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Rivista lasalliana Direzione: 00149 Roma - Via dell’Imbrecciato, 181 ( 06.552.100.243 - E-mail: donato.petti@tiscali.it Amministrazione: 00196 Roma - Viale del Vignola, 56 Sito web: www.lasalliana.com
2015
Rivista lasalliana
RL
Rivista Lasalliana, pubblicazione trimestrale di cultura e formazione pedagogica, fondata in Torino nel 1934, si ispira alla tradizione educativa di Jean-Baptiste de La Salle (1651-1719) e delle Scuole Cristiane da lui istituite. Affronta il problema educativo in un’ottica prevalentemente scolastica, offrendo strumenti di lettura valutativa dei contesti culturali e stimoli orientativi all’esercizio della professione docente. Promuove studi storici sulle fonti bibliografiche della vita e degli scritti del La Salle, sull’evoluzione della pedagogia e della spiritualità del movimento lasalliano, aggiorna su ricerche in corso, avvalendosi della collaborazione di un gruppo internazionale di consulenti. È redatta da un Comitato di Lasalliani della Provincia Italia e di altri esperti in scienze umane, pedagogiche e religiose operanti con ruoli di ricerca, docenza e formazione in istituzioni scolastiche, para-scolastiche e universitarie.
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ISSN 1826-2155
Rivista lasalliana
trimestrale di cultura e formazione pedagogica Donato Petti Il valore della libertà religiosa Francesco Trisoglio S. Ambrogio: la fede lineare e compatta Sergio Cicatelli L’insegnamento della religione cattolica nella scuola cattolica Leonardo Catalano La sfida universale della pedofilia. L’abuso sessuale di bambini Dario Antiseri Ma davvero le discipline umanistiche sono “sapere superfluo”? Mario Ferrari Il valore formativo della matematica Carlo Rubinacci L’avvio del sistema nazionale di valutazione delle scuole Umberto Chiaramonte Luigi Sturzo e il dibattito sulla scuola Magali Devif-Philippe Moulis-F. Francis Ricousse Fratel Barthélemy (1717-1720), successore di S. Giovanni Battista de La Salle GENNAIO - MARZO 2015 • ANNO 82 – 1 (325)
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Rivista Lasalliana, pubblicazione trimestrale di cultura e formazione pedagogica, fondata in Torino nel 1934, si ispira alla tradizione educativa di Jean-Baptiste de La Salle (1651-1719) e delle Scuole Cristiane da lui istituite. Affronta il problema educativo in un’ottica prevalentemente scolastica, offrendo strumenti di lettura valutativa dei contesti culturali e stimoli orientativi all’esercizio della professione docente. Promuove studi storici sulle fonti bibliografiche della vita e degli scritti del La Salle, sull’evoluzione della pedagogia e della spiritualità del movimento lasalliano, aggiorna su ricerche in corso, avvalendosi della collaborazione di un gruppo internazionale di consulenti. È redatta da un Comitato di Lasalliani della Provincia Italia e di altri esperti in scienze umane, pedagogiche e religiose operanti con ruoli di ricerca, docenza e formazione in istituzioni scolastiche, para-scolastiche e universitarie.
Alessandro Cacciotti Marco Camerini Italo Carugno Umberto Casale Leonardo Catalano Umberto Chiaramonte Mario Chiarapini Giovanni Chimirri Jérard Cholvy Sergio Cicatelli
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Francesco Pistoia Bérnard Pitaud Óscar A. Elizalde Prada Jaume Pujol Carmelo Raspa Francis Ricousse Álvaro Rodríguez E. Vincenzo Rosito Carlo Rubinacci Filippo Sani
Annalena Liberotti
Enrico Solmi ✠
V. Cuvilliers
Anna Lucchiari
Marica Spalletta
Enrico dal Covolo ✠
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RIVISTA LASALLIANA Trimestrale di cultura e formazione pedagogica fondato nel 1934 Anno 82 • numero 1 • gennaio-marzo 2015 Direttore DONATO PETTI
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Rivista lasalliana 82 (2015) 1
SOMMARIO - SUMMARIES EDITORIALE - EDITORIAL 9
Donato Petti Il valore della libertà religiosa In alcune regioni del mondo non è possibile professare liberamente la propria religione, se non a rischio della vita e della libertà personale. In altre vi sono forme più silenziose e sofisticate di pregiudizio e di opposizione verso i credenti e i simboli religiosi. I cristiani sono attualmente il gruppo religioso che soffre il maggior numero di persecuzioni a motivo della propria fede. Alla luce degli immani massacri di cristiani nel mondo e dell’intolleranza religiosa, l’editoriale presenta i fondamenti del diritto alla vita spirituale e della dimensione pubblica della fede, nella ferma condanna di ogni fondamentalismo e fanatismo religioso. In una società globalizzata, pluriculturale e plurireligiosa come la nostra, viene riaffermata la necessità del dialogo autentico e fecondo tra istituzioni civili e religiose, fra le culture e le religioni, nell’impegno dell’edificazione di un mondo degno dell’uomo. The value of religious liberty In some parts of the world, it is not possibile to make an open profession of one’s religion without a risk to one’s life and personal freedom. Currently, Christians make up the religious group which is suffering the most persecution for its faith. In the light of the terrible massacres of Christians and of the religious intolerance throughout the world, our editorial presents the fundamental principles of the right to a spiritual life and of the public dimension of the faith, firmly condemning every form of fundamentalism and religious fanaticism. In a society which is globalized, pluri-cultural and pluri-religious, we reaffirm the need for authentic and fruitful dialogue between civil and religious institutions, between cultures and religions, in order to build a world worthy of humanity.
STUDI - STUDIES 21
Francesco Trisoglio La fede lineare e compatta: S. Ambrogio, De fide Il De fide è una costruzione compatta nella sua struttura perfettamente organica nell’architettura, solida nelle dimostrazioni, stringente nelle deduzioni. Fondamento è la Scrittura nell’obiettiva interpretazione dei
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suoi significati, al riparo da allegorismi e da applicazioni accomodatizie. Il discorso, condotto con una seria pacatezza che s’inibisce divagazioni e soste pittoresche, evita l’uggia delle astrazioni e si fa apprezzare per la chiarezza delle sue formulazioni, la costante dignità di una sintassi perspicua aliena da involuzioni e la spontanea eleganza di una lessicologia signorilmente distinta. L’esposizione si vivacizza volentieri in interventi dialogici che amano impostarsi sul dilemma ed acuirsi nella sfida. Faith that is linear and compact: Saint Ambrose’s, De fide The De fide of Saint Ambrose is compact in its structures and perfectly organic in its design, solid in its demonstrations, stringent in its deductions. It is rooted in Scripture interpreted objectively, free from allegorising and accomodational applications. The discours proceeds with calm seriousness, avoiding abstraction, and it is noted for its clarity of formulation, the sustained dignity of its unconvoluted syntax and the spontaneous elegance of its distinctive, masterly vocabulary. The presentation is regularly enlivened by dialogues that delve into the problems and sharpen the challenge.
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Sergio Cicatelli L’insegnamento della religione cattolica nella scuola cattolica L’insegnamento della religione cattolica è presente in tutte le scuole italiane, statali e non statali. Nelle scuole cattoliche esso si sovrappone e si integra con il progetto educativo della scuola, suscitando alcuni problemi analizzati dall’Autore a partire dal profilo giuridico della disciplina e affrontando nell’ordine la legislazione civile, quella concordataria e quella canonica. Vengono esaminate alcune questioni più legate alla pratica scolastica: la natura dell’insegnamento della religione cattolica, la sua facoltatività, l’apparato didattico, la sua valorizzazione curricolare, le nuove regole di formazione iniziale degli insegnanti di religione, l’affidamento dell’insegnamento di religione agli insegnanti della classe o sezione nella scuola primaria e dell’infanzia, l’idoneità canonica degli insegnanti. Teaching the Catholic religion in a Catholic school The teaching of the Catholic religion takes place in all Italian schools, public or private. In Catholic schools it is an integral part of the school’s educational project, and this gives rise to certain problems which are analysed by the author in terms of the legal profile of the subject matter in relation to its place in civil legislation based on canon law and the Concordat. He examines some questions concerning teaching methodology, such as the nature of the teaching of the Catholic faith, its optional nature, teaching aids, curriculum evaluation, the new laws on intial training of teachers of religion, the practice of entrusting the teaching of religion to class teachers or section teachers in primary and infant schools, the canonical suitability of the teachers.
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Leonardo Catalano La sfida universale della pedofilia. L’abuso sessuale di bambini La sfida universale della pedofilia è l’impegno a cui rispondere contro l’abuso sessuale di bambini. L’Autore, partendo dalla definizione di abuso sessuale, analizza la fenomenologia dell’abuso e le sue forme. La pedofilia si manifesta anche come cultura e pedopornografia online. Di fronte all’orrore di certi comportamenti, che non sono più nascosti, si approfondisce il tema dal punto di vista biblico, dando alcune coordinate storiche. Attraverso questo si giunge ad un percorso pedagogico, che invita alla responsabilità, alla ricerca di cure possibili, ad una sensibilità preventiva, coltivando una cultura dell’infanzia, e alla repressione, perché amare non è abusare. The universal challenge of pedophilia. The sexual abuse of children The universal challenge of pedophilia is the commitment to be answered against the sexual abuse of children. The Author, starting from the definition of sexual abuse, examines the phenomenology of the abuse and its forms. Pedophilia is also seen as a culture and child pornography online. Faced with the horror of certain behaviors that are no longer hidden, it examines the issue from the biblical point of view, giving some historical coordinates. Through this we come to an educational approach, that calls for responsibility, looking for possible cures, for a sensitivity prior, cultivating a culture of childhood, and repression, because love is not abuse.
PROPOSTE - PROPOSALS 59
Dario Antiseri Ma davvero le discipline umanistiche sono “sapere superfluo”? Circola ancora il pregiudizio del più rozzo positivismo, sulla presunta e dannosa inattualità delle discipline umanistiche e, quindi, del Liceo classico che, diversamente dalle scienze naturali, non offrirebbe autentiche conoscenze, ma unicamente cumuli di vuota retorica. L’Autore ribadisce che la ricerca scientifica va avanti per congetture e tentativi di confutazioni, per trial and error – direbbe Karl Popper. E questo metodo è il metodo della fisica e della filosofia, della chimica e della storiografia, della biologia e della critica letteraria; è il metodo di un critico testuale, di un epigrafista, di un esegeta biblico e di un traduttore. L’esperienza estetica e quella scientifica hanno entrambe un carattere fondamentalmente cognitivo. Da qui, l’imprescindibilità, nella formazione dei giovani, dell’insegnamento della filosofia, della storia e della letteratura. Sono sulla cattiva strada Stati come la Cina e Singapore, dove sono state attuate vaste riforme dell’istruzione tali da conferire maggiore centralità agli studi umanistici sia nell’istruzione di base che in quella superiore?
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Are the humanities subjects really “superfluous knowledge”? We still find some prejudice regarding the allegedly harmful lack of relevance of humanities, and by implication of the classical liceum, which as opposed to natural sciences do not provide real knowledge but only an accumulation of empty rhetoric. The author states that scientific research advances by way of conjectures and attempts to refute them. This method is equally valid for physics and philosophy, for chemistry and history, for biology and literary criticism. It is the method of text criticism used by epigraphists, biblical exegetes and translators. Aesthetic experience and scientific experience are both fundamentally cognitive by nature. Hence the essential value in education of the teaching of philosophy, history and literature. Are States like China and Singapore on the wrong track when they introduce great teaching reforms which confer a more central place to humanities in primary and secondary education?
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Mario Ferrari Il valore formativo della matematica L’articolo presenta alcune considerazioni sul “valore formativo della matematica”. Non è un argomento molto trattato al di fuori della cerchia ristretta dei matematici e dei didattici della matematica, ma presenta, un suo interesse e, forse, un suo fascino. Dopo aver descritto che cosa s’intende per “persona matura”, viene illustrato il contributo che la matematica ed il suo insegnamento può dare alla formazione di una “persona matura” concludendo con l’auspicio dell’avvento di un “umanesimo scientifico”, che faccia sintesi dei valori dell’umanesimo classico e della scienza. The educational value of mathematics The topic of the “educational value of mathematics” is not often discussed out-side the restricted circles of mathematics and the teaching of mathematics, but it does have interest in itself and perhaps even fascination. After describing what is meant by a “mature person”, the author illustrates the contribution that can be made by mathematics and the teaching of it to the development of a “mature person”, concluding with a suggestion of the possible emergence of a “scientific humanism” in a synthesis of the values of the classical humanities and science.
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Carlo Rubinacci L’avvio del sistema nazionale di valutazione: una risorsa per il miglioramento di qualità delle scuole Il Sistema Nazionale di Valutazione (legge 26 febbraio 2011, n. 10) si articola nell’Istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa (Indire), nell’Istituto nazionale per la valutazione del sistema di istruzione e formazione (Invalsi) e nel corpo ispettivo. L’im-
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plementazione del Sistema Nazionale di Valutazione (SNV) è finalizzato al miglioramento di qualità degli esiti formativi: in tale contesto, le istituzioni scolastiche sono chiamate ad offrire un contributo attivo e consapevole, affinché la valutazione diventi una risorsa per lo sviluppo dell’autonomia e la qualità dell’istruzione. The start up of the national evaluation system: a resource to improve the quality of education There are three main parties involved in implementing the National Evaluation System (incorporated into legislation by Law no. 10/2011): the National Institute for the Evaluation of the Education and Training System (INVALSI); the National Institute for Documentation, Innovation and Research (INDIRE); inspectors from the Italian Ministry of Education. The evaluation process within the SNV has four phases: school self-evaluation; external evaluation; actions for improvement; reporting by schools in order to ensure public accountability. The focus of the National Evaluation System is on the efficiency and effectiveness of the education and training system as well as the quality of education provision.
RICERCHE - RESEARCH 97
Umberto Chiaramonte Luigi Sturzo e il dibattito sulla scuola Tra i temi più discussi nei cento cinquanta anni dell’Unità nazionale, sono da inserire quelli della laicità dello Stato e dell’istruzione, la libertà di insegnamento nei diversi ambiti: dei contenuti, del metodo, della scuola pubblica e privata, dell’insegnamento della religione, del clericalismo e dell’agnosticismo; per non parlare del suo regionalismo e autonomismo solidale anche nella scuola. Numerosi autori, letterati, scienziati, sociologi e gran parte degli insegnanti, hanno discusso e scritto su queste problematiche misurandosi con il pensiero politico di don Luigi Sturzo. L’Autore esamina questi contributi e, soprattutto, individua la specifica attenzione del Sacerdote, che ricoprì numerose cariche amministrative, ed è stato il fondatore del Partito popolare italiano. Luigi Sturzo and the debate on freedom in schools and of schools Among the most debated topics in the 150 years of National Unity, have been those related to the laicity of the State and of education, the freedom of education and the choice of education by the family. Literary experts, scientists, sociologists and many teachers have discussed and written about these problems, using Luigi Sturzo as their point of reference. The author examines these contributions, and in particular he singles out for attention the Sicilian
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priest and founder of the Italian Popular Party, who defended school freedoms against the educational monopoly of the State.
121 Magali Devif - Philippe Moulis - F. Ricousse Il primo Superiore dell’Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane: Fratel Barthélemy (1717 - 1720) Nell’Assemblea del maggio 1717, Fratel Barthélemy è eletto Superiore dell’Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane, vivente il Fondatore, Giovanni Battista de La Salle. Nonostante l’esistenza di vari studi, nell’insieme, la vicenda del primo Superiore dell’Istituto, successore del de La Salle, rimane poco nota. The first Superior of the Brothers of the Christian Schools: Brother Barthélemy (1717 - 1720) In the Assembly of May 1717, Brother Barthélemy was elected Superior of the Brothers of the Christian Schools when the Founder, John Baptiste de La Salle, was still living. Existing studies notwithstanding, little is known about the activities of the first Superior and successor of De La Salle. The authors give a presentation of his personality and his work.
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RECENSIONI E NOTE - REVIEWS AND NOTES
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SEGNALAZIONE LIBRI - BOOK REPORTS
Rivista Lasalliana 82 (2015) 1, 9-20
EDITORIALE
IL VALORE DELLA LIBERTÀ RELIGIOSA DONATO PETTI
SOMMARIO: 1. Minacce nel mondo alla libertà religiosa. - 2. Fondamenti del diritto alla vita spirituale. - 2.1. Libertà religiosa e libertà morale. - 3. La dimensione pubblica della religione. 3.1. La libertà religiosa come relazione. - 3.2. Contributo civile della religione. - 4. Il fondamentalismo e il fanatismo religioso. - 4.1. Dialogo tra istituzioni civili e religiose. - 4.2. Dialogo fra le culture e le religioni. - 4.3. La sfida del sincretismo religioso. - 4.4. Autenticità del dialogo interculturale e interreligioso.
La libertà religiosa è un diritto umano fondamentale. Ogni individuo dev’essere libero, da solo o associato ad altri, di cercare la verità, di esprimere apertamente le sue convinzioni religiose, libero da intimidazioni e da costrizioni esterne.1
1. Minacce nel mondo alla libertà religiosa
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n alcune regioni del mondo non è possibile professare ed esprimere liberamente la propria religione, se non a rischio della vita e della libertà personale. In altre vi sono forme più silenziose e sofisticate di pregiudizio e di opposizione verso i credenti e i simboli religiosi. In diversi Paesi, d’altronde, la Costituzione riconosce una certa libertà religiosa, ma, di fatto, la vita delle comunità religiose è resa difficile e talvolta anche precaria, perché l’ordinamento giuridico o sociale si ispira a sistemi filosofici e politici che postulano uno stretto controllo, per non dire un monopolio, dello Stato sulla società.2
1 PAPA FRANCESCO, Omelia alla Santa Messa e canonizzazione del Beato Giuseppe Vaz, in occasione del Viaggio apostolico in Sri Lanka e Filippine, 14 gennaio 2015. 2 BENEDETTO XVI, Discorso ai membri del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede per la presentazione degli auguri per il nuovo anno, 10 gennaio 2011.
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EDITORIALE
Donato Petti
Forme sofisticate di ostilità contro la religione fomentano spesso l’odio e il pregiudizio e non sono coerenti con una visione serena ed equilibrata del pluralismo e della laicità delle istituzioni. Si tende a considerare la religione, ogni religione, come un fattore senza importanza, estraneo alla società moderna o addirittura destabilizzante, e si cerca con diversi mezzi di impedirne ogni influenza nella vita sociale. I cristiani sono attualmente il gruppo religioso che soffre il maggior numero di persecuzioni a motivo della propria fede. Un’altra manifestazione dell’emarginazione della religione e, in particolare, del cristianesimo, consiste nel bandire dalla vita pubblica feste e simboli religiosi, in nome del rispetto nei confronti di quanti appartengono ad altre religioni o di coloro che non credono. In tal modo, non soltanto si limita il diritto dei credenti all’espressione pubblica della loro fede, ma si tagliano anche radici culturali che alimentano l’identità profonda e la coesione sociale di numerose nazioni. D’altra parte, a nulla valgono le proclamazioni astratte della libertà religiosa se non trovano applicazione e rispetto a tutti i livelli e in tutti i campi, anzi se in loro nome si commettono profonde ingiustizie verso i cittadini che desiderano professare e praticare liberamente la loro fede.3
2. Fondamenti del diritto alla vita spirituale Il Concilio Vaticano II, con il Decreto Dignitatis humanae sulla libertà religiosa, facendo suo un principio essenziale dello Stato moderno, ha riaffermato i fondamenti del diritto di ogni persona alla libertà religiosa, cioè ad una propria vita spirituale. Molti secoli fa, Tertulliano coniò l’espressione libertà di religione,4 evidenziando che Dio deve essere adorato liberamente e che è nella natura della religione non ammettere coercizioni.5 I Padri Conciliari hanno proposto un rinnovato fondamento antropologico della libertà religiosa, affermando che tutti sono “dalla loro stessa natura e per obbligo morale tenuti a cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione”.6 Poiché l’uomo gode della capacità di libera scelta personale nella verità e poiché Dio si aspetta dall’uomo una risposta libera alla sua chiamata, il diritto alla libertà religiosa si dovrebbe considerare innato alla dignità fondamentale di ogni persona umana, in sintonia con l’apertura innata del cuore
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BENEDETTO XVI, Ibidem. Cfr. Apologeticum, 24, 6. 5 BENEDETTO XVI, Messaggio al Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, 29 aprile 2011. 6 CONCILIO VATICANO II, Decreto “Dignitatis humanae”, 2. 4
Il valore della libertà religiosa
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umano a Dio. Infatti, l’autentica libertà di religione permette alla persona umana di realizzarsi e, quindi, contribuisce al bene comune della società. Purtroppo si stanno moltiplicando in tutto il mondo gli episodi di intolleranza religiosa, specie nei confronti del cristianesimo e di coloro che semplicemente indossano i segni identitari della propria religione. In questo momento storico, e alla luce di numerosi fatti della cronaca quotidiana, diventa sempre più importante che il diritto alla libertà religiosa sia promosso non solo dal punto di vista negativo, come libertà da – ad esempio, da obblighi e costrizioni circa la libertà di scegliere la propria religione –, ma anche dal punto di vista positivo, nelle sue varie articolazioni, come libertà di: ad esempio, di testimoniare la propria religione, di compiere attività educative, di beneficenza e di assistenza che permettono di applicare i precetti religiosi; di esistere e agire come organismi sociali, strutturati secondo i principi dottrinali e i fini istituzionali che sono loro propri. 7 Affermare il diritto alla libertà religiosa, sia nella sua dimensione individuale che in quella comunitaria, non significa reclamare un privilegio ma semplicemente una condizione per la realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale.8 Le Religioni e gli Stati, pur pienamente distinti, sono entrambi chiamati, secondo la loro rispettiva missione e con i propri fini e mezzi, a servire l’uomo, e quest’ultimo si presenta anche con la sua dimensione religiosa, che lo Stato esso è tenuto a rispettare e promuovere. 9 Per salvaguardare effettivamente l’esercizio della libertà religiosa è essenziale rispettare il diritto all’obiezione di coscienza. Questa “frontiera” della libertà tocca dei principi di grande importanza, di carattere etico e religioso, radicati nella dignità stessa della persona umana, che sono come i “muri portanti” di ogni società che voglia essere veramente libera e democratica. Pertanto, vietare l’obiezione di coscienza individuale ed istituzionale, in nome della libertà e del pluralismo, paradossalmente aprirebbe, invece, le porte proprio all’intolleranza e al livellamento forzato.10 2.1. – Libertà religiosa e libertà morale La libertà religiosa va intesa non solo come immunità dalla coercizione, ma prima ancora come capacità di ordinare le proprie scelte secondo la veri-
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BENEDETTO XVI, Messaggio per la celebrazione della XLVI Giornata Mondiale della pace 2013, 8 dicembre 2012, n. 4. 8 BENEDETTO XVI, Messaggio per la celebrazione della XLIV Giornata Mondiale della Pace, 8 dicembre 2010. 9 BENEDETTO XVI, Discorso al Presidente della Repubblica Italiana, 20 novembre 2006. 10 BENEDETTO XVI, Discorso in occasione della presentazione degli auguri degli Ecc.mi membri del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 7 gennaio 2013.
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EDITORIALE
Donato Petti
tà. Esiste un legame inscindibile tra libertà e rispetto; infatti, nell’esercitare i propri diritti, i singoli esseri umani e i gruppi sociali, in virtù della legge morale, sono tenuti ad avere riguardo tanto ai diritti altrui, quanto ai propri doveri verso gli altri e verso il bene comune. Una libertà nemica o indifferente verso Dio finisce col negare se stessa e non garantisce il pieno rispetto dell’altro. Una volontà che si crede radicalmente incapace di ricercare la verità e il bene non ha ragioni oggettive né motivi per agire, se non quelli imposti dai suoi interessi contingenti. Non può, dunque, reclamare il rispetto da parte di altre «volontà», anch’esse sganciate dal proprio essere più profondo, che quindi possono far valere altre «ragioni» o addirittura nessuna «ragione». L’illusione di trovare nel relativismo morale la chiave per una pacifica convivenza è, in realtà, l’origine della divisione e della negazione della dignità degli esseri umani. Si comprende, quindi, la necessità di riconoscere una duplice dimensione nell’unità della persona umana: quella religiosa e quella sociale. Al riguardo, è inconcepibile che i credenti debbano sopprimere una parte di se stessi – la loro fede – per essere cittadini attivi; non dovrebbe mai essere necessario rinnegare Dio per poter godere dei propri diritti.11 Infatti, quando la libertà religiosa è riconosciuta, la dignità della persona umana è rispettata nella sua radice e si rafforza l’ethos dei popoli. Viceversa, quando la libertà religiosa è negata si offende la dignità umana e, insieme, si minacciano la giustizia e la pace. La libertà religiosa è, in questo senso, anche un’acquisizione di civiltà politica e giuridica. Essa è un bene essenziale: ogni persona deve poter esercitare liberamente il diritto di professare e di manifestare, individualmente o comunitariamente, la propria religione o la propria fede, sia in pubblico che in privato, nell’insegnamento, nelle pratiche, nelle pubblicazioni, nel culto e nell’osservanza dei riti. In questo ambito, l’ordinamento internazionale risulta emblematico in quanto riconosce ai diritti di natura religiosa lo stesso status del diritto alla vita e alla libertà personale, a riprova della loro appartenenza al nucleo essenziale dei diritti dell’uomo. La libertà religiosa non è patrimonio esclusivo dei credenti, ma dell’intera famiglia dei popoli della terra.12
3. La dimensione pubblica della religione Partendo dall’assunto che solo la scienza è «oggettiva», perché fondata sulla capacità di calcolare e verificare mediante l’esperimento, la cultura
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BENEDETTO XVI, Ibidem. BENEDETTO XVI, Ibidem.
Il valore della libertà religiosa
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attuale in alcune aree del mondo, soprattutto in Occidente, di fronte alla carenza di riferimenti oggettivi nel determinare ciò che è bene, ciò che è vero e ciò che è bello, sottolinea molto la dimensione soggettiva della coscienza; in altri termini, il singolo individuo diventa, con i suoi valori e i suoi comportamenti, il metro di misura della verità e della morale. Questo vale anche per la religione: sicché la fede, come la speranza, nell’epoca moderna, sono state relegate sul piano privato e ultraterreno, senza alcuna rilevanza nella vita sociale; mentre nella vita concreta e pubblica si è affermata la fiducia nel progresso scientifico ed economico. Alcuni, ad esempio, sostengono che la celebrazione pubblica delle festività religiose andrebbe scoraggiata, secondo la convinzione che essa potrebbe in qualche modo offendere coloro che appartengono ad altre religioni o a nessuna. Altri ancora, paradossalmente con lo scopo di eliminare le discriminazioni, ritengono che i cristiani che rivestono cariche pubbliche dovrebbero, in determinati casi, agire contro la propria coscienza. A nessun benpensante può sfuggire che tali considerazioni sono segni preoccupanti dell’incapacità di tenere nel giusto conto non solo i diritti dei credenti alla libertà di coscienza e di religione, ma anche il ruolo legittimo della religione nella sfera pubblica.13 Infatti, se, da una parte, l’attenzione alla dimensione soggettiva dell’esistenza è un bene, perché permette di porre il valore della coscienza umana e la sua dignità al centro della considerazione sia nel pensiero che nell’azione storica, dall’altro lato conduce ad una visione riduttiva della stessa coscienza, lasciando al singolo individuo, con le sue intuizioni e le sue esperienze, il ruolo di arbitro e di misura della verità e della morale.14 La concezione cristiana della coscienza è diametralmente opposta. La «coscienza» significa la capacità di verità dell’uomo: la capacità di riconoscere proprio negli ambiti decisivi della sua esistenza – religione e morale – una verità, la verità. La coscienza, la capacità dell’uomo di riconoscere la verità, impone con ciò, al tempo stesso, il dovere di incamminarsi verso la verità, di cercarla e di sottomettersi ad essa laddove la incontra. Coscienza è capacità di verità e obbedienza nei confronti della verità, che si mostra all’uomo che cerca con il cuore libero.15 A quanti vorrebbero negare l’esistenza della coscienza morale nell’uomo, riducendo la sua voce al risultato di condizionamenti esterni o ad un feno13
BENEDETTO XVI, Discorso durante l’incontro con le autorità civili nella Westminster Hall - City of Westminster, 17 settembre 2010. 14 BENEDETTO XVI, Discorso ai Dirigenti e Agenti della Questura di Roma, 21 gennaio 2011. 15 BENEDETTO XVI, Discorso ai Cardinali, Arcivescovi e Vescovi, Prelatura Romana, per la presentazione degli auguri natalizi, 20 dicembre 2010.
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meno puramente emotivo, è importante ribadire che la qualità morale dell’agire umano non è un valore estrinseco oppure opzionale e non è neppure una prerogativa dei cristiani o dei credenti, ma accomuna ogni essere umano. Nella coscienza l’uomo tutto intero – intelligenza, emotività, volontà – realizza la propria vocazione al bene, cosicché la scelta del bene o del male nelle situazioni concrete dell’esistenza finisce per segnare profondamente la persona umana in ogni espressione del suo essere. Tutto l’uomo, infatti, rimane ferito quando il suo agire si svolge contrariamente al dettame della propria coscienza.16 3.1. – La libertà religiosa come relazione La libertà religiosa, come ogni libertà, pur muovendo dalla sfera personale, si realizza nella relazione con gli altri. Una libertà senza relazione non è libertà compiuta. Anche la libertà religiosa non si esaurisce nella sola dimensione individuale, ma si attua nella propria comunità e nella società, coerentemente con l’essere relazionale della persona e con la natura pubblica della religione. La relazionalità è una componente decisiva della libertà religiosa, che spinge le comunità dei credenti a praticare la solidarietà per il bene comune. In questa dimensione comunitaria ciascuna persona resta unica e irripetibile e, al tempo stesso, si completa e si realizza pienamente.17 Il progresso tecnico e scientifico e il miglioramento delle strutture sociali sono importanti e certamente necessari, ma non bastano a garantire il benessere morale della società.18 L’uomo ha bisogno di essere liberato dalle oppressioni materiali, ma deve essere salvato, e più profondamente, dai mali che affliggono lo spirito. La separazione artificiale del Vangelo dalla vita intellettuale e pubblica dovrebbe condurci ad una reciproca «autocritica dell’età moderna» e «autocritica del cristianesimo moderno », particolarmente riguardo alla speranza che essi possono offrire all’umanità. 19 Negare o limitare in maniera arbitraria le religioni dall’ambito pubblico significa coltivare una visione riduttiva della persona umana, generare una società ingiusta, poiché non proporzionata alla vera natura della persona umana, rendere impossibile l’affermazione di una pace autentica e duratura di tutta la famiglia umana.20
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BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti all’Assemblea Generale della Pontificia Accademia per la Vita, 26 febbraio 2011. 17 BENEDETTO XVI, Lettera Enciclica “Spe Salvi”, n. 17. 18 BENEDETTO XVI, Idem, n. 24. 19 BENEDETTO XVI, Omelia alla S. Messa nella città di Brno, 27 settembre 2009. 20 BENEDETTO XVI, Messaggio per la celebrazione della XLIV Giornata Mondiale della Pace, 8 dicembre 2010.
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L’esclusione delle religioni dall’ambito pubblico, come, per altro verso, il fondamentalismo religioso, impediscono l’incontro tra le persone e la loro collaborazione per il progresso dell’umanità.21 3.2. – Contributo civile della religione La religione è una forza positiva e propulsiva per la costruzione della società civile e politica. Come negare il contributo delle grandi religioni del mondo allo sviluppo della civiltà? La sincera ricerca di Dio ha portato ad un maggiore rispetto della dignità dell’uomo. Le comunità cristiane, con il loro patrimonio di valori e principi, hanno fortemente contribuito alla presa di coscienza delle persone e dei popoli circa la propria identità e dignità, nonché alla conquista di istituzioni democratiche e all’affermazione dei diritti dell’uomo e dei suoi corrispettivi doveri.22 È innegabile il contributo che le comunità religiose apportano alla società. Grazie a uomini e donne credenti sono sorte molte opere di carità, volte a promuovere lo sviluppo: ospedali, università, scuole di formazione professionale, micro-imprese. Sono iniziative che, molto prima di altre espressioni della società civile, hanno dato prova della sincera preoccupazione per l’uomo da parte di persone mosse dal messaggio evangelico. Più importante ancora è il contributo etico della religione nell’ambito politico. Esso non dovrebbe essere marginalizzato o vietato, ma compreso come valido apporto alla promozione del bene comune. In questa prospettiva bisogna menzionare la dimensione religiosa della cultura, tessuta attraverso i secoli grazie ai contributi sociali e soprattutto etici della religione. Tale dimensione non costituisce in nessun modo una discriminazione di coloro che non ne condividono la credenza, ma rafforza, piuttosto, la coesione sociale, l’integrazione e la solidarietà.23
4. Il fondamentalismo e il fanatismo religioso Una delle grandi sfide, drammaticamente urgente ai nostri giorni, è la condanna di tutte le forme di fanatismo e di fondamentalismo religioso. Assistiamo oggi a due tendenze opposte, due estremi entrambi negativi: da una parte il laicismo, che, in modo spesso subdolo, emargina la religione per confinarla nella sfera privata; dall’altra il fondamentalismo, che invece vorrebbe imporla a tutti con la forza.24 Non si può dimenticare che il fonda21
BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al convegno promosso dalla Fondazione “Centesimus annus-pro Pontifice”, 22 maggio 2010. 22 BENEDETTO XVI, Messaggio per la celebrazione della XLIV Giornata Mondiale della Pace, 8 dicembre 2010. 23 BENEDETTO XVI, Ibidem. 24 BENEDETTO XVI, Angelus, 1° gennaio 2011.
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mentalismo religioso e il laicismo sono forme speculari ed estreme di rifiuto del legittimo pluralismo e del principio di laicità. Entrambe, infatti, assolutizzano una visione riduttiva e parziale della persona umana, favorendo, nel primo caso, forme di integralismo religioso e, nel secondo, di razionalismo. La società che vuole imporre o, al contrario, negare la religione con la violenza, è ingiusta nei confronti della persona e di Dio, ma anche di se stessa. Proprio per questo, le leggi e le istituzioni di una società non possono essere configurate ignorando la dimensione religiosa dei cittadini o in modo da prescinderne del tutto. L’ordinamento giuridico a tutti i livelli, nazionale e internazionale, quando consente o tollera il fanatismo religioso o antireligioso, viene meno alla sua stessa missione, che consiste nel tutelare e nel promuovere la giustizia e il diritto di ciascuno. Tali realtà non possono essere poste in balia dell’arbitrio del legislatore o della maggioranza, perché, come insegnava già Cicerone, la giustizia consiste in qualcosa di più di un mero atto produttivo della legge e della sua applicazione. Essa implica il riconoscere a ciascuno la sua dignità, la quale, senza libertà religiosa, garantita e vissuta nella sua essenza, risulta mutilata e offesa, esposta al rischio di cadere nel predominio degli idoli, di beni relativi trasformati in assoluti. Tutto ciò espone la società al rischio di totalitarismi politici e ideologici, che enfatizzano il potere pubblico, mentre sono mortificate o coartate, quasi fossero concorrenziali, le libertà di coscienza, di pensiero e di religione.25 Papa Bergoglio mette in guardia: Nessuno pensi di poter farsi scudo di Dio mentre progetta e compie atti di violenza e sopraffazione! Nessuno prenda a pretesto la religione per le proprie azioni contrarie alla dignità dell’uomo e ai suoi diritti fondamentali, in primo luogo quello alla vita ed alla libertà religiosa di tutti!26 Il fondamentalismo è sempre una falsificazione della religione, va contro l’essenza della religione, che vuole riconciliare e creare la pace di Dio nel mondo.27 4.1. – Dialogo tra istituzioni civili e religiose Per il riconoscimento della dimensione pubblica della religione è fondamentale un sano dialogo tra le istituzioni civili e quelle religiose per lo sviluppo integrale della persona umana e dell’armonia della società.
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BENEDETTO XVI, Messaggio per la celebrazione della XLIV Giornata Mondiale della pace, 8 dicembre 2010. 26 PAPA FRANCESCO, Discorso alle autorità, in occasione del viaggio apostolico a Tirana (Albania), 21 settembre 2014. 27 BENEDETTO XVI, Intervista concessa ai giornalisti durante il volo verso il Libano, in occasione del viaggio apostolico in Libano, 14 settembre 2012.
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Nel mondo globalizzato, caratterizzato da società sempre più multi-etniche e multi-confessionali, le grandi religioni possono costituire un importante fattore di unità e di pace. I cristiani, da parte loro, sono sollecitati dalla stessa fede in Dio, a collaborare all’edificazione di un mondo dove le persone e i popoli “non agiranno più iniquamente né saccheggeranno […], perché la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare” (Is 11, 9).28 Papa Francesco ripropone con forza e mitezza la linea della cultura del dialogo e dell’incontro sulla quale chiama tutti a far convergere gli sforzi: “Considero fondamentale il contributo delle grandi tradizioni religiose, che svolgono un fecondo ruolo di lievito della vita sociale e di animazione della democrazia. Favorevole alla pacifica convivenza tra religioni diverse è la laicità dello Stato, che, senza assumere come propria nessuna posizione confessionale, rispetta e valorizza la presenza della dimensione religiosa nella società, favorendone le sue espressioni più concrete. L’unico modo di crescere per una persona, una famiglia, una società, l’unico modo per far progredire la vita dei popoli è la cultura dell’incontro, una cultura in cui tutti hanno qualcosa di buono da dare e tutti possono ricevere qualcosa di buono in cambio. L’altro ha sempre qualcosa da darmi, se sappiamo avvicinarci a lui con atteggiamento aperto e disponibile, senza pregiudizi, direi con “umiltà sociale”, che è ciò che favorisce il dialogo. Solo così può crescere una buona intesa fra le culture e le religioni, la stima delle une per le altre senza precomprensioni gratuite e in un clima di rispetto per i diritti di ciascuna. Oggi, o si scommette sul dialogo, o si scommette sulla cultura dell’incontro, o tutti perdiamo.29 4.2. – Dialogo fra le culture e le religioni È proprio della natura delle religioni, liberamente praticate, il fatto che possano autonomamente condurre un dialogo di pensiero e di vita. Loro compito è quello di proporre una visione della fede non in termini di intolleranza, di discriminazione e di conflitto, ma in termini di rispetto totale della verità, della coesistenza, dei diritti e della riconciliazione.30 Costatata la diversità culturale, bisogna far sì che le persone non solo accettino l’esistenza della cultura dell’altro, ma aspirino anche a venire arricchite da essa e ad offrirle ciò che si possiede di bene, di vero e di bello. Que-
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BENEDETTO XVI, Ibidem. FRANCESCO, Discorso all’incontro con la classe dirigente del Brasile, in occasione del viaggio apostolico a Rio de Janeiro per la XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù, 27 luglio 2013. 30 BENEDETTO XVI, Incontro con i membri dell’Assemblea Generale dell’ Organizzazione delle Nazioni Unite, New York, 18 aprile 2008. 29
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sta è un’ora che richiede il meglio delle nostre forze, audacia profetica, rinnovata capacità per «additare nuovi mondi al mondo». In questo rispetto dialogante si possono aprire nuove porte alla trasmissione della verità. «La Chiesa – scriveva il Papa Paolo VI – deve venire a dialogo con il mondo in cui si trova a vivere».31 Il dialogo, senza ambiguità e rispettoso delle parti in esso coinvolte, è oggi una priorità nel mondo.32 Tutti devono essere liberi di esprimere le proprie preoccupazioni, i propri bisogni, le proprie aspirazioni e le proprie paure. Ma soprattutto devono essere pronti ad accettarsi l’un l’altro, a rispettare le legittime diversità ed imparare a vivere come un’unica famiglia. Ogni volta che le persone si ascoltano tra loro umilmente e apertamente, possono emergere i valori e le aspirazioni comuni. La diversità non sarà più vista come una minaccia, ma come fonte di arricchimento. La strada verso la giustizia, la riconciliazione e l’armonia sociale appare ancora più chiaramente. 33 Il dialogo dovrà porsi su diversi livelli e non dovrebbe essere limitato a discussioni formali. Il dialogo della vita implica semplicemente vivere fianco a fianco ed imparare l’uno dall’altro in maniera da crescere nella reciproca comprensione e nel reciproco rispetto. Il dialogo dell’azione ci fa ravvicinare in forme concrete di collaborazione, lavorando per la pace, la giustizia, la salvaguardia del creato, la difesa della vita umana ad ogni stadio. Poi, a livello delle conversazioni formali, non vi è solo la necessità dello scambio teologico, ma anche il porre alla reciproca considerazione le proprie ricchezze spirituali, il parlare della propria esperienza di preghiera e di contemplazione.34 4.3. – La sfida del sincretismo religioso Un possibile effetto negativo del processo di globalizzazione è la tendenza a favorire il sincretismo religioso, che favorisce l’isolamento dell’uomo nella ricerca del benessere individuale, estraniandolo dalla comunione con altre persone. La rivelazione cristiana sull’unità del genere umano presuppone la relazionalità come elemento antropologico essenziale. Contemporaneamente, permangono talora retaggi culturali e religiosi che ingessano la società in
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Enciclica Ecclesiam suam, 67. BENEDETTO XVI, Discorso durante l’incontro con il mondo della cultura, al Centro Cultural de Belém-Lisboa, 12 maggio 2010. 33 PAPA FRANCESCO, Discorso alla cerimonia di benvenuto all’aeroporto internazionale di Colombo, in occasione del Viaggio apostolico in Sri Lanka e Filippine, 13 gennaio 2015. 34 BENEDETTO XVI, Discorso all’Incontro con i Rappresentanti istituzionali e laici di altre religioni, 17 settembre 2010. 32
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caste sociali statiche, in credenze magiche irrispettose della dignità della persona, in atteggiamenti di soggezione a forze occulte. Per questo motivo, se è vero, da un lato, che lo sviluppo ha bisogno delle religioni e delle culture dei diversi popoli, resta pure vero, dall’altro, che è necessario un adeguato discernimento. La libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali. Il discernimento circa il contributo delle culture e delle religioni si rende necessario per la costruzione della comunità sociale nel rispetto del bene comune soprattutto per chi esercita il potere politico. Tale discernimento dovrà basarsi sul criterio della carità e della verità. Siccome è in gioco lo sviluppo delle persone e dei popoli, esso terrà conto della possibilità di emancipazione e di inclusione nell’ottica di una comunità umana veramente universale. «Tutto l’uomo e tutti gli uomini » è il criterio per valutare anche le culture e le religioni. Il Cristianesimo, religione del « Dio dal volto umano », porta in se stesso un simile criterio. 35 Papa Francesco, parlando ai partecipanti all’incontro promosso dal Pontificio Istituto di studi arabi e di islamistica, afferma con molta chiarezza: “Bisogna fare attenzione a non cadere nei lacci di un sincretismo conciliante ma, alla fine, vuoto e foriero di un totalitarismo senza valori (Evangelii gaudium, 251; 253). Un approccio accomodante, «che dice sì a tutto per evitare i problemi» (ibid., 251), finisce per essere «un modo di ingannare l’altro e di negargli il bene che uno ha ricevuto come un dono da condividere generosamente» (ibid.). Questo ci invita, in primo luogo, a tornare ai fondamenti. Quando ci accostiamo ad una persona che professa con convinzione la propria religione, la sua testimonianza e il suo pensiero ci interpellano e ci portano ad interrogarci sulla nostra stessa spiritualità. Al principio del dialogo c’è, dunque, l’incontro. Da esso si genera la prima conoscenza dell’altro. Se, infatti, si parte dal presupposto della comune appartenenza alla natura umana, si possono superare i pregiudizi e le falsità e si può iniziare a comprendere l’altro secondo una prospettiva nuova.36 4.4. – Autenticità del dialogo interculturale e interreligioso In una società globalizzata, pluriculturale e plurireligiosa come la nostra, il dialogo fra culture e religioni deve essere sempre più considerato come un dovere sacro di quanti sono impegnati nell’edificazione di un mondo degno dell’uomo. La capacità di rispettarsi e accettarsi reciprocamente e di pronunciare la verità con amore, è essenziale per superare diffe-
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BENEDETTO XVI, Enciclica “Caritas in veritate”, n. 55. PAPA FRANCESCO, 24 gennaio 2015.
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renze, prevenire incomprensioni ed evitare scontri inutili. Il dialogo è serio e onesto soltanto quando rispetta le differenze e riconosce gli altri proprio nella loro alterità. Un dialogo sincero ha bisogno di apertura e di un forte senso di identità da entrambe le parti, affinché ognuno venga arricchito dai doni dell’altro.37 Per esser vero, il dialogo deve essere chiaro, evitando relativismi e sincretismi. Non si può dialogare se non si parte dalla propria identità. Senza identità non può esistere dialogo. Sarebbe un dialogo fantasma, un dialogo sull’aria: non serve. Ognuno di noi ha la propria identità religiosa, è fedele a quella.38
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BENEDETTO XVI, Discorso alla Delegazione dell’«International Jewish committee on interreligious consultations», 30 ottobre 2008. 38 PAPA FRANCESCO, Discorso all’incontro con i leader di altre religioni e altre denominazioni cristiane, in occasione del viaggio apostolico a Tirana (Albania), 21 settembre 2014.
Rivista Lasalliana 82 (2015) 1, 21-30
S. AMBROGIO: DE FIDE. LA FEDE LINEARE E COMPATTA FRANCESCO TRISOGLIO Professore emerito di Storia e Letteratura Patristica (Università di Torino)
SOMMARIO: 1. Davanti alla Bibbia. - 2. I dilemmi. - 3. La sfida. - 4. Di fronte agli eretici. 5. All’eresia contrappone l’ortodossia. - 6. Dinanzi a Gesù. - 7. Ambrogio si presenta.
S.
Ambrogio imposta l’esposizione del dogma in una salda e lucida compattezza; apre un panorama amplissimo; l’ortodossia ha un respiro vigoroso che attesta subito la verità dell’idea e la sanità psicologica dell’adesione alla fede, la quale è fondata su un’esegesi biblica criticamente solerte, in completezza di citazioni; la trattazione procede nella severa austerità che si addice alla rivelazione divina e alla dignità della ragione umana, che ha nella sua natura la rassomiglianza con quella divina. A garantire l’autorevolezza della proposta è già, di prima vista, l’imponente grandiosità della struttura architettonica; prima ancora dell’analisi, garantisce sulla competenza, sulla responsabilità e sulla nobiltà spirituale dell’autore l’organica coerenza dell’opera. Le idee scorrono agganciate in una limpida connessione che ne fa un sistema senza lacune e senza contraddizioni; non c’è nessuna carenza prodotta dall’improvvisazione; l’austera dignità dovuta al colloquio con l’imperatore Graziano, che aveva commissionato l’opera ed al quale essa è dedicata, si riflette nel messaggio rivolto ai singoli lettori. La fede si presenta come un organismo che nella indefettibile armonia delle sue componenti e nella loro completezza si raccomanda e garantisce il destinatario. Ambrogio espone in una continuità di trattazione che è saldezza di ragionamento; non svaria in divagazioni, non apre parentesi; per la sodezza dell’idea rinuncia a qualsiasi compiacente sosta sul pittoresco, nessun elemento esornativo: l’attrattiva sorge dalla tersa e tranquilla obiettività delle verità enunciate. Alle affermazioni segue subito il loro perché e accanto al perché razionale arriva la citazione biblica. La frase è breve, incisiva; non s’infila in periodi lunghi e complessi, i quali, per essere completi, diventano scarsamente intelligibili. La voce è ferma, pur senz’essere monotona; la connessione delle idee si accompagna ad una mobilità nella composizione, che alterna l’esposizione obiettiva alla reattività ironica e disdegnosa di fronte
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all’errore; Ambrogio non avanza in primo piano con l’autorevolezza professionale del docente, appare solo come l’osservatore che rileva una realtà autonoma, della quale egli è soltanto il raccoglitore; di qui un fondamentale clima di obiettività. Parla concreto: le sue similitudini, sempre brevissime ed essenziali, attingono dall’esperienza corrente, come a suggerire che quanto dice ha una realtà che i lettori possono quasi toccare con mano. Il pregio del suo stile risiede soprattutto nella tersa espressione dell’idea; dice bene perché dice chiaro e dice chiaro perché vede sicuro; non alza mai la voce, anche se la sua condanna dell’errore cade recisa; nasce dall’interno della dottrina; il suo tono è costante perché interpreta una verità che è immobile. Non si affaccia su ipotesi più o meno avventurose; non cura di andare oltre al dogma, gli interessa conoscerlo. Il discorso, nella sua densa concretezza, tende, non di rado, a concentrarsi in sentenze, le quali non hanno però la perentorietà precettiva degli assiomi filosofici che vogliono fondare un sistema, appaiono piuttosto come punti di arrivo di una meditazione interna, non mirano ad essere proclami rivolti all’esterno; verso il pubblico suonano più come confidenze che come imposizioni. Nelle confutazioni punta diritto sul concetto, astenendosi dai compiacimenti dialettici dei quali facevano sfoggio i polemisti ariani sulla scia di Aezio e di Eunomio; si attiene ad una sanità logica che è rispetto tanto della rivelazione divina quanto della razionalità umana. Il trattato appare un amplissimo dialogo diretto tra la verità e l’errore, stanno sempre di fronte, come lo stanno la razionalità e l’incoerenza. Nel vescovo che insegna la verità sembra che si possa ancora intravedere il consularis che aveva governato la regione Emilia nella lucidità concreta di una saggia amministrazione.
1. Davanti alla Bibbia La Bibbia era naturalmente il punto d’incontro e di scontro tra le due teologie, con la differenza che gli ariani estrapolavano i passi che testimoniavano l’umanità del Figlio incarnato per contrapporla alla sua divinità, mentre Ambrogio si richiamava a tutta la Scrittura per connettere in una totalità organica l’umanità alla divinità nella persona di Cristo. Ambrogio nella Bibbia vede la presenza dello Spirito Santo, che egli constata e conferma con la sua invocazione: «Sii presente, santo Spirito, ai tuoi profeti, nei quali sei abitualmente presente ed ai quali noi crediamo» (I, 3, 30 p. 14, 69-70). C’è sempre la Scrittura, come le si affianca sempre la razionalità umana; la Scrittura non esclude il pensiero umano, lo include come necessità di recezione e di interpretazione. E con la Scrittura nessun allegorismo come nessuna applicazione accomodatizia ad intento devozionale; la Scrittura dice quello che dice e va letta nel senso che dice, non in quello che si desidera che dica; serve alla verità che precede la lettura non ad essere captata per tesi preconcette.
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Quello che dice va però esattamente interpretato; la tecnica della sua formulazione, connessa con abitudini enunciatrici proprie di tempi e di luoghi, potrebbe anche sviare quelli che sono abituati ad altre tecniche facendoli intendere quello che essa non si propone di dire, per cui Ambrogio precisa, ad esempio, che, quando la Scrittura nomina Dio senza specificazione di Padre e di Figlio, talora indica particolarmente il Figlio (III,2,13 - 3,25). La Scrittura è il suo attracco di sicurezza; stila un elenco di asserzioni bibliche e su ognuna applica un’asciutta, definitiva deduzione: «Dunque il Figlio di Dio non è creatura» (V,11, 137-142 p. 267,42-59). Suo programma di lavoro è: «Seguiamo l’ordine delle Scritture» (V,12,148 p. 269,21) e poi dichiara: «Abbiamo seguito la serie delle letture dell’Apostolo Paolo» (V,13,161 p. 274,42). L’assoluto rispetto del messaggio biblico parte già dall’accertare l’esattezza del testo, per cui, nel suo scrupolo di precisione, Ambrogio si rifà alla dizione riportata nei codici greci (IV,11,147 p. 209,67-72) e denuncia un caso di interpolazione (V,16,193 p. 289,36-39).
2. I dilemmi Sull’affidabilità biblica raffronta verità ed errore in un netto contrasto che ne testimonia l’incompatibilità. A seguito di un’indagine sulla generazione del Figlio, Ambrogio conclude: gli ariani o concordano con i cattolici o cadono nell’incongruenza (IV,8,93 p. 189,133-143). Al dilemma che gli ariani imponevano ai cattolici sull’uguaglianza del Padre e del Figlio, riducendoli ad accettare il Figlio come creatura, replica con un controdilemma sulla temporalità della sua generazione dal Padre (IV,9,96-99 p. 190,6-33); la confutazione è sempre pronta e rapida. Il dilemma si scarica anche in ritorsione: «Tu chiedi a me come, se è Figlio, non abbia un Padre che gli sia anteriore; ma anch’io chiedo a te quando o come tu credi che il Figlio sia stato generato» (I,10,64 p. 28,21-23). E ancora: «Tu chiedi a me... e io chiedo a te» (I,11,68 p. 29,1-2). Il dilemma assume anche il tono dell’imposizione categorica: «O cessino dal venerare colui che chiamano creatura o cessino dal dire creatura colui che fingono di venerare» (I,16,104 p. 45,29-31); è l’accusa di un’irrazionalità che discredita l’intelligenza. E su questa insita assurdità Ambrogio insiste; domanda, in tono di intimazione: Come, se è minore del Padre, fa le medesime cose che fa il Padre (Gv 5,19), come una medesima attività è propria di un potere diverso? Forse che chi è minore può agire come chi è maggiore? O ci può essere una medesima attività dove la sostanza è diversa? (II,8,70 p. 81,84-98) Un’analoga scoordinazione logica rileva quando, dopo aver dichiarato che la divinità del Figlio è inclusa nell’unità della divinità ed aver citato a rincalzo Geremia, si chiede: «Perché stiamo a discutere su colui di cui il profeta ha detto che non se ne può pensare un altro come Dio? Come si può pensare diver-
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samente dove c’è l’unità della divinità?» (I,3,28 p. 14, 64-67): Ambrogio presenta l’autorità della Bibbia inquadrandola nell’evidenza del ragionamento. In I,1,6 - 4,33 espone la fede ortodossa alla quale fa seguire la presentazione della teoria ariana (I,5,34-42) in cui emerge l’insita assurdità che egli non impugna personalmente ma fa condannare dalla sua evidente illogicità; è lapidario, in un puro gioco di pensiero. All’incoerenza logica può corrispondere quella pratica, per cui, a chi negava la divinità di Cristo che gli sarebbe stato giudice, fa osservare che chiunque accede al tribunale civile per sostenere la sua causa cerca di rendersi benevolo il giudice, e tu onori il giudice umano e non onori quello divino? Che cosa attira le simpatie del giudice istruttore, l’onorarlo o l’insultarlo? Dopo che abbiamo peccato, è il caso di offendere Cristo? (II,12,101 p. 94,8-11). Una forma più attenuata di assurdità è l’incoerenza; al riguardo Ambrogio chiede: gli angeli lodano Dio nella sua natura trinitaria e tu lo insulti? (II,12,106 p. 96,56-58) Di fronte all’ammissione ariana che il regno sia proprio del Padre e del Figlio in uguaglianza e poi alla loro attribuzione al Figlio di un diritto inferiore a quello del Padre, sbotta: «Ma questo non si inserisce in nessun ordine, non è coerente, non sta insieme» (III,12,95 p. 142,19-20): l’errore su Dio è già discredito dell’uomo; prima che di ortodossia si tratta di intelligenza. Così, se è vero che «Cristo è tutto e in tutti» (Col 3,11), come si può accusare di debolezza colui che riscatta quelli che sono deboli? (V,15,183 p. 285,14-15). Alla loro sconnessione Ambrogio oppone la propria consequenzialità in solida evidenza di ragionamento: «Ario dice: prima di nascere, come esisteva? Ma la Scrittura dice che tutto fu fatto tramite il Figlio (Gv 1,3; 1 Cor 8,6; Col 1,16), come dunque ha dato l’esistere agli altri colui che non esisteva?» (I,19,125 p. 53,18-20). Alla sconnessione ariana Ambrogio reagisce con la propria stretta concatenazione deduttiva: «Principio della nostra fede è sapere che il Figlio di Dio è stato generato, se non è stato generato non è Figlio, ma non basta dire Figlio, se non lo dichiari Figlio unigenito; se è creatura non è Dio e se non è Dio non è neppure vita e se non è vita non è neppure verità» (Gv 14,6. - II Prol. 5 p. 59,32-36). C’è la nettezza della verità e c’è la coscienza di possederla; si capisce quindi che Ambrogio passasse all’attacco.
3. La sfida Egli si chiede, con uno stupore scandalizzato: «Chi è dunque quell’arbitro della divinità che separa il Padre e il Figlio, perché quello generò e questo non generò? Nessuno condanna il suo servo o la sua serva perché non hanno generato e costoro condannano Cristo perché non ha generato? (IV,8,89 p.187,94-98). Ambrogio rileva l’impudenza dell’atto. E ritorna alla medesima sorpresa quando si chiede: «È stato forse ingannato S. Paolo che ricuperò gli occhi perché credette, quegli occhi che aveva perduti prima di
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credere? (At 9,8-18) Ha forse sbagliato Giosuè, il quale, dopo che credette, vinse immediatamente, rendendosi meritevole di trionfare nella battaglia della fede?» (Gs 5,13 - 6,21. - V,10,126-127 p. 263,50-54). Si domanda:«Come gli ariani negano che il Figlio sia di una sostanza divina? Come credono che si debba evitare la parola ‘sostanza’ che è frequentissima nelle Scritture? E si risponde: «Non fuggono la parola ma il significato della parola, perché non vogliono che egli sia il vero Figlio di Dio» (III,15,123-124 p. 150,1-6): denuncia l’ipocrisia del preconcetto; snaturano la Scrittura, alla quale impongono la propria opinione invece di accettare la sua; è la profanazione della parola di Dio. E ancora una sfida nell’esegesi: Pietro, quando vide che Cristo camminava sul mare, disse: «Signore, se sei tu, comanda che io venga a te sull’acqua» (Mt 14,28). Pietro credette che, se Cristo comandasse, il comportamento della natura potesse venire cambiato; Pietro chiede che Cristo comandi non che Cristo chieda; Cristo non chiese ma comandò e fu fatto. E Ario è di parere contrario (II,6,49 p. 73,20-28). Ambrogio sfida anche in attacco diretto: «Dimmi, o eretico, dimmi ci fu talora un tempo, in cui il Dio onnipotente non era Padre ed era Dio?» e lo stringe in un dilemma assurdo (I,9,58 p. 25,3-10); alla verità sottopone sempre una base logica. Anche la sfida tende a colorirsi di costrizione logica; nella generazione di Cristo dalla Vergine dichiara: «Io dico che è diversa dalla nostra e ti costringerò ad ammetterlo anche tu» e glielo dimostra nella testimonianza evangelica (I,12,77 p. 33,36-43). La sfida talora si volge in commiserazione; trova infatti ridicola l’asserzione ariana che il Padre sia onnipotente in quanto generò il Figlio, ma che onnipotente non lo sia il Figlio, perché non ha potuto generare (IV,8,77 p. 183,4-8); l’errore non è solo negazione della verità, lo è anche del buon gusto; mostra la sua inconsistenza al suo solo presentarsi. E il ridicolo ritorna ancora in IV,11,138 p. 206,5.
4. Di fronte agli eretici Ne scorge l’inconsistenza dottrinale già subito, come intuitivamente, dallo spettacolo della loro frammentazione in sette separate: alcuni seguono Eunomio o Aezio, altri Palladio o Demofilo o Aussenzio; ne deduce seccamente che quelli che dividono il Figlio dal Padre si lacerano essi stessi (I,6,44-45 p.18,11-23); si sente smarrito dinanzi al loro smarrimento. Ribatte loro: «Forse che Cristo è diviso?» (1Cor 1,13); è l’ennesima conferma dell’autodissoluzione dell’errore. È un frammentarismo che richiama quello mitologico, per cui Ambrogio affianca gli ariani ai pagani, i quali chiamano dei quelli che sono diversi per sesso e per potere; quelli per i loro dei affermano un principio nel tempo e questi dicono falsamente che Cristo ha cominciato dal tempo, tirando dalla filosofia un’empietà che si colora in tutte le tinte; quelli almeno ampliano l’area di quello che adorano, costoro invece dichia-
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rano creatura il Figlio di Dio che è Dio (I,13,85, p. 37,53-60). Piuttosto che confutare egli stesso le eresie, Ambrogio provoca gli eretici ad esporre le loro teorie dinanzi a Cristo, il quale risponde loro (II,13,108-120 p. 97,1-57). Li esclude, espellendoli, non solo da sé, ma anche da Cristo: «Un fanciullo è nato per noi» (Is 9,6[5]) e specifica: è nato per noi, non per i Giudei, per noi, non per i manichei, per noi, non per i marcioniti; per noi, i credenti, non per gli increduli (III,8,57 p.129,25-31). Di fronte agli eretici assume un atteggiamento di forza sicura: «Ricevano adesso una dimostrazione in seguito alla quale non possano più dubitare della verità» (III,13,104 p. 145,10); li combatte in nettezza ma anche in onestà; vuole essere sicuro di capirli con esattezza, per cui cita le loro dichiarazioni alla lettera per cautelarsi contro il sospetto di un fraintendimento, involontario o capzioso: «Come dite voi» (III,14,111 p. 147,18). Vuole essere sicuro di colpire nel segno, perché sa quanto gli eretici siano più pericolosi della persecuzione; proclama infatti: «Nessuno tema, nessuno abbia paura; è più utile ai fedeli colui che li minaccia; sono invece avvelenate le blandizie degli individui perfidi; bisogna stare attenti quando simulano di predicare quello che negano» (III,16,129 p. 153,1-3). L’eresia è contro la dignità della verità ed è contro la dignità della persona, la umilia ingannandola; e noi di queste sfuggenti mascherature dell’eresia sotto formulazioni equivoche abbiamo vari esempi, a cominciare dal sinodo di Rimini, nel luglio 359, sotto Costanzo II. Ambrogio si propone una ben altra fermezza; ad un’obiezione replica: «Rispondiamo alla loro opinione per non sembrare che, con una conclusione qualsiasi, abbiamo evitato l’insidiosa malizia della questione» (IV,8,81 p.184,32-33; questa completezza è sicurezza nell’obiettività della verità e nella probità della propria coscienza. Quanto all’invio del Figlio da parte del Padre, Ambrogio, si propone di rispondere per quanto può, ma per raggiungere la sicurezza assoluta, fa rispondere da Cristo stesso, attraverso alle sue dichiarazioni riportate nel Vangelo (IV,10,122125 p. 200,34-57). E, in uno sforzo estremo di obiettività polemica, non si limita a confutare le loro obiezioni effettive, si impegna ad immaginarne anche di quelle possibili, alle quali replica in anticipo (IV,10,133 p. 204,109).
5. All’eresia contrappone l’ortodossia Il suo intento, di fronte alla frequente evasività ariana, è di essere chiaro, propone quindi: «Senti un altro passo dell’Apostolo (Rm 1,19-20), dal quale risulta chiaro1 che il Figlio è sempiterno» (I,10,62 p. 27,1). Persegue il valore esatto delle parole che esprimono il dogma: «Adesso interrogo direttamente 1
Sull’uso che Ambrogio fa di S. Paolo, cfr. W. TUREK, La figura di Paolo nelle Lettere di Ambrogio, in Ricerche teologiche 8 (1997), pp. 385-399.
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gli ariani se credano che sia la stessa cosa l’essere generato e l’essere creato» (I,16,100 p. 44,1-2) e li stringe o a cadere nell’assurdo o ad ammettere la verità ortodossa (100-102 p. 44,1-15). È una confutazione che, per raggiungere la sostanza, passa attraverso alle singole parole; non solo demolisce un sistema, ne investe le singole componenti. Con acutezza e rigore di penetrazione, sa risalire da testi, che la verità la dicono solo copertamente, al loro intendimento implicito: «Il Figlio non direbbe ‘Siamo una cosa sola’ (Gv 10,30; 17,22), se colui che non è personalmente vero Figlio si connettesse con colui che è vero Padre» (I,17,111 p. 48,29-31). Ambrogio intima un precetto che suona definitivo nella schematicità con la quale riassume il punto d’arrivo della fede e l’esito al quale la fede conduce: «Onoriamo dunque il Figlio come onoriamo il Padre, affinché, tramite il Figlio, possiamo arrivare al Padre» (II,14,128 p.101,31-23). E siccome il Padre parla, bisogna ascoltarne la voce: in riferimento all’affermazione del Padre che egli glorifica il Figlio (Gv 12,28) ed alla chiamata di Paolo (At 22,7-9) Ambrogio afferma l’intima corrispondenza tra l’ascoltare le rivelazioni di Dio ed il credere; «Chi crede ascolta e ascolta per credere; chi non crede non ascolta, ma non vuole né può ascoltare affinché non creda» (II,15,132 p.103,26-28) È la corrispondenza ad accogliere la grazia e la grazia che chiama alla conoscenza della verità.2 Ambrogio auspica che «con una genuina carità e docilità gli uomini cerchino la verità e non la respingano» (133 p.103,28-30); sono le disposizioni necessarie per accogliere la rivelazione e aderirvi. Tanto nell’esegesi biblica quanto nelle confutazioni ariane c’è sempre lo scrupolo di un’estrema esattezza e completezza; né approssimazioni né lacune. L’esattezza è una necessità preliminare, in quanto l’errore, partito ristretto, si amplia poi fino a coinvolgere tutto: «Cessino dunque di avere concetti più volgari sulla divinità del Figlio, per non averne di quelli più volgari anche sul Padre; chi sbaglia nella sua fede sul Figlio, non può avere idee giuste sul Padre e chi sbaglia sullo Spirito non può avere idee giuste sul Figlio» (V,6,88 p. 248,129-133). L’ortodossia si radica nella Bibbia, ma s’inquadra nell’insegnamento della Chiesa. Ambrogio fonda l’identità di potenza nella Trinità e la rassomiglianza del Padre e del Figlio sulla dottrina della Chiesa e sulla sua tradizione (II,10,85 p. 88,7-14). Esorta: «Conserviamo i precetti dei nostri predecessori e non violiamo le indicazioni ereditarie con la nostra avventatezza» (III,15,128 p.152,36-37). Che Gesù sia l’unico nato dal Padre, l’unigenito, e che uno sia lo Spirito Santo «così abbiamo ricevuto, così leggiamo, così crediamo; conosciamo la distinzione, non conosciamo il mistero; noi non discutiamo le cause, conserviamo le sacre realtà» (IV,8,91 p. 188,115-119). 2
Sul rapporto tra fede e grazia, cfr. A. FITZGERALD, La dynamique de la grâce chez Ambroise de Milan, in Connaissance des Pères de l’Église, 93 (2004), pp. 11-23.
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6. Dinanzi a Gesù Se sappiamo che Cristo è Figlio di Dio, a lui dobbiamo unirci nella più stretta intimità: «Conserviamo la veste nuziale (Mt 22,11-13) che abbiamo ricevuta e non neghiamo quello che è proprio di Cristo, che gli angeli annunziano onnipotente; i profeti lo indicano, gli apostoli lo testimoniano» (IV,2,16 p.162,12-14); la fede parte da una purezza e arriva ad un coro solenne di proclamazione in cielo e sulla terra. Da «Aprite le porte della giustizia» (Sal 118 [117],19) Ambrogio deduce: «Apri dunque a Cristo le tue porte, affinché egli entri in te; apri le porte della giustizia, apri le porte della pudicizia, apri le porte della fortezza e della sapienza» (IV,2,19 p. 163,28-30). Preconizza una purezza di vita nella sua integralità, affinché entri Cristo; al suo ingresso occorre sempre anche la predisposizione umana; c’è sinergia tra l’uomo e Cristo; i due livelli non sono in esclusione, sono in coordinamento; all’uomo l’accoglienza, a Cristo l’arrivo. La divinità entra anche nella storia, tanto in quella personale quanto in quella pubblica; Ambrogio esorta infatti Graziano ad inalberare il vessillo della fede, perché non sono le aquile militari né gli stormi degli uccelli con il loro volo (augurale) che conducono l’esercito, ma è il tuo nome, o Signore Gesù, e la venerazione per te (II,16,141-142 p.106,39-41). Di Cristo sottolinea la doppia natura; in riferimento a vari passi del Vangelo osserva con incisività: «Cristo chiede come figlio dell’uomo e comanda come Figlio di Dio» (III,4,32 p.119,40). Di lui celebra la sublimità: «Grande è il mistero di Cristo, dinanzi al quale si stupirono gli angeli, perciò tu devi venerarlo; tu, servo, non devi divergere dal tuo Signore; non è lecito ignorarlo; è disceso perché tu creda; se non credi non è disceso per te, non ha sofferto la Passione per te» (IV,2,26 p. 165,64-68). Il mistero di Cristo dalla sua essenza eterna passa alla sua azione storica ed alla sua efficacia redentrice, dall’universalità infinita al te. A Cristo Ambrogio si rivolge interpellandolo in un colloquio diretto, quasi discutendo con lui sulla sua attività creatrice del mondo (IV,4,45-47 p. 172,54-76) e lo contempla nella sua assunzione della natura umana in una genuinità che implica la condivisione dei sentimenti e delle emozioni: Cristo dubita come uomo, si turba come uomo, non si turba come potenza; non si turba la sua divinità, si turba la sua ‘anima’ (Mt 26,38); si turba in base all’assunzione della fragilità umana; siccome assunse l’anima, assunse anche le emozioni dell’anima; non poteva turbarsi e morire in quello che concerneva la sua divinità. Dunque: ‘Dio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?’ (Mt 27,46; Sal 21,2) lo dice come uomo, addossandosi le mie paure, in quanto, quando ci troviamo nei pericoli, crediamo di essere abbandonati da Dio (II,7,56 p.75,25-32). Ambrogio spiega una verità cristologica, ma la sente anche mistica; nella trepidazione di lui palpita anche la trepidazione nostra. La verità su Cristo si riflette anche a
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conforto delle ansietà umane: «Cristo pianse (Lc 19,41; Gv 11,35), perché tu, o uomo, non piangessi a lungo; subì maltrattamenti, perché tu non ti addolorassi per i tuoi maltrattamenti; è una grande medicina ricevere un conforto che proviene da Cristo» (II,11,94-95 p. 91,44-47). Nel dolore il riconoscimento si fa ammirazione adorante ed accorata: il Signore disse: «Non come voglio io, ma come vuoi tu» (Mt 26,39); «Cristo condivide il mio dolore; è triste per me; soffre per me; dunque sofferse per me ed in me colui che non aveva nulla da soffrire per sé; Signore Gesù, tu non soffri per le tue ferite ma per le mie, non per la tua morte ma per la nostra infermità» (II,7,53-54 p. 74,11-16). Questa è l’anima ed è il messaggio del De fide. Ma perché Ambrogio lo scrisse?
7. Ambrogio si presenta Lo stimolo occasionale a comporre il trattato gli giunse dalla richiesta dell’imperatore Graziano, la quale veniva naturalmente ad inserirsi in una propensione personale antecedente. Nel suo fervore apostolico di vescovo Ambrogio sentiva nella sua anima urgere la missione di illuminare i fedeli su Dio e sulla sua natura effettiva. Il mistero trinitario e l’Incarnazione erano i due cardini della fede e le due porte della salvezza. A loro riguardo Ambrogio si sentiva il servo a cui il Signore aveva affidato compito e capacità di presentare al pubblico le verità della fede. Non senza un ammiccamento di amabile intesa confida che ai cinque talenti che il Padrone della parabola aveva affidati ad un suo servo perché li facesse fruttare (Mt 25,15) egli ha risposto con i cinque libri del suo trattato sull’inseparabile divinità del Padre e del Figlio, per non sembrare il servo infingardo che fu condannato (Mt 25,26-27 - V Prol 7 p. 218,40-51). Ambrogio confida ai fedeli: «L’impegno episcopale si concentra nell’incrementare il valore dei fedeli: «Nei vostri animi risplende il frutto dell’attività del vescovo» (V Prol. 9 p. 219,65-66). Esprime un anelito che gli ferve nell’anima: «Oh, se mi fosse consentito, al momento del giudizio di Dio, di dire in piena tranquillità, a vostro riguardo: Signore, mi hai dato cinque talenti, ecco che ne ho guadagnati altri cinque e mostrare i preziosi talenti delle vostre virtù!» (V Prol.10 p. 220,73-75). Subito all’inizio della sua opera confida la sua aspirazione intima: «Preferirei assumermi il compito di esortare alla fede che quello di discutere sulla fede, nel primo caso c’è una professione religiosa, nel secondo una presunzione avventata» (I Prol. 4 p. 6,26-28); distingue la fede motivo di vita da quella ridotta a pretesto di dibattiti vanitosi, quella vissuta nel suo interno da quella giocata all’esterno. Era contro le compiaciute sottigliezze ariane ed era in consonanza con l’idea affermatasi tra i Padri greci che teologo fosse, non chi disquisisce su Dio, ma chi in Dio vive.
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Dal De fide emana una forte impressione di serietà nelle tesi, di vigore nelle dimostrazioni, di rigorosa dialettica nelle discussioni. Di fronte alla frammentarietà degli ariani, che si appuntavano su singoli passi biblici, Ambrogio porta in campo la Bibbia nella sua completezza; quelli trasceglievano le testimonianze dell’umanità di Cristo per contrapporle alla sua divinità, egli nella totalità della Bibbia inquadrava la totalità della persona di Cristo nelle sue due nature. Ambrogio ha la categoricità della sentenza che suona definitiva: «Non può non essere buono colui che è Dio, dal momento che nella natura di Dio c’è la pienezza della bontà» (I,2,14 p. 9,18-19): la verità scaturisce dall’interno. Contro gli avversari tese infrangibili reti di deduzioni che implicavano la saldezza della logicità; al fondo sente la soddisfazione di avere indubitatamente ragione: «Risulta chiaro che il Figlio non è dissimile dal Padre, e perciò ci si apre una via in discesa ad asserire che è anche sempiterno, perché chi è simile al sempiterno è certamente sempiterno» (I,8,54 p. 23,1-3). L’autore controlla il suo metodo di lavoro e lo trova valido: «A pieno diritto dicevamo che il Figlio è ‘consostanziale’ al Padre, perché con quella parola si indica tanto la distinzione delle persone quanto l’unità della natura» (III,15,126 p. 152,24-26). Dopo l’esame del metodo viene quello del risultato: «Abbiamo dimostrato abbastanza con le testimonianze delle Scritture che appartiene all’unità della maestà divina il fatto che il Padre rimane nel Figlio e che quello che il Figlio dice risulta anche sentito dire dal Padre» (Gv 8,26 - V,11,136 p. 266,35-38): questo è un caso singolo che esemplifica un metodo generale: la fondazione biblica è la sua sicurezza dogmatica e la tranquillizzazione della sua coscienza personale. Dalla solida razionalità della sua dottrina, dalla stringente concatenazione delle deduzioni dialettiche enunciate in pacata e dignitosa nobiltà di espressione affiora una rassicurante impressione: «sì, le cose stanno così». E, alla fine, il sigillo: «A te, Padre onnipotente, adesso mi rivolgo piangendo; sono pronto a dirti subito inaccessibile, incomprensibile, inestimabile, ma non avrei il coraggio di dire che tuo Figlio è minore di te» (V,19,228 p. 303,1-4).
Rivista Lasalliana 82 (2015) 1, 31-47
L’INSEGNAMENTO DELLA RELIGIONE CATTOLICA NELLA SCUOLA CATTOLICA SERGIO CICATELLI Direttore del Centro Studi per la Scuola Cattolica, Cei, Roma
SOMMARIO: 1. I vincoli derivanti dalla legislazione sulla parità. - 2. L’applicabilità del Concordato alle scuole cattoliche. - 3. Il Codice di Diritto Canonico. - 4. Lo specifico scolastico dell’insegnamento della religione cattolica. - 5. Il nodo della facoltatività. - 6. L’offerta formativa dell’insegnamento della religione cattolica. - 7. I nuovi profili di qualificazione professionale degli insegnanti di religione. - 8. L’insegnante di classe o sezione. - 9. L’idoneità degli insegnanti di religione. - 10. I compiti degli uffici diocesani.
L’
insegnamento della religione cattolica (Irc) è presente in tutte le scuole italiane, statali e non statali. Nelle scuole cattoliche esso si sovrappone e si integra con il progetto educativo della scuola, suscitando alcuni problemi che saranno analizzati qui di seguito a partire dal profilo giuridico della disciplina e affrontando nell’ordine la legislazione civile, quella concordataria e quella canonica. Seguirà l’esame di alcune questioni più legate alla pratica scolastica: la natura dell’Irc, la sua facoltatività, l’apparato didattico, la valorizzazione curricolare dell’Irc, le nuove regole di formazione iniziale degli insegnanti di religione (Idr), l’affidamento dell’Irc agli insegnanti della classe o sezione nella scuola primaria e dell’infanzia, l’idoneità canonica degli Idr.
1. I vincoli derivanti dalla legislazione sulla parità Sul piano della legislazione civile ci si può riferire alla condizione delle scuole paritarie, partendo dal presupposto che la quasi totalità delle scuole cattoliche ha chiesto e ottenuto la parità: secondo l’anagrafe del Miur (Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca), nell’anno scolastico 2012-13, le scuole a gestione religiosa che non risultavano paritarie erano 1 nella primaria, 1 nella secondaria di primo grado e 1 nella secondaria di secondo grado; nella scuola dell’infanzia risultavano non paritarie 43 scuole a gestione religiosa, ma il dato è dovuto più alle mancate risposte che a una dichiarazione esplicita di non parità. Vista l’irrilevanza numerica del fenomeno delle scuole cattoliche non paritarie, si può tranquillamente ragionare come se tutte le scuole cattoliche siano paritarie, sebbene non sia vero il contrario, dato che circa un terzo delle scuole paritarie non
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sono cattoliche (e la quota sale ad oltre il 60% nelle secondarie di secondo grado).1 Alle scuole cattoliche, in quanto paritarie, la Costituzione garantisce «piena libertà» (art. 33), ma nel rispetto delle condizioni poste per ottenere quella parità. La legge n. 62/00 in proposito è piuttosto chiara: da un lato ribadisce la «piena libertà per quanto concerne l’orientamento culturale e l’indirizzo pedagogico-didattico»; dall’altro richiede che l’insegnamento sia «improntato ai principi di libertà stabiliti dalla Costituzione repubblicana».2 E ancora, se da una parte si dice che «il progetto educativo indica l’eventuale ispirazione di carattere culturale o religioso», dall’altra «non sono comunque obbligatorie per gli alunni le attività extracurricolari che presuppongono o esigono l’adesione ad una determinata ideologia o confessione religiosa».3 La legge di parità cerca dunque di mantenere un equilibrio tra le regole dello Stato e la libertà della Chiesa. Il nodo problematico fondamentale è la relazione tra l’adesione al progetto educativo cristiano, che viene compiuta con l’iscrizione ad una scuola cattolica, e la partecipazione a vere e proprie pratiche religiose, che la legge esclude anche se esse appaiono indiscutibilmente coerenti con quel progetto educativo. La libertà di coscienza, però, può essere un possibile terreno di incontro in quanto valore riconosciuto tanto dalla legislazione civile quanto dalla dottrina cattolica. Non è in discussione la scelta di avvalersi dell’Irc, in quanto essa non costituisce una dichiarazione di appartenenza religiosa. Al contrario, si può considerare espressione di appartenenza o almeno condivisione dei valori cristiani proprio la scelta di frequentare una scuola cattolica, dato che la legge stabilisce che le scuole debbano accogliere chiunque ne accetti il progetto educativo, il quale a sua volta – come appena ricordato – può esprimere un’ispirazione religiosa. Vedremo più avanti come il progetto educativo di una scuola cattolica costituisca il fattore decisivo per la soluzione di diversi problemi e quindi sembra importante valorizzarlo adeguatamente e non considerarlo solo un complemento al Piano dell’offerta formativa o comunque un dato di contorno, doveroso ma secondario. 1 Una documentazione analitica su tutti gli ordini e gradi di scuola cattolica in Italia è reperibile nei Rapporti pubblicati annualmente dal Centro Studi per la Scuola Cattolica nei suoi Rapporti. Per l’anno scolastico 2013-14 si veda La scuola cattolica in cifre. Anno Scolastico 201314, in Centro Studi per la Scuola Cattolica, Una scuola che orienta. Scuola Cattolica in Italia. Sedicesimo Rapporto, La Scuola, Brescia 2014, pp. 437-524. 2 Legge 10-3-2000, n. 62, “Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all’istruzione”, art. 1, c. 3. 3 Ibidem.
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2. L’applicabilità del Concordato alle scuole cattoliche Il nodo teorico fondamentale è costituito dall’applicabilità del regime concordatario alle scuole cattoliche e sull’argomento si confrontano due scuole di pensiero, che ritengono di sostenere con buone argomentazioni tesi assolutamente contrapposte. Il Concordato ha regolamentato lo svolgimento dell’Irc «nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado».4 Dobbiamo quindi chiederci se le scuole cattoliche rientrino tra le scuole pubbliche e siano quindi soggette al regime concordatario. Da un punto di vista proprietario si considerano pubbliche le scuole gestite dallo Stato o dagli enti locali in quanto soggetti di diritto pubblico; le scuole cattoliche invece sarebbero scuole private, rientrando tra i soggetti («enti e privati») che – a norma dell’art. 33 della Costituzione – hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione. Da un punto di vista funzionale si possono invece considerare pubbliche tutte le istituzioni che, a prescindere dalla natura dell’ente gestore, svolgono un identico servizio pubblico, ed è innegabile che dopo la legge di parità il «sistema nazionale di istruzione – come recita l’art. 1, c. 1, di quella legge – è costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie private e degli enti locali». Sul piano politico e ideale, le scuole cattoliche hanno sempre rivendicato la loro natura pubblica: il progetto educativo potrà essere diverso da quello delle scuole statali (diverso perché arricchito da una chiave di lettura cristiana della cultura e dell’educazione), ma il valore legale del titolo di studio rilasciato è lo stesso. A nostro giudizio, perciò, le scuole cattoliche, in quanto paritarie, non possono rinunciare alla loro natura di servizio pubblico e devono rientrare tra i destinatari della legislazione concordataria, che va ovviamente assunta nella sua interezza e non solo limitatamente agli aspetti che si giudicano “compatibili” con la natura ecclesiale della scuola. Non possiamo però non rilevare a questo punto una sorta di paradosso, che motiva la posizione opposta di non applicabilità del Concordato alle scuole cattoliche: se è naturale che lo Stato, data la sua incompetenza in materia religiosa, si avvalga della collaborazione della Chiesa per assicurare l’Irc nelle scuole statali, non sembra altrettanto necessario che la Chiesa debba concordare con lo Stato le modalità di insegnamento della propria religione nelle proprie scuole.
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Legge 25-3-1985, n. 121, “Ratifica ed esecuzione dell’accordo con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modifiche al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede”, art. 9.2 (il corsivo è nostro).
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Nonostante il paradosso, rimane il fatto che le scuole cattoliche, sempre in quanto paritarie, «corrispondono agli ordinamenti generali dell’istruzione, sono coerenti con la domanda formativa delle famiglie e sono caratterizzate da requisiti di qualità ed efficacia».5 C’è allora da chiedersi se l’Irc concordatario rientri tra le «norme generali sull’istruzione» che, ancora a norma dell’art. 33 della Costituzione, devono essere dettate dalla Repubblica a tutte le scuole. A nostro parere la risposta è ancora una volta affermativa, sia perché il Concordato è norma sovraordinata alla legislazione ordinaria (e quindi è addirittura qualcosa di più di una «norma generale»), sia perché gli alunni delle scuole paritarie devono ricevere «un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali» (art. 33 Cost.). Per una conferma esplicita della nostra posizione possiamo citare, quantunque atto amministrativo piuttosto debole nella gerarchia delle fonti giuridiche, la nota ministeriale del 6-11-2012, prot. 2989, in cui si afferma chiaramente che l’ultima Intesa tra Cei e Miur6 «si applica integralmente a partire dall’anno scolastico 2013-14 nelle scuole statali e paritarie, ma produce i suoi effetti dal corrente anno scolastico 2012-13». Per una conferma più implicita, ma più autorevole, della nostra tesi possiamo andare a vedere come lo Stato ha regolamentato il secondo ciclo di istruzione e formazione con il DLgs 226/05, dove troviamo scritto che per il sistema dell’istruzione e formazione professionale, che è composto interamente da enti non statali, sono stati fissati dei livelli essenziali di prestazione (art. 18) che richiedono proprio la presenza dell’Irc e dell’educazione fisica quali condizioni necessarie per il riconoscimento giuridico dei percorsi. In altre parole, se l’Irc è condizione di legittimità dell’istruzione e formazione professionale (che è almeno in parte cosa diversa dalla scuola ed è a gestione non statale), a maggior ragione lo sarà per le scuole paritarie (che sono scuole per loro natura). Per quanto possa apparire ancora una volta paradossale, è lo Stato a chiedere alla Chiesa di insegnare religione cattolica (e di insegnarla a certe condizioni) nelle scuole che vogliono far parte dell’unico sistema nazionale di istruzione. Inoltre, almeno sul piano didattico, la questione è da tempo risolta sia per lo Stato che per la Chiesa: i Ministri dell’istruzione e i Presidenti della Cei hanno infatti da tempo sottoscritto le specifiche intese (che sono atti di derivazione concordataria) per definire le Indicazioni didattiche per l’Irc nei diversi ordini e gradi di scuola, affermando espressamente che tali Indica5
Legge 62/00, art. 1, c. 2. Dpr 20-8-2012, n. 175, “Esecuzione dell’intesa tra il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca e il Presidente della Conferenza episcopale italiana per l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, firmata il 28 giugno 2012”. 6
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zioni sono da applicare nelle scuole statali e paritarie.7 Di solito questa clausola è poco conosciuta perché contenuta nel testo dei protocolli d’intesa e non trascritta nei decreti del Presidente della Repubblica che danno poi attuazione a quelle intese riproducendo solo gli allegati con il contenuto delle Indicazioni, ma l’accordo è inequivocabile e porta la firma di entrambe le autorità, ecclesiastica e civile. Quindi, anche sul piano dei contenuti didattici l’Irc delle scuole cattoliche (sempre in quanto paritarie) deve essere identico a quello delle scuole statali in quanto oggetto di specifica intesa e quindi sottoposto al regime concordatario.
3. Il Codice di Diritto Canonico Sul piano del diritto canonico l’intera tematica educativa è basata sostanzialmente su due principi: il diritto primario e naturale dei genitori ad educare i figli e la libertà che deve caratterizzare questa educazione (cann. 796-797). L’educazione religiosa costituisce senz’altro un fattore decisivo nella scelta dell’indirizzo educativo ed è responsabilità del vescovo provvedere alla fondazione di scuole cattoliche proprio per soddisfare la domanda di educazione religiosa (can. 802). Sempre al vescovo compete, inoltre, la vigilanza per quanto riguarda «l’istruzione e l’educazione religiosa che viene impartita in qualunque scuola» (can. 804, §1). Si può notare che il Codice distingue tra educazione e istruzione religiosa, pensando alle diverse situazioni che si possono verificare nelle scuole pubbliche e private, statali e non statali, dei diversi Paesi del mondo. L’educazione religiosa è la prima preoccupazione del legislatore canonico e si deve supporre che comprenda tutta la formazione spirituale dei più giovani e la loro crescita nella fede cattolica, curata concordemente dalla famiglia, dalla Chiesa e dalla scuola. L’istruzione religiosa si aggiunge come oggetto più specifico di attenzione e si deve ritenere che riguardi quella forma di educazione che assume le forme proprie dell’istituzione scolastica e sia sostanzialmente riservata ad essa. L’Irc rientra, ovviamente, nell’istruzione religiosa e vedremo fra poco che costituisce anche una delle modalità di educazione e formazione religiosa offerta dalle scuole cattoliche. Secondo una logica tipicamente educativa, cioè fondata sulla relazione personale che si instaura tra docente e discente, è determinante per l’effica7
Dpr 11-2-2010, “Approvazione dei traguardi per lo sviluppo delle competenze e obiettivi di apprendimento della religione cattolica per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione”; Dpr 20-8-2012, “Esecuzione dell’intesa sulle indicazioni didattiche per l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole del secondo ciclo di istruzione e nei percorsi di istruzione e formazione professionale firmata il 28 giugno 2012 tra il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca e il Presidente della Conferenza episcopale italiana”.
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cia dell’azione educativa la persona dell’insegnante e dunque, per quello che qui ci interessa, dell’Idr. Si applica qui il principio che vuole la qualità dell’educazione dipendente dalla qualità dell’educatore, in quanto la tradizione pedagogica della Chiesa, a partire da Gesù Cristo, ha impostato l’azione educativa come incontro tra persone più che come confronto dottrinale, perché l’obiettivo è la formazione della persona e non la semplice conoscenza di determinati contenuti. È proprio con riferimento alla selezione degli Idr («coloro che sono deputati come insegnanti della religione nelle scuole»), che il Codice si premura di precisare che le disposizioni canoniche si applicano in tutte le scuole, «anche non cattoliche» (can. 804, §2), dando perciò per scontata la validità di quelle stesse disposizioni anzitutto per le scuole cattoliche. Non si comprende perciò come possa capitare che proprio le scuole cattoliche siano talvolta un po’ restie ad adottare queste regole soprattutto – come vedremo – in materia di idoneità degli Idr. Più in generale, dato che l’idoneità rilasciata dall’ordinario diocesano agli Idr è condizione necessaria per l’Irc concordatario, la norma canonica costituisce a nostro parere un’ulteriore conferma (quantunque implicita e indiretta) dell’applicazione del Concordato alle scuole cattoliche. In merito va inoltre notato che il Codice prescrive in genere a tutti gli insegnanti di scuola cattolica due soli requisiti (retta dottrina e probità di vita; can. 803, §2), mentre è più esigente con gli Idr, per i quali prevede tre requisiti (retta dottrina, testimonianza di vita cristiana e abilità pedagogica; can. 804, §2). Solo per questi ultimi è previsto uno specifico riconoscimento di idoneità e l’obbligo di revocarla se ne ricorrano i motivi, mentre per gli altri insegnanti di scuola cattolica le disposizioni risultano più generiche.
4. Lo specifico scolastico dell’Insegnamento della religione cattolica Oltre alla dimensione giuridica, si può tentare di fare chiarezza anche sulla natura educativa dell’Irc di cui stiamo parlando. Con la definizione concordataria l’Irc è diventato a tutti gli effetti una disciplina scolastica in quanto inserito «nel quadro delle finalità della scuola»8 e quindi non può essere confuso con l’ispirazione cristiana che informa il progetto educativo della scuola né può essere sostituito da altre attività di formazione religiosa eventualmente presenti nelle scuole cattoliche, anche se ovviamente ad esse contribuisce in maniera peculiare. Come è noto, in una scuola cattolica la dimensione religiosa è oggetto di cura educativa in almeno tre modi diversi:
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Legge 121/85, art. 9.2.
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– mediante il progetto educativo e lo sforzo di coniugare fede e cultura in ogni insegnamento; – mediante le attività di formazione spirituale che vanno ad integrare il curricolo scolastico; – mediante l’Irc, che è già parte del curricolo scolastico. Nessuno di questi tre elementi può mancare, né può essere sostituito dal maggiore impegno eventualmente profuso in uno degli altri due campi. Non si può quindi eliminare l’Irc, ritenendo che sia sufficiente l’impostazione religiosa di tutti gli altri insegnamenti o che possano bastare gli eventuali percorsi integrativi di catechesi e formazione spirituale. L’Irc ha una sua specificità che deve essere mantenuta anche all’interno di una scuola cattolica, per far riconoscere – prima di tutto proprio a chi sceglie questo tipo di scuola – il valore intrinsecamente culturale della religione: le ultime Indicazioni didattiche per l’Irc stanno a dimostrare ampiamente come l’attenzione sia oggi rivolta soprattutto agli effetti culturali che la fede cattolica ha prodotto (e produce tuttora) nella storia, nella letteratura, nella filosofia, nell’arte, nei sistemi giuridici, nella vita civile. Del resto, a dimostrazione dell’obbligo (morale ancora prima che giuridico) di inserire e valorizzare l’Irc nei curricoli di scuola cattolica ci sono anche le affermazioni del magistero che in proposito si è espresso con chiarezza. Citiamo solo alcuni testi a titolo orientativo. • SACRA CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, LA SCUOLA CATTOLICA, 1977: «La Scuola Cattolica è consapevole dell’importanza dell’insegnamento della dottrina evangelica come è trasmessa nella Chiesa Cattolica» (49). «Senza entrare nel merito della problematica relativa all’insegnamento della religione nella scuola va sottolineato che tale insegnamento, pur non esaurendosi nei “corsi di religione” che rientrano nei programmi scolastici, deve essere impartito nella scuola in maniera esplicita e sistematica» (50). «I laici impegnati nella Scuola Cattolica sono invitati a collaborare più immediatamente con l’apostolato della gerarchia, sia per mezzo dell’insegnamento religioso, sia con l’educazione religiosa più generale che cercano di promuovere aiutando gli alunni ad operare una sintesi personale tra fede e cultura e tra fede e vita» (71). «L’autorità gerarchica ha la missione di vigilare sulla ortodossia dell’insegnamento religioso e sull’osservanza della morale cristiana nella Scuola Cattolica» (73). • GIOVANNI PAOLO II, CATECHESI TRADENDAE, 1979: «Il carattere proprio e la ragione profonda della scuola cattolica, per cui appunto i genitori cattolici dovrebbero preferirla, consistono precisamente nella qualità dell’insegnamento religioso integrato nell’educazione degli alunni. Se le istituzioni
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cattoliche devono rispettare la libertà di coscienza, e cioè evitare di pesare sulla coscienza dall’esterno mediante pressioni fisiche o morali, specialmente per quanto riguarda gli atti religiosi degli adolescenti, esse tuttavia hanno il grave dovere di proporre una formazione religiosa che si adatti alle situazioni, spesso assai diverse, degli allievi, ed altresì di far loro comprendere che la chiamata di Dio a servirlo in spirito e verità, secondo i comandamenti di Dio e i precetti della chiesa, senza costringere l’uomo, non lo obbliga di meno in coscienza» (69). • CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, LA SCUOLA CATTOLICA OGGI IN ITALIA, 1983: «Dimensione particolarmente importante del progetto educativo della scuola cattolica è l’educazione cristiana e, specificamente, l’insegnamento della religione. Tale dimensione è qualificante per l’identità della scuola cattolica. […] Sempre da un punto di vista didattico, si dovrà sviluppare la metodologia di rigore critico e culturale propria dell’insegnamento scolastico, precisare il rapporto da instaurare tra l’insegnamento della religione e le altre discipline scolastiche, e tra questo insegnamento e i momenti celebrativi e formativo-spirituali che la scuola potrà proporre» (22). • CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, DIMENSIONE RELIGIOSA DELL’EDUCAZIONE NELLA SCUOLA CATTOLICA, 1988:
«Possono alle volte affiorare incertezze, divergenze ed anche disagi a livello di impostazione teorica generale, e quindi di concreta azione operativa, circa le esigenze dell’insegnamento della religione nella scuola cattolica» (67). «È da notare però che anche un insegnamento religioso rivolto ad alunni credenti non può che contribuire a rafforzarne la fede, come l’esperienza religiosa della catechesi rafforza la conoscenza del messaggio cristiano. Detto insegnamento ha cura altresì di sottolineare l’aspetto di razionalità, che contraddistingue e motiva la scelta cristiana del credente e prima ancora l’esperienza religiosa dell’uomo in quanto tale» (69). «I frutti dell’insegnamento organico della fede e dell’etica cristiana dipendono in gran parte dall’insegnante di religione: da quello che egli è e da quello che fa. Egli è persona-chiave, agente essenziale nella realizzazione del progetto educativo. L’incidenza del suo insegnamento è però collegata con la sua testimonianza di vita, che attua efficacemente agli occhi degli alunni lo stesso insegnamento. Si attende quindi che egli sia persona ricca di doni di natura e di grazia; capace di testimoniarli nella vita; preparata adeguatamente per il suo insegnamento; dotata di ampia base culturale e professionale, pedagogica e didattica, aperta al dialogo» (96).
Da questi autorevoli riferimenti (e da tanti altri che non è possibile aggiungere per motivi di spazio) dovrebbe risultare evidente che in una scuola cattolica l’Irc non può mancare nella sua versione specificamente scolastica e che le varie attività di formazione religiosa proposte agli alunni non possono sostituirlo, confondendo la natura culturale e scolastica dell’Irc con
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le motivazioni di evangelizzazione e formazione spirituale che animano le altre iniziative.9 Dal momento che l’identità scolastica dell’Irc è definita anche dal Concordato ne possiamo trarre un’ulteriore conferma della applicabilità del Concordato alle scuole cattoliche.
5. Il nodo della facoltatività Occorre però riconoscere onestamente che il regime concordatario pone alcuni seri problemi teorici alle scuole cattoliche, a cominciare dalla prima e fondamentale caratteristica dell’Irc: la sua facoltatività. Risulta infatti evidente che sarebbe abbastanza contraddittorio per uno studente o per i suoi genitori accettare il progetto educativo della scuola cattolica e rifiutare l’Irc che ne è dimensione qualificante (come abbiamo appena letto nei documenti della Cei del 1983 e del 2014). Il problema non può essere risolto sbrigativamente, escludendo la facoltatività dell’Irc per via della natura confessionale dell’istituzione scolastica. Nel regime veteroconcordatario l’istituto dell’esonero non apparteneva al testo del Concordato ma era stato introdotto da una successiva legge dello Stato.10 Se vi fossero state all’epoca scuole paritarie, si sarebbe potuto accettare il Concordato senza accogliere la facoltà di esonerarsi dall’Ir. Ma oggi la facoltatività è stata inserita nel testo dello stesso Concordato e deve essere accolta con tutto il resto del regime concordatario. In quanto appartenente all’unico sistema nazionale di istruzione, la scuola cattolica paritaria deve condividere «i principi di libertà stabiliti dalla Costituzione repubblicana» e quindi, vista la legittimità costituzionale dell’Irc concordatario in quanto espressione della laicità dello Stato (come san-
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Ribadisce questo principio anche la recentissima Nota pastorale della Commissione episcopale per l’educazione cattolica, la scuola e l’università, La scuola cattolica risorsa educativa della Chiesa locale per la società, Roma, 11 luglio 2014, n. 32: «L’insegnamento della religione cattolica è dimensione qualificante del progetto educativo di una scuola cattolica. Per questo motivo tale insegnamento non può essere assente dai suoi curricoli, né è lecito pensare che possa essere sostituito dall’orientamento cristiano di tutta l’attività educativa della scuola. La specifica identità scolastica di questo insegnamento costituisce al contrario un contributo quanto mai idoneo all’avvio di una riflessione culturalmente strutturata, oltre che sul fenomeno religioso, sull’incidenza anche culturale della fede cattolica nella vita delle persone e nella storia della nostra civiltà. In questo senso l’insegnamento della religione cattolica deve essere fatto oggetto di particolare attenzione nella programmazione degli insegnamenti delle scuole cattoliche; sarà anzi opportuno che la quota oraria riservata a questo insegnamento nei curricoli ordinari venga in essi potenziata, a dimostrazione tangibile del valore della cultura religiosa». 10 Legge 5-6-1930, n. 824, “Insegnamento religioso negli istituti medi d’istruzione classica, scientifica, magistrale, tecnica ed artistica”, art. 2.
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cito dalla Corte costituzionale con sentenza n. 203/89), proporre un Irc facoltativo. È però coerente che gli studenti e i genitori che si rivolgono alla scuola cattolica debbano condividere il progetto educativo della scuola, di cui l’Irc è parte integrante e qualificante. Perciò, se in linea di principio l’Irc deve rimanere facoltativo, di fatto esso sarà liberamente scelto dalla totalità degli alunni: non per costrizione ma per convinzione. Su questo specifico aspetto il sussidio pastorale su Scuola cattolica e Irc, predisposto dal Consiglio Nazionale della Scuola Cattolica nel 2004, si esprime con chiarezza: Coerentemente con quanto appena richiamato tutte le scuole cattoliche dovrebbero orientarsi in base alle seguenti indicazioni: – l’Irc è inscindibilmente legato al Progetto educativo che caratterizza e contraddistingue ogni scuola cattolica, è doveroso e legittimo quindi chiedere che tutti gli alunni, anche quelli appartenenti ad altre culture e religioni, se ne avvalgano e siano disponibili a confrontarsi con una riflessione culturale sul dato religioso quale appunto è, per sua natura, l’Irc, salvo eccezioni legate a situazioni particolari.11
Le eccezioni sono contemplate dal medesimo sussidio pastorale in una importante nota, che ne spiega il significato: L’aderenza a specifiche situazioni locali (ad esempio, una scuola dell’infanzia di ispirazione cristiana è l’unica scuola presente sul posto, una forte presenza di alunni appartenenti ad altre culture e religioni…) suggerirà le modalità più opportune di attuazione di queste disposizioni generali. È sempre indispensabile un dialogo con le famiglie e gli alunni per ascoltare e comprendere la loro sensibilità, le loro attese e, nello stesso tempo, per offrire un’informazione corretta che aiuti a cogliere il valore del Progetto educativo della scuola e, coerentemente, il significato dell’Irc in quanto parte essenziale di questo progetto. Sempre l’attenzione a particolari situazioni locali potrà suggerire l’opportunità di scelte diverse rispetto a quanto si prospetta in questo Sussidio circa l’obbligo di avvalersi dell’Irc.12
Non può essere questa la sede per riaprire il discorso sulle motivazioni della facoltatività dell’Irc. Ci basti prenderne atto e legare questa condizione particolare, come dice il Concordato, al «rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori». Dovrebbe altresì essere chiaro che la scelta di avvalersi dell’Irc non è indicativa dell’appartenenza religiosa degli alunni o delle loro famiglie. La laicità della proposta culturale del11
Consiglio Nazionale della Scuola Cattolica, Scuola cattolica e IRC. Sussidio pastorale, Roma, 1 luglio 2004, n. 4. 12 Ivi, nota 19.
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l’Irc è fuori discussione, ma la scelta sull’Irc è sempre fonte di equivoci anche e soprattutto nelle scuole statali, dove però è esperienza di tutti la presenza di alunni notoriamente non cattolici che si avvalgono dell’Irc e di altri notoriamente cattolici che preferiscono non avvalersene ritenendo sufficiente la formazione che ricevono in parrocchia o in famiglia. Nemmeno si può stabilire arbitrariamente una corrispondenza tra la fede religiosa e la nazionalità degli alunni. Il fenomeno migratorio sta ora producendo i suoi effetti anche nelle scuole cattoliche, nelle quali – come documentano i rapporti del Centro Studi per la Scuola Cattolica – nel 201213 il 4,8% degli iscritti era di cittadinanza non italiana (dal 6,4% nella scuola dell’infanzia all’1,7% delle secondarie superiori).13 In genere c’è una larghissima adesione all’Irc nelle scuole cattoliche (di gran lunga superiore a quella delle scuole statali), ma rimane una pur sempre minima percentuale di alunni che non si avvalgono dell’Irc, soprattutto nelle scuole dell’infanzia, dove è lecito immaginare che si verifichi il caso contemplato nel sussidio citato del Consiglio Nazionale della Scuola Cattolica: può capitare infatti di frequente che quella di ispirazione cristiana sia l’unica scuola dell’infanzia del territorio e che quindi si debba accettare, per quanto incoerente, che i genitori dei bambini, costretti ad iscrivere i figli all’unica scuola del territorio, accolgano sì il progetto educativo cristiano ma contestualmente rifiutino l’Irc. Nelle altre scuole i casi sono veramente ridottissimi, ma testimoniano che la facoltatività è comunque praticata. Semmai, il problema per una scuola cattolica può essere quello dell’offerta di attività didattiche alternative, che possono avere costi aggiuntivi per il gestore (ma non è questo l’argomento del nostro discorso).
6. L’offerta formativa dell’insegnamento della religione cattolica Una volta accettata l’idea che l’Irc abbia una sua identità scolastica unitaria, valida per tutte le scuole – statali e paritarie – del sistema nazionale di istruzione, risulta necessario rispettare tutte le disposizioni che ne regolano la pratica didattica: indicazioni didattiche, orario di lezione, libri di testo, modalità di valutazione, qualificazione degli insegnanti. Per i contenuti didattici si è già detto che valgono quelli previsti dalle vigenti Indicazioni approvate espressamente per le scuole statali e paritarie. 13
Centro Studi per la Scuola Cattolica, La scuola cattolica in cifre. Anno Scolastico 2012-13, in Id., Una pluralità di gestori. Scuola Cattolica in Italia. Quindicesimo Rapporto, La Scuola, Brescia 2013, pp. 247-337. Nel 2013-14 la percentuale di alunni con cittadinanza non italiana è salita complessivamente al 5,5%, oscillando tra l’1,9% delle secondarie di secondo grado e il 7,7% delle scuole dell’infanzia (S. Cicatelli, Il quadro generale (a.s. 2013-14), in Centro Studi per la Scuola Cattolica, Una scuola che orienta, cit., p. 443).
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Nella loro natura leggera e flessibile le Indicazioni si prestano facilmente ad essere integrate con approfondimenti particolari o con aggiunte eventuali che possano far percepire più facilmente l’attenzione che si intende dedicare a questa disciplina. In vista di questi approfondimenti, ma non solo, se veramente l’Irc costituisce un aspetto qualificante dell’identità di una scuola cattolica, dovrebbe essere giusto intensificarne la presenza con l’aumento dell’orario di lezione. Il citato sussidio pastorale del 2004 suggerisce infatti una «ipotesi minimale» consistente in due ore settimanali nella scuola dell’infanzia e primaria e una/due ore nella scuola secondaria di primo e secondo grado (cioè poco più di quanto è già previsto per le scuole statali). L’aumento dell’orario di Irc non può essere surrogato dalle altre attività di educazione religiosa, perché è proprio la natura scolastica dell’Irc che deve essere valorizzata nella sua identità di disciplina curricolare. Come talvolta (anche nelle scuole statali) capita di aumentare le ore di lingua straniera, di informatica, di scienze o di altre discipline per venire incontro a richieste più o meno esplicite di studenti e famiglie, così in una scuola cattolica si dovrebbero aumentare le ore di Irc per testimoniare concretamente l’attenzione che si intende prestare a questo settore particolare della formazione culturale. È infatti la natura scolastica e curricolare della religione a dover essere sottolineata, a prescindere dalle altre attività di formazione religiosa parimenti offerte dalla scuola. Una solida competenza biblica, uno studio approfondito della storia della Chiesa, una conoscenza non superficiale della teologia dovrebbero essere obiettivi realistici per una scuola cattolica. E per realizzarli sarebbe utile disporre di un orario supplementare rispetto ai livelli fissati dagli ordinamenti e dal Concordato: un paio d’ore settimanali in ogni livello scolastico dovrebbe essere il minimo ed eventualmente si potrebbe pensare anche ad ulteriori integrazioni. Per i libri di testo valgono ovviamente le disposizioni dell’Intesa e quindi devono essere adottati quelli espressamente previsti per l’Irc, che possono essere eventualmente integrati ma non sostituiti da altri sussidi didattici o formativi pensati anche per destinazioni non scolastiche (catechismi, commentari biblici, saggistica religiosa, agiografie, letture edificanti, ecc.). A fronte di questa attenzione particolare all’Irc si potrebbe adottare una procedura valutativa altrettanto intensificata, ma purtroppo non sembra possibile arrivare ad usare il voto numerico nei documenti di valutazione periodica e finale. Viste le disposizioni di legge vigenti,14 se non interverran14 Per esempio il regolamento della valutazione, Dpr 22-6-2009, n. 122, art. 2, c. 4, dispone che: «La valutazione dell’insegnamento della religione cattolica resta disciplinata dall’articolo 309 del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuo-
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no modifiche al momento non prevedibili, rimane obbligatorio utilizzare giudizi verbali anche nelle scuole cattoliche per non invalidare i documenti di valutazione stessi. Nulla vieta però che nella prassi didattica quotidiana si proceda a valutazioni con voti decimali o che la scala di giudizi utilizzata per la valutazione finale sia composta da dieci livelli, di fatto corrispondenti ai voti decimali. Né sembra possibile reinserire l’Irc nell’unico documento di valutazione, stanti le vigenti disposizioni di legge, e quindi dovrà essere usata una scheda separata di valutazione.15
7. I nuovi profili di qualificazione professionale degli insegnanti di religione Particolare attenzione dovrà inoltre essere dedicata ai titoli di qualificazione posseduti dagli Idr. La già citata Intesa recentemente riveduta ha elevato il livello della formazione iniziale degli Idr equiparandolo a quello oggi richiesto a tutti gli altri docenti, cioè almeno cinque anni di studi universitari dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di secondo grado.16 Tale requisito non può essere eluso o aggirato. C’è tempo fino al 1 settembre 2017 per mettersi in regola con i titoli di studio e, in linea di principio, non dovrebbero esserci difficoltà per regolarizzare la condizione di tutti gli Idr, soprattutto quelli di scuola secondaria e gli specialisti di scuola primaria e dell’infanzia (dove esistono). In quasi tutte le diocesi i candidati all’Irc (già laureati o iscritti agli appositi percorsi di studio) sono in numero superiore ai posti disponibili e le scuole cattoliche possono offrire un canale occupazionale parallelo alla scuola statale per tutti questi aspiranti docenti. Il problema può essere semmai costituito dagli Idr che hanno iniziato ad insegnare senza essere in possesso dei titoli regolari e che sono rimasti in questa condizione confidando nella benevolenza di chi – non solo nelle scuole cattoliche – avrebbe dovuto pretendere la loro regolarizzazione. In merito a queste situazioni anomale, va anzitutto ricordato che l’obbligo principale è sempre quello di assicurare l’Irc e che, se manca personale
le di ogni ordine e grado, di cui al decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297, ed è comunque espressa senza attribuzione di voto numerico, fatte salve eventuali modifiche all’intesa di cui al punto 5 del Protocollo addizionale alla legge 25 marzo 1985, n. 121». La disposizione si riferisce alle scuole del primo ciclo ed è ripetuta Identica all’art. 4, c. 3, per il secondo ciclo. 15 Vale in proposito l’art. 309, c. 4, del DLgs 16-4-1994, n. 297, “Testo Unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado”, che prevede «una speciale nota, da consegnare unitamente alla scheda o alla pagella scolastica, riguardante l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento e il profitto che ne ritrae». 16 Su tutta la materia si veda il punto 4 dell’Intesa di cui al Dpr 175/12.
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docente qualificato, è sempre lecito ricorrere a docenti privi dei titoli richiesti. Ma questa deve essere una soluzione eccezionale e transitoria, che deve poi fare i conti con il gran numero di aspiranti Idr che stanno seriamente procurandosi i titoli oggi richiesti: non si può quindi giustificare il mantenimento in servizio di docenti privi di titolo a fronte di un numero più o meno elevato di aspiranti con le carte in regola. L’approvazione della nuova Intesa può essere l’occasione per sistemare il settore e richiedere a tutti di concludere al più presto gli studi conseguendo i titoli necessari. È una questione morale prima ancora che giuridica. Nella scuola statale gli Idr senza titolo hanno un trattamento giuridicoeconomico diverso da quello degli Idr qualificati. Nella scuola paritaria si potrebbe porre anche un problema di conferma della parità in presenza di docenti che continuano ad insegnare senza avere i titoli richiesti. Gli attuali percorsi di studio per accedere all’Irc sono noti. Tra le questioni problematiche più ricorrenti si può ricordare il caso della laurea triennale in scienze religiose, che in molti casi è stata considerata – in buona fede – come sostitutiva del vecchio diploma triennale di scienze religiose, ma purtroppo non c’è alcuna equivalenza e la laurea triennale – da sola nella scuola primaria o unita a una laurea civile nella scuola secondaria – non è titolo valido per l’Irc e deve essere integrata dalla corrispondente laurea magistrale o da altro titolo accademico di durata quinquennale. In mancanza di personale qualificato si può ricordare che, almeno nella scuola primaria e dell’infanzia, è ancora in vigore la delibera n. 42 bis della Cei, del 1987, che consente esclusivamente ai religiosi e alle religiose di essere qualificati per l’Irc nella scuola primaria e dell’infanzia in virtù del semplice possesso di un diploma di cultura teologica rilasciato da una Scuola di formazione teologica o dall’attestato di partecipazione ad un corso equipollente. Si tratta di una norma che potrebbe essere presto sostituita da disposizioni più esigenti e coerenti con i livelli di qualificazione oggi richiesti dalla nuova Intesa, ma per il momento, almeno nei primi livelli di scolarità, è possibile risolvere il problema di assicurare l’Irc con Idr qualificati ricorrendo a religiosi/e in possesso di questi diplomi e attestati. Vi si può fare ricorso nelle scuole cattoliche se dovesse rendersi necessario regolarizzare rapidamente una situazione difficilmente sanabile in modo diverso.
8. L’insegnante di classe o sezione I problemi principali possono porsi nelle scuole cattoliche primarie e dell’infanzia per via delle difficoltà poste dalla nuova Intesa ad impiegare nell’Irc gli insegnanti di classe o sezione. Nella logica educativa della scuola cattolica è infatti preferibile che sia il docente ordinario ad impartire anche l’Irc, dato che chi è idoneo ad insegnare in una scuola cattolica dovrebbe
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esserlo anche per l’Irc e ciò consentirebbe di integrare meglio l’Irc nel curricolo generale o realizzare più facilmente scambi interdisciplinari. Sarebbe invece difficile spiegare come mai si debba ricorrere all’Idr specialista per via di un docente di classe o sezione non idoneo o non disponibile all’Irc. L’impossibilità di impiegare il docente di classe o sezione nell’Irc può dipendere però non dal venir meno dell’idoneità ecclesiale ma dalle nuove disposizioni in fatto di qualificazione professionale. Per questi docenti è infatti venuta a cadere la vecchia possibilità di essere qualificati per il solo fatto di aver frequentato le lezioni di religione durante gli studi magistrali, dato che da circa quindici anni non esiste più l’istituto magistrale e ci si qualifica ad insegnare con un corso di laurea in scienze della formazione che non prevede alcuno studio di natura teologica o religiosa. I diplomati magistrali sono in fisiologica via di estinzione e tra una ventina d’anni dovrebbero essere completamente scomparsi dalla scena scolastica. Proprio per sopperire a questa carenza la nuova Intesa, non potendo chiedere loro di conseguire una seconda laurea magistrale in scienze religiose finalizzata al solo Irc, ha previsto che gli insegnanti di classe o sezione possano qualificarsi per l’Irc frequentando un apposito master biennale, il cui ordine degli studi è stato approvato lo scorso anno dalla Cei. Ora, mentre appare poco probabile che nella scuola statale ci siano insegnanti disposti ad investire due anni in impegnativi percorsi accademici al solo scopo di insegnare una disciplina che non produrrà per loro alcun vantaggio materiale, sembra più verosimile che i principali destinatari di questo master possano essere gli insegnanti di scuola primaria e dell’infanzia che intendono qualificarsi anche (e forse soprattutto) per le scuole cattoliche, dove appunto il possesso di un tale titolo di studio dovrebbe essere motivo preferenziale per l’assunzione. L’unica difficoltà, purtroppo insuperabile, è che il master è di secondo livello e quindi riservato a chi sia già in possesso di laurea magistrale. I diplomati magistrali sono quindi irrimediabilmente tagliati fuori. In prospettiva si può immaginare che non mancheranno insegnanti di classe e sezione qualificati per l’Irc, ma nell’immediato si possono verificare situazioni di emergenza, alle quali si può far fronte con Idr specialisti, eventualmente reclutati tra le poche suore rimaste che possono essere a posto con i titoli in base alla sopra ricordata delibera Cei del 1987. Diversamente, si può sempre ricorrere a Idr specialisti, come nella scuola statale, i quali dovranno possedere i nuovi titoli di studio e non costituiranno un onere aggiuntivo per la scuola in quanto i docenti di classe o sezione andranno a svolgere altre attività di insegnamento nelle ore non più impegnate dall’Irc e quindi il totale delle spese sostenute per il personale rimane sostanzialmente immutato.
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9. L’idoneità degli insegnanti di religione Fin qui abbiamo preso in considerazione solo i problemi relativi ai titoli di studio, ma le disposizioni concordatarie prevedono che per l’Irc si debba essere anche in possesso di specifico riconoscimento di idoneità rilasciato dall’ordinario diocesano. E su questo aspetto spesso le scuole cattoliche si sono rivelate inadempienti, come addirittura riconosce pubblicamente il citato sussidio del Consiglio Nazionale della Scuola Cattolica: in buona fede, ma inadempienti. Ma non sembra che su questo punto ci possano essere scappatoie. Anche a voler sostenere che il Concordato non si applica alle scuole cattoliche, è il Codice di Diritto Canonico a stabilire che l’ordinario diocesano (attraverso il rilascio dell’idoneità) vigili sugli Idr in tutte le scuole, «anche non cattoliche» (can. 804, §2). Se si dice che i criteri per il rilascio dell’idoneità valgono anche nelle scuole non cattoliche è chiaro che la procedura deve valere a maggior ragione nelle scuole cattoliche, che non possono assolutamente sottrarvisi. Da un lato, perciò, deve essere sempre il vescovo (e non il gestore della scuola cattolica) ad autorizzare un insegnante ad impartire l’Irc; dall’altro, l’idoneità all’Irc può essere rilasciata solo a chi risulti essere in regola con i titoli di studio richiesti (fatte salve le emergenze eccezionali e transitorie). Se gli Idr delle scuole cattoliche non dovessero essere in possesso della regolare idoneità, è necessario che la loro condizione sia sanata con una apposita verifica (dei titoli di studio e delle condizioni canoniche di idoneità), seguita dal rilascio formale del certificato di idoneità. D’altra parte, la mancanza di un decreto di idoneità non può voler dire che l’Idr non sia idoneo, perché l’idoneità all’Irc deve essere considerata almeno implicita in chiunque si trovi ad insegnare religione cattolica, pena l’esercizio abusivo dell’insegnamento: se l’insegnante non è idoneo non può insegnare, se insegna vuol dire che è idoneo perché sarebbe assurdo che il vescovo consentisse ad una persona non autorizzata di insegnare religione. Tenuto presente che nel caso specifico dell’Irc l’idoneità è equiparata ad un certificato di abilitazione all’insegnamento17 e che nelle scuole paritarie gli insegnanti devono essere tutti in possesso di abilitazione all’insegnamento,18 la presenza di un Idr privo di idoneità, oltre ad essere un abuso, potrebbe anche essere motivo di revoca della parità. Va inoltre ricordato che l’idoneità è dal 1990 rilasciata a tempo indeterminato e quindi anche l’Idr di scuola cattolica, una volta idoneo, continua ad esserlo fino ad eventuale revoca. Talvolta gli ordinari diocesani o i loro uffi-
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Consiglio di Stato, sez., I, parere n. 76 del 4-3-1958. Legge 62/00, art. 1, c. 4, lett.g).
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ci sono restii a riconoscere formalmente l’idoneità (non solo agli Idr di scuola cattolica) nel timore di un suo uso indesiderato (per esempio in un eventuale prossimo concorso statale per l’Irc). Ma il mancato rilascio del decreto formale di idoneità non può far considerare l’Idr ancora non idoneo per i motivi appena ricordati. Né è legittimo fissare una scadenza all’idoneità o rilasciarne una provvisoria. Può essere invece legittimo circoscrivere il valore dell’idoneità ad un solo ordine o grado di scuola e si può ritenere ancora accettabile (pur se con qualche riserva) il rilascio di un’idoneità solo per la scuola cattolica. Limitazioni del genere possono rendere forse più accettabile l’emanazione del dovuto decreto di idoneità e risolvere così una situazione di palese irregolarità.
10. I compiti degli uffici diocesani Alla luce di quanto detto fin qui, possiamo in conclusione riepilogare le affermazioni più importanti e delineare una sintetica serie di azioni che gli uffici diocesani farebbero bene a mettere in pratica, se già non vi abbiano provveduto. Premesso che sembra necessario applicare la normativa concordataria non solo alle scuole statali ma anche a quelle cattoliche, ogni diocesi dovrebbe disporre di una anagrafe aggiornata delle scuole cattoliche attive nella diocesi e verificare puntualmente che in ciascuna scuola si svolga regolarmente l’Irc e che esso sia affidato a docenti qualificati e idonei. Per quanto riguarda la disciplina, sarà bene assicurarsi che ne sia garantita formalmente la facoltatività ma che altrettanto si cerchi di avere l’adesione di tutti gli alunni in coerenza con il progetto educativo e con il Piano dell’offerta formativa, che dovrebbero recare esplicito riferimento all’Irc e al suo valore per la natura della scuola cattolica. Per quanto riguarda gli Idr, se quelli finora incaricati dell’Irc dovessero risultare privi di qualche requisito si dovrà chiedere di sanare al più presto la situazione: con il conseguimento dei titoli di studio necessari e/o con il riconoscimento della prescritta idoneità canonica (secondo le procedure in uso in ciascuna diocesi). Una volta compiuta questa preliminare operazione di verifica ed eliminazione delle situazioni irregolari, gli uffici potranno procedere ad ulteriori iniziative di carattere promozionale, come il coinvolgimento degli Idr di scuola cattolica nelle attività di formazione generalmente previste per gli Idr di scuola statale o come la richiesta di intensificare la presenza dell’Irc con un aumento di ore curricolari. Solo in questo modo la Chiesa locale potrà testimoniare concretamente da un lato il significato che per essa hanno l’Irc e la scuola cattolica e, dall’altro, il convinto sostegno a una cultura della parità.
LA SALLE BIOGRAFIE DI GIOVANNI BATTISTA DE LA SALLE FRÈRE BERNARD Vita di Giovanni Battista de La Salle trad. it. e presentazione di Bruno Bordone, Vercelli 2007, pp. 153 L’autore ha vissuto in comunità con il La Salle ed ha attinto dalla viva voce dei primi Fratelli le testimonianze che trasmette. Più che biografo è un testimone che offre con limpidità il La Salle nella sua veste di fondatore di una comunità di uomini affascinati da un giovane prete e votati a tenere insieme e in associazione le scuole gratuite.
FRANÇOIS-ELIE MAILLEFER Vita di Giovanni Battista de La Salle trad. it. e presentazione di Bruno Bordone, Vercelli 2007, pp. 301 Nipote del La Salle, l’autore scrisse su incarico della famiglia La Salle. Suo scopo è delineare il volto dello zio in tutta la sua autenticità attingendo a fonti sicure e trattandole con competenza. Con esemplare incisività presenta il giovane Jean-Baptiste alla ricerca della sua vocazione, teso a realizzare il piano di Dio tra l’affetto dei suoi figli spirituali e le resistenze di quanti non capivano il valore profetico delle sue scelte.
ELIO D’AURORA Monsieur de La Salle – una fedeltà che vive Editrice A&C, Torino 1984, pp. 275 La vita del La Salle si svolge nell’irriducibile realismo di una società dibattuta da crisi di coscienza, statolatria, ambizioni del potere, sete di ricchezze, necessità di rigenerarsi. La Salle non colloca la sua pedagogia nelle belle lettere, ma nelle arti e nei mestieri, presagendo il travaglio di un rivolgimento politico e sociale che l’Europa stava covando. Nella Francia del Re Sole, tra guerre miserie e pestilenze, ad onta dello splendore del Grand Siècle, La Salle rovesciò le concezioni pedagogiche di una società che nutriva solo disprezzo o falsa pietà per i ceti popolari. D’Aurora mette tutto questo in risalto con una brillante e documentata biografia.
MICHEL FIÉVET Giovanni Battista de La Salle maestro di educatori trad. it. di Serafino Barbaglia, Città nuova, Roma 1997, pp. 190 L’autore è un professore, sposato, che ha collaborato a lungo con i Fratelli scoprendo poco a poco il loro Fondatore. Affascinato dalla personalità del La Salle ne ha approfondito il profilo come santo e come pedagogista, tanto da riuscire a svelare agli stessi Fratelli aspetti inesplorati della fisionomia del loro Padre e Fondatore. •••
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Rivista Lasalliana 82 (2015) 1, 49-58
LA SFIDA UNIVERSALE DELLA PEDOFILIA. L’ABUSO SESSUALE DI BAMBINI LEONARDO CATALANO Docente di Teologia Morale - Ist. Superiore Scienze Religiose “Giovanni Paolo II” (Foggia)
SOMMARIO: 1. Definizione di abuso sessuale. - 2. Il fenomeno. - 3. Le forme di abuso sessuale. - 4. La pedofilia culturale e la pedopornografia online. - 5. Il bambino nel mondo biblico. - 6. Alcune coordinate storiche. - 7. Conclusione.
1. Definizione di abuso sessuale
A
lice Miller afferma che picchiare un bambino, umiliarlo o farlo oggetto di abusi sessuali è un delitto, perché danneggia un individuo per tutta la sua esistenza. L’abuso sessuale non può essere considerato solo il risultato di una serie complessa e trasversale di fattori concorrenti. Cos’è l’abuso sessuale? Non ci sono definizioni condivise.1 Il Consiglio d’Europa del 1986 ha proposto la seguente definizione degli abusi: «Gli atti e le carenze che turbano gravemente il bambino, attentano alla sua integrità corporea, al suo sviluppo fisico, intellettivo e morale, le cui manifestazioni sono la trascuratezza e/o lesioni di ordine fisico e/o psichico e/o sessuale da parte di un familiare o di altri che hanno cura del bambino».2 Ci sono altre definizioni tratte dalla letteratura degli ultimi anni che confermano in ogni caso la deliberata, volontaria decisione di un adulto nei confronti dei bambini, che sono costretti a subire un comportamento seduttivo e violento, manipolativo, che non garantisce il loro sviluppo psicofisico sereno ed equilibrato. Secondo Ogato si tratta di «Qualunque atto sessuale che includa l’esibizione dei genitali senza contatto fisico, carezze e baci ai genitali o penetrazione».3 Besten per definire l’abuso sessuale ritiene determinante che 1
DI NOTO F., La pedofilia, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2002. FINKELHOR D., Sexually victimized children, Free Press, New York, 1979. KEMPE R. - KEMPE H., Le violenze sul bambino, Armando, Roma, 1980. MONTECCHI F., Gli abusi nell’infanzia. Dalla ricerca all’intervento clinico, Nis, Roma, 1994. OLIVERIO FERRARIS A. - GRAZIOSI B., Pedofilia, Laterza, Bari, 2001. PACCIOLLA A. - ORMANNI I. - PACIOLLA A., Abuso sessuale. Una guida per psicologi, giuristi ed educatori, Laurus Robuffo, Roma, 1999. TULLI F., Chiesa e pedofilia. Non lasciate che i pargoli vadano a loro, L’Asino d’oro, Roma, 2010. 2 DI NOTO F., Abuso sessuale di bambini, in RUSSO G. (a cura di), Enciclopedia di bioetica e sessuologia, ELLEDICI, Leumann, 2004, p. 7. 3 DI NOTO F., Abuso sessuale di bambini, op. cit., p. 7.
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si verifichino i seguenti fattori: l’abuso sessuale è sempre una forma di violenza fisica e/o psicologica in modo tale da non lasciare alcuna possibilità di esprimere il loro consenso o il rifiuto; l’abusante di norma proviene da un ambiente familiare; l’abuso arresta lo sviluppo equilibrato del bambino; l’abuso si protrae per anni e non è solo un caso isolato; delimitare con precisione i confini tra un gesto naturale e un abuso è di difficile gestione per un estraneo, mentre i bambini avvertono il momento in cui ha inizio lo sfruttamento del corpo; l’abuso sfrutta la sinergica combinazione tra potere autoritario dell’adulto e dipendenza dei bambini. L’abuso è il soddisfacimento consapevole o inconsapevole di un bisogno di un adulto.4 Kavemann e Lohstoter ribadiscono che le caratteristiche del fenomeno dell’abuso sessuale si ascrivono a: «Tutto ciò che concorre a dare a una ragazzina l’impressione di non essere interessante ed importante quanto un uomo bensì, al contrario, che gli uomini possono liberamente disporre di lei, di poter assumere importanza come persona riducendo il proprio ruolo a quello di oggetto sessuale, di essere dotata di attrattiva e di tutti gli attributi fisici necessari per procurare piacere agli uomini».5 Secondo Enders l’abuso sessuale è sempre perpetrato «quando una bambina o un bambino vengono usati da un adulto o da un ragazzo più grande come oggetto di appagamento dei propri bisogni sessuali. Il grado di sviluppo cognitivo ed emotivo raggiunto non consente ai bambini e adolescenti di esprimere consapevolmente un libero consenso ad avere rapporti sessuali con un adulto. Quasi sempre chi commette la violenza estorce il consenso, abusando di un rapporto di forza o dipendenza».6 Infine, indichiamo la definizione di Welch e Faiburn: «Qualsiasi esperienza sessuale con coinvolgimento del contatto fisico che fosse contro la volontà, e che comprendesse l’essere toccato o l’essere costretto a toccare l’abusatore in qualsiasi modo di tipo sessuale compreso il sesso orale e il rapporto sessuale completo forzato (stupro)».7
2. Il fenomeno Il fenomeno del sospetto abuso e maltrattamento e della pedofilia nei confronti dell’infanzia e dell’adolescenza è estremamente complesso e trasversale con radici culturali fortemente alimentate dal dominio, dal potere, dall’individualismo e dalla violenza. È un aspetto doloroso della condizione umana, perché lede la dignità della persona nella sua profonda intimità 4
DI NOTO F., Abuso sessuale di bambini, op. cit., pp. 7-8. DI NOTO F., Abuso sessuale di bambini, op. cit., p. 8. 6 DI NOTO F., Ibidem. 7 DI NOTO F., Ibidem. 5
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e con conseguenze psico-fisiche permanenti. Un fenomeno sommerso, connesso ad un alto indice di occultamento, che tende a richiamare l’attenzione quando il livello di gravità è tale da causare danni spesso irrimediabili. È un fenomeno pericoloso, per cui servono adeguati interventi tempestivi di tutela e protezione. È difficilmente rilevabile con sufficiente certezza e pertanto richiede la presa in carico di situazioni dubbie, che devono essere verificabili con attenzione e senza approssimazione. Richiede una lettura complessa e richiede il coinvolgimento di varie figure professionali che sono chiamate in soccorso: dallo psicologo al dottore, dal giurista all’educatore. È un fenomeno spesso negato, dimenticato e occultato, in quanto sia la famiglia che i meccanismi messi in atto da parte dell’abusante nei confronti dell’abusato interrompono la comunicazione. Spesso è una patologia intrafamiliare, intesa non in senso solo parentale, ma anche di conoscenti e amici. L’abuso sessuale di solito è realizzato da persone “vicine” al bambino, che lo inducono a vivere rapporti sessuali completi o lo spingono alla prostituzione o alla pornografia o ad altri fini: giochi sessuali, esibizionismo, autoerotismo indotto, tutto ciò che serve solo a procurare piacere a qualche adulto ma che produce danni psicologici, fisici al bambino o alla bambina. Si può trattare di episodi, ma nella normalità dei casi l’abuso si protrae per anni nel più assoluto silenzio e con sensi di colpa. Il bambino non chiede aiuto per paura di non essere creduto oppure perché ha timore di essere colpevolizzato o punito.
3. Le forme di abuso sessuale Tre sono le principali forme di abuso sul piano dello sfruttamento sessuale, a cui si aggiunge quella nuova definita “virtuale”. Il Saller suddivide le forme di abuso sessuale in forme esplicite; forme che analogamente implicano un’utilizzazione del corpo del bambino per il soddisfacimento di un bisogno dell’adulto; forme di comportamenti che a posteriori vengono spesso identificati come l’inizio di uno sfruttamento sessuale. Una forma inedita è quella “virtuale”. La diffusione di massa di mezzi sempre più sofisticati di comunicazione, l’accesso sempre più facile e veloce ad internet ha permesso di costruire un tipo di relazione virtuale e cioè mediata tramite strumenti mediatici, in cui non c’è più un rapporto tra persone, corpo a corpo, vis a vis, ma i soggetti si incontrano tramite degli strumenti sostitutivi che fanno percepire l’incontro come reale. Internet sembra essere il luogo, il modo, lo spazio della relazione, di ogni relazione. È uno spazio aperto a tutti e spesso senza alcun controllo, in cui il bambino si trova a non saper gestire se non come se fosse un gioco le mille possibilità proposte e i mille contatti che gli si offrono. Se in modo eufemistico in
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internet si diventa facilmente amici, la realtà più preoccupante è quella di diventare sicuramente oggetti. Infatti l’abuso sessuale avviene virtualmente in questa sede; solo in alcuni casi si sono concretizzati adescamenti e approcci reali dopo lunghe chiacchierate virtuali con adolescenti, che soffrono di “solitudine” e “disagio familiare”. Un tale abuso è il risultato di una sindrome preannunciata nella costruzione di un bisogno emotivo e di un costante e progressivo abuso sessuale online. Inoltre il diffondersi della pedopornografia, come produzione di materiale pornografico avente come oggetti minori di 18 anni, è uno degli appagamenti sessuali di presunti abusanti o di soggetti che alimentano il mercato dello sfruttamento sessuale dei minori.
4. La pedofilia culturale e la pedopornografia online La pedofilia ha anche un aspetto culturale che si manifesta come abuso ideologico. Consideriamo questi semplici dati8: 552 organizzazioni e associazioni di rivendicazione dei diritti dei pedofili (tra cui 12 italiane), dal 1995 al 2003 sono aumentate del 200%; 5680 soggetti che quotidianamente scrivono sui Forum e BBS specializzate per elaborare una strategia planetaria di accettazione dei pedofili e del consenso del bambino; 3 associazioni religiose per rielaborare una teologia del pedofilo; 5 associazioni di donne pedofile per manifestare universalmente l’amore alle bambine senza vergogna e con delicatezza; 10 centri di iniziative sulla pedofilia (Agepedo) e agenzie virtuali di consulenza e sostegno giuridico e psicologico ai pedofili; 1 radio online per la pedofilia libera; 3 database online di studi e ricerche per l’accettazione della condizione dei pedofili e del loro orientamento sessuale e l’esplicitazione dello stesso; 5 siti cartoons di produzione e divulgazioni per pedofili; 2 riviste pedofile internazionali; 5 libri scritti dalle organizzazioni scaricabili online; 2 siti specializzati per la produzione e la vendita di magliette, gadget, banner che pubblicizzano la pedofilia; 1 agenzia di stampa per la pedofilia; 3 celebrazioni annuali per l’orgoglio pedofilo e la giornata del boylove day; 5 portali che raccolgono nuove adesioni; 62 sigle di individuazione (vezzi e acronimi); 5 Chat e Webring. Ormai la realtà non è più una cosa tanto sommersa. La pedofilia è una sfida per tutta l’umanità. Si tratta di strutture ben organizzate e diramate che sembrano voler attuare una pianificazione politica, culturale, ideologica e religiosa anche attraverso la violenza, se necessaria. I pedofili in qualsiasi parte del mondo non solo rivendicano i loro diritti, ma esplicano con costanza e coerenza le loro pulsioni sessuali con i bam8
Www.associazionemeter.it.
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bini, le principali vittime di un perverso sistema che fa paura e che non richiede più un convegno di studi o un articolo. Per combattere la pedofilia è necessaria una strategia politica e culturale, atta ad individuare chi velatamente o direttamente sostiene questo fenomeno culturale trasversale e pericoloso.
5. Il bambino nel mondo biblico Nel mondo biblico9 si presentano testi che esprimono la gioia per la nascita di un figlio che deriva dall’ammirazione per il mistero della fecondità o dalla speranza del futuro contributo di lavoro che il figlio potrà dare; d’altra parte si racconta che mamme e papà sono felici della bellezza del bambino o del fatto che esso è il frutto del loro amore. La mamma di Mosè tenne nascosto il bambino perché aveva visto che era bello (Es 2,2). Il racconto di Agar che nasconde il figlioletto sotto un cespuglio perché non ha il coraggio di vederlo morire di sete (Gen 21,16), rivela una sensibilità spontanea e nello stesso tempo raffinata per le tematiche dell’amore materno e della tenerezza che suscita una creatura piccola, bella e indifesa. Lo stesso vale per le delicate trame di affetti nella storia di Giuseppe, di Beniamino e del vecchio padre Giacobbe. Quando Davide digiuna per salvare la vita del bambino avuto da Betsabea, la motivazione è profondamente umana e non dinastica. La Scrittura offre tre punti di vista sull’infanzia. Anzitutto il punto di vista degli adulti, i quali sono portati a tenere in poco conto i bambini. Nell’organizzazione maschilista della società il bambino non conta, perché non gli si può affidare nessuna responsabilità. Egli non è capace di dirigere un’impresa, né di amministrare una fortuna, né di combattere in caso di guerra. Quando il re Davide ordina di fare il censimento del suo popolo non si interessa dei bambini (2 Sam 24,9). Nella Bibbia, il libro dei Numeri adotta la stessa prospettiva (1,17-45). Il libro dell’Esodo precisa che non sono contati i bambini (12,37). Nei vangeli si trova la stessa procedura nei due racconti della moltiplicazione dei pani (Mt 14,21; 15,38). Quando gli Atti degli Apostoli parlano del crescente numero dei primi cristiani (4,4; 5,14), menzionano gli uomini e le donne, ma non nominano mai i bambini. I bambini non essendo ammessi a decidere per proprio conto, sono considerati come quantità da trascurare. Diversa è la prospettiva del padre e della madre. Mentre per l’adulto l’infanzia appartiene al passato, per i genitori il bambino rappresenta l’avve9 ARCHARD D., Child abuse, in Encyclopedia of applied ethics, vol. 1, R. Chadwick editor-inchief, Academic Press, San Diego, 1998, pp. 437-450. PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA FAMIGLIA, Lo sfruttamento sessuale dei bambini, 11 novembre 1992. VANHOYE A., Il Bambino della Sacra Scrittura, in «Dolentium Hominum» 9 (1994), pp. 38-42.
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nire e prende un’importanza di primo piano. Il desiderio di avere bambini si esprime senza posa nell’Antico Testamento e in una prospettiva intensa. Infatti a che serve possedere ricchezze se non si hanno figli? Il bambino, desiderato intensamente, è amato come un dono inestimabile di Dio, una benedizione (Gen 4,1; 29,31; 1 Sam 1,19; Sal 127,3-5). Quando un bambino cade ammalato, i suoi genitori ne hanno grande cura (2 Sam 12,15-17). Il vederlo minacciato dalla morte è uno spettacolo insostenibile per i genitori (Gen 21,14-16). Al tempo dei re, il profeta Elia rende la vita al bambino di una vedova (1 Re 17,17-24), e il suo discepolo Eliseo segue più tardi il suo esempio (2 Re 4,32-37). La tenerezza di un padre e di una madre per il loro bambino serve spesso come punto di paragone per esprimere la tenerezza di Dio per il suo popolo (Dt 1,31; Os 11,1.3-4.8-9; Is 49,15; 66,12-14; Ger 31,9). Dal punto di vista messianico Dio si servirà di un bambino per mettere fine all’oppressione esercitata dai potenti di questo mondo. Infatti Dio rifiuta di servirsi degli strumenti della potenza umana e al contrario sceglie mezzi deboli (Sal 147,10). Per trionfare su Golia, gigante armato corazzato, Dio si è servito del giovane Davide, al quale Saul aveva detto di essere un bambino (1 Sam 17,33) e che Golia aveva disprezzato perché era un ragazzo (17,42). E in un Salmo che celebra la grandezza di Dio, la lode gli è rivolta per mezzo dei bambini (8,3). Una visione confermata e perfezionata dal Nuovo Testamento e in particolare nei Vangeli dell’infanzia. Matteo cita esplicitamente l’oracolo di Isaia, che annuncia la nascita dell’Emmanuele (Mt 1,23; Is 7,14), e mostra che il piccolo bambino (2,9.11.13.14) della Vergine Maria possiede la sovranità, poiché alcuni magi venuti dall’Oriente si prostrano davanti a lui e gli offrono i loro tesori (2,1.11). Ma la sua nascita provoca nello stesso tempo da parte dei potenti di questo mondo lo scatenarsi di crudeltà contro i bambini indifesi (2,16-18). Come Mosè nella culla, il bambino Gesù sfugge alla morte. Luca insiste ancora di più sul paradosso della potenza divina, che si nasconde e si rivela nella debolezza di un infante. I Vangeli indicano come la relazione del bambino con Dio è una relazione personalissima, che è anche al di sopra della stessa relazione con i genitori, perché essa lo stabilisce in un’alta dignità. Gesù scopre il progetto del Padre su di sé e questo spesso rimane incomprensibile ai genitori e all’interessato fino a quando pian piano si svela il mistero della propria vocazione: «Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: “Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cer-
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cavamo”. Ed egli rispose: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Lc 2,41-49).10 Questo messaggio di predilezione divina dei bambini diventerà forte nella predicazione di Gesù al punto che occorre diventare «come bambini» per entrare nel Regno dei cieli (Mt 18,2-4). Dio è il difensore dei bambini disprezzati e violati: «Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché, vi dico, i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli» (Mt 18,10); «Colui che fa cadere nel male uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina di mulino e fosse gettato nell’abisso del mare» (Mt 18,6; Mc 9,42; Lc 17,2).
6. Alcune coordinate storiche Storicamente11 parlando non c’è dubbio che i bambini siano stati oggetto di varie forme di abuso, di crudeltà, di trascuratezza. Sono stati sacrificati in riti religiosi, torturati, venduti come schiavi, prostituiti, abbandonati o uccisi alla nascita, mutilati, duramente disciplinati, forzati a lavori sporchi e degradanti. Nella mitologia greca Zeus era insaziabile nei suoi appetiti sessuali, soddisfacendo i suoi desideri erotici con sua nipote Talia, sua sorella Demetria e diverse giovani ragazze. Zeus violentò anche la giovane Europa, figlia del re Sidone, con le forme tipiche di gentilezza e di persuasione dei casi di pedofilia attuali. Da questa relazione nacque Persefone, che subì anch’essa lo stupro di Zeus. Per non parlare poi della relazione incestuosa di Edipo con la madre e di Fedra con il figlio di Teseo. Nella cultura greca in cui i bambini non avevano diritti ed era permessa la pratica dell’infanticidio, non c’è da meravigliarsi se i bambini venivano abusati sessualmente per la gratificazione degli adulti. I greci avevano razionalizzato anche la pederastia, vista pure come una forma di educazione morale. In questo stesso periodo l’incesto era ampiamente praticato in Persia, dove veniva visto come qualcosa di altamente desiderabile e conveniente dal punto di vista educativo. I romani ufficialmente proibivano l’incesto sulla base che avrebbe ristretto i contatti sociali della famiglia, ma si sa che la nobiltà poteva permettersi di ignorare troppo spesso questa sanzione. Nel caso dell’imperatore Caligola, riuscì a far bandire dai senatori la legge in modo da poter sposare la sua giovane nipote. L’imperatore Giustiniano dovette prendere posizioni drastiche nei confronti dell’omosessualità pedo10 11
MARTINI C.M., Essere nelle cose del Padre. Il dono della vocazione, San Paolo, Milano 2014. TANNAHILL R., Sex in history, Sphere Books, London 1981.
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fila, attraverso la castrazione e l’esibizione pubblica del contravventore. Altri abusi sui bambini nell’antica Roma erano la castrazione dei figli nella speranza di introdurli in luoghi politicamente importanti. Saltando nel XIX secolo, l’insorgere epidemico di malattie veneree portò alla diffusione della prostituzione dei ragazzi, al punto che in qualche porto inglese nel 1869 si contavano circa 1500 bambini prostituti, di cui un terzo erano sotto i 13 anni. In Francia si contavano 36176 casi di violenza sessuale e assalti in campo morale di bambini sotto i 15 anni. Freud sull’argomento vi leggeva un fattore eziologico di una patologia psicologica come l’isteria. L’abuso sessuale non è dunque qualcosa di recente ma solo recentemente è stato adeguatamente identificato, diagnosticato e considerato come un male tutto particolare. Infatti, all’inizio del XX secolo si generò un movimento negli Stati Uniti (1880) che si strutturò con lo scopo di proteggere i bambini dalla crudeltà degli adulti e a volte dai propri genitori e si codificò la prima legislazione sistematica. Nei primi anni sessanta, e precisamente nel 1962, un gruppo di pediatri ha annunciato la scoperta della nuova sindrome del bambino maltrattato. Questa scoperta veniva fuori dal sospetto che parecchi incidenti presentati ai pediatri non potevano essere accidentali, e che le loro diagnosi di danni fisici e psichici riguardanti i bambini erano da attribuirsi a precise responsabilità di abuso di adulti o dei genitori. Dal 1970 in poi è cresciuta quell’attenzione specifica circa l’abuso sessuale dei bambini. La preoccupazione è venuta fuori dal movimento femminile. Infatti, è chiara la sensibilità della donna a questa forma di abuso per ciò che ha subìto nella storia, sia fuori famiglia che in famiglia.
7. Conclusione La pedofilia richiede un atteggiamento di responsabilità. È importante non confondere la pedofilia, come malattia psichiatrica, e la capacità di intendere e volere: nel 99,9% dei casi, infatti, le condotte pedofile sono condotte lucide e, quindi, perseguibili penalmente. La pedofilia è, perciò, una malattia che implica una responsabilità penale. Di fronte all’orrore e alla reazione di immobilità, bisogna cercare cure possibili. Sono stati presi in considerazione due percorsi terapeutici: il primo orientato a correggere il profilo ormonale, definito con un’infelice terminologia “castrazione chimica”, il secondo orientato a curare il disturbo psichiatrico. La correzione del profilo ormonale ha come idea di fondo quella di ridurre il testosterone (ormone maschile) o quanto meno i suoi effetti. I farmaci considerati, soprattutto il ciproterone, sono analoghi dell’ormone. Vengono usati anche nella cura di alcuni tumori; si legano ai recettori (si trovano anche nel cervello) dove dovrebbe andare il testosterone, togliendo così
La sfida universale della pedofilia. L’abuso sessuale di bambini
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gli effetti di quest’ultimo, come fosse una castrazione. Ma per avere un effetto duraturo l’individuo deve essere costretto a prendere queste sostanze per lungo tempo e ciò può portare a lesioni fisiche irreversibili. Per quanto riguarda la cura del disturbo psichiatrico bisogna innanzitutto dire che dal punto di vista psichiatrico la pedofilia si manifesta come ossessione e come disturbo dell’affettività. Il pedofilo è un ossessivo perché ha un’ideazione ossessiva e ripetitiva di trovare un bambino e di usarlo affettivamente e sessualmente, un’ideazione che non riesce a controllare. Ci sono dei farmaci capaci di allentare questa meccanica ideativa ripetitiva, ma non si ritiene che una terapia di questo tipo sia risolutiva. Per curare, invece, il disturbo dell’affettività, in molti casi causato da un trauma infantile, si ricorre alla psicoterapia. Si tratta di una terapia lunga e difficilmente realizzabile in carcere. Si tratta di una malattia che, purtroppo, al momento non ha cure efficaci e soprattutto che possano garantire una reale “guarigione”. Il dibattito sulla cura farmacologica per correggere il profilo ormonale (la cosiddetta “castrazione chimica”) sulle terapie psichiatriche è acceso, ma non sembra possa portare soluzioni a breve termine. Anche il “pool” antipedofilia istituito dal Consiglio dei Ministri il 25 agosto 2000 sull’onda emotiva non potrà che prendere atto di questa situazione e suggerire gli unici mezzi di contenimento del fenomeno oggi disponibili: la prevenzione e la repressione. L’importante è lavorare all’origine e cioè custodire una sensibilità preventiva. Bisogna aumentare la sensibilizzazione ed il controllo. Telefono Arcobaleno, l’associazione fondata da don Fortunato di Noto propone quasi un decalogo: insegniamo ai bimbi a dire sempre dove vanno e con chi; spieghiamo loro che non devono parlare con gli estranei e non si devono far convincere a seguire persone non conosciute dai genitori; diciamo ai nostri figli che devono dire no a chiunque li tocchi in modo che a loro non piace; se qualcuno prova a toccarli o a portarli via i bambini devono imparare ad opporsi, scappando e gridando; i bimbi devono sapere di poter confidare ai genitori se qualcuno ha provato a toccarli in un modo che a loro non piace; incoraggiamo i piccoli a non avere segreti; i figli devono sentire di poter contare sempre sui genitori. Il filone educativo e preventivo deve proporsi attraverso la promozione convinta dei diritti dell’infanzia, progettando piani, promuovendo programmi internazionali sulla sessualità e sulla salute, istituendo l’educazione e la formazione sessuale, coinvolgendo tutti i soggetti, dai bambini ai genitori e agli insegnanti, dialogando con i bambini sul sesso, attivando i servizi sociali e sanitari, pensando a campagne informative con l’aiuto dei mezzi di comunicazione, e a controlli presso le scuole, concependo infine l’intervento sul pedofilo in termini riabilitativi. Occorre privilegiare una cultura dell’infanzia, con un’organica rete di servizi e di produzione e con la messa
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STUDI
Leonardo Catalano
in discussione di certi modelli interpretativi superficiali della famiglia e della visione commerciale dell’infanzia. Ci deve essere anche la repressione. Poiché il pedofilo è normalmente lucido e responsabile delle proprie azioni, bisogna aumentare il controllo, rafforzare le indagini e rendere le pene molto più severe. Bisogna creare, su tutti i mezzi di comunicazione, compreso Internet, una barriera insormontabile alla diffusione del fenomeno e a possibili contatti tra i pedofili. Chiunque pubblica pagine web, deve avere un indirizzo, richiedendolo a degli enti competenti, per cui può essere identificato. Non c’è anonimato su internet. Il percorso di chi naviga su Internet può essere monitorato dai provider, così come sono registrati i numeri di telefono e le chiamate delle società telefoniche. Non bisogna demonizzare Internet, ma condannare le persone che ne abusano per azioni illegali. Infine, bisogna, accanto a più efficaci misure di prevenzione e di repressione, consentire ai pedofili di sottoporsi ad una cura, anche in carcere, quando lo richiedono. Amare non è abusare.
Rivista Lasalliana 82 (2015) 1, 59-61
MA DAVVERO LE DISCIPLINE UMANISTICHE SONO “SAPERE SUPERFLUO”? DARIO ANTISERI Professore di Metodologia delle Scienze Sociali
O
vunque venga praticata, la ricerca scientifica si risolve in tentativi di soluzione di problemi – tentativi consistenti nella proposta di ipotesi o congetture da sottoporre ai più severi controlli sulla base delle loro conseguenze. E se queste conseguenze urtano contro fatti contrari, allora le ipotesi proposte dovranno venir sostituite con altre idee, anche esse, a loro volta, da sottoporre a prove rigorose – e così di seguito finché non si arrivi a quella teoria che, almeno all’epoca, abbia resistito e resista agli assalti della critica. E in un procedimento del genere risulta chiaro che l’errore commesso, individuato ed eliminato costituisce il debole segnale rosso che ci permette di venir fuori dalla caverna della nostra ignoranza. Talché, razionale non è un uomo che vuole avere ragione, ma un uomo che vuole imparare: imparare dai propri errori e da quelli altrui. La ricerca scientifica, in breve, va avanti per congetture e tentativi di confutazioni, per trial and error – direbbe Karl Popper; procedura che è la stessa di quella teorizzata da Hans-Georg Gadamer con l’idea di “circolo ermeneutico”. E questo metodo è il metodo di tutta la ricerca scientifica. È il metodo della fisica e della filosofia, della chimica e della storiografia, della biologia e della critica letteraria; è il metodo del clinico che stabilisce una diagnosi e prescrive una terapia; ed è il metodo di un critico testuale, di un epigrafista, di un esegeta biblico e di un traduttore. Ben pochi, ai nostri giorni, abbracciano ancora il pregiudizio del più rozzo positivismo, stando al quale le discipline umanistiche, diversamente dalle scienze naturali, non sarebbero affatto in grado di offrire autentiche conoscenze, nel senso che esse consisterebbero unicamente in cumuli di vuota retorica o in espressioni di passioni scritte al verbo indicativo. E, tuttavia, come è apparso anche dal recente “processo al Liceo classico”, un’altra insidiosa e apparentemente convincente accusa è stata sferrata contro le discipline umanistiche e, di conseguenza, contro una presunta e dannosa inattualità del Liceo classico: certo, le discipline umanistiche offrono conoscenza, solo che si tratta di “conoscenza superflua”. L’accusa è pur grave, ma è essa anche valida? Nel suo recente lavoro Non per profitto. Perché le democrazie “hanno
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PROPOSTE
Dario Antiseri
bisogno” della cultura umanistica, Martha Nussbaum fa presente che «non c’è nulla da obiettare su una buona istruzione tecnico-scientifica». Ma subito dopo confessa di sentirsi preoccupata per il fatto che «altre capacità altrettanto importanti stiano correndo il rischio di scomparire nel vortice della concorrenza: capacità essenziali per la salute di qualsiasi democrazia al suo interno e per la creazione di una cultura mondiale in grado di affrontare con competenza i più urgenti problemi del pianeta». E tali capacità – ella prosegue – «sono associate agli studi umanistici e artistici: la capacità di pensare criticamente, la capacità di trascendere i localismi e di affrontare i problemi mondiali come “cittadini del mondo”; e, infine, la capacità di raffigurarsi simpateticamente la categoria dell’altro». Da qui, l’imprescindibilità, nella formazione dei giovani, dell’insegnamento della filosofia, della storia e della letteratura. «Ciononostante – annota amaramente la Nussbaum – gli studi umanistici, l’arte e persino la storia vengono eliminati per lasciar spazio a competenze che producono profitti che mirano a vantaggi a breve termine». Solo che, «quando ciò avviene, le stesse attività economiche ne risentono, perché una sana cultura economica ha bisogno di creatività e di pensiero critico, come autorevoli economisti hanno sottolineato». E tra questi – e non è il solo – c’è il premio Nobel per l’economia Edmund S. Phelps, il quale soltanto pochi mesi fa ha voluto ribadire che «le economie oggi mancano di spirito di innovazione. I mercati del lavoro non hanno solo bisogno di maggiori competenze tecniche, ma richiedono sempre più “soft skills” come la capacità di pensare in modo fantasioso, di elaborare soluzioni creative per risolvere problemi complessi, di adattarsi a circostanze mutevoli e a vincoli nuovi». Ed ecco, allora, che «un primo passo necessario è quello di reintrodurre le materie umanistiche al Liceo e nei corsi di studi universitari. Studiare letteratura, filosofia e storia sarà d’ispirazione ai giovani che aspirano a una vita ricca, una vita che permetta loro di offrire dei contributi creativi, innovativi alla società». Viene qui da chiedere ad Andrea Ichino: è in errore Phelps? Sono sulla cattiva strada Stati come la Cina e Singapore, dove sono state attuate vaste riforme dell’istruzione tali da conferire maggiore centralità agli studi umanistici sia nell’istruzione di base che in quella superiore? «L’arte e la storia – ha scritto Ernst Cassirer – sono gli strumenti più validi per un’indagine sulla natura umana. Senza queste due fonti di informazione, che cosa si potrebbe conoscere dell’uomo? [...] Sia la storia che la poesia sono organi per la conoscenza di sé, strumenti indispensabili per la costituzione del nostro universo umano». E, con Cassirer, Noam Chomsky: «Si imparerà sempre di più sulla vita dell’uomo e sulla sua personalità dai romanzi che non dalla psicologia scientifica». La dispotica dicotomia tra “cognitivo” (o scientifico) ed “emotivo” (o artistico) è, come ha mostrato Nelson Goodman, semplicemente inconsistente: «L’esperienza estetica e
Ma davvero le discipline umanistiche sono “sapere superfluo”?
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quella scientifica hanno entrambe un carattere fondamentalmente cognitivo». Ebbene, di questo ingente patrimonio di “conoscenza artistica”, della portata formativa della “disputa filosofica”, della consapevolezza offerta da quel sapere storico senza del quale non sappiamo chi siamo e come siamo diventati quello che siamo, ebbene, di tutta questa umana ricchezza intellettuale e morale dobbiamo forse defraudare i nostri giovani e soprattutto quelli che, lasciando il Liceo scientifico, frequenteranno domani corsi universitari ad esclusiva impronta tecnologica e naturalistica? È fuor di dubbio vero che non si può essere ricchi e stupidi per più d’una generazione, per cui è pienamente giustificata l’attenzione alla ricerca e alla istruzione tecnico-scientifica. Ma poiché «nulla vi è di più pratico che una buona teoria», non sarà male tener presente quanto ammoniva John Dewey, e cioè che «non ci si guadagna molto a tenere il proprio pensiero legato al palo dell’uso con una catena troppo corta». Da qui una doverosa e attenta riflessione sul dibattuto problema dei rapporti scuola-lavoro, nel preciso senso che dalla scuola non dovrebbero uscire giovani che abbiano appreso un mestiere, ma giovani che siano in grado di poter cambiare mestiere. D’accordo, potrà, a questo punto, forse dire anche più d’un incallito “scientista”; solo che costui si affretterà ad avanzare la proposta che i giovani del Liceo classico vengano almeno liberati da quella antica e mai scongiurata tortura costituita dalle “infinite” e “inutili” versioni di greco e di latino. Eppure, guarda caso, fu proprio un matematico ed epistemologo come Giovanni Vallati ad affermare che l’insegnamento del latino nelle scuole secondarie italiane «rappresenta una opportunità unica, e della quale avremmo gran torto di non trarre tutto il possibile partito». Ma, a parte questa autorevole testimonianza, quanto sull’argomento va fatto notare è che, se sono nel giusto Popper e Gadamer (e non solo loro, ovviamente), allora pratiche didattiche tradizionalmente legate alle discipline umanistiche come il tema argomentativo, il riassunto, tentativi di storiografia locale e soprattutto le versioni di greco e di latino sono autentico lavoro di ricerca, lavoro scientifico in quanto soluzioni di problemi e non esecuzioni di esercizi. E se l’esercizio addestra, è il problema che forma. E, allora, non sarà che – laddove gli esercizi, per esempio di matematica o di fisica, vengono tante volte camuffati da problemi – in qualche Liceo scientifico della nostra Penisola, l’unica pratica scientifica resta la versione di latino? Sia chiaro, non pare avere gran senso seguitare a discutere della superiorità delle discipline scientifiche nei confronti di quelle umanistiche e viceversa. Servono le prime e sono necessarie le seconde. Saggia, pertanto, potrebbe essere la proposta di Umberto Eco di un Liceo unico: «Si deve studiare il teorema di Pitagora, ma anche la sua teoria sull’armonia delle sfere. E il suo terrore dell’infinito».
LA SALLE BIOGRAFIE DI GIOVANNI BATTISTA DE LA SALLE CHARLES LAPIERRE, FSC Giovanni Battista de La Salle - cammina alla mia presenza Città Nuova, Roma 2006, pp. 234 L’autore ricostruisce l’itinerario del La Salle nel realizzare la vita che Dio gli ha chiesto “camminando alla sua presenza” e risponde a quanti desiderano conoscerlo come pedagogista e istitutore di grande attualità, ma anche a genitori ed educatori, che vedono in lui un modello da incarnare e un ideale da trasmettere ai giovani.
TERESIO BOSCO, SDB Giovanni Battista de La Salle – la forza di donare la vita Elledici, Leumann (To) 2004, pp. 44 Tratteggia la figura e l’opera del La Salle, pioniere dell’educazione in un tempo decisamente diverso dalla nostra epoca, specie in ambito scolastico ed educativo. La lettura del breve ritratto rende attuale la passione che il santo ebbe per la gioventù dell’epoca. E che i Fratelli delle scuole cristiane continuano a vivere oggi.
MANUEL OLIVÉ, FSC Giovanni Battista de La Salle – una vita per i giovani Istituto Gonzaga, Milano s.d., pp. 96 Biografia agile, incisiva, essenziale. Ricca di illustrazioni, è quanto mai adatta anche ai preadolescenti per iniziare un percorso di conoscenza di un santo educatore che per dedicarsi alla promozione dei ragazzi più poveri ha lasciato il ceto dei benestanti coinvolgendo nell’avventura altri giovani generosi per istituire le scuole gratuite.
LEO C. BURKHARD, FSC Un birichino di Parigi trad. it. di Camillo Coffano, Editrice A.&C., Milano 1961, pp. 160 Una storia romanzata alla gloria del pioniere e santo protettore delle scuole popolari. Tutte le vicende richiamano dei fatti storici. Al fine di garantire l’unità del racconto, l’autore ha ideato il personaggio del narratore attribuendogli dei fatti accaduti a molti. È lui – questo birichino di Parigi trascinato nella scia dell’eroe – che vi parla.
Giovanni Battista de La Salle Fondatore dei FSC e Patrono degli educatori fumetto di G. Signori e F. Pescador – Prov. Italia FSC, Roma 2008, pp. 207 I disegni, il testo e la sceneggiatura del fumetto, mentre non impediscono l’accostamento degli adulti alla vicenda storica e all’opera del La Salle, favoriscono invece un interessante e attento approccio all’opera del santo anche ai più piccini. ••• Per informazioni e ordinazioni: Viale del Vignola, 56 - 00196 Roma tel. 06.322.94.503 - E-mail: gabriele.pomatto@gmail.com tel. 06.322.94.235 - E-mail: fedoardo@pcn.net
Rivista Lasalliana 82 (2015) 1, 63-86
IL VALORE FORMATIVO DELLA MATEMATICA MARIO FERRARI Docente di Matematica all’Università di Pavia
SOMMARIO: 1. Introduzione. - 2. Una persona matura: i tratti essenziali. - 3. La domanda. - 3.1. Una riflessione generale. - 4. La risposta. - 4.1. Matematica e creatività. - 4.2. Matematica e spirito critico. - 4.3. Matematica e atteggiamento razionale. - 4.4. Matematica e gusto per la libertà. - 4.5. Matematica e senso sociale. - 4.6. Matematica e divertimento. - 5. Conclusione.
1. Introduzione
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a matematica non è una disciplina molto popolare. Certamente è poco amata e, magari, poco stimata anche da persone che si ritengono colte, e, forse, lo sono. Questo atteggiamento non è solo dei nostri giorni. Più di quarant’anni fa l’eminente matematico Beniamino Segre (1903-1977) lamentava “l’atteggiamento di troppe persone che si ritengono colte anche se mancano dei più elementari rudimenti della matematica, e che di tali loro lacune – anziché preoccuparsi – quasi traggono vanto e compiacimento”.1 Questo atteggiamento non è esclusivamente italiano. Il matematico statunitense Morris Kline, riferendosi al suo paese, scriveva: “Le persone istruite rifiutano quasi universalmente la matematica come oggetto di interesse intellettuale. […] La conseguenza è che un argomento fondamentale, di vitale importanza e tale da elevare lo spirito, viene trascurato e disprezzato da persone peraltro di buon livello intellettuale. Di fatto l’ignoranza della matematica viene considerata, a un certo livello della scala sociale, un fatto positivo”.2 Ovviamente per tutte queste persone la matematica non ha certamente un valore formativo.
2. Una persona matura: i tratti essenziali Per poter descrivere il valore formativo della matematica, cioè il contributo che la matematica può dare alla formazione della personalità umana, è necessario illustrare che cosa intendo per “persona umana matura”. Qui si entra nel regno dell’opinabile, ma ritengo che si possa essere tutti d’accordo
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SEGRE B., La matematica nel progresso scientifico e culturale della Nazione, Archimede, Anno XIX (1967), nn. 1-2, p. 2. 2 KLINE M., La matematica nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano, 1976, pp. 9-10.
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PROPOSTE
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su alcuni “tratti essenziali”, cioè alcune caratteristiche che ogni persona dovrebbe avere per essere ritenuta una “persona matura”. A – Una prima caratteristica penso debba essere questa: una persona matura è una persona fantasiosa, una persona creativa; una persona che non spegne dentro di sé le capacità intuitive, che non si lascia incapsulare in schemi fissi, anche se classici e venerandi; una persona che sa tentare esperienze nuove, che sa creare, che sa inventare. Mi piace riportare una bella pagina di “Grammatica della fantasia” di Gianni Rodari: “ “Creatività” è sinonimo di “pensiero divergente”, cioè capace di rompere continuamente gli schemi dell’esperienza. È “creativa” una mente sempre al lavoro, sempre a far domande, a scoprire problemi dove gli altri trovano risposte soddisfacenti, a suo agio nelle situazioni fluide nelle quali gli altri fiutano solo pericoli, capaci di giudizi autonomi e indipendenti (anche dal padre, dal professore e dalla società), che rifiuta il codificato, che rimanipola oggetti e concetti senza lasciarsi inibire dai conformismi. Tutte queste qualità si manifestano nel processo creativo”.3 Nella pagina precedente Rodari, citando Vygotski, sostiene che a tutti gli uomini, e non solo a pochi privilegiati, va riconosciuta “una comune attitudine alla creatività, rispetto alla quale le differenze si rivelano per lo più un prodotto di fattori sociali e culturali. La funzione creatrice dell’immaginazione appartiene all’uomo comune, allo scienziato, al tecnico; è essenziale alle scoperte scientifiche come alla nascita dell’opera d’arte; è addirittura condizione necessaria della vita quotidiana”. Ritengo importante sottolineare questa caratteristica della creatività perché la tendenza di questi tempi è all’appiattimento, al grigiore, alla standardizzazione, alla robotizzazione, al pensare in modo politicamente corretto come impongono i mass-media, a seguire l’opinione comune abilmente creata e manipolata, ad essere docili esecutori degli ordini impartiti dall’alto. B – Una persona umana matura è una persona critica. Critica non è una persona perennemente scontenta, per la quale non va mai bene niente, che sa solo demolire. Una persona critica, invece, è una persona che sa guardare in faccia alla realtà e leggerla con occhi disincantati e acuti. È una persona che sa individuare i problemi, che è capace di impostarli, ne sa cogliere il nocciolo e studiare le possibili strategie di soluzione. Critica è una persona che sa discernere il vero dal falso, che sa distinguere ciò che è essenziale da ciò che è accidentale, che sa cogliere in un avvenimento, in un problema, in un atteggiamento ciò che è fondamentale, importante, e privilegiarlo rispetto a ciò che è secondario. 3
RODARI G., Grammatica della fantasia, Einaudi, Torino, 1973, pp. 171-172.
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Critica è una persona che è capace di scoprire le regole comuni soggiacenti a situazioni differenti, di mettere in luce l’identità di struttura di cose che possono essere notevolmente diverse. Scriveva il matematico pisano Vittorio Checcucci nel lontano 1971: “Appare chiaro che sia il progresso scientifico che i processi industriali e tecnologici stanno sempre più influenzando e condizionando il nostro modo di vivere in questa società. In questo ordine di idee avvertiamo la necessità di una conoscenza più ampia per comprendere il mondo in cui viviamo e per sapere operare in questa società; i rapidi e profondi mutamenti nella struttura della nostra economia, nel mondo del lavoro, nelle ricerche scientifico-tecnologiche richiedono a ciascuno di noi la massima flessibilità ai molteplici turbamenti cui va incontro”.4 Quasi di rincalzo scriveva il tedesco Arthur Engel: “Il mondo sta facendosi sempre più complicato. Ci stiamo avvicinando rapidamente ad una situazione insopportabile e anche pericolosa: solo una piccola parte della popolazione saprà che cosa sta succedendo; la grande maggioranza sarà condannata al ruolo di semplice spettatore passivo”.5 Ebbene, critica è una persona che cerca di far fronte, con strumenti adeguati a questo stato di cose in modo da vivere ed operare in questa società conservando integre le dimensioni umane. C – Una terza caratteristica potrebbe essere espressa in questi termini: matura è una persona che cerca di avere comportamenti razionali. C’è un comportamento razionale a livello di pensiero. È matura una persona che sa ragionare in modo logicamente corretto, cioè una persona che, stabilite alcune premesse, sa da esse dedurre le conseguenze con logica rigorosa, evitando l’introduzione di qualunque elemento estraneo. È matura una persona che nel giudicare avvenimenti e persone sa tener presente tutto il ventaglio degli elementi interessanti ed utili e sa valutarli secondo il loro peso. E c’è un comportamento razionale a livello di azione. Matura è una persona che cerca di determinare i suoi atteggiamenti tenendo presenti gli obiettivi che vuole raggiungere, i mezzi che ha a disposizione, le circostanze in cui opera valutando tutto con realismo. D – Una persona matura è una persona libera. È difficile precisare in che cosa consista la libertà ed il tentativo di farlo potrebbe portarci molto lontano e, alla fine, risultare infruttuoso. Libero, comunque, possiamo dire che è colui che è strutturato in modo
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CHECCUCCI V., Creatività e matematica, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1971, p. 6. ENGEL A., L’importanza di certi campi moderni della matematica applicata nei riguardi dell’istruzione matematica, L’insegnamento della matematica, 1972, vol. 3, n. 2-3-4, p. 41. 5
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tale da rendergli impossibile di essere sfruttatore, cioè di togliere la libertà agli altri. Libera è una persona che ha il coraggio delle proprie idee e delle proprie scelte anche se sono contro l’opinione dei più e la moda culturale del momento; libera è una persona che non fa del principio di autorità il motivo del proprio agire e l’avvallo delle proprie tesi. Libera, soprattutto, è una persona aperta alla verità da qualunque parte venga. E – Vorrei sottolineare un’altra caratteristica. Una persona matura è una persona sociale. Nessun uomo è un’isola, è stato scritto. Cioè: una persona non può crescere, svilupparsi, maturare da sola. Per me vale anche il viceversa: nessuna isola è un uomo, cioè una persona che si auto emargina, che taglia i rapporti con gli altri, una persona priva di relazioni umane o, anche, semplicemente indifferente verso gli altri, non può essere una persona matura. Sociale, però, non è solamente un uomo che ha delle relazioni umane; è un uomo che non è indifferente a nessun problema umano e tanto meno ai problemi comunitari, sociali; anzi è un uomo che si fa carico di questi problemi, che si impegna personalmente nel risolverli. Potremmo dire che per un uomo sociale vale il motto: “Tutti i problemi devono diventare i problemi di tutti”. F – C’è un’ultima caratteristica che vorrei mettere in risalto: un uomo maturo è un “homo ludens”, un uomo, cioè, che opera prendendo gusto alle cose che fa, che cerca anche la soddisfazione, il divertimento nel proprio lavoro; un uomo che si sforza, almeno, di non trasformare il proprio lavoro in uno strumento di alienazione, ma in uno strumento di sviluppo e di crescita della propria personalità. E qui mi piace citare ancora Rodari: “Schiller – tanto nomini… non dico altro – fu il primo a parlare di una “educazione estetica” (si vedano le sue Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, in edizione italiana presso Armando, Roma 1971). “L’uomo – scriveva il gran Federico – gioca unicamente quando è uomo nel senso pieno della parola, ed è pienamente uomo unicamente quando gioca”.6
3. La domanda Alla formazione di una persona matura, come ho cercato di delineare, quale apporto può dare la matematica e la matematica insegnata a scuola? Può la matematica contribuire a sviluppare ed affinare le capacità creative, fantastiche, logiche, critiche, sociali e ludiche di un ragazzo, di un giovane così da favorire il suo processo di maturazione? 6
RODARI G., Grammatica della fantasia, p. 173.
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3.1 – Una riflessione generale Prima di dare una risposta relativa ai singoli punti, voglio proporre una riflessione generale sul valore culturale e formativo della matematica. E citerò anche i Programmi di matematica della scuola italiana ai quali i docenti dovrebbero ispirarsi nella loro attività in classe. Da almeno un centinaio di anni, in Italia, o viene negato esplicitamente il valore culturale e formativo della matematica, come faceva, per esempio, Benedetto Croce, per il quale la matematica era basata solo su pseudoconcetti, oppure si pensa che la cultura sia solo quella umanistica. Lo constatava con tristezza Beniamino Segre nel già citato articolo del 1967: “La matematica ha origini e tradizioni tanto antiche ed illustri da dover far apparire superflua ogni allusione alla sua grande importanza sotto ciascuno dei punti di vista pratico, logico ed estetico, ed ancor più all’elevatissimo suo valore formativo. Così, però, non è purtroppo in Italia dove – paradossalmente e checché si dica – il problema delle due culture neppure si pone, venendo qui a tutt’oggi apprezzata dai più una sola cultura: quella classica, grettamente intesa nel ristretto senso tradizionale.” A ragione Segre parla di “origini e tradizioni tanto antiche”. Per più di due millenni, infatti, a far data dalla scuola pitagorica che basava sui numeri la sua concezione del mondo, la matematica è stata considerata una componente essenziale della cultura perché forniva gli strumenti indispensabili per leggere, capire, schematizzare e descrivere l’universo che ci circonda. Basti pensare alla concezione cosmologica di Tolomeo, di Copernico, di Keplero. In Italia troviamo un Leonardo da Vinci il quale scriveva che: “nessuna umana investigazione si può dimandare vera scienza, s’essa non passa per le matematiche dimostrazioni”. Celebre, inoltre, è il passo di Galileo nel Saggiatore: “La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’universo) che non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, e altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente la parola; senza questi è un aggirarsi vanemente per un oscuro laberinto”.7 Meno noto, e anche un po’ retorico, è il passo seguente di Evangelista Torricelli (1608-1647) succeduto a Galileo come “Matematico e Filosofo” del Granduca di Toscana. È tratto dalla Prefazione in lode delle matematiche pronunciata davanti agli Accademici della Crusca: “Parvi forse poco benefizio questo, Uditori, che si trovi una scienza sì nobile, la quale da sé sola sia bastante per appagare il vostro intelletto, e per dar pasto d’ingegnoso tratteni7
G. GALILEI, Opere, VI, Barbera, Firenze, 1933, p. 232.
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mento alla cupidigia di qualunque curioso speculatore? Che frutto d’interna consolazione stimate voi che raccolga un animo veramente filosofo, dedito alla coltura d’una scienza, gli insegnamenti della quale non sono opinioni di dottori, o fantasie di uomini, ma beneplaciti divini e verità indubitabili ed eterne? Non troverete una sola proposta nella Geometria, la quale non lasci squisitamente appagato l’animo di chi l’ha intesa. Non si trova che ne i libri classici della Matematica da due secoli in qua si sia già mai scoperta un’ombra di fallacia; non per altro, se non perché le verità Geometriche ritrovate una volta sola, subito che sono scoperte, escludono le contraddizioni e s’impossessano dell’eternità. Dovrebbe bastar questo per appagar l’animo d’un vero filosofo, il quale abbia dedicato l’ingegno non al guadagno, ma alla sapienza”.8 Concludo questa carrellata di citazioni con una di Morris Kline: “La matematica è più di un metodo, di un’arte, di un linguaggio. Essa è un corpo di conoscenze avente un contenuto che serve allo studioso di scienze fisiche e sociali, al filosofo, al logico e all’artista; un contenuto che influenza le dottrine di statisti e teologi; che soddisfa la curiosità dell’uomo che scruta il cielo e di quello che medita sulla dolcezza dei suoni musicali; un contenuto che ha plasmato innegabilmente, anche se a volte in modo non avvertibile, il corso della storia moderna”.9 I Programmi della scuola italiana sottolineano fortemente il valore culturale e formativo della matematica. Possiamo iniziare dalla “Relazione Fassino” cioè dalla relazione della Commissione incaricata di procedere “alla elaborazione in via preliminare delle linee fondamentali e generali dei programmi di insegnamento nella scuola elementare”, programmi che sarebbero entrati in vigore nel 1987. Più volte in questa relazione si afferma esplicitamente che la lingua e la matematica sono gli strumenti fondamentali del sapere. Mi limito ad una sola citazione tratta dal paragrafo “L’alfabetizzazione culturale”: “Mentre le finalità generali devono essere riconosciute nella formazione dell’uomo e del cittadino secondo i principi affermati dalla Costituzione, i traguardi cognitivi e socio-affettivi si compendiano, i primi nella acquisizione degli strumenti basilari del sapere, la lingua italiana e la matematica al servizio della espressione e comunicazione dei fenomeni naturali e dei fatti storici, gli altri nella assimilazione di valori e comportamenti socialmente condivisi”.10 I programmi didattici per la matematica, pubblicati nel 1985, si aprono con il paragrafo dal titolo significativo “Matematica e formazione del pensiero”: “L’educazione matematica contribuisce alla formazione del pensiero nei suoi vari aspetti: di intuizione, di immaginazione, di progettazione, di ipotesi e deduzione, di
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TORRICELLI E., Opere, Faenza, 1908, vol. II, pp. 65-75. KLINE M., La matematica nella cultura occidentale, Op. cit., p. 21. 10 LAENG M., (a cura di), I nuovi programmi della scuola elementare, Giunti e Lisciani Editori, Teramo, 1984, p. 116. 9
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controllo e quindi di verifica o smentita. Essa tende a sviluppare, in modo specifico, concetti, metodi e atteggiamenti utili a produrre le capacità di ordinare, quantificare e misurare fatti e fenomeni della realtà e a formare le abilità necessarie per interpretarla criticamente e per intervenire consapevolmente su di essa”.11 Gli stessi si chiudono con una affermazione particolarmente importante per il nostro argomento: “Si favorirà così la formazione di un atteggiamento positivo verso la matematica, intesa sia come valido strumento di conoscenza e di interpretazione critica della realtà, sia come affascinante attività del pensiero umano”.12 Per quanto riguarda i programmi delle scuole secondarie superiori bisogna prendere in considerazione i “Programmi Brocca”. La concezione della matematica si evince chiaramente sia nelle “Finalità” che negli “Obiettivi di apprendimento e contenuti”. Mi limito a riportare i “Riferimenti generali” relativi al biennio. “La matematica, parte rilevante del pensiero umano ed elemento motore dello stesso pensiero filosofico, ha in ogni tempo operato su due fronti: da una parte si è rivolta a risolvere problemi ed a rispondere ai grandi interrogativi che via via l’uomo si poneva sul significato della realtà che lo circonda; dall’altra, sviluppandosi autonomamente, ha posto affascinanti interrogativi sulla portata, il significato e la consistenza delle sue stesse costruzioni culturali. Oggi queste due attività si sono ancor più accentuate e caratterizzate. La prima per la maggiore capacità di interpretazione e di previsione che la matematica ha acquistato nei riguardi dei fenomeni non solo naturali, ma anche economici e della vita sociale in genere, e che l’ha portata ad accogliere e a valorizzare, accanto ai tradizionali processi deduttivi, anche i processi induttivi. La seconda per lo sviluppo del processo di formalizzazione che ha trovato nella logica e nell’informatica un riscontro significativo. Sono due spinte divergenti, ma che determinano, con il loro mutuo influenzarsi, il progresso del pensiero matematico. Coerentemente con questo processo, l’insegnamento della matematica si è sempre orientato, e continua ad orientarsi, in due distinte direzioni: da una parte “leggere il libro della natura” e matematizzare la realtà esterna; dall’altra simboleggiare e formalizzare i propri strumenti di lettura attraverso la costruzione di modelli interpretativi. Queste due direzioni confluiscono, intrecciandosi e integrandosi con reciproco vantaggio, in un unico risultato: la formazione e la crescita dell’intelligenza dei giovani”.13 Nel settembre 2007 il Ministero della Pubblica Istruzione ha pubblicato le “Indicazioni per il Curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo 11
Programmi didattici per la scuola primaria (1985), Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, p. 29. 12 Programmi didattici per la scuola primaria, p. 42. 13 Studi e Documenti degli Annali della Pubblica Istruzione, 56 (luglio, 1991), Piani di Studio della Scuola Secondaria Superiore e Programmi dei primi due anni. Le proposte della Commissione Brocca, Le Monnier, Grassina, pp. 105-106.
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scolastico”. La matematica è compresa nell’Area matematico-scientifico-tecnologica. Nella presentazione di quest’area il Ministero scrive: “Le conoscenze matematiche, scientifiche e tecnologiche contribuiscono in modo determinante alla formazione culturale delle persone e delle comunità, sviluppando le capacità di mettere in stretto rapporto il “pensare” e il “fare” e offrendo strumenti adatti a percepire, interpretare e collegare tra loro fenomeni naturali, concetti e artefatti costruiti dall’uomo, eventi quotidiani. I principi e le pratiche delle scienze, della matematica e delle tecnologie sviluppano infatti le capacità di critica e di giudizio, la consapevolezza che occorre motivare le proprie affermazioni, l’attitudine ad ascoltare, comprendere e valorizzare argomentazioni e punti di vista diversi dai propri. Lo sviluppo di una adeguata competenza scientifica, matematica, tecnologica di base consente inoltre di leggere e valutare le informazioni che la società di oggi offre in grande abbondanza. In questo modo consente di esercitare la propria cittadinanza attraverso decisioni motivate, intessendo relazioni costruttive fra le tradizioni culturali e i nuovi sviluppi delle conoscenze”.14 Nella presentazione della Matematica si legge: “In questo quadro, la matematica ha uno specifico ruolo nello sviluppo della capacità generale di operare e comunicare significati con linguaggi formalizzati e di utilizzare tali linguaggi per rappresentare e costruire modelli di relazioni fra oggetti ed eventi. In particolare la matematica dà strumenti per la descrizione scientifica del mondo e per affrontare problemi utili nella vita quotidiana; inoltre contribuisce a sviluppare la capacità di comunicare e discutere, di argomentare in modo corretto, di comprendere i punti di vista e le argomentazioni degli altri. La costruzione del pensiero matematico è un processo lungo e progressivo nel quale concetti, abilità, competenze e atteggiamenti vengono ritrovati, intrecciati, consolidati e sviluppati a più riprese; è un processo che comporta anche difficoltà linguistiche e che richiede un’acquisizione graduale del linguaggio matematico” […] Di estrema importanza è lo sviluppo di un atteggiamento corretto verso la matematica, inteso anche come una adeguata visione della disciplina, non ridotta a un insieme di regole da memorizzare e applicare, ma riconosciuta e apprezzata come contesto per affrontare i porsi problemi significativi e per esplorare e percepire affascinanti relazioni e strutture che si ritrovano e ricorrono in natura e nelle creazioni dell’uomo”.15 Questi concetti sono stati ripresi, spesso quasi letteralmente, dalle Indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo scolastico, del 2012. Evito, quindi, di riportarle.
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MPI, Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo d’istruzione, Roma, 2007, p. 91. 15 Idem, pp. 93-94.
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4. La risposta Cercherò ora di dare delle risposte, cioè di illustrare il contributo che la matematica può dare allo sviluppo di quei “tratti essenziali” di una persona matura di cui ho parlato prima. 4.1. – Matematica e creatività La matematica è una scienza creatrice, in perenne sviluppo, in continuo divenire, in crescita esplosiva. In essa fantasia, intuizione, immaginazione hanno il posto preponderante. Questa affermazione potrà, certo, sembrare strana, paradossale ai non matematici. È, infatti, opinione diffusa anche tra persone colte, che la matematica sia una scienza fissa, statica, ferma, ingessata, completa in ogni sua parte, senza più ormai problemi da risolvere. La matematica, si pensa, è la scienza del definito, del preciso, dell’assoluto, dell’immodificabile. La matematica, si dice, è la “disciplina delle formule” e si pensa “alle spente interminabili serie di operazioni aritmetiche o algebriche da eseguire passivamente, quasi senza riflettere o tutt’al più con la sola fatica di richiamare mnemonicamente l’una o l’altra regoletta”.16 Campedelli cita anche le parole del Lamartine: “L’insegnamento matematico fa dell’uomo una macchina e ne degrada il pensiero. L’anima di un popolo non è fatta per quelle cifre mute e morte con le quali si contano le quantità e si misurano le estensioni”.17 È ovvio, si conclude, che in una disciplina di questo tipo non c’è spazio per l’immaginazione, per l’intuizione, per la fantasia. Fortunatamente la realtà è ben diversa. La matematica si è sviluppata, irrobustita, ingigantita affrontando problemi: ponendosi problemi interni alla disciplina, accettando la sfida di confrontarsi con problemi posti dalle scienze sperimentali, dalle scienze sociali, dalla vita quotidiana. La fantasia creatrice della matematica si manifesta nell’inventare problemi significativi, nel formularli con esattezza, nel costruire modelli, nell’escogitare strategie risolutive, nel descrivere le soluzioni. Spesso su un problema i matematici lavorano decenni e non è detto che sempre ne vengano a capo. E non si tratta sempre di problemi la cui comprensione è riservata agli specialisti. Ci sono anche problemi semplicissimi nella loro formulazione, comprensibili ad un bambino della scuola elementare, che sono ancora in attesa di una soluzione. Usando il “crivello di Eratostene”, un bambino di quinta elementare, ben guidato, può accorgersi che può scrivere i numeri pari maggiori di 2 come 16
CAMPEDELLI L., Del distinguere testa da testa e la propria dall’altrui, Archimede, Anno XXVIII, 1976, n. 2, p. 66. 17 CAMPEDELLI L., Valori umani nell’insegnamento della matematica, Atti VI Congresso UMI, Cremonese, Roma, 1960, p. 63.
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somma di due numeri primi. Il problema è se tutti i numeri pari maggiori di 2 possono essere scritti come somma di due numeri primi. Il problema è vecchio di più di 250 anni; molti matematici ci hanno messo le mani, ma la soluzione sembra ancora lontana. Per questo continuiamo anche noi a parlare di “Congettura” di C. Goldbach (1690-1764). Sui numeri primi sono parecchi i problemi che attendono una soluzione come, per esempio, se siano finiti o infiniti i numeri “primi gemelli”, cioè i numeri primi del tipo (p, p + 2), se siano infiniti o no i numeri primi di M. Mersenne (1588-1648) cioè i numeri primi del tipo 2p – 1 con p numero primo. Nonostante questi “insuccessi”, la matematica, oggi più che mai, ci appare come una scienza creatrice, al punto che, secondo J. Dieudonné, “nuove idee, nuovi risultati e nuovi metodi sono comparsi più numerosi tra il 1940 e oggi, che tra Talete e il 1940”.18 Con un po’ di approssimazione mi sembra di poter dire che le linee di sviluppo di questa attività creatrice siano sostanzialmente quattro: a) C’è una incessante attività di crescita interna con continue scoperte di nuove idee, di nuove teorie, di nuovi strumenti matematici indipendentemente da qualsiasi immediata applicabilità a problemi concreti. Qualche anno fa, per fare un esempio, ha avuto l’onore delle cronache giornalistiche la dimostrazione di Wiles dell’“Ultimo teorema di Fermat” secondo il quale l’equazione xn + yn = zn non può avere soluzioni intere per n > 2. Uno sguardo d’insieme sulla matematica contemporanea è offerto da J. Dieudonné nel libro L’arte dei numeri. Matematica e matematici oggi.19 b) C’è un incessante allargamento dei campi di applicazione della matematica: i “clienti” della matematica aumentano continuamente. Ce ne possiamo fare una idea leggendo un libretto pubblicato dalla Unione Matematica Italiana e intitolato “L’esplosione della matematica”. Scorrendo i vari capitoletti si ha una idea della vastità e della varietà dei problemi nella soluzione dei quali interviene la matematica. Riporto dalla Introduzione: “L’obiettivo di questo scritto è di far conoscere la matematica sotto tutti i suoi più svariati aspetti scientifici, tecnologici, culturali, sociali; di sottolineare la diversità e l’universalità di una disciplina che mantiene legami abbastanza saldi sia con 18 19
BOTTAZZINI U., Storia della matematica, moderna e contemporanea, UTET, Torino, 1990, p. 5. Arnoldo Mondadori, Milano, 1989, pp. 142-152.
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la fisica, la chimica, l’economia e la biologia che con la storia, la musica e la pittura. La matematica è ovunque. Senza di essa non esisterebbero i calcolatori, né i sistemi informatici, né i telefoni cellulari; non vi sarebbe alcun laboratorio per la costruzione di automobili e aerei, né alcun sistema di localizzazione satellitare, di trattamento dei segnali, di decifrazione del genoma, di previsioni meteorologiche, di crittografia, di carte con micro-chip, di robots.” c) C’è un continuo rimescolamento interno a teorie matematiche già note: si formulano nuove impostazioni, e teorie, anche venerande e tradizionali, vengono assorbite in altre più generali oppure cambiano decisamente fisionomia. Basterebbe consultare il volume di J. Dieudonné “Algebra lineare e geometria elementare” (Feltrinelli 1970) per vedere la geometria elementare “scomparire” nell’algebra lineare. Senza arrivare a tanto, si può confrontare l’impostazione euclideo-hilbertiana della geometria elementare con quella di G. Choquet nel volume “L’insegnamento della geometria” (Feltrinelli 1969) per accorgersi della radicale diversità tra le due impostazioni. d) Anche la didattica della matematica, negli ultimi trent’anni, ha conosciuto una evoluzione incredibile ed ormai si è costituita in disciplina autonoma, che utilizza la matematica e la sua storia, la psicologia cognitiva, la pedagogia, la didattica generale, le scienze cognitive, ed ha un suo statuto epistemologico, una sua storia, una sua terminologia specifica. In questa incessante attività creativa hanno un ruolo preponderante ed insostituibile l’intuizione, la fantasia, la immaginazione. Su questa affermazione tutti i matematici sono concordi qualunque sia la filosofia della matematica professata, magari in modo inconsapevole. Le citazioni potrebbero essere tante. Mi limito ad una sola. “La matematica è un campo di sforzi creativi. Nel divinare che cosa possa essere dimostrato, così come nel costruire metodi di dimostrazione, i matematici usano un alto ordine di intuizione e di immaginazione. Keplero e Newton, ad esempio, erano dotati di prodigiose facoltà di immaginazione, le quali consentivano loro non soltanto di sottrarsi ad una tradizione antichissima e rigida ma anche di creare concetti nuovi e rivoluzionari. […] Oltre alla bellezza della struttura compiuta, l’indispensabile uso di immaginazione e intuizione nella creazione di dimostrazioni e conclusioni garantisce al creatore un’alta soddisfazione estetica. Se intuizione e immaginazione, simmetria e proporzione, assenza di superfluità ed esatto adattamento dei mezzi ai fini sono inclusi nella bellezza e sono tipici delle opere d’arte, allora la matematica è un’arte che ha un bellezza propria. E nella scuola, nell’insegnamento quotidiano della matematica è possibile realizzare qualcosa di questa creatività, sviluppare, in qualche modo, fantasia, intuizione, immaginazione?
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Vorrei iniziare con una riflessione di Gaston Mialaret, direttore, negli anni settanta, del Laboratorio di psicologia dell’università di Caen: “Una formazione matematica completa deve tener conto anche delle possibilità immaginative degli alunni e coltivare sistematicamente una certa forma di intuizione ed un bisogno creativo, senza cui il dinamismo evolutivo non attinge il suo ritmo ottimale. Partire dal reale, dall’osservazione e dalla sperimentazione sulle cose per porsi problemi matematici, ritrovare nella realtà il terreno di applicazione e così comprendere meglio i fenomeni reali, inventare problemi la cui originalità non deve essere ottenuta a spese della serietà e del buon senso, tutte queste sono attività altamente formative e sviluppano nell’adolescente una sicurezza nello studio della matematica altamente propizia e feconda per la successiva evoluzione. D’altronde la possibilità di sviluppare l’immaginazione numerica e geometrica negli alunni è stata già dimostrata sperimentalmente, e si può affermare senza timore che la meschinità di certi risultati ottenuti nelle scuole secondarie è in parte legata al disprezzo di certi matematici per l’immaginazione”.20 In Italia, un esempio di “intuizione matematica” in alunni di scuola media si trova nel volume di Emma Castelnuovo “Didattica della matematica” pubblicato dalla Nuova Italia nel 1963. Della Castelnuovo conviene ricordare, dal nostro punto di vista, anche “Documenti di una esposizione matematica” (Boringhieri 1972) e E. Castelnuovo e M. Barra “Matematica nella realtà” (Boringhieri 1976). Un documento molto importante è la “Dichiarazione degli insegnanti” della Association of Teachers of Mathematics inglese contenuta nella “Introduction” del volume “Notes on Mathematics in Primary Schools (Cambridge University Press, 1967). In esso leggiamo fra l’altro: “Noi crediamo che l’apprendimento della matematica deve essere visto come un atto creativo (o ri-creativo) individuale che si sviluppa in un contesto sociale. L’insegnante deve evitare giudizi ex cattedra ed avere comprensione nei confronti di ciò che il ragazzo cerca di fare. Compito dell’insegnante è quello di conservare un certo equilibrio fra la richiesta avanzata dalla società che la matematica insegnata sia socialmente accettabile, cioè utile, e la libertà dell’alunno di creare una matematica che possa aver significato soltanto per chi la inventa. In questo senso l’insegnamento della matematica non è per nulla diverso da quello dell’arte o dell’inglese”. È ispirandosi a questa dichiarazione che Vittorio Checcucci ha scritto la “Parte Prima” del suo quaderno Creatività e matematica (Libreria editrice fiorentina, 1971). Questa idea della matematica come “luogo” di creatività, fantasia, immaginazione, intuizione anche per gli studenti si è fatta strada anche nei
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MIALARET G., L’apprendimento della matematica, Armando, Roma, 1972, pp. 38-39.
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programmi di matematica della scuola italiana. Mi limito ad una citazione per la scuola primaria. “Il Testo della Commissione” che ha proposto al Ministero i programmi per la scuola primaria che sarebbero stati approvati nel 1985, nel paragrafo “La scuola come ambiente per l’apprendimento” scriveva: “Le sollecitazioni culturali, operative e sociali offerte dal curricolo della scuola elementare, si propongono la progressiva costruzione delle capacità di pensiero riflessivo e critico, il potenziamento della creatività e della divergenza, l’autonomia e l’indipendenza di giudizio, sulla base di un adeguato equilibrio affettivo e sociale e di una positiva immagine di sé. L’attenzione alla creatività del bambino è anche attenzione alle virtualità profonde e al potenziale che urgono di realizzarsi anche quando sono esposti a condizionamenti negativi. Di questa creatività si intende mettere in evidenza, tra gli altri, due aspetti peculiari. […] Il secondo segnala la necessità di non ridurre la creatività alle sole attività espressive, ma di cogliere il potere produttivo (di ipotesi, di intuizioni profonde, di soluzioni, di progetti, di esigenze di verifica ecc.) nell’ambito delle conoscenze acquisite e delle conoscenze in via di elaborazione nei processi di ricerca”.21 Questi pensieri sono stati inseriti, omettendo quanto racchiuso fra parentesi, nei Programmi Didattici per la Scuola Primaria.22 I Programmi di matematica iniziano proprio con la impegnativa affermazione: “L’educazione matematica contribuisce alla formazione del pensiero nei suoi vari aspetti: di intuizione, di immaginazione, di progettazione, di ipotesi e deduzione, di controllo e quindi di verifica o smentita”. 23 Gli insegnanti hanno in mano tutti gli strumenti necessari, la disciplina (la matematica) e la legge (i programmi), per sviluppare un insegnamento della matematica nel quale siano presenti fantasia, creatività, immaginazione, intuizione. Per farlo, però, deve intervenire la professionalità dell’insegnante considerata nella sua globalità. Su questo tema, però, la mia riflessione si arresta. 4.2. – Matematica e spirito critico La matematica, da quando ha cominciato ad organizzarsi in disciplina scientifica, cioè dal tempo dei Greci, ha subito assunto un atteggiamento critico. “I greci eliminarono la sostanza fisica dei concetti matematici e ne conservarono i meri involucri”.24 Questo divenne un atteggiamento normale. La matematica nello studiare una situazione, un problema, un concetto, un fatto, cerca di cogliere il nocciolo essenziale, le cose fondamentali. Essa sfronda 21
LAENG M., (a cura di), I nuovi programmi della scuola elementare, p. 123. MPI, Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo d’istruzione, p. 8. 23 MPI, Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo d’istruzione, p. 29. 24 KLINE M., La matematica nella cultura occidentale, Op. cit., p. 40. 22
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l’oggetto del suo studio dai particolari, dagli elementi accessori: ne lascia in piedi solo lo scheletro portante. Con una boutade potremmo dire che la matematica è la disciplina che studia gli “scheletri” dei fenomeni. Con una espressione più gentile, possiamo dire che la matematica è la disciplina che costruisce e studia i “modelli” dei fenomeni. Per esempio, di un triangolo la matematica coglie gli aspetti essenziali, lo “scheletro” appunto, dicendo che “è una figura formata da tre punti non allineati”. È ovvio che un teorema dimostrato per un triangolo così definito “si applica alla figura formata da tre bastoncini di fiammiferi, al recinto triangolare di un pezzo di terra e al triangolo formato, in ogni istante, dalla Terra, dal Sole e dalla Luna”.25 La ricerca degli elementi essenziali di fatti e fenomeni, ha permesso alla matematica di scoprire realtà comuni a fatti e fenomeni molto diversi, a “codificarle” in strutture semplici che di questi fatti e fenomeni descrivono le realtà più profonde. Si pensi, per fare un esempio, alla struttura di gruppo. Con essa si descrivono insiemi di “oggetti” molto diversi (numeri, classi numeriche, permutazioni, trasformazioni geometriche, ecc.), di svariate cardinalità, finite ed infinite, combinati fra loro con operazioni diverse (addizione, moltiplicazione, composizione, ecc.). Di qui l’enorme potere di sintesi della matematica. Vari matematici, proprio in relazione all’insegnamento, hanno sottolineato l’apporto della matematica allo sviluppo delle capacità critiche. Roger Godement, per esempio, nella prefazione al suo Cours d’Algèbre, scrive: “Il primo dovere dei matematici, e di molti altri, dovrebbe essere quello di fornire una cosa di cui non vengono mai richiesti, cioè uomini capaci di riflettere da se stessi, di smascherare gli argomenti falsi e le frasi ambigue, e agli occhi dei quali la diffusione della verità fosse infinitamente più importante che, ad esempio, la televisione planetaria a colori e a rilievo; degli uomini liberi e non dei robot ad uso dei tecnocrati […] Anche insegnando matematica, si può almeno tentare di dare alle persone il gusto della libertà e della critica, abituandole a vedersi trattate da esseri umani dotati della facoltà di comprendere”.26 Sulla stessa lunghezza d’onda è Vittorio Checcucci il quale, nel suo “Creatività e matematica”, scrive: “Ritengo opportuno sottolineare che, nell’ambito di una concezione unitaria dei processi educativi, si dovrebbe richiedere alla matematica di essere uno strumento impiegato nello sviluppo della personalità dell’alunno, nell’affinamento delle sue capacità critiche ed espressive, in un corretto potenziamento delle sue capacità di autonomia e di decisione, e, soprattutto, nella conoscenza consapevole della realtà esterna, sufficiente per consentirgli di operare in questa realtà in modo umano e sociale”.27 25
KLINE M., Ibidem. GODEMENT R., Cours d’Algèbre, Herman, Paris, 1963, pp. 16-17. 27 CHECCUCCI V., Creatività e matematica, Op. cit., p. 9. 26
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Anche nei programmi di matematica della scuola italiana ricorre più volte l’idea che la matematica deve concorrere a sviluppare le capacità critiche degli alunni. Per evitare l’inflazione delle citazioni mi limito a ricordare le “Finalità” del triennio dei Programmi Brocca. “Nel corso del triennio superiore l’insegnamento della matematica prosegue ed amplia il processo di preparazione scientifica e culturale dei giovani già avviato nel biennio; concorre insieme alle altre discipline allo sviluppo dello spirito critico, alla loro promozione umana e intellettuale. In questa fase della vita scolastica lo studio della matematica cura e sviluppa in particolare:[…] 3. La capacità di utilizzare metodi strumenti e modelli matematici in situazioni diverse; 4. L’attitudine a riesaminare criticamente e a sistemare logicamente le conoscenze via via acquisite”.28 Anche per orientare l’insegnamento della matematica verso l’acquisizione di capacità critiche i docenti hanno in mano gli strumenti necessari. Certo la cosa non è facile sia per il poco tempo a disposizione sia per l’ampiezza dei programmi. Forse, però, è arrivato il tempo del coraggio: limitarsi a meno, nell’insegnamento, ma con l’obbligo di capire. Ho rubato questa frase a un articolo di De Finetti, citato da Checcucci.29 Concludo con la citazione completa perché mi sembra che continui ad essere valida: “Ciò che occorre è suscitare interesse e curiosità con visioni ampie e suggestive, insegnare più per problemi che per teorie, usare ogni metodo utile ad ampliare le prospettive (e anche, certo, i metodi propri della “matematica moderna”, ma in quanto utili, non in quanto sedicentemente “moderni”). Orbene, tutto ciò non è affatto ovvio. È nella prassi scolastica fare un passo alla volta, col risultato purtroppo incontestabile della pressoché unanime avversione e incomprensione nei riguardi della matematica. Si sostiene questa prassi osservando che costa minor fatica ottenere la promozione e superare un esame ripetendo enunciati e procedimenti stereotipati, senza apprezzarne scopi ed essenza, per poi dimenticarli al più presto, che non limitandosi magari a meno, ma con l’obbligo di capire. È anche vero che è più facile fare lezione in questo modo, ma c’è però da obiettare che meglio ancora è non studiare nulla, perché quel poco o tanto di fatica, anziché utile, è controproducente, diseducativo, deleterio.” 4.3. – Matematica e atteggiamento razionale Vorrei incominciare con una citazione di Morris Kline. Forse in essa c’è un po’ di retorica, ma non è male sottolineare il valore della razionalità in 28
Studi e Documenti degli Annali della Pubblica Istruzione, 59/60 (1992), Piani di studio della scuola secondaria superiore e programmi dei trienni. Le proposte della Commissione Brocca, Le Monnier, Grassina, pp. 248-249. 29 CHECCUCCI V., La matematica oggi: i suoi fini e il suo apprendimento, D’Anna, Messina-Firenze, 1974, p. 15.
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tempi, come i nostri, di diffusi atteggiamenti irrazionali e di esaltazione del “pensiero debole”. “Nel suo aspetto più generale la matematica è uno spirito, lo spirito della razionalità. È questo lo spirito che sfida, stimola, rinvigorisce e guida le menti umane al pieno esercizio di se stesse. È questo lo spirito che cerca di influenzare in modo decisivo la vita fisica, morale e sociale dell’uomo, che cerca di dare una risposta ai problemi posti dalla nostra esistenza, che si sforza di comprendere e controllare la natura e che si esercita nell’esplorazione e nel consolidamento delle più profonde e somme implicazioni di conoscenze già ottenute”.30 La matematica è il regno della razionalità, è la scienza del rigore. Sono affermazioni che tutti accettano senza difficoltà; sono aspetti della matematica che sono stati fin troppo messi in risalto col rischio di farne un mito. Razionalità e rigore sono particolarmente evidenti nella sistemazione finale di una teoria matematica, cioè nella sua costruzione come teoria assiomatica. È noto che in una teoria assiomatica si scelgono alcuni concetti, alcuni termini senza darne una definizione (sono i termini primitivi) ed alcune affermazioni senza darne una dimostrazione (sono i postulati o assiomi). Termini primitivi e assiomi vengono posti a fondamento della teoria. Utilizzando alcune regole condivise per costruire definizioni e per fare deduzioni si sviluppa la teoria partendo dai termini primitivi e dagli assiomi. Per evitare equivoci ed infiltrazioni di elementi estranei, la matematica si è dotata di un linguaggio rigoroso che ha reso inequivocabile ed interpersonale. Con questo suo modo di procedere la matematica è riuscita anche a “razionalizzare l’incerto ed a ordinare il caos” (probabilità e statistica). Sul “quando” introdurre gli assiomi a scuola le opinioni sono molto diverse e non ci interessa esaminarle, ma quali che siano le preferenze del docente, mi sembra che mantengano il loro valore queste riflessioni di Campedelli: “L’incontro con il processo ipotetico-deduttivo è forse quello di maggiore suggestività. Ma nella scuola il suo fascino quale via alla costruzione, e il suo valore educativo come invito alla riflessione, alla coerenza logica e all’attenta ricerca dei legami fra premesse e conclusioni; nella scuola – dicevo – tutto questo nasce solo quando al processo di deduzione logica si richiami a posteriori come ripensamento. Qualora si parta, fin dalle prime pagine, con un’arida elencazione di postulati, dei quali il ragazzo non capisce il perché gli si stiano a raccontare e di cui non avverte il bisogno per la banalità del contenuto, o che addirittura gli appaiono ridicoli per la prosopopea con la quale vi si fanno affermazioni lapalissiane; se presentiamo la situazione in questa maniera, il ragazzo, per istintivo bisogno di difesa, si guarderà bene dal seguire i vostri arzigogolamenti. Diverso è invece l’interesse quando,
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KLINE M., La matematica nella cultura occidentale, Op. cit., p. 21.
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procedendo tranquillamente, senza suscitare dubbi non sentiti o creare incertezze non avvertite, si raggiungerà una certa meta. Poi ci si fermerà e ci si volgerà a guardare il cammino percorso. E allora si farà osservare che in questo o quel punto si è fatto ricorso a una qualche proprietà non prima riconosciuta, e ci siamo valsi del tale o tal altro principio non preventivamente stabilito. Così il discorso si allargherà e si farà denso di significati: apparirà il bisogno di ricorrere ai postulati e si riconoscerà la loro duplice funzione che è quella di dare la “definizione implicita” degli enti di cui si parla e di fissarne quelle proprietà iniziali da cui parte la serrata deduzione logica”.31 Lo sviluppo di comportamenti razionali nell’insegnamento della matematica può essere iniziato già nella scuola primaria aiutando i bambini a rendersi conto e a rendere conto delle cose che fanno, a motivare le risposte date, a spiegare le strategie scelte. Questi atteggiamenti si trovano, per esempio, nei “Traguardi per lo sviluppo delle competenze al termine della scuola primaria” delle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione del 2012: “L’alunno riesce a risolvere facili problemi in tutti gli ambiti di contenuto, mantenendo il controllo sia processo risolutivo, sia sui risultati. Descrive il procedimento seguito e riconosce strategie di soluzione diverse dalla propria”. “Costruisce ragionamenti formulando ipotesi, sostenendo le proprie idee e confrontandosi con il punto di vista degli altri”. Queste idee vengono riprese ed arricchite per gli altri livelli scolastici. Questi comportamenti razionali a livello di pensiero inducono, o per lo meno favoriscono, comportamenti razionali a livello di azione. Abituano, per esempio, a non fare affermazioni se non si è in grado di documentarle. Abituano anche a valutare obiettivi e mezzi a disposizione prima di fare una scelta. Abituano a pesare informazioni ed a valutare le possibilità di riuscita nelle situazioni di incertezza. Abituano, in una parola, a valorizzare la ragione e a non lasciarsi guidare esclusivamente o prevalentemente dal sentimento, dall’emozione, dall’istinto. Ho iniziato questo paragrafo con una citazione di Kline; lo concludo con un’altra citazione dello stesso autore: “Dotato di pochi sensi limitati e di un cervello, l’uomo iniziò a penetrare il mistero che lo circonda. Servendosi di quanto i sensi gli rivelavano immediatamente e di ciò che poteva inferire dagli esperimenti, egli adottò alcuni assiomi e applicò le sue capacità di ragionamento. Il fine della sua ricerca era l’ordine; il suo scopo, la costruzione di sistemi di conoscenza radicalmente diversi dalle fuggevoli sensazioni e la creazione di modelli esplicativi che potessero aiutarlo a conquistare un certo dominio sull’ambiente. La sua maggiore conqui31
CAMPEDELLI L., Del distinguere testa da testa e la propria dall’altrui, Archimede, Anno XXVIII, 1976, n. 2, p. 69.
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sta, il prodotto della sua ragione, è la matematica. Essa non è una gemma perfetta e neppure la continua opera di raffinamento ne eliminerà tutti i difetti. Purtuttavia, la matematica è stata il legame più efficace con il mondo delle percezioni sensoriali, e per quanto sconcertante sia riconoscere che non possiede un fondamento sicuro, rimane il gioiello più prezioso della mente umana e merita di essere custodito con cura e attenzione. È stata la punta più avanzata della ragione e senza dubbio continuerà a esserlo anche se una ricerca più attenta porterà alla luce nuove imperfezioni. Una volta Alfred North Whitehead disse: “Dobbiamo ammettere che la ricerca della matematica è una divina follia dello spirito umano”. Follia, forse; ma divina follia”.32 4.4. – Matematica e gusto per la libertà Oltre al pensiero di Godement, riportato prima, mi piace citare anche una affermazione di George Papy, fondatore del Centro Belga di Pedagogia della Matematica. Al convegno internazionale Zwin 3, tenutosi a Knokke nell’aprile del 1974, egli gridava: “Ciò che noi vogliamo è creare un uomo libero per la società del domani. Ciò che, quindi, noi non vogliamo assolutamente, ciò che odiamo con tutte le nostre forze, è formare nella scuola lo schiavo della macchina, lo schiavo dei commercianti, lo schiavo dei programmatori, lo schiavo della formalizzazione di ogni genere, persino della formalizzazione della matematica.” Questa era la filosofia del Centro Belga come sottolinea F. Papy; “Si è sempre parlato di libertà creativa nell’espressione artistica, nell’espressione letteraria, musicale, gestuale, ma si è assai meno spesso parlato di libertà creativa in seno all’insegnamento della matematica. Orbene, dopo aver vissuto un’assai lunga esperienza a contatto con ragazzi di tutte le età – 25 anni di esperienza sono un discreto periodo! – sono convinta che la matematica sia un terreno privilegiato per lo sviluppo di una certa forma di creatività e di libertà creativa. È certo che se insegniamo con coerenza, e io cerco di farlo nel miglior modo possibile, abbiamo una filosofia dell’insegnamento e certamente una filosofia dell’uomo, e ciò che noi al Centre Belge de Pédagogie de la Mathématique vogliamo fare dei nostri allievi è innanzitutto degli esseri liberi, degli esseri responsabili, degli esseri capaci di entrare in relazione con altri esseri umani e di raggiungere il più alto livello possibile di comunicazione”.33 Nei programmi il contributo della matematica alla formazione del gusto per la libertà è ignorato. Tuttavia le occasioni per mettere in risalto questo aspetto sono veramente molte a cominciare dalla scuola elementare, soprattutto quando si tratta di dare definizioni. 32
KLINE M., Matematica, la perdita della certezza, Arnoldo Mondadori, Milano, 1985, pp. 383-384. 33 PAPY F., Libertà creativa. L’insegnamento della matematica, Giunti, Firenze, 1973, vol. 4, n. 1, p. 16.
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Se poi ci si decidesse, a scuola, a fare anche un po’ di storia della matematica sarebbe facile sottolineare anche “punti di rottura”, momenti di “trasgressività” della matematica. Basti pensare alla accettazione, dopo un cammino lungo e tortuoso, dei numeri negativi con il superamento di definizioni di numero tradizionali e venerande sponsorizzate da matematici di prima grandezza come Euclide (numero è una pluralità composta di unità) e Newton (numero è il rapporto fra una grandezza ed un’altra ad essa omogenea assunta come unità di misura). Basti pensare alla “creazione” dei numeri immaginari che ha comportato il sacrificio di un mito della matematica e cioè che solo i numeri positivi potevano avere una radice quadrata. Basti pensare alla “creazione” della geometria iperbolica che ha posto i suoi “padri fondatori” in netto contrasto con l’ambiente culturale, matematico e filosofico, secondo il quale l’unica geometria vera era quella euclidea. Nella scuola media superiore si può sottolineare il fatto che in matematica non ha alcun valore l’argomento di autorità e che “l’ipse dixit” di aristotelica memoria non fonda alcuna certezza. Una affermazione, anche fatta da un grande matematico, se non è dimostrata non può essere chiamata teorema, ma sarà solo una “congettura”. Matematica e gusto per la libertà può sembrare un ossimoro, ma, in realtà, è una accoppiata vincente. 4.5. – Matematica e senso sociale Penso che per la maggior parte della gente, questo binomio sia semplicemente assurdo. La matematica è pensata come disciplina astratta, altamente formalizzata, chiusa necessariamente in se stessa, un vero “hortus conclusus” o, con una immagine meno bucolica, una “turris eburnea” pronta per respingere ogni assalto esterno. La realtà, per fortuna, è ben diversa e possiamo affermare tranquillamente che la matematica è eminentemente una disciplina sociale. Un primo aspetto che rende vera l’affermazione risiede nel fatto che la matematica è in posizione di servizio, di aiuto rispetto alle altre scienze alle quali fornisce concetti, strumenti di calcolo, strutture, linguaggio. Scrive M. Kline: “Se la matematica è veramente un’attività creativa, quali motivi inducono l’uomo a perseguirla? Il motivo più evidente, anche se non necessariamente il più importante, all’origine delle investigazioni matematiche è stato il desiderio di rispondere a domande poste direttamente da bisogni sociali. Transazioni commerciali e finanziarie, la navigazione, il computo del calendario, la costruzione di ponti, di dighe, di chiese e palazzi, la progettazione di fortificazioni e di armi belliche e numerose altre occupazioni umane implicano problemi che possono essere risolti nel modo migliore dalla matematica. Particolarmente nel nostro tempo domi-
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nato dall’ingegneria è vero che la matematica è uno strumento universale. Un altro uso fondamentale della matematica, che ha acquistato un rilievo eccezionale in tempi moderni, è stato quello di fornire un’organizzazione razionale di fenomeni naturali. I concetti, metodi e conclusioni della matematica sono il sostrato delle scienze fisiche. Il successo di questi settori è dipeso dalla misura in cui essi hanno collaborato con la matematica. La matematica ha restituito la vita alle ossa aride di fatti sconnessi e, agendo come tessuto connettivo, ha legato serie di osservazioni staccate in corpi di scienza”.34 Se queste possono sembrare espressioni eccessive di un fisico-matematico, basterà ricordare la solenne affermazione di un grande fisico come Lord Kelvin (1824-1907): “Io affermo che quando voi potete misurare ed esprimere in numeri ciò di cui state parlando, solo allora sapete effettivamente qualcosa; ma quando non vi è possibile esprimere numericamente l’oggetto della vostra indagine, insoddisfacente ne è la vostra conoscenza e scarso il vostro progresso dal punto di vista scientifico”.35 Un secondo aspetto che rende vera l’affermazione riguarda la matematica in se stessa: essa è una disciplina eminentemente sociale perché è la scienza delle relazioni. Il primo a manifestare una chiara consapevolezza su questo aspetto fondamentale della matematica fu Colin Maclaurin (1692-1746) nel trattato Fluxion del 1742. Scriveva: “Le matematiche trattano delle relazioni tra le quantità e di tutte le loro proprietà, che possono essere sottoposte ad una regola o una misura. […] In questa scienza si esaminano piuttosto le relazioni tra le cose che la loro essenza intrinseca, perché noi possiamo avere un’idea chiara di ciò che è il fondamento di una relazione, senza avere una idea perfetta e completa degli attributi di una cosa. Le nostre idee delle relazioni sono sovente più chiare e più distinte di quelle delle cose stesse che hanno tali relazioni; è a questo che noi dobbiamo attribuire l’evidenza particolare delle matematiche: non è necessario che gli oggetti delle nostre teorie siano descritti realisticamente e che esistano al di fuori di noi, ma è essenziale che le loro relazioni siano raccolte e dedotte con chiarezza, ed è vantaggioso applicarsi particolarmente a quelle che corrispondono ad oggetti esteriori e che possono aumentare le nostre conoscenze della fisica”.36 Gradualmente questo modo di concepire la matematica è diventato generale. Basteranno due citazioni. La prima è di Emile Borel (1871-1956): “Ogni giorno più le matematiche appaiono come la scienza che studia le relazioni fra
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KLINE M., La matematica nella cultura occidentale, Op. cit., pp. 16-17. Citato da M. FAZIO, Dizionario e manuale delle unità di misura, Zanichelli, 1985, p. 1. 36 GLAESER G., Epistemologie des nombres relatifs. Recherches en didactique des mathématiques, 2.1, Edition La pensèe sauvage, Paris, Edition de la Maison des Sciences de l’Homme, Grenoble, 1981, pp. 318-319. 35
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certi enti astratti definiti in maniera arbitraria, con la sola condizione che questi definizioni non conducano a contraddizioni”.37 La seconda è tratta dal ben noto volume “Che cos’è la matematica?” di Richard Courant e Herbert Robbins: “Attraverso i secoli i matematici hanno considerato gli oggetti del loro studio, quali ad esempio, numeri, punti, ecc., come cose esistenti di per sé. Poiché questi enti hanno sempre sfidato ogni tentativo di una adeguata descrizione, lentamente sorse nei matematici del XIX secolo l’idea che la questione del significato di questi oggetti come cose sostanziali, se pure ha un senso, non lo avesse nel campo della matematica. Le uniche affermazioni rilevanti che li riguardano non si riferiscono alla realtà sostanziale, e stabiliscono soltanto delle relazioni tra gli “oggetti matematicamente non definiti” e le regole che governano le operazioni con essi. Nel campo della scienza matematica, non si può e non si deve discutere ciò che i punti, le rette, i numeri sono effettivamente: ciò che importa e ciò che corrisponde a fatti “verificabili” sono la struttura e le relazioni, che due punti determinano una retta, che i numeri si combinano secondo certe regole per formare altri numeri, ecc. Uno dei più importanti e fruttuosi risultati dello sviluppo postulazionale moderno è stata una chiara indagine della necessità di rendere astratti i concetti della matematica elementare”.38 Anche se i programmi non mettono mai in risalto esplicitamente la natura sociale della matematica, tuttavia usano continuamente la terminologia ad essa collegata. Essi introducono, fin dalla scuola primaria, relazioni di ordine, di equivalenza, operazioni, funzioni fino ad arrivare, al momento opportuno, al concetto di struttura. Sono tante le occasioni per sottolineare in classe, la natura sociale della matematica e, quindi, l’apporto che essa può dare a sviluppare il senso sociale degli studenti. Per esempio, parlando dei postulati, invece di dire che essi costituiscono la “definizione implicita” dei concetti primitivi, li possiamo presentare come affermazioni che dettano le norme di comportamento dei concetti primitivi, che stabiliscono le relazioni fra essi. Il postulato “per due punti passa una ed una sola retta” stabilisce quali relazioni ci sono fra punti e rette. Il postulato “per tre punti non allineati passa uno ed un solo piano” illustra le relazioni fra punti e piano; e così via. Invece di parlare di “insiemi numerici”, espressione tecnica, esatta, ma piuttosto fredda e cadaverica, si può parlare di “mondi numerici” per dare l’idea di qualcosa di vivo, di vivace, di dinamico. I protagonisti di questi mondi hanno una intensa vita sociale che si sviluppa attorno a due “centri di aggregazione operativi” (addizione e moltiplicazione) e ad un “centro di aggregazione relazionale” (l’ordine). 37
E. BOREL E., La definition en mathématiques, in Les grands courants de la pénsée mathématique, presentés par F. Le Lionnais, A. Blanchard, Paris, 1962, p. 24. 38 COURANT R.-ROBBINS H., Che cos’è la matematica, Boringhieri, Torino, 1971, p. 32.
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Si può anche sottolineare che tutto quello che noi sappiamo sui singoli “enti matematici” è il complesso delle relazioni che lo lega ad altri enti. Per esempio, del numero 8 noi sappiamo che 8 = 7 + 1 = 6 + 2 =…; 8 = 8 x 1 = 4 x 2; 8 = 23; 8 > 7 e 8 < 9; 8 divide 40, ecc. Davvero possiamo dire, e sottolineare in classe, che ogni ente matematico è una “ragnatela di relazioni”. 4.6. – Matematica e divertimento Penso che la maggior parte delle persone ritenga la matematica una disciplina arida, triste e rattristante, uggiosa, noiosa. Ed è difficile darle torto se si pensa a quello che succede normalmente nelle nostre classi. Eppure la matematica può essere insegnata ed appresa in modo divertente. Scrive Martin Gardner, un mago dei giochi matematici,: “La matematica non è mai stata un soggetto arido, sebbene sia stata troppo spesso insegnata nel modo più arido possibile. Non vi è miglior modo di alleggerire la noia che inserire, in un corso, argomenti ricreativi, soggetti efficacemente coloriti con elementi di gioco, con umorismo, bellezza e sorpresa. I più grandi matematici hanno sempre considerato la loro materia come una fonte di intenso piacere intellettuale e di rado hanno esitato a occuparsi di problemi divertenti”. 39 Nella introduzione all’articolo “Matematica ricreativa”, pubblicato nel volume III, Parte seconda della “Enciclopedia delle matematiche elementari e complementi” finalizzata alla formazione continua dei docenti di matematica delle superiori, Michele Cipolla scrive: “Lo spirito umano che vive e si affanna nell’indagine, abbisogna di stimoli adatti a tale sue precipua attività, e niente è più idoneo di ciò che riesce a ricrearlo nella sua fatica. Ond’è che nei primi albori della scienza matematica sono spesso le questioni ricreative che danno l’impulso all’investigazione e promuovono le teorie”.40 In effetti, giochi, indovinelli, enigmi hanno attraversato tutta la storia della matematica.41 39
GARDNER M., Enigmi e giochi matematici, Sansoni, Firenze, 1980, vol. V, p. 1. CIPOLLA M., Matematica ricreativa, in L. BERZOLARI (a cura di), Enciclopedia delle matematiche elementari e complementi, Hoepli, Milano, 1983, vol. III – Parte 2a, p. 485. 41 Il lettore può farsi una idea scorrendo la conferenza di Umberto Bottazzini “I giochi nella storia e nella cultura matematica” pubblicata dall’editrice Apeiron nel 1990 in Matematica: gioco ed apprendimento (a cura di B. D’Amore). Questo volume è solo uno dei tanti che fanno parte della sterminata letteratura di matematica ricreativa. Qui mi limito a ricordarne qualcuno che ha un più diretto aggancio con la scuola: W.H. GLENN e D.A. JOHNSON, Divertimenti matematici, Zanichelli, Bologna, 1965; PAOLO TONI, Disfide matematiche a scuola, Muzzio, Padova, 1985; PAOLO TONI, Scintille matematiche, Muzzio, Padova, 1993; GIUSEPPE PEANO, Giochi 40
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5. Conclusione Vorrei concludere queste mie riflessioni con un duplice auspicio. Il primo riguarda la scuola: che la matematica possa diventare, anche a livello di scuola, una disciplina non genericamente formativa della mente umana, ma formativa della personalità degli allievi; una disciplina di cui vengano messe in giusto risalto quelle caratteristiche che prima ho cercato di evidenziare. Mi sembra che ciò sia tanto più importante in quanto la matematica sarà sempre presente nella scuola, e forse in modo più massiccio di quanto lo sia ora, e, quindi, potrà influire più profondamente nella formazione della personalità degli allievi. Scrive il Mialaret: “Al giorno d’oggi non sono più concepibili una educazione ed una formazione degne di questo nome se esse non comportano una parte, sempre più grande, di matematica. Non che si tratti, beninteso, di formare dei professionisti della matematica. Ma, quale che sia la specializzazione prescelta, ci si trova quasi sempre nella necessità di adoperare nozioni matematiche: letterati (grammatici, fonetici, linguistici), storici, geografi, sociologi, psicologi, economisti hanno bisogno di maneggiare lo strumento matematico e di svolgere un tipo di attività intellettuale che è caratteristico della matematica. In questo senso si deve decisamente affermare che attualmente una buona condizione di preparazione alla vita non si può raggiungere senza il ricorso ad una formazione matematica”.42 L’ultima affermazione ci introduce al secondo auspicio. Esso riguarda la nascita di un nuovo umanesimo: un umanesimo scientifico. Mentre la scienza, di cui la matematica è pars magna, ha un peso enorme sulla vita del nostro tempo, essa ha un peso minimo, invece, sulla cultura del nostro tempo. I parametri di giudizio, infatti, ed i criteri di valutazione di fatti, problemi, persone sono ancora oggi mutuati da ideologie filosofiche, religiose, umanistiche e non anche dalla scienza. Questo fatto approfondisce il solco, la frattura tra cultura e realtà contemporanea. L’auspicio è la nascita di un nuovo umanesimo, fondata su una corretta mentalità scientifica, che sappia interpretare la realtà contemporanea e valutare i problemi in un contesto globale; un umanesimo che inglobi i valori deldi aritmetica e problemi interessanti, Sansoni, Firenze, 1983; BRUNO D’AMORE (a cura di), Gioco e matematica, Cappelli, Bologna, 1986; B.A. KORDEMSKY, Giochi matematici russi, Sansoni, Firenze, 1982; BRUNO D’AMORE, Giocare con la matematica, Gedit – Archetipolibri Edizioni, Bologna, 2009. Interessanti spunti per attività in classe si possono trovare in MALBA TAHAN, L’uomo che sapeva contare, Salani, Firenze, 1997; HANS M. ENZENSBERGER, Il mago dei numeri, Einaudi, Torino, 1997; ANNA CERASOLI, La sorpresa dei numeri, Sperling e Kupfer, Milano, 2003; ALCUINO DI YORK, Giochi matematici alla corte di Carlomagno, Edizioni ETS, Pisa, 2005. 42 MIALARET G., L’apprendimento della matematica, Armando, Roma, 1972, p. 26.
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l’umanesimo a carattere letterario-filosofico, finora predominante, ma non si esaurisca in essi; un umanesimo che sappia operare una sintesi armoniosa tra la cultura, prevalentemente filosofico-letteraria, e la vita contemporanea profondamente condizionata dallo sviluppo tecnologico e scientifico; un umanesimo che faccia nascere l’esigenza e ponga le condizioni per una vita pienamente umana in un mondo che tende troppo spesso e con molta forza a standardizzare gli uomini per farne dei robot. È questo, ritengo, uno dei problemi più importanti che gli uomini del nostro tempo debbono affrontare e risolvere.
Rivista Lasalliana 82 (2015) 1, 87-96
L’AVVIO DEL SISTEMA NAZIONALE DI VALUTAZIONE: UNA RISORSA PER IL MIGLIORAMENTO DI QUALITÁ DELLE SCUOLE CARLO RUBINACCI Ispettore – Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
SOMMARIO: 1. La cultura della valutazione. - 2. Autonomia scolastica e valutazione: un binomio inscindibile. - 3. L’avvio del Sistema Nazionale di Valutazione (SNV). - 3.1 L’architettura e i compiti. - 3.2 Il Regolamento attuativo. - 3.3 Le priorità strategiche della valutazione nel triennio 2014-2017. - 3.4 Cosa succede nel triennio 2014-2017. - 3.5 La valutazione dei dirigenti scolastici. - 4. Il Rapporto di Autovalutazione (RAV). - 5. Indicazioni operative per l’avvio del sistema nazionale di valutazione. - 6. Osservazioni conclusive.
1. La cultura della valutazione
“I
governi e i responsabili della politica dell’istruzione accordano una sempre maggiore importanza ai metodi di analisi e valutazione degli studenti, insegnanti, dirigenti scolastici, scuole e sistema d’istruzione. Tali metodi rappresentano uno strumento destinato ad apportare una maggiore comprensione del livello di apprendimento degli studenti, fornire informazioni ai genitori e alla società in generale sul rendimento scolastico e migliorare la scuola, la dirigenza scolastica e i metodi d’insegnamento”.1 È proprio questa la consapevolezza che dovrebbe orientare e guidare coloro che operano nella scuola e per la scuola verso la realizzazione del Sistema Nazionale di Valutazione: una consapevolezza in grado di promuovere l’ampia diffusione della cultura della valutazione nelle decisioni delle istituzioni scolastiche e nei comportamenti professionali dei docenti e dei dirigenti scolastici. Valutare significa “coltivare” il miglioramento di qualità del sistema di istruzione e formazione. Valutare significa avere a cuore il successo formativo di ciascuno studente, per far sì che la scuola sia il luogo privilegiato per 1 A. SCHLEICHER, La valutazione dei sistemi scolastici nel contesto internazionale: dove siamo, dove stiamo andando, in Associazione TreeLLLe e Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo, Esperienze internazionali di valutazione dei sistemi scolastici, Seminario n. 14, dicembre 2013, p. 51.
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garantire l’equità e l’eccellenza delle opportunità formative verso il significativo superamento delle disuguaglianze, che ancora oggi caratterizzano gli esiti dei percorsi scolastici. Per queste ragioni, “occorre, quindi, lavorare per promuovere una cultura della valutazione in grado di riconoscerla come potente strumento di sviluppo professionale e organizzativo e come opportunità di legittimazione sociale e culturale: la valutazione è alleata, non nemica della scuola”.2
2. Autonomia scolastica e valutazione: un binomio inscindibile L’autonomia sollecita le scuole a non chiudersi in una rassicurante autoreferenzialità e a trasformarsi in luoghi di ideazione e realizzazione di cambiamenti inediti e rispondenti ai bisogni formativi degli studenti: di tutti e di ciascuno. L’autonomia porta, infatti, con sé la gestione di innovazioni intese come attività ordinarie e non come eventi straordinari: a tal fine, le innovazioni presuppongono e comportano “l’accentuazione delle azioni valutative, interne ed esterne, soggettive e oggettive, qualitative e quantitative, svolte dai singoli come dalle strutture, poiché da quelle azioni e dai loro esiti dipendono in gran parte le scelte di regolazione o di cambiamenti radicali indispensabili per rendere sempre adeguata la formazione alle funzioni che ad essa assegna la società”.3 Pertanto, i processi di monitoraggio, di verifica e di valutazione diventano essenziali per acquisire le informazioni funzionali all’assunzione di decisioni appropriate e finalizzate al miglioramento di qualità degli esiti formativi, anche mediante il coinvolgimento responsabile della comunità scolastica: il sistema nazionale di valutazione intende favorire i suddetti processi e, a tale scopo, le istituzioni scolastiche sono chiamate ad offrire un contributo attivo e consapevole affinché la valutazione diventi una risorsa al servizio della qualità dell’istruzione e della formazione. Una risorsa da non temere, ma da valorizzare per lo sviluppo delle innovazioni e dell’autonomia scolastica.
3. Il Sistema Nazionale di Valutazione (SNV) 3.1 – L’architettura e i compiti Qual è l’architettura del sistema nazionale di valutazione? Quali soggetti concorrono alla sua definizione e attuazione? Una risposta c’è. Infatti, ai
2 M. CASTOLDI, Si possono valutare le scuole? Il caso italiano e le esperienze europee, SEI, Torino, Collana “Scuola e Vita”, 2008, p. VIII. 3 G. DOMENICI (a cura di), La valutazione come risorsa. Analisi degli apprendimenti e autovalutazione d’istituto, Tecnodid, Napoli, 2000, p. 4.
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sensi dell’art. 2, comma 4-undevicies della legge 26 febbraio 2011, n. 10, il sistema nazionale di valutazione si articola: a) nell’Istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa (Indire), con compiti di sostegno ai processi di miglioramento e innovazione educativa, di formazione in servizio del personale della scuola e di documentazione e ricerca didattica; b) nell’Istituto nazionale per la valutazione del sistema di istruzione e formazione (Invalsi), con compiti di predisposizione di prove di valutazione degli apprendimenti per le scuole di ogni ordine e grado, di partecipazione alle indagini internazionali, oltre alla prosecuzione delle indagini nazionali periodiche sugli standard nazionali; c) nel corpo ispettivo, autonomo e indipendente, con il compito di valutare le scuole e i dirigenti scolastici secondo quanto previsto dal decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150. Un’architettura così definita lancia una sfida vera e propria: l’Indire, l’Invalsi e il corpo ispettivo sono chiamati a cooperare per far sì che la valutazione diventi una risorsa per il miglioramento di qualità dell’istruzione. Vediamo come. 3.2 – Il Regolamento attuativo La sopracitata legge n. 10/2011 rimanda ad un apposito regolamento la definizione degli obiettivi e dell’organizzazione del sistema nazionale di valutazione. Dopo oltre due anni ed un acceso dibattito, con il d.P.R. 28 marzo 2013, n. 80 viene emanato il “Regolamento sul sistema nazionale di valutazione in materia di istruzione e formazione”, che individua le quattro fasi del procedimento di valutazione (art. 6, comma 1): 1. autovalutazione delle istituzioni scolastiche: richiede alle scuole l’elaborazione di un rapporto di autovalutazione (RAV) e la formulazione di un piano di miglioramento; 2. valutazione esterna: i nuclei di valutazione esterna visitano le scuole, che ridefiniscono il piano di miglioramento in base agli esiti delle visite dei nuclei; 3. azioni di miglioramento: le scuole definiscono ed attuano gli interventi di miglioramento, avvalendosi del supporto dell’Indire o di università, enti di ricerca, associazioni professionali e culturali; 4. rendicontazione sociale delle istituzioni scolastiche: le scuole rendono pubblici i risultati raggiunti favorendo la trasparenza e il coinvolgimento attivo della comunità di appartenenza.
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3.3 – Le priorità strategiche della valutazione nel triennio 2014-2017 Proprio con riferimento al sopracitato Regolamento attuativo, il Miur ha emanato la direttiva all’Invalsi, che individua - per gli anni scolastici 2014/15, 2015/16 e 2016/17 - le priorità strategiche della valutazione del sistema educativo di istruzione e formazione: autovalutazione, valutazione esterna delle scuole, valutazione della dirigenza scolastica, rilevazioni nazionali sugli apprendimenti degli studenti e partecipazione alle indagini internazionali, valutazione di sistema. Questo significa che il triennio 2014-2017 è caratterizzato dall’implementazione del procedimento di valutazione previsto dal Regolamento, facendo molta attenzione alla finalità ultima da perseguire: “la valutazione è finalizzata al miglioramento della qualità dell’offerta formativa e degli apprendimenti e sarà particolarmente indirizzata: – alla riduzione della dispersione scolastica e dell’insuccesso scolastico; – alla riduzione delle differenze tra scuole e aree geografiche nei livelli di apprendimento degli studenti; – al rafforzamento delle competenze di base degli studenti rispetto alla situazione di partenza; – alla valorizzazione degli esiti a distanza degli studenti con attenzione all’università e al lavoro.” Si tratta di finalità che occorre recepire in modo esplicito nel piano dell’offerta formativa delle istituzioni scolastiche, affinché le azioni organizzative, didattiche e valutative adottate ai sensi del d.P.R. n. 275/1999 (Regolamento in materia di autonomia scolastica) siano funzionali alla significativa riduzione dell’insuccesso scolastico e ad un incremento di qualità delle conoscenze e delle competenze raggiunte dagli studenti. 3.4 – Cosa succede nel triennio 2014-2017 In attuazione del quadro di riferimento delineato nei paragrafi precedenti, nel triennio 2014-2017 tutte le scuole statali e paritarie sono coinvolte nelle quattro fasi del procedimento di valutazione secondo i tempi sottoindicati.4 • A.S. 2014/2015: AUTOVALUTAZIONE Nel primo anno, attraverso una piattaforma appositamente predisposta, le scuole elaborano in formato elettronico il Rapporto di Autovalutazione (RAV) e
4 Si fa riferimento alla circolare ministeriale n. 47 del 21 ottobre 2014 Priorità strategiche della valutazione del Sistema educativo di istruzione e formazione. Trasmissione della Direttiva n. 11 del 18 settembre 2014.
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definiscono le priorità strategiche di intervento con i relativi obiettivi di miglioramento. • A.S. 2015/2016: VALUTAZIONE ESTERNA DELLE SCUOLE – AZIONI DI MIGLIORAMENTO – AGGIORNAMENTO DEL RAV Nel secondo anno viene coinvolto nella valutazione esterna fino ad un massimo del 10 per cento del totale delle scuole per ciascun anno scolastico (il 3% viene scelto casualmente e il 7% viene individuato sulla base di specifici indicatori di efficienza e di efficacia). I nuclei di valutazione esterna sono coordinati dai dirigenti tecnici con funzioni ispettive. Tutte le scuole pianificano ed avviano le azioni di miglioramento con il supporto dell’Indire e/o di altri soggetti pubblici e privati. Viene aggiornato il Rapporto di Autovalutazione (RAV). • A.S. 2016/2017: VALUTAZIONE ESTERNA DELLE SCUOLE – AZIONI DI MIGLIORAMENTO – AZIONI DI RENDICONTAZIONE SOCIALE Nel terzo anno viene coinvolto nella valutazione esterna un ulteriore contingente di scuole; nel frattempo, tutte le scuole proseguono le azioni di miglioramento e promuovono la rendicontazione sociale a conclusione del triennio.
Com’è evidente, sono fasi e attività che comportano un modo innovativo di “fare scuola”: la valutazione dovrebbe diventare una risorsa per il miglioramento e soprattutto per lo sviluppo delle innovazioni. È importante poi essere consapevoli del fatto che non partiamo da zero. Basti pensare ai recenti progetti sperimentali di valutazione (VSQ, VM, VALES)5 ed anche ai percorsi di studio, ricerca e produzione di idee e strumenti per la valutazione nel nostro Paese (come il progetto Qualità,6 la rete Stresa,7 il progetto 5 VSQ: Valutazione per lo Sviluppo della Qualità delle Scuole è un progetto sperimentale per un sistema di valutazione finalizzato all’erogazione di premi e di azioni di supporto agli istituti scolastici; VM: Valutazione e Miglioramento è un progetto che ha la finalità di promuovere il miglioramento di qualità delle scuole del primo ciclo di istruzione attraverso percorsi di autovalutazione e di valutazione; VALES: Valutazione e Sviluppo della Scuola è un progetto finalizzato a sperimentare un modello che integri valutazione interna e valutazione esterna in una prospettiva di miglioramento. Per lo studio e l’approfondimento si rinvia al sito www.invalsi.it. 6 Il Progetto Qualità nasce nel 1990 grazie ad uno specifico Protocollo d'Intesa tra Ministero della Pubblica Istruzione e Confindustria: nel territorio nazionale vengono istituiti i Poli per la Qualità, nell’intento di diffondere e consolidare le buone pratiche maturate nei percorsi progettuali (Rete per la Qualità della Scuola: www.requs.it). 7 Nel 1998 alcune scuole della provincia di Bergamo costituiscono la Rete STRESA (STRumenti per l’Efficacia della Scuola e l’Autovalutazione) per diffondere la cultura dell’autovalutazione come opportunità di autoriflessione, diagnosi e miglioramento di qualità della scuola (www.retestresa.it). Per lo studio e l’approfondimento si rinvia al volume G. BARZANÒ, S. MOSCA, J. SCHEERENS (a cura di), L’autovalutazione nella scuola, Milano, B. Mondadori.
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Avimes,8 il modello CAF,9 il modello del Comitato di Valutazione di Trento10 solo per citare alcuni esempi). Si tratta di buone pratiche che non debbono essere sottovalutate e dimenticate, poiché contribuiscono allo sviluppo di competenze e consapevolezze indispensabili per la riuscita efficace del suddetto procedimento di valutazione. Va, infine, precisato che presso ogni Ufficio Scolastico Regionale vengono costituiti appositi staff per fornire alle scuole adeguato supporto all’implementazione del procedimento di valutazione. 3.5 – La valutazione dei dirigenti scolastici Da anni ormai le ricerche compiute a livello internazionale hanno messo in luce lo stretto rapporto che intercorre tra le azioni del dirigente scolastico e gli esiti degli apprendimenti degli studenti: la leadership dei capi d’istituto costituisce, infatti, una delle risorse da valorizzare per il miglioramento di qualità dei processi e dei risultati dell’apprendimento scolastico.11 Anche per questa ragione il Regolamento (d.P.R. n. 80/2013) prevede che il procedimento di valutazione sia finalizzato a evidenziare “le aree di miglioramento organizzativo e gestionale delle istituzioni scolastiche direttamente riconducibili al dirigente scolastico, ai fini della valutazione dei risultati della sua azione dirigenziale, secondo quanto previsto dall’articolo 25 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, e dal contratto collettivo nazionale di lavoro” (art. 6, comma 4, del d.P.R. n. 80/2013). Inol-
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Il progetto AVIMES (AutoValutazione di Istituto per il Miglioramento dell’Efficacia della Scuola) coinvolge una rete di scuole di ogni ordine e grado del Piemonte, nata nel 1998 per intraprendere un percorso condiviso di ricerca-azione sulla costruzione ed applicazione di strumenti per rilevare e interpretare il funzionamento complessivo dell’istituto e le variabili fondamentali dell’efficacia scolastica (www.avimes.it). 9 Il CAF è uno strumento che supporta le organizzazioni del settore pubblico in Europa nell’uso di tecniche di gestione della qualità finalizzate al miglioramento delle performance. Il CAF è stato progettato per essere usato in qualsiasi settore della pubblica amministrazione, a tutti i livelli: nazionale, regionale e locale. Può essere usato, a seconda delle circostanze, sia come parte di un programma sistematico di riforme sia come base per indirizzare le azioni di miglioramento in singole organizzazioni pubbliche. In Italia, un tavolo tecnico promosso dal Ministero delle Riforme e dell’innovazione e dal Ministero dell’istruzione si è occupato di personalizzare il modello CAF al settore dell’istruzione, assumendo come punto di partenza le esperienze già spontaneamente maturate in Veneto e in Lombardia (si consiglia di prendere visione del modello CAF Education nel sito http: //qualitapa.gov.it/it/iniziative/caf-per-miur/). 10 Nel 1991 la Provincia Autonoma di Trento ha costituito il comitato di valutazione del sistema educativo e da allora ha elaborato un significativo patrimonio di azioni e documenti. Si consiglia la consultazione del sito www.vivoscuola.it/comitatovalutazione. 11 Si fa particolare riferimento a DAY C., SAMMONS P., HOPKINS D., HARRIS A., LEITHWOOD K et alii, The Impact of School Leadership on Pupil Outcomes, Research Summary Number DCSF-RS108, DCSF/NCSL, Nottingham (2009).
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tre, “i piani di miglioramento, con i risultati conseguiti dalle singole istituzioni scolastiche, sono comunicati al direttore generale del competente Ufficio scolastico regionale, che ne tiene conto ai fini della individuazione degli obiettivi da assegnare al dirigente scolastico in sede di conferimento del successivo incarico e della valutazione di cui al comma 4” (art. 6, comma 5, del d.P.R. n. 80/2013). Spetta all’Invalsi il compito di definire gli indicatori per la valutazione dei dirigenti scolastici, anche alla luce degli esiti delle ricerche condotte a livello internazionale sull’impatto della leadership scolastica sugli apprendimenti degli studenti.12
4. Il Rapporto di Autovalutazione (RAV) Il Rapporto di Autovalutazione rappresenta il primo impegno che coinvolge le istituzioni scolastiche statali e paritarie nell’avvio del sistema nazionale di valutazione. Esso è costituito da cinque sezioni, ciascuna delle quali contiene specifici indicatori di riferimento: 1. Contesto e risorse: consente alle scuole di rilevare le caratteristiche culturali e socio-economiche dei territori in cui sono inserite e di individuare anche le risorse su cui far leva per incidere in modo efficace sui risultati degli apprendimenti degli studenti; 2. Esiti: consente alle scuole di analizzare i risultati conseguiti dagli studenti e dunque di capire in che misura le scuole stesse incidono sul successo formativo; 3. Processi: consente alle scuole di esaminare le pratiche educative, didattiche, gestionali e organizzative, allo scopo di cogliere in che modo le scuole stesse creano le condizioni favorevoli allo sviluppo degli apprendimenti, delle conoscenze e delle competenze, compresa l’attenzione all’inclusione, alla continuità e all’orientamento; 4. Il processo di autovalutazione: consente alle scuole di esplicitare le scelte compiute nella composizione del nucleo di autovalutazione, di esplicitare problemi e difficoltà nell’elaborazione del RAV e di riflettere sulle esperienze pregresse di autovalutazione; 5. Individuazione delle priorità: consente alle scuole di evidenziare le priorità su cui intervenire nella prospettiva del miglioramento. Si tratta, pertan12 Per lo studio e l’approfondimento dei temi connessi alla leadership centrata sull’apprendimento e al management scolastico attento al successo formativo degli studenti si rinvia ai seguenti volumi: G.Barzanò, Leadership per l’educazione. Riflessioni e prospettive dal dibattito globale, Armando, Roma, 2008; G.Domenici – G.Moretti (a cura di), Leadership educativa e autonomia scolastica. Il governo dei processi formativi e gestionali nella scuola di oggi, Armando, Roma, 2011; J.Scheerens, S.Mosca, R.Bolletta, Valutare per gestire la scuola. Governance, leadership e qualità educativa, B.Mondadori, Milano, 2011.
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to, di un’operazione importante e decisiva, ai fini della elaborazione di un piano di miglioramento rispondente alla necessità di introdurre dei cambiamenti nelle pratiche ordinarie. Non è superfluo sottolineare il fatto che il quadro teorico di riferimento del RAV è il risultato di un percorso di studio e di ricerca che l’Invalsi svolge dal 2008 (VALSIS: Valutazione del sistema scolastico e delle scuole),13 alla luce degli orientamenti delle politiche comunitarie in materia di istruzione e formazione ed anche delle funzioni attribuite all’Invalsi medesimo dalla vigente legislazione.14 Tale quadro di riferimento è stato poi aggiornato in considerazione degli esiti dei progetti sperimentali VALES (Valutazione e Sviluppo della Scuola) e VM (Valutazione e Miglioramento) nel periodo 2012-2014, da cui sono scaturite indicazioni e sollecitazioni utili per promuovere la riflessione delle scuole sul funzionamento interno ad esse.
5. Indicazioni operative per l’avvio del sistema nazionale di valutazione In questa fase di avvio del sistema nazionale di valutazione il ruolo delle istituzioni scolastiche assume una notevole rilevanza: non si tratta di porre attenzione ad un ulteriore adempimento burocratico, ma di creare le condizioni favorevoli al riconoscimento della valutazione come risorsa per il miglioramento di qualità dell’offerta formativa e per lo sviluppo dell’autonomia scolastica. In modo particolare, le scuole che hanno maturato consapevolezze e competenze di alto profilo in materia di valutazione degli apprendimenti e d’istituto possono diventare veri e propri “presìdi” di innovazione nei territori, offrendo supporto anche alle istituzioni scolastiche che per la prima volta dovranno affrontare il procedimento di valutazione (art. 6, comma 1, d.P.R. n. 80/2013). Soprattutto per le scuole che non hanno una pregressa esperienza sono determinanti le scelte organizzative e gestionali da compiere a sostegno dei processi di avvio del sistema nazionale di valutazione: – la costituzione di una unità di autovalutazione all’interno della singola istituzione scolastica rappresenta un provvedimento decisivo per l’elabora-
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Per la conoscenza approfondita degli studi e delle ricerche sulla valutazione delle scuole si rinvia al sito www.invalsi.it, in cui è disponibile tutta la documentazione relativa a VALSIS, che assume come quadro concettuale di riferimento il modello CIPP (Context – Input – Process – Product), nato negli Stati Uniti verso la fine degli anni ‘60. 14 In modo particolare si fa riferimento al decreto legislativo n. 213/2009, che all’art. 17, comma 2, lettera c) prevede che, nell’ambito della costruzione del Sistema nazionale di valutazione, l’INVALSI ha anche il compito di studiare “modelli e metodologie per la valutazione delle istituzioni scolastiche e di istruzione e formazione professionale e dei fattori che influenzano gli apprendimenti”.
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zione del RAV15 (Rapporto di Autovalutazione): è fondamentale che tale unità sia coordinata dal dirigente scolastico e che veda tra i suoi componenti docenti altamente motivati e competenti nel promuovere una consapevolezza diffusa della valutazione come cultura e risorsa per il miglioramento; – il dirigente scolastico agisce come un vero e proprio “motore” del cambiamento: assicura orientamento e supporto all’unità di autovalutazione, fa sì che la cultura della valutazione dia senso e prospettiva al piano dell’offerta formativa, guida l’elaborazione del RAV (Rapporto di Autovalutazione) come fase decisiva di autodiagnosi verso la ricerca del miglioramento continuo, sollecita lo sviluppo di qualità della valutazione degli apprendimenti, incoraggia l’attuazione di buone pratiche di rendicontazione sociale e, in modo particolare, stimola e orienta il collegio dei docenti a riconoscere nella valutazione una risorsa per l’innovazione; – l’elaborazione del RAV (Rapporto di Autovalutazione) si inserisce in un percorso più ampio di studio e ricerca delle buone pratiche realizzate sul territorio nazionale, come quelle citate nei paragrafi precedenti: in tale direzione, è opportuno assicurare iniziative di aggiornamento e formazione in servizio; – l’avvio del sistema nazionale di valutazione richiede fiducia nel confronto e nell’arricchimento reciproco: a tale scopo, è importante che, a partire dall’elaborazione del RAV (Rapporto di Autovalutazione), venga incoraggiato il lavoro in rete tra scuole, al fine di promuovere la diffusione della cultura della valutazione e di buone pratiche capaci di radicarsi in modo significativo nei territori, come dimostrato da pregevoli esperienze in rete citate nei paragrafi precedenti.
6. Osservazioni conclusive “Il rilievo dell’autovalutazione sta dunque principalmente nella promozione di un’autoconsapevolezza diffusa tra quanti operano nella scuola della necessità di disporre di validi punti di riferimento per indirizzare, migliorare e governare le scelte sia strategiche che tattiche di ogni unità scolastica. Per orientare le decisioni e le attività individuali e collettive allo scopo strategico complessivo che ogni unità si pone, rappresentato dai macroobiettivi d’istituto indicati ovviamente dal Piano dell’offerta formativa, il sistema di autovalutazione deve esser tale da consentire una modifica15
Si fa riferimento alla circolare ministeriale n. 47 del 21 ottobre 2014 Priorità strategiche della valutazione del Sistema educativo di istruzione e formazione. Trasmissione della Direttiva n. 11 del 18 settembre 2014.
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zione pressoché continua dei comportamenti individuali e collettivi (consigli di classe, gruppi di lavoro, dipartimenti disciplinari o organizzativi, collegio dei docenti)”.16 Alla luce di queste considerazioni, l’elaborazione del RAV (Rapporto di Autovalutazione) costituisce un’opportunità decisiva per l’autoriflessione e l’autodiagnosi orientate al cambiamento e al miglioramento continuo, che coincidono con la ricerca delle condizioni più favorevoli al successo formativo dei nostri studenti: di tutti e di ciascuno. È, infine, auspicabile che l’avvio del sistema nazionale di valutazione rappresenti un’opportunità per stimolare ad ulteriori livelli la cooperazione in rete tra le scuole e i territori nel concorrere al miglioramento di qualità del nostro sistema di istruzione e formazione.
Riferimenti bibliografici G. Barzanò, Leadership per l’educazione. Riflessioni e prospettive dal dibattito globale, Roma, Armando, 2008. N. Bottani, Requiem per la scuola? Ripensare il futuro dell’istruzione, Bologna, Il Mulino, 2013. M. Castoldi, Si possono valutare le scuole? Il caso italiano e le esperienze europee, Torino, SEI, Collana “Scuola e Vita”, 2008. Day C., Sammons P., Hopkins D., Harris A., Leithwood K. et alii, The Impact of School Leadership on Pupil Outcomes, Research Summary Number DCSF-RS108, DCSF/NCSL, Nottingham (2009). G. Domenici (a cura di), La valutazione come risorsa. Analisi degli apprendimenti e autovalutazione d’istituto, Napoli, Tecnodid, 2000. G. Domenici – G. Moretti (a cura di), Leadership educativa e autonomia scolastica. Il governo dei processi formativi e gestionali nella scuola di oggi, Roma, Armando, 2011. C. Rubinacci, Valutazione e sviluppo delle innovazioni. Migliorare la qualità dell’offerta formativa dell’istituzione scolastica, Roma, Anicia, 2004. J. Scheerens, S. Mosca, R. Bolletta, Valutare per gestire la scuola. Governance, leadership e qualità educativa, Milano, B.Mondadori, 2011. Associazione TreeLLLe e Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo, Esperienze internazionali di valutazione dei sistemi scolastici, Seminario n. 14, dicembre 2013. Vertecchi B., Manuale della valutazione. Analisi degli apprendimenti e dei contesti, Franco Angeli, Milano, 2003.
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G. DOMENICI (a cura di), La valutazione come risorsa. Analisi degli apprendimenti e autovalutazione d’istituto, Tecnodid, Napoli, 2000, p. 15.
Rivista Lasalliana 82 (2015) 1, 97-119
LUIGI STURZO E IL DIBATTITO SULLA SCUOLA UMBERTO CHIARAMONTE già Dirigente Ispettore tecnico del MIUR (settore storico-scienze umane)
SOMMARIO: 1. La polemica laicista. - 2. La laicità dello Stato e la Costituzione. La posizione di Sturzo. - 3. La libertà di insegnamento e la libertà di religione. - 4. La libertà nella metodologia didattica. - 5. Concorrenza tra scuola pubblica statale e non statale.
1. La polemica laicista
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a cultura europea ha esteso la nozione di laicità oltre il solo rapporto tra Stato-Chiesa-Scuola, giacché per “idea laica” si intende non solo ogni atteggiamento e comportamento che esula dal rapporto tra politica e Chiesa, ma che è riferito all’autonoma libertà di pensiero di chiunque e in qualsiasi contesto. La definizione data dal filosofo Abbagnano sottolinea che la laicità “non mostra alcun carattere di antagonismo con alcuna forma di religiosità, neppure col cattolicesimo”.1 Abbagnano ha esteso la definizione anche ai partiti politici di indirizzo totalitario-marxista o fascista-nazista che mirano a sopprimere o controllare il libero pensiero dell’uomo impedendogli qualsiasi critica o contestazione di principio. Ciò richiede un confronto ampio e puntuale su questo tema giacché, quando si riferisce alla scuola e in generale all’insegnamento, coinvolge principi e comportamenti di più ampio raggio di quanto possa sembrare, giacché nell’ambito educativo-scolastico si estende anche all’atteggiamento dell’insegnante e al suo credo religioso o alla sua neutralità confessionale nei rapporti con gli alunni o a qualsiasi produzione letteraria e scientifica. Per poter parlare di “scuola laica” non c’è bisogno di intenderla come “scuola pubblica” o “scuola dello Stato”, ma è sufficiente parlare di “un ente imparziale al di sopra delle parti e delle correnti politiche e ideologiche, fondata sul presupposto che si possa essere insieme buoni cattolici e bravi cittadini”.(Idem) Si dà il caso che molte persone di cultura impegnate nella politica attiva e nella società civile, pur definendosi con ostentazione “laici”, in realtà non sono sempre contro la religione, giacché ritengono che l’insegnamento “di intima religiosità” è profondamente educativo soprattutto per l’infanzia. Ma discutere di laicità ferman1
N. ABBAGNANO, Dizionario di filosofia, UTET, Torino 1961, p. 505.
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dosi alle differenze tra scuola pubblica e scuola privata è una deminutio superata dai tempi. Si pensi che anche Mazzini accettò la scuola privata “quale utile strumento di lotta contro la tirannia di qualsiasi governo o casta religiosa”, pur rimanendo molto critico nei confronti dell’educazione impartita da confessioni cristiane, sia cattoliche che protestanti, ritenendo che questo modello non completava una formazione umana senza religiosità. Sulla stessa linea erano Matteucci, Cattaneo, Salvemini e molti altri politici e intellettuali che rimasero contrari all’insegnamento religioso cattolico o protestante non avendo accettato nessun monopolio di Stato o della Chiesa, ma rimasero attenti e sensibili alla libertà di insegnamento così come è stata concepita, pur sentendosi favorevoli alla scuola pubblica senza limitazioni e alla scuola privata purché sotto controllo. In questo contesto non va dimenticato il ruolo della Federazione Nazionale Insegnanti Scuola Media (FNISM, costituita nel 1901), che dal 1906 in poi si trovò in pieno nella polemica laicista “dove convenivano […] socialisti e liberali, radicali e repubblicani, persino moderati e conservatori dai quali potevano discendere interpretazioni diverse di un episodio per il resto connesso a quel periodo di furore iconoclastico verboso e demagogico del socialismo sindacalista”.2
Una indagine della Federazione sul tema “cosa debba intendersi per scuola laica” non diede un risultato multiforme, ma fu maggioritario il parere secondo cui “scuola laica è quella che esclude ogni influenza confessionale ed ogni dogmatismo e, animata da spirito critico, s’informa al metodo positivo sia nell’interpretare fatti sociali, sia nell’indagare le cause dei fatti psichici e naturali affidandosi solo alla osservazione e all’esperienza e distinguendo le verità certe dalle ipotesi, ciò che consta da ciò che è oggetto di credenza”.3
Più in dettaglio, il sondaggio effettuato dalla FNISM tra gli iscritti sulla loro idea di laicità affrontò questi quesiti: la neutralità come fondamento del carattere laico della scuola, intesa come rispetto della coscienza giovanile; la laicità come “spirito di tolleranza, con la più ampia libertà di pensiero e di professione di dottrine politiche e religiose”; se la laicità fosse da conquistarsi o da difendersi; con quali mezzi si potesse difendere e perfezionare la laicità. Le 2
L. AMBROSOLI, La Federazione Nazionale Insegnanti Scuola Media dalle origini al 1925, La Nuova Italia, Firenze 1967, p.167. 3 Idem, p.168. Cfr. D. IZZO (a cura di), Gli ottanta anni della Federazione Nazionale Insegnanti Scuola Media (1901-1981), Atti del Convegno Nazionale della FNISM, Firenze 12-13 novembre 1982, in “Ricerche pedagogiche”, Quaderno V, 1982.
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risposte raccolte, certamente influenzate dal clima politico e dalla tipologia della scuola frequentata, rilevarono in maggioranza la necessità di difendere il pensiero moderno delle organizzazioni laiche, fino a battersi per la separazione dello Stato dalla Chiesa. Altre risposte riguardarono la richiesta di una profonda riforma per eliminare il pericolo di perdere la sua laicità; altre chiesero l’abolizione dell’insegnamento religioso nelle scuole elementari e medie private e l’abolizione dalle scuole statali dell’insegnamento dei sistemi filosofici, l’avocazione allo Stato di tutte le scuole private e l’abolizione dell’istituto del pareggiamento; infine, l’istituzione di collegi nazionali laici. Questa varietà di risposte elencava di tutto, al punto che per Ambrosoli alcune risposte sconfinarono nel dogmatismo che si voleva eliminare, mentre il rifiuto del lassismo fu un aspetto nuovo che mirava a dare maggiore credibilità alla scuola statale. Rimasero intangibili le richieste di “respingere ogni attentato alla libertà del pensiero, al principio di tolleranza, allo spirito critico, alla laicità della scuola”. (Idem). Fu al VI congresso nazionale (1906) che si affrontò il tema della laicità della scuola e dell’insegnamento, quando il dibattito si inserì nel periodo storico che caratterizzò la dura polemica dell’anticlericalismo. A questo congresso, Fioravanti, uno dei due autori che prepararono le due relazioni sul tema, riconobbe in linea di principio che la scuola italiana era laica, e quindi la sua difesa non richiedeva una polemica offensiva nei confronti della scuola confessionale. Pur essendo contrario all’insegnamento religioso nella scuola pubblica, aggiunse: “Né si creda che noi, in difesa della laicità, invochiamo misure restrittive, o peggio, di oppressione contro le scuole clericali.[…] La Federazione non è una setta politica, ma la sincera espressione della scuola della Nazione, formatasi per mezzo delle battaglie in nome della libertà. Noi non muoviamo guerra a nessuna fede, a nessun sentimento religioso, ma vogliamo che lo Stato non si attribuisca la protezione di alcuna religione da quella che ha per obbietto la Patria e le sue libere istituzioni”.4
L’affermazione sanciva il riconoscimento della laicità anche per le scuole private, sebbene in presenza di alcuni limiti. Giovanni Gentile criticò il proposito di separare lo Stato dalla Chiesa, in quanto riconosceva alla religione una “reale attività etica che si realizza perennemente”. Secondo il filosofo, “lo Stato si laicizza solo diventando fine a se stesso, solo sottraendosi alla soggezione di quanto gli è estraneo; uno Stato non laico sarebbe uno Stato non-Stato. Una scuola non laica sarebbe una non-scuola”.5 4
Cfr. AMBROSOLI, Op. cit., p.177 e ss. Relazione di A. Fioravanti al VI Congresso FNISM, che presentò un Odg in 12 punti con proposte concrete. 5 G. GENTILE, Il Sesto Congresso degli insegnanti delle scuole medie, in L. AMBROSOLI, Op.cit., p. 176 e ss.
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Gentile, che mirava a sopprimere l’insegnamento religioso a scuola, mise in guardia i colleghi presenti al congresso avvertendo che “il grande difetto della scuola confessionale […] è appunto l’intolleranza; all’intolleranza va aggiunto il rifiuto ad accogliere il libero svolgimento del pensiero scientifico.[…] L’eteronomia è la negazione della libertà e siccome la libertà è la sostanza dell’eticità, la scuola confessionale è antitetica. Ma la scuola confessionale ha, accanto ai difetti, un pregio; ‘sa dove va’, ha un orientamento sicuro e preciso”.
(Idem) La posizione di Salvemini fu enunciata con spunti differentemente laici: “La scuola laica deve educare gli alunni alla massima possibile indipendenza da ogni preconcetto tradizionale e dogmatico non dimostrato; deve sostituire negli alunni all’abito dogmatico, che sembra quasi connaturato col pensiero infantile e giovanile […] l’abito critico, e alla tolleranza settaria il rispetto di tutte le opinioni sinceramente professate. La scuola laica non deve imporre agli alunni credenze religiose, filosofiche e politiche in nome di autorità sottratte al sindacato della ragione; ma deve mettere gli alunni in condizioni di potere, con piena libertà e consapevolezza, formarsi da sé le proprie convinzioni politiche, filosofiche, religiose. È laica, insomma, la scuola in cui s’insegna ciò che non sia frutto di ricerca critica e razionale; in cui tutti gli studi sono condotti con metodo critico e razionale; in cui tutti gli insegnamenti sono rivolti a educare e rafforzare negli alunni le attitudini critiche e razionali”.6
Il suo pensiero era aperto alla laicità rispettando qualsiasi religione, anche quella a lui contraria; si dichiarò disposto ad accettare la religione cattolica chiedendo di inserire nei programmi delle scuole secondarie anche lo studio della storia del cristianesimo e del pensiero cristiano, in quanto erano temi che potevano essere discussi criticamente in un confronto tra insegnanti e studenti, ma mantenne l’opposizione all’introduzione del catechismo, che valutava dommatico, per cui ne aveva chiesto l’abolizione o la libertà di studiarlo dietro richiesta dei genitori. Accettò anche la proposta di ammettere i preti all’insegnamento della religione e delle diverse discipline nei convitti statali, purché fossero in possesso dei titoli di studio richiesti, consentendo alle famiglie che lo avessero richiesto un insegnamento “privato” riconoscendo la priorità della famiglia e dei genitori sullo Stato. Al X congresso della FNISM, tenuto a Pisa dal 4 al 6 maggio 1919, al quale Sturzo prese parte come segretario del Ppi e della cattolica Pro Schola, il presidente di turno auspicò che si affermasse una mediazione interna tra le varie posizio6
G. SALVEMINI in L. AMBROSOLI, La FNISM cit., p.183.
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ni, in quanto “l’orientamento in favore di un partito politico ci dividerebbe subito”. Ciò che fece alzare i toni del dibattito fu la lettera di Gentile, letta da Codignola, che estese le critiche all’inefficienza di molte scuole medie statali per l’insufficiente organizzazione, anche a causa dell’affollamento. La dichiarazione, che sembrava espressa per dividere le due tipologie di scuola, determinò la proposta di chiedere la riduzione del 50% delle classi, in modo che si sarebbe reso possibile l’istituzione della scuola di Stato libera con uno sfoltimento degli allievi, a partire dalla selezione dei meno preparati. Codignola, che aveva della laicità della scuola un’idea tesa a combattere la “neutralità” per sostituirla con la religiosità come fattore insostituibile per la formazione degli alunni, sostenne che: “scuola nazionale significa scuola seria organica, scuola che elevi lo spirito dei giovani per virtù di metodo e intensità di fede filosofica. Sopra ogni specie di settarismo rosso e nero, tricornuto e triangolare. Per questa ragione l’attuale scuola governativa non è una scuola nazionale perché disorganizza i cervelli e non tempra il carattere. Una scuola privata che sia scuola seria è invece nazionale per il fatto solo di essere seria. Ma neppure l’attuale scuola privata è seria, anzi è peggiore della governativa”. (Cfr. VI Congresso FNISM, 1906, cit.).
Si trattò in modo chiaro di riproporre la scuola pubblica come scuola di alunni capaci e preparati, attuando una selezione elitaria. La posizione di Codignola non ebbe l’approvazione del congresso e non l’accettò nemmeno Sturzo in quanto suscitava “giustamente le critiche del congresso”. Il neo segretario del Ppi disse di essere contrario a qualsiasi riduzione della scuola di Stato cui avrebbe dovuto corrispondere un analogo accrescimento della scuola privata. Riconobbe alla scuola pubblica “una funzione importante e integrativa [acclamazione generale]”, e perciò espresse un giudizio favorevole sulla possibilità di far vivere la scuola pubblica accanto a quella privata facendole evolvere rapidamente, sia pure in concorrenza tra loro.7 Un altro polemista del laicismo è stato Guido Calogero, per il quale la vera battaglia sulla laicità si sviluppava tra la scuola privata e quella pubblica, ancor più che nella vita privata. Calogero non è stato tenero nel riconoscere che “la battaglia per il laicismo educativo non è altro che la battaglia per una scuola più intelligente contro una scuola meno intelligente”, pur riconoscendo che la laicità di per sé non è una virtù, ma un modo di pensare e valutare la realtà. La sua preoccupazione è stata di temere che la scuola privata, che avrebbe 7
Intervista di L. Sturzo al Congresso di FNISM del 1919, in “Messaggero toscano”, 5 maggio 1919, p. 2; cfr. T. TOMASI, L’idea laica nell’Italia contemporanea (1870-1970), La Nuova Italia, Firenze 1971, pp. 136 e ss.
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potuto godere di più ampie risorse finanziarie ed economiche da parte dei privati, avrebbe potuto competere con la scuola di Stato, “la quale, nonostante tutto continua a offrire una maggiore garanzia di non confessionalità; di qui la necessità di non accedere alla richiesta della sovvenzione statale a scuole private, […] salvo che esse non fossero né cattoliche né comuniste né comunque dominate da un unitario orientamento dottrinale”.8
Calogero ha riconosciuto che “il laicismo non si identifica col non andare a messa, anche se in un paese in cui troppa gente va a messa può consistere nel non andarci per reagire a quel conformismo. Il laicismo consiste nel fatto di non accettare mai, in nessun caso, l’organizzazione e l’esercizio di strumenti di pressione religiosa o politica o sociale o morale o economica o finanziaria al fine della diffusione di certe idee e l’equilibrio delle loro possibilità di dialogo individuale”.9
La sua posizione era di equilibrio, giacché sosteneva le stesse perplessità nel caso si trattasse di scuola marxista, pur sottolineando che questa sarebbe stata una posizione molto peregrina. Egli ha definito la scuola laica “una scuola in cui non c’è mai nessuno che abbia ragione senza la possibilità e la probabilità che qualcun altro gli dia torto”, giacché essa garantisce un dialogo “a più voci”, che accetta il confronto e la presenza di più religioni. Il principio laicista di Calogero poggia sull’accettazione di “escludere ogni norma coercitiva la quale sottragga al docente la libertà di insegnare verità diverse” dalle sue, anche se contro “una maggioranza schiacciante”. Va osservato che il dibattito sulla laicità si è sviluppato contemporaneamente all’anticlericalismo e che è stato incrementato dal liberalismo e dall’agnosticismo molto diffusi in quel periodo. Il giudizio di Giolitti, è stato molto più duro: “Il principio [dei liberali] è questo, che lo Stato e la Chiesa sono due parallele che non si debbono incontrare mai. Guai alla Chiesa il giorno in cui volesse invadere i poteri dello Stato”. (Discorso alla Camera del 30 maggio 1904). Sebbene l’anticlericalismo abbia avuto una certa prevalenza nella classe dirigente del Paese rispetto al resto della nazione, soprattutto all’interno del ministero della P. I., la Tomasi ha affermato che il laicismo in quegli anni andava disgregandosi e nel Parlamento i cattolici non venivano considerati nemici della patria, “ma il più potente baluardo dell’ordine costitui-
8 G. CALOGERO, Scuola sotto inchiesta, Einaudi, Torino 1963; da qui si prenderanno le citazioni se prive di altra indicazione. 9 G. CALOGERO, La certezza e l’impazienza, in “Il Mondo”, 24 aprile 1956; ora anche in Scuola sotto inchiesta, op. cit., p. 61-64.
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to”.10 Ma non sembra che sia stato proprio così! Può esser vero che per lo più i laici si siano limitati a chiedere l’espulsione del crocifisso dalle aule scolastiche, i preti dall’insegnamento, le monache dagli asili, ma “senza vedere il problema nella sua complessità”. Più intollerante è stata la posizione della massoneria, che ha lottato per assegnare la priorità alla scuola statale, “unica in grado di rilasciare titoli aventi valore legale” e che ha definito la Chiesa “non solo il baluardo della reazione e la nemica numero uno del progresso, ma anche la portatrice di una dottrina del tutto superata che nulla ha più da dire all’uomo moderno”.(Idem) Ma anche queste affermazioni meriterebbero una verifica effettuata “laicamente”, giacché il laicismo è un valore che va protetto sempre e ovunque. Appartenenti alla massoneria hanno ritenuto che “quello che veramente conta è che i genitori siano obbligati a mandare i figli a scuola non importa se pubblica o privata perché l’ignoranza è il peggiore dei mali” (Ibidem). Quando il deputato massone Mauro Macchi affermò che i preti potevano avere il diritto di insegnare liberamente la fede nelle chiese e lo Stato nelle scuole, venendo a sapere che le famiglie avrebbero tolto i loro figli dalla scuola pubblica, aveva sostenuto che di fronte a questa eventualità “è accettabile l’aiuto della scuola confessionale”.11 L’affermazione secondo cui l’insegnamento della religione nella scuola primaria sarebbe più pertinente in quanto si presta al racconto mitico e fiabesco, ad un esame darebbe risultati non sempre esaustivi, giacché, per fare un esempio, non tutti sono stati d’accordo sulla sua introduzione nelle aule del ciclo elementare senza una preparazione dell’insegnante sulla sua capacità di affabulazione. Si pensi alla difficoltà di poter apprendere il Catechismo senza una base cognitiva di un certo peso. La mozione parlamentare di Bissolati che mirava ad ottenere la soppressione del crocifisso dalle aule, nel 1908 è stata ostacolata dalla maggioranza dei parlamentari dopo essere stata discussa animatamente con l’opposizione dei cattolici. Chi aveva valutato con realismo la laicità della scuola era stato Filippo Turati, il quale in un suo articolo sulla “Critica sociale” del gennaio 1907, conoscendo le possibili reazioni del popolo, aveva scritto: “Lo spirito religioso non si abolisce se non sostituendolo. Finché la Chiesa provvede ad una folla di funzioni morali e materiali necessarie, alle quali la società laica non provvede, la Chiesa sarà, e sarà giustamente, invincibile”. Non a caso i socialisti non amavano fare propaganda anticlericale; per essi la Chiesa era malvista in quanto era alleata della reazione e del conservatorismo, tanto che Ivanoe Bonomi riteneva che la religione dovesse 10
T. TOMASI, Massoneria e scuola dall’Unità ai nostri giorni, Vallecchi, Firenze 1980, p. 49. Anche i brani cit. dopo sono presi dal libro qui citato. 11 Idem.
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restare una cosa privata. La critica degli anarchici andava ancora più al cuore del problema, perché chiedeva che lo Stato sopprimesse l’insegnamento della religione in tutte le aule scolastiche perché non garantiva la laicità e la libertà, rimanendo soggetti all’esposizione degli insegnanti.
2. La laicità dello Stato e la Costituzione. La posizione di Sturzo La laicità dello Stato non può essere messa in dubbio in quanto rappresenta (o dovrebbe rappresentare) il suo valore caratterizzante insieme alla libertà. Essa richiama la separazione dell’attività politica da quella religiosa, perché “la teoria dello Stato laico si fonda su una concezione secolare e non sacrale del potere politico come attività autonoma rispetto alle confessioni religiose”, per cui resta il principio che “lo Stato laico propriamente inteso non professa pertanto una ideologia ‘laicista’ qualora si intenda per tale una ideologia irreligiosa o antireligiosa”.12 Tra Stato e Chiesa è naturale che si realizzi un rapporto di reciproca autonomia, alla quale va aggiunto il rispetto. Gli studiosi della scienza politica hanno concordato che la laicità è stata la bandiera del liberalismo borghese, che ha proclamato anche il concetto di libertà e l’affermazione dei diritti dell’individuo. In questo contesto, va rilevato che Sturzo sin dal 1901 aveva dato un giudizio negativo sul moderno liberalismo, definendolo una “teoria negativa e dissolvente di tutti i rapporti organico-sociali dell’uomo nel campo religioso, [che] ha avuto di mira la divisione e lo stacco della società dalla religione, che in forma concreta diviene stacco dello Stato dalla Chiesa”.13 Diversamente, secondo M. Missiroli il liberalismo è stata una forza non conservatrice, ma progressiva, aperta alla realtà storica con la quale i liberali erano chiamati a confrontarsi continuamente. Egli ha identificato il liberalismo con “la coscienza critica della storia vivente […], con una comprensione integrale delle varie forze che muovono il mondo”.14 Dal dibattito di quegli anni il liberalismo è emerso come il fondamento della società e dell’individuo; il primato dell’uomo sullo Stato divenne il nucleo del liberalismo, da cui poi si è sviluppata la nozione della laicità per affermare la netta separazione tra potere politico e potere spirituale. Cavour si espresse con apertura ai cattolici, esprimendo con la formula “libera Chiesa in libero Stato” il reciproco rispetto tra le due istituzioni, ma in più si era riservato “d’introdurre nella pratica con leggi speciali” il primato della religione cattolica “come una delle basi fondamentali del patto
12
V. ZANONE, Laicismo, in Dizionario di politica, a cura di N. Bobbio-N. Matteucci, UTET, Torino 1976, ad nomen. 13 L. STURZO, La lotta fra Stato e Chiesa, in “La Croce di Costantino”, 2 giugno 1901. 14 M. MISSIROLI, Polemica liberale, Zanichelli, Bologna 1919, p. 19.
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sociale”.15 Non si può trascurare il fatto che, accanto al pensiero politico del clericalismo, ne era stato elaborato un altro che, pur mantenendo il timone nella direzione ritenuta la più coerente per garantire la salvaguardia dei valori religiosi, abbracciò la laicità come garanzia della libertà della Chiesa nello Stato, anche se questa nuova politica rimase pressoché ignota o non tenuta in debito conto dal laicismo risorgimentale e post-risorgimentale. La letteratura storica sulla laicità della scuola, contiene una vasta bibliografia sul ruolo del cattolicesimo, a partire dalla rivista “La Civiltà cattolica”, capostipite di questa linea interpretativa. Ma anche le opere di studiosi cattolicilaici come Rosmini, Gioacchino Ventura, Meda, Murri e Sturzo, hanno contribuito al dibattito critico sulla nozione di Stato, di nazione, di laicità, di libertà di coscienza. In particolare, Sturzo si rese conto che non vennero chiarite le nozioni fondamentali di libertà, democrazia, il ruolo degli enti intermedi tra Stato e società civile, mentre gli sembrò che la prima preoccupazione dell’estrema sinistra sia stata quella di “abolire tutte le esterne manifestazioni di fede religiosa da parte dei corpi costituiti: Parlamento, Magistratura, Esercito, Municipi. E ciò in forza del concetto che la religione è un fatto privato, un semplice caso di coscienza, non mai un dovere collettivo, principio informante la vita della collettività”.16
La nozione che ha dato Sturzo mira al nocciolo della questione affermando che il principio effettivo della laicità dello Stato coinvolge i contenuti formativi per migliorare e assicurare al Paese una vita più civile “e rendere possibile il pieno dispiegamento del principio della libertà e di autogoverno”(Idem). La prova della coerenza Sturzo l’ha offerta nel momento in cui preparava la fondazione del Ppi, disegnandolo non come un partito che scaturisse dall’Azione cattolica o dal suggerimento della gerarchia ecclesiastica o dall’approvazione del Vaticano.17 Sin dal I congresso nazionale di Bologna (14 giugno 1919), il Ppi fu approvato come partito aconfessionale, senza dipendenza dal Vaticano. In una intervista Sturzo lo confermò in modo inequivocabile, dopo aver informato il segretario di Stato card. Gasparri, affermando che “nel programma [del Ppi] e nel suo nome, si
15 C. BENSO di CAVOUR, Necessità di dichiarare nella legge fondamentale la libertà di coscienza e di culto, in “Risorgimento”, 18 maggio 1848, in Antologia degli scritti politici dei liberali italiani, a cura di G. Talamo, Zanichelli, Bologna 1962, p. 41. 16 L. STURZO, La lotta fra Stato e Chiesa, op. cit. 17 Fu “L’Osservatore romano” del 27 dicembre 1918 a rivelare questa possibilità, poi ripresa dal “Corriere d’Italia” il giorno dopo per smentirla, “assicurando che né la S. Sede né altri possono pensare oggi, come non pensammo ieri, alla possibilità di un partito cattolico, che si fondi sui principi religiosi dei suoi aderenti”.
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proponeva di evitare ogni confusione che potesse vincolare le responsabilità della S. Sede”.18 Al congresso di Bologna del Ppi, Sturzo tenne a precisare: “È superfluo dire perché non ci siamo chiamati partito cattolico: i due termini sono antitetici; il cattolicesimo è religione, è universalità; il partito è politica, è divisione. Fin dall’inizio abbiamo escluso che la nostra insegna politica fosse la religione, e abbiamo voluto chiaramente metterci sul terreno specifico di un partito, che ha per oggetto diretto la vita pubblica della nazione”.19
Nella prima giornata, rispondendo agli interventi di padre Agostino Gemelli, Filippo Crispolti, De Rossi e altri, che sollevarono la questione del mancato legame del Ppi con il cattolicesimo, egli confermò che gli iscritti al Ppi volevano essere “differenziati dall’antica azione cattolica-elettorale e non abbiamo preso come insegna la religione, perché noi crediamo che della religione tutti gli istituti pubblici siano pervasi, come crediamo che tutta la vita privata sia imbevuta del suo spirito e della sua forza evangelica, dopo che il mondo pagano fu trasformato in cristiano. Ma non è il caso di creare un equivoco politico al paese”. (Idem)
Durante l’esilio in Gran Bretagna e negli USA, ebbe modo di approfondire la sua idea di laicità dello Stato anche per i contatti con altre religioni, e la definì un valore “neutro”, nel senso di disimpegno da ogni idea religiosa e cristiana. E tuttavia, anche in questo contesto Sturzo temette che negando “la neutralità religiosa della democrazia, [lo si volesse] fare divenire clericale”. (Ibidem) Del resto, “non è l’aconfessionalità come tale a rendere inaccettabile questo concetto, ma la presunzione, fa parte di chi ne fa la propria bandiera, di essere tutto e di avere tutto. Una presunzione che esclude il riconoscimento dell’altro e della ricchezza di verità e di bene presente in esso. [La vera laicità] invece di essere un totalitarismo mascherato, comporta la consapevolezza dei propri limiti, la rinunzia ad auto-assolutizzarsi, la capacità di rimettersi in discussione, il rispetto della sfera del ‘diverso’ e l’apprezzamento della sua diver sità una posizione di equidistanza, mai come astensione del giudizio”(Ibidem).
Ai socialisti, che avevano vantato di essere i veri laici, Giovanni Spadolini obbiettò che era un principio sconosciuto al loro pensiero politico, in 18
L. STURZO, La lotta fra Stato e Chiesa, op. cit. L. STURZO, Politica e morale (1938) – Coscienza e politica. Note e suggerimenti di politica pratica (1953), in Opera omnia, I serie, vol. IV, Zanichelli, Bologna 1972, pp. 262-63. 19
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quanto “la migliore tradizione rivoluzionaria considerò sempre l’ideologia laicista come una ‘finzione’ della borghesia per deviare il proletariato dai suoi fondamentali interessi di classe”.20 Sergio Lariccia ha sottolineato che il principio della laicità è stato riconosciuto all’istituzione scolastica in quanto è la sede dove si formano non solo la cultura e i comportamenti dei giovani, ma anche la coscienza civile.21 Dopo l’approvazione della Carta costituzionale, non si sopì la schermaglia sul laicismo, “il cui ultimo fondamento non è nella imposizione della scelta di una data verità religiosa o ideologica, bensì, al contrario, nel comando di rispettare la pari libertà di ognuno in tali scelte: cioè, appunto, nel principio del laicismo.[…] Nessuno può fare a meno di essere laico, anzi laicista, tanto per accettare anche il termine con cui gli oppositori del laicismo […] preferiscono classificare i loro avversari”. (Idem)
Sturzo distinse tre tipi di laicismo: il primo lo definì laicismo storico, che derivava dal liberalismo del secolo scorso e che poi nei rapporti con la Chiesa sintetizzò la sua posizione in tre formule: libera Chiesa in libero Stato; libera Chiesa nello Stato sovrano; Chiesa e Stato, due parallele che non si incontrano. Il secondo laicismo è quello dell’anticlericalismo, di tradizione giacobina, estremismo socialista e radicale, infetto di materialismo e anticattolicesimo. Il terzo tipo è quello degli “anti-cattolici” materialisti e comunisti. Sturzo annotò che questi tre tipi di laicismo liberale portavano “all’esclusione della morale e dell’autorità della Chiesa anche nella vita dei popoli”.22 Esaminando il testo della Costituzione repubblicana, Guido Calogero ha rilevato la discontinuità con lo Statuto albertino e quindi ha riconosciuto giustificata la critica e la contestazione nei confronti di alcune scelte che sono al limite o al di fuori di essa. Per lui il punto di partenza per ogni giudizio stava nell’affermare che “una società o è laica o non è democratica: una società nella quale non vi sia il pieno rispetto del valore della laicità, […] è una società che rivela un preoccupante deficit di democrazia”.23 La stessa Costituzione invece convive con un altro articolo “che introduce elementi di confessionalità” (cfr. l’art. 7, comma 2 Costituzione), dove si precisa che i rapporti tra Stato e Chiesa vengono regolati dai Patti lateranensi, che riconoscono la religione
20
G. SPADOLINI, Quale laicismo? 10 febbraio 1950, in Idem, Il Tevere più largo. Da porta Pia ad oggi, Longanesi & C., Milano 1970, pp. 156-161. 21 S. LARICCIA, Battaglie di libertà. Democrazia e diritti civili in Italia (1943-2011), Carocci editore, Roma 2011, in particolare le pp. 46-52. 22 L. STURZO, Politica di questi anni, in Opera Omnia, II serie, vol. X, cit., pp. 369-371. 23 G. CALOGERO, Laicismo e confessionalismo nell’educazione, in Idem, Scuola sotto inchiesta, op. cit., p. 65-71.
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cattolica come la “sola religione dello Stato italiano” ed il fondamento della formazione civile della società italiana. P. Ernesto Balducci, che in un primo momento aveva accusato la scuola cattolica di essere fin troppo laica, “in nulla diversa dalle altre scuole”, giacché entrambe costituivano l’apparato ideologico dello Stato borghese, solo successivamente ebbe modo di rilevare che per lui era fondamentale non che la scuola fosse cattolica, ma fosse cristiana, cioè una scuola che si fa “liberatrice dell’uomo”.24 La sua critica più dura fu rivolta all’insufficienza educativa della scuola, al suo apparato organizzativo, al ruolo degli insegnanti, mentre mantenne la difesa della scuola laica senza alcuna differenza tra la pubblica e la privata. Partendo dall’analisi della scuola privata cattolica, la valutò in piena crisi come quella pubblica statale, vittime entrambe della retorica e dell’esaltazione del ruolo educativo. Avvertì la difficoltà della scelta di neutralità come se si trattasse della mancanza della presa di coscienza e la definì “la scuola ottocentesca nata dal grandioso progetto dello Stato laico [come] uno Stato totalizzante, cioè uno Stato con una ideologia che mirava a ridurre in sé tutti i valori”.25 Nella scuola contemporanea, a cui si sarebbe chiesto almeno la neutralità, i giovani sono stati addestrati “all’accettazione del sistema sociale esistente”. Balducci ha continuato a criticare anche il sistema scolastico derivato dalla Costituente, che aveva promosso i cittadini detentori di diritti e doveri, precisando che la classe politica avrebbe avuto l’obbligo costituzionale “di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” (art. 3 Costituzione). Mentre Sturzo si trovava in esilio sin dal 25 ottobre 1926, si era diffuso il malessere psicologico e politico dei cattolici che non erano stati tutti consenzienti con il contenuto dei Patti lateranensi. Anche il prete di Caltagirone precisò che “il Vaticano cercò di dare allo Stato italiano l’impronta cattolica per garantire che la religione cattolica fosse effettivamente e non solo di nome religione di Stato”. Del resto, la sua posizione era stata chiarita sin dal suo celebre discorso nel 1905 (la Magna Charta del popolarismo) quando sostenne che i cattolici avrebbero dovuto entrare in politica “a paro degli altri partiti nella vita nazionale, non come unici depositari della religione, ma come rappresentanti di una tendenza popolare nazionale nello sviluppo del vivere civile, cui vuolsi impegnato, animato da quei principi morali e sociali che derivano dalla civiltà cristiana, come informatrice della coscienza privata e pubblica”.26
24
E. BALDUCCI, L’insegnamento di Don Lorenzo Milani, a cura di Mario Gennari, Laterza, Roma-Bari 1996, p.96. 25 E. BALDUCCI, Vita o morte del professore, in “Ricerche”, n. 38, 1995, in Idem, Educazione come liberazione, Libreria Chiari, Firenze 1999, p. 87. 26 L. STURZO, Chiesa e Stato. Studio sociologico-storico, Zanichelli, Bologna 1958, 2 voll. in Opera omnia, serie I, voll. V/VI, p. 178.
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Per Sturzo tra Stato e Chiesa si doveva parlare di “distinzione” non di “separazione”. Dalla distinzione dei due poteri, è scaturita la teoria della “diarchia” intesa come “nuova dualità” tra la “Chiesa e lo Stato, più in generale tra dimensione religiosa trascendentale e realtà temporale. Una dualità sempre esposta a diventare dualismo conflittuale, ma proprio perché sempre situata nell’ambito di un orizzonte spirituale –quello cristianoche abbraccia comunque entrambi i poli del rapporto”.27
La polemica tra Chiesa e Stato, tra clericalismo e laicismo è continuata anche dopo la firma della Carta costituzionale (1948), dove è previsto il riconoscimento di tutte le fedi religiose, definite libere di essere praticate e insegnate nelle chiese delle singole religioni. Come è noto, essa aveva equiparato “i sacri diritti umani che sono la libertà di stampa e la libertà di insegnamento, insomma la libertà della manifestazione del pensiero”, potendolo manifestare pubblicamente nei diversi modi previsti dalla stessa legge. La conclusione di tale pensiero è che “il laicismo non è un capriccio di pochi, ma un dovere costituzionale di tutti i cittadini”, proprio in base al dettato costituzionale che le definisce uguali. (Cfr. art. 5, ultimo comma del Concordato). Sui temi della politica concordataria Calogero ha criticato l’assenza del valore laico della Costituzione, dal momento che non ha “negato i residui di quella collusione fra autoritarismo cattolico e autoritarismo fascista, che sono i Patti Lateranensi”, finendo con l’affermazione che “l’Italia non è che uno Stato confessionale”, fungendo da “braccio secolare” della Chiesa (Cfr. art. 23 del Trattato). Si dovette attendere il 1984 per riscrivere alcuni articoli del Concordato. Senza scendere nei particolari, va detto che lo Stato italiano ha convalidato il suo ruolo di garante non solo del diritto di libertà religiosa, ma anche del diritto di parità di qualsiasi credenza religiosa, riconoscendo alla Nazione la definizione di “una società multiculturale, interculturale e multietnica”. Per questa battaglia teorica, Gobetti aveva assegnato a Sturzo una valutazione esemplare, definendolo “il messianico del riformismo”: “La posizione di Sturzo fu la prova più chiara che si sono elaborate tra i popolari idee politiche e stati d’animo che non è possibile confondere col vecchio clericalismo. […] Il clericalismo era stato una letteratura di nostalgia e, nei suoi termini sociali, l’origine di una tecnica di diplomatici: il partito popolare doveva diventare un termine della lotta politica. […] Sturzo fu, più che il capo, il simbolo del suo partito: nella necessità del suo ufficio si nascose una funzione demiurgica che lo fa apparire come un enigma ai tecnici della politica, e che sconvolse persino la complessa
27
L. STURZO, Sintesi sociali (1900-1905) – Unioni professionali, Zanichelli, Bologna 1961, p. 122.
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astuzia di Giolitti. […] La sua figura di prete aperto e acuto sembra destinata in Italia a una funzione di riformatore, per l’educazione civile di un popolo di letterati”.28
3. La libertà di insegnamento e la libertà di religione L’Enciclopedia Garzanti di filosofia ha definito la libertà “lo stato in cui un soggetto può agire senza costrizioni o impedimenti e possedendo la capacità di determinarsi secondo un’autonoma scelta di fini e dei mezzi adatti a conseguirli”.29 Abbagnano ha elaborato tre significati della libertà: 1. come autodeterminazione, cioè la libertà assoluta e incondizionata e quindi senza limitazioni, in cui ogni cittadino è libero da condizioni esterne; 2. come necessità, cioè come autodeterminazione alle scelte non del singolo “ma all’ordine cosmico o divino” e dello Stato; 3. la libertà come scelta, che non è assoluta, ma motivata, limitata e condizionata. In altri termini è la libertà di chi ha la possibilità di determinare e decidere.30 Vi è poi la libertà che si impone a chi è chiamato a formare ed educare, giacché questa libertà è tipica dell’educazione. Invece va esclusa la possibilità di inserire la libertà quando si sovrappone l’esistenza di monopoli di qualsiasi tipo, anche se dello Stato. In questo ambito, F. De Sanctis si dichiarò contrario al monopolio statale sottolineando che “il nostro sistema è la libertà”, ed aggiunse: “la concezione che l’insegnamento religioso, impartito dal maestro in forma non confessionale, [era] una componente inalienabile dell’educazione popolare”. Rispondendo ad una interpellanza del dep. Ferdinando Martini, commentò la legge Coppino del 15 luglio 1877 sull’insegnamento religioso, sostenendo che era poco istruttivo parlare di legge anziché soffermarsi “al sentimento religioso ch’è un fondamento importante dell’educazione e che si deve unire, connettere col sentimento morale. […] Io sento che noi in Italia spesso ci facciamo illusione credendo di poter educare i fanciulli con la precettistica, con le nozioni dei diritti di cittadino, con le etiche, con i catechismi, ecc. Ma io mi domando: avremo la precettistica, avremo l’istruzione, ma l’educazione dov’è?”.31
Oggi nessuno mette in dubbio la realizzazione più ampia della libertà, giacché sia i docenti che gli alunni e le famiglie la richiedono in modo chia-
28
P. GOBETTI, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, Introduzione di G. De Caro, Einaudi, Torino 1969, pp.74 e ss. 29 Enciclopedia Garzanti della filosofia, Garzanti, Milano 1990, pp. 515-517. 30 CARLO SINI, Libertà, in Dizionario Garzanti di filosofia, op. cit.. 31 La risposta a Ferdinando Martini (1841-1928) era del 6 maggio 1878. Si veda la risposta di F. De Sanctis, Discorso del min. della Pubblica Istruzione pronunziato alla Camera dei Deputati nella tornata del 6 maggio 1878, in F. DE SANCTIS, Scritti e discorsi sull’educazione, La Nuova Italia, Firenze 1967, pp. 158-163.
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ro, fino a scendere in piazza per pretenderla. I due sistemi educativi (scuola statale e privata), devono essere funzionali all’educazione (oltre che all’istruzione in sé), giacché l’educando deve essere considerato una persona con propri diritti e doveri. Se l’insegnante ha una personalità che vuole esprimersi nel modo più concreto e democratico, anche l’alunno ha il diritto di essere trattato come persona portatrice di diritti e doveri. Secondo Laberthonnière: “così posto nella sua individualità indipendente, ogni uomo deve ricevere soltanto ciò che vuole liberamente ricevere e donare ciò che vuole donare. Esigere quindi altro da lui a nome di un’autorità che gli si imponga dal di fuori, è fargli subire una costrizione, lederne i diritti, la libertà, la persona. […] In educazione non s’ha che astenersi e se s’interviene lo si deve fare soltanto per rimuovere dal fanciullo, dall’uomo in formazione, le influenze esterne che potrebbero falsare il libero moto delle sue facoltà ed arrestare l’espansione spontanea della sua natura”.32 Pertanto, le condizioni per realizzare un clima di libertà e di comprensione reciproca tra insegnante e alunno, devono interagire come due componenti essenziali giacché non può essere accettata la neutralità dell’uno o dell’altro, perché si realizzerebbe una astensione o un abbandono del ragazzo “a sé per lo svolgimento della sua vita morale e religiosa”. L’eventuale prudenza o il quieto vivere dell’insegnante risulta problematico per realizzare un rapporto sereno e anche utile per la crescita morale e intellettuale. La prima cosa da chiedersi è se possa esistere nella scuola una libertà di insegnamento aperta e senza limiti come si attenderebbero gli alunni, le famiglie, i docenti. Tuttavia, il buon senso chiarisce che tanto nell’insegnamento quanto in altre pratiche sociali la libertà non può essere totalizzante e sottratta a qualsiasi limite. Laberthonnière, pur parlando di alunni delle elementari, ha espresso una opinione che può essere estesa anche ai più grandi: “Non si creda però che basti all’educatore cercare l’obbedienza libera per incontrarla; suo compito è per l’appunto di produrla, di farla nascere. Ma la sua autorità, se è quel che deve essere, anziché trovarsi in contrasto con la libertà del fanciullo, affermiamo che ne è invece […] la condizione. La libertà del fanciullo difatti non è un dato da cui si muova, ma un ideale da raggiungere. […] Per diventar libero bisogna quindi che il fanciullo si elevi al di sopra dei propri istinti e domini quest’anarchia interna. Ora appunto per cooperare a quest’opera di umanizzazione, è necessario l’intervento dell’educazione”.33 32 33
L. LABERTHONNIÈRE, Teoria dell’educazione, La Nuova Italia, Firenze 1963, p.4. L. LABERTHONNIÈRE, Op.cit., p. 16.
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Lo stesso pedagogista, a fronte di un probabile autoritarismo, ha aggiunto: “Dal punto di vista individualistico, quando ci si chiede con quale diritto l’educatore eserciti la sua autorità, non c’è modo di rispondere. Gli è che più di un diritto, si tratta di un dovere” (Idem). Del resto, l’intervento non deve essere valutato come un atto autoritario quando va esercitato ogni qualvolta se ne presenti la necessità, per dare modo all’insegnante di vigilare sugli alunni minorenni con attenzione.
4. La libertà nella metodologia didattica La discussione sul metodo di insegnamento, se sia libero o debba seguire particolari norme, può diventare una salvaguardia per l’insegnante e costituisce una garanzia della libertà. Libertà e autorità sono due termini che talvolta possono essere avvertiti come contrapposti, come problema. I limiti derivano da diversi fattori: la libertà di insegnamento delle discipline di studio può essere ampia quanto si vuole, ma l’insegnante non può prescindere da un auto-controllo sia a partire dalla scelta dei libri di testo, dal metodo della spiegazione degli argomenti di studio e quindi dello svolgimento dei programmi, sia durante l’azione educativa sotto la sua diretta responsabilità. Rispetto al passato, molte innovazioni hanno alleggerito la burocrazia interna ed esterna alla scuola. Oggi un buon metodo di lavoro aiuta l’insegnante e gli studenti creando un rapporto sereno nel gruppoclasse. Solo in presenza di criteri didattici “l’educazione comporta il superamento della contraddizione educatore/educando, in modo che ambedue divengano contemporaneamente educatori e educandi”.34 Il passaggio dall’idea di laicità alla libertà della metodologia di insegnamento diventa automatico in quanto l’una e l’altra risultano inscindibili. Bertoni Jovine ha visto nella libertà di insegnamento il valore per organizzare un sistema di scuole confessionali in aperta concorrenza con quelle pubbliche. Ma sembra un’osservazione peregrina. Nella scuola primaria Ghisleri ha ritenuto che l’invadenza della scuola confessionale fosse dovuta al fatto che nella scuola statale il clero aveva trascurato le maestre lasciandole senza alcun sostegno e collaborazione. L’acredine della “Critica sociale” è stata sostanzialmente anticlericale e poco opportuna, giacché non sempre è andata al cuore dei problemi. La polemica si potrebbe ampliare alla posizione dei socialisti riformisti, giudicata ritardataria rispetto ad altre iniziative. Il libero pensiero si è battuto per una inversione di tendenza, chiedendo che nello svolgimento delle lezioni non dovessero essere gli alunni a piacere agli insegnanti, ma questi a loro, giacché è il fanciullo il primo fruitore del 34
P. FREIRE, La pedagogia degli oppressi, a cura di L. Bimbi, A. Mondadori, Verona 1972, p. 83.
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diritto alla libertà e alla realizzazione di un insegnamento attivo, che va difeso dai pericoli di una formazione scolastica inadeguata e da un rapporto educatore/educando difficile. Se, dunque, la migliore garanzia di successo nell’educazione e nella formazione degli alunni alla laicità e alla libertà è data da un insegnamento interattivo tra adulto e allievo, sarà il docente a trovare la forma migliore per realizzarlo. Gobetti ha inserito nella libertà di insegnamento la metodologia, che “per un liberale è appunto la necessità e la volontà di una liquidazione del dogmatismo scolastico, del riconoscimento del valore educativo contenuto nelle libere iniziative culturali che il mondo moderno ha creato intorno alla scuola”.35 La difficoltà stava anche nel fatto che le forze politiche che maggiormente avrebbero dovuto spingere per il rinnovamento dell’istruzione non erano d’accordo con i difensori della libera concorrenza scolastica. D’altra parte, da altri autori è stata espressa la sensazione che la Chiesa non sia stata disposta a perdere le sue posizioni e, anzi, aveva mirato “ad incanalare tutte le forze nell’alveo della tradizione, dell’ordine, dell’immobilità”. Resta fuori dal criterio educativo della libertà tutto ciò che attiene all’autoritarismo. Lagnarsi che gli alunni avrebbero potuto abbandonare la scuola statale per accedere a quella privata, ritenuta più “facile”, non è corretto: primo, perché anni di esperienze hanno dimostrato il rigore pedagogico della scuola privata (in specie quella del clero), sicché si tratterebbe di un alibi inconsistente; secondo, perché sia le famiglie che i docenti dovrebbero essere preoccupati a capire se l’aumento degli alunni nella scuola privata cattolica in passato era dovuto alla presenza di docenti preparati e scrupolosi, portatori di una professionalità maggiore rispetto a quella della scuola statale. Di fronte al progetto dello Stato di assumere l’accentramento delle scuole dell’obbligo, molti Comuni tra i più avanzati, spesso amministrati dalla sinistra, si batterono per mantenerne l’autonomia assumendosi l’onere finanziario di gestione per mantenerle libere. In realtà, dopo la legge Orlando, che prevedeva questo passaggio, i risultati non sono stati sempre positivi. Salvemini fu un oppositore della scuola avocata allo Stato non riconoscendo al centralismo statale la capacità di risolvere il problema dell’alfabetizzazione. Come anti-statalista privilegiò le autonomie locali e si batté per dare ai cittadini “la diretta sovranità sulla scuola, che è la più vicina ad essi” piuttosto che lasciarla alla burocrazia dello Stato centralista.36 Questa posizione pessimista nei confronti dello Stato e della sua credibilità, fa riflettere sulla attendibilità e quindi sulle incertezze che suscitava una buona parte della scuola statale, mentre quella privata costituiva una 35 36
P. GOBETTI, Scritti politici, (a cura di P. Spriano), Einaudi, Torino 1960. G. SALVEMINI, Contro l’avocazione della scuola elementare, in “Avanti!”, 10 febbraio 1910.
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garanzia di serietà per le famiglie che pretendevano una formazione rigorosa per i propri figli. La solerzia dei cattolici nell’insegnamento fu valutata positivamente da Sturzo, Gobetti, Salvemini e da altri “autonomisti”, che rimasero legati alle esperienze educative e formative impartite dalle scuole cattoliche o di altre religioni. D’altra parte, il metodo di insegnamento è una realtà oggettiva solo se si basa su principi della psicologia e sui risultati dell’esperienza e della sperimentazione pedagogica. Sicché, ogni insegnante sa che il metodo porta con sé l’impronta della singolarità e della irripetibilità. In tal modo, la lezione può diventare anche “un’attività libera” e perciò “riscattata da ogni arbitrio”.
5. Concorrenza tra scuola pubblica statale e non statale Sebbene Balducci abbia sostenuto che “la divisione tra scuola statale e scuola privata riflette un’astuzia e un limite del diritto borghese”,37 è aumentata nelle famiglie il rapporto con la scuola, sia pubblica che privata, apprezzandone i servizi e le peculiarità, sia per i contenuti che per il metodo. Questo criterio aveva convinto le famiglie a ritenere che la modernizzazione del sistema scolastico esigeva il superamento dei confini tra clericalismo e cattolicesimo. Sturzo non si sottrasse a questo principio, accettò la sana emulazione tra le due tipologie scolastiche e definì la scuola cattolica “indipendente dalla Chiesa e, addirittura, [che] non avrebbe dovuto portare l’etichetta di ‘cattolico’”.38 Fu d’accordo con accettare la concorrenza: “La forza dei cattolici (antichi e nuovi), e lo spirito della vita pubblica basato sulla laicizzazione delle forme esterne per arrivare a scristianizzare le interne, non può assumere le guise di una lotta religiosa, di una contesa per la fede, di una guerra di religione: essa è e resta civile nella sua caratteristica e nella sua finalità immediata, e chi vuole operare in essa nella guisa presente, deve assumere questa posizione necessaria, imposta dalla natura dell’ambito di vita e delle caratteristiche del pensiero presente.[…] Così, cattolici o socialisti, liberali o anarchici, moderati o progressisti, tutti si mettono sul terreno comune della vita nazionale, e vi lottano con le armi moderne della propaganda, della stampa, dell’organizzazione, della scuola, delle amministrazioni, della politica”.39
Questo rapporto di “concorrenza-emulazione”, per lo più non si è realizzato concretamente. Sturzo, sebbene lo abbia richiesto, contrariamente a 37
E. BALDUCCI, Educazione come liberazione, Libreria Chiari, Firenze, 1999, p. 87. L. STURZO, I problemi della vita nazionale dei cattolici italiani, (discorso di Caltagirone, dic. 1905), cit. 39 L. STURZO, Dell’uso e dell’abuso della parola ‘cattolico’, in Idem, Ppi, II, Popolarismo e fascismo, Zanichelli, Bologna 1956 (I ed.), p. 188. 38
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quanto si creda, era così laico da ritenere insostenibile la “posizione dei vescovi e degli arcipreti, che direttamente si mettono a capo dei partiti cattolici municipali”. (Idem) Citò le dirette esperienze già avviate da lui e sostenne che era difficile dichiararsi cattolici superando la discussione sul confessionalismo delle leghe operaie e sulla loro qualifica di cattoliche. Citò l’esperienza della Confederazione italiana dei lavoratori che sorse nel 1918 (da lui sostenuta) “senza l’indicazione della professione religiosa, che non solo ostacolava allora il riconoscimento legale, ma che impegnava con quella parola la Chiesa verso una corrente sociale”.40 Al congresso di Agrigento (21-25 maggio 1911), egli disse che “la grande questione dell’alfabetizzazione delle masse avrebbe potuto compiersi con la condivisione sinergica dello Stato, dei partiti, degli enti locali e morali, e dei privati cittadini, senza pregiudiziali politiche”.41 L’opinione sui temi richiesti dai laicisti non era sufficiente a combattere l’analfabetismo delle masse né a richiamare gli alunni a scuola, forse sarebbe stato utile il richiamo ai valori patriottici: “Alla laicità della scuola si diede il significato di un’educazione patriottica e nazionale. Ora nessuno degli oratori, se conosce la nostra scuola popolare italiana, potrà dubitare che l’insegnamento elementare non sia eminentemente patriottico e nazionale. In questa educazione ci vorrebbe maggiore intensificazione per lo sviluppo del carattere e per creare il senso di vera italianità; il che non può avvenire, se i costumi politici non sono elevati; e se il maestro invece di essere costretto a fare il leghista o il camerista per l’aumento dello stipendio potesse fare esclusivamente l’educatore”.42
Restavano a Sturzo alcune perplessità sulla raggiunta capacità della scuola privata di educare e formare realmente gli alunni, anche perché alcune forze politiche si appropriarono della laicità come se fosse stato un loro valore. Lo storico Spadolini ha sottolineato la posizione politica del sacerdote di Caltagirone, che era derivata dalla “rielaborazione interiore dei valori della democrazia, per cui la libertà religiosa gli era apparsa inseparabile dalla libertà politica, e la libertà politica inscindibile da quella economica. […] Democratico sempre; e con un senso religioso della democrazia che si era purificato, che si era allargato al contatto col mondo protestante, che
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Echi del Congresso di Girgenti contro l’analfabetismo e la delinquenza, in “La Croce di Costantino”, a. XV, n. 19, 28 maggio 1911. 41 La scuola laica e l’avocazione allo Stato. Intervista al Sacerdote Don Sturzo, in “La Croce di Costantino”, 28 maggio 1910. 42 Idem.
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era assurto a una alta e severa concezione cristiana. […] E sempre fautore della laicità dei cattolici, della aconfessionalità del partito, della distinzione fra ‘azione cattolica’ e ‘azione di cattolici’: sempre riluttante e sempre ostile di fronte ai tentativi di mescolare Chiesa e Stato, di delegare all’una i compiti dell’altro, di ripiegare verso le anacronistiche, e pericolose, solusioni del ‘clericalismo’”.43
Anche Giolitti temette che la situazione politica del Paese potesse precipitare mettendo in crisi il governo ad opera del socialismo marxista e massimalista, per cui cominciò a tenere un comportamento meno intollerante verso i cattolici, tanto che al termine del dibattito sulla mozione parlamentare di Bissolati, che chiedeva la soppressione dell’insegnamento catechistico, chiese che venisse respinta prevedendo un possibile “compromesso” con i cattolici in un prossimo futuro: “Noi crediamo che l’ampia via della libertà sia quella che corrisponde ai sentimenti dell’immensa maggioranza degli Italiani, che più sinceramente conduce al vero progresso e alla prosperità del nostro Paese”.44 Il laicista Nicola Colajanni, basandosi sull’esperienza anglosassone, colse il diverso rapporto di collaborazione esistente tra le famiglie e la scuola, che si manifestava quando i figli sostenevano spese superiori alla loro dotazione. Ma in Italia “l’iniziativa privata manca: manca l’azione delle Società politiche ed operaie, o almeno quella delle Società operaie è ridotta a poca cosa. Abbiamo invero qualche associazione religiosa che si occupa della nostra istruzione primaria, ma questa associazione religiosa, invece di essere una coadiutrice dell’azione dello Stato, è un concorrente pericoloso per l’associazione religiosa alla quale accenno è precisamente il cattolicesimo nei vari suoi organi. Questo insegnamento cattolico è un concorrente per lo Stato, ed è pericoloso perché questo insegnamento attira alunni nelle proprie scuole facendo ciò che noi non facciamo, distribuendo cioè carta, libri, vestiti, alimenti”.45
Egli temeva la concorrenza tra scuola statale e scuola privata. Del resto, anche Sturzo ne temette il confronto. Durante la discussione al I congresso nazionale della FIDAE, Sturzo pubblicò l’articolo Per la libertà e per la Scuola, con il quale commentò il progetto di legge Daneo-Credaro, che aggravava “la soggezione della scuola al potere centrale e, in ultima analisi, a scristianizzare l’insegnamento popolare nelle crescenti generazioni”.
43. G. SPADOLINI, Il laico Sturzo, 9 agosto 1959, ora in Idem, Il Tevere più largo. Da porta Pia ad oggi, Longanesi, Milano 1970, pp. 179-180. 44 U. ALFASSIO GRIMALDI-G. BOZZETTI, Bissolati, Rizzoli, Milano 1983, p. 95. 45 N. COLAJANNI, La condizione meridionale. Scritti e discorsi, a c. di A.M. Cittadini Ciprì, Bibliopolis, Roma 1994, p. 458.
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Insorse “contro il duplice proposito di menomare ovunque la ormai già troppo ibrida libertà della scuola stessa e di toglierne la vigilanza e il governo ai Comuni”.46 Valutò la situazione finanziaria inadeguata a gestire le scuole comunali e accusò lo Stato di sfiduciare i Comuni sottraendo loro il settore della scuola che era di vitale importanza. C’erano tutti i motivi per fare insorgere il popolo in nome della “libertà della scuola, il rispetto dell’autonomia dei nostri Comuni [che] significano difesa e conservazione delle tradizioni civili, morali e religiose d’Italia”.47 Sturzo espose il pensiero cattolico sull’educazione presentando i punti essenziali: libertà e autonomia; funzione del singolo e della famiglia, specialmente della madre, nella formazione; l’aiuto dell’insegnante mirando al perfezionamento dell’educazione; il rapporto con la comunità e con le istituzioni locali, staccando la scuola dall’influenza del pensiero politico anticlericale; la diminuzione del potere della burocrazia della P.I.; il maggiore rilievo al corpo elettorale nei Comuni. Una critica particolare rivolse al ministro della P.I., che aveva risposto in modo saccente a chi si lamentava, dicendo: “Se lo Stato paga i Comuni, ha diritto di comandarli”. La risposta dimostrava la volontà di imporre il laicismo con una forte dose di autoritarismo. In questa protesta, Sturzo tre anni dopo ebbe il sostegno di Salvemini con un articolo, dove espose un parere critico sull’intervento statale. Salvemini osservò: “La libertà d’insegnamento è il diritto che i privati hanno di creare scuole libere, in concorrenza o ad esclusione delle scuole dello Stato, e di insegnarvi le teorie che essi credono vere, senza alcuna ingerenza dello Stato”.48 Sturzo, che non aveva mai chiesto sussidi allo Stato, ma soltanto libertà e autonomia operativa, ritenne anche che le due tipologie di scuola avrebbero potuto convivere con una gara di concorrenza leale e stimolante. Per confermare la sua apertura alla scuola pubblica, al pari di Salvemini osservò che gli esami di Stato non avrebbero potuto essere tenuti in una scuola privata. Per Sturzo vi erano state tre cause che avevano portato l’Italia verso un monopolio statale nel campo scolastico: “la prima politica: fronteggiare la Chiesa, ritenuta come un ostacolo alla formazione dello Stato italiano e all’attuazione dei principi liberali e unitari a cui lo Stato si stava informando; la seconda tecnica: formare un corpo insegnante e attuare un
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L. STURZO, Per la libertà e per la scuola, in “La Croce di Costantino”, a. XIV, n. 23, 26 giugno 1910. 47 G. SALVEMINI, La libertà d’insegnamento, in “l’Unità”, 28 febbraio 1913. 48 L. STURZO, La libertà della scuola, pubblicato in “Sophia”, luglio 1947, e “Idea”, n.7, luglio 1947; ora in Scritti storico-politici(1926-1949), in Opera omnia, III serie, vol. V, Ed. Cinque Lune, Roma 1984, p. 213-223.
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metodo e un’attrezzatura scolastica superiore per numero e qualità di quella che esisteva alla unificazione o che potesse allora offrire l’iniziativa privata in gran parte in mano ecclesiastica; la terza finanziaria: perché l’unico che avesse mezzi disponibili per diffondere l’insegnamento, riformare i metodi e creare nuovi istituti adatti alle esigenze moderna, era lo Stato, sia per se stesso sia a mezzo degli enti locali, Municipi e Province”.49
Sturzo elencò le difficoltà che alcuni articoli della Costituzione avevano creato ai religiosi che insegnavano nella scuola privata, generalmente composta da scuole secondarie di secondo grado, oltre che di primo grado. Egli mantenne la serenità del suo giudizio quando affermò che occorreva “ridare alla scuola di Stato una effettiva libertà”, in quanto “in Italia non solo non è libera la scuola in genere, ma neppure è libera la scuola che dipende dallo Stato. Questa è burocratizzata, dalla elementare alla media e sotto molti aspetti anche alla universitaria”.50
Sottolineando gli adempimenti previsti dall’istituzione scolastica sino alla conclusione del ciclo, rilevava l’assurda volontà burocratica per cui “non [c’era] alcun momento della scuola che non [fosse] regolato dall’alto, uniformizzato, mortificato”. Aveva tracciato una forte critica dello statalismo nella scuola secondaria “con l’introduzione balorda dell’esame di Stato”, che non avrebbe avuto “ragion d’essere e disturba i corsi scolastici, toglie autorità agli insegnanti e rende gioiosa, piena di entusiasmi giovanili, sviluppata in un ambiente adatto, con insegnanti impegnati alla nobile funzione di educatori, [che] non può germogliare nell’atmosfera pesante creata dal monopolio burocratico statale”.51 Spinto a rendere meno aspro il confronto con le due tipologie di scuole, sostenne che se “la prima a divenire libera deve essere la scuola di Stato, allora anche l’altra sostenuta da enti e da privati diverrà libera”. Ma sostenne anche la mancanza di libertà e l’insufficienza delle risorse finanziarie (libertà e mezzi). Nel secondo dopoguerra criticò la nuova situazione che vedeva la scuola “soffocata dai certificati e titoli di Stato, che accompagnano lo studente dai primi passi della scuola elementare fino alla laurea: quasi venti anni di una catena che non si può
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L. STURZO, Idem. L. STURZO, Idem. Cfr. anche L. STURZO, Difesa della scuola libera, a c. di D. Antiseri, Città Nuova, Roma 1995. 51 L. STURZO, Ibidem. L. STURZO, Scuola e diplomi, in “L’Illustrazione italiana”, 12 febbraio 1950; ora in L. STURZO, Politica di questi anni (1950-1951), in Opera Omnia, serie II, vol. XII, Zanichelli, Bologna, 1957, p. 65 ed. Città Nuova, cit.. Sturzo rispose con una lettera alla nota del direttore il 21 febbraio 1950, apparsa sulla rivista il 5 marzo 1950. 50
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spezzare”.52 Per Sturzo ogni scuola superiore doveva essere abilitata a rilasciare i diplomi in nome della sua autorevolezza e preparazione, pur sapendo che ciò avrebbe tolto allo Stato il monopolio della scuola. Per prevenire alcune riserve critiche, aggiunse: “L’intolleranza scolastica dei laicisti è sostanziata dalla presunzione che essi difendono la libertà; mentre la libertà non è monopolio di nessuno. Il monopolio scolastico dello Stato è sostanziato da una presunzione, che solo lo Stato sia capace di creare una scuola degna del nome; mentre non è riuscito che a burocratizzarla e fossilizzarla”.53
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Ibidem. L. STURZO, Il sofisma della libertà d’insegnamento, in “La Via”, 23 settembre 1950, ora in L. STURZO, Politica di questi anni, in Opera omnia, cit., pp. 224. 53 L. STURZO, Ibidem.
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Rivista Lasalliana 82 (2015) 1, 121-132
IL PRIMO SUPERIORE DELL’ISTITUTO DEI FRATELLI DELLE SCUOLE CRISTIANE: FRATEL BARTHÉLEMY (1717-1720)* MAGALI DEVIF, PHILIPPE MOULIS E F. FRANCIS RICOUSSE1
SOMMARIO: 1. Da Sains-les Marquion a Parigi (1678-1705). - 2. Un incarico a parte in seno all’Istituto (1705-1717). - 2.1. Il maestro dei novizi di Saint-Yon (1705-1709). - 2.2. Il fedele collaboratore del Fondatore (1709-1714). - 2.3. La divisione di compiti (1714-1717). - 3. Il primo Superiore (1717-1720). - 3.1. Le fondazioni. - 3.2. Una fedeltà indefettibile a Roma.
N
ell’Assemblea del maggio 1717, Fratel Barthélemy è eletto Superiore dell’Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane. Vari sono gli studi a lui dedicati,2 tuttavia, nell’insieme, la vicenda del primo Superiore dell’Istituto rimane poco nota.
1. Da Sains-les Marquion a Parigi (1678-1705) Originario del nord della Francia, Joseph Truffet e suo fratello gemello nascono l’11 febbraio 1678 a Sains-les-Marquion, parrocchia della diocesi di Cambrai.3 Il padre, Grégoire, è maestro. Dopo gli studi al collegio dei Gesuiti di Douai, Joseph tenta, invano, di entrare alla Trappa, poi presso i canonici regolari. Parte per Parigi il 10 febbraio 1703 ed è accolto alla Grand Mai* Traduzione dalla lingua francese di Domenico Anzini, FSC. 1 Magali Devif, Direttore degli Archivi lasalliani a Lione, Philippe Moulis, Università di Parigi 13, Sorbona, Parigi Città, Pléiade-CRESC (E. A. 2536) e F. Francis Ricousse, Direttore degli Archivi dei Fratelli delle Scuole Cristiane a Roma. 2 Riportiamo in ordine cronologico: Vie du Frère Barthélémy, premier Supérieur général de l’Institut des Frères des Écoles chrétiennes, d’après la notice publiée par Blain (1733); 4e édition, Paris, Procure générale, 1933; GEORGES RIGAULT, Histoire générale de l’Institut des Frères des Écoles chrétiennes, Paris, Plon, 1937; t. II pp. 3-40; HENRI BEDEL, Initiation à l’histoire de l’Institut des Frères des Écoles chrétiennes. Origines: 1651-1726, Rome, F.E.C., 1995 e AUGUSTINE LOES, Les premiers Frères de Jean-Baptiste de La Salle, 1681-1719, tradotto in francese da Fratel Jean-Louis Schneider, Lasallian Publications, Christian Brothers Conference, Landover, Maryland, 1999, pp. 173-207. Per un esame storiografico del problema, vedi JEAN-LUOIS SCHNEIDER, in A. LOES, op. cit., pp. 5-6. 3 Archivi dipartimentali di Passo di Calais: 5 MIR 739/1. E. MERCIER e G. DOMISEPAGNEN, Dictionnaire des familles des Sains-Lès-Marquion, Gruppo di genealogisti amatoriali del Cambrésis, n° 22, 2009.
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M. Devif, P. Moulis e F.F. Ricousse
son, noviziato dei Fratelli delle Scuole Cristiane, in via di Vaugirard, e qui riceve il nome di Fratel Barthélemy. Dopo il noviziato è inviato a Chartres4 dove, nell’ottobre del 1699, i Fratelli aprono tre scuole su richiesta di Monsignor Godet des Marais, vescovo di Chartres, che ha conosciuto Giovanni Battista de La Salle al seminario di Saint-Sulpice. A causa di problemi fisici Fratel Barthélemy non può insegnare, per questo gli sono affidati i novizi di Parigi. Giovanni Battista de La Salle, il 7 giugno 1705, gli consente di pronunciare i voti perpetui di obbedienza e stabilità e, alla fine di agosto, gli affida il noviziato, trasferitosi a Saint-Yon.5
2. Un incarico a parte in seno all’Istituto (1705-1717) Il noviziato dei Fratelli, che si trovava a Parigi, nel 1705 viene trasferito a Rouen, nel sobborgo Saint-Sever, presso la proprietà di Saint-Yon, da poco presa in affitto dal de La Salle. Il noviziato vi rimane fino al 1709, allorché viene trasferito prima a Parigi e poi nuovamente a Saint-Yon, nel 1715, a causa dell’alto costo della vita parigina. Qui rimane fino alla Rivoluzione. 2.1. – Il maestro dei novizi di Saint-Yon (1705-1709) Appena due anni dopo il suo ingresso al noviziato, a Fratel Barthélemy è affidata la formazione dei novizi. Nel 1705, anno di inizio della sua attività, ne entrano circa una dozzina6 e oscilleranno tra uno e quattordici nel periodo in cui vi svolgerà tale compito. Che venisse scelto Fratel Barthélemy quale maestro dei novizi può sembrare un po’ strano: il suo ingresso nella Società è abbastanza recente, pertanto ha avuto poco tempo per sperimentare la sua vocazione e conoscere gli ingranaggi dell’Istituto. Probabilmente i suoi studi, le precedenti esperienze e, forse, la spiccata personalità, hanno indotto Giovanni Battista ad operare tale scelta. Fratel Barthélemy sembra corrispondere alle attese del Fondatore, anche se gli vengono rivolte alcune osservazioni; effettivamente, chi riveste questa funzione deve essere di esempio per i novizi e viene rimarcata ogni sua più piccola mancanza. In una lettera a lui indirizzata, Giovanni Battista de La Salle scrive: “Ho notato, mentre ero a Saint-Yon, che lei cammina con le braccia penzoloni e in modo troppo svagato. È un atteggiamento, questo, che non si addice
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È il periodo in cui i Fratelli sono presenti in varie città: Avignone, Calais, Chartres, Darnétal, Dijon, Guise, Laon, Paris, Reims Rethel, Rouen, Troyes, e probabilmente a Brest e Roma, A. LOES, op. cit., p. 175. 5 A. LOES, op. cit., p. 173. 6 A. LOES, op. cit., pp. 114-115, prospetto dei Fratelli entrati tra il 1701 e il 1705.
Il primo superiore dell’Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane: Fratel Barthélemy (1717-1720)
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a un maestro dei novizi che dovrebbe essere, in ogni sua azione, il loro modello. Cerchi di camminare posatamente, con le braccia conserte e richieda lo stesso comportamento ai suoi novizi”.7 2.2. – Il fedele collaboratore del Fondatore (1709-1714) Ritornato a Parigi con i novizi durante l’inverno del 1709, vi sostituisce Giovanni Battista de La Salle. Una epidemia di scorbuto colpisce la comunità e Fratel Barthélemy si occupa di curare i malati prima di diventarne lui stesso vittima.8 Dopo qualche giorno di letto, appena rimessosi, viene a conoscenza della morte del padre dalla madre, che gli indirizza una lettera nella quale lo prega di prendere il posto di maestro divenuto vacante: “Mio caro figlio, Una lettera di vostro fratello vi ha annunciato la morte di vostro padre e la vostra sensibilità si è preoccupata di rivolgerci parole di consolazione; le rileggo spesso e vi ringrazio. Oggi, vi chiedo qualcosa di più. Sono venuti a trovarmi gli Scabini per offrirvi il lavoro di maestro del vostro defunto padre, la vostra presenza impedirà che vostra madre muoia di dolore e il vostro futuro sarà sicuro. Arrivederci, caro figlio, conto su di voi. Considerate anche che sarò sconsolata di dover seguire vostro fratello che per il suo lavoro dovrà stabilirsi fuori di Sains. Vi abbraccio teneramente. Vostra madre Joséphine Truffet Sains, 17 marzo 1710”.9 Diversi Fratelli ed anche il medico gli consigliano di abbandonare l’Istituto ma il Fondatore lo dissuade. Il 30 aprile, Fratel Barthélemy risponde a sua madre: “ […] La mia vocazione viene da Dio, avete potuto persuadervi voi stessa. Consentendomi di seguirla, mio padre ha rinunciato alla speranza di avere un successore; dimenticò il suo dolore per lasciarmi seguire la voce che mi chiamava nell’Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane. Non vorrete, cara madre, che ritornando sul sacrificio che ho fatto, rinunci a questa santa vocazione rendendomi indegno dei doni che Dio mi ha concesso.
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F. FÉLIX-PAUL, op. cit., Lettere 2, p. 18. A. LOES, op. cit., p. 176. 9 Vie du Frère Barthélemy, premier Superieur général de l’Institut des Frèrese des Écoles chrétiennes, d’après la notice plubliée par Blain (1733). 4e edition, Paris, Procure générale, 1933, p. 52. 8
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M. Devif, P. Moulis e F.F. Ricousse
Tuttavia questo buon Maestro ha voluto assicurarsi della mia fedeltà. Mi ha inviato una duplice prova che ha tenuto in sospeso la mia perseveranza. Mi ha colpito una malattia, secondo i medici contagiosa e derivante dal sangue malato, che mi ha quasi ridotto alla paralisi per diversi mesi. Si è temuto, anche dopo la mia guarigione, che io sarei stato a carico di una nascente Comunità trasmettendole il mio male, diminuendola maggiormente. Intuivo l’inquietudine che il mio stato provocava nell’ambiente, e scusavo l’imbarazzo che i miei confratelli mostravano nelle relazioni con me. Il Consiglio dei Fratelli più anziani, aveva preso una decisione nei miei riguardi; riconosco che era assennata, e lo sottoscrivo, spinto dalla saggezza di questa decisione, anche se nel fondo del cuore mi dispiaceva. Ero invitato a cogliere l’occasione che mi veniva offerta dai Signori scabini di Sains, e mi spingevano a prendere la successione del defunto mio padre, temendo che presto l’avrebbe presa un altro. All’ultimo istante, il Signor de La Salle, nostro Maestro, dopo aver molto pregato, non è stato di questo parere; al contrario, ha voluto che io restassi e formalmente si è opposto alla mia partenza. È una decisione che corrisponde al mio più grande desiderio, la considero come un ordine di Dio, i miei confratelli hanno tutti approvato religiosamente, senza la minima osservazione”.10 Giovanni Battista de La Salle continua a dedicarsi alla formazione del suo protetto. Nel 1711, quando parte per visitare le comunità del Mezzogiorno, affida temporaneamente al direttore dei novizi la gestione e l’amministrazione dell’Istituto. Forte di questa esperienza, Fratel Barthélemy svolge nuovamente questo compito dal febbraio 1712 all’agosto 1714, anche se nell’Istituto non c’è alcun documento del Fondatore che renda ufficiale questa delega di autorità. L’amministratore delegato è chiamato a gestire, a Parigi, diversi contrasti con il clero locale e i Sulpiziani.11 In effetti il Signor de la Chétardye non aveva rinunziato a tenere i Fratelli sotto la sua autorità e, poiché il Signor de La Salle era uscito indebolito dal processo e si era allontanato da Parigi, non si frapponevano più ostacoli all’attuazione del suo piano: trasformare i Fratelli in una comunità parrocchiale incaricata delle “sue scuole”. Ma i Fratelli di Parigi, insieme a quelli di Saint-Denis e di Versailles, intuiscono questo disegno e si uniscono per richiamare al suo compito di governo il Signor de La Salle, ritiratosi intanto a Grenoble.
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Vie du Frère Barthélemy, op. cit., pp. 178-179. Vedi A. LOES, op. cit., pp. 179-183.
Il primo superiore dell’Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane: Fratel Barthélemy (1717-1720)
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2.3. – La divisione di compiti (1714-1717) Quando il Fondatore ritorna a Parigi, nel mese di agosto 1714, si procede ad una condivisione di compiti: Fratel Barthélemy viene incaricato degli impegni comuni e Giovanni Battista de La Salle si dedica all’esercizio delle sue funzioni sacerdotali verso i Fratelli.12 Nel mese di novembre 1715 lascia Parigi per Saint-Yon. Nel 1716 si reca a Calais, Boulogne e progetta una fondazione nella città si Saint-Omer. In dicembre, durante una riunione preparatoria dei Fratelli di Saint-Yon e della comunità di Rouen, si decide di ottenere il consenso di tutti i Fratelli dell’Istituto per scegliere il primo Superiore.13 Il Fondatore, molto favorevole a questa idea, incoraggia Fratel Barthélemy ad accettare il compito di recarsi in tutte le comunità della Francia per raccogliere le adesioni al prossimo Capitolo Generale: “Noi sottoscritti, Fratelli delle Scuole cristiane, riuniti nella casa di SaintYon, per provvedere alle cose più urgenti che riguardano il bene del nostro Istituto, notando che, da più di un anno, il Signor de La Salle, nostro Istitutore, per le sue infermità, non ha più la forza di badarvi, abbiamo considerato bene e ritenuto necessario che Fratel Barthélemy, ormai da vari anni delegato alla guida della nostra Società, visiti tutte le case che ne fanno parte per conoscerne le realtà e come sono dirette, affinché in seguito si possano studiare, con i principali Fratelli, i mezzi per conservare tra noi l’unione e la fraternità, nonché per stabilire e definire la nostra situazione, stilando, nello stesso tempo, un regolamento generale del nostro Istituto in un’assemblea che si terrà nella casa di Saint-Yon dalla festa dell’Ascensione fino a Pentecoste. In fede abbiamo firmato. Fatto a Saint-Yon il 4 dicembre 1766. (Firmato:) Fratel François, Fratel Dosithée, Fratel Charles, Fratel Ambroise, Fratel Étienne. Ritengo giusto quanto i Fratelli hanno stabilito. (Firmato:) de La Salle. Noi, superiore delle Scuole cristiane, nominato da Monsignore l’arcivescovo di Rouen, permettiamo a Fratel Barthélemy di assentarsi per qualche mese, per fare ciò che il Signor de La Salle e i Fratelli hanno ritenuto necessario, e anche noi lo approviamo. (Firmato:) J.-B. Blain”.14 Il 5 dicembre 1716 parte da Rouen e fino al 7 maggio 1717 visita tutte le case dell’Istituto. All’epoca vi sono 98 Fratelli in 22 comunità visitate da Fra-
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H. BEDEL, Initiation à l’histoire de l’Institut des Frères des Écoles chrétiennes. Origines: 16511726, Roma, F.E.C., 1995, p. 153. 13 H. BEDEL, op. cit., p. 155. 14 F. LUCARD, Vie du vénérable Jean-Baptiste de La Salle, Procure Générale, Paris, 1873, t. 2, pp. 162-163 e A. LOES, op. cit., p. 77.
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tel Barthélemy.15 Ad ogni Fratello fa firmare l’adesione agli atti del prossimo Capitolo. Ecco il dettaglio del suo viaggio: 1. Chartres (7-9 dicembre 1716), comunità di 4 Fratelli 2. Moulins (15-16 dicembre 1716), comunità di 2 Fratelli 3. Mende (24-27 dicembre 1716), comunità di 2 Fratelli 4. Les Vans (29-31 dicembre 1716), comunità di 2 Fratelli 5. Alais (2-7 gennaio 1717), comunità di 4 Fratelli 6. Avignone (8-10 gennaio 1717), comunità di 4 Fratelli 7. Marsiglia (15-16 gennaio 1717), comunità di 2 Fratelli 8. Grenoble (24-26 gennaio 1717), comunità di 4 Fratelli 9. Dijon (3-8 febbraio 1717), comunità di 2 Fratelli 10. Troyes (15-17 febbraio 1717), comunità di 2 Fratelli 11. Rethel (21-23 febbraio 1717), comunità di 4 Fratelli 12. Reims (25-28 febbraio 1717), comunità di 9 Fratelli 13. Laon (2-4 marzo 1717), comunità di 5 Fratelli 14. Guise (marzo 1717), comunità di 3 Fratelli 15. Calais (16-18 marzo 1717), comunità di 6 Fratelli 16. Boulogne (18-21 marzo 1717), comunità di 6 Fratelli 17. Rouen, scuole della città (27 marzo 1717), comunità di 10 Fratelli 18. Darnétal (2 aprile 1717), comunità di 2 Fratelli 19. Versailles (16 aprile 1717), comunità di 4 Fratelli 20. Saint-Denis (18 aprile 1717), comunità di 2 Fratelli 21. Parigi (20-25 aprile 1717), comunità di 11 Fratelli 22. Rouen, Saint-Yon (7 maggio 1717), comunità di 9 Fratelli.16 A conclusione della sua visita, Fratel Barthélemy ha conosciuto tutti i Direttori e tutti i Fratelli, acquisendo una solida esperienza della gestione amministrativa dell’Istituto: tutto è ormai pronto per l’elezione del primo Superiore del Fratelli delle Scuole cristiane.
3. Il primo Superiore (1717-1720) Il 16 maggio 1717, sedici Fratelli Direttori si riuniscono a Saint-Yon e, due giorni dopo, eleggono Fratel Barthélemy primo Superiore generale. Dietro sua richiesta è aiutato da due Assistenti, Fratel Jean, che risiede a Parigi, e Fratel Joseph, della comunità di Reims. Il nuovo Superiore decide
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A. LOES, op. cit., p. 59. Vedi Vie du Frère Barthélemy, premier Superieur général de l’Istitut des Frères des Écoles chrétiennes, d’après la notice publiée par Blain (1733), 4e edizione, Pars, Procure générale, 1933, pp. 106-116. 16
Il primo superiore dell’Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane: Fratel Barthélemy (1717-1720)
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di visitare tutte le case dell’Istituto e far ratificare la sua elezione dalla totalità dei Fratelli. Fratel Barthélemy, ufficialmente ancora maestro dei novizi di Saint-Yon, è costretto a frequenti soggiorni a Parigi: l’11 novembre 1717, e, ancora nei mesi di gennaio, febbraio e marzo del 1718.17 Quando, agli inizi di marzo, il Fondatore giunge a Saint-Yon, trova un noviziato disorganizzato e immediatamente, con una lettera, presenta vive rimostranze al Superiore: “Vi prego, cercate di porre rimedio a tutto questo e al più presto, perché sapete bene che la crescita di un Istituto dipende da novizi ben formati e regolari”.18 Scrive F. Augustine Loes: “Fratel Barthélemy fu, nello stesso tempo, fine e intelligente diplomatico per trattare con i vescovi, i cui modi di agire e la politica non sempre erano conformi all’insegnamento che Giovanni Battista de La Salle aveva dato ai Fratelli”.19 Il Superiore si circonda di un gruppetto di Fratelli che lo aiutano nell’amministrazione dell’Istituto; e sotto il suo superiorato vengono scritte le Regole comuni dei Fratelli delle Scuole Cristiane, siglate da Fratel Barthélemy dopo una minuziosa revisione da parte del Signor de La Salle e, quindi, inviate a tutte la comunità. Il testo riprende quello del 1705 e include la Pratica del Regolamento giornaliero.20 Il Fratello Superiore affida anche ad alcuni Fratelli il compito di terminare la revisione della Guida delle Scuole Cristiane. È in questo periodo che i Fratelli acquistano la casa di Saint-Yon. Morto il marchese di Louvois nel dicembre 1715, gli eredi notificano loro, nel mese di gennaio 1718, l’intenzione di vendere la proprietà di SaintYon e i Fratelli si propongono di acquistarla: “L’8 marzo 1718, l’atto di acquisto di Saint-Yon è firmato da Joseph Truffet, detto Fratel Barthélemy, Superiore Generale, e Charles Frappet, detto Fratel Thomas, procuratore, in nome di tutti i loro confratelli. Questa bella e grande proprietà fu acquistata per quindicimila lire.”21. In quel momento era l’unica posseduta dai Fratelli. Il 7 aprile 1719 muore Giovanni Battista de La Salle. I Fratelli proseguono l’opera del loro fondatore e il Fratello Superiore, nel suo breve mandato, cercherà di seguire la stessa linea di condotta del de La Salle, tentando di
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F. FÉLIX-PAUL, op. cit. p. 23. F. FÉLIX-PAUL, op. cit. Lettera 4, pp. 24-25. 19 A. LOES, Les premiers frères de Jean-Baptiste de La Salle, 1681-1719, tradotto in francese da F. Jean-Louis Schneider, Lasallian Publications, Christian Brothers Conference, Landover, Maryland, 1999, p. 19. 20 H. BEDEL, op. cit., pp. 157-159. 21 Canonico FARCY, Le Manoir de Saint-Yon au Faubourg Saint-Sever de Rouen, Rouen, Edizioni Henri Defontaine, 1936, pp. 45-46. 18
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conservare l’Istituto, favorirne lo sviluppo e (nella sua ben nota cortesia) non esitando a spostare con decisione qualche Fratello da una comunità all’altra, in caso di necessità. Nel 1720, scrive al direttore di Calais: “Per recarsi alla santa Messa con gli alunni, non bisogna dare ascolto a Fratel Hilarion. Se voi ritenete che questo Fratello non possa assolutamente rimanere a Calais fino alle vacanze, sarà necessario cambiarlo con un Fratello di Boulogne, probabilmente Fratel Tite, il più saggio dei giovani: insegna in modo affascinante. Ciò dispiacerà ai nostri Fratelli, ma non c’è altro da fare. Scriverò al nostro caro Fratel Rigobert; se non ci sono troppe difficoltà, farà subito la cosa. In questo caso, vi chiedo di accogliere [Fratel Tite] al posto di Fratel Hilarion che, fino a nuovo ordine, andrà a Boulogne, al posto di Fratel Tite con una obbedienza che gli darete da parte nostra. A Boulogne si vedrà dove sistemare Fratel Hilarion”.22 3.1. – Le fondazioni L’8 novembre 1717, al momento del suo passaggio a Parigi, viene accettata un’altra scuola per i Fratelli nelle vicinanze degli Invalides23. “Nel mese di novembre 1717, lui stesso aveva sistemato Fratel Jean nella casa del sobborgo Saint-Germain. Vi ritorna nel 1718 e il documento che conferma il suo passaggio è firmato alla data del 21 luglio […]. La prima di queste due visite era coincisa con l’apertura di una nuova scuola vicino agli Invalides, per la quale Fratel Barthélemy aveva inviato due Fratelli da SaintYon. Dopo quella di Vans, dal 1711 non c’erano state altre fondazioni”.24 Ancora vivente Giovanni Battista de La Salle, il Signor di Valbelle si augurava l’insediamento dei Fratelli nella città di Saint-Omer. L’apertura della scuola nella città avviene il 16 ottobre 1720. Per accelerare le cose, su richiesta del vescovo, il primo Superiore Generale si reca a Saint-Omer e il 29 luglio, dinanzi a due notai, viene redatto l’atto autentico dell’insediamento dei Fratelli nella città. Eccone il contenuto: “Dinanzi ai notai reali d’Artois residenti a Saint-Omer, firmatari, erano presenti: da una parte l’illustrissimo e reverendissimo signore, Monsignor François de Valbelle de Tourves, visconte di Marsiglia, consigliere del re, maestro del suo oratorio, vescovo di Saint-Omer; dall’altra, Joseph Truffet, detto Fratel Barthélemy, Superiore Generale dei Fratelli delle Scuole Cristiane, che ordinariamente risiede a Rouen, presente in questa città; il 22
A. LOES, op. cit., p. 150: G. RIGAULT, op. cit., I, p. 408. H. BEDEL, op. cit., p. 156. 24 Georges RIGAULT, op. cit., t. II, p. 12. 23
Il primo superiore dell’Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane: Fratel Barthélemy (1717-1720)
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signor vescovo si obbliga di consegnare al detto Fratel Barthélemy una copia della deliberazione del Magistrato di Saint-Omer, del 2 luglio, con la quale si impegna a pagare ottocento lire ogni anno per il mantenimento di quattro Fratelli di scuola; Fratel Barthélemy si impegna, sia in prima persona che tramite i suoi successori, ad inviare a Saint-Omer Fratelli per insegnare gratuitamente ai giovani di questa città, in due scuole distinte, una presso la cattedrale, l’altra nel cimitero di Sainte-Marguerite, quando sarà completata la casa che la suddetta città sta iniziando a costruire; inoltre, il signor vescovo promette e si impegna, a causa del suo zelo per l’istruzione della gioventù di questa città, a versare alla città seimila lire correnti e ai Fratelli il mobilio per le loro necessità. Fratel Barthélemy si impegna, inoltre, nell’eventualità che qualche Fratello non faccia al caso del signore o dei suoi successori, ad inviarne altri al loro posto per fare quanto sopra: il signor vescovo e fratel Barthélemy hanno promesso di non fare nulla di diverso. Fatto e stipulato… firmato François vescovo di Saint-Omer, Joseph Truffet, detto Fratel Barthélemy, Superiore dei Fratelli delle Scuole Cristiane”. L’anno seguente la casa è costruita e pronta ad accogliere maestri ed alunni. I quattro Fratelli giunsero il 16 ottobre: erano Fr. Bernardin, il superiore, Fr. Clément, Fr. Jyacinthe e Fr. Zozime25. 3.2. – Una fedeltà indefettibile a Roma Dal 1702 al 1728, Fratel Gabriel Drolin risiede a Roma,26 dove incontra vari preti antigiansenisti. Nei suoi primi sedici anni di permanenza a Roma, fino alla morte di Giovanni Battista de La Salle, intensa risulta la corrispondenza tra Fratel Gabriel e il Fondatore che, Il 5 dicembre 1716, gli scrive: “I fatti di Monsignor arcivescovo di Parigi, sono fonte di agitazione tra i vescovi. Non so cosa se ne pensi a Roma.”27 Quando il Signor Caron, decano di Calais e canonico della cattedrale, fa circolare una falsa informazione riguardante Giovanni Battista de La Salle, dichiarando che è uno degli appellanti al concilio generale contro la decisione del Papa che condanna la dottrina gianseniste di Quesnel (una confusione tra Giovanni Battista de La Salle e suo fratello Jean-Louis, canonico a
25
O. BLED, Les Frères des Écoles chrétiennes à Saint-Omer, 1719-1906, Saint-Omer, tipografia H. d’Homont 1906, pp. 7-9. 26 Fr. Drolin si è occupato dell’apertura della scuola di Calais, diocesi di Boulogne, nel 1700. 27 A. LOES, op. cit., p. 52.
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Reims), Giovanni Battista de La Salle è costretto a scrivere a Fratel Norbert, il 28 gennaio 1719, che egli è completamente unito al Papa e alle decisioni della Santa Sede.28 Intanto, mentre tutti i Fratelli si oppongono ai vescovi giansenisti e confermano la propria fedeltà al Papa,29 in una lettera del 1719 il Superiore scrive: “Il nostro caro Padre ha scritto diverse lettere in favore della costituzione del Santo Padre Clemente XI che hanno fatto molto bene”,30 opponendosi anch’egli fermamente ai prelati giansenisti e difendendo i Fratelli che risiedono nelle loro diocesi. In una lettera a Fratel Gabriel Drolin, datata 13 aprile 1719, il Superiore lo informa della morte del Fondatore e si fa un dovere di “inviargli il primo articolo del testamento del nostro caro Padre che riguarda tutti i Fratelli della nostra Società quale ultima direttiva ed ordine che ci ha lasciato”.31 Giovanni Battista de La Salle chiede loro “di non separarsi in nulla dal nostro Santo Padre e dalla Chiesa di Roma [e di] adempiere il loro lavoro con zelo e disinteresse e di avere tra loro un’intima unione ed una obbedienza cieca nei confronti dei Superiori; è questo il fondamento e il sostegno di ogni perfezione in una comunità”.32 Il vescovo di Boulogne, molto scontento dei Fratelli, scrive al Superiore Generale per lamentarsi della “loro grettezza d’animo”, minacciando di sostituirli con altri maestri “più sottomessi e remissivi”.33 Il Superiore risponde al prelato: “Monsignore, ho ricevuto la lettera che vostra Grandezza ha avuto la grazia di inviarmi, con la quale mi comunica di essere oltremodo scontento dei nostri Fratelli di Calais e di Boulogne e di aver dato disposizioni che siano allontanati dalle loro funzioni di insegnamento; questo mi affligge grandemente, considerato che ho cercato di eseguire gli ordini che ha gradito darmi per il cambiamento di diversi subordinati, proibendo, inoltre, loro di comunicare con S. N. e di immischiarsi in alcun modo in questioni di Chiesa, che riguardano soltanto i Vescovi nostri signori e i Superiori eccle-
28
A. LOES, op. cit., pp. 96-97. Vedi: M. DEVIF, F. A. HOURY e Ph. MOULIS, La Bulle Unigenitus et l’Institut des Frères des Écoles chrétiennes dans le Nord de la France. Les Relations houleuses entre Jean-Baptiste de La Salle, les Frères de Boulogne et de Calais et M.gr Pierre de Langle de 1713 à 1724, in Rivista Lasalliana, n° 81-1, Roma, 2014, pp. 91-110. 30 F. FÉLIX-PAUL, op. cit., Lettre 32 b, p. 178. 31 F. FÉLIX-PAUL, op. cit., Lettre 32 b, p. 177. 32 F. FÉLIX-PAUL, op. cit., Lettre 32 b, p. 178. 33 Cronistoria dattilografata “Les Frères des Écoles chrétiennes à Calais”, senza data. Archivi lasalliani, Lione. 29
Il primo superiore dell’Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane: Fratel Barthélemy (1717-1720)
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siastici; e questo lo ha anche lungamente raccomandato il Signor de La Salle, nostro Istitutore di felice memoria. Tuttavia i nostri Fratelli di Calais e di Boulogne mi hanno fatto notare che assolutamente non avevano fatto quello di cui li accusavano degli spiriti prevenuti, e che coloro che avevano riferito al vostro Gran Vicario che essi avevano mancato di rispetto nei riguardi di vostra Grandezza e vari altri ecclesiastici, avevano avanzato vere calunnie. Per questo, Monsignore, vi supplico umilmente di mostrare ancora indulgenza verso i nostri Fratelli della vostra diocesi che potrebbero aver mancato in qualcosa al loro dovere verso vostra Grandezza. Cercheremo di fare in modo che vi rendano contento della loro condotta. Ho l’onore di essere con grandissima riconoscenza e profondissimo rispetto, Monsignore, di vostra Grandezza, l’umilissimo, ecc.34 I Fratelli delle Scuole Cristiane rifiutano ogni compromesso con i giansenisti. In una lettera datata maggio 1720 e inviata a Fratel Anastase35, Direttore di Calais, Fratel Barthélemy si oppone vivamente alle insinuazioni di Fratel Romuald:36 Ha fatto intendere che propendessi per gli appellanti, e questa è una falsità e una ingiustizia. […] Non accetto che mi si rimproveri qualcosa a questo riguardo. Tuttavia non mi ritengo costretto di parlare o gridare a torto o a sproposito o di fare clamore, come invece ha fatto Fratel Romuald, immischiandosi col fare catechismo su un argomento di attualità, ecc. e questo non conviene ad alcun Fratello della nostra Società. Bisogna che imparino a tacere invece di entrare in dettagli che esulano dalla nostra competenza.37 Di salute fragile e affaticato per i viaggi nelle comunità, il primo Superiore Generale dell’Istituto muore a Saint-Yon l’8 giugno 1720. È sepolto nella Chiesa di Saint-Sever, vicino al corpo del Fondatore dell’Istituto, Giovanni Battista de La Salle. Questo è l’atto di sepoltura di Fratel Barthélemy38. 34
(BLAIN), Abrégé de la vie du Frère Barthelemi…, op. cit., p. 33. Fr. Atanase (Antoine Paradis) - (1689-1774) entrato nell’Istituto nel mese di luglio 1709. Nel marzo 1717, fa parte della comunità di Boulogne; in novembre di quella di Parigi. A. LOES, op. cit., p. 137. 36 Fr. Romuald (François Le Roux). 37 G. RIGAULT, Histroire générale de l’Institut des Frères del Écoles chrétiennes, Paris, Plon, 1937, t. II p. 27. 38 Archivi del dipartimento Seine-Maritime, 3E 00999:Atti del registro parrocchiale di Rouen, parrocchia Saint-Sever, anni 1720-1721. 35
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Fr. Joseph Truffet Primo Generale dei Fratelli di Saint-Yon
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M. Devif, P. Moulis e F.F. Ricousse
Il 9 giugno 1720 il corpo di Giuseppe Truffet nominato Fratel Barthelemy, Superiore Generale dei Fratelli delle Scuole Cristiane, deceduto nella loro casa di Saint-Yon distretto di questa parrocchia* dopo aver ricevuto i santi sacramenti dalle mani del Signor du Jarier Bresnard, parroco di questa parrocchia, è stato inumato nella cappella di Sainte Suzanne dal signor Curato in presenza dei seguenti firmatari: *All’età di quarantadue anni.
Fratel Bernardin Fratel Bruno Fratel Etienne Fratel Pierre e Grenier Du Jarier Bresnard
Rivista Lasalliana 82 (2015) 1, 133-143
RECENSIONI E NOTE
Pubblichiamo la Prefazione al libro LUIGI STURZO, Servire non servirsi. La prima regola del buon politico, Ed. Rubbettino, 2015. € 9,00.
Q
uesto libro è stato scritto da don Luigi Sturzo, tranne il titolo, ma sono sicuro che il sacerdote di Caltagirone lo avrebbe approvato. Contiene il testo di un suo intervento al Senato, di tre lettere e di 12 articoli scritti tra il 1946 e il 1959. Tutti riguardano la “questione morale”. Ben 4 articoli hanno praticamente lo stesso titolo, che invita alla moralizzazione della vita pubblica, condizione che don Sturzo riteneva indispensabile per la soluzione dei problemi politici, economici e sociali di qualsiasi Paese. Il libro ha l’obiettivo di ricordare una verità storica dimenticata e di ricordare una opportunità storica perduta. Entrambe possono essere utili ai lettori di oggi e sopratutto ai giovani, per fornire loro quei fondamenti di buona cultura necessari per alimentare la speranza di risanamento morale, politico ed economico dell’Italia. La verità storica dimenticata è che il gravissimo problema della “questione morale” non fu sollevato per primo da Enrico Berlinguer all’inizio degli anni 80, bensì da Luigi Sturzo sul finire del 1946, poche settimane dopo il suo ritorno dall’esilio di 22 anni impostogli dal fascismo. E per tutti gli anni 50, sino al suo ultimo giorno di vita, egli combattè con grande forza, purtroppo invano, contro le tre “malebestie” (lo statalismo, la partitocrazia e lo sperpero del denaro pubblico), ben sapendo quanto fossero pericolose per la salute morale, politica ed economica del nostro Paese. L’opportunità storica è stata perduta dalla Dc, che non ha saputo né voluto seguire la grande modernità del pensiero sturziano. Se lo avesse fatto, certamente l’Italia non si troverebbe nelle drammatiche condizioni attuali. Molti imputano gli errori agli ultimi 20 anni, ma in realtà la “malattia” – curabile con le “ricette” di Sturzo – è iniziata sin dagli anni 50. Il 12 novembre 1992 venne inaugurato a Caltagirone un monumento a Luigi Sturzo, pro-sindaco della città dal 1905 al 1920. Per l’occasione il Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, inviò il seguente messaggio al Sindaco:
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RECENSIONI - NOTE
“Lo sa Iddio se mi costa non essere con voi alla inaugurazione del monumento che ricorda don Luigi Sturzo. È dinanzi a noi, vivo, questo grande Prete, che fu sempre e sopratutto Prete; Prete nella sua assidua e fedele vita di preghiera; Prete nella sua missione di totale dedizione agli altri; Prete nel consumarsi per i diritti dell’uomo, privilegiando sempre i più poveri, i più abbandonati, i più sofferenti per la giustizia. Fu ed è il Maestro, maestro nel nome di Dio; maestro di verità, testimoniata a ogni costo; maestro di giustizia, proclamata in faccia ai potenti e ai prepotenti; maestro di libertà, figlio della verità. Per questi valori spese ogni giorno della sua vita, ogni palpito del suo cuore di uomo e di Sacerdote. E fu maestro nell’insegnare ai cattolici il dovere di interessarsi della cosa pubblica, il dovere di impegnarsi di persona, il dovere di testimoniare i principi cristiani anche nella politica, il dovere di servire, mai di dominare, di saper amare, mai di seminare divisione e odio. E fu statista, se statista vuol dire avere visione strategica della vita del proprio popolo; statista, se vuol dire avere dello Stato una limpida concezione laica, come della casa di tutti, statista, se vuol dire avere, insegnare e vivere il senso dello Stato, che è il senso degli altri, della libertà, della giustizia anzitutto per gli altri. Solo pensando a Sturzo si è spinti, si deve essere spinti a un profondo esame di coscienza. Studiarlo, meditarlo, amarlo, seguirlo: questo è il vero monumento a don Luigi Sturzo”. È un messaggio molto bello, ma l’amara verità è che gran parte dei cattolici in politica non hanno studiato, non hanno meditato, non hanno amato, non hanno seguito il pensiero e l’azione del fondatore del Partito Popolare Italiano. E non hanno fatto alcun “profondo esame di coscienza”. Lo dimostra quanto avvenuto prima e dopo il messaggio di Scalfaro. Infatti nei tre decenni antecedenti al 1992 abbiamo visto la schiacciante vittoria, tanto temuta da Sturzo, delle tre “malebestie”. Una vittoria realizzata con il dilagare dello Stato imprenditore, un ruolo che Sturzo giudicava pericoloso, per le tante tentazioni che un forte afflusso di denaro in mani politiche avrebbe potuto creare e per la sicura inefficienza della sua gestione. Dopo, nel gennaio del 1994, abbiamo assistito a una “scorrettezza politica e storica”1 con il cambiamento del nome della Dc in Ppi, e nel marzo del
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Giudizio del Prof. Giuseppe Palladino, esecutore testamentario di Luigi Sturzo, contenuto in una lettera del 23 novembre 1993 inviata all’on. Mino Martinazzoli e nella quale egli cercava di convincere il Segretario della Dc a non riprendere il nome del partito fondato dal sacerdote di Caltagirone. Nel 1946 Sturzo, al ritorno dal suo esilio, si definì “il capo di un partito disciolto”.
Giovanni Palladino
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2002 alla fine del secondo Ppi, ma con la promessa di mantenere vivi i valori del popolarismo sturziano. La verità è che questi valori non sono mai stati mantenuti vivi dal vertice della Dc e in particolare dalla sua ala sinistra, che in coerenza con la sua cultura statalista non ha mai portato il pensiero sturziano alla base del partito, né ha fatto una politica ispirata dal popolarismo. Negli anni 50 il fondatore del Ppi levò centinaia di volte la sua voce contro l’apertura a sinistra da parte della Dc, perché temeva la concorrenza costosa e sleale dello Stato imprenditore (costosa per l’Erario e sleale nei confronti del settore privato dell’economia), temeva la diffusione della corruzione politica, lo strapotere dei sindacati (coniò la parola “sindacatocrazia”) e la perdita del potere d’acquisto della lira. Ma sopratutto temeva la scristianizzazione del Paese, con la ragione morale calpestata dalla ragione politica ed economica. Dalle pagine di questo libro emerge la grande importanza che Sturzo poneva nella funzione pedagogica della buona politica. Egli credeva in una specie di causa-effetto: la politica è utile se è buona ed è tale se sostenuta dalla buona cultura. Questa si acquisisce con lo studio del vero e del bene, studio a cui il cristianesimo ha dato un fondamentale contributo. È tempo che inizi a “fare scuola”, direbbe oggi Sturzo. La buona cultura è importante, anche perché esiste (ed è spesso prevalente) la cattiva cultura, che si potrebbe definire – per chi è in buona fede – come lo studio di ciò che si ritiene vero ed è invece falso, e come lo studio di ciò che si reputa un bene ed è invece un male. Poiché gli esseri umani hanno ricevuto per diritto naturale il grande dono della libertà, sono liberi di seguire il bene e di seguire il male; di fare cose giuste e di fare errori. Come dire che la libertà può essere usata bene, cioè in modo responsabile, razionale e morale. E può essere usata male, cioè in modo irresponsabile, irrazionale e immorale. Quasi sempre il male e gli errori vengono fatti per mancanza di buona cultura o per abbondanza di cattiva cultura (è molto raro che una persona dotata di buona cultura possa rubare). Ne consegue che per Luigi Sturzo una delle più importanti forme di istruzione era l’educazione al buon uso della libertà, compito da svolgere ovunque, nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e persino nello svago. Ebbene per lui l’uso responsabile della libertà dipendeva in gran parte dal prevalere della buona cultura sulla cattiva cultura. Tutta la sua vita è stata un insegnamento e una testimonianza di buona cultura. Anche per questo egli merita che il suo esilio intellettuale finisca. Tutti noi – a sinistra, al centro e alla destra – ne abbiamo un gran bisogno. Giovanni Palladino
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RECENSIONI - NOTE
A proposito di due beati canonizzati il 23 novembre 2014
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omenica 23 novembre 2014, Papa Francesco, ha proclamato santi sei beati, fra cui il vicentino, già vescovo di Treviso e di Vicenza, Giovanni Antonio Farina (1803-1888) e il napoletano Ludovico da Casoria (1814-1885), entrambi beatificati da papa Giovanni Paolo II. La loro biografia si intreccia, in modo significativo, con quella del venerabile veronese don Nicola Mazza (1790-1865) e, in particolare, con quella del suo allievo, il vescovo missionario, Daniele Comboni (1831-1881), canonizzato dallo stesso Papa Giovanni Paolo II, nel 2003. Ci riferiamo anzitutto al Farina, nato l’11 gennaio 1803, a Gambellara di Vicenza e di lì trasferitosi a Locara, presso lo zio paterno don Antonio. Nel 1817 era entrato in Seminario, per divenire sacerdote nel gennaio 1827 ed essere chiamato ad insegnare prima “grammatica” (attuali medie inferiori) e poi “umanità” (quarta e quinta ginnasio di allora) nel Seminario vicentino. Nell’anno stesso dell’ordinazione sacerdotale era divenuto anche direttore della Pia Opera di Santa Dorotea in Vicenza, fondata dal veneziano conte don Luca Passi. Il Farina pensò di associare a quell’opera una di quelle che allora si chiamavano “Scuole di carità”. Questo fu l’inizio delle suore «Maestre di Santa Dorotea, Figlie dei Sacri Cuori», di cui il Farina stesso aveva scritto “Costituzioni e Regole”, fino ad ottenere l’approvazione “sovrana” nel 1837 e, nel 1838, il “Decreto pontificio di lode”, impegnandosi anche ad estendere l’insegnamento a fanciulle cieche e sordomute.1 Nominato vescovo di Treviso nel 1850, non cessò di continuare quella sua opera di carità, anche quando, nel 1861, divenne vescovo di Vicenza, la sede da lui più profondamente amata e insistentemente desiderata. Nove anni dopo partecipò al Concilio Vaticano I, che portò, in particolare, al dogma dell’infallibilità pontificia, con la bolla Pastor Aeternus del 18 luglio 1870. Manteneva intanto egli e accresceva l’interesse e l’impegno per quella sua iniziativa di carità, che mirava a fare della scuola, specie per le persone più disagiate, un «lieto ritrovo familiare», che rifuggisse da forme eccessive di severità, caratteristica allora dei metodi più diffusi in tutte le scuole. Particolarmente significativo sembra anche il fatto che a scrivere le duemila pagine della «Positio» per la “Causa di beatificazione” del vescovo Farina sia stata suor Albarosa Ines Bassani, «La prima “giudice” dei Santi», poiché «per la prima volta nella storia della Chiesa una donna è divenuta consultore della Congregazione delle cause dei santi», come si legge nel titolo 1 Cfr. la voce di C. Vianelli del «Dizionario degli Istituti di Perfezione», Ed. Paoline, Roma 1976, vol. III, col. 1414; N. Dalle Vedove, San Gaspare Bertoni, vol. 6, Postulazione Generale Stimmatini, Roma 1991, p. 21, n. 40.
Emilio Butturini
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dell’articolo a lei dedicato da Laura Badaracchi nel «Quotidiano di ispirazione cattolica Avvenire» del 2 ottobre 2014, p. 22. Si ricorda, fra l’altro, in questo articolo, che il vescovo Farina era stato anche chiamato a far parte della vicentina «Accademia Olimpica» e che la stessa suor Bassani, già nel 2001, era divenuta membro di quell’Accademia, e considerava tale nomina «una bellissima opportunità di prospettiva laica». Commentava tale fatto come espressione della particolare sensibilità di Papa Wojtyla per «la ricchezza culturale della femminilità», che è «una ricchezza per la Chiesa, anche per la nostra sensibilità psicologica e spirituale». Va ricordato pure il particolare legame mantenuto verso la “Casa d’Austria” dal vescovo Farina, anche dopo l’annessione del Veneto all’Italia nel 1866 e la proclamazione, nel 1867, dell’impero austro-ungarico, in linea, del resto, con le posizioni di gran parte dell’episcopato veneto, con l’eccezione, forse, del più lungimirante vescovo di Verona, il futuro cardinale Luigi di Canossa. Questi, libero da nostalgie filo asburgiche, «esigeva lealtà verso le istituzioni dello Stato liberale e accoglienza vigile, ma disponibile alla libertà civile e politica».2 Si è già detto che insieme con il Farina, il 23 novembre 2014, è stato canonizzato Ludovico da Casoria (Na) e che la vita di entrambi si è legata con quella del loro “educatore”, don Nicola Mazza e, in particolare, specie per padre Ludovico, con il compagno di studi e di attività missionaria, il “mazziano” Daniele Comboni. Con quest’ultimo soprattutto condivideva l’idea che si dovesse “salvare l’Africa con l’Africa”, essendo i «fanciulli neri, come i bianchi», come diceva p. Ludovico, così da poter essere cristianamente e civilmente formati anch’essi. Il futuro francescano, civilmente indicato col nome di Arcangelo Palmentieri, nato a Casoria l’11 marzo 1814, apparteneva ad una famiglia assai modesta, con un padre, che avrebbe voluto fare di lui un falegname, e una madre, che invece desiderava farlo studiare, perché divenisse sacerdote. Alla fine, il giovane Arcangelo riuscì a «vincere le resistenze del padre e a fare domanda di ammissione nell’Ordine francescano, nel ramo dei Riformati».3 Fatta la professione religiosa a vent’anni, il 12 marzo 1834, fu ordinato sacerdote il 4 giugno 1837. Undici anni dopo, all’età di 34 anni, fece la sua scelta decisa a favore dei poveri e degli infermi, trasformando la sua cella in una infermeria e farmacia, prima a favore dei suoi confratelli e poi, specie dopo il suo trasferimento nel convento di Capodimonte, a favore di tutti i 2
Cfr. R. CONA, Parroci e nuove congregazioni religiose nella Chiesa veronese del Secondo Ottocento in P. BORZOMATI, G. MONDIN, Don Giuseppe Baldo e il suo tempo, Morcelliana, Brescia 1996, p. 301. 3 Cfr. F. DE PALMA, Ludovico da Casoria in Il grande libro dei Santi, vol. II, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo – Mi, 1998, pp. 1242-1244, anche per le notizie successive.
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RECENSIONI - NOTE
bisognosi. Cercò l’aiuto dei confratelli, impegnandosi, in particolare, a rivitalizzare il Terz’ordine, sostenuto nel suo intento, dal ministro generale dei Riformati, che, nell’ottobre 1851, nominò padre Ludovico suo commissario e visitatore per i “Terziari” a Napoli e nella Terra di Lavoro. Qualche anno dopo, nel 1859, p. Ludovico diede vita alla Congregazione dei «Frati bigi della Carità», mentre, nel 1864, conobbe don Nicolò Olivieri, il sacerdote genovese da cui già il Mazza, vari anni prima, si era procurato le «prime cinque Morette», per dare il via alla sua impresa delle “missioni africane”, come aveva scritto al suo allievo don Francesco Angeleri (18211892), in una lettera del 9 gennaio 1850.4 Il 1864 era stato anche l’anno della fondazione dell’istituto femminile di Ludovico da Casoria, la «Congregazione delle sorelle bigie», che, insieme con l’istituto maschile pose mano all’opera degli «accattoncelli», a servizio di centinaia di “bambini di strada” di Napoli ed altre città, mentre continuava l’impegno missionario – sulla scia del Mazza e del Comboni – con collegi per ragazzi e ragazze di colore, queste ultime affidate alle suore “stimmatine”, fondate da Anna Maria Fiorelli Lapini. Continuava anche il rapporto di p. Ludovico con il Comboni, che visitò il convento della «Palma», dove il frate napoletano aveva accolto i primi “moretti”. Insieme col missionario mazziano e con tre «mori» anch’egli partì per l’Africa, nel novembre 1865, per dare vita ad una “stazione missionaria” a Shellal, vicino ad Assuan, pensando ad «un’opera d’ospedale per i poveri africani, efficacissimo mezzo per fare predicare a loro medesimi Gesù Cristo».5 Ancora una volta – sull’esempio di iniziative veronesi del Mazza, come la Protesta, stampata nel 1864, contro le posizioni divenute fortemente critiche del cattolicesimo di Ernest Renan (1823-1892), particolarmente nella sua Vie de Jésus del 1863, di ispirazione razionalistico-positivistica6 – padre Ludovico promosse iniziative altrettanto critiche contro l’opera delle scrittore francese – specie attraverso una rivista da lui fondata, «La Carità». Pure onorato come un santo dopo la sua morte, avvenuta il 30 marzo 1885, con una causa di beatificazione introdotta abbastanza presto, il 13 marzo 1907, solo il 13 febbraio 1964 fu riconosciuto “venerabile”, per raggiungere la beatificazione, con papa Giovanni Paolo II, il 18 aprile 1993 e, finalmente, dichiarato santo da Papa Francesco il 23 novembre 2014. Emilio Butturini 4
Cfr. il testo della lettera nel mio volume, Rigore e libertà. La proposta educativa di don Nicola Mazza, Ed. Mazziana, II ed., Verona 1995, pp. 233-235. 5 Cfr. sempre la voce del De Palma del II volume de Il grande libro dei Santi, citato, p. 1244. 6 Cfr. ancora il testo mio citato sul Mazza, p. 166 e p. 200.
Sara Mancinelli
NANDO SIMONETTI, Dal latino al volgare, Il bilinguismo nella storia del cristianesimo, Tau Editrice, 2014, pp. 206. € 20,00. Nell’odierna trattazione della vitalità delle lingue classiche e del loro legittimo uso nella nostra epoca ben si inserisce la pubblicazione di Nando Simonetti che, pur affrontando il tema del bilinguismo del latino e del volgare nel particolare ambito della storia del Cristianesimo, risponde a domande universali e apporta uno specifico contributo alla definizione dell’identità della lingua latina e dell’italiano. Il libro infatti si configura come storia del difficile equilibrio tra latino e volgare, mosso spesso dalla nostalgia del passato, orientato da ultimo verso una novità basata su solida tradizione. Nel primo capitolo Il bilinguismo della Chiesa nell’epoca antica e medievale, partendo dal Concilio di Tours, che nell’813 sancisce la “coscienza del volgare” e prescrive le omelie in rusticam Romanam linguam aut Theotiscam, Nando Simonetti rende subito evidente il bilinguismo funzionale: latino nella liturgia e nella sacralità e volgare nella comunicazione diretta e nella predicazione popolare. Fin dal primo capitolo l’Autore intende sottolineare che il latino non fu la lingua originaria della liturgia e che la sua introduzione rispose al criterio di comprensione, lo stesso cui si conformarono i Vangeli in lingua greca e lo stesso che guiderà la riforma di Paolo VI. Dopo un paragrafo sulla questione della lingua nella Chiesa africana, sono esposte tre fasi del processo di latinizzazione a Roma: la già accennata necessità del latino per i Romani autoctoni che non conoscevano il greco della Scrittura, la latinizzazione della lingua ufficiale
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della Chiesa, la latinizzazione della liturgia. Attraverso un approfondimento lessicale, Nando Simonetti descrive un latino liturgico che evolve verso una lingua pura e distante – pura, evitando termini tipici della lingua pagana, per cui al templum pagano si preferiscono ecclesia o basilica - e un latino parlato dai cristiani, che mutua termini o costrutti dal volgare, coma la tribulatio di Sant’Agostino o il benedicere seguito dal caso accusativo. La Chiesa inizia a fare concessioni alla lingua volgare: caute in campo liturgico, come nel caso di Papa Giovanni VIII nei confronti della liturgia slava, sempre più diffuse nella predicazione, come testimoniano Tommaso d’Aquino, Bernardino da Siena, Girolamo Savonarola e altri. Il secondo capitolo Il bilinguismo della Chiesa nell’epoca moderna si apre con la traduzione della Scrittura di Lutero e con le idee sempre più favorevoli al volgare dello stesso Lutero, di Calvino e Zwingli. Appare fondamentale infatti considerare che la posizione a favore del latino del Concilio di Trento deriva anche dall’opposizione al protestantesimo; analogamente si può sostenere nel secolo XVIII per la questione giansenista. A sostegno, Simonetti riporta la votazione nel Concilio di Trento del 3 Aprile 1546 in cui la maggioranza relativa si espresse a favore della Bibbia in latino, senza tuttavia condannare le traduzioni in volgare: dalle discussioni emerge che gli oppositori alle traduzioni provenivano da aree geograficamente distanti dal protestantesimo. Circa la lingua liturgica, il testo completo dell’Esposizione dottrinale del 20 Gennaio 1552 non riporta la necessità dell’uso del latino, ma la convenienza (“maxime convenit”); non canonizza il latino, ma ne ribadisce la sacralità. Dopo il Conci-
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lio di Trento si assiste a quella che Simonetti definisce un’involuzione: sono promulgati dalla Chiesa espliciti divieti di leggere la Bibbia in volgare (solo nel 1758 Benedetto XIV autorizzerà chiunque a leggere in volgare le Sacre Scritture). Riguardo alle traduzioni della liturgia si osserva una maggiore apertura soprattutto nei confronti delle Chiese orientali. Simonetti cita due figure emblematiche di questo periodo: l’illuminista cattolico Ludovico A. Muratori che pubblicò con uno pseudonimo la “Regulata divozion de’ cristiani” in cui volle “esporre la stessa Messa e le sacrosante sue mirabili orazioni a chi non ne capisce il linguaggio” e San Giovanni Battista de la Salle che, con la “Conduite des écoles chrétiennes” pubblicata nel 1720 e con l’introduzione di sillabari, catechismi e manuali in francese compì un gesto considerato ai suoi tempi di “audacia rivoluzionaria” e diede “ulteriore riprova della coscienza generalizzata della dignità del volgare”. Con il terzo capitolo Il bilinguismo della Chiesa nel contesto del movimento liturgico e del Concilio Vaticano II si arriva ai secoli XVIII e XIX quando furono scritti lezionari con letture in italiano e messalini per i fedeli, segno del criterio cardine che guiderà la riforma: la partecipazione attiva dei fedeli alla liturgia. Sostengono l’importanza di questo principio l’abate Guéranger, pur nella difesa della lingua latina; Pio X nel Motu Proprio Tra le sollecitudini del 22 Novembre 1903 e Pio XII che, nell’Enciclica Mediator Dei del 20 Novembre 1947 “consacra in modo inequivocabile” il concetto, scrivendo di partecipazione dei fedeli al Sacrificio Eucaristico e non di “un’assistenza passiva, negligente e distratta”. Ampia e articolata sezione è dedicata dall’Autore alle discussioni del Con-
cilio Vaticano II. Viene riportato il testo riguardante l’uso del volgare nella liturgia proposto alla discussione dei Padri Conciliari e quindi la versione finale nella Costituzione Sacrosantum Concilium del 4 Dicembre 1963, approvata con 2147 voti favorevoli e 4 contrari. Gli interventi citati con accurata analisi e chiarezza mostrano posizioni favorevoli all’uso del latino, lingua della universalità, della unità, di struttura matematica idonea ai dogmi e posizioni aperte al volgare, lingua della partecipazione attiva, della pastoralità, della comprensione. Nando Simonetti completa aggiungendo le successive disposizioni conciliari, che concessero l’uso del volgare nella liturgia in modo pieno e l’approvazione del nuovo Messale Romano del 1969, con cui si modificò la struttura della Messa. Il 7 Marzo 1965 Paolo VI celebrò per la prima volta secondo la nuova modalità, come viene anticipato al lettore all’inizio del capitolo. Il penultimo paragrafo è un’attraente analisi tecnica dei criteri di traduzione dal latino al volgare, in cui emerge profonda attenzione al lessico da utilizzare, che deve essere di facile comprensione e anche espressivo della dignità attribuita spesso nei secoli solo alla lingua latina: l’Istruzione Liturgiam authenticam del 28 Marzo 2001 scrive che la traduzione va fatta anche alla luce della teologia, consente divergenze dal registro della lingua parlata, esige traduzioni esatte per alcune parti del discorso. Una sezione in fase conclusiva forse non esclusivamente tecnica: l’attenzione alla traduzione, anche nelle sezioni retoriche o formali, svela il rispetto per il patrimonio culturale e sacrale espresso in lingua latina e opera quel riconoscimento della dignità della lingua classica, che solo può conferire lo stesso statuto alla
Marco Camerini
lingua volgare, che del latino è figlia e che si assume oggi il compito di celebrare il culto di Dio. Sara Mancinelli
AMOS OZ, Giuda, Feltrinelli, Milano 2014. € 18 “Tante persone sono oggi furiose con i musulmani. Non dobbiamo però dimenticare che quanto è successo a Parigi ha prima di tutto a che fare con i fanatici e non con i musulmani. Nel mondo islamico persiste un forte sentimento di frustrazione, rabbia, un profondo senso di sconfitta e umiliazione. Solo i musulmani potrebbero e dovrebbero provare a confrontarsi con questi sentimenti e cercare di guarirli”. Queste parole, tratte da un’intervista rilasciata al Corriere della Sera l’11 gennaio 2014 da Amos Oz, appaiono quanto mai opportune per iniziare a parlare di Giuda: un bellissimo romanzo – bastava molto poco perché lo definissimo il suo più suggestivo e profondo…chiariremo quel “poco” – che nei drammatici fatti di Parigi ha trovato un motivo in più per essere letto ed apprezzato. Semplicemente, l’ideologia che lo sostiene, le motivazioni letterarie che alimentano l’intreccio riflettono la posizione degli intellettuali israeliani più moderati ed equilibrati (Yehoshua fra tutti, si rilegga L’amante) di fronte all’integralismo armato jihaidista. Sullo sfondo di una Gerusalemme umida e polverosa, densa di profumi speziati e intriganti, per lo più notturna ma improvvisamente illuminata da albe sul Sinai e rinfrescata da brezze terse e rigide (una presenza pulsante del libro, magnificamente descritta) si incontrano, nel 1959, i destini misteriosi del
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colto Gershom Wald, dell’affascinante nuora Atalia e del timido studente Shemuel Asch, che ha interrotto i suoi promettenti studi universitari ferito nei suoi sogni politici ed affettivi, lontano da una famiglia in dissesto e alla ricerca di un momentaneo impiego. Lo troverà assistendo Wald, in una casa dove si aggirano i fantasmi drammatici di un passato che lega disperatamente l’anziano alla sfuggente donna ed ha il volto di due straordinari “protagonisti in assenza” (per ricorrere ad una definizione narratologica) che non cessano un attimo di tormentare i vivi, incapaci a tratti di considerarsi tali: Micah, il marito di Atalia e figlio del vecchio (precocemente morto nel conflitto arabo-israeliano del ‘48) e Shaltiel Abrabanel, padre di Atalia. Il “muezzin” che, nel pieno della guerra d’Indipendenza del ‘47-’48 – fermamente convinto che la decisione di fondare uno stato ebraico senza l’avvio di un dialogo costruttivo con i Palestinesi fosse uno sbaglio – lascia il Comitato sionista, in disaccordo con “il sognatore Ben-Gurion, il pifferaio magico che ha condotto tutti al massacro. Al macello. Alla cacciata. All’odio eterno fra due comunità”. E sarà quest’ultimo, “ateo, come tutti i socialisti sionisti”, presidente sino al ‘48 dell’Agenzia ebraica – governo ombra degli ebrei residenti in Palestina sotto il mandato britannico – il promotore vincente, sino al 1963, della politica israeliana e delle sue aperture alle potenze occidentali anti-arabe. Il delicatissimo conflitto lascia, grazie alla sapienza narrativa di Oz, il macrocosmo della Storia per riprodursi nel microcosmo, a tratti claustrofobico, di silenzi carichi di rancore, di stanze assorte dove un genitore e una moglie vivono accanto in nome dell’amore per
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RECENSIONI E NOTE
la medesima persona, più forte, alla fine, delle convinzioni culturali e politiche dell’ebreo Wald e della “figlia dell’Arabo” Atalia, che sulle alture di Gerusalemme ha perso l’uomo della sua vita, prima che constatare il fallimento, nell’ignominia, delle idee di un padre (inconsciamente) amato. Chi è il traditore? Che significa tradire? Perché è questo il tratto che salda, in Giuda, la dimensione storico-politica a quella religiosa. “Chi è pronto al cambiamento, chi ha il coraggio di cambiare, viene sempre considerato un traditore da coloro che non sono capaci di nessun cambiamento” sostiene Shemuel, parlando dei suoi studi su Giuda: il colto ed intelligente possidente della città di Keriot – unico fra gli apostoli a non essere originario della Galilea – inviato dalla casta ortodossa gerosolimitana per infiltrarsi fra i seguaci del Nazareno, ne diviene il più fervente discepolo, strumento consapevole di un tradimento necessario, maturato non certo per l’insignificante compenso di trenta denari (la paga mensile di un suo salariato) ma per la sopravvenuta, esaltante fiducia in un progetto di redenzione universale dell’uomo. Ed è in nome di questo che incoraggia e sostiene “il vero e unico figlio di Dio”, Gesù, “nato e morto ebreo”, fedele alla Torah, certamente riformatore “fondamentalista” e fautore del ritorno ad un ebraismo primitivo, depurato dalle ridondanze spirituali di Farisei e Sadducei, secondo l’ipotesi della tesi di laurea mai conclusa e suggestivamente maturata sulla scorta di una bibliografia che va da Giuseppe Flavio a Yehuda Halevi, da Maimonide a Nahmanide (è il terzo tradimento, quello del talentuoso studente avviato alla carriera universitaria nei confronti dei suoi professori e della
famiglia). Giuda come Abrabanel, allora, traditori per la Storia – contingente e soprannaturale – banditi dal consesso umano dei Templi e delle Convenzioni internazionali da una “damnatio memoriae” che l’ambizioso libro di Oz sembra voler interrompere nel nome della tolleranza, sola capace di riavviare il confronto fra Ebrei e Cristiani (“Fintanto che da loro ogni bambino continuerà a succhiare con il latte della madre il fatto che esistono delle creature che hanno assassinato Dio non conosceremo pace” confessa Wald), Arabi ed Israeliani, il presente angoscioso dei personaggi ed un trascorso di rimorsi e rimpianti con il quale la partita è aperta. È nelle corde dell’autore e (probabilmente) non poteva mancare la componente sentimentale, che egli ha saputo sempre affrontare con miracolosa abilità, sondando i meandri più intimi della passionalità, particolarmente all’interno dei rapporti di coppia: stavolta – forse perché sovrastata dalle tematiche cui abbiamo accennato – ci sembra l’anello debole del tutto. Sarà la doverosa speranza che uno dei massimi scrittori contemporanei ci regali una storia ancora migliore o altro, comunque proprio la vicenda d’amore, nella sua prevedibilità, lascia delusi…nessuna “scatola nera”, tutto è abbastanza chiaro sin dalle prime pagine, come sempre formalmente ipnotiche e raffinate, nell’apparente semplicità strutturale di dialoghi e descrizioni. Certamente Amos Oz sa “narrare” e il monologo di Giuda (cap. 47) insieme alle sorprendenti pagine 209-213, sulle quali non sveliamo volutamente nulla, ne sono un nitido esempio che non mancherà di emozionare il lettore. Marco Camerini
Giovanni Chimirri
PIETRO COGNATO, Etica teologica. Persone e problemi morali nella società contemporanea, Flaccovio Editore, Palermo 2014, pp. 246, € 24. Pietro Cognato, è professore di teologia morale presso vari istituti universitari di Palermo nonché vice-direttore di “Bio-ethos. Rivista di bioetica e morale della persona”. In questo suo ultimo volume (che inaugura una nuova collana sul dialogo e sul pluralismo religioso e che si rivolge sia a laici che credenti), presenta una serie di saggi dedicati a importanti tematiche del giorno d’oggi, che coinvolgono in pieno il senso dell’umanità dell’uomo, come per esempio, il tema della gravidanza e dell’aborto, il tema della procreazione responsabile, il tema della malattia, dei trapianti d’organo e dell’eutanasia, il tema delle norme del comportamento sessuale, ecc. Ma oltre a questi temi specifici, il volume si caratterizza per altri tre capitoli. Il primo è posto all’inizio (pp. 19-42) e verte su questioni metodologiche; gli altri due capitoli sono posti alla fine e sono dedicati alla discussione della differenza tra “etica filosofica” e “etica teologica” (Cfr. “La persona come coscienza morale”, pp. 165-184; “Il rapporto tra fede e morale”, pp. 185-229). La coscienza, afferma l’Autore, è tale se percepisce la diversità e la gerarchia dei valori, e quindi importa scelte e rinunce; la coscienza è tale se si allarga alle ragioni di tutti ed esce dall’autorità dell’Io e/o di altre autorità; la coscienza è tale se distingue l’osservanza esteriore delle norme dall’atteggiamento interiore (dai motivi profondi che spingono ad agire in un modo o l’altro); la coscienza è tale, infine, quando funziona con onestà creativa e critica senza adagiarsi sul giàfatto o sul già-detto (p. 170).
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Quanto poi alla differenza tra etica filosofica ed etica teologica, si afferma giustamente da un lato, che la prima deve partire dall’umano, dal razionale, dal naturale, poiché ciò fornisce motivazioni difficilmente contestabili e che la stessa teologia fa proprie; e che solo in un secondo momento – dall’altro lato – la teologia (come riflessione sulla fede) prosegue il discorso in quattro tappe: a) confermando la validità della coscienza morale in se stessa e sensibilizzando tutti gli uomini a una comune ragione minima (pp. 185-186); b) vedendo che l’etica filosofica è nel contempo un’etica rivelata, non avendo certo potuto il divino imporre alcunché di sconveniente alle sue creature (pp. 188-189); c) congiungendo e conciliando i due discorsi (filosofico e teologico), pur nella distinzione degli approcci, dei punti di partenza, delle rispettive metodologie (p. 190); d) aprendo infine la morale a un di-più di significato, col riferimento al “Dio donatore di vita”. Nella misura in cui l’uomo riceve la vita, ebbene, egli non può vivere dissociato da Colui che gliel’ha data e che lo costituisce nel suo essere, nel suo agire, nelle sue aspirazioni. Non possiamo che convenire con l’Autore, ripensando al nostro volume Relativismo morale e teologia del bene (2013), in cui abbiamo parimenti descritto la consistenza dell’autonomia della morale, ma: a) un’autonomia che non è assoluta, b) un’autonomia che diventa eteronomia nel momento in cui si aggancia ad un fondamento meta-empirico del bene, ad un senso ultimo che ricollega il finito con l’Infinito, che supera la filantropia umana nella carità cristiana. Giovanni Chimirri
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