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Rivista lasalliana
Direzione: 00149 Roma - Via dell’Imbrecciato, 181 ( 06.552.100.243 - E-mail: donato.petti@tiscali.it Amministrazione: 00196 Roma - Viale del Vignola, 56 Sito web: www.lasalliana.com
2014
Rivista lasalliana
Rivista Lasalliana, pubblicazione trimestrale di cultura e formazione pedagogica, fondata in Torino nel 1934, si ispira alla tradizione educativa di Jean-Baptiste de La Salle (1651-1719) e delle Scuole Cristiane da lui istituite. Affronta il problema educativo in un’ottica prevalentemente scolastica, offrendo strumenti di lettura valutativa dei contesti culturali e stimoli orientativi all’esercizio della professione docente. Promuove studi storici sulle fonti bibliografiche della vita e degli scritti del La Salle, sull’evoluzione della pedagogia e della spiritualità del movimento lasalliano, aggiorna su ricerche in corso, avvalendosi della collaborazione di un gruppo internazionale di consulenti. È redatta da un Comitato di Lasalliani della Provincia Italia e di altri esperti in scienze umane, pedagogiche e religiose operanti con ruoli di ricerca, docenza e formazione in istituzioni scolastiche, para-scolastiche e universitarie.
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Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n. 46) art. 1 comma 2 - CNS/AC - ROMA - “In caso di mancato recapito inviare al CMP Romanina per la restituzione al mittente previo pagamento dei resi”
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Rivista lasalliana ISSN 1826-2155
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Donato Petti Quale formazione per i docenti laici delle scuole cattoliche?
Francesco Trisoglio L’educazione del ragazzo in famiglia: che ne pensa Giovanni Crisostomo? Gianni Ambrosio Educazione e famiglia nell’odierna complessità Enrico Solmi La missione educativa della famiglia
Maurizio Viviani Chiesa, famiglia, libertà di educazione
Giovanni Chimirri Relativismo etico o pluralismo culturale? Dario Antiseri Difesa della libertà di scuola Giuseppe Mari Gender e sfida educativa
Filippo Sani Fasi e passaggi di vita. Le coordinate per affrontare i compiti della crescita Magali Devif, F. Alain Houry, Philippe Moulis et F. Francis Ricousse La maison des Frères des Écoles Chrétiennes de Saint-Yon
LUGLIO - SETTEMBRE 2014 • ANNO 81 – 3 (323)
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Rivista Lasalliana, pubblicazione trimestrale di cultura e formazione pedagogica, fondata in Torino nel 1934, si ispira alla tradizione educativa di Jean-Baptiste de La Salle (1651-1719) e delle Scuole Cristiane da lui istituite. Affronta il problema educativo in un’ottica prevalentemente scolastica, offrendo strumenti di lettura valutativa dei contesti culturali e stimoli orientativi all’esercizio della professione docente. Promuove studi storici sulle fonti bibliografiche della vita e degli scritti del La Salle, sull’evoluzione della pedagogia e della spiritualità del movimento lasalliano, aggiorna su ricerche in corso, avvalendosi della collaborazione di un gruppo internazionale di consulenti. È redatta da un Comitato di Lasalliani della Provincia Italia e di altri esperti in scienze umane, pedagogiche e religiose operanti con ruoli di ricerca, docenza e formazione in istituzioni scolastiche, para-scolastiche e universitarie.
RIVISTA LASALLIANA
Trimestrale di cultura e formazione pedagogica fondato nel 1934 Anno 81 • numero 3 • luglio-settembre 2014 Direttore
DONATO PETTI
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PAOLO ASOLAN (Teologia pastorale)
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ENRICO DAL COVOLO (Letteratura cristiana antica)
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REMO L. GUIDI (Questioni umanistico-rinascimentali) PASQUALE MARIA MAINOLFI (Bioetica) ANTONELLO MASIA (Legislazione universitaria) PHILIPPE MOULIS (Ricerche storiche)
DIEGO MUÑOZ (Ricerche e Studi lasalliani)
RAIMONDO MURANO (Formazione tecnico-professionale)
EDGAR GENUINO NICODEM (Studi lasalliani) CARMELA PALUMBO (Autonomia scolastica)
MARCO PAOLANTONIO (Studi lasalliani) MAURIZIO PISCITELLI (Didattica) MARIO RUSCONI (Management scolastico)
LORENZO TÉBAR BELMONTE (Pedagogia lasalliana) ENRICO TRISOGLIO (Storia e Letteratura patristica) ROBERTO ZAPPALÀ (Antropologia filosofica)
Comitato di Redazione
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Collaboratori
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ISSN 1826-2155. Registrazione del Tribunale di Torino n. 353, 26.01.1949 (Tribunale di Roma n. 233, 12.6.2007) Spedizione in abbonamento postale: Poste italiane DL 353/2003 (conv. in legge n. 46, 27.02.2004) art. 1 c. 2 - DCB Roma (Associata all’Unione Stampa Periodica Italiana)
SOMMARIO
Rivista lasalliana 81 (2014) 3
SOMMARIO - SUMMARY 297 Donato Petti
EDITORIALE - EDITORIAL
Quale formazione per i docenti laici delle scuole cattoliche?
Dopo aver delineato l’identità del laico nella Chiesa-Popolo di Dio e del laico educatore nella scuola cattolica, alla luce del Magistero, l’Autore delinea la tesi che una chiara coscienza dell’«identità» della scuola cattolica e la sua «differenza» rispetto alle altre scuole presuppone una coraggiosa presa di coscienza della formazione degli insegnanti che deve avere rispetto a quelli della scuola statale un valore aggiunto. Se, dunque, il fine dell’educazione cristiana è la formazione integrale degli alunni, cioè lo sviluppo di tutte le loro facoltà (fisiche, psichiche e spirituali), un laico cattolico educatore deve necessariamente acquisire prima lui una “formazione integrale”, per incarnare la “chiamata di Dio” nel proprio ministero educativo. Per questo, soprattutto dalla sfida della formazione integrale degli educatori laici dipende il futuro dell’educazione cristiana. What kind of training should be given to lay teachers in Catholic schools?
After defining lay identity in God’s church and the identity of lay educators of the faith in schools, the author outlines the challenge of providing vocational educators with an organic formation in view of the increasing numbers of lay teachers in Catholic schools. If the purpose of a Christian education is the integral formation of the pupils the lay catholic educator must first acquire such a preparation himself in order to embody God’s calling in his educational ministry. It is essential, therefore, to offer re-training at a biblical, theological and professional level as well as communion of charismas, to promote, on the one hand the value of the person and, on the other, to enhance the creativity and completeness of the educational mission. What catholic schools are able to offer in terms of freedom of choice of school for families depends on the acceptance of the priority of such retraining.
309 Francesco Trisoglio
STUDI - STUDIES
L’educazione del ragazzo in famiglia: che ne pensa Giovanni Crisostomo? Il Crisostomo, partendo dalla constatazione di quanto sia grave il male
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SOMMARIO
costituito dalla vanagloria, ne propone a rimedio una precoce e sollecita educazione da impartire al ragazzo fin dalla sua più tenera età. Quale via che ne assicuri l’efficacia esamina gli effetti che producono nell’anima i sensi. Non è un trattato organico impostato su una profondità di speculazione teologica, è un manuale pratico condotto su una concretezza di norme detratte dalla realtà dell’esperienza e dall’osservazione dell’evoluzione psicologica. The child’s education within the family: What does Giovanni Crisostomo think about this?
Crisostomo begins by noting that conceit is a grave failing and he proposes educating the child against any risk of this from a very early age. The most effective way of ensuring this examines the effects produced in the soul by the senses. This (work) is not an organic treatise based on a depth of theological speculation but a practical manual containing concrete rules deriving from the reality of experience and from the observation of psychological development.
317 Gianni Ambrosio
Educazione e famiglia nell’odierna complessità
L’articolo, attraverso un’attenta analisi del contesto socio-culturale, mette in luce il ruolo della famiglia nel contesto contemporaneo. In particolare, si sottolinea l’impegno nella formazione delle famiglie di fronte ai cambiamenti culturali. In questa prospettiva sono valorizzati gli insegnamenti del Magistero della Chiesa sulla famiglia. Inoltre, per quanto riguarda la Chiesa Italiana, vengono evidenziate le priorità che il documento “Educare alla vita buona del Vangelo” riserva alla famiglia.
Education and the family in today’s complex society. The article carefully analyses the socio-cultural context and draws attention to the role of the family in contemporary society. In particular it emphasizes commitment in educating families in the face of profound cultural changes. In this context the Church’s teachings on the family are appreciated. Moreover, as far as the Italian Church is concerned emphasis is given to the priorities given to the family in the document “Educare alla vita buona del Vangelo”.
327 Enrico Solmi
La missione educativa della famiglia
Attingendo agli insegnamenti del Magistero, l’Autore delinea alcuni tratti – fondativi e dinamici – della missione educativa della famiglia, strettamente connessa con la trasmissione della vita. Il “ministero”
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educativo appartiene come compito originario e insostituibile ai genitori, collaboratori di Dio, in sinergia con altre agenzie educative, prima di tutte la scuola. Nella convinzione, come ha ricordato papa Francesco nell’incontro con la scuola italiana, il 26 maggio 2014, che “per educare un ragazzo ci vuole tanta gente: famiglia, insegnanti, personale non docente, tutti!”. Family and School
Drawing on the teachings of the Magistero, the author outlines some of the features of the educative mission of the family, closely connected to the transmission of life. The educative minister as original and irreplaceable task belongs to the parents, God’s collaborators, working together with other educational institutions first and foremost of which are schools. As Pope Francis pointed out on the occasion of his meeting with students from Italian schools,” You need a lot of people to be involved in the education of a child; the family, teachers, non-teaching staff, everyone!”
339 Maurizio Viviani
Chiesa, famiglia, libertà di educazione
L’Autore delinea il compito educativo – alla luce delle indicazioni del Magistero ecclesiale – e riflette su possibilità ed ostacoli che tale compito incontra nello scenario culturale, sociale e politico del nostro tempo di crisi. In particolare, mette l’accento sulla responsabilità educativa della famiglia, cellula fondamentale della società, e sulla libertà di educazione di cui la famiglia deve poter godere, e che oggi appare minacciata in più forme. Offre nella parte finale alcune attenzioni pastorali, per un impegno corale a difesa e promozione della famiglia e della libertà di educazione. Church, family and freedom of education
The author outlines the task of educating- in the light of the guidelines of ecclesiastical teaching-and reflects on opportunities and obstacles that such a task encounters in the cultural, social and political scene of our crisisridden time. He especially puts the emphasis on the educative responsability of the family, the fundamental nucleus of society, and the freedom of education that the family must enjoy, and that today appears to be threatened in various ways. In the final part he stressed the need for a general commitment in defence and for the promotion of the family and the freedom of education.
357 Giovanni Chimirri
Relativismo etico o pluralismo culturale?
Oltre il nichilismo teoretico esiste pure quello pratico, consistente nella negazione dei valori. Se un certo relativismo morale è storicamente
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documentato, vanno distinte però le norme e i costumi – che sono mutevoli nel tempo – dai principi etici validi da sempre (“regola d’ora”, “dire la verità”, ecc.). In ogni caso, se l’uomo non vuole ridursi a belva, deve sempre puntare a ideali di perfezione e, per chi crede, agire sempre in prospettiva escatologica. Negata l’universalità dei valori, ognuno si crea i propri (egoismo, anarchismo, individualismo assiologico) per sopravvivere in un mondo tutto sommato privo di sensi (Nietzsche, Sartre). Ethical Relativism or Cultural Pluralism
As well as theoretical nihilism there also exists practical nihilism which consists in the negation of values. While a certain moral relativism is historically documented, ethical principles that have always been valid the golden rule,tell the truth, etc). If man does not want to be just a beast he must always aim at ideals of perfection and, for believers, always act from an eschatological perspective. Given the negation of universal values everyone creates their own (egoism, anarchism, asciological individualism) in order to survive in a world without sense (Nietzche, Sartre).
367 Dario Antiseri
PROPOSTE - PROPOSAL
Difesa della libertà di scuola
Il nucleo fondamentale del pensiero cattolico liberale è la difesa della inviolabilità, libertà, responsabilità della persona umana, di ogni singola persona. L’Autore si domanda: il monopolio (o quasi-monopolio) statale dell’istruzione garantisce inviolabilità, libertà e responsabilità della persona umana o ne è, piuttosto, la negazione, la soppressione? Ancor più chiaramente: lo Stato di diritto può avanzare la pretesa del monopolio statale nella gestione della scuola? Sulla base delle risposte che a tali nevralgiche questioni hanno dato grandi pensatori – pur da differenti prospettive –, l’Autore converge con essi sulla necessità della libertà di insegnamento in Italia come in Europa e nelle parti del mondo.
Defence of freedom of choice of school
The defence of the inviolability, freedom and responsibility of every single person is a fundamental tenet of liberal catholic thought. The author poses the following question:-Is the state monopoly or near-monopoly of education in Italy a guarantee of the inviolability, freedom and responsibility of the individual person or is it rather its negation or suppression? Even more explicitly, can the Italian State take it upon itself to monopolize the management of schools? On the basis of the answers to these fundamental questions given by great thinkers from different points of view the author is in agreement with
SOMMARIO
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them on the necessity for freedom of teaching in Italy as in Europe and the rest of the world.
389 Giuseppe Mari
Gender e sfida educativa
La “Gender Theory” pone la sfida del significato che hanno i generi maschile e femminile in ordine alla rimozione della discriminazione tra uomo e donna. L’articolo accoglie questa aspirazione, ma respinge la riduzione a pura convenzione socioculturale dei profili sessuati. Dopo aver posto un’alternativa, consistente nel riconoscere le differenze tra uomo e donna finalizzandole alla comunione, focalizza la sfida dal punto di vista pedagogico, tenuto conto anche della differenza tra omosessualità ed eterosessualità. The masculine and feminine: gender theory
The “Gender Theory” issues a challenge about the meaning of masculine and feminine identities in order to remove every discrimination between man and woman. The article agrees to the proposal, but it rejects the reduction only to sociocultural conventions of the sexed identities. The contribution proposes another way of approaching, by recognizing the differences between man and woman directed towards the communion. It focuses the challenge from the pedagogical point of view, taking into consideration also the difference between homosexuality and heterosexuality.
399 Filippo Sani
Fasi e passaggi di vita. Le coordinate per affrontare i compiti della crescita
Mettendo in luce gli elementi propedeutici che consentono il pieno dispiegarsi della funzione educativa delle culture umane nell’ambito della gestione dei passaggi di vita, il presente contributo affronta, in particolare, il tema delle competenze da apprendere e da mettere in atto (sia dal lato degli educandi sia da quello degli educatori), necessarie per affrontare le sfide della vita. Crescere, in buona sostanza, significa separarsi dal mondo infantile, per compiere scelte autonome e differenziarsi da chi educa. Phases and passages of life. Coordinates to tackle the tasks of growth
Highlighting the preparatory information to enable the unfolding of the educational function of human culture in the management of the passages of life, this contribution faces, in particular, the theme of skills to be learned and to put in place (both by being educated that the educator), necessary to meet the challenges of life. Growing up means, in good substance, separate itself from the world of childhood, o make autonomous choices and differentiate themselves from those who educate.
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SOMMARIO
RICERCHE - RESEARCH
409 Magali Devif, F. Alain Houry, Philippe Moulis et F. Francis Ricousse La maison des Frères des Écoles Chrétiennes de Saint-Yon
La maison de Saint-Yon à Rouen a une importance capitale dans l’Institut des Frères des Écoles chrétiennes, elle fut Maison-Mère de 1711 à 1771 et fut aussi la dernière demeure de Jean-Baptiste de La Salle. L’obtention des lettres patentes de la Maison de Saint-Yon constituent l’une des premières étapes de l’officialisation de l’Institut des Frères des Écoles chrétiennes. Nous reproduisons ci-dessous les lettres patentes de 1724 et le texte de 1732 avec les différentes variantes. The House of the Brothers of the Christian Schools in Saint-Yon
The house of Saint-Yon is of capital importance in the Institute of the Brothers of the Christian Schools. It was the Mother House from 1711 to 1771, and it was the last residence of St Jean-Baptiste de La Salle. The obtaining of letters patent for the house of Saint-Yon was one of the first steps in the official recognition of the Institute. We reproduce below the letters patent of 1724 and the text of 1732 with its different variations.
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RECENSIONI E NOTE - RECENSIONS AND NOTES SEGNALAZIONE LIBRI - SIGNALING BOOKS
Rivista Lasalliana 81 (2014) 3, 297-308
EDITORIALE QUALE FORMAZIONE PER I DOCENTI LAICI DELLE SCUOLE CATTOLICHE? DONATO PETTI
Se la Chiesa propone la scuola cattolica come mezzo privilegiato per la formazione integrale dell’uomo e come luogo in cui si trasmette la specifica concezione cristiana del mondo, dell’uomo e della storia, come possono gli insegnanti assolvere questo compito se non hanno una specifica formazione religiosa, oltre che professionale? Il ruolo degli insegnanti della scuola cattolica esige una preparazione specifica e diversa da quello della scuola statale. Una chiara coscienza dell’«identità» della Scuola Cattolica e la sua «differenza» rispetto alle altre scuole presuppone una coraggiosa presa di coscienza della formazione degli insegnanti che deve avere rispetto a quelli della scuola statale un valore aggiunto. Diversamente non ha senso parlare di incarnazione del cristianesimo nella vita delle persone e della società.1 SOMMARIO: 1. Identità del laico nella Chiesa. - 1.1. Laici e criteri di ecclesialità. - 2. Educatore per vocazione. - 2.1. Apostolo dell’educazione, - 2.2. Pellegrino della verità. - 2.3. Protagonista di un’identità vissuta. 3. La scuola cattolica luogo della missione condivisa. - 4. La formazione del laico cattolico educatore. - 4.1. Perché la formazione? - 4.2. La sfida della formazione integrale. - 4.3. La condivisione della formazione integrale.
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1. Identità del laico nella Chiesa
a figura del laico nella Chiesa-Popolo di Dio è stata riscoperta soprattutto nel XX secolo, a partire dal Concilio Vaticano II, i cui documenti approfondiscono la peculiarità della vocazione laicale; tra questi, in particolare: CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, La scuola cattolica, 19 marzo 1977 (in seguito citata S.C.), n. 8. 1
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EDITORIALE
Donato Petti
a) la Costituzione Dogmatica “Lumen Gentium” che sviluppa la dottrina sui laici nel contesto ecclesiologico del Popolo di Dio;2 b) il Decreto “Apostolicam Actuositatem” che indica la partecipazione attiva e responsabile dei laici alla missione salvifica della Chiesa;3 c) il Decreto “Ad Gentes” che sottolinea l’importanza dei laici nell’attività missionaria della Chiesa;4 d) la Costituzione “Gaudium et spes” che colloca l’impegno dei laici come momento decisivo nei rapporti della Chiesa con il mondo contemporaneo. L’insegnamento del Concilio Vaticano II sulla vocazione e missione dei laici è stato ripreso e sviluppato negli anni successivi dal Magistero della Chiesa, specialmente dai pontefici Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco. Inoltre, la dottrina conciliare sui laici ha trovato eco, applicazione ed approfondimento nelle indicazioni dei Sinodi dei Vescovi. In particolare, il Sinodo del 1986 ha incentrato la sua riflessione teologico-pastorale sulla “Vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo a vent’anni dal Concilio Vaticano II”, i cui risultati sono stati esposti da Giovanni Paolo II nell’Esortazione apostolica “Christifideles Laici”(30 aprile 1988). In riferimento esplicito ai fedeli laici, il documento dichiara che “la novità cristiana è il fondamento e il titolo dell’eguaglianza di tutti i battezzati in Cristo, di tutti i membri del Popolo di Dio, perché comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia dei figli, comune la vocazione alla perfezione. In forza della comune dignità battesimale il fedele laico è corresponsabile, insieme con i ministri ordinati e con i religiosi e le religiose, della missione della Chiesa”.5 L’ “indole secolare” va considerata alla luce dell’atto creativo e redentivo di Dio, che ha affidato il mondo agli uomini e alle donne, perché essi partecipino all’opera della creazione, liberino la creazione stessa dall’influsso del peccato e santifichino se stessi nel matrimonio o nella vita celibe, nella famiglia, nella professione e nelle varie attività sociali. Pertanto, l’essere e l’agire nel mondo sono, per i fedeli laici, una realtà non solo antropologica e sociologica, ma anche e specificatamente teologica ed ecclesiale.
1.1. Laici e criteri di ecclesialità
Secondo l’Esortazione apostolica “Christifideles Laici” i criteri di appar-
CONCILIO VATICANO II, Lumen Gentium, n. 31. CONCILIO VATICANO II, Apostolicam Actuositatem, n. 1 (in seguito A.A.). 4 CONCILIO VATICANO II, Ad Gentes, n. 21. 5 GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolica “Christifideles Laici” (in seguito citata C.F.L.), n. 15. 2 3
Quale formazione per i docenti laici delle scuole cattoliche?
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tenenza ecclesiale per i singoli laici e per le aggregazioni laicali6 risultano essere:
a) la tensione alla santità come elemento costitutivo della dignità laicale; 7 b) la responsabilità della proclamazione delle verità della fede cristiana; c) la testimonianza della comunione ecclesiale;8 d) la partecipazione alla missione evangelizzatrice della Chiesa;9 e) l’impegno sociale, alla luce della dottrina sociale della Chiesa. Tali criteri hanno riscontro e verifica nella testimonianza concreta della vita cristiana: la preghiera, la vita liturgica e sacramentale, la promozione delle vocazioni al matrimonio cristiano, al sacerdozio ministeriale, alla vita consacrata; la partecipazione alla formazione cristiana e alla catechesi, alle opere caritative, culturali e spirituali.10 Papa Francesco, nella sua prima Esortazione Apostolica “Evangelii gaudium”(24 novembre 2013), con saggezza e realismo fa il punto sulla situazione del laicato oggi nella vita della Chiesa, sintetizzando problematiche, aspettative e prospettive: “I laici sono l’immensa maggioranza del popolo di Dio. Al loro servizio c’è una minoranza: i ministri ordinati. È cresciuta la coscienza dell’identità e della missione del laico nella Chiesa. Disponiamo di un numeroso laicato, benché non sufficiente, con un radicato senso comunitario e una grande fedeltà all’impegno della carità, della catechesi, della celebrazione della fede. Ma la presa di coscienza di questa responsabilità laicale che nasce dal Battesimo e dalla Confermazione non si manifesta nello stesso modo da tutte le parti. In alcuni casi perché non si sono formati per assumere responsabilità importanti, in altri casi per non aver trovato spazio nelle loro Chiese particolari per poter esprimersi ed agire, a causa di un eccessivo clericalismo che li mantiene al margine delle decisioni. Anche se si nota una maggiore partecipazione di molti ai ministeri laicali, questo impegno non si riflette nella penetrazione dei valori cristiani nel mondo sociale, politico ed economico. Si limita molte volte a compiti intraecclesiali senza un reale impegno per l’applicazione del Vangelo alla trasformazione della società. La formazione dei laici e l’evangelizzazione delle categorie professionali e intellettuali rappresentano un’importante sfida pastorale.11
C.F.L., n. 30. C.F.L., n. 16. 8 C.F.L., nn. 18-24. 9 C.F.L., nn. 25-29. 10 C.F.L., n. 30. 11 FRANCESCO, Esortazione Apostolica “Evangelii gaudium”, n. 102. 6 7
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EDITORIALE
Donato Petti
2. Educatore per vocazione
Alla luce dei documenti ecclesiali, l’identikit del laico impegnato in campo educativo risulta così caratterizzato: 2.1. Apostolo dell’educazione
Il Concilio Vaticano II ha dichiarato espressamente che il servizio educativo è autentico apostolato, “sommamente conveniente e necessario ed insieme reale servizio reso alla Chiesa e alla società”;12 infatti, se nella Chiesa c’è diversità di ministero, ma unità di missione, anche i laici, in quanto partecipi dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, hanno uno specifico compito nella missione di tutto il Popolo di Dio.13 La riflessione teologicopastorale ha riconosciuto, con chiarezza, che la missione dell’educatore cristiano può essere considerato un vero “ministero educativo”. 2.2. Pellegrino della verità
La professionalità dell’educatore possiede una specifica caratteristica che raggiunge il suo senso più profondo nella trasmissione della verità. Insieme al bisogno di amare, il desiderio della verità appartiene alla natura stessa dell’uomo. Ponendo la domanda intorno alla verità allarghiamo, infatti, l’orizzonte della nostra razionalità, iniziamo a liberare la ragione da quei limiti troppo angusti entro i quali essa viene confinata quando si considera razionale soltanto ciò che può essere oggetto di esperimento e di calcolo. E proprio qui avviene l’incontro della ragione con la fede: nella fede accogliamo, infatti, il dono che Dio fa di se stesso rivelandosi a noi, creature fatte a sua immagine; accogliamo e accettiamo quella Verità che la nostra mente non può comprendere fino in fondo e non può possedere, ma che proprio per questo dilata l’orizzonte della nostra conoscenza e ci permette di ritrovare in Dio il senso definitivo della nostra esistenza.14 Il cristiano educatore non è un semplice professionista, che si limita a trasmettere sistematicamente nella scuola una serie di conoscenze; il suo compito supera di gran lunga quello del semplice docente, perché la sua professionalità è protesa alla conoscenza e alla trasmissione dell’unica Verità, della CONCILIO VATICANO II, Dichiarazione Gravissimum educationis, 28 ottobre 1965, n. 8 (in seguito citato G.E.). 13 A.A., n. 2. Cfr. CORRAL M., Il ministero educativo nel pensiero di S. Giovanni Battista de La Salle, in “Scuola Cattolica Oggi”, 1(1995), pp. 15-27. 14 BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al Convegno ecclesiale della Diocesi di Roma, 5 giugno 2006. 12
Quale formazione per i docenti laici delle scuole cattoliche?
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quale tutte le altre sono partecipazione.15 Perciò, l’educatore cristiano è ogni persona che contribuisce alla formazione integrale dell’uomo. 2.3. Protagonista di un’identità vissuta
L’educatore realizza la sua missione educativa: a) superando le difficoltà con realismo aperto alla speranza: l’insegnante cattolico assume necessariamente il carattere di un ideale di fronte al quale si pongono innumerevoli ostacoli, che vanno riconosciuti con fiducia e ottimismo;16 b) instaurando un dialogo aperto tra fede, cultura e vita: la trasmissione organica, critica e valutativa del sapere comporta una trasmissione di conoscenze e un dialogo sincero tra cultura e fede per facilitare la dovuta sintesi interiore da parte degli alunni;17 c) testimoniando con la vita il modello di uomo che presenta: quanto più l’educatore testimonia ciò che insegna, tanto più sarà credibile e imitabile;18 d) dialogando con i membri della comunità educativa, specialmente con i genitori e le famiglie degli alunni, senza trascurare una costante attenzione all’ambiente socio-culturale, economico e politico della scuola e la collaborazione con le associazioni professionali che si occupano di insegnamento e di educazione;19 f) vivendo la professione come vocazione: il dicastero vaticano per l’educazione cattolica non ha esitato ad affermare che gli insegnanti laici “con la loro azione e testimonianza, sono tra i protagonisti più importanti che mantengono alla scuola cattolica il suo carattere specifico”,20 con la loro testimonianza di educatori per vocazione. In definitiva, chi è l’educatore che opera nella scuola cattolica? quali sono i connotati della sua persona e del suo servizio? Una definizione sintetica ma esaustiva è offerta dal documento “Il laico cattolico testimone della fede nella scuola”: “L’educatore laico cattolico è colui che esercita la sua missione nella Chiesa vivendo nella fede la sua vocazione secolare nella struttura comunitaria della scuola, con la maggiore qualificazione possibile e con un progetto apostolico ispirato alla fede per la formazione integrale dell’uomo, nella trasmissione della cultura, nella pratica di una pedagogia di contatto diretto e permanente con l’alunno, nell’animazione spirituale della comunità alla 15 CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Il laico cattolico testimone della fede nella scuola, 15 ottobre 1982, nn. 15-16 (in seguito citato L.C.). 16 L.C., nn. 25-26. 17 L.C., nn. 27-29. 18 L.C., nn. 32-33. 19 L.C., nn. 34-36. 20 L.C., n. 37.
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quale appartiene e in quelle categorie di persone con le quali la comunità educativa è in rapporto. A lui come membro della comunità, le famiglie e la Chiesa affidano il compito educativo nella scuola”.21
3. La scuola cattolica luogo della missione condivisa
L’ecclesialità della scuola cattolica è scritta nel cuore stesso della sua identità. Essa è vero e proprio soggetto ecclesiale in ragione della sua azione scolastica.22 Come ricorda Papa Francesco nell’Esortazione apostolica Evengelii gaudium, “le scuole cattoliche, che cercano sempre di coniugare il compito educativo con l’annuncio esplicito del Vangelo, costituiscono un contributo molto valido all’evangelizzazione della cultura” (N.134). Il servizio alla persona e alla società si esprime e si attua, in modo particolare, attraverso la creazione e la trasmissione della cultura, in dialogo con la vita e con la fede.23 La presenza sempre più massiccia dei laici nella scuola cattolica ha coinciso in questi ultimi decenni con una notevole diminuzione di Sacerdoti, Religiosi e Religiose dediti all’insegnamento. È noto a tutti, specie in Occidente, il fenomeno della crisi delle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. I gestori delle scuole cattoliche vivono da decenni, con apprensione ed evidente preoccupazione, spesso con rassegnazione e pessimismo, il futuro della proprie scuole. Ogni anno decine di esse, con storia e tradizioni ultracentenarie, sono costrette a chiudere i battenti; altre, a denti stretti, cercano di reggere alla crisi…, ma fino a quando? Ad una lettura di fede della storia e della realtà contemporanea, la scuola cattolica potrà rivelarsi il luogo privilegiato per l’impegno dei laici credenti, che, insieme ai consacrati, potranno contribuire a dare vita ad una nuova stagione di educazione orientata cristianamente, se insieme promuoveranno ed implementeranno un processo creativo di missione condivisa. Mantenendo ciascuno la propria caratteristica vocazionale, sacerdoti, religiosi, religiose e laici potranno integrarsi pienamente nella comunità educativa e realizzare la missione educativa in comunione. La responsabilità apostolica, la competenza professionale e la testimonianza della fede, un’autentica partecipazione alle responsabilità della scuola e la sincera identificazione con i fini educativi della scuola cattolica sono le condizioni indispensabili per una rinnovata missione educativa condivisa.24 L.C., n. 24. SACRA CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, La scuola cattolica alle soglie del terzo millennio, 1998, n. 11 (in seguito citato S.C.T.M.). 23 C.F.L., n. 44. 24 L.C., nn. 76-78; Codice di Diritto Canonico (in seguito C. D. C.), cann. 800-839. 21
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Infatti, tutti gli educatori, religiosi e laici, possono offrire alla scuola cattolica il contributo della loro competenza e testimonianza, pur vivendo in stati diversi di vita, secondo la vocazione di ognuno.25 Le direttrici della comunione, della collaborazione e della corresponsabilità in campo educativo tra persone consacrate e fedeli laici poggiano su tre fondamenti: a) l’ideale di Gesù Maestro: non sono i laici che aiutano i consacrati o i consacrati che “si servono” del supporto dei laici; nell’ottica dell’ecclesiologia di comunione gli uni e gli altri guardano nella stessa direzione, condiscepoli del medesimo ed unico Maestro, Gesù; b) la condivisione dei carismi: i carismi delle Famiglie Religiose non sono esclusivo appannaggio dei consacrati; lo Spirito Santo ha donato tali carismi alla Chiesa e, quindi, anche ai laici che intendono incarnarli nel loro impegno educativo; c) la conoscenza e l’approfondimento della reciproca identità: i consacrati hanno il compito di conoscere ed approfondire la teologia del laicato, leggere i segni dei tempi, favorendo il processo di comunione con i laici, dedicando tempo, energie e risorse nell’accompagnarli, nell’ottica del carisma specifico; i laici cristiani, da parte loro, sono chiamati a conoscere e ad approfondire il dinamismo della vita consacrata, la scelta della radicalità evangelica delle persone che con dedizione totale, incondizionata e appassionata, dedicano tutta la vita ad annunciare e testimoniare l’amore vivente di Dio. Il processo educativo, allora, diventa autentica “missione condivisa”, perché fondata sulla “spiritualità” e sul “carisma” condivisi.26 Occorre rifuggire, però, dalla tentazione di voler vedere i risultati “qui” e “ora”. I tempi saranno necessariamente lunghi. L’importante è seminare. Altri procederanno al raccolto.
4. La formazione del laico cattolico educatore 4.1. Perché la formazione?
Da quanto detto finora, deriva una considerazione incontrovertibile: l’apostolato educativo dei laici e dei consacrati può raggiungere piena efficacia solo mediante un’organica e graduale formazione condivisa.27 L’Esortazione apostolica “Christifideles Laici” ricorda che ogni uomo “è interpellato nella sua libertà dalla chiamata di Dio a crescere, a maturare, a
L.C., nn. 25-27. GIOVANNI PAOLO II, Lettera Apostolica Novo Millennio Ineunte, 6 gennaio 2001, 43. 27 A.A., n. 28. 25
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portare frutto”.28 In questo dialogo tra Dio che chiama e la persona interpellata nella sua responsabilità si situa la possibilità, anzi la necessità di una formazione integrale e permanente degli educatori cristiani.29 Il Papa emerito Benedetto XVI ha sottolineato l’importanza che “a tutti i cristiani, secondo le diverse età e condizioni di vita, siano presentati i contenuti essenziali della fede, in forma sistematica ed organica, per rispondere anche agli interrogativi che pone il nostro mondo tecnologico e globalizzato. La realtà in cui viviamo esige che il cristiano abbia una solida formazione! Non si può essere, infatti, al servizio degli uomini, senza essere prima servi di Dio.30 L’importanza dei compiti educativi della scuola, inoltre, spiega quanto sia cruciale il tema della preparazione degli insegnanti, dei dirigenti, di tutto il personale che ha responsabilità nel campo dell’istruzione. Chi insegna persegue contemporaneamente molti obiettivi diversi, affronta situazioni problematiche che richiedono una elevata professionalità e preparazione. Per essere all’altezza di simili attese è necessario che tali compiti non siano lasciati alla responsabilità individuale, ma sia offerto un adeguato sostegno a livello istituzionale per preparare non burocrati, ma leaders competenti. Una risposta argomentata ed esaustiva al “perché” della formazione degli insegnanti delle scuole cattoliche è offerta, in maniera inequivocabile, nel citato documento vaticano “La scuola cattolica”(19 marzo 1977): “Se la Chiesa propone la scuola cattolica come mezzo privilegiato per la formazione integrale dell’uomo e come luogo in cui si trasmette la specifica concezione cristiana del mondo, dell’uomo e della storia, come possono gli insegnanti assolvere questo compito se non hanno una specifica formazione religiosa, oltre che professionale? Il ruolo degli insegnanti della scuola cattolica esige una preparazione specifica e diversa da quello della scuola statale. Una chiara coscienza dell’ «identità» della Scuola Cattolica e la sua « differenza » rispetto alle altre scuole presuppone una coraggiosa presa di coscienza della formazione degli insegnanti che deve avere, rispetto a quelli della scuola statale, un valore aggiunto. Diversamente non ha senso parlare di incarnazione del cristianesimo nella vita delle persone e della società”.31 4.2. La sfida della formazione integrale
Quale formazione, dunque, per gli insegnanti laici delle scuole cattoliche?
C.F.L., n. 57. C.F.L., n. 57. 30 BENEDETTO XVI, Discorso ai vescovi partecipanti al Convegno promosso dalla Congregazione per i Vescovi, 20 settembre 2012. 31 S.C., n. 8. 28
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Ogni programma formativo in questa direzione ha come obiettivo fondamentale la scoperta sempre più chiara della propria vocazione e la disponibilità sempre più grande a viverla nel compimento della propria missione. Ne consegue che l’esperienza vissuta di una vocazione così ricca e così profonda come quella del laico cattolico educatore nella scuola richiede la corrispondente formazione sia sul piano professionale, che su quello religioso. Si richiede specialmente nell’educatore una personalità spirituale matura che si manifesti in una profonda vita cristiana.32 Già il Concilio Vaticano II, nella Dichiarazione “Gravissimum Educationis”, recitava espressamente: “Gli insegnanti devono prepararsi scrupolosamente, per essere forniti della scienza sia profana, sia religiosa, attestata dai relativi titoli di studio, e ampiamente esperti nell’arte pedagogica, aggiornata con le scoperte del progresso contemporaneo”.33 D’altro canto, un laico cattolico educatore, per realizzare la formazione integrale degli alunni, deve necessariamente acquisire prima lui una “formazione integrale”, presupposto della propria professione come “chiamata di Dio”.34 Il documento Educare insieme nella scuola cattolica. Missione condivisa di persone consacrate e fedeli laici espone in maniera chiara le linee programmatiche di tale formazione integrale.35 Essa comprende, dunque: a) la formazione professionale, a supporto della qualità culturale dell’insegnamento, della capacità relazionale e della sintesi tra preparazione e motivazioni educative;36 b) la formazione cristiana (biblico-teologico), acquisita presso strutture e centri di alta formazione37. Vale la pena, a questo punto, evocare una pagina di Benedetto XVI, nella quale il papa emerito mette a nudo la situazione di secolarismo e di analfabetismo religioso che caratterizza il nostro tempo: “Purtroppo, è proprio Dio a restare escluso dall’orizzonte di tante persone; e quando non incontra indifferenza, chiusura o rifiuto, il discorso su Dio lo si vuole comunque relegato nell’ambito soggettivo, ridotto a un fatto intimo
L.C., n. 60. G.E., n. 8. 34 L.C., n. 61. 35 Cfr. E.M.C., nn. 20-37. 36 E.M.C., n. 22. 37 Se i docenti laici sono abitualmente abbastanza sensibili alla proposta di un’aggiornata preparazione professionale, lo sono talora di meno per la qualificazione dottrinale-cristiana, dandola, forse, per acquisita, una volta per sempre, in occasione della preparazione ai sacramenti o delle lezioni di religione nel percorso scolastico primario e secondario. 32
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e privato, marginalizzato dalla coscienza pubblica. Passa da questo abbandono, da questa mancata apertura al Trascendente, il cuore della crisi che ferisce l’Europa, che è crisi spirituale e morale: l’uomo pretende di avere un’identità compiuta semplicemente in se stesso.38 Questa ignoranza provoca nelle nuove generazioni l’incapacità di comprendere la storia e di sentirsi eredi di questa tradizione che ha modellato la vita, la società, l’arte e la cultura europee. Le parole del Papa emerito possono valere anche per la realtà di alcune scuole cattoliche. Dunque, è estremamente importante proporre una solida formazione religiosa degli insegnanti di tutte le discipline, per maturare a livello personale la sintesi tra fede-cultura e vita e proporla successivamente agli alunni attraverso l’integrazione dei diversi contenuti del sapere umano, specificato nelle varie discipline, alla luce del messaggio evangelico.39 Per questo, la formazione degli insegnanti in generale, e di quelli delle scuole cattoliche in specie, è indispensabile e richiede un rigore e un approfondimento, senza i quali il loro insegnamento sarebbe considerato poco credibile, poco affidabile e pertanto non necessario. Non è, infatti, desiderabile che nelle scuole cattoliche vi sia “una doppia o tripla popolazione” di insegnanti; c’è, invece, bisogno che vi operi un corpo docente omogeneo, disponibile ad accettare e a condividere una definita identità cristiana, e un coerente stile di vita.40 Se, dunque, il fine dell’educazione cristiana è la formazione integrale degli alunni, cioè lo sviluppo di tutte le loro facoltà (fisiche, psichiche e spirituali), appare del tutto evidente che i docenti di tutte le discipline, oltre alla preparazione professionale specifica, sono tenuti a maturare l’assimilazione personale e comunitaria delle verità della fede cristiana (concezione della vita, del mondo, della storia, della cultura) e dei principi della vita spirituale. Di qui la necessità per gli educatori della scuola cattolica, di percorrere un adeguato itinerario formativo teologico. Ciò aiuta ad articolare meglio l’intelligenza della fede con l’impegno professionale e l’agire cristiano. Del resto, la scuola cattolica è consapevole che la comunità che essa costituisce deve continuamente alimentarsi e confrontarsi con le fonti da cui deriva la ragione del suo esistere: la parola salvifica di Dio nella Sacra Scrittura.41 In definitiva, l’obiettivo specifico degli insegnanti di ogni disciplina è BENEDETTO XVI, Discorso all’Assemblea della Conferenza Episcopale Italiana, 24 maggio 2012. L.C., nn. 64-66. 40 CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Educare oggi e domani. Una passione che si rinnova (Instrumentum laboris), 7 aprile 2014, p. 19 (f). 41 E.M.C., n. 26. 38
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quello di individuare modalità didattiche e linguaggi appropriati per dire i valori della fede cristiana nel proprio lavoro educativo. Diversamente che senso avrebbe parlare di “educazione cristiana”? c) la formazione alla “comunione dei carismi”: ogni scuola cattolica conserva le proprie caratteristiche se chi vi opera cercherà di acquisire e di identificarsi con il carisma educativo che l’ha ispirata;42 La scuola cattolica richiede il coinvolgimento di educatori non solo culturalmente e spiritualmente formati, ma anche intenzionalmente orientati a far crescere il loro impegno educativo comunitario in un autentico spirito di comunione ecclesiale.43 Sicché nella scuola cattolica «la reciprocità delle vocazioni, evitando sia la contrapposizione, sia l’omologazione, si colloca come prospettiva particolarmente feconda per arricchire la valenza ecclesiale della comunità educativa. In essa le varie vocazioni […] sono vie correlative, diverse e reciproche che concorrono all’attuazione piena del carisma dei carismi: la carità».44 d) la formazione permanente: esigita dallo straordinario progresso scientifico e tecnico e dalla continua ricerca pedagogico-didattica, essa impegna ogni educatore di scuola cattolica circa le attitudini personali, i contenuti delle discipline e le metodologie che utilizza.45 È decisivo, dunque, puntare sulla qualificazione dei docenti sul piano biblico-teologico, professionale e della comunione dei carismi, che sia in grado, da un lato, di promuovere la realtà di ogni persona e, dall’altro, di rilanciare con creatività e con pienezza la missione educativa. 4.3. La condivisione della formazione integrale
Il futuro dell’educazione cristiana è impresso nel cuore stesso della sua identità,46 in quanto “contemporaneamente luogo di evangelizzazione, di educazione integrale, di inculturazione e di apprendimento di un dialogo vitale tra giovani di religioni e di ambienti sociali differenti”.47 Per questo, dalla sfida della formazione integrale degli educatori laici dipende il futuro dell’educazione cristiana.48 E, d’altro canto: se la Chiesa propone la scuola cattolica come mezzo privilegiato per la formazione inteG.E., n. 8; L.C., n. 66. E.M.C, n. 34. 44 CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Educare insieme nella scuola cattolica. Missione condivisa di persone consacrate e fedeli laici, nn. 35-37 (in seguito citata, E.M.C.). 45 L.C., nn. 67-70; E.M.C., nn. 35-37. 46 S.C.T.M., n. 11. 47 GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica Ecclesia in Africa, n. 102. 48 L.C., nn. 61-66. 42
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grale degli alunni, come è possibile immaginare l’azione educativa di insegnanti che non abbiano, a loro volta, seguito un percorso adeguato di formazione integrale? Nell’opera formativa degli insegnanti due considerazioni si rivelano particolarmente rilevanti: innanzitutto, la convinzione, che non si dà formazione vera ed efficace se ciascuno non si assume e non sviluppa da se stesso la responsabilità della formazione: questa, infatti, si configura essenzialmente come “auto-formazione”; la consapevolezza, inoltre, che ogni docente è il termine e insieme il principio della formazione: più ci formiamo e più sentiamo l’esigenza di proseguire e approfondire la nostra formazione e renderci capaci e disponibili di formare gli altri. Alla luce dell’esperienza maturata in questi anni, mi permetto di proporre alcune piste di riflessione relative alla formazione dei docenti laici delle scuole cattoliche: a) La proposta della formazione integrale necessita della condivisione di tutti i docenti (religiosi e laici), al fine di creare fra loro rapporti sempre più profondi tanto sul piano professionale quanto su quello personale e spirituale”.49 b) La ricaduta creativa del processo formativo sulla scuola si avrà se la stessa formazione sarà assimilata da tutti gli insegnanti, perché dall’impegno di tutti loro dipende un nuovo corso dell’educazione cristiana. Proporre la formazione solo ad alcuni docenti (o, peggio, a chi vuole) significa di fatto vanificare le finalità e gli obiettivi specifici dello stessa, in quanto gli effetti benefici ricadrebbero quasi soltanto sulla persona che la compie (formazione e punteggio) ma in maniera assai modesta sulla realtà educativa della scuola (finalità che, invece, si desidera perseguire). Dalla risposta alla sfida della formazione integrale dei docenti dipenderà, in gran parte, il futuro delle scuole cattoliche e la loro efficacia per il reale servizio alla libertà di scelta educativa delle famiglie.50 E.M.C, n. 35. Con il rispetto doveroso per chi sostiene opinioni differenti, mi sia consentito sottolineare una considerazione sulle proposte formative messe in campo, da più parti, in questi ultimi lustri. Oltre ai corsi di aggiornamento sulla professionalità dei docenti e sul management delle scuole, in genere, sono stati proposti programmi di formazione al carisma della rispettiva famiglia religiosa, con la fiduciosa speranza che gli insegnanti assimilassero e condividessero gradualmente la spiritualità della Congregazione. Questi tentativi, pur lodevoli, non sempre hanno dato i risultati sperati. E, a mio parere, per ragioni diverse. Una di queste va sicuramente individuata nella riduttività della proposta formativa complessiva, che ha inteso privilegiare la presentazione del carisma della famiglia religiosa, in assenza di una solida ed organica formazione biblico-teologica, presupposto per ulteriori approfondimenti vuoi del carisma congregazionale che della stessa professionalità docente. Con il risultato di una semente caduta spesso sui sassi e sui rovi. 49
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Rivista Lasalliana 81 (2014) 3, 309-316
L'EDUCAZIONE DEL RAGAZZO IN FAMIGLIA: CHE NE PENSA GIOVANNI CRISOSTOMO?
FRANCESCO TRISOGLIO Professore emerito di Storia e Letteratura Patristica (Università di Torino) SOMMARIO: 1. Lo schema. - 2. Importanza e modalità dell'educazione. - 2.1. La lingua. - 2.2. L’udito. - 2.3. L’odorato. - 2.4. La vista. - 2.5. Il tatto. - 2.6. La concupiscenza.
L
a vanagloria e l’educazione dei ragazzi (ediz. Anne-Marie Malingrey, SC 188, Paris, 1972) ha avuto una vicenda contrastata, che è stata ricostruita con una documentazione informatissima e una penetrazione acutissima dalla Malingrey. L’opera fu scoperta e pubblicata da Fr. Combefis nel 1656. Per i primi 70 anni fu da tutti accolta come genuina, finché nel 1722 C. Oudin sollevò dubbi; sorse così un dibattito sulla sua autenticità, per cui ci fu un alternarsi di dotti che ne accettavano la genuinità e di altri che la respingevano. Ci si fondò talora su semplici impressioni, ma spesso anche su precise analisi linguistiche, che tuttavia presentavano una controversa attendibilità. A conclusione del lungo percorso sull’avvicendamento delle opinioni, la Malingrey ne affermò risolutamente l’autenticità e (p. 47) ne propose la data di composizione tra fine del 393 e l’inizio del 394.
1. Lo schema
L’opera parte da un’analisi del costume sociale. A Costantinopoli era radicata la passione per i giochi pubblici, i quali venivano finanziati da ricchi cittadini, che vi profondevano le loro fortune in cambio di un’entusiastica esaltazione popolare, vero trionfo della vanagloria.1 Era diventata una vera piaga sociale per la vanità nella quale si sciupava la vita e per la rovina di patrimoni che ne conseguiva. La lotta contro la vanagloria è stata una delle più tenaci campagne morali che Giovanni abbia condotte. La definì una tirannide (De compunctione I, 4, Patrologia Graeca [PG] 47, col. 400) e la più tirannica delle passioni (Su S. Giovanni, Om., 28,3, PG 59,166). La giudicò vipera che squarcia il ventre di colei che la partorisce (Sulla Prima Ep. ai Cor., Om. 35,5, PG 61,302); essa produce un’amara schiavitù (Sulla Seconda Ep. ai Cor. Om. 9,3, PG 61,463); è vento che spazza via tutte le virtù (Ad Stagirium I,9, PG 47,446); per vincerla si richiede molta fatica ed 1
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Giovanni Crisostomo ritrae in vivacità di rievocazione il fenomeno, denunciandone la vacuità e la gravità. Del traviamento cerca le radici, che scopre in una falsa educazione impartita ai ragazzi fin dalla loro prima età. Per ovviare al malanno subito alle sue origini, propone un piano pedagogico, che si articola in sezioni successive: lo scopo dell’educazione, che è quello di formare soldati per Cristo (§ 19), la reattività della psicologia infantile (§ 20-25), le porte che si aprono al suo accesso, che sono la lingua (§ 28-35), l’udito (§ 36-38), e qui Giovanni documenta la sua asserzione suggerendo l’ascolto di scene storiche, quali gli episodi di Caino e Abele (§ 36-42) e di Giacobbe e Esaù (§ 43-46; 51-53); riparte poi analizzando l’odorato (§ 54), la vista (§ 55-62) e il tatto (§ 63). Indugia nello scrutare la concupiscenza e la facoltà razionale (§ 64-65) e nell’indagare la disciplina che va loro imposta (§ 66-80); illustra la preparazione al matrimonio (§ 81-84) e la formazione della ragione (§ 85-87) e conclude con la celebrazione delle nozze (§ 88-89) e con l’educazione delle ragazze (§ 90). L’opera è impostata su una serie di analisi; è un cammino del quale è implicita la meta; Giovanni parla nella libertà della conversazione; prende gli spunti che gli venivano offerti dall’esperienza personale, dall’osservazione sociale e dalle considerazioni che la riflessione ne trae; manca però di una sintesi finale organica che sistemi il materiale in una struttura unitaria e faccia percepire ogni pensiero come membro di un corpo vitale. Sono appunti e degli appunti, in luogo della completezza, hanno l’immediatezza, la spontaneità, la concretezza. La Malingrey ha ragione di asserirne l’autenticità, perché l’anima è quella di Giovanni, ma i riluttanti possono giustificare le loro perplessità, in quanto Giovanni, per l’occasione, ha alternato alla ‘bocca d’oro’ una ‘bocca domestica’; non ci sono né il brillio dell’esegeta biblico né l’appassionata umanità dell’orazione in difesa di Eutropio; c’è la pacata, e un po’ stinta, sobrietà di chi è immerso nella quotidianità. Più che il bagliore di chi scopre, c’è il tono dimesso di chi constata.2 Non pretende di dire cose nuove, vuole una grande energia spirituale (Sull’Ep. a Tito Om. 2,3, PG 62,674); «Se vuoi venire glorificato, disprezza la gloria, e sarai il più splendido di tutti» (Su S. Matteo Om. 4,10, PG 57,51). S. Gregorio di Nazianzo aveva proclamato che «la gloria di quaggiù è un vento, vana grazia di uomini vani» (Carm. I,2,10,439, PG 37,712) ed Evagrio Pontico la paragonò all’edera che dissecca l’albero su cui cresce; così essa soffoca il vigore delle virtù (Gli otto spiriti cattivi, § 15, PG 79,1160). 2 Del resto, la diversità di tema e di tono basta a stabilire la diversità di autore? Chi direbbe che siano dello stesso Gregorio di Nazianzo gli aridissimi prontuari biblici (Carm. I,1,12-27), la sua appassionata autodifesa (II,1,11), la mordacità con cui attacca certi suoi avversari, dall’imperatore Giuliano a Massimo il Cinico, e la drammatica intensità di molti sfoghi che ritraggono al vivo il suo dissidio interiore (II,1,45-89)?
L'educazione del ragazzo in famiglia: che ne pensa Giovanni Crisostomo?
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consigliarne di quelle vere ed utili. Non ha davanti una tesi da sviluppare ma dei ragazzi da educare nella molteplicità delle situazioni e dei temperamenti. L’unitarietà, che non è data dalla concatenazione dei suggerimenti, viene ricuperata dall’unicità della persona alla quale essi sono rivolti e dall’altezza del valore al quale essi avviano. Quanto l’unità dell’opera sia allentata appare dalla stessa duplicità del titolo; il tema della vanagloria viene preso come motivo per impartire una precoce e sana formazione morale, ma la connessione è aleatoria; qualsiasi altro vizio poteva espletare la medesima funzione.
2. Importanza e modalità dell’educazione
L’autore parte dal presupposto che il tenore della vita della persona è lo sviluppo consequenziario dell’impostazione iniziale. L’anima al suo schiudersi è come una cera molle nella quale le impronte che vi vengono segnate, quando induriscono, non si cancelleranno più (§ 20). Vanno quindi oculatamente controllati e usati gli agenti che producono queste impronte, i quali sono, essenzialmente, la lingua e i cinque sensi.
2.1. La lingua
Deve essere accuratamente munita di chiavistelli, a causa della molteplicità delle relazioni alle quali apre l’accesso (§ 28). Altrove Giovanni aveva ammonito che essa può diventare un pericoloso strumento di rovina, per cui «Dio l’aveva avvolta nel duplice sbarramento dei denti e con il fodero delle labbra, perché non emetta inconsideratamente parole che non si addicono».3 Le va apposta la chiave della ragione, non per tenerla costantemente chiusa, ma perché si apra al momento opportuno;4 bisogna stare attenti «perché le conversazioni mondane e grossolane ostruiscono l’udito dell’intelligenza».5 Giovanni rivolge un pressante invito: «Riempi la tua bocca di profumo non di fetore; rendila un tesoro regale non un sepolcro diabolico; se poi è un sepolcro, almeno tienila chiusa, perché il fetore non venga fuori. Hai dei desideri cattivi? Non esporli in parole; lascia che stiano giù e così soffocano presto».6 Aveva esortato ad una seria meditazione responsabile: «Rifletti che la lingua è il membro col quale conversiamo con Dio; questo è il membro con
Catechesi Ad illuminandos I,4, PG 49,228-229. Presentazione dei Salmi, 140, § 4, PG 55,420. 5 Frammenti sull’Epistola di S. Giacomo, cap. 3 vers. 13, PG 64,1048. 6 Sull’oscurità delle profezie II,8, PG 56,187. 3 4
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Francesco Trisoglio
il quale riceviamo la Comunione, perciò bisogna che sia libero da qualsiasi oscenità e calunnia».7 E scende dal problema alla sua soluzione pratica, suggerendo che, se il ragazzo parla male, va rimproverato, talora con un (semplice) sguardo severo, talora con parole mordaci, talora con una sgridata, talora con delle promesse allettanti; non usare però castighi fisici, i quali finiscono col diventare inefficaci: «Tema sempre le percosse, ma non le riceva mai; gli si faccia balenare la frusta, ma non la si adoperi»; «quando vedi che ha tratto profitto dal timore, allenta; infatti la natura umana ha bisogno di distensione» (§ 30). Giovanni va ben al di là della famosa ‘ferula’ scolastica; si estrania da una certa rudimentale prassi punitiva tradizionale; in lui morale, psicologia, pedagogia si fondono in un lucido equilibrio; se bisogna pretendere la virtù, bisogna anche camminare lungo le vie che vi conducono; la sua austerità va resa accessibile dalla ragionevolezza del percorso; il moralista non tradisca la morale nell’atto di inculcarla. Il pedagogo deve essere inflessibile sui principi e duttile nella loro applicazione; la pratica va agevolata evitando superflue asperità nella strada.8
2.2. L’udito
È la seconda porta d’ingresso nell’anima (§ 36). Giovanni raccomanda che i ragazzi non sentano nulla di disdicevole da parte di domestici e di nutrici (§ 37), non pettegolezzi (§ 38) né racconti sguaiati; siccome però il nostro spirito ama soffermarsi sui racconti dei tempi antichi, narriamo la vicenda di Caino e Abele e del racconto fornisce egli stesso l’esempio; la sua
Presentazione dei Salmi 140 § 4, PG 55,433. A questo proposito, S. Gregorio di Nazianzo aveva già proclamato che «nulla è più disinvolto della lingua» (Carm. II,1,68,31, PG 37,1411) ed aveva assicurato che, «chi si arma e vince la lingua, raggiunge il primato nella sapienza» (Carm. II,1,34,46, col. 1310). Severiano di Gabala, per parte sua, ricordò che «lo Spirito Santo apparve sotto forma di lingue di fuoco; e perché di lingue? Per l’utilità della predicazione; poiché gli Apostoli avevano bisogno della lingua per riempire gli estremi confini del mondo con la predicazione che lo Spirito Santo avrebbe effettuata, raffigura questo compito mediante il suo dono» (Om. sulla Pentecoste, PG 63,935). La lingua da possibilità di male viene trasposta a strumento di bene; il trasferimento è compito e responsabilità dell’uomo, come è segno della sua dignità e della sua vittoria. 8 Non è però compito facile; S. Gregorio di Nazianzo aveva dichiarato che «guidare l’uomo, l’essere vivente più molteplice e vario, gli sembrava l’arte delle arti e la scienza delle scienze» (Or. 2,16, PG 35,425; Sources chrétiennes (SC) 247, p. 110, 3-6) e che «l’occhio del maestro è una lezione silenziosa», basta il suo sguardo (Ep. 167,2). S. Basilio aveva affermato che «il prestigio e la credibilità del docente fanno sì che vengano favorevolmente accolte le sue parole e rendano più attenti i discepoli» (Om. sull’inizio dei Proverbi § 2, PG 29,388). L’educazione, prima che comunicazione della parola, è proiezione della persona; è presentazione di un modello realizzato. 7
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è una rievocazione essenziale, schematizzata, tutta evidenza e immediatezza, senza indugi di erudizione storica; procede a grandi linee, in modo da rendere l’esposizione attraente in vivezza di presentazione (§ 39). Si racconti il fatto durante la cena, in una sola serata; la madre la ripeta al ragazzo; Giovanni mira a trasformare il racconto da comunicazione informativa in clima. E poi a raccontare sia il ragazzo stesso; Giovanni vuole far trapassare dalla recezione passiva alla ricostruzione attiva, da ascoltatore ad attore. Dalla vicenda si deve poi procedere alle applicazioni morali pratiche in uno sbocco che acquisti il sapore della spontaneità; si detragga l’osservazione che Dio vede tutto; e personalmente Giovanni annota che «il timore di Dio dispensa dal ricorrere a qualsiasi pedagogo quando è presente nell’anima e la impressiona» (§ 40). Questo però non basta; perché bisogna anche “prendere il ragazzo per mano”9 e condurlo alla chiesa quando vi si legge l’episodio di Caino e Abele: «Lo vedrai sussultare di gioia, in quanto egli sa già quello che gli altri ignorano ancora; anticipa la lettura e vi si ritrova; ormai l’episodio è fisso nella sua memoria» (§ 41). Giovanni non fa teoria pedagogica, fa educazione reale; non guarda tanto ai principi quanto agli effetti. Propone poi un’altra lettura, concomitante, la storia di Esaù e di Giacobbe, a dimostrazione di come sia agevole dedurre dalla Bibbia narrazioni drammaticamente interessanti in sostituzione di romanzi equivoci. Anche qui offre egli stesso un esempio di esposizione; abbiamo di nuovo un racconto essenziale, presentato in un tono di intimità, da fatto storico, remoto, diventa avvenimento vicino, uno di quelli ai quali si potrebbe anche aver assistito; emana una familiarità che coinvolge (§ 43). Giovanni ne detrae anche un richiamo all’autorevolezza della figura paterna e ai danni della golosità (§ 44). Il mutamento di nome da Giacobbe a Israele fa sorgere l’ammonimento ad imporre ai figli dei nomi che contengano in se stessi un incitamento alla virtù (§ 46-47). Giovanni non procede lungo una linea organica, raccoglie spunti al passaggio, come è proprio del linguaggio parlato; dichiara pertanto che dal racconto di Lia e Rachele «il ragazzo sarà educato a sperare in Dio, a non disprezzare nessuno, per quanto egli sia di stirpe nobile, a non vergognarsi di condurre una vita moderata, a sopportare nobilmente le sventure» (§ 51). È una morale saldissima, in abito grigio; della virtù segna la via senza orlarla di siepi fiorite. Giovanni, più che a poeticizzare i consigli, bada ad adegua-
9 L’insegnamento implica una familiarità affettuosa; il ragazzo non si senta solo istruito, ma anche, prima, amato; la trasmissione delle idee si deve attuare in una comunione di vita; il ragazzo non si senta un ‘cliente’ ma un valore, al quale il maestro si dedica.
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re il peso dei temi alla maturazione dello sviluppo psicologico dei destinatari, per cui prescrive di raccontare al ragazzo ancora immaturo delle storie serene, che non lo spaventino e non ne opprimano l’intelligenza; solo verso i quindici anni gli si potrà parlare dell’inferno (§ 52).
2.3. L’odorato
Dopo aver parlato degli effetti delle letture che si ascoltano, Giovanni passa agli odori che si sentono e che costituiscono un’altra porta che dall’esterno apre l’adito all’anima. A questo proposito egli condanna l’uso dei profumi, perché dissolvono la tensione dell’anima e rilassano tutto il corpo (§ 54).10
2.4. La vista
Ha la capacità di godere il bello e s’insinua dovunque; non la si deve esporre a contemplare gli spettacoli teatrali, che sono agenti di corruzione (§ 55-56), e non si deve neppure fare di se stesso uno spettacolo eccitante sfoggiando eleganza e un’eccessiva cura dei capelli (§ 57). È invece opportuno soddisfare la vista con la bellezza della natura, contemplando il cielo con gli astri e le praterie con i fiori (§ 59); conviene poi riflettere sulla bellezza dell’anima (§ 62).11
2.5. Il tatto
Il giovane non va blandito con vesti soffici né autorizzato a baci e carezze; va reso saldo, poiché noi alleviamo un campione atletico (§ 63). Gli impulsi emotivi «al giovane non vanno né completamente preclusi né permessi in ogni circostanza»; sia pertanto capace di sopportare un’ingiustizia subita ma anche di soccorrere risolutamente chi subisse ingiustizie (§ 66); «tocca al padre guidarlo» (§ 67). Giovanni analizza la reattività dell’anima dell’adolescente davanti alle varie forme di contrarietà (§ 68) e scende ad una minuta casistica dei suoi comportamenti, raccomandando l’equi-
10 Giovanni è decisamente contrario alla mollezza di vita; ammonisce infatti che «le impetuose correnti dei fiumi non sono solite corroderne le sponde e farle crollare con tanta facilità, quanta è quella con cui la molle raffinatezza lussuosa demolisce tutti i fondamenti della nostra salute» (Su S. Giovanni Om. 22,3, PG 59,137); essa rende l’uomo inutile (Sugli Atti degli Apostoli Om. 35,2, PG 60,255). 11 Altrove infatti dichiara che «non c’è nulla di più grazioso e di più dolce di un’anima bella» (Su Matteo Om. 34/35,5, PG 57,404). Gregorio di Nazianzo aveva esortato a «considerare bellezza solo quella che sta dentro» (Carm. II, 1,88,153, PG 37,1441).
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librio; precisa che «il contegno energico è utile in ogni caso, tranne quando lo si impieghi nel difendere se stesso» (§ 69) e propone una sana autonomia nel gestire la propria persona; trova infatti che sia deprimente il farsi servire senza bisogno: «il giovane non esiga dai suoi servi nessuna prestazione soltanto perché lui è libero, ma risolva generalmente da se stesso le proprie esigenze» (§ 70). Giovanni denuncia una schiavitù psicologica che si infiltra approfittando di quella sociale.
2.6. La concupiscenza
Contro le spinte della concupiscenza sessuale suggerisce che giova presentare dei buoni esempi: «Nulla induce tanto a comportarsi bene quanto l’emulazione dei buoni» (§ 77).12 Si insegni inoltre a pregare con grande impegno e compunzione. «Il ragazzo possiede infatti acutezza di sguardo ed è sveglio nell’imparare queste cose» (§ 80).13 Per ovviare a traviamenti sessuali, Giovanni consiglia di provvedere presto al giovane una fidanzata, senza aspettare che sia ormai inserito nella vita pubblica: «è importante che una ragazza vergine si unisca ad un ragazzo vergine»; l’amore puro viene benedetto da Dio (§ 81). A stimolare alla correttezza morale Giovanni aggiunge anche la rinomanza, che nella vita pubblica, sia militare che civile, la virtù procura (§ 84).14 Questa non è una motivazione di ordine soprannaturale, ma Giovanni non la disdegna; non è mai angustamente chiuso; questo premio non è un male e contribuisce a produrre un bene. Egli impegna anche la filosofia a farci conoscere quello che concerne Dio, l’inferno e il Regno dei cieli (§ 85). A sintesi e culmine dell’opera l’autore propone di rivolgere al giovane un invito che tutto raccoglie e tutto avvalora: «Figlio mio, temi Dio solo e non temere nessun altro all’infuori di lui» (§ 86). In contrapposto, sul piano negativo, avverte che nulla priva tanto della ragione
Sull’efficacia del buon esempio Giovanni si è espresso con un’immagine a largo respiro: «I virtuosi, come fari che risplendono nella tenebra profonda, chiamano alla loro sicurezza coloro che stanno naufragando in pieno mare e, tenendo accese su un’alta specola le fiaccole d’una vita razionale ed austera, conducono quelli che lo vogliono al porto della tranquillità» (Adv. opp. vitae monastica e III,9, PG 47,364). 13 Sull’azione corroborante che la preghiera esercita dinanzi agli impulsi delle passioni Giovanni affermò: «Il fuoco non suole astergere la ruggine, come la preghiera notturna lo fa con la ruggine dei nostri peccati» (Sugli Atti d. Apostoli Om. 26,4, PG 60,204) e il Nisseno dichiarò: «Se la preghiera precede l’impegno nel lavoro, il peccato non trova la via per entrare nell’anima» (Sulla preghiera del Signore Om. I, PG 44,1121). 14 Giovanni proclamò che «gloria dell’uomo è la virtù» (Present. dei Salmi Om. 48,11 PG 55,240) e rammentò che «la forza della virtù è tanto grande, che ne provano una viva venerazione anche coloro che non la praticano» (Sulla Genesi Om. 5,2, PG 53,50). 12
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quanto la passione per i beni terrestri, mentre «il timore di Dio basta a fornire la sapienza e un retto giudizio sulle cose umane» (§ 87). E conclude invitando gli uomini capaci a prendere parte alla vita pubblica, astenendosi dal peccato, e a quella militare, evitando estorsioni e violenze (§ 89: eco di Lc 3,14?) ed esortando le madri a trattenere le figlie dal lusso dell’abbigliamento e dalla vanità del farsi ammirare (§ 90). Sono ammonimenti saggi ma ad ambito strettamente occasionale; a chiusa di un trattato pedagogico-morale si addiceva una tutt’altra apertura d’orizzonte ed un ben diverso tono parenetico. L’opera è rimasta tronca o, semplicemente, sono finiti gli appunti? Il fatto è che questo non è un trattato strutturato su una sua architettura organica, ma è una raccolta di annotazioni suggerite dall’osservazione spicciola della vita reale. Non c’è speculazione sulla natura né sui fini dell’educazione, c’è derivazione pratica da un’esperienza illuminata da una sollecita attenzione all’evoluzione psicologica. L’opera ha l’anima del frammento, come ha l’intento dell’applicazione immediata. Giovanni ebbe coscienza di questa possibile imputazione e presentò una sua giustificazione: «Forse molti ridono di quello che dico, come se fossero cose minute; non sono cose minute, sono invece cose molto importanti» (§ 17); e sono sovente cose ovvie quelle che dice, ma, in genere, ad essere ovvio è proprio l’essenziale, il quale è solito venire abitualmente misconosciuto e trascurato; il ribadirlo poteva anche suonare, se non proprio nuovo, almeno inconsueto. Giovanni non intese scrivere un trattato teorico da riporre in biblioteca, ma spingere all’azione concreta e feconda. Egli, che fu uno dei più avveduti direttori spirituali dell’area greca, si premurò di denunciare il pericolo che «i ragazzi manchino di maestri fin dalla prima età» (§ 18). Sentì l’urgenza dello zelo, per cui invitò: «Osserva a quale dignità si innalzi colui che fa molto conto della salvezza dei fratelli»15 e ai suoi fedeli confidò: «Per me la vita non consiste in altro se non in voi e nella preoccupazione della vostra salvezza».16
Otto nuove catechesi battesimali, ed. A. Wenger, SC 50 bis, Om. 6,19 p. 224,1-2. Sulle Statue Om. 9,1 PG 49,103. — Per un inquadramento storico dell’opera è utile E. ARTEMI, E ‘perì paídon agogé’ katá ton Ploútarcho kai ton Ioánne to Chrysóstomo, in Koinonia, 53 (2010), pp. 173-182. 15 16
Rivista Lasalliana 81 (2014) 3, 317-326
EDUCAZIONE E FAMIGLIA NELL’ODIERNA COMPLESSITÀ @ GIANNI AMBROSIO
Vescovo di Piacenza-Bobbio Presidente della Commissione Episcopale per l’educazione, la scuola e l’università SOMMARIO: 1. La speranza necessaria. - 2. Il dinamismo della famiglia. - 3. La funzione generativa. - 4. La mediazione tra affetto e responsabilità. - 5. I rischi dell’abbandono della responsabilità. - 6. La necessità dell’alleanza educativa. - 7. La famiglia “Chiesa domestica”. - 8. Formare alla vita secondo lo Spirito.
“L
1. La speranza necessaria
egittimamente si può pensare che il futuro della umanità sarà riposto nelle mani di coloro che saranno capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza”: così si esprimevano i Padri conciliari nella Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (Gaudium et Spes, n. 31). Oggi, a distanza di cinquant’anni, siamo in grado di trasmettere ragioni di vita e di speranza alle nuove generazioni? Ma prima ancora ci chiediamo: abbiamo in noi ragioni di vita e di speranza? Su questi interrogativi si gioca il nostro presente e il nostro futuro, la nostra testimonianza di credenti in Gesù Cristo e il senso della missione della famiglia, della scuola, della Chiesa. La secolarizzazione, il pluralismo, il cambiamento antropologico, l’accentuato individualismo hanno radicalmente mutato, in particolare in Occidente, la situazione della famiglia, come di ogni altra realtà sociale. Occorre tener conto degli scenari odierni e delle grandi difficoltà di educare nel contesto attuale, ma occorre anche tener conto delle nuove possibilità e soprattutto non bisogna mai dimenticare la speranza. Siamo i “prigionieri della speranza”, di cui parla il profeta Zaccaria (9,12), perché siamo sorretti dalla grazia che ci è donata con cui affrontiamo, giorno dopo giorno, gli ostacoli e le avversità. La speranza è fiducia nella promessa del Dio fedele, venuto a visitarci e a incontrarci, venuto per essere con noi e sostenerci nel nostro cammino verso la realtà attesa. La vita dei “prigionieri della speranza” è illuminata e fondata sulla promessa di Gesù Cristo: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Se sono molti i segnali di una complessità caotica e di una convulsa e fre-
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netica trasformazione - la globalizzazione e l’accelerazione scientifico-tecnica mettono in discussione i paradigmi stessi su cui poggiano i tradizionali punti di riferimento, da cui la progressiva evoluzione verso la cosiddetta “società o modernità liquida” (Z. Bauman) -, non dimentichiamo che la centralità della speranza nell’impresa educativa è fondamentale. Essa è stata messa in evidenza con molta lucidità da Benedetto XVI, che nella Lettera alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione (21 gennaio 2008) scriveva: “anima dell’educazione, come dell’intera vita, può essere solo una speranza affidabile”. Questa “speranza affidabile” ci sospinge ad avere uno sguardo non superficiale e non limitato, ma profondo, complessivo e fiducioso, in cui ricomprendere aspetti, luoghi, dimensioni e relazioni della vita umana. È l’invito che proviene da Benedetto XVI nel suo importante discorso all’Assemblea Generale della CEI nel 2010: “Il compito educativo, che avete assunto come prioritario, valorizza segni e tradizioni, di cui l’Italia è così ricca. Necessita di luoghi credibili: anzitutto la famiglia, con il suo ruolo peculiare e irrinunciabile; la scuola, orizzonte comune al di là delle opzioni ideologiche; la parrocchia, ‘fontana del villaggio’, luogo ed esperienza che inizia alla fede nel tessuto delle relazioni quotidiane. In ognuno di questi ambiti resta decisiva la qualità della testimonianza, via privilegiata della missione ecclesiale. L’accoglienza della proposta cristiana passa, infatti, attraverso relazioni di vicinanza, lealtà e fiducia”.1
2. Il dinamismo della famiglia
Famiglia, scuola e parrocchia non sono soltanto ‘luoghi’, come ben sappiamo, ma sono comunità nelle quali si incontrano generazioni diverse e si stabiliscono relazioni decisamente significative. In particolare la famiglia è il luogo-comunità-ambiente vitale in cui si manifesta nel modo più compiuto quella esperienza fondamentale della persona che è la relazione con l’altro. Proprio la relazione, come ricordava E. Mounier, “è il costitutivo stesso della persona” e proprio nella comunità familiare le persone sperimentano la relazione come elemento fondamentale, fondata sull’accoglienza, sulla gratuità, sulla solidarietà e sulla reciprocità. La comunità familiare è un sistema relazionale contraddistinto da vincoli di forte interdipendenza, una comunità non chiusa in se stesso ma aperta all’ambiente in cui vive, alla società. L’attuale trasformazione societaria – con la fragilità dei rapporti umani e la superficialità delle informazioni e della comunicazione – rende fragili i luoghi-comunità, in quanto sottoposti 1
BENEDETTO XVI, Discorso alla 61ª Assemblea Generale della CEI, 27 maggio 2010.
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a cambiamenti profondi. È colpita in particolare la famiglia: l’egemonia della cultura individualista e consumista indebolisce certamente la famiglia (e forse vorrebbe anche eliminarla, insieme ad ogni forma stabile di vita associata). Tuttavia non si deve dimenticare una caratteristica della famiglia: il suo dinamismo interno ed esterno. Negli ultimi decenni, numerose discipline hanno messo in evidenza il forte impatto delle relazioni educative intrafamiliari sullo sviluppo della persona. Pur riconoscendo la debolezza della famiglia, l’aumento di famiglie vulnerabili che vivono situazioni difficili o perlomeno delicate, la crescita delle situazioni di povertà per problemi psicologici, economici e di altro genere, le relazioni intrafamiliari costituiscono l’originario e fondamentale elemento dello sviluppo della persona. La famiglia è un sistema di persone in relazione sottoposto a molti cambiamenti interni, conformemente alla crescita dei singoli soggetti, al mutare dei loro bisogni. La famiglia non è qualcosa di statico, di dato, di fisso, ma è in continuo divenire, in costante trasformazione. La dimenticanza di questa intrinseca caratteristica dinamica della famiglia e della sua trasformazione interna ha portato molti a ritenerla pesantemente condizionata dall’esterno, fino a preannunciare la sua fine. Ma la dinamica interna, che caratterizza la vita della famiglia, la rende capace, pur con grandi difficoltà, di interagire con il più ampio contesto sociale. La famiglia è comunità relazionale in cui le persone che la compongono non sono separate e isolate ma vivono e sperimentano quotidianamente una reale interazione, l’interazione tra uomodonna, tra genitori-figli, tra i figli e l’interazione con il contesto sociale e culturale. Per cui la famiglia non è solo una comunità sottoposta a cambiamenti interni, ma è anche una comunità che svolge il grande compito della mediazione con la vita sociale, offrendo un’interpretazione dell’esperienza quotidiana che i suoi membri, in particolare i figli, fanno nella società, fornendo un sistema di significato rispetto ad un mondo spesso caotico e disorientante. Grazie al dinamismo interno e all’interazione esterna, la famiglia assolvere al grande compito di mediazione rispetto alle molteplici informazioni che giungono dal mondo: aiuta i suoi membri a comprendere la realtà circostante, li stimola perché affinino il proprio senso critico per arrivare ad esprimere posizioni in modo attivo rispetto al sistema sociale. Nella luce della “speranza affidabile” che ci assicura la grazia per svolgere la missione educativa e anche nella luce che proviene dalla considerazione delle varie dimensioni che costituiscono la realtà della famiglia, non deve venir meno la convinzione che educare è possibile. È necessario ribadirlo e affermarlo, perché in molti prevale lo scoraggiamento, fino ad essere dominati da un sentimento di impotenza, quasi di sconfitta, di resa di fronte a difficoltà indubbiamente grandi e a ‘mezzi’ potenti come i mass media
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che veicolano un modo di pensare e di fare in cui l’educazione risulta difficile. Questa impotenza deve essere abbandonata, questo senso di sconfitta deve essere superato. In qualunque clima culturale, i genitori non ignorano la piccola mano che il bimbo tende per trovare accoglienza, aiuto e cura. La voce che invoca una parola di affetto e di senso può essere ascoltata in ogni circostanza, così come in ogni contesto si manifesta il desiderio di amore, di relazione per vivere e per crescere. Il primo ‘altro’ che il neonato incontra nel suo percorso di vita sono i genitori e, pur nelle difficoltà e nelle avversità, il cuore del padre e della madre pulsano e non resta insensibile al desiderio del figlio.
3. La funzione generativa
La famiglia svolge il compito educativo fondamentale per la sua la funzione generativa, sia procreativa che accuditiva. È la famiglia che genera la persona, è la famiglia che “rende umani gli esseri umani”, per usare una significativa espressione di Urie Bronfenbrenner,2 è la famiglia che dà vita e assicura il bene sociale fondamentale per la vita della stessa società, della sua sopravvivenza e della sua crescita. “C’è bisogno di un villaggio per far crescere un bambino”, recita un vecchio proverbio africano. Papa Francesco ha reso attuale anche per noi, nella nostra società, la saggezza africana, quando ha accolto il mondo della scuola italiana in piazza san Pietro il 10 maggio 2014. Dopo aver citato il proverbio africano, il Papa ha aggiunto: “Per educare un ragazzo ci vuole tanta gente: famiglia, insegnanti, personale non docente, professori, tutti! Vi piace questo proverbio africano? Vi piace? Diciamolo insieme: per educare un figlio ci vuole un villaggio!”. Francesco ha anche affermato: “è sempre uno sguardo che ti aiuta a crescere”, ricordando il legame grato e duraturo con la sua maestra. Ciò vale – et quidem – per lo sguardo dei genitori, della famiglia nel suo insieme, dai nonni ai fratelli e alle sorelle: “è sempre uno sguardo che ti aiuta a crescere”. Vale ancor più per lo sguardo del Signore, quello sguardo che sant’Agostino esprime in una felice espressione: “Signore, sotto i tuoi occhi, eccomi diventato una domanda per me stesso – quaestio mihi factus sum”.3 Ove la quaestio è certamente la domanda, l’interrogazione su chi sono, ma è anche apertura, relazione, reciprocità di sguardi: “sotto i tuoi occhi, Signore”. La domanda e la conseguente risposta non possono prescindere dalla luce che 2 URIE BRONFENBRENNER (a cura di), Rendere umani gli esseri umani. Bioecologia dello sviluppo, Edizioni Erikson, Trento 2010. 3 Le Confessioni, X, 33.
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proviene dallo sguardo su di noi, dal riconoscimento di essere creature di Dio, anzi figli di Dio. Tutto questo è decisivo per cogliere la domanda – la quaestio – e per rispendere ad essa nel progressivo cammino di identità. La famiglia educa in quanto genera, non solo in senso di riproduzione biologica ma nel senso che rende soggetto unico e irrepetibile colui che nasce. Si diventa ‘umani’ nell’esperienza relazionale originaria, si cresce nel rapporto con la madre e con il padre e più in generale dentro la ‘storia’ della famiglia. Questa esperienza è affettiva, religiosa ed etica al tempo stesso, perché in essa il figlio sperimenta la ‘grazia’ di essere accolto per sé, in quanto tale, percepisce di essere un valore in sé al di là del livello delle ‘qualità’ che egli ha e delle ‘prestazioni’ che egli può e potrà dare. L’originaria esperienza relazionale e affettiva, singolare e valoriale, va pienamente riconosciuta e costantemente assicurata durante tutta l’arco evolutivo di crescita attraverso relazioni che nutrono, che accompagnano e che sostengono in vista di una crescita morale. Il calore, il sostegno, l’accompagnamento esigono una direzione di marcia, un cammino di crescita e di maturazione verso la responsabilità: così il piccolo e poi l’adolescente si sviluppa e raggiunge la sua identità adulta. È il compito dei genitori e, con loro, anche se con modalità diverse, di tutto il corpo familiare, dai nonni alla rete parentale. Infatti è tutto il patrimonio della ‘storia’ della famiglia, anche delle generazioni precedenti, che viene messo a disposizione del bambino attraverso la concreta vita familiare, fatta di parole, azioni, gesti, rituali. Per questo occorre sempre allargare lo sguardo e andare oltre la ristretta ‘famiglia nucleare’: ad esempio i nonni (e più in generale le generazioni precedenti) non solo sono importanti perché, come attesta l’esperienza, forniscono aiuto concreto alle giovani famiglie curando e accompagnando i nipoti come servizio ‘funzionale’, ma testimoniano e attualizzano quel patrimonio simbolico che è il tessuto di fondo e il senso alla nostra identità.4
4. La mediazione tra affetto e responsabilità
Il patrimonio simbolico rappresentato dalle tradizioni familiari assume ancora più importanza nelle famiglie odierne, immerse nella complessità culturale con la necessità di accentuare la dimensione della mediazione per non disperdere importanti significati, spesso ignorati o negati. Si tratta innanzi tutto della mediazione interna tra il polo affettivo e quello etico che fanno 4 Cfr. E. SCABINI – V. CIGOLI, Il famigliare. Legami, simboli e transizioni. Raffaello Cortina Editore, Milano 2000; E. SCABINI – R. IAFRATE, Psicologia dei legami familiari, Il Mulino, Bologna 2003.
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parte, nella loro stessa tensionalità, della dimensione simbolica della famiglia, luogo degli affetti più profondi e nello stesso tempo luogo di responsabilità e di vincoli. Come luogo degli affetti, la vita familiare costituisce il serbatoio psichico di fiducia e speranza, la base sicura per sviluppare l’identità umana e per far fronte alle difficoltà dell’esistenza, in particolare l’angoscia della perdita e della morte. Come luogo di responsabilità e di vincoli, la vita familiare rappresenta i valori, le norme, le tradizioni, il senso di appartenenza, in una parola il patrimonio dei beni morali, spirituali e materiali. Sono entrambi i genitori ad essere punto di riferimento, affettivo e etico, nello svolgimento della cura responsabile dei figli: il compito è comune, anche se il polo affettivo tende a riferirsi più alla funzione materna mentre quello etico alla funzione paterna. Anche l’etimologia lo sottolinea: il compito o funzione materna (matris-munus) richiama il polo affettivo, con il dono della vita, la cura, la protezione. La missione o funzione paterna (patrismunus) richiama il polo etico, la lealtà, la responsabilità, il riconoscimento della relazione non paritetica ma gerarchica. Se nel passato era forte la sottolineatura degli aspetti etico-normativi, oggi l’enfasi è data agli aspetti affettivi ed emozionali. La mediazione attenta tra queste polarità è preziosa in quanto solo l’equilibrio tra i due poli favorisce un serio itinerario verso l’identità e la vita adulta: se si accentua la cura affettiva e protettiva si tende a prolungare l’adolescenza nella ricerca indefinita della condizione adulta.
5. I rischi dell’abbandono della responsabilità
L’enfasi sul polo affettivo non si esaurisce nell’ambito familiare, ma si riverbera a livello sociale, con il risalto del giovanilismo, dell’auto-espressività, delle gratificazioni immediate e con il declino della responsabilità educativa e del prendersi cura responsabilmente delle nuove generazioni. In questa situazione, sono molti i limiti che possono inceppare il cammino educativo. Limitandoci solo ad accennare ad alcuni rischi, possiamo innanzi tutto evidenziare la difficoltà dei genitori nell’offrire ai figli una prospettiva che indica il cammino, una direzione di marcia verso cui tendere. Se ci lascia irretire nella relazione immediata e intensa, affettivamente calda, diventa difficile uscire dal circolo vizioso che tende a creare. Essa è certamente il punto di partenza fondamentale, ma la relazione matura se non si ferma al punto di inizio ma continua per arrivare a un intreccio tra il punto di partenza e la proposta che viene offerta come progetto di vita buona. L’investimento emotivo sul bambino rischia infatti, paradossalmente, di privarlo della sua infanzia, non venendo incontro al suo bisogno di confrontarsi con un adulto, e cioè di avere un rapporto non paritario, capace di orientarlo e di motivarlo per condurlo verso l’assunzione di responsabilità. La mancanza del riferimento al popolo etico condanna il figlio a vivere sotto
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un cielo senza stelle, lo costringe ad essere il “figlio del desiderio”, e cioè di esaudire le attese di genitori che lo hanno scelto e voluto più per venire incontro al loro desiderio che non per svolgere la loro missione di chiamare alla vita e di aiutare a viverla bene. Si corre poi il rischio di venir meno alla responsabilità tipica della famiglia e in particolare dei genitori, e cioè del passaggio-trasmissione della storia familiare e sociale alla nuova generazione che si affaccia. La trasmissione dei patrimoni intergenerazionali familiari è fondamentale per la vita della famiglia e della società tutta. Ugualmente importante è l’impegno a lavorare insieme da parte degli adulti che a diverso titolo sono coinvolti nell’educazione. Ad esempio, spesso si osserva che il rapporto tra genitori e insegnanti non appare collaborativo, ma viene attuato all’insegna più della competizione che del reciproco sostegno. Anche qui l’accentuata polarizzazione affettiva e la considerazione del proprio figlio visto solo come ‘mio’ figlio, e non anche come membro di una nuova generazione, possono condurre alla difesa ad oltranza del comportamento scolastico del figlio, impedendo la sua maturazione e generando anche sfiducia tra gli adulti. Si rischia infine, data la difficoltà a tenere compresenti gli aspetti affettivi ed etici nell’educazione, di favorire una sorta di infelice gioco delle parti, tendendo ad attribuire alla famiglia la funzione affettiva e a quella scolastica il compito di dare norme e condotte adeguate. Ciò ostacola il cammino educativo in quanto è la famiglia – e resta la famiglia – l’ambito primario, fondamentale dell’educazione dei figli, mentre la scuola, con la sua offerta formativa, trasmette contenuti culturali che contribuiscono alla crescita della persona e alla sua formazione intellettuale, civile e professionale.
6. La necessità dell’alleanza educativa
Diventa sempre più impellente la necessità di favorire una ‘comunità educante’ in cui la relazionalità e le dinamiche affettive, valoriali e motivazionali alimentano il cammino educativo, sostengono la formazione e l’apprendimento e si traducono in crescita umana e culturale da parte di tutti, dei figli e degli studenti, dei genitori come dei docenti. Così si può favorire un superamento della situazione critica in cui versa il sistema scolastico, troppo segnato da visioni riduttive e da tendenze scettiche. Gli adulti – dai genitori agli insegnanti e a tutti quelli che hanno compiti educativi – devono prendere coscienza della comune responsabilità nei confronti delle nuove generazioni: è il gioco il loro futuro. Questo esige un patto, un’alleanza educativa tra adulti per il bene delle nuove generazioni, dei propri figli e dei figli di altri. Questa alleanza sicuramente chiama in causa i diretti protagonisti, e cioè i genitori, i docenti e gli educatori, ma
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coinvolge tutti gli adulti con le loro scelte sociali e politiche, come cittadini attivi e responsabili. La corresponsabilità tra la famiglia e la scuola in primo luogo e poi con le agenzie educative del territorio (dagli enti locali alle diverse associazioni, dalle parrocchie agli oratori) può favorire un contesto educativo più solidale e più collaborativo, con la centralità dei figli e degli alunni, con il riconoscimento della famiglia come interlocutrice diretta della scuola, con il servizio dei docenti sostenuto e stimolato dalle famiglie e dalle diverse istanze presenti nel contesto sociale. Questa alleanza tra adulti viene favorita se i genitori si rendono consapevoli che la singola famiglia non può svolgere il suo compito educativo in modo isolato, in una società plurale dominata dalla spettacolarizzazione mass-mediale. Più i genitori sono coinvolti in un processo partecipativo che li rende cittadini attivi più diventa attuabile il richiamo di Papa Francesco al proverbio africano: “C’è bisogno di un villaggio per far crescere un bambino”.
7. La famiglia “Chiesa domestica”
Siamo partiti dalla frase della costituzione conciliare Gaudium et Spes che invita a guardare al futuro – e a prepararlo – trasmettendo alle giovani generazioni ragioni di vita e di speranza. Alcune di queste ragioni sono insiste nelle dimensioni antropologiche della generativa della famiglia, nonostante i limiti di una cultura che sta attraversando quella che Paul Ricoeur ha chiamato con efficace espressione “la notte del noi”. Desideriamo ora concludere con un’altra frase del Concilio, tratta dalla costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium. Essa ci permette di accennare al rapporto tra famiglia e Chiesa rispetto alla missione educativa: nella famiglia, “che si potrebbe chiamare Chiesa domestica, i genitori devono essere per i loro figli i primi maestri della fede” (n. 11). L’espressione “Chiesa domestica”, che ha orientato per anni l’impegno della pastorale familiare, arricchisce la nostra percezione della famiglia e, al tempo stesso, quella della Chiesa. La famiglia riceve una particolare luce e una specifica ricchezza dalla sua dimensione teologico-ecclesiale, che ci indica non tanto un “di più” – pure vero –, quanto un suo più intimo e più autentico significato, in particolare rispetto al compito educativo, al dì là delle situazioni di difficoltà. Generare o “dare alla luce” comporta “dare la luce” per poter camminare e vivere bene: non si può generare nel corpo senza generare nello spirito. I genitori che si prendono cura del processo di crescita di un figlio in modo consapevole e intenzionale vanno oltre il semplice ‘allevare’, come se si trattasse di un cucciolo. “Dare la luce” a chi è stato chiamato alla luce non si esaurisce nella rela-
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zione educativa genitori-figli. Non solo perché la trasmissione intergenerazionale non è un’avventura a due, in quanto anche il villaggio è sempre implicato, come afferma il proverbio africano. Ma anche perché non è neppure una relazione solamente orizzontale: il padre e la madre, dispensatori della vita e della luce per vivere, sono partecipi del mistero dell’esistenza, che è promessa e chiamata, dono e appello. È nella famiglia che si comunica la buona notizia che suscita speranza, nella testimonianza del bene della vita, della sua positività: è ciò che esprimono la paternità e la maternità realmente vissute. Nel rapporto tra la Chiesa domestica che è la famiglia e la Chiesa, che è il corpo di Cristo, “luce delle genti”, comunità che ha per capo Cristo che agisce e opera in essa, è possibile approfondire la dimensione etico-religiosa della famiglia e dell’educazione. Il processo educativo si attua accogliendo in modo grato ciò che ci è donato e che a nostra volta doniamo e trasmettiamo. Questa accoglienza è risposta alla vita e alla verità della vita, risposta più coinvolgente quando in prima persona e intenzionalmente si dona la luce. La dimensione etico-religiosa della famiglia e dell’educazione non è una questione delle famiglie cattoliche, ma è insita nell’educare, e costituisce la base su cui formare alla fede cristiana, e cioè la mediazione necessaria per la vocazione cristiana. L’atto educativo è nella relazione ove l’incontro diventa generativo, ove l’io si apre al tu e diventa identità di sé riconoscendo il tu. Tutto questo ha la sua origine nell’amore coniugale, che è come la ‘casa’ per il cammino educativo: la coniugalità è come la ‘dimora’, il ‘grembo’ in cui cresce la persona umana che chiede di essere educata.
8. Formare alla vita secondo lo Spirito
Questo incontro-riconoscimento apre l’io alla propria interiorità e lo dischiude a una scelta, a una determinazione sia rispetto all’altro, ai genitori e agli adulti, sia rispetto alla vita e a Dio: il cammino formativo conduce alla disposizione libera del soggetto di fronte alle istanze fondamentali della vita, come risposta ad una vocazione. Merita di essere citato un passo limpido del discorso di Benedetto XVI rivolto ai Vescovi italiani: lo scopo dell’educazione è quello di “formare le nuove generazioni, perché sappiano entrare in rapporto con il mondo, forti di una memoria significativa che non è solo occasionale, ma accresciuta dal linguaggio di Dio che troviamo nella natura e nella Rivelazione, di un patrimonio interiore condiviso, della vera sapienza che, mentre riconosce il fine trascendente della vita, orienta il pensiero, gli affetti e il giudizio”. Negli Orientamenti pastorali Educare alla vita buona del Vangelo, troviamo soprattutto nel secondo capitolo – intitolato Gesù, il Maestro – un percorso esemplare per aiutare la famiglia cristiana a diventare consapevolmente
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‘Chiesa domestica’. L’educazione trova nel racconto evangelico i grandi segni di vita buona che Gesù assume e trasforma, come maestro, medico, amico, redentore. Alla scuola del Vangelo, Gesù educa i suoi discepoli e, come Pastore buono, li conduce attraverso la porta della vita, li nutre venendo incontro alla loro fame di vita, portando a compimento la pedagogia esemplare di Dio che educa il suo popolo. La Chiesa, “luogo e segno della permanenza di Gesù Cristo nella storia”, attinge da Cristo anche nel suo compito educativo e diventa discepola, madre e maestra (nn. 20-21). “La Chiesa promuove nei suoi figli anzitutto un’autentica vita spirituale, cioè un’esistenza secondo lo Spirito”. L’incontro con Cristo ha un carattere “spirituale”, cioè plasma un’esistenza nello Spirito, che fa della vita umana, abbracciata come vocazione, un “culto spirituale” gradito a Dio (n. 22). Questo capitolo centrale degli Orientamenti traccia le indicazioni di fondo per le comunità ecclesiali e per le famiglie cristiane perché realizzino insieme, nel processo educativo, il sorprendente incontro con Cristo: il suo modo di essere verità dell’uomo e vita del mondo apre il cuore, la mente, le mani dell’uomo e lo rende ricco di una forte interiorità spirituale e di una tenace responsabilità sociale. Le parrocchie e le altre forme di comunità ecclesiale sono chiamate alla più stretta collaborazione con la famiglia perché essa possa svolgere la missione di formare persone aperte al dono della fede, all’incontro con Cristo e con la sua Chiesa, all’impegno responsabile nella città. La famiglia cristiana non è soltanto la destinataria dell’attenzione della Chiesa, ma ne diventa il soggetto più prezioso per il compimento della missione che Cristo le ha affidato, l’alleata più prossima e più efficace per il servizio pastorale. La ‘Chiesa domestica’ è una risorsa nella Chiesa prima di tutto per quello che essa è: chi si è sposato nel Signore e ha ricevuto la grazia del sacramento del matrimonio ha ricevuto dal Signore il dono e la capacità di educare alla vita secondo lo Spirito.
Rivista Lasalliana 81 (2014) 3, 327-338
LA MISSIONE EDUCATIVA DELLA FAMIGLIA
@ ENRICO SOLMI Vescovo di Parma e Presidente della commissione CEI per la famiglia SOMMARIO: 1. Educare alla famiglia. - 2. Educare in famiglia. - 3. Generare – educare: un atto continuo. - 4. Gli sposi quasi ministri di Dio Creatore ed educatore del suo popolo. - 5. La dinamica reciproca dell’educazione in famiglia. - 5.1. La relazione genitori–figli. 6. Alleanze e sinergie educative.
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ducare oggi è diventato sempre più complesso, “davvero difficile”,1 forse perché siamo davanti ad una crisi di carattere antropologico e, conseguentemente, sono venuti meno alcuni valori portanti che offrono riferimento e senso all’esistenza. Non per niente Benedetto XVI ebbe a dire che “alla radice della crisi dell’educazione c’è una crisi di fiducia nella vita”.2 La comunità cristiana, in tutte le sue membra, ha sempre vissuto il compito educativo come connaturale alla sua missione e come dimensione imprescindibile dell’annuncio del Vangelo. Compito che troviamo ben descritto già nella figura e nella vocazione di Giovanni Battista, che delinea il duplice movimento dell’essere educati per educare. Il Battista, chiamato a preparare la via al Signore, è modello e segno di chi rende la sua esistenza un servizio educativo perché altri crescano, cambino, maturino, favorendo un incontro vero e personale con il Signore, vero compimento della persona umana. Una missione che si prolunga nella Chiesa attraverso tante vocazioni: la famiglia e i genitori, i presbiteri e le persone consacrate, i catechisti e gli insegnanti e chi, a vario titolo, si prende cura di un altro per accompagnarlo, in forme dirette o indirette, all’incontro con il Signore, nel quale nulla è frustrato di quanto è veramente e autenticamente umano. Al contrario, ogni cosa assume valore pieno e cresce verso la sua perfezione in Cristo, vero Dio e
1 CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Educare alla vita buona del Vangelo, Orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il decennio 2010 – 2020, Roma 4 ottobre 2010. 2 BENEDETTO XVI, Lettera del Santo Padre Benedetto XVI alla diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione, Roma 21 gennaio 2008.
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vero uomo. “Ecco l’uomo” (Gv 19, 5) confessa Ponzio Pilato, asserendo – senza esserne consapevole – la verità più profonda sulla creatura umana. Educare è quindi reintegrare l’uomo nelle sue relazioni significative, restituendolo così alla comunione con Dio e con gli uomini. Sotto questa luce vorrei cogliere alcuni tratti, fondativi e dinamici, della missione educativa propria della “chiesa domestica”,3 non senza aver delineato qualche tratto della condizione familiare, in questo nostro tempo, bello ma non privo di contraddizioni. Mi piace pensare alla famiglia come ad una montagna che ha più versanti. Da un lato appare rocciosa e impervia e dall’altro boscosa e percorribile. È la medesima montagna che si presenta sotto profili diversi a chi la vede da angolature differenti. Così, la stessa famiglia mostra punti di forza e di debolezza, ma resta fermo un dato che la costituisce: essa intesse, ancora, al suo interno, in particolare, con i propri figli (laddove ci siano e la specificazione oggi non è pleonastica) un rapporto di crescita e una dinamica educativa, anche se oggi particolarmente difficili. La famiglia si trova, infatti, al centro di situazioni e giudizi paradossali. Sotto il profilo sociale le si attribuisce grande importanza, in quanto ammortizzatore a costo zero, ma appare anche come crocevia e capro espiatorio di tanti mali; se andiamo al suo interno, si viaggia come su uno spartiacque: da una parte il valore del “noi” e dall’altra l’ “io” che, sciolto da ogni vincolo dal momento che sembra aver stretto un patto solo con se stesso, si contrappone al “noi”. Così pure ha perso chiarezza il significato dell’amore, particolarmente nella sua specificazione coniugale; inoltre è in discussione l’esistenza e il valore della “diversità” di sesso, di ruolo, di età e, infine, se ci sia “qualcosa” che ci è dato o se, al contrario, tutto vada ricondotto ad una libertà radicale e assoluta che identificherebbe l’individuo. Tutto questo però non è sufficiente ad annientare la famiglia. Pur minacciata nelle sue fondamenta, non sostenuta adeguatamente, come scriveva il card. Martini: “la famiglia ha smentito i detrattori che ne profetizzavano, auspicandola, l’estinzione (...). Essa è la prima, la più originaria e più fondamentale delle comunità naturali; neppure la straordinaria accelerazione dei processi storici che sta sperimentando la nostra generazione può reciderne il profondissimo radicamento. La famiglia ha resistito attingendo soprattutto alle risorse morali e affettive delle quali è custode”.4 Fragile e forte ad un tempo, la famiglia, di per se stessa, è dotata di una
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CONCILIO VATICANO II, Lumen Gentium, 11. C. M. MARTINI, Famiglie in esilio, Ed. San Paolo, Milano, 2012, p. 33.
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mission, di un vero e proprio ministero,5 quello della vita, che comprende intrinsecamente uniti – la procreazione e l’educazione.
1. Educare alla famiglia
Oggi si associano alla famiglia espressioni come crisi, morte; si parla di famiglie tradizionali contrapposte a nuove forme di famiglie, equiparandole a molteplici forme relazionali; i termini compagno-compagna prendono il posto di marito-moglie, mentre si riscontra la diminuzione dei matrimoni e la crescita dei figli fuori dal matrimonio. Sembra passare il messaggio di condizioni deteriorate di una realtà, la famiglia, che come è nata può anche scomparire, perché originata da una particolare fase della storia dell’umanità che, ormai superata, se la lascia alle spalle. Educare alla famiglia significa, prima di tutto, riconoscere - qui e ora che cosa sia il matrimonio e la famiglia. La domanda è: quale famiglia? Non è qui il luogo per soffermarci su tale questione; rimando ad una definizione che considero ancora, oltre che vera, chiara e illuminata, espressa nell’ormai lontano Convegno Ecclesiale di Palermo. La famiglia “consiste e richiede un patto tra un uomo e una donna sulla base di una reciproca scelta (che per i cristiani è fondata sul sacramento del matrimonio) e una relazione generativa, almeno come progetto”.6 Scomponendola, troviamo l’esigenza di un patto pubblico (per i battezzati è Sacramento) sulla base di una scelta che unisce uomo e donna, che dalle famiglie di origine hanno ricevuto una provvista di tradizioni e apporti propri che li seguono nella nuova vita matrimoniale. Si intersecano, così, nella famiglia, due linee. La linea orizzontale del rapporto: io-tu, carico di molteplici significati umani, psicologici, relazionali, tradizionali. Un uomo e una donna che hanno maturato la capacità di sposarsi, cioè di promettersi l’uno all’altro originando una comunità di vita e di amore7 nuova e creativa. La linea verticale “di generazione, in generazione”, nella quale i due si innestano, e che sviluppano generando a loro volta. Questa prospettiva di generare è co-essenziale al matrimonio. La famiglia, inoltre, vive “qui e ora”, nella società e nello Stato, in uno scambio necessario con la comunità civile che essa sostiene e alla quale chie-
GIOVANNI PAOLO II, Familiaris consortio, 39. E. SCABINI, Introduzione ai lavori del quarto ambito la famiglia, Palermo, 1995, p. 4. 7 CONCILIO VATICANO II, Gaudium et spes, 48. 5 6
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de appoggio per raggiungere le proprie finalità; diventa, in quanto coppia nuziale e comunità domestica, membro della Chiesa, suscitando una fertile e reciproca sinergia.8 Questo percorso tiene saldamente unito il carattere “creaturale” e “sacramentale” del matrimonio e, per analogia, della famiglia. E questo nella più vera tradizione della Chiesa. Educare alla famiglia significa anche educare la persona a scegliere in modo definitivo e ad assumersi le responsabilità che comporta, come atto particolare dell’educazione alla vita.
2. Educare in famiglia
Significativo il paragrafo n. 36 negli Orientamenti della C.E.I. per il decennio 2010-2020, che ribadisce come la famiglia sia la prima e indispensabile comunità educante. “Per i genitori, l’educazione è un dovere essenziale, perché connesso alla trasmissione della vita; originale e primario rispetto al compito educativo di altri soggetti; insostituibile e inalienabile, nel senso che non può essere delegato né surrogato”. I Vescovi non nascondono però come “educare in famiglia è oggi un’arte davvero difficile”. Genitori che avvertono sempre più un forte senso di solitudine e quasi di isolamento sociale, dal momento “che la società privilegia gli individui e non considera la famiglia come sua cellula fondamentale”. Genitori che oggi faticano a trasmettere il senso e la passione per la vita e che sembrano non avere l’autorevolezza necessaria nei confronti dei figli. Urge, pertanto, “ritrovare la virtù della fortezza nell’assumere e sostenere decisioni fondamentali, pur nella consapevolezza che altri soggetti dispongono di mezzi potenti, in grado di esercitare un’influenza penetrante”. Difficoltà che però non oscurano né diminuiscono la responsabilità educativa della famiglia. Anche se segnati dalla crisi e dalla separazione, non viene meno il loro mandato di genitori, né la speranza di essere al servizio della vita, che unisce il generare all’educare. Famiglia protagonista, ma non da sola, anche se unica è l’impronta che può dare. Di qui l’impegno della Chiesa “a sostenere i genitori nel loro ruolo di educatori, promuovendone la competenza mediante corsi di formazione, incontri, gruppi di confronto e di mutuo sostegno”. Anche l’Instrumentum Laboris9 per il Sinodo Straordinario sulla famiglia raccoglie, evidenziandole, molte note sul tema educativo. “Molte risposte (al Questionario n.d.r.) mettono in rilievo il ruolo dei Cfr. At 18. SINODO DEI VESCOVI, Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione. Instrumentis Laboris per la III Assemblea generale straordinaria, 24 giugno 2014, nn. 132-137. 8 9
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genitori nella catechesi specifica sulla famiglia. Essi hanno un ruolo insostituibile da svolgere nella formazione cristiana dei figli in relazione al Vangelo della famiglia (...). La loro testimonianza è già una catechesi vivente, non solo nella Chiesa, ma anche nella società”.10 Si rimarca con insistenza il valore formativo dell’amore vissuto in famiglia, non solo per i figli, ma per tutti i suoi membri. La famiglia è così definita scuola di amore, scuola di comunione, una palestra di relazioni, il luogo privilegiato dove si impara a costruire relazioni significative, che aiutino lo sviluppo della persona fino alla capacità del dono di sé.11 “Si sottolinea inoltre l’importanza della famiglia per uno sviluppo integrale: la famiglia risulta fondamentale per la maturazione dei quei processi affettivi e cognitivi che sono decisivi per la strutturazione della persona”.12
3. Generare – educare: un atto continuo
La prospettiva generativa è essenziale per la valida attuazione del matrimonio, insieme alla capacità di amare. Essa si basa sul riconoscimento dell’intrinseca differenza che sussiste tra uomo e donna, essenziale al delicato rapporto che unisce due persone portandole, secondo la definizione di R. Guardini, nella dinamica dell’amore a volere come bene “proprio” la realizzazione della felicità dell’altro: “Amare significa vedere la forma del valore dell’esistente distinto da sé, soprattutto se personale; intuire la sua validità; sentire che è importante che sussista e si dispieghi, essere afferrati dall’ansia per tale realizzazione come fosse propria”.13 La riflessione, di carattere antropologico, entra così nella sfera del significato e del senso. Quindi il carattere antropologico diventa assiologico ed etico e si esprime nella scelta di generare, accettando l’ulteriore differenza: essere padre, madre, essere figlio. Poggia su un dato essenziale che è proprio dell’uomo e della donna che si incontrano, si sposano, o comunque iniziano una vita insieme: essi pro–vengono14 da altri, non solo sotto il profilo biologico, ma per quanto riguarda la propria persona. Non si è autosufficienti o auto-fondati, autopoietici, ma un’altra persona ci ha generato. Per il credente è chiara la pro-
Idem, 19. Idem, 38. 12 Idem, 43. 13 R. GUARDINI, citato in G. ZUANAZZI, Identità e coniugalità, in CENTRO ITALIANO FEMMINILE, ( a cura di), Uomo-donna: progetto di vita, UECI, Roma, 1985, p. 172. 14 A. BAGNASCO, L’architettura della famiglia: logica e ricadute sociali. Prolusione del Card Angelo Bascasco, 12 settembre 2013. 10 11
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venienza da Dio Uno e Trino.15 “Si sposa il cromosoma del nonno” si diceva un tempo; oggi possiamo dire che siamo anche la ricchezza e il limite ( il dramma) di chi ci ha generato e con questo dobbiamo fare i conti e/o farlo crescere in una ricchezza rinnovata. La differenza si esprime nel rapporto a - simmetrico dell’essere madre e padre e figlio. Un rapporto che genera ed educa. Oggi è possibile riscontrare – insieme al desiderio - le difficoltà e la paura a generare ed anche la fatica ad attuare, se non addirittura al venir meno, questo rapporto genitoriale, qualora si generi. Tra le ragioni che molti asseriscono, si profila quella di non riconoscere la propria condizione di adulto con il naturale procedere negli anni, uscendo dall’età giovanile ( non si può essere giovani per sempre…) e il non avere maturato una visione del mondo, una direzione da prendere e delle forme concrete di attuazione da proporre in chiave educativa. La procreazione deve mantenere come riferimento il figlio che è persona, cioè in divenire; è corporeità e spiritualità, conoscenza e libertà; istintività e decisione personale; è creato ad immagine di Dio, segnato dal peccato, redento in Cristo. “L’atto del procreare e la coppia procreatrice precontengono in qualche modo il figlio in tutta la sua ricchezza e complessità”.16 Il procreare come atto contiene in sé già qualche cosa dell’eminente dignità del procreato: proprio perché persona, il figlio è indisponibile ad ogni rivendicazione di diritto da parte di alcuno, compreso i genitori. La natura corporeo-spirituale del figlio richiede una presenza dei genitori, che non si limiti cioè ad un semplice intervento biologico-anatomico, ma abbracci il complesso di altre dimensioni e valori. Il divenire del figlio richiede una continuità nel tempo che superi il primo momento, estendendosi all’educazione. La socialità del figlio lo colloca, insieme ai suoi genitori, in un’ampia dinamica di relazioni. L’atto del procreare viene associato all’aggettivo “responsabile”. In verità ogni atto umano lo deve essere e questo ancor più se ne consideriamo l’effetto: la persona umana, “soggetto” e mai diritto preteso da un altro, compreso gli stessi genitori. È oggi un rilievo urgente per la grave forma di denatalità che grava sul
“È tempo di affrontare tale crisi antropologica con la proposta di un umanesimo profondamente radicato nell’orizzonte di una visione cristiana dell’uomo – della sua origine creaturale e della sua destinazione finale – ricavata dal messaggio biblico e dalla tradizione ecclesiale, e per questo capace di dialogare col mondo” (Dall’Invito al Convegno ecclesiale di Firenze). 16 G. MURARO, Procreazione, in Nuovo Dizionario di Teologia morale, Edizioni Paoline, Milano, 1990, p. 1010. 15
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nostro Paese e per la responsabilità della quale sono investiti sia i genitori che la società. A nessuno, infatti, può sfuggire questa grave condizione demografica,17 anche se sorge il dubbio che non sia sufficientemente stimata da tanti (governanti, imprenditori…) non ritenendo, di fatto, il figlio come un bene sociale, e valutando la gravissima situazione solo in considerazione degli alti costi sociali causati dall’ormai irreversibile sconvolgimento della piramide demografica.18 Cogliamo gli elementi essenziali dell’atto procreativo che si rivela come plurimo, continuo, per il carattere dinamico, in divenire, della persona stessa che viene concepita e continuamente “creata”. Ecco la sequela degli sviluppi di questo atto: • Il concepimento: momento in cui la vita ha il suo inizio attraverso la fusione dei due patrimoni cromosomici. • La gravidanza: la persona umana prende forma a partire dalla virtualità contenuta in sé, per potere giungere ad un’autonomia di vita. • Il nascere: non è ancora la fase definitiva, prevale ancora il dato biologico. • La procreazione: chiede il compimento con l’educazione, protesa a divenire “coeducazione” tra il figlio e i genitori. Queste diverse tappe formano insieme l’unico evento della procreazione, che raggiunge il compimento solo con la capacità del figlio, tramite l’educazione, di “stare in piedi davanti al mondo”, in modo autonomo, critico e creativo, capace di perseguire il bene e “quel” bene che gli è chiesto. La Chiesa – commenta l’Instrumentum laboris – è chiamata ad annunciare la fecondità dell’amore, nella luce di quella fede che “aiuta a cogliere in tutta la sua profondità e ricchezza la generazione dei figli, perché fa riconoscere in essa l’amore creatore che ci dona e di affida il mistero di una nuova persona” (LF, 52). Molte delle difficoltà evidenziate da risposte e osservazioni mettono in risalto il travaglio dell’uomo contemporaneo intorno al tema
Rapporto Istat 2014: il nostro Paese è caratterizzato dal persistere di livelli molto bassi di fecondità, in media 1,42 figli per donna nel 2012 (media UE28 1,58). Nel 2013 si stima che siano stati iscritti in anagrafe per nascita poco meno di 515mila bambini, circa 64mila in meno in 5 anni e inferiori di 12mila unità al minimo storico delle nascite del 1995. Le donne italiane in età feconda sono sempre meno numerose, fanno meno figli e sempre più tardi. Anche le donne straniere invecchiano e la loro fecondità è in calo. 18 G. BLANGIARDO, La famiglia oggi: scenari e prospettive, Settimana Sociale, Torino 13 settembre 2013, p. 4. Spiace rilevare come non sia stato assunto nessun impegno, anche nella sede del Convegno, da parte del Governo in ordine ad una politica volta, almeno, a frenare la grave condizione italiana. 17
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degli affetti, della generazione della vita, della reciprocità tra l’uomo e la donna, della paternità e della maternità.19
4. Gli sposi quasi ministri di Dio Creatore ed educatore del suo popolo
Riscontriamo alcuni atteggiamenti e atti fondamentali della cooperazione responsabile dei genitori all’opera di Dio. • Unità: ogni azione deriva dalla persona; questo dato è ancor più significativo perché il soggetto è la coppia. Due persone devono dare origine ad un unico principio di azione; debbono essere “uno” attraverso la comunione di amore. Come avviene anche in Dio, che agisce ad extra come Trinità di Persone unificate nell’unità di pensiero e di azione. Questo processo parte dal fidanzamento ed è chiamato a crescere sotto diversi profili, fino arrivare ad una forma di amore di dono che, creando l’unità della coppia, trasmette questa dinamica anche nella generazione del figlio. Nel figlio, così, entrambi si ritrovano, pur sapendo che Egli è una realtà nuova. “In questo modo entrambi si sentono presenti nella storia della figlio, perché qualcosa di entrambi è entrato in lui, e parimenti il figlio si sente parte di essi perché è la sintesi originale della vita dei genitori”. La coppia pro - creatrice deve mantenersi unita non solo nel momento della nascita, ma in tutte le fasi dell’educazione, per poter consentire al figlio di identificarsi, umanizzarsi, socializzarsi. • La consapevolezza è innanzitutto di Dio, che crea sapendo ciò che fa e i motivi che lo portano a creare (Cfr. Ger 1,5; Ef 1,4). L’azione della procreazione realizza nel tempo quello che era già stato pensato nell’eternità. Uomo e donna concepiscono il figlio nella coscienza di quello che è - nella fisicità, spiritualità, trascendenza - del suo essere ad immagine di Dio. Non è possibile una conoscenza soltanto fisico-anatomica: i genitori debbono avere una conoscenza almeno implicita di queste dimensioni. • La libertà è attributo di Dio, che crea perché ama di amore libero e non è necessitato in alcun modo. L’atto della procreazione deve essere totalmente libero, cioè non necessitato da alcuna costrizione sia interna che esterna. Dalla cultura natalista, o dall’anti life mentality. • La gratuità: riassume per così dire tutte le altre. Significa piena accettazione dell’altro con il quale tessere un rapporto di crescita. Figli e genitori hanno insieme un forte dialogo, nel quale la gratuità assume un altissimo valore: “Solo l’amore effusivo può garantire quella gratuità che è necessaria per la crescita vera di tutti. Infatti essendo un rapporto fondato su una comunicazione di vita, crea un flusso in cui ognuno conserva e dona la ricchezza della propria origi19
SINODO DEI VESCOVI, Le sfide pastorali sulla famiglia..., 122.
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nalità, ed essendo gratuito non subordina, non strumentalizza, non deforma, ma permette ad ognuno di essere se stesso e di svilupparsi ed esprimersi nella linea del proprio essere. Ogni tipo di asservimento anche nel rapporto genitori - figli, porta ad un calo di umanità”. • La Provvidenza è il conservarsi nel tempo dell’atto della creazione. Uomo e donna fanno proprie queste prerogative di Dio, prolungando la loro azione procreativa con tutto un insieme di atti e di interventi, facendosi attenti a sviluppare nel tempo le capacità della creatura. Le esigenze psichiche, corporali, morali, spirituali debbono entrare in questa opera: “La persona umana è corpo, ma è anche esigenza di dialogo, bisogno di amare, richiesta vivente di Dio. E i genitori devono essere provvidenza per i figli aiutandoli a crescere in tutte queste dimensioni di vita”.
5. La dinamica reciproca dell’educazione in famiglia
La relazione uomo-donna genera un’educazione reciproca, che parte dall’incontro-innamoramento e porta ad un progetto che si sviluppa nel confronto, nel tempo, nella pazienza... Un impegno educativo reciproco che è fondamentale, ma non spontaneo, pertanto richiede uno sforzo reciproco, sperimentato nella ricerca di una relazione d’amore e che continua nella realtà e nella dinamica della coppia coniugale, attraverso il dialogo e la crescita insieme.
5.1. La relazione genitori–figli
Il matrimonio comporta in sé la dimensione generativa, nel passaggio da sposi a genitori, rimanendo sposi. Un passaggio delicato, per il necessario rinnovarsi delle relazioni tra i due e per la progettualità che richiede verso il futuro; passaggio non esente da situazioni difficili e dolorose, quando il figlio non arriva e tante attese e proposte gravano sulla giovane coppia. L’educazione si configura come opera della coppia, nella quale i due si assumono i caratteri e i ruoli della madre e del padre. C’è poi una forma particolare di educazione dei figli tra di loro: il valore di avere e di essere fratelli consente una ricchezza di rapporti e di educazione molto importante. Può anche innestarsi una sorta di educazione dei figli verso i genitori, dalle domande spiazzanti dei bambini al farsi carico dei genitori da parte dei figli, in momenti difficili o particolari. La famiglia imprime un segno fondamentale nei figli e offre un’educazione che li sostiene nella vita. In famiglia, infatti, i figli incontrano la lettura dei grandi misteri della vita: la nascita, la morte, la sofferenza e più generalmente il vivere; vedono gesti, imparano stili di vita e atteggiamenti che li segnano per la vita.
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La differenza delle generazioni sostiene e richiede l’acquisizione di una autorevolezza, che parte dal vivere il percorso che si indica al figlio, per creare così un clima fecondo nel quale il figlio entra ed è facilitato a sviluppare la sua umanità, che non è soltanto fatta di abilità, ma di senso e di valori. Condurre, cioè, la persona oltre se stessa, per portarla a realizzare la pienezza del suo essere corpo, anima, spirito. Papa Francesco bene coglie questa differenza richiamando l’attenzione sui bambini e i vecchi, i due estremi che rischiano di essere scartati. Gli anziani, come sono importanti per lasciare quel patrimonio di umanità indispensabile per la società, così rischiano, se presi da una mentalità individualistica, di non fare spazio ai giovani. La differenza tra le generazioni è essenziale alla persona e la famiglia è la preziosa custode delle differenze e della fecondità della loro relazione, della loro alleanza. “Il ruolo dei genitori, primi educatori nella fede, è considerato essenziale e vitale. Non di rado si pone l’accento sulla testimonianza della loro fedeltà e, in particolare, sulla bellezza della loro differenza; talvolta si afferma semplicemente l’importanza dei ruoli distinti di padre e madre. In altri casi, si sottolinea la positività della libertà, dell’uguaglianza tra i coniugi e della loro reciprocità, così come la necessità del coinvolgimento di entrambi i genitori sia nell’educazione dei figli che nei lavori domestici, come si afferma in alcune risposte, soprattutto in quelle dall’Europa”.20 “In riferimento ancora alla differenza, viene talvolta sottolineata la ricchezza della differenza intergenerazionale, che si può sperimentare in famiglia, al cui interno si vivono eventi decisivi come la nascita e la morte, i successi e le sventure, le mete raggiunte e le delusioni. Attraverso questi ed altri eventi, la famiglia diventa il luogo in cui i figli crescono nel rispetto della vita, nella formazione della loro personalità, attraversando ogni stagione dell’esistenza”.21 Le espressioni dell’Instrumentum Laboris qui citate bene rimarcano questa dinamica educativa che resta fondamentale e propria per la famiglia, che la vive in alleanza con altre realtà, che la supportano, la sostengono ed anche la suppliscono nel bisogno, sempre bene orientandosi al fine educativo dei figli.
6. Alleanze e sinergie educative
Sinergie note, ma che è bene rimarcare: con la scuola, con le attività ricreative e aggregative e, in un livello maggiormente comprensivo, con la
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SINODO DEI VESCOVI, Le sfide pastorali sulla famiglia..., 39. Idem, 40.
La missione educativa della famiglia
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Chiesa locale, in tutte le sue componenti, parrocchie, comunità religiose, associazioni e movimenti... Sentiamo ancora, l’eco delle parole di papa Francesco, nell’incontro avuto lo scorso 26 maggio, con il mondo della scuola cattolica italiana: “La famiglia e la scuola non vanno mai contrapposte! Sono complementari e, dunque, è importante che collaborino, nel rispetto reciproco. E le famiglie dei ragazzi di una classe possono fare tanto collaborando insieme tra di loro e con gli insegnanti. Questo fa pensare a un proverbio africano tanto bello: ’Per educare un figlio ci vuole un villaggio’. Per educare un ragazzo ci vuole tanta gente: famiglia, insegnanti, personale non docente, tutti!”. Il nostro Paese deve mantenere e ricuperare con tenacia il valore educativo della scuola, sostenuto anche da una lunga e ricca tradizione che ha annovera esperienze di alto valore educativo tra le sue realtà più preziose. Il Sinodo – accanto a quanto abbiamo già espresso sulla scuola in generale – rimarca il contributo educativo delle scuole cattoliche che è necessario considerare, auspicando ancora che una sana legislazione consenta loro, sull’esempio di tanti Paesi europei, di potere esprimere verso tutti, specialmente i più bisognosi, la loro missione educativa. “Si rileva dalle risposte come le scuole cattoliche, nei loro diversi livelli, svolgano un ruolo importante nella trasmissione della fede ai giovani e siano di grande aiuto al compito educativo dei genitori. (…) La scuola cattolica esprime la libertà di educazione, rivendicano il primato della famiglia come vero soggetto del processo educativo, a cui le altre figure in gioco nell’educazione devono concorrere. Si chiede una maggior collaborazione tra famiglie, scuole e comunità cristiane”.22 Alleanza che richiede, da parte della Chiesa - della quale le chiese domestiche sono membra vive - di intervenire con una pastorale finalmente integrata, che implica un forte coinvolgimento di tutti, non solo su un versante esterno–organizzativo, ma sul nostro modo di essere e vivere la Chiesa stessa23. Percorso di vita che parte dalla capacità di conoscere e apprezzare i carismi, frutto dello Spirito, che vivono nella Chiesa, e favorisce l’incontro delle diverse vocazioni e, in particolare, delle vocazioni presbiterali e religiose con la vocazione laicale e matrimoniale nello specifico. Percorso che pone al centro dell’azione pastorale la “persona” alla quale annunciare il vangelo e offrire “Gesù risorto, speranza del mondo” (tema del convegno ecclesiale di Verona), la speranza che ne deriva e che oggi è richiesta. “Abbiamo – pertanto – bisogno di una pastorale più vicina Idem, 136. CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, Roma, 30 maggio 2004, n. 11. 22 23
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alla vita delle persone, meno affannata e complessa, meno dispersiva e più incisivamente unitaria,…basata sulla centralità della persona”(RSN, 21). Rinnovare l’impegno per l’educazione diventa un servizio per tutta la comunità umana: “Ogni persona nasce con scritto nel suo statuto il bisogno di trovare ragioni di vita e l’educazione è il cammino per trovarle, viverle, proporle”.24 Con tutte le donne, gli uomini, le famiglie e le realtà del nostro tempo, scommettiamo sul valore e sulla possibilità di educare secondo quel modello universalmente riconosciuto che è la persona umana, del quale la fede indica la radice in Dio Creatore e il pieno e vero compimento in Cristo.
COMITATO PER IL PROGETTO CULTURALE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA (a cura di) – La sfida educativa, Laterza, 2009, pag. 87. 24
Rivista Lasalliana 81 (2014) 3, 339-355
CHIESA, FAMIGLIA, LIBERTÀ DI EDUCAZIONE
MAURIZIO VIVIANI Direttore Ufficio Nazionale per l'educazione, la scuola e l'università della C.E.I. SOMMARIO: 1. Educazione, aria di crisi. - 1.1 Una corrente fredda. - 1.2 Giovani senza futuro? 2. La via tracciata dal Magistero. - 2.1. Il Concilio Vaticano II. 2.2. L’educazione, diritto inalienabile. - 2.3. La scuola. - 2.4. Le convinzioni teologiche e pedagogiche della Chiesa. - 3. La sfida educativa, oggi. - 3.1 Per una “pedagogia della persona”. - 3.2. La famiglia, primo luogo educativo. - 3.3. La scuola, l’impresa più sacra. - 3.4. Le altre agenzie educative. 4. Indicazioni pastorali. - 4.1. Abitare il mondo, stare nella transizione. - 4.2. Educare per vocazione. - 4.3. Creare reti di alleanze educative. - 5. Conclusione.
1. Educazione, aria di crisi (Le possibilità e gli ostacoli che il compito educativo incontra nello scenario culturale)
I
n pochi decenni si è passati da una società relativamente stabile a una società caratterizzata da molteplici cambiamenti e discontinuità. La società di oggi è fluida, mutevole, disgregata.1 È impregnata di individualismo, di pluralismo e di relativismo. Gli effetti sono visibili anche nell’esperienza religiosa, che appare molto più de-istituzionalizzata di un tempo.2 I racconti (tra cui le “grandi narrazioni”) e gli ideali (tra tutti la libertà) con cui gli anziani sono cresciuti, non hanno più la presa di un tempo. Si può soltanto immaginare la fatica a trasmetterli in maniera convincente ai più giovani.
1.1 Una corrente fredda
Le caratteristiche del nuovo, inaspettato scenario socioculturale hanno contaminato anche l’educazione. In ogni luogo deputato ad essa sono aumentate le difficoltà nell’azione educativa e il rischio dell’insuccesso. Il mondo dell’educazione è, quindi, diventato ancora più complesso. Chi educa respira aria di spaesamento. Cfr. Z. BAUMAN, Modernità liquida, Laterza, Bari, 2002. Cfr. C. THEOBALD, È proprio oggi il “momento favorevole”. Per una lettura teologica del tempo presente, in “Rivista del Clero italiano”, LXXXVII (2009) 5, p. 358. 1 2
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Lo stress del cambiamento a cui sono sottoposte le agenzie educative, in tempi di forte ed accelerato cambiamento culturale, evidenzia in maniera clamorosa i limiti e le inadeguatezze delle stesse. Come dire che, in tempi di cambiamento, i nodi vengono al pettine. La situazione di transizione colpisce i modelli educativi consolidati dalla tradizione, in particolar modo la famiglia, la scuola, la parrocchia, col rischio di polverizzarne l’autorevolezza.3 Stando all’eco data dalla stampa ai non pochi limiti nelle scuole italiane, sembra essere la scuola a catalizzare, nei suoi disagi e nelle sue incertezze, tutta la portata della crisi educativa. In effetti l’istituzione scolastica è solo il luogo che esaspera le difficoltà presenti altrove. La scuola è come un megafono che amplifica le emergenze e le difficoltà precedentemente emerse nel tessuto sociale e familiare, che è il luogo primigenio dell’educazione. L’attuale contesto sociale ha messo in discussione la struttura, le funzioni e il concetto stesso di famiglia. Molti genitori sembrano incapaci di assumersi le responsabilità di preparare i figli che crescono ad un mondo che essi stessi difficilmente conoscono e in cui essi stessi non si riconoscono più. Si parla ripetutamente di “emergenza educativa”.4 Essa è caratterizzata dagli insuccessi a cui troppo spesso vanno incontro quanti si sforzano di formare persone strutturate e libere, capaci di dare un senso alla propria vita e di collaborare con gli altri. Un effetto tra i più perniciosi di tale emergenza è lo scetticismo sulla possibilità stessa di educare. Ciò rende molti adulti sfiduciati e rinunciatari. Sembra che una “corrente fredda” li attraversi e che la stessa investa gli spazi classici deputati all’educazione: la famiglia, la Chiesa e la scuola.5 Tale corrente genera uno spazio desolato in cui i soggetti educativi stentano a costituire una rete di contenimento e a creare occasioni di
3 Cfr. E. ZANOLETTI, Non c’è niente come la famiglia, in “Evangelizzare”, XLII (2012-2013) 9, p. 535. 4 A Benedetto XVI si deve la parola d’ordine “emergenza educativa”, con la quale egli ha catalizzato l’attenzione dell’opinione pubblica, particolarmente in Italia, sul valore dell’educazione e sulle difficoltà che oggi si riscontrano in tutti gli ambienti di vita. Il termine compare nella Lettera che in un certo modo esprime più compiutamente – sia pur sinteticamente – il pensiero pedagogico del Papa. «Educare però non è mai stato facile, e oggi sembra diventare sempre più difficile. Lo sanno bene i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti e tutti coloro che hanno dirette responsabilità educative. Si parla perciò di una grande “emergenza educativa”, confermata dagli insuccessi a cui troppo spesso vanno incontro i nostri sforzi per formare persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla propria vita»; BENEDETTO XVI, Lettera del Santo Padre Benedetto XVI alla Città e alla Diocesi di Roma, sul compito urgente dell’educazione, 21 gennaio 2008. 5 Cfr. CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Educare alla vita buona del Vangelo. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020, 4 ottobre 2010, n. 5.
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rilancio, così che – come sostiene il vescovo Brambilla – «la scuola fatica ad essere normativa, la famiglia diventa iperprotettiva, la comunità cristiana diventa atmosferica ed affettiva».6 Ciò asseconda, a lungo andare, una società individualistica, priva di direzioni e di vera libertà.
1.2 Giovani senza futuro?
La crisi dell’educazione è pure caratterizzata dal venir meno della responsabilità degli adulti nei confronti dei giovani. Gli adulti si sono così avvicinati ai giovani (non solo nel modo di vestire e nel deplorevole tentativo di restare teen-ager per sempre) da confondersi con essi, rendendo di fatto impossibile un dialogo intergenerazionale. Ciò contribuisce a far vivere i giovani come in uno sterile limbo, che impedisce loro di crescere, di affidarsi serenamente al futuro e di giovare all’intera società. Di più. A volte sembra che i giovani non esistano. Ignorandoli, si radicalizza l’emergenza educativa, come sostiene il teologo Matteo. Educare costa fatica. Ed è sempre più faticoso. Assomiglia alla fatica di Sisifo. «È la fatica di prendere sul serio l’esistenza dei giovani, la fatica di educarli nel senso letterale, ovvero di propiziare una fuoriuscita positiva di quell’energia che la natura dona loro a servizio della propria realizzazione di vita e del conseguimento del bene comune».7 Senza più un centro simbolico, senza una direzione condivisa, senza più soglie (o riti) tra le età della vita, educare diventa davvero difficile. La lettura, tanto abrasiva quanto verosimile, del sociologo David Le Breton ci permette di cogliere le difficoltà che incontrano i giovani d’oggi nel diventare adulti, liberi e generativi. «Ad eccezione del passaggio legale alla maggiore età a 18 anni, le nostre società occidentali non riconoscono il cambiamento di statuto che apre all’età adulta. Nessun rito condiviso è in grado di rendere sicuro e di delimitare il percorso di coloro che attraversano questo passaggio colmo di turbolenze. I diplomi scolastici hanno perso il loro valore simbolico di superamento radicale di una soglia, i riti religiosi vengono spesso abbandonati o vissuti nell’indifferenza, il servizio militare è sparito, le relazioni d’amore si succedono l’una all’altra, il lavoro è provvisorio e mal rimunerato. Nessun avvenimento socialmente identificato dà al giovane o alla giovane la sensazione di congedarsi dalla propria adolescenza e di essere
6 F.G. BRAMBILLA, Educare in famiglia: un’arte difficile?, in “Rivista del Clero Italiano”, XCI (2010) 4, p. 246. 7 Cfr. A. MATTEO, Giovinezza impossibile. Latitanza degli adulti nella relazione educativa, in “La Rivista del Clero Italiano”, XCII (2011) 2, p. 96.
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oramai diventato un uomo o una donna. Questa libertà nel costruirsi, anche se soddisfa una grande maggioranza che avanza al proprio ritmo in un’esistenza in cui si riconosce, impone ad altri delle prove personali per convincersi di essere all’altezza».8 Molti educatori sono persuasi che la crisi dei giovani è in buona misura l’effetto della crisi degli adulti. È questa è sostanzialmente una crisi di autorevolezza dei soggetti coinvolti nell’impresa educativa.
2. La via tracciata dal Magistero (Il compito educativo della famiglia alla luce delle indicazioni del Magistero ecclesiale)
Di fronte a questa condizione critica dell’educazione, la Chiesa non può stare a guardare. Essa è interpellata a riflettere e ad agire, su due versanti: non solo ad intra: in particolar modo nell’educazione alla fede (in considerazione del fatto che per la prima volta la Chiesa si deve confrontare con una “generazione incredula”9), ma anche ad extra: soprattutto nell’educazione nella fede, ovvero nell’assunzione di uno stile di vita improntato ai valori del Vangelo. La filosofa tedesca Hannah Arendt, nel suo studio sulla crisi dell’educazione, notava: «Una crisi ci costringe a tornare alle domande; esige da noi risposte […]; si trasforma in una catastrofe solo quando cerchiamo di farvi fronte con giudizi preconcetti, ossia pregiudizi».10 Con la disposizione suggerita dalla Arendt, ci si accinge a riflettere sulla crisi educativa e su come uscirne, non prima di aver recuperato il pensiero educativo del Magistero, nella certezza che i suggerimenti della Chiesa possano dare utili indicazioni per quanto concerne l’educazione e i luoghi privilegiati in cui si concretizza.
2.1. Il Concilio Vaticano II
Il documento magisteriale al quale attingere i grandi principi ispiratori dell’educazione ha quasi 50 anni. È uno dei testi usciti nella fase conclusiva del Vaticano II: la Dichiarazione Gravissimum Educationis (di seguito GE).11 Cfr. D. LE BRETON, Questo non è un mondo per giovani, in “Avvenire”, 6 febbraio 2013. Cfr. A. MATTEO, La prima generazione incredula. Il difficile rapporto tra i giovani e la fede, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CT), 2010. 10 H. ARENDT, La crise de la culture, Gallimard, Paris, 1972, 225 [La crisi dell’educazione, in Tra passato e futuro (trad. it. di T. Gargiulo), Garzanti, Milano, 1991, p. 229]. 11 CONCILIO VATICANO II, Dichiarazione sull’educazione cristiana Gravissimum Educationis, 28 ottobre 1965. Nel testo si fa spesso riferimento all’Enciclica di Pio XI Divini illius Magistri (31 dicembre 1929). Essa rappresenta il primo documento ufficiale della Chiesa sull’edu8 9
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Il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) rappresentò un passaggio decisivo anche per quanto riguarda l’ambito dell’educazione cristiana. Questo evento di Chiesa manifestò nel suo insieme un intrinseco potenziale educativo. Ciò è riscontrabile nei documenti espressamente dedicati alle questioni educative ma, più ampiamente, nel corpo globale dei documenti conciliari, e cioè nell’insieme del suo insegnamento e dello spirito che lo animò.12 All’interno di una nuova sensibilità pedagogica, accresciuta per altro dal confronto sempre più intenso con lo sviluppo sociale e, prima ancora, da un nuovo quadro teologico e pastorale, si colloca la GE. È un testo epocale, in quanto è la prima volta che un Concilio Ecumenico si interessa esplicitamente dei problemi dell’educazione in generale e dell’educazione cristiana in particolare. La GE tratta dell’educazione cristiana, ne precisa i principi di fondo, applicandoli tuttavia al nuovo contesto socio-culturale nello spirito che ha animato il Concilio, che ha trovato la sua espressione più eloquente e significativa nella Costituzione pastorale Gaudium et spes13 e nella Dichiarazione Dignitatis humanae, in cui si ribadisce che «deve essere dalla potestà civile riconosciuto ai genitori il diritto di scegliere, con vera libertà, la scuola o gli altri mezzi di educazione».14 La GE non può essere ridotta ad una raccolta di indicazioni pedagogiche pronte per l’uso. Costituisce piuttosto il fondamento di una nuova cultura dell’educazione. Nell’introduzione del documento conciliare viene subito evidenziato l’intento che esso si prefigge: «Il Sacrosanto Sinodo dichiara alcuni principi fondamentali intorno all’educazione cristiana, soprattutto nelle scuole» (Proemio).
2.2. L’educazione, diritto inalienabile
La GE tratta dell’educazione cristiana, e tuttavia lo fa all’interno e in funzione di una concezione educativa che appartiene a tutti gli uomini e si concazione cristiana dei giovani, vista nei suoi principi di fondo, nei contenuti e nelle sue articolazioni e nei diversi ambiti di competenza: famiglia, Chiesa, Stato. Essa traccia la prospettiva fondamentale dell’educazione cristiana in un contesto storico in cui una delle grandi e tradizionali istituzioni preposte all’educazione, lo Stato, aveva assunto in alcuni paesi (tra cui l’Italia) forme pesantemente prevaricatrici in senso autoritario, assolutista e antireligioso, contro cui occorreva alzare la voce con coraggio e franchezza. 12 Cfr. G. CHIOSSO, Profilo storico della pedagogia cristiana in Italia (XIX e XX secolo), La Scuola, Brescia, 2001, p. 221. 13 Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 7 dicembre 1965. 14 Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis Humanae, 7 dicembre 1965, n. 5.
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figura come un diritto e un dovere della persona in quanto tale. Non è irrilevante che il documento sia stato qualificato come “Dichiarazione”, testo quindi rivolto non solo all’interno della Chiesa, ma anche al di fuori di essa, a tutti gli uomini di buona volontà; che l’intera Introduzione del testo sia dedicata alla presa d’atto dell’estrema importanza dell’educazione nella vita dell’uomo, della sua incidenza sempre più grande nel progresso sociale contemporaneo, del crescente sviluppo delle attività, delle istituzioni e dei metodi educativi; per concludere che è dovere della Chiesa interessarsi al problema educativo, indicando il suo compito specifico in ordine al progresso e allo sviluppo dell’educazione.15 Subito dopo il Proemio è solennemente affermato il «diritto inalienabile» di tutti gli uomini all’educazione, «in forza della loro dignità di persona», a una educazione che risponda al proprio fine, sviluppi «armonicamente le loro capacità fisiche, morali ed intellettuali» (n. 1), e li aiuti a valutare con retta coscienza i valori morali e religiosi. Successivamente sono precisate, nel contesto generale dell’educazione, le esigenze specifiche dell’educazione cristiana. La GE, nell’individuazione delle istituzioni a cui spetta il diritto-dovere dell’educazione, sostiene che prima viene la famiglia per il diritto-dovere naturale, primario e inalienabile della procreazione; poi, quale aiuto alla famiglia, «ci sono determinati diritti e doveri che spettano alla società civile»; «infine, a titolo tutto speciale, il diritto di educare spetta alla Chiesa», sia «come società umana capace d’impartire l’educazione”, sia «soprattutto perché essa ha il compito di annunciare a tutti gli uomini la via della salvezza» (n. 3).16
2.3. La scuola
La Chiesa del Concilio prende atto non solo dell’enorme espansione della scuola in tutti gli stati, come istituzione promossa dal potere civile per garantire a tutti l’istruzione, ma anche che la scuola rientra tra quei «mezzi che appartengono al patrimonio comune degli uomini, e sono particolarmente adatti al perfezionamento morale e alla formazione umana» (n. 4) e
15 Cfr. V. ZANI, Il cammino della Chiesa dalla Gravissimum Educationis a oggi, in “Orientamenti pedagogici”, 54 (2007) 2, p. 206. 16 Nella Divini Illius Magistri al primo posto stava la Chiesa, per un diritto positivo e soprannaturale; seguiva la famiglia, per diritto naturale di procreazione, e infine veniva lo Stato, in ordine al bene comune, sulla base del principio di sussidiarietà. Cfr G. ROVEA, Dalla “Divini illius Magistri” alla “Gravissimum educationis”, in “Pastorale scolastica. Notiziario dell’Ufficio Nazionale di Pastorale Scolastica della CEI”, 1990, vol. XV, p. 123.
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che l’istituzione scolastica è dunque un’istituzione civile che la Chiesa è chiamata a penetrare del suo spirito e ad elevare, e non tanto a gestire direttamente e in modo quasi esclusivo. È nella prospettiva dell’intima solidarietà con l’uomo e la sua storia, e della centralità della persona umana come fonte di diritti e doveri che si inscrive anche la concezione più aperta, serena e positiva della GE nei confronti della scuola in quanto tale, e non solo della scuola cattolica. La stessa definizione di scuola che il testo della GE dà in nome della sua missione, cioè della sua intrinseca natura di scuola, è illuminante. In essa è presente non solo la formazione al senso critico (accanto al processo di socializzazione), ma anche quella concezione comunitaria destinata ad anticipare la nuova sensibilità del nostro tempo. Non solo, dunque, i docenti cattolici possono prestare la loro azione didattica, operando nella scuola di tutti, apprestata dallo Stato, ma il loro servizio va considerato una «meravigliosa e davvero importante vocazione» (n. 5). Questa mutata prospettiva nei confronti della scuola pubblica, promossa per tutti dallo Stato, non esime la Chiesa dal rivendicare il diritto a promuovere scuole cattoliche in cui, oltre a «le finalità culturali proprie della scuola alla formazione umana dei giovani», sia possibile «coordinare l’insieme della cultura umana con il messaggio della salvezza, sicché la conoscenza del mondo, della vita, dell’uomo, che gli alunni via via» acquistano, sia illuminata dalla fede (n. 8).17
2.4. Le convinzioni teologiche e pedagogiche della Chiesa
La GE dischiude prospettive nuove. Si può dire che essa si muove secondo una nuova impostazione teologica (espressa in particolar modo nella Gaudium et Spes e poi nell’Enciclica di Paolo VI Populorum Progressio18), e che può essere sinteticamente riassunta nei seguenti punti: a) l’attività educatrice della Chiesa dipende dalla sua missione evangelizzatrice, ma anche umanizzante, propria dei suoi compiti di santificazione universale; b) la Chiesa, in quanto responsabile dell’educazione insieme con la fami-
Così prosegue il n. 8: «Da parte loro gli insegnanti ricordino che dipende essenzialmente da loro che la scuola cattolica sia in grado di realizzare i suoi scopi e le sue iniziative. Essi dunque devono prepararsi scrupolosamente, per essere forniti della scienza sia profana che religiosa, attestata dai relativi titoli di studio, e ampiamente esperti nell’arte pedagogica, aggiornata con le scoperte del progresso contemporaneo». 18 Lettera Enciclica Populorum progressio sullo sviluppo dei popoli, 26 marzo 1967. 17
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glia e la società civile, è considerata nella duplice funzione: di società umana, in grado di educare, e di società salvifica, capace di agire sia verso i credenti con l’educazione in tutte le sue dimensioni, sia verso i non credenti, offrendo la promozione della loro umanità; c) grande attenzione è dedicata alle scuole e specialmente ai doveri e ai diritti dei genitori i quali, nell’educare i figli, «debbono godere di una reale libertà nella scelta della scuola» (n. 6); d) singolare valore assume la distinzione della GE tra educazione umana e cristiana, ciascuna delle quali ha propria dignità, perché munita di un proprio fine ultimo: la prima mira a inserire l’uomo nella società, perché collabori al bene comune, la seconda tende a favorire nel cristiano l’adorazione di Dio «in spirito e verità» (Gv 4,23); e) infine, viene espressa fiducia nelle scienze umane per la loro capacità di avviare una dignitosa elevazione morale e spirituale degli educandi.19 Non va dimenticato che la GE parla della «vocazione all’eccellenza» che deve contraddistinguere tutte le istituzioni educative della Chiesa: scuole, università e gli altri luoghi educativi di cui essa è responsabile. Tutte le forme di mediocrità tradirebbero la lettera e lo spirito della GE e soprattutto le attese della Chiesa e dei beneficiari stessi dell’educazione, in particolar modo le giovani generazioni.
3. La sfida educativa, oggi (La responsabilità educativa della famiglia, cellula fondamentale della società, e la libertà di educazione)
Senza alcun dubbio, i principi fondamentali presentati nella GE hanno sostenuto la riflessione ecclesiale postconciliare sulle tematiche dell’educazione in famiglia e nella scuola. I numerosi documenti pubblicati, contengono aspetti teologici, ecclesiologici, pedagogici, frequentemente accompagnati da sapienti indicazioni pastorali. Scorrendo sinteticamente tali documenti, si nota una sorta di filo rosso che ha contraddistinto la riflessione sull’educazione, dall’impulso originario fino ai nostri giorni. La GE ha fornito le solide basi della nuova cultura dell’educazione all’interno della Chiesa, e ha prodotto i suoi frutti gradualmente nel tempo in diverse forme: sia attraverso l’attività e i documenti della Congregazione per l’Educazione Cattolica (che ha svolto il ruolo di organismo della Santa Sede specificamente deputato all’attuazione della GE), sia
19
Cfr. ZANI, Il cammino della Chiesa, p. 203.
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attraverso le attività e i testi della Conferenza Episcopale Italiana,20 sia attraverso il Magistero dei Pontefici.
3.1 Per una “pedagogia della persona”
I Papi si sono personalmente impegnati nella realizzazione della Dichiarazione Conciliare, da Paolo VI, che ha focalizzato la questione educativa sull’ideale della “formazione integrale”,21 a Giovanni Paolo II, per il quale educare significa mettersi a servizio della verità sull’uomo, fino a Benedetto XVI, che insiste sovente sulla pedagogia dell’amore. Benedetto XVI ha, inoltre, dato un originale apporto sul piano della stessa nozione di educazione, in particolare nella sua enciclica Deus caritas est. Un tale contributo influisce non solo sugli elementi più esteriori del sistemaeducazione, ma anche su quella che oggi viene definita la “pedagogia della persona”. In particolare, il pontefice offre la prospettiva di un’educazione centrata sul dono di sé agli altri per amore di Dio e dell’uomo: la sollecitazione, cioè, ad amare i destinatari non tanto kantianamente - ossia come fini in sé - bensì come persone capaci di vivere per Dio in Gesù Cristo. Offre, inoltre, indicazioni per pensare la vita in senso vocazionale, come risposta ad un Amore che ama per primo: la misura etica del proprio impegno di crescita non è creata dall’uomo come nelle morali secolari, pensate come se Dio non ci fosse. Il criterio supremo delle scelte e dell’amore si trova come un dato già posto da chi precede con la sua chiamata all’Amore. Non è da costruire ex nihilo, arbitrariamente. È da riconoscere nei suoi elementi germinali; è da sviluppare articolandolo nella vita, unificata dal riferimento al telos umano.22 È proprio questa “pedagogia della persona”, che si fonda sui valori evangelici consolidati dalla tradizione della Chiesa, a sostenere l’azione educativa di quanti - in nome dell’amore per l’uomo “Imago Dei” - si impegnano per la crescita integrale della società civile, e in special modo delle generazioni più giovani.23 Nella suddetta visione pedagogica non va dimenticato l’orizRiguardo ai temi della scuola cattolica va ricordato il prezioso servizio educativo e culturale svolto in questi decenni all’interno della CEI dalla Consulta Nazionale della pastorale della scuola (istituita nel 1973), dal Consiglio Nazionale della Scuola Cattolica (costituito nel 1996) e dal Centro Studi per la Scuola Cattolica (istituito nel 1997). 21 La formazione integrale ha il suo momento più alto nell’educazione cristiana e poggia su solidi fondamenti umani; cfr Insegnamenti di Paolo VI, IV [1966], p. 539. 22 Cfr. M. TOSO, «Deus caritas est». La rivoluzione di Dio nelle comunità, negli «ethos» civili e nell’educazione, in E. DAL COVOLO - M. TOSO (a cura di), Attratti dall’Amore. Riflessioni sull’Enciclica Deus Caritas Est di Benedetto XVI, Roma LAS, 2006, pp. 129-136. 23 Cfr. CHIOSSO, Profilo storico della pedagogia cristiana in Italia, pp. 304-316. 20
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zonte di speranza aperto da Dio all’umanità con la sua creazione e redenzione, e non va sottovalutata la dimensione affettiva. Lo ricordava con frequenza don Bosco ai suoi collaboratori: «l’educazione è cosa del cuore».24
3.2. La famiglia, primo luogo educativo
In numerosi documenti ecclesiali si sostiene che la famiglia è il primo luogo educativo, indispensabile e insostituibile, della società. In numerosi documenti ecclesiali si sottolinea la libertà di azione che spetta ai genitori. Essi hanno il diritto e il dovere di scegliere le modalità e i luoghi che svolgono e completano la formazione dei loro figli.25 I genitori sono i primi educatori perché genitori.26 Tutto inizia in famiglia. È vero per la vita, è vero per la fede. Ciò che viene trasmesso in famiglia si sedimenta, e spesso rimane per sempre. Non c’è niente come la famiglia. È il luogo dei legami più solidi e più duraturi. È il primo luogo della solidarietà. È il luogo dell’amore incondizionato: il padre resta il padre, il figlio resta il figlio, qualunque cosa accada ad entrambi e qualunque sia il percorso delle loro vite.27 Educare in famiglia è sempre stata un’arte difficile. Oggi lo è ancora di più. Molti genitori soffrono, infatti, un senso di solitudine, di inadeguatezza e, addirittura, d’impotenza. Taluni vivono in una sorta di isolamento anche sociale, perché la società privilegia gli individui e non considera più, come un tempo, la famiglia come sua cellula fondamentale. A fronte di ciò, la Chiesa ribadisce che «la famiglia resta la prima e indispensabile comunità educante. Per i genitori, l’educazione è un dovere essenziale, perché connesso alla trasmissione della vita; originale e primario rispetto al compito educativo di altri soggetti; insostituibile e inalienabile, nel senso che non può essere delegato né surrogato» È quanto viene ribadito negli Orientamenti Pastorali del decennio. «Ricordatevi che l’educazione è cosa del cuore, e che Dio solo ne è il padrone, e noi non potremo riuscire a cosa alcuna, se Dio non ce ne insegna l’arte, e non ce ne mette in mano le chiavi», E. CERIA, Epistolario di San Giovanni Bosco, volumi quattro. Dall’anno 1835 al 1880, SEI, Torino, 1955-1959, vol. 4, pp. 204-205. 25 La Costituzione italiana riconosce ai genitori il diritto-dovere, nell’art. 30, di educare i propri figli: «È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli», Costituzione Italiana, art. 30. 26 Cfr. COMITATO SCIENTIFICO E ORGANIZZATORE DELLE SETTIMANE SOCIALI DEI CATTOLICI ITALIANI, La Famiglia, speranza e futuro per la società italiana. Documento preparatorio alla 47a Settimana Sociale dei Cattolici Italiani (Torino, 12-15 settembre 2013), Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna, 2013, n. 18. 27 Cfr. X. LACROIX, Tra carne e parola, la famiglia, in “Rivista del Clero Italiano”, XCIV (2013) 4, p. 264. 24
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Nello stesso documento si sostiene che: «l’istituzione familiare mantiene la sua missione e la responsabilità primaria per la trasmissione dei valori e della fede. Se è vero che la famiglia non è la sola agenzia educatrice, soprattutto nei confronti dei figli adolescenti, dobbiamo ribadire con chiarezza che c’è un’impronta che essa sola può dare e che rimane nel tempo».28
3.3. La scuola, l’impresa più sacra
Se tutto incomincia in famiglia, al fine di rendere la sua azione più efficace e duratura, occorre realizzare delle alleanze tra questa e altri luoghi educativi. Il primo luogo alleato della famiglia, come attestato fin dai primordi della storia della pedagogia, è la scuola. Se la famiglia esercita la propria responsabilità educativa consegnando “un mondo”, una grammatica della vita e il suo senso ultimo, è la scuola il suo primo alleato, in grado di rinforzare e avvalorare la sua opera educativa, rendendola ancora più ferma ed efficace. Per dirla con l’oratore Quintiliano, la scuola offre un apporto determinante alla famiglia: contribuisce a dare un’’' (enkýklios paideía), un’educazione completa, globale.29 È la scuola l’impresa qualitativamente più importante e sacra di ogni comunità. Lo ha ribadito il Cardinale Bagnasco: «La scuola si trova spesso coinvolta in polemiche e vicissitudini anche serie, che tuttavia restano ai margini rispetto al bonum che, in questa situazione nevralgica, è rappresentato dal processo di crescita umana e dallo sviluppo della conoscenza nei protagonisti principali che sono gli studenti. A loro il nostro pensiero affettuoso e pieno di fiducia: imparino a pensare in autonomia e senso critico, sappiano infatti che è questa l’attitudine principale di libertà e responsabilità. […] A loro associamo gli insegnanti e tutto il personale amministrativo e tecnico della scuola italiana. Siamo consapevoli che – insieme alla famiglia – sono garanti dell’impresa qualitativamente più importante e sacra di ogni comunità: la cura educativa, culturale ed intellettuale delle nuove generazioni».30 In tale luogo educativo, la Chiesa ha da sempre profuso energie e risorse, non solo economiche. Le numerose difficoltà che, anche recentemente, deve affrontare non le impediscono di ribadire la libertà educativa e, segnatamente, la libertà di istituire scuole cattoliche. La presenza di queste ultime rende plurale l’offerta formativa per gli alunni e permette ai genitori di Educare alla vita buona del Vangelo, 36. Cfr. F. CASELLA, Storia della pedagogia. Vol. I: Dall’antichità classica all’Umanesimo – Rinascimento, LAS, Roma, 2009, p. 259. 30 A. BAGNASCO, La porta stretta, Cantagalli, Siena, 2013, p. 409. 28 29
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scegliere la scuola che più ritengono conforme alla loro linea educativa. Per la Chiesa, la libertà educativa è un bene da promuovere e tutelare, un valore irrinunciabile non solo per se stessa, ma anche per una società che intenda essere democratica, pluralista, autenticamente rispettosa di tutte le identità. Perché vi sia una vera libertà educativa, è necessario il riconoscimento pieno dell’autonomia e della parità scolastica, e del ruolo che la famiglia può svolgere all’interno delle scuole stesse nella definizione del progetto educativo, come ribadito nel Documento preparatorio della prossima 47a Settimana Sociale.31 «Perché vi sia una vera libertà educativa, è necessario il riconoscimento pieno dell’autonomia e della parità scolastica e del ruolo che la famiglia può svolgere all’interno delle scuole stesse nella definizione del progetto educativo. Una scuola che non valorizza la presenza dei genitori e delle loro associazioni tradisce la sua missione educativa. […] È fondamentale la partecipazione attiva dei genitori alla vita della scuola. Da parte sua, la scuola paritaria cattolica deve porre attenzione a un progetto educativo ispirato ai valori cristiani e a sviluppare una capacità critica nell’interpretare la realtà. Si auspica il rilancio del protagonismo della famiglia nel gestire strutture educative attraverso politiche familiari che sostengano sussidiariamente le famiglie».32
3.4. Le altre agenzie educative
La sintonia educativa tra scuola e famiglia è una gran cosa. Ma non basta. La Chiesa invita a ricercare intese e collaborazioni educative anche al di fuori della famiglia e della scuola, coinvolgendo nel progetto educativo le altre realtà presenti nel territorio. Il tempo della famiglia, della scuola, delle diverse attività formative, va integrato con un tempo del territorio. Ciò rafforza la valenza educativa delle esperienze nei diversi ambienti di vita.33 Il coinvolgimento delle altre agenzie educative presenti nel territorio consente di elaborare un’offerta educativa allargata, che integra anche le iniziative delle associazioni giovanili, del tempo libero, del volontariato, della parrocchia. Negli Orientamenti pastorali, nel quadro del più ampio impegno della Chiesa italiana per affrontare la sfida educativa, si fa esplicito riferiCfr. COMITATO SCIENTIFICO E ORGANIZZATORE DELLE SETTIMANE SOCIALI DEI CATTOLICI ITALIANI, La Famiglia, speranza e futuro per la società italiana, n. 18-19. 32 Cfr. COMITATO SCIENTIFICO E ORGANIZZATORE DELLE SETTIMANE SOCIALI DEI CATTOLICI ITALIANI, La famiglia, speranza e futuro per la società italiana, n. 19 33 Cfr. F. VENTURELLA, Comunità in dialogo: una “rete” di alleanze educative, in “Orientamenti pastorali”, LVI (2008) 11, p. 40. 31
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mento al peculiare contributo che viene offerto dagli oratori. «La necessità di rispondere alle loro esigenze porta a superare i confini parrocchiali e ad allacciare alleanze con le altre agenzie educative. Tale dinamica incide anche su quell’espressione, tipica dell’impegno educativo di tante parrocchie, che è l’oratorio. Esso accompagna nella crescita umana e spirituale le nuove generazioni e rende i laici protagonisti, affidando loro responsabilità educative. Adattandosi ai diversi contesti, l’oratorio esprime il volto e la passione educativa della comunità, che impegna animatori, catechisti e genitori in un progetto volto a condurre il ragazzo a una sintesi armoniosa tra fede e vita. I suoi strumenti e il suo linguaggio sono quelli dell’esperienza quotidiana dei più giovani: aggregazione, sport, musica, teatro, gioco, studio».34 La rivalutazione degli Oratori è espressione della rivalutazione delle altre dimensioni che rendono globale la proposta cristiana. Essa ha, senza ombra di dubbio, il compito primario di educare alla fede. Ma le spetta pure il compito di educare nella fede. Pertanto la sua azione pastorale non si può limitare all’iniziazione cristiana e all’amministrazione dei sacramenti. Necessita di un’integrazione di queste con proposte educative che coinvolgano altre dimensioni della persona, compresa quella ricreativa e sociale.
4. Indicazioni pastorali (Alcune attenzioni pastorali, in modo che ci si impegni coralmente a difesa e promozione della famiglia e della “libertà di educazione”)
Come vivere il protagonismo e la responsabilità educativa della famiglia, quale primo soggetto sociale, nel rapporto con le altre agenzie educative del territorio e nella gestione di strutture educative? Come promuovere la liberà educativa come bene comune? Come tradurla in pratica, nella guida spirituale dei fedeli? Pare opportuno offrire qualche indicazione di carattere pastorale: la prima riguarda un atteggiamento di fondo (abitare il mondo); la seconda, la vocazione a cui siamo chiamati (l’educare); la terza, una proposta strategica per rendere un migliore servizio alle future generazioni (creare reti di alleanze educative).
4.1. Abitare il mondo, stare nella transizione
La prima indicazione riguarda l’atteggiamento di fondo nei confronti della storia e del tempo. Occorre abitare questo tempo e questo luogo. 34 COMMISSIONE EPISCOPALE PER LA CULTURA E LE COMUNICAZIONI SOCIALI E COMMISSIONE EPISCOPALE PER LA FAMIGLIA E LA VITA, “Il laboratorio dei talenti”. Nota pastorale sul valore e la missione degli oratori nel contesto dell’educazione alla vita buona del Vangelo, 2013.
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Durante la sua lunga storia, la Chiesa ha fatto propria la convinzione che ogni tempo e luogo sia da abitare. Tale convinzione è stata ribadita nel passato soprattutto nei momenti di crisi e nelle epoche di rottura. A tal riguardo, pare opportuno citare papa Giovanni XXIII, che fu maestro in questo. Egli, in pieno disaccordo con i “profeti di sventura”, ripropose una lettura sapienziale della storia umana, rimarcando il dovere di leggere teologicamente il tempo presente, l’“hic et nunc” della salvezza. Fu questa lettura che lo spinse a decidersi a indire un Concilio ecumenico con una spiccata attenzione pastorale, per rimettere in dialogo la Chiesa con il mondo. Anche nel nostro tempo così impegnativo, la Chiesa ha il dovere di ricordare la certezza che Dio abita la storia; e che ogni epoca è un tempo favorevole, tempo di grazia. Va ribadito quindi che pure il nostro tempo è un kairòs, un momento favorevole. È una chance per il Vangelo e per i valori in esso contenuti.35 È una nuova possibilità per ribadire la passione per la vita e per i valori del Vangelo. Se è la speranza la colonna vertebrale che regge il cristianesimo, e gli dà profondità e proiezione dentro e oltre la storia, va pensata un’azione che la concretizzi in questo tempo di diffusa sfiducia e impregnato di passioni tristi, a motivo della transitorietà e vulnerabilità di quasi tutto ciò che ha valore nella vita terrena. La fede non può certo ridursi a volubile passione di un momento, o a provvisorio tampone dell’incertezza. Deve sviluppare nel mondo radici profonde che segnano sì, discontinuità con la vita di ogni giorno, ma anche e soprattutto continuità nella vicinanza al reale e alla relazione. Il compito dei cristiani è, quindi, seminare speranza, per mostrare tangibilmente che la fede non è solo una cosa dell’altro o per l’altro mondo.36 A questo riguardo, risulta illuminante un passaggio del teologo Salmann sulla fede come fermento della realtà: «la fede stessa è un orizzonte, appunto un fermento che incide nella vita in un modo tanto inafferrabile quanto decisivo».37
4.2. Educare per vocazione
In linea con la medesima lettura teologica, il cristiano dovrebbe coltivare un’altra convinzione: educare si può. E si deve. La seconda indicazione riguarda, quindi, il compito educativo e l’essenza stessa dell’educazione. Cfr. THEOBALD, È proprio oggi il “momento favorevole”, pp. 356-361. Cfr. U. SARTORIO, Scenari delle fede. Creder in un tempo di crisi, Edizioni Messaggero Padova, Padova, 2012, pp. 25-27. 37 E. SALMANN, Mistica, l’inaudito del cristianesimo, in M. CACCIARI – R. PANNIKAR – E. SALMANN – A. VERGOTE, Il Centro e il confine. Interviste su cristianesimo e modernità, (a cura di G. Ruggeri), Servitium, Gorle (Bergamo), 2002, pp. 68-69. 35 36
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Al centro dell’educazione sta la persona. Il “prendersi cura” della persona diventa per il cristiano una scelta obbligata, che richiede una vera e propria vocazione educativa. Essa si realizza nel servizio di accompagnamento di ogni persona, appunto, perché questa possa realizzare pienamente se stessa. La missione educativa si declina nei valori del rispetto, dell’amore, della libertà.38 La sfida della libertà connota intrinsecamente l’educazione. I grandi educatori hanno sempre colto che la libertà è la sostanza dell’atto educativo. «L’amore è speculare alla libertà, perché con essa condivide il profilo gratuito, che sa elevarsi al di sopra della logica dell’utilità, nel quale si specchia la condizione umana perché trascendente. Da qui si può partire per riconsiderare l’educazione in tutta la sua impegnativa bellezza».39 L’essenza stessa dell’educazione è la conquista della libertà. La libertà consiste nella capacità di dar corso a pratiche che mostrano nel concreto di oltrepassare la somma dei fattori condizionanti, pur esprimendosi nello spazio e nel tempo. Una risposta concreta al bisogno educativo delle giovani generazioni è data dalla capacità degli adulti di stabilire una comunicazione educativa rispettosa, libera e liberante, così da promuoverne la crescita umana e cristiana.
4.3. Creare reti di alleanze educative
Nessuna delle singole comunità educative è in grado da sola di realizzare un compito arduo quale quello di educare in un tempo di crisi. Da qui l’idea che il primo passo, nella risposta alla sfida educativa posta dal nostro tempo, possa essere un’alleanza tra tutti i soggetti che sono coinvolti nell’educazione dei ragazzi e dei giovani. La complessità dell’azione educativa sollecita i cristiani ad adoperarsi in ogni modo affinché si realizzi «un’alleanza educativa tra tutti coloro che hanno responsabilità in questo delicato ambito della via sociale ed ecclesiale».40 In questa alleanza, la comunità cristiana dovrebbe svolgere un ruolo decisivo per la formazione non solo dei propri operatori pastorali, ma anche degli educatori che operano nelle altre agenzie educative. Ciò comporta un cambiamento di rotta nella comunità, che dovrebbe maggiormente impegnarsi per educare le persone a vivere uno stile di vita autenticamente cristiano – e dunque anche autenticamente umano - nella loro attività civile, professionale e familiare. Ne è profondamente convinto Savagnone: «Una Cfr. C. NANNI, Educarsi per educare. Cristiani a scuola per i giovani, LAS, Roma, 2012, 13. G. MARI, Educazione come sfida della libertà, La Scuola, Brescia, 2013, p. 162. 40 BENEDETTO XVI, Discorso alla 59° Assemblea Generale della CEI, 28 maggio 2009. 38 39
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comunità cristiana così concepita non sarebbe più in funzione del proprio auto-mantenimento, ma si porrebbe al servizio della crescita dei laici nella loro specifica missione laicale. Invece che un luogo autoreferenziale, essa diventerebbe laboratorio dove si riflette, si discute, si fanno proposte sul futuro del territorio».41 Questa indicazione pastorale recepisce un’indicazione degli Orientamenti pastorali: «solo un’educazione che aiuti a penetrare il senso della realtà, valorizzandone tutte le dimensioni, consente di immettervi germi di risurrezione capaci di rendere buona la vita, di superare il ripiegamento su di sé, la frammentazione e il vuoto di senso che affliggono la nostra società».42 Le alleanze tra agenzie educative non sono forme di concessione dell’una rispetto all’altra, ma una modalità ordinaria di un rapporto educativo integrato. È evidente che vanno rispettate le funzioni, gli apporti e le specificità che ciascuna istituzione è chiamata a dare, in modo da raccordare l’educazione di famiglia, scuola, società e altre agenzie educative.43 Risulta necessario agire secondo una progettualità condivisa, almeno nelle linee fondamentali, come espressione creativa e dinamica di un eco-sistema formativo, che può sottrarre al rischio dell’insignificanza e della vicendevole delegittimazione.44
5. Conclusione
Educare, dentro e fuori la Chiesa, è una scelta radicale del cristiano, che coinvolge la sua vocazione. La sua missione è educare in famiglia, nella scuola, nelle associazioni, nelle diverse forme di aggregazione presenti nella società, con la consapevolezza che la sua azione diventa un humus fecondo per la crescita e lo sviluppo umano, culturale e sociale delle nuove generazioni. Va offerto ai giovani il piacere della ricerca e della libertà, soprattutto con l’apporto di adulti che possano loro ridonare la gioia e il gusto della vita. Da qui la necessità di farsene carico in termini di accompagnamento, di presenza, di motivazione, di consigli, o semplicemente di amicizia. Il primo compito degli adulti sta nel convincere i giovani di quanto la loro esistenza sia preziosa, e di distoglierli dai loro surrogati di morte per condurli all’entusia-
G. SAVAGNONE, Laicità e laici nella prospettiva degli Orientamenti pastorali 2010-2020 della Cei, in “Orientamenti Pastorali”, LIX (2011), 1, p. 38. 42 Educare alla vita buona del Vangelo, 6. 43 Cfr. VENTURELLA, Comunità in dialogo, pp. 36-39. 44 Cfr.VENTURELLA, Comunità in dialogo, pp. 36-41. 41
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smante gioco del vivere.45 In questo modo, si può offrire ai ragazzi e ai giovani percorsi alternativi ai miti e alle mode dominanti.46 «Occorre riconsiderare quello che stiamo facendo - con motivazione e generosità - in favore di ragazzi, adolescenti e giovani, affinché, assumendo la libertà come stella polare, diventi effettivamente educativo. Facciamolo anche in favore di noi stessi perché – mentre educhiamo – veniamo a nostra volta educati in quanto la sfida della libertà è sempre davanti a noi anche quando – essendo diventati adulti - l’abbiamo raccolta da tempo».47 In questa prospettiva, non pare fuori luogo interpretare il nostro stare “qui e ora”, in questo mondo e in questo tempo, come un grande gesto di fiducia di Dio nei nostri confronti. Egli, che ci ama da sempre, ci ha chiamati a vivere in questo tempo, tanto difficile quanto sorprendente, in cui possiamo mettere a frutto i talenti che Lui ci ha consegnato. La semina può risultare ancora più copiosa se ci si abbevera alla millenaria tradizione educativa e pedagogica della Chiesa. Così facendo, si può implementare il contributo della fede all’umanizzazione della società e soprattutto di quanti si apprestano a diventare adulti.
Cfr. LE BRETON, Questo non è un mondo per giovani, in “Avvenire”, 6 febbraio 2013. Cfr. SAVAGNONE, Laicità e laici, pp. 39-40. 47 Cfr. MARI, Educazione come sfida della libertà, p. 8. 45 46
Rivista Lasalliana 81 (2014) 3, 357-365
RELATIVISMO ETICO O PLURALISMO CULTURALE?1 GIOVANNI CHIMIRRI (Università dell’Insubria – Varese)
SOMMARIO: 1. Nichilismo pratico come negazione dei valori. – 2. Storicità del relativismo e differenza valore/norma. – 3. Pluralismo dei costumi e sociologia della devianza. – 4. Critica dell’etnografia. – 5. Relativismo e vangelo. – 6. Relativismi buoni e cattivi. – 7. Ineludibilità del giudizio etico. – 8. La sconfitta dell’uomo.
I
1. Nichilismo pratico come negazione dei valori
l nichilismo è un anti-realismo: rifiuto dell’essere che-c’è e che-vale. Ma questo rifiuto non è solo teoretico, ma anche pratico: si delibera che non si vuole l’essere (in generale) e che non si vuole essere-se-stessi come ente, bene, valore, persona, ecc. La supremazia della volontà sull’intelletto e una distorta concezione della libertà umana (individualismo, esistenzialismo ateo, ecc.), costituiscono i motivi principali di quel nichilismo che toglie valore ai valori! I valori riguardano il ciò che di essenziale e di buono l’uomo deve aspirare ad essere; il valore è la preziosità intrinseca di qualcosa; è tutto ciò che è oggetto di apprezzamento, secondo un ordine gerarchico. Sennonché, nel relativismo si decide invece che non c’è più alcuna oggettività e verità; si decide che l’unico apprezzamento del bene è quello dell’utilità immediata del singolo (funzionalismo, egoismo, edonismo, ecc.). Nichilismo e relativismo disprezzano il valore degli enti, delle cose, degli ideali. Ma ogni cosa che esiste ha una sua logica e un suo valore ed è già in qualche modo un bene e quindi un superamento del male e del non-essere. Dato l’essere, ne segue questo o quel valore; negata la consistenza dell’essere nel quale i valori si radicano, segue la de-sostanzializzazione del valore! Senza un’ontologia (dottrina dell’essere) non può darsi alcuna assiologia (dottrina dei valori), come vuole giustamente il beato Rosmini, che ha dedicato tutta l’opera I principi della scienza morale alla deduzione dall’essere di tutti i valori gerarchicamente ordinati.2 CHIMIRRI GIOVANNI, Relativismo morale e teologia del bene, Chirico, Napoli, 2013. Cfr. A. ROSMINI, Etica della verità e dell’amore. Antologia commentata dei “Principi della scienza morale”, Fede & Cultura, Verona, 2011. 1 2
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Scrive R. Guardini: «il nichilismo è il tradimento del valore del bene, allorché viene dissolto e relativizzato sociologicamente, psicologicamente, economicamente».3 Una moderna declinazione del nichilismo è appunto il relativismo etico (= dissoluzione della virtù, per la quale ogni valore vale come l’altro e nessuno può reclamare una maggiore validità)!
2. Storicità del relativismo e differenza valore/norma
Annotiamo di passaggio che il pluralismo culturale/valoriale non è per niente qualcosa di moderno, ma una questione di sempre, essendosi da sempre nella storia i popoli incontrati/scontrati (per migrazioni, commerci, guerre, conquiste, esplorazioni geografiche, missioni religiose, turismo, ecc.). Basti pensare che al tempo della Pentecoste si trovavano a Gerusalemme i Parti, i Medi, gli Elamiti, i Mesopotamici, i Giudei, gli Asiatici, i Frigi, gli Egiziani, i Libici, i Romani, i Cretesi, gli Arabi (Cfr. Atti 2,9-11) e che il re Salomone (tornando più indietro) dovette far costruire diversi altari per le sue varie mogli straniere (Moabite, Ammonite, Idumee, Sidonie, Ittite) seguendole lui stesso nell’adorazione di altre divinità (1Re 11)! Il relativismo si fonda sul presupposto generale che non esiste una verità, ma molte, così che, anche sul piano etico, non esiste un bene riconoscibile da tutti ma solo molti beni parziali. Si pensa comunemente che il relativismo morale sia oggi necessario per l’esistenza delle moderne democrazie, eppure si dimentica che varie Corti Costituzionali, Corti di Cassazione e Dichiarazioni dei diritti (espressioni indubitabili anche queste di democrazia) sono contrarie al relativismo etico. Se non ci sono più beni-in-sé, rimangono e si danno solo parvenze di essere e fenomeni di bene per me, per te, per lui! Non ci sono più né norme e né valori certi, confusi l’uno con l’altro, quando invece il valore è ideale, universale e oggettivo mentre la norma è l’interpretazione particolare del valore in questo o quel contesto storico-sociale. I principi morali sono pressoché stabili, mutevoli invece sono i precetti e le leggi positive volte alla loro pratica attuazione. Un conto, ad esempio, è affermare che “bisogna dire la verità”, e un altro conto sono le situazioni storico-esistenziali che richiedono talvolta la necessità di non dirla, onde evitare cose peggiori. Un conto è l’affermazione del valore “giustizia”, un altro conto è l’individuazione delle istituzioni volte a difenderla e la codificazione delle norme particolari volte ad incarnarla. Secondo il relativismo, le uniche ragioni dell’agire morale e politico, sarebbero date esclusivamente dal sentimento del singolo (D. Hume) e della 3
R. GUARDINI, Etica, Morcelliana, Brescia, 2001, p. 1014.
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sua indifferibile autonomia, da motivi di opportunità, convenzioni e consenso sociale, dalla realizzazione di un utile, da procedure che lasciano da parte la domanda sul “chi è l’uomo”, dagli indirizzi della scienza, da impulsi affettivi, dalla natura umana in se stessa (come se questa non fosse qualcosa che va umanizzato), ecc. Il relativismo comporta anche una malintesa e indiscriminata tolleranza; una razionalità scettica che tende a riguardare positivamente non tanto tutte le diverse convinzioni in gioco, ma soprattutto quelle che sono a loro volta relativizzabili e possono essere messe in discussione, laddove ad esempio le convinzioni riguardanti la fede o la credenza assoluta in un valore, sono posizioni difficilmente scardinabili: danno molto fastidio e sono giudicate come fanatismi dogmatici incompatibili col mondo moderno. Ma il «relativismo morale è un’indebita trasposizione sul piano filosofico del pluralismo culturale che nulla può giudicare ma solo descriverne l’esistenza o al massimo giustificare all’interno di una determinata cultura (questo è il metodo, legittimo, dell’antropologia culturale) [...] La tesi del relativismo etico secondo cui ogni società ha i suoi valori, si traduce nel neutralismo etico e nella giustificazione di ogni costume e di ogni orientamento di valore».4
3. Pluralismo dei costumi e sociologia della devianza
Gli errori dell’umanità e la mutevolezza dei comportamenti, sono i due fatti principali ai quali si richiama il relativismo per affermare che non possono più darsi valori forti, incontrovertibili, universali. Osservava rammaricato B. Pascal: «nulla si vede di giusto o ingiusto che non muti di qualità col mutar del clima. Tre gradi di latitudine sovvertono tutta la giurisprudenza; un meridiano decide la verità; pochi anni di dominio e le leggi fondamentali cambiano. Non c’è alcuna legge universale. Il furto, l’incesto, l’uccisione dei figli e dei padri, tutto ha trovato il proprio posto tra le azioni virtuose [...] Ci sono senza dubbio leggi naturali, ma la ragione corrotta ha corrotto tutto!».5 Ma già il greco Pirrone scriveva: «niente è bello né brutto, niente è giusto né ingiusto, e similmente applicava a tutte le cose il principio che nulla esiF. BELLINO, Per una critica del relativismo, in AA.VV., Fondazione e interpretazione della norma, Morcelliana, Brescia, 1986, pp. 271-272. Tralasciamo dunque il significato positivo di relativismo, nel senso per cui “ogni cosa è relativa ad altre”, non vivendo certo niente isolatamente ed essendo tutto in connessione con tutto. Ma questo significato implicito del relativismo positivo, risulta poi secondario nel relativismo morale, dove si fa prevalere il senso negativo del termine, come mancanza di punti certi di riferimento, come contestazione radicale di ogni valore, come impossibilità di arrivare a qualche vero, ecc. 5 B. PASCAL, Pensieri, opuscoli, lettere, Rusconi, Milano, 1997, p. 486. 4
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ste in verità e sosteneva che tutto ciò che gli uomini fanno, accade per convenzione e per abitudine, e che ogni cosa non è più questo che quello [...] La stessa cosa per alcuni è giusta, per altri è ingiusta; o anche per alcuni è buona, per altri è cattiva. I Persiani non ritengono strana l’unione corporale con una loro figlia, i Greci al contrario la ritengono peccaminosa. I Massageti, come riferisce anche Eudosso, ammettono la comunanza delle donne, mentre i Greci non l’ammettono. I Cilici godevano della pirateria, i Greci no [...] Perciò per natura non esiste il bene o il male»!6 In una gran parte del mondo antico (greci, romani, celti, galli, indù, popoli primitivi, aborigeni australiani) la pederastia era comunemente praticata senza alcuna vergogna o biasimo sociale. Altrove si uccidevano i figli nati ammalati e le femmine non gradite (Grecia e Cina). Una volta erano normali la schiavitù e l’uccisione delle vedove. Un popolo pratica la poligamia (islam) e un altro popolo non la pratica. Certi indiani ed africani, racconta Erodoto, mangiavano i parenti morti, altri no. In certe culture comanda la donna (= matriarcato), in altre non può andare neppure a scuola, guidare un’auto, svolgere certi lavori, giocare a palla, mostrare il viso e i capelli, rimanendo sostanzialmente sottomessa all’uomo. Secondo varie tradizioni (dalla religione greca all’induista, dall’illuminismo all’etica kantiana), il matrimonio non richiede necessariamente il sentimento dell’amore fra i coniugi; oggi, inoltre, è normale stare insieme e fare figli senza alcun legame giuridico. L’omosessualità tra i samurai giapponesi e i guerrieri dorici era normale, come è ritenuta normale oggi in Occidente, dove anzi dichiararsi pubblicamente gay è per molti un vanto, mentre in altri paesi (Afghanistan, Iran, mondo islamico, ecc.) ogni condotta omosessuale è un grave reato contemplante la pena di morte. In vari stati è lecita l’uccisione, il consumo e il commercio di certi animali, in altri stati no. Una volta il prestito di denaro dietro pagamento di interessi era condannato (Dante considera speculatori e usurai peggio degli assassini, collocandoli in un girone infernale più basso), mentre oggi è il fondamento di ogni economia. Presso antiche civiltà precolombiane e mediorientali, i sacrifici umani erano normali, specie bambini, “primizie della vita offerte in dono agli dèi” (pratica diffusa ad esempio tra i Cananei). Gli esquimesi uccidevano i figli che non potevano mantenere. In Virginia (USA) bisogna mostrare un documento che attesti la maggiore età per comprare bevande alcoliche, ma non per comprare un’arma. In Svizzera è vietata la zoofilia mentre in Germania è consentita. La chiesa ha vietato per secoli la cremazione dei cadaveri e vari tipi di danze e di giochi. Molto relativismo è confluito anche nella moderna sociologia, laddove si afferma ad esempio che «la devianza non è un’entità oggettiva, ma ha carat6
Citato da DIOGENE LAERZIO, Vite dei filosofi, vol. 2, Laterza, Bari, 1983, pp. 379-394.
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teri di relatività, attribuibile solo quando un atto è compiuto in determinate circostanze di tempo e di spazio e solo in seguito a processi di definizione formale e informale che lo hanno qualificato come illegale e all’azione di soggetti istituzionalmente preposti o comunque interessati a denunciarne pubblicamente la perpetrazione [...] La devianza non è una proprietà intrinseca ai comportamenti, ma è una proprietà conferita ad essi dalla percezione sociale e dalle norme [...] Tra i comportamenti devianti e no, non ci sono differenze sostanziali per quanto riguarda i bisogni e i valori di riferimento [...] Fenomeni sociali qualificati come patologici sono solo modelli differenti rispetto ad altri modelli [...] per cui è possibile abbattere qualsiasi distinzione assoluta fra devianza e normalità».7
4. Critica dell’etnografia
Teorie e precetti morali validi nel tempo sembrano così non esistere: al massimo, può esistere una semplice “storia delle usanze morali”. Ma, obiettiamo, questa storia, o si riduce ad una mera catalogazione di fatti empirici (= etnografia, ed allora c’interessa poco), oppure è – come deve essere – la ricostruzione di un ideale morale. È certo vero, da un lato, che la storia registra diverse “pratiche morali”; come è certo vero che nel corso della storia l’uomo si è spesso illuso circa la bontà di questo o quel costume o ha spesso sovvertito una corretta gerarchia dei valori. Eppure, tutto questo non impedisce all’uomo di sempre di camminare e progredire verso il bene, condannando il male e sforzandosi di riconoscere l’oggettività delle leggi morali e l’universalità dei principi e dei diritti: pensiamo solo alla libertà di coscienza, al diritto di proprietà, al rispetto della vita (non uccidere) e delle cose altrui (non rubare), alla condanna della menzogna e del tradimento, alla necessità del dare fiducia e onorare gli impegni presi, ecc., pena il regresso ad un mondo incivile e sub-umano!
5. Relativismo e vangelo
Per quando riguarda il versante teologico del relativismo, è stato osservato in generale che l’etica evangelica ha un duplice carattere: da un lato propone dei principi assoluti, degli ideali eterni, dei precetti validi in ogni tempo, come l’esortazione ad imitare la santità di Dio, come il comando della carità, come le virtù fondamentali (umiltà, sincerità, spirito di servizio, purezza del cuore, speranza, fiducia, giustizia, ecc.); e dall’altra parte indica norme/costumi/consigli legati alla situazione storico-sociale, come vari tipi di 7
L. BERZANO – F. PRINA, Sociologia della devianza, Il Mulino, Roma, 2002, pp. 13 e 113-114.
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rinuncia, come l’uso dei beni materiali, come le pratiche di culto, come la famiglia, come i diritti/doveri dei singoli e della comunità, ecc.: ebbene, se questo secondo carattere della morale cristiana non è così vincolante come il primo (avendo una certa dose di relatività storica), non di meno mantiene tutto il suo valore in prospettiva escatologica, cioè come ideale di vita per un’umanità che non è di questo mondo ma che è destinata al regno dei cieli. Tra i due punti estremi di questi caratteri della morale cristiana, rimane tutto quel mondo che Dio ha voluto lasciare in disputa agli uomini per farli partecipare del governo temporale della terra.8 Tutti i codici penali delle moderne società occidentali poi (codici senza i quali esse non potrebbero esistere) non sono altro che la formalizzazione giuridica di principi etici validi da sempre, sebbene anch’essi abbiano relativizzato oggi non pochi reati, depenalizzandoli e riducendoli a semplici “illeciti amministrativi” sanabili con piccole multe (cosa che non agisce certo come deterrente al crimine e che permette ai potenti di continuare a delinquere)!
6. Relativismi buoni e cattivi
R. Boudon, dopo aver distinto vari tipi di relativismo (normativo, cognitivo, scientifico, ecc.) ha giustamente differenziato un relativismo buono da un relativismo cattivo. Il primo «ha attirato l’attenzione sul fatto che le norme e i valori cambiano secondo gli ambienti sociali e le epoche; il secondo ha concluso che le norme e i valori sono sprovvisti di ogni fondamento razionale perché costruzioni ispirate dalle passioni, interessi, istinti [...] Ciò provoca un profondo smarrimento intellettuale, morale e politico, legittimando l’idea che il cittadino sia più sensibile alla seduzione che alla persuasione, al fascino della comunicazione che all’attrattiva della razionalità».9 Una considerazione storica della morale che abbia un senso, dunque, necessita una chiave d’interpretazione, che sono i principi morali che nella storia vediamo ora calpestati ed ora affermati, ora fraintesi ed ora praticati in modi diversi. Ma i fatti della storia non li vediamo perché semplicemente li registriamo, ma li vediamo solo perché siamo in grado di unificarli in un giudizio superiore di verità, siamo in grado di sistemarli in una qualche visione complessiva del mondo (visione che tutti abbiamo).
8 Cfr. A. VALSECCHI, voce “Coscienza”, in Nuovo dizionario di teologia morale, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1999, pp. 197-198. 9 R. BOUDON, Il relativismo, Il Mulino, Bologna, 2009, p. 7 e p. 100.
Relativismo etico o pluralismo culturale?
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Fermarsi davanti ad una pluralità istituzionalizzata e pressoché irrelata di diverse posizioni (etiche, politiche, culturali, ecc.) contrapponentesi, non porta a nulla ed anzi impedisce la semplice convivenza ed avanzamento del genere umano che ha bisogno di un costante discernimento, confronto, dialogo, progresso. La critica civile, la competizione democratica, il giudizio etico, la filosofia, ecc., comportano sempre la condanna degli errori e del male del passato; comportano sempre l’affermazione dei diritti e dei valori imperituri dell’uomo. Al moralista, la storia (in sé) non interessa se non in quanto: a) scorge in essa l’esigenza del bene; b) cerca di risolvere e conciliare la pluralità delle prospettive etico-culturali; c) afferma l’esistenza delle idee (e le idee sono sovra-temporali); d) riconosce ad ogni uomo la sua dignità, libertà, compito, dovere, ecc.; e) tende ad uno scopo supremo e ad un senso ultimo della vita.
7. Ineludibilità del giudizio etico
È davvero impossibile vivere senza valori morali certi: «il valore morale è talmente ineludibile e vincolante, che la sua rimozione può avvenire soltanto in virtù di una sua implicita ri-posizione: come chi nega in assoluto la verità afferma il darsi della medesima, così chi nega il darsi dei valori morali lo fa in nome di una nuova morale ritenuta superiore, quella precisamente che ritiene bene sopprimere ogni norma morale! E la ragione è che l’essere, di cui il valore morale è espressione e in cui esso in ultima istanza si radica, non può essere oggetto di epochizzazione, cioè, oltre a non poter essere negato, non può neppure essere sospeso, senza che venga riproposto in termini di essere. Come chi afferma: “evviva il nulla” lo fa a condizione di affermare, esaltandolo, l’essere del nulla, concepito come un “ente”, così chi afferma “non si danno valori morali” lo fa a condizione di affermare un inedito valore morale».10 Chi osa dubitare della possibilità di una differenza del bene dal male (relativizzandoli nei molteplici usi e costumi avutisi nella storia), non può fare a meno in quell’istante di contraddirsi «quando, sottrattosi a ogni vincolo sociale e raccoltosi nella solitudine della propria coscienza, non potrà neppure meditare senza tener conto di nessuna legge, senza sforzarsi di fare del suo meglio per stabilire a se medesimo la propria dottrina, senza sofismi, senza cavilli che egli si creda in grado di eliminare, per serbare fede alla verità e per non ingannare se stesso. Giacché, se è vero quel che avvertiva Cice-
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A. LAMBERTINO, in AA.VV., Fondazione e interpretazione della norma, op. cit., pp. 67-68.
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STUDI
Giovanni Chimirri
rone, che la giustizia è talmente necessaria che gli stessi briganti possono disprezzare quella dello Stato, ma sentono poi il bisogno di rispettarne una per loro conto, è anche più vero che chi non arriva a rendersi ragione dell’unità spirituale onde la sua persona è accomunata a quella di tutti gli altri, può non riconoscere legge di sorta nei rapporti tra sé e gli altri, ma resterà sempre legato a una legge non meno ferrea nei rapporti che pur dovrà conservare con se stesso».11 Nonostante il relativista sostenga che non esistono criteri certi conoscitivi e che la nostra ragione oscilla perennemente tra un giudizio e l’altro, tuttavia egli è pur costretto dagli avvenimenti quotidiani a giudicare e a prendere decisioni. E per agire fornendo di coerenza tutta la nostra vita, bisogna conoscere con un certo grado di certezza ciò che è giusto o no: lo scetticismo (il dubbio radicale della conoscenza) che sorregge il relativismo, è insostenibile, dogmatico e ideologico. Qualsiasi atto pratico e morale non ha alcuna validità se non è una convinta, lunga, meditata, sofferta ricostruzione personale della verità. Nell’odierna società multiculturale, un’etica razionale e condivisa non sarebbe più possibile, se non all’interno di piccole comunità, che devono tollerare/sopportare l’avanzata di un’“etica minimale” (con pochi contenuti, povera di valori filosofici), e “secolare”! Il relativismo etico si fonda allora sul soggettivismo assiologico per il quale non ci sono più veri valori, ma solo quelli che io/tu/egli crediamo essere tali, e li crediamo poiché non abbiamo alcuna possibilità di dar loro una ragione o un significato religioso che travalichi il piano materiale delle cose. Questo soggettivismo valoriale equivale allo scetticismo sopra nominato, dove essendo tutto più o meno indifferente, tutto è parimenti permesso, tanto che l’«attività del sadico che procura dolore agli altri è sullo stesso piano del medico che procura benessere agli altri»!12 L’uomo non può fare nulla in un mondo in sé e per sé assurdo (= assolutizzazione della contingenza e del divenire), e tutto quello che egli fa per arrangiarsi è determinato solo dal suo carattere e dalla sua cultura, in scelte del tutto individuali ed insindacabili!
8. La sconfitta dell’uomo
Tutte le cose – scriveva Nietzsche – sono benedette da una fonte che sta di là del bene e del male, essendo bene e male solo ombre e nuvole! Su tutte le
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12
G. GENTILE, I fondamenti della filosofia del diritto, Le Lettere, Firenze, 1987, p. 6. S. VACCARI, Il significato dell’esistenza, Adelphi, Pavia, 2002, p. 206.
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cose domina il caso, l’innocenza, la tracotanza, che le libera dal servire-a-qualcosa (= esclusione di una finalità morale dell’agire!).13 In tutte le cose, l’unica cosa impossibile è la razionalità! E sotto sua ispirazione scriverà poco dopo Sartre: «l’uomo è una passione inutile», dove «tutte le attività umane sono votate per principio allo scacco. Così, è la stessa cosa ubriacarsi in solitudine o guidare popoli, e se una di queste attività prevale, non è a causa di uno scopo reale [...] I valori esistono ed hanno la loro sorgente nell’angoscia e nel nulla mediante il quale il mondo esiste»!14
13 14
F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano, 1986, p. 201. J.P. SARTRE, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano, 1997, p. 695.
LA SALLE BIOGRAFIE DI GIOVANNI BATTISTA DE LA SALLE FRÈRE BERNARD Vita di Giovanni Battista de La Salle trad. it. e presentazione di Bruno Bordone, Vercelli 2007, pp. 153 L’autore ha vissuto in comunità con il La Salle ed ha attinto dalla viva voce dei primi Fratelli le testimonianze che trasmette. Più che biografo è un testimone che offre con limpidità il La Salle nella sua veste di fondatore di una comunità di uomini affascinati da un giovane prete e votati a tenere insieme e in associazione le scuole gratuite.
FRANÇOIS-ELIE MAILLEFER Vita di Giovanni Battista de La Salle trad. it. e presentazione di Bruno Bordone, Vercelli 2007, pp. 301 Nipote del La Salle, l’autore scrisse su incarico della famiglia La Salle. Suo scopo è delineare il volto dello zio in tutta la sua autenticità attingendo a fonti sicure e trattandole con competenza. Con esemplare incisività presenta il giovane Jean-Baptiste alla ricerca della sua vocazione, teso a realizzare il piano di Dio tra l’affetto dei suoi figli spirituali e le resistenze di quanti non capivano il valore profetico delle sue scelte.
ELIO D’AURORA Monsieur de La Salle – una fedeltà che vive Editrice A&C, Torino 1984, pp. 275 La vita del La Salle si svolge nell’irriducibile realismo di una società dibattuta da crisi di coscienza, statolatria, ambizioni del potere, sete di ricchezze, necessità di rigenerarsi. La Salle non colloca la sua pedagogia nelle belle lettere, ma nelle arti e nei mestieri, presagendo il travaglio di un rivolgimento politico e sociale che l’Europa stava covando. Nella Francia del Re Sole, tra guerre miserie e pestilenze, ad onta dello splendore del Grand Siècle, La Salle rovesciò le concezioni pedagogiche di una società che nutriva solo disprezzo o falsa pietà per i ceti popolari. D’Aurora mette tutto questo in risalto con una brillante e documentata biografia.
MICHEL FIÉVET Giovanni Battista de La Salle maestro di educatori trad. it. di Serafino Barbaglia, Città nuova, Roma 1997, pp. 190 L’autore è un professore, sposato, che ha collaborato a lungo con i Fratelli scoprendo poco a poco il loro Fondatore. Affascinato dalla personalità del La Salle ne ha approfondito il profilo come santo e come pedagogista, tanto da riuscire a svelare agli stessi Fratelli aspetti inesplorati della fisionomia del loro Padre e Fondatore. •••
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Rivista Lasalliana 81 (2014) 3, 367-388
DIFESA DELLA LIBERTÀ DI SCUOLA DARIO ANTISERI Professore di Metodologia delle Scienze Sociali
SOMMARIO: 1. Messaggio cristiano e desacralizzazione del potere politico. - 2. Quello che l’Occidente deve al Cristianesimo. - 3. La “rivoluzione cristiana” è stata la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuto. - 4. Káysar non è Kýrios. - 5. La grande tradizione del cattolicesimo liberale. - 6. Grandi pensatori a difesa della libertà di scuola. - 7. Il principio di sussidiarietà. - 8. La competizione come la più alta forma di collaborazione. - 9. Il monopolio statale dell’istruzione è negazione di libertà, viola la giustizia sociale, genera inefficienza, accarezza l’irresponsabilità, fa lievitare i costi. - 10. Milton Friedman propone l’idea di buono-scuola. - 11. Friedrich A. von Hayek si trova d’accordo con Milton Friedman. - 12. Perché va combattuta l’idea di «convenzione». - 13. Obiezioni contro il buono-scuola (e repliche alle obiezioni). - 14. Luigi Sturzo e la difesa della scuola libera. - 15. Perché Sturzo ammirava Maria Montessori.
I
1. Messaggio cristiano e desacralizzazione del potere politico
l 26 novembre del 2003, su «Il Giornale», l’allora cardinale Ratzinger, intervistato da Antonio Socci, affronta alcuni temi presenti nel libro Fede, verità, tolleranza (2003) e ritorna, tra l’altro, sulla questione del relativismo. Chiede Socci: «C’è una novità nel suo libro a proposito del relativismo. Lei sostiene che nella pratica politica, il relativismo è benvenuto perché ci vaccina, diciamo, dalla tentazione utopica. È il giudizio che la Chiesa ha sempre dato sulla politica?». Ratzinger risponde: «Direi proprio di sì. È questa una delle novità essenziali del cristianesimo per la storia. Perché fino a Cristo l’identificazione di religione e stato, divinità e stato, era quasi necessaria per dare stabilità allo stato. Poi l’islam ritorna a questa identificazione tra mondo politico e religioso, col pensiero che solo con il potere politico si può anche moralizzare l’umanità. In realtà, da Cristo stesso troviamo subito la posizione contraria: Dio non è di questo mondo, non ha legioni, così dice Cristo, Stalin dice non ha divisioni. Non ha un potere mondano, attira l’umanità a sé non con un potere esterno, politico, militare ma solo col potere della verità che convince, dell’amore che attrae. Egli dice “attirerò tutti a me”. Ma lo dice proprio dalla croce. E così crea questa distinzione tra imperatore e Dio, tra il mondo dell’imperatore al quale conviene lealtà, ma una lealtà critica, e il mondo di Dio, che è assoluto. Mentre non è assoluto lo stato». È per decreto religioso che, per il cristiano, lo stato non è tutto, lo
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stato non è l’assoluto. E all’intervistatore che fa presente che «questo è uno straordinario punto di incontro tra il pensiero cristiano e cultura liberaldemocratica», Ratzinger replica: «Io penso che la visione liberal-democratica non potesse nascere senza questo avvenimento cristiano che ha diviso i due mondi, così creando una nuova libertà. Lo stato è importante, si deve ubbidire alle leggi, ma non è l’ultimo potere. La distinzione tra lo stato e la realtà divina crea lo spazio di una libertà in cui una persona può anche opporsi allo stato. I martiri sono una testimonianza per questa limitazione del potere assoluto dello stato. Così è nata una storia di libertà. Anche se poi il pensiero liberal-democratico ha preso le sue strade, l’origine è proprio questa».
2. Quello che l’Occidente deve al Cristianesimo
È un pensatore laico come Karl Popper a porre l’attenzione sul valore che la tradizione cristiana attribuisce alla coscienza di ogni uomo e di ogni donna. Per un umanitario, e soprattutto per un cristiano, egli scrive ne La società aperta e i suoi nemici, «non esiste uomo che sia più importante di un altro uomo». E «riconosco - egli aggiunge - che gran parte dei nostri scopi e fini occidentali, come l’umanitarismo, la libertà, l’uguaglianza, li dobbiamo all’influsso del cristianesimo […] Il solo atteggiamento razionale e il solo atteggiamento cristiano anche nei confronti della storia della libertà è che siamo noi stessi responsabili di essa, allo stesso modo che siamo responsabili di ciò che facciamo delle nostre vite e soltanto la nostra coscienza, e non il nostro successo mondano, può giudicarci […] Il metro del successo storico appare incompatibile con lo spirito del cristianesimo […] I primi cristiani ritenevano che è la coscienza che deve giudicare il potere e non viceversa». E ancora la coscienza di ogni singola persona, unita con l’altruismo, «è diventata - scrive Popper - la base della nostra civiltà occidentale. È la dottrina centrale del Cristianesimo (“ama il prossimo tuo”, dice la Scrittura, e non “ama la tua tribù”) ed è il nucleo vivo di tutte le dottrine etiche che sono scaturite dalla nostra civiltà e l’hanno alimentata. È anche, per esempio, la dottrina etica centrale di Kant (“devi sempre riconoscere che gli individui umani sono fini e che non devi mai usarli come meri mezzi ai tuoi fini”). Non c’è alcun altro pensiero che abbia avuto tanta influenza nello sviluppo morale dell’uomo».
3. La “rivoluzione cristiana” è stata la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuto
E, prima di Popper, Benedetto Croce. «Il cristianesimo - egli scrive nel noto saggio del 1942 Perché non possiamo non dirci cristiani - è stato la più
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grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta: così grande, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi, che non meraviglia che sia apparso o possa ancora apparire un miracolo, una rivoluzione dall’alto, un diretto intervento di Dio nelle cose umane, che da lui hanno ricevuto legge e indirizzo affatto nuovo». Tutte le altre rivoluzioni e tutte le maggiori scoperte che segnano gli sviluppi della storia umana - prosegue Croce - rispetto alla rivoluzione cristiana appaiono particolari e limitate: «Tutte, non escluse quelle che la Grecia fece della poesia, dell’arte, della filosofia, della libertà politica, e Roma del diritto: per non parlare delle più remote della scrittura, della matematica, della scienza astronomica, della medicina, e di quanto altro si deve all’Oriente e all’Egitto». E c’è di più, poiché «le rivoluzioni e le scoperte che seguirono nei tempi moderni, in quanto non furono particolari e limitate al modo delle loro precedenti antiche, ma investirono tutto l’uomo, l’anima stessa dell’uomo, non si possono pensare senza la rivoluzione cristiana, in relazione di dipendenza da lei, a cui spetta il prima perché l’impulso originario fu e perdura il suo». Dunque: il cristianesimo è stata la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuto. E «la ragione di ciò è che la rivoluzione cristiana operò nel centro dell’anima, nella coscienza morale, e, conferendo risalto all’intimo e al proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fin allora era mancata all’umanità. Gli uomini, i geni, gli eroi, che furono innanzi al cristianesimo, compierono azioni stupende, opere bellissime, e ci trasmisero un ricchissimo tesoro di forme, di pensieri e di esperienze; ma in tutti essi si desidera quel proprio accento che noi accomuna ed affratella, e che il cristianesimo ha dato esso solo alla vita umana».
4. Káysar non è Kýrios
Nel 112 d.C. Plinio il giovane, governatore della Bitinia, invia un resoconto all’imperatore Traiano, dove gli notifica di aver condannato a morte tutti quei cristiani che si erano rifiutati di adorare Cesare come Signore (Kýrios Káysar) e di maledire Cristo (Anáthema Christós). Con il messaggio cristiano aveva fatto irruzione nel mondo l’idea che il potere politico non è il padrone della coscienza degli individui, ma che è la coscienza di ogni uomo e di ogni donna a giudicare il potere politico. Per il cristiano solo Dio è il Signore, l’Assoluto. Lo Stato non è l’Assoluto: Káysar non è Kýrios. E con ciò il potere politico veniva desacralizzato, l’ordine mondano relativizzato e le richieste di Cesare sottoposte al giudizio di legittimità da parte di coscienze inviolabili, di persone “fatte ad immagine e somiglianza di Dio”. La Grecia ha passato all’Europa l’idea di ragione come discussione critica, ma non fu la Grecia a passare all’Europa i suoi déi. Questi, come ha scrit-
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to Giovanni Reale, erano già stati resi vani dai filosofi a cominciare dai presocratici. Il Dio delle popolazioni europee è il Dio della Bibbia e del Vangelo, il Dio giudaico-cristiano: il Dio che desacralizza il mondo e così, come sostiene Max Scheler, lo rende disponibile alla manipolazione e all’indagine scientifica in una misura prima impensabile; il Dio che desacralizza il potere politico offrendo così all’Occidente le basi di una prospettiva non teocratica; il Dio che rende sacra e inviolabile la persona libera e responsabile con il conseguente ridimensionamento dell’ordine politico. Per queste ragioni e non solo per queste ragioni - è davvero impossibile dar torto a Thomas S. Eliot allorché scrive che «se il cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura. E allora si dovranno attraversare molti secoli di barbarie». Il messaggio cristiano libera l’uomo dall’idolatria: il cristiano non può attribuire assolutezza e perfezione a nessuna cosa umana. È, dunque, per decreto religioso che lo Stato non è tutto, non è l’Assoluto. E sia con la dissacrazione di Cesare, vale a dire dell’assolutizzazione del potere politico, sia con il valore dato alla libera e responsabile coscienza di ogni persona, il cristianesimo ha creato, a livello politico, una tensione che attraversa tutta la storia dell’Occidente. Si tratta, infatti, di idee ed ideali che, pur tra tentazioni “teocratiche” o rifiuti “satanocratici” del potere politico, hanno esercitato, nell’evoluzione storica, una pressione a volte travolgente sull’elemento mondano antitetico.
5. La grande tradizione del cattolicesimo liberale
È esattamente in questo orizzonte che va presa in considerazione la grande tradizione del cattolicesimo liberale. Tralasciando qui il contributo della Scuola francescana del Trecento e quello ancor più influente della Tardo-scolastica spagnola del Seicento, c’è da dire che dell’Ottocento la figura più prestigiosa del pensiero liberale cattolico è quella di Alexis de Tocqueville (1805-1859): «Ciò che, ai miei occhi caratterizza i socialisti di tutti i colori è un tentativo continuo, vario, incessante, per mutilare, per raccorciare, per molestare in tutti i modi la libertà umana; è l’idea che lo Stato non debba soltanto essere il direttore della società, ma debba essere, per così dire, il padrone di ogni uomo; il suo padrone, il suo precettore, il suo pedagogo […]; in una parola, è la confisca, in un grado più o meno grande, della libertà umana». Insieme a Tocqueville, un altro cattolico francese, Fédéric Bastiat (18011850): «Allorché si sarà ammesso in via di principio che lo Stato ha l’incarico di operare in modo fraterno in favore dei cittadini, si vedranno tutti i cittadini trasformarsi in postulanti [...] Il tesoro pubblico sarà letteralmente saccheggiato. Ciascuno troverà buone ragioni per dimostrare che la fraternità legale deve essere intesa in questo senso: “I vantaggi per me ed i costi per gli
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altri [...]”. Lo sforzo di tutti tenderà a strappare alla legislazione un lembo di privilegio fraterno». Sempre nell’Ottocento, in Italia, tra altri cattolici liberali, Antonio Rosmini (1797-1855): «La proprietà costituisce una sfera intorno alla persona, di cui la persona è il centro; nella quale sfera niun altro può entrare». E poi nel Novecento Wilhelrn Röpke (1898-1966): «Il liberalismo non è [...] nella sua essenza un abbandono del Cristianesimo; bensì è il suo legittimo figlio spirituale [...] Il liberale diffida di ogni accumulazione di potere, perché sa che di ogni potere, che non viene tenuto nei suoi limiti da contrappesi, si fa presto o tardi abuso». Luigi Einaudi (1874-1961): «Il grande merito dei governi liberali in confronto a quelli tirannici sta appunto nel fatto che nei regimi di libertà discussione e azione procedono attraverso il metodo dei tentativi e degli errori. Trial and error è l’emblema della superiorità dei metodi di libertà su quelli di tirannia. Il tiranno non ha dubbi e procede diritto per la sua via; ma la via conduce il Paese al disastro». Luigi Sturzo (1871-1959): «La mia difesa della libera iniziativa è basata sulla convinzione scientifica che l’economia di Stato non solo è anti-economica ma comprime la libertà e per giunta riesce meno utile, o più dannosa, secondo i casi, al benessere sociale». Cattolici liberali dei nostri giorni sono, per tacere di altri, negli Stati Uniti, Robert Sirico e Michael Novak; in Francia, Jean-Yves Naudet e Jacques Garello; in Italia, don Angelo Tosato. Padre Robert Sirico: «Se, come avvenuto negli ultimi vent’anni, la Chiesa alla ricerca della verità, ha potuto dialogare coi pensatori influenzati da Marx, allora forse è maturo il tempo perché si apra il dialogo con il liberalismo classico». Michael Novak: «La democrazia politica [...] è compatibile solo con un’economia di mercato»; «L’unione di capitalismo e democrazia non porterà il regno dei Cieli sulla Terra; ma, per liberare i poveri dalla miseria e dalla tirannia e per dar spazio alla loro creatività, il capitalismo e la democrazia possono fare molto di più di quanto sia in potere di tutte le altre alternative esistenti». Jean-Yves Naudet: «L’inefficienza dei regimi di socialismo reale proveniva dal rifiuto di riconoscere la natura dell’uomo e i suoi diritti, a cominciare da quello di perseguire il proprio fine personale, e ancora dal diritto di proprietà o dal diritto di iniziativa economica». Jacques Garello: «Coniugando liberalismo e cattolicesimo, l’Occidente ritrova e ritroverà il suo equilibrio intellettuale, morale e spirituale». Don Angelo Tosato: «Se per “capitalismo” si intende [...] onesta ricerca del benessere personale, familiare e collettivo, e più ancora un sistema che dia a
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tutti la facoltà di esercitare liberamente e proficuamente la propria capacità in campo economico, allora il rapporto col cristianesimo non può che essere di sintonia e di collaborazione».
6. Grandi pensatori a difesa della libertà di scuola
Il nucleo fondamentale del pensiero cattolico liberale è la difesa della inviolabilità, libertà, responsabilità della persona umana, di ogni singola persona. Ora, la domanda che qui ci poniamo è la seguente: il monopolio (o quasi-monopolio) statale dell’istruzione garantisce inviolabilità, libertà e responsabilità della persona umana o ne è, piuttosto, la negazione, la soppressione? Ancor più chiaramente: lo Stato di diritto può avanzare la pretesa del monopolio statale nella gestione della scuola? È più che opportuno riflettere sulle risposte che a tali nevralgiche questioni hanno dato grandi pensatori i quali – pur da differenti prospettive – convergono tutti sulla necessità della libertà di insegnamento. Alexis de Tocqueville: «[...] voglio che si possa organizzare accanto all’università una seria concorrenza. Lo voglio perché lo richiede lo spirito generale di tutte le nostre istituzioni; lo voglio anche perché sono convinto che l’istruzione, come tutte le cose, ha bisogno, per perfezionarsi, vivificarsi, rigenerarsi all’occorrenza, dello stimolo della concorrenza». Antonio Rosmini: «I padri di famiglia hanno dalla natura e non dalla legge civile il diritto di scegliere per maestri ed educatori della loro prole quelle persone, nelle quali ripongono maggiore confidenza». John Stuart Mill: «Le obiezioni che vengono giustamente mosse all’educazione di Stato non si applicano alla proposta che lo Stato renda obbligatoria l’istruzione, ma che si prenda carico di dirigerla: che è una questione completamente diversa». Bertrand Russell: «Lo Stato è giustificato nella sua insistenza perché i bambini vengano istruiti, ma non è giustificato nel pretendere che la loro istruzione proceda su un piano uniforme e miri alla produzione di una squallida uniformità». Gaetano Salvemini: «Dalla concorrenza delle scuole private, le scuole pubbliche – purché stiano sempre in guardia, e siano spinte dalla concorrenza a migliorarsi, e non pretendano neghittosamente eliminare con espedienti legali la concorrenza stessa – hanno tutto da guadagnare e nulla da perdere». Antonio Gramsci: «Noi socialisti dobbiamo essere propugnatori della scuola libera, della scuola lasciata all’iniziativa privata e ai Comuni». Luigi Einaudi: «In ogni tempo, attraverso tentativi ed errori ognora rinnovati, abbandonati e ripresi, le nuove generazioni accorreranno di volta in volta alle scuole le quali avranno saputo conquistarsi reputazione più alta di studi severi e di dottrina sicura».
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Luigi Sturzo: «Ogni scuola, quale che sia l’ente che la mantenga, deve poter dare i suoi diplomi non in nome della repubblica, ma in nome della propria autorità [...]». Karl R. Popper, ne La società aperta e i suoi nemici, scrive: «Io senza esitazione credo che compito dello Stato sia quello di vigilare affinché ai suoi cittadini sia data un’educazione che li abiliti a partecipare alla vita della comunità e di mettere in opera tutti i mezzi che promuovono lo sviluppo dei loro particolari interessi e talenti; e lo Stato dovrebbe anche provvedere [...] a che le insufficienti disponibilità finanziarie del singoli non impediscano loro l’accesso agli studi superiori [...]. L’interesse dello Stato non dev’essere invocato a cuor leggero per difendere misure che possono mettere in pericolo la più preziosa di tutte le forme di libertà, cioè la libertà intellettuale».
7. Il principio di sussidiarietà
Le basi teoriche della libertà di insegnamento sono da rintracciare nel principio di sussidiarietà e nel principio della competizione. «Gli americani di tutte le età, condizioni e tendenze, si associano di continuo. Non soltanto possiedono associazioni commerciali e industriali, di cui tutti fanno parte, ne hanno anche di mille altre specie: religiose, morali, grandi e futili, generali e specifiche, vastissime e ristrette. Gli Americani si associano per fare feste, fondare seminari, costruire alberghi, innalzare chiese, diffondere libri, inviare missionari agli antipodi; creano in questo modo ospedali, prigioni, scuole. Dappertutto, ove alla testa di una nuova istituzione vedete, in Francia, il governo, state sicuri di vedere negli Stati Uniti un’associazione». È così che Alexis de Tocqueville, ne La democrazia in America, descrive il funzionamento, nella vita sociale, di quel principio che in seguito verrà chiamato «principio di sussidiarietà». Tale principio – autentico baluardo a difesa della libertà degli individui e dei «corpi intermedi» nei confronti delle pretese onnivore dello statalismo – trova una formulazione, ormai diventata classica, nell’Enciclica Quadragesimo anno (1931) di Pio XI, dove, al paragrafo 8°, si dice che «siccome non è lecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno ed uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle». Siffatto principio di sussidiarietà, successivamente ripreso in altre Encicliche papali e in documenti ufficiali della Chiesa – basti richiamare la Pacem
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in Terris (1963) di Giovanni XXIII o la Centesimus Annus (1991) di papa Wojtyla – era stato già formulato da Rosmini nella Filosofia della politica, dove leggiamo che «il governo civile opera contro il suo mandato, quand’egli si mette in concorrenza con i cittadini, o colla società ch’essi stringono insieme per ottenere qualche utilità speciale; molto più quando, vietando tali imprese agli individui e alle loro società, ne riserva a sé il monopolio». In breve: lo Stato «faccia quello che i cittadini non possono fare». È questo, dunque, il principio di sussidiarietà orizzontale ben diverso dall’altra formulazione che porta il nome di sussidiarietà verticale dove, per esempio, si dice che la Regione farà quello che non fa lo Stato, la Provincia farà quello che non fa la Regione, e i Comuni e le aree metropolitane faranno quello che non fa la Provincia. E qui è chiaro che, se il principio di sussidiarietà verticale non viene esplicitamente coniugato con quello di sussidiarietà orizzontale, si cade in modo inequivocabile in una più subdola e pericolosa forma di statalismo celebrata nella formula: ciò che non fa il pubblico lo fa il pubblico. Ma è proprio contro ogni forma di oppressione nei confronti della libertà, responsabilità, spirito di iniziativa dei singoli e delle associazioni spontanee che è stato difeso il principio di sussidiarietà orizzontale e ovviamente non solo dai cattolici. La Filosofia della politica di Rosmini è del 1838. Undici anni più tardi, nel 1849, J.S. Mill pubblica On Liberty, ben consapevole che «i mali cominciano quando invece di fare appello alle energie e alle iniziative di individui e associazioni, il governo si sostituisce ad essi; quando invece di informare, consigliare e, all’occasione, denunciare, e imporre dei vincoli, ordina loro di tenersi in disparte, e agisce in loro vece». Su questa linea si sono mossi i grandi liberali del nostro secolo: Carl Menger, Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek e Karl Popper, tra gli altri. Scrive Hayek: «È totalmente estranea ai princìpi base di una società libera l’idea secondo la quale tutto ciò di cui il pubblico ha bisogno debba essere soddisfatto da organizzazioni obbligatorie». Il vero liberale, ad avviso di Hayek, deve auspicare il maggior numero possibile di associazioni volontarie, di quelle organizzazioni «che il falso individualismo di Rousseau e la Rivoluzione francese vollero sopprimere». E, infine, Karl Popper: «Io sostengo che una delle caratteristiche della società aperta è di tenere in gran conto, oltre alla forma democratica di governo, la libertà di associazione e di proteggere e anche di incoraggiare la formazione di sotto-società libere, ciascuna delle quali possa sostenere differenti opinioni e credenze».
8. La competizione come la più alta forma di collaborazione
Interconnesso con il principio di sussidiarietà è il principio di competizione. Come, tra altri, ha insegnato Karl Popper, la scienza avanza attraverso la più severa competizione tra idee; progredisce da problemi a problemi sempre
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più profondi sulla strada delle congetture e delle confutazioni. «La mia concezione del metodo della scienza è semplicemente questa: esso sistematizza il metodo prescientifico dell’imparare dai nostri errori: lo sistematizza grazie allo strumento che si chiama discussione critica. Tutta la mia concezione del metodo scientifico si può riassumere dicendo che esso consiste di questi tre passi:
1) inciampiamo in qualche problema; 2) tentiamo di risolverlo, ad esempio proponendo qualche nuova teoria; 3) impariamo dai nostri sbagli, specialmente da quelli che ci sono resi presenti dalla discussione critica dei nostri tentativi di risoluzione. O, per dirla in tre parole: problemi-teorie-critiche. Credo che in queste tre parole problemi-teorie-critiche, si possa riassumere tutto quanto il modo di procedere della scienza razionale». Questo scrive Popper nel saggio Problemi, scopi e responsabilità della scienza. D’altra parte, il metodo scientifico trova nelle regole della democrazia il suo analogo nella vita sociale. Anche la democrazia è una competizione tra progetti politici, tra proposte di soluzione di problemi. E la libera economia è competizione di merci e servizi sul mercato. È il principio della competizione, dunque, a costituire l’anima della scienza, della democrazia e dell’economia di mercato. La competizione è la più alta forma di collaborazione.
9. Il monopolio statale dell’istruzione è negazione di libertà, viola la giustizia sociale, genera inefficienza, accarezza l’irresponsabilità, fa lievitare i costi
Una cosa deve essere chiara: chi difende la scuola libera non è contrario alla scuola di Stato, non vuole abolire la Scuola di Stato. Chi difende la libertà di scuola è semplicemente contrario al monopolio statale dell’istruzione. E non è un caso che nelle Costituzioni dei Paesi che si sono liberati dal comunismo (Ungheria, Croazia, Bulgaria, Estonia, ecc.) sia stata stabilita, senza possibilità di equivoci, la libertà di scuola. La scuola di Stato è un patrimonio che va salvato. La scuola di Stato è ciò che abbiamo. Essa è malata: malata di statalismo. E questa malattia va guarita tramite dosi di competizione. Quanti difendono il monopolio statale dell’istruzione non aiutano la scuola di Stato a sollevarsi dalla crisi in cui versa. La competizione aiuta a migliorare sia le scuole statali che quelle non statali. Nessuna scuola sarà mai uguale all’altra – un preside più attivo, una segretaria più operosa, insegnanti più preparati, ecc., bastano a fare la differenza. Ma se nessuna scuola sarà mai uguale all’altra, tutte potranno migliorarsi attraverso la competizione. In breve, la nostra convinzione è che soltan-
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to tramite la competizione tra scuola e scuola che si può sperare di salvare la nostra scuola: la scuola statale e quella non-statale. La realtà è che, è bene ripeterlo, il monopolio statale dell’istruzione è la vera, acuta, pervasiva malattia della scuola italiana. Il monopolio statale nella gestione dell’istruzione è negazione di libertà; è in contrasto con la giustizia sociale; devasta l’efficienza della scuola, favorendo l’irresponsabilità di studenti ed insegnanti. Il monopolio statale dell’istruzione è negazione di libertà: unicamente l’esistenza della scuola libera garantisce alle famiglie delle reali alternative sia sul piano dell’indirizzo culturale e dei valori che sul piano della qualità e del contenuto dell’insegnamento. Il monopolio statale dell’istruzione viola le più basilari regole della giustizia sociale: le famiglie che iscrivono il proprio figlio alla scuola non statale pagano due volte; la prima volta con le imposte – per un servizio di cui non usufruiscono – e una seconda volta con la retta da corrispondere alla scuola non statale. Il monopolio statale dell’istruzione devasta l’efficienza della scuola: la mancanza di competizione tra istituzioni scolastiche trasforma queste ultime in nicchie ecologiche protette e comporta di conseguenza, in genere, irresponsabilità, inefficienza e aumento dei costi. La questione è quindi come introdurre la logica di mercato nel sistema scolastico, fermo restando che ci sono due vincoli da rispettare: l’obbligatorietà e la gratuità dell’istruzione.
10. Milton Friedman propone l’idea di buono-scuola
È la riflessione attenta sui danni prodotti dal monopolio statale dell’istruzione che induce a pensare a quella terapia consistente nella proposta della introduzione della competizione all’interno del sistema scolastico italiano. E qui diciamo subito che le soluzioni che potrebbero riequilibrare le sorti della scuola italiana in senso conforme alle regole del mercato – in modo da migliorarne i rendimenti e moralizzarne i comportamenti, già soltanto introducendo dosi incrementali di libera competizione – sono due: una radicale, il buono-scuola, l’altra di valore quanto meno «terapeutico», il credito di imposta. È al premio Nobel per l’economia (1976) Milton Friedman che dobbiamo l’esplicita formulazione dell’idea di buono-scuola. Scrive dunque Friedman: «Una società stabile e democratica è impossibile senza un certo grado di alfabetismo e di conoscenze da parte della maggioranza dei cittadini e senza una diffusa accettazione di alcuni complessi comuni di valori. L’educazione può contribuire a entrambi questi aspetti. Di conseguenza, il guadagno che un bambino ricava dall’educazione non ridonda solo a vantaggio del bambino stesso o dei suoi genitori, ma anche a vantaggio degli altri
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membri della società. L’educazione di mio figlio contribuisce anche al vostro benessere contribuendo a promuovere una società stabile e democratica. Non è possibile identificare quali siano i singoli (o le famiglie) che ne beneficiano e, quindi, addossare ad essi gli oneri specifici per i servizi resi. Ci troviamo, quindi, di fronte ad un importante caso di “effetto indotto”. Quale genere di intervento pubblico risulta giustificato da questo particolare effetto indotto? Il più ovvio è quello di assicurare che ogni bambino riceva una data quantità di servizio scolastico di un certo tipo [...] I governi potrebbero imporre un livello minimo di scolarità e assicurarne il funzionamento concedendo ai genitori dei titoli di credito rimborsabili per una determinata somma massima annua per ciascun figlio qualora fosse spesa per servizi scolastici “approvati”. I genitori in tal caso sarebbero liberi di spendere questa somma, e ogni altra somma addizionale di tasca propria, per l’acquisto di servizi scolastici da un istituto di loro propria scelta, ma “approvato” dalla pubblica autorità. I servizi scolastici potrebbero in tal modo essere forniti da imprese private gestite a fini di profitto o da istituzioni senza scopo di lucro. Il ruolo del governo, in tal caso, sarebbe soltanto quello di assicurare che le scuole soddisfino a certi requisiti minimi, come, ad esempio, la inclusione nei loro programmi di un contenuto comune minimo, allo stesso modo, per esempio, che ora il governo provvede alla sorveglianza sui ristoranti per garantire che essi rispettino gli standard sanitari minimi fissati dalle autorità».
11. Friedrich A. von Hayek si trova d’accordo con Milton Friedman
Ne La società libera Friedrich August von Hayek, anch’egli premio Nobel per l’economia (1974), afferma: «Non solo le ragioni in contrario all’amministrazione pubblica della scuola appaiono oggi più che mai giustificate, ma sono scomparse gran parte delle ragioni che in passato avrebbero potuto essere addotte in favore. Qualunque cosa possa essere stata allora vera, oggi con le tradizioni e le istituzioni dell’educazione universale solidamente stabilite e con i moderni mezzi di trasporto che risolvono gran parte delle difficoltà dovute alle distanze, è indubbio che non è più necessario che lo stato non solo finanzi l’educazione ma direttamente vi provveda». E qui richiamandosi esattamente al saggio di Friedman del 1955, The Role of Government in Education, Hayek propone che «si potrebbe benissimo provvedere alle spese per l’istruzione generale, attingendo alla borsa pubblica, senza che debba essere lo Stato a mantenere le scuole, dando ai genitori dei buoni che coprano le spese dell’istruzione di ciascun ragazzo, buoni da consegnare alla scuola di loro scelta». Hayek prosegue: «Si potrebbe anche auspicare che lo Stato provveda direttamente alle scuole in alcune comunità
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isolate dove, perché possano esistere scuole private, il numero dei ragazzi è troppo basso (e il costo medio dell’istruzione pertanto troppo alto). Ma nei confronti della grande maggioranza della popolazione, sarebbe senza dubbio possibile lasciare l’intera organizzazione e amministrazione dell’istruzione agli sforzi privati, mentre da parte sua lo Stato dovrebbe semplicemente provvedere al finanziamento di base e a garantire uno standard minimo per tutte le scuole in cui potrebbero essere spesi i suddetti buoni. Un altro dei grandi vantaggi di questo piano sarebbe che i genitori non si troverebbero più davanti all’alternativa o di dover accettare qualsiasi tipo di istruzione fornita dallo Stato o di pagare di tasca propria il prezzo di un’istruzione un po’ più cara; e se scegliessero una scuola diversa da quelle comuni, dovrebbero pagare solo un costo addizionale».
12. Perché va combattuta l’idea di «convenzione»
Quella che va combattuta è l’idea di convenzione – idea abbracciata a destra, anche al centro, e soprattutto a sinistra; e pure da buona parte del mondo cattolico. La verità è che la convenzione mette sin dall’inizio tutte le scuole libere, in maniera totale, nelle mani dello Stato o della Regione: cioè nelle mani dei partiti e dei burocrati. La convenzione equivale – lo si voglia o meno – alla creazione di centri produttori di clientes. Con la convenzione (sovvenzioni, pagamenti degli stipendi ai professori, e simili misure) si dà vita non ad un sistema concorrenziale, ma ad un sistema spartitorio, consociativo e collusivo. La realtà è che: chi paga compra. Beneficium accipere, libertatern est vendere. La convenzione strappa la scuola dalle mani delle famiglie per renderla preda delle brame di burocrati politicizzati. La convenzione elimina la competizione. Qui non si vogliono mettere in discussione le buone intenzioni e l’onestà di quanti sostengono la convenzione. Solo che di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno. Quella della convenzione è la via dell’asservimento totale della scuola. Le scuole libere, ai nostri giorni, sono unicamente libere di morire. Si capisce, pertanto, che chi sta rischiando la scomparsa, invochi un po’ di ossigeno e si rifugi nella richiesta della convenzione. Tutto ciò è comprensibile. E, tuttavia, non dovremmo mai stancarci di ripetere, sinché avremo forza, che la convenzione è il colpo finale alla libertà della scuola. E, allora, sarebbe forse più dignitoso morire in piedi, piuttosto che sopravvivere da accattoni ricattabili. La verità è che il tipo di finanziamento della scuola libera non è indifferente per l’autentica libertà della scuola. Il buono-scuola equivale alla scuola libera; il credito di imposta introduce serie misure di competizione all’interno del sistema scolastico italiano; la convenzione rende statali pure quelle poche scuole libere che il nostro Paese può ancora vantare.
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13. Obiezioni contro il buono-scuola (e repliche alle obiezioni)
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Con il buono-scuola, dunque, i fondi statali – sotto forma di “buoni” non negoziabili (vouchers) – andrebbero non alla scuola ma ai genitori o comunque agli studenti aventi diritto, i quali sarebbero liberi di scegliere presso quale scuola spendere il buono in questione. Il valore del buono-scuola si determina dal rapporto fra ciò che lo Stato spende attualmente per un dato tipo di scuola e il numero degli studenti che frequenta quel dato tipo di scuola. Il buono-scuola amplia la libertà delle famiglie; rende più efficienti – tramite la concorrenza – la scuola statale e quella non statale; è una carta di liberazione per le famiglie meno abbienti. La proposta del buono-scuola è la proposta di una giusta terapia per le malattie della scuola italiana. È una terapia che non è né di destra né di sinistra. È una buona idea, una soluzione ragionevole di un problema urgente. Se un idraulico ripara una fogna che si è rotta, la riparazione è di destra o di sinistra? Se un chirurgo conduce a buon porto una difficile operazione, non ha alcun senso chiedersi se il suo lavoro sia di destra o di sinistra. È così, allora, che ragionevoli «uomini di sinistra» e ragionevoli «uomini di destra» hanno proposto e difeso l’idea di buono-scuola esattamente quale adeguata soluzione di un problema urgente. E sarebbe forse tempo di farla finita con l’idea che è buono tutto e solo ciò che è pubblico; che è pubblico solo ciò che è statale; che è statale tutto quello che può essere preda dei partiti. E dobbiamo chiederci: svolge un migliore servizio pubblico una scuola statale inefficiente oppure una scuola non statale ben funzionante, meno costosa, più efficiente? È «più pubblica» una scuola non statale efficiente ovvero una scuola statale improduttiva e sciupona? Ma ecco la prima obiezione contro la proposta del buono-scuola: la scuola è un settore strategico, dunque non può venire lasciata al «mercato». A costoro replichiamo in modo deciso e secco: proprio perché la scuola è un settore strategico, essa va gestita con le regole del mercato, mettendo in competizione scuole statali e scuole non statali. E aggiungiamo: niente è più necessario del pane – quello del pane è sicuramente un settore strategico –, eppure noi abbiamo il pane buono ogni mattina, per la ragione che se un forno ci servisse male noi avremmo la possibilità di servirci da un altro fornaio. Adam Smith docet. Ed è così che la competizione è la più alta forma di collaborazione. Altra obiezione – abbracciata da più parti – è che, in regime di buonoscuola, poche famiglie sarebbero in grado di scegliere la scuola adeguata per i loro figli. Tale presa di posizione è un affronto alla democrazia (elettori a diciotto anni, tanti italiani – uomini e donne – sarebbero, ancora più avanti negli anni – incapaci di far la migliore scelta per la scuola dei propri figli).
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Ed è un’idea falsa, nella generalità dei casi: anche nei paesi più sperduti della nostra Penisola, pure la mamma meno colta e il padre più distratto sanno qual è la maestra più brava, più disponibile, più umana; e sanno quali sono i docenti più validi della locale scuola media; e vanno dal direttore didattico o dal preside a chiedere e ad insistere perché il loro figlio o la loro figliola venga iscritta in una sezione piuttosto che in un’altra. L’interesse è sorgente di energia per la cattura delle informazioni. In ogni caso, se un genitore sbaglia, sbaglia per suo figlio; i politici possono sbagliare per intere generazioni. La verità è che le scuole statali serie non hanno nulla da temere dall’introduzione del buono-scuola. Temono la concorrenza le scuole poco serie – siano esse statali o non statali – e tutti coloro che atterriti alla sola idea di dover competere con scuole magari meglio organizzate e in cui operano colleghi più preparati, preferirebbero evitare qualsiasi confronto e soprattutto il giudizio degli utenti. All’obiezione secondo cui la competizione, introdotta nel sistema scolastico, avrebbe come esito la negazione dell’eguaglianza, di scuole uguali per tutti, c’è da replicare che nessuna scuola è e sarà mai uguale all’altra – un preside più attivo, professori più preparati, una segreteria più efficiente, ecc. fanno la differenza. Nessuna scuola è o sarà mai uguale all’altra; ma tutte le scuole, quelle statali e quelle non statali, possono migliorare sotto lo stimolo della competizione. C’è poi in giro un anticlericalismo becero e fuor di luogo e fuor di tempo, in base al quale non si vuole la scuola libera perché questa sarebbe «la scuola dei preti». Posizioni del genere non meritano neppure di essere discusse e la verità è che quei pochi cattolici che lottano per la scuola libera non lottano solo per la loro scuola, lottano per la più ampia libertà di insegnamento. E a quanti sostengono che le scuole di orientamento confessionale non debbono esistere perché sarebbero fabbriche di intolleranza, va semplicemente ricordato che la verità sta nel contrario: proibire e soffocare le differenze può essere – come ha affermato non molto tempo fa l’arcivescovo di Parigi, card. Lustiger – la prima causa della loro violenta esplosione. In Germania esistono scuole neutre e scuole confessionali, protestanti e cattoliche. Le diversità di visioni del mondo e di valori scelti sono l’essenza della società aperta. Proibire le scuole di orientamento confessionale o comunque farle morire per mancanza di fondi equivale alla negazione della società aperta. La società aperta è chiusa solo agli intolleranti. Di conseguenza, non esistono ragioni per proibire le scuole di orientamento confessionale, se queste si inseriscono nel quadro dei valori della nostra Costituzione: tolleranza, antirazzismo, solidarietà, ecc. Negare la presenza delle scuole di orientamento confessionale significa distruggere l’esistenza di pezzi della nostra migliore storia e proibire svilup-
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pi futuri di questa. E qui è più che opportuno far presente che, per esempio, in Belgio accanto a scuole libere di orientamento cattolico e protestante, troviamo anche istituti gestiti da autorità religiose ebraiche ed islamiche; e scuole induiste ed islamiche sono in funzione nei Paesi Bassi. E le cose non si fermano qui, giacché si aggiunge che le scuole ad orientamento confessionale sarebbero – quasi ex definitione – centri di formazione acritica. Dunque, per esempio, la “scuola cattolica” consisterebbe di professori dogmatici e studenti acritici. Tutto questo sulla base dell’idea che un credente non può che essere acritico. Non c’è bisogno di richiamare Max Scheler per venire a conoscenza del fatto che, per esempio, una fede cristiana consapevole favorisce e potenzia menti critiche. Basterà qui richiamare il fatto che Newton era cristiano, che lo fu Kant, e prima di loro lo furono Cartesio e Pascal. Dunque: Cartesio Pascal, Newton e Kant – tutti acritici perché cristiani? Acritici: Agostino, Tommaso, Scoto, Ockham? E davvero critici gli statalisti anticlericali? Hilary Putman è un ebreo osservante: anch’egli, dunque, vittima dell’indottrinamento e mente acritica, sprofondato nel più bieco dogmatismo e un pericolo per la democrazia? I laicisti dovrebbero essere più attenti e meno dogmatici e meno acritici nei loro pronunciamenti e nelle loro scomuniche. Il laicismo, subito coniugato con lo statalismo, contrasta con la prospettiva laica della concezione liberale. Il laico non è un laicista. E un laicista non è un vero liberale. Lo Stato liberale, cioè laico, non ha un agnosticismo da privilegiare o da imporre. L’agnosticismo – che poi si impasta con il rifiuto di ogni fede rivelata – è una concezione filosofica che, in una autentica società aperta, convive con altre concezioni filosofiche e religiose della vita – è una concezione rispettabile, ma non può pretendere di essere onnivora, di ergersi a «religione di Stato», e a giudice inappellabile di altre scelte di concezioni della vita, non può porgersi come unica prospettiva del sistema scolastico, e presumere di cancellare da questo sistema quello che secoli di storia hanno costruito e ci hanno tramandato: le visioni religiose della vita e della storia - orizzonti di senso e di valori entro i quali spendere la vita. Un sistema scolastico che al suo interno non favorisce l’istituzione di scuole ad orientamento religioso proibisce lo sviluppo delle diverse identità; è frutto di menti indottrinate e dogmatiche cariche di clericalismo rovesciato. Si ripete, sempre da più parti, che le scuole private – e segnatamente quelle cattoliche – sarebbero «luoghi di indottrinamento», a differenza delle scuole statali viste come centri di costruzione di menti critiche. È chiaro che siamo di fronte ad una accusa generica e genericamente infamante. Insegnanti critici si trovano in scuole statali e in scuole non statali; così come guarnigioni di insegnanti dogmatici si trovano in scuole statali e non statali. Solo che dagli insegnanti dogmatici delle scuole statali, le famiglie, che non hanno la
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possibilità di mandare i propri figli in altre scuole, non possono facilmente difendersi. E che il dogmatismo abbia costituito una malattia grave di tanti docenti, soprattutto negli anni passati, è testimoniato dalla estesa diffusione di non pochi libri di testo – per esempio, di filosofia, letteratura, storia – non costruiti di certo da menti scientifiche, aperte, capaci di dubbi e problematiche, libri di testo che non hanno sicuramente contribuito a formare menti critiche. Altra obiezione, questa volta da parte di un noto giurista italiano: la Scuola deve rimanere saldamente e totalmente nelle mani dello Stato a motivo del fatto che è soltanto la scuola pubblica in grado di garantire la formazione del cittadino. Ed ecco la replica di Angelo M. Petroni: «La tesi è semplicemente falsa sul piano descrittivo (qualcuno può pensare che il cittadino inglese formato ad Eton sia peggiore del cittadino italiano formato nel migliore Liceo statale italiano?). Ma evidentemente è ancora più inaccettabile sul piano dei valori liberali. Dietro di essa vi è l’eterna idea dello Stato etico, di uno Stato che ha il diritto di formare le menti dei propri cittadini/sudditi, sottraendo i giovani alle comunità naturali e volontarie, prime tra le quali quella della famiglia». L’introduzione del buono-scuola attuerebbe l’unica soluzione compatibile con le regole di una democrazia libera: la possibilità di scegliere tra scuole diverse quella più affine alle proprie convinzioni culturali, filosofiche e religiose. Solo la varietà, diversità e pluralità delle scuole possono garantire la libertà, che viceversa è negata dalla unicità del sistema scolastico, compagna ineliminabile del finanziamento pubblico.
14. Luigi Sturzo e la difesa della scuola libera
Coraggioso e acuto difensore della competizione nel sistema scolastico, cioè della scuola libera, è stato don Luigi Sturzo. Si riportano, di seguito, alcune sue prese di posizione. - Nel luglio del 1947 su «Sophia» e sul n. 7 di «Idea» Sturzo pubblica un articolo riguardante La libertà della scuola. Qui, con acume e preveggenza impressionanti Sturzo pone il dito su di una piaga che da quei giorni non si è più rimarginata. Leggiamo: «L’eredità fascista nel campo della scuola è stata disastrosa come in campo militare e politico. Il monopolio statale fu completo; la scuola privata credette giovarsi delle concessioni e dei favori che pagò con la perdita di ogni libertà didattica e funzionale». Dunque: per salvare la scuola è necessario, urgente, cambiare rotta; sennonché – egli annota – «il disorientamento persiste, e le linee sostanziali tracciate dagli articoli 27 e 29 della Costituzione (che poi diventarono gli articoli 33 e 34 del testo costituzionale), invece di fissare una chiara direttiva accettabile, con il loro pesante impaccio legislativo ne aggravarono la crisi».
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Un giorno un amico di Sturzo, colpito dalle aspre critiche di costui nei confronti della scuola monopolizzata dello Stato, chiese quali fossero le sue proposte per riformarla. E la sua risposta fu «di aprire le finestre e fare entrare una buona corrente d’aria di libertà, altrimenti vi si morirà asfissiati». Certo, Sturzo ben conosceva le radici e le ragioni della scuola di Stato in Italia. Egli non intendeva minimamente proporne l’abolizione. Voleva soltanto che il sistema scolastico venisse riformato «senza improvvisazione e con sani criteri didattici e sociali». Ma il punto principale era, a suo avviso, «quello dell’orientamento dell’opinione pubblica verso la libertà scolastica e contro il monopolio di Stato». Tutto ciò nella convinzione che «finché la scuola in Italia non sarà libera, neppure gl’italiani saranno liberi: essi saranno servi, servi dello Stato, del partito, delle organizzazioni pubbliche e private di ogni specie [...]. La scuola vera, libera, gioiosa, piena di entusiasmi giovanili, sviluppata in un ambiente adatto, con insegnanti impegnati alla nobile funzione di educatori, non può germogliare nell’atmosfera pesante creata dal monopolio burocratico statale». - Sull’«Illustrazione italiana» del 12 febbraio del 1950 Sturzo affronta (con un articolo dal titolo: Scuola e diplomi) la questione dei diplomi – del pezzo di carta, del titolo rilasciato dallo Stato, visto come talismano in grado «di aprire le porte dell’impiego stabile». Sturzo è deciso: «Occorre capovolgere la situazione: sia lo studio, non il diploma ad aprire le porte dell’impiego». Ed ecco la sua proposta: «Ogni scuola, quale che sia l’ente che la mantenga, deve poter dare i suoi diplomi non in nome della repubblica, ma in nome della propria autorità: sia la scoletta elementare di Pachino o di Tradate, sia l’università di Padova o di Bologna, il titolo vale la scuola. Se una tale scuola ha una fama riconosciuta, una tradizione rispettabile, una personalità nota nella provincia o nella nazione, anche nell’ambito internazionale, il suo diploma sarà ricercato, se, invece, è una delle tante, il suo diploma sarà uno dei tanti». Sturzo, inoltre, si poneva il problema degli insegnanti, e proponeva che sia le scuole statali che quelle non statali avessero «il diritto di partecipare alla scelta dei professori» – giacché altrimenti si dovrebbe dire che le scuole siano esclusivamente in funzione degli insegnanti. - La direzione dell’«Illustrazione italiana», nel pubblicare l’articolo di Sturzo, espresse in una nota alcune riserve. Sturzo, allora, inviò al giornale una lettera in cui precisava che le sue idee sulla libertà di scuola erano note sin da prima della fondazione del partito popolare e che egli l’aveva difesa nei quattro anni del suo segretariato politico «quando alla Camera furono contrastati i tre disegni di legge scolastica proposti da Croce, da Corbino e da Anile». E aggiungeva che le sue esperienze inglese, olandese, svizzera, belga e americana dal 1924 al 1946 «sono state posteriori, e sono servite a confermarmi nell’idea che solo la libertà può salvare la scuola in Italia».
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E poi: «La storia del “confessionalismo scolastico” che si avvantaggerebbe della “libertà”, fa pendant con quella del “comunismo” che si avvantaggia della libertà, o del “laicismo” che si avvantaggia della libertà. Bisogna scegliere o la libertà con tutti i suoi “inconvenienti” ovvero lo statalismo con tutte le sue “oppressività”. Io ho scelto la libertà fin dai miei giovani anni, e tento di potere scendere nella tomba senza averla mai tradita. Perciò ho combattuto in tutti i campi, e non solo in quello scolastico, lo “statalismo”, sia quello pre-fascista, sia quello fascista, e combatto oggi lo statalismo post-fascista, del quale parecchi dei miei amici, bongré, malgré, si sono fatti garanti. L’intolleranza scolastica dei laicisti è sostanziata dalla presunzione che essi difendono la libertà: mentre la libertà non è monopolio di nessuno. Il monopolio scolastico dello stato è sostanziato da una presunzione che solo lo stato sia capace di creare una scuola degna del nome; mentre non è riuscito che a burocratizzarla e fossilizzarla. In sostanza, non c’è libertà dove c’è intolleranza e dove c’è monopolio. Questa è la triste situazione italiana». Lo era nel 1950. E lo è, disgraziatamente, anche oggi. - Il sofisma della libertà appare su «La via» del 23 settembre del 1950. Qui Sturzo contesta le equazioni laiciste stando alle quali «scuola-di-stato uguale libertà d’insegnamento: scuola privata uguale privazione della libertà di insegnamento». In questa sede riveste tuttavia grande rilevanza la lettera che lo stesso giorno, a completamento dell’articolo, don Sturzo invia all’on. Guido Gonella, allora ministro della Pubblica istruzione: «Caro Gonella, ho letto articolo per articolo il progetto di riforma scolastica e, mentre apprezzo l’enorme lavoro compiuto e lo sforzo di dare ordine all’attuale sistema scolastico, ho parecchi dubbi, non poche perplessità e persino delle serie obiezioni. Forse, partendo da criteri diversi e da esperienze diverse, non troviamo il terreno comune di intesa in materia così grave e complessa. Mi rendo conto che tu non sei libero di attuare un tuo ordinamento e sei vincolato da tutto il sistema burocratico che opprime la scuola statale, e che tende a rendere soggetta allo stato la scuola non statale e tutte le iniziative culturali e assistenziali della scuola. Io combatto lo statalismo, malattia che va sempre più sviluppandosi nei paesi cosiddetti democratici, che in Italia (come in Francia) toglie respiro e movimento alla scuola. Siamo arrivati a questo, che quella piccola e contrastata partecipazione civica nell’ordinamento della scuola (comune e provincia) che era nell’Italia pre-fascista, non ha più posto neppure nel tuo progetto, e che le poche attribuzioni date dalla costituzione alla regione sono, nel tuo progetto, regolamentate e soverchiate con l’ingerenza burocratica del ministero e degli ispettorati regionali (violando, perfino, i diritti delle regio-
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ni a statuto speciale). Non ti dico quale disappunto per me leggere le disposizioni che riguardano l’insegnamento privato. Un italiano andato in America, mi scriveva scandalizzato che là non c’è un ministero della pubblica istruzione. Gli risposi, a giro di posta, che, perciò, l’americano è un popolo libero e l’italiano no. Comprendo bene che l’Italia, senza lo stato (e il suo ministero della pubblica istruzione) sarebbe senza scuole sufficienti per una popolazione così densa e così povera; perciò bisogna rassegnarsi alla scuola di stato, come il minor male, evitando, però, che resti così accentrata, burocratizzata e monopolizzata come l’abbiamo ereditata dai fascisti e come, purtroppo, sembra che venga tramandata (auspice la democrazia cristiana) ai nostri posteri».
15. Perché Sturzo ammirava Maria Montessori
Il 6 maggio del 1952 si spegneva a Noordwjck, in Olanda, Maria Montessori. Nel giugno dello stesso anno, ancora su «La via», viene pubblicato un articolo di Luigi Sturzo intitolato Ricordando Maria Montessori. «1907: ero da due anni sindaco di Caltagirone. La scuola mi interessava più di ogni altro ramo dell’amministrazione: non invano avevo insegnato per dodici anni al seminario vescovile, ed avevo già fatte le prime battaglie per la libertà della scuola. Le mie gite a Roma erano frequenti allora, sia per l’associazione nazionale dei comuni, della quale ero consigliere; sia per gli affari del mio comune; così mi capitò di incontrare presso amici la dottoressa Montessori che mi invitò a visitare la sua scuola nel quartiere S. Lorenzo. Sapevo che sospetti di naturalismo avevano ostacolato l’iniziativa; dopo un lungo colloquio decisi di visitare le scuole e rendermi conto del tipo di scuola e delle ragioni del metodo. Andai più volte a S. Lorenzo; il mio interessamento si accrebbe di volta in volta; e Maria Montessori non dimenticò mai il piccolo prete che per primo aveva preso diretto interesse alla sua iniziativa, l’aveva incoraggiata, ed aveva affermato che nessuna pregiudiziale anticristiana fosse alla base di quell’insegnamento; cosa che poteva essere introdotta in questo e in altri metodi da maestri non credenti. Da quel periodo iniziale non ebbi occasione di rivedere la Montessori che più tardi, in qualche sua sosta a Roma, dopo la fine della prima guerra mondiale, con rapidi incontri per conoscere i progressi delle sue molteplici iniziative. Poscia a Londra, il giorno di S. Luigi 21 giugno del 1925, in una casa religiosa di Fulham Road, mi vedo portare nella mia stanzetta, un bel mazzo di garofani bianchi: erano della Montessori ed io ignoravo ch’ella fosse nella stessa città. Mi si fece viva in un giorno a me caro: in un’ora di forte nostalgia, quando lontano dalla sorella e dagli amici, mi venivano in mente le care feste dell’onomastico, in un paese dove l’onomastico non si ricorda e di amici a Londra non ne segnavo allora che pochi, anzi pochissimi. Così ci rivedem-
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Dario Antiseri
mo; e si parlò dell’Italia, soprattutto dell’Italia, e delle vicende nostre e dello sviluppo del metodo Montessori nel mondo, e dei piani del futuro e ricordammo la visita del prete caltagironese alla scoletta di S. Lorenzo. L’alone di simpatia e di fiducia che circondarono le varie iniziative all’estero della Montessori e la diffusione del suo metodo, il premio Nobel, tutto servì a far mettere in prima linea nel mondo la figura di questa italiana. La confrontavo con un’altra italiana, maestrina, fondatrice di ordine religioso, allora beata e poscia santa Francesca Saverio Cabrini, che l’America del nord stima sua concittadina, e che ha fama anche presso il mondo protestante. L’avevo conosciuta anch’essa personalmente, dieci anni prima di aver conosciuto la Montessori, proprio per il mio interessamento alle scuole infantili ed elementari, nel desiderio di avere a Caltagirone una casa delle figlie missionarie del S. Cuore da lei fondate; così come avevo desiderato aprirvi una scuola Montessori. Le mie iniziative fallirono allora, l’una e l’altra per mancanza di soggetti. Mi son più volte domandato perché da quarantacinque anni ad oggi, il metodo Montessori non sia stato diffuso nelle scuole italiane. Allora come oggi, debbo dare la stessa risposta: si tratta di vizio organico del nostro insegnamento: manca la libertà; si vuole l’uniformità; quella imposta da burocrati e sanzionata da politici. Manca anche l’interessamento pubblico ai problemi scolastici; alla loro tecnica, all’adattamento dei metodi, alle moderne esigenze. Forse c’è di più: una diffidenza verso lo spirito di libertà e di autonomia della persona umana, che è alla base del metodo Montessori. Si parla tanto di libertà e di difesa della libertà; ma si è addirittura soffocati dallo spirito vincolistico di ogni attività associata dove mette mano lo Stato; dalla economia che precipita nel dirigismo, alla politica che marcia verso la partitocrazia, alla scuola che è monopolizzata dallo Stato e di conseguenza burocratizzata».
ALUNNI DEL SISTEMA NAZIONALE DI ISTRUZIONE (anno scolastico 2012-13) Totale* % su ultima colonna Scuole statali* % Scuole paritarie* % Scuole cattoliche** %
Infanzia 1.686.095 18,8 1.014.142 60,1 642.040 38,1 426.749 66,5
Primaria 2.825.400 31,6 2.574.660 91,1 190.608 6,7 154.137 80,9
Sec. I grado Sec. II grado 1.779.758 2.652.448 19,9 29,7 1.673.564 2.475.273 94,0 93,3 69.833 133.922 3,9 5,0 62.437 59.674 89,4 44,6
Totale 8.943.701 100,0 7.737.639 86,5 1.036.403 11,6 702.997 67,8
* Dati Miur.
** Elaborazione Centro Studi per su dati Miur provvisori.
N.B. Le percentuali delle scuole statali e paritarie sono calcolate sul totale del rispettivo ordine e grado; le percentuali delle scuole cattoliche sono calcolate sulle rispettive scuole paritarie. Il totale degli alunni non corrisponde alla somma delle scuole statali e paritarie in quanto alcuni frequentano scuole non paritarie non comprese nella tavola.
FINANZIAMENTI STATALI AL SISTEMA NAZIONALE DI ISTRUZIONE Scuola statale (dati Eurydice)
Finanziamento totale alle scuole statali Costo allo Stato in media per alunno di scuola statale Scuola paritaria (dati Miur) Cap. 1477 (erogato marzo 2013) Cap. 1299 (erogato febbraio 2014) Finanziamento statale totale alle scuole paritarie Costo allo Stato in media per alunno di scuola paritaria
(previsioni di bilancio giugno 2013) € 40.596.307.956 € 5.246,60 (anno finanziario 2013) € 275.928.558 € 223.000.000 € 498.928.558 € 481,40
FINANZIAMENTO PUBBLICO ALLE SCUOLE NON STATALI IN EUROPA Belgio:
Gli stipendi di tutto il personale sono a carico dello Stato.
Francia:
Sono possibili quattro alternative: a) integrazione amministrativa, con tutte le spese a carico dello Stato; b) contratto di associazione, con spese di funzionamento e per i docenti a carico dello Stato, a condizione che i docenti abbiano gli stessi titoli dei colleghi statali; c) contratto semplice, con spese per il solo personale docente a carico dello Stato; d) contratto di massima libertà, che non prevede alcun contributo.
Germania:
Sono a carico dello Stato e delle Regioni (Länder) lo stipendio dei docenti (85%), gli oneri previdenziali (90%), le spese di funzionamento (10%) e la manutenzione degli immobili (100%).
Inghilterra:
Nelle maintained school sono a carico dello Stato tutti gli stipendi e le spese di funzionamento, oltre all’85% delle spese di costruzione.
Irlanda:
Le spese di costruzione degli immobili sono a carico dello Stato: in misura completa per le scuole dell’obbligo; per l’88% nelle scuole superiori.
Lussemburgo: Sono a carico dello Stato tutte le spese. Olanda:
Sono a carico dello Stato tutte le spese nella scuola dell’obbligo; sono forniti sussidi per la costruzione e il funzionamento delle scuole superiori.
Portogallo:
È erogato dallo Stato l’equivalente del costo medio di un alunno di scuola statale.
Spagna:
Sono a carico dello Stato tutte le spese.
(Fonte: Agesc 2012)
Rivista Lasalliana 81 (2014) 3, 389-398
GENDER E SFIDA EDUCATIVA
GIUSEPPE MARI Ordinario di Pedagogia generale (Università Cattolica del Sacro Cuore) SOMMARIO: 1. Origini e significato della “Gender Theory”. - 2. L'incongruenza della “Gender Theory” rispetto all’antropologia. - 3. L’insufficienza culturale della teoria del Gender. 4. La risemantizzazione delle identità maschile e femminile. - 5. Educazione sessuale e sfida pedagogica. - 6. Gender e omosessualità.
Negli ultimi tempi accade frequentemente di incontrare un termine inglese a cui non eravamo abituati, ma che è destinato ad occupare stabilmente le cronache, almeno fino a quando non ci sarà una sufficiente presa di coscienza in merito al suo significato ideologico.1 In questo breve intervento, dopo averne richiamato i tratti salienti, vorrei mettere a fuoco la sfida educativa connessa al Gender e prospettarne il superamento correlato alla risemantizzazione dei profili maschile e femminile. Evidentemente si tratta di questioni di profonda rilevanza per quanto concerne l’educazione.
L
1. Origini e significato della “Gender Theory”
a “Gender Theory” ha sullo sfondo – in particolare – due vettori culturali, con peculiarità proprie, ma accomunati dalla medesima aspirazione emancipazionista. Il primo è costituito dalle lotte in favore dei diritti civili condotte negli USA con lo scopo di superare la segregazione razziale ossia la discriminazione alimentata dai pregiudizi circa l’inferiorità delle appartenenze etniche minoritarie, soprattutto quella di colore, rispetto al prevalente gruppo “wasp”(white/anglo-saxon/protestant – bianco/anglosassone/protestante). Il termine, a cui occorre prestare attenzione, è “discriminazione” perché costituisce il punto di convergenza con l’altro vettore culturale – prevalente europeo, almeno nei suoi inizi – quello relativo alla emancipazione femminile. La saldatura tra i due indirizzi è avvenuta attraCfr., fra i testi tradotti in italiano: J. Lorber, L’invenzione dei sessi, Milano, Il Saggiatore, 1995, che offre una panoramica efficace della “Gender Theory”.
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verso la “Contestazione” ossia il passaggio culturale che – tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta – ha messo in discussione la società tradizionale e ha introdotto in un nuovo orizzonte di civiltà, quello in cui ci troviamo oggi. In particolare, è stata la cosiddetta “rivoluzione sessuale”2 a riscrivere l’immaginario pubblico e privato nel momento in cui l’istituzione che da tempo reggeva l’ordine sociale – la famiglia come nucleo generato dal matrimonio tra un uomo e una donna – è diventata il bersaglio privilegiato di una campagna (fortemente sostenuta dai media) che le ha attribuito la responsabilità principale circa la perpetuazione delle discriminazioni: quella razziale collegata all’accettazione dell’“ordine sociale” basato sull’esistenza del padrone e del servo, quella femminile collegata all’accettazione dell’“ordine culturale” basato sull’esistenza del “capo famiglia” e della “donna di casa”. Sul piano ideologico un ruolo fondamentale l’ha giocato la concezione marxista della storia che, interpretando l’esistente alla luce della “lotta di classe”, ha introdotto in una prospettiva secondo cui la differenza è conseguente alla discriminazione e postula la contrapposizione conflittuale per essere risolta e restituita all’equità. Questo tipo di approccio è confermato dalla logica di “sospetto” con cui gli autori della “Gender Theory” affrontano l’argomento, pienamente convinti di quello che scrive J. Butler ossia che “Il genere è una norma che viene creata a servizio di altri tipi di regola”.3 Come respingere ed evitare tutto questo? La via d’uscita è stata identificata nella cancellazione della differenza stessa e questo ha condotto alla “Gender Theory” odierna. Infatti, la prospettiva con cui facciamo i conti, muove da una aspirazione chiara (e condivisibile): togliere di mezzo la discriminazione tra uomo e donna. Sennonché questa meta è perseguita attraverso la cancellazione della differenza tra uomo e donna (il cosiddetto “Politically Correct”) che risulta devastante sui piani antropologico, culturale e pedagogico. È su questo che intendo ora portare l’attenzione.
2. L’incongruenza della “Gender Theory” rispetto all’antropologia
La teoria del Gender mira a rimuovere qualunque discriminazione tra uomo e donna attraverso la cancellazione della differenza tra “maschile” e
Cfr. il volume di W. Reich La rivoluzione sessuale, risalente agli anni Trenta, ma pubblicato in Italia nel 1972 (Milano, Feltrinelli). Sono stati rilevanti, in ordine a questa tematica, i cosiddetti “Rapporti Kinsey” (Il comportamento sessuale dell’uomo, 1948; Il comportamento sessuale della donna, 1953) tradotti in italiano: Milano, Bompiani, 1955. 3 J. Butler, La disfatta del genere, Roma, Meltemi, 2006, p. 81. 2
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“femminile”. Questa infatti viene ricondotta, per un verso, alla distinzione anatomo/fisiologica (“Sex”); per l’altro, alla conseguenza di pratiche/convenzioni socioculturali (“Gender”). Il primo significato è considerato obiettivo, ma ovviamente irrilevante per quanto concerne gli orientamenti eticopedagogici in quanto risponde al mero criterio della funzionalità; il secondo – ri(con)ducendo tutto alla convenzione – permette di mettere tutto in discussione senza riconoscere che vi sia alcunché di originario, per questa stessa ragione: orientativo. Si tratta di una strategia coerente: se tutto può essere messo in discussione, allora anche le prassi discriminatorie sono suscettibili di critica e di una ridefinizione che le porti a mutare. Ma il prezzo da pagare? C’è congruenza tra questa aspirazione e la cancellazione di qualunque significato originario dell’essere maschio o femmina che vada oltre la pura descrizione del “Sex”? La cosa appare tanto più sorprendente se facciamo caso a questo. La specie umana è l’unica specie animale che si interroga sul significato (e sul correlato valore) di ciò che la riguarda. Già Aristotele, riflettendo sulla peculiarità della parola umana rispetto al linguaggio animale, nota che la prima non si limita – come il secondo – a corrispondere alla percezione di piacere oppure sofferenza perché valuta l’azione e la situazione corrispondenti: infatti, la parola “bene” può essere associata anche ad una situazione che genera sofferenza se è valutata positivamente esattamente come la parola “male” può essere associata anche a una situazione che genera piacere se viene valutata negativamente.4 Possibile che, per quanto concerne il nostro profilo sessuato, dobbiamo abbracciare una disposizione avalutativa? Sarebbe in piena controtendenza rispetto a ciò che ci identifica e che – di fronte alle cose – ci porta a domandare perché? e non soltanto come? C’è poi almeno un’altra considerazione da fare. L’essere umano è strutturalmente relazionale e il pensiero filosofico – soprattutto nel XX secolo – lo Aristotele, in proposito, afferma: “la voce indica quel che è doloroso e gioioso e pertanto l’hanno anche gli altri animali (e, in effetti, fin qui giunge la loro natura, di avere la sensazione di quanto è doloroso e gioioso, e di indicarselo a vicenda), ma la parola è fatta per esprimere ciò che è giovevole e ciò che è nocivo e, di conseguenza, il giusto e l’ingiusto: questo è, infatti, proprio dell’uomo rispetto agli altri animali, di avere, egli solo, la percezione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto e degli altri valori” (Politica, I, 2, 1253a 10-20). Secoli dopo, A. Schopenhauer riprende il concetto in questi termini: “La voce degli animali serve soltanto a esprimere la volontà nei suoi eccitamenti e movimenti; invece la voce umana serve a esprimere anche la conoscenza” (Sul mestiere dello scrittore e sullo stile, Milano, Adelphi, 1993, p. 125). Analoga riflessione troviamo in E. Cassirer: “l’analisi del linguaggio mostra (...) che ogni espressione linguistica, lungi dall’essere una mera copia del mondo della sensazione o dell’intuizione che ci è dato, racchiude, invece, in sé un carattere determinato di ‘significazione’” (Filosofia delle forme simboliche, Firenze, La Nuova Italia, 1961, vol. I, p. 51). 4
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ha declinato secondo svariate modalità. Ne parlano – benché in modo diverso – sia la concezione cristiana attraverso il concetto di persona sia quella esistenzialistica relativamente al nesso Io-Tu sia quella marxista quando analizza il collettivo sia quella liberale quando – riconoscendo l’esistenza della comune natura umana – codifica i diritti dell’uomo… Qual è l’esigenza implicitamente contenuta nel riconoscimento della relazione interpersonale, cioè del rapporto tra l’identità e l’alterità? Che ci sia differenza perché la relazione – per essere riconosciuta e praticata – postula il rifiuto della indifferenza. Ma è precisamente quest’ultima ciò che viene tematizzato nella “Gender Theory” attraverso il “Politically Correct”: che ci sia indifferenza tra l’essere maschio e l’essere femmina – una profonda contraddizione rispetto a quanto ci connota strutturalmente –. Stando così le cose, è essenziale procedere ad una revisione che persegua l’obiettivo della rimozione della discriminazione basata sull’essere maschio e sull’essere femmina in modo diametralmente opposto rispetto alla teoria del Gender la cui incongruenza rispetto alla realtà ne mostra il carattere ideologico. Più avanti riprendo questa riflessione, ora proseguo mettendo sul tappeto un’argomentazione culturale tesa a confutare in radice la lettura che la “Gender Theory” fornisce dei profili sessuali.
3. L’insufficienza culturale della teoria del Gender
La “Gender Theory” sostiene che – a parte il significato anatomo/fisiologico dell’essere maschio e dell’essere femmina – nulla si può dire sul dimorfismo sessuale che non dipenda da una convenzione socioculturale. Se le cose stessero così, è vero che sarebbe destituita di credibilità qualunque teoria/prassi discriminatoria (in quanto costitutivamente rinegoziabile), ma sarebbe altrettanto vero che diventerebbe impossibile fondare la pratica educativa su riferimenti credibili, senza contare – l’ho considerato all’interno del paragrafo precedente – che l’indifferenza andrebbe contro la strutturale relazionalità dell’essere umano. Ritengo tuttavia che sia discutibile proprio l’assunto di fondo, secondo cui non ci sarebbe – per quanto attiene alle identità maschile e femminile – alcun significato metaculturale. Sostengo questa convinzione attraverso un’argomentazione ricavata dall’antropologia culturale. Lo studio delle tradizioni culturali correlate alle mitologie antiche fa incontrare frequentemente un mito delle origini che ricorre in culture molto diverse. Si tratta della riconduzione dell’origine della vita all’incontro tra la Terra-Madre e il Cielo-Padre, di cui permane una traccia linguistica – sia nelle lingue latine che in quelle nordiche, per quanto concerne la tradizione europea – riconoscibile nel fatto che generalmente il termine “terra” è femminile, mentre il vocabolo “cielo” è maschile. Che cosa hanno fatto i nostri lontani antenati quando hanno elaborato que-
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sto tipo di spiegazione? Hanno dato una lettura simbolica del loro essere sessuati come maschi e come femmine. Infatti, tra l’accadere della copula tra uomo e donna, e l’esistere – fianco a fianco – di terra e cielo non c’è nulla di simile sul piano descrittivo. L’affinità è riconosciuta nel generare la vita: questo spiega la proiezione dell’unione sessuale sui fattori ambientali. Da questa osservazione possiamo ricavare due elementi fondamentali. Anzitutto che l’interpretazione offerta dal mito in parola esprime l’oltrepassamento del puro e semplice accostamento descrittivo alla sessualità. Questo significa che i nostri progenitori hanno letto simbolicamente la loro sessualità oltrepassando il livello puramente descrittivo del loro essere maschio e femmina. Che cos’è, infatti, un simbolo? Lo spiega bene Cassirer: “Nessun animale arriva fino al punto in cui si compie la caratteristica trasformazione del movimento prensile in gesto indicativo. L’’afferrare a distanza’, come viene denominato l’accennare con la mano, anche negli animali più evoluti non è andato oltre il primo e imperfetto abbozzo iniziale. Già da questo fatto della storia dell’evoluzione risulta che in questo ‘afferrare a distanza’ si trova nascosto un tratto di tipico e universale significato spirituale. È questo uno dei primi passi con cui l’io che sente e che desidera allontana da sé il contenuto rappresentato facendone in tal modo per la prima volta un ‘oggetto’, un contenuto ‘oggettivo’. (...) L’afferrare fisico-sensibile diventa interpretazione sensibile, ma in quest’ultima vi è già il primo spunto per una superiore funzione significativa quale si manifesta nel linguaggio e nel pensiero”.5 Il simbolo è ciò che unifica realtà diverse (dal verbo greco symballo, “metto insieme”) non fermandosi alla descrizione pura e semplice dei fatti. Questo significa che l’essere umano – di fronte al dimorfismo sessuale – non si è limitato a restituirlo in chiave meramente funzionale, ma l’ha decodificato attribuendogli un significato orientante al di là della sua configurazione strumentale. A questo è collegata la seconda considerazione che intendo fare. Questo tipo di interpretazione si è espresso in epoca arcaica e in luoghi molto distanti tra loro: quale spiegazione ne può dare la “Gender Theory”? Solamente questa: che si tratta del costituirsi contemporaneo della medesima convenzione socio-culturale, ma è credibile? Possiamo invocare la casualità per spiegare il costituirsi di una interpretazione ricorrente e complessa come questa? Non credo: ritengo che questo tipo di spiegazione lo respingeremmo in qualunque altro ambito e non vedo perché dovremmo accoglierlo in questo. L’alternativa che propongo è la seguente: riconoscere nel costituirsi di questo mito delle origini l’emergere di un costrutto antropologico profondo (per certi versi, analogo al tabù dell’incesto come ne parla Levi-Strauss) costituen-
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E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, cit., vol. I, pp. 150-151.
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te la base su cui poggiano le stesse convenzioni socioculturali che, quindi, esistono e vanno valutate (come sostiene la teoria del Gender), ma non esauriscono totalmente l’ambito semantico relativo alla sessualità umana. Questa, al contrario, può riconoscere una base comune in quanto metaculturale, su di essa è possibile fare leva sia per semantizzare l’essere uomo e l’essere donna sia per ispirare l’educazione sessuale ossia l’educazione a diventare uomo e a diventare donna. Su questo ora intendo soffermarmi.
4. La risemantizzazione delle identità maschile e femminile
La motivazione che guida gli esponenti della “Gender Theory” è condivisibile: vincere qualunque discriminazione tra uomo e donna. Invece la interpretazione che forniscono e la strategia conseguente sono del tutto improprie. La ricchezza simbolica delle identità maschile e femminile non può essere ri(con)dotta alla pura convenzione socioculturale non perché questa non esista, ma perché esiste in dipendenza da una identità antropologica originaria (che ho richiamato attraverso la lettura simbolica della propria sessualità che ha portato i nostri progenitori ad attribuire l’esistenza delle cose all’unione tra il Cielo-Padre e la Terra-Madre) e – per questa ragione – transculturale. Occorre quindi procedere in direzione diversa, pur riconoscendo il problema posto dalla “Gender Theory” la cui soluzione però non deve comportare il sacrificio della peculiare connotazione relazionale dell’essere umano. È quello che intendo fare ora. Dall’argomentazione precedente possiamo ricavare che le polarità maschile e femminile:
a) sono suscettibili di una interpretazione simbolica che va oltre il piano descrittivo; b) possono essere ricondotte – relativamente al loro significato – ad un costrutto originario che permette di valutare e orientare le convenzioni socioculturali.
Come possiamo dare un significato alle loro differenze alternativo al livellamento perseguito dal “politicamente corretto”? Le possiamo interpretare come alterità fatte per incontrarsi ed esprimere comunione. Uomo e donna, in quanto persone, sono fatti per incontrarsi e vivere la relazione reciproca, quindi per esprimere non indifferenza, ma la differenziazione che sostanzia l’incontro tra alterità. Del resto, senza differenziazione non c’è nemmeno identità. Ma proprio questo accade quando si annulla lo spessore simbolico della condizione sessuata, il cui riconoscimento è essenziale anche allo scopo di orientare la pratica educativa. L’indagine relativa ai profili maschile e femminile prende forma dalla configurazione più esplicita dell’“essere uomo” e dell’’“essere donna” consistente
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nel diventare padre e madre, con una priorità di quest’ultima condizione sulla precedente perché – sul piano fenomenologico, cioè di come viene percepito il nostro venire al mondo – la prima esperienza di relazione tutti l’abbiamo con nostra madre. Che cosa connota la maternità? Essenzialmente l’identità con il diverso, la disposizione alla comunione con l’alterità. Questo significa che il “genio femminile” – come lo chiama Giovanni Paolo II nella Mulieris Dignitatem (15.8.1988) – si esplica essenzialmente nella capacità di comporre ciò che è separato.6 Non è casuale – sul piano storico – che il Novecento sia contemporaneamente il secolo in cui la donna ha conseguito la maggiore esposizione pubblica e quello in cui la pace è diventata il riferimento comune rispetto alla guerra, considerata un fenomeno “eccentrico”. È il contrario di ciò che si è prevalentemente professato prima – sin dai Romani che ritenevano che si dovesse preparare la guerra per perseguire la pace (“Si vis pacem, para bellum”) – ossia che la pace fosse un fenomeno “residuale”... Ritengo che si tratti di un effetto positivo del contributo femminile alla società. Se questo connota la femminilità che cosa possiamo associare alla mascolinità? La paternità si esplica in forma speculare rispetto alla maternità: non comunione ma separazione, non identità ma alterità, non identificazione ma differenziazione. Così accostato, il profilo maschile appare connotato dalla tensione e dalla distinzione, più conflittuale e oppositivo che comunionale e unitivo. Ma non per questo meno essenziale: una cultura nella quale venisse rimosso il vettore maschile/paterno sarebbe condannata alla indifferenza, all’omologazione e alla indeterminatezza; problemi contrari avrebbe una cultura nella quale il “genio femminile” non potesse esprimersi compiutamente: andrebbe incontro alla divaricazione, alla lacerazione, alla dissoluzione. Si tratta, evidentemente, di un difficile equilibrio, sempre precario anche perché dipende dall’esercizio della libertà umana. Inoltre, occorre puntualizzare che – trattandosi di un significato di fondo – non esaurisce l’identità di uomini e donne nella loro singolarità che risente anche delle variabili congiunturali legate a luoghi, tempi, esperienze... Il profilo che sto tratteggiando, va assunto secondo la logica “idealtipica” weberiana che abbraccia una pluralità di “tipi” concreti riconducendoli a uno schema “ideale” comune ricavato dilatando un tratto che non pretende di rappresentare compiutamente i soggetti concreti che lo condividono solo in parte. Permette tuttavia di orientare in una direzione, la qual cosa è essenziale sul piano pedagogico.
Cfr. inoltre Congregazione per la dottrina della fede, Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo, 31.5.2004. 6
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5. Educazione sessuale e sfida pedagogica
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Tutto ciò che riguarda la vita umana è passibile di descrizione, ma non si può mai esaurire in chiave descrittiva. Infatti, essendo l’essere umano libero, lo identifica un intrinseco dinamismo che non si esprime mai in forma puramente funzionale perché è sempre collegato alla domanda in merito al senso cioè alla direzione che va imboccata liberamente cioè oltrepassando il quadro deterministicamente configurato dai condizionamenti. Questo vale anche rispetto alla sessualità umana che domanda un orientamento e non semplicemente una descrizione fenomenica: in questo consiste l’educazione sessuale che – interpretando il “dato” come “mandato” – respinge il puro e semplice assecondamento delle pulsioni che appiattirebbe la sessualità umana su quella animale. Essere liberi infatti significa non limitarsi a reagire agli stimoli (come accade a qualunque animale), ma saper agire ossia essere assertivi, riconoscere significati e praticare comportamenti che esprimono il “governo di sé”. Ho già colto il limite antropologico della “Gender Theory” nel riconoscere l’unico significato originario della sessualità nella descrizione anatomo/fisiologica. Si tratta – a maggior ragione – di un limite anche sul piano pedagogico perché offre come unico orientamento quello della funzionalità che è tipico dell’animale, ma non della persona. Quando Aristotele osserva che l’érgon – cioè il compito dell’uomo – consiste nell’agire “bene”, associa l’espressione all’agire del “saggio” che rimanda ad una dimensione etico-pedagogica, prima che tecnico-descrittiva.7 Dal momento che l’educazione è una pratica prospettica e orientativa, cioè che guarda al futuro, risulta chiaro che non può assumere un profilo “neutrale”. Non si esplicita infatti nell’assecondamento dell’esistente, ma nella sua interpretazione come sfida che rimanda a uno sviluppo: per questa ragione le è stata spesso associata l’espressione di Pindaro: “Divieni ciò che sei”.8 Il dinamismo educativo porta alla manifestazione delle potenzialità che domandano però sempre l’adesione intenzionale di colui che cresce. Per quanto concerne l’identità sessuale, il bambino e la bambina vengono orientati a diventare uomo e donna alla luce del riconoscimento delle peculiarità maschile e femminile che prima ho identificato prendendo le mosse dalla lettura simbolica del dimorfismo sessuale. Sappiamo come non ci sia sempre la piena identificazione tra identità sessuale fenotipica e identità sessuale percepita, in coerenza con l’“idealtipo” come prima l’ho connotato. Ma questo è sufficiente per destituire di credibilità l’associazione alla identità maschile
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Cfr. Aristotele, Etica nicomachea, I, 7, 1097 b 25. Pindaro, Pitica, II, 131.
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oppure femminile in coerenza con il corpo sessuato? Così sostiene la “Gender Theory” secondo la quale ogni identificazione è aleatoria, ma – se dovessimo assumere il criterio dell’autopercezione come dirimente in merito alla identificazione – tutto diventerebbe non solo incerto, ma variabile in coerenza con le fluttuazioni della conoscenza di tipo percettivo. Per questa ragione respingo la moltiplicazione dei generi, oggi divulgata dalla “Gender Theory”, mantenendo l’idea che siano solo i due tradizionalmente accolti: quello maschile e quello femminile9 – non possiamo estendere ciò che si può verificare in pochi casi (ad esempio, nell’ermafrodito) all’universo dei soggetti in questione –. Già Aristotele identificava la “verità pratica” associandola a ciò che accade “per lo più”,10 in considerazione del fatto che il mondo della prassi risente di variabili che non permettono mai di avere una totale corrispondenza tra ciò che viene riconosciuto come orientativo e ciò che di fatto accade. D’altro canto, se si abbraccia una prassi educativa – per ciò che riguarda la sessualità – dove non si distingue più tra tendenze diverse, ciò che accade è educare surrettiziamente alla bisessualità: un esito totalmente discutibile per il fatto che tratta il dimorfismo sessuale come se fosse privo di distinzione significativa, mentre è precisamente questo ciò che ho evidenziato alla luce della interpretazione simbolica dei profili maschile e femminile.
6. Gender e omosessualità
Prima ho sottolineato come la “neutralità” rispetto all’educazione sessuale esplicitamente orientata in senso eterosessuale esprima – di fatto – una educazione alla bisessualità conseguente alla indifferenza tra gli orientamenti sessuali del tutto coerente con il “politicamente corretto”, ma non con il profilo relazionale dell’essere umano, quello che porta don Milani a dire: “I care” – “Mi interessa”, non: “Mi è indifferente”. Prima di concludere, con una sintetica riflessione relativa all’omosessualità, intendo chiarire il concetto di fondo: le persone vanno sempre rispettate – dalla prospettiva cristiana: amate – a prescindere da come praticano la sessualità.11 Questo deve accadere perché, in realtà, non ci sono “omosessuali” o “eterosessuali”, ma uomini e donne che praticano la sessualità, conseguentemente la loro dignità di persone è anteriore e ulteriore rispetto a qualunque valutazione morale dei loro atti che – come tali – sono sempre suscettibili di giudizio. Qualche anno fa l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha derubricato la omosessualità dal Cfr. C. Atzori, Il binario indifferente. Uomo e donna o GLBTQ?, SugarCo, Milano 2010. Cfr. Aristotele, Metafisica, VI, 2, 1026b 25-35. 11 Cfr. Congregazione per la dottrina della fede, Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica sulla cura pastorale delle persone omosessuali, 1.10.1986. 9
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novero dei comportamenti patologici e questo ha indotto alcuni a dedurne la sua equiparazione all’eterosessualità. Ma è una conclusione affrettata: in realtà, quello che se ne può ricavare è che l’omosessualità viene restituita all’ambito della moralità – cioè dei comportamenti umani – e, per questa medesima ragione, viene considerata suscettibile di valutazione esattamente come ogni altra prassi. Non è possibile chiarire univocamente l’origine della omosessualità. Le principali teorie che si sono divise il campo – quella genetica e quella ambientale – non sono riuscite a conseguire esiti univoci. Infatti abbiamo gemelli monozigoti (ossia con il medesimo patrimonio genetico) che praticano comportamenti diversi, esattamente come questo accade a soggetti cresciuti nello stesso ambiente. Una cosa però la possiamo affermare alla luce del riscontro storico: che – almeno sul piano simbolico – la omosessualità tende a diffondersi in correlazione alla diffusione di un immaginario che la equipara all’eterosessualità. Questo possiamo ricavare dalle fonti documentarie antiche – greche e della romanità grecizzata –. Per questa ragione, quando si parla di equiparare queste pratiche (come nel caso del cosiddetto “matrimonio gay”) mettendo davanti l’esigenza di ordinare situazioni esistenti, non bisogna dimenticare che l’eventuale decisione di rivedere la prassi oggi vigente non riguarda solo le situazioni pratiche, avendo anche ricadute sulla mentalità e sul comportamento. Ritengo, quindi, che ci voglia cautela e che non ci si debba lasciar fuorviare da motivazioni di tipo funzionale che non tengono nel dovuto conto l’insieme delle questioni sollevate. Il riconoscimento delle originalità maschile e femminile conduce a respingere l’appiattimento su una generica “neutralità” professato dal “Politically Correct” esattamente come il misconoscimento del significato antropologico della sessualità perseguito dalla “Gender Theory”. L’inderogabilità della educazione sessuale volge nella direzione di riconoscere il carattere orientativo della prassi eterosessuale, coerente con l’esistenza dei due generi, fatto salvo il rispetto e l’amore che vanno espressi verso tutti per il fatto che sono uomini e donne, cioè persone connotate da una dignità inalienabile al di là delle loro condotte, escludendo evidentemente quelle che implicano violenza o sopraffazione. Così accostata, l’omofobia va decisamente respinta (come ogni altra “fobia”), ma non può diventare il “cavallo di troia” attraverso il quale passa il livellamento delle pratiche sessuali su una grigia indifferenza che è radicalmente incoerente con il profilo strutturalmente relazionale della persona la quale domanda sempre il riconoscimento della “alterità”, cioè della “differenza”, nell’ottica di una comunicazione e – conseguente – comunione che sa “distinguere per unire”, come dice Maritain.
Rivista Lasalliana 81 (2014) 3, 399-407
FASI E PASSAGGI DI VITA. LE COORDINATE PER AFFRONTARE I COMPITI DELLA CRESCITA. FILIPPO SANI1 Sociologo, formatore, orientatore
SOMMARIO: 1. Passaggi evolutivi e nuovi apprendimenti. - 2. La necessaria discontinuità. 3. I passaggi di status e l’importanza della ritualità. - 4. Il ruolo degli adulti che educano. - 5. Esperienze di vita. “Passaggi riusciti” e “passaggi bloccati”. - 6. Conclusioni. Costruire futuri possibili per i giovani.
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1. Passaggi evolutivi e nuovi apprendimenti
a vita di ogni persona è costellata e nutrita di fasi evolutive a cui corrispondono passaggi identitari e di status sociale. Le fasi evolutive sono fisiologiche, universali e propedeutiche ad ogni storia biografica umana, i passaggi di vita inevitabili, intrinseci ad ogni cultura e società umane, costruiti e legittimati dai tratti antropologici propri di ogni civiltà. La questione dei passaggi di vita diventa pertanto centrale nel momento in cui si rende necessario provvedere all’attivazione dei processi di socializzazione primaria e secondaria, che consentiranno una graduale inclusione nella cultura umana di riferimento. La sistematicità dell’assorbimento dei processi di simbolizzazione, propri di ogni cultura educativa, è determinata dall’acquisizione di (nuove) specifiche competenze per poter stare al mondo. Parliamo di competenze facendo riferimento a quelle particolari abilità personali che vengono apprese per superare gli ostacoli che si frappongono in particolari momenti della vita (fasi, appunto). Gli ostacoli, le difficoltà, la fatica hanno una specifica valenza evolutiva, perché consentono di maturare quella competenza conflittuale2 che oggi riteniamo indispensabile per gesti1 È nello staff del Centro Psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti di Piacenza. 2 La competenza conflittuale è la capacità di stare nella tensione relazionale, affrontandola come una situazione che può essere gestita. La carenza conflittuale, al contrario, può essere considerata un deficit relazionale e metacognitivo rispetto alle situazioni di contrarietà, “una sorta di incapacità di stare nelle divergenze senza danneggiare sé e gli altri”. Cfr. PAOLO RAGUSA, Imparare a dire no, BUR, Milano, 2013, p. 26.
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re relazioni sempre più complesse. L’incapacità di sostenere (stare nei) conflitti, offre l’innesco a risposte violente, intendendole come scorciatoie semplificatorie alla tensione relazionale, esperendola come minaccia insopportabile. In effetti, il tema delle competenze da acquisire (ed anche da trasmettere, nel caso dell’adulto che educa), diventa centrale affinché si determini un effettivo passaggio evolutivo, o meglio un’evoluzione propriamente educativa. Pensiamo ai bambini nella fase dello svezzamento o nella fase che precede la deambulazione. A queste fasi (fisiologiche, appunto, nel senso che il programma genetico di ogni persona fa maturare determinate condizioni fisiche, cognitive e affettive perché si arrivi a queste trasformazioni), dovranno corrispondere dei passaggi più squisitamente psicoeducativi. Riferendoci all’alimentazione, potremmo ricordare lo svezzamento (dall’allattamento – seno e/o biberon – alle pappe). Rispetto all’evoluzione corporea, invece, salta subito alla mente la deambulazione (dal gattonare al camminare su due gambe autonomamente). In entrambi i casi, si acquisiscono status diversi, si assumono e si esercitano competenze diverse (si attivano apprendimenti appropriati sia da parte dei bambini, sia da parte degli adulti); se tali passaggi non si attivano, nel senso che stiamo sostenendo, si assisterebbe ad un arresto della crescita fisica, psicologica, emotiva e sociale della persona. Inoltre, ogni evoluzione, ogni cambiamento, ogni passaggio richiede all’individuo una certa dose di assunzione di rischio. Paradossalmente, il non predisporsi ad assumere tale rischio determina maggiori rischi: “il rischio di non misurarsi, di non conoscersi e di non conoscere, il rischio di non sopravvivere ai cambiamenti esterni e interni.”3
2. La necessaria discontinuità
Ogni passaggio, in realtà, è traumatico per chi lo vive e decisamente impegnativo per chi lo condivide, educativamente parlando. Lo sconvolgimento fisico ed emotivo dei bambini che affrontano i passaggi che richiamavamo sopra, è enormemente più consistente della convergenza di attenzioni e di apprensioni che gli adulti esercitano nei confronti dei piccoli umani percepiti in perenne pericolo. Gli psicoanalisti ritengono che ogni passaggio sia vissuto dall’individuo come una sorta di trauma (necessario) sulla omeostasi precedente: in
FILIPPO SANI, Il distacco generazionale e l’allontanamento rituale, in Conflitti, rivista italiana di ricerca e formazione psicopedagogica, Piacenza, 2007, n.1. 3
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queste circostanze, si attiva una rottura con la precedente linearità dell’esperienza. Ogni fase di sviluppo è accompagnata da un passaggio evolutivo che affranca l’individuo dalla regressione fusionale materna, per consentire di modellare simbolicamente un processo mentale che attivi individuazione e separazione e, quindi, autonomia. “L’idea di fondo, in sostanza, è che lo sviluppo dell’uomo non consista in un movimento continuo e graduale, ma proceda soprattutto per fratture e discontinuità. Nel corso dell’esistenza si producono infatti salti esperienziali che, ripresi e rielaborati, si rivelano determinanti per l’umanizzazione della persona. Questa operazione, che viene effettuata a più riprese nel corso del tempo e sempre in riferimento a passaggi fondamentali dell’esistenza, consente a ciascuno di noi, a seconda delle fasi e del tipo di crisi che attraversa, di rinegoziare il proprio rapporto con la vita.”4 Tra gli esempi di “fratture” che la psicoanalisi ha approfondito, non senza utili ripercussioni scientifiche anche in ambiti più squisitamente pedagogici, annoveriamo i traumi che costituiscono strutturalmente il tempo inaugurale di ogni persona e cioè l’infanzia. In questo iniziale adattamento alla vita sociale, troviamo due elementi traumatici: uno riguarda gli sviluppi della corporeità e l’altro l’apprendimento della lingua.5 Ogni passaggio, per essere assimilato dall’individuo, deve quindi contenere discontinuità con l’esperienza precedente, che è necessaria per far approdare l’individuo in un nuovo stadio di vita.
3. I passaggi di status e l’importanza della ritualità
Il fattore discontinuità-rottura non viene concettualizzato solo dalla psicoanalisi. Anzi, forse l’aspetto più pregnante, da un punto di vista dell’integrazione sociale e della legittimazione dei valori esistenziali di una data comunità, è stato approfondito dall’antropologia culturale e dalla etnologia nell’ambito degli studi sui rituali, in particolare quelli che scandiscono le fasi di cambiamento della vita umana: “i riti di passaggio”. I “riti di passaggio”, espressione coniata dal grande etnologo francese Van Gennep6 più di un secolo fa, sono trasversali a tutte le culture umane e riguardano la loro particolare funzione di guida sociale, facilitando sia l’orientamento individuale rispetto al nuovo status (compito), sia l’orientamento sociale relativaFRANCESCO STOPPA, La restituzione. Perché si è rotto il patto tra generazioni. Feltrinelli, Milano, 2011. Edizione speciale per il Corriere della Sera (Biblioteca dei genitori), RCS, 2012, Milano, p. 39. 5 F. STOPPA, Ibidem. 6 ARNOLD VAN GENNEP, I riti di passaggio, Boringhieri, Torino, 1981. (Prima edizione: Les rites de passage, E. Nourry, Paris, 1909). 4
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mente all’integrazione futura del singolo in un nuovo ruolo. Tutti i riti di passaggio hanno in comune una struttura fondamentale, caratterizzata dal un processo a tre livelli: una prima fase di separazione, che stacca il soggetto dal suo luogo o stato precedente; una secondo livello che attiene specificamente alla transizione o alla trasformazione (di margine o liminale) dell’individuo, che vive l’esperienza dell’ambivalenza oscillante tra passato e futuro; ed, infine, il terzo stadio che concerne l’integrazione o l’incorporazione in un nuovo luogo o status. Sono molti gli studiosi, tra gli antropologi culturali, a sostenere che, in realtà, la fase più importante dei processi rituali sia la seconda, la cosiddetta transizione; durante questa “fase di soglia non cambia solo lo status sociale di una persona, ma anche la sua percezione della realtà.”7 In effetti, la destrutturazione semantica e simbolica della precedente fase di sviluppo può compiersi solo se nuovi processi di significato e di contenuto simbolico vengono re-introdotti nella mente individuale e nella mente collettiva del gruppo, attraverso esperienze cognitivamente sorprendenti e quindi funzionali all’apprendimento di nuove competenze. Il bisogno di ritualità può definirsi archetipicamente innato in ogni persona. Nonostante la trascuratezza che coinvolge l’aspetto della ritualità negli ambiti educativi odierni, riteniamo tale elemento estremamente determinante affinché si strutturino relazioni profonde e funzionali nelle organizzazioni (soprattutto in famiglia). Basti pensare agli adolescenti odierni: la profonda trasformazione della famiglia attuale, che rispetto al modello della famiglia di 30-40 anni, ha, per ragioni sistemiche profonde e irreversibili, impreziosito i suoi figli attraverso un’educazione estremamente accuditiva e protettiva; in questo modo il distacco e la separazione dai propri figli non vengono più considerati valori evolutivi educativi. Anzi, gli elementi antievolutivi e regressivi dell’assolutizzazione affettiva, hanno determinato convivenze intergenerazionali prolungate ed educativamente asfittiche.8 Il recupero dell’esperienza simbolica del rituale di passaggio, soprattutto in adolescenza, permetterebbe un recupero del processo evolutivo che garantirebbe ai ragazzi un distanziamento dall’età infantile e una successiva integrazione con il mondo adulto, facilitando un salutare sviluppo dell’autonomia e quindi dell’individuazione come soggetti protagonisti del futuro.
BIRGITT ROTTGER-ROSSLER, Il segno del passaggio, in Mente & Cervello, n. 81, 2011, p. 72. Cfr. CAROLINE THOMPSON, Genitori che amano troppo. E figli che non riescono a crescere, Mondadori, Milano, 2008.
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4. Il ruolo degli adulti che educano
Riprendendo i fili della questione che avevamo aperto nella premessa del presente contributo, possiamo quindi evidenziare sinteticamente alcune caratteristiche strutturali dei passaggi, che, lo ricordiamo, appartengono all’area dell’imprinting antropologico: a) la rottura/il trauma (discontinuità con la fase precedente); b) l’apprendimento (le competenze da acquisire – gradualmente - per poter entrare in un nuovo status e per poter con più efficacia stare al mondo); c) il rischio come valenza positiva (assumere una certa dose di rischio come tratto evolutivo necessario; paradossalmente, è più rischioso non rischiare, rimanendo intrappolati in una fase di vita, piuttosto che faticare, soffrire per crescere). A questi elementi propedeutici, ora aggiungiamo un quarto componente che attiene al ruolo degli adulti: d) è fondamentale che a presidiare i passaggi ci siano gli adulti, che hanno il compito, la responsabilità di facilitare i passaggi. Da questo punto di vista, gli adulti (educatori competenti in genere) dovrebbero garantire il recupero della funzione rituale, preparando la relazione alla simbolizzazione dei contrasti, delle divergenze, delle ribellioni. Facilitando, in altre parole, la manutenzione della fisiologica diversità dei processi individuativi di ognuno. Per i genitori e per gli educatori in genere, imparare ad essere competenti non tanto nei momenti di benessere, ma nei momenti in cui emergono elementi di contrarietà, di indisciplina, di disordine, è la misura dell’effettiva competenza educativa. Imparare a gestire i conflitti educativi significa imparare a gestire le relazioni, accettandone anche gli elementi di dissenso e di oppositività. “Nei conflitti si misura la capacità educativa del genitore. E’ qui che si possono educare i figli alla relazione e all’ascolto, al sapersi confrontare e al saper convivere.”9 Perché questo processo virtuoso si inneschi è necessario, innanzitutto, riconoscere le posizioni propedeutiche dell’agire educativo, che si sostanziano nella responsabilità dell’adulto e nella funzione evolutiva propria del bambino o dell’adolescente (concernente anche l’aspetto della contestazione e della ribellione ai genitori). Sia la responsabilità dell’adulto sia quella evolutiva del figlio sono in continuo cambiamento rispetto alle età e vanno rimodulate in base alle peculiarità delle fasi evolutive, appunto. Se fino ai 10-11 anni, ad esempio, le regole (quando ci sono) DANIELE NOVARA, Dalla parte dei genitori. Strumenti per vivere bene il proprio ruolo educativo, Edizioni Franco Angeli, Milano, 2009, p. 102.
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vengono rispettate con una certa facilità da parte dei bambini, con la preadolescenza e l’adolescenza la comunicazione dovrebbe avere una precisa “vocazione contrattuale”; l’obiettivo fondamentale è il tenere sempre aperta la comunicazione educativa. Quando gli adulti che educano sono in affanno rispetto a questo compito, potrebbero venire “in soccorso” i momenti rituali. Il rituale, rafforzando il senso di appartenenza alla famiglia, si trasforma in un incentivo a migliorare la relazione, soprattutto nei momenti di tensione e disagio: un momento particolare dedicato alla manutenzione dei rapporti, dei ruoli, delle regole, dei compiti. Nella fasi cruciali della vita dei bambini e degli adolescenti, è indispensabile organizzare uno spazio-tempo adeguato per poter esplicitare episodi di forte contrasto e di divergenza, che altrimenti delegittimerebbero l’organizzazione familiare, erodendo energia (emozioni, sentimenti, autorevolezza) alla struttura educativa. Questo, in realtà, vale per ogni tipo di organizzazione educativa. Per il genitori (e per gli educatori in genere) diventa centrale la capacità (competenza) di so-stare10 nel conflitto, allontanando la tendenza a fuggire dalla fatica e dalla sofferenza che porta la problematicità del crescere.
5. Esperienze di vita. “Passaggi riusciti” e “passaggi bloccati”
Come gestiamo i passaggi evolutivi dei nostri figli? Come gestiamo i passaggi evolutivi dei nostri ragazzi che educhiamo? Traendo spunto dal mio lavoro sul campo con i ragazzi11, mi sembrava utile soffermarmi su alcune considerazioni emerse da situazioni che, con una certa frequenza, cerco di gestire nei colloqui di consulenza orientativa. Situazioni, che potrebbero rappresentare, da un lato, un esempio di arresto nel processo evolutivo che dovrebbe determinare un passaggio di vita, dall’altro, invece, un passaggio riuscito. Nel primo caso annovererei i casi dei ragazzi che provengono dal mondo della cosiddetta “dispersione scolastica”; solitamente, sono sedici-diciaset-
Formula coniata dal Centro Psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti di Piacenza. 11 Mi occupo principalmente di orientamento e sostegno all’inserimento lavorativo a favore dei ragazzi (16-25 anni) e degli adulti, presso una struttura pubblica (Centro per l’Impiego, l’Orientamento e la Formazione provinciale). In realtà, anche il lavoro professionale come formatore di educatori (genitori, insegnanti, educatori in genere), mi permette di recuperare esperienze di vita che ritraggono profili biografici di ragazzi che riescono ad assumersi responsabilità sociali e, purtroppo, di altri che, per svariati motivi, soccombono di fronte alla messa alla prova che comporta il debutto nella società degli adulti. 10
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tenni che hanno abbandonato la scuola e che si mostrano assolutamente scollegati da ogni tipo di assunzione di responsabilità. Siamo di fronte ad una fase della vita (l’adolescenza) che non riesce a fare i conti con un adeguato e sostenibile passaggio evolutivo di crescita (rispetto alla scelta, alla messa alla prova, alla separazione) ridimensionando il codice educativo materno (che, ricordiamo, facilita soprattutto la cura, la protezione, la simbiosi familiare). Si assiste ad un arresto, ad un ritiro evolutivo e le cause possono essere molteplici, il più delle volte collegate a dei blocchi emotivi di origine familiare ma mai da addebitare completamente a difficoltà cognitive. Carenze emotive che i ragazzi pagano a caro prezzo quando si cimentano in attività di apprendimento che richiedono controllo, concentrazione, regole e metodo. Solitamente, durante i colloqui di consulenza, ai quali partecipano anche i genitori (spesso turbati e preoccupati per il futuro dei propri figli), i ragazzi manifestano una fragilità e una insicurezza di fondo che paralizza la propria autostima. Mi consegnano anche una conflittualità forte con i genitori, disordinata, gestita male dagli stessi adulti; una conflittualità che ha l’unico vantaggio di tenere viva la tensione relazionale familiare, quasi a compensare la mancanza di responsabilità educative degli stessi adulti, che, lasciando sfogare in maniera scomposta i figli, si illudono di poterli aiutare e comprendere. Ad ogni modo, i colloqui con questi soggetti hanno un esito positivo, quando riusciamo (l’orientatore e il ragazzo con la famiglia) a spostare l’attenzione su un piano operativo, cercando di individuare obiettivi sostenibili. Il/la ragazzo/a, per esempio, si iscrive ad un’altra scuola. Oppure ritiene più utile iscriversi ad un corso di formazione professionale qualificante. Ovvero, considera di sostenere un tirocinio formativo al lavoro; o di provare con un lavoro come apprendista. In buona sostanza, creiamo insieme un passaggio di vita che si era bloccato. Nell’altro caso esplicitavo, che invece attiene ad un funzionale e riuscito passaggio evolutivo, potrei senz’altro recuperare l’esperienza professionale legata al lavoro con i ragazzi appena usciti dal circuito scolastico. E quindi i diciannovenni neo diplomati alla scuola secondaria superiore. Da una piccola indagine che ho effettuato nella struttura pubblica nella quale presto il mio servizio professionale, emerge che negli ultimi 4 – 5 anni le iscrizioni dei neodiplomati sono in costante aumento (20% in più solo dal 2010 al 2012). Le ragioni sono molteplici: non ultima la pressione delle famiglie che, in questo delicato momento di crisi che stiamo attraversando, non riescono a garantire un’adeguata autonomia ai propri figli come negli anni precedenti. Quello che sembra comunque emergere, è la constatazione per la quale i ragazzi (ne incontro un centinaio ogni anno) utilizzino questo percorso perché percepiscono che è arrivato il tempo di mettersi alla prova (il
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tempo di tentare una strategia per allontanarsi dalla protezione della famiglia, il momento per crescere da soli, provando ad effettuare un’esperienza lavorativa, un tirocinio, un corso di laurea o di formazione professionale, che possa opportunamente valorizzare le risorse, le attitudini e la vocazione profonda del giovane). Questa è un’età (per lo più diciannovenni) in cui la fase di vita che si attraversa è decisamente rilevante per poter mettere in atto nuove competenze, rischiare, impegnarsi, allontanarsi. In questo precipuo e delicato passaggio evolutivo, la funzione del presidio educativo adulto risulta essenziale. Chi ha compiti educativi importanti (genitori, educatori, insegnanti) nei confronti dei giovani, dovrebbe essere consapevole che “la valorizzazione educativa del soggetto, della sua specificità, delle sue peculiari caratteristiche viene vissuta dai ragazzi come un invito ad emanciparsi precocemente dalla dipendenza dei genitori e dalla scuola per dare vita liberamente al proprio autonomo progetto di realizzazione.”12 Dall’esperienza pluriennale che ho maturato grazie ai numerosi colloqui con i ragazzi in uscita dal circuito scolastico, sono portato a sostenere che si possa intravedere nella particolare scelta dei ragazzi di passare attraverso la struttura pubblica deputata ai servizi di orientamento, formazione e ricerca del lavoro, una sorta di rito di passaggio. Un rito di passaggio che sancisce l’integrazione o l’incorporazione del ragazzo in un nuovo status sociale: quello della società adulta. La scelta dei giovani di attraversare la fase di soglia, rappresentata dalla disponibilità a sostenere un percorso di segnatura simbolica (iscrizione in un elenco, sottoscrizione ad accettare un percorso di orientamento individuale) all’interno dell’organizzazione, permette l’effettiva trasformazione da una fase di vita alla successiva. Al termine del percorso di presa in carico professionale, è come se al neofito giovane-adulto venisse permesso una sorta di debutto nella società degli adulti.
6. Conclusioni. Costruire futuri possibili per i giovani
Ogni ciclo di vita, ogni fase, produce conflitti. Per ogni passaggio e, quindi, per ogni tappa evolutiva che si affronta, si attivano modalità diverse di vivere ed esplicitare conflitti; ad ogni passaggio si richiedono nuove competenze per gestirli e trasformali. E’ questa la sfida che gli adulti oggi si trovano ad affrontare in uno scenario culturale articolato e complesso, magmatico e fluido, in cui le incertezze rispetto al senso dello stare al mondo sono soverchianti e rischiano di paranoicizzare le scelte educative (“tanto è tutto un gran casino intorno a noi!”). GUSTAVO PIETROPOLLI CHARMET, Cosa farò da grande? Il futuro come lo vedono i nostri figli, Editori Laterza, Roma-Bari, 2012, p. 143. 12
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Ad una ragazza ventenne, che durante un recente colloquio di consulenza orientativa mi esprimeva le sue paure riguardo all’impossibilità di potersi realizzare nel mondo del lavoro (“Tanto il mondo è tutta una contraddizione! Come posso io trovare qualcosa adatto a me?”), ho replicato con una domanda: ”Hai mai pensato che questa posizione potrebbe farti comodo?” Se gli adulti continuano ad abdicare il ruolo che a loro compete, non presidiando, appunto, i passaggi evolutivi, non assumendosi le responsabilità proprie di una gestione educativa calibrata sul codice paterno13 (che orienta al senso del limite, delle regole, delle responsabilità, delle scelte, del coraggio, della separazione), non potranno, come spesso succede, accusare i giovani di scarsa motivazione o di sfiducia nel futuro. Quello a cui assistiamo con troppa frequenza è, purtroppo, una pigrizia educativa da parte degli adulti che invece di ri-pensare e ri-vedere le proprie posizioni e punti di vista, assumono atteggiamenti vittimistici, accusando i giovani di indifferenza. Gli adolescenti, in particolare, hanno bisogno che gli adulti esercitino il loro ruolo e il proprio potere educativo. Le ricerche evidenziano che i figli che crescono con genitori autorevoli, rispetto a coloro che hanno genitori autoritari, o al contrario troppo permissivi, possiedono migliori competenze sociali, maggiore sicurezza di se stessi, responsabilità, abilità nella risoluzione dei problemi.14 Abbiamo visto come i passaggi evolutivi risultano compiuti o funzionali alla crescita della persona, solo riconoscendo una vera cittadinanza alle esperienze esistenziali che prevedono impegno, sacrificio, il superamento degli ostacoli; in altre parole, permettono un apprendimento di nuove competenze. Gli adulti (genitori in primis) che privano ai bambini e ai ragazzi la fatica e il sacrificio, sottraggono loro la possibilità di autoprodursi gli “anticorpi” per lo stare al mondo.
“Il codice educativo materno è quello preposto alla cura, e attiene alla protezione del bambino, alla soddisfazione dei suoi bisogni, alla sua gratificazione, alla compiacenza.(…). Ma, man mano che cresce e si sviluppa, il bambino, soprattutto a partire dal terzo anno di vita, ha bisogno tuttavia anche di essere sostenuto nel processo che lo conduce ad acquisire autonomia. Il codice paterno è il codice che presidia questo processo. Porre limiti, definire regole, stimolare alla conquista della vita, rendere responsabili: queste sono funzioni tipiche del paterno.” D. NOVARA, Dalla parte dei genitori, op. cit., p. 63. 14 FILIPPO SANI, Il conflitto genitori figli in adolescenza come strumento di comunicazione educativa, in Conflitti, rivista italiana di ricerca e formazione psicopedagogica, Piacenza, 2009, n. 1. 13
LA SALLE BIOGRAFIE DI GIOVANNI BATTISTA DE LA SALLE CHARLES LAPIERRE, FSC Giovanni Battista de La Salle - cammina alla mia presenza Città Nuova, Roma 2006, pp. 234 L’autore ricostruisce l’itinerario del La Salle nel realizzare la vita che Dio gli ha chiesto “camminando alla sua presenza” e risponde a quanti desiderano conoscerlo come pedagogista e istitutore di grande attualità, ma anche a genitori ed educatori, che vedono in lui un modello da incarnare e un ideale da trasmettere ai giovani.
TERESIO BOSCO, SDB Giovanni Battista de La Salle – la forza di donare la vita Elledici, Leumann (To) 2004, pp. 44 Tratteggia la figura e l’opera del La Salle, pioniere dell’educazione in un tempo decisamente diverso dalla nostra epoca, specie in ambito scolastico ed educativo. La lettura del breve ritratto rende attuale la passione che il santo ebbe per la gioventù dell’epoca. E che i Fratelli delle scuole cristiane continuano a vivere oggi.
MANUEL OLIVÉ, FSC Giovanni Battista de La Salle – una vita per i giovani Istituto Gonzaga, Milano s.d., pp. 96 Biografia agile, incisiva, essenziale. Ricca di illustrazioni, è quanto mai adatta anche ai preadolescenti per iniziare un percorso di conoscenza di un santo educatore che per dedicarsi alla promozione dei ragazzi più poveri ha lasciato il ceto dei benestanti coinvolgendo nell’avventura altri giovani generosi per istituire le scuole gratuite.
LEO C. BURKHARD, FSC Un birichino di Parigi trad. it. di Camillo Coffano, Editrice A.&C., Milano 1961, pp. 160 Una storia romanzata alla gloria del pioniere e santo protettore delle scuole popolari. Tutte le vicende richiamano dei fatti storici. Al fine di garantire l’unità del racconto, l’autore ha ideato il personaggio del narratore attribuendogli dei fatti accaduti a molti. È lui – questo birichino di Parigi trascinato nella scia dell’eroe – che vi parla.
Giovanni Battista de La Salle Fondatore dei FSC e Patrono degli educatori fumetto di G. Signori e F. Pescador – Prov. Italia FSC, Roma 2008, pp. 207 I disegni, il testo e la sceneggiatura del fumetto, mentre non impediscono l’accostamento degli adulti alla vicenda storica e all’opera del La Salle, favoriscono invece un interessante e attento approccio all’opera del santo anche ai più piccini. ••• Per informazioni e ordinazioni: Viale del Vignola, 56 - 00196 Roma tel. 06.322.94.503 - E-mail: gabriele.pomatto@gmail.com tel. 06.322.94.235 - E-mail: fedoardo@pcn.net
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LA MAISON DES FRÈRES DES ÉCOLES CHRÉTIENNES DE SAINT-YON Les lettres patentes de septembre 1724
MAGALI DEvIF, F. ALAIn HOURY, PHILIPPE MOULIS ET FRAnCIS RICOUSSE1 SOMMAIRE: 1. Présentation du site. - 1.1. Situation géographique et historique. - 1.2. Les locaux. - 2. De l’origine de la Maison de Saint-Yon aux lettres patentes de 1724. - 3. Documents. - 4. Conclusion.
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a maison de Saint-Yon, située dans un faubourg de Rouen, sur la rive gauche de la Seine, paroisse Saint-Sever, présente une importance capitale pour l’Institut des Frères des Écoles chrétiennes. C’est là en effet que mourut St Jean-Baptiste de La Salle après y avoir vécu ses dernières années. Et elle fut, pendant une grande partie du XvIIIe siècle, le siège de la maison-mère, ce qui valut aux Frères l’appellation de «Frères Yontains». Ceux-ci, outre leur administration générale, y développèrent diverses activités éducatives et de formation, ce qui en fait un établissement singulier et majeur dans l’histoire de l’Institut des Frères. Outre un noviciat, première raison d’être des Frères en ce lieu, ceux-ci y créèrent un pensionnat puis, pour répondre à de nouvelles demandes, une “maison de correction” et ensuite une “maison de force”. Elle offrait par ailleurs un asile pour les Frères âgés ou atteints par des infirmités. Cette diversité d’œuvres lui permettait de procurer «à la Société, au moyen de la pension de force et du pensionnat libre, les ressources destinées au fonctionnement des services généraux».2 Elle est aussi le lieu de résidence du Supérieur.3 Magali Devif, directrice des Archives lasalliennes à Lyon, F. Alain Houry, archiviste national, Philippe Moulis, Université de Paris 13, Sorbonne Paris Cité, Pléiade-CRESC (E. A. 2356) et F. Francis Ricousse, directeur des archives des Frères des Écoles chrétiennes à Rome. 2 GEORGES RIGAULT, Histoire générale de l’Institut des Frères des Écoles chrétiennes, Paris, Plon, 1938, t. 2, p. 65. 3 «Saint-Yon, écrit le chanoine Farcy, comprenait pour les Frères: un noviciat, un scolasticat, ou école professionnelle préparatoire pour les jeunes Frères, et une maison de retraite pour les Frères âgés. Puis c’était une maison de correction pour retirer du libertinage les jeunes gens qu’on voulait confier aux Frères, une maison de force où l’on était enfermé en vertu d’ordres du roi, une école de charité pour les enfants pauvres envoyés de la ville, un pensionnat 1
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L’histoire de cette maison et surtout de sa reconnaissance légale auprès du Parlement est intéressante sur de nombreux points. Elle est, avec la Bulle d’Approbation de 1725, l’acte fondateur de l’Institut qui lui a permis de se développer. Elle servira aussi d’exemple pour d’autres maisons de Frères comme Maréville ou Angers. Les archives de la Maison généralice de Rome conservent un document daté de 1724, qui semble être le parchemin original des lettres patentes de la Maison de Saint-Yon. Les Archives départementales du Pas-de-Calais disposent de leur côté plusieurs documents relatifs à ces lettres patentes. L’étude de ces diverses lettres patentes permet de préciser certains aspects de l’histoire de l’Institut, mais avant, il convient de faire une description plus détaillée de ce qu’était Saint-Yon à son origine.
1. Présentation du site
1.1. Situation géographique et historique
La propriété de Saint-Yon se situe à Rouen, au Faubourg Saint-Sever (actuel quartier Saint-Clément), sur la rive gauche de la Seine. Au XvIe siècle, ce domaine était appelé Manoir de Hauteville en raison de l’appartenance à la seigneurie de ce nom. Cette propriété eut plusieurs propriétaires4 successifs avant de devenir le manoir Saint-Yon au début du XvIIe siècle, – appellation provenant d’un de ces propriétaires: «Au mois de janvier 1604, Eustache de Saint-Yon, maître de la Chambre des Comptes de normandie, de la paroisse Saint-nicolas-le-Painteur, dont il était trésorier, devient propriétaire du Manoir de Hauteville, auquel il substituera son nom».5 Avant l’arrivée des Frères, la propriété servait de maison de campagne aux bénédictines de l’abbaye de Saint-Amand qui venaient prendre du repos dans ce lieu retiré à l’écart du tumulte de la ville située, elle sur la rive droite. Par héritage, le manoir revint à Anne de Souvré,6 veuve de François-Michel Le Tellier, ministre de la Guerre de Louis XIv. Cette dernière consentit à louer la propriété à Jean-Baptiste de La Salle pour une durée de six années. Il y installa sans tarder un noviciat, le siège de son administration ainsi qu’une communauté de Frères âgés. Arrivé en 1705, et à peine installé le noviciat précédemment à Paris, M. de La Salle ouvrit, dès le mois d’octobre, où l’on enseignait la tenue des livres les mathématiques et le dessin, et enfin une section spéciale où étaient reçus des aliénés», dans FARCY CHAnOInE, Le Manoir de Saint-Yon au Faubourg Saint-Sever de Rouen, Rouen, Éditions Henri Defontaine, 1936, p. 51. 4 Pour plus de détails voir FARCY CHAnOInE, op. cit., p.16-22. 5 CHAnOInE FARCY, op. cit., p. 22. 6 Marquise de Courtanvaux épouse François-Michel Le Tellier, marquis de Louvois. Il meurt le 16 juillet 1691 à versailles à l’âge de 50 ans.
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un pensionnat destiné aux enfants de la bourgeoisie rouennaise pour financer sa maison de formation.
1.2. Les locaux
La propriété, étendue sur sept hectares, formait un vaste triangle délimité au sud-est par la rue Saint-Julien et à l’ouest par la rue des Murs SaintYon, et comportait divers corps de bâtiments entourés de jardins, de cours et d’une prairie. Le chanoine Farcy précise: «Les constructions réservées aux pensionnaires formaient un carré situé vers le centre du vaste triangle que constituait la propriété. Un bâtiment spécial, un peu isolé vers la rue des Murs-Saint-Yon, était réservé à l’enseignement industriel (travail du fer et du bois, et même sculpture). Le parloir, l’infirmerie des élèves, la procure et la chapelle étaient rapprochés de la rue Saint-Julien. Le Régime7 et le noviciat étaient installés près des jardins et des prairies qui occupaient trois hectares. Enfin derrière l’abside de la chapelle, se trouvait le cimetière».8 Les bâtiments semblent avoir existé pour l’essentiel dès avant la venue des Frères. Une chapelle avait été construite par Eustache de Saint-Yon ; celle-ci étant trop petite, une nouvelle fut construite. La première pierre fut posée le 7 juin 1728 et l’édifice fut consacré le 7 juillet 1734 et dédié au SaintEnfant-Jésus. Huit jours après on y transféra, derrière l’autel, le cercueil de M. de La Salle qu’à sa mort on avait inhumé dans la chapelle Sainte-Suzanne de l’église de Saint-Sever, paroisse dont dépendait la maison de Saint-Yon. Après en avoir obtenu l’autorisation, on commença le 13 février 1728 à inhumer les Frères et les élèves décédés dans le petit cimetière de la propriété. À partir de 1747 les membres du Régime eurent leur sépulture dans un caveau aménagé à l’intérieur de la chapelle. À partir de 1740 et jusqu’à la Révolution, Saint-Yon garde le même aspect extérieur. Seuls quelques aménagements intérieurs voient le jour pour répondre aux nécessités de l’organisation générale.
2. De l’origine de la Maison de Saint-Yon aux lettres patentes de 1724
En 1705, Jacques-nicolas Colbert, archevêque de Rouen de 1691 à 1707, et Camus de Pontcarré,9 Premier Président du Parlement de normandie, aident Jean-Baptiste de La Salle dans ses démarches en vue d’obtenir la jouissance de la maison de Saint-Yon pour y établir son noviciat, provisoire Le Régime était composé du Supérieur général et de ses deux Assistants. CHAnOInE FARCY, op. cit., p. 52. 9 nicolas-Pierre-Camus de Pontcarré (1667-1734), Premier Président du Parlement de Rouen, depuis 1703. Il bénéficiait de soutiens importants à versailles, notamment de celui de Mme de 7 8
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de 1705 à 1709, puis définitif à partir en 1715, dans lequel demeure le Supérieur.10 Le noviciat est confié à Fr. Barthélemy.11 Un contemporain, le père Ignace, écrit à ce sujet: Jean-Baptiste de La Salle «vint lui-même à Rouen avec quatre Frères ; lesquels se dispersèrent à différents quartiers de la ville, pour y instruire les enfants qui se présentaient; ils se multiplièrent si abondamment en peu de temps, qu’on fut obligé d’augmenter le nombre des Frères pour le contentement du public».12 Peu après, Jean-Baptiste de La Salle décide d’introduire au pensionnat de Saint-Yon un enseignement moderne destiné à former des commerçants.13 Des familles aisées de Rouen et des environs y envoient leurs enfants.14 Une section de l’établissement est réservée aux enfants difficiles que leurs parents et les écoles classiques ne parviennent pas à éduquer. Cette spécificité attire l’attention du Premier Président du Parlement de normandie, Camus de Pontcarré, qui demande à Jean-Baptiste de La Salle d’ouvrir une pension de force – désignée parfois sous le nom de Maison de Saint-Lazare – dans laquelle seraient envoyés les délinquants.15 Il s’agissait de jeunes hommes aux comportements scandaleux ou ayant terni la réputation de leur famille pour lesquels on souhaitait éviter une condamnation et un empri-
Maintenon. Le 18 septembre 1708, cette dernière écrivait à Claude-Maur d’Aubigny, archevêque de Rouen de 1708 à 1719: «Je suis charmée de votre Premier président, et je ne puis vous plaindre tant que vous l’avez». Le 24 septembre 1714, elle écrivait à cet archevêque: «vous m’avez donné une grande estime pour votre premier Président et ce que j’ai vu de lui, l’a encore confirmé; il suffirait qu’il fût votre intime ami, Monsieur, pour que je le distinguasse», dans Lettres de Madame de Maintenon, volume IV, 1707-1710, Édition établie et présentée par MARCEL LOYAU, Paris, Honoré Champion, 2011, p. 417 et Lettres de Madame de Maintenon, volume VI, 1714-1719, Édition intégrale et critique par JAn SCHILLInGS, Paris, Honoré Champion, 2011, p. 208. 10 YvES POUTET, Le XVIIe siècle et les origines lasalliennes, Rennes, Imprimeries réunies, 1970, t. II, p. 27 et 162; HEnRI BÉDEL, Initiation à l’histoire de l’Institut des Frères des Écoles chrétiennes. Origines: 1651-1726, Rome, F.E.C., 1995, p. 126. GEORGES RIGAULT, Histoire générale de l’Institut des Frères des Écoles chrétiennes, Paris, Plon, 1937, t. I, p. 396: «c’est, en face de Rouen, de l’autre côté de la Seine, une étendue calme. Sept hectares de jardin, de prairie, de grands arbres, avec de vastes bâtiments». 11 En 1717, Fr. Barthélemy est élu Supérieur de l’Institut. LA TOUR, Vie du Frère Irénée de l’Institut des Frères Écoles chrétiennes (1691-1747), Paris, Procure Générale, 1930, (1ère édition 1774) p. 75: «En 1715, Saint-Yon comptait cinquante religieux. Tout y était réglé dans un ordre parfait. Jean-Baptiste de La Salle y passa les deux dernières années de sa vie dans la prière et la révision de ses pieux écrits». 12 IGnACE-FRAnÇOIS FARIn, Histoire de la ville de Rouen, divisées en six parties, Rouen, chez Louis du Souillet, 1731, p. 150. 13 Sur le programme des enseignements dispensés voir: YvES POUTET, op. cit., t. I, p. 164-167. 14 H. BÉDEL, op. cit., p. 126. 15 Y. POUTET, op. cit., t. II, p. 47.
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sonnement.16 Le chroniqueur Farin écrit:
«Monseigneur le Premier Président, qui par l’attention que sa singulière piété lui faisait faire à l’utilité et aux fruits des écoles tenues par lesdits Frères, ne se contenta pas qu’ils fussent établis dans les quatre principaux quartiers de la ville, pour l’instruction des enfants du commun peuple, il voulut encore en cette même année qu’il y eût une maison destinée à retirer du libertinage les jeunes gens de famille, ce qui fut exécuté en louant la Maison de Saint-Yon du faubourg Saint-Sever de Rouen».17
Trois types de pensions coexistent à Saint-Yon: - la pension classique où les enfants reçoivent une éducation chrétienne (catéchisme, histoire sainte). Ils suivent des cours d’histoire, de géographie, de littérature, de rhétorique, mais ils reçoivent également une formation pratique et professionnelle dans des domaines tels que la comptabilité, la géométrie, l’architecture et l’histoire naturelle. Certains élèves apprennent l’hydrographie, la mécanique, la cosmographie, les mathématiques, la musique et les langues vivantes. Le latin n’est pas enseigné.18 - la pension de correction est destinée aux jeunes gens dits «libertins», qui sont placés sous la surveillance d’un Frère et suivent un règlement qui leur est bien spécifique. Quant aux matières étudiées, elles étaient similaires à celles des élèves de la pension classique.19 - la pension de force est réservée à ceux pour lesquels on souhaite éviter un emprisonnement ainsi qu’à quelques personnes perturbées mentalement.20 Un bâtiment leur est destiné. Chaque résident y a sa chambre et suit des exercices communs, des cours et des exercices manuels.21 H. BÉDEL, op. cit., p. 129 et OTHMAR WURTH, «La pédagogie de J.-B. de La Salle», Lasallianum, n° 15, Rome, novembre 1972, p. 76. 17 IGnACE-FRAnÇOIS FARIn, op. cit., p. 150. 18 G. RIGAULT, op. cit., t. I, p. 400-401. 19 G. RIGAULT, op. cit., t. I, p. 402 et Y. POUTET, Genèse et caractéristiques de la pédagogie lasallienne, Éditions Don Bosco, 1995, p. 184. 20 «Ouverte en avril 1716, elle reçoit des adultes envoyés par lettre de cachet. On y trouve des ecclésiastiques scandaleux, des débiles mentaux, des criminels irresponsables mais aussi des libertins, des indisciplinés, des prodigues, des joueurs, des faussaires. Saint-Yon fut alors réaménagé pour isoler et individualiser le séjour de ces nouveaux pensionnaires. Pendant près de quatre-vingts ans, ce fut une maison de force réputée. En 1786, elle accueillait quatrevingts personnes qui recevaient toutes un surnom pour que l’anonymat y soit respecté», CHRISTInE LE BOZEC, «Autour des Écoles gratuites de Rouen», Annales de Normandie, 54e année, n°4, 2004. Histoire culturelle. Rouen et la Haute-normandie. p. 343. Y. POUTET, Genèse… op. cit., p. 184-185. 21 H. BÉDEL, op. cit., p. 130. voir également les horaires des pensionnaires de force. G. RIGAULT, op. cit., t. I, p. 402-403. 16
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nous ne reviendrons pas ici sur les conflits juridictionnels qui opposent, jusqu’en 1727, le curé de Saint-Sever aux Frères de Saint-Yon, ni sur ceux avec l’archevêque de 1745.22 Suite au décès de la marquise de Louvois, en décembre 1715, les héritiers notifient aux Frères, en janvier 1718, qu’ils souhaitent vendre le domaine de Saint-Yon. Les Frères se portent acquéreurs: «Le 8 mars 1718, l’acte d’achat de Saint-Yon fut signé par Joseph Truffet, dit Frère Bathélemy, Supérieur Général, et Charles Frappet, dit Frère Thomas, procureur, au nom de tous leurs confrères. Cette belle et grande propriété leur fut cédée pour quinze mille livre».23 Il s’agit de l’unique propriété possédée par les Frères. La mort du Frère Barthélemy, survenue en 1720, produit une vive inquiétude dans l’Institut au sujet de la propriété de Saint-Yon. La crainte de perdre le deuxième signataire de l’acte d’achat fait accélérer les démarches en vue de la reconnaissance de l’Institut. Le père Farin écrit:
«L’un des deux acquéreurs de cette maison étant mort, Monseigneur le Premier Président trouva à propos qu’on eût recours à sa Majesté pour assurer cette dite maison par Lettres Patentes, il eut la bonté d’y employer son crédit et son pouvoir. Messieurs les Maire et Échevins de la ville de Rouen, toujours attentifs au bien public, voulurent y contribuer de leur part, et reçurent lesdits Frères par un acte authentique. Monseigneur de Luxembourg, Gouverneur, Monsieur de Gasville, Intendant, Monsieur Paviot, Procureur Général; et enfin toutes les personnes en place dans la ville, favorisèrent cette bonne œuvre de leur protection, ce qui engagea Monseigneur de Tressan, archevêque de Rouen, de demander au Roi lesdites lettres patentes, qui lui furent accordées à Fontainebleau le 28 septembre 1724 et expédiées au mois de janvier suivant».24
3. Documents
Les archives de la Maison généralice de Rome ont préservé le document original des lettres patentes de la fondation de l’établissement des Frères des Écoles chrétiennes de Saint-Yon à Rouen. Les archives départementales du Pas-de-Calais ont conservé plusieurs copies authentifiées de ces lettres voir à ce sujet HEnRI BÉDEL, Initiation à l’histoire de l’Institut des Frères des Écoles chrétiennes. XVIIIe siècle: 1726-1804, Rome, F.E.C., 1997, p. 22-23 et p. 36-37 et G. RIGAULT, op. cit., t. I, p. 399-400, 404-405 et t. II, p. 100-107, p. 126-127 et p. 307. 23 CHAnOInE FARCY, op. cit., p. 45-46. 24 IGnACE-FRAnÇOIS FARIn, Histoire de la ville de Rouen, divisées en six parties, Rouen, chez Louis du Souillet, 1731, p. 151. 22
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patentes. Le premier document daté de 1732, le second de 1737, et le troisième de 1740, proviennent vraisemblablement de la maison de Boulognesur-Mer. Un fascicule anonyme25 reproduit une copie de 1767. Fr. Lucard a publié le texte et Georges Rigault a également reproduit une partie de ce document dans sa monumentale Histoire générale de l’Institut des Frères des Écoles chrétiennes ; il s’agit d’une copie, dont la date n’est pas mentionnée, provenant des Archives nationales (L. 963).26 nous reproduisons ci-dessous les documents de 1724 et de 1732. L’orthographe et la ponctuation ont été modernisées. Concernant le texte de 1732, nous ajoutons, en notes de bas de page, les variantes et ajouts figurant dans les autres documents. Archives de la Maison généralice de Rome, C.B. 151, n°2, Maison-Mère, Saint-Yon, Rouen, dossier n°11: Lettres patentes pour l’Institut des F.E.C et la Maison de Saint-Yon de septembre 1724. Louis par la grâce de Dieu, roi de France et de navarre, à tous présents et à venir, salut. Les Frères des Écoles Chrétiennes de notre ville de Rouen nous ont très humblement fait représenter que feu notre amé et féal Conseiller en nos Conseils, le Sr Colbert, archevêque de Rouen27 et le Sr de Pontcarré, aussi Conseiller en nos Conseils, Premier Président en notre Cour de Parlement de cette ville, désirant remédier à l’ignorance qui régnait parmi les pauvres de ladite ville, dont les enfants ne pouvant aller aux écoles ordinaires, demeuraient errants et vagabonds dans les rues, sans discipline, dans l’ignorance de leur religion; et pour entrer aussi dans l’intention du feu Roi,28 notre très honoré seigneur et bisaïeul, qui a toujours été que les écoles fussent multipliées dans le Royaume, auraient cru qu’il n’y avait pas de meilleur moyen pour y remédier que d’appeler les suppliants de l’Institut du feu Sr Jean-Baptiste de La Salle, prêtre, docteur en théologie, et chanoine de l’église de Reims, pour établir une école de charité dans ladite ville de Rouen, où les pauvres puissent recevoir l’éducation chrétienne, et en même temps apprendre à lire, écrire, l’arithmétique gratuitement; que l’exemple de pareilles écoles dans plusieurs autres villes de notre Royaume, et particulièrement dans notre bonne ville de Paris, aurait excité ledit sieur archevêque et ledit sieur premier président à ne pas négliger, de leur part, une œuvre si utile au public et à l’État; en sorte que cet établissement aurait été formé Un mot sur les Frères des Écoles chrétiennes, Imprimerie Gratiot, 1818, p. 7-9. FR. LUCARD, Annales de l’Institut des Frères des Écoles Chrétiennes, Paris, Procure générale des Frères, 1883, t. I, p. 470-474 et GEORGES RIGAULT, op. cit., t. 2, p. 84-85. 27 Jacques-nicolas Colbert (1655-1707), archevêque de Rouen de 1691 à 1707. 28 Louis XIv. 25 26
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incontinent en l’année 1705,29 auquel Dieu aurait donné un tel succès, que par la suite il aurait été regardé comme un lieu non-seulement propre à servir d’école de sagesse aux pauvres gens de famille, tant de ladite ville que de la Province de normandie, mais encore pour corriger les libertins dont les dérèglements auraient été un scandale public; ce qui aurait paru par les enfants qui y auraient été mis en pension, et par les personnes qui y auraient été envoyées par nos lettres de cachet, et par ordre de notre dite Cour de Parlement, d’autant que les heureux succès auraient excité le zèle de quelques pieuses personnes, qui, pour fixer et perpétuer dans notre ville de Rouen un établissement si avantageux et si nécessaire, auraient été inspirées d’assurer aux suppliants la propriété de la maison de Saint-Yon, sise au faubourg de Saint-Sever, qu’ils ne tenaient d’abord qu’à titre de loyer, laquelle aurait été acquise et acquittée aux noms de deux Frères de la Société des suppliants, dont l’un est décédé; que d’ailleurs le décès avenant aussi à ce second Frère, il serait à craindre que cette maison ne tombât en des mains étrangères, à cause de la coutume de normandie:30 les exposants nous auraient très humblement fait supplier de vouloir leur accorder nos lettres de confirmation d’établissement. À ces causes et autres, à ce nous mouvants, de l’avis de notre Conseil qui a vu le contrat d’acquisition de ladite maison de Saint-Yon, du 8 mars 1718, aux noms de Joseph Truffet et Charles Frapet, Frères de ladite société,31 la quittance du parfait paiement du prix de ladite maison, du YvES POUTET, Genèse et caractéristiques de la pédagogie lasallienne, Éditions Don Bosco, 1995, p. 81: «Parallèlement, La Salle est heureux de trouver en la marquise de Louvois, qui habite Paris, une personne compréhensive. Elle a hérité, à Saint-Sever, faubourg de Rouen, de la propriété de Saint-Yon, avec maison, chapelle, écurie, dépendances et terres occupant sept hectares. Le 11 juillet 1705, elle consent une location de six ans et demi, à compter du 24 juin précédent, «pour y loger les maîtres à former pour les écoles nommés ordinairement Les Frères des Écoles chrétiennes» ». 30 JEAn YvER, «La rédaction officielle de la coutume de normandie (Rouen, 1583). Son esprit», in Annales de Normandie, 36e année, n°1, 1986, Identités normandes, p. 3-36. voir partie intitulée «Les prérogatives du seigneur du fief», paragraphe sur «la dévolution au seigneur, à défaut de lignager», p. 25 h t t p : / / w w w. p e r s e e . f r / w e b / r e v u e s / h o m e / p r e s c r i p t / a r t i c l e / a n n o r _ 0 0 0 3 4134_1986_num_36_1_1716 31 voir GEORGES RIGAULT, op. cit., t. II, p. 66: «Dans l’achat du 8 mars 1718 étaient seuls intervenus Joseph Truffet et Charles Frappet, juridiquement constitués, dès lors, propriétaires indivis du lieu, manoir et héritage appelé Saint-Yon», et t. I, p. 414-416: «La désignation des immeubles comportait “le lieu, manoir et héritage, appelé Saint-Yon, sur la paroisse de SaintSever, faubourg de la ville de Rouen, avec des terres labourables étant à la campagne, en deux pièces adjacentes, dudit lieu de Saint-Yon“. Le prix principale (…) était fixé à quinze mille livres, neuf mille payables comptant et six mille en trois échéances aux 1er janvier 1719, 1720 et 1721, avec les intérêts au denier vingt pour les sommes restant à verser». Le père Farin pré29
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5 janvier 1720, l’approbation et le consentement de feu notre amé et féal conseiller en nos Conseils, Armand Bazin de Bezons,32 archevêque de Rouen, celui de notre aussi amé et féal Conseiller en nos Conseils, le sieur de la vergne de Tressan,33 à présent archevêque de Rouen, l’acte et le consentement des maire et échevins de ladite ville, qui témoignent tous l’utilité et combien cet établissement serait avantageux en ladite ville; toutes ces pièces-ci attachées sous le contre-scel de notre Chancellerie: nous avons de notre grâce spéciale, pleine puissance et autorité royale, approuvé, autorisé et confirmé, et par ces présentes signées de notre main, approuvons, autorisons et confirmons l’établissement des exposants dans ladite maison de Saint-Yon, au faubourg de Saint-Sever de notre dite ville de Rouen, ainsi que l’acquisition qu’ils ont faite de ladite maison mentionnée au susdit contrat du 8 mars 1718, lequel sortira son plein et entier effet. voulons et nous plaît que lesdits exposants continuent à faire leur demeure dans ladite maison, pour y former non-seulement les sujets à tenir les écoles de charité pour envoyer dans différentes villes de notre Royaume, mais encore pour y tenir l’école de charité où ils enseigneront les principes de la foi catholique, apostolique et romaine, aux pauvres enfants qui leur seront envoyés de ladite ville, faubourg et environs de Rouen, et montreront aussi à lire, à écrire et l’arithmétique, le tout gratuitement; leur permettons de recevoir les pensionnaires de bonne volonté qui leur seront présentés, les sujets qui leur seront envoyés de notre part et par ordre de notre Cour de Parlement de Rouen pour mettre à la correction; comme aussi accordons et concédons auxdits exposants le droit et faculté de pouvoir jouir et posséder tous les fonds et héritages dont on pourra leur faire legs ou donations, ou qu’ils pourront acquérir de leur chef, sans préjudice toutefois des droits, devoirs et indemnités dus à d’autres seigneurs qu’à nous, desquels, à l’égard de ceux à nous appartenant, nous leur avons fait don et remise en entier, tant pour le présent que pour l’avenir. Si donnons en mandement à nos amés et féaux Conseillers, les gens tenant notre Cour de Parlement et Cour des comptes, aides et finances à Rouen, présidents et trésoriers généraux de France au bureau de nos finances établis audit lieu, et à tous autres nos officiers et juscise que «Ladite Maison a été achetée en 1718 des héritiers de Madame de Louvois, et destinée par feu Monsieur de La Salle, non-seulement pour tenir des pensionnaires, mais aussi pour en faire un noviciat dans lequel sont formés les sujets propres à être envoyés dans les différentes villes du Royaume, où il y a des écoles dudit Institut», dans Histoire de la ville de Rouen, divisées en six parties, Rouen, chez Louis du Souillet, 1731, p. 150.151. 32 Jean-Baptiste Armand Bazin de Bezons (1655-1721), archevêque de Rouen de 1719 à 1721. 33 Louis de La vergne-Montenard de Tressan (1670-1733), archevêque de Rouen de 1723 à 1733.
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ticiers qu’il appartiendra que ces présentes ils fassent enregistrer, et de leur contenu jouir et user les exposants pleinement, paisiblement et perpétuellement, sans souffrir qu’il leur soit donné aucun trouble ni empêchement, nonobstant clameur de Haro,34 chartes normandes et autres lettres à ce contraires, car tel est notre plaisir; et afin que ce soit chose ferme, stable à toujours, nous avons fait mettre notre scel à ces dites présentes. Donné à Fontainebleau au mois de septembre, l’an de grâce mille sept cent vingt-quatre, et de notre règne le dixième. [signé] Louis. [Et plus bas] par le Roi, Phélippeaux. Lesdites lettres de confirmation d’établissement d’une école de charité dans la maison de Saint-Yon, ont été enregistrées ès-registres de la Cour, pour être exécutées selon leur forme et teneur, et jouir par les impétrants de l’effet et contenu d’icelles, suivant l’arrêt de la Cour donné, la grand-chambre assemblée, le deux mars mil sept cent vingt-cinq. vu et registré pour les Bureaux des aides, suivants l’arrêt de ladite Cour, les bureaux assemblés à celui des Comptes de cejourd’hui deux juillet mil sept cent vingt-cinq; signé Dumont. Registrées ès-registres de la Cour des comptes, aides et finances de normandie, et consentant le Procureur général du Roi, pour être exécutées suivant leur forme et teneur, et aux charges portées par l’arrêt de cejourd’hui. Fait, les bureaux assemblés en celui des comptes, le deuxième jour de juillet mil sept cent vingt-cinq. [Signé] Defort. Gratis. visa Fleuriau. Pour confirmation d’une école de charité dans la maison de Saint-Yon de Rouen, signé Phélippeaux. Archives départementales du Pas-de-Calais, 4 D 1: Lettres de patentes pour l’Institut des Frères des Écoles chrétiennes, et pour la maison de Saint-Yon à Rouen, de septembre 1724, datée de 1732, 4 folios. Louis par la grâce de Dieu, roi de France et de navarre, à tous présents et à venir, salut. Les Frères des Écoles Chrétiennes de notre ville de Rouen nous ont très humblement fait représenter que feu notre amé et féal Conseiller en nos Conseils, le Sr Colbert, archevêque de Rouen et le Sr de Pontcarré, aussi Conseiller en nos Conseils, Premier Président en notre Cour de Parlement de cette ville, désirant remédier à l’ignorance qui régnait parmi les pauvres de ladite ville, dont les enfants ne pouvant35 aller aux écoles ordi34 La clameur de haro est une règle de droit qui en matière criminelle a pour but de faire arrêter sur-le-champ les malfaiteurs et qui, au civil, sert à régler sans retard les litiges qui réclament une solution urgente. 35 Fr. Lucard écrit «peuvent».
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naires, demeuraient errants et vagabonds dans les rues, sans discipline, dans l’ignorance de leur religion; et pour entrer aussi dans l’intention36 du feu Roi, notre très honoré seigneur et bisaïeul, qui a toujours été que les écoles fussent multipliées dans le Royaume, auraient cru qu’il n’y avait pas de meilleur moyen pour y remédier que d’appeler les suppliants de l’Institut du feu37 Jean-Baptiste de La Salle, prêtre, docteur en théologie, et chanoine de l’église38 de Reims, pour établir39 dans ladite ville de Rouen, où les pauvres puissent recevoir l’éducation chrétienne, et en même temps apprendre à lire,40 écrire et l’arithmétique gratuitement ; que l’exemple de pareilles écoles dans plusieurs autres41 villes de notre Royaume, et particulièrement dans notre bonne ville de Paris, aurait excité ledit feu42 sieur archevêque et ledit sieur premier président à ne pas négliger, de leur part, une œuvre si utile au public et à l’État ; en sorte que cet établissement aurait été formé incontinent en l’année 1705, auquel Dieu aurait donné un tel succès, que par la suite il aurait été regardé comme un lieu non-seulement propre à servir d’école de sagesse aux pauvres gens de famille,43 tant de ladite ville que de la Province de normandie, mais encore pour corriger les libertins dont les dérèglements auraient été un scandale public; ce qui aurait paru par les enfants qui y auraient été mis en pension, et par les personnes qui y auraient été envoyées par nos lettres de cachet, et par ordre de notre dite Cour de Parlement, d’autant que les heureux succès auraient excité le zèle de quelques44 personnes pieuses, qui, pour fixer et perpétuer dans notre ville de Rouen un établissement si45 avantageux et si nécessaire, auraient été inspirées d’assurer aux suppliants la propriété de la maison de Saint-Yon, sise au faubourg de SaintSever, qu’ils ne tenaient46 qu’à titre de loyer, laquelle aurait été acquise et acquittée aux noms de deux Frères de la Société des suppliants, dont l’un est décédé ; que d’ailleurs le décès advenant47 aussi à ce second Frère, il serait à Le document de 1740 indique: «les intentions». Le document de 1737 remplace «du feu» par «du sieur». Fr. Lucard, op. cit. t. I, p. 470 et G. RIGAULT, op. cit., t. 2, p. 84, écrivent «du feu sieur». 38 Mot supprimé dans la version de 1737. 39 Les documents de 1737, 1740, 1767, Fr. Lucard et Georges Rigault ajoutent: «une école de charité». 40 Le document de 1767 et Fr. Lucard ajoutent: «à». 41 Mot supprimé dans la version de 1737 et celle de Georges Rigault. 42 Le mot «feu» a été retiré dans les documents de 1740, de 1767 et de Fr. Lucard. 43 Le document de 1737 indique: «des familles». 44 Le document de 1737, Fr. Lucard et Georges Rigault ajoutent «pieuses» avant et non après le mot «personnes». 45 Le document de 1740 indique: «aussi». 46 Le document de 1737, Fr. Lucard et Georges Rigault ajoutent: «d’abord». 47 Les autres versions écrivent: «avenant». 36 37
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craindre que cette maison ne tombât en des mains étrangères, à cause de la coutume de normandie: les exposants nous auraient très humblement fait supplier de vouloir48 leur accorder nos lettres de confirmation d’établissement. À ces causes et autres, à ce nous mouvants, de l’avis de notre Conseil qui a vu le contrat d’acquisition de ladite maison de Saint-Yon, du 8 mars 1718, aux noms de Joseph Truffet et Charles Frapet, Frères de ladite société, la quittance du parfait paiement du prix de ladite maison, du 5 janvier 1720, l’approbation et49 consentement de feu notre amé et féal conseiller,50 Armand Bazin de Bezons, archevêque de Rouen, celui de notre aussi amé et féal Conseiller,51 le sieur de la vergne de Tressan, à présent archevêque de Rouen, l’acte et52 consentement des maire et échevins de ladite ville, qui témoignent tous l’utilité et combien cet établissement serait avantageux en ladite ville ; toutes ces pièces-ci attachées sous le contre-scel de notre Chancellerie: nous avons de notre grâce spéciale, pleine puissance et autorité royale, approuvé, autorisé et confirmé, et par ces présentes signées de notre main, approuvons, autorisons et confirmons l’établissement des exposants dans ladite maison53 mentionnée au susdit contrat du 8 mars 1718, lequel sortira son plein et entier effet. voulons et nous plaît que lesdits exposants continuent à faire leur demeure dans ladite maison, pour y former non-seulement les sujets54 à tenir les écoles de charité pour envoyer dans différentes villes de notre Royaume, mais encore pour y tenir l’école de charité où ils enseigneront55 les principes de la foi catholique, apostolique et romaine, aux pauvres enfants qui leur seront envoyés de ladite ville, faubourg et environs de Rouen, et montreront aussi à lire et à écrire et l’arithmétique, le tout gratuitement; leur permettons de recevoir les pensionnaires de bonne volonté qui leur seront56 envoyés57 de notre part et par ordre de notre Cour de Parlement de Rouen Le document de 1767, Fr. Lucard et Georges Rigault ajoutent: «bien». Le document de 1740 et Georges Rigault ajoutent: «le». 50 Le document de 1767, Fr. Lucard et Georges Rigault ajoutent: «en nos Conseils». Celui de 1740 supprime le passage suivant: «notre amé et féal conseiller» 51 Les documents de 1737, 1740, 1767, Fr. Lucard et Georges Rigault ajoutent: «en nos Conseils». 52 Le document de 1767 ajoute: «le». 53 Les documents de 1737, 1740, 1767, Fr. Lucard et Georges Rigault ajoutent: «de Saint-Yon, au faubourg de Saint-Sever de notre dite ville de Rouen, ainsi que l’acquisition qu’ils ont faite de ladite maison». 54 Le document de 1740 ajoute: «propres». 55 Dans le document de 1740, il est écrit: «où ils enseignent». 56 Le document de 1767, Fr. Lucard et Georges Rigault ajoutent: «présentés, les sujets qui leur seront». 57 Le document de 1740: «qui leur seront présentés, les sujets qui leur seront envoyés». 48 49
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pour mettre à la correction; comme aussi accordons et concédons auxdits exposants le droit et faculté de pouvoir jouir et posséder tous les fonds et héritages dont on pourra leur faire legs ou donations, ou qu’ils pourront acquérir de leur chef, sans préjudice toutefois des droits, devoirs et indemnités dus à d’autres seigneurs qu’à nous, desquels, à l’égard de ceux à nous appartenant, nous leur avons fait don et remise en entier, tant pour le présent que pour l’avenir. Si donnons en mandement à nos amés et féaux Conseillers, les gens tenant notre Cour de Parlement et Cour des comptes, aides et finances à Rouen, présidents et trésoriers généraux de France au bureau de nos finances établis audit lieu, et à tous autres nos officiers et justiciers qu’il appartiendra que ces présentes ils fassent enregistrer et de leur contenu jouir et user les exposants pleinement, paisiblement et perpétuellement, sans souffrir qu’il leur soit donné aucun trouble ni empêchement, nonobstant clameur de Haro, chartres58 normandes et autres lettres à ce contraires, car tel est notre plaisir; et afin que ce soit chose ferme, stable59 à toujours, nous avons fait mettre notre scel à ces dites présentes.60 Donné à Fontainebleau au mois de septembre, l’an de grâce mille sept cent vingt-quatre, et de notre règne le dixième. Signé, Louis. Et plus bas61 par le Roi, Phélipeaux; à côté visa Fleuriau pour confirmation d’une école de charité dans la maison de Saint-Yon de Rouen, signé Phélippeaux. Lesdites lettres de confirmation d’établissement d’une école de charité dans la maison de Saint-Yon, ont été enregistrées ès-registres de la Cour, pour être exécutées selon leur forme et teneur, et jouir par les impétrants de l’effet et contenu d’icelles, suivant l’arrêt de la Cour donné,62 la grand-chambre assemblée, le deux mars mil sept cent vingt-cinq. Signé, Auzenet. Gratis.63 Fr. Lucard écrit: «chartes». Le document de 1767, Fr. Lucard et Georges Rigault ajoutent: «et». 60 Dans le document cité par Georges Rigault, il est écrit: «Le grand sceau de cire verte, en lacs de soie rouge et verte, sur le repli, le ministre d’État Phélypeaux a contresigné, le garde des sceaux Fleuriau a mis son visa». 61 Le document de 1737, supprime «et plus bas»; celui de 1767 remplace: «Et plus bas» par «Sur le rempli». Fr. Lucard remplace ce paragraphe par celui-ci: «Sur le rempli: Par le Roi, Phélippeaux, avec grille et paraphe. Lesdites lettres scellées du grand sceau de cire verte, en lacs de soie rouge et verte. Sur le rempli est encore: visa, signé Fleuriau, avec paraphe». 62 Le document de 1767 et Fr. Lucard remplacent: «donné» par «rendu». 63 Le document de 1737 omet ce paragraphe et il est écrit: «Copie conforme à la grosse qui est ès mains de soussigné à Boulogne, ce 17 septembre 1737. Fr. Louis de Conzague de l’école chrétienne». Dans les documents de 1740, de 1767 et de Fr. Lucard est ajouté: «vu et registré pour le bureau des aides, suivants l’arrêt de ladite Cour, les bureaux assemblés à celui des comptes de cejourd’hui deux juillet mil sept cent vingt-cinq; signé Dumont, avec paraphe. 58 59
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Extrait des registres de la Cour de Parlement de Rouen.64 vu par la Cour la Grand-Chambre assemblée, la requête présentée à icelle par les Frères des Écoles chrétiennes établies en cette ville, à ce qu’il lui plût ordonner que les lettres patentes à eux accordées par Sa Majesté à Fontainebleau, au mois de septembre dernier, par lesquelles sa dite Majesté, pour plusieurs considérations et les causes y contenues, confirme l’établissement de l’école de charité, et leur demeure, dans la maison de Saint-Yon, sise dans le faubourg de Saint-Sever de cette ville, aux clauses et conditions référées auxdites lettres, seront registrées ès-registres de la Cour, pour être exécutées selon leur forme et teneur, et jouir par les impétrants de l’effet et contenu d’icelle ordonnance étant au bas de ladite requête en date de cejourd’hui, portant: Soit communiqué au Procureur général du Roi; lesdites lettres de confirmation ci-dessus datées, et autres pièces attachées sous le contre-scel d’icelles; Conclusions du Procureur général du Roi: et ouï le rapport du sieur Beaudoin du Basset, Conseiller commissaire: Tout considéré, la Cour, la Grand-Chambre assemblée, a ordonné et ordonne que lesdites lettres de confirmation d’établissement d’une école de charité dans la maison de Saint-Yon seront registrées ès-registres de la Cour, pour être exécutées selon leur forme et teneur, et jouir par les impétrants de l’effet et contenu d’icelles. À Rouen, en Parlement, le deux mars 1725. Signé Auzanet. Gratis.65 vu aux archives. Registrées ès-registres de la Cour des comptes, aides et finances de normandie, et consentant le Procureur général du Roi, pour être exécutées suivant leur forme et teneur, et aux charges portées par l’arrêt de cejourd’hui. Fait, les bureaux assemblés en celui des comptes, le deuxième jour de juillet mil sept cent vingt-cinq. Signé, Fort. Gratis. vu et registré pour les Bureaux des aides, suivants l’arrêt de ladite Cour, les bureaux assemblés en celui des Comptes de cejourd’hui deux juillet mil sept cent vingt-cinq; signé Dumont. Gratis. Collationné sur les originaux en parchemin représentés et a suivant rendus par nous Conseillers du Roi, notaires à Rouen soussignés, ce vingt septembre mil sept cent trente-deux. Signé Prebauvaq, Dourz.66 Registrées ès-registres de la Cour des comptes, aides et finances de normandie; ce consentant le Procureur général du roi, pour être exécutées selon leur forme et teneur, et aux charges portées par l’arrêt de cejourd’hui. Fait, les bureaux assemblés en celui des comptes, ce deuxième jour de juillet mil sept cent vingt-cinq. Signé, Dejou, avec paraphe. Gratis». 64 Les documents de 1737, 1740 et Georges Rigault ne mentionnent pas cet extrait. 65 Ajout dans le document de 1767 et celui de Fr. Lucard: «Collationné, signé, Heuzé, avec paraphe. vu aux archives, un paraphe sur lacs de parchemin, et un sceaux en cire jaune». 66 Dans le document de 1740, ce paragraphe est remplacé par celui-ci: «Collationné sur l’original à nous représenté par Frère Étienne, Procureur de la communauté de Saint-Yon de
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Contrôlé a Rouen, ce 20 septembre 1732, Reçu six sols. Signé Cautret.
4. Conclusion
L’obtention des lettres patentes de la Maison de Saint-Yon constituent l’une des premières étapes de l’officialisation de l’Institut des Frères des Écoles chrétiennes. Le chroniqueur rouennais a décrit l’acte de fondation:
«notre Saint-Père le Pape Benoît XIII, sur la recommandation de plusieurs cardinaux, archevêques et évêques de France, a approuvé l’établissement des Frères des Écoles chrétiennes, par une bulle expresse donnée à Rome le 26 janvier 1725, par laquelle il les oblige aux vœux de Religion; le Roi a mis ses lettres d’attaches aux dites bulles, lesquelles furent enregistrées au Parlement de Rouen, le 12 mai de la même année. Le Frère Supérieur général de l’Institut envoya ensuite deux des Frères pour remercier Sa Sainteté et lui baiser les pieds, ils furent présentés par Monseigneur le cardinal de Polignac, Sa Sainteté leur accorda de très belles indulgences par une bulle qui fut expédiée le 4 mars 1727 dans laquelle Sa Sainteté approuve derechef ledit Institut, ils obtinrent aussi plusieurs belles reliques, entr’autres un petit morceau du bois de la vraie Croix; et furent mises dans plusieurs chasses à Saint-Yon, par Monsieur l’abbé de Saint-Jal, maintenant évêque d’Uzès».67
Rouen par nous Conseillers du Roi, notaires à Rouen, soussignés ce fait rendu à Rouen ce 8 novembre 1740. Signés Frère Estienne, Lefebvre, Dourz. Contrôlé à Rouen le 8 novembre 1740. Reçu six sols. Signé Adomme». Dans le document de 1767, ce paragraphe est remplacé par celui-ci: «Collationné sur les originaux représentés aux conseillers du Roi, notaires gardes-note à Rouen soussignés, par Frère Florence, procureur de la communauté de SaintYon, établie au faubourg et paroisse de Saint-Sever de cette ville de Rouen y demeurant, à ce présent, auquel ils ont été rendus à l’instant, le 19 février 1767, et ont signé. vilecoq. vasse. Contrôlé à Rouen le 19 février 1767». 67 IGnACE-FRAnÇOIS FARIn, op. cit., p. 151.
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LA CASA DEI FRATELLI DELLE SCUOLE CRISTIANE DI SAINT-YON Lettere Patenti del settembre 1724*
La casa di Saint-Yon a Rouen fu d’importanza capitale per l’Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane per quasi tutto il XvIII secolo (17111771), tanto da identificare i Fratelli con l’appellativo di “Fratelli Yonteni”, e fu l’ultima dimora del Fondatore G.B. de La Salle. Ma Saint Yon fu anche qualcosa di più, perché aveva già una sua lunga storia e perché per opera dei Fratelli divenne un centro di molteplici attività oltre che sede dell’amministrazione generale dell’Istituto. Era una costruzione singolare e la più grande di tutto l’Istituto dei Fratelli: vi poterono convivere il noviziato, un libero pensionato, una “casa di correzione e di pena”, dava asilo ai Fratelli attempati o infermi e assicurava “le risorse destinate al funzionamento dei servizi generali”. Era anche la sede dei Superior Generale. La storia di questa casa e soprattutto del suo riconoscimento legale presso il Parlamento è interessante per diversi motivi. Con la Bolla di Approvazione del 1725 essa divenne il simbolo della legalità dell’Istituto: ciò che gli permise di svilupparsi senza alcun impedimento. Servì anche di modello per altre istituzioni dei Fratelli, come quella di Mareville o di Angers. Gli archivi della Casa Generalizia in Roma conservano un documento datato 1724 che sembra essere la pergamena originale delle “Lettere Patenti” della casa di Saint-Yon; gli Archivi dipartimentali del Pas-de-Calais, invece, custodiscono diversi documenti relativi a queste Lettere Patenti. Il loro studio permette di precisare alcuni aspetti della storia dell’Istituto. nel 1705 mons. Jacques nicolas Colbert, arcivescovo di Rouen dal 1691 al 1707 e Camus de Pontcarré, Primo Presidente del Parlamento di normandia, aiutarono G.B. de La Salle a prendere possesso della Casa di Saint-Yon e a stabilirvi un noviziato, provvisorio negli anni 1705-1709 e definitivo dal 1715, nel quale il Superiore fissò anche la sua dimora. Il noviziato fu affidato a Fratel Barthélemy. Poco dopo, G.B. de La Salle decise di introdurre nel pensionato di SaintYon un insegnamento moderno destinato a formare i commercianti: alcune famiglie agiate di Rouen e dintorni vi inviarono i loro figli. Un settore della casa fu riservata ai ragazzi “difficili”, i cui genitori e le scuole tradizionali non erano riusciti ad educare. Questa specificità atti* Traduzione dalla lingua francese di Italo Carugno.
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rò l’attenzione del Primo Presidente del Parlamento della normandia, sig. Camus de Pontcarré, il quale chiese a G.B. de La Salle di aprire una casa di correzione, talvolta indicata con il nome di Casa San Lazzaro, nella quale dovevano essere indirizzati i corrigendi. Si trattava di giovani dal comportamento scandaloso, che avevano offuscato il buon nome della famiglia e per i quali si voleva evitare una condanna e la prigione. In seguito alla morte del marchese de Louvois, avvenuta nel dicembre 1715, gli eredi notificarono ai Fratelli nel 1718 che intendevano vendere il plesso di Saint-Yon. I Fratelli si offrirono come acquirenti. “L’8 marzo 1718 l’atto di acquisto di Saint-Yon fu firmato da Giuseppe Truffet (Fr. Barthélemy, Superior Generale) e da Carlo Frappet, (Fr. Tommaso, Procuratore) a nome dei confratelli. Quella bella e grande proprietà fu loro ceduta per 15.000 lire” ed era l’unica proprietà posseduta dai Fratelli. La morte di Fr. Barthelemy, avvenuta nel 1720, suscitò una certa inquietudine nell’Istituto sulla proprietà di Saint-Yon: il timore di perdere il secondo firmatario dell’atto d’acquisto fece accelerare l’iter per il riconoscimento dell’Istituto. La concessione delle “Lettere Patenti” alla casa di Saint-Yon costituiscono una delle prime tappe dell’ufficializzazione dell’Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane. Qui di seguito riportiamo il testo originale del 1724 e le sue differenti copie del XvIII secolo.
JEAN-BAPTISTE DE LA SALLE
OPERE COMPLETE in 6 volumi, rilegati con sovracoperta, 22 x 15 cm. Prima edizione italiana a cura di SERAFINO BARBAGLIA
1. Scritti Spirituali / 1 Raccolta di vari Trattati brevi – Regole – Scritti personali. Presentazione di A. HOURY – Introduzione di M. SAUVAGE e M.-A. HERMANS, pp. 544.
2. Scritti Spirituali / 2 Meditazioni – Spiegazione del metodo di orazione. Presentazione di J. JOHNSTON, pp. 1194.
3. Scritti Pedagogici Guida delle Scuole cristiane – Regole di buona creanza e di cortesia cristiana. Edizione italiana a cura di R. C. MEOLI, pp. 480.
4. Scritti Catechistici I doveri del cristiano verso Dio. Traduzione e note a cura di G. DI GIOVANNI e I. CARUGNO, pp. 862.
5. Istruzioni e Preghiere Istruzioni e preghiere – Esercizi di pietà – Canti spirituali, Traduzione e note a cura di S. BARBAGLIA e I. CARUGNO. Presentazione di Á. RODRIGUEZ ECHEVERRÍA, pp. 470.
6. Le Lettere Traduzione e note a cura di S. BARBAGLIA. Introduzione di R. L. GUIDI, pp. 560. CITTÀ NUOVA EDITRICE Via degli Scipioni, 265 – 00192 Roma tel. 063216212 – comm.editrice@cittanuova.it Per informazioni e ordinazioni: Viale del Vignola, 56 - 00196 Roma tel. 06.322.94.503 - E-mail: gabriele.pomatto@gmail.com tel. 06.322.94.235 - E-mail: fedoardo@pcn.net
Rivista Lasalliana 81 (2014) 3, 427-431
RECENSIONI E NOTE
GIOVANNI CHIMIRRI, Relativismo morale e teologia del bene. Il senso cristiano dell’etica, Chirico, Napoli, 2013, pp. 144.
L’agile volume del Chimirri, che inaugura la nuova collana “Filosofia cristiana oggi” (diretta dallo stesso), unisce sapientemente aspetti antropologici e riflessioni teologiche. Esaminate nel primo capitolo le mistificazioni della libertà tipiche dell’esistenzialismo ateo, nel secondo capitolo si conduce una serrata fondazione religiosa della stessa, per la quale l’uomo è «libertà creata, quindi non assoluta ma in stretta dipendenza collaborativa con la libertà divina». Il terzo capitolo discute il problema del relativismo morale oggi imperante, ma giudicato improponibile e filosoficamente ingiustificabile. Il quarto capitolo, poi, contesta la validità di ogni etica puramente umana chiusa gratuitamente ad ogni finalità metaempirica. Un legittimo pluralismo culturale (tipico delle società moderne) non elimina affatto la necessità di principi morali universali che l’uomo si deve sforzare di attuare in ogni contesto storico. La morale ha certo una sua autonomia (vedi il rinato dibattito sull’“etica naturale” o la massima per la quale “la grazia non toglie la natura”), eppure essa (la morale) trova un senso compiuto e ultimo solo all’interno di una visione complessiva dell’umano che non può esaurirsi nella finitudine delle realtà terrene. In merito, si completa il discorso (capitolo quinto) sulla fondazione teologica della morale
mettendo a confronto la “filantropia” (l’amore solo umano) e la “carità” (l’amore umano e cristiano), rilevando una decina di capitali differenze/divergenze. Chiude il volume un sesto ed ultimo capitolo dedicato alla discussione sul concetto di “laicità”, ossia, sul rapporto religione/politica e Stato/Chiesa, e si critica l’intollerante “laicismo anticlericale” di matrice illuministica. Un libro che affronta temi cruciali di oggi, chiaro e documentato, che va a fondo nei problemi, che illustra le tesi avversarie per poi criticarle e riproporre i perenni principi della filosofia cristiana. Donato Petti DAL COVOLO E.-LEMMA S., La luce della fede. Conversazione con Susanna Lemma, Lateran University Press, 2013, pp. 160. 16,00.
Nel Volume “Luce della fede”, Enrico dal Covolo presenta l’Enciclica Lumen fidei. Nell’introduzione, l’autore analizza e mette in contrapposizione i diversi percorsi seguiti nello stesso ambito dai due Pontefici Benedetto XVI e Francesco. Nella prima parte, partendo dalla citazione della lettera di Giovanni (1Gv 4,16) e dall’Enciclica (“Abbiamo creduto all’amore”), è affrontato l’argomento della fede. La fede come memoria del futuro rimane aperta alla speranza dei “cieli nuovi” e della “terra nuova”. L’autore riprende l’esortazione di Papa Fran-
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cesco ai giovani “Non lasciatevi rubare la speranza”. Se muore la speranza è avvelenato il futuro e l’uomo e il credente naufragano nell’abisso del non senso. Per rieducare alla speranza bisogna rifondare la scala dei valori ed offrire l’esperienza dei valori autentici all’uomo. In questo percorso la Chiesa interviene liberando l’uomo da tante idolatrie che si trovano in lui, esortandolo ad affidarsi a un Dio misericordioso, come il Nostro, che va in cerca della pecorella smarrita e che non abbandona nessuno, neppure il più grande peccatore. I giovani oggi devono dunque fidarsi dell’amore di Dio che è presente in Gesù Cristo. A tal fine, è affrontato anche il tema delle motivazioni che inducono il cattolico moderno a non vivere bene la propria fede. Il primo errore dell’uomo può essere individuato nel ripiegamento della ragione su se stessa, mentre la ragione dovrebbe essere allargata per avventurarsi negli spazi della fede e dell’amore. Il secondo errore può riguardare il fai da te dell’uomo, che non considera che la fede cristiana non può ridursi ad una cosa intima e privata, che esclude la vita nella Chiesa. Dal Covolo continua la riflessione sulle parole di Isaia: “Se non crederete, non comprenderete”, che deriva dal fatto che nella società attuale è sempre più difficile credere in qualcosa che non si può sperimentare in maniera tangibile. Al riguardo, è possibile citare la celebre frase di Pascal: “L’atto supremo della ragione sta nel riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano”. L’uomo in realtà non può pretendere di conoscere tutto con la sola ragione. Il libro è il frutto di un continuo dialogo dell’autore con i giovani, vissuto nelle sue diverse esperienze sia in ambito universitario che da salesiano. Al riguardo, l’autore ritiene che sia fondamentale la formazione dei giovani e degli educatori,
poiché attualmente i giovani sono affetti dal nichilismo, per cui non c’è niente per cui valga la pena vivere e morire. Il libro, che tratta argomenti di teologia, filosofia e fede, è scritto in modo semplice, nella forma di un’intervista all’autore. I temi molto complessi dell’Enciclica sono affrontati concretamente dall’autore grazie alle sue esperienze dirette con i giovani e sono trattati in modo da stimolare profonde riflessioni e da essere facilmente interiorizzati. Dal Covolo riesce a dare una fotografia chiara dei problemi dell’uomo contemporaneo e suggerisce un percorso di fede autentico per favorire l’incontro con Cristo, che è luce e pace interiore. Sr. Angèle Bilégué DE LUCA A.-PEZZELLA A.M., Con i tuoi occhi. Sull’ intersoggettività, Mimesis, Milano, 2014, pp. 253. e 20,00.
Con i tuoi occhi. Sull’intersoggettività affronta il rapporto con l’altro/Altro muovendo da un assunto fondamentale: non è possibile dirsi “io” senza il passaggio attraverso il “tu”. In un’età in cui l’individuo è il protagonista assoluto, parlare di intersoggettività e di relazione può sembrare un controsenso, eppure nel testo viene più volte sottolineato che il vivere in relazione precede l’individuo e che si diviene uomini e donne solo se si vive all’interno di una comunità. Infatti, l’identità non è un dato immediato, il riconoscimento di sé, come afferma Ricoeur, passa sempre attraverso l’alterità. Il destino dell’essere umano è quello di essere animal socialis: l’Io non è solo un membro del Noi, ma anche il Noi è un membro necessario dell’Io, scrive M. Scheler. Muovendo da queste considerazione di fondo il testo affronta la questione della
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relazione intersoggettiva da diversi punti di vista: filosofico, psicologico, psicoanalitico, psicopatologico, neuroscientifico. Per quel che concerne l’aspetto filosofico, il testo offre un percorso interessante e puntuale che delinea la questione a partire dall’età antica fino alla contemporaneità, sebbene poi si siano esaminati principalmente filosofi del Novecento, perché è nel secolo scorso che è esplosa in tutta la sua forza l’emergenza dell’altro. E questo perché a fronte di un pensiero che aveva maturato categorie quali persona, singolo, individuo, diversità , alterità, relazione, libertà si sono verificate le peggiori efferatezze che hanno annullato la dignità della persona umana. Dei filosofi del Novecento sono stati scelti quei pensatori e quelle pensatrici che hanno fatto della persona, dell’altro/Altro il tema di fondo delle loro indagini, per cui si è potuto enucleare, da un punto di vista teoretico, la questione in modo più efficace ed esemplare. E. Husserl, E. Stein, R. Guardini, M. Buber, J.P. Sartre, E. Levinas, S. Weil, M. Zambrano sono i filosofi esaminati. Il secondo nucleo del testo si incentra sulla relazione terapeutica in cui un rapporto corretto ed equilibrato con il paziente è fondamentale per alleviare le sofferenze di quest’ultimo. Tale aspetto è stato affrontato da più punti di vista: dal versante delle neuroscienze a quello psicoanalitico e psichiatrico a quello psicologico. Ciò che tiene insieme i diversi contributi è il ruolo attribuito all’ascolto empatico, in quanto solo tale atteggiamento del terapeuta, nonché la messa in gioco della sua soggettività, può migliorare la qualità di vita del paziente. Sullo sfondo c’è l’assimilazione della lezione fenomenologica, che ricorre spesso nei testi, perché ha contribuito notevolmente alla trasformazione della psicopatologia, della psichiatria e, negli ultimi anni, anche delle neuroscien-
ze. Infatti, si evidenzia che le grandi aperture d’orizzonte della psicopatologia e della psichiatria si debbono ai concetti husserliani di crisi, di intenzionalità della coscienza, di mondo della vita per cui è stato possibile riflettere sul rapporto intersoggettivo, sulla corporeità, sull’incontro, sul bisogno di cogliere l’Alter-Ego anche nei casi clinici più inequivocabili e nell’alienato più radicale (Cfr. p. 20). Il testo non è diviso in sezioni o capitoli; infatti, tra i due nuclei non c’è una cesura, perché i curatori hanno voluto sottolineare una continuità/contiguità degli argomenti. È, infatti, un testo articolato, composto da diversi piani che possono essere esaminati singolarmente ma che, se intersecati, offrono una visione organica della questione intersoggettiva mostrando, in questo modo, che l’assenza di pregiudizi disciplinari dà la possibilità di guardare ai problemi in modo più ampio e con maggiore cognizione di causa. Anna Maria Pisauro
PATRIZIA SAVIO, La costruzione dell’identità nazionale nel libro per la scuola elementare tra Otto e primo Novecento. Storia Patria, Diritti e Doveri, Geografia, Letture (1888-1894-1905) pp. 750.
Dottorato in Scienze Umane (indirizzo Scienze dell’Educazione e della Formazione), Università di Torino (a.a. 2007-20082009). Supervisore accademico: Giorgio Chiosso (consultabile su lasalliana.it). La ricerca focalizza l’attenzione sui libri per l’istruzione elementare di «Storia patria», «Diritti e Doveri», «Geografia» e «Letture», pubblicati tra la fine dell’Ottocento ed i primi decenni del Novecento, con l’obiettivo di verificare come si tentò, nell’arco di tempo consi-
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RECENSIONI E NOTE
derato, di promuovere la formazione di una precisa identità nazionale nelle future generazioni di italiani. Lo studio compiuto su 593 manuali, alcuni dei quali appartenenti alla comunità lasalliana, si concentra dapprima sui testi di «Storia patria» (53) dei quali si è analizzata la modalità e la concezione posta alla base della narrazione degli avvenimenti del Risorgimento italiano e la descrizione dei suoi principali protagonisti (Cavour, Garibaldi, Mazzini, i Savoia, Vittorio Emanuele II, etc.); prosegue poi con l’esame dei testi sui «Diritti e Doveri» (14) dei quali si è principalmente considerato lo spazio dato al “problema sociale”, se e come erano presentati alcuni diritti/doveri (servizio militare, lavoro, istruzione, etc.) ed il rapporto tra lo spazio dato ai doveri rispetto a quello lasciato ai diritti; continua con i libri di «Geografia» (98) il cui interesse si è concentrato sulla modalità di presentazione dell’Italia e/o delle singole realtà regionali, degli altri Stati europei e dei cinque continenti nel loro sviluppo politico, economico, sociale e culturale, posto in confronto con quello europeo; e sullo spazio riservato alla politica espansionistica e coloniale intrapresa tra XIX e XX secolo anche dal governo italiano; si conclude infine con l’analisi dei libri di lettura (428) i cui autori sono stati selezionati non solamente in base (si pensi ad esempio a I. Baccini, P. Dazzi, P. Fornari, etc.), ma anche alla loro provenienza geografica di appartenenza e, soprattutto, valutando il modello pedagogico da essi proposto alla scolaresca. Il quadro che scaturisce dalla ricerca condotta, fortemente condizionata dalla reperibilità delle fonti, consente di ipotizzare che, tra le discipline considerate, probabilmente furono soprattutto due – «Storia patria» e «Diritti e Doveri» – a
cui la classe dirigente liberale postunitaria affidò il compito di «fare gli italiani». Tale ufficio andava compiuto sia attraverso la costruzione di una «memoria storica comune» e la determinazione di un patrimonio di valori, di tradizioni e di esempi tratti dalla storia nazionale, sia con la formazione di una basilare educazione civica, presupposto quest’ultimo indispensabile per una partecipazione maggiore e più consapevole alla vita politica e sociale degli abitanti dello stivale e, quindi, definire l’identità civile e patriottica degli italiani. Alle letture, invece, fu affidato principalmente il compito di formare il cosiddetto «galantuomo italiano», cioè un uomo “operoso”, “virtuoso” e/o una giovinetta “dabbene”, cioè una donna «abile» nelle faccende domestiche ed una madre «amabile»; così come la geografia fu in parte utilizzata all’interno di quel progetto di “nazionalizzazione complessiva” del «popolo italiano». La dichiarazione della presunta “superiorità” civile, culturale, economica e morale dell’Europa su tutti gli altri continenti, così come la teoria della classificazione del genere umano elaborata dall’antropologo, fisiologo e naturalista tedesco Johann Friedrich Blumenbach, unite, furono utilizzate per legittimare la “superiorità” della razza caucasica su tutte le altre e, di conseguenza, per giustificare la politica espansionistica intrapresa a fine Ottocento anche dal governo italiano ed infondere nelle nuove leve di italiani un forte senso di coesione nazionale e far nascere in loro il vanto di appartenere ad una nazione «potente», progredita culturalmente, economicamente, militarmente e moralmente. Il lavoro è consultabile sul sito: www. lasalliana.it
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J.M. COETZEE, L’infanzia di Gesù, Einaudi, 2013, pp.200. € 20,00. Coetzee, Gesù e Don Chisciotte
Dopo i bellissimi “Vergogna” e “Aspettando i barbari”, cui sono seguite prove, forse, meno significative, lo scrittore sud-africano J.M. Coetzee (Nobel 2003), uno dei più interessanti autori dell’ultimo ventennio, si impone nuovamente all’attenzione di pubblico e critica con un romanzo unico e sorprendente, destinato a far riflettere, probabilmente discutere (è un bene), sicuramente a lasciare un segno. Ne “L’infanzia di Gesù” un bambino di nome David ed un uomo, Simòn, che per l’intera vicenda sconterà il dramma di non essere suo padre ma di amarlo come tale, approdano in un “non luogo” – dove nessuno ha memoria del proprio passato, prospettiva di futuro e, alla fine, nemmeno consapevolezza del presente, che solo alcuni tentano di decifrare – per cercare la Madre del piccolo che, al momento opportuno, saprà riconoscerlo. Unica concessione alla decifrabilità geografica di uno spazio che rimanda a Beckett più che all’amato Kafka e, comunque, ad Orwell e al McCarthy de “La strada” (questo anche per il rapporto padre/figlio), l’identità spagnola del linguaggio, della toponomastica e del fondamentale riferimento letterario che percorre l’intero libro: ancora lui, Don Chisciotte, modernissimo anti-eroe, enigmatica, indimenticata presenza della “Scena perduta” di Yehoshua, mito caro a tanta narrativa contemporanea. Precisiamo subito che David è Gesù tanto quanto Leopold Bloom è Ulisse: riconoscere nello svolgersi della trama epifanie/anticipazioni della vita del Salvatore è possibile, certo complesso (alcuni riferimenti, peraltro, alle nozze di Cana, alla Resurrezione, al miracolo del paralitico, al
viaggio verso Betlemme sono molto chiari) come riconoscere nel testo joyciano le tappe del viaggio di Odisseo. Probabilmente superfluo, ed è questo il punto. Anche (credere di) intravedere nei maestri del piccolo David i Dottori della Legge – e nella scuola il Tempio, con le sue ipocrisie ed i suoi divieti – nell’ambiguo, fascinoso Daga Satana e nella splendida figura di Simòn, che vive di amore e abnegazione, S. Giuseppe (straordinario e vincente, non solo narratologicamente, su Inés-Maria… aperto il dibattito!), non aggiunge fascino e suggestione all’Infanzia di Gesù che costituisce, al di là di tutto, un profondo e radicale atto di fiducia nel domani, affidato al più bel ritratto di adolescente dopo l’indimenticabile Oskar di “Molto forte, incredibilmente vicino”. David che chiede sempre “cos’è?” e risponde alle domande con “perché?”, David che vuole donare il suo respiro a chi muore, accoglie l’amicizia degli emarginati e crede che la pioggia sia il sospiro del cielo, non accetta i maestri e fugge da scuola ma conosce il segreto dei numeri e delle parole, David che – dolcissimo e insieme irriducibile sino all’irascibilità – ama Don Chisciotte, Cristo incompreso e deriso (e qui lo scrittore rielabora felicemente la discussa ipotesi critica di Miguel de Unamuno sul cavaliere errante “incarnazione ultima del volto di Gesù”1), bene, questo David è fra noi, con il suo messaggio scomodo e le sue richieste ineludibili. Solo chi saprà ritrovare il senso della vita, sembra volerci comunicare, a costo – o forse solo a patto – di inventarne una nuova, per sé e per gli altri, potrà dire di conoscersi e avere realmente vissuto. Non potevamo attenderci augurio migliore per questo nostro incerto 2014. Marco Camerini
MIGUEL DE UNAMUNO, Vita di Don Chisciotte e Sancho Panza, Mondadori, Milano, 2006. 1
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SEGNALAZIONE LIBRI BASSI G.- ZAMBURLIN R., L’ intimità nel rapporto di coppia. Come trovare l’armonia, Paoline Edizioni, 2009, pp. 224. e 12,00. BERGOGLIO JORGE MARIO (PAPA FRANCESCO), Agli educatori. Il pane della speranza. Non stancarsi di seminare, Libreria Editrice Vaticana, 2014, pp. 149. e 14,00. BERTOLA L., Parole della vita. Per un’educazione all’etica, Erickson, 2014, pp. 109. e 16,00. BONETTI A., Facciamoci le storie. Cammino di evangelizzazione per adolescenti. Vol. 2, EDB, Bologna, 2014, pp. 136. e 11,50. CARITAS ITALIANA, Famiglie sospese. Quaderno di riflessione teologicopastorale sulla famiglia in difficoltà nell’Italia delle false partenze, EDB, Bologna, 2014, pp. 80. e 5,50. CENTRO PASTORALE ADOLESCENTI E GIOVANI VERONA, MeetMe. Questione di fede. Percorso per adolescenti. EDB, Bologna, 2014, pp. 104. e 9,50. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE (a cura di), Sulla pastorale dei divorziati risposati - Documenti, commenti e studi, Libreria Editrice Vaticana, 2014, pp. 136. e 8,50. CRAVERO D., Padri e madri insieme. Nuova edizione, EDB, Bologna, 2014, pp. 312. e 22,50. DAL COVOLO E.-LEMMA S., La luce della fede. Conversazione con Susanna Lemma, Lateran University Press, 2013, pp. 160. e 16,00. DE LUCA A.-PEZZELLA A.M., Con it uoi occhi. Sull’intersoggettività, Mimesis, 2014, pp. 254. e 20,00. DONATELLO V. - GIUSEPPETTI R. - LAMANO L. - PESTELLI F., Un cammino per tutti. Percorsi di inclusione per persone con disabilità sensoriale e pluridisabilità, EDB, Bologna, 2014, pp. 176. e 15,00. GABRIELLI E., Il futuro dei giovani, Gabrielli Editori, 2014, pp. 206. e 15,00. GIRONI P., Il Vangelo della famiglia. Scoprirlo per annunciarlo, San Paolo Edizioni, 2014, pp. 80. e 8,00. GRILLO A., Indissolubile? Contributo al dibattito sui divorziati risposati, Cittadella, 2014, pp. 90. e 9,80. GRUN A., Superare i conflitti. Come risolvere situazioni difficili, Queriniana Edizioni, 2014, pp. 164. e 15,00. PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA FAMIGLIA (a cura di), Benvenuto Concilio! Il Vaticano II sulla famiglia, LEV 2014, pp. 56, e 5,00. RUGOLOTTO C., Vivere da fratelli. Itinerario di catechesi per genitori e figli. Testo per genitori e catechisti, EDB, Bologna, 2014, pp. 200. e 19,00. SCANZIANI F., La porta della fede. Lectio bibliche per coppie e gruppi di spiritualità familiare. Vangelo di Giovanni. EDB, Bologna, 2014, pp. 120. e 9,50. SINODO DEI VESCOVI, Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione, EDB, 2014, pp. 120. e 2,00. TAGLIAFERRO G., Alla scuola di Lucignolo. Gli adolescenti e la trasgressione notturna, EDB, Bologna, 2014, pp. 152. e 14,00. WOJTYLA K., Educare ad amare. Scritti su matrimonio e famiglia, Cantagalli Edizioni, 2014, pp. 360. e 15,00. ZAMBURLIN R., L’amore si può imparare. Per un rapporto di coppia positivo, Effatà, 2014, pp. 128. e 9,50.
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Rivista Lasalliana, pubblicazione trimestrale di cultura e formazione pedagogica, fondata in Torino nel 1934, si ispira alla tradizione educativa di Jean-Baptiste de La Salle (1651-1719) e delle Scuole Cristiane da lui istituite. Affronta il problema educativo in un’ottica prevalentemente scolastica, offrendo strumenti di lettura valutativa dei contesti culturali e stimoli orientativi all’esercizio della professione docente. Promuove studi storici sulle fonti bibliografiche della vita e degli scritti del La Salle, sull’evoluzione della pedagogia e della spiritualità del movimento lasalliano, aggiorna su ricerche in corso, avvalendosi della collaborazione di un gruppo internazionale di consulenti. È redatta da un Comitato di Lasalliani della Provincia Italia e di altri esperti in scienze umane, pedagogiche e religiose operanti con ruoli di ricerca, docenza e formazione in istituzioni scolastiche, para-scolastiche e universitarie.
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Donato Petti Quale formazione per i docenti laici delle scuole cattoliche?
Francesco Trisoglio L’educazione del ragazzo in famiglia: che ne pensa Giovanni Crisostomo? Gianni Ambrosio Educazione e famiglia nell’odierna complessità Enrico Solmi La missione educativa della famiglia
Maurizio Viviani Chiesa, famiglia, libertà di educazione
Giovanni Chimirri Relativismo etico o pluralismo culturale? Dario Antiseri Difesa della libertà di scuola Giuseppe Mari Gender e sfida educativa
Filippo Sani Fasi e passaggi di vita. Le coordinate per affrontare i compiti della crescita Magali Devif, F. Alain Houry, Philippe Moulis et F. Francis Ricousse La maison des Frères des Écoles Chrétiennes de Saint-Yon
LUGLIO - SETTEMBRE 2014 • ANNO 81 – 3 (323)
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