas Roland: «Demandez souvent cette fermeté et cette fidélité qui est nécessaire pour obtenir le don de persévérance et pour ne pas tomber dans le malheur de ceux dont il est dit dans l’Ecriture: malheur à celui qui fait l’œuvre de Dieu avec négligence.


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Notons que Jean-Baptiste de La Salle emploie persévérance là où Nicolas Roland emploie le mot ferveur. La différence de tempérament entre les deux hommes apparaît dans le choix des mots: Nicolas Roland est plus affectif, plus passionné; Jean-Baptiste de La Salle est plus sur le registre de la continuité, de la fidélité dans la durée. Jean-Baptiste de La Salle est également tout de suite attentif aux moyens; n’oublions pas que c’est un pédagogue; c’est par les moyens qu’on atteint l’objectif. Ils sont d’ailleurs plus nombreux que chez Nicolas Roland; c’est pourquoi le texte est plus long. La Règle contient des déterminations très précises sur ce plan et Jean-Baptiste de La Salle y renvoie, en ajoutant des conseils pédagogiques qui faciliteront l’examen, comme de noter sur un papier les fautes commises durant la semaine pour pouvoir mieux en rendre compte au Frère directeur.

De la lecture spirituelle De la lecture spirituelle

De la lecture spirituelle

Suivez l’obéissance en vos lectures, ne lisez jamais de livres que par conseil, évitez les livres curieux et indifférents, et même ceux desquels vous pourriez tirer quelque vanité. Ne commencez point vos lectures que vous ne vous soyez mise en la présence de Dieu pour lui demander grâce et lumières pour comprendre les vérités que vous lirez. Désavouez le désir déréglé d’apprendre pour vous produire et vous faire estimer; si vos lectures sont d’étude, protestez devant Dieu que vous ne voulez vous y employer que pour sa gloire et le salut du prochain; si ce sont lectures spirituelles, que ce ne soit que pour s’unir à lui, et pour vous avancer à son service. Soyez attentive à ce que vous lisez, et pensez souvent que c’est Jésus-Christ lui-même qui vous instruit par ces lettres missives du paradis. Respectez jusqu’aux moindres syllabes; interrompez-vous de temps en temps, pour réfléchir un moment sur la lecture, que la curiosité ne vous domine point, non plus que la précipitation pour achever votre

Ne lisez aucun livre sans la permission ou sur l’ordre de votre Directeur; ne commencez point de lecture sans vous être mis en la présence de Dieu, demandez-lui par quelque courte prière les grâces et les lumières pour pouvoir comprendre et pratiquer ce que vous allez lire. Ne lisez jamais par curiosité, et ne vous pressez point pour avoir bientôt lu un livre, arrêtez-vous de temps en temps pour goûter ce que vous lisez, consultez et examinez-vous de temps en temps vous-même sur ce qui vous empêche de pratiquer ce que vous lisez; lorsque vous le pouvez pratiquer, voyez pourquoi vous ne le faites pas. Lisez votre livre comme vous liriez une lettre que Jésus vous aurait envoyée luimême pour vous faire connaître sa sainte volonté; et surtout si c’est l’Ecriture sainte, lisez-la avec un très profond respect, respectez-en jusqu’aux moindres syllabes, lisez-la avec soumission d’esprit, pratiquez ce que vous entendez, adorez ce que vous n’entendez pas; et si vous le voulez enten-


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livre. Goûtez et pénétrez-vous des vérités que vous lisez, afin que votre âme en soit fortifiée. A la fin de vos lectures, ne manquez pas de rendre grâces à Dieu (par une élévation d’esprit et de cœur) des vérités qu’il vous a découvertes; remettez en votre mémoire les points principaux que vous aurez remarqués pour votre avancement (NICOLAS ROLAND, Guide spirituel et fondateur, p. 95).

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dre, demandez quel en est le sens à ceux qui en ont l’intelligence. Repassez souvent dans votre esprit et tâchez de graver dans votre cœur ce que vous avez le plus goûté dans ce que vous avez lu. A la fin de votre lecture, ne manquez pas de rendre grâces à Dieu des vérités que vous aurez le plus goûtées et retenues, et priez-le qu’il vous aide à les mettre en pratique (JEAN-BAPTISTE DE LA SALLE, Recueil, 14, 7, 1-2-3, O.C., p. 97).

Analyse comparative La relecture de Jean-Baptiste de La Salle reste très proche du texte de Nicolas Roland. Le fondateur des Frères ne reprend pas le cas de la lecture d’étude évoquée par Nicolas Roland. Il n’envisage que la lecture spirituelle qui, pour l’un et l’autre constitue un véritable exercice: il ne faut l’entreprendre que sur le conseil de personnes avisées, la commencer comme on commence l’oraison, par la mise en présence de Dieu, la poursuivre de telle manière à bien comprendre ce qu’on lit et à le mettre en pratique. Il convient d’exclure une lecture entreprise par pure curiosité. La pensée de Nicolas Roland ici est plus complexe; il parle aussi du risque qui existe parfois de se «produire», c’est-à-dire de se mettre en valeur en montrant qu’on a lu tel ou tel ouvrage. Le seul but de la lecture doit être de s’unir à JésusChrist. Pour cela, il est bon de lire comme si c’était Jésus-Christ lui-même qui nous instruisait (on remarquera ici encore le sens pédagogique de JeanBaptiste de La Salle qui dit de lire comme on lirait une lettre que JésusChrist nous aurait envoyée lui-même); il ne faut pas lire trop vite, avec le souci de finir rapidement le livre. Au contraire il faut s’imprégner de la lecture, respecter le texte (surtout s’il s’agit de l’Ecriture sainte, dit Jean-Baptiste de La Salle, ce qui montre que la lectio divina pouvait être un mode de lecture spirituelle), le goûter, se pénétrer de ce qui a le plus frappé de façon à le mettre en pratique, non sans avoir auparavant rendu grâces de ce qu’on a reçu. La lecture spirituelle apparaît donc ici comme un véritable exercice de méditation; son déroulement est proche de celui de l’oraison elle-même. Elle est considérée comme une véritable source pour la vie spirituelle des Sœurs et des Frères.


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Du repas De la réfection

Du repas

Considérez-vous comme une pauvre mendiante à laquelle on donne à manger par aumône, et qui ne doit jamais trouver rien à redire à ce qu’on lui donne, quelque mal apprêté qu’il soit. Considérez aussi que tous les goûts insipides n’ont rien de comparable aux mets dont les damnés sont repus dans l’enfer, du nombre desquels vous seriez, si Dieu par sa miséricorde, ne vous eût préservée. Contentez-vous toujours de ce qu’on vous donne, ne désirez rien de particulier, suivez en tout la Communauté. N’oubliez jamais de vous mortifier en quelque chose, et cependant en secret, afin de ne point paraître singulière. Souvenez-vous du banquet céleste qui durera éternellement, où vous serez reçue si vous vous êtes volontiers privée de quelque chose pour l’amour de Dieu. Descendez aussi quelquefois en esprit dans l’enfer pour voir comment les âmes sensuelles y sont traitées. Rendez-vous attentives à la lecture de table, pour désoccuper votre esprit, et séparer votre goût des viandes; regarder le manger comme une nécessité qui nous met au rang des bêtes. C’est ce qui a fait gémir les saints de se voir obligés de faire cette action animale pendant que les anges louent Dieu dans le ciel (NICOLAS ROLAND, Guide spirituel et fondateur, p. 96).

Considérez-vous comme un pauvre mendiant auquel on donne à manger par aumône, et qui ne doit trouver rien à redire à ce qu’on lui donne, quelque mal apprêté qu’il soit; contentez-vous toujours de ce qu’on vous donne, ne désirez rien de particulier, conformez-vous en tout à la communauté. Considérez aussi que tous les goûts insipides n’ont rien de comparable aux mets dont les damnés sont repus dans l’enfer, du nombre desquels vous seriez, si Dieu par sa miséricorde, ne vous en eût préservé. N’oubliez jamais de vous mortifier de quelque chose, et cependant en secret, afin de ne point paraître singulier. Souvenez-vous du banquet céleste que vous ferez éternellement, si vous vous êtes volontiers privé de quelque chose pour l’amour de Dieu. Descendez aussi souvent dans les enfers, pour voir comment les sensuels y sont traités. Gardez aussi souvent un très grand silence pendant le repas, rendez-vous attentif à la lecture de table, pour désoccuper votre esprit et séparer votre goût des viandes, regardez le manger comme une nécessité qui vous met au rang des bêtes; ce qui a fait gémir les saints de se voir obligés à cette action animale, pendant que les bienheureux louent Dieu dans le ciel (JEAN-BAPTISTE DE LA SALLE, Recueil, 14,

9, 1, O.C., p. 97). Analyse comparative Il n’y a rien de particulier à dire sur ce numéro; il est repris quasiment à l’identique par Jean-Baptiste de La Salle qui a, comme à son habitude, divisé en paragraphes pour plus de clarté, et parfois légèrement modifié l’ordre des phrases, mais pas d’une manière qui toucherait au sens.


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De la pauvreté De la pauvreté

De la pauvreté

Ressouvenez-vous souvent que c’est pour l’amour et à l’imitation de Jésus-Christ que vous vous êtes faite pauvre, et que vous avez renoncé aux biens de la terre. Chérissez la sainte pauvreté comme la vertu bien-aimée de ce divin Sauveur, qu’il a embrassée et pratiquée toute sa vie pour l’amour de vous, et pour vous mériter la grâce de mépriser les richesses. Demandez-lui souvent qu’il vous prive de l’abondance en cette vie pour vous rendre agréable à ses yeux. Défaites-vous le plus que vous pourrez des choses mêmes qui vous sont utiles et nécessaires pour le respect de cette vertu. Chérissez-la comme JésusChrist l’a chérie, et comme un moyen qui vous mène à la perfection. Ne vous contentez pas de porter le nom de pauvre et d’en avoir fait le vœu, pratiquez-le en toute occasion. Soyez bien aise qu’il vous manque toujours quelque chose qui ne soit point de votre choix, et quand il vous sera permis de choisir, prenez toujours le moindre. Croyez que, pour être véritablement pauvre, et pour accomplir votre vœu en perfection, il ne faut posséder rien de superflu, même avec permission. Ne souffrez donc rien dans votre cellule, non pas même une image, sans nécessité et conseil. Mettez-vous dans le plus grand dénuement qui vous sera possible, et pour vous y engager de plus en plus, pensez à la récompense que Dieu promet à ceux qui pratiquent la vertu de pauvreté, et au contraire les malédictions qu’il donne à ceux qui ont leurs aises et commodités en cette vie. Je ne peux souffrir que vous ayez quoi que ce soit en propre. Le tien et le mien ne peut convenir avec la pauvreté de Jésus-Christ (NICOLAS ROLAND, Guide spirituel et fondateur, p. 98).

Chérissez la pauvreté comme JésusChrist l’a aimée, et comme le moyen le plus propre que vous puissiez prendre pour avancer dans la perfection. Tenez-vous toujours dans la disposition de mendier si la providence le veut, et de mourir dans la dernière misère. N’ayez et ne disposez de rien, ni de vousmême. Enfin, tendez toujours au dénuement et au dépouillement de toutes choses, afin de vous rendre semblable à JésusChrist qui a manqué de tout pendant sa vie pour l’amour de nous. C’a été aussi la pratique de tous les grands saints qui se sont retirés du monde, et qui ont travaillé au (salut?) des âmes, comme les apôtres et autres. Imitez-les en méprisant les choses temporelles, puisque vous êtes dans un état et dans un emploi qui a rapport au leur. N’ayez rien en propre, et regardez tout ce que vous avez comme étant commun à tous vos frères, le donnant, le cédant et le quittant sans peine. Privez-vous le plus que vous pourrez, non seulement du superflu, mais des choses mêmes qui sont utiles et nécessaires, et soyez bien aise quand quelque chose vous manque sans que vous y ayez contribué (JEAN-BAPTISTE DE LA SALLE, Recueil, 15, 10, 1, O.C., p. 105).


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Analyse comparative Contrairement aux autres textes déjà étudiés, Jean-Baptiste de La Salle est légèrement plus court que Nicolas Roland sur le sujet de la pauvreté. Il prend plus de liberté avec l’ordonnancement du texte. Il va aussi puiser en d’autres passages de Nicolas Roland. Contrairement à la vertu d’humilité, il n’hésite pas à reprendre les formules de Nicolas Roland qui parlent de chérir la pauvreté. Il reste cependant plus succinct, moins insistant. Là où Nicolas Roland déclare: «Chérissez la sainte pauvreté comme la vertu bien-aimée de ce divin sauveur qu’il a embrassée et pratiquée toute sa vie pour l’amour de vous…», Jean-Baptiste de La Salle est plus laconique: «Chérissez la pauvreté comme Jésus-Christ l’a aimée, et comme le moyen le plus propre que vous puissiez prendre pour avancer dans la perfection». Il reprend en fait ici, en commençant, une autre expression de Nicolas Roland qui figure dans le cours du texte de ce dernier: «Chérissez-la comme Jésus-Christ l’a chérie, et comme un moyen qui vous mène à la perfection». Il a remplacé «chérie» par «aimée», ce qui montre bien qu’il résiste à s’exprimer sur le registre affectif. Est-ce simplement le fait qu’il s’adresse à des hommes? Jean-Baptiste de La Salle ajoute à l’exemple de Jésus-Christ auquel il faut se rendre semblable, «la pratique de tous les grands saints qui se sont retirés du monde, et qui ont travaillé au (salut?) des âmes, comme les apôtres et les autres». Sa vision est donc plus ecclésiale ici que celle de Nicolas Roland; et il en profite pour dire que les frères sont «dans un état et dans un emploi qui a rapport au leur». Les frères continuent la vie apostolique des apôtres dans leur emploi, c’est-à-dire dans leur fonction. Sa vision est aussi plus communautaire que celle de Nicolas Roland. Au «n’ayez rien en propre» qui fait écho au «Je ne peux souffrir que vous ayez quoi que ce soit en propre» de Nicolas Roland, il ajoute: «et regardez tout ce que vous avez comme étant commun à tous vos frères, le donnant, le cédant et le quittant sans peine». Il fonde donc la pauvreté à la fois sur l’imitation de Jésus-Christ et sur l’appartenance à la communauté. Nicolas Roland, dans ce texte, en reste à une conception assez individuelle de la pauvreté. Enfin, il faut noter que Jean-Baptiste de La Salle a emprunté le vocabulaire de son deuxième paragraphe à un autre texte de Nicolas Roland: «Tenez-vous toujours dans la disposition de mendier si la providence le veut, et de mourir dans la dernière misère», dit Jean-Baptiste de La Salle. Le mot mendier n’intervient pas chez Nicolas Roland à propos de la pauvreté mais à propos de la «réfection», c’est-à-dire des repas: «Considérez-vous toujours comme une pauvre mendiante à laquelle on donne à manger par aumône…».


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De l’Humilité De l’humilité

De l’humilité

Considérez la chère vertu de l’humilité comme le fondement de toutes autres vertus, et sans laquelle on ne peut avoir aucune solide piété, le tout n’étant qu’hypocrisie. Pour acquérir cette vertu, il faut travailler fortement à se connaître soimême. 1. Ce que l’on a été par le passé autant au corps qu’en l’âme. 2. Ce que l’on est présentement. 3. Ce que l’on sera à l’avenir. Le néant dont nous avons été tirés, les péchés que nous avons commis, la colère de Dieu que nous avons irrité, l’enfer que nous avons mérité sont des obligations très convaincantes de nous humilier. Souvenez-vous souvent que vous êtes la plus imparfaite de vos Sœurs, et qu’il n’y a que votre orgueil qui puisse vous donner d’autres pensées de vous-même. Ne croyez jamais être utiles à quoi que ce soit, et quand vous serez employée à quelque chose, entrez dans des bas sentiments de vous-même, considérant que Dieu se sert de vous comme d’un vil instrument, et que vous n’êtes propre qu’à attirer sa malédiction. Souffrez humblement les rebuts et les mépris que l’on fera de vous comme choses très justes… Demandez souvent à JésusChrist qu’il vous fasse part de son humilité et de sa douceur. Quand il sera à votre choix prenez le plus vil emploi, les plus vieux habits de la maison. Dans les entretiens, parlez des dernières et avec une voix modérée, par humble sentiment de vousmême. Avouez et accusez vos fautes de vous-même, sans attendre les répréhensions, et lorsque vous serez reprise, ne vous justifiez jamais, à moins que l’obéissance ne vous y oblige. Ne recherchez non plus

Considérez cette vertu comme le fondement de toutes les autres vertus morales, sans laquelle on ne peut avoir aucune solide piété; puisque la piété sans humilité n’est ordinairement qu’une pure hypocrisie ou illusion. Pour acquérir cette vertu, il faut travailler fortement à se connaître. 1. Ce qu’on a été par le passé, tant au corps qu’en l’âme. 2. Ce que l’on est présentement. 3. Ce qu’on sera à l’avenir. 4. Le néant d’où nous sommes tirés, les péchés que nous avons commis, la colère de Dieu que nous avons irrité, et enfin l’enfer que nous avons mérité. Souvenez-vous souvent et soyez persuadé que vous êtes le plus faible et le plus imparfait de tous, et qu’il n’y a que votre orgueil qui vous puisse faire croire le contraire, et quelque méchant homme que vous entendiez parler, regardez-le comme beaucoup au-dessus de vous. Entrez dans de bas sentiments de vousmême, et ne vous croyez utile à rien, considérant que Dieu se sert de vous comme d’un vil instrument et que vous n’êtes propre qu’à attirer sa malédiction. Ne dites jamais rien de vous-même qui puisse laisser la moindre estime dans l’esprit du monde. Fuyez les louanges et les approbations des hommes, et lorsque quelqu’un dira quelque chose à votre avantage, pensez que l’honneur n’est dû qu’à Dieu et à vous la confusion. Tenez-vous dans le silence et humiliez-vous devant Dieu, dans la vue que vous n’êtes que néant et que péché. Souffrez au contraire humblement les mépris et les rebuts que l’on fera de vous comme une chose très juste. Prenez toujours


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jamais de singularité, ni de préférence en quoi que ce soit. Suivez pas à pas JésusChrist en esprit, dans les occasions où il s’est le plus humilié pour l’amour de vous (NICOLAS ROLAND, Guide spirituel et fondateur, p. 99).

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le pire quand il sera à votre choix; dans les entretiens et les récréations, ne vous empressez pas de parler, et parlez-y avec simplicité, sans user de paroles recherchées et affectées, et sans improuver ce que les autres disent, ni les interrompre, et avec une voix modérée. Lorsque vous serez repris ou averti de vos défauts, ne vous justifiez point, à moins que votre supérieur ne vous ordonne de dire la vérité. Considérez sans cesse ce que vous pouvez de vous-même et ce que vous avez fait, quand Dieu vous a laissé à vous-même. Regardez-vous comme capable seulement de vous perdre, et appréhendez jusqu’aux actions que vous croyez les meilleures (JEAN-BAPTISTE DE LA SALLE, Recueil, 15, 8, 1-15, 8, O.C., p. 103-104).

Analyse comparative Voici encore une relecture par Jean-Baptiste de La Salle d’un texte de Nicolas Roland qu’on retrouve presque à l’identique dans le Recueil. Cependant, il faut se garder de nouveau d’une comparaison trop rapide qui empêcherait de voir les différences, bien réelles, entre les deux textes, aussi proches soient-ils l’un de l’autre. De manière générale, comme dans le texte sur le lever, Jean-Baptiste de La Salle écrit de façon plus claire, plus ordonnée, plus précise et grammaticalement plus juste que Nicolas Roland. Ceci doit être considéré comme acquis une fois pour toutes. Mais il y a chez lui des omissions, des ajouts, des modifications qui sont significatives de l’esprit dans lequel il relit Nicolas Roland. Dès la première phrase, une omission attire notre attention: Nicolas Roland parle de «cette chère vertu de l’humilité»; Jean-Baptiste de La Salle supprime l’adjectif «chère». Il est pourtant caractéristique de l’esprit de Nicolas Roland. Pour ce dernier, une vertu doit être aimée, estimée, honorée. Ces différents mots reviennent souvent sous sa plume quand il traite des différentes vertus. On pourrait voir là l’expression d’un tempérament plus affectif. Mais l’explication est probablement plus théologique que psychologique. Si Nicolas Roland recommande aux Sœurs d’aimer et d’honorer les


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vertus, c’est parce qu’elles ont été pratiquées par Notre-Seigneur lui-même. A travers elles, c’est lui qu’on aime et qu’on honore. Il le suggère assez clairement à propos de la vertu de chasteté:18 «La chasteté est une vertu qui doit être chère aux épouses de Jésus-Christ; étant telles par le vœu que vous en avez fait, n’épargnez rien pour vous la conserver; comme votre Epoux est le plus chaste et le plus pur de tous les Epoux, il veut aussi que vous soyez soigneuse d’être pure et chaste». Ou encore, à propos de la mortification et de la pénitence:19 «Les Sœurs doivent écouter et suivre cette sainte doctrine et aimer cette vertu sans laquelle elles ne peuvent satisfaire pour leurs fautes, et leur vie être entièrement conforme à celle de Jésus-Christ». Or on peut remarquer que Jean-Baptiste de La Salle a omis dans sa relecture les passages de Nicolas Roland où il est question de Jésus-Christ: «Demandez souvent à Jésus-Christ qu’il vous fasse part de son humilité et de sa douceur», et «Suivez pas à pas Jésus-Christ en esprit dans les occasions où il s’est le plus humilié pour l’amour de vous». Le Frère Joseph Le Bars, dans les articles cités, s’est étonné à juste titre de cette omission: «le texte de Nicolas Roland se termine par un paragraphe qu’on ne trouve pas même ébauché, dans La Salle. Ce qui surprend peut-être davantage c’est que la référence qui y est faite à Jésus-Christ n’éveille pas d’écho chez Jean-Baptiste de La Salle …». Ce qui conduit le Frère Le Bars à suggérer que Jean-Baptiste de La Salle serait témoin d’une version intermédiaire où les références à Jésus-Christ. n’auraient pas figuré. Mais c’est mal connaître Nicolas Roland qui puise facilement son inspiration dans la contemplation du Verbe incarné. Les textes qui présentent cette structure sont trop fréquents chez lui pour que l’hypothèse d’une version intermédiaire s’impose. Il convient plutôt de se rendre à l’évidence: dans sa relecture, Jean-Baptiste de La Salle a délibérément effacé la référence au Christ, pour une raison que nous ignorons. Il serait en effet parfaitement incongru de penser qu’elle ait pu lui échapper, puisqu’il en fait largement état à propos d’autres vertus, par exemple l’obéissance,20 la pénitence,21 la pauvreté,22 la tempérance.23 De même, à propos de la pauvreté Jean-Baptiste de La Salle utilise l’expression: «Chérissez la pauvreté comme Jésus l’a aimée…»;24 il

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TV 0, T6

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reprend à l’évidence un texte de Nicolas Roland: «Chérissez la sainte pauvreté comme la vertu bien-aimée de ce divin sauveur».25 L’étonnement, pour le texte sur l’humilité vient donc précisément du fait que Jean-Baptiste de La Salle a supprimé des passages de Nicolas Roland qu’il utilise volontiers pour d’autres sujets. D’une omission, nous passons à un ajout. Au début de son texte, Nicolas Roland déclare: «Considérez la chère vertu de l’humilité comme le fondement de toutes les autres vertus». Jean-Baptiste de la Salle précise: «Considérez cette vertu comme le fondement de toutes les autres vertus morales». Nicolas Roland semble donc dire que l’humilité est le fondement de toutes les vertus, y compris les vertus théologales, alors que Jean-Baptiste de La Salle restreint la qualité de fondement aux vertus morales. Cet ajout qui est en fait une restriction a-t-il une signification? Pour la comprendre, il faut se référer à la Somme Théologique de saint Thomas, lorsque celui-ci parle de l’humilité à propos de la vertu de tempérance, en se posant la question de la place de l’humilité par rapport aux autres vertus:26 «Ce qui est premier dans l’acquisition des vertus peut s’entendre de deux manières: d’une première façon parce qu’on enlève un obstacle. Et à ce titre, l’humilité tient la première place, en tant qu’elle chasse l’orgueil auquel Dieu résiste, et rend l’homme docile et ouvert à l’influx de la grâce divine, en tant qu’elle vide l’enflure de la superbe. «Dieu résiste aux orgueilleux, écrit S. Jacques (4, 6), mais il donne sa grâce aux humbles». C’est de cette façon que l’humilité est appelée le fondement de l’édifice spirituel. D’une autre façon, dans les vertus, quelque chose est premier directement, en donnant dès maintenant accès à Dieu. Or le premier accès à Dieu se fait par la foi. «Celui qui s’approche de Dieu doit croire» (Heb. 11, 6). Et à ce titre, c’est la foi qui est le fondement, d’une façon plus noble que l’humilité». Ce passage de saint Thomas permet de comprendre facilement la divergence entre Nicolas Roland et Jean-Baptiste de La Salle. Le premier entend ici l’humilité comme la vertu qui enlève l’obstacle qui empêche toutes les autres vertus de se déployer (y compris les vertus théologales): l’orgueil. On peut en effet croire, espérer, aimer, avec orgueil, et, dans ce cas, la foi, l’espérance et la charité ne peuvent parvenir à leur perfection. Elles sont grevées par l’orgueil. L’humilité est bien alors le «fondement de toutes les vertus» ou «le fondement de l’édifice spirituel» comme le dit saint Thomas lui-même. Par contre Jean-Baptiste de La Salle regarde d’abord dans l’organisme des vertus celles qui donnent accès directement à Dieu; et dans ce cas, c’est la foi

25 26

AM1, T15 S.T. Le Cerf, 1996 (introduction et notes de A.M. Henry), Q. 161, a. 5, ad 2.


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qui est première, car on ne peut espérer et aimer Dieu que si l’on croit. L’humilité n’intervient alors que comme le fondement des vertus morales. Quand on sait la place tenue par la foi dans la pensée et la pédagogie de Jean-Baptiste de La Salle, on ne s’étonnera pas de son choix. Nicolas Roland, de son côté, a adopté la perspective plus classique en théologie spirituelle, de l’humilité comme fondement de toutes les vertus, que saint Thomas valide aussi, mais selon un certain point de vue. Jean-Baptiste de La Salle a introduit dans son propre texte des passages tirés du n° 21 des Avis pour la conduite des les personnes régulières sur l’abnégation, et un petit passage tiré des Maximes.27 Comme le dit le Frère Le Bars, c’est simplement la preuve que Jean-Baptiste de La Salle connaissait très bien les écrits de Nicolas Roland, et particulièrement les Avis pour les personnes régulières. Nous voudrions faire une remarque à propos d’une phrase du Frère Le Bars dans son commentaire. Il dit ceci: «Comme on peut le voir les emprunts sont assez importants dans ce texte de La Salle et les modifications minimes». Il nous semble qu’il y a dans cette expression deux erreurs de perspective. D’une part, en ce qui concerne les modifications que le Frère Le Bars qualifie de «minimes». Si l’on examine le texte matériellement, en effet, on peut dire que les modifications sont minimes. Elles sont cependant importantes si l’on examine l’esprit du texte, car Jean-Baptiste de La Salle n’a pas repris ce qui constitue l’esprit du texte de Nicolas Roland, c’est-à-dire le rapport à Jésus-Christ qui a lui-même pratiqué l’humilité et auquel on doit se conformer dans la pratique de cette vertu, qui est «chère», justement parce qu’il l’a lui-même pratiquée. D’autre part, en ce qui concerne le mot «emprunts». L’emploi de ce mot laisse entendre que nous serions en face d’un texte original de Jean-Baptiste de La Salle qui l’aurait composé en pratiquant des emprunts chez Nicolas Roland. Or il n’en est rien. Le texte original est de Nicolas Roland et le texte de Jean-Baptiste de La Salle est une relecture, avec des modifications, des ajouts, des omissions, des emprunts à d’autres passages de Nicolas Roland. Cette relecture ne permet d’ailleurs pas toujours de saisir sur le vif les choix opérés par Jean-Baptiste de La Salle, car ces choix sont parfois contradictoires. Il ne faut donc pas tirer des observations que nous faisons des conséquences définitives ou générales. En effet, pourquoi par exemple Jean-Baptiste de La Salle a-t-il gardé intégralement la pratique par Jésus-Christ de la vertu de pauvreté et l’a-t-il éclipsée pour la vertu d’humilité? Cette différence de traitement des textes de Nicolas Roland dans la relecture de Jean-Baptiste de La Salle reste assez mystérieuse.

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AM 3, T 1


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5. Conclusions Quelles conclusions pouvons-nous tirer de cette analyse comparative? D’abord tout simplement cette évidence que Jean-Baptiste de La Salle connaissait très bien les Avis pour la conduite des personnes régulières. De là à penser que c’est lui qui l’a fait connaître aux Sœurs et qui les leur a livrés tels que nous les avons aujourd’hui avec simplement quelques ajouts, comme le présentateur du texte le dit, il n’y a qu’un pas. Faut-il le franchir? Nous resterons sur le point d’interrogation. Quoi qu’il en soit, la relecture des textes de Nicolas Roland par Jean-Baptiste de La Salle fait apparaître assez clairement les différences de psychologie, de caractère entre les deux hommes. Jean-Baptiste de La Salle est un pédagogue: il ordonne, il trie, il distribue en paragraphes. Nicolas Roland se préoccupe moins des détails: il a une idée à faire passer, il l’affirme avec vigueur; dans son style lui-même se révèle le dynamisme spirituel et apostolique qui l’habitait; il veut donner des convictions fortes et il le fait avec ferveur. Il est donc plus synthétique dans son approche. Jean-Baptiste de La Salle, lui, veut bien sûr aussi communiquer des convictions mais à travers une pédagogie, des procédures qu’il détaille avec soin. Il est plus méthodique et plus soucieux du concret. D’où le risque pour lui, comme on le voit par exemple dans le texte sur le lever, de perdre une part de ce que Nicolas Roland désirait communiquer, en tout cas d’en diminuer l’intensité. Par contre, en détaillant, il s’offre la possibilité de développer la pensée de son ancien directeur spirituel, voire de s’appuyer (cela se produit une fois) sur d’autres citations scripturaires plus adaptées aux Frères. Car s’il est un point sur lequel ils se rejoignent parfaitement, c’est bien le souci de fonder sur l’Ecriture les attitudes et comportements qu’ils préconisent. On remarque aussi que Nicolas Roland, surtout lorsqu’il parle de l’oraison, est plus libre, plus audacieux que Jean-Baptiste de La Salle, plus mystique sans doute, ouvrant facilement les portes à l’Esprit-Saint, moins dépendant des méthodes. D’autre part, Jean-Baptiste de La Salle manifeste moins son affectivité que Nicolas Roland; sa ferveur est moins chaleureuse. Il utilise nettement moins le mot «chérir» (les vertus) que Nicolas Roland affectionne. Il lui préfère le terme «aimer», en l’occurrence plus neutre. Ici ou là, Jean-Baptiste de La Salle apparaît plus ecclésial et plus communautaire que son maître, dont les réflexions semblent traduire parfois une relation à Dieu plus individuelle. Il faut cependant se garder d’affirmations trop sommaires à partir de l’analyse de ces quelques textes. Par exemple, cette dimension plutôt individuelle que nous trouvons dans tel ou tel texte de Nicolas Roland est largement compensée par son insistance fréquente sur la charité entre les sœurs.


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De même, la réserve affective de Jean-Baptiste de La Salle constatée dans sa relecture des Avis aux personnes régulières, ne doit pas faire oublier qu’il demande aux Frères de se donner toujours justement ce nom de Frères. Si l’étude comparative des Avis et du Recueil permet de saisir sur le vif telle ou telle différence psychologique entre les deux hommes, nous ne pouvons guère tirer de conclusions analogues au point de vue théologique. Nous l’avons souligné un peu plus haut, la relecture effectuée par Jean-Baptiste de la Salle n’est pas toujours homogène. Il est vrai que, dans ses textes, Nicolas Roland souligne souvent l’importance de la communion au Christ: en pratiquant une vertu, en adoptant telle attitude, nous communions au Christ qui a lui-même pratiqué cette vertu et vécu cette attitude. En ce sens, Nicolas Roland est très proche de l’Ecole Française de spiritualité; nous savons qu’il lisait Jean-Jacques Olier et qu’il en recommandait la lecture. Dans sa relecture, il arrive à Jean-Baptiste de La Salle de laisser de côté cette dimension, mais il lui arrive aussi de la maintenir, voire de la souligner, sans que nous puissions clairement saisir la raison de cette diversité de traitement. Enfin, nous pouvons remarquer que l’insistance de Jean-Baptiste sur la vertu de foi est très ancrée chez lui et se manifeste dans telle ou telle prise de position théologique que nous avons essayé d’analyser plus précisément.


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NICOLAS ROLAND E GIOVANNI BATTISTA DE LA SALLE* Dopo il lavoro quasi esaustivo fatto da Fratel Yves Poutet nella sua opera dal titolo “Origini Lasalliane” non c’è gran che da aggiungere sulle relazioni tenute da Giovanni Battista de La Salle e il suo direttore spirituale Nicolas Roland, fondatore delle Suore del Bambin Gesù. Qualche leggera precisazione può essere apportata al testo di Fratel Poutet, ma le ricerche che egli ha fatto in diversi archivi permettono oggi di considerarle di poca importanza. Restava tuttavia di approfondire lo studio di qualche testo che Giovanni Battista de La Salle ha preso dagli Avvisi per il comportamento di persone regolari di Nicolas Roland e che ha introdotto, con qualche piccola variante, nella sua Raccolta di vari piccoli trattati. Ed è proprio quello che vogliamo fare in questo articolo. Il fondatore dei Fratelli delle Scuole Cristiane si dette ad una lettura ripetuta dei testi del Roland: questo lascia pensare che proprio lui abbia dato gli Avvisi alle Suore del Bambin Gesù e non c’è che un passo che si può ragionevolmente fare senza essere del tutto certi della validità della sua conclusione. Gli Avvisi per il comportamento delle persone regolari non sono stati scritti solamente per le Suore del Bambin Gesù ma per ogni comunità “regolare”, cioè per ogni gruppo di persone che vivono la vita del chiostro. Detti Avvisi furono raccolti e presentati da un amico o parente anonimo di Nicolas Roland. Il fatto che Giovanni Battista de La Salle abbia largamente attinto dagli Avvisi trasportandoli nella sua Raccolta fa capire che egli li conosceva molto bene e che poté riprenderli e affidarli alle Suore del Bambin Gesù. Aldilà di questa ipotesi, è necessario fare un’attenta analisi comparativa delle due serie di testi, poiché Giovanni Battista de La Salle non si accontentò di riportare i suggerimenti del Roland (salvo per il testo dal titolo Rinnovamento Interiore, dove ha semplicemente modificato l’ordine di qualche frase senza interferire sul senso). Egli ha ripreso esattamente nove capitoli degli Avvisi per il comportamento delle persone regolari, integrandole con un insieme più vasto: al risveglio e al primo esercizio della giornata (che diventano all’alzata), per l’orazione, sul rispetto dovuto al Santissimo Sacramento (divenuto in san Giovanni Battista de La Salle ufficio divino, santa messa), sul silenzio, sul rinnovamento interiore, sulla lettura spirituale, sulla povertà, sull’umiltà. Non abbiamo comparato, qui, tutti i testi che Fratel Poutet riporta nel suo scritto (p. 612-619), ma soltanto quelli che si trovano quasi alla lettera in Giovanni Battista de La Salle con le modifiche verbali che egli vi apportò). La rilettura dei testi di Nicolas Roland fatta dal de La Salle mostra chiaramente le differenze psicologiche e di carattere tra i due uomini. Giovanni Battista de La Salle è un pedagogo: ordina, pertanto, sceglie con cura, distribuisce in paragrafi; Nicolas Roland, invece, si preoccupa poco dei dettagli: egli ha * Traduzione dalla lingua francese di Italo Carugno


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un’idea da far entrare nelle menti e pertanto l’afferma con vigore. Anche nello stile si rivela il dinamismo spirituale e apostolico che pervade lo scritto del Roland, perché vuol dare forti convinzioni e lo fa, pertanto, con molto vigore. Giovanni Battista vuole anche lui comunicare convinzioni, ma lo fa con una pedagogia e un procedimento ben dosati e accuratamente proposti. Da qui il rischio per lui, come lo si nota, ad esempio, nel testo che riguarda l’alzata, di perdere una parte di quello che Nicolas Roland desiderava comunicare: in ogni caso di diminuirne l’intensità. Al contrario, andando al dettaglio, notiamo che il de La Salle si concede la possibilità si sviluppare il pensiero del suo direttore spirituale, cioè di sfruttare (ma questo si verifica una sola volta) altre citazioni scritturali più adatte ai suoi Fratelli. Però c’è un punto sul quale ambedue vanno di pari passo: quello di poggiare sulla Sacra Scrittura lo stile e il comportamento che essi esaltano. D’altra parte, Giovanni Battista manifesta molto meno del Roland la sua affettività: il suo fervore è meno caldo; egli utilizza pochissimo l’espressione “amare teneramente le virtù” rispetto a Nicolas Roland: preferisce senza fronzoli e nella maniera più neutra il verbo “amare” e basta. Qua e là Giovanni Battista appare più ecclesiale e più comunitario rispetto al Roland, le cui riflessioni inducono talvolta ad una relazione con Dio più personalizzata. Bisogna tuttavia stare attenti ad affermazioni troppo sommarie a cui può indurre l’analisi di qualche espressione riscontrabile nei testi. Per esempio, la dimensione piuttosto individuale che possiamo trovare in questo o quel testo di Nicola Roland è largamente compensata con il suo insistere sulla carità tra le suore. Parimenti, la riserva affettiva di Giovanni Battista de La Salle constatata nella rilettura degli Avvisi per il comportamento delle persone regolari, non deve far dimenticare che egli vuole dai Fratelli di darsi sempre e giustamente il nome di Fratelli. Se lo studio comparativo degli Avvisi e della Raccolta permette di cogliere nel vivo questa o quella differenza psicologica tra i due santi uomini, non possiamo certo tirare analoghe conclusioni dal punto di vista teologico. La rilettura fatta da Giovanni Battista non è su questo punto sempre omogenea. Certo, è vero che nei suoi testi Nicolas Roland sottolinea spesso l’importanza della comunione con Cristo: praticando una virtù o facendo nostro questo o quell‘atteggiamento noi comunichiamo con il Cristo che per primo praticò quella virtù o visse quell’atteggiamento. In questo senso Nicolas Roland è molto vicino alla Scuola Francese di Spiritualità; e noi sappiamo che egli leggeva l’Olier e raccomandava di maneggiare i suoi scritti. In questo senso, ne consegue che Giovanni Battista de La Salle si scostò da questa linea di comportamento, pur arrivando a conservarla, cioè sottolineandola, senza poter chiaramente capire i motivi di questa diversità di comportamento. Però, a proposito del testo sull’umiltà, un piccolo ma interessante brano ci fa ben capire l’importanza che il de La Salle riserva alla virtù della fede. Là dove Nicolas Roland afferma che l’umiltà è alla base di ogni virtù, Giovanni Battista de La Salle dice che essa è alla base delle virtù morali. Perché riduce


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alle sole virtù morali quel che il Roland estende a tutte le virtù? Bisogna scomodare San Tommaso d’Aquino quando parla dell’umiltà. Dice che si può parlare di fondamento in due maniere: sia in quanto il fondamento elimina gli ostacoli; in questo caso si può dire che l’umiltà è il fondamento di ogni virtù perché elimina l’ostacolo dell’orgoglio che può contaminare tutte le virtù, ivi comprese quelle teologali. Nicolas Roland riprende dunque la visione classica degli spirituali secondo la quale l’edificio delle virtù ha per fondamento l’umiltà e per fine ultimo la carità (e ben conosciamo l’importanza che il Roland dà alla carità come regina di ogni virtù). Ma si può anche parlare del fondamento come quel quid che permette ogni accesso. In questo senso la fede è il fondamento di tutte le virtù, perché essa garantisce l’accesso alle altre due virtù teologali: l’umiltà è allora indirizzata verso le virtù morali di cui è il fondamento. Giovanni Battista de La Salle, da teologo molto accorto qual era, ha dunque scelto, nell’alternativa che propone San Tommaso d’Aquino, di privilegiare la virtù che è per lui la prima e che lui ha sempre messo in pratica: la fede.


Rivista Lasalliana 81 (2014) 4, 559-572

RECENSIONI E NOTE

CHIOSSO G. - SANI R. (a cura di), Il Dizionario Biografico dell’Educazione (1800-2000), Editrice Bibliografica 2014, 2 voll., pp. 1472. e 300,00. Un oscuro maestro Nemmeno tra i più esperti cultori di storia pedagogia e scolastica il nome di Ildebrando Bencivenni è particolarmente noto. Riscoprirne la vicenda biografica è come aprire una finestra sull’Italia appena unificata, riviverne i problemi e l’affannosa ricerca di una difficile identità e cogliere la straordinaria importanza attribuite all’educazione e alla scuola. Nato nel 1852 a Mondolfo, in provincia di Pesaro, in una famiglia assai modesta che gli consentì appena di raggiungere la patente magistrale, il Bencivenni esercitò per qualche anno l’attività di maestro, dedicandosi frattanto al giornalismo scolastico. Agli inizi degli anni ’80 si trasferì a Torino insieme alla moglie Anna e qui svolse per qualche anno un’intensa attività editoriale, dirigendo periodici professionali, compilando testi scolastici e preparando fortunati libri di lettura amena. Acquisito il prescritto titolo andò quindi a insegnare Pedagogia nelle scuole normali (gli istituti che in tre anni preparavano i maestri e le maestre elementari). Assunse infine l’incarico di direttore di varie scuole trasferendosi di città in città (Urbino, Pisa, Palermo e ancora Bologna, Verona, Messina, Nuoro) ovunque ani-

mando, discutendo, diffondendo passione per la scuola. Una vicenda professionale, si potrebbe pensare, come tante altre, di cui si ha traccia nei fascicoli del personale scolastico conservati nelle filze dell’Archivio Centrale dello Stato. Ma la peculiarità del Bencivenni consiste nel fatto che, tra fine ‘800 e primo ‘900 godette di grandissima popolarità tra i maestri. Grazie alla sua brillante e polemica penna ne rappresentò le istanze e le speranze e fu ripagato da stima e considerazione. Ancora oggi i suoi articoli, firmati con lo pseudonimo Iobi, si leggono con piacere. Il suo Manuale completo del maestro elementare raccolse molti consensi, contribuì a formare generazioni di insegnanti e fu più volte riedito. In odore di massoneria, non esitò a combattere “la piccola e la grande burocrazia, grassa, bighellona, arcigna”, “le Autorità gelose delle loro propine”, a denunciare compromessi e camarille ministeriali, a sostenere la necessità che i maestri si associassero in un grande sodalizio magistrale nazionale per far valere i loro diritti e a rivendicare una scuola realmente al servizio “del popolo” e capace di accogliere – siamo nel 1890 circa e dunque la proposta era davvero coraggiosa – i bambini dai 3 ai 12 anni (l’obbligo scolastico era allora previsto solo tra i 6 ed i 9 anni). Gli Italiani sarebbero diventati una nazione – questa il succo della sua militanza – nella misura in cui la scuola era


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capace di intercettarne i bisogni, le aspettative e di favorire la diffusione del sapere. Morì nel 1923 e non riuscì a vedere – per sua fortuna – come l’idea di scuola sarebbe stata presto piegata nel senso di una costrizione totalitaria. Una raccolta di biografie La storia di Ildebrando Bencivenni è soltanto una delle 2345 biografie raccolte nei 2 voll. del Dizionario Biografico dell’Educazione. 1800-2000 (Editrice Bibliografica, Milano, 2013, pp. 721+732, € 300) pubblicato nei mesi scorsi, frutto di un lavoro di ricerca condotto tra circa un centinaio di studiosi appartenenti a una dozzina di Università italiane sotto la direzione di chi scrive e di Roberto Sani dell’Università di Macerata. La principale particolarità di quest’opera è che in essa vengono censiti e biografati i tanti, moltissimi e dimenticati, Ildebrando Bencivenni, che hanno costellato la nostra storia nazionale scolastica. Accanto ai maggiori protagonisti della vita educativa nazionale (da Giovanni Gentile a Luigi Credaro, da Giuseppe Lombardo Radice a Maria Montessori, da don Lorenzo Milani ad Antonio Gramsci), sono infatti riportati alla luce centinaia e centinaia di oscuri protagonisti della vita educativa. Oggi oscuri e dimenticati, ma fu proprio grazie alla loro passione educativa che si compì l’evoluzione della società italiana, in una parola la costruzione dell’Italia unita. I profili di cui l’opera si compone costituiscono una sorta di biografia collettiva degli educatori italiani degli ultimi due secoli nella quale spiccano le numerose e variegate figure dei nuovi «professionisti dell’educazione e della scuola» prodotte dalla crescente espansione, a partire dai primi decenni dell’800, dei processi di

alfabetizzazione e di scolarizzazione di massa e dal parallelo sviluppo di un’editoria specializzata per l’educazione e la scuola e di una produzione libraria rivolta all’infanzia e alla gioventù in formazione, nonché dall’attenzione riservata alle condizioni di vita dei ceti popolari da parte di medici, sacerdoti ed educatori di varia professionalità. Nei due volumi del Dizionario sono complessivamente raccolti 2345 profili, frutto di originali e approfondite indagini archivistiche e di una sistematica valorizzazione dei risultati della più recente e qualificata storiografia educativa italiana e internazionale. Si possono leggere le biografie del Dizionario in molti modi: alla scoperta di figure ormai dimenticate oppure che sopravvivono, quando va bene, immortalate in qualche targa o polveroso mezzobusto; come un invito a pensare che la storia grande e piccola è sempre fatta dagli uomini (certamente servono le buone leggi, ma poi è necessario che ci sia chi le mette in pratica con intelligenza e costanza); come un grande affresco nel quale le passioni di parte (cattolici, laici, massoni, socialisti, comunità ebraiche, ecc.) furono lo stimolo per lavorare, ciascuno in nome dei propri ideali, per migliorare le condizioni di vita dei ceti meno abbienti. Nel Dizionario si trova raccolta una vasta e composita realtà di storie personali: fondatori e animatori di istituzioni scolastiche ed educative per l’infanzia e la gioventù (asili e giardini d’infanzia, scuole abecedarie e professionali per i fanciulli del popolo, orfanotrofi, conservatori femminili, educandati e collegi ecc.); promotori delle riforme scolastiche (ministri e uomini politici) e del rinnovamento dei metodi d’insegnamento e delle pratiche didattiche


Giorgio Chiosso

(non solo pedagogisti, ma anche studiosi di matematica e discipline scientifiche particolarmente attenti all’insegnamento), teorici della pedagogia emendativa e responsabili di istituti e scuole speciali per l’educazione e istruzione dei disabili (ciechi, sordomuti, frenastenici ecc.). E ancora: direttori e redattori dei periodici scolastici e magistrali, autori di libri di testo e inventori di sussidi didattici, scrittori e illustratori di libri per l’infanzia e la gioventù e delle riviste destinate al mondo infantile e giovanile, teorici e promotori dell’educazione fisica e sportiva, medici coinvolti nei progetti di miglioramento delle condizioni di vita dei ceti popolari e impegnati in attività educative e rieducative, animatori dell’associazionismo giovanile. Nello scorrere le pagine del Dizionario il lettore può fare molte scoperte. Prendiamo i casi di Giosuè Carducci e Giovanni Pascoli: tutti sanno ovviamente chi sono, ma forse non tutti conoscono il ruolo importante che i due grandi poeti svolsero in campo scolastico. Il Carducci, ad esempio, fu attivissimo protagonista nella sua Bologna delle battaglie educative e scolastiche in qualità di consigliere comunale di parte democratica e come animatore dell’associazionismo di mutuo soccorso che, tra le sue finalità, annoverava anche quella di promozione “dell’istruzione del popolo”. Dopo il 1876 divenne un ascoltato consigliere di numerosi ministri dell’Istruzione, operò come ispettore nelle scuole secondarie, stese importanti relazioni, lavorò per migliorare i testi scolastici e, infine, fu autore con il fido ex allievo Ugo Brilli di una fortunata antologia letteraria adottata per oltre un trentennio nei licei.

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Non da meno si comportò, anche se in modo meno militante, Giovanni Pascoli che insegnò per molti anni nei licei prima di salire sulla cattedra universitaria. Anche l’autore di Myricae agì per conto del Ministero come ispettore ed esercitò una notevole influenza sulla stesura dei programmi per i licei del 1894. E come Carducci – e anche contro Carducci – diede alle stampe molti testi scolastici con editori importanti. L’elenco degli intellettuali imprestati alla scuola è molto lungo ed annovera personalità di grande spicco nella storia culturale italiana come lo scienziato Francesco Brioschi, il matematico Luigi Cremona, politici come Paolo Gobetti e Antonio Gramsci, lo storico Gaetano Salvemini, lo stesso Benedetto Croce, ministro dell’Istruzione dal 1920 al 1921. Non mancano figure femminili di alto profilo: madre Francesca Cabrini, Ada Negri, Laura Solera Mantegazza, per limitare la citazione a pochi nomi. Ad essi si affiancano scrittori grandi e piccoli per l’infanzia (naturalmente in primo piano ci sono Collodi, De Amicis, Capuana, Salgàri). Il capitolo dei libri per i bambini e i ragazzi è denso di oltre 300 nominativi che documentano la rilevanza di questo particolare segmento educativo, non di rado ingiustamente considerato “minore”, ma che esercitò una formidabile influenza sugli stili di vita e di comportamento in anni andati. Oggi – in piena era visiva e spettacolare e con la lettura dei ragazzi spesso ridotta ai testi scolastici – è difficile anche soltanto immaginare l’importanza rivestita dalla lettura ricreativa tra i due secoli. Eppure se non si pone attenzione alle varie forme di “pedagogia implicita” che sono facilmente rintracciabili in autori come, ad esempio, Zia


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Mariù (Paola Carrara Lombroso), Vamba (Luigi Bertelli), Omero Redi (Ermenegildo Pistelli) si perde un frammento significativo della ricchezza educativa della letteratura per l’infanzia. Non solo scuola Attraverso l’ampiezza documentaria che abbiamo tentato di rappresentare il Dizionario Biografico dell’Educazione va a colmare una storica carenza di rassegne biografiche organiche e aggiornate riguardanti il mondo spesso, come si è accennato, semisconosciuto degli educatori a contatto con le aspettative dei ceti popolari, compresi quelli che operarono in aree minoritarie per lingua (francese, ladino, sloveno, albanese) o confessione religiosa (valdesi, evangelici). Le biografie del Dizionario offrono ancora un altro spunto e precisamente quello di ripercorrere la ricchezza e la varietà delle iniziative ed esperienze collocate al di fuori degli spazi propriamente scolastici. In primo piano spiccano le iniziative rivolte al mondo giovanile, all’infanzia orfana e abbandonata, all’educazione e alla cura dei soggetti disabili (sordomuti, ciechi, rachitici) all’addestramento ai mestieri artigiani e alle attività professionali attraverso appositi laboratori e officine, alla formazione delle ragazze e delle donne. I protagonisti appartengono ad ambienti quanto mai eterogenei. Le figure di sacerdoti, religiosi e religiose emergono per quantità e qualità: il “prete sociale” e la “suora maestra” tra ‘800 e ‘900 unirono in genere l’azione sociale con quella educativa. Ciò che tiene insieme questo folto gruppi di personalità religiose – pur nella relativa diversità degli stili d’azione e degli ambienti regionali entro cui si trovarono a operare – è la capacità di risposta attiva alle nuove

sfide della società “moderna” basata sulla convinzione che fosse nelle possibilità degli uomini trovare le vie ed i mezzi per farvi fronte. In questi preti educatori e animatori di opere sociali prevale insomma, pur nella prevalente condivisione della cultura intransigente, l’urgenza di rispondere ai bisogni dei ceti popolari e il proposito di dimostrare l’intatta capacità dell’annuncio evangelico di tradursi in buone azioni. Alla condanna degli “errori” si accompagnò conseguentemente la ricerca delle soluzioni più idonee per risolvere i gravi problemi del presente. I Fratelli delle Scuole Cristiane, al pari di altre congregazioni religiose, concorsero con la loro militanza a favore dell’istruzione popolare e la formazione al lavoro al comune impegno solidaristico: le numerose figure lasalliane presentate nel Dizionario ne danno efficace testimonianza. Per quanto la scuola, come è noto, abbia a lungo rappresentato il principale canale d’istruzione e d’educazione – secondo la formula ricorrente nella cultura pedagogica del XIX secolo – è tuttavia non meno vero che i processi d’integrazione delle giovani generazioni seguirono percorsi molto più articolati. È appena il caso di fare cenno alle iniziative intraprese nell’ambito dei giovani analfabeti per i quali furono predisposte varie possibilità per accedere alla lettura, alla scrittura e al far di conto, dalle scuole serali a quelle aperte presso le caserme militari nonché attività ricreative (poi anche sportive) predisposte nella convinzione che anche il tempo libero era un tempo propizio all’educazione. Non stupisce – se si tiene conto di questa particolarità – l’elevato numero di benefattori e filantropi presentati nel


Giorgio Chiosso

Dizionario. Nel leggerne le biografie si scopre la varietà delle tipologie professionali e sociali e dei loro intenti. Oltre alle figure religiose di cui si già detto, si incontrano ferventi e attivissimi massoni impegnati ad aprire soprattutto asili infantili e ad animare scuole professionali; molte donne, più o meno segnate dagli ideali emancipazionisti, attive protagoniste soprattutto nell’ambito dell’educazione femminile; medici impegnati sul fronte della promozione di stili di vita più salubri e più conformi alla regole igieniche; una folta schiera di personalità ebraiche che non lesinano di destinare cospicue fortune al servizio dell’istruzione di tutti. Su queste ultime merita svolgere qualche ulteriore annotazione. A partire dai tradizionali obblighi che imponevano agli ebrei benestanti di provvedere ai poveri, si registrò all’indomani dell’Unità un forte impulso filantropico volto, d’un lato, a modernizzare le forme di assistenza educativa e, dall’altro, ad accreditarsi come parte significativa dell’élite della borghesia del tempo. La figura di Prospero Moisé Loria, il promotore della Società Umanitaria di Milano, sotto questo profilo si può considerare esemplare. Con le sue elargizioni e atti di liberalità Loria aprì la via al concetto di concreta solidarietà che alla beneficenza elemosiniera sostituiva una sana previdenza, nella convinzione che fosse necessario fornire alle classi povere gli strumenti per il loro miglioramento materiale e morale (in primis l’istruzione e l’avviamento al lavoro) e così rendere i diseredati, senza distinzioni, in condizione di migliorare da sé medesimi.

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Più società civile che Stato La varietà di contesti nei quali agirono uomini di scuola, educatori, filantropi induce a una doppia riflessione. Dal Dizionario sembra uscire confermata la tesi di quanti, opponendosi tanto alla spiegazioni lineari della storia d’Italia quanto prendendo le distanze da revisionismi variamente ispirati, hanno suggerito di guardare ai processi unitari in termini “plurali” e cioè esito di un convergente impegno di istanze ideali e culturali diverse e talvolta addirittura contrapposte. In secondo luogo si direbbe che la formazione degli Italiani sia stata più una questione di società civile che di Stato. Senza ovviamente trascurare il peso esercitato da quest’ultimo, il rilevante numero dei benefattori e dei filantropi indica in modo incontrovertibile che la battaglia contro l’ignoranza poté avvalersi di cospicue risorse private fino a ipotizzare che le forze messe in campo dallo Stato per organizzare la scuola, per quanto significative, siano state solo in parte decisive per il suo esito positivo. Pubblicato a ridosso delle celebrazioni per il 150° anniversario dell’unificazione nazionale, il Dizionario Biografico dell’Educazione – almeno nelle intenzioni dei direttori – consente, attraverso le biografie presentate nell’opera, di lumeggiare il fondamentale ruolo esercitato dall’educazione scolastica e non nell’opera di alfabetizzazione ed elevazione culturale e civile degli italiani e, parimenti, nel processo di costruzione dell’identità nazionale e di promozione di un nuovo e moderno ideale di cittadinanza. Giorgio Chiosso Università di Torino


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U. CASALE, Percorsi della bellezza. Per un’estetica teologica, Lindau, Torino 2014, pp. 347. e 28,00. «Il Cristianesimo è il principio sovrabbondante e mai superabile di ogni estetica, la religione estetica per eccellenza»: così scrive il teologo H. U. von Balthasar, che ha elaborato l’intera sua opera intorno al principio di un’estetica teologica – tanto da segnare di sé il novecento teologico. La rilevanza teologica della Bellezza è una realtà che si mostra e si nasconde lungo tutto il corso della storia del pensiero e dell’opera cristiana. Oggi è il momento propizio per ripensare integralmente la bellezza, per scrutare il valore gnoseologico e veritativo del bello e per vivere nella luce/bellezza della fede. Il saggio Percorsi della Bellezza. Per un’estetica teologica (Lindau, Torino 2014, pp. 347) è un ampio e approfondito studio che il teologo torinese Umberto Casale dedica all’argomento della “bellezza che salva”, del gustare il “sapore cristologico” dell’estetico, percorrendo tre itinerari che hanno avuto e hanno un profondo radicamento nelle varie epoche storiche. Il primo percorso è dedicato alla filosofia greca antica, nei suoi principali esponenti: Platone, Aristotele e Plotino; il pensiero ellenistico ha dedicato al tema del kalon riflessioni di grande intensità e approfondimenti pieni di fascino. Anche se l’estetica, come disciplina autonoma, sorgerà molto più tardi, i filosofi greci hanno posto le basi per esaltare il nesso tra essere, bene e bello (si pensi ai platonici dialoghi Fedro e Simposio), mentre con Plotino ha rimarcato il carattere ‘religioso’ della Bellezza. La contemplazione libera e pura dell’armonia delle forme ha ori-

ginato i canoni dell’arte e della musica, della poesia e della letteratura di quella civiltà. E non soltanto di quella civiltà. Il secondo analizza la tradizione biblica (dell’antico e del nuovo Testamento): la Bibbia costituisce infatti un vero e proprio “codice estetico” dal quale hanno tratto ispirazione innumerevoli artisti di ogni tempo e di ogni dove: musicisti e pittori, scultori e architetti. Ricca di vari generi letterari, nella sacra Scrittura si trovano esempi di ammirevole poesia, di parabole e di metafore dal fascino sempre intrigante (si pensi alla raccolta di poemi nel Cantico dei cantici, a diversi brani profetici e sapienziali, alle parabole di Gesù, sorprendentemente sempre attuali). Gli agiografi hanno la consapevolezza della dimensione estetica dell’essere cosmico, umano e di Dio e adottano il metro teologico per interpretare quella bellezza: «dalla bellezza delle creature per analogia si contempla il loro Artefice» (Sap 13,5). La gloria di Dio, splendore di bellezza, che riempie l’universo, raggiunge con Gesù un’insuperabile manifestazione. Il terzo percorso, il più ampio dei tre, ripercorre la tradizione teologica (orientale e occidentale) dalla Patristica alla Scolastica medievale, dalla modernità alla stagione contemporanea. Sono studiati i principali Autori che, con la vita e con le opere, hanno illustrato la Bellezza che salva, la gloria di Dio splendente sul volto di Cristo crocifisso e risorto. Fedeli discepoli del Cristo, continuatori e innovatori della filosofia platonica, diversi Padri greci (Dionigi Areopagita, Giovanni Damasceno, Efrem il Siro…) hanno elaborato, insieme con la filosofia, la filocalia: se la conoscenza teorica (filosofia) è amore per la sapienza, la conoscenza contemplativa è invece filo-


Ermis Segatti

calia, amore per la bellezza. La via veritatis e la via pulchritudinis sono due linee inseparabili per l’anima antica, che convergono nella via amoris dell’unica teologia della Chiesa. Qui bellezza, bontà, giustizia e verità s’intrecciano in una trama perfetta quale via alla santità. Ai due teologi più noti della tradizione teologica occidentale sono dedicati i seguenti capitoli: dapprima Agostino, che interpreta la relazione teandrica come incontro bellissimo: il cammino dell’uomo che va dalla bellezza delle creature alla Bellezza infinita del Creatore, ma soprattutto l’avvento divino, in cui la “Bellezza tanto antica e tanto nuova” si fa storia, prende carne; così Gesù, la pura attuazione della Bellezza, riversa su di noi l’amore più grande e ci trasforma («quia amasti me, fecisti me amabilem»). Tommaso d’Aquino tiene insieme l’anima greca (proporzione, armonia) e quella ebraico-cristiana (splendore teofanico) della bellezza. La Bellezza è nome divino, il Creatore dà la bellezza a tutti gli esseri creati («Pulchritudo participatio primae Causae quae omnia pulchra fecit»), in Cristo – che è evento trinitario – rivela la pienezza della bellezza (“il Tutto nel frammento”), rivela la bellezza come agape, amore sconfinato, donazione e dedizione, salvezza frutto dell’amore più grande (“la Bellezza che salva”). La via pulchritudinis è stata percorsa da diversi filosofi, scrittori e teologi anche nelle stagioni a noi più vicine, l’Autore del presente volume analizza il pensiero estetico del filosofo S. Kierkegaard (che attraversa gli stadi della vita: estetica, etica, religiosa) e del grande romanziere russo F. Dostoevskj: la bellezza che salva il mondo – di cui discorre il principe Myškin ne L’idiota – è Cristo, unicamente questa bellezza può sal-

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vare il mondo. «Cristo è lo splendore della Bellezza, quella bellezza che può riconciliare per sempre il dolore e l’ingiustizia, la sofferenza degli innocenti, la morte» (p. 159). È poi la volta dei teologi: dapprima il russo P. Florenskij, espressione di un sapere eclettico capace di grandi approfondimenti (ucciso in un gulag comunista nel 1937): attraverso la ricerca della verità, che si presenta come agape, scopre la bellezza della verità e la verità della bellezza. Per il pope ortodosso Bellezza è uno dei nomi di Dio; da qui la riflessione estetica attraverso la via cristologica giunge al binomio Verità/Bellezza: pertanto, l’espressione di Gesù: «Io sono la Verità» può ben tradursi in «Io sono la Bellezza». Così «la verità manifestata è l’amore, l’amore realizzato è bellezza» (p. 161), la Trinità santissima è la porta d’accesso alla comprensione cristiana della Bellezza. Il teologo che ha elaborato l’intera sua opera teologica (soprattutto la trilogia Gloria/Estetica, Teo-Drammarica e TeoLogica) intorno al trascendentale bello è H. U. von Balthasar, uno dei teologi più autorevoli del ‘900, assai studiato anche ai giorni nostri. Il progetto balthasariano non è quello di sviluppare una teologia estetica, bensì un’estetica teologica a partire dall’oggettività della rivelazione. L’Autore esplora il percorso del teologo svizzero, evidenziando il legame tra la gloria biblica e quella poetica-filosofica, tra l’estetica teologica e quella filosofica, attraverso un’analisi dettagliata che va dagli antichi greci fino all’epoca moderna (poeti e filosofi, teologi e mistici, soprattutto sante e santi). È la rivelazione di Dio, nel suo apice cristologico, a manifestare l’autentica bellezza, la Gloria di Dio. Qui rifulgono i dati essenziali della bellezza: gratuità


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disinteresse, libertà, espressione piena. Attraverso la percezione della forma la fede coglie in Gesù la figura e l’espressione della bellezza: egli è «irradiazione della gloria» (Tt 2,13), epifania della gloria di Dio ed espressione visibile del Dio invisibile. È il “Tutto nel frammento” quel che rifulge nel “bel pastore”, in colui che è, a un tempo, “l’uomo sfigurato, senza bellezza e decoro” e “il più bello dei figlio dell’uomo”. La meditazione sulla bellezza, partita dal Kalòn greco, giunge a scoprire la bellezza nel vertice della rivelazione, cioè nel misterium paschale di Cristo crocifisso e risorto. «Balthasar parla il linguaggio dell’amore, il linguaggio della bellezza, così da recuperare nella teologia e nella prassi cristiane la centralità e la rilevanza del trascendentale del bello» (p. 227). Infine un capitolo è dedicato al teologo bavarese divenuto papa nel 2005, Joseph Ratzinger - Benedetto XVI: più volte, sia come teologo, sia come pastore, è intervenuto sul tema della bellezza, sulla proposta di un’estetica teologica. Come un dardo, la bellezza ferisce, ma proprio in questo modo richiama l’uomo al suo ultimo destino; bellezza è conoscenza, una forma superiore di conoscenza per raggiungere la verità che è agape. L’incontro con Cristo è incontro con la bellezza che salva, per questo – ammonisce Ratzinger – occorre favorire l’incontro dell’uomo con la bellezza della fede: «La vera apologia del Cristianesimo, la prova più persuasiva della sua verità, sono da un lato i Santi, dall’altro la bellezza che la fede è stata capace di generare» (p. 239). Nell’ultima parte del libro Casale raccoglie i dati dei percorsi precedenti (filosofico, biblico, teologico) per elaborare una teologia della bellezza: una teolo-

gia che ha per soggetto la bellezza, la bellezza divina; non è la teologia che produce la bellezza, ma è la bellezza, quale luogo originario, che istituisce e stimola la teologia, in modo che il suo carattere speculativo non sia mai disgiunto dalla dimensione spirituale, esperienziale e mistica. Nella prassi e nella teologia occorre far interagire intellectus fidei e affectus fidei, per riscoprire l’ininterrotta tradizione estetica della fede. «La ripresa teologale dell’estetico – ha scritto un teologo che da tempo è impegnato su questi temi – punta su tre aspetti essenziali: quello della bellezza, quello del sensibile e quello dell’affezione» (P. Sequeri). La cura della qualità spirituale del sensibile trova nell’esperienza estetica il luogo proprio della formazione della coscienza, «essa plasma, nell’incanto di un senso inedito e di una forma bella, l’armonia dell’interiore e dell’esteriore … di questa esperienza estetica, quella artistica è un momento importante, dove il legame della sensibilità artistica e la spiritualità credente viene alla luce» (p. 280). La via pulchritudinis conduce, anticipandolo, all’éschatòn, permettendo così di delineare alcune linee di escato-estetica, che Francesco di Sales così sinterizza: nella vita eterna compiuta, «i Beati sono rapiti da una duplice ammirazione: una per l’infinita bellezza che essi contemplano, l’altra per l’abisso insondabile che in quella stessa bellezza resta ancora da vedere» (p. 286). Completano l’opera un’Appendice – che riporta i discorsi appassionati di tre papi (Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI) agli artisti sul tema della bellezza, sul rapporto religione e arte; un’ampia bibliografia e l’indice degli Autori citati. Si tratta di un prezioso strumento per tutti coloro che desiderano


Michele Cataluddi

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essere “custodi della bellezza”: in tutto ciò che suscita in noi il sentimento del bello autentico vi è realmente la presenza di Dio, «una specie di incarnazione di Dio nel mondo, di cui la bellezza è segno. Il bello è la prova sperimentabile che l’incarnazione è possibile» (S. Weil). La via pulchritudinis e le via veritatis convergono nella via amoris, che approda, all’amore più grande, alla bellezza “che crea ogni comunione” (Dionigi Areopagita). Ermis Segatti

FANTINI R., Il cielo dentro di noi. Conversazioni sui Diritti Umani (sul mondo che c’è e su quello che verrà), Graphe.it edizioni, 2012, pp.112, e 10,00. L’Autore è un insegnante di filosofia e storia in un liceo classico romano, si occupa di educazione ai diritti umani all’interno di Amnesty International. In questo libro vengono presentate delle conversazioni con persone impegnate a fondo per alcuni diritti, a confronto con grandi casi di violazione storica degli stessi o con questioni globali ancora tragicamente attuali, per conoscenza teorica ed esperienze personali. Tali conversazioni intendono aprire prospettive, «attingendo al passato per ragionare sull’oggi e per provare a costruire un domani migliore per tutti». Il titolo, con un’eco della famosa frase di Kant, «due sole cose riempiono di stupore l’anima mia, il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me», fa più diretto riferimento a un’affermazione di Albert Einstein: «l’esistenza e il valore dei diritti umani non stanno scritti nelle stelle», ovvero non sarebbero qualcosa di “naturale”, ma di storico-culturale, affidato alla cura dell’uomo stesso.

Il primo percorso di riflessione verte sulle radici dell’antisemitismo, per il quale l’autore si avvale della collaborazione di Lorenza Mazzetti, artista parente della famiglia Einstein (la stessa del celeberrimo scienziato) colpita dall’eccidio nazista. Secondo l’interlocutrice, gli “assassini” erano spinti, in questa vicenda, non solo dall’odio antisemita, ma anche da un chiaro intento di colpire Albert. L’intervistata provoca una profonda riflessione, sostenendo che l’odio, il disprezzo tedesco sia stato “preparato” dal Cristianesimo, che, per secoli, avrebbe «costruito teologicamente l’immagine demonizzata di un intero popolo colpevole di “deicidio”», colpa unica e incommensurabile, «capace di contaminarlo indelebilmente e per sempre, senza possibilità di perdono». Anche la Chiesa cattolica ha manifestato fino agli ultimi pontificati posizioni ambivalenti: Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, a seguito del Concilio Vaticano II, hanno chiesto perdono e si sono adoperati a promuovere il dialogo fra cristiani ed ebrei; Benedetto XVI avrebbe riaperto la questione con la riabilitazione del clero lefebvriano, caratterizzato da diffusi atteggiamenti negazionisti, e con il temuto ripristino della preghiera per la conversione degli ebrei. Al razzismo antisemita vengono associati altri aspetti preoccupanti della nostra attuale società, quali le aggressioni nei confronti degli omosessuali, le violenze nei confronti delle persone con handicap, delle comunità rom, delle donne. D’altro canto esistono segnali positivi, da parte di coloro che con generosità arrivano a mettere a rischio la propria vita per salvare quella degli altri. Bisognerebbe riscoprire un’etica della riconoscenza, per i doni che ciascuno ha ricevuto e dovrebbe essere educato a ricambiare.


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La seconda conversazione ricorda la tragedia dei desaparecidos argentini, il crimine dei responsabili, ma anche l’indifferenza e il silenzio di quasi tutto il mondo. L’interlocutore scelto è Enrico Calamai, console italiano nell’Argentina del periodo interessato, definito “l’eroe discreto di Buenos Aires”, riuscito a salvare centinaia di vite, a fronte di un’alleanza dei poteri forti internazionali, politici ed economici, che tendevano a utilizzare servizi segreti, organizzazioni di stampo massonico e della criminalità organizzata. Oggi, più che di globalizzazione, sarebbe infatti corretto parlare di un neocolonialismo globale, un sistema in cui le risorse dei Paesi non in grado di difendere la propria sovranità vengono accaparrate da una parte minoritaria, per mantenere livelli di vita e di spreco cui si accompagnano miseria, disastri ecologici, genocidi e rivolte, guerre e incontenibili esodi. Fondamentale la possibilità di opposizione da parte dell’opinione pubblica, che però deve essere informata, superando lo specchio deformante del sistema mediatico. Il terzo dialogo mette a tema il genocidio ruandese con Yolande Mukagasana, sopravvissuta al genocidio Tutsi del 1994. La testimone traccia un circolo virtuoso che relaziona umanità, perdono e giustizia. Se si vuole andare alla radice del male e della violenza, non ci si deve limitare all’ascolto delle vittime, è necessario saper ascoltare anche gli assassini. La presenza della Chiesa cattolica in quelle regioni è stata forte, ma non si è integrata valorizzando la cultura locale, quanto sovrastandola e giungendo a fenomeni di responsabilità nel compimento delle stragi. «L’unica via che può aprirci alla speranza per un domani liberato dal male è quella del-

l’educazione», un’educazione ad una religione comune, quella della vita, del non fare al nostro prossimo quello che non desideriamo venga fatto a noi, del vero bene universale. Il quarto approfondimento sposta l’attenzione sulla Cina, dove esistono ancora i laogai, campi di lavoro in condizioni di schiavitù, dei quali testimone diretto è Harry Wu. Egli commenta la Cina di oggi, avvicinatasi all’Occidente e all’idolatria del profitto. Risultano esistenti più di mille campi, dove sono detenuti tutti coloro che vengono considerati oppositori al regime, messi a lavorare in condizioni disumane a servizio delle multinazionali. La difficoltà di reperire informazioni su queste situazioni e altre come il commercio di organi è dovuta al segreto di Stato che copre queste attività. L’autore si sofferma poi con Giuseppe Lodoli, attivista, contro la pena di morte, presentando anche qui casi vissuti di riabilitazione di condannati e rilanciando i valori dell’interruzione della catena che risponde alla violenza con la violenza, della compassione e della misericordia. Contiguo a questo tema è quello successivo sul carcere, che come recita anche la nostra carta costituzionale non dovrebbe andare contro il senso di umanità e dovrebbe tendere alla rieducazione, come viene messo in luce dalla conversazione con Patrizio Gonnella, impegnato nei diritti umani ed ex- direttore carcerario, esperienza a partire dalla quale solleva le problematiche di una diffusa illegalità penitenziaria, tra le quali emerge il problema degli spazi, a fronte di una popolazione carceraria in aumento, anche per la criminalizzazione di status personali e stili di vita. Un altro drammatico tema che si collega ai precedenti è quello della tor-


Sara Mancinelli

tura, bandita da tutti gli stati del mondo eppure ancora molto presente. Attivista contro questa pratica è il medico Andrea Taviani, che ne spiega il crudele scopo distruttivo dell’integrità di un essere umano, annientandone la personalità, per reprimere le espressioni di dissenso contro l’autorità e contribuire al mantenimento dell’ordine. Anche in questo caso combattere il male è innanzitutto combattere il silenzio, dando voce per prime alle vittime, fino a sollecitare l’intervento delle istituzioni internazionali. L’autore ricorda poi i cinquant’anni di Amnesty International, nata nel contesto della Guerra Fredda, per difendere i principi e gli impegni posti alla base della Carta delle Nazioni Unite e della successiva Dichiarazione universale dei diritti umani, negati con la persecuzione di coloro che li avevano assunti come valori fondamentali. Il contributo è in questo caso chiesto ad Antonio Marchesi, professore universitario che ha ricoperto importanti incarichi nell’associazione. Dal bilancio presentato, risulta l’utilità dell’impegno di questa organizzazione per migliorare il mondo, attraverso concreti interventi nella vita di singole persone o in situazioni più generali, attraverso l’informazione, attraverso costanti contributi propositivi per il sistema internazionale di protezione dei diritti umani. E’ riscontrabile per quanto riguarda la condizione storica di vita dell’uomo nel mondo un innegabile miglioramento, anche se altrettanto importante è tener presente che ancora molto si può e deve fare per superare le gravi e molte ingiustizie che persistono contro l’umanità. Altro tema di scottante attualità è quello delle guerre e degli interessi che ruotano attorno ad esse, trattato con

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Maurizio Simoncelli, cofondatore dell’Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo. Egli spiega la caratterizzazione delle guerre contemporanee perlopiù come conflitti intrastatali, che coinvolgono pesantemente i civili. Da notare anche il fortissimo incremento della spesa militare mondiale, nonostante la crisi economica e finanziaria, sostenuto soprattutto dagli Stati Uniti. Al centro del dibattito emerge anche la questione del nucleare, una minaccia ancora temibile per l’umanità, mentre si procede verso una riduzione di tali armamenti. L’ultimo contributo verte sulle religioni e il loro rapporto con i diritti umani. Le religioni dividono: benedizione o follia? La loro stessa storia è ricca di contraddizioni. Luigi De Salvia, medico e teologo, si dedica ad esperienze di dialogo interreligioso e interviene in particolare nel merito dell’impegno per la pace. Lo stesso dialogo interreligioso, dopo millenni di autoreferenzialità, è una svolta importante. Esso tiene aperta la domanda sul divino e attinge alle risorse spirituali proprie di tutte le religioni per affrontare i grandi problemi della convivenza umana. Michele Cataluddi

PIETRO CITATI, I Vangeli, Mondadori, 2014, pp. 168, e 22. La “Buona Notizia” tra narrazione, riflessione e riferimenti letterari: questi sono “I Vangeli” di Pietro Citati. Dal Natale al Battesimo fino alla predicazione, dagli avvenimenti ultimi della vita terrena del Cristo alla gloriosa Resurrezione, si può rileggere storicamente il corso della vita di Gesù.


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RECENSIONI E NOTE

“I Vangeli” di Pietro Citati hanno come fonte sacra i quattro Vangeli canonici: nessuna ricerca di sorpresa o desiderio di un semplicistico stupore. La rilettura è nuova perché ci si sofferma su passi che corrono il rischio di essere letti soltanto con gli occhi, complice la fallace fiducia in ciò che spesso si crede di avere già appreso. Invece siamo condotti in un viaggio non solo intellettuale in cui il piano narrativo non è mai separato da quello linguistico: le analisi dei termini della lingua greca, che, contestualizzati nel genere letterario e nel panorama storico e culturale, evidenziano lo stretto legame tra significante e significato, consentono la comprensione del dettato evangelico anche mediante l’interpretazione letteraria già ad un primo approccio. Medesimo procedimento appare per i rimandi all’Antico Testamento: essi sono molto frequenti e intessuti nella narrazione, a dimostrazione del fatto che l’Antica Alleanza è anche figura dell’Alleanza di Gesù Cristo, l’Alleanza nuova, definitiva e per sempre, per dirla con l’Autore: “Ciò che fu libro, diventò storia”, con Gesù “irruppe il compimento messianico”. L’irruzione porta con sé tutta la forza della novità di Cristo, “altro” e “straniero”, e con la forza anche lo scandalo. Pietro Citati sottolinea ciò che, a suo parere, emerge come nuovo: lo fa sommessamente quando, accennando a una “possibile interpretazione”, scrive di vedere nel Bambino nella mangiatoia “qualcosa di assolutamente nuovo”, mai prefigurato da alcun altro bambino dell’Antico Testamento. Ma la novità inizialmente incompresa e spesso, come nel mondo classico, associata alla paura, si trasforma in un “dolce giogo”: Pietro Citati conduce infatti il lettore dalla Passione fino alla Resurrezione di

Cristo, dal “grandioso paradosso” della croce alla gloria. Il testo, come i Vangeli che procedono, secondo Pietro Citati, ora per paradossi e capovolgimenti, ora per riprese, attraverso una prosa chiara e diretta e grazie all’ispirazione agli studiosi Rudolf Pesch, Heinz Schürmann, François Bovon, Rudolf Schnackenburg è fondato, didascalico e di piacevole lettura. Un libro per tutti e forse, nelle intenzioni dell’Autore, specialmente per i cristiani che, come lui stesso scrisse in un articolo, “siedono e pregano nelle Chiese vuote, (…) leggono i Vangeli e le migliaia di libri, che la fede e la tradizione hanno ispirato durante quasi venti secoli. Labbra silenziose discorrono con il loro nascosto ispiratore”. Sara Mancinelli

COLOMBATI L., 1960, Mondadori, Milano 2014, pp. 383, e 19. Che il giallo-noir-thriller (sulle più o meno accreditate varianti si potrebbe discutere all’infinito) intrighi il pubblico e stimoli l’attenzione della critica militante più selettiva – tanto poco tenera verso il genere – è indubbio: il successo dei gialli di provincia di Malvaldi e dei noir esoterico-storici di Martigli, le ottime vendite di Carrisi, Costantini, Carofiglio e degli intramontabili Camilla Läckberg e Ken Follett – senza dimenticare Camilleri, che si definisce “scrittore” e non giallista con una punta di ironica supponenza…o di umiltà) lo testimoniano. Che Leonardo Colombati, con 1960 edito da Mondadori, abbia composto uno straordinario, e per certi aspetti innovativo, (anti-) thriller storico contemporaneo (a nostro avviso il suo


Marco Camerini

esito migliore) è una sorprendente, felice conferma. L’autore, naturalmente incline alla curata ambientazione di vicende sempre, in qualche modo, verosimili (ricordiamo Il re del 2009, ma anche l’opera saggistica La canzone italiana 1861-2011. Storia e testi dell’anno successivo, sempre editi da Mondadori), sceglie ora – ma era nell’aria – di inserire l’intreccio nel contesto di quegli anni ’60 empaticamente e culturalmente tanto amati e, per questo, ricostruiti con una passione ed un rigore filologico unici, che fanno delle note stesse una avvincente, meticolosa “storia nella storia”, da leggere tutt’altro che distrattamente o come semplice corollario della vicenda principale. Intorno alle Olimpiadi di Berruti e Cassius Clay, le cui fasi scandiscono i diversi momenti della narrazione, c’è, anzitutto, Roma, con i suoi quartieri storici e le nuove realtà urbanistiche cresciute grazie (ed intorno) all’evento sportivo, ma anche per l’intraprendenza frenetica e a volte spregiudicata di una nuova generazione di costruttori: insomma, Nervi e i “palazzinari” (termine, in realtà, coniato anni dopo in tempi”corretti” di tutele ambientali e piani regolatori), creatività e quel tanto di speculazione che siamo disposti ad assolvere. Ma, soprattutto, percepiamo – e a ricrearli è stato un autore nato nel 1970 – lo spirito, il clima, il senso profondo di un decennio, nel suo epico anno iniziale, che ci guarda con gli occhi malinconici di una splendida C. Spaak: perché passato – mai veramente, nell’immaginario collettivo di tanti – perché rimpianto, perché, forse, il “dolce boom” ha poi rivelato fragilità e limiti che sembrano trasparire dal volto allusivo di una copertina particolarmente riuscita e capace di aggirare lo scontato ed il banale (in agguato).

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E allora, eccolo il 1960: con il suo cinema (De Laurentiis che esige K. Douglas per l’Odissea mentre gli americani chiedono lumi sulle fattezze degli dei greci, la Magnani insieme a Salvatori – povero, bello e più colto di Arena – Gassman che, in attesa di guidare la Lancia Aurelia B24 – quanto sarà costato all’autore non citare Il sorpasso del 1962? – porta all’insuccesso Un marziano a Roma, per l’euforia aforistica di una spaesato e geniale Flaiano, il Pasolini sceneggiatore del Bell’Antonio e cronista sportivo al Villaggio Olimpico, Fellini, tanto meno cerebrale di Antonioni), la sua letteratura (Calvino, inviso per l’intellettualismo, la potente lobby moraviana con Arbasino – molto ben delineato – la Betti e la Morante, i versatili Flaiano e Pasolini, il giovanissimo Ph. Roth e i prediletti Nabokov ma, soprattutto, John Fante: odiato da Steinbeck e S. Bellow, apprezzato da Vittorini, venerato da Bukowsky, ancora oggi troppo poco conosciuto, Colombati ne fa un protagonista del romanzo), la sua musica, i suoi vizi e vezzi divenuti, nel tempo, raisons d’être…e tanto altro. In questo ampio e ricchissimo affresco socio-culturale, la trama si intreccia alla storia ed alla politica, se ne alimenta genialmente, in un serrato crescendo di tensione dove eventi e personaggi reali e fittizi si (con)fondono: mentre montava, in Italia, la preoccupazione per un governo di centro-sinistra visto con favore da Gronchi e osteggiato da Vaticano, anti-comunisti “trasversali” (Tambroni, Pacciardi) e, soprattutto, dai servizi segreti americani (nel libro interpretati da Grombach, che coinvolge nell’attività di intelligence proprio Fante), all’interno del SIFAR di De Lorenzo, lo scrittore costruisce un thriller dai ritmi cinematografici, che prende spunto dal


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RECENSIONI E NOTE

ventilato rapimento del Presidente della Repubblica ad opera di schegge impazzite della Destra anche internazionale ed esponenti deviati degli stessi servizi segreti italiani. Realtà (affidata anche a cicliche registrazioni audio che interagiscono con il testo) o finzione letteraria? L’una si dissolve nell’altra, in un sapiente gioco labirintico che lasciamo al lettore decifrare. Ammesso che sia possibile. Perché in questo risiede il fascino di un anti-giallo che piacerebbe a Dürrenmatt e non risolve, anzi suscita interrogativi sulla labilità della natura umana, sull’ossessione del passato cui non possiamo sottrarci, sull’impossibilità di comprendere il significato ultimo delle nostre azioni, affidate ad una imponderabile “musica del caso”, tutte suggestioni che si incarnano nei personaggi chiave del libro: Olimpia – inquieta figlia di un Maggiore del SIFAR che frequenta

l’Assunzione, legge Buon giorno tristezza e ascolta Elvis – Agostino Savio – il protagonista principale? Lo scrittore, forse, non sarebbe d’accordo – vittima (in)consapevole di una vicenda collettiva e personale con cui la partita è tragicamente aperta, ma, soprattutto l’inquietante Minotauro – reale solo per chi vuole o sente la necessità di ritenerlo tale – sembrano confermare come “l’intelligenza sia solo un debole strumento di fronte al potere delle forze naturali […] e ciascuno di noi fa parte di un disegno più grande, che viviamo dentro una corrente naturale che sarebbe inutile sfidare; è bene assecondarla, per avere finalmente la visione dell’unità dell’esperienza, il senso della storia, la vera conoscenza della realtà”. Non si possono “chiedere” risposte definitive “alla polvere”. Marco Camerini


SEGNALAZIONE LIBRI Area biblico-teologica FUMAGALLI A. (a cura di), Teologia morale e teologia spirituale - Intersezioni e parallelismi, LAS Editrice, 2014, pp. 176. e 13,00. RAVASI G., L’uomo della Bibbia, EDB, 2014, pp. 104. e 9,50. STEFANI P., L’esodo della Parola. La Bibbia nella cultura dell’Occidente, EDB, 2014, pp. 352. e 30,00. Area storico-filosofica JONAS H., Evoluzione e libertà. Immanenza e trascendenza della vita organica, EDB, 2014, pp. 64. e 7,50. RÜPKE J., Il crocevia del mito. Religione e narrazione nel mondo antico, EDB, 2014, pp. 56. e 6,50. Area psico-pedagogico-didattica LONGHI A. - MAURI G. - MARI S., Didattica delle competenze linguistiche, Erickson, 2014, pp. 273. e 19,50. MALIZIA G. - PIERONI V., L’istruzione superiore in Cina, LAS Editrice, 2014, pp. 284. e 18,00. MASTROFINI F., Né castello né prigione. Come affrontare i problemi della vita in famiglia, EDB, 2014, pp.136. e 12,50. SAVICKAS MARK L., Career counseling. Guida teorica e metodologica per il XXI secolo, Erickson, 2014, pp. 178. e 20,00. Area pastorale e spirituale AA.VV., L’Amicizia, EDB, 2014, pp. 256. e 24,60. AMORTH G., Angeli e diavoli. Cinquanta domande a un esorcista, EDB, 2014, pp. 64. e 6,00. BANDERA M., I rivoluzionari di Dio. Interviste impossibili a tre ribelli della fede, EMI Editrice Missionaria Italiana, 2014, pp. 192. e 14,00. CHIRRI G., Ragazzi, vi racconto Papa Wojtyla, Libreria Editrice Vaticana, 2014, pp. 138. e 14,00. CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Incontriamo Gesù, San Paolo Edizioni, 2014, pp. 160. e 2,50. COZZOLI C., La vita in Cristo. Catechismo della morale cristiana, EDB, 2014, pp. 240. e 18.00. GRÜN A., La farmacia spirituale, Edizioni Messaggero, pp. 76. e 8,50. MIRILLI M., 365 motivi per amare, San Paolo Edizioni, 2014, pp. 432. e 14,90. VALADIER P., I sentieri della bellezza. Arte, morale e religione, EDB, 2014, pp. 176. e 18.50.


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Indice dell’Annata

INDICE ANNATA 2014 (ANNO 81°)

EDITORIALI Donato Petti – La sfida della crisi di fede nel nostro tempo (1, pp. 09-19). – La formazione dei docenti e il futuro dell’educazione cristiana (2, pp. 157-166). – Quale formazione per i docenti laici delle scuole cattoliche? (3, pp. 297-308). – Fede e ragione nel magistero di Papa Benedetto XVI (4, pp. 441-459)

STUDI Gianni Ambrosio – Educazione e famiglia nell’odierna complessità (3, pp. 317-326). Giovanni Chimirri – Relativismo etico o pluralismo culturale? (3, pp. 357-365). Enrico dal Covolo – Quale futuro per l’educazione cristiana? Tra scuola e università (2, pp. 167-178). – “Io credo in Dio Padre…”: la prospettiva relazionale trinitaria, fondamento della preghiera cristiana (4, pp. 469-476) Paulo Dullius – Identità e identità narrativa (1, pp. 31-40). Italo Fiorin – La grande sfida del dialogo interculturale (2, pp. 213-219). Anna Maria Pezzella – L’avventura educativa cristiana (2, pp. 221-226). Álvaro Rodríguez Echeverría – La risposta lasalliana alle sfide del XXI secolo (2, pp. 179-186). Vincenzo Rosito – Verso una teologia politica della partecipazione (4, pp. 477-484) Enrico Solmi – La missione educativa della famiglia (3, pp. 327-338).


Indice dell’Annata

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Francesco Trisoglio – L’allegoria nella lettura del Vangelo: la prassi di S. Cromazio d’Aquileia (1, pp. 21-29). – S. Giustino: l’impostazione della prima apologia cristiana (2, pp. 205-212). – L’educazione del ragazzo in famiglia: che ne pensa Giovanni Crisostomo? (3, pp. 309-316). – La fede serena: S. Paolino da Nola (4, pp. 461-467) Maurizio Viviani – Chiesa, famiglia, libertà di educazione (3, pp. 339-355). PROPOSTE Dario Antiseri – Un criterio per distinguere la storiografia scientifica da quella ideologica (1, pp. 41-58). – L’educazione di menti aperte quale presidio di una società aperta (2, pp. 187-196) – Difesa della libertà di scuola (3, pp. 367-388). – Quale futuro per la scuola italiana? Domande al presidente Matteo Renzi (4, pp. 485-487) Marco Camerini – Scrivere oggi. Senza Márquez (4, pp. 489-493) Renato Di Nubila – Quale formazione per una leadership per l’apprendimento? Scenari nuovi e competenze nuove (2, pp. 247-255). Grazia Fassorra – Autonomia e curricolo (1, pp. 59-66). Claudio Gentili – Le sfide dell’educazione oggi: il ruolo delle partnership pedagogiche (2,pp. 197-204). Giuseppe Mari – Gender e sfida educativa (3, pp. 389-398). Marco Paolantonio – Valutarsi per valutare. Autoanalisi e autovalutazione del docente (4, pp. 495-503) Carlo Rubinacci – Il curricolo nella scuola dell’infanzia e nel primo ciclo d’istruzione. Come attuare le indicazioni nazionali? (1, pp. 67-80). Filippo Sani – Fasi e passaggi di vita. Le coordinate per affrontare i compiti della crescita (3, pp. 399-407). Roberto Zappalà – Esortazione Apostolica “Evangelii gaudium”. Spunti di riflessione in chiave educativa (2, pp. 227-246). RICERCHE Marco Camerini – Presentazione del seminario di studio per l’80° di Rivista Lasalliana (2, 155-156).


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Indice dell’Annata

Mario Chiarapini – I Fratelli delle Scuole Cristiane e la Shoah (1, pp. 81-90). Magali Devif, Alain Houry, Philippe Moulis – La Bolla “Unigenitus” e l’Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane nel Nord della Francia (1713-1724) - (1, pp. 91-110). Magali Devif, F. Alain Houry, Philippe Moulis, F. Francis Ricousse – La maison des Frères des Écoles Chrétiennes de Saint-Yon (3, pp. 409-425). Magali Devif-Philippe Moulis – Testimonianza del conflitto giansenista a Troyes: lettera di Fr. Stefano, Direttore dei Fratelli, a Mons. Languet de Gergy, arcivescovo di Sens (4, pp. 505-524). Marco Paolantonio – 80 anni di Rivista Lasalliana (1934-2014) - (2, pp. 257-275). Bérnard Pitaud – Nicolas Roland e Jean-Baptiste de La Salle (4, pp. 525-558).

ESPERIENZE E TESTIMONI Francis Ricousse – Fratel Agatone: l’esperienza di un secolo di pedagogia lasalliana (1, pp. 111-126).

RECENSIONI E NOTE 1 (pp. 127-143); 2 (pp. 277-286); 3 (pp. 427-431); 4 (pp. 559-572).

SEGNALAZIONE LIBRI 1 (p. 144); 2 (pp. 286-288); 3 (p. 432); 4 (p. 573).

INDICE ANNATA 2014 (ANNO 81°) 4 (pp. 574-576).


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