Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n. 46) art. 1 comma 2 - CNS/AC - ROMA - “In caso di mancato recapito inviare al CMP Romanina per la restituzione al mittente previo pagamento dei resi”
ISSN 1826-2155
Rivista lasalliana
trimestrale di cultura e formazione pedagogica Donato Petti Gli interrogativi perenni nel magistero di Papa Benedetto XVI Michele Pennisi La scuola cattolica risorsa educativa della Chiesa locale per la società Francesco Trisoglio Il sacerdote in S. Gregorio di Nazianzo e in S. Giovanni Crisostomo Giovanni Chimirri – Gennaro Cicchese Sensi delle parole e valore del silenzio Dario Antiseri Gli studi umanistici quale presidio della democrazia e dello stesso benessere economico Marco Paolantonio Condizione (e disagio) giovanile Magali Devif - Philippe Moulis Fratel Timoteo, 2° Superiore Generale dei Fratelli delle Scuole Cristiane (1720-1751) Remo L. Guidi Tonino Costanzo (1934-2014) ex alunno di Fr. Mario Grottanelli APRILE - GIUGNO 2015 • ANNO 82 – 2 (325)
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Rivista Lasalliana, pubblicazione trimestrale di cultura e formazione pedagogica, fondata in Torino nel 1934, si ispira alla tradizione educativa di Jean-Baptiste de La Salle (1651-1719) e delle Scuole Cristiane da lui istituite. Affronta il problema educativo in un’ottica prevalentemente scolastica, offrendo strumenti di lettura valutativa dei contesti culturali e stimoli orientativi all’esercizio della professione docente. Promuove studi storici sulle fonti bibliografiche della vita e degli scritti del La Salle, sull’evoluzione della pedagogia e della spiritualità del movimento lasalliano, aggiorna su ricerche in corso, avvalendosi della collaborazione di un gruppo internazionale di consulenti. È redatta da un Comitato di Lasalliani della Provincia Italia e di altri esperti in scienze umane, pedagogiche e religiose operanti con ruoli di ricerca, docenza e formazione in istituzioni scolastiche, para-scolastiche e universitarie.
RIVISTA LASALLIANA Trimestrale di cultura e formazione pedagogica fondato nel 1934 Anno 82 • numero 2 • aprile-giugno 2015 Direttore DONATO PETTI
Comitato scientifico DARIO ANTISERI (Metodologia delle Scienze Sociali)
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DENIS BIJU-DUVAL (Teologia dell’evangelizzazione)
MARCO PAOLANTONIO REMO L. GUIDI (Questioni umanistico-rinascimentali) (Studi lasalliani)
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PASQUALE CAPO (Gestione risorse professionali)
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LUCIANO CHIAPPETTA (Legislazione scolastica)
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MARIO CHIARAPINI (Direttore “Lasalliani in Italia”)
DIEGO MUÑOZ (Ricerche e Studi lasalliani)
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Comitato di Redazione LUCA AMATI
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ANTONIO IANNACCONE
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ENRICO SOMMADOSSI
MICHELE CATALUDDI
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GIOVANNI DECINA
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Rivista lasalliana 82 (2015) 2
SOMMARIO - SUMMARIES EDITORIALE - EDITORIAL 153 Donato Petti Gli interrogativi perenni nel magistero di Papa Benedetto XVI Lungo i secoli, nella storia del pensiero e della scienza, concezioni filosofiche e scientifiche hanno influenzato e spesso determinato la vita delle persone. Restano, tuttavia, sempre attuali e ricorrenti le domande fondamentali che agitano la mente ed il cuore dell’uomo: Qual è l’origine e il destino del genere umano? La terra su cui “ci troviamo” è il nostro destino definitivo? Che cosa ci attende alla fine della nostra esistenza terrena? Perché la sofferenza, la malattia, il dolore, la morte? Ci dobbiamo rassegnare a soffrire? Ha un senso l’esperienza della malattia e del dolore? Che cosa sono bene e male? Alla luce della ragione e della fede vengono analizzate le risposte e le proposte del Papa emerito Benedetto XVI. Perennial Questions in the teaching of Pope Benedict XVI In the history of thought and science throughout the centuries, philosophical and scientific ideas have had a determining influence on people’s lives. At the same time, certain recurring fundamental questions exist which continue to trouble human hearts and minds. What is the origin and destiny of the human race? Is this earth on which we “find ourselves” our definitive destiny? What awaits us at the end of our earthly existence? Why are there such things as suffering, sickness, pain and death? Must we resign ourselves to suffering? Is there any meaning to our experience of sickness and pain? What is the nature of good and evil? In the light of faith and reason, we present an analysis of the answers to these questions offered by Pope Emeritus Benedict XVI.
STUDI - STUDIES 167 Michele Pennisi La scuola cattolica risorsa educativa della Chiesa locale per la società Dopo oltre trent’anni dalla pubblicazione del documento pastorale della C.E.I. La scuola cattolica, oggi, in Italia (1983), l’11 luglio 2014 la Commissione Episcopale per l’educazione cattolica, la scuola e l’università, presieduta da S.E. Mons. Gianni Ambrosio, ha approvato la
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Nota pastorale La scuola cattolica risorsa educativa della Chiesa locale per la società. L’arcivescovo Mons. Michele Pennisi, Segretario della stessa Commissione, esamina le numerose novità emerse nell’arco di questi decenni, sia in ambito pastorale sia in ambito più specificamente scolastico, delle quali si è cercato di tenere conto nel nuovo documento del 2014, in vista di un rilancio dell’azione delle scuole cattoliche in un contesto culturale sempre più complesso e in continua evoluzione. The Catholic school as an educational resource of the local Church for the benefit of society More than thirty years have passed since the publication of the pastoral document La scuola cattolica, oggi, in Italia [The Catholic School in Italy today] (11 July,1983) by the C.E.I., the Episcopal Commission for Catholic Education in Schools and Universities, chaired by Mgr. Gianni Ambrosio, which approved the Pastoral Note: La scuola cattolica risorsa educativa della Chiesa locale per la società. The Commission Secretary, Archbishop Michele Pennisi, examines the many developments that have emerged in the pastoral realm and specifically in schools over the past decades, and in the light of these he seeks to analyse the new document of 2014, with view to giving new impetus to the work of Catholic schools in a cultural context which is increasingly more complex and in continual development.
183 Francesco Trisoglio Il sacerdote in S. Gregorio di Nazianzo e in S. Giovanni Crisostomo Con il vocabolo “sacerdote” nell’epoca patristica si unificano correntemente i due gradi del presbiterato e dell’episcopato, ma in genere emerge la figura del vescovo. Gregorio scrisse in uno stato d’animo amareggiato dall’imposizione che aveva subita di quel sacerdozio che contrastava con il suo ideale di monachesimo dotto. Giovanni immaginò di conversare con un amico che all’episcopato aveva ceduto nella persuasione che lo accettasse anche Giovanni, che invece se ne ritrasse. Entrambi nel sacerdozio vedono un piano provvidenziale di Dio; rilevano la purezza che esige e la complessità dell’azione educativa che comporta; entrambi denunciano i danni di un’eventuale inadeguatezza, deplorano la presenza di indegni ed ammirano quei sacerdoti che vivono la loro vocazione in pienezza di santità e di dedizione. The Priesthood according to St Gregory Nazianzen and St John Chrysostom In the patristic period, the word “priest” generally included the two stages of the priesthood, but the figure of the bishop gradually came to the fore. Gregory was writing in a frame of mind embittered by the imposition he had suffered of a view of the priesthood which conflicted with his ideal of the learned
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monk. John wrote as if in dialogue with a friend who favoured the view which John orginally shared but then retracted. Both these Saints see the priesthood as part of God’s providential plan; and stress the purity required by the complexity of the educational activity involved. They both condemn the damage caused by failures to meet the standard and deplore the existence of unworthy priests, while admiring those who live out their vocation in complete holiness and dedication.
193 Giovanni Chimirri – Gennaro Cicchese Sensi delle parole e valore del silenzio Il linguaggio del silenzio è visto come una struttura costitutiva dello stesso essere umano, che parla proprio perché nello stesso tempo sa tacere; proprio perché è capace di porre un deserto dentro di sé e intorno a sé; proprio perché può sospendere la parola non per mutismo ma per esprimersi in altre forme altrettanto eloquenti quanto quelle della parola detta, pronunciata, declamata, scritta, cantata, pregata. Nella moderna civiltà occidentale, nelle città chiassose inflazionate dalla comunicazione, riscoprire la profondità delle parole e ancor di più la profondità del silenzio, è di estrema importanza, a patto che si voglia progredire sul versante dell’essere e non dell’apparire, del profondo e non del superficiale, del valore e della passione per la vita e non dell’indifferenza. Meanings of words and values of silence The language of silence is seen as a constitutive structure in human nature, and one which can speak precisely because at the same time it knows how to keep silent; precisely because it is able to create an empty space in and around itself, because it can suspend speech not because it is dumb but to express itself in a way that is equally eloquent as any words that are uttered, declaimed, written, sung or prayed. In today’s Western civilisation, with its noisy cities and an inflation of communication, it is extremely important to rediscover the profoundness of words and even more the profoundness of silence, if we want to move towards being rather than appearing, in depth rather than in superficiality, in value and passion for life rather than indifference.
PROPOSTE - PROPOSALS 203 Dario Antiseri Gli studi umanistici quale presidio della democrazia e dello stesso benessere economico È una via sbagliata quella dei detrattori dell’insegnamento della filosofia e delle discipline umanistiche in nome del primato di conoscen-
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ze “utili”. La vera cultura è quella che si confronta, anche sul piano delle emozioni, con i grandi capolavori della letteratura, delle arti e del pensiero. Tutto ciò per la semplice ragione che la cultura umanistica, come tutto ciò che ci rende più intelligenti, ci rende anche migliori cittadini. L’invenzione scientifica presuppone sempre un’immaginazione ingegnosa, una percezione intuitiva, una capacità di situarsi in mondi inabituali: e per affinare queste qualità, la cultura umanistica rappresenta uno straordinario campo di esercitazione, perché nell’atteggiamento artistico, inventivo e creativo nei confronti della parola si aprono tutte le possibilità di invenzione, comprese quelle in ambito tecnico e scientifico. Quando gli studi umanistici vengono eliminati perché non servono a produrre profitti, è la democrazia che è in pericolo. Humanities as the guardian of democracy and a healthy economy Those who belittle the teaching of philosofy and humanities and procalim the primacy of studies that are “useful” are making a mistake. True culture confronts great masterpieces of literature, art and thought, even on the emotional plane. This is down to the simple reason that humanist culture makes us better citizens, like everything that makes us more intelligent. Scientific discovery always presupposes clever imagination, intuitive perception and the capacity to move into an unaccustomed world. Humanist culture is a remarkable training ground for developing these qualities, because through its artistic, inventive and creative attitude to the word it opens up every possibility for discovery, including those in the fields of science and technology. When the study of the humanities is ruled out as unprofitable, it is democracy itself that is at risk.
223 Marco Paolantonio Condizione (e disagio) giovanile Sono molteplici le ragioni che hanno profondamente mutato, insieme con la società nel suo insieme, l’identità del preadolescente e dell’adolescente. In particolare l’avvento della società ‘di massa’, di quella ‘dei consumi’ e della mondializzazione, hanno introdotto nuovi parametri di vita e di valutazione, causando spesso disorientamento e relativismo valoriale. Inevitabilmente tensioni e insicurezze si riflettono sull’attività scolastica, aggravando le difficoltà connesse con l’impegno coerente e continuo richiesto, con la (in)capacità di proporre da parte delle istituzioni scolastiche contenuti culturali non solo validi in sé ma spendibili nel lavoro e nelle professioni, con la crisi della funzione docente, socialmente, economicamente e deontologicamente in difficoltà.
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The Condition (unease) of Young People Many reasons have combined with society in general to profoundly alter the identity of preadolescents and adolescents. In particular, there is the arrival of mass society, of consumerism and globalisation, which have introduced new parameters of life and values, often causing intellectual disorientation and relativism in values. Inevitably, these tensions and lack of security have had an effect on school studies by aggravating the difficulties connected with the necessary commitment to sustained, organised work, and with the schools’ ability (or inability) to provide a cultural syllabus that is not only valid in itself but also leads to professional employment, and also with the crisis in the role of the teacher, which is in difficulty, socially, economically and professionally.
RICERCHE - RESEARCH 241 Magali Devif - Philippe Moulis Fratel Timoteo, 2° Superiore Generale dei Fratelli delle Scuole Cristiane (1720-1751) Nell’Assemblea del mese di agosto 1720, Fratel Timoteo viene eletto Superiore dell’Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane, succedendo al Fondatore. Gli Autori, nel descriverne la personalità e l’opera, affermano il ruolo determinante che egli ha avuto nello sviluppo dell’opera di Giovanni Battista de La Salle meritandogli il titolo di “secondo fondatore”. Brother Timothée, 2nd Superior General of The Christian Schools (1720-1751) In the Assembly of August 1720, Brother Timothée was elected Superior of the Institute of the Brothers of the Christian Schools in succession to the Founder. In describing his personality and activities, writers have confirmed the determining role he played in the development of the work of John Baptist de La Salle which earned for him the title of “Second Founder”.
255 Remo L. Guidi Tonino Costanzo (1934-2014) ex alunno di Fr. Mario Grottanelli Da Fratel Mario Grottanelli (1905-1469) c’è ancora tanto da apprendere, per il modo inedito e fecondo con cui seppe rendere complementari esperienza religiosa, scuola e sport; qui la sua immagine riemerge come attraverso un prisma di cristallo, mentre si tratteggia quella di Tonino Costanzo già suo discepolo, poi suo sostituto al timone della Stella Azzurra, squadra di basket ai massimi livelli, ma soprattutto cantiere di crescita per atleti ai quali il sigillo di appartenenza lasalliana concesse sempre orgoglio di proposte e dignità di vita.
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Tonino Costanzo (1934-2014) former pupil of Brother Mario Grottanelli There is still a lot to be learned about Brother Mario Grottanelli (1905-1469), famous for his unique success in combining religious experience with school work and sports. In the book being reviewed, pictures emerge as though in a glass prism, as it presents the portrait of his disciple Tonino Costanzo, who became his successor in charge of the Stella Azzurra basketball team, playing at the highest level, which acted as a nursery for athletes for whom their Lasallian seal of belonging was always a source of pride through the vision it offered of a dignified life.
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SEGNALAZIONE LIBRI - BOOK REPORTS
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RECENSIONI E NOTE - REVIEWS AND NOTES
Rivista Lasalliana 82 (2015) 2, 153-166
EDITORIALE
GLI INTERROGATIVI PERENNI NEL MAGISTERO DI PAPA BENEDETTO XVI DONATO PETTI
SOMMARIO: 1. Le domande sulla nostra origine e sul nostro destino. - 2. L’uomo è bíos e zoé. - 3. L’uomo è un essere in relazione. - 4. Il desiderio dell’assoluto. - 5. L’uomo è un essere spirituale. - 6. Le risposte della ragione agli interrogativi perenni. - 6.1. La ricerca scientifica e la mancanza di senso. - 6.2. Il progresso scientifico e la sapienza etica. - 7. Le risposte della fede agli interrogativi perenni. - 7.1. Perché stiamo sulla terra. - 7.2. Il senso della malattia e della sofferenza. - 7.3. Il senso cristiano della morte. - 7.4. Il significato cristiano dell’esistenza.
1. Le domande sulla nostra origine e sul nostro destino.
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ungo i secoli, nella storia del pensiero e della scienza, sono state maturate concezioni filosofiche e scientifiche originali che hanno influenzato e spesso determinato la vita delle persone. Ma restano sempre attuali e ricorrenti le domande fondamentali che agitano la mente ed il cuore dell’uomo: Qual è l’origine e il destino del genere umano? La terra su cui “ci troviamo” è il nostro destino definitivo? Che cosa ci attende alla fine della nostra esistenza terrena? Perché la sofferenza, la malattia, il dolore, la morte? Ci dobbiamo rassegnare a soffrire? Ha un senso l’esperienza della malattia e del dolore? Che cosa sono bene e male? Viviamo in un’epoca nella quale le domande circa le scelte fondamentali della nostra vita e i valori di riferimento sono troppo spesso relegate ai margini.1
2. L’uomo è bíos e zoé L’evangelista Giovanni usa due termini differenti per indicare le diverse dimensioni della realtà «vita»: la parola bíos e la parola zoé. Bíos significa il biocosmo, la biosfera che va dalle singole cellule primitive fino agli organi-
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BENEDETTO XVI, Incontro con i rappresentanti di altre religiosi, Sala «Rotunda» del Pope John Paul II Cultural Center di Washington, D.C., 17 aprile 2008.
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smi più sviluppati. A questo albero della vita appartiene l’uomo. Ma questi, pur essendo parte del grande biocosmo, lo trascende perché è parte pure di quella realtà chiamata zoé. È un nuovo livello della vita, in cui l’essere si apre alla conoscenza. Certo, l’uomo è sempre uomo con tutta la sua dignità, anche se in stato di coma, anche se allo stadio di embrione, ma se egli vive solo biologicamente, non sono realizzate e sviluppate tutte le potenzialità del suo essere. L’uomo è chiamato ad aprirsi a nuove dimensioni. Egli è un essere che conosce. Certo anche gli animali conoscono, ma solo le cose che sono interessanti per la loro vita biologica.
3. L’uomo è un essere in relazione La conoscenza dell’uomo va oltre; egli vuol conoscere la realtà nella sua totalità. Ha sete di una conoscenza dell’infinito, vuole arrivare alla fonte della vita, trovare la vita stessa. Tocchiamo così una seconda dimensione: l’uomo non è solo un essere che conosce; egli vive anche in relazione di amicizia, di amore. Oltre alla dimensione della conoscenza della verità e dell’essere, esiste, inseparabile da questa, la dimensione della relazione, dell’amore. E qui l’uomo si avvicina maggiormente alla fonte della vita. Ma possiamo trovare la medicina che ci assicuri l’immortalità? Proviamo ad immaginare che la medicina arrivi a trovare la ricetta contro la morte, la ricetta dell’immortalità. Anche in quel caso, si tratterebbe pur sempre di una medicina che si collocherebbe entro la biosfera. Nella sua prima Enciclica Deus caritas est Benedetto XVI ha cercato di analizzare il dinamismo interiore dell’uomo nell’esperienza dell’amore umano, che nella nostra epoca è più facilmente percepita come momento di estasi, di uscita da sé, come luogo in cui l’uomo avverte di essere attraversato da un desiderio che lo supera. Attraverso l’amore, l’uomo e la donna sperimentano in modo nuovo, l’uno grazie all’altro, la grandezza e la bellezza della vita e del reale. Se ciò che sperimento non è una semplice illusione, se davvero voglio il bene dell’altro come via anche al mio bene, allora devo essere disposto a de-centrarmi, a mettermi al suo servizio, fino alla rinuncia a me stesso. La risposta alla questione sul senso dell’esperienza dell’amore passa, quindi, attraverso la purificazione e la guarigione del volere, richiesta dal bene stesso che si vuole all’altro. Ci si deve esercitare, allenare, anche correggere, perché quel bene possa veramente essere voluto. L’estasi iniziale si traduce così in pellegrinaggio, «esodo permanente dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio».2
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BENEDETTO XVI, Enciclica Deus caritas est, 6.
Gli interrogativi perenni nel magistero di Papa Benedetto XVI
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Attraverso tale cammino potrà progressivamente approfondirsi per l’uomo la conoscenza di quell’amore che aveva inizialmente sperimentato. E andrà sempre più profilandosi anche il mistero che esso rappresenta: nemmeno la persona amata, infatti, è in grado di saziare il desiderio che alberga nel cuore umano, anzi, tanto più autentico è l’amore per l’altro, tanto maggiormente esso lascia dischiudere l’interrogativo sulla sua origine e sul suo destino, sulla possibilità che esso ha di durare per sempre. L’esperienza umana dell’amore ha in sé un dinamismo che rimanda oltre se stessi, di fronte al mistero che avvolge l’intera esistenza. Considerazioni analoghe si potrebbero fare anche a proposito dell’esperienza umana dell’amicizia, del bello, dell’amore per la conoscenza: ogni bene sperimentato dall’uomo protende verso il mistero che avvolge l’uomo stesso; ogni desiderio che si affaccia al cuore umano si fa eco di un desiderio fondamentale che non è mai pienamente saziato.
4. Il desiderio dell’assoluto L’uomo, in definitiva, conosce bene ciò che non lo sazia, ma non può immaginare o definire ciò che gli farebbe sperimentare quella felicità di cui porta nel cuore la nostalgia. Da questo punto di vista rimane il mistero: l’uomo è cercatore dell’Assoluto, un cercatore a passi piccoli e incerti. E tuttavia, già l’esperienza del desiderio, del «cuore inquieto» come lo chiamava sant’Agostino, è assai significativa. Essa ci attesta che l’uomo è, nel profondo, un essere «mendicante di Dio». Possiamo dire con le parole di Pascal: «L’uomo supera infinitamente l’uomo».3 In modo molto significativo, il Catechismo della Chiesa Cattolica si apre con la seguente considerazione: «Il desiderio di Dio è inscritto nel cuore dell’uomo, perché l’uomo è stato creato da Dio e per Dio; e Dio non cessa di attirare a sé l’uomo e soltanto in Dio l’uomo troverà la verità e la felicità che cerca senza posa. L’umanità, in tutta la sua storia, attraverso le sue credenze e i suoi riti, manifesta un’incessante ricerca di Dio e «tali forme d’espressione sono così universali che l’uomo può essere definito un essere religioso».4 Una tale affermazione, che anche oggi in molti contesti culturali appare del tutto condivisibile, quasi ovvia, potrebbe invece sembrare una provocazione nell’ambito della cultura occidentale secolarizzata. Per larghi settori della società Dio è una realtà che lascia indifferenti, davanti alla quale non si deve nemmeno fare lo sforzo di pronunciarsi. Al fondo della natura di ogni uomo si trova un’insopprimibile inquietudine che lo spinge alla ricerca di qualcosa che soddisfi pienamente questo 3 4
Pensieri, ed. Chevalier 438; ed. Brunschvicg 434. Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 27-28.
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suo anelito. Ogni uomo intuisce che proprio nella realizzazione dei desideri più profondi del suo cuore può trovare la possibilità di realizzarsi, di diventare veramente se stesso. L’uomo sa che non può dare risposte da solo ai propri bisogni. Spesso costruisce il suo agire, la sua esistenza sulle sabbie delle ideologie, del potere, del successo e del denaro, pensando di trovarvi stabilità e la risposta all’insopprimibile domanda di felicità e di pienezza che porta nella propria anima. In realtà, quello che definiamo come «desiderio di Dio» non è del tutto scomparso e si affaccia ancora oggi, in molti modi, al cuore dell’uomo. Il desiderio umano tende sempre a determinati beni concreti, spesso tutt’altro che spirituali, e tuttavia si trova di fronte all’interrogativo su che cosa sia davvero «il» bene, e quindi a confrontarsi con qualcosa che è altro da sé, che l’uomo non può costruire, ma è chiamato a riconoscere. Che cosa può davvero saziare il desiderio dell’uomo? L’uomo non è un semplice prodotto delle condizioni materiali o sociali in cui vive. Ha bisogno di qualcosa di più, aspira a più di quello che la scienza o qualsiasi iniziativa umana può dargli. Vi è in lui un’immensa sete di Dio, ed egli è l’unico che può appagare la loro sete di pienezza e di vita, poiché solo Lui ci può dare la certezza di un amore incondizionato, di un amore più forte della morte.5 La sete di infinito è presente nell’uomo in modo inestirpabile. L’uomo è stato creato per la relazione con Dio e ha bisogno di Lui.6 “L’uomo ha bisogno di Dio, altrimenti resta privo di speranza”.7
5. L’uomo è un essere spirituale L’esperienza, poi, dimostra che la dimensione spirituale della nostra vita è fondamentale alla nostra identità di esseri umani. In che cosa consiste tale spiritualità? L’uomo presenta un’originalità inconfondibile rispetto a tutti gli altri esseri viventi. Si presenta come soggetto unico e singolare, dotato di intelligenza e volontà libera, oltre che composto di realtà materiale. Vive simultaneamente e inscindibilmente nella dimensione spirituale e nella dimensione corporea. Lo suggerisce anche il testo della Prima Lettera ai Tessalonicesi: «Il Dio della pace – scrive san S. Paolo – vi santifichi interamente, e tutta la vostra persona, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo» (5,23). Siamo, dunque, spirito, anima e corpo. Siamo parte di questo mondo, legati alle possibilità e ai limiti della condizione materiale; nello stesso tempo siamo aperti su un orizzonte infi5
BENEDETTO XVI, cfr. Spes salvi, n. 26. BENEDETTO XVI, Parole durante la celebrazione ecumenica, in occasione del Viaggio apostolico in Germania, 23 settembre 2011. 7 BENEDETTO XVI, cfr. Idem, n. 23. 6
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nito. Operiamo nelle realtà terrene e attraverso di esse possiamo percepire la presenza di Dio e tendere a Lui, verità, bontà e bellezza assoluta. Assaporiamo frammenti di vita e di felicità e aneliamo alla pienezza totale.8 L’esperienza umana è una realtà che ci accomuna tutti, ma ad essa si possono dare diversi livelli di significato. Ed è qui che si decide in che modo orientare la propria vita e si sceglie a chi affidarla, a chi affidarsi. Il rischio è sempre quello di rimanere imprigionati nel mondo delle cose, dell’immediato, del relativo, dell’utile, perdendo la sensibilità per ciò che si riferisce alla nostra dimensione spirituale. Non si tratta affatto di disprezzare l’uso della ragione o di rigettare il progresso scientifico, tutt’altro; si tratta, piuttosto, di capire che ciascuno di noi non è fatto solo di una dimensione “orizzontale”, ma comprende anche quella “verticale”. I dati scientifici e gli strumenti tecnologici non possono sostituirsi al mondo della vita, agli orizzonti di significato e di libertà, alla ricchezza delle relazioni di amicizia e di amore.9 La dimensione religiosa è radicata nel profondo della coscienza dell’uomo e perciò appartiene alla vita di ogni singolo individuo e alla convivenza della comunità. Essa è una caratteristica innegabile e incoercibile dell’essere e dell’agire dell’uomo, la misura della realizzazione del suo destino. Pertanto, quando si nega questo aspetto fondamentale, si creano squilibri e conflitti a tutti i livelli, tanto sul piano personale che su quello interpersonale.10 La distinzione fra un semplice essere vivente e un essere spirituale, che è capax Dei, indica l’esistenza dell’anima intellettiva. Quindi, il Magistero della Chiesa ha costantemente affermato che «ogni anima spirituale è creata direttamente da Dio — non è “prodotta” dai genitori — ed è immortale».11 Ciò evidenzia gli elementi distintivi dell’antropologia cristiana e invita il pensiero moderno ad esplorarli.12
6. Le risposte della ragione agli interrogativi perenni Di fronte alla domande sul senso della vita, sul destino ultimo, sul significato del dolore e della sofferenza, tutta la scienza e la riflessione umana è protesa alla conquista della vita; potremmo dire che tutta la scienza è un’unica grande lotta per la vita. 8 BENEDETTO XVI, Omelia alla celebrazione dei Vespri per l’inizio del Tempo di Avvento, 27 novembre 2010. 9 BENEDETTO XVI, Discorso all’incontro con i giovani della Diocesi di San Marino-Montefeltro, 19 Giugno 2011. 10 BENEDETTO XVI, Discorso a S. E. il signor Alfons M. Kloss, nuovo ambasciatore di Austria presso la Santa Sede, 3 febbraio 2011. 11 Catechismo della Chiesa cattolica, n. 366. 12 BENEDETTO XVI, Discorso alla Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze, 31 ottobre 2008.
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Il nostro è un tempo in cui le scienze sperimentali hanno trasformato la visione del mondo e la stessa auto comprensione dell’uomo. Le molteplici scoperte, le tecnologie innovative che si susseguono a ritmo incalzante, sono ragione di motivato orgoglio.13 Indubbiamente i grandi successi della tecnica e della scienza offrono benefici straordinari alla società ed hanno migliorato grandemente la qualità della vita degli uomini. All’interno dei loro ambiti di competenza, le scienze umane e naturali ci forniscono una comprensione inestimabile di aspetti della nostra esistenza ed approfondiscono la nostra comprensione del modo in cui opera l’universo fisico. 6.1. - La ricerca scientifica e la mancanza di senso E tuttavia la scienza e la tecnica non danno risposta, e non possono darla, alle domande fondamentali, perché operano ad un livello totalmente diverso. Non possono soddisfare i desideri più profondi del cuore umano, né spiegarci pienamente la nostra origine ed il nostro destino, per quale motivo e per quale scopo noi esistiamo, né possono darci una risposta esaustiva alla domanda: “Per quale motivo esiste qualcosa, piuttosto che il niente?”.14 Proprio là dove gli uomini, nel tentativo di evitare ogni sofferenza, vogliono risparmiarsi la fatica e il dolore della verità, dell’amore, del bene, scivolano in una vita vuota, nella quale forse non esiste quasi più il dolore, ma persiste ed aumenta la solitudine interiore e l’oscura sensazione della mancanza di senso.15 Per quanto sia appassionata e tenace la ricerca umana, essa non è capace con le proprie forze di approdo sicuro, perché «l’uomo non è in grado di chiarire completamente la strana penombra che grava sulla questione delle realtà eterne... Dio deve prendere l’iniziativa di venire incontro e di rivolgerSi all’uomo».16 Ricco di mezzi, ma non altrettanto di fini, l’uomo del nostro tempo vive spesso condizionato da riduzionismo e relativismo, che conducono a smarrire il significato delle cose; quasi abbagliato dall’efficacia tecnica, dimentica l’orizzonte fondamentale della domanda di senso, relegando così all’irrilevanza la dimensione trascendente. Su questo sfondo, il pensiero diventa debole e acquista terreno anche un impoverimento etico, che annebbia i riferimenti normativi di valore. 13
BENEDETTO XVI, Discorso in occasione della visita all’Università Cattolica del Sacro Cuore, 3 maggio 2012. 14 BENEDETTO XVI, Discorso all’Incontro con i rappresentanti istituzionali e laici di altre religioni, 17 settembre 2010. 15 BENEDETTO XVI, Lettera Enciclica “Spe Salvi”, nn. 36-39. 16 J. RATZINGER, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Cantagalli, Roma 2005, 124.
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La ricerca scientifica e la domanda di senso, infatti, pur nella specifica fisionomia epistemologica e metodologica, zampillano da un’unica sorgente, quel Logos che presiede all’opera della creazione e guida l’intelligenza della storia. Una mentalità fondamentalmente tecnopratica genera un rischioso squilibrio tra ciò che è possibile tecnicamente e ciò che è moralmente buono, con imprevedibili conseguenze. Per restituire alla ragione la sua nativa, integrale dimensione bisogna allora riscoprire il luogo sorgivo che la ricerca scientifica condivide con la ricerca di fede, fides quaerens intellectum, secondo l’intuizione anselmiana. Scienza e fede hanno una reciprocità feconda, quasi una complementare esigenza dell’intelligenza del reale. Ma, paradossalmente, proprio la cultura positivista, escludendo la domanda su Dio dal dibattito scientifico, determina il declino del pensiero e l’indebolimento della capacità di intelligenza del reale. Ma il quaerere Deum dell’uomo si perderebbe in un groviglio di strade se non gli venisse incontro una via di illuminazione e di sicuro orientamento, che è quella di Dio stesso che si fa vicino all’uomo con immenso amore: “In Gesù Cristo Dio non solo parla all’uomo, ma lo cerca.... È una ricerca che nasce nell’intimo di Dio e ha il suo punto culminante nell’incarnazione del Verbo”.17 Religione del Logos, il Cristianesimo non relega la fede nell’ambito dell’irrazionale, ma attribuisce l’origine e il senso della realtà alla Ragione creatrice, che nel Dio crocifisso si è manifestata come amore: «Io sono la via, la verità, la vita». Commenta qui san Tommaso d’Aquino: “Il punto di arrivo di questa via, infatti, è il fine del desiderio umano. Ora l’uomo desidera due cose principalmente: in primo luogo quella conoscenza della verità che è propria della sua natura. In secondo luogo la permanenza nell’essere, proprietà questa comune a tutte le cose. In Cristo si trova l’una e l’altra... Se dunque cerchi per dove passare, accogli Cristo perché egli è la via».18 Vissuta nella sua integralità, la ricerca è illuminata da scienza e fede, e da queste due «ali» trae impulso e slancio, senza mai perdere la giusta umiltà, il senso del proprio limite. In tal modo la ricerca di Dio diventa feconda per l’intelligenza, fermento di cultura, promotrice di vero umanesimo, ricerca che non si arresta alla superficie.19 6.2. - Il progresso scientifico e la sapienza etica La scienza e la tecnologia offrono benefici straordinari alla società ed hanno migliorato grandemente la qualità della vita di molti esseri umani. Allo stesso tempo, la scienza ha i suoi limiti. Non può dar risposta a tutte le 17
GIOVANNI PAOLO II, Tertio Millennio Adveniente, 7. S. TOMMASO, Esposizioni su Giovanni, cap. 14, lectio 2. 19 BENEDETTO XVI, Discorso in occasione della visita all’Università Cattolica del Sacro Cuore, 3 maggio 2012. 18
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questioni riguardanti l’uomo e la sua esistenza. In realtà, la persona umana, il suo posto e il suo scopo nell’universo non può essere contenuto all’interno dei confini della scienza. “La natura intellettuale della persona umana si completa e deve completarsi per mezzo della sapienza, che attira dolcemente la mente dell’uomo a cercare ed amare le cose vere e buone”.20 L’uso della conoscenza scientifica abbisogna della luce orientatrice della sapienza etica.21 La nostra epoca, che è sull’orlo di scoperte scientifiche forse ancor più grandi e di più vasta portata, trarrebbe beneficio da quello stesso senso di ammirata soggezione e dal desiderio di ottenere una sintesi veramente umanistica della conoscenza che ha ispirato i padri della scienza moderna. Chi può negare che la responsabilità del futuro dell’umanità, e, di fatto, il rispetto per la natura e per il mondo che ci circonda, richiedano, oggi più che mai, l’attenta osservazione, il giudizio critico, la pazienza e la disciplina che sono essenziali per il metodo scientifico moderno? Nello stesso tempo, i grandi scienziati dell’età delle scoperte ci ricordano anche che la conoscenza autentica è sempre rivolta alla sapienza, e, invece di restringere gli occhi della mente, ci invita ad alzare lo sguardo verso un più elevato regno dello spirito. La conoscenza deve essere compresa e perseguita in tutta la sua ampiezza liberatrice. Essa si può certamente ridurre a calcoli e a esperimenti, ma, se aspira a essere sapienza, capace di orientare l’uomo alla luce dei suoi primi inizi e della sua conclusione finale, si deve impegnare nella ricerca della verità ultima che, pur essendo sempre al di là della nostra completa portata, è, nondimeno, la chiave della nostra felicità e della nostra libertà autentiche (cfr Gv 8, 32), la misura della nostra vera umanità e il criterio per un rapporto giusto con il mondo fisico e con gli uomini e le donne nella più grande famiglia umana.22
7. Le risposte della fede agli interrogativi perenni Per il credente, le risposte alle domande fondamentali che agitano sempre il cuore dell’uomo non possono prescindere dal suo riferimento a Dio.23 Solo in Dio-Amore, che si è rivelato in Gesù Cristo, l’uomo può ricercare il senso della vita, della morte, del male, della malattia, della sofferenza e vivere la sua esistenza personale e di relazione senza essere inghiottito da un nichilismo paralizzante e sterile.24 20
CONCILIO VATICANO II, Gaudium et spes, 15. BENEDETTO XVI, Discorso alla benedizione della prima pietra dell’Università di Madaba del Patriarcato Latino, 9 maggio 2009. 22 BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al colloquio patrocinato dalla specola vaticana in occasione dell’Anno internazionale dell’astronomia, 30 ottobre 2009. 23 CONCILIO VATICANO II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 10. 24 BENEDETTO XVI, Discorso alla Pontificia Università Gregoriana, 3 novembre 2006. 21
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Nella tradizione giudaico-cristiana, i Salmi sono espressione di questi sentimenti di speranza: «In me languisce il mio spirito»25; «Perché ti rattristi, anima mia, perché su di me gemi?».26 La risposta è sempre di fede: «Spera in Dio: ancora potrò lodarlo, lui, salvezza del mio volto e mio Dio».27 Di fronte agli interrogativi più profondi dell’uomo, la fede cristiana propone come risposta Gesù di Nazareth, il Logos eterno, che si è fatto carne per riconciliare l’uomo con Dio e rivelare la ragione che sta alla base di tutte le cose.28 7.1. - Perché stiamo sulla terra Nella risposta a questa domanda è racchiusa la verità fondamentale sulla vita e sul destino dell’uomo. La domanda in questione si riferisce a due atteggiamenti connessi con le due realtà, nelle quali è inscritta la vita dell’uomo: quella terrena e quella celeste. Prima la realtà terrena: stiamo sulla terra, perché il Creatore ci ha posto qui come coronamento all’opera della creazione. Dio, conformemente al suo ineffabile disegno d’amore, creò il cosmo e chiamò all’esistenza l’uomo, creato a propria immagine e somiglianza (cfr. Gn 1, 26-27). Gli elargì la dignità di figlio di Dio e l’immortalità. Sappiamo però che l’uomo si smarrì, abusò del dono della libertà e disse “no” a Dio, condannando in questo modo se stesso ad un’esistenza in cui entrarono il male, il peccato, la sofferenza e la morte. Ma sappiamo anche che Dio stesso non si rassegnò a una situazione del genere ed entrò direttamente nella storia dell’uomo e questa divenne storia della salvezza. Sulla terra operiamo il bene sugli estesi campi dell’esistenza quotidiana, nell’ambito della sfera materiale, ed anche nell’ambito di quella spirituale: nelle reciproche relazioni, nell’edificazione della comunità umana, nella cultura. Qui sperimentiamo la fatica dei viandanti in cammino verso la meta, tra esitazioni, tensioni, incertezze, ma anche nella profonda consapevolezza che prima o poi questo cammino giungerà al termine. Ed è allora che nasce la riflessione: la terra su cui “ci troviamo” è il nostro destino definitivo? Siamo chiamati, rimanendo in terra, a dirigere l’attenzione, il pensiero e il cuore nella direzione della realtà divina, verso la quale l’uomo è orientato sin dalla creazione. Là è racchiuso il senso definitivo della nostra vita.29 25
Sal 143, 4; cfr. Sal 6, 7; 31, 11; 32, 4; 38, 8; 77, 3. Sal 42, 6. 27 Ibidem; cfr. Sal 62, 6. 28 BENEDETTO XVI, Incontro con i rappresentanti di altre religiosi, Sala «Rotunda» del Pope John Paul II Cultural Center di Washington, D.C., 17 aprile 2008. 29 BENEDETTO XVI, Omelia alla celebrazione eucaristica, in occasione del viaggio apostolico in Polonia, 28 maggio 2006. 26
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7.2. - Il senso della malattia e della sofferenza La malattia costituisce una dimensione fondamentale dell’esperienza umana, che interpella la coscienza di tutti. Rimane scolpita nel nostro cuore la testimonianza di tante persone, di tutte le età e condizioni sociali, che quotidianamente vivono il dramma della sofferenza nel corpo, nell’anima e nello spirito.30 Il mistero del dolore sembra offuscare il volto di Dio, rendendolo quasi un estraneo o, addirittura, additandolo quale responsabile del soffrire umano, ma gli occhi della fede sono capaci di guardare in profondità questo mistero. Qual è la risposta cristiana alla sofferenza e al dolore? La sofferenza è considerata dalla fede cristiana una partecipazione a Cristo sofferente. Accanto e dentro la nostra sofferenza c’è quella di Gesù, che ne porta insieme a noi il peso e ne rivela il senso. La morte in croce di Gesù ha distrutto la solitudine della sofferenza e ne ha illuminato l’oscurità. Gesù divenendo uomo come noi non ha tolto dall’esperienza umana la malattia e la sofferenza, ma, assumendole in sé, le ha trasformate e ridimensionate.31 La presenza di Cristo viene a rompere l’isolamento che il dolore provoca. L’uomo non porta più da solo la sua prova ma, in quanto membro sofferente di Cristo, viene conformato a Lui che si offre al Padre, e in Lui partecipa al parto della nuova creazione. Senza l’aiuto del Signore, il giogo della malattia e della sofferenza è crudelmente pesante.32 La «scienza cristiana della sofferenza» è indicata esplicitamente dal Concilio Vaticano II come «la sola verità capace di rispondere al mistero della sofferenza» e di arrecare a chi è nella malattia «un sollievo senza illusioni»: «Il Cristo non ha soppresso la sofferenza; non ha neppure voluto svelarcene interamente il mistero: l’ha presa su di sé, e questo basta perché ne comprendiamo tutto il valore».33 Esiste, quindi, un’intima relazione fra la Croce di Gesù – simbolo del supremo dolore e prezzo della nostra vera libertà – e il nostro dolore, che si trasforma e si sublima quando è vissuto nella consapevolezza della vicinanza e della solidarietà di Dio.34 Nella Lettera apostolica Salvifici doloris, dell’11 febbraio 1984, Giovanni Paolo II afferma: «La sofferenza sembra appartenere alla trascendenza del-
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BENEDETTO XVI, Messaggio ai Vescovi italiani riuniti ad Assisi per la 55ª Assemblea Generale, 10 novembre 2005. 31 PAPA FRANCESCO, Messaggio per la Giornata Mondiale del malato, 6 dicembre 2013, nn. 1-2. 32 BENEDETTO XVI, Omelia alla Santa Messa con i malati, 15 settembre 2008. 33 Cfr. Messaggio ai poveri, ai malati e ai sofferenti, 8 dicembre 1965. 34 BENEDETTO XVI, Discorso davanti alla Casa Sollievo della Sofferenza, 21 giugno 2009.
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l’uomo: essa è uno di quei punti, nei quali l’uomo viene in certo senso “destinato” a superare se stesso, e viene a ciò chiamato in modo misterioso».35 Papa Benedetto XVI nell’Enciclica Spe salvi, nota che la sofferenza «deriva, da una parte, dalla nostra finitezza, dall’altra, dalla massa di colpa che, nel corso della storia si è accumulata e anche nel presente cresce in modo inarrestabile». Ed ha aggiunto che «certamente bisogna fare tutto il possibile per diminuire la sofferenza: impedire, per quanto possibile, la sofferenza degli innocenti; calmare i dolori; aiutare a superare le sofferenze psichiche; ma eliminarla completamente dal mondo non sta nelle nostre possibilità semplicemente perché… nessuno di noi è in grado di eliminare il potere del male… continuamente fonte di sofferenza».36 La sofferenza rimane sempre carica di mistero, difficile da accettare e da portare: «Solo un Dio che ci ama fino a prendere su di sé le nostre ferite e il nostro dolore, soprattutto quello innocente, è degno di fede».37 Risorgendo, il Signore non ha tolto la sofferenza e il male dal mondo, ma li ha vinti alla radice. San Bernardo afferma: «Dio non può patire, ma può compatire». Dio, la Verità e l’Amore in persona, ha voluto soffrire per noi e con noi; si è fatto uomo per poter com-patire con l’uomo, in modo reale, in carne e sangue. In ogni sofferenza umana, allora, è entrato Uno che condivide la sofferenza e la sopportazione; in ogni sofferenza si diffonde la con-solatio, la consolazione dell’amore partecipe di Dio per far sorgere la stella della speranza.38 Dio si è incarnato, si è fatto vicino all’uomo, anche nelle sue situazioni più difficili; non ha eliminato la sofferenza, ma nel Crocifisso risorto, nel Figlio di Dio che ha patito fino alla morte e alla morte di croce, Egli rivela che il suo amore scende anche nell’abisso più profondo dell’uomo per dargli speranza. Il Crocifisso è risorto, la morte è stata illuminata dal mattino di Pasqua: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Nel Figlio «dato» per la salvezza dell’umanità, la verità dell’amore viene, in un certo senso, provata mediante la verità della sofferenza.39 Non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce l’uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso mediante l’unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore.40 35
n. 2. BENEDETTO XVI, n. 36. 37 BENEDETTO XVI, Messaggio Urbi et Orbi, Pasqua 2007. 38 BENEDETTO XVI, Messaggio per XIX Giornata Mondiale del Malato, 21 novembre 2010. 39 BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti all’incontro promosso dal Pontificio Consiglio per gli operatori sanitari (per la pastorale della salute), 26 novembre 2011. 40 BENEDETTO XVI, Lettera Enciclica “Spe Salvi”, nn. 36-39. 36
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Per ciascuno la sofferenza è sempre una straniera. La sua presenza non è mai addomesticabile. Per questo è difficile sopportarla, e più difficile ancora accoglierla come parte integrante della propria vocazione. Gesù stesso ha gridato poco prima di morire.41 La sofferenza non è un valore in sé stessa, ma una realtà che Gesù ci insegna a vivere con inerzia e rassegnandosi, ma mettendo l’amore di Dio e del prossimo anche nella sofferenza: è l’amore che trasforma ogni cosa. Una persona ammalata, disabile, può diventare sostegno e luce per altri sofferenti, trasformando così l’ambiente in cui vive.42 A tale riguardo, Benedetto XVI nell’enciclica sulla speranza cristiana, dice: «La misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente (…). Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la com-passione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente, è una società crudele e disumana».43 7.3. - Il senso cristiano della morte La morte ci interroga in modo profondo, specialmente quando ci tocca da vicino, o quando colpisce i piccoli, gli indifesi in una maniera che ci risulta “scandalosa”. Se viene intesa come la fine di tutto, la morte spaventa, atterrisce, si trasforma in minaccia che infrange ogni sogno, ogni prospettiva, che spezza ogni relazione e interrompe ogni cammino. Questo capita quando consideriamo la nostra vita come un tempo rinchiuso tra due poli: la nascita e la morte; quando non crediamo in un orizzonte che va oltre quello della vita presente; quando si vive come se Dio non esistesse. Questa concezione della morte è tipica di chi interpreta l’esistenza come un trovarsi casualmente nel mondo e un camminare verso il nulla. Se ci lasciamo prendere da questa visione della morte, non abbiamo altra scelta che quella di occultare la morte, di negarla, o di banalizzarla, perché non ci faccia paura. Ma a questa soluzione si ribella il “cuore” dell’uomo, assetato di infinito. E allora qual è il senso cristiano della morte? Se guardiamo ai momenti più dolorosi della nostra vita, quando abbiamo perso una persona cara – i genitori, un fratello, una sorella, un coniuge, un figlio, un amico –, ci accorgiamo che, anche nel dramma della perdita, anche lacerati dal distacco, sale dal cuore la convinzione che non può essere tutto finito, che il bene dato e ricevuto non è stato inutile. C’è un istinto potente dentro di noi, che ci dice che la nostra vita non può finire con la morte. Questa sete di vita ha trovato la 41
Cfr. Mc 15, 37; Eb 5, 7. PAPA FRANCESCO, Discorso all’Associazione “Silenziosi operai della croce-Centri volontari della sofferenza”, 15 maggio 2014. 43 Spe salvi, 38. 42
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sua risposta reale e affidabile nella risurrezione di Gesù Cristo, che non dà soltanto la certezza della vita oltre la morte, ma illumina anche il mistero della morte.44 Di fronte all’innata paura della fine, e ancor più nel contesto di una cultura che in tanti modi tende a censurare la realtà e l’esperienza umana del morire, la fede, da un lato, ci ricorda la morte invitandoci al realismo e alla saggezza, ma, dall’altro lato, ci spinge soprattutto a cogliere e a vivere la novità inattesa che sprigiona nella realtà della stessa morte. Anche Gesù ha liberamente voluto condividere con ogni uomo la sorte della fragilità, in particolare attraverso la sua morte in croce; ma proprio questa morte, colma del suo amore per il Padre e per l’umanità, è stata la via per la gloriosa risurrezione, attraverso la quale Cristo è diventato sorgente di una grazia donata a quanti credono in Lui e vengono resi partecipi della stessa vita divina. Questa vita che non avrà fine è già in atto nella fase terrena della nostra esistenza, ma sarà portata a compimento dopo “la risurrezione della carne”.45 Da quando Gesù è sceso nel sepolcro la tomba e la morte non sono più luogo senza speranza dove la storia si chiude nel fallimento più totale, dove l’uomo tocca il limite estremo della sua impotenza.46 Con la morte si conclude l’esperienza terrena, ma attraverso la morte si apre anche, per ciascuno di noi, al di là del tempo, la vita piena e definitiva: “Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10), “Io sono la Resurrezione e la Vita: chi crede in me, anche se muore vivrà” (Gv 10,25) e “Io lo resusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,54). Al momento della morte, si realizza pienamente la relazione con Colui che non muore, che è la Vita stessa.47 7.4. - Il significato cristiano dell’esistenza In definitiva, su quale certezza l’uomo può fondare ragionevolmente il proprio esistere? E soprattutto: qual è il fondamento di tale certezza, senza la quale l’uomo non può vivere? Senza entrare nella ricchissima riflessione che la filosofia, fin dai suoi albori, ha sviluppato attorno all’esperienza dell’esistere, dell’esserci, giungendo a conclusioni importanti, ma spesso anche contraddittorie e parziali, possiamo tuttavia essere condotti direttamente all’essenziale partendo dall’etimologia latina del termine esistenza: ex-sistere. Heidegger, interpretandola come un “non permanere”, ha messo in evidenza il carattere dinamico della vita dell’uomo. Ma ex-sistere evoca in noi almeno altri due significati, ancora più 44
FRANCESCO, Udienza Generale, 27 novembre 2013. BENEDETTO XVI, Udienza Generale, 17 febbraio 2010. 46 BENEDETTO XVI, Discorso del Papa al termine della Via Crucis al Colosseo, 2 Aprile 2010. 47 BENEDETTO XVI, Enciclica Spe salvi, 27; cfr. BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al Congresso indetto dalla Pontificia Accademia per la vita, 25 febbraio 2008. 45
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descrittivi dell’esperienza umana dell’esistere e che, in un certo senso, sono all’origine del dinamismo stesso analizzato da Heidegger. La particella ex ci fa pensare ad una provenienza e, nello stesso tempo, ad un distacco. L’esistenza sarebbe dunque uno “stare, essendo provenuti da” e, allo stesso tempo, un “portarsi oltre”, quasi un “trascendere” che definisce in modo permanente lo stesso “stare”. Tocchiamo qui il livello più originario della vita umana: la sua creaturalità, il suo essere strutturalmente dipendente da un’origine, il suo essere voluta da qualcuno verso cui, quasi inconsapevolmente, tende. È proprio dalla coscienza di essa che deriva la certezza con cui l’uomo affronta l’esistenza. Il riconoscimento della propria origine e la “prossimità” di questa stessa origine a tutti i momenti dell’esistenza sono la condizione che permette all’uomo un’autentica maturazione della sua personalità, uno sguardo positivo verso il futuro e una feconda incidenza storica. È questo un dato antropologico verificabile già nell’esperienza quotidiana: un bambino è tanto più certo e sicuro quanto più sperimenta la vicinanza dei genitori. Ma proprio rimanendo sull’esempio del bambino capiamo che, da solo, il riconoscimento della propria origine e, conseguentemente, della propria strutturale dipendenza non basta. Anzi potrebbe apparire – come la storia ha ampiamente dimostrato – un peso di cui liberarsi. Ciò che rende “forte” il bambino è la certezza dell’amore dei genitori. Ma su quale certezza l’uomo può fondare ragionevolmente la propria esistenza? Qual è, in definitiva, la speranza che non delude? Con l’avvento di Gesù Cristo la promessa che alimentava la speranza del popolo di Israele raggiunge il suo compimento, assume un volto personale. In Gesù il destino dell’uomo è stato strappato definitivamente dalla nebulosità che lo circondava. Gesù risorto, presente nella sua Chiesa, nei Sacramenti e con il suo Spirito, è il fondamento ultimo e definitivo dell’esistenza, la certezza della nostra speranza. Egli è l’eschaton già presente, colui che fa dell’esistenza stessa un avvenimento positivo, una storia di salvezza nella quale ogni circostanza rivela il suo vero significato in rapporto all’eterno. Se manca questa coscienza è facile cadere nei rischi dell’attualismo, nel sensazionalismo delle emozioni, in cui tutto si riduce a fenomeno, o della disperazione, nella quale ogni circostanza appare senza senso. Allora l’esistenza diventa una ricerca affannosa di avvenimenti, di novità passeggere, che, alla fine, risultano deludenti. I drammi del XX secolo hanno ampiamente dimostrato che quando viene meno la speranza cristiana, la certezza della fede e il desiderio delle “cose ultime”, l’uomo si smarrisce e diventa vittima del potere, inizia a chiedere la vita a chi la vita non può dare. Una fede senza speranza ha provocato l’insorgere di una speranza senza la fede, intramondana.48 48
BENEDETTO XVI, Messaggio in occasione della XXXII edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli, 10 agosto 2011.
Rivista Lasalliana 82 (2015) 2, 167-182
LA SCUOLA CATTOLICA RISORSA EDUCATIVA DELLA CHIESA LOCALE PER LA SOCIETÀ ✠ MICHELE PENNISI Arcivescovo di Monreale Segretario Commissione Episcopale per l’educazione cattolica, la scuola e l’università SOMMARIO: 1. I pronunciamenti della Chiesa universale. - 2. L’evoluzione della scuola italiana. - 3. Il progetto della nuova Nota pastorale. - 4. La Nota pastorale La scuola cattolica risorsa educativa della Chiesa locale per la società. - 5. La scuola cattolica e le dinamiche della scuola italiana. - 6. Le ragioni e il valore della scuola cattolica. - 7. Identità e caratteristiche della scuola cattolica. - a) L’originalità della proposta culturale. - b) La connotazione ecclesiale e le sue implicazioni pastorali. - c) La connotazione comunitaria. - d) Il significato sociale e civile. - 8. Una cultura della parità e del pluralismo scolastico. - a) La libertà di educazione. - b) Parità e sussidiarietà. c) Una domanda di giustizia. - d) Il pluralismo educativo. - 9. Orientamenti pastorali. - 10. Conclusione.
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opo oltre trent’anni dalla pubblicazione del documento pastorale La scuola cattolica, oggi, in Italia, che la Commissione Episcopale per l’educazione cattolica, la scuola e l’università emanò il 25 agosto 1983, l’11 luglio 2014 la stessa Commissione presieduta da S.E. Mons. Gianni Ambrosio, ha approvato la “Nota pastorale” La scuola cattolica risorsa educativa della Chiesa locale per la società. Il documento del 1983 prendeva le mosse dalla Dichiarazione conciliare sull’educazione cristiana Gravissimum educationis e poteva far tesoro di quanto la Congregazione per l’educazione cattolica aveva esposto nel suo primo documento su La scuola cattolica del 19 marzo 1977. Nell’arco di trent’anni sono emerse numerose novità sia in ambito pastorale sia in ambito più specificamente scolastico, delle quali si è cercato di tenere conto nel nuovo documento del 2014, in vista di un rilancio dell’azione delle scuole cattoliche in un contesto culturale sempre più complesso e in continua evoluzione.
1. I pronunciamenti della Chiesa universale Al primo documento della Congregazione per l’educazione cattolica del 1977 sono seguiti negli anni numerosi altri testi, per approfondire e ampliare la riflessione sul compito della scuola cattolica e su alcune delle sue componenti.
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Il 15 ottobre 1982 la Congregazione aveva emanato un documento su II laico cattolico testimone della fede nella scuola. In esso veniva sollecitato l’impegno dei fedeli laici sia nella scuola in genere sia nelle scuole cattoliche, ove la presenza laicale era già consistente. Tale presenza è ulteriormente aumentata negli anni, fino a divenire oggi, in non pochi casi, quasi esclusiva. Il 7 aprile 1988 usciva la riflessione sulla Dimensione religiosa dell’educazione nella scuola cattolica, per discutere un aspetto assolutamente qualificante del progetto educativo di una scuola cattolica, quale deve essere l’attenzione all’educazione religiosa. Con il passare del tempo si rendeva necessaria un’attenta valutazione delle trasformazioni sociali e culturali in corso e nella scadenza del secondo millennio cristiano era individuata una tappa opportuna per ripensare il contesto in cui operano le scuole cattoliche. Usciva così il 28 dicembre 1997 il documento della Congregazione per l’educazione cattolica su La scuola cattolica alle soglie del terzo millennio, che aggiornava l’analisi della situazione a vent’anni dal primo pronunciamento sulla scuola cattolica. Una successiva riflessione era dedicata, con il documento su Le persone consacrate e la loro missione nella scuola del 28 ottobre 2002, al ruolo educativo dei religiosi e delle religiose non solo nelle scuole cattoliche ma in genere in tutte le scuole. Infine, quasi a sintetizzare una linea di pensiero sviluppata nei testi precedenti, 1’8 settembre 2007 veniva pubblicato Educare insieme nella scuola cattolica, in cui si sollecita la costruzione di un’autentica comunità educativa nelle scuole cattoliche attraverso la convinta cooperazione di laici e persone consacrate, ciascuno con il proprio carisma ma tutti coinvolti in un medesimo progetto educativo.
2. L’evoluzione della scuola italiana Nell’arco degli ultimi trent’anni la scuola italiana ha attraversato un periodo di grandi trasformazioni. Sul piano socioculturale si è anzitutto consolidato il suo carattere di scuola di massa ed è stata progressivamente accolta la sfida dell’integrazione, rivolta in primo luogo agli alunni disabili e, più di recente, agli alunni stranieri. Sul piano istituzionale si sono avute importanti riforme, a cominciare dall’autonomia scolastica, introdotta con legge n. 59 del 1997 e con il DPR n. 275 del 1999. Con essa ha per certi aspetti interagito la fondamentale, ma tuttora incompiuta, legislazione sulla parità, introdotta dalla legge n. 62 del 2000. Oggi quasi tutte le scuole cattoliche hanno ottenuto il riconoscimento della parità e sono dunque inserite a pieno titolo – almeno teoricamente – nell’unico sistema nazionale di istruzione. Anche gli ordinamenti scolastici hanno subito diverse trasformazioni,
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assestandosi negli ultimi anni su un modello composito, impostato dalla legge n. 53 del 2003 per quanto riguarda la costituzione del sistema educativo d’istruzione e di formazione ma modificato anche sensibilmente da successivi interventi che hanno inciso soprattutto sull’elevamento dell’obbligo d’istruzione e sul riordino del secondo ciclo, nel quale si realizza la complessa ripartizione di competenze tra Stato e Regioni voluta dalla riforma del 2001 del Titolo V della Costituzione. Non si può trascurare, infine, l’accordo di revisione del Concordato del 1984, che ha interessato il mondo della scuola con il nuovo profilo dato all’insegnamento della religione cattolica. L’Intesa applicativa del 1985 e il suo aggiornamento del 2012 hanno avuto importanti ricadute anche per le scuole cattoliche.
3. Il progetto della nuova “Nota pastorale” In una situazione sociale, pastorale e istituzionale così profondamente rinnovata, è sembrato perciò conveniente procedere all’emanazione di una nuova “Nota pastorale” che possa riepilogare, in una prospettiva attenta alle trasformazioni intervenute, le posizioni della Conferenza Episcopale Italiana attraverso la Commissione Episcopale per l’educazione cattolica, la scuola e l’università in materia di scuola cattolica e sollecitare la necessaria attenzione della comunità ecclesiale su alcune questioni più rilevanti. Il lavoro di elaborazione sulla nota pastorale La scuola cattolica risorsa educativa della Chiesa locale per la società è stato molto complesso ed era stato iniziato dalla Commissione presieduta da S.E. Mons. Pietro Coletti nel quinquennio 2005-2010. Il primo accenno a un futuro documento sulla scuola cattolica e sulla parità scolastica in Italia è stato fatto nella seduta della Commissione del 25 settembre 2008 svoltasi presso la sede “Mondo Migliore” a Rocca di Papa, al termine del convegno del Centro Studi per la Scuola Cattolica e dell’udienza del Santo Padre Benedetto XVI, a Castel Gandolfo, nella quale Papa Benedetto aveva affermato: «Per essere scelta e apprezzata, occorre che la scuola cattolica sia conosciuta nel suo intento pedagogico; è necessario che si abbia matura consapevolezza non solo della sua identità ecclesiale e del suo progetto culturale, bensì pure del suo significato civile, che va considerato non come difesa di un interesse di parte, ma come contributo prezioso all’edificazione del bene comune dell’intera società italiana». E aveva aggiunto «nel contesto del rinnovamento a cui si vorrebbe tendere da chi ha a cuore il bene dei giovani e del Paese, occorre favorire quell’effettiva uguaglianza tra scuole statali e scuole paritarie, che consenta ai genitori opportuna libertà di scelta circa la scuola da frequentare». In quella seduta della Commissione episcopale il sottoscritto fece notare
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che mentre in campo ecclesiale c’era poca sensibilità per il tema della libertà di educazione e della parità scolastica, in campo laico, soprattutto fra quelli che don Luigi Sturzo definiva “i bigotti del laicismo”, persistevano ancora antichi pregiudizi sulla scuola cattolica. La Commissione episcopale affrontò il tema della scuola cattolica in Italia nelle sedute del 29 gennaio 2009, del 26 marzo 2009 e del 21 settembre 2009. In quest’ultima seduta si auspicò la stesura di una “Nota” su Scuola Cattolica e Chiesa Particolare. Il 28 gennaio 2010 i membri della Commissione, ai quali fu presentata una prima bozza su Scuola Cattolica e Chiesa Locale, concordarono di chiedere il parere del Consiglio Permanente della CEI per procedere alla rielaborazione del testo da parte della nuova Commissione per il quinquennio 2010-2015. La nuova commissione presieduta da S.E. Mons. Gianni Ambrosio nella Seduta del 9 febbraio 2011 affidò la stesura di una bozza del testo a un gruppo di lavoro ristretto, presieduto da S.E. Mons. Piero Coccia e formato da don Guglielmo Malizia e dal prof. Sergio Cicatelli. Questa bozza fu discussa nella seduta del 23 maggio 2011. La Commissione ha discusso e rivisto il testo a più riprese, sia dal punto di vista del titolo e dei contenuti, sia dal punto di vista stilistico. Per quanto riguarda il titolo si preferì l’espressione “Chiesa locale” al posto di “Chiesa particolare” non per una motivazione teologica, ma perché si ritenne la prima espressione più adatta dal punto di vista comunicativo in un documento di carattere pastorale. Nella seduta del 14 febbraio 2012 fu presentata una nuova bozza dal titolo “ Scuola Cattolica risorsa educativa per la Chiesa locale “, a cui avevano lavorato anche don Aldo Basso e il p. Agostino Montan. La nuova bozza fu esaminata in modo analitico dalla Commissione nelle sedute del 21 maggio e del 24 settembre 2012. Nelle sedute del 20 maggio e del 23 settembre 2013 fu discussa una nuova bozza dal titolo La scuola cattolica risorsa educativa nella Chiesa locale per la società, alla quale aveva contribuito anche il prof. Roberto Presilla. L’aggiunta della espressione “per la società” fu motivata dal fatto che la scuola cattolica si pone al servizio di tutta la società. S.E. Mons. Salvatore Di Cristina fu incaricato della redazione finale del documento, che venne sottoposto all’esame del Consiglio Permanente, che lo approvò nella sessione primaverile del 24-26 marzo 2014.
4. La “Nota pastorale” La scuola cattolica risorsa educativa della Chiesa locale per la società La “Nota” nella versione definitiva fu intitolata La scuola cattolica risorsa educativa della Chiesa locale per la società, per rilevare alcuni aspetti: in primo
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luogo il radicamento della scuola cattolica nella realtà diocesana; in secondo luogo la sua valorizzazione come vera e propria risorsa della Chiesa e per la Chiesa; in terzo luogo la funzione pubblica, spesso misconosciuta, dell’opera svolta dalla scuola cattolica; infine, la sua natura profondamente educativa e non solo funzionale a un servizio di carattere sociale. Questa nuova “Nota” sulla Scuola cattolica vuole contribuire ad arricchire il cammino pastorale avviato sul tema dell’educazione dagli Orientamenti pastorali della C.E.I., per il decennio 2010-2020, Educare alla vita buona del Vangelo, del 4 ottobre 2010 e vuole collocarsi sulla scia dell’evento La Chiesa per la scuola, tenutosi il 10 maggio 2014 con l’incontro del mondo della scuola italiana con Papa Francesco a Roma, in piazza San Pietro. «L’educazione – ha affermato papa Francesco lo scorso 10 maggio – non può essere neutra. O è positiva o è negativa; o arricchisce o impoverisce; o fa crescere la persona o la deprime, persino può corromperla». Papa Francesco nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium, aveva affermato che «le scuole cattoliche, che cercano sempre di coniugare il compito educativo con l’annuncio esplicito del Vangelo, costituiscono un contributo molto valido all’evangelizzazione della cultura, anche nei Paesi e nelle città dove una situazione avversa ci stimola a usare la creatività per trovare i percorsi adeguati» (n. 134). La nuova “Nota pastorale” sulla scuola cattolica è un documento troppo importante perché rimanga nei cassetti o per essere consegnato a futura memoria e deve essere valorizzato capillarmente. Rimandando a una lettura attenta e puntuale del documento ci limitiamo a metterne in evidenza i punti principali.
5. La scuola cattolica e le dinamiche della scuola italiana Nel primo capitolo si volge lo sguardo all’esistente, a partire dalle dinamiche di tutta la scuola italiana, all’interno del sistema pubblico integrato, caratterizzato dal processo dell’autonomia, che «non si può ancora ritenere compiuto» e dalla legge sulla parità scolastica, introdotta nel 2000 con la legge 62, che ancora deve diventare effettiva per dare efficacia alla libertà di scelta educativa delle famiglie. Si afferma che «nelle scuole cattoliche si realizza una parte importante e irrinunciabile della missione stessa della Chiesa» (n. 3). Il documento ha come destinatari privilegiati le Chiese locali nell’ambito delle quali operano sia «le scuole che possono dirsi cattoliche a norma del diritto canonico sia le “scuole d’ispirazione cristiana” che dichiarano statutariamente di aderire a un modello educativo fondato sul Vangelo» (n. 4). Il documento vuole però tenere presente tutta la scuola italiana di qual-
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siasi ordine e grado e quale che ne sia il gestore, in considerazione del fatto che la cura pastorale della Chiesa è, per sua natura, rivolta a tutti indistintamente gli alunni. Di fronte all’emergenza educativa, che riguarda l’attuale concezione culturale dell’uomo, l’intera società civile in tutte le sue articolazioni, pubbliche e private, e non solo in maniera esclusiva lo Stato, deve partecipare al grande processo formativo perché il traguardo della “qualità per tutti” diventi una realtà e non soltanto un auspicio o uno slogan. In una stagione caratterizzata da una crisi culturale, morale, sociale, ed economica, la scuola cattolica in dialogo e collaborazione con la scuola statale, vuole essere, insieme con le famiglie e le comunità cristiane, un luogo credibile nel quale i cristiani sappiano costruire relazioni di vicinanza e sostegno alle giovani generazioni, rispondendo alla loro domanda di significato e di rapporti umani autentici. La “buona scuola”, prima ancora che un progetto politico, è un diritto umano fondamentale che deve essere garantito a tutti e assolto non perché una scuola si qualifica “statale” o “paritaria”, ma perché è “buona”, cioè eroga un servizio di qualità. La libertà di scelta educativa è una “condizione” fondamentale, che oltre a garantire l’esercizio di un diritto umano promuove e stimola un processo innovativo dell’intero sistema d’istruzione e formazione, stabilendo tra la scuola statale e paritaria una sana emulazione, un positivo confronto, una costruttiva collaborazione nell’interesse generale e prioritario degli alunni e delle loro famiglie.
6. Le ragioni e il valore della scuola cattolica La scuola cattolica deve essere sempre di più considerata uno dei luoghi privilegiati nei quali la comunità cristiana è messa nella condizione di testimoniare il proprio nativo impegno in favore della persona umana e alla sua educazione a una libertà responsabile non solo morale, ma anche civile dal punto di vista della promozione del bene comune. La scuola cattolica deve essere considerata una vera risorsa della Chiesa locale e non un fattore accessorio o una pesante incombenza gestionale. La Chiesa tutta deve arrivare a considerare la scuola cattolica strumento di educazione alla vita buona del vangelo essenziale per il suo inserimento nel territorio, per il contatto con le famiglie e le nuove generazioni. Nel secondo capitolo si guarda alla scuola cattolica nelle sue ragioni e nel suo valore, con l’indicazione di quella che deve essere «l’identità della scuola cattolica e i suoi tratti caratteristici». Si affronta innanzitutto la questione non tanto del come le scuole cattoliche debbano svolgere il loro servizio, quanto piuttosto del «perché esse devono esistere e per quali consistenti
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ragioni le comunità cristiane devono essere aiutate, in modo chiaro e convincente, a comprenderne e condividerne il valore» (n. 7). Di fronte all’emergenza educativa e a una serie di dati che interessano il profilo antropologico delle nuove generazioni, che interferiscono nel processo educativo e che potrebbero indurre al pessimismo, il documento propone un’opera educativa fondata su una «speranza affidabile» (n. 9). Dentro quest’orizzonte antropologico il compito della scuola, e in particolare della scuola cattolica, è individuato nel «formare l’identità delle nuove generazioni, nella convinzione che solo un progetto educativo coerente e unitario consente alle nuove generazioni di affrontare responsabilmente il mare aperto della post-modernità» (n. 10). «La scuola cattolica, che attinge ai valori portanti del Vangelo e che si prefigge come scopo non la semplice istruzione, ma l’educazione integrale della persona, può dare un contributo originale e significativo ai ragazzi e ai giovani, alle famiglie e all’intera società, accompagnando tutti in un processo di crescita umana e cristiana» (n. 10). L’identità della scuola cattolica pertanto «deve essere presente e chiaramente pensata nelle menti di coloro che vi operano; esplicitamente dichiarata nei documenti ufficiali; condivisa e partecipata con le famiglie che la scelgono; concretamente realizzata e tradotta nelle normali attività educative e nei contenuti disciplinari che quotidianamente sono proposti; costantemente testimoniata dagli operatori della scuola; assiduamente valutata e verificata» (n. 11).
7. Identità e caratteristiche della scuola cattolica Se alla radice della crisi dell’educazione (di educare e di essere educati) c’è una crisi di fiducia nella vita, i cristiani e tutte le persone di buona volontà sono chiamati a testimoniare che è possibile guardare a un futuro aperto a una speranza affidabile. Di fronte ai nuovi scenari della nostra società, che richiedono capacità critica, fantasia creativa e solidi criteri di orientamento, la scuola ha l’impegnativo compito di formare l’identità delle nuove generazioni per essere in grado di affrontare responsabilmente il mare aperto della postmodernità. Prima di chiederci come le scuole cattoliche debbano svolgere il loro servizio, è importante che ci chiediamo perché esse devono esistere. È importante approfondire l’identikit della scuola cattolica tracciato dalla “Nota pastorale” della CEI: «Le scuole cattoliche definiscono la loro identità a partire da un progetto educativo che ne precisa l’ispirazione culturale di fondo e la specifica visione della vita, della persona e dell’educazione, avendo cura che l’istru-
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zione da esse impartita garantisca almeno lo stesso livello qualitativo delle altre scuole» (n. 11). Per la definizione dell’identità della scuola cattolica sono indicati alcuni tratti essenziali. a) L’originalità della proposta culturale «La proposta culturale della scuola cattolica ha la sua originalità nel fatto che, partendo dalla visione cristiana della persona e dell’educazione, intende far sintesi tra fede e cultura e tra fede e vita» (n. 12). La sua proposta educativa intende mettere in feconda sinergia il perseguimento dei valori profondamente umani legati alla verità, alla giustizia, all’amore universale e alla libertà mediante l’accostamento onesto agli insegnamenti del Vangelo di Gesù Cristo. La sua originalità partecipa dunque della “novità cristiana”, perché capace di generare un progetto educativo con una sua visione specifica del mondo, della vita, della cultura e della storia, ma nella quale in ogni caso a essere messa al centro è la persona umana, la sua dignità e la sua libertà. b) La connotazione ecclesiale e le sue implicazioni pastorali La Congregazione per l’educazione cattolica nel documento La scuola cattolica alle soglie del terzo millennio aveva osservato che «l’ecclesialità della scuola cattolica è scritta nel cuore stesso della sua identità di istituzione scolastica». Essa non costituisce una nota aggiuntiva, ma è una qualità specifica, che plasma ogni momento della sua azione educativa, è una parte fondante della sua stessa identità e un punto focale della sua missione (cfr. n. 11.) La scuola cattolica, che deve essere inserita nel tessuto organico della Chiesa locale, svolge la sua missione educativa sapendosi arricchita dalla vitalità di un’esperienza di fede condivisa, capace di conferire il senso di Dio in ciò che quotidianamente opera. Da questa caratteristica nasce l’esigenza di un duplice e convergente cammino: la scuola cattolica, concepita come scuola della comunità cristiana, deve pensare se stessa e il proprio compito in una relazione sempre più piena con la Chiesa diocesana; la diocesi deve sentire e trattare la scuola cattolica come una realtà profondamente radicata nella propria trama vitale e nella propria missione verso il mondo. c) La connotazione comunitaria Fattore caratteristico della scuola cattolica secondo la Dichiarazione Gravissimum Educationis del Vaticano II «è di dar vita a un ambiente comunitario scolastico permeato dello spirito evangelico di libertà e carità» (n. 8). La connotazione comunitaria è, perciò, elemento fondante dell’educazio-
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ne in una scuola cattolica. Ed è una connotazione che non si ferma alla sola tolleranza o al semplice rispetto della libertà altrui: essa poggia piuttosto sulla considerazione dell’altro come dono e risorsa, come qualcuno che misteriosamente richiama i tratti del volto di Cristo e può liberarci dalla solitudine e dall’egoismo. Attraverso la dimensione comunitaria, la scuola cattolica respira l’atmosfera culturale della comunità ecclesiale, che non può non essere permeata dalla speranza. La scuola cattolica si colloca nell’ottica dell’ecclesiologia di comunione. Ed è quindi naturale che per la realizzazione di questo fondamentale connotato comunionale vengano in prima istanza chiamati in causa gli educatori, che debbono essere e sentirsi come membri qualificati della comunità ecclesiale. d) Il significato sociale e civile La scuola cattolica è espressione di un diritto fondamentale della persona che non può essere educata se non nella libertà. La presenza di più modelli scolastici offre un contributo prezioso alla realizzazione di un vero pluralismo (cfr. n. 15). L’esistenza della scuola cattolica perciò, in quanto «espressione del diritto di tutti i cittadini alla libertà di educazione, e del corrispondente dovere di solidarietà nella costruzione della convivenza civile», come sosteneva la “Nota” della CEI del 1983, non è interesse della sola comunità ecclesiale ma di tutta la società civile(cfr. n. 15). La possibilità stessa di frequentare una scuola, nata per la libera iniziativa di Istituti di Vita Consacrata o da associazioni di fedeli laici, testimonia uno spazio di libertà che è fondamentale in ambito educativo, al fine di promuovere la crescita nella libertà di ogni persona. «La scuola cattolica ha sviluppato progressivamente una propria visione interculturale della società, considerando ricchezza la differenza culturale e proponendo quante più possibili vie d’incontro e di dialogo» (15). Questa impostazione, presente nelle scuole cattoliche dei paesi di missione che accolgono alunni di culture e religioni diverse, oggi a causa del fenomeno delle migrazioni, è presente anche in molte scuole cattoliche italiane che accolgono studenti stranieri. In queste scuole la realtà del multiculturalismo ha spinto a sviluppare un approccio interculturale, aperto all’accoglienza del diverso e alla ricerca di un dialogo, che senza rinnegare le varie identità, portassero al riconoscimento dei valori e dei limiti delle varie culture. La presenza nella scuola cattolica di alunni appartenenti a culture e a religioni diverse deve comportare, come auspica il documento della Congregazione per l’educazione cattolica su Le persone consacrate e la loro missione nella scuola, «un vero cambiamento di paradigma a livello pedagogico» e
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favorire il passaggio «dall’integrazione alla ricerca della convivialità delle differenze» (n. 67). Un tale modello, che si sforza di armonizzare identità e accoglienza senza cadere nell’ambiguità, non è semplice da attuare e richiede persone preparate e aperte al dialogo interculturale. A proposito della scuola cattolica si tratta anche di superare qualche diffuso pregiudizio. «La scuola cattolica non è propriamente parlando un’istituzione educativa confessionale, poiché essa si pone per suo statuto al servizio di tutti e accoglie tutti, con l’obiettivo primario di curare l’educazione della persona e promuoverne la crescita libera e umanamente completa. L’adesione al progetto educativo della scuola cattolica – come previsto espressamente dalla legislazione statale – non potrà mai essere pertanto motivo di esclusione per alcuno o ostacolo all’accoglienza di chi guarda a essa con simpatia. Al contrario, dialogo e apertura saranno regola fondamentale dei rapporti tra e con gli alunni e tra e con le famiglie che vengono a farne parte, quali che siano le loro appartenenze culturali e religiose, se è vero – come è vero – che la Chiesa anche attraverso la scuola cattolica testimonia la propria capacità di accoglienza e servizio disinteressato» (n. 15). Sono queste alcune delle ragioni per cui l’antica tradizione delle scuole cattoliche ha costituito un modello per le politiche scolastiche nazionali e per lo stesso ordinamento scolastico statale. Desidero citare l’esempio delle scuole della Chiesa cattolica nella Bosnia Erzegovina, che ho avuto modo di visitare come delegato della CEI. Nella diocesi di Sarajevo è stato intrapreso un audace progetto culturale ed ecumenico: le scuole multietniche e multireligiose. Il programma scolastico segue i principi del progetto “Le scuole per l’Europa”. Tale progetto, ideato da Mons. Pero Sudar, vescovo ausiliare di Sarajevo, prevede l’insegnamento nel rispetto delle singole identità etnico-religiose puntando sull’integrazione e sull’accettazione reciproca tra studenti delle varie provenienze. Oggi queste scuole “cattoliche” hanno studenti musulmani, ortodossi e cattolici e formano i ragazzi al reciproco rispetto, nel segno del vicendevole arricchimento culturale e religioso. Esse sono diventate un modello per tutte le scuole bosniache statali. In queste scuole gli insegnanti, scelti dalla Chiesa, sono pagati dallo Stato con una maggioranza di popolazione mussulmana, che rimborsa anche la bolletta energetica.
8. Una cultura della parità e del pluralismo scolastico Nella “Nota” si chiede l’attuazione piena della legislazione sulla parità scolastica e sulla libertà educativa già contenuta nella legge n. 59 del 15-3-1997
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e soprattutto dalla legge n. 62 del 10-03-2000 che interessa non solo le scuole cattoliche ma tutte le scuole paritarie. Per attuare la legislazione sulla parità scolastica e una corretta impostazione del problema è importante che si diffonda nel Paese una reale cultura della parità, che richiede la presa di coscienza di alcuni principi. a) La libertà di educazione Un imprescindibile valore di civiltà è costituito dalla libertà di educazione, che implica per gli alunni e per i genitori la possibilità di scelta senza condizionamenti del percorso di studi e della scuola per sé o per i figli. Per sostenere questa posizione ci si richiama alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (art. 26.3), all’art. 30 della Costituzione della Repubblica Italiana e alla risoluzione del Parlamento europeo del 14 marzo 1984 sulla “Libertà d’insegnamento nella comunità europea” che è stata ribadita dalla risoluzione n. 1904 approvata dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa il 4 ottobre 2012 che recita: «L’Assemblea raccomanda che gli Stati membri del Consiglio d’Europa, mentre garantiscono l’esistenza e la qualità dei sistemi di scuole pubbliche, assicurino che una quota sufficiente di fondi sia messa a disposizione per permettere a tutti i bambini di accedere all’istruzione obbligatoria nelle istituzioni private se l’offerta di istruzione nelle istituzioni pubbliche non dovesse risultare sufficiente». Dalle affermazioni contenute in questi autorevoli pronunciamenti, derivano tre conseguenze: «la necessità di diffondere e consolidare una cultura della parità; la ferma richiesta di un finanziamento adeguato delle scuole paritarie; il sostegno all’ampliamento dell’offerta formativa dato dal coinvolgimento dell’istruzione e formazione professionale nel sistema educativo e nell’assolvimento dell’obbligo d’istruzione» (n. 17). b) Parità e sussidiarietà La parità scolastica deriva anche dall’affermazione del principio di sussidiarietà nella legislazione scolastica di questi ultimi anni. La Repubblica italiana ha accolto espressamente tale principio nel testo della sua Costituzione (artt. 118 e 120). L’intero assetto del sistema educativo d’istruzione e di formazione si muove, anche se con lentezza e non senza resistenze, nella direzione della sussidiarietà, rendendo sempre più plurale e aperto il sistema che dovrebbe portare al passaggio da una scuola fondamentalmente statale a una scuola della società civile, nella quale lo Stato tuttavia mantenga un ruolo irrinunciabile (cfr. n. 18). «La parità scolastica – affermano con forza i vescovi – è interesse e patrimonio di tutti i cittadini, perché il diritto a un’educazione e a un’istruzione
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libere appartiene a ogni persona, indipendentemente dalle sue convinzioni religiose o dai suoi orientamenti culturali. La libertà di educazione e d’istruzione non è una prerogativa confessionale, ma una libertà fondamentale di tutti e di ciascuno» (n. 19). I vescovi italiani precisano che “la natura pubblica” del servizio svolto dalle scuole cattoliche «non risiede nello stato giuridico dell’ente gestore, statale o non statale, ma nella loro funzione a vantaggio di tutta la collettività» (n. 19). La Chiesa cattolica ha a cuore il problema della scuola paritaria (la quale, non è fatta solo di scuole cattoliche), nell’interesse del bene comune, per affermare un diritto che è di tutti i cittadini. La presenza di molte scuole cattoliche nel panorama della scuola pubblica italiana, oltre a costituire un significativo risparmio per le finanze dello Stato, «rappresenta un prezioso contributo d’idee e di esperienze sul piano organizzativo, didattico e gestionale per tutto il sistema educativo nazionale» (n. 19). c) Una domanda di giustizia I vescovi fanno propria la domanda di giustizia che sale da molti genitori per i quali il progetto di un’educazione scolastica libera e coerente con i valori vissuti e testimoniati in famiglia rimane un’aspirazione irrealizzabile. L’effettiva libertà di educazione incontra ancora nel suo concreto esercizio una gran quantità di ostacoli che in vario modo ne rende pressoché astratta l’affermazione: «Fino a tanto che la legislazione italiana sulla parità non avrà ottenuto il suo completamento anche sul piano del suo finanziamento a una parità nominale affermata, non corrisponderà mai una parità nei fatti”» (20). Tutto questo porta al progressivo ridursi del numero delle scuole cattoliche, nonostante che si sforzano nei limiti del possibile di mantenere fede all’impegno di non escludere gli alunni più poveri. d) Il pluralismo educativo Ai cristiani in quanto cittadini sta a cuore tutta la realtà scolastica italiana nella costante ricerca di ciò che meglio possa contribuire al suo bene. Viene auspicato il superamento del monopolio statale dell’educazione scolastica attraverso un sano pluralismo educativo che porti alla coesistenza cordiale di modelli educativi e gestionali tra loro diversi e complementari che migliori la qualità di tutto il sistema scolastico (cfr. n. 21). «Il nostro interesse – affermano i vescovi – è pertanto rivolto al bene di tutto il Paese e considera tutti gli alunni che in Italia frequentano la scuola italiana di qualsiasi ordine e grado e quale che ne sia il gestore, per il semplice fatto che la cura pastorale della Chiesa è per sua natura rivolta a tutti
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indistintamente i giovani, nei quali essa ravvisa il proprio futuro inscindibilmente legato a quello dell’Italia» (n. 21). «Finché gli italiani – scriveva don Luigi Sturzo con vigore profetico nel 1947 tornato dall’esilio – non vinceranno la battaglia delle libertà scolastiche in tutti i gradi e per tutte le forme, resteranno sempre servi: servi dello stato (sia democratico o fascista o comunista), servi del partito (quale ne sia il colore), servi di tutti, perché non avranno respirato la libertà, – la vera libertà che fa padroni di sé stessi e rispettosi e tolleranti degli altri, – fin dai banchi di scuola, di una scuola veramente libera».1 Don Sturzo chiedeva la libertà per le scuole non statali ma anche per la scuola statale sottraendola alla burocrazia centralizzatrice, consapevole che solo la libertà costituiva il termometro di ogni democrazia. Per don Luigi Sturzo il monopolio statale dell’insegnamento non è l’anticamera della democrazia, ma del totalitarismo; è il primo passo verso la graduale assuefazione all’idea dello Stato come detentore dei diritti delle persone. Per rendere più comprensibile l’assunto, Sturzo analizza le peculiarità dei totalitarismi esistenti in Europa nel secolo ventesimo: quello russo dei bolscevichi, quello italiano del fascismo, quello nazista della Germania, «tre grandi Stati totalitari di carattere diverso, ma tutti e tre a tipo nazionale e fondati sulla centralizzazione amministrativa e politica, sul militarismo, sul monopolio dell’insegnamento e sull’economia chiusa».2 Egli sognava una scuola vera, libera, gioiosa, piena di entusiasmi giovanili, sviluppata in un ambiente adatto, con insegnanti impegnati alla nobile funzione di educatori, che non può germogliare nell’atmosfera pesante creata dal monopolio burocratico statale. Don Luigi Sturzo voleva spingere la scuola italiana verso una riforma attuata nella maggior parte dei Paesi civili basata sulla libertà d’insegnamento e sulla parità fra le scuole statali e quelle non statali, realizzata sulla carta con la legge n. 62 del 2000, ma che ancora deve trovare completa e pratica attuazione nei fatti.
9. Orientamenti pastorali Il terzo capitolo che affronta gli «orientamenti pastorali» partendo da una costatazione critica dovuta al «permanere in vari ambienti della comunità cristiana di un’incomprensibile disattenzione verso la scuola cattolica» afferma che «la scuola cattolica rappresenta un patrimonio prezioso per la Chiesa locale». I vescovi italiani rivolgono perciò un «forte invito»affinché «tra le comu1
L. STURZO, La scuola libera, in “Eco di Bergamo” 18 giugno 1947, ora in, Politica di questi anni, (settembre 1946-aprile 1948), Zanichelli, Bologna, 1954, p. 261. 2 L. STURZO, Politica e morale (1938) – Coscienza e Politica (1953), Zanichelli, Bologna, 1972, p. 29.
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nità cristiane e le scuole cattoliche in esse esistenti si instauri o rafforzi un rapporto sempre più fecondo a beneficio delle giovani generazioni e della limpidezza della testimonianza cristiana nell’ambito educativo» (n. 22). La scuola cattolica è una vera e propria “risorsa educativa” per tutta la società civile e particolarmente per e della Chiesa locale, «disponibile per il servizio educativo a vantaggio sia dei propri membri che di chiunque voglia accedere al suo progetto formativo»; deve quindi essere «sempre considerata uno dei luoghi privilegiati nei quali la comunità cristiana è messa nella condizione di testimoniare il proprio nativo impegno a favore della persona umana tout court, in modo del tutto naturale, cercando l’incontro con le giovani generazioni e in cordiale collaborazione con i genitori, primi interessati all’educazione dei figli» (n. 23). Ogni Chiesa locale è invitata a incoraggiare e valorizzare la presenza delle scuole cattoliche di ogni ordine e grado nel territorio curando il contatto con le famiglie. A proposito del rapporto con il territorio la “Nota” afferma: «Come la cura pastorale della diocesi e della parrocchia non può limitare la propria attenzione alle scuole cattoliche e deve invece interessarsi di tutte le scuole presenti sul suo territorio, nella logica di una cooperazione e di una condivisione dei problemi propri alle medesime fasce di età, anche le scuole cattoliche sono invitate, a loro volta, a stabilire relazioni costruttive con le scuole statali dello stesso territorio, proseguendo nelle esperienze di reti già sperimentate in tanti casi» (n. 24). Le singole scuole cattoliche sono invitate a superare l’autoreferenzialità partecipando alle iniziative promosse dalle associazioni o federazioni fra scuole cattoliche e promuovendo la reciproca comprensione e collaborazione con tutti i membri della Diocesi per superare forme d’indifferenza o d’incomprensione (cfr. n. 25). Sono esplicitate alcune caratteristiche del “fare scuola” da parte della comunità cristiana: la valorizzazione delle diverse scuole statali e non statali presenti nel territorio e la promozione di momenti di confronto e approfondimento coinvolgendo i responsabili delle scuole e gli operatori pastorali per costruire alleanze educative a vantaggio dei giovani e delle famiglie. Per favorire il rapporto con la Chiesa locale e l’«inserimento organico delle scuole cattoliche nella pastorale diocesana», di cui il Vescovo è il primo responsabile, si auspica di realizzare un progetto educativo diocesano per la scuola cattolica per rendere più radicata nel territorio la sua identità (cfr. n. 26). Il testo invita, inoltre, a «stabilire tutti i più opportuni collegamenti tra le scuole cattoliche, la Caritas diocesana, la pastorale giovanile, la pastorale vocazionale e gli uffici di pastorale della salute e della famiglia per lo studio delle problematiche di carattere sociale connesse al mondo della scuola,
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come, ad esempio, il disagio familiare, l’inserimento degli alunni portatori di disabilità» (n. 26). In questo quadro occorre «un’attenzione pastorale» ai genitori offrendo loro informazioni sul progetto formativo di ogni scuola cattolica e degli impegni conseguenti dell’adesione ad essa, e occasioni significative d’incontro sui problemi educativi. Si auspica l’istituzione di una “giornata” dedicata alla scuola cattolica per farne conoscere la presenza nel territorio e la loro missione e per sostenere anche economicamente specifici progetti a favore delle famiglie più bisognose (cfr. n. 27). S’invita la Chiesa locale a manifestare apprezzamento e a valorizzare il carisma dei membri delle Congregazioni o Istituti religiosi che gestiscono scuole cattoliche. Da parte loro i responsabili degli Istituti di Vita consacrata sono esortati a collegarsi con la pastorale scolastica diocesana e ad accrescere la collaborazione e il senso di corresponsabilità tra le diverse istituzioni che gestiscono scuole cattoliche all’interno della stessa diocesi, «nella consapevolezza di essere parte di un unico sistema e di un comune progetto diocesano» (n. 28). Un’attenzione particolare dovrà essere riservata agli insegnanti, «senza dubbio i principali operatori della scuola» (n. 29), che siano in grado di far fronte alle esigenze proprie del progetto educativo della scuola dove esercitano la loro missione. La “Nota” invita a investire sulla scelta, la preparazione degli insegnanti e sulla loro formazione permanente che implica l’impegno per la propria formazione personale, sia professionale sia spirituale, accompagnata da «un’oggettiva testimonianza di vita» cristiana (n. 31). Una particolare cura va riservata per un progetto educativo evangelicamente ispirato all’insegnamento della religione cattolica «dimensione qualificante del progetto educativo di una scuola cattolica» (n. 32), valutando l’opportunità di potenziare nei curricoli ordinari la quota oraria riservata a questo insegnamento. La parte finale è dedicata all’attenzione «ai più deboli». La maggior parte delle istituzioni educative scolastiche cattoliche, che sono nate per porsi al servizio di tutti e in particolare verso le categorie socialmente svantaggiate, sono chiamate a continuare ad esercitare il loro servizio come testimonianza dell’impegno di tutta la comunità ecclesiale nella realizzazione del quotidiano compito educativo e della costante attenzione ai più deboli. Purtroppo spesso le scuole cattoliche «a causa della mancata parificazione delle stesse sul piano finanziario» con le scuole statali, «non si trovano nella condizione di rimanere fedeli a questa loro originaria vocazione”» (n. 33). Per questa ragione si auspica di trovare forme di sostegno da parte della comunità ecclesiale per un impegno a favore dei poveri che rimane sempre più attuale.
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Una specifica attenzione va riservata verso gli alunni con disabilità che vanno accolti, per essere fedeli all’insegnamento evangelico, con un atteggiamento preferenziale. Per le spese necessarie a sostenere la presenza e l’integrazione degli alunni con disabilità si chiede che sia superata la condizione d’ingiustizia che subiscono le loro famiglie e le scuole paritarie che frequentano, a causa dei mancati finanziamenti da parte degli Enti pubblici destinati a tale nobile scopo (cfr. n. 34). Un’attenzione tutta particolare la Chiesa italiana, soprattutto attraverso alcune Congregazioni religiose, ha sempre manifestato verso il settore della formazione professionale dei giovani, alla quale spesso non è riconosciuta pari dignità rispetto ai settori dell’istruzione per un radicato «pregiudizio culturale secondo cui la formazione professionale ha a che fare unicamente e necessariamente con le fasce più deboli della popolazione, come un loro retaggio negativo» (n. 35). La Chiesa locale è chiamata a un sostegno convinto alla rivalutazione dei percorsi di formazione professionale d’ispirazione cristiana come importante occasione di educazione attraverso il lavoro e di testimonianza della carità verso le fasce più deboli della popolazione giovanile, che altrimenti rischia l’emarginazione sociale e scolastica. Tenuto conto del prezioso contributo sociale ed economico offerto, sia alla comunità civile sia a quella ecclesiale, dalla formazione professionale si auspica un rinnovato e comune impegno per promuovere nuovi centri di formazione professionale (cfr. n. 36).
10. Conclusione La proposta formativa di qualità di una scuola cattolica che si propone la “vita buona del vangelo” risulterà convincente ed attraente se potrà diventare «un luogo in cui l’educazione schiude orizzonti ampi e invitanti, raccoglie le sfide del nostro tempo, accende la passione per la verità, l’amore, la giustizia, la solidarietà, la libertà, la legalità» e dove «le giovani generazioni siano aiutate ad acquisire mezzi e strumenti per la loro vita futura, ma anche a trovare le ragioni di una vita veramente piena e veramente umana». Per terminare mi pare importante innanzitutto che ogni Chiesa locale prenda coscienza della sua responsabilità nel valorizzare, promuovere e coordinare le scuole cattoliche presenti nel suo territorio a servizio di tutta la società, in secondo luogo che le scuole cattoliche s’inseriscano nella pastorale organica diocesana e attivino forme di collaborazione fra loro e, infine, che sia nell’ambiente ecclesiale sia nel mondo laico si diffonda una cultura della parità, del pluralismo scolastico, fondato sulla libertà di scelta educativa, quale fattore costitutivo di un concetto di educazione basato sulla responsabilità comune di tutti quelli che sono coinvolti nel processo educativo.
Rivista Lasalliana 82 (2015) 2, 183-192
IL SACERDOTE IN S. GREGORIO DI NAZIANZO E IN S. GIOVANNI CRISOSTOMO FRANCESCO TRISOGLIO Professore emerito di Storia e Letteratura Patristica (Università di Torino)
SOMMARIO: 1. La terminologia. - 2. L’ambiente in cui sorsero i due trattati. - 3. Il sacerdozio nel piano provvidenziale divino.- 4. È un’eccellenza che esige purezza. - 5. È una missione che richiede complesse doti educative. - 6. Danni che possono provenire dall’inadeguatezza dei vescovi. - 7. Frequente inadeguatezza e indegnità di sacerdoti e di vescovi. - 8. La figura del sacerdote esemplare. - 9. La sublimità ideale del sacerdote.
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l sacerdote è figura così centrale e così essenziale che tutti i cristiani se lo sono visto davanti in pieno rilievo, ma da questa evidenza si sono anche sentiti esonerati dal definirlo; molti ne hanno richiamato peculiarità specifiche, ma per incontrare un ritratto potenzialmente completo bisogna risalire alla seconda metà del IV secolo, quando il Nazianzeno ed il Crisostomo si sono soffermati di proposito ad analizzarlo, se non nella totalità dei suoi aspetti, almeno in ampiezza di orizzonti.1
1. La terminologia Il sacerdote nell’Antico Testamento era collegato con l’esecuzione del sacrificio e con la discendenza da Aronne; nel Nuovo Testamento, Cristo, sommo sacerdote, istituì gli Apostoli suoi ministri e dispensatori dei misteri di Dio (1 Cor 4,1). Fin verso la fine del secondo secolo il sacerdote non veniva chiamato hiereús per non confonderlo con quelli pagani e giudaici; veniva detto anziano: S. Pietro (I,5,1) si presenta come anziano e saluta i suoi colleghi anziani; il vocabolo greco era presbýteros, dal quale, per sincope, è derivato prete. Nell’antichità il vescovo governava la Chiesa in unità con i presbiteri, per cui sacerdote assumeva una valenza che li designava entrambi; solo più tardi si venne ad una distinzione di grado, tra il presbitero, sacerdote puramente ministeriale, in dipendenza dal vescovo e per sua delega, dall’episcopo, sacerdote completo ed autosufficiente. In Lc 22,19 ed in 1 Cor 1 Testi: GREGORIO DI NAZIANZO, Orazioni I - 3, edizione critica e traduzione francese di J. BERNARDI, Sources chrétennes, n° 247, Du Cerf, Parigi 1978. - GIOVANNI CRISOSTOMO, De sacerdotio libri VI, editi da B. de Montfaucon, monaco maurino, nella Patrologia greca, vol. 48, Parigi 1862, coll. 623-692.
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11,24 Cristo istituisce l’Eucaristia e dà ordine di continuare a celebrarla; ne conseguiva, parallela, l’istituzione del sacerdozio con il potere sacramentale di consacrare. In Gv 20, 21-23 egli affida ai discepoli la facoltà di rimettere i peccati, in continuazione della sua attività purificatrice. In Mt 28,19-20 assegna loro il compito di ammaestrare tutte le genti, di battezzarle e di insegnare loro ad osservare tutto ciò che egli aveva ordinato: era la triplice missione dottrinale, sacramentale, direttiva. Il grado di questo potere nell’uso corrente dei Padri non veniva specificato; quando parlavano di sacerdote lo intendevano nella sua completezza gerarchica, però assai spesso emergeva dal termine generale la figura specifica del vescovo; sacerdote era, essenzialmente, il vescovo. Era lui il centro e l’anima della Chiesa. Agli albori del secondo secolo S. Ignazio d’Antiochia invitava: «Aderite al vescovo, affinché anche Dio aderisca a voi» (A Policarpo VI,1) e ancora: «Dobbiamo guardare al vescovo come al Signore stesso» (Agli Efesini VI,1).
2. L’ambiente in cui sorsero i due trattati Il Nazianzeno compose la sua orazione (seconda della sua serie) nel 362,2 mentre soggiornava ad Annesi, nel monastero che Basilio vi aveva fondato, quando egli aveva già ricevuto l’ordinazione sacerdotale. Il sacerdozio costituiva per Gregorio una realtà sublime, forse anche troppo sublime, per la sua eccellenza intrinseca e per il carico di responsabilità e di impegni che comportava. Gregorio ne provava venerazione, ma non ne sentiva attrazione. Alla gestione ecclesiale, fitta di incombenze amministrative ed agitata da interferenze sociali, non si sentiva incline. Non era un temperamento operativo; si riscontrava una vocazione contemplativa. Suo programma e sua intima aspirazione era l’approfondimento della verità nella più tersa purezza spirituale.3 Suo clima era il raccoglimento nel quale fiorisce un vivace dinamismo intellettuale di ricerca culturale. Si recò ad Annesi, ne apprezzò il tenore di vita, ne ricordò con nostalgia la genuinità della virtù, ma non vi rimase; il regolamento che Basilio vi aveva introdotto era saggio, sì, ma, in fondo, aveva qualcosa di costrittivo, che finiva con l’urtarlo. Più tardi, nel 375, si sarebbe trovato a suo agio nella solitudine meditativa del romitorio di S. Tecla a Seleucia d’Isauria. Suo ideale era un monachesimo dotto; quello che avrebbe operato nel 380 a Costantinopoli con le cinque orazioni teologiche (27-31). Il padre, anch’egli Gregorio e vescovo di Nazianzo, aveva un temperamento radicalmente opposto: modesto di cultura, alacre nell’ammi2
J. BERNARDI, Introduzione, p.14. Nel grande carme autobiografico De vita sua, che è la sua biografia e la sua apologia, Gregorio confida e insieme proclama: «Cercavo il meglio tra quanto c’è di meglio» (II,1,11,281).
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nistrazione della sua diocesi, portato all’azione pratica, attempatissimo, vide nel figlio il suo successore perfetto e, nella sua elementarità psicologica, non capendo la riluttanza di Gregorio, insistette tanto, che, con il suo prestigio di padre e di vescovo, riuscì a piegarlo ad accettare l’ordinazione presbiterale, tra la fine del 361 e l’inizio del 362. Per Gregorio fu un trauma che non si rimarginò mai più completamente; non era quella la sua vocazione; si sentiva immesso su un binario sbagliato. A sfogo e a riesame della sua situazione di coscienza, compose, poco dopo la Pasqua, l’orazione seconda, sul sacerdozio, che si mantenne in un ambito semiprivato e non venne mai proclamata al pubblico. Parla del sacerdozio con un’anima ferita dal sacerdozio nella sua applicazione pratica; si capisce quindi una sua istintiva tendenza a denunciarne le negatività nell’incarnazione che ne avevano fatta molti suoi colleghi contemporanei. Con qualche corrispondenza esteriore, ma in un’intima diversità, è la situazione nella quale si trovava il Crisostomo. Il trattato, composto verso il 382, si svolge in sei libri sotto forma di un dialogo, indiscernibile se reale o fittizio, tra Giovanni e l’amico Basilio; entrambi, vi si dice, avevano deciso di astenersi dal sacerdozio per dedicarsi completamente alla vita monastica; senonché Basilio aveva ceduto e si era lasciato ordinare, mentre Giovanni vi si era sottratto. Le motivazioni che Giovanni adduce del suo comportamento costituiscono la trama compositiva del trattato. Il suo De sacerdotio è sempre stato ammirato ed è sovente stato tradotto.
3. Il sacerdozio nel piano provvidenziale divino Il Nazianzeno inquadra subito il problema del sacerdozio nel progetto predispositivo divino; vede infatti che Dio ha stabilito che nella Chiesa ci sia chi è condotto al pascolo e riceve ordini e chi al pascolo conduce e gli ordini li impartisce; ci sono quelli che si elevano al disopra della folla per la loro virtù e la loro familiarità con Dio (§ 3). Queste sono le condizioni preliminari perché si possa compiere la missione della Chiesa, che è deputata a condurre gli uomini a Dio fornendo il duplice apporto della verità per l’intelletto e della grazia per la gestione pratica della vita. Questa grazia viene fornita dai sacramenti tramite il culto liturgico, il quale esige il sacerdozio (§ 4). Anche il Crisostomo inquadra il sacerdozio nel piano divino; trova infatti che esso viene esercitato sulla terra, ma che ha il rango degli ordinamenti celesti e che tale grado lo ha a pieno diritto. Non fu infatti un uomo, non fu un angelo, non fu un arcangelo, non fu un’altra delle potenze create, ma fu il Paraclito stesso che dispose questo ufficio sacro e che prese l’iniziativa che coloro che rimanevano ancora nella carne si proponessero un ministero che è proprio degli angeli (III, 4, col. 642 A).
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4. È un’eccellenza che esige purezza Il Nazianzeno in una riflessione permeata di un profondo senso di responsabilità dichiara: so di chi siamo ministri, a che livello siamo e qual è quello al quale ci dirigiamo; conosco l’altezza di Dio e la debolezza dell’uomo, ma anche la sua forza. Chi si innalzerà tra quelli che il peccato ha abbattuti? Chi, ancora avvolto nelle tenebre di quaggiù, contemplerà in purezza l’intelligenza perfetta con tutta la sua intelligenza? Si unirà a ciò che è stabile e invisibile, pur trovandosi tra ciò che è instabile e visibile? Quaggiù infatti un uomo perfettamente purificato avrebbe difficoltà a contemplare un simulacro del Bene come si vede il sole nell’acqua (§ 74). Il Crisostomo, a sua volta, proclama risoluto: bisogna che chi assume il sacerdozio sia puro come se si trovasse proprio in cielo insieme a quelle potenze (III, 4, 642 A) e lo motiva con la sublimità della consacrazione eucaristica che egli celebra: quando tu vedi il Signore immolato, che sta lì, sull’altare ed il sacerdote che incombe sul sacrificio pregando e che tutti i presenti sono arrossati di quel sangue prezioso,4 credi forse di essere ancora tra gli uomini e non pensi piuttosto di essere stato trasportato direttamente in cielo, di avere espulso dall’anima ogni pensiero carnale e non contempli nella sua totalità, con l’anima nuda e la mente pura, quanto sta nei cieli? Che meraviglia! Che amorevolezza di Dio! Colui che siede in cielo accanto al Padre, in quell’ora è tenuto nelle mani di tutti5 ed offre, a quelli che lo vogliono,6 se stesso da possedere e da accogliere nella sua completezza. È quello che tutti fanno con gli occhi della fede. Forse che tutto ciò appare meritevole di disprezzo o che sia tale che ci possa essere qualcuno che gli si levi contro? (642 C).
5. È una missione che richiede complesse doti educative Se l’anima deve essere pura verso se stessa, deve essere non meno alacre nell’insegnare quella verità che ha ricevuto l’incombenza di trasmettere agli altri. Gregorio ha una nettissima percezione della molteplicità delle situazioni nelle quali l’educatore si trova ad operare. Dichiara infatti con recisa incisività: non è la stessa cosa dirigere un gregge e soprintendere alle anime umane (§ 9). È infatti difficile saper ubbidire, ma è ancora più difficile saper coman4 Il Crisostomo non teme il verismo nell’interpretare la sua profonda fede nella presenza reale di Cristo nell’Eucaristia; ad essa vive una profonda partecipazione; ci fu chi lo definì il Doctor Eucharistiae. 5 Si riferisce alla recezione dell’ostia consacrata nell’atto della Comunione. 6 È restrizione frequente nel Crisostomo, il quale ci tiene ad evidenziare che la grazia Dio la offre ma non la impone; di fronte alla magnanimità universale di Dio sta la libertà dell’uomo nell’accettazione o nel rifiuto.
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dare a degli uomini, soprattutto quando si tratta di un potere come quello del sacerdote, che è fondato sulla legge divina e che conduce a Dio (§ 10). Suo compito essenziale è una trasmissione di valori che si articola sui due poli dell’idea da comunicare e del soggetto che la deve recepire; qui interlocutrice è l’anima umana che proviene da Dio, è divina e condivide la nobiltà del cielo al quale aspira (§ 17). Ma nulla è così difficile quanto conoscere i temperamenti ed i sentimenti (§ 18). Il sacerdote si dedica alla cura dell’uomo interiore e combatte contro un nemico che aggredisce nell’intimo; ha quindi bisogno di una fede assoluta (§ 21). È gravissima la responsabilità di curare un’anima immortale, che è chiamata ad essere eternamente castigata o glorificata; si richiede pertanto una grande conoscenza del modo di agire, soprattutto in quanto esiste una grande diversità tra i vari temperamenti e tra le molteplici situazioni sociali nelle quali le persone si trovano (§§ 28-29). Come i corpi, anche le anime vanno curate con metodi diversificati; gli uni vanno spinti dalle parole, gli altri sono tratti dall’esempio; gli uni sono lenti a lasciarsi trascinare al bene, gli altri sono impetuosi e difficili da trattenere (§ 30 e ancora §§ 31-32). Si richiede pertanto equilibrio, non piegare né da una parte né dall’altra, alla guisa dei funamboli (§ 34). È un compito arduo il dare a ciascuno, al tempo opportuno, la sua razione di parole, cioè dare la verità della nostra dottrina (§ 35); è arduo guidare l’uomo nella complessità dei suoi aspetti e delle sue forme (§ 44); c’è chi ha bisogno del latte e chi di una conoscenza completa e di un contenuto più elevato (§ 45). Pertanto Gregorio concentra la sua riflessione, emersa da una lunga esperienza, in un assioma solenne: «Mi sembra che sia l’arte delle arti e la scienza delle scienze il saper condurre l’uomo, che è il più complesso e vario di tutti gli esseri viventi» (§ 16) E ripiega su una constatazione che ha una risonanza di rammarico e di rimprovero per quelli che divergono: è meglio imparare ciò che bisogna dire e fare, perché non lo sappiamo, che insegnarlo agli altri pur non sapendolo (§ 47). Anche il Crisostomo rileva la grave colpevolezza di occuparsi del gregge di Dio in maniera avventata ed incompetente (IV,1, 660 D). Il sacerdote deve pertanto avere una distinta capacità di parlare. L’insegnamento orale è l’attrezzo operativo necessario per qualsiasi cura medica; se questo non riesce, tutto il resto è inutile; con esso risvegliamo l’anima che sta inerte, conteniamo quella esuberante, recidiamo gli eccessi, integriamo le insufficienze; quando l’anima è ammalata di credenze illegittime, è assolutamente necessario l’uso della parola, non soltanto per rassicurare i proprii congiunti, ma anche per le guerre che si debbono combattere all’estero (IV,3, 665 D). Bisogna essere pronti a qualsiasi discussione; colui che è disponibile ad attaccare battaglia contro tutti deve conoscere le tecniche di tutti (IV,4, 666 B); bisogna conoscere il linguaggio di tutti gli avversari della fede (IV 4, 667 AC). È necessario che il vescovo sia esperto nella dialettica; innumerevoli sono
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infatti i dissidi tra i proprii correligionari; taluni avventatamente vogliono indagare tutto senza ricavarne nessun frutto; irritiamo Dio se ci affanniamo a conoscere quello che egli non vuole che noi conosciamo (IV,5, 667 D). Qui il vescovo deve essere fornito di molta intelligenza per allontanare i ricercatori inquieti da questioni assurde; contro costoro si ha l’unico soccorso costituito dalla parola; se il vescovo ne è privo abbandona i suoi dipendenti alle tempeste. Il vescovo faccia quindi di tutto per procurarsi questa capacità (IV,5, 668 A).
6. Danni che possono provenire dall’inadeguatezza dei vescovi Gregorio rileva che il male di chi è a capo invade rapidamente i sottoposti, mentre il bene incontra difficoltà ad essere imitato (§ 11), esorta quindi a non diventare cattivi modelli della propria gente (§ 13); ammonisce che per un privato il male consiste nel commettere atti proibiti, mentre per un capo è non essere così buono come è possibile esserlo; per indurre alla virtù egli non deve usare la violenza ma la persuasione (§ 15). Ne nasce una stretta esigenza di precedere gli altri nella pratica della vita e nell’attrezzatura della mente; del resto, possiamo aggiungere noi, può essere significativa la doppia accezione del verbo greco árcho, che significa insieme incominciare e comandare, quasi che chi comanda debba porsi a capo della fila, per la strada che conosce e che percorre, facendosi seguire da quelli che la strada non la conoscono. Gregorio, infatti, confida che ansia che lo tormentava e lo angosciava era che, più che a correggere e a dirigere gli altri, doveva pensare a raschiare la ruggine del male che incrostava la sua persona; bisogna, dice, cominciare con il purificare se stessi prima di purificare gli altri; bisogna essere istruiti per istruire; bisogna diventare luce per illuminare, avvicinarsi a Dio per condurvi gli altri, essere santificato per santificare, condurre per mano e consigliare con intelligenza (§ 71). Gregorio, in un’interiore pacatezza di accento, apre una prospettiva di squisita nobiltà spirituale; presenta un’autorità che non ha bisogno di imporsi con la forza delle istituzioni, perché attira con la superiorità che s’irraggia dalla sua persona; è la regalità interiore che emana una maestà genuina, ben diversa dalla regalità politica che si appoggia sulle strutture sociali. Il Crisostomo, a sua volta, auspicò che, quando si tratta di presiedere nella Chiesa e di curare le anime, vengano preposti quelli che sono in larga misura più ricchi degli altri nella virtù dell’anima (II,2,633 B). Denunciò però il rischio che questa superiorità venisse inquinata dall’inanità della vanagloria (III,9 646 A; cFr. Gregorio 41; 51). Il sacerdote pertanto deve espellere dal suo animo la brama di primeggiare; già il desiderare il potere è colpa grave; il suo attaccamento priva della libertà, con il pericolo di offendere uomini e Dio (III,11, 647 D).
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7. Frequente inadeguatezza e indegnità di sacerdoti e di vescovi Gregorio nel denunciare questa carenza è duro, insistente, amaro; a mallevadori della sua condanna porta in capo tutta una serie di profeti, che fa sfilare in nettezza di individualità (§§ 57-68); è cupo nel valutare la situazione morale contemporanea (§§ 79-80) con le sue discordie ed i suoi contrasti (§§ 80-81); deplora il sacerdote/vescovo che non sta al disopra del livello morale della gente profana (§ 82); denuncia le lotte che si scatenavano nella Chiesa per motivi futili che venivano inseriti nella fede; censura l’impegno nel crearsi camarille di seguaci per formarsi una fazione propria, facendosi così, e giustamente, odiare dalla gente e coprire di accuse (§ 83). Il discredito è salito al punto da diventare tema delle beffe sulla scena teatrale, risorsa dei mimi (§ 84); questo è il frutto delle guerre vicendevoli (§ 85); coi nostri vizi oltraggiamo il nome di Cristo (§ 86); così rechiamo più danno alla fede di quanto la possa ferire Giuliano con tutta la sua ferocia (§ 87); qui c’è un qualcosa di diabolico (§ 88), dal quale non si vede chi ci difenderà (§ 89). In una confidenza personale, Gregorio comunica che uno dei motivi della sua riluttanza al sacerdozio era stato quello della vergogna che aveva provata dinanzi a coloro che si immischiavano nelle realtà più sante con le mani sporche (§ 8). È accanito contro la degenerazione dei pastori della Chiesa, ma non alza mai ombra di sospetto sulla santità della Chiesa in se stessa; sono miserie umane che l’avvolgono ma che non la penetrano. Il Crisostomo deplora le elezioni episcopali, nelle quali la gente badava alla nobiltà ed alla ricchezza del candidato senza pensare alla sua virtù ed alla sua religiosità ed in conseguenza venivano esclusi i monaci con la loro dignità ascetica (III,15, 652 BC). Denuncia il grave danno che proviene dall’ignoranza dei vescovi e si chiede: quando si tratta dei dogmi e si disquisisce sulla Scrittura, che apporto potranno arrecare il tenore di vita e le fatiche pastorali se, per la incompetenza della guida, qualcuno cade nell’eresia e viene tagliato via dal corpo della Chiesa? Qui l’ortodossia e l’integrità dei costumi del vescovo non servono a nulla; quando la folla dei secolari vede che il suo condottiero, nelle dispute pubbliche, è stato vinto e non ha avuto nulla da opporre agli avversari, non pensa che ciò sia avvenuto per la sua debolezza personale, ma accusa la debolezza friabile della dottrina e diminuisce la sicurezza della sua fede (IV,9, 972 AB). Il sacerdote viene punito anche per le colpe della sua gente; colui che ha ricevuto l’incarico di rettificare l’ignoranza degli altri e di premunire contro la guerra incombente del diavolo non può addurre a sua difesa l’ignoranza propria, non potrà dire di non aver sentito la tromba della guerra contro il diavolo, perciò non ha scuse, anche se perisse uno solo (VI,1, 678 D). Il Crisostomo rileva quindi che i peccati dei sacerdoti si attirano una punizione più grave (VI,11 686 D); il danno del peccato del sacerdote non si limita a lui, ma abbatte le anime di
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quelli che guardano a lui (VI,12 687 B). È la conseguenza della duplice valenza dell’uomo, persona individuale autonoma, e quindi responsabile di se stesso, e maglia del tessuto sociale, e quindi coinvolto nella sua buona conservazione.
8. La figura del sacerdote esemplare L’esistenza di sacerdoti indegni non intacca però la natura del sacerdozio, che proviene da una fonte più alta degli inquinamenti umani, tanto più che è contrastata dalla presenza di innumerevoli sacerdoti esemplari. Gregorio ne traccia alcuni lineamenti: gli propone di vivere al disopra delle realtà visibili per conservare i riflessi divini senza nessuna alterazione (§ 7); Gregorio si sentiva invitato all’umiltà di non affrontare problemi superiori alle sue forze dalla maestà degli angeli, i quali, pure eccellenti, di Dio colgono appena lo splendore non la natura, avvolta nella tenebra (§ 76); tale deve essere colui che guida le anime (§ 77). È necessaria una straordinaria nobiltà spirituale per accettare la direzione delle anime e soprattutto in un’epoca tanto sconvolta e confusa come era la sua (§ 78). Per il Crisostomo il pastore deve saper curare le anime come fa il medico con i corpi, però non può costringere il malato ad assumere la medicina; non ha la forza per costringere come fanno i giudici con i colpevoli; deve persuadere ad accogliere liberamente le sue prescrizioni; gli occorre quindi una grande abilità (II,3, 634 BC). Di fronte alle reazioni svariate delle anime il pastore deve avere una grande intelligenza e mille occhi, per osservare da ogni lato il loro stato (II,4, 675 B e III,12, 648 D). Il Crisostomo pone a base dell’attività pastorale già le virtù umane; ha l’obiettività di rilevare che per formare uomini pregevoli bisogna cominciare con l’essere uomini pregevoli; esorta pertanto, oltre all’astinenza dalle raffinatezze della vita, alla fortezza d’animo, alla laboriosità, alla superiorità sulle maldicenze, alla disponibilità anche a camminare a piedi nudi, alla padronanza sull’irascibilità (III,13, 649 BC), poiché l’irascibilità ottunde l’acutezza della mente, sconvolge lo stato dell’anima, produce l’arroganza, un odio immotivato ed offese gratuite (III,14, 449 D). Questo quadro delle doti auspicabili non presenta un’organicità sistematica; l’autore non costruisce un piano, attinge dall’esperienza. Come eco d’un suo esame di coscienza, Giovanni fa notare che, per attirare il pubblico dalla sterilità del piacere d’ascoltare all’utilità del messaggio proposto, si richiedono, congiunti, il disprezzo delle lodi e l’efficacia oratoria; la mancanza dell’uno rende inutile la presenza dell’altra (V,2, 673 B); è un essere superiore ai proprii pregi, un procurarseli senza rinchiudervisi, un predicare per farsi ascoltare senza ascoltarsi: è sincerità ed è dignità. Questo superiore equilibrio, che proviene dalla superiorità dello spirito, non si manifesta solo in quello che uno pensa di sé, ma anche in quello che dicono
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gli altri, per cui, dinanzi alle accuse intempestive, che non mancano mai, il vescovo non le deve né temere troppo né completamente trascurare; anche se sono false è meglio spegnerle e non lasciarsi alle spalle nulla che possa ingenerare sospetti (V,4, 674 A). È sicurezza per sé, è rasserenamento dell’ambiente e, in fondo, è anche rispetto degli altri, sebbene non se lo meritino molto. Non sottovalutare gli altri e non sopravvalutare se stesso; anche chi è bravo oratore non è un arrivato; l’arte è pur sempre in cammino, è pur sempre un’acquisizione che va accresciuta, se trascurata si perde (V,5, 674 D). L’artefice eccellente deve essere egli stesso giudice delle sue opere; le lodi altrui né le ricerchi né le respinga (V,7, 676 BC); è la preconizzazione di un equilibrio che è piena maturazione dello spirito. Il vescovo deve saper regolare se stesso, come deve saper valutare le situazioni nelle quali si trovano gli altri; deve quindi essere competente in tutte le questioni della vita secolare, poiché in mezzo ai secolari egli vive, però da esse deve essere estraneo come lo sono i monaci (VI,4, 681 CD). L’anima del sacerdote deve risplendere nella guisa di una luce che illumina tutto il mondo (VI,4, 681 CD). Giovanni sale alla visione ideale del sacerdote.
9. La sublimità ideale del sacerdote Secondo Gregorio per chi sta in una posizione elevata è un danno non impegnarsi in grandi ideali e non mirare ad un vasto pubblico, restringendosi a pochi, è come se un grande luce illuminasse solo una piccola stanza (§ 101). Il Crisostomo consacra il sacerdozio collegandolo direttamente all’investitura di Cristo; dice, infatti, che esso è un grande segno dell’amore verso Cristo, il quale disse a Pietro, se mi ami, pasci le mie pecore (Gv 21,15) e disse così, non per saperlo, poiché egli conosce il cuore di tutti, ma per farci conoscere fino a che punto egli apprezzasse il presiedere alle pecore; ne risulta quanto sia grande la ricompensa per coloro che si dedicano a quest’opera (II,1, 631 D). Con un palpito di commozione, nota che, se uno pensa che grande cosa sia che un uomo, composto di carne e di sangue, possa trovarsi vicino a quella beata e purissima natura, allora vedrà di quanto onore la grazia dello Spirito abbia insignito i sacerdoti. Infatti, tramite loro, si compie tutto ciò che concerne la nostra dignità e la nostra salvezza; coloro che abitano la terra hanno ricevuto l’incarico di somministrare le cose che si trovano nei cieli ed hanno ricevuto un potere che Dio non ha concesso né agli angeli né agli arcangeli (III,5, 643 A). E l’ammirazione si rinnova quando, quasi come estatico, Giovanni contempla il quadro dell’eccellenza del sacerdozio esclamando: quale dev’essere colui che resiste a tutte le tempeste e supera tutti gli ostacoli, arrivando a procurare il bene comune; deve essere autorevole ma senza orgoglio; deve
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ispirare soggezione ed essere affabile, capace di comandare e di stare nella comunità, imparziale e servizievole, umile senza lasciarsi asservire, impetuoso e mite per poter agevolmente combattere contro tutte le manchevolezze, non fare nulla per ostilità né per simpatia (III,16, 654 BC). Si direbbe che, più che tracciare un programma, contempli una realtà ideale. E, quasi come affascinato, ritorna a contemplare questa figura del sacerdote: come se tutto il mondo gli sia stato affidato, quasi che egli sia il padre di tutti, si accosta a Dio pregando che tutte le guerre del mondo vengano spente e i tumulti vengano dissolti; chiede che si stabilisca la pace, la prosperità, che avvenga rapidamente la liberazione dai mali che incombono su ciascuno, sia in privato che in pubblico; bisogna però che egli superi in tutto tutti coloro per i quali prega tutto questo; è logico che colui che comanda spicchi su coloro che gli sono soggetti (VI,4, 681 A).7 È la sublimità della carità, alla quale è connessa quella della santità; entrambe sono impegno della persona, che viene però sostenuta dalla presenza divina. Infatti Giovanni domanda: quando il sacerdote celebra il sacrificio (eucaristico), quale purezza gli richiederemo? Come debbono essere quelle mani, quella lingua che pronuncia quelle parole; quanto più pura e santa deve essere quell’anima che riceve lo Spirito, che è così grande! Allora gli angeli assistono il sacerdote e tutto il manipolo delle potenze celesti si schiera vicino all’altare di colui che vi si trova presente (VI,4, 681 B). Nel sacerdote ci può essere indegnità come persona, ma c’è sublimità come istituzione; le insufficienze sono il calo inevitabile che gli ideali subiscono quando si incarnano. Può suscitare qualche sorpresa che Gregorio, il teologo per antonomasia, e Giovanni, l’esegeta dei due Testamenti, che si dimostrò ben attrezzato sui dogmi che vi sono proposti, non abbiano impostato le loro trattazioni sull’aspetto dottrinale dell’essenza e dell’origine del sacerdozio; però, se entrambi erano teologi, entrambi erano anche pastori; entrambi vivevano ed operavano in mezzo alla gente ed allora hanno presentato come il vescovo trattava con la gente e come la gente vi reagiva. Non tenevano cattedra; cercavano di migliorare l’ambiente nelle due direzioni, come guidare e come lasciarsi guidare. I due non ebbero l’ambizione di scrivere un trattato dotto, ebbero quella, più alta, di illuminare e di rasserenare l’atmosfera nella quale respiravano i fedeli che stavano loro attorno. E poi scrissero per impulso di un episodio che, seppure in diversa profondità, segnò il carattere della loro vita.
7
Plutarco, nell’opuscolo sui motti dei re spartani, ne riferisce uno di un re che ai suoi sudditi proclamò: non sarei meritevole di comandare su di voi se non fossi migliore di voi.
Rivista Lasalliana 82 (2015) 2, 193-202
SENSI DELLE PAROLE E VALORE DEL SILENZIO GIOVANNI CHIMIRRI E GENNARO CICCHESE (Università Insubria – Varese / Università Lateranense – Roma)
SOMMARIO: 1. Avvio della questione. - 2. Importanza del linguaggio per l’uomo. - 3. Origine divina o umana delle parole? - 4. Parola comunicata, parola scritta. - 5. La potenza della parola. - 6. Parole per nominare il divino e per tacerlo. - 7. La parola come visione del mondo e come mentalità. - 8. Dalla parola al silenzio. - 9. Oblio del silenzio e crisi della parola. - 10. Nostalgia e interpretazione del silenzio.1
1. Avvio della questione
I
n quanto il silenzio non consiste, come è noto, in un semplice e sterile vuoto di rumori, vuoto di suoni o di parole, ma piuttosto in una sorta di assenza/presenza, ossia, di qualcosa di cui se ne presuppone e percepisce tuttavia una presenza (“silenzio parlante”), allora è utile, prima di affrontare direttamente il tema del silenzio, dire qualcosa sull’origine e il significato di quella parola che, pur taciuta (inespressa) non è per questo del tutto mancante. Già l’Abate Dinouart scriveva: “non si può dare un’idea esatta di certi oggetti senza descriverne nel contempo altri coi quali intercorrono rapporti essenziali. Non si può parlare delle tenebre senza parlare della luce, o della quiete senza riferirsi al movimento. Perciò, prendendo in esame il silenzio, farò prima delle riflessioni sulla parola, per spiegare più chiaramente una cosa in rapporto all’altra, ovvero, per spiegarle insieme”.2
2. Importanza del linguaggio per l’uomo Gli uomini, con la parola, possono non solo parlare o tacere, ma soprattutto possono nominare le cose del mondo e comunicare con tutto. Il linguaggio ha due lati: a) mentale (dialogo interiore dell’anima con se stessa); b) espressivo (il pensiero comunicato, parlato, scritto). Con esso l’uomo si eleva dal piano della sensazione a quello della visione, rappresentazione, ideazione, comunicazione col prossimo. Secondo M. Zambrano, la 1
Per un approfondimento di quanto qui esposto, rimandiamo a G. CHIMIRRI – G. CICCHESE, Dalla parola al silenzio. Antropologia e spiritualità, Chirico Editore, Napoli 2014. 2 DINOUART, L’arte di tacere, Demetra, Verona 1995, p. 14.
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vita umana non può essere tale fuori della parola, fuori di una “ragione poetica” che evoca di continuo il divino e il suo silenzio.3 Per M. Heidegger, l’uomo, a “differenza dell’animale, è l’essere vivente capace di parola, e il linguaggio fa dell’uomo quell’essere-che-è in quanto uomo. Il linguaggio – dice Humboldt – è il lavoro dello spirito che rivela l’essere”.4 M. Heidegger differenzia poi il linguaggio come interpretazione dell’essere e partecipazione alla verità, dal linguaggio-chiacchiera che “esime dal comprendere autenticamente e diffonde una comprensione indifferente alla verità, o la presunzione stessa di comprendere ciò di cui si parla, impedendo ogni riesame e ogni nuova discussione [...] L’ovvietà e banalità della chiacchiera, proprio dell’uomo medio, fanno sì che resti a lui nascosto l’inquietudine dell’infondatezza in cui egli è votato!”.5
3. Origine divina o umana delle parole? Da sempre si riflette sulle parole: Platone (Cratilo), Aristotele (De Interpretatione), Agostino (De doctrina christiana), ecc. Il linguaggio è stato prevalentemente concepito come invenzione strumentale umana (natura convenzionale del linguaggio), ma a questa teoria si è sempre contrapposta quella dell’innatismo linguistico (Torre di Babele, miti indiani, Vico, Schlegel, Schelling, ecc.) che lo vede non solo come un dono divino ma anche come rivelazione divina (“la Parola si è fatta carne e ha posto la sua tenda in mezzo a noi”: Gv 1,14) e quindi come sua presenza effettiva in questo mondo. Perciò, nelle religioni, il linguaggio è sempre stato qualcosa di sacro, qualcosa che non rinvia ad altro (linguaggio simbolico, convenzionale) ma che è già questa o quella realtà, è già espressione del divino stesso (si pensi alla sacralità della lingua ebraica e araba per ebrei e islamici, che rendono sacre le stesse loro scritture).
4. Parola comunicata, parola scritta Il linguaggio è quel sistema di segni che non solo rende possibile la comunicazione umana (e la comunicazione tra il divino e l’umano, per chi crede) ma anche arreca nella coscienza dell’uomo contenuti e significati meta-empirici. Esso non si riduce mai a qualcosa di semplicemente naturalistico, poiché c’è sempre in gioco la relazione fra persone, la posizione di valori, ecc. Quando poi la parola viene non solo pronunciata ma fissata materialmente (su pietra, tavoletta di argilla, vasi, papiro, lapidi, monete, monumenti, ecc.) per venire tramandata in modo sicuro, allora diventa scrittura. 3 Cfr. S. ZUCAL, “Rivelazione e nascondimento della parola”, in Lineamenti di pensiero dialogico, Morcelliana, Brescia 2004, pp. 11-28. 4 M. HEIDEGGER, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1999, pp. 27 e 193. 5 M. HEIDEGGER, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1990, pp. 213-214.
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Prima della scrittura moderna con le lettere dell’alfabeto, la parola era solo disegno, punti, linee, geroglifici, ideogrammi, pittogrammi, icone, simboli, nodi, bastoncini a tacche, conchiglie infilate, spine, ecc. (ecco la “preistoria della parola”). Curioso il fatto che, se in Occidente consideriamo la scrittura come un segno di progresso e di civiltà, per le antiche tradizioni orali (popoli primitivi, Platone, induismo) la scrittura è invece segno di decadimento, di profanazione del Verbo, di volgarizzazione certo utile ma nel contempo fuorviante. Secondo il sapiente indiano, per esempio, le “cose” bisogna saperle a memoria, averle bene in testa e dirle esclusivamente in determinate situazioni/circostanze/riti. Qualcosa di simile avviene nell’islam e nel cristianesimo, dove le preghiere più importanti, i nomi divini, le sure coraniche, ecc., vanno saputi a memoria, cioè, declamati e confessati dall’interno dell’anima e non letti banalmente.
5. La potenza della parola La parola parlata ha una forza evocativa ben maggiore rispetto a quella di altri segnali: essa ha qualcosa di arcano. Secondo M. Buber, l’uomo deve pronunciare le parole come se al loro interno si spalancassero i cieli e solo quando stabiliscono una relazione col Tu, dove ogni sussurro non è che stupore e ringraziamento.6 R. Guardini sottolinea invece lo stretto legame tra la parola e la cosa, tra il linguaggio è l’essere (la realtà stessa). Le parole sono ordinate e veritiere solo nella misura in cui seguono lo stesso ordine dell’essere delle cose: “solo in un mondo nel quale, in ultima istanza, l’ordine dell’essere e l’ordine del pensare sono una cosa sola, è possibile in assoluto pensare e dire [...] Il linguaggio dell’uomo fa un tutt’uno con la vita della conoscenza. Conoscendo, l’uomo erige un universo di parole e configura il linguaggio in modo storico-oggettivo. È significativo che in ebraico il medesimo vocabolo “dabar” voglia dire tanto parola che cosa (il suo contenuto di senso)”.7 Dio poi, dicono i sacri testi, crea il mondo – uscendo dalla sua solitudine silenziosa – proprio con la Parola: “Dio disse: la luce sia, e la luce fu” (Gen 1,3). Nei Veda, secondo gli studi del gesuita indiano R. Panikkar, ci sono molte - (che sarà poi in latino Vox): similitudini tra la Parola cristiana e la dea Vac anch’essa stava in principio, anch’essa è primizia divina, anch’essa è parola creatrice, anch’essa è rivelazione in persona, anch’essa è manifestazione dell’assoluto, anch’essa è realtà nella quale s’incontrano e stanno Dio e l’uomo e tutta la terra. 6 7
Cfr. M. BUBER, Il principio dialogico, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993. R. GUARDINI, Etica, Morcelliana, Brescia 2001, pp. 715-717.
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La parola è potenza immediatamente efficace; la parola è evento. Il logos dei greci era anche realtà, legge, armonia, necessità, felicità, costume, fatto compiuto. K. Rahner ha inteso tutta la creazione come “parola parlata di Dio”, Dio come “Parola Parlante” e Cristo come “Parola abbreviata di Dio”8; mentre M. Merleau-Ponty ha utilizzato i termini di “parola parlante” e “parola parlata” per indicare rispettivamente la parola vera, importante, significativa, dalla semplice parola di troppo, superflua, banale.9 La parola nomina l’essenza delle cose e le fa essere. Per i babilonesi, per esempio, una cosa senza nome non poteva esistere! Ogni parola pronunciata – se detta con serietà, convinzione, verità – pesa come le pietre, e può ferire e guarire, stabilire una relazione o scioglierla. Particolarmente potente è la parola rituale, pronunciata la quale, la realtà muta, appare, svanisce, si rende diversamente presente, manipolata, giudicata: è quanto comunemente avviene nelle magie, nelle liturgie religiose dove, in un complicato intreccio di parole-dette e di parole non-dette (silenzio), il male viene scacciato, l’individuo è reso membro della comunità, le sostanze naturali sono tramutate in corpi divini, ecc. La stessa cosa avviene in ambito giuridico fin dagli antichi romani: le formule di parole, una volta pronunciate, fanno esistere una realtà (politica, morale, civile, economica, ecc.). La parola è anche, infine, nome personale che, non solo significa questo o quello (molto interessanti sono le etimologie dei nomi propri in tutte le lingue), ma rivela immediatamente l’identità di chi la porta: dire il proprio nome, è quasi un consegnarsi all’altro; tacere il proprio nome, è rivolta e diniego dell’altro.
6. Parole per nominare il divino e per tacerlo Si consideri che, quando si vuole attribuire un nome al divino in persona, questo nome può essere: – il suo nome proprio: Geova, Signore, Essere Sussistente, Uno, Infinito, Shiva, Allah, ecc. (secondo le varie religioni e filosofie); – uno dei suoi nomi migliori (Misericordioso/Onnipotente per l’islam; Amore per il cristianesimo; Alleato fedele per l’ebraismo, ecc.); – un nome simbolico (Luce, Cielo, Soffio, Re degli eserciti, ecc.); – un mezzo negativo per esprimerlo, poiché a Dio non conviene alcun nome (= teologia negativa): “colui che vuol cogliere il senso profondo delle cose deve sollevare l’intelletto al di sopra del potere delle parole, e non rima8 9
Cfr. K. RAHNER, Corso fondamentale sulla fede, Paoline, Roma 1978, passim. Cfr. M. MERLEAU-PONTY, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003.
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nere fissato al loro significato proprio, poiché esse non possono risultare adeguate ai misteri così grandi […] Poiché Dio è la totalità delle cose, nessun nome gli è appropriato; oppure bisognerebbe chiamarlo con tutti i nomi, dato che egli implica l’universalità del tutto. Ma tutti i nomi affermativi che attribuiamo a Dio, gli convengono infinitamente diminuiti nel loro significato, poiché si riferiscono a qualcosa di creato, limitato, particolare […] La dotta ignoranza ci ha insegnato però che Dio è indicibile, perché egli è maggiore all’infinito di tutte le cose di cui si può parlare; e con più verità parliamo di lui rimuovendo e negando come sostiene anche Dionigi, il quale volle che Dio non fosse nessuna delle cose che noi umani possiamo dire a parole”.10
7. La parola come visione del mondo e come mentalità Tutta la storia del linguaggio s’intreccia con la storia delle società e delle culture, come raffinamento ed evoluzione degli strumenti comunicativi. Del resto, non esistono linguaggi privati capiti solo dal singolo o da pochissimi (avrebbero una funzione alquanto limitata): il linguaggio è di dominio essenzialmente pubblico, comunitario ed è costitutivamente relazione. Anche Rosmini definisce il linguaggio come “un sistema di segni e di vocaboli stabiliti da una società, adeguato a significare i pensieri che i membri si vogliono comunicare”.11 Ancor di più, è stato affermato giustamente da molti che “i linguaggi umani non sono altro dal deposito storico del progresso di un popolo”; che “non c’è scienza dove non c’è una lingua ben fatta”; che “i costumi e le idee di un popolo s’identificano con la genialità della sua lingua”, che “la lingua non è che una forma spirituale che caratterizza la totalità ideale di una nazione”, ecc. I popoli raccoglitori e pescatori avevano un linguaggio molto legato alle loro attività. La lingua dei gauchos, per esempio, ha centinaia di vocaboli legati al mondo dei cavalli, ma possiede pochissimi nomi per indicare le piante. Gli esquimesi hanno trenta nomi diversi per indicare la neve e la sua bianchezza. Gli arabi hanno un centinaio di nomi intorno al mondo del cammello (con tutto i suoi prodotti, funzioni, usi, ecc.). Ha scritto von Humboldt: “il linguaggio media il rapporto tra l’uomo e il mondo, anzi attraverso il linguaggio, l’uomo modella il mondo esteriore facendone il proprio mondo [...] La differenza fra i linguaggi non è differenza di segni e suoni, ma d’intere visioni del mondo”.12 10
N. CUSANO, La dotta ignoranza, Rusconi, Milano 1988, pp. 71, 116, 123. A. ROSMINI, Conoscenza e verità, Fede & Cultura, Verona 2008, p. 65. 12 Citato da A. PIERETTI, voce “Linguaggio”, in Enciclopedia Filosofica, vol. 7, Bompiani, Milano 2006, p. 6494. 11
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8. Dalla parola al silenzio Dunque, abbiamo visto che ci sono parole e parole, parole e chiacchiere, parole rivelative e parole insignificanti, parole da esprimere e parole da tacere per salvaguardare il divino. Sulla base di questo, possiamo ora comprendere meglio un altro tipo di linguaggio umano altrettanto essenziale quanto quello delle parole: il linguaggio del silenzio, cioè, delle parole sottointese, o solo sussurrate, o solo desiderate, gradite, sperate, ecc. Per comunicare non bisogna sempre e per forza parlare. Spesso è più che sufficiente uno sguardo per intendersi, come quello fra madre e figlio; o come quello dato da Gesù a Pietro che lo aveva appena tradito, uno sguardo certo pieno di amore e comprensione ma che lo fece piangere amaramente (cf. Lc 22,61-62). Ma oggi viviamo in un’epoca che ha smarrito il senso e il valore del silenzio. Il suo recupero nella cosiddetta “civiltà del rumore” è quanto mai necessario e auspicabile. L’oblio del silenzio è sintomo di altri più profondi oblii, come quello metafisico, o quello dell’umanità stessa dell’uomo. Uno dei drammi dell’uomo contemporaneo è quello di aver costruito un mondo che non è più a sua misura (metropoli, inquinamento, edonismo, massificazione, velocità, ecc.), e che lo stringe in una morsa senza scampo. Scrive C. G. Jung: “il rumore è benvenuto perché sovrasta l’istintivo avvertimento del pericolo che è in noi. Chi ha paura di se stesso, ricerca compagnie chiassose e rumori strepitosi per scacciare i suoi demoni interiori. Il rumore infonde un senso di sicurezza, come la folla. Esso ci protegge da penose riflessioni, distrugge i sogni inquietanti, ci assicura che stiamo tutti quanti insieme e facciamo un tale chiasso che nessuno oserà aggredirci. Il rumore è così immediato, così prepotentemente reale che tutto il resto diventa pallido fantasma. Esso ci risparmia la fatica di dire o fare qualsiasi cosa perché persino l’aria vibra della potenza della nostra indomabile vitalità”!13 Anche la musica, in se stessa positiva per l’educazione dell’animo, è mistificata se ascoltata a gran volume, in ogni luogo, senza gustare quelle pause che pur contiene: così l’orchestra, per esempio, non finisce quasi di suonare che già scatta l’applauso, ignorando il pubblico che dopo l’ultima nota c’era una pausa di silenzio che fa parte integrante del testo e dopo cui esso (e solamente) è davvero finito! Una dimensione subdola di inquinamento che si aggiunge al rumore acustico, è quel rumore che si insinua all’interno della parola stessa e la stravolge: “oggi la parola non nasce più dal silenzio, con un atto dello spirito che dà senso simultaneamente alla parola e al silenzio, ma nasce da un’altra parola; né ritorna poi al silenzio e non sbocca più nel silenzio ma in un altro brusio verbale, nel cui rumore poi si perde il silenzio”.14 13 14
C. G. JUNG, Esperienza e mistero, Bollati Boringhieri, Torino 1982, pp. 13-14. M. PICARD, Il mondo del silenzio, Servitium, Sotto il Monte (BG) 2007, p. 153.
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9. Oblio del silenzio e crisi della parola Passeggiando per le vie di una grande città di qualsivoglia parte del mondo, assistiamo a un fenomeno che prende sempre più consistenza: è l’oblio del silenzio. Avvertiamo che il silenzio si dilegua, e il rumore prende il sopravvento: “la grande città – scrive ancora Picard – è un’enorme cisterna di rumore. Nella città il rumore è fabbricato come una merce, accumulato e messo a scorta; del tutto dissociato dall’oggetto che lo ha generato, e dalle riserve sopra la città ricade sull’uomo e sulle cose. La grande città è una fortezza contro il silenzio e le case stesse sono come casematte contro il silenzio”.15 Il silenzio rimane fuori le mura, sopito ed escluso. Il fenomeno della sua rimozione e del suo conseguente oblio è piuttosto evidente e ci sembra rivelativo di una situazione planetaria, giacché non è solo limitata all’Occidente. Si estende in ogni parte del mondo a causa di un progetto che vorrebbe apparire umano, ma che risulta spietatamente disumano. Percorrendo in macchina le grandi città, si ha come la sensazione di attraversare un immenso dizionario, fatto di cartelloni pubblicitari onnipresenti e di fiumi di parole che ci distolgono dal silenzio relegandolo nell’oblio, perché non sono parole autentiche che realizzano la comunicazione fra gli uomini, ma parole vuote, commerciali, forzate, controproducenti, ecc. Con l’oblio del silenzio accade la crisi della parola che, se disancorata dalla sua radice, perde la sua funzione, non alimenta più la comunione, non è più apportatrice di vita, di gioia, di buona novella. R. Guardini scrive che gli uomini siamo diventati così superficiali, che non proviamo più ormai dolore per le parole distrutte. Abbiamo preso a pronunciare i nomi in modo sempre più rapido, superficiale, esteriore, pensando sempre meno alle essenze espressevi. Le abbiamo trasmesse ad altri, come si passa una moneta da una mano all’altra; non si sa che aspetto abbia, cosa ci sia sopra; si sa soltanto che per essa si riceve tanto. Così le parole sono corse celermente di bocca in bocca. Il loro senso intimo non ha parlato più; l’essenza delle cose non si è fatta più udire; l’anima non si è rivelata in esse; si ridussero ormai solo a parole-monete; indicarono la cosa senza però rivelarla. Così il linguaggio coi suoi vocaboli non è più un commercio pieno d’anelito con l’essenza delle cose, né un incontro fra cose e anima.16 Ma torniamo all’oblio del silenzio. Ebbene, esso ha raggiunto così alti livelli che non è più semplicemente dimenticato, ma non ci si rende nemme-
15 16
M. PICARD, Il mondo del silenzio, op. cit., p. 183. Cfr. R. GUARDINI, I santi segni, Morcelliana, Brescia 1980, p. 200.
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no più conto della sua mancanza; non ci si accorge neppure che si è perso per sempre. Al termine di una festa, per esempio, bisogna ancora e sempre fare qualcosa, dire qualcosa, fischiare, cantare, tossire, ecc. Il bisogno di rumore diventa insopportabile ed è comunque sempre meglio di niente, meglio del silenzio tombale! Ma perché? Perché si teme che possa venire fuori dal proprio intimo ciò che teniamo alla larga proprio col rumore! In questa paura si scorge il dramma dell’uomo contemporaneo, che ha perso il rapporto con le proprie radici, interiorità, umanità. Egli ha favorito, infatti, l’aspetto esteriore a scapito di quello interiore, il mondo fisico a quello metafisico. Ha privilegiato scienza, tecnologia e progresso, in una continua fuga dal proprio centro e dal silenzio, fino al mutamento della sua natura. Il silenzio è stato annientato e il frastuono ha occupato tutta la terra.
10. Nostalgia e interpretazione del silenzio Scrive ancora l’abate Dinouart: “parto dal presupposto che, per tacere, non basta tenere la bocca chiusa e non parlare. Bisogna però saper dominare la lingua, scegliere i momenti adatti per frenarla o liberarla; seguire le regole che la prudenza suggerisce in materia; distinguere, nelle circostanze della vita, le occasioni in cui il silenzio deve essere inviolabile. È forse proprio per questo che gli antichi saggi sostennero: “Per imparare a parlare bisogna rivolgersi agli uomini; ma è prerogativa degli dèi insegnare in modo perfetto come si deve tacere” [...] Il primo grado di saggezza è saper tacere; il secondo è saper parlare poco e moderare le parole; il terzo è saper parlare molto ma senza parlare male e neppure troppo”.17 Bisogna insomma parlare solo quando si ha qualche cosa da dire che valga più del silenzio! Ma piano piano il silenzio presenta il conto, e il cittadino desidera fuggire in campagna e visitare monasteri. Scrive J. Egger: “l’epoca contemporanea sembra avere nostalgia del silenzio. Non solo il silenzio meditativo dei ritiri spirituali di chi aspira a un ri-centramento della propria esperienza personale, e neppure soltanto quel poco silenzio possibile nelle chiese delle metropoli […] Caratteristico del momento attuale è che la nostalgia del silenzio è risentita a livello generale e si accompagna a una volontà di fuga da una realtà percepita come troppo ingombra […] La ricerca del silenzio diventa quasi un luogo comune e assume diverse forme, come quella di un fenomeno di moda, oppure di una rivalutazione euristica in diverse discipline, oppure ancora semplicemente di esasperazione di fronte all’imperversare dello scambio d’informazioni […] Ma il silenzio oggi non è ricercato soltanto quale destinazione ultima della fuga da una realtà divenuta assordante. Si 17
DINOUART, L’arte di tacere, op. cit., pp. 14-15.
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assiste pure a una vera riscoperta di questo fenomeno, ovvero a una presa di coscienza generale dell’importanza che esso assume per l’individuo e per la società umana”.18 Nella storia dell’uomo il silenzio ha sempre avuto un ruolo fondamentale, come nel campo dell’arte e della religione: la sua scomparsa sarebbe una grave perdita per tutti noi. La capacità di pensare, riflettere e creare dipende in larga misura dalla possibilità di avere accesso alla quiete in maniera regolare. Scrive Zanzucchi: “la luce, messaggio per eccellenza, ci suggerisce un corollario dai forti risvolti etici, che non può non concludere il nostro percorso morale. Se silenzio e parola, in relazione d’amore, emettono luce, questa stessa luce dovrà essere amore. E l’amore ha a che fare con la crescita umana, con la dolcezza, con la gratuità, con la misericordia, con l’attenzione. All’interno del messaggio che esiste (più o meno esplicito o mascherato) in ogni atto comunicativo, comunicare “il” positivo e “in” positivo è qualcosa di fondamentale”.19 In un mondo in cui l’uso dei mass media e la comunicazione sono smisurate, mentre la capacità ricettiva ed educativa sono in crisi, è sempre più necessario riscoprire il silenzio e il suo valore. Il rischio da evitare, in questa nuova ricerca di significato del silenzio, è quello di parlare solo sul silenzio e non dal silenzio; cioè, di oggettivare un discorso che per sua natura è aperto all’indicibile e al mistero, e che costringe l’uomo a mettersi in gioco in maniera vitale, con un’opzione esistenziale fondamentale. La nostalgia del silenzio è un’esigenza del pensiero filosofico, pedagogico, religioso. Il silenzio è l’anima di ogni parola. Se la parola caratterizza l’uomo, è il silenzio che lo spiega, perché la parola non acquista significato se non in funzione di questo silenzio. Silenzio e parola formano un tutto, e questa unità ben rivela l’essenza dell’uomo. Il silenzio non è altro che l’attenzione accordata all’essere come a un dono; esso è la radice ontologica dell’adorazione. Se la parola c’impegna tutto il cervello, il silenzio e l’ascolto impegnano tutto il nostro essere. Se abbiamo due orecchie e una sola bocca, è perché dobbiamo più ascoltare che parlare. “Per giungere a scrutare il silenzio – ha scritto mons. B. Forte – dobbiamo muoverci e andare là dove il divino ci è stato rivelato e donato. E allora questo pellegrinaggio di pensiero e di vita ci porta ai piedi della croce, al mistero della Pasqua. La croce è il luogo in cui Dio parla nel silenzio e anche
18 19
J. EGGER, Nota, in M. PICARD, Il mondo del silenzio, pp. 203-209. M. ZANZUCCHI, Il silenzio e la parola, Città Nuova, Roma 2012, p. 107.
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il luogo in cui noi scrutiamo lo Spirito per pervenire a quella luce più piena che la Pasqua getta sulla croce stessa”.20 Ogni nostro agire è sempre comunicazione, ha cioè sempre il valore di un messaggio, anche quando stiamo fermi, non parliamo, ci limitiamo a guardare. La persona di spirito vive le profondità della vita in tutte le sue forme, dall’allegria alla malattia. Comunichiamo tanto meglio il nostro essere quanto più saremo capaci di misurare le parole dette e valorizzare le parole taciute. Il silenzio non è un atto o un fine in sé, ma una dimensione costante di tutto il nostro essere, che sarà tanto più autentica quanto più sarà nel contempo capace di ascoltare e poi di dialogare sotto il segno del rispetto, della volontà di comprendere, della possibilità di venire corretti, della gioia di porci al servizio del prossimo (... solo sussurrando... solo in silenzio... solo adorando).
20
B. FORTE, Alta silentia, in AA.VV., Dio parla nel silenzio, Teresianum, Roma 1989, p. 65.
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STUDI UMANISTICI QUALE PRESIDIO DELLA DEMOCRAZIA E DELLO STESSO BENESSERE ECONOMICO DARIO ANTISERI Professore di Metodologia delle Scienze Sociali
SOMMARIO: 1. Hans-Georg Gadamer: il “dialogo” con i classici come allenamento alla scoperta dell’altro e, insieme, di se stessi. - 2. La televisione e «la fine dell’esperienza del dialogo». - 3. Marc Fumaroli: resistere all’atrofizzazione delle nostre coscienze. - 4. Quella umanistica è educazione «fondata sulla capacità di interpretare le parole altrui e di inventare le proprie». - 5. Martha Nussbaum: soltanto una mente aperta è il più sicuro presidio di una società aperta. - 6. La portata formativa della “disputa filosofica”. - 7. La necessità di una “immaginazione coltivata”. - Appendice
1. Hans-Georg Gadamer: il “dialogo” con i classici come allenamento alla scoperta dell’altro e, insieme, di se stessi
I
n un colloquio con Stefano Vastano dal titolo Novecento. Viviamolo. Studiando i Greci («L’Espresso», 24 ottobre 1996) Hans-Georg Gadamer esordisce con la seguente constatazione: «Sono tutti convinti che solo lo sviluppo tecnologico, la scienza cioè e il complesso delle sue applicazioni tecniche, segnino il progresso. E siccome il Novecento è il secolo del progresso e dello sviluppo tecnologico tutti sono convinti sia giusto occuparcene molto». Ma questo – precisa subito Gadamer – «è un madornale errore». E lo è «perché il senso della cultura, di ciò che ho chiamato il “dialogo” del presente con il passato, è appunto quello di imparare a pensare. “Cultura” significa imparare di testa propria a formarsi un giudizio. E questo ci proviene per l’appunto dal dialogo con i classici». La lettura di un classico, insomma, induce a giudicare meglio e di testa propria il presente per la ragione che il classico è quell’autore che offre modelli di comportamento e di pensiero diversi dal nostro e «sono proprio queste alternative culturali del passato che stimolano e sostengono la nostra facoltà di giudizio». E «non vi è dubbio – prosegue Gadamer – che proprio la cultura del nostro secolo, dalla filosofia alla letteratura, nasce essenzialmente da un dialogo con le origini greche della nostra cultura europea: origini mediate poi dalla tradizione latina e romana». La perdita della dimensione del passato si coniuga con «la tendenza a ridurre la cultura a giornalismo, come informazione [...] sul presente». E la riduzione della cultura al presente comporta che tutto si trasformi in “chiacchiera” con la conseguenza che «sono le istituzioni democra-
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tiche a correre il vero pericolo da questa riduzione della cultura a informazione generica. E se a scuola gli insegnanti confrontano [gli studenti] solo con la storia più recente senza le alternative del passato, è chiaro che non sapranno giudicare rettamente i loro politici. È qui il vero rischio di queste operazioni». E, dunque, «bisogna tornare soprattutto a studiare la base della nostra cultura, cioè i greci». Il “dialogo” con i classici è riflessione tesa a capire gli altri, a capire ciò che ci unisce agli altri e soprattutto a capire i problemi e soluzioni che da loro ci dividono.1 «Sembrerà paradossale – dice Gadamer –, ma Heidegger cercava nei classici greci quei concetti che non trovava nella storia della filosofia moderna e contemporanea, proprio per poter esprimere l’essenza della filosofia moderna stessa». Capire gli altri: a questo allena il “dialogo” con i classici. E «credo – egli conclude Gadamer – che il compito principale della cultura consista nel promuovere una più razionale 1 Immaginando di rivolgersi a «interlocutori poco benevoli, se non ostili, verso i classici», Giuseppe Cambiano, nell’ultimo capitolo del suo libro Perché leggere i classici. Interpretazione e scrittura (il Mulino, Bologna, 2010), prende in considerazione le non campate per aria obiezioni addotte da tali interlocutori contro le varie proposte avanzate a difesa delle ragioni per cui si dovrebbero leggere i classici, finché giunge alla possibilità di intendere l’antico «come il “diverso”, il semplicemente altro, in senso non preliminarmente valutativo» (Op. cit., p. 160). E questa, dice Cambiano, «è indubbiamente una ragione più forte» – una ragione più volte avanzata e che egli reputa apprezzabile. Solo che, a suo avviso, si tratta di una ragione «non ancora decisiva, se non è accompagnata da qualche altra considerazione». Difatti si potrebbe obiettare che la cultura greca è una tra le tante culture e non si vede perché solo la sua “alterità” dovrebbe necessariamente diventare oggetto privilegiato di studio. Ecco, allora, che «occorre [...] trovare l’elemento che conferisca alla cultura greca e, in particolare, ai testi filosofici prodotti da essa, questa posizione peculiare che ne giustifichi l’insegnamento istituzionale» (Ibidem). Dunque: in che cosa consiste l’”alterità” della cultura greca, con speciale riferimento ai testi filosofici? Non è il caso, afferma Cambiano, di praticare quella che egli chiama “cosmetica dei classici” – operazione rivolta «a rifarne il viso, cancellandone o tacendone gli aspetti ritenuti inaccettabili» (Op. cit., p. 159 e cap. 2) –, giacché «nel richiamarsi in questo modo ai classici si rende loro il pessimo servizio di alterarli, di smarrire il fatto che l’antichità è un tessuto di alternative, sovente incompatibili tra loro, non un modello armonico a senso unico costruito a nostra consolazione, sul quale si possa stendere un’unica tranquillizzante patina gelatinosa e uniforme» (Op. cit., p. 159). E si dà il fatto – prosegue Cambiano – che «questa alterità si è, per così dire, insediata nel corpo stesso della cultura occidentale, attraverso una molteplicità di mediazioni, dagli intellettuali romani alla Chiesa, dall’introduzione dell’insegnamento universitario alle ricerche di identità nazionali, alle difese contro la scienza o la modernità e così via [...]. Il fatto è [...] che i testi filosofici antichi, con le loro alternative soventi radicali, con il tempo e attraverso percorsi assai complicati di “digestione” e di assimilazione, sono entrati lentamente a permeare anche i tessuti delle credenze comuni. Si è così generata una sorta di multiculturalismo – per usare una parola oggi di moda – nel cuore stesso di quella cultura che si crede unitaria e che siamo abituati a chiamare “occidentale”, ma che è tutt’altro che un blocco omogeneo, nonostante i tentativi di renderla tale anche attraverso il richiamo a una comune indifferenziata eredità classica, magari assorbita entro un alveo cristiano» (Op. cit., pp. 160-161). È stata opera delle generazioni successive l’aver tentato «in vari modi e per ragioni anche opposte non solo di appropriarsi del passato, ma di ren-
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convivenza umana su questa Terra. La filosofia che ho cercato di sviluppare non è altro che il tentativo di intendere l’altro. Non solo allora i testi tramandati dalla nostra tradizione culturale. Ma anche dalle altre tradizioni delle altre lingue».2
2. La televisione e «la fine dell’esperienza del dialogo» Dialogo, dunque, come scoperta dell’altro e, insieme, di se stessi nei tratti che ci uniscono e ci differenziano dall’altro. Solo che, annota Gadamer, oggi «il dialogo non c’è più e non c’è più questa capacità di dialogo» – e questo proprio ai nostri giorni, in tempi di globalizzazione. In una intervista al settimanale tedesco «Die Woche» (10 febbraio 1995) Gadamer ha dichiarato: «La televisione è la catena da schiavi alla quale è legata l’odierna umanità. La chiave di questa catena la possiede la contemporanea élite dell’informazione, il cui scopo è unicamente la schiavizzazione dell’umanità ad opera delle immagini». Ed ha subito aggiunto di temere per il futuro della demoderlo identico a sé. In tal modo questo passato è diventato ovvio, si è “naturalizzato”, non è più stato percepito e riconosciuto come altro, né visto nelle sue relazioni con le distorsioni, esclusioni e rimozioni successive, che ne hanno sovente azzerato o, almeno, alterato le alternative che lo attraversano» (Op. cit., p. 162). Ebbene, fa presente Cambiano, «insegnare le vicende della filosofia antica attraverso i suoi testi classici non come una storia teleologica orientata verso gratificanti o edificanti esiti finali, ma come un territorio mobile di oggetti fluttuanti, fatto di alternative in continua interazione con le vicende successive sino a noi “moderni”, forse potrebbe consentire di attraversare, almeno in qualche piccolo punto, attraverso qualche sondaggio, la coltre delle nostre credenze e mostrare che l’ovvio non è tale, ma è un risultato e, come tale, lascia intravedere anche il possibile, che è altro da esso». (Op. cit., pp. 162-163). 2 Al termine del suo lavoro Futuro del “classico” (Einaudi, Torino, 2004, pp. 123-124) Salvatore Settis scrive: «L’essenza del “classico” in quanto risultato di scambi e mescolanze fra culture e la “forma ritmica” del suo continuo rinascere nella storia sono [...] le due facce della stessa medaglia [...] Il “classico” potrebbe a buon diritto essere ancora oggetto di attenzione e di studio, e avrebbe senso riproporlo, anche nella scuola, non più come immobile e privilegiato gergo delle élite, ma come efficace chiave di accesso alla molteplicità delle culture del mondo contemporaneo, come aiuto a intendere il loro processo di mutuo interpretarsi. Il “classico”, piuttosto che modello immutabile, ridiventerebbe quello che altre volte è stato, lo stimolo a un serrato confronto non solo fra Antichi e moderni, ma anche fra le culture “nostre” e le “altre”: un confronto sempre giocato in funzione del presente, e sempre come lo scontro, a volte assai aspro, fra opposte interpretazioni non solo del passato, ma anche del futuro. Perché quella perpetua invocazione e ridefinizione del “classico” null’altro è stata ed è che un incessante ricercare i nostri antenati, che per definizione sono lontani da noi e per definizione ci appartengono, che ci hanno generato e che noi generiamo e ri-generiamo ogni volta che li evochiamo nel presente e per il presente. Quanto più sapremo guardare al “classico” non come una morta eredità che ci appartiene senza nostro merito, ma come qualcosa di profondamente sorprendente ed estraneo, da riconquistare ogni giorno, come un potente stimolo a intendere il “diverso”, tanto più da dirci esso avrà nel futuro. Anche il “classico”, saremmo tentati di dire, ha perso e sta per perdere molte battaglie. Non però la guerra».
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crazia: l’omologazione televisiva si unisce ad una nuova élite «che ogni giorno ci fa sentire e vedere la sua frusta elettronica». La realtà, annota tristemente Gadamer, è che «la cultura nel senso di una educazione dello spirito scompare sempre di più». Ed è così, allora, che «forse si dovrebbe [...] parlare di fine della cultura, della fine dell’apprezzamento del passato. Forse anche della fine dell’esperienza del dialogo». E la fine dell’esperienza del dialogo equivale alla distruzione dei meccanismi di formazione della mente critica. Ancora Gadamer – in un colloquio con Giancarlo Bosetti su «L’Unità» di domenica 31 marzo 1996: « [...] Al nostro sistema di comunicazione manca la spontaneità. Tutti sono passivi. La funzione politica della televisione consiste nell’addomesticare le masse, nell’addormentare la capacità di giudizio, il gusto, le idee. È una delle forme della burocratizzazione della società prevista da Max Weber». Certo, Gadamer è pronto a riconoscere che forme di burocratizzazione della vita sociale e della comunicazione «sono inevitabili»; ma la tragedia, a suo avviso, è che «ora purtroppo gli automatismi e la burocrazia si sono spinti troppo avanti». E la TV «è l’opposto di quello che serve per sviluppare esperienza, spontaneità, motivazioni. Se la gioventù è oggi tanto pessimista, questo dipende dalla mancanza di spontaneità nello stile della sua educazione». Il problema è quello della formazione-creazione di menti creative e critiche. Ma ecco che – fa presente Gadamer – «il sistema educativo del mondo contemporaneo si è inceppato, la formazione non funziona, su scala globale produciamo masse di telespettatori, di burocrati, di ragazzi e ragazze che con il massimo sforzo di fantasia riescono a dire “okay”». E «tutto questo – egli commenta – perché il dialogo non c’è più e non c’è più gente capace di dialogo. Anche la vita politica è dominata dalla TV. E la TV è il contrario del dialogo, il contrario di una comunicazione reciproca. Uno solo parla a milioni che non dicono nulla; è un sistema da schiavi». Gadamer non cerca nella televisione il capro espiatorio di tutti i mali della società contemporanea: «Io – egli così confessa – non odio la TV, guardo le partite di tennis, mi piacciono i polizieschi, adoro l’ispettore Derrick». E tuttavia diffida della televisione: «[...] sono contrario ad un sistema schiavistico e sostengo il dialogo come forma di opposizione contro la manipolazione delle masse». Date siffatte considerazioni, ben si comprende la funzione che, nel pensiero di Gadamer, dovrebbe assolvere la scuola: «Le nostre migliori speranze stanno nella educazione orale, in una scuola che riesca a diventare tanto attraente da spingere alla partecipazione attiva più di una piccola parte di studenti. Ma, purtroppo, le classi sono troppo numerose». Andando al nocciolo del suo pensiero, vediamo che Gadamer teme un sistema formativo che, costringendo gli individui alla passività, si trasforma in una telecrazia liberticida. Così risponde Gadamer ad una domanda
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postagli da Massimiliano Cannata («Giornale di Sicilia», 10 marzo 1994): «Democrazia è il punto critico. La democrazia è divenuta una nuova forma di dispotismo ed il nuovo dispotismo è quello dei mass-media». «La mia critica – egli soggiunge – non è rivolta agli operatori dei media, ma a tutto un sistema che rischia, attraverso l’industria della comunicazione, di trasformare la democrazia in oligarchia, espropriando il popolo della sua sovranità».3
3. Marc Fumaroli: resistere all’atrofizzazione delle nostre coscienze È vero che non si può essere ricchi e stupidi per più di una generazione. E ciò perché è altrettanto vero che economia ed innovazione e, quindi, economia e ricerca scientifica sono inscindibilmente connesse. Di conseguenza, sotto la pressione di una competizione economica ormai estesa a livello globale, non pochi Paesi moderni hanno strutturato e stanno strutturando i loro sistemi formativi in modo da creare competenze strumentali utili alla produzione industriale. E si fa questo deviando le risorse da quella ricerca pura da cui dipende la ricerca applicata, senza rendersi spesso conto – nella frenesia e sotto la spinta del successo immediato – che «nulla vi è di più pratico di una buona teoria» e che, per dirla con John Dewey, «non ci si gua3
Gadamer mette, dunque, in guardia dal pericolo che la televisione rappresenta per lo sviluppo di menti critiche e, dunque, prima o poi per la democrazia. Da un’altra prospettiva, Karl Popper (si veda il suo Una patente per fare TV, in K.R. POPPER – J. CONDRY, Cattiva maestra televisione, Donzelli, Roma, 1996) ha cercato anch’egli di porre in luce i pericoli che per una società democratica possono venir addotti da una televisione irresponsabile. Questi i punti fondamentali della sua argomentazione: 1) lo Stato di diritto, o società aperta, è lo Stato che elimina la violenza e che è intollerante unicamente con gli intolleranti e i violenti: la libertà dei miei pugni è limitata dal diritto degli altri di difendere il loro naso; 2) di conseguenza, allorché consentiamo che venga abbattuta e tolta di scena la generale avversione alla violenza, stiamo sabotando lo Stato di diritto, vale a dire la nostra civilizzazione; 3) ma questo, propriamente, è quello che fanno, con tanta facilità e frequenza, le varie televisioni: trasmettono una tale massa di scene di violenza tanto da far credere che la violenza dell’uomo sull’uomo sia un fatto naturale, scontato, “normale”. È così che si provoca «la caduta delle resistenze naturali alla violenza nella maggior parte della popolazione»; 4) da qui la proposta di una “patente per fare TV”. La violenza che avvelena la vita di molte famiglie è adesso «estesa dalla violenza che appare sullo schermo televisivo. È attraverso questo mezzo che essa viene messa davanti ai bambini per ore ogni giorno [...]. La televisione produce violenza e la porta in case dove altrimenti la violenza non ci sarebbe» (Op. cit., p. 40). Data siffatta situazione, ben si comprende la ragione per cui Popper abbia proposto l’istituzione di una patente per chi lavora in televisione – dai produttori ai cameraman. La sua è una proposta che adotta il modello fornito dai medici e dalla forma di controllo generalmente istituita per la loro disciplina: «I medici hanno un grande potere, sulla vita e la morte dei loro pazienti, che deve necessariamente essere sottoposto a un controllo. E in tutti i Paesi civili c’è una organizzazione attraverso la quale i medici controllano se stessi e c’è anche, naturalmente, una legge dello Stato che definisce le funzioni di questa organizzazione» (Op. cit., p. 41). Ebbene, «io – dice
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dagna molto a tenere il proprio pensiero legato al palo dell’uso con una catena troppo corta». Dunque, purtroppo: ricerca applicata a tutto scapito della ricerca pura e, a maggior ragione, e sempre più, una decisa e propagandata presa di distanza dalle discipline umanistiche e dalle scienze storico-sociali. Ebbene, contro questa dilagante concezione è Marc Fumaroli ad affermare che «la cultura umanistica e quella tecnico-pratica devono essere complementari. Il loro equilibrio è vitale per la nostra esistenza e la nostra felicità».4 È una via sbagliata quella dei tanto detrattori dell’insegnamento della filosofia e delle discipline umanistiche in nome, diciamo così, del primato della “ragione pratica”, cioè di conoscenze “utili”, immediatamente spendibili sul mercato delle professioni. «La vera cultura – dice Fumaroli –, quella che forma uomini liberi, dotati di capacità critiche e inventive, è la cultura che si confronta in maniera intelligente, ma anche sul piano delle emozioni, con i grandi capolavori della letteratura, delle arti e del pensiero. I giovani che hanno ricevuto una solida cultura umanistica, che però io chiamo cultura generale, non sono individui formattati o ridotti alla semplice espres-
Popper – propongo che una organizzazione simile sia creata dallo Stato per tutti coloro che sono coinvolti nella produzione della televisione. Chiunque sia collegato alla produzione televisiva deve avere una patente, una licenza, un brevetto, che gli possa venir ritirato a vita qualora agisca in contrasto con certi princìpi [...]. L’organismo che avrà la facoltà di ritirare la patente sarà una sorta di Corte. Perciò tutti, in un sistema televisivo che operasse secondo la mia proposta, si sentirebbero sotto la costante supervisione di questo organismo e dovrebbero sentirsi certamente nelle condizioni di chi, se commette un errore, sempre in base alle regole fissate dall’organizzazione, può perdere la licenza. Questa supervisione costante è qualcosa di molto più efficace della censura, anche perché la patente, nella mia proposta, deve essere concessa solo dopo un corso di addestramento al termine del quale ci sarà un esame» (Op. cit., pp. 41-42). Coloro che fanno televisione, insomma, devono sapere di aver parte nell’educazione dei bambini, dei giovani e degli adulti: «Ciò che devono imparare è che l’educazione è necessaria in ogni società civilizzata, che i cittadini di una società civilizzata, le persone cioè che si comportano civilmente, non sono il risultato del caso, ma sono il risultato di un processo educativo. E in che cosa consiste fondamentalmente un modo civilizzato di comportarsi? Consiste nel ridurre la violenza. È questa la funzione principale della civilizzazione ed è questo lo scopo dei nostri tentativi di migliorare il livello di civiltà delle nostre società [...] Il punto centrale del processo educativo non consiste soltanto nell’insegnare fatti, ma nell’insegnare quanto sia importante l’eliminazione della violenza» (Op. cit., pp. 42-43). Ma questo, purtroppo, non fa quella “cattiva maestra” che è la televisione, quando rovescia sulle menti dei cittadini, a cominciare dai bambini, valanghe di scene di violenza. Da quanto detto, appare chiaramente che la proposta di Popper non è affatto una proposta illiberale fatta da uno dei più grandi teorici della società libera, negli ultimi anni della sua vita, in contraddizione con la propria teoria della società aperta. È esattamente una proposta estremamente coerente con l’idea di società aperta, vale a dire a difesa della libertà di tutti. 4 M. FUMAROLI, Così possiamo ribellarci a un sapere utilitaristico. Intervista di F. Gambaro, «la Repubblica», 2 marzo 2014, p. 45.
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sione di uno specialismo. Hanno una immaginazione più libera e uno spirito critico più sviluppato, doti che consentono loro di riuscire in qualsiasi ambito, compresi quelli più tecnici». È una decisa resistenza al dominio di un sapere utilitaristico, legato ad un’idolatria del denaro, ciò di cui ha urgente bisogno il nostro tempo, in cui «tutto deve produrre una rendita immediata, altrimenti appare inutile. Ci si illude che i nuovi mezzi di comunicazione siano più che sufficienti ad affrontare la vita». Ma esattamente qui sta l’errore, giacché sacrificare la tradizione umanistica equivale ad eliminare un universo di conquiste intellettuali in grado di compensare le mancanze di un altro universo, quello «dominato dalla tecnica, dall’economia, dalla comunicazione che tende a sacrificare il ragionamento e la capacità di giudizio». E «non saranno i luccicanti schermi di internet né i meravigliosi algoritmi che ci aiuteranno a crescere. Serve invece un sistema educativo che compensi le tendenze eccessivamente astratte, utilitaristiche e specialistiche del mondo tecnico-pratico». Le immagini, che profluiscono da un gigantesco dispositivo comunicativo e pubblicitario – prosegue Fumaroli – «hanno un potere straordinario, ci allontanano dal mondo reale e dal rapporto con gli altri esseri umani prosciugando la nostra immaginazione e la nostra sensibilità». Il fatto è che «le nuove tecnologie – per molti versi utili e ammirevoli – rischiano di atrofizzare le nostre coscienze e impoverire le ricchezze che sono in noi». E contro simile deriva non possiamo che fare appello alla cultura umanistica, a quella che i tedeschi chiamano Bildung: «l’apprendimento dell’inutile, che però è più utile di ciò che solitamente è considerato utile». Tutto ciò per la semplice ragione che «la cultura umanistica, come tutto ciò che ci rende più intelligenti, ci rende anche migliori cittadini. La democrazia ha bisogno di capacità di riflessione e di giudizio critico, altrimenti rischia di lasciarsi andare alle reazioni più immediate ed epidermiche».5
5 Questa era anche l’opinione di Concetto Marchesi. Diversamente da Antonio Banfi, per il quale l’eliminazione dell’insegnamento del latino dalla scuola media avrebbe significato scardinare un pilastro della cultura conservatrice (cfr. A. BANFI, Scuola di ieri, di oggi e di domani, in «Sapere», III, 1946), Marchesi sostenne che fosse necessaria una scuola media con il latino per tutti al fine di favorire «una più raccolta abitudine al giudizio, una consuetudine maggiore di meditazione, un potere più rapido di sintesi, una più meditata e sottile pienezza di giudizio». Nessuno, insomma, avrebbe dovuto essere privato del privilegio della cultura umanistica fondata sul latino – una cultura in grado, a suo avviso, «di dare all’individuo armi per sostenere questa lotta contro i molti, contro i pochi, contro se stesso [...]. Non vogliamo che nel mondo degli uomini ci siano moltitudini condannate a ignorare le battaglie dell’anima ed a conoscere soltanto quelle del pane» (C. MARCHESI, Scuola e cultura. Scritti politici, Editori Riuniti, Roma, 1958, p. 308). Per Marchesi, in sintesi, «la cultura umanistica giova a tutti; il giorno in cui decadesse sarebbe notte nel mondo» (C. MARCHESI, Il latino nella scuola, in «Riforma della scuola», I, 1955, pp. 6-7).
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4. Quella umanistica è educazione «fondata sulla capacità di interpretare le parole altrui e di inventare le proprie» Tutto ciò nel 2014. Quindici anni prima, nel 1999, Marc Fumaroli faceva presente che, nei prossimi decenni, l’Europa avrebbe dovuto essere capace di «ricostruire la propria identità su basi che non siano propriamente economiche, giacché sul terreno dell’economia rischiamo la dispersione nel grande mercato globale della mondializzazione, il quale in ultima analisi è controllato dagli americani».6 Talché, egli aggiungeva, «se vogliamo restare fedeli a noi stessi, dobbiamo valorizzare la nostra genealogia storica, innanzitutto a partire dalla scuola, che è la chiave del futuro della nostra civiltà».7 Ad avviso di Fumaroli, questa, dunque, la situazione: «Finora abbiamo costruito l’unità economica europea e abbiamo fatto qualche passo in direzione dell’Europa politica; adesso però occorre porre il problema di un insegnamento capace di sostenere l’autonomia, la vitalità e la fecondità dello stile europeo e di ciascuna delle sue lingue, il cui destino mi sta particolarmente a cuore».8 E ben a ragione poiché è su di esse che «si fonda la nostra civiltà».9 Oggi, annotava Fumaroli, si sta diffondendo e imponendo un’unica lingua mondiale di comunicazione: l’inglese di base parlato negli Stati Uniti – una lingua molto semplice, lessicalmente povera e sintatticamente elementare, usata dai turisti come dagli uomini d’affari – «una sorta di lingua franca del mercato mondiale per una comunicazione molto ristretta».10 Fortunatamente, però, «in Europa abbiamo diverse lingue di civiltà, che sono lingue ricche, dotate di una sintassi complessa, di figure retoriche e di tutto ciò che consente di cercare la verità che si manifesta nella bellezza dell’espressione. Il che naturalmente implica la conoscenza delle letterature che in queste lingue si esprimono, ma anche di ciò che le arti, le letterature, le scienze e la filosofia ci hanno insegnato sull’esperienza umana. In Europa, tutte le lingue di civiltà – l’italiano, il francese, lo spagnolo, il portoghese, il tedesco e pure l’inglese d’Inghilterra – hanno contribuito a fondare il cuore della nostra identità».11 Di conseguenza, sta esattamente alla scuola resistere al dominio dell’americano di base e dell’ambien6
M. FUMAROLI, La scuola: contrappeso della modernità. Intervista di F. Gambaro, «la Repubblica», 25 marzo 1999; ristampata in AA.VV. (a cura di I. Dionigi), Di fronte ai classici. A colloquio con i Greci e i Latini, cit., p. 143. 7 Ibidem. 8 Ibidem. 9 Op. cit., p. 144. 10 Ibidem. 11 Ibidem.
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te onniassorbente dei computer, dei videogiochi, dei media e delle nuove tecnologie; sta alla scuola «fare da contrappeso alla pressione di tale universo, insegnando tutto ciò che esso di solito non propone, e cioè tutto ciò che ci aiuta ad essere degli individui liberi e ironici, e quindi innanzitutto la capacità di parlare in ogni circostanza con padronanza “artistica”».12 L’educazione umanistica è tutt’altro che chiusura agli altri e fuga dai problemi concreti. Essa è educazione «fondata sulla capacità di interpretare le parole altrui e di inventare le proprie» – e da qui la capacità che da essa si sprigiona di rendere le menti aperte a tutto ciò che è nuovo. «La tradizione umanistica – conclude Fumaroli – non è scimmiesca come la comunicazione dei media, è una cultura viva che rinnova il nostro sguardo di continuo. L’invenzione scientifica presuppone sempre un’immaginazione ingegnosa, una percezione intuitiva, una capacità di situarsi in mondi inabituali: e per affinare queste qualità, la cultura umanistica rappresenta uno straordinario campo di esercitazione, perché nell’atteggiamento artistico, inventivo e creativo nei confronti della parola si aprono tutte le possibilità di invenzione, comprese quelle in ambito tecnico e scientifico. Non a caso, i premi Nobel scientifici che ho conosciuto avevano tutti una raffinata cultura letteraria».13
5. Martha Nussbaum: soltanto una mente aperta è il più sicuro presidio di una società aperta «La spinta al profitto induce molti leader a pensare che la scienza e la tecnologia siano di cruciale importanza per il futuro dei loro Paesi».14 Questo scrive Martha Nussbaum nel suo libro Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica. E subito dopo aggiunge: «non c’è nulla da obiettare su una buona istruzione tecnico-scientifica, e non sarò certo io a suggerire alle nazioni di fermare la ricerca a questo riguardo» (Vedi “Appendice”).15 La sua preoccupazione ben diversa è che «altre capacità, altrettanto importanti, stiano correndo il rischio di sparire nel vortice della concorrenza: capacità essenziali per la salute di qualsiasi democrazia al suo interno e per la creazione di una cultura mondiale in grado di affrontare con competenza i più urgenti problemi del pianeta. Tali capacità sono associate agli 12
Op. cit., p. 146. Op. cit., p. 147. Per importanti riflessioni critiche contro la mitizzazione di strumenti tecnologici introdotti nella pratica didattica delle nostre scuole si veda G. REALE, Salvare la scuola nell’era digitale, La Scuola, Brescia, 2013. 14 M. NUSSBAUM, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, trad. it., il Mulino, Bologna, 2011, p. 26. 15 Ibidem. 13
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studi umanistici e artistici: la capacità di pensare criticamente, la capacità di trascendere i localismi e di affrontare i problemi mondiali come “cittadini del mondo”; e, infine, la capacità di raffigurarsi simpateticamente la categoria dell’altro».16 In altri termini, «fondamentali per mantenere vive e ben salde le democrazie» sono «le capacità intellettuali di riflessione e di pensiero critico». Soltanto una mente aperta è il più sicuro presidio di una società aperta.
6. La portata formativa della “disputa filosofica” È sotto gli occhi di tutti, in ogni caso, che, ai nostri giorni e sempre di più, la forza dell’argomentazione critica venga progressivamente soffocata da mezzi di comunicazione dove il discorso viene rimpiazzato da frasi lapidarie e una vera e propria discussione da invettive e insulti. Non più pro-
16 Ibidem. Simile preoccupazione della Nussbaum – e cioè che i saperi che non servono alla crescita immediata dell’economia vadano messi in disparte – ha trovato di recente una brillante elaborazione da parte di Nuccio Ordine nel suo libro L’utilità dell’inutile (Bompiani, Milano, 2013). «L’ossimoro evocato dal titolo L’utilità dell’inutile – scrive Ordine – merita un chiarimento. La paradossale utilità di cui parlo non è la stessa in nome della quale i saperi umanistici e, più in generale, tutti i saperi che non producono profitto vengono considerati inutili. In un’accezione molto più universale, ho voluto mettere al centro delle mie riflessioni l’idea di utilità di quei saperi il cui valore essenziale è complessivamente libero da qualsiasi finalità utilitaristica. Esistono saperi fini a se stessi che – proprio per la loro natura gratuita e disinteressata, lontana da ogni vincolo pratico e commerciale – possono avere un ruolo fondamentale nella coltivazione dello spirito e nella crescita civile e culturale dell’umanità» (Op. cit., p. 7). Ed ecco, allora, che all’interno di questo contesto Nuccio Ordine considera utile «tutto ciò che ci aiuta a diventare migliori». Solo che «la logica del profitto mina alle basi quelle istituzioni (scuole, università, centri di ricerca, laboratori, musei, biblioteche, archivi) e quelle discipline (umanistiche e scientifiche) il cui valore dovrebbe coincidere con il sapere in sé, indipendentemente dalla capacità di produrre guadagni immediati o benefici pratici» (Op. cit., p. 8). E ancora: «Gli ipocriti sforzi per scongiurare la fuoriuscita della Grecia dall’Europa [...] sono frutto di un cinico calcolo [...] e non di un’autentica cultura politica fondata sull’idea che un’Europa senza la Grecia sarebbe inconcepibile, perché i saperi occidentali affondano le loro remote radici nella lingua e nella civiltà greca [...]. In questo brutale contesto, l’utilità dei saperi inutili si contrappone radicalmente all’utilità dominante che, in nome di un esclusivo interesse economico, sta progressivamente uccidendo la memoria del passato, le discipline umanistiche, le lingue classiche, l’istruzione, la libera ricerca, la fantasia, l’arte, il pensiero critico e l’orizzonte civile che dovrebbe ispirare ogni attività umana. Nell’universo dell’utilitarismo, infatti, un martello vale più di una sinfonia, un coltello più di una poesia, una chiave inglese più di un quadro: perché è facile capire l’efficacia di un utensile mentre è sempre più difficile comprendere a cosa possano servire la musica, la letteratura o l’arte» (Op. cit., pp. 1011). Ma è stato Mario Vargas Llosa – fa presente Nuccio Ordine – a porre giustamente in evidenza, in occasione del conferimento del premio Nobel nel 2010, che un «mondo senza letteratura si trasformerebbe in un mondo senza desideri né ideali né disobbedienza, un mondo di automi privati di ciò che rende umano un essere umano: la capacità di uscire da se stessi e trasformarsi in un altro, in altri, modellati dall’argilla dei nostri sogni» (Op. cit., p. 21).
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blemi da risolvere con la proposta di idee da sottoporre al rigore della prova, ma messaggini, avvisi ed esclamazioni. Tutto ciò, annota la Nussbaum, crea una cultura politica degradata. Formativa, proprio perché opposta a questa, è invece la situazione offerta da un corso di filosofia, dove «gli studenti imparano a sviluppare l’argomentazione dell’avversario e a chiedere quali sono gli assunti sui quali essa si basa».17 Nel far ciò – prosegue la Nussbaum – «spesso gli studenti scoprono che le sue parti, in realtà, hanno molto in comune e sorge in loro la curiosità di vedere in cosa realmente essi divergono, anziché considerare la discussione politica semplicemente un mezzo per segnare punti a favore della propria squadra e di umiliare l’avversario. La filosofia contribuisce così a creare uno spazio realmente deliberativo e questo è ciò di cui abbiamo bisogno, se vogliamo risolvere gli enormi problemi che affliggono tutte le democrazie moderne».18 Come si è accennato in precedenza, la “disputa filosofica” è tutt’altro che sapere superfluo o addirittura non sapere: riguarda in non pochi casi problemi ineludibili per ogni uomo e ogni donna. È tutt’altro che un passatempo interrogarsi, per esempio, sul senso o meno della storia umana, sulla fondazione razionale o meno di quei valori per i quali, come diceva Kierkegaard, si può vivere o morire, sulle ragioni della società aperta o sui suoi nemici, sull’idea di natura dell’uomo, su che cosa corrisponda nella effettiva realtà a concetti collettivi come “Stato”, “classe”, “popolo”, “nazione”, “pubblica amministrazione” e così via, o su come distinguere la scienza dalla nonscienza – interrogarsi su questi ed altri problemi e sviscerare con attenzione gli argomenti con cui grandi menti si sono schierate per una soluzione contro un’altra è, fuor di dubbio, un’esperienza fortemente formativa, aiuta ad essere critici, erode la presunzione di onniscienza così comune e tanto deleteria sia personalmente che socialmente; ci rende più esperti e, quindi, più aperti.
7. La necessità di una “immaginazione coltivata” Lo stesso vale per la conoscenza storica. «Lo studio della storia del mondo e delle principali religioni, lo studio comparato della cultura e la comprensione di almeno una figura straniera – dice Martha Nussbaum –, sono tutti elementi essenziali nel favorire una sana discussione circa i pressanti problemi del mondo».19 Così come, inoltre, è sempre più necessaria «una immaginazione coltivata» in grado di farci vedere il mondo con gli 17 M. NUSSBAUM, A cosa serve studiare. Il fascino di vedere il mondo con gli occhi degli altri, «La Repubblica», venerdì 15 aprile 2011, p. 54. 18 Op. cit., pp. 54-55. 19 Op. cit., p. 55.
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Dario Antiseri
occhi di coloro che si trovano in una situazione diversa dalla nostra. Ed è per questo che «abbiamo bisogno della letteratura e dell’arte, attraverso le quali raffiniamo quello che il grande romanziere afro-americano Ralph Ellison definiva il nostro “occhio interiore”, imparare a vedere coloro che sono diversi da noi non soltanto come un minaccioso “altro” ma come esseri umani totalmente uguali, con aspirazioni e obiettivi propri».20 Filosofia, storia, arte e letteratura per essere più critici, più umani, più rispettosi degli “altri”, più accoglienti e migliori cittadini del mondo. Di conseguenza, quando gli studi umanistici vengono eliminati perché considerati “inutili”, perché «non servono a produrre profitti», è la democrazia che è in pericolo; e c’è di più, dice la Nussbaum, nel senso che ne risentono le stesse attività economiche, per la semplice ragione che «una sana cultura economica ha bisogno di creatività e di pensiero critico, come autorevoli economisti hanno sottolineato».21 E tra questi economisti, come fa opportunamente presente Alberto Petrucci nelle sue pagine, c’è il premio Nobel per l’Economia Edmund Phelps. Insomma, per concludere, è tutt’altro che azzardata l’idea che, in tempi non troppo lunghi, la contrazione dell’istruzione in funzione puramente strumentale nuoccia sia alla libertà – il cui prezzo è l’eterna vigilanza – sia allo stesso benessere economico. E questo dà ragione del fatto che, di recente, la Cina e Singapore abbiano attuato vaste riforme dell’istruzione nelle quali viene conferita una consistente presenza degli studi umanistici e dell’arte sia nei programmi scolastici che in quelli universitari.22
APPENDICE Una seria formazione scientifica – oggi ancor più necessaria che in altri tempi – comporta: 1) una informazione relativa ai risultati di maggior rilievo ottenuti dalla ricerca nel campo della fisica, della chimica o della biologia – informazione disponibile nei manuali di scienze; 2) significative iniezioni di storia della scienza tese a mostrare le dispute, gli errori, la proposta di ipotesi alternative, la strumentazione all’epoca disponibile; 3) riflessioni epistemologiche, che sono in grado di rendere consapevole lo studente del fatto che la scienza, l’attività più razionale sviluppata dall’uomo, procede, il più delle volte per sentieri impervi, tra ostacoli e magari momenti di fortuna, e che essa è frutto di immaginazione ardita e, insieme, di logica severa; 20
Ibidem. Ibidem. 22 Ibidem. 21
Studi umanistici quale presidio della democrazia e dello stesso benessere economico
215
4) una contestualizzazione storica che spinge a puntare l’attenzione dello studente non solo sul rapporto tra scienza e concezioni filosofiche o religiose, ma anche sui contesti politici (per esempio, istituzioni deputate alla ricerca), economici (sui finanziamenti della ricerca da parte, per esempio, di privati come le industrie farmaceutiche o da parte di apparati militari), e sulle ricadute sia quelli più ampiamente culturali sia quelle sulla vita concreta di tutti i giorni di milioni e milioni di uomini e donne e, in prospettiva, di tutta l’umanità. Scrive Evandro Agazzi (in Cultura scientifica e interdisciplinarità, La Scuola, Brescia, 1994, pp. 38-39): «Lo sviluppo delle conoscenze scientifiche e delle realizzazioni tecnologiche ha totalmente cambiato il mondo umano (ossia le condizioni concrete dell’esistenza umana, non meno che l’immagine che l’uomo si fa di se stesso), che oggi non ci è più possibile prescindere da elementi di conoscenza e di giudizio offerti dalle scienze e dalle tecniche, al fine di vivere con consapevolezza e responsabilità la nostra vita di uomini. In altri termini, il mondo dell’uomo non è mai stato, neppure in passato, un mondo di semplice Natura, bensì un mondo in buona parte artificiale, ossia prodotto dall’uomo stesso mediante le tecniche. Oggi tale mondo si è fatto ancor più artificiale, cosicché non esiste nessuna situazione in cui si possa agire al di fuori di un condizionamento tecnologico». Non si può, insomma, ignorare che decisioni, scelte moralmente ed esistenzialmente impegnative «riguardano sempre più spesso condizioni concrete in cui ci pone lo stato attuale della scienza e della tecnologia, e che non possono venir valutate senza una cultura scientifico-tecnologica sufficiente». È qui che si trova la motivazione fondamentale di un serio insegnamento delle discipline scientifico-tecnologiche, vale a dire nella «convinzione che una comprensione corretta della natura e del significato della scienza e della tecnologia nel mondo attuale è una parte essenziale del nostro essere ad un tempo persone educate e cittadini responsabili, oltre che costituire la condizione per orientarci consapevolmente nella rete complessa delle nostre possibili o probabili situazioni di scelta» (Op. cit., p. 41). Per andare più sul concreto, quanto la storia dell’uomo si intrecci con il cammino della tecnica si può vedere dal seguente elenco di invenzioni che traggo dalla Storia della tecnica di S. LILLEY (Einaudi, Torino, 1951, pp. 353359) – elenco al quale aggiungo, grazie all’aiuto di Vittorio Marchis, invenzioni dal 1943 al 2000. Colgo qui l’occasione per segnalare l’importante ed istruttivo recente lavoro del prof. Marchis dal titolo Le cose di casa (Codice Edizioni, Torino, 2014). Nell’elenco di Lilley “c” sta per “circa”; “f” sta per “e anni seguenti”; “rit.” indica che lo sviluppo delle invenzioni avvenne molto lentamente.
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Dario Antiseri
PROPOSTE
Invenzioni (data: a.C.) Zappa Falciolo Macina concava Correggiato (non articolato) Trapano ad arco Vasellame di terracotta Fuso Telaio Utensili affilati e levigati
5500 4250
Cesoie da tosatura
c. 500
Procedimenti per l’estrazione del 4250 rame e suoi minerali 3750 Fusione del rame Fucinatura del rame per lavorazione di utensili Getto di fusione Lavorazione dell’argento Lavorazione del piombo
Torchio a leva
(rit.) 500
Veicoli a ruote Aratro Bardatura degli animali Vela Ruota da vasaio Bilancia Bronzo Mantice per soffiare Fusione a cera perduta Utensili perfezionati per mestieri diversi Noria Tecnica edilizia come per le piramidi
3750 3250
Carrucola per edilizia, gru primitiva (200) Mulino da grano azionato da animali
c. 450
3250 2750
Coclea di Archimede
(rit.) 250
Ruota a razze
c. 1800
Fusione del ferro (1100)
(rit.) 200 (rit.) 150 c. 150
Inizio dell’impiego del ferro (1400)
(rit.) 1400 (rit.) 1300 c. 1100
Aratro pesante Incudine da chiodi Trafilatura dei metalli
Puleggia
c. 700
Mulino ad acqua
Mulino a macine
c. 600
Torchio a vite
Argano
Noria azionata da animali Pompa premente Pialla da falegname
(rit.) 100 (rit.) 80 (rit.) 50
Invenzioni (data: d.C.) [Stampa a massello, Cina]
(rit.) 550
Acciaio Bessemer
1856
Studi umanistici quale presidio della democrazia e dello stesso benessere economico
Bardatura da sella moderna in Europa
(rit.) 850
Ferratura dei cavalli c. 900 [Mulino a vento Persiano] (rit.) Bardatura da tiro moderna in Europa 950 (1200) Correggiato articolato (rit.) 1050 Mulino a vento europeo Stozzi di legno per stampa di maiuscole (1289)
c. 1105 1147
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Motore a gas (Lenoir) (1823, 1838, 1867, 1876)
1860
Mietitrice combinata (1875) Fresatrice universale Mitragliatrice
1860 (f) 1861
Motore a gas perfezionato (Otto) (1823, 1838, 1860, 1876) Seminatrice combinata Macchina da scrivere Tagliatrice di carbon fossile (tipi a disco e a catena) (1852, 1875, 1901) Refrigerazione artificiale (inizio di applicazione) Tornio automatico
1867
1868 1869
Follatura a forza idraulica Frantoio a forza idraulica Bussola magnetica
(rit.) 1150 1195
Maglio ad acqua Sega a forza idraulica Evoluzione finale della bardatura degli animali e generalizzazione del loro impiego (950)
(rit.) 1200 (rit.) 1225
Forno elettrico per l’acciaio Utensili di acciaio rapido (Mushet)
1871
Orologio meccanico
1232
Frigorifero a compressione di ammoniaca (Linde) (1870) Motore a petrolio (benzina) (1855)
1873
Aratro moderno Timone moderno (per imbarcazione)
(rit.) 1250
Telefono
1876
Filatura e torcitura meccanica della seta Stampa a massello in Europa (1147) Filatoio
1272
Fotografia (1887)
1877
1289 1298
1878 1880
Saracinesche
(rit.) 1300 (rit.) 1350
Automobile di Benz (1889) Lampada elettrica a incandescenza Illuminazione elettrica pubblica (America) Generatore di corrente elettrica perfezionato (1832, 1835, 1845, 1865, 1870, 1883) Turbina a vapore (Parson) Motore a petrolio Daimler (1873) Trasporto di energia elettrica (Duprez) (1887, 1889) Saldatura elettrica Fabbricazione dell’alluminio elettrolitico (1855)
1884 1885
Tornio
Trafilatrice meccanica [Tipografia a caratteri metallici, Korea] Ghisa Manovella (movimento) Stampa a caratteri metallici in Europa (1381)
c. 1350 1300 (rit.) 1400 1450
c. 1870 (rit.) 1870 1870
1881 1882
(rit.) 1885 1886
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Filatoio perfezionato con naspo e pedaliera
1530
Binari (nelle miniere)
1546
Tornio da filettare
Macchina per maglieria
(rit.) 1550 (rit.) 1580 1589
Cementazione dell’acciaio Orologio a pendolo (1661)
1614 1641
Pompa centrifuga (1818) Scappamento ad ancora negli orologi (1715) Macchina a vapore Savery Prima fabbricazione in serie (Polhem) Macchina a vapore Newcomen
1680
Mulino a vento a torricella
Dario Antiseri
PROPOSTE
Energia elettrica a corrente polifase (1855, 1889) Grammofono e procedimenti ausiliari (1877) Pneumatici (Dunlop) Automobile (1878) Alternatori ad alta tensione (Ferranti) (1885, 1887) Tornio multiplo automatico
1887
1889
(rit.) 1890 (f) 1892
Macchina calcolatrice (Brunswiga) (1820) Abrasivi sintetici (dal forno 1893 elettrico) Impianto di aria liquida (Linde) 1895 Cinematografo (rit.) 1895 Radiotelegrafia (Marconi) 1896
1698 (rit.) 1700 1712
Motore Diesel (1892) Utensili di acciaio rapido
1897 1898
Sottomarino Navigazione aerea (Zeppelin)
Spola volante nelle tessitura
(rit.) 1717 1733
(rit.) 1898 1900
Acciaio fuso
1740
Telaio automatico per nastri Macchina cardatrice Filatoio meccanico automatico Macchina alesatrice per cilindri del Wilkinson Forno a riverbero per raffinazione del ferro (1784) Prima motrice a vapore di Watt (1769) Motrice a vapore composita (1804) Motrice a vapore di Watt (rotativa) Seminatrice agricola (1730) Motrice di Watt a duplice espansione Pallone aerostatico Laminatoio perfezionato (Cort) (1425, 1700)
Fusione col coke
(rit.) 1900 1901
1745 1748 1768 1775
Saldatura e taglio ossiacetilenici dei metalli Martello pneumatico (per miniere) Aria liquida (sistema Claude) Aeroplano Valvola termoionica (1906) Valvola triodo (1904)
1776
Radioorientamento
1907
1781
Saldatura a termite
1908
1782
Duralluminio
1909
1783 1784
Fabbricazione in serie a catena 1913 (f) Diffusione del trattore (1890) c. 1914
1902 1903 1904 1906
Studi umanistici quale presidio della democrazia e dello stesso benessere economico
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Trebbiatrice per grano (Meikle)
1786
Carro armato (bellico)
1916
Telaio per tessitura (Cartwright) (1821)
1787
Perfezionamenti diversi nella aeronautica durante la guerra
(rit.) 1916
Tornio perfezionato (Maudslay)
1794 (f)
Perfezionamenti nella radio (rit.) durante la guerra 1916 Perfezionamenti diversi nelle macchine utensili durante la guerra Radiotelefonia (1900, 1914, 1920) 1918
Pressa idraulica
1796
Locomotiva stradale (Trevithick) (1825)
1797
Getti metallici a centrifugazione Telefono automatico (1887)
1920
Fabbricazione intercambiabile (Whitney) (1725)
1800
Frigoriferi ad assorbimento
1923
Motrice a vapore ad alta pressione
1802
1924
Telaio da tessitura (Jacquard)
1804
Trasmissione delle radiazioni Registrazione elettrica dei suoni (grammofono) Autogiro
c. 1925
Piroscafo (Charlotte Dundas di Fulton) (1788, 1802)
1807
Utensili al tungsteno
c. 1926
Locomotiva a vapore (Stephenson) (1803, 1811, 1829)
1814
Radiotrasmissione delle immagini (1907)
(rit.) 1926
Fresatrice per metalli
1818
Film parlato (1906, 1923)
1928
Piallatrice per metalli
(rit.) 1820
Rettifica frontale (1916)
c. 1928
Macchina calcolatrice (Thomas de Colmar) (1892)
1820
Aratrice rotativa moderna (Gyrotiller) (1868)
c. 1930
Turbina idraulica
1827
Elica a passo variabile (1924)
c. 1934
Aria calda soffiata negli altiforni
1828
Generazione combinata di calore e di energia elettrica
(rit.) 1935
Filatura del cotone a ring
1830
Macchina raccoglitrice di cotone
(rit.) 1936
Revolver (Colt)
1835
Escavatore idraulico per carbon 1936 fossile (a espansione)
Elica (per propulsione)
(rit.) 1836
Telegrafo (Morse)
1837
Televisione (ÂŤEmitronÂť) (1911, 1926) Estrazione idro-meccanica del carbon fossile Gassificazione sotterranea del carbon fossile Stereocinematografo (1934)
Motrice a gas (Barnett) (1823, 1860, 1867, 1876)
1838
Turbina a gas (1935)
Maglio a vapore
1839
Turbocompressore (Kapitza)
Lampada ad arco (elettrica)
1844
Elicottero (1938)
1937
c. 1938
c. 1939 1939 c. 1941
220
Dario Antiseri
PROPOSTE
Elettro-magneti nei generatori di corrente elettrica (1832, 1835, 1865, 1870, 1882, 1883) Macchina tipografica rotativa Tornio a torretta
Macchina da cucire (Hove)
1845
c. 1845
1846
Aria compressa nelle miniere Falciatrice per agricoltura Produzione dell’alluminio (1866)
1849 c. 1850 1855
Aeroplano a reazione (1937)
1941
Controllo di qualitĂ nella fabbricazione intercambiabile (1926) Motore della bomba volante (1938)
c. 1941
Radar (1935, 1940) Energia atomica
c. 1943 1943
1943
Invenzioni Penna a sfera Rene artificiale Bomba atomica
Data
Macchina a controllo numerico Pneumatici tubeless Transistor Lavatrice elettrica automatica Carta di credito
1946
Registratore a nastro magnetico
1952
Forno a microonde
1953
Trapianto di rene
1954
Pentola antiaderente Tefal
1955
Telefono per automobile
1956
Spitnik
1957
1943 1945
1947 1950
Hovercraft
1959
Circuito integrato Materiali a fibre di carbonio Audiocassette Computer da tavolo Olivetti Programma 101 Word processor per computer Microprocessore Intel Computer Apple I Telefono cellulare Motorola DynaTAC Sony Walkman
1961
Computer Apple II e diffusione del PC Modem per trasmissione dati Generatore eolico Prima rete cellulare USA
1977
Telescopio spaziale Hubble
1990
Luce a Led
2000
1963 1964 1971 1973 1975
1978 1983
Studi umanistici quale presidio della democrazia e dello stesso benessere economico
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Per concludere, ecco alcune idee degne di riflessione: E. Cassirer: «Nel mondo moderno non esiste alcuna forza paragonabile a quella del pensiero scientifico. Lo si considera l’apice e il compimento di tutte le attività umane, l’ultimo capitolo della storia dell’umanità e l’argomento principale per una filosofia dell’uomo» (E. CASSIRER, Saggio sull’uomo. Introduzione a una filosofia della cultura, Longanesi, Milano, 1948, p. 298; nuova ed. Armando, Roma, 1968). N. Berdiaev: «La civiltà tecnica presenta caratteri che permettono al barbaro di servirsene allo stesso modo dell’uomo di alta cultura» (N. BERDIAEV, Schiavitù e libertà dell’uomo, Comunità, Milano, 1952, p. 141). V. Tonini: «L’automazione non solo sopprime il lavoro manuale faticoso, ma ogni lavoro ripetitivo, uniforme, e quindi tende a eliminare l’insoddisfazione e l’esasperazione delle mansioni ripetute innumerevoli volte» (V. TONINI, Strutture della tecnologia. Cibernetica e automazione, Armando, Roma, 1968, p. 162). B. Brecht: «Non credo che la scienza possa proporsi altro scopo che quello di alleviare la fatica dell’esistenza umana. Se gli uomini di scienza non reagiscono all’intimidazione dei potenti egoisti e si limitano ad accumulare sapere per sapere, la scienza può rimanere fiaccata per sempre, ed ogni nuova macchina non sarà che fonte di nuovi triboli per l’uomo. E quando, coll’andar del tempo, avrete scoperto tutto lo scopribile, il vostro progresso non sarà che un progressivo allontanamento dall’umanità. Tra voi e l’umanità si scaverà un abisso così grande, che ad ogni vostro eureka risponderà un grido di dolore universale» (B. BRECHT, Vita di Galileo, Einaudi, Torino, 1963, p. 125. G. Preti: «La scienza contiene la tecnica come suo momento teoretico. Voglio dire: la tecnica non è semplicemente l’applicazione pratica della scienza, qualcosa che la scienza produca esteriormente a sé come sostanzialmente altro da sé. La tecnica è già nella scienza stessa come elemento fondamentale della verità di quest’ultima» (G. PRETI, Scienza e tecnica, in «Passato e presente», anno 1958, n. 2, p. 97). W. Heisenberg: «Se si può parlare di un’immagine della natura propria della scienza esatta del nostro tempo, non si tratta più propriamente di una immagine della natura, ma di una immagine del nostro rapporto con la natura» (W. HEISENBERG, Natura e fisica moderna, Garzanti, Milano, 1957, p. 24). E. Husserl: «L’esclusività con cui, nella seconda metà del XIX secolo, la visione del mondo complessiva dell’uomo moderno accettò di venir determinata dalle scienze positive e con cui si lasciò abbagliare dalla prosperity che ne derivava, significò un allontanamento da quei problemi che sono decisivi per una umanità autentica. Le mere scienze di fatti creano uomini di fatto» (E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano, 1961, p. 35).
JEAN-BAPTISTE DE LA SALLE
OPERE COMPLETE in 6 volumi, rilegati con sovracoperta, 22 x 15 cm. Prima edizione italiana a cura di SERAFINO BARBAGLIA
1. Scritti Spirituali / 1 Raccolta di vari Trattati brevi – Regole – Scritti personali. Presentazione di A. HOURY – Introduzione di M. SAUVAGE e M.-A. HERMANS, pp. 544.
2. Scritti Spirituali / 2 Meditazioni – Spiegazione del metodo di orazione. Presentazione di J. JOHNSTON, pp. 1194.
3. Scritti Pedagogici Guida delle Scuole cristiane – Regole di buona creanza e di cortesia cristiana. Edizione italiana a cura di R. C. MEOLI, pp. 480.
4. Scritti Catechistici I doveri del cristiano verso Dio. Traduzione e note a cura di G. DI GIOVANNI e I. CARUGNO, pp. 862.
5. Istruzioni e Preghiere Istruzioni e preghiere – Esercizi di pietà – Canti spirituali, Traduzione e note a cura di S. BARBAGLIA e I. CARUGNO. Presentazione di Á. RODRIGUEZ ECHEVERRÍA, pp. 470.
6. Le Lettere Traduzione e note a cura di S. BARBAGLIA. Introduzione di R. L. GUIDI, pp. 560. CITTÀ NUOVA EDITRICE Via degli Scipioni, 265 – 00192 Roma tel. 063216212 – comm.editrice@cittanuova.it Per informazioni e ordinazioni: Viale del Vignola, 56 - 00196 Roma tel. 06.322.94.503 - E-mail: gabriele.pomatto@gmail.com tel. 06.322.94.235 - E-mail: fedoardo@pcn.net
Rivista Lasalliana 82 (2015) 2, 223-240
CONDIZIONE (E DISAGIO) GIOVANILE MARCO PAOLANTONIO Studi Lasalliani
SOMMARIO: 1. Elementi destabilizzanti di una società in evoluzione. 1.1 - Crisi della società e mondo giovanile. 1.2 - Definizione del periodo pre-adolescenziale e di quello adolescenziale. - 2. Condizione (e disagio giovanile). 2.1 - Aspetti problematici. 2.2 - La necessaria collaborazione educativa. - 3. L’adolescente e i suoi ‘compiti di sviluppo’. 3.1 - Le tre aree di un’identità personale. 3.2 Aspetti dell’attuale disorientamento giovanile. - 4. L’adolescente e la scuola. 4.1 - La maturazione affettiva. 4.2 - Le due fasi dell’adolescenza. 4.3 - La maturazione sociale. 4.4 - La maturazione cognitiva. 4.5 - Cause e manifestazioni di disagio scolastico.
1. Elementi destabilizzanti di una società in evoluzione
S
ono molteplici e poste a diversi livelli le ragioni che hanno profondamente mutato, insieme con la società nel suo insieme, l’identità del preadolescente e dell’adolescente. In particolare si sono verificati l’avvento della società ‘di massa’, di quella ‘dei consumi’ e della mondializzazione, che hanno introdotto nuovi parametri di vita e di valutazione, causando spesso disorientamento e relativismo valoriale, anche perché molte realtà sociali sono sorte, scomparse o mutate profondamente nel giro di poco più di due generazioni. Trasmessi e spesso enfatizzati dai media, alcuni dei nuovi assetti sociali hanno assunto forme di vera aggressione psicologica che costituiscono una minaccia per i meno dotati di capacità logico-critiche. 1.1 – Crisi della società e mondo giovanile A queste spinte destabilizzanti si sono aggiunte, e colpiscono in modo particolare il mondo giovanile: – la crisi/trasformazione della famiglia; – la diffusione di droghe e la frequentazione di ambienti sottratti talvolta a elementari forme di prevenzione e di controllo; – la moltiplicazione delle forme di comunicazione multimediale: oltre alla tv ormai satellitare sono stati mobilitati interattività, videogiochi, cellulari e tablet videofonici…; – l’eclissi di principi morali tradizionali – civili e religiosi – messi in discussione e talora rigettati in nome di una libertà e di un’autonomia che
224
PROPOSTE
Marco Paolantonio
nelle loro manifestazioni più violente hanno connotazioni polemicamente trasgressive e anarcoidi, tendenzialmente autodistruttive. Argomenti di scottante attualità, affrontati e dibattuti con intenti ed argomenti disparati, sono: • Crisi/trasformazione della famiglia Dalla famiglia patriarcale, o almeno plurigenerazionale, si è passati a quella mononucleare. Ma le differenze maggiori si sono verificate all’interno del nucleo familiare, dove sono cambiati i rapporti reciproci fra i vari membri ed il modo di ‘stare insieme’. La crisi ha interessato: – la ‘famiglia legale’, cioè quella regolarmente costituitasi almeno con un atto civile; – le nascite, temute ed evitate anche con il ricorso all’aborto o volute ad ogni costo, anche con la procreazione medicalmente assistita; – la durata, un tempo legata all’indissolubilità, oggi molto spesso una convenienza precaria; – il rapporto tra genitori e figli, che ha visto l’attenuarsi del conflitto tra generazioni ma l’appannarsi del ruolo educativo parentale; – l’affinità fra i contraenti del matrimonio che, quando giungeva anche alla condivisione di ideali e di fede, offriva ai figli più l’esortazione dell’esempio di quello della parola.1 • Droga, alcol e gruppi di aggregazione effimera Drogarsi non è normale per niente. Lo ammette anche chi poi giustifica l’uso di droghe, disquisisce su quantità, dipendenza, responsabilità personale e/o sociale. Tabacco e alcol, che rientrano a pieno titolo nel novero, offrono un ulteriore alibi a chi fa notare che sono più diffuse e deleterie, ma non altrettanto perseguite. Tra i giovani è diffusa l’opinione – sostenuta da correnti politiche ‘libertarie’ – che non dovrebbero essere regolamentati dalla società quei comportamenti che appartengono all’area privata, come quelli sessuali, l’uso (e l’abuso) di sostanze stupefacenti, il fumo, la ludodipendeza. Ugualmente esposti alle condanne, alle assoluzioni, all’indecisione di giudizio e di intervento i locali in cui alcol, droghe e videogiochi hanno talora libera ed indisturbata circolazione; luoghi di incontri effimeri, di scontri, di partenze per viaggi senza ritorno. Forme spersonalizzanti di regressione sociale sono propiziate da concerti pop e rock e da tifoserie aggressive e politicizzate.
1
V. A. CERAMICO STENTA, La famiglia oggi e le sue crisi. www. cittacattolica.com.
Condizione (e disagio) giovanile
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• Aggressione multimediale. L’industria radio-televisiva ha un’alta potenzialità sociale perché fa sperimentare lo stesso contenuto – crea le stesse circostanze di conoscenza e di partecipazione per lo più passiva – a tutte le persone che stanno guardando lo stesso programma nello stesso momento, esponendole ai rischi della ‘fabbrica del consenso’. Molti ragazzi sono abili screenagers, capaci cioè di utilizzare la televisione come mezzo interattivo per videogames, internet, cdrom, …; sanno controllare il video, mentre i loro genitori (e molti dei loro insegnanti) si accontentano di guardarlo. In generale, però, mezzi multimediali hanno moltiplicato le occasioni d’isolamento, espongono a vere aggressioni morali, deprivano vocabolario e sintassi. • Eclissi di valori Onestà, solidarietà, amore, tolleranza, rispetto,…sono termini astratti, cioè desunti da comportamenti positivi di persone concrete. Chiedono la controprova dell’esempio e della coerenza. Annoiano, disturbano o disorientano quando sono argomenti di parenesi, di compiaciuta ironia o di aperta derisione.2 1.2 - Definizione del periodo pre-adolescenziale e di quello adolescenziale Va aggiunto che il periodo di vita fin qui designato come pre-adolescenza e adolescenza si è dilatato fino a coprire un decennio. Risultano anticipati i tempi della maturazione fisiopsichica e ritardati quelli che corrispondono a un’autonomia effettiva, vale a dire l’indipendenza economica e l’uscita dalla famiglia d’origine con la conseguente costituzione di un nuovo gruppo familiare (su basi sempre meno stabili e inequivoche). «Tra le cause influenti in questo processo di dilatazione vi sono senz’altro fattori di ordine nutrizionale, sanitario e inerenti al miglioramento delle condizioni generali di vita per quanto concerne l’anticipazione della pubertà, così come fattori sociali ed economici propendono per un rallentamento del processo di emancipazione dei figli dalla famiglia ben oltre il diciottesimo anno di età. Ma tra le varie determinanti giocano un ruolo importante anche altri fattori evidenti della nostra società, che premono per considerare ed esaltare le età della giovinezza e dell’adolescenza come condizioni sociali e di vita privilegiate».3
2
Ricerche demoscopiche hanno appurato che tra i temi trattati con più frequenza tra pari ci sono, in ordine decrescente: le relazioni, la musica, la sessualità, lo sport, la scuola, il lavoro, la droga; tra quelli raramente o mai trattati: la religione, l’arte, la politica, l’ambiente. 3 T. FRATINI, Radici affettive del disagio ed esperienza scolastica degli adolescenti. www.irre.toscana.it/disagio.
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Il periodo di ‘maturazione’ si è così caricato di nuovi motivi di malessere e d’inquietudine, fino a diventare spesso situazioni protratte di vero disagio, perché da un lato a una maggior libertà corrispondono più rischi e minori certezze, e dall’altro perché a un periodo di formazione che si è prolungato non corrisponde una sufficiente prospettiva di inserimento attivo nella società.
2. Condizione (e disagio) giovanile Al termine dell’adolescenza, «il giovane adulto raggiunge piena consapevolezza di sé, della sua corporeità, delle sue inclinazioni sessuali, dei suoi valori e dei suoi interessi; possiede un ruolo sociale definito, esprime e persegue le proprie idee ed opinioni, è in grado di cavarsela da solo nei diversi frangenti della vita quotidiana. Viceversa un non completo processo adolescenziale può indurre la confusione di ruoli, ovvero un’identità non pienamente coerente e integrata, in cui persistono bisogni, comportamenti, atteggiamenti meno maturi con quelli propri dell’età».4
Inevitabilmente tensioni e insicurezze si riflettono sull’attività scolastica, aggravando le risapute difficoltà connesse con l’impegno coerente e continuo richiesto, con la (in)capacità di proporre da parte delle istituzioni scolastiche contenuti culturali non solo validi in sé ma spendibili poi nel lavoro e nelle professioni, con la crisi della funzione docente, socialmente, economicamente e deontologicamente in notevoli difficoltà. Si moltiplicano – e sono spesso amplificati maldestramente dai media – gli episodi di rifiuto e di trasgressione delle più elementari regole di convivenza (bullismo, ribellioni e aggressioni agli insegnanti), di autolesionismo (anoressia, bulimia), d’indifferenza alla cultura e di disimpegno (modelli e ideali di vita forniti da sport, spettacolo, moda, reality). 2.1 - Aspetti problematici La condizione giovanile – soprattutto quando si manifesta in forme di disagio – presenta una serie di ineludibili aspetti problematici, anche se solo in alcune istituzioni scolastiche e in certi periodi assume forme patologiche. Occorre perciò affrontarlo nella scuola con mentalità aperta e mezzi adeguati: • perfezionando i modi capaci di definirne le tipologie, soprattutto nuove (versante psicologico); • acquisendo sufficienti elementi diagnostici sulle cause e sull’effettiva consistenza delle manifestazioni (versante sociologico); 4
B. MUZZATTI, La socialità in adolescenza,…- www.bibciechi.it/pubblicazioni/tiffologia.
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• scegliendo gli indirizzi e gli strumenti più adeguati per agire e reagire nella scuola (versante pedagogico-didattico). 2.2 - La necessaria collaborazione educativa L’azione della scuola, che riguarda di sicuro e come sempre il rendimento scolastico (l’aspetto cognitivo), deve perciò assumersi anche il carico di responsabilità che afferiscono all’educazione dei comportamenti (aspetti affettivo-motivazionali e socio-interpersonali); deve cioè attendere all’educazione integrale della persona. Ciò richiede una formazione almeno iniziale degli insegnanti che dia loro sufficienti conoscenze psicopedagogiche e li renda via via più capaci di stabilire rapporti educativi validi con il loro allievi, in particolare con quelli che vivono situazioni di disagio. L’azione isolata degli insegnanti è destinata a sporadici successi, ma è dalla disponibilità e dall’impegno personali che nasce ogni sviluppo successivo. Necessaria appare dunque la collaborazione, anche considerando che la preparazione professionale di solito concerne unicamente metodologia e didattica della materia insegnata. È loro richiesto di stabilire, per mezzo della progettazione e della programmazione condivise, rapporti costruttivi con i colleghi del collegio dei docenti e del consiglio di classe per assicurare risultati più soddisfacenti anche sul piano cognitivo. Occorre poi che il lavoro del singolo insegnante e dei colleghi si avvalga sempre meglio del concorso delle scienze e degli esperti dell’educazione per attuare l’accompagnamento e l’eventuale ricupero degli allievi anche nelle dimensioni affettivo-emotiva e dei rapporti. La collaborazione tra scuola e famiglia è del pari indispensabile. Insegnanti e genitori sono tenuti a consegnare all’adolescente la specificità di una progettazione esistenziale che passi anche attraverso il duro tirocinio di un lavoro che prepara al lavoro e alla professione.
3. L’adolescente e i suoi ‘compiti di sviluppo’ Definendo l’adolescenza come una seconda nascita, gli psicologi hanno voluto porre in evidenza che è l’inizio di una nuova fase dell’esistenza, nella quale è come se le esperienze fossero azzerate e la vita ricominciasse da capo, tanto è forte, ad es., l’impulso dell’adolescente a guardare al presente fuori dalla famiglia, nella direzione che porta a stringere legami nel mondo dei coetanei di pari età.5 Per compiti di sviluppo s’intendono quegli aspetti della vita personale e intrapersonale che l’adolescente deve affrontare e risolvere per svolgere la propria crescita e diventare adulto: 5
FRATINI, studio citato, pag. 10.
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«Per crescere bene è necessario tollerare il tempo necessario per la ricerca e la costruzione di sé, sopportare dunque la confusione, l’incertezza e la contraddittorietà di sentimenti complessi che possono generare conflitti (tipico quello fra il bisogno di autonomia e di dipendenza); occorre accettare il succedersi di successi e di insuccessi, avere fiducia insomma che con un po’ di pazienza i pezzi un po’ sparsi e disordinati di sé possono essere sistemati per realizzare quel sogno, quell’avventura. Quel progetto con cui è possibile misurarsi solo al di fuori della protezione familiare».6
3.1 - Le tre aree di un’identità personale Tutti aspetti i quali hanno a che vedere con il concetto di una ristrutturazione e di un consolidamento della propria identità nelle tre aree fondamentali che abbiamo più volte ricordato: • cognitiva, che comporta il riconoscimento e l’uso della propria intelligenza nel confronto con la realtà culturale e con gli altri; • affettivo-emotiva, che include anche la consapevolezza della propria identità sessuale; • sociale, che riguarda sia il nucleo di valori personalmente condivisi o acquisiti sia la maturazione di una vocazione e di una scelta lavorativa. Le tre dimensioni, che costituiscono un ineludibile ologramma pedagogico, sono strettamente connesse e interagenti. Trascurarle o ignorarle significa esporsi di proposito a errori di valutazione e d’intervento. Modificheremo l’ordine di esplorazione delle tre dimensioni, ribadendo la convinzione che il repertorio cognitivo è abitualmente un punto d’arrivo anche nella realtà; infatti uno studente mette davvero a frutto le proprie capacità intellettuali quando ha raggiunto un sufficiente equilibrio emotivo (e motivazionale) in un contesto di relazioni interpersonali che lo soddisfano. 3.2 - Aspetti dell’attuale disorientamento giovanile Anticipando alcuni dei temi, è realistico fare i conti con certe connotazioni di molti adolescenti di oggi: – la fragilità (non sanno aspettare; consumano i sentimenti con rapidità); – la frammentazione (raccolgono schegge di realtà senza tentare ricomposizioni di significato); – gli estetismi (unico metro di giudizio: il ‘(non) mi piace’); – gli eroi del nulla (ideale e prevalente ragione di vita è la ricerca della notorietà); – l’etica della circostanza (tutto è possibile: una scelta o il suo contrario; dipende solo dalle circostanze);
6
Cfr. F. GIORI, Adolescenza a rischio. F. Angeli, Milano, 2002.
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– la mancanza del senso di colpa (alla responsabilità personale si è sostituito il senso di vergogna, quasi solo dipendente dal giudizio altrui),…7 Quando poi si tratta di forme di disagio che sfociano in manifestazioni gravemente antisociali si corre il rischio sia di generalizzare in modo strumentale sia quello opposto di minimizzare con fastidio. Pare realistico considerare che «Un numero crescente di adolescenti e di giovani risulta alla ricerca esasperata di stimoli intensi, di sensazioni forti (sensation seekung). Molti di loro presentano una sorta d’insensibilità alle gratificazioni della quotidianità. La soglia di gratificazione sempre più alta, la scarsa capacità di provare piacere rende molti giovani anedonici, abulici, annoiati, incapaci per di più di saper dilazionare la fruizione degli oggetti desiderati. Solo le attività ‘a rischio’, straordinarie e pericolose, risultano degne d’attenzione.(…). Si vive in una sorta di deserto emozionale, con elementi residuali di comunicazione interpersonale ridotti all’espressione di aggressività o sottomissione. In alcuni casi si registra una sostanziale incapacità di assumersi qualsiasi responsabilità rispetto alle conseguenze delle proprie azioni, in una sorta di deserto etico, riempito da un’assoluta dipendenza dal denaro, unica misura di successo, nonché dalla cura della propria forma fisica, fine a se stessa».8
4. L’adolescente e la scuola 4.1 - La maturazione affettiva La Psicologia dell’età evolutiva (che ha nel Piaget lo studioso più accreditato) ha acquisito il nome di Psicologia dello sviluppo intorno agli anni ’80 del Novecento. Non si tratta di un vezzo nominalistico, perché mentre prima ci si occupava del periodo di vita che va dalla nascita ai 14-15 anni, oggi si considera quello che va dagli 11-12 ai 18-20. Per chiarire ulteriormente i campi di indagine, oggi si parla di preadolescenza fino ai 14-15 anni, di adolescenza nel periodo successivo.
‰ L’adolescente e i genitori Gli psicologi osservano che l’ingresso nell’adolescenza avviene oggi in modo meno traumatico, perché sono diminuiti gli elementi di conflitto generazionale con i genitori, meno rigidamente legati a modelli educativi e di trasmissione di valori, e si è instaurata fin dagli anni dell’infanzia l’abitudine allo scambio di interazione sociale fra coetanei. La figura dei genitori, ed in
7
VITTORINO ANDREOLI, Lettera a un insegnante. Rizzoli, Milano 2006, pp. 82-98. V. MANNA, I nuovi volti del disagio adolescenziale e giovanile – www. salus.it /medicina delle dipendenze. 8
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particolare quella del padre, ha però perso molto del suo tradizionale ascendente. Capita che l’adolescente si accorga che i genitori ‘non sanno come si fanno i bambini’; fuori di metafora, non sanno (o evitano di) dare indicazioni capaci di orientare nelle scelta tra ciò che è bene e ciò che è male, tra ciò che è necessario per progredire o ciò che occorre evitare per tornare indietro; nei soggetti più fragili, questo stato d’incertezza e di confusione può portare all’angoscia depressiva. Sono largamente diffusi i tratti di un narcisismo talvolta patologico. Salute e bellezza legati alla giovinezza sono diventati valori assoluti. Spesso alimentato da genitori e strumentalizzato dalla pubblicità, questo atteggiamento psicologico porta alla rimozione di ciò che richiede sacrificio e rinuncia e altera profondamente il rapporto con l’esistenza reale. È la ‘filosofia’ del ‘tutto (mi è dovuto) e subito’, che riserva le delusioni più cocenti. Con sempre maggior frequenza i ragazzi la vivono con genitori che nella lotta per la separazione si contendono i figli come oggetto di ricatto e strumento di punizione reciproca. Stabilità e continuità, che sono gli elementi fondanti del rapporto affettivo, vengono così gravemente e talvolta irreparabilmente sconvolti.
‰ L’adolescente e il proprio corpo Compito ineludibile dell’adolescente è quello di accettarsi anche fisicamente in una fase della vita in cui si verificano mutamenti sostanziali sotto gli aspetti biologico, sociale e psicologico. Sessualità, anoressia e bulimia sono le forme esasperate di un disagio che, a livelli e con intensità diversi, viene comunque vissuto dagli adolescenti. Limitandoci a un argomento accennato nel precedente paragrafo, leggiamo alcune righe specificamente indirizzate a chi lavora nella scuola: «In questa società, che tutti chiamano del benessere,(…) gli adolescenti sono poverissimi in affetti e in comprensione e dunque faticano a crescere: E già la crescita è drammatica, poiché avviene per salti e metamorfosi, per mutazioni della personalità e del proprio corpo che coinvolgono la visione del mondo. Pensa soltanto all’importanza che questa società dà al corpo e ti renderai conto della sua follia, e ti verrà voglia persino di rifugiarti in un passato (…) dove il corpo non era percepito con questo estetismo che deve imperativamente seguire i modelli di una società idiota che, elogiando in maniera sfrenata la bellezza e le misure auree, non si accorge di quanto dolore induca in chi, nel confronto non vi rientra. Il dramma del corpo, delle estetiche, dei modelli di consumo e di mercato».9
9
V. ANDREOLI, op. cit. pp. 165-166.
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Una delle dimensioni del vissuto sessuale dell’adolescente è la ricerca dell’identità personale che opera in un momento di disagio di un corpo che gli impone un cambiamento biologico e un cambiamento psichico con tempi che spesso non sono in sincronia. Un’altra scoperta è quella di un’alterità diversa e più profonda. Prima vissuta con coetanei dello stesso sesso in situazioni di condivisione di interessi, acquista in seguito le caratteristiche dell’eterosessualità (dalle ‘cotte’ a rapporti più stabili). In entrambe le fasi assume grande importanza la considerazione del proprio corpo come strumento di relazione, giudicato più o meno idoneo a reggere i confronti per la prestanza fisica (maschi) o per la bellezza (femmine). L’inadeguatezza è fonte di profonde crisi depressive.
‰ L’adolescente, il gruppo di uguali, la scuola Attuali forme di disagio patologico sono il bullismo, il ribellismo e il vandalismo. Rimandando qualche annotazione più puntuale al successivo punto che riguarda l’apprendimento, ricordiamo qui quanto concerne il rapporto con i coetanei. 4.2 - Le due fasi dell’adolescenza «Il primo è caratterizzato dell’identificazione nel gruppo e quindi dal bisogno di stare con i propri pari, talvolta senza far nulla. Già esserne parte, trovarsi nel luogo di rifugio, all’angolo di una strada, in un bar, dà sicurezza e calma l’ansia della metamorfosi. (…) Certo il gruppo diventa tutto e quindi l’individualità può essere manipolata, il comportamento guidato e portato anche su spiagge inaccettabili e distruttive. E qui ritorna la necessità che la scuola abbia insegnato all’adolescente a vivere nel gruppo e che la sua classe, che è fatta di pari in età, sia gruppo. Perché non viva l’esperienza sotto la paura di esserne escluso, e purché questo non accada, si è disposti a fare tutto ciò che il gruppo compie. Per vincere la paura della diversità, che significa mostruosità e solitudine, si può incontrare la morte che è la solitudine più drammatica e misteriosa (…)».10
La prima adolescenza ha inizio con la pubertà e dura tre-quattro anni. Si passa quindi alla seconda fase. «L’adolescente della seconda fase è ancora entro i sentimenti, ma si fanno di coppia e sono forti come nella ‘cotta’, ma anche esclusivi (…) In questo mondo ti poni tu, insegnante.
10
Ibidem.
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Vorrei che tu vedessi, almeno per un momento l’assurdità di certi tuoi comportamenti, di prese di posizione, di avvertimenti drammatici sul futuro dell’anno scolastico, per questo o per quell’allievo. La verità è che non glene importa nulla, perché nel dramma resistenziale vero la scuola è solo un luogo in cui sopravvivere per lenire le strategie dei grandi conflitti: con la famiglia che è divenuta insopportabile, con un dove andare che ha il sapore di un vagabondaggio. La scuola deve tenere conto di questo clima».11
4.3 - La maturazione sociale Come sappiamo, le tre dimensioni della personalità umana sono talmente connesse che ogni attività le richiama e le include. È quindi inevitabile che anche nelle annotazioni che riguardano i rapporti socio-interpersonali si accennino o si ripetano con altre parole e, sotto altri punti di vista, concetti già espressi a proposito dell’affettività.
‰ L’adolescente in famiglia Sociologi e psicopedagogisti riscontrano una minor conflittualità fra le generazioni, anche se permangono le tipiche manifestazioni di controdipendenza degli adolescenti, connesse con la maturazione cognitiva e sociale. Le cause sono note: ricerca di nuovi modelli, cambiamento degli interessi, volontaria marginalità psicologica. • L’adolescente, è risaputo, tende a disatellizzarsi, cioè a cercare fuori dell’ambito familiare le persone che ritiene in grado di rassicurarlo circa la normalità della sua maturazione psicofisica. Le trova tra gli uguali, anche perché è portato a leggere come insofferenza e critica negativa gli interventi degli adulti e in particolare dei genitori. • Sono radicalmente mutati gli interessi, che si sono spostati dal mondo del gioco e della fantasia a quelli dei principi morali e valoriali, agli atteggiamenti verso la religione, la società, la politica. Questi cambiamenti hanno come conseguenza la marginalità volontaria, vale a dire la ricerca di spazi fisici e mentali diversi da quelli dell’infanzia. Il rapporto con gli adulti più vicini, a casa e a scuola, sono posti in difficoltà dall’emergere di nuovi atteggiamenti mentali: la tendenza a dare scarsa importanza ai dati di fatto per assolutizzare i ragionamenti, spesso in modo manicheo. Lo spirito oppositivo si manifesta con l’ironia, il sarcasmo, l’etichettatura (giudizi categorici e perentori sulle persone); il confronto ipercritico tra i personaggi scelti a modello e gli adulti con cui l’adolescente convive quotidianamente.
11
V. ANDREOLI, op. cit. pp. 164-169.
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‰ L’adolescente e i pari Il primato nell’interesse sociale dell’adolescente è costituito dai coetanei. «Essi garantiscono quella parità tanto agognata, ma raramente ottenuta con gli adulti. Essi condividono l’attività ideologica (progetti, discussioni, elaborazione di teorie, critica del mondo, professioni di fede) centrale, ora che il ragionamento astratto e le nuove competenze cognitive la permettono. Essi sono solidali e complici nelle esperienze extra-familiari conseguenze della marginalità psicologica. Essi permettono di affinare e sviluppare attività sociali, si comunicare con il nuovo corpo e di imparare a comprendere le peculiarità dei coetanei dell’altro sesso. La loro frequentazione permette di delineare la propria identità sociale e l’interazione con essi dà indicazioni per lo sviluppo dell’idea di sé. Il rapporto con i coetanei può indurre anche sentimenti di ansia, timore di non essere accettati o di esser respinti. È altresì frequente la sottomissione ai dettami del leader o del gruppo, il conformismo alle regole, agli stili e ai comportamenti più diffusi, l’adeguamento dei propri desideri e delle proprie credenze a quelle della maggioranza».12
Il rapporto tra pari si concretizza in tre forme principali: il gruppo classe, la partecipazione a gruppi semi-volontari, i gruppi spontanei. • I gruppi classe, anche se nascono casualmente, assumono una consistenza e una continuità più rilevate rispetto alla precedente esperienza scolastica. Possono costituire un modello di comportamento per il successo scolastico o relazionale; rispondono a un nuovo bisogno di integrazione interpersonale; offrono alleanze nella contrapposizione al mondo istituzionalizzato di adulti, famiglia e scuola. • Le associazioni semi-spontanee (tali perché spesso frutto di un indirizzo dato da adulti, come l’associazionismo sportivo o scout, gli oratori,…) rappresentano comunque una risposta considerevole al bisogno di socialità ed alla marginalità psicologica anche se gli obiettivi e le metodologie che li caratterizzano possono però essere vissuti dall’adolescente come un limite e un onere. • I gruppi spontanei, come la coppia di amici, bande e club, le compagnie, la coppia eterosessuale sono la risposta più gratificante ai bisogni di socializzazione dell’adolescente. Nell’amicizia, che è come il prolungamento e il completamento della propria personalità si cercano il consiglio, l’approvazione, la critica alla pari. Le bande (generalmente riservate ai maschi e più fortemente gerarchizzati) e i club (di solito frequentate da femmine), che si costituiscono sia secondo
12
B. MUZZATTI, La socialità in adolescenza,…- www.bibciechi.it/pubblicazioni/tiffologia.
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criteri selettivi sia su simpatie e affinità, possono essere esclusivi. Le compagnie, composte in modo pressoché paritario da maschi e femmine, si aggregano per selezione ed hanno come obiettivo l’organizzazione di feste, gite, giochi sociali. Dalle compagnie si staccano in genere le coppie eterosessuali, inizialmente fondate più sul reciproco gradimento fisico che sull’affinità culturale o sulla condivisione di valori.
‰ L’adolescente e gli insegnanti L’accettazione passiva e l’ammirazione incondizionata, tributate in modo più o meno rilevante all’insegnante nella scuola primaria, cedono il posto alla richiesta – o almeno all’aspirazione – di maggior partecipazione nella scelta degli argomenti da trattare e nel modo di svilupparli. Si afferma l’esigenza di ‘parità’ nella discussione, soprattutto quando si affrontano argomenti di attualità, con il conseguente rifiuto del dogmatismo e dell’ipse dixit. La sessualità, nelle sue dimensioni mentale, sociale e fisica, sottrae molte delle energie psichiche prima indirizzate all’attività scolastica. Si verificano quindi con frequenza, senza apparenti ragioni, comportamenti che modificano in modo significativo o cambiano non solo la qualità dell’impegno e degli interessi ma anche l’indirizzo scolastico. I rapporti ‘individualizzati’ con gli insegnanti si collocano al primo posto: «Il tema del ‘buon insegnante’ o anche dell’insegnante ‘ideale’ è stato ampiamente studiato in psicologia dell’educazione, soprattutto in rapporto alla fascia adolescenziale, poiché è proprio l’allievo adolescente quello che da un lato mostra le aspettative più precise ed articolate nei confronti dei propri insegnanti; dall’altro è anche l’allievo tendenzialmente più difficile se confrontato da una parte ai bambini dall’altra agli adulti in formazione, meno propenso ad accettare la definizione del contesto proposta dall’adulto, più incline alla demotivazione scolastica, meno influenzato dai richiami d’autorità, più capace di abbassare la credibilità dell’insegnante attraverso comportamenti controdipendenti, quando non nettamente ribelli, ridicolizzati e svalorizzati (le imitazioni dei vari insegnanti costituiscono un luogo specifico della cultura dei coetanei nell’adolescenza)».13
Tra le aspettative degli allievi che si pongono in misura molto alta troviamo una mescolanza di abilità didattiche e di disponibilità al rapporto interpersonale non formale: ‘spiegar bene’ raggiunge l’83,1%, ‘interesse per la materia’ (57,15%), ‘uso di attrezzature di strumenti didattici a buon livello’ (50,9%), ‘uso di buoni testi’ (42,6%), ‘equità di giudizio’ (80,5%), ‘democrazia in classe’ (67,7%), ‘attenzione ai problemi scolastici degli allievi’ (59,6%),
13
L. ZANELLATO, L’adolescente e la scuola - www.univirtual.it/corso/2003/pdf.
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‘buona educazione’ (58,9%), ‘attenzione ai problemi personali degli allievi’ (33,7%). La delusione riguarda soprattutto l’equità del giudizio, la democrazia in classe, l’attenzione ai problemi personali e scolastici degli allievi”.14 4.4 - La maturazione cognitiva Dopo aver rapidamente esaminato le caratteristiche della scuola come istituzione sociale che ‘produce’ cultura, rivisitiamo gli aspetti che meglio completano la ricognizione sulla condizione e sui disagi degli adolescenti d’oggi.
‰ In famiglia In famiglia si riflettono alcune situazioni che l’adolescente vive a scuola e che assai spesso si complicano perché ne è lui stesso il relatore unico. In famiglia è giusto che trovi il conforto di chi ne ragiona con lui in modo equilibrato, non ripetitori di materie scolastiche, oppure difensori d’ufficio della scuola. Dovrebbe costatare – e questo non dipende certo da lui – che c’è sintonia educativa, nel rispetto di ruoli sostanzialmente diversi, tra gli adulti che interagiscono, genitori e docenti. Cagioni del contenzioso tra genitori e insegnanti sono, ad es., i criteri con cui vengono assegnate le esercitazioni per casa. L’allievo dovrebbe ormai sapere che non può trovare in casa chi si sostituisce a lui, talvolta in modo incauto. Del resto sa come trovare le ‘protesi’, ricorrendo a compagni più capaci o a internet. È giusto che in casa senta ribadire che si tratta di un lavoro che prepara a un lavoro e come tale richiede onestà, autonomia, mentalità e strumenti adeguati. È però obiettivamente difficile giustificare l’utilità dei compiti quando sono troppi, troppo difficili o appaiono inutili (perché si sa che poi non saranno corretti e valutati). Le difficoltà si collocano a livello dei rapporti tra adulti ed è giusto che il ragazzo li veda affrontati e risolti con equilibrio. C’è chi afferma recisamente: «Senza sapere come, mi sento di dirti che se i compiti fanno parte di una metodologia dell’apprendimento a cui non puoi rinunciare, li devi collocare entro il tempo di scuola, e non delegarli al tempo di famiglia che è altrettanto importante per imparare a vivere, anche se in casa saranno applicati uno stile e strumenti diversi da quelli della scuola, e quel tempo non può essere espropriato da una scuola delirante che richiede una totale dedizione. Un delirio che non solo disapprovo ma condanno perché finisce per disamorare, di fa viatico per odiarla, per potersene allontanare il più presto possibile: la scuola come male, come disgrazia, come punizione».15 14 15
Ibidem. V. ANDREOLI, op. cit. p. 77.
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Altra ragione di conflitto sono i giudizi sul profitto. Gli insegnanti per primi sono consapevoli di non poter formulare giudizi inappellabili fondati su prove incontrovertibili; e lo sanno anche i genitori, per esperienza diretta e riflessa. Ma è altrettanto inevitabile che le valutazioni debbano essere date. La diversità dei ruoli tra genitori e docenti dovrebbe in questi casi funzionare ed essere chiara anche al ragazzo: la richiesta di chiarimenti, doverosa, è unicamente ordinata alla ricerca di spiegazioni soddisfacenti per arrivare a soluzioni condivise. Entrambe le situazioni postulano quindi una collaborazione aperta e costruttiva, che esclude sia le deleghe sia le interferenze indebite; scopo comune: fare dell’istruzione uno strumento di formazione. I mezzi sono da trovare volta per volta, in situazioni concrete. Studi di esperti e documenti ufficiali forniscono numerosi percorsi intesi a favorire il ‘partenariato’ scuola-genitori, ma, necessariamente, sotto forma di proposta e di invito.
‰ Con i pari Già il convivere inevitabile e continuo, quando diventa sofferenza insopportabile può portare all’abbandono scolastico o addirittura a gesti irreparabili. La condivisione dell’esperienza ‘professionale’ è poi soggetta a una molteplicità di reazioni che richiedono tempestivi interventi educativi ed autoeducativi. Limitandoci sul gruppo-classe, la società in miniatura in cui per anni si condividono le esperienze quotidiane, trascriviamo alcune righe che offrono motivi di riflessione. «È tempo di costruire una psicologia del Noi e di mettere a riposo per un po’ ogni istanza di individualismo sfrenato per dare maggior forza all’insieme, che è lo specifico di ogni società, a livello di famiglia, di scuola e di comunità.(…) La dimensione del Noi non cancella l’Io, semplicemente lo inserisce dentro il gruppo in una continua dinamica che porta le qualità di ciascuno nell’insieme. (…) La scuola organizzata invece per graduatorie, per inventare il primo e l’ultimo e dunque mandare in paradiso o all’inferno, con una grande parte di studenti in purgatorio, non provoca soltanto danni alla vita degli ultimi, ma anche a quella del primo della classe. (…) L’inimicizia tra gli allievi di una classe è un chiaro segno di patologia del gruppo, poiché attiva al suo interno un sistema di opposizione e di alleanze (…), che è all’origine anche del costituirsi di gruppuscoli con comportamenti oppositivi dentro e fuori la scuola, che producono veri e propri atti di vandalismo e di bullismo. Il bullo è generalmente un escluso che conquista una posizione di leader su parametri e comportamenti antitetici a quelli che dominano nella classe».16
16
V. ANDREOLI, op. cit. pp. 45-50.
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‰ Con i docenti Con questi ultimi appunti accenniamo alle situazioni di disagio che possono determinarsi a scuola e ad alcuni degli interventi che possono contribuire a superarle. Se a proposito dell’impostazione di un efficace metodo di studio è opportuno parlare di clima metacognitivo da creare in classe17, occorre anche parlare del clima d’interazione sociale, premessa necessaria per chiarire molte ragioni sia del successo sia dell’insuccesso scolastico: «Si vuole porre enfasi sulla natura sociale della conoscenza: essa viene considerata con il risultato dell’interazione di gruppi di persone che costruiscono insieme modi comuni di pensare, di identificare e di definire i problemi, di esprimersi usando linguaggio appropriati, di mettere a punto procedure e metodi più efficaci per raggiungere gli obiettivi comuni: studenti ed insegnanti condividono la responsabilità della costruzione e della acquisizione delle conoscenze».18
Non occorre essere specialisti in scienze dell’educazione per appurare che esiste una corrispondenza tra gli atteggiamenti, le credenze, le aspettative, le supposizioni che guidano gli insegnanti nell’interpretazione dei comportamenti dei propri allievi e dei risultati scolastici da essi conseguiti e la loro personale modalità d’impostazione del processo insegnamentoapprendimento. 4.5 - Cause e manifestazioni di disagio scolastico Sotto l’aspetto cognitivo il rapporto insegnamento/apprendimento ha come soggetto/oggetto l’intelligenza: in cosa consiste, come si manifesta, come la si può educare (nel senso etimologico) come è possibile (ed equo) valutarla. Tutti aspetti che occupano gli specialisti, con diagnosi e rimedi che variano a seconda delle scuole cui appartengono. Se doveroso per gli insegnanti è tenersi aggiornati al riguardo, è per loro obbligatorio fare i conti con le concrete situazioni di disagio che devono affrontare. Alcune sono: • La programmazione I programmi scolastici già a livello di scuola elementare adottano, soprattutto nelle discipline espositive, il criterio della trattazione lineare e 17
Ossia delle strategie comuni per sollecitare le personali risorse degli alunni con il concorso della varie materie 18 L. ZANELLATO, L’adolescente e la scuola - www.univirtual.it/corso/2003/pdf.
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sistematica. Mutuato dall’insegnamento universitario, tale criterio risponde alle giuste esigenze di un’intelligenza adulta e costituisce il vademecum professionale degli insegnanti, mediatori di cultura ed esperti nei metodi di trasmetterla. Punto d’arrivo, non di partenza. Trapiantato con andamento ciclico nei vari ordini della scuola espone però alla metodologia (!) del ‘mordi e fuggi’, cioè all’incessante incalzare di capitoli e di argomenti di cui spesso sfuggono i contenuti essenziali insieme con il significato culturale. Di qui nascono, in particolare per temi aridi e remoti, molte delle ragioni di noia, di disimpegno, di ansia anche per allievi potenzialmente ben motivati. La scuola dovrebbe far riscoprire il cammino storico della didattica delle conoscenze (scientifica, letteraria, geografica, artistica,…), che, partendo da interessi spontanei o indotti, esige poi naturalmente approfondimenti e collegamenti sistematici, giungendo infine all’inquadramento sistemico (disciplinare). Un moderato (e condiviso) ricorso al costruttivismo secondo i criteri della modularità didattica e delle unità formative. • I ritmi Ci sono insegnanti che terminano il programma annuale con largo anticipo, magari per procedere poi a un ripasso approfondito. Gli esiti sono prevedibilmente sconfortanti: chi non ha capito prima, difficilmente sarà in grado di farlo in tempi e in termini più stringati. Il criterio andrebbe capovolto: procedere lentamente, articolando argomenti e procedure nel modo più evidente e chiedere poi di eseguirne in modo spedito la sintesi funzionale (ordinata cioè alle successive fasi del programma realmente utili). Più impegnativo per l’insegnante, la strada della distillazione verticale ed orizzontale del programma disciplinare19, che, tra l’altro, offre la possibilità di una larga economia di tempo, da dedicare più proficuamente allo studio guidato e al ricupero. Altro vanto di alcuni docenti è quello di rendere superflui gli interventi degli allievi nel corso della lezione, perché la loro esposizione ha già dato risposta a tutte le possibili domande. Anche nell’ipotesi migliore, a parte l’inerzia dell’uditorio che propizia l’intorpidimento e/o l’evasione mentale, si contrabbanda in tal modo un’equazione da dimostrare: quella tra il ritmo imposto dall’insegnante – il quale espone una materia perfettamente conosciuta e con un linguaggio sicuramente appropriato – e il ritmo d’apprendimento degli allievi (che, a parte le loro personali capacità, ignorano ovviamente quasi del tutto i contenuti e sono alle prese anche con la peculiarità
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Vale a dire degli aspetti fondamentali (regole e/o fatti) su cui costruire anche in seguito un cammino disciplinare chiaro a tutti e sicuro.
Condizione (e disagio) giovanile
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del linguaggio disciplinare). Quando le lezioni si susseguono con tali caratteristiche, somigliano ai capitoli di un libro letto talmente in fretta da scoraggiare gli ascoltatori che non hanno capacità o interessi eccezionali. • Il linguaggio Un messaggio è valido quando l’emittente usa lo stesso linguaggio del destinatario. Preoccupazione prima di chi insegna, soprattutto con nuovi alunni e nelle prime classi, dovrebbe quindi essere l’accertamento della miglior transitività del linguaggio di cui si avvale. Abbastanza spesso non è così. Per verificarlo basta registrare un tratto della nostra lezione e/o far leggere individualmente agli allievi una pagina del testo che usano e poi fornire un elenco dei termini meno facili che hanno incontrato, chiedendo in parte di spiegarli con sinonimi, definizioni, forme fraseologiche; in parte individuandone il significato fra i tre o quattro proposti. Quando non abbia l’accortezza della frequente riflessione metalinguistica, è facile che l’insegnante crei le premesse per una selezione che talvolta attua già lodando chi ‘ha capito’ e rimproverando per svogliatezza-disattenzione-ignoranza chi non è stato in grado di decodificare il suo linguaggio. Se è inevitabile, perché ‘naturale’, una selezione che corrisponde ad attitudini e interessi appurati (selezione che orienta e quindi promuove comunque), è socialmente inaccettabile quella dovuta a svantaggi di partenza non identificati e fatti ricuperare per tempo. • Gli effetti ’alone’ e ‘Pigmalione’ Può capitare che l’insegnante spieghi per una parte della classe: quella che lo segue perché ha capito il suo ‘stile’ d’insegnamento, vale a dire quella che è capace di restituirgli senza troppe infedeltà argomenti e termini congruenti. Chiede la restituzione di un modello, il suo. La selezione avviene automaticamente anche in questo caso. Da una parte viene a trovarsi chi è già in grado di riprodurre gli schemi logici e la proprietà lessicale dell’insegnante, dall’altra chi avrebbe invece bisogno di interventi personalizzati: passaggi intermedi nel ragionamento, idee di riferimento, schemi riassuntivi,… Tra i rimedi, oltre a quelli indicati sopra, ci sono: un’articolazione più graduale e concatenata degli argomenti svolti; un maggior ricordo alla visualizzazione (schemi, illustrazioni, filmati,…); un paziente richiamo di principi, regole, esempi e termini che spianano il terreno per i passi successivi. • Perseguire l’errore, non chi lo commette Il ‘clima’ della classe dipende molto dalla qualità dei rapporti interpersonali. È inevitabile che si creino situazioni che impongono interventi deci-
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PROPOSTE
Marco Paolantonio
si. Tra di essi ce ne sono di particolarmente controindicati, perché scopertamente ed unicamente repressivi; ad esempio: • coinvolgere l’intera classe nell’accusa o nella condanna; anche se – ed è raro – la mancanza si presentasse come condivisa, occorre salvare il principio della responsabilità personale; altrimenti si rischia non di riportare l’ordine, ma di compromettere i successivi rapporti con l’intero gruppo; – scoraggiare gli interventi, trascurando o, peggio, mettendo in ridicolo chi li compie in modo maldestro; ciò non significa prestarsi a chi, abilmente, cerca di farci perdere tempo; – biasimare pubblicamente non la mancanza ma chi l’ha commessa, soprattutto se si usano toni sarcastici, si fanno fosche previsioni, si accenna a situazioni familiari; – ripristinare la gogna con la lettura pubblica (e divertita) degli errori, con la rivisitazione compiaciuta di fatti e situazioni imbarazzanti, con paragoni che sottolineano menomazioni fisiche o mentali.
Rivista Lasalliana 82 (2015) 2, 241-254
FRATEL TIMOTEO, 2° SUPERIORE GENERALE DEI FRATELLI DELLE SCUOLE CRISTIANE (1720-1751)* DISCEPOLO DEL FONDATORE MAGALI DEVIF E PHILIPPE MOULIS1
SOMMARIO: 1. I primi passi nell’Istituto. - 1.1. Il suo percorso (1682-1710) - 1.2. Direttore d’istituto (1710-1720) - 2. Il secondo Superiore generale (1720-1751) - 2.1. Espansione della Congregazione - 2.2. Ricerche e celebrazione del Fondatore. - 3. Il tempo delle prove. - 3.1. La campagna diffamatoria orchestrata dai Giansenisti. - 3.2. I processi connessi all’asservimento ai diritti di ammortamento.
N
ell’Assemblea del mese di agosto 1720, Fratel Timoteo è eletto Superiore dell’Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane. Vari sono gli studi dedicati al secondo Superiore2 e tutti ribadiscono il ruolo determinante da lui svolto nella promozione dell’opera di Giovanni Battista de La Salle, tale, secondo alcuni, da meritargli il titolo di “Secondo fondatore”3 (per Augustine LOES, nella storia dell’Istituto e della sua espansione “nessun altro Fratello ha avuto un rilievo maggiore di Fratel Timoteo”4). In questo articolo intendiamo descrivere i momenti fondamentali del suo lungo e importante superiorato.
* Traduzione dalla lingua francese di Domenico Anzini, FSC. 1 Magali Devif, direttrice degli Archivi lasalliani di Lione e Philippe Moulis, Università di Parigi, Sorbona Parigi Città, CRESC – Pléiade (E. A. 2356). 2 Citiamo in ordine cronologico: Vie du Frère Barthélémy, premier Supérieur général de l’Institut des Frères des Écoles chrétiennes, secondo le notizie pubblicate da BLAIN (1733), 4a edizione, Parigi, Procura generale, 1933: GEORGES RIGAULT. Histoire générale de l’Institut des Frères des Écoles chrétiennes t. II “Les disciples de saint Jean-Baptiste de La Salle dans la societé du XVIIIe siècle, 1719-1789”. Parigi, Libreria Plon, 1938; HENRI BEDEL, Initiation à l’histoire de l’Institu des Frères des Écoles chrétiennes, XVIIIe siècle, 1726-1804, Roma F.S.C. 1997 p. 20-64 e AUGUSTINE LOES Les premiers frères de Jean-Baptiste de La Salle, 1681-1719, tradotto in francese da FR. JEAN-LOUIS SCHNEIDER, Lasallian Publications, Christian Brothers Conference, Landover, Maryland, 1999 p. 207-215. 3 Espressione ripresa da GEORGES RIGAULT, Histoire générale de l’Institut…, t. II. p. 316. 4 AUGUSTINE LOES, op. cit., p. 215.
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1. I primi passi nell’Istituto 1.1. - Il suo percorso (1682-1710) Dalla nascita al suo ingresso tra i Fratelli (1682-1700) Guillaume Samson-Bazin nasce il 29 gennaio 1682 a Parigi, parrocchia Saint-Séverin. Secondo le Nouvelles ecclésiastiques, periodico giansenista, è “figlio di un sarto di Parigi, di cui si ignora il nome”.5 È la sola informazione che possediamo sulla famiglia del Fratello, non avendo reperito alcuna notizia sulla sua scolarità né sull’ingresso tra i Fratelli delle Scuole Cristiane. La sua formazione religiosa (1702-1703) Guillaume Samson-Bazin entra nell’Istituto il 24 gennaio 1700 e prende il nome di Fratel Timoteo.6 Il noviziato, fin dall’8 aprile 1698, era ubicato a Parigi, in via di Vaugirard, in una costruzione detta la Grande Casa.7 Il direttore dei novizi, Fratel Michel, di circa 25 anni, ha fama di essere rigido con i suoi discepoli8 al punto che alcuni novizi si lamentano con il Signor de la Chétardye, parroco di Saint-Sulpice, per le punizioni fisiche subite. Fratel Timoteo segue la formazione e “si fa notare […] per la grande regolarità”.9 La sua prima esperienza a Chartres (1702-1710) Terminato il noviziato, Fratel Timoteo è inviato, per completare la sua formazione, a Chartres – dove i Fratelli sono presenti fin dal 1699 – nella parrocchia di Saint-Hilaire, intorno al 1702, come confermerebbe la sua testimonianza sulla guarigione da una ciste al ginocchio ottenuta per intercessione 5
Nouvelles Ecclésiastiques ou Mémoires pour servir à l’histoire de la Constitution Unigenitus pour lannée 1744, 6 febbraio 1744 p. 22. 6 Cahiers Lasalliens (CL) 3 p. 37 f° 23. 7 Casa Madre, detta la Grande Casa a Parigi, in via di Vaugirard: 1698-1703. Considerata la crescita del numero di postulanti e i vecchi locali di via di Vaugirard, è necessario trasferirsi. La Casa Madre con i servizi generali sono trasferiti alla casa Nostra Signora delle Dieci Virtù chiamata anche Grande Casa o Casa Saint-Cassien (S. Cassiano era il patrono secondario dell’Istituto). Cfr. Istituto dei F.S.C. Circolari istruttive e Amministrative n° 137 del 25 dicembre 1905: “Saggio storico sulla Casa Madre dell’Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane dal 1682 al 1905” Parigi, 1905, p. 35-40. 8 Fr. Michel (Jacques Luqueasse o Lucquet) ha emesso i voti perpetui il 2 giugno 1697 (CL 3 p. 14). Dirige il noviziato della Granco Casa di Parigi dall’estate 1699 al 1702, poi è trasferito alla comunità di Chartres dove muore per l’epidemia di porpora il 27 maggio 1705 (vedi gli Archivi dipartimentali dell’Eure-et-Loir, dorso E 7/22 – Registro dei battesimi, matrimoni, sepolture di Chartres parrocchia Saint-Hilaire, anni 1700-1710. 9 Istituto dei F.S.C. Circolari Istruttive ed Amministrative n° 137… p. 138.
Fratel Timoteo, 2° Superiore Generale (1720-1751) - Discepolo del fondatore
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di Giovanni Battista de La Salle. Nel mese di giugno 1793, emette i voti perpetui.10 Nella comunità di Chartres, composta da 4 o 5 Fratelli, ritrova Fratel Michel suo direttore di noviziato. Nel 1705, la città di Chartres è colpita da una epidemia di porpora. Nello spazio di sei mesi quasi tutti i Fratelli della Comunità muoiono, fra questi i Fratelli Germain, Lazare, Michel e Jacques. Fratel Timoteo, presente a Chartres – come conferma la sua firma sugli atti di inumazione dei Fratelli11 – sembra risparmiato dalla malattia, insieme ai Fratelli Athanase (Jean Richer) direttore della comunità dagli inizi del 1705 e Norbert (André Desbouves), gli altri due firmatari degli atti di morte. Successivamente Fratel Timoteo assume la direzione della comunità, come attesta l’atto di sepoltura di Fratel Quentin datato 11 febbraio 1707: “in presenza di Jean (sic) Sanson Basin direttore dei fratelli delle scuole cristiane […] firmato Guillaume Samson Basin”.12 Rimane a Chartres fino al 1710, data in cui Giovanni Battista de La Salle gli affida una nuova obbedienza: la direzione della scuola di Mende. 1.2. - Direttore d’istituto (1710-1720) La scuola di Mende (1710-1712) Giunto a Mende nel 1710, Fratel Timoteo diviene il terzo direttore della scuola,13 aperta nel 1707 da Fr. Ponce e già molto apprezzata dalla popolazione per l’operato dei Fratelli (“I primi tre Fratelli che hanno diretto la scuola di Mende, sono stati apprezzati per i loro meriti e i loro successi”14). In questa sede, durante la sua direzione, ha l’onore di ricevere per ben due volte Giovanni Battista de La Salle, in visita alle comunità del Sud: la prima volta nel settembre 1711 e la seconda a luglio del 1712. Le qualità e la regolarità di Fratel Timothèe sono molto apprezzate dal Fondatore, che lo sceglie per dirigere il noviziato che si è in procinto di aprire a Marsiglia.
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AUGUSTINE LOES, op. cit., p. 207. Archivi dipartimentali dell’Eure-et-Loir dorso E 7/22 – Registro dei battesimi, matrimoni, sepolture di Chartres parrocchia Saint-Hilaire, anni 1700-1710: atti di sepoltura di Nicolas Faton o Falon (Fr. Germain) il 1° gennaio 1795, di Michel Loyson (Fr. Lazare) l 26 gennaio 1705, e di Jacques Compain (Fr. Jacques) il 2 luglio 1705. 12 Archivi dipartimentali dell’Eure-et-Loir, dorso E 7/22 – Registri dei battesimi, matrimoni, sepolture di Chartres parrocchia Saint-Hilaire, anni 1700-1710: atti di sepoltura di Fr. Quentin in data 11 febbraio 1707. 13 I predecessori di Fratel Timoteo alla guida della scuola di Mende sono i Fratelli Ponce (1707-1708) e Antoine (1708-1710). 14 F. LUCARD, Annales de l’Institut des Frères des Écoles chrétiennes, Procura Generale dei Fratelli, Parigi, 1883, t. I, p. 315. 11
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Il noviziato di Marsiglia (1712. Primavera del 1713) La fondazione del noviziato, aperto dallo stesso Giovanni Battista de La Salle verso la fine del mese di agosto del 171215, è dovuta, in parte, al Monsignor de Belsunce, che desiderava incrementare le scuole della città; i Fratelli non erano molto numerosi, per rispondere alle richieste era necessario formarne di nuovi ed egli si affida a Fratel Timoteo per assumerne la direzione. I Giansenisti, assai presenti nella città di Marsiglia, facilitano la fondazione del noviziato, sperando di conquistare Giovanni Battista de La Salle alla loro causa, ma il Fondatore rimane fedele ai suoi ideali e questi, allora, interrompono il sussidio per il mantenimento dei novizi. Successivamente, due Fratelli della scuola di Saint-Laurent si lamenteranno del comportamento di Giovanni Battista de La Salle con insinuazioni calunniose che una parte della popolazione inizia a diffondere. Il Fondatore lascia Marsiglia, pensando di essere la causa delle difficoltà incontrate, ma la sua partenza non fa che aggravare la situazione e i novizi abbandonano la casa di formazione, dove rimane il solo Fratel Timoteo in qualità di direttore dell’istituzione. Per forza di cose il noviziato è chiuso: a Fratel Timoteo non rimane che comunicarlo a Giovanni Battista de La Salle da lui incontrato, secondo i biografi, sia a SaintMaximin, nel convento dei Domenicani, sia a Mende, nella comunità dei Fratelli, il giugno 1713. Le scuole di Avignone (1713-1720) L’arrivo dei Fratelli ad Avignone risale al 1703. Dal 1705, i Fratelli alloggiano nella “Maison Chaumette” situata nella parrocchia Saint-Pierre su via Portail Matheron.16 Le scuole del sud aumentano ed Avignone diventa il centro delle case del Mezzogiorno della Francia. Fratel Timoteo sostituisce Fratel Ponce, direttore delle scuole di Avignone e visitatore della comunità del Sud. Dall’8 al 10 gennaio 1717, quando Fratel Barthélémy si presenta per raccogliere le adesioni in vista del prossimo Capitolo generale, Fratel Timoteo firma l’atto insieme ai tre Fratelli che compongono la comunità e partecipa al Capitolo generale, riunito a Saint-Yon (Rouen) dal 16 al 23 maggio 1717, per eleggere il nuovo Superiore generale e decidere sui testi della Regola e sulla Guida delle Scuole.17 In questo periodo è incaricato, dal nuovo Superiore generale Fratel Barthélémy, di pubblicare gli esiti di questo lavoro: la
15 FR. FÉLIX-PAUL, Les Lettres de saint Jean-Baptiste de La Salle, edizione critica, Parigi, Procura generale, 1954, Lettera 31 & 9, p. 161-163. 16 MAXIME FERLAND (FSC), Trecento anni di scuola lasalliana ad Avignone e in Valchiusa, Avignone, 2004, p. 18. 17 Capitoli generali dell’Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane, storico e decisioni, “Secondo Capitolo generale, 1717”, Parigi, Casa Madre, 1902, pp. 10-13.
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prima edizione della Guida delle Scuole, è stampata ad Avignone nel 1720, presso Joseph Charles Chastagnier e consta di 218 pagine. Alla morte di Fratel Barthélémy, nel mese di agosto 1720 viene organizzato un nuovo Capitolo generale. Fratel Timoteo fa parte dell’Assemblea e il 7 agosto è eletto Superiore generale.18
2. Il secondo Superiore generale (1720-1751) Le lettere patenti (28 settembre 1724): riconosciute ufficialmente dal Parlamento di Rouen Fratel Timoteo è un amministratore impareggiabile e il buon esito delle lettere patenti19 per la Casa di Saint-Yon nel 1724, che rappresenta una delle prime tappe dell’autorizzazione legale dell’Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane, ne è esauriente conferma.20 Le lettere patenti sono concesse alla Casa di Saint-Yon e registrate dal Parlamento di Normandia. La Bolla di approvazione (26 gennaio 1725) riconoscimento da parte della Santa Sede La Bolla di approvazione di papa Benedetto XIII del 26 gennaio 1725, che rende ufficiale il riconoscimento dell’Istituto, è registrata il 12 maggio dal Parlamento di Rouen. Il Capitolo del 1725 inizia il 6 agosto con un ritiro predicato da due gesuiti e alcuni dei direttori del gran seminario di Rouen. Il tema principale del Capitolo è la Bolla di approvazione: “L’Assemblea generale, successivamente, sistemò alcune questioni importanti derivanti dalle Lettere patenti concesse all’Istituto da Luigi XV, nel mese di settembre 1724”.21 I trenta partecipanti al Capitolo generale, a Saint-Yon, ricevono formalmente la Bolla di approvazione e il 15 agosto, giorno dell’Assunzione della Vergine Maria, i Fratelli capitolari, insieme a tutti gli altri Fratelli, rinnovano i loro voti secondo i suoi dettami. Fratel Timoteo, presentate le dimissioni, è rieletto all’unanimità; dei due Fratelli Assistenti, anch’essi dimissionari, Fratel Jean Jacquot è sostituito da Fratel Irénée, mentre Fratel 18 Blain scrive che Giovanni Battista de La Salle aveva notato in Fratel Timoteo “la discrezione, l’uniformità d’animo, il buono spirito, la dolcezza e i modi gentili ed educati, doti che avevano colpito il Fondatore e meritato la sua approvazione per essere un giorno superiore”, Libro 3, cap. XIX, pp. 193-194. 19 Archivi della Casa Generalizia di Roma, C. B. 151, n° 2. Casa Madre, Saint-Yon, Rouen, pratica n° 11: Lettere patenti per l’Istituto dei F. S. C. e la Casa di Saint-Yon del settembre 1724. 20 A questo riguardo vedi: H. BEDEL, Études lasalliennes, n° 5 e MAGALI DEVIF, FR. ALAIN HOURY, PHILIPPE MOULINS, FR. FRANCIS RICOUSSE, La maison del Frères des Écoles Chrétiennes de Saint-Yon. Les lettres patentes de septembre 1724, Rivista Lasalliana, n° 81 (3), Roma, 2014, pp. 409-425. 21 Capitoli generali dell’Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane, storico e decisioni, “Quarto Capitolo generale, 1725”, Parigi, Casa Madre, 1902, p. 17.
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Joseph Le Roux viene rieletto. La Bolla chiede ai Fratelli di aggiungere i voti di povertà e castità a quelli di obbedienza e di associazione per tenere insieme le scuole gratuite e di stabilità nell’Istituto. I Capitoli (1725, 1734, 1745) e la redazione della Regola Per adeguare le Regole e Costituzioni alla Bolla di approvazione22, il Capitolo del 1725 necessita di 32 sedute, prima di approvare la pubblicazione della nuova Regola. Fratel Jean Jacquot (1672-1759) dà il suo contributo a Fratel Timoteo nei diversi settori, specialmente in quello delle pubblicazioni ed è responsabile della prima edizione della Regola, il 1° aprile 1726: Regole e Costituzioni dell’Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane, approvate dal Nostro Padre il Papa Benedetto XIII, Rouen, tipografia di Antoine Le Prevost, 1726, 122 pp. + 4 p. di indice.23 Lavora, inoltre, insieme a Fratel Bernard, scelto per redigere la biografia di Giovanni Battista de La Salle. Nel 1727 Fratel Timoteo, per ringraziare il papa dell’approvazione dell’Istituto, invia a Roma due Fratelli che sostituiscono Fratel Gabriel Drolin il quale, presente in Roma fin dal 1702, può così fare ritorno in Francia. La Bolla di approvazione prevede che il Capitolo generale debba celebrarsi ogni dieci anni, con le eccezioni imposte dalle circostanze. Il Capitolo del 1734 è convocato da Fratel Timoteo, con un anno di anticipo rispetto a quello previsto nel 1735, per approfittare della presenza eccezionale, a Saint-Yon, dei Direttori giunti a Rouen per la traslazione dei resti mortali del Signor de La Salle dalla chiesa di Saint-Sever alla cappella del Convitto di Saint-Yon, appena terminata (e ciò consentirà di evitare spese e fatiche supplementari). Durante il Capitolo, che si svolge a Saint-Yon dal 16 luglio al 2 agosto, Fratel Etienne (Jean Pérotin), direttore della casa di SaintOmer, è eletto Fratello Assistente, mentre Fratel Irénée conserva le sue funzioni di primo Assistente. All’inizio dell’assemblea si afferma: “Anzitutto il Capitolo generale riconosce che non deve e non può cambiare, modificare o aggiungere nulla alle sante Regole e costituzioni che ci sono state date dal signor Giovanni Battista de La Salle, nostro venerabile Fondatore, approvate dal santo Padre il papa Benedetto XIII e modificate dal Capitolo generale del 1725 in conformità alla Bolla di approvazione del nostro Istituto. Queste sono le principali decisioni: 22
Essa [L’Assemblea] si interessò soprattutto di verificare il testo delle Regole, a cui dedicò 32 sedute. In applicazione degli articoli 8 e 9 della Bolla di approvazione, inserì nelle Regole due nuovi capitoli: uno sui voti e l’altro sugli obblighi imposti dai voti. Inoltre fece qualche leggera aggiunta o modifica […]. Decise di pubblicare la Regola comune, in modo che non vi fossero più modifiche dovute agli errori dei copisti”; cfr. Capitoli generali…, pp. 17-18. 23 CL 25, p. 3, nota 3.
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[…] V. La Regola del Fratello Direttore sarà stampata, egli la leggerà il primo giorno di ogni mese dell’anno. VI. Sarà stampata anche la Spiegazione della prima parte dell’Orazione mentale scritta dal Signor Giovanni Battista de La Salle. VII. Si faranno diverse copie manoscritte della Regola del Governo che saranno confrontate con l’originale, quindi ogni pagina sarà siglata dal Superiore e firmata da lui e dai suoi Assistenti”.24
Il Capitolo del 1745 si svolge a Reims, dal 27 maggio al 3 giugno. Queste le principali decisioni: “I. In ogni casa sarà inviata la Nota delle cose di cui un Direttore deve render conto e si faranno stampare quanto prima […] III. Tutte le case dell’Istituto dovranno disporre del libro intitolato la Bibliotèque janséniste, in due volumi, per conoscere i libri proibiti. IV. Nelle nostre case non si userà più il Catechismo di Montpellier, scritto da Colbert, perché contiene proposizioni gianseniste. […]. VI. I Fratelli Direttori saranno attenti ad osservare e fare osservare, le disposizioni delle visite, soprattutto se saranno state approvate dall’onoratissimo Fratello Superiore. VII. Le obbedienze che il Fratello Direttore di Avignone invierà ai Fratelli oltre Lione saranno eseguite come se fossero del Fratello Superiore, poiché egli stesso le ha autorizzate. IX. Nelle scuole si farà uso del sillabario del signor de La Salle. X. Non sarà consentito insegnare, ad alunni o ad altri, fuori dell’orario scolastico, in modo che i Fratelli possano seguire tranquillamente i loro esercizi”.25
Al Capitolo del 1751, Fratel Timoteo rassegna le dimissioni. Le decisioni approvate durante i Capitoli dal secondo Superiore vennero applicate per migliorare l’amministrazione dell’Istituto e uniformare il modo di vivere delle comunità con la redazione delle Regole o di testi ad uso dei Direttori o dei Fratelli; obiettivo fu quello di organizzare la congregazione secondo una politica complessiva omogenea ed unitaria per tutte le comunità e scuole dell’Istituto. 2.1. - Espansione della Congregazione Apertura di nuove scuole e convitti Durante i 31 anni di generalato di Fratel Timoteo, 60 scuole si sono aggiunte a quelle esistenti agli inizi del suo mandato, tutte situate in Francia, tranne una a Ferrara, in Italia (1741), e un’altra a Estavayer, in Svizzera 24 25
Capitoli generali…, “Quinto Capitolo generale, 1734”, p. 20. Idem, “Sesto Capitolo generale, 1745”, pp. 22-23.
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(1750). C’è anche un tentativo (abortito) di apertura in Canada. Dal 1735 al 1740, si aprono 26 scuole: 1735: Bollène (Comtat-Venaissin), Dole (Franche-Comté), Soisson (Picardie). 1736: Le Croisic (Bretagne), Die (Dauphiné), Bar-le-Duc (Lorraine), Vire (Normandie), Aix-en-Provence (Provence), Cherbourg (Normandie). 1737: Bourges (Berry), Parigi (scuola della Maddalena). 1738: Rennes (Bretagne), Reims (scuola Saint-Hilaire), La Fère (Picardie), Carcassonne (Languedoc). 1739: Noyon (Picardie), Bourg-Saint-Andréol (Languedoc). 1740: Saillans (Champagne), Fontainebleau (Île-de-France), Orléans (Orléanais), Saint-Ambroix (Languedoc), Darnétal (scuola di Longpaon), Abbeville (Picardie), Arles (Provence), Mens (Dauphiné), Châteudun (Île-de-France). Molte di queste scuole accolgono anche convittori, come a Saint-Omer (1725), Maréville (1749) e Marsiglia (1750); talvolta tra questi vi sono casi un po’ difficili, come a Saint-Yon, ma è la retta da loro elargita che serve a sovvenzionare i Fratelli e le case dei Fratelli anziani.26 Reclutamento dei Fratelli e sviluppo delle case di formazione Di fronte al successo incontrato dai Fratelli e alla dispersione delle comunità su tutto il territorio francese, si impone la necessità di aprire nuove case di formazione27 oltre al noviziato di Rouen, molto distante dalla case del Sud e dell’Est. Fratel Timoteo, nel 1729, apre un noviziato ad Avignone, città nella quale aveva lavorato prima della sua elezione a Superiore e questo non avviene per caso: i Fratelli vi si sono stabiliti fin dal 1703, il Fratello direttore delle scuole riveste anche il compito di visitare le comunità del Sud e la città è il centro amministrativo per la parte meridionale della Francia. Nel mese di settembre 1728, Fratel Timoteo vi organizza un ritiro ed inizia la redazione del “Registro dei voti”, manoscritto di 130 pagine nel quale sono trascritti i nomi dei Fratelli che hanno emesso i loro voti perpetui.28 La fondazione assolve anche ad una funzione di ordine pratico: “Avendo notato, Noi sottoscritto, superiore generale dei Fratelli delle Scuole Cristiane in visita alle nostre case al di qua di Lione, che è scomodo e dannoso, per
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Vedi DOMINIQUE CELLIER, Les pensionnats des Frères des Écoles Chrétiennes au XVIII siècle. Infrastructures, règlements et population, Master 2, diretto da Olivier Chaline, Université de la Sorbonne, Paris IV, 2014, 158 pp. 27 Non dimentichiamo l’apertura del noviziato di Marsiglia nel 1712 da parte di Giovanni Battista de La Salle, del quale lo stesso Fratel Timoteo fu Direttore soltanto per qualche mese. 28 MAXIME FERLAND (FSC), op. cit. p. 20.
Fratel Timoteo, 2° Superiore Generale (1720-1751) - Discepolo del fondatore
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i Fratelli di queste case, recarsi a Rouen per emettervi i voti, considerata la distanza; non solo è sfiancante, ma è anche uno spreco e una spesa”.29
A Dole, nell’Est, nel 1747 – dodici anni dopo l’apertura delle scuole – si fonda un altro noviziato: “Successivamente, in seguito ad un accordo, il Signor de Mesnay, aveva alienato i suoi diritti sulle case occupate dai Fratelli al Signor Broch d’Hotelans il quale, con atto pubblico, li donò ai Fratelli delle Scuole Cristiane e di Carità della comunità di Saint-Claude, con gli stessi oneri e condizioni già esistenti per la stessa casa dei Fratelli di Dole: un noviziato a vita, dove saranno accolti quanti si presenteranno per restare in convitto; la costruzione, quanto prima possibile e a loro spese, di una cappella per celebrarvi la Santa Messa nei giorni di scuola e negli altri giorni, in modo da evitare a Fratelli, alunni e convittori di uscire di casa come fanno oggi; infine l’impegno a celebrare, da parte dei Fratelli, tre messe solenni il giorno della morte di monsignore l’arcivescovo di Besançon. I Fratelli hanno accettato, l’atto è stato stilato e registrato a Rouen nello studio degli Avvocati Lecoq e Doury, l’anno 1746, il 28 dicembre. Da parte dei Fratelli, hanno firmato: FF. Timoteo, Superiore generale, Irénée, 1° Assistente, Etienne 2° Assistente”.30
Fratel Généreux, nominato direttore del Noviziato di Dole, inizia le pratiche presso l’arcivescovo di Besançon per l’apertura e la costruzione della cappella.31 La casa di formazione di Dole chiude nel 1771 per la vetustà delle costruzioni, i postulanti sono inviati al noviziato di Maréville, aperto fin dal 1751. A Maréville, nelle vicinanze di Nancy, l’apertura del noviziato è decisa fin dal Capitolo generale del 1751. La deliberazione, datata 1749, registra le prime trattative tra l’Istituto e re Stanislao: “Con atto del 22 luglio 1749, si stabilisce che l’Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane si sarebbe impegnato, dietro pagamento di 33.000 lire di Francia, “ad inviare almeno sette Fratelli, o un numero maggiore se sarà necessario, che curino la casa di correzione di Maréville, vicino Nancy, e sobborghi corrispondenti […]; a permettere che nella casa di Maréville sia consentita all’Istituto l’apertura di un Noviziato del loro Ordine; a ricevere convittori alle condizioni stabilite con loro o
29 Fondi del Distretto Mezzogiorno-Mediterraneo, dorso 09 D 90, “Estratto della monografia sul Distretto di Avignone”, p. 10, tratto dal Registro dei voti conservato agli Archivi della Casa Generalizia a Roma. 30 Archivi lasalliani, Fondi del Distretto di Besançon, dorso 06 D 292. “Noviziato dei Fratelli delle Scuole Cristiane in Franche-Comté”, storico dattiloscritto, s. d., p. 10. 31 Idem, pp. 11-12. Trascrizione della corrispondenza intercorsa tra Fratel Généreux e l’Arcivescovo di Besançon nel mese di gennaio 1747, documenti conservati negli Archivi municipali di Dole.
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con i loro genitori; sono, altresì, tenuti ad accogliere, vigilare e mantenere le persone che il Principe vorrà inviarvi dietro suo ordine, col pagamento di una somma annuale di 300 lire di Francia”. L’Istituto prende possesso di Maréville il 19 settembre 1749, con mandato attribuito ai Fratelli Exupère e Anastase Direttori”.32
Le tre case di formazione, oltre a quella di Saint-Yon, con l’accresciuto numero di Fratelli hanno consentito all’Istituto di rispondere alle tante richieste di apertura di scuole e la congregazione, insediata in ambito molto localizzato, ha potuto espandersi in tutto il regno. 2.2. - Ricerche e celebrazione del Fondatore Lo stile dei biografi del Fondatore Fratel Timoteo chiede che la biografia sia scritta anzitutto da Fratel Bernard e poi dal canonico Blain, cappellano a Saint-Yon e nipote di Giovanni Battista de La Salle. Il lavoro svolto da Fratel Bernard consiste, anzitutto, nel raccogliere le testimonianze dei Fratelli più anziani o che hanno conosciuto bene il Fondatore per redigerne la biografia (a noi è giunto soltanto un manoscritto datato 172133). Jean-Louis de La Salle, uno dei fratelli di Giovanni Battista, consultato riguardo al progetto, rilegge i manoscritti di Fratel Bernard e, nello stesso tempo, chiede ad un membro della sua famiglia, François-Élie Maillefer, di scrivere un’altra biografia34 che risulterà non rispondente allo spirito ed all’impostazione dell’Istituto, per la vicinanza di Jean-Louis e François-Élie agli ambienti giansenisti. Fratel Bernard non completa il suo compito, ripreso dal canonico Blain il quale sembra aver utilizzato in parte il lavoro di Fratel Bernard ed in parte quello di François Maillefer: alcuni Fratelli sollevano obiezioni e critiche al lavoro di Blain, ma Fratel Timoteo prende le difese dell’autore e La Vie de Monsieur Jean-Baptiste de La Salle, Insituteur del Frères des École chrétiennes scritta dal canonico Blain è pubblicata nel 1733. Riconoscimento delle sue virtù per la beatificazione Per avviare il processo di canonizzazione di Giovanni Battista de La Salle, Fratel Timoteo affronta diverse spese: a Saint-Yon, nel 1735, fa rilega32
“Maréville” in Bulletin des Écoles chrétiennes, 2° anno, n° 2, marzo 1908, Casa Saint-Joseph, Lembecq-lez-Hal (Belgio), pp. 69-70. 33 Cahier Lasallien 4: F. BERNARD, Conduite admirable de la divine Providence, en la personne du vénérable Serviteur de Dieu, Jean-Baptiste de La Salle…, Edizione del manoscritto del 1721, 1965, XXV, 105 pp. 34 Cahier Lasallien 6: MAILLEFER FRANÇOIS-ÉLIE, La vie de M. Jean-Baptiste de La Salle, prêtre, docteur en théologie, ancien chanoine de la cathédrale de Reims, et Instituteur des Frères des Écoles chrétiennes…, Edizione comparata dei manoscritti del 1723 e del 1740, 1966, 313 pp.
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re, per 25 baiocchi l’uno35, 11 copie dei due volumi del canonico Blain da un tipografo italiano e nel 1737 invia altri 25 esemplari ai notabili della curia romana. Stanzia, infine, 25 scudi per una copia di istruzioni, articoli e questioni necessarie per il processo diocesano sulla santità, le virtù e i miracoli di Giovanni Battista de La Salle. Nel mese di maggio 1741, una copia della biografia scritta da Blain è inviata a Papa Benedetto XIV. Nel 1742, Fratel Timoteo certifica il miracolo di cui lui stesso ha beneficiato. Pubblicazione dei suoi scritti In risposta ai desideri del Capitolo generale del 1725, Fratel Timoteo insiste sulla pubblicazione degli scritti del Fondatore, tanto per i Fratelli che per gli alunni. La Raccolta di diversi piccoli trattati del 1711 è ristampata nel 1726, i Doveri di un cristiano nel 1727, le Regole di buona creanza ed educazione cristiana nel 1729, le Meditazioni per il Tempo del Ritiro e le Meditazioni per le Domeniche e Feste (separatamente) probabilmente nel 1730, le Istruzioni e Preghiere per la Santa Messa, la confessione e la comunione nel 1734. Nel 1734, il Capitolo delibera che: “Si pubblicherà anche la Spiegazione della prima parte dell’orazione mentale, scritta dal Signor Giovanni Battista de La Salle”.36
3. Il tempo delle prove 3.1. - La campagna diffamatoria orchestrata dai Giansenisti I redattori delle Nouvelles Ecclésiastiques ou Mémoires pour servir à l’histoire de la Constitution Unigenitus fin dal 1733 riportano le disavventure dell’Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane. Secondo loro i Fratelli di SaintYon, gli “Ignorantelli”, sono influenzati dalla Compagnia di Gesù; schierati contro i Gesuiti, i Giansenisti beneficiano del sostegno di corrispondenti locali che forniscono dati su un buon numero di istituzioni scolastiche, informazioni in gran parte pubblicate nelle Nouvelle Ecclésiastiques. Lo stampato è diffuso clandestinamente – in maniera episodica a partire dal 1713 e regolarmente dal 1728 al 1803 – con lo scopo di denunciare le rovine prodotte dalla Bolla Unigenitus nel clero e nella società francese, oltre che di distruggere le Compagnia di Gesù. In un prossimo numero di Rivista Lasalliana pubblicheremo un articolo sull’argomento, per ora elenchiamo i principali istituti riportati dal periodico giansenista. “Questo Istituto [secondo i giansenisti] è particolarmente protetto dai
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Un po’ più di uno scudo a volume. Capitoli generali… “Quinto Capitolo generale, 1734”, p. 20.
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Gesuiti, a motivo della politica e dalla cupidigia”.37 Il periodico critica i metodi educativi, evoca il costo delle rette e la violenza nei convitti. I principali istituti ricordati sono Aix, Marsiglia, Parigi, Saint-Yon: “Saint-Yon (i Fratelli di) detti anche Fratelli de La Salle o Fratelli Ignorantelli. Istituzione moderna voluta dal Signor Giovanni Battista de La Salle per dirigere scuole di bambini. Il loro Noviziato, nella Casa di Saint-Yon a Rouen diretto dal Superiore generale che si chiama Timoteo che può controllare tutte le altre Case, già molto numerose, tramite un Direttore generale che si chiama Ireneo in precedenza nelle schiere d’Italia e portato da Roma dal Fratello de La Salle”.38 3.2. - I processi connessi all’asservimento ai diritti di ammortamento Il diritto di ammortamento “è un diritto che si paga al Re per l’acquisizione di un immobile e può riguardare anche persone di manomorta. La persona di manomorta, che non può possedere, paga al momento dell’acquisto e non nella successione”.39 Fin dagli inizi del 1720, Fratel Timoteo deve affrontare in merito diversi processi lunghi e costosi, ma, alla fine, favorevoli nei pronunciamenti all’Istituto: “I Fratelli delle Scuole Cristiane di Saint-Yon della città di Rouen, imputati per Diritti di Ammortamento in vari acquisti fatti, di immobili ed eredità, nei contratti del 20 novembre 1721, 22 novembre 1729, 7 febbraio 1731, 20 giugno e 17 novembre 1732, ne sono stati esentati con le Ordinanze del 5 febbraio 1726 e 9 dicembre 1735, visto che in questi contratti hanno dichiarato che gli acquisti erano fatti per le Scuole cristiane e di carità”.40 Il 18 ottobre 1739, una nuova sentenza “dispensa i Fratelli delle Scuole cristiane di Saint-Yon di Rouen, dal diritto di ammortamento” con decisione che “conferma le ordinanze dei Signori Intendenti”.41 Lo stesso giorno anche i Fratelli di Laon sono esentati dall’imposta. 37 Indice ragionato e alfabetico delle Nouvelles Ecclésistiques, dal 1728 al 1760 incluso, seconda parte, [s.l.], 1767, p. 805. 38 Ibidem. 39 CLAUDE-JOSEPH DE FERRIERE, Dictionnaire de droit et de pratique, contenant l’explication des termes de droit, d’Ordonnances, de Coutumes & de Pratique, avec les jurisdictions de France, Paris, Durand, 1770, p. 775. 40 M. DUBIST, Jurisprudence du Conseil, ancienne, moderne et actuelle, sur la matière des amortissements, franc-fiefs, nouve-acquest et indennité, presso G. Lamesle, Paris, 1759, t. l, pp. 390-391. 41 Ibidem.
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“Un’altra decisione del 18 ottobre 1739, conferma l’ordinanza del Signor Intendente di Soissons del 27 maggio 1735, con la quale i Fratelli delle Scuole Cristiane della città di Laon, sono stati esentati dal diritto di ammortamento per l’acquisto di una casa con atto del 24 maggio 1727. L’ordinanza si basa sul fatto che la casa funziona come scuola e che i Fratelli della comunità di Laon dipendono dalla casa di Saint-Yon della città di Rouen: l’acquisto è stato concluso dal Superiore generale della suddetta comunità di Saint-Yon di Rouen, insieme al Direttore dei Fratelli delle scuole cristiane di Laon”.42
Dopo una breve tregua, l’Istituto deve affrontare nuovi processi. Il 19 maggio 1745, i Fratelli di Saint-Yon che rappresentano la casa di Saint-Omer sono condannati al pagamento di 242 lire e 4 soldi: “L’affittuario ha sostenuto che nelle Province di Fiandra, Haynaut e Artois, gli Ospedali, per i poveri e di carità, sono soggetti al diritto di ammortamento dei beni acquistati per un anno e mezzo di introito, a norma della Dichiarazione del 22 novembre 1695 e 9 marzo 1700, confermata dalla Sentenza del 21 gennaio 1738: così i Fratelli di Saint-Yon debbono pagare 242 lire e 5 soldi per un anno e mezzo di introito (cioè il 5% di 3115 lire, prezzo dell’acquisto). La decisione riporta: I Fratelli delle Scuole cristiane di Saint-Omer, debbono pagare i diritti di ammortamento come e nella stessa misura degli ospedali e scuole di carità di Fiandra e Artois”.43
Il 20 ottobre alla Casa di Angers, a seguito di una donazione, sono richieste 1074 lire per diritti di ammortamento. I Fratelli vincono la causa: “L’ordinanza del Sig. Intendente è confermata”.44 Anche a Rennes i Fratelli sono incalzati: “I Fratelli delle Scuole Cristiane di Saint-Yon, diocesi di Rennes, sono stati inquisiti dall’Esattore per diritti di ammortamento. L’Assemblea del 1745, dinanzi alla quale essi fecero ricorso, incaricò i Funzionari di fare i passi necessari per esonerare Fratelli. T. VII, p. 2045”.45
Nel XVIII secolo l’asservimento ai diritti di ammortamento è un problema ricorrente per l’Istituto e i successori di Fratel Timoteo si troveranno ad affrontare numerosi procedimenti. 42
Idem, p. 391. Idem, pp. 415-416. In effetti, il Regolamento del 21 gennaio 1738 “che concedeva l’esenzione dal diritto di ammortamento agli ospedali generali e particolari, e alle case e scuole di carità delle Province interne al Regno, fa eccezione formale per le Province di Fiandra, Haynaut e Artois”. 44 Idem, pp. 391-395. 45 Compendio in ordine alfabetico o indice ragionato delle materie contenute nella nuova raccolta di verbali delle Assemblee Generali e particolari del clero di Francia, con una indicazione degli articoli riportati nell’indice generale, Guillaume, Desprez, Parigi, 1780, p. 118. 43
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Comprendendo che le forze lo abbandonavano, il secondo Superiore generale dell’Istituto riunisce il Capitolo del 1751, che elegge Fratel Claude. Fratel Timoteo, muore qualche mese dopo, il 2 gennaio 175246 e riposa nella cripta della cappella di Saint-Yon, vicino al Fondatore di cui ha fatto traslare i resti nel 1734.
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Archivi dipartimentali di Seine Maritime, dorso 4E 02218, Registro Rouen (comunitĂ Istituto dei Fratelli delle Scuole cristiane detti di Saint-Yon) 1751-1759, atto di sepoltura di Guillaume Samson Bazin, detto Fratel Timoteo, datato 8 gennaio 1752.
Rivista Lasalliana 82 (2015) 2, 255-281
TONINO COSTANZO (1934-2014) EX-ALUNNO DI FR. MARIO GROTTANELLI (Gloria discipuli gloria magistri) R. LUIGI GUIDI Studioso di questioni umanistico-rinascimentali
SOMMARIO: 1. Il campione esce di scena senza applausi e a fari spenti. - 2. Una tradizione che non dovrebbe temere le novità per arricchirsi. - 3. Un alunno tra libri e canestri e un Frère da strappare all’oblio. - 4. Una flebite provvidenziale? - 5. Un incubo kafkiano. - 6. Una squadra ricca di un’allegra povertà. - 7. Tonino alter Marius. - Appendice.
1. Il campione esce di scena senza applausi e a fari spenti
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uando anche Tonino, al pari del suo maestro Frère Mario Grottanelli, ebbe compiuto il tempo concessogli, la stessa morte nel prenderselo volle farlo adattandosi ai suoi moduli: lo fece nel silenzio, nella discrezione e nell’ombra. Questo atto di rispetto, riservatogli dalla parca, lo notò anche il dispaccio dell’ADNKronos: «se ne è andato nel pomeriggio di domenica [21 dicembre], silenziosamente, con quella discrezione da gentiluomo che lo hanno fatto amare dovunque abbia spezzato il pane del suo sapere cestistico. Riposava nel suo letto e il trapasso è stato quello che, forse a ragione, viene chiamato il sonno dei giusti. Antonio ‘Tonino’ Costanzo avrebbe compiuto gli anni il prossimo 2 gennaio e le sue quasi 81 primavere le portava con il piglio del ragazzino. È stato pivot di alta scuola nato e cresciuto nella Stella Azzurra. Giocò 46 partite in Nazionale realizzando 359 punti, disputando due campionati Europei, quelli del 1953 e del 1955. Fu lui, in una giornata storica quando a Piazza san Pietro Stella Azzurra e Pesaro si esibirono davanti al Papa, a consegnare nelle mani di Pio XII un pallone da basket. Un grave problema fisico ne interruppe prematuramente la carriera agonistica e Tonino si lanciò con passione dall’altra parte della barricata divenendo allenatore. Compito che ha svolto con amore e dedizione rivestendo anche negli ultimi anni ruoli importanti presso la Federazione Italiana Pallacanestro (FIP) regionale. Su Facebook, nel piangerne la scomparsa, Valerio Bianchini ha scritto: ‘Se ne è andato portando con sé i suoi preziosi insegnamenti sul gioco del pivot’. Addio Tonino, ti sia lieve la terra».1
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Il dispaccio fu rilanciato da Il Tempo 23/12/ 214. – Tutto l’intervento di Tonino lo si può riascoltare su YouTube, https://www.youtube.com/watch?v=I25WQNBfS5s
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Valerio Bianchini ha sempre avuto in grande considerazione il collegio s. Giuseppe Istituto de Merode, e in risposta a un messaggio nel quale gli si esprimeva simpatia per i riguardi dimostrati in ogni occasione per la Stella e il suo entourage, volle spingersi oltre: «ti ringrazio – scrisse all’interlocutore – delle generose espressioni che usi nei miei riguardi, tuttavia sono io ad essere stato beneficiato dal mio incontro con la Stella Azzurra. Allenare la squadra del Collegio è stato per me un upgrade incredibile: un giovane allenatore con poca esperienza e molto studio, si è rivestito per riflesso della grande tradizione della pallacanestro romana, venendo scelto dalla sua espressione più alta e autorevole. […]. Ancora oggi conservo il ricordo e l’emozione di essere stato ‘scelto’ quale allenatore di quel gruppo dirigente, nato dalla covata di dirigenti allevata da Fratel Mario e continuo a nutrire per la Stella una profonda gratitudine. Le tue parole sono state il mio più bel regalo di Natale». Fin dalle esequie di Tonino alle quali intervenne l’intero mondo della Stella Azzurra, la squadra di basket targata Collegio s. Giuseppe,2 si avvertì la convenienza di non perdere al tutto quell’uomo che, andandosene, sembrava togliere, e non solo ai presenti, una parte notevole del proprio passato; e per tradurre quel desiderio in realtà gli Stellini dovevano sedersi idealmente intorno a un tavolo e ragionarne. Qualche giorno dopo il funerale, fu rivolto loro il messaggio che segue: «Premesso un caloroso ringraziamento a Sandro Spinetti, impagabile nell’erogare torrenti di energia quando si parla di Stella, vi dirò che è il mio intento scrivere qualcosa su Tonino per portarlo nella location più alta dei Frères […].Vi chiedo ricordi circostanziati di concretezza e senza fronzoli (quello di cui parli dove è successo, quando è successo, cosa ne è scaturito, chi c’era con te ecc. ecc.); è mio desiderio non fare 2
Stefano Albanese non poté prender parte al funerale, perciò ricevette alcune istantanee della cerimonia, con una riflessione di accompagnamento: «Tonino ci ha lasciato in punta di piedi, quasi scusandosi di averlo fatto senza salutarci. Qui lo vediamo ai piedi dell’altare e mentre, portato a braccia, si avvia al riposo eterno. In quello scrigno, che ne protegge le spoglie, confluisce il nostro rimpianto, solidali con lui mentre si ricongiunge con Frère Mario. La sua assenza ci lascia più soli e più poveri, malgrado ciò abbiano perso la sua persona, non la sua umanità; se non sentiremo più la sua voce, ne conserveremo il ricordo, persistendo nell’attaccamento ai colori di una Stella che oggi, accogliendolo, sembra riaffermare il nostro destino di immortalità e di luce vicino a quel Dio che, ‘prestandocelo’, lo ha richiesto come a metterlo nella sua squadra speciale, che vorremmo destinata alla nostra protezione». Stefano Albanese emigrato dalla Stella in quel di Vigevano, dove divenne il motore inesauribile del basket locale fino a meritarsi l’omerico appellativo di Supremo Aiace, risulta insieme a Vittorio Tracuzzi (frequentò anche lui la palestra del Collegio negli anni 1947-48), il cestista più noto della Sicilia; quanti vogliono saperne di più, ricorrano al suo Cuore canestri e successi (Pianeta basket edizioni 2011), che equivale a una galleria luminosa di ricordi ed emozioni lunga trecento pagine, nelle quali la Stella e il Collegio trovano ampio spazio.
Tonino Costanzo (1934-2014) ex-alunno di Fr. Mario Grottanelli
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il ‘santino’ di Tonino Costanzo, ma di tramandare anche ai vostri nipoti il profilo di un uomo con il quale avete convissuto, gioito e, forse anche sofferto, stimandolo e identificandovi con lui, per cui tutto quello che lo riguarda non può lasciarvi indifferenti. Siano altri a tracciare il profilo dell’atleta e a rievocarne in dettaglio la vita, le amicizie, le insofferenze, o le propensioni; qui interessa l’uomo nei suoi rapporti con gli ambiti del Collegio, anche se così facendo si finirà per comprimere le innumerevoli facce del prisma, riducendolo a una figura piatta, priva di quei riverberi cangianti con cui la luce si anima e si riflette all’esterno quando attraversa il cristallo».
2. Una tradizione che non dovrebbe temere le novità per arricchirsi Tentare di comprendere o, almeno, di farsi un’idea sulla varietà e la consistenza sociale del mondo che ha frequentato le istituzioni dei Fratelli delle Scuole Cristiane (F.S.C.) in Italia, dove essi lavorano da oltre trecento anni, è fatica improba e, purtroppo, sconsigliabile in quanto destinata a non fornire risposte nemmeno approssimative; d’altronde perché farlo, e cui prodest? Ha un senso appellarsi alle glorie della propria storia, se a promuoverlo è il sospetto di non avere accrediti sufficienti per imporsi e riscuotere, a livello personale, la stima da un pubblico fattosi molto avaro nel concedere apprezzamenti e confidenza alla scuola, cui pur demanda l’educazione dei figli? Tuttavia se si hanno le carte il regola e non si temono sgradevoli confronti con i predecessori illustri, il recupero e il presidio a difesa delle glorie domestiche dovrebbe essere un obbligo, oltre che una necessità morale: la consapevolezza di sapersi depositari di un aristocratico blasone, infatti, non si esaurisce nella salvaguardia gelosa del proprio passato, ma esige da quelli che se ne dichiarano custodi il potere di rivisitarlo per riprendere, con novità di proposte e adeguate competenze, quanto di valido lì vi ristagna in forme vaghe, implicite, o sospese, per concluderlo portandolo a maturazione. La storia, infatti, non si identifica con il culto sterile delle insegne, delle divise e degli stemmi, perché non è archeologia, o l’ansa nella quale gli spiriti nostalgici gettano l’ancora per darsi al sogno: più semplicemente essa è percezione critica del tempo e dei suoi contenuti, nei cui ambiti antico e moderno si configurano, in modo dinamico, tra chi ha da insegnare e chi da apprendere, tra chi comincia e chi dovrà procedere, né certo a caso Cicerone definì la storia «magistra vitae». Oddio, parlare qui di storia sa di immodestia, o di cerimoniale enfatico, tuttavia sarebbe da persone dappoco non riconoscere i meriti di chi, trovatosi erede di un pingue patrimonio dopo il tirocinio, seppe con il proprio contributo arricchirne il capitale, potenziandone gli sbocchi e portando a maturazione quanto, rimasto interrotto, rischiava di perdersi per sempre. Sto rife-
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R. Luigi Guidi
rendomi ad Antonio Costanzo (Roma 1/2/1934-21/12 /2014), non al dottore in economia e commercio, né a quell’uomo che, per la sua imponenza fisica, moderata peraltro da una olimpica serenità, sapeva mettere quanti lo avvicinavano nella condizione di esprimere sempre la parte migliore di sé; ne sto, invece, ragionando (certamente in modo inadeguato) per essere rimasto, vita natural durante, nell’orbita dei Fratelli o, ad essere più esatti, in quella del collegio s. Giuseppe-Istituto de Merode, considerandone le vicende un qualcosa di personale, anzi identificandovisi fino a far dipendere i propri stati d’animo da quanto lì accadeva. Ed ecco come andarono le cose. La seconda guerra mondiale stava riducendo l’Italia in macerie e tutto era allo sfascio, ma non riuscì a chiudere il Collegio, e i Frères, con il mondo che gli cadeva addosso, proseguirono imperterriti a far scuola, e forse per questo i coniugi Costanzo decisero di mettere lì il figlio; il fatto, poi, che il ragazzo facesse le elementari e abitassero lontano (loro risiedevano in zona s. Paolo fuori le mura) suggerì la soluzione del convitto. Il Collegio, così, divenne per lunghi anni la seconda casa di Tonino;3 comunque se il ragazzo avesse seguito la sorte dei compagni, oggi non staremo a ricordarlo qui e in questi termini, però va precisato che nella scala prioritaria dei Frères prima veniva il ragazzo e poi l’alunno. Il riscontro lo si ha quando si considera lo spropositato numero di opzioni da essi offerto a quanti li sceglievano per maestri; quindi definire il Collegio di quei giorni una scuola si rivelerebbe molto inibente.
3. Un alunno tra libri e canestri e un Frère da strappare all’oblio Quella istituzione al centro della città risultava un autentico microcosmo, con un ventaglio di proposte ad alto tasso di gradimento offerte ai ragazzi, tanto da risultare poco credibili al giorno d’oggi, perché sottoscriverle significherebbe riconoscere a quegli uomini un ventaglio di competenze specialistiche difficili ad essere acquisite. Lì, insomma, l’associazionismo era possibile perché i Fratelli preposti alla schola cantorum, all’Azione Cattolica, agli scouts, alla s. Vincenzo, al gruppo dei volontari dediti all’assistenza dei baraccati al Borghetto Predestino, o all’aeromodellismo, avevano le capacità per gestirlo anzi per accrescerlo; né è tutto, in quanto sotto la designazione 3 In occasione dell’ultimo meeting dei Maturi Baskettari. tenutosi in in Collegio (4/4 2014), anche Costanzo prese la parola per rievocare a braccio la sua esperienza umana e sportiva al fianco di Frère Mario; ovviamente condì tutto in salsa romanesca, ma un dettaglio sui suoi giorni di convittore merita di essere recuperato: il sabato venivano in Collegio i genitori per riportarselo a casa, e quella birba li accoglieva dicendo: «e che ce vengo a fâ, sto bbene qui»!, https://www.youtube.com/watch?v=zuRcXxMM9zA; altra documentazione di quell’incontro vedila in https://www.youtube.com/watch?v=_AgaJHmb7tM.
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Stella Azzurra si celava un precipitato di sport tra i più articolati.4 I dubbi, in proposito, sono più che leciti, perché sembra si stia parlando di un college avveniristico, non di una scuola degli anni Quaranta, inserita in una spazio affetto da asfissia in Piazza di Spagna; gli scettici, però, possono sempre ricorrere alla rivista del Collegio dove le foto dei bus carichi di sciatori verso il Terminillo, quelle delle squadre di calcio in marcia sui campi del Gelsomino, o le altre con il lampeggio delle lame degli schermitori sulle pedane del Quadriportico, e i ‘mulinelli’ dei ginnasti alle parallele offrono agli increduli ampie possibilità per ricredersi. Il modulo pedagogico dei Frères aveva forti caratterizzazioni religiose, ma non bigotte, essi non volevano togliere la gioia di vivere ai ragazzi, né convincerli ad entrare in seminario, a meno che non lo decidessero in modo autonomo; lì, più semplicemente, ci si limitava a difendere con analoga energia il gioco e lo studio, l’accuratezza e il rigore nelle spiegazioni cui doveva far seguito una resa del profitto, tale da non deludere gli sforzi dei docenti, e indennizzare i sacrifici economici della famiglia. Non erano sporadiche, infatti, le richieste di trasferimento in corso d’anno da parte dei poco dotati o apatici, né i Frères si facevano scrupolo di bocciare gli infingardi.5 Tonino nel corpo di questa orchestra ebbe un ruolo di prestigio, anzi stette addirittura sul podio, ma non per motivi di studio (settore nel quale, ovviamente, fece la parte sua pur se con qualche difficoltà), ma per meriti di 4 Il basket, pertanto, era soltanto un’articolazione della polisportiva targata collegio s. Giuseppe-Istituto de Merode; successe, poi che gli allori raccolti per decenni sui parquet dell’intera nazione dai terribili ragazzi della pallacanestro, oscurarono gli altri sport praticati in Collegio. La Stella Azzurra era attiva da tempo, ma fu solo nel 1948 che i Frères la iscrissero alla FIP, e sotto quel nome c’era ben altro; l’annuario del Collegio (1950-51), in modo piuttosto impreciso, così ne dava notizia: «si è costituita quest’anno la società sportiva Stella Azzurra, per lo sviluppo delle attività sportive, agonistiche, e ricreative […]. Possono appartenere alla Stella Azzurra gli alunni del Collegio e dell’istituto, gli insegnanti e gli ex alunni […]. Nella Stella Azzurra si praticano gli sport seguenti: l) atletica leggera; 2) pallavolo; 3) pallacanestro; 4) calcio; 5) sci; 6) nuoto; 7) tennis; 8) tennis da tavolo; 9) pattinaggio; 10) ciclismo; 11) scherma […]», segnalato da A. BALZANI, Momenti di sport, Roma 1989, 25. E più tardi si aggiungeranno anche altri sport, tra cui l’hockey. L’elenco dei Frères coinvolti nella polisportiva figura su Piazza di Spagna, anno IV nn. 7-8 (1955); purtroppo la paginazione, nella copia di cui dispongo, e ‘saltata’. Merita, comunque, il recupero un dettaglio che tramanda la vitalità che ferveva dietro tutte le articolazioni sportive: «ogni squadra ha il suo fotografo, giornalista e disegnatore. Le relazioni, le fotografie e i disegni vengono esposti il giovedì mattino nell’albo dell’Istituto», ivi. Né era tutto, perché nello stesso numero della rivista si ricordava il Concorso a premio: 1) per una fotografia artistica (formato 13-18); 2) per una novella (dattiloscritta) da inviare alla redazione «non oltre il I settembre», cfr. REMO L. GUIDI, L’uomo che dette una stella a Roma e al basket, Alessandria 2014, 23s n. 8. 5 Ne fece le spese pure Trilussa, che restò molto legato ai Frères del Collegio, cfr. R.L. GUIDI, Trilussa, ovvero uno scolaro e i suoi maestri di un tempo, La Cultura 50 (2012) 273-300; ma la severità non ridusse assolutamente le iscrizioni, e non di rado le classi dove insegnava Frère Mario (anche in doppia sezione) superavano i trenta.
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altro genere. Un giorno Frère Mario Grottanelli (Onano 1905-1969),6 che da poco stava correndo l’avventura del basket con i suoi ragazzi, lo vide ergersi tra i pali della porta nel corso di una partita di calcio; si stenterebbe a crederlo, ma il problema più serio di quel ragazzo spropositatamente alto, quando gli si avvicinavano gli avversari con la palla, sembrava essere quello di non rompersi la testa contro la traversa con qualche balzo in alto incontrollato. Il Frère ristette un attimo, poi lo avvolse con uno di quegli sguardi anatomici che passavano da parte a parte i corpi più e meglio dei raggi X, lentamente gli si accostò come a meglio calcolarne la …longitudine, poi gli disse di venirlo a trovare il giorno dopo ‘per comunicazioni’. Correva l’anno del Signore 1948, e quell’incontro segnò per sempre il ragazzo; oggi che la sua vicenda è chiusa e il protagonista non può opporsi, come di certo avrebbe fatto in vita, è doveroso ripercorrere per sommi capi il tipo originale di lasallianità da lui espresso con grande autonomia di spirito ai margini dei raggruppamenti canonici nei quali la nomenklatura F.S.C. fa rifluire gli aficionados; Tonino, infatti, non fu un affiliato, un benefattore, un benemerito e nemmeno una stella d’oro anche se una stella azzurra, cucita con punti in grado di raggiungerlo fin nei ventricoli, la portò sempre sul petto. Entrando nella ‘scuderia’ della Stella Tonino aggiunse fatica a fatica, e Frère Mario lo avrebbe marcato in modo strettissimo; e se tutti ricordano le sue lezioni di italiano a Boris Kristanc`´ic`´ da Lubiana, rimasero indimenticabili le altre di matematica a Tonino, nelle quali emergeva quello spirito di ‘cattiveria’ ricca di pungente bonomia, con il quale il Frère era solito estromettere ogni forma di paternalismo dai suoi rapporti personali con gli atleti: «spesso – mi ricordò lo stesso Tonino in una memoria scritta – mi dava delle lezioni di matematica, dove appena sbagliavo saliva su un banchetto e mi dava uno scapaccione. Mi seguì in tutti gli esami di liceo fino alla maturità, dove si informava come andavo durante le prove scritte e orali. Mi spronava sempre più a studiare».7 A distanza di anni l’immagine del Frère non ingialliva, perché Tonino finì per considerarlo suo «secondo padre», e infatti il Frère lo aveva preso a cuore dal primo incontro, ritenendolo un capitale pregiato: egli «mi seguiva in maniera ‘pressante’ – è ancora Tonino a ricordarlo – anche quando c’erano le vacanze di Natale e Pasqua; telefonava a casa mia e diceva a mia madre: signora mandi suo figlio in palestra ad allenarsi; e per quanto riguarda l’alimentazione suggeriva carne di cavallo e vitamina C». Un retroterra del genere legò quei ragazzi a vita, facendone un sodalizio che, a distanza di oltre 40 anni, quando fu presa finalmente in considerazione l’ipotesi di scrivere un ricordo del Frère, li fece vibrare in modo inconte6 7
Al riguardo si può vedere il cit. L’uomo che dette una stella a Roma e al basket. Cfr. il cit. https://www.youtube.com/watch?v=zuRcXxMM9zA.
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nibile e all’unisono;8 infatti rievocarono, con nettezza di contorni, parole, accadimenti, aneddoti e gesti dell’antico maestro, che emersero con la forza di una turgida vena d’acqua a lungo compressa, la quale d’improvviso riesce a rompere lo scrigno di rocce e terra, per scorrere in superficie libera e sciolta. Questo piccolo progetto ebbe la meglio sulla riottosità, anzi sulla profonda allergia di Costanzo per la penna, e nondimeno tentava in tutti i modi difendersi perché avrebbe voluto deporre a voce, attingendo al suo ricco archivio nelle cui pieghe si nascondeva un coacervo di episodi, curiosità, vittorie, meriti e insuccessi da mettere in ordine; ma lì non si era alla ricerca di un involucro con cui avvolgere cimeli ed emersioni del passato riproposti a briglia sciolta, con le nuance dei portamenti, delle onomatopee e degli sguardi complici al circolo dei presenti in ascolto, perché si era alla ricerca di allegazioni con valore documentale da sottoporre a filtri ad alta selettività. E tuttavia bisognava assolutamente attingere in qualche modo al mondo di Tonino; in quella circostanza si pensò di sottoporlo a un intervistatore di rango, competente e attendibile; nacque così l’ipotesi di rimettersi al garbo e alle attitudini maieutiche di Mario Arceri, dichiaratosi disponibile.9 Accad-
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Che gli Stellini non avessero dimenticato l’antico maestro lo testimonia il loro non sporadico ritorno a Onano, quasi a risentirne più da vicino la voce; l’ultima volta che Tonino vi si recò risale al 27 settembre scorso, accompagnato, tra gli altri, da Stefano Albanese, Paolo Saglieni, Bruno Bastianoni, Biagio Andreussi, Roberto Salvatori, dall’immancabile Ruggero Falcomer e da Sandro Sinetti giunto dalla Sardegna. La lapide che essi lessero e rilessero ancora una volta recita: «Qui riposa nel sonno eterno Fr. Mario Grottanelli delle Scuole Cristiane. Chi lo conobbe lo amò. Dedicò la sua vita alla educazione della gioventù. Lascia imperituro ricordo nei familiari e nelle persone conosciute. – A (Onano 17/7/1905) – Ω (Onano 24/9/1969). 9 Ecco il messaggio mandato a M. Arceri: «le invio, come d’accordo, il medaglione che sto incidendo sulla Stella, perché possa orientarsi in qualche modo nella ricerca del contributo da ‘estorcere’ a Tonino, tanto disposto al recupero orale dei ricordi quanto pigro nell’impugnare la penna. Centro gravitazionale di questo mio intervento è la ricostruzione di un’esperienza sportiva molto particolare, vissuta da un gruppo di alunni sotto la guida di un maestro: la scuola è il collegio s. Giuseppe, il maestro Frère Mario. Non entro, dunque, negli aspetti tecnici delle competizioni, nel settore amministrativo, o nei rapporti con gli sponsor; io sto cercando ancora di capire meglio chi era Frère Mario, e cosa ha fatto di suo all’interno della Stella. Il colloquio con Tonino dovrebbe costringere il Frère a tornare tra noi per raccontarsi con candore e verità; è superfluo dire che al suo pezzo chiederei concretezza, precisione di date, luoghi e persone, separando i fatti dalle interpretazioni. Il mio lavoro necessita di documenti e testimonianze riportate tra le virgolette a sergente. L’allegato [la prima bozza dell’Uomo che dette una stella a Roma e al basket], come ho avuto modo di farle presente, è un tipico work in progress, perché a ondate seguitano a giungermi ricordi di persone e cronache di stampa. Il taglio del contributo, però, è quello che lei facilmente può evincere da quanto le invio. L’uso che faremo di questo lavoro, il bacino di utenza al quale destinarlo, gli sponsor da interessare sono ipotesi più intraviste che definite. Chiudo augurandole buon lavoro e un desiderio: non mi dispiacerebbe leggere la sua intervista dentro una scadenza che non fosse troppo remota, pur tenendo conto dei suoi impegni, dovendola metabolizzare all’interno di un progetto che, per dirsi conchiuso, dovrà pur conoscere e valutare l’entità del suo contributo».
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de, poi, il miracolo e Tonino un bel pomeriggio raggiunse Villa Flaminia con l’inseparabile Ruggero Falcomer, per intrattenersi a lungo su Frère Mario, e fu ascoltato con grande piacere; alla fine, però, posto alle strette, tornò a casa e scrisse di suo pugno una serie di recuperi mnemonici risultati preziosissimi per incidere il medaglione di Frère Mario. Il fatto è che il solo nome del Frère innescava (e il fenomeno si ripete) in quegli atleti di ieri una serie di ricordi, propositi e percezioni sui quali tutti convergevano con automatismi istintivi, per cui si può fare un discorso ai limiti del moralismo su Mario, con qualche leziosaggine di troppo, certi, però, di trovare buona accoglienza. Un esempio lampante sta nella ‘circolare’ di auguri inviata a tutti gli Stellini nell’ultimo Natale; i contenuti del discorso, le circostanze e i nomi cui si allude, tutto evoca e conferma un humus di simpatia e partnership nel gruppo, che il tempo non riesce a sciogliere. La morte colse Tonino, come si seppe dopo, poche ore prima che il messaggio fosse diramato.10
4. Una flebite provvidenziale? Quando una inauspicabile flebite impose a questo atleta di uscire per sempre dal campo nel pieno della maturità sportiva (1957), non gli mancavano le opzioni verso approdi più appetibili, resi verosimili dal suo palmares (era stato in nazionale già 45 volte prendendo parte anche ai campionati europei in Ungheria [1955], Bulgaria [1957] e ai giochi del Mediterraneo [1955]); inoltre quella era l’Italia del boom, e le industrie erano convinte che abbinando il prodotto alla simpatia e alla forza del campione avrebbero non solo battuto la concorrenza, ma sciolto le perplessità dei clienti, plagiandoli con la sicurezza, il sorriso e le vittorie dei loro idolatrati fuoriclasse. Tonino distolse le orecchie dalle sirene per ascoltare la voce di Mario, il quale (anche con l’autorevole parere di Nello Paratore, mostro sacro del basket nazionale), gli offerse il timone della squadra (1958); d’ora in poi 10
«Stellini carissimi! Sulla grotta del presepio c’è una stella per ricordare che se il Natale è la festa di tutti, lo è particolarmente di voi, cresciuti nella luce abbagliante di un’altra Stella, che il provvido Frère Mario andò a prendere nei golfi più remoti della galassia, là dove i corpi del cielo gli risultavano più integri, per condurla illuminare i vostri percorsi un giorno di atleti e oggi di uomini […]. A distanza di anni rivivete quella stagione come una allegoria della vita: non balzate più a canestro, non avvertite più gli imperativi autoritari di Ferrero (Tonino o Valerio), non c’è più il tifo adrenalinico del Palazzetto; tutto è stato sostituito, ma a tutto vi siete avvicinati con analoga voglia di non risparmiarvi, e di segnare punti preziosi per essere conformi al modello di Olimpia, che non dispiacque nemmeno a s. Paolo. Gli anni trascorsi in Stella con il Frère sono equivalsi alla migliore preparazione per il vostro futuro di uomini e professionisti; la lezione di quel lungo stage è quella che avete trasmesso pure ai vostri figli, e in tal modo avete assicurato a Frère Mario una permanenza che sconfigge il tempo, e a noi il piacere di sentircelo sempre al fianco. È nel suo ricordo che vi saluto […]».
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Tonino, se lo voleva, sarebbe rimasto nell’orbita della Stella non più pivot, ma trainer. In quegli anni gli industriali, scoperto il potere di traino del basket, proiettavano a canestro gli atleti in tutta Italia con la carne in scatola, le lavatrici, le macchine da cucire e quant’altro; sentendosi in buona compagnia, ad essi si unirono Frère Mario e la Stella che mandarono a canestro il collegio s. Giuseppe-Istituto de Merode, conquistandogli simpatie, visibilità e supporters ben oltre quanto era preventivabile dagli stessi Frères. La Stella, dunque, divenne la coccarda del Collegio, e quanto poteva riguardarla finì per coinvolgere tutti, alunni, domestici e docenti, per cui sarebbe da pubblicare una serie di sapidissimi bozzetti tra i quali spiccano, senz’altro, quelli che ebbero per protagonisti i Frères, spauracchi degli atleti nei compiti di classe e nelle interrogazioni, ma tifosi irriducibili nei pomeriggi della domenica al Palazzetto dello sport. Così quello che inizialmente era cominciato come un gioco, stava diventando un polo di richiamo invidiabile, ma avidissimo di attenzioni, di energie e, soprattutto, di soldi; Frère Mario ebbe tanto credito, per il valore aggiuntivo che i giovani conseguivano iscrivendosi ai corsi di basket, da convincere le famiglie a costituirsi in Comitato per contribuire in modo sostanzioso al bilancio societario. Di fatto la Stella Azzurra per il Frère restò sempre una fucina di uomini, pertanto si scelse uno staff di ‘artigiani’ in grado di produrre pezzi unici con ogni atleta, e Tonino fu un prototipo così perfetto da non essere entrato, poi, in produzione; ed è questo a costringere chi lo conobbe a preservarne la memoria, per evitargli l’affronto di essere evocato saltuariamente per condire apologhi, o lembi autobiografici mentre si viaggia, si sta a tavola, o si fuma una sigaretta dopo il caffè. Su questa sorta di luogo sereno ed idilliaco, dentro il quale mai era entrato il serpente con le sue malizie, sopraggiunse improvvisa la perdita di Frère Mario e, tragedia nella tragedia, la morte lo uccise mentre trascorreva una settimana di ferie a Onano in sostegno dei vecchi genitori.11 Tonino e i ragaz-
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Nella Cronaca della casa, tenuta in quell’epoca da fratel Ugo Valentini si legge: «Nelle prime ore del 24 settembre è passato a miglior vita il carissimo Fr. Mario Grottanelli. È stato colpito da infarto, ed ha concluso la sua intensa e meritoria vita dedita alla educazione e istruzione della gioventù. Intelligenza aperta, gran cuore, buon senso, modestia, dolcezza queste erano alcune sue doti, tutte riconducibili alla sua profonda fede religiosa. Seppe congiungere all’insegnamento della matematica la sua molteplice azione sui campi dello sport. Prese in mano le redini della Stella Azzurra, e in pochi anni la compagine sportiva divenne di fama nazionale. I funerali a Onano riuscirono degni del caro Estinto, come quelli del trigesimo celebrati nella chiesa del Collegio. A Onano tessé l’elogio funebre dello scomparso s. e. mons. Salvatore Pappalardo. Per ricordare Fratel Mario gli alunni del classico, che lo ebbero insegnante e professore di classe, hanno indetto una sottoscrizione per una borsa di studio con la quale si vuole contribuire alla formazione di un giovane che segua la vocazione dei Frères delle Scuole Cristiane». – Chi scrive ritiene che il testo sia riconducibile alle penna forbita di Fr. Siro Ferranti.
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zi stavano in palestra ad allenarsi, perché sul tardi avrebbero avuto un incontro di cartello con i Detroit vagabond Kings, quando un ragazzo di corsa lo raggiunse sussurrandogli qualcosa; il coach abbandonò subito il campo e, a grandi falcate, raggiunse Frère Ugo, lo ascoltò e rimase di sasso: la notizia più che assurda gli parve inaccettabile e contro ogni evidenza. Quella fu l’unica volta nella quale Tonino intese fino in fondo la pesantezza del suo fisico possente, e la fatica che faceva per sostenerlo. Ritornò sui suoi passi con un subbuglio interno da mare in tempesta; gli atleti lo guardarono in faccia e sospesero l’allenamento per ascoltarlo: lui parlava e sulla palestra, luogo di scontri, arrabbiature e vittorie colte all’ultimo secondo, piovevano amarezza e sconforto, solitudine e smarrimento: questa volta tutti, anche le riserve, avevano perso davvero non una competizione, non il campionato, ma la bussola. Strinsero i pugni, e da subito offrirono un riscontro delle immunità attive con le quali erano stati abituati a contrattaccare: sarebbero scesi in campo lo stesso confrontandosi con i Wagabonds. E così fecero.
5. Un incubo kafkiano Dopo la partita con gli Americani Tonino montò subito in macchina puntando verso casa, mentre l’immagine del Frère gli si era come incollata sul parabrezza, e lo guardava fisso negli occhi dalle cui profondità insensibilmente incominciarono a muoversi i ricordi a groppi e a ondate, senza ordine, ma che gli produssero delle atmosfere di presentimenti incontrollabili, come a chiedergli di interrogarsi se voleva dargli un senso. Tonino fu permeato da una irragionevole inquietudine, quasi temesse di scoprire che in una parte di sé stessero ristagnando ombre restie alla luce e tediose; proseguì manovrando in guida notturna come un automa, finché si accorse che stava sbagliando strada: la meta non era Piazza di Spagna! Questi circuiti, affollati di fantasmi, a un certo punto si interruppero, l’immagine sul parabrezza si sfilacciò dissipandosi, egli fece per seguirla con la fantasia, ma si era dileguata per sempre. Insomma quel Frère, da cui non riusciva a distogliersi, chi era e per quale ragione si erano incontrati? Di colpo si ritrovò immerso nell’adolescenza, e fu come se le immagini si susseguissero in un tourbillon di percezioni subliminali: Frère Mario…Frère Mario, autorevole docente di matematica e fisica al liceo classico, aveva un contegno da incutere agevolmente subalternità negli alunni, sentendosi assai poco disposto a crearsi facili consensi con iniziative di autopromozione; ne riascoltò la voce, nell’atto di intimargli di venirlo a trovare il giorno dopo ‘per comunicazioni’. Insensibilmente si rivide ragazzo nell’immediato dopopranzo di un giorno lontano alla ricerca dell’irreperibile Frère, e da ultimo finì per trovarlo nella palestra, una struttura senza pretese sul rialzo del
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cortile sotto la ‘spalla’ del Pincio, assai simile a un deposito per attrezzi di campagna, con due tabelloni per la pallacanestro e, sul rustico impiantito, i tratti consunti della vernice per circoscrivere il diagramma del campo da gioco. Gli atleti stavano in preallenamento ancora a bassa intensità, e le corse all’indietro, gli scivolamenti laterali, gli esercizi in torsione e rotazione del tronco sembravano esprimere posture al momento guardinghe, e ben si capiva che la vascolarizzazione dei muscoli stava avvenendo con una progressione controllata di energie, sotto il rigido controllo del coach. Sì, però Mario? Eccolo lì, ma all’altra parte del campo; si rivide mentre voleva raggiungerlo, ma dovette fermarsi, inchiodato dal fischio del coach, e da quello che ne seguì: all’istante, infatti si scatenò l’inferno: gli atleti iniziarono di scatto a massimizzare le performance del riscaldamento, attivando le catene cinetiche dei sistemi muscolari, che interagendo sotto lo sforzo davano ai plessi cervicali, toracici, lombari, sacrali a quelli degli arti condannati a torcersi, contrarsi, estendersi a ritmi sempre più irruenti, la motilità del guizzo e un’idea di efficienza inarrestabile. Frère Mario se lo rivedeva di fronte nell’atto di gettare i palloni nella mischia, gesto al quale seguì un frenetico vortice di palleggi, passaggi, rimbalzi e blocchi, ai quali si alternavano tiri da fermo, in sospensione e stoppate, scatti in penetrazione con lanci di ‘scarico’ sul compagno libero, per raggiungere il canestro aggirando il blocco degli antagonisti. In quel turbinio con l’aria che si andava facendo pesante per la polvere, il trambusto degli atleti che si scontravano, i rimpalli dei palloni scagliati sui tabelloni, i fiotti di sudore che davano ai corpi in movimento la lucidità del bronzo al sole del mezzogiorno, Tonino parve risentire la pacca sulle spalle di Frère Mario, il quale, distogliendolo dal sogno, lo faceva ostaggio di quel mondo agonistico del basket da cui, pur volendolo, non ne sarebbe più uscito. E il Frère, anche in quella circostanza, aveva fatto una scelta felicissima, che mentre avrebbe impresso un sigillo di elezione nel futuro di quel ragazzo, avrebbe consegnato al Collegio un fuoriclasse, alla squadra il motore di spinta, all’Italia una interpretazione dello sport nel quale parve riemergere lo spirito di Olimpia.12 12
La seduta del Consiglio Federale della FIP, tenutasi a Roma il 22/12/2014, presieduta dall’ex alunno di Villa Flaminia Giovanni Petrucci, riportava: «tra i principali argomenti trattati: la scomparsa dell’allenatore benemerito d’eccellenza Tonino Costanzo. In apertura di Consiglio il presidente Petrucci ha ricordato, con grande dolore, la scomparsa di Tonino Costanzo, storico allenatore della Stella Azzurra e allenatore benemerito d’eccellenza, punto di riferimento della pallacanestro romana ed italiana», http://www.fip.it/News.asp?IDNews=7660 E inoltre: «le condoglianze del presidente Petrucci e della FIP: Tonino Costanzo, decano degli allenatori e bandiera della Stella Azzurra Roma, ci ha lasciati. Il presidente Giovanni Petruc-
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Sì, ma adesso? Che ne sarebbe stato di lui e della squadra tutta? Il presentimento che il sodalizio e quanto lì si sognava potessero sciogliersi nel nulla, non era ipotesi irragionevole, o chimerica; quella macchina, nota con il nome di Stella Azzurra, equivaleva alla gigantografia di Frère Mario, l’uomo invisibile ma molto simile al fraticello che nei ‘misteri’ del Beato Angelico sta ai margini, ne commenta con l’espressione i sentimenti, ma ne resta escluso; Mario, infatti, risultava essere il grande magnete dell’intera Stella le cui capacità di richiamo facevano convergere programmi e decisioni verso un punto nel quale il dibattito non era diverbio, e il dissenso serviva a meglio comprendersi prima di decidere, e i sogni non erano necessariamente inganni e allucinazioni. Mario, però, non occupava spazi, non si soprapponeva e ciò malgrado le cose, prima di esplicarsi, sembravano sempre attenderne la convalida. Nel frattempo Tonino era arrivato a casa, accostò, spense la macchina e solo quando fu nell’androne parve cadergli dalle spalle una zavorra fatta di angoscia, fantasie irrazionali e inquietudini mai prima sofferte; lui, però, doveva farsi coraggio per farlo agli altri, diversamente la Stella sarebbe andata incontro a una notte di tenebre profonde.
6. Una squadra ricca di un’allegra povertà Con la morte di Mario l’importanza di Tonino nella squadra, come prevedibile, si fece più forte e visibile, ma lui non perse mai l’aplomb, non si impancò a maestro, né si intese mai l’arbusto al quale, la caduta della contigua sequoia offriva il destro, forse irripetibile, di mettersi in competizione con gli altri per raggiungere la canopea; diresse la squadra senza proclami nel ruolo di primus inter pares,13 lasciando che la fiducia e la credibilità fossero il riscontro del suo sapere, non le concessioni estorte con l’autoritarismo e le minacce. Quando non si dimentichi quello che fu per il basket nazionale la Stella Azzurra, si sarebbe portati a immaginare, in modo istintivo, una società piena di risorse, economicamente florida, con uno staff nel quale il medico, il preparatore atletico, il coach, lo psicologo, l’addetto stampa, il delegato anche alla ricerca dello sponsor e l’allenatore dei ‘pulcini’, costituivano un organico di alta qualifica, in grado di far piovere sugli atleti ghiotti emoluci, unitamente al segretario generale Maurizio Bertea, a titolo personale e a nome di tutte le componenti della FIP, esprime le più sentite condoglianze ed è vicino alla famiglia in questo particolare momento», http://www.fip.it/mybasket/News.asp?IDNews=7656. 13 Un giornalista chiese a Costanzo se il diffuso convincimento che lo voleva troppo amico dei giocatori lo infastidisse: «è vero che sono amico dei giocatori – rispose il ‘coach’ –, ma non lo ritengo un difetto. Io non dimentico di essere stato un giocatore e ricordo che, come tale, preferivo gli allenatori che aiutavano gli uomini a scoprire la propria personalità a quelli che imponevano o cercavano di imporre la loro», GIANNI CAPITANI, I giganti del basket, anno VI n. 14, 2 dicembre (1971) 17.
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menti, premi partita, trasferte in aereo o su treni di lusso, alberghi nelle location più esclusive e, non ultimo, l’assiduo arricchimento e ricambio del parco giocatori ecc. ecc. Ma la squadra, a dispetto di tanti successi, non ebbe mai floridezza di capitali e sia Mario, sia il Consiglio Direttivo, abbassarono di buon grado le spalle, e come i telamoni reggono le logge essi sostennero gli atleti in ogni momento, senza altri guadagni oltre quelli di una simpatia illimitata di tutta la tifoseria capitolina. Nel lungo arco di tempo in cui la Stella restò nel firmamento dell’eccellenza quello fu forse il suo periodo più bello, che trasformò l’organico nerostellato nella bottega di un artigiano nella quale trionfava il rude lavoro a mano e il…baratto: Roberto Quercia passò alla Stella per «20 palloni buoni e una penna stilografica!»; Ernesto Rovacchi quel giorno voleva che lo vedessero i genitori in un big match di serie A, e andò a chiedere i biglietti omaggio al suo Mario, e li ottenne…a metà prezzo. Quando si rileggono negli annali del basket i trionfi, ovviamente ‘stellari’ della squadra, bisognerebbe scendere nelle pieghe intime della cronaca, per capire le ragioni che legarono a vita questi ragazzi a Mario e, di riverbero, al Collegio; è trascorso mezzo secolo e Francesco Martini racconta un dettaglio che lascia increduli: il Frère «alla fine del secondo allenamento mi chiamò in disparte e mi disse: ho parlato con tua madre la quale mi ha detto che non vai molto bene in matematica, quindi, dal prossimo allenamento, ti fermi con me che ti do ripetizione (immaginare la mia reazione !), e poi prendi questo (erano 1500 lire) e fatti l’abbonamento dell’autobus! Sono rimasto senza parole». E Tonino collaborò a che gli atleti proseguissero a respirare quest’aria di ristrettezze e calore umano, cameratismo e volontà di eccellere.14 Lì tutto era fatto in casa e a mano, e anche per i protagonisti il successo restò inspiegabile:15 gli atleti per anni furono esclusivamente alunni del Col14
E qui, a voler sostituire le analisi con i ‘fioretti’, si avrebbe solo l’imbarazzo della scelta: classici sono i momenti in cui Frère Mario pagava Pomilio (cf. L’uomo che dette una stella a Roma e al basket, 90), ma risulterebbero esilaranti anche quelli dello ‘stipendio’ a Tonino: «Tonino era solito raccontare – ricorda Franco Palombi – alcuni momenti spassosi passati con il Frère, per esempio quelli nella sua camera durante la spartizione dei (pochi) soldi che provenivano dal botteghino del Palazzetto o dei vari campi da gioco della Stella. Raccontato da lui era un divertimento completo. Diceva che quando arrivava il suo momento gli ripeteva: ‘ma tu Tonino (allora allenatore) che ci fai coi soldi? Lascia perdere, tu già stai bene in famiglia!’. E noi giù a ridere!». 15 «Evidenzierei, pertanto, il senso gregario di questa iniziativa [id est del basket in Collegio], insieme alla carenza di un progetto in grado di farla evolvere da trastullo a sport, da occasione per fraternizzare a ferrea disciplina alla quale riconoscere valore autonomo», in un articolo non firmato che presentava L’uomo che dette una stella a Roma e al basket, Lazio news, anno 3 n, 12, http://www.fip.it/public/26/1733/fip%20lazio%20news%20anno%203%20n%C2%B012%20 %20dicembre%202014.pdf.
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legio; Tonino per la stampa fu l’allenatore ‘fatto in casa’; quando si ripensa a quei ragazzi tramutatisi in atleti che collaborarono con Tonino, si ha davanti qualcosa fuori quadro, di anomalo e insolito: lì tutto era improvvisazione tranne la voglia di starsene insieme divertendosi; Frère Mario li seguiva, ma a quali canoni ottemperasse per trasformare lo svago e il passatempo in una rigorosa disciplina sportiva, chiamata a rispondere con successi ad ogni sfida con la concorrenza, resta ancora un enigma perché decretava la vittoria di David su Golia, quella dell’intelligenza contro la forza. Mario, e la cosa è acclarata, non aveva nessun know-how specifico, fu e restò uno splendido autodidatta, capace di rendere complementari una serie diversissima di discipline, sottomettendole a una ferrea logica di reciproca dipendenza; all’interno del gruppo sportivo egli raccolse un prestigio ai limiti del culto di latria, mai uscendo dal ruolo di margine nei giorni del trionfo, e da quello del professore preoccupato ad oltranza del profitto scolastico degli atleti, sottoposti, in caso di cedimento, ai corsi di recupero per rimetterli in sesto. Fratel Mario, anche dopo morte, restò una figura mitica per quei ragazzi, la cui vita trascorreva tutta tra libri e canestri; con il tempo divennero più maturi, progredendo anche nel rendimento, ma restarono sempre una specie di originale comunità monastica, assoggettatasi con gioia a una gestione del proprio tempo e della propria libertà fatta in modo estremamente rigido. E qui Tonino, con istintiva naturalezza, crebbe ben oltre la statura dei suoi due metri, divenendo l’interprete più consapevole della ‘filosofia’ ludica ed esistenziale professata dal Frère, fino a rivelarsi, con il tempo, la…cerniera lampo della squadra, per rifarmi a un’espressione di Umberto Bortolussi; anche lui, sul modello del maestro, si dava tutto risolvendo sul campo momenti di sofferta passione, senza, però, rivendicare meriti, o esigere primi posti. Nelle trasferte, fatte sempre in cuccette-trenitalia, la piccola tribù celebrava uno dei momenti più liberi di aggregazione, in grado di sciogliere i groppi più mordaci dei nervosismi prima o dopo le partite più difficili.16 E 16
«Frère Mario per ragioni di cattedra non poteva accompagnarli, così a capo della prorompente pattuglia c’era “Altero – ricorda Spinetti – che preparava le trasferte della Stella Azzurra, che acquistava i biglietti di viaggio e prenotava gli alberghi; ed era Altero che disponeva dei pochi spiccioli che Fratel Mario gli affidava per le piccole spese e con l’imperativo di riportarli integri a Roma. Si viaggiava in 2a classe e lo scompartimento, che nel viaggio di ritorno si trasformava in ‘carrozza cuccette’, era ‘scientificamente’ diviso tra anziani e giovani, alti e bassi, grossi e magri; solo Altero aveva il posto assegnato: le retine portapacchi sulle quale veniva issato alla partenza e recuperato all’arrivo del treno alla Stazione Termini. Ma il disagio del viaggio era niente per Altero rispetto all’incontro con Fratel Mario, se la squadra aveva perso, o se i soldi erano finiti: uno sguardo ‘torvo’ e sfuggente di Fratel Mario era il benvenuto e: ‘ci vediamo in Collegio’ era il saldo che preannunciava un martedì di veri …dolori”». – Più tardi ci fu la rivoluzione… copernicana: «il Consiglio, tenuto conto che gli stipendi ai giocatori sono stati mantenuti nella misura dello scorso anno, ha deciso di rendere le trasferte più confortevoli […]», Stella Azzurra. Riunioni di Consiglio, 21\10\1963 (pagina 34).
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come goliardi, senza il becco di un quattrino alle feste della matricola, si concedevano, allora, una pagnottella al prosciutto, ma in qualche caso, quando le energie fisiche spremute all’estremo e l’orgoglio oltre ogni limite li portavano ad avere ragione delle squadre più blasonate, Tonino et socii non esitarono a prendere il tassì invece del solito tram, per raggiungere un ristorante e concedersi addirittura il lusso del vino in bottiglia nel corso del pranzo. Tonino crebbe e si formò in questo ambiente che più francescano non si poteva; lui e gli amici stavano diventando delle stelle in campo nazionale, così come erano gli idoli nel de Merode. La rapida crescita della Stella aveva sorpreso ogni uomo di senno, risultando anomala agli occhi degli esperti e, probabilmente, degli stessi Frères; infatti i ragazzi avevano cominciato come per scherzo, e il Collegio, inglobando nel suo planning il basket, lo aveva subito circoscritto in un orizzonte pedagogico, giudicandolo, insomma, una attività non autonoma, accolta come momento distensivo, idoneo a promuovere la forza gravitazionale della istituzione, mantenendo i giovani nella sua orbita confortevole e rasserenatrice, soprattutto durante il loro tempo libero.17 Il gruppo sportivo, invece si fuse con la scuola, seppe comprenderne lo spirito metabolizzandone gli aspetti più compatibili con l’attività agonistica e, ponendolo in testa alle sue prestazioni come una coccarda, ne divenne esso stesso vessillo, fino a conquistarsi le simpatie e il sostegno dei docenti, ‘costringendoli’ a scendere dalla cattedra e trasformarsi in irascibili tifosi. Tutti riconoscevano in Tonino il trascinatore, ma la sua presenza, sia nel team sia dietro le quinte, non ebbe mai nulla del leader carismatico che reclamasse segni di stima di cui servirsi per promuovere la richiesta di privilegi; egli, pertanto, non si appellò mai ai meriti del giocatore per raccomandarsi come persona all’interno del gruppo e presso la governance della Società, la quale si trovò a rispondere di ragazzi cresciuti troppo in fretta divenendo, loro malgrado, delle star; in parole povere essi creavano a Frère Mario una serie di incognite mai presentatesi prima in Collegio, perché la Stella, concepita come una propaggine opzionale della scuola, stava sfuggendo di mano ai professori a causa delle dinamiche imperanti nelle competizioni di cartello e, dunque, della FIP; i ragazzi, infatti, erano entrati in un’orbita nella
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«L’opera di Fratel Mario non portò semplicemente alla costituzione di una squadra in cui avviare giovani atleti alla pratica della pallacanestro: la sua intuizione fu quella di utilizzare la palla a spicchi come strumento per la diffusione dei valori dello sport in un contesto che travalicava quello meramente agonistico, per raggiungere un più ampio raggio sociale, elevando la pallacanestro e lo sport in generale a ‘elemento di sana educazione fisica e spirituale’, come recita l’articolo 1 dello statuto del 1948», MARTINA BORZÌ, Ricordando fratel Mario, http://www.fip.it/public/26/1733/fip%20lazio%20news%20anno%203%20n%C2%B012%2 0-%20dicembre%202014.pdf.
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quale interagivano altre urgenze imposte con diritto prioritario dall’esterno, che per non essere disattese e non nuocere agli atleti-alunni, bisognava ad ogni costo condividere. Tonino ha parlato in precedenza delle sue difficoltà in matematica, ma il ragazzo era finito ostaggio, proprio in ragione dello sport, di un sistema che lo stava espropriando del suo tempo. La squadra, ovviamente, era iscritta al campionato (non si dimentichi che la Stella in seguito raggiungerà la serie A, restandovi per 22 anni, darà 14 atleti alla nazionale, e nel 1975 e nel 1977 parteciperà alla coppa Korac´), e i ragazzi del de Merode non avevano nessuna voglia di farvi da cenerentola, di conseguenza gli allenamenti, programmati per necessità di cose sul tardi, divennero più lunghi e impegnativi con perdita o riduzione del sonno notturno; trasferta, in termini scolastici è un eufemismo, perché il vocabolo al de Merode significò assenza dall’aula il sabato, impegno sul campo allo spasimo il pomeriggio della domenica, notte passata in treno per il rientro a scuola la mattina seguente, con il pericolo di impattare in una interrogazione o in un compito. Questo il retroscena assai poco poetico dello sfoggio di avere nel basket, unica scuola del patrio stivale, una squadra composta di soli atleti italiani; e i ragazzi, che tanto ottennero dal Collegio, si disobbligarono ripagandolo a mille doppie, divulgandone dovunque l’immagine, lo spirito e lo stile; se come istituto scolastico il bacino di utenza del s. Giuseppe si esauriva nel periplo di Roma, la sua fama come atelier di primatisti generosi sul parquet, ma corretti e ineccepibili nella vita di ogni giorno, dediti allo studio,18 frui-
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S. Albanese, in una intervista rilasciata ad Alessandro Hoffmann, precisava che per non compromettere il profitto nello studio rinunciò prima a una tournée negli USA e poi alla più ghiotta opportunità di partecipare alle olimpiadi di Tokyo, perché la FIP gli chiedeva «due mesi di disponibilità nel periodo invernale, oltre, beninteso tutta l’estate», cf. Stefano Albanese. Cuore, canestri e successi, cit., 212. – Il libro trasuda dovunque ricordi e immagini del Collegio, per cui ricevette questi rallegramenti, un po’ tardivi, ma sinceri (30/4/ 2013): «[…] ti faccio i complimenti per la bella pubblicazione che ti ha per protagonista, e che debbo alla cortesia di Ruggero [Falcomer], al quale sono riuscito a carpirla per alcuni giorni. È un piccolo capolavoro di stile, mentre dovunque occhieggiano gli ammiccamenti furbeschi di una vita alla quale lo sport ha dato visibilità, ma che non ha impoverito, che ha reso invidiabile, ma che non l’ha privata di concretezza. Che non sia l’emersione anche del gruppo sanguigno che hai preso a Piazza di Spagna? […]». In risposta Stefano precisava (1/5/2013): «il volume (300 pagine di gran formato) ha comportato un lavoro complesso e difficile di quasi 2 anni; avercela fatta è stata per me motivo di grande soddisfazione, e devo comunque ringraziare le tante persone che mi hanno aiutato per amicizia e per passione, e sono davvero tanti. Ad una prima presentazione avvenuta il 24 settembre a Vigevano ne è seguita un’altra in ottobre nell’agriturismo di mia sorella in Sicilia, dove ho potuto invitare parenti, conoscenti e ovviamente tantissimi amici. La terza a Gambolò al castello Litta invitato dal sindaco e da tutta l’amministrazione comunale, dove è anche intervenuto Dino Meneghin, Presidente della Federazione Italiana Pallacanestro».
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tori di una lezione che pochi potevano ricevere, lo si dovette alla squadra, la quale ne esportò il nome in Italia e all’estero.19 Un giorno Gianni Capitani de I giganti del basket domandò a Tonino quale fosse il motivo di quella indelebile simpatia cucita addosso alla squadra, e lui rispose: «non so. Forse perché giochiamo un basket piacevole, perché siamo corretti, perché difficilmente colpiti da squalifiche, ammonizioni, tecnici». Il giornalista insisteva, perciò gli chiese come facevano a restare sereni «anche dopo una sconfitta cocente», e l’olimpico Tonino: «la serenità ci viene forse da un certo fatalismo, e dalla sicurezza di aver sempre fatto il nostro dovere».20
7. Tonino alter Marius Qui rileverei come Frère Mario non si limitò a decorare il Collegio di un invidiabile gruppo di atleti, perché ritenne di non corrompere lo sport assegnandogli come traguardo ultimo lo sviluppo di uomini con uno spirito di corpo che fosse consenso, partecipazione e amicizia; ovviamente questo era un programma di vita, ma Frère Mario seppe renderlo compatibile con l’agonismo e togliergli le tossine, quando si trattò di regolare i rapporti interni alla squadra, nella quale la voglia di superarsi ed eccellere non poteva non essere congenita, in quanto parte costitutiva nel DNA dell’atletismo. Anche Tonino, nel gestire queste energiche spinte dinamiche del team, seppe essere all’altezza si direbbe, anzi, che egli, per richiami e complementarità, fosse un alter Marius riproponendone, in modo istintivo, parole, gesti e comportamenti. E se per Mario lo sport fu un palestra per formare i giovani, Tonino può considerarsene uno dei frutti più gradevoli,21 e come tale espresse un equilibrio che, a quei livelli, è merce insolita; egli, pertanto, in una gerarchia di valori, non avrebbe mai perseguito la vittoria, se avesse incluso il presupposto di offendere chicchessia. Apro una rapida parentesi. Roberto Leonardi praticava due sport: a Villa Flaminia atletica leggera, e basket in Collegio; il caso volle che un giorno il ragazzo si trovasse a competere su due fronti: Villa Flaminia celebrava i Giochi della Gioventù allo Stadio Flaminio, mentre i cestisti della Stella erano convocati a Monfalcone. Nell’imbarazzante dilemma il ragazzo non sapeva come muoversi, e rimise tutto al giudizio di Tonino, che non fece una piega e non avanzò prelazioni: 19
Nei campionati europei di Budapest (1955), nonostante che Tonino entrasse solo nel secondo tempo, realizzò 20 punti! 20 Periodico cit., anno VI n. 14, 2 dicembre (1971) 17. 21 Stefano Stefanelli in un messaggio ad Albanese, dicendosi colpito per la morte di Tonino, precisava: «lo ricorderò con una ammirazione ed un affetto davvero straordinario e con me certamente tutto il gruppo dei vecchi giocatori del Petrarca: uomo speciale per umanità, signorilità ed intelligenza, esempio inimitabile di vero uomo di sport».
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dette in consegna a Falcomer la squadra del basket, attese che Roberto partecipasse alla staffetta e ai centro metri, poi se lo imbarcò in macchina e con lui raggiunse Monfalcone: «detti il massimo nella partita – è Roberto a proseguire – perché avrei voluto ricompensare Tonino con una vittoria; avrei voluto giocare bene e così dimostrargli tutta la mia riconoscenza e il mio affetto. Giocai particolarmente male, nonostante l’impegno estremo; perdemmo. Tonino si superò: avrebbe potuto con un cenno del volto, con una battuta velata, esprimere il disappunto per avermi concesso un privilegio poi rivelatosi inutile; mi sorrise, a fine gara, e mi disse un sincero ‘Bene Leo’. Capì quello che avevo nel cuore: l’elogio era per quello che lui ci aveva letto dentro. Grazie Tonino. Ancora grazie. Adesso Dio ricambierà: ‘Bene Tonino’ ti avrà detto. E ti avrà assegnato un posto adeguato. In Paradiso, ovviamente. Ma non fra le nuvole bensì in un campo, vicino a un canestro. Lì – sappiamo – tutto è un po’ strano, sorprendente: infatti, fra le mani avrai.. non una palla per palleggiare, ma … una stella, una Stella Azzurra. Ciao Tonino!A presto, speriamo insieme». Un accadimento, che in qualche modo riconduce a questa atmosfera un po’ deamicisiana, ebbe per interprete Giovanni Palladino in squadra per una finale a Padova, dove il quintetto della Stella fu sonoramente battuto; Giovanni si abbandonò a un pianto sconsolato, e fu Tonino a fargli coraggio. Ma l’episodio più serio della sua maturità umana Tonino lo offrì in uno dei momenti più sofferti nella storia della Stella (a cavallo del 1970/71), la quale non aveva mai navigato nell’oro; ma questa perniciosa e ‘ancestrale’ mancanza di fondi, finì per imporre un ristagno nel rinnovamento del parco uomini (esiziale l’incapacità di procurarsi un giocatore americano, che non si rivelasse una bufala), logorando entusiasmo, fantasia e lucidità nelle decisioni; ne seguirono giorni di amarezza, orlati anche da inavvertenze, pasticci, eclisse di buonsenso altre volte inammissibili nel club stellino. Insomma quello che non riuscivano a fare gli antagonisti sul parquet, lo stava per compiere la crisi economica della squadra; la storia non è delle più esaltanti, perché evidenzia i limiti e le frustrazioni subite da personaggi legatissimi ai ragazzi e al Collegio; l’emergenza toccò l’acme con l’ingresso degli uomini della Masius nel CD, e il rinnovamento della governance con atto notarile rogato da Dario Pocaterra, in via s. Sebastianello, 3 alle ore 22 del 6/10/1971.22 Nel marasma finì anche Tonino, esonerato e riammesso; quel 22
Nell’atto notarile si legge che l’ingegnere Raffaello Nistri, «per inderogabili impegni di lavoro», lasciava la carica di presidente «così degnamente e proficuamente […] sinora ricoperta»; con lui fece un passo indietro il Consiglio Direttivo, quindi si rinnovarono le cariche: Luciano Acciari fu eletto alla presidenza e tra i consiglieri, al posto di Mario, fu eletto Frère Marcello Zolla. Decisamente qualcosa non andò per il verso giusto, e infatti i sedici convenu-
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che conta rilevare è la sua compostezza anglosassone anche in questa evenienza: egli non fece una piega e mentre tutto sembrava cadergli attorno fu tra i pochi a mantenere la calma, quasi che i decenni trascorsi in Collegio, il mondo seducente della Stella e le sue umanissime ramificazioni non gli fossero mai appartenuti. Anche qui Tonino, con naturalezza, si ribadiva discepolo di un gran maestro, sollecito nel mettersi a disposizione e pronto nel starsene da parte, ricco di fantasia per gli altri, sempre pigro nella difesa dei propri diritti. Il fatto è che Frère Mario aveva contribuito, in modo determinante, a trasformare quei ragazzi in campioni senza soffocarne l’autonomia, o plagiarli; essi, perciò, risultavano una compagine coesa,23 con forti accumuli di fiducia nei propri mezzi, ma aperti e disposti a ridiscutersi, mantenendo sempre integra la capacità di aderenza al Collegio, di cui il Frère era il garante e l’interprete; dunque il credito illimitato che essi avevano aperto con lui risultava sì ad personam, ma a renderlo più vincolante c’era la sintonia degli altri Frères, vicinissimi alla squadra e partecipi di ogni cosa che l’aveva per protagonista. Fino ad ora si è parlato di Tonino, prospettato sempre in una luce riflessa; egli, però, era un tecnico e alla squadra non servivano i fervorini, ma idee, strategie, capacità didattiche per farsi comprendere, convincere e risolti non furono unanimi non solo sugli uomini della Masius (che passarono con quattro astenuti), ma anche su due dei consiglieri interni si ebbero due astensioni. Significativamente Acciari, nell’inviare a Milano (Masius) il resoconto dell’incontro con il notaio, mandò i nomi dei consiglieri, ma non segnalò i voti da essi riportati, cf. L’uomo che dette una stella a Roma e al basket., 115 n. 9. Per l’intera vicenda cf. in op. cit., La rivoluzione nella Stella: arriva l’industria, lascia Costanzo, 119-124. 23 Mancavano tre giorni alla fine del 2014 e Spinetti, rivolgendosi ai suoi compagni di oltre mezzo secolo fa, poteva dire: «è stato un anno in cui ci siamo sentiti e visti più che in passato. Il 2 gennaio abbiamo festeggiato gli 80 anni proprio di Tonino, ad aprile è stato presentato il libro di Frère Remo nell’incontro in Collegio; il 5 novembre, alcuni di noi, sono andati a trovare Frère Mario ed infine, a dicembre, c’è stata la tradizionale cena dei ‘veci’. Nessuno poteva immaginare di ricevere la dolorosa notizia di Tonino […]. La staffetta della vita, di generazione in generazione, prosegue, come debbono proseguire i nostri contatti ed i nostri raduni; il che è l’unico modo per onorare il ricordo di chi ci ha lasciati». Stefano Albanese, e per la lontananza e per uno stato influenzale, non poté presenziare al trigesimo, e così commentava: «sono ritornato dalla Sicilia da qualche giorno e a parte la distanza ho una bronchite che non mi dà tregua. Tonino è stato per me un fratello maggiore che stimavo e al quale ero molto affezionato. In coincidenza di un raduno con i miei compagni del de Merode (cinquantesimo della maturità), il 26 novembre avevamo organizzato Sandro Spinetti e io una mini rimpatriata con gli amici Stellini. Un bel sabato passato insieme con Tonino & company con la meta di andare ad Onano e portare dei fiori nella tomba di Fratel Mario. È stato l’ultimo giorno che vidi Tonino (ero anche sulla sua auto); per me sarà indelebile per tutta la mia vita quella giornata».
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vere; con il tempo egli divenne, a sua volta, un maestro di gran credito spintosi là dove nemmeno Frère Mario era giunto; a questo punto, se i dati raccolti lo avessero concesso, si potevano promuovere indagini ricche di sorprese, a conferma dell’intima ricchezza di un uomo tanto carico di esperienza per quanto modesto e schivo; purtroppo così non è stato e la perdita è tale da togliere alle mie pagine uno dei pochi punti che potevano giustificarne la stesura;24 c’erano altre possibilità, per ridurre l’incidenza negativa di questo handicap, ma anche qui il percorso si è fatto da subito impraticabile, in quanto Costanzo non rilasciò interviste, non scrisse libri, non ebbe un blog, né una rubrica di basket su un giornale, tuttavia… Il provvido Ruggero Falcomer, tuttavia, ha salvato due interviste alle quali si sottopose Tonino, ma entrambe suscitano legittime riserve; qui non c’è più il compagno di una partita a briscola, l’amante di musica classica, o l’amico ricco di inflessioni romanesche, intriso di una cordialità bonariamente sorniona. Qui c’è il personaggio, il professore (meglio sarebbe dire il professionista dal gergo un po’ saccente) che parla con la competenza del cattedratico, e incute una certa soggezione; dunque se ne può restare disorientati, e non per le idee, ma per il modo come le espresse, per le architetture sintattiche in cui le calò, per il ricambio linguistico sfoggiato. Si sa che i giornalisti sono naturalmente portati a intervenire, con tassi variabili di invadenza, sulle dichiarazioni dell’interlocutore, ma nel caso specifico il maquillage sembra che finisca per sopprimere i tratti somatici di Tonino offrendocene un sosia. Ma è proprio così, o in Tonino, oltre la ‘maschera’ solita, c’era dell’altro, che lui teneva tutto per sé? La questione ha la sua importanza, pertanto prima ripropongo il passo, poi seguirà il parere di tre uomini che, in proposito, hanno pieno diritto di parola per la conoscenza dell’uomo, e la competenza in materia. Tonino rilasciò l’intervista ai ‘cugini’ dell’ex Massimo, storici avversari della sua Stella, e inaugurò una loro rubrica sui ‘fondamentali’ del basket, muovendo proprio dall’uncino, uno dei tiri più spettacolosi, tra i più difficili a realizzarsi e che figurava nel suo repertorio, perfezionatogli da Mc Gregor25 (mi «faceva
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Anche Spinetti, in questa circostanza, volle farsi sentire: «carissimi, come sapete, Fr. Remo desidera ricordare Tonino con uno scritto sulla Rivista Lasalliana e chiede la nostra collaborazione. Mi permetto di dare un piccolo indirizzo a chi può dare testimonianza: Corsi, Raia, Saraceni potrebbero fornire qualche dato riguardante Tonino ed una nota sul loro personale rapporto fin dalla prima ora. Altri di noi possono ricordare un aneddoto particolare e fare un commento del loro rapporto personale e sportivo […]. Credo che per noi ricordarlo nella Rivista sia doveroso e soprattutto un motivo d’orgoglio […]». 25 Jim McGregor (Portland, 30 dicembre 1921-Bellevue, 1 agosto 2013), allenatore dall’esperienza planetaria, allenò anche in Italia (1954-1956), cfr. M. ARCERI-V. BIANCHINI, La leggenda del basket, Milano, 2013, 121.
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tirare di uncino per ore e ore di seguito senza un attimo di tregua»), e lo realizzava con entrambe le mani. Ed ecco come l’atleta di una volta spiegò quella che fu una delle sue invidiabili risorse: «l’uncino è il tiro classico del pivot, essendo questi l’unico giocatore della squadra a trovarsi nelle condizioni ideali per poterlo fare. Queste condizioni ideali vanno ricercate nel fatto che il pivot si muove costantemente con le spalle rivolte al canestro. Una volta ricevuto il passaggio (che va cercato, muovendosi verso il compagno) inizia la serie di movimenti che portano all’esecuzione dell’uncino. Bisogna innanzitutto coordinare i movimenti del braccio con quelli della gamba e, una volta ricevuta lo palla, guardare verso il canestro trascurando la sfera che va ‘sentita’ con le mani. Quindi, togliendo dalla palla la mano che non serve, si deve portare avanti verso il cesto, ruotando sul terreno il piede opposto alla mano che effettua il tiro. Molto importante è la chiusura del tiro stesso: mentre il piede di dietro (cioè quello corrispondente alla mano che tira) compie un leggero salto in avanti, la palla deve essere manovrata dalle sole dita della mano ed il tiro deve essere chiuso dai polpastrelli della mano stessa; il polso non dovrà restare rigido, ma dovrà ‘spezzarsi’ contemporaneamente alla spinta delle dita. Il tiro, che è l’ideale per il pivot dato che non è marcabile se non a mezzo dei falli, risulterà così dolce e vellutato, come è nella sua natura».26 Su questo intervento tecnico e corretto ho inteso, prima di ogni altro, Sandro Spinetti, ex alunno del Collegio e uno dei pezzi più pregiati della Stella, che conobbe Tonino al punto da considerarlo fratello di sangue; pregevoli sono i suoi flash sulla rete a ridosso degli episodi più significativi della squadra e di quanti le appartennero, o la amarono. Sandro, dopo qualche esitazione, conclude che quelle parole gli possono essere attribuite.27 Ho inteso, poi, pure Valerio Bianchini, e a ragione, in quanto è il coach più titolato della storia della pallacanestro italiana, e uno degli esperti di maggior credito in Europa; il suo palmarès tracima di coppe e riconoscimenti; sostituì Costanzo alla Stella (1974) rimanendovi fino al 1979. Per lui l’«autore» del pezzo è proprio Tonino.28 L’ultimo che ho voluto sentire è stato Mario Arce26
Massimobasket 2 (1962) 2. Inizialmente Spinetti trovò il testo ‘troppo arzigogolato’, tuttavia soggiunse: «sarei curioso di vedere la scansione della pagina di Massimobasket che ricordo bene in quegli anni»; ricevuta l’intera intervista in scanning, ha sciolto ogni riserva, riconoscendone la piena paternità a Tonino. 28 «Ho letto con attenzione lo scritto e penso che sia tranquillamente riferibile a Tonino. Non dimenticare che Tonino era Istruttore federale degli allenatori ai più alti livelli, dunque aveva consuetudine con corsi, tesi scritte, esami e relazioni tecniche. Il suo è uno stile tipico, molto accurato, di quella materia. Non esiterei a dire che Tonino ne è l’autore. Mi congratulo con il tuo lavoro e considerami sempre a tua disposizione semmai potessi esserti utile ‘storicamente’». 27
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ri, vicepresidente presso il Comitato Regionale della F.I.P. Lazio, che ha cattedre alla Gabriele d’Annunzio (Chieti) e a Roma 2, autore ovviamente di molte pubblicazioni, tra le quali spicca il già citato corposo volume La leggenda del basket, scritto in tandem con Bianchini (2004); a suo avviso «la spiegazione di Tonino è stata presa a voce e poi ‘stesa’ da un redattore che aveva indubbie capacità di scrittura».29 Personalmente rimango piuttosto scettico: quello non è il lessico di Tonino, tuttavia…Tuttavia l’uncino è un tiro a canestro di alta difficoltà, il cui successo può essere racchiuso in una sorta di equazione la cui formula, e per chi la spiega e per chi si accinge a risolverla, resta legata a procedimenti che hanno ben poche variabili; né in proposito sono ipotizzabili sfiorettature retoriche e divagazioni estetiche. Tonino, in quella circostanza, aveva lasciato a casa la macchina per prendere il treno, e lì, da che mondo è mondo, il percorso non lo si traccia, lo si segue. L’altra intervista rilasciata a Carfal (alias Carlo Fallucca), non suscita perplessità,30 il tono affabulatorio è un po’ quello dei ricordi, rivisti senza le nostalgie e l’enfasi di chi vuol rivendicare il proprio passato, per contrapporsi alla mediocrità del presente; il pensiero di Costanzo qui è riproposto nel suo procedere espositivo, come se lo stesse a esporre a un gruppo di intimi, né importa la sintassi qua e là finisce per scricchiolare: «il ragazzo di oggi che va a basket ha proprio tutto! Ha campi in ogni dove, palestre attrezzate, palloni da favola, allenatori di valore, spazi per giocare in ogni categoria... Forse manca un po’ l’impegno in certi momenti, il carattere non è sempre presente e quella sfida per migliorare se stessi giorno per giorno; ma sono decisamente più fisici di un tempo e, diciamolo pure, più forti di noi a tutti i livelli».31 Quello che emerge dalla riflessione sul basket contemporaneo è la ricerca del primo piano e il trionfo del solista;32 le sintonie di gruppo si attenua-
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«Ho letto il testo che mi ha allegato, scritto indubbiamente bene e con competenza tecnica, quale Tonino indubbiamente aveva […]. Al di là del fatto che il mezzo fosse solo un foglio ‘collegiale’, sicuramente anche l’Ex Massimo aveva persone in grado di scrivere bene e con proprietà. Del resto in ogni intervista che viene fatta, il pensiero dell’interlocutore viene reso con uno stile migliore per la profonda differenza che normalmente esiste tra linguaggio parlato e scritto. I migliori saluti e un cordiale in bocca al lupo per il suo nuovo generoso impegno nel ricordare un uomo che ha una parte così importante nella nostra educazione umana e sportiva […]». 30 CARFAL, Tonino Costanzo e una vita donata al basket!, cf. Momento basket (Italia Sera) sabato 2/3/2011. 31 In CARFAL, cit. 32 Davvero prezioso il ricordo di Roberto Leonardi: «incapace di illudere chi non avesse talento, ma altrettanto incapace di tollerare atteggiamenti da “primo attore”, sincero (casomai silenzioso), leale, è stato una colonna della mia giovinezza».
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no, il momento di studio e programmazione risultano sempre incalzati dalla messa in opera, dimentichi che l’atletismo senza il metodo uccide la razionalità e la squadra. Una volta si viveva con meno agonismo e non con corse sincopate per arrivare al traguardo, perché le mete erano frutto di ragionamento e attesa; oggi si corre, si litiga, si strilla e lo sport perde i suoi percorsi di maturazione, diventa metafora di individui che non sanno più crescere nei ritmi di natura.33 Il vecchio coach qui, mentre parla di basket, sta riflettendo sul fatto che per migliorare lo sport bisognerebbe correggere il modo di vivere,34 e dai suoi Frères egli aveva ereditato la passione per l’insegnamento (in una circostanza i Frères ventilarono l’ipotesi di affidargli l’insegnamento dell’educazione fisica!), non in aula ma in palestra, non con i libri, ma con la palla a spicchi, non seduti a scervellarsi su una traccia di tema, ma sottoponendo il fisico a ogni genere di torture per averlo sempre docile a ogni situazione in partita; ricorda Spinetti: Tonino «per anni ha insegnato la pallacanestro ai suoi ragazzi, esercitandosi talvolta con loro, dimostrando i movimenti, correggendone gli errori, affinandone le qualità, non lasciando indietro alcuno». Questi aspetti che sapevano di contiguità e ammaestramento, tipici della guida e dell’interprete, appartennero già a Frère Mario, e l’alunno ne perpetuava l’aroma a distanza di decenni. Ha ricordato Gianni Santi: «ho cenato giovedì con te e Dio mi ha dato la possibilità di vedere ancora il tuo sorriso e di sentire le tue ironiche battute. Ciao Tonino, se lassù prepari un canestro avrei ancora bisogno di affinare il tiro. Sei stato un grande maestro per tutti noi»; ancora più perentorio è Massimo Rossi: «mi unisco, con rispetto, al dolore di tutti per la inaspettata perdita del mitico Tonino, esempio di 33
Quella di oggi è «una pallacanestro estremamente diversa da quella dei tempi miei, un basket che guarda molto poco al collettivo, costruito solo sulla fisicità, sull’atletismo, sulla forza sia offensiva che difensiva. Un qualche cosa che dimentica quasi completamente il concetto di squadra, che stritola il valore di qualsiasi gioco. Rarissimo vedere un gruppo, soprattutto giovanile, che crei situazioni per tutti, che migliori sotto questo punto di vista... Troppa aggressività che costringe i ragazzi ad andare a canestro in modo esageratamente frettoloso, un basket nervoso, fuori equilibrio», CARFAL, cit. 34 Il basket contemporaneo è dominato dalla aggressività impaziente degli atleti, vittime della foga e scarsa docilità agli schemi: «esistono partite ed azioni offensive dove se si fanno due, tre passaggi è fin troppo...: esagerati gli attacchi alla baionetta, attacchi precipitosi e senza senso alcuno, attacchi senza alcun equilibrio e senza intelligenza tattica. E a questo proposito credo che un miglioramento di questo ‘fondamentale’ possa certamente portare ad un razionale e migliorativo movimento di squadra, dove non si abbia fretta e non ci si incaponisca nel voler risolvere le difficili situazioni delle azioni offensive». La carenza andava rilevata da subito fin nelle squadre di promozione: «il difficile per questi ragazzi è il passare da una fase di esagerata aggressività offensiva ad una naturale ed indispensabile fase di gioco di squadra. Del resto il basket resta uno sport di squadra, dunque…», CARFAL, cit.
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vita e di sport per molte generazioni che continueranno a ricordarlo con immutato affetto»; Ottavio Marotta non si nasconde la gravità della perdita, ma esorta tutti a non dimenticarne l’esempio: «è una grande perdita, ma possiamo far tesoro di quello che negli anni passati ci ha dato e direi anche insegnato». Tonino Costanzo non è stato un lasalliano qualsiasi, ma a denominazione di origine controllata, altrimenti detto DOC, ed ha offerto un luminoso esempio a conferma che, oltre i registri, gli esami e il nozionismo, c’è un campo sterminato nel quale i giovani si definiscono, si realizzano e si impongono; il gioco, inteso nella suo valore più alto, non teme confronti con altre discipline: se molto chiede, moltissimo elargisce. E in Collegio crearono un cocktail forse irripetibile, dove le più diverse componenti, lungi dal soffocarsi, si armonizzavano in un bouquet che non limitandosi a sedurre gli occhi, inebriava lo spirito, spingendo il ragazzo a collaborare, a integrarsi nella squadra senza perdere la propria lunghezza d’onda, ad eccellere senza spegnere gli altri, a considerare il parquet la palestra della vita nella quale, poi, svolgere un incontro decisivo per restituire alla società il tanto ricevuto dalla buona sorte.
Appendice A chiusura di questa troppo rapida raccolta di sensazioni, percezioni ed emozioni su Tonino e intorno a Tonino, credo sia doveroso concedere a Mario Arceri, erede dei grandi giornalisti sportivi del passato, la possibilità di apporvi il suo sigillo. L’articolo (con a fianco un riquadro sotto il titolo ‘Tonino Costanzo una vita per la Stella’) è comparso su FIP Lazio News, la newsletter del Comitato Regionale FIP Lazio, anno 4 numero 1 (http://www.fip.it/public/26/1733/ fip%20lazio%20news%20anno%204%20n%C2%B01%20-%20gennaio%202015.pdf) In risposta al messaggio di congratulazione, giuntogli in prossimità delle feste natalizie, Arceri parve arrossire e rispose a momenti impacciato: «grazie per queste belle e immeritate parole, che conserverò con me, bellissimo regalo di Natale, pure in una circostanza così poco felice. Se le parole sgorgano facili e incisive, è perchè il cuore partecipa con grande intensità nel ricordo di una persona stupenda, alla quale mi legano ricordi importanti: la mia prima trasferta per il mio giornale, nel 1973, la feci a Damasco al seguito della Nazionale militare guidata da Tonino (con Quercia e Kunderfranco). Un ‘battesimo del fuoco’ professionale che non potrò mai dimenticare». Costanzo per sempre nel nostro cuore. (L’ultimo testimone della stagione d’oro del basket romano) È stato un bel congedo. Se n’è andato in silenzio, assopendosi in un pomeriggio di una domenica di fine dicembre a poche ore dal Natale, quasi
Tonino Costanzo (1934-2014) ex-alunno di Fr. Mario Grottanelli
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in punta di piedi per non disturbare troppo, com’era nel suo carattere. L’abbiamo accompagnato in tanti verso il suo ultimo viaggio. Tonino Costanzo ci ha lasciati il 21 dicembre. Insieme avevamo trascorso appena tre giorni prima una serata di auguri, di sorrisi, di risate, di racconti. Lui lì, col solito sorriso sulle labbra, presenza grande eppure discreta: nulla faceva pensare che non l’avremmo più visto. Nella parrocchia di San Leonardo Murialdo, per l’estremo saluto, eravamo in tanti: il vicepresidente federale Gaetano Laguardia, il presidente del Comitato Regionale Francesco Martini, entrambi suoi allievi di sport e di vita tanti anni fa, e con loro centinaia di amici vecchi e nuovi, antichi avversari, o compagni di squadra come Pomilio giunto da Pescara o ragazzi che fece diventare campioni come Spinetti arrivato da Cagliari, e i giovani della Stella Azzurra di Germano D’Arcangeli oltre a Frère Remo Guidi che appena pochi mesi fa ne aveva fatto la figura centrale del suo bellissimo e toccante libro dedicato al ricordo di Frère Mario Grottanelli, l’uomo che, nella vita di Costanzo, ebbe un ruolo fondamentale. A fianco [ovviamente del foglio in rete] troverete un profilo di Tonino, un cammeo del grande campione e del grande uomo-simbolo della società del Collegio che è parte integrante di un lavoro editoriale riservato alle grandi squadre romane, di prossima uscita. Ora dovrò aggiungere un ultimo capoverso, quello che non avrei mai voluto scrivere, almeno così presto. Tonino aveva ottant’anni: il primo febbraio prossimo ne avrebbe compiuti ottantuno. Almeno sessantacinque li aveva dedicati al basket. Da grande giocatore con una carriera presto interrotta da seri guai fisici. Da grande allenatore con una carriera intrapresa in modo quanto mai precoce. Da grande “tutor” infine dei ragazzi che a Roma e nella regione cominciano ad apprendere i primi rudimenti del basket trovando in Tonino un maestro abile, esperto, autorevole. “Non ho avuto la fortuna di avere figli, per me lo sono tutti questi ragazzi”. Alle spalle di Enrico Gilardi, con il quale appena un mese fa aveva condiviso la Retina d’Oro, premio alla carriera, svolgeva un lavoro prezioso e insostituibile nel programma dell’Atg. Sedeva in panchina osservando, rispettando il suo ruolo, non imponendo l’indubbia autorità che avrebbe potuto utilizzare per il suo passato di grande uomo di basket. Eppure con i suoi misurati interventi, con i suoi consigli, ha saputo dare un contributo enorme alla crescita dei giovanissimi giocatori, ma anche alla formazione professionale dei tecnici che negli anni si sono alternati nel progetto giovanile del Comitato Regionale. Una figura importante, dunque, soprattutto l’ultimo testimone di una inimitabile generazione della pallacanestro romana che in questi ultimi mesi ha perso l’ultima altra fondamentale figura: Cafiero Perrella che se n’è andato a maggio, a 95 anni. Era il grande avversario, sulla panchina della Lazio,
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di Tonino, e amava dire che l’unico coach che temeva e rispettava era proprio lui, Costanzo. Smisero di allenare, agli inizi degli anni Settanta, quasi contemporaneamente: la pallacanestro stava cambiando, non era più quella che loro avevano appreso da grandi maestri come Ferrero o Paratore, si insegnava sempre meno, il disagio era crescente fino a diventare insostenibile. Cambiare o farsi da parte: entrambi scelsero la via più difficile, ma orgogliosamente più corretta. Sono scomparsi Enzo Chiaria, Piero Volpini, Ernesto Hausmann: nomi che forse diranno poco o nulla ai più giovani, ma che per gli appassionati più anziani hanno rappresentato significativi punti di riferimento nello sport dei canestri. Non andrebbero dimenticati, non li hanno dimenticati quanti, martedì 23 dicembre, hanno affollato la chiesa di Via Pincherle per l’ultimo saluto a Tonino Costanzo. Eravamo in tanti, ciascuno con un proprio ricordo dell’uomo e del tecnico, tutti con l’incondizionata consapevolezza di sentirsi un poco più poveri. Per quanto mi riguarda, a Costanzo mi lega un’esperienza comune, la prima trasferta da inviato per il Corriere dello Sport in occasione dei Campionati del Mondo militari a Damasco nel 1973. Conoscevo Tonino: da giovanissimo seguivo i derby tra Stella Azzurra e Lazio, lui temutissimo coach dei “nemici”, poi, da giornalista alle primissime armi, le interviste fatte con grande soggezione per quest’omone che giovanissimo era già leggenda, impenetrabile dietro gli occhiali sempre scuri. Il viaggio a Damasco, su un vecchio Convair ad elica dell’Aeronautica Militare, fu interminabile: otto ore, con partenza da Ciampino e sosta a Brindisi per il rifornimento prima di attraversare il Mediterraneo con un largo giro per evitare l’insidioso spazio aereo di Israele e Libano: si era appena conclusa la guerra del Kippur. Era una bella Nazionale, con Roberto Quercia e Francesco Kunderfranco delfini di Costanzo, con Buzzavo, Pieric, Celoria, Calderari, Dordei, Lucarelli, tra gli altri. Il cielo di Damasco veniva continuamente e minacciosamente solcato dai caccia israeliani, le ragazze siriane non portavano il velo, nella casbah si incrociavano liberamente lingue e razze, la Moschea degli Omayyadi edificata sull’antico tempio aramaico di Hadad risalente al 3000 a. C. splendeva in tutta la sua bellezza, eccezionale diamante incastonato in una città dal fascino antico, si beveva solo Perrier, si evitavano le verdure crude sottoponendosi ad una dieta, immutabile nei giorni, di montone bollito. Ogni sera gli agenti segreti partivano in fuoristrada alla volta di Beirut e delle sue delizie notturne, lasciando all’esercito il compito di sorvegliare durante la notte le sette squadre del Mondiale nella palazzina assegnata all’interno dell’università femminile della capitale siriana. Ogni mattina io, con Roberto Cosciotti, inseparabile compagno di quell’avventura, dovevo recarmi all’ufficio postale per spedire il “pezzo” sintetizzato in un telegram-
Tonino Costanzo (1934-2014) ex-alunno di Fr. Mario Grottanelli
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ma per non spendere troppo e scritto in inglese, dopo averlo fatto vistare dalla censura del regime di Hafiz al-Assad. L’Italia ne uscì con una medaglia di bronzo dietro a Stati Uniti e Grecia incrociando in semifinale gli americani, io con una prima indimenticabile esperienza professionale vissuta al fianco di Costanzo che, a nemmeno quarant’anni, abbandonava la sua vecchia Stella Azzurra, lasciata in eredità a Valerio Bianchini, per assumere la guida dell’Italcable di Vittorio Salvadori a Perugia. Perdonatemi questa lunga digressione, una memoria personale legata all’uomo che non c’è più, ma che resterà nel nostro cuore.35
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FIp Lazio News di gennaio 2015.
SEGNALAZIONE LIBRI Area biblico-teologica BIANCHI E.- GRILLI M.- MAZZINGHI L., Leggere la Bibbia nella Chiesa, EDB 2015, pp. 78. € 7,80. LAVENIA V., Un’eresia indicibile. Inquisizione e crimini contro natura in età moderna, EDB, 2015, pp. 80. € 7,50. PESCE M., Chi ha paura di Gesù Cristo?, EDB, 2015, pp. 62. € 6,50. RAVASI G., Siamo quel che mangiamo?, E.M.I., 2015, pp. 64. € 5,00.
Area psicopedagogico-didattica ALFIERI F. - INTEGLIA M. (a cura), L’università oggi e le sue sfide. Studi in onore di Mons. Enrico dal Covolo, Morcelliana, 2015, pp. 380. € 25,00. DAL CORSO M., Per una pedagogia del dialogo interreligioso, Quaderni di studi ecumenici, I.S.E. “S. Bernardino”, 2014, Supplemento al n. 3-4 di “Studi ecumenici”. LEÓN ALEJANDRO, Papa Francesco e don Bosco, L.E.V. 2015, pp. 160. € 14,00. PORCELLUZZI SALVATORE, Siamo tutti educabili. Migliorare noi stessi e il mondo che ci circonda, Effatà, 2015, pp. 144. € 11,00. SARTOR P., Catechisti si diventa. L’iniziazione cristiana dei ragazzi alla luce dei nuovi orientamenti C.E.I., EDB, 2015, pp. 112. € 8,00. SORECA S., Il catechista: discepolo e comunicatore, EDB, 2015, pp. 256. € 18,00.
Area pastorale e spirituale BIANCHI A. - SPINA C., Giuseppe Maria Busato, missionario e monaco tra comunicazione e carità, Dario De Bastiani Editore, Vittorio Veneto, 2014. BONETTI A., Stranamore. Cammino di evangelizzazione per adolescenti, EDB, 2015, pp. 152. € 11,90. CÀNOPI A.M., Misericordia e consolazione, Paoline Edizioni, 2015, pp. 128. € 10,00. COCO L., In viaggio, Edizioni Messaggero, 2015, pp. 56. € 4,50. FRANCESCO (JORGE MARIO BERGOGLIO), Poveri, AVE, 2015, pp. 104. € 7,00. FRANCESCO (JORGE MARIO BERGOGLIO), Il dialogo, EDB, Bologna 2015, pp. € 5,00. GENTILI A., 8 Digiuni per vivere meglio...e salvare il pianeta, Ancora 2015, pp. 96. € 8,00. GRÜN A., Le questioni della vita. Trovare un senso e un orientamento, Queriniana, 2015, pp. 200. € 16,50. RAVASI G., Grammatica del perdono, EDB, 2015, pp. 56. € 6,00.
Area storico-filosofica DOTTA GIOVENALE, Leonardo Murialdo. L’apostolato educativo e sociale, Libreria Editrice Vaticana, 2015. € 36,00. JONAS H., Evoluzione e libertà. Immanenza e trascendenza della vita organica, EDB, 2015, pp. 64. € 7,50. MORA ÁNGEL EXPÓSITO, Don Bosco oggi, L.E.V. 2015, pp. 284. € 20,00. PALLANDINO G., Governare bene sarà possibile. Come passare dal populismo al popolarismo, Rubbettino, 2015. € 10,00.
Rivista Lasalliana 82 (2015) 2, 283-288
RECENSIONI E NOTE
PETTI DONATO, Buongiorno, sono Francesco. 365 giorni con il Papa, 2A Editore, Milano, 2015, pp. 220. e 5,90. Papa Francesco si è acquistato una simpatia spontanea in tutti gli ambienti e in tutti i ceti sociali, in quanto parla “come ditta dentro”, in un’immediata effusione dell’anima. Dice quello che vive; crede nel soprannaturale e lo filtra nel naturale; fa sentire come la trascendenza non si opponga all’immanenza, invece la continui aprendole dimensioni infinite, che rendono più spaziosa anche la mentalità quotidiana. Il limite dell’esperienza è esposto ad un’angustia che ben presto sfocia in un’impressione di soffocamento. Il Papa illumina e conforta gli spiriti; parla quando gli capita e con chi gli capita; quello che dice viene raccolto nelle pubblicazioni più varie ed inserito nei più diversi archivi ufficiali; però entrambe le sedi sono accessibili soltanto ad esperti specializzati, per il gran pubblico le sue parole svaniscono nell’aria, lasciando, al più, qualche traccia nella memoria, in progressiva attenuazione; eppure sono un sussidio prezioso, che, se raggiunto, fornisce alla vita una fidente serenità. Si tratta di portare in giorni determinati quello che è stato detto in giorni disparati, di mettere a disposizione di tutti quello che rischia di finire protocollato in scaffali riservati. Donato Petti aveva già rilevato questa
convenienza per Papa Benedetto; il problema si riproponeva ora analogo per Papa Francesco. Noi mangiamo, in totale, una voluminosa quantità di cibo, ma lo suddividiamo in minuscole dosi quotidiane; l’assimilazione vitale dell’alimento richiede una digestione personale, riposata, analoga alla ruminazione tranquilla dei bovini; l’assunzione del nutrimento deve essere distribuita lungo le singole fasi della giornata. Arriva quindi in felice opportunità la suddivisione del messaggio del Papa in porzioni determinate, che nutrono senza opprimere; non distolgono per la mole e non ritraggono per la mancanza di tempo. Per ogni giorno, dal settembre all’agosto, ci si presenta e ci interpella un’illuminazione o un ammonimento. Essendo presentata precipuamente a quanti vivono nella scuola, la serie segue il calendario dell’anno scolastico; ogni giorno un argomento specifico per la giornata. Quest’offerta ritmica non è un’invenzione nuova; la saggezza pedagogica per scaturire non ha aspettato i nostri giorni; era già emersa in passato e continua ora una prassi antica nella tradizione didattica della Congregazione dei Fratelli delle Scuole Cristiane, i quali hanno sempre trovato conveniente inaugurare la giornata con un tempo di riflessione, che della giornata richiamasse il valore ed il fine; generalmente si partiva da spunti derivati dal Nuovo Testamento. Era una luce che veniva
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proiettata sul succedersi delle varie discipline inscritte nei programmi scolastici; le confermava e le valorizzava, conferendo loro un respiro più largo; prolungava quello che è transeunte in quello che è permanente. Donato Petti ha ripreso l’iniziativa aggiornandola all’attualità. I passi di Papa Francesco sono riportati e sono titolati: il lettore viene così subito informato sul contenuto delle pagine; è orientamento ed è attrazione; in fondo è anche una sollecitazione di quella curiosità che è fermento della vita intellettuale; il quadro offre sempre del nuovo e del nuovo fa sentire l’attrazione. Il prospetto appare come un caleidoscopio, nel quale gli elementi di una sapienza perenne vengono a disporsi in una composizione sempre nuova e sempre luminosa. Basta l’indice ad aprire un panorama che esula da ogni monotonia; è una selva che si distende a perdita d’occhio. I temi si susseguono svariatissimi; ciascuno è netto nella sua individualità, eppure lo si sente fuso in un’armonia organica, che ha la genuinità di ciò che è vivo; sono le singole tessere di un mosaico, ciascuna brilla in sé, ma ciascuna concorre ad aprire un’unitaria visione solenne, ricca di richiamo. Questa sfilata che ad ogni passo si ricostruisce e si rinnova, rassicura ed invoglia; promette sempre nuovo interesse in un tono sempre nuovo. Di fronte al flusso di parole scialbe che, nel mondo sociale e politico, slittano mosce sul pensiero senza incidere, qui ci sono parole che suonano e risuonano, dicono e significano, creano; hanno conservato la loro anima etimologica da ‘parabola’ e parabola era solo ‘quella’, che comunicava una verità sacra. Qui ci sono parole che parlano alla mente riscaldandosi nel sentimento ed affinan-
dosi nella fantasia: la speranza è un’ancora fissa nella riva dell’aldilà (26 marzo), la grazia di Dio è una rivoluzione (23 marzo), bisogna camminare non girovagare (30 maggio), diventare artigiano del futuro (6 dicembre); e vengono affrontati temi che scottano, come etica e finanza (19 agosto).Tutto ciò che s’incontra nel cammino della vita qui trova un momento di dialogo, dove il rigore della verità si permea di cordialità umana e gli errori si sveleniscono in una corroborante comprensione. Queste offerte hanno il sapore di un dono quotidiano ed hanno l’intima vibrazione di un augurio mattutino; con quelle provviste il viaggio non potrà essere che confortevole, con quella bussola si eviterà qualsiasi disorientamento e con quell’energetico ci si premunirà da qualsiasi depressione. Il 25 febbraio proclama: «Cristiani, persone gioiose». Francesco Trisoglio
GUIDI REMO L., Frati e Umanisti nel Quattrocento, Edizioni dell’Orso, 2013, pp. 624. e 50,00. Remo L. Guidi, Fratello delle Scuole Cristiane, eminente studioso del Quattrocento, dedica la propria ultima fatica a due protagonisti di quel secolo, apparentemente distanti tra loro, in realtà in stretto rapporto, trascurato dalla storiografia quattrocentesca. L’Autore con attenzione distingue temi di convergenza e dissonanza, analizzando le critiche rivolte dai dotti Umanisti ai “rozzi” Mendicanti e alle loro paradossalmente eterodosse interpretazioni dello stesso cristianesimo, evidenziando la distanza nella concezione dell’uomo, immerso nella vita terrena e nella società secondo quella degli
Michele Cataluddi
uni, invitato a rimaner nascosto da esse secondo quella degli altri. Guidi recupera e ricostruisce dei saggi, in cui mostra come i frati, presentati «nelle vesti di guide e interpreti del senso religioso e politico della società, tracimarono sovente in ambiti dove operavano gli Umanisti». Tra i Mendicanti, protagonisti dell’analisi sono i Francescani, le prediche dei quali dedicarono ampio spazio alle questioni sociali, in virtù del loro forte inserimento nel vissuto quotidiano, con attestata autorità in ambito civile, più ancora che ecclesiastico, per risanare la civilis disciplina. Rapporti ebbero anche con i regnanti, che li vollero come confessori, polemisti, diplomatici e con i principi italiani, condividendo con gli Umanisti non solo la richiesta di una riforma dei chiostri e della Chiesa, ma anche di un governo secondo giustizia, pur muovendosi su strade autonome; disistimati invece dai preti, che li vedevano concorrenti, fino a diffusi casi di persecuzione, per quanto «furono pure l’assenteismo, l’incapacità, l’ignoranza, il disinteresse pastorale dei preti a produrre gli spazi che fecero crescere davanti al popolo gli ordini religiosi e in specie i Mendicanti», che godevano anche della «manifesta simpatia dei pontefici». D’altro canto gli Umanisti avevano bisogno dell’appoggio dei pontefici per promuovere la nuova cultura e denunciavano un degrado degli stessi Mendicanti, riconducibile a quello più generale della cristianità, «per la forza d’urto dei movimenti ereticali, il dissesto dello scisma e l’inquietudine di individui restii al freno della regola e agli ordini dei pontefici» stessi. Critiche attendibili trovano conferma da parte di “Umanisti con il saio” e all’interno dello stesso ordine francesca-
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no, ma anche di Umanisti come Poggio Bracciolini, portavoce di una denuncia laica della corruzione. L’autore ci coinvolge in uno scambio “di penna” tra l’insigne umanista e Alberto Berdini da Sarteano, «figura preminente nell’Osservanza francescana», in merito alla virtù e all’ambivalente rapporto con essa degli stessi Osservanti. Esemplari le riflessioni di Poggio, imperniate sulla difesa di una moralità, volta a promuovere l’inserimento dell’individuo all’interno di una dinamica civilis disciplina, per la quale cultura e religione collaborino «all’unisono per concedere a chiunque lo voglia, la facoltà di costruirsi un’immagine morale in cui le esigenze terrestri sussistano a pieno diritto con le altre, di natura trascendente, difese dal cristianesimo». L’autore mette in luce le ambiguità del rapporto tra moralità professata e comportamenti non sempre conformi, da parte dei protagonisti, presentando figure di notevole rilievo, ma poco conosciute e poco studiate, quali Basilio Bessarione, arcivescovo di Nicea e protettore dei Francescani; Antonio da Rho, francescano conventuale ed umanista, caso probabilmente unico tra gli umanisti con il saio di ampia visibilità a corte e protagonista di agoni polemici anch’essi caratteristici del tempo, contro diffuse pratiche di dubbia moralità, nel contesto delle spinte verso una riforma della Chiesa e dei costumi sociali, contro la quale erano esercitate malcelate forze; azione riformatrice in merito alla quale l’autore si sofferma su un’altra figura di notevole interesse, Giovanni da Capestrano. Le stime degli umanisti sui frati non permettono tuttavia una ricostruzione di quell’epoca pienamente attendibile, sia per carenze documentarie, sia per la frequente caratterizzazione retorica,
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della quale vigoroso esempio è costituito dalla personalità di Lorenzo Valla, l’impegno del quale «contro gli ecclesiastici fu tra i più acerbi mai intrapresi dagli Umanisti», aprendo la pista agli acri conflitti dei Protestanti contro il pontefice. L’Autore, con l’inestimabile erudizione che contraddistingue ogni pagina delle sue opere, con uno stile che mantiene vive le pieghe più raffinate della nostra lingua, animate da sfumature di sapiente ironia, guida il lettore nella complessità di un’epoca ricca anche di contraddizioni, dove si contende per l’autonomia da un lato di un Umanesimo che vuole assicurarsela anche in materia religiosa, dall’altro di un francescanesimo diviso tra gli estremi della corruzione mondana e dell’assoluta spiritualità, che faceva a meno, sull’esempio di Francesco, della cultura, o la considerava un pericolo e un impedimento per la purezza morale e la vita ascetica. Tale diversificazione era dovuta anche all’elevato numero di claustrali, sia maschili che femminili, spesso aditi a casi di illegittima promiscuità, a fronte dei quali i conventi agirono oscillando da un blando controllo a una dura repressione; d’altro canto anche preti e parroci si rivelavano spesso inadeguati al compito pastorale, cui i Francescani si adoperavano per sopperire, tra fenomeni di competizione e tentativi di convergenza con gli altri ordini. La miniera di riferimenti in nota è un valore aggiunto per il ricercatore più esigente, mentre il lettore può godere scorrevolmente questo viaggio nel mondo quattrocentesco. In questo periodo, maestri di spirito, provenienti in gran parte dai Mendicanti e Umanisti si scontrarono sugli studia humanitatis, visti dagli uni come un temibile ritorno
al paganesimo e dagli altri «considerati un vademecum irrinunciabile, per esprimere le potenzialità dell’uomo», apparentemente forti delle proprie posizioni, a ben leggere travagliati da profonda inquietudine per la precarietà dei propri ruoli. Gli Umanisti «mantennero vivo nel popolo di Dio il desiderio di una Chiesa riformata» e vollero «che gli ordini monastici rientrassero nell’alveo delle norme imposte dalle regole; anche tra i Francescani figurano litterati a tutto tondo, coinvolti nella difesa degli studia humanitatis, «mentre gli altri, seguaci della sancta rusticitas, erano privi dei mezzi mentali per prendervi parte». Le tesi dell’autore prendono voce dalle diffusissime citazioni dei protagonisti dell’epoca, Frati e Umanisti, tra i quali più ricorrente è la presenza autorevole di S. Francesco. I claustrali si facevano per lo più araldi della vita nascosta, mentre gli Umanisti cercavano il riconoscimento pubblico, cortigiano, in ultima analisi il potere. Ma i due movimenti non si coagulavano in un fronte omogeneo, bensì rimanevano frammentati in un’effettiva eterogeneità di espressioni non scevre di contraddizioni interne. Uno dei compiti assunti dall’autore è pertanto quello di tracciare da un lato le generalità che accomunavano i due schieramenti in contrasto, dall’altro di render conto della sfaccettata complessità che incarnava tali identità. Più impegnati a sopraffarsi che ad intendersi, molti Frati e Umanisti percorrevano su sponde diverse una stessa via, quella della ricerca di Dio, attraverso la riscoperta di un cristianesimo più autentico, attingendo alle origini. In alcuni casi i laici «ricorrevano ai frati per averne i servizi o i consigli»; inoltre li vollero fidecommessi nei lasciti o per
Angèle Rachel Bilégué
le opere di carità; persino erano usati quali agenti diplomatici o insospettabili spie. Nel Francescanesimo risultano dunque «due anime che si scontravano»: «quella che immergendosi in Dio riteneva di trovarvi tutto, e l’altra convinta di dovervi affiancare la scienza per comprendere il mondo, le sue leggi, i suoi travagli, in modo diverso gli uomini restavano inavvicinabili, e il messaggio di Cristo un ricco patrimonio affidato a eredi neghittosi, capaci di renderlo sterile». Anche il rapporto con la povertà risultò nell’ordine ambivalente e riscontrabile nella divisione di Conventuali, sostenitori di un’aderenza più libera alle norme in armonia con i tempi, con il consenso, volontario o estorto, dei pontefici e Osservanti, espressione di un rigido ritorno alla regola. Da un lato, con l’avallo dei primi, i frati dipendevano dalle elargizioni laiche per il loro sostentamento, dall’altro soprattutto gli altri predicavano la dedizione di ogni bene alle opere di carità; comunque necessitavano tutti di sovvenzioni anche per il mantenimento dell’immenso patrimonio immobiliare e la fornitura dei libri per il culto. D’altro canto gli Umanisti avevano i loro interessi nell’entrare all’interno dell’orbita ecclesiastica, “umanizzando” la stessa religione e persino un genere letterario quale l’agiografia, esaltazione della virtù cara agli umanisti e concreta risposta alla diffusa aspirazione all’immortalità, ma anche documentazione biografica da confrontare con il lavoro degli storiografi, come nel caso, esaminato dall’autore, di Bernardino da Siena, dei suoi rapporti con il pontefice e del riscatto degli Osservanti rispetto ai Conventuali. Michele Cataluddi
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PORCELLUZZI SALVATORE, Siamo tutti educabili. Migliorare noi stessi e il mondo che ci circonda, Effatà, 2015, pp. 144. e 11,00. Nel Volume “Siamo tutti educabili”, Salvatore Porcelluzzi presenta gli strumenti necessari all’uomo di oggi, in modo da poter migliorare se stesso ed il mondo che lo circonda. L’autore è convinto che coltivare se stessa è il compito principale della persona, e questo è possibile grazie all’educazione. Afferma infatti: “Dalla nascita in poi ogni essere umano diviene educabile”. Il libro è diviso in cinque parti: nella prima parte, viene affrontato il tema dell’educabilità della persona. Il fondamento del principio di educabilità scaturisce dalla convinzione che “nessuno può ritenersi non educabile”. È importante educarsi per educare. Anche l’educatore, mentre educa gli altri, è sottoposto a questo principio, che lo porta alla verifica e al cambiamento dei propri atteggiamenti. L’esperienza personale della capacità di auto-modificazione da parte dell’educatore stimola l’educando a migliorare e a costruire una personalità solida, fondata su valori autentici. Questi aiutano il ragazzo ad avere un progetto di vita che si costruisce nel presente, sulla base del passato, ed è teso verso il futuro. L’esperienza originale di sentirsi amati permette all’uomo di amare e di stabilire una relazione equilibrata con gli altri, soprattutto nella sfera sessuale. Nella seconda parte, l’autore affronta il tema dell’educabilità nelle relazioni familiari, sottolineando la necessità da parte delle famiglie di ricordare e fare riferimento a delle regole. Per Porcelluzzi, infatti, una delle cause che genera disordine ed incomprensioni nelle famiglie è il mancato rispetto delle regole
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RECENSIONI
stabilite all’interno. Questo avviene per la scarsa validità delle motivazioni, che possono nascere da difficoltà personali (per esempio, un genitore che vieta al figlio di non andare in giro in bicicletta con gli amici, perché teme di stare in ansia). Nelle relazioni familiari, i no ed i sì aiutano i figli a crescere. Ma occorre un giusto dosaggio. Il genitore deve cercare di essere equilibrato, evitando sia un eccesso di permissivismo, sia un eccesso di rigore. Il dialogo deve essere al centro delle relazioni: dialogo tra figli e genitori, dialogo tra marito e moglie, dialogo con i nonni, dialogo tra scuola e famiglia; tutto questo contribuisce all’educazione del ragazzo. L’educazione del figlio deve essere, infine, unitaria, per evitare il rischio che al ragazzo uno dei genitori o dei nonni o un maestro sembri cattivo. Nella terza parte viene presentato il tema dell’educabilità nel mondo scolastico. La maggior parte degli studenti non ama la scuola. Le cause di ciò si trovano spesso nella storia del ragazzo: un basso livello di autostima, cioè la sfiducia nelle proprie capacità; l’accumulo di eccessive lacune nelle varie materie; la convinzione di non poter riuscire; la mancanza di un efficace metodo di studio e il rapporto conflittuale con i maestri. I genitori devono interessarsi di più per lo studio dei figli, incoraggiandoli ed accompagnandoli nel loro percorso scolastico. La quarta parte riguarda l’educabilità nel mondo giovanile. Si riscontra spesso un disagio evolutivo e patologico in tanti giovani. Superare piccoli disagi nel cammino di crescita fa parte del percorso naturale dell’uomo ed è necessario
per proseguire nel cammino di vita. I problemi nascono quando si supera una determinata soglia, e il disagio diventa cronico. L’autore suggerisce, allora, di utilizzare il sistema preventivo di Don Bosco, che non era diretto a ragazzi privilegiati e scelti, ma alla “massa” e soprattutto ai ragazzi difficili. I giovani hanno bisogno di essere valutati, accettati ed incoraggiati. L’ultima parte tratta dell’educabilità nella società di oggi. Anche in questa parte viene proposta la frase di D. Bosco: “educare è cosa del cuore”. Chi ama educa davvero, l’educatore deve volere bene sia a se stesso, che all’educando. Educare è compito di tutti ed è un bene comune, tutti devono essere coinvolti: famiglia, scuola, parrocchia, società, quartiere, paese. L’autore cita un proverbio africano: “per educare un figlio, ci vuole l’intero villaggio”. I temi del libro, sebbene complessi, sono affrontati concretamente dall’autore, grazie alla sua esperienza diretta con i ragazzi nel ruolo di insegnante, e sono trattati in modo da stimolare profonde riflessioni e da essere facilmente interiorizzati. Egli offre al lettore una fotografia chiara dei problemi dell’uomo contemporaneo e gli suggerisce un percorso di collaborazione autentico per aiutare il bambino, l’adolescente ed il giovane di oggi a realizzare una crescita integrale. Inoltre egli invita tutti gli educatori all’umiltà, poiché ciascuno di noi, fino alla morte, ha qualcosa da imparare dagli altri per poter migliorare se stesso. Angèle Rachel Bilégué
Collaboratori di “Rivista Lasalliana” Gianni Ambrosio ✠
Renato Di Nubila
Giovanni Palladino
Dario Antiseri
Paulo Dullius
Marco Paolantonio
Domenico Anzini
Grazia Fassorra
Laura Pappone
Edwin Arteaga Tobón
Flavio Felice
Michele Pennisi ✠
Antonio Augenti
Mario Ferrari
Marina Pescarmona
Gilles Beaudet
Paolo Fichera
Francesco Pesce
Giovanni Decina
Italo Fiorin
Anna Maria Pezzella
Denis Biju-Duval
Matthieu Fontaine
Francesco Pistoia
Bruno Bordignon
Emma Franchini
Bérnard Pitaud
Graziella Bussoni
Antonio Gentile
Óscar A. Elizalde Prada
Emilio Butturini
Claudio Gentili
Jaume Pujol
Alessandro Cacciotti
Oreste Gianfrancesco
Hilaire Raharilalao
Marco Camerini
Pedro Gil
Carmelo Raspa
Italo Carugno
Eugenio Guccione
Francis Ricousse
Umberto Casale
Remo L. Guidi
Alberto Rizzi
Leonardo Catalano
Alain Houry
Álvaro Rodríguez E.
Michele Cataluddi
Antonio Iannaccone
Vincenzo Rosito
Umberto Chiaramonte
Léon Lauraire
Carlo Rubinacci
Mario Chiarapini
Lino Lauri
Filippo Sani
Giovanni Chimirri
Annalena Liberotti
Enrico Solmi ✠
Jérard Cholvy
Anna Lucchiari
Marica Spalletta
Sergio Cicatelli
Sara Mancinelli
Giuseppe Tacconi
Gennaro Cicchese
Giuseppe Mari
Biancamarta Tammaro
Terry Collins
Vito Moccia
Lorenzo Tébar Belmonte
V. Cuvilliers
Patrizia Moretti
Cesare Trespidi
Enrico dal Covolo ✠
Philippe Moulis
Francesco Trisoglio
Gaetano Dammacco
Raimondo Murano
Joan Carles Vázquez
Sergio De Carli
Carlo Nanni
Ciro Vitiello
Magali Devif
Edgar Nicodem
Maurizio Viviani
Gabriele Di Giovanni
Raffaele Norti
Roberto Zappalà
RL
Rivista Lasalliana, pubblicazione trimestrale di cultura e formazione pedagogica, fondata in Torino nel 1934, si ispira alla tradizione educativa di Jean-Baptiste de La Salle (1651-1719) e delle Scuole Cristiane da lui istituite. Affronta il problema educativo in un’ottica prevalentemente scolastica, offrendo strumenti di lettura valutativa dei contesti culturali e stimoli orientativi all’esercizio della professione docente. Promuove studi storici sulle fonti bibliografiche della vita e degli scritti del La Salle, sull’evoluzione della pedagogia e della spiritualità del movimento lasalliano, aggiorna su ricerche in corso, avvalendosi della collaborazione di un gruppo internazionale di consulenti. È redatta da un Comitato di Lasalliani della Provincia Italia e di altri esperti in scienze umane, pedagogiche e religiose operanti con ruoli di ricerca, docenza e formazione in istituzioni scolastiche, para-scolastiche e universitarie.
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