Autunno/Inverno 2011 Distribuzione Gratuita
Pagine di dibattito e riflessione sui tempi e spazi che viviamo
Convivialità Bisogni Cura Associazioni Volontariato Solidarietà Cooperative
Anno 3/ N°2
R E D A Z I O N A L E Assistenza, cooperativismo, politiche sociali: assenza completa al sud, modello di efficienza al nord e fiore all’occhiello delle regioni rosse (rosé per meglio intendersi). Oggi questo settore gestore dei servizi assomiglia, nei metodi, ai servizi gestiti dal privato for profit, mettendo anch’esso in campo prestazioni specializzate e parcellizzate, servizi di ricovero e di separazione dalla vita normale, I nuovi arrivati impattano in un’organizzazione che li inquadra, più che accoglierli e formarli, spesso vengono messi all’opera a svolgere servizi, a eseguire prestazioni, a fare le pedine per le prestazioni da erogare, nel panorama di aziendalizzazione della salute, dentro al parlare di impresa per la scuola, nel ritenere imprenditoriale la gestione dell’ambiente e mercantile la gestione dell’acqua, e così via. Su tutto ciò vogliamo levarci qualche sassolino dalle scarpe. A sud di
fatto funzionano bene solo le associazioni (ahinoi) criminali, mentre al centro nord si è finito per incancrenire un sistema, oggi ormai ridotto a valvola di sfogo per la disoccupazione, catapultando, di fatto, migliaia di educatori, operatori, formatori, psicologi, assistenti sociali e quant’altro in un associazionismo pletorico e ridondante da cui, come avvoltoi, gettarsi sui bisogni e le richieste del cittadino più o meno disagiato, finendo in certi casi per soffocare la situazione in sé, relegando a questo sistema molto dell’agire educativo e assistenziale che in una società diversa dovrebbe compiersi attraverso figure più comuni: insegnanti, bidelli, infermieri, famigliari, presidi, medici di famiglia, parroci, amici e vicini laddove questi ruoli non fossero rimaste mere parole e pura facciata al vuoto relazionale che c’è nella vita di tanti, troppi. Non vi nascondiamo che scrivere questo numero non è facile, si toccano argomenti con-
siderati sacri: l’assistenza e la solidarietà, ma non bisogna dimenticare che su tutto ciò è sempre un bene poter lasciare il cittadino fondamentalmente padrone di se stesso, compresa la gestione delle sue disgrazie. Lasciateci fare questa parte “infame”, giudizi e critiche se le riterrete opportune saranno nel vostro diritto di lettori postarli sul nostro blog www.periodicomarco.it
Una riflessione per iniziare Ivan Illich è stato uno dei più importanti pensatori del Novecento. Un intellettuale dal percorso di studi e di vita controverso, con profonde intuizioni che, a decenni di distanza, si stanno rivelando autenticamente profetiche. Abbiamo così una lettura illuminante,che anticipa con acutezza concetti fondamentali,oggi ancor più di ieri, per la lettura e la comprensione della società attuale. Così si esprime a proposito del tema di questo nostro numero – “Quando usiamo nell’inglese moderno il termine care, cura, è estremamente difficile attribuirgli il significato di un amore che non appaia degradato. Dominano la cura professionale, la cura medica, la cura dell’allievo a scuola, ci si prende cura di a macchina, “abbi cura di te stesso!”, o ancora di qualcuno si dice “si prende cura degli altri. […] Così i professionisti definiscono ciò che costituisce la cura minima, chi ne ha bisogno e come deve essere somministrata. Decidono quali certificati universali le persone devono avere prima di toccare un disabile o d’insegnare a questa persona cieca come camminare con un bastone”. Per Illich uno dei poteri forse più indiscussi del nostro tempo è quello degli esperti, che mettono la propria conoscenza al servizio degli altri. “Ma - si chiede - le enormi risorse che impieghiamo, come singoli e collettivamente, per i servizi sanitari, per l’istruzione, per l’assistenza legale, per i servizi socio-assistenziali, portano davvero a ottenere risultati altrettanto consistenti? I professionisti dispongono di un pericoloso potere a doppio taglio, perché il loro aiuto può accompagnarsi a una sistematica disabilitazione dei cittadini rispetto al controllo della propria vita.” Gli fa eco l’amico John McKnight - “In un’economia dominata dai servizi, in cui la maggior parte della popolazione trae sostentamento da servizi professionali e il PIL si misura in funzione dei servizi prodotti, ogni Paese ha bisogno di un’offerta sempre più ampia di manchevolezze individuali. E una società che ha bisogno di soddisfare dei bisogni, definiti in termini di manchevolezze individuali, altro non è che un’economia che ha bisogno di sempre nuovi bisogni. Per ironia della sorte, la produzione della ricchezza – nella nostra società – dipende dalla capacità di ciascuno di scoprire le manchevolezze altrui. Ne deriva, sotto il profilo politico, una collettività di persone incapaci di percepire i problemi che hanno davanti, e tanto meno di risolverli.” N.d.R.
Il Problema Oramai sempre più spesso, certi aspetti problematici della vita di un individuo passano dall’essere sostenuti da un giusto numero d’iniziative di appoggio a una vera e propria invasione nel personale da parte degli assistenti sociali et simili. Sta di fatto che il confine fra assistere e vivere alle spalle delle disgrazie altrui da parte di holding farmaceutiche, case editrici e riviste di carattere medico, ordini professionali di medici, psichiatri, psicologi, assistenti sociali, educatori & C. si fa sempre più lieve. C’era bisogno di inventare il disturbo da gioco d’azzardo per esempio? E l’anoressia? Null’altro che la vecchia consunzione delle fanciulle ottocentesche che morivano illanguidite per un ruolo che non riuscivano (giustamente) ad accettare: la brava signorinella orgoglio di mamma e papà, che dalla figlia si aspettano il solito ruolo di brava donna, ieri moglie e madre di gradevole aspetto (col busto strizza vita), oggi laureata col 110 e lode, dinamica, motivata e sempre di gradevole aspetto (con la taglia 36), oltre al solito dannato moglie e madre mai veramente rigettato. Mai che siano sbagliati i ruoli invece delle persone che non li accettano. E “dagli” agli scommettitori, e “dagli” ai bulimici… ma perché si è deciso che ogni bar si dovesse trasformare in una mini Las Vegas o che per essere accettabili si debba essere degli ectoplasmi? La logica del profitto deve sempre salvarsi, e via poi di corsa a creare tante belle associazioni di volontariato a parare i guasti compiuti dal sistema. Si abbia il coraggio di affermare che poi dietro a tutto ciò si producono centinaia di educatori a spasso pronti a cercare di rendere accettabile la vita a chi gli è andata storta (poveri giovani che, di fatto, devono aiutare la gente a inghiottire la merda che la società gli ha riservato, altroché cambiarla) e a cui si è trovata una nuova scusa per uscire qualche ora di casa per far credere ai genitori che quelle tasse universitarie, e certo orgoglio per il rampollino/a di casa, non sono stati buttati alle ortiche. Ma ripetiamo, non è da loro che si deve pretendere di far da tappabuchi a una società in putrefazione. Si deve avere il coraggio di ridisegnare i rapporti interpersonali, accettando la famiglia allargata dove più madri e padri possono seguire i piccoli, l’assegno di cittadinanza, l’autogestione da parte degli abitanti delle case sfitte fuori dalle logiche dei palazzinari, l’adozione da parte degli omosessuali o dei singoli di bimbi altrimenti destinati a passare anni e anni in casa famiglia, il ricostruire un ruolo materno meno nevrotico e uno paterno più coinvolgente,
il saper preparare il distacco dai figli già a 16-17 anni senza musi lunghi e “Sigh! mi lasci dopo tutto quello che ho fatto per te?”, e ancora, liberare l’uso di sostanze leggere per evitare di frequentare figure ben più pericolose del tabaccaio sottocasa, pretendere medici di famiglia con meno pazienti per avere più tempo per parlare con chi ci dovrebbe curare, educare nella scuola a stare vicino ai compagni disabili non solo perché calati d’ufficio in una classe dentro un’aula ma anche fuori, nel mondo, e riaccompagnarsi a casa tutti insieme semplicemente come bimbi fra altri bimbi senza tanti pulmini con lo stigma della sigla Servizi Sociali atta a far notare a tutti il genere di trasporto e relativi accompagnatori dedicati, magari in pettorina fosforescente (e la stessa cosa dovrebbe valere per gli anziani, sempre più relegati in centri diurni appositi invece che nei soliti giardinetti sottocasa, genere questo sempre più surclassato dal parcheggio in cemento), e poi si dovrebbe avere il coraggio di eliminare i videogames più violenti e cretini da circoli, bar, case del popolo e metterci tanti bei giochi per stimolare l’intelligenza e la memoria e forse tanti bulletti si darebbero una calmata, e tanto altro ancora che potrebbe essere rivisto. Quanti diversi in meno o considerati tali ci sarebbero, quante meno emergenze disagio, è ora di riscoprire Michel Foucault, Ivan Illich, e i pedagogisti libertari. Consuelo Lorenzi
Kuore (l’angolo melenso) Appartengo a una generazione che a scuola vedeva i maestri coadiuvati da certi bidelli in grembiule nero, anche i maestri del resto avevano i grembiuli neri, e pure gli alunni maschi, solo a noi bambine era riservato il bianco che più bianco non si può. Questi custodi erano in genere invalidi e vedove di guerra che muniti di gigantesche ramazze di saggina (almeno a me allora parevano enormi) tirate fuori da misteriosi recessi e bugigattoli oscuri, spargevano per i pavimenti della scuola segatura mista a riccioli di cera odorosa di lisoformio, e che, se appartenenti al genere femminile, si ponevano acquattate agli angoli dei corridoi, su certe seggioline da asilo, a fare interminabili lavori ai ferri, in attesa di accompagnarci a fare pipì. Altre volte li vedevi entrare in aula, rispettosi e un po’ intimiditi, a portare le circolari del signor direttore da firmare ai signori insegnanti, oppure armati di certi macroscopici boccioni di vetro grandi come forme di grana, versare inchiostro nero nei calamai dei banchi, e dai quali abilmente non spargevano nemmeno una goccia (non sono così vetusta come sembrerebbe, le penne biro c’erano già da un pezzo, è che in prima e seconda elementare ci facevano usare il pennino per esercizio calligrafico), erano loro che quando arrivavamo a scuola troppo presto o eravamo ritirati troppo tardi dai genitori indaffarati con i loro orari di lavoro, ci facevano compagnia nell’attesa. Nella cucina del refettorio c’erano invece le cuoche e persino le sottocuoche (una gerarchia da vecchio reggimento giannizzeri) in cuffietta e grembiule a quadrettini rosa o celesti, di cui imparavamo a riconoscere il tocco gastronomico: - Oggi il sugo di pomodoro l’ha fatto la Tina! – Questo è il minestrone come lo fa la Nella! –. Più esotici i nomi dei bidelli, che quasi li facevano sembrare un popolo magico appartenente a un mondo di fantasia: Clorinda, Afdora, Amneris, Tancredi… ripresi da vari eroi ed eroine della lirica e della letteratura, oppure richiamanti tutta una serie di località da guerra d’Africa (quella di Adua per intendersi) che ci facevano conoscere più storia, geografia e romanzi loro con quei nomi che le lezioni della maestra. Volevamo bene a queste floride signore in gramaglie e a questi compunti signori sempre di buon umore e scherzosi o fintamente burberi, che facevano da contraltare ai modi più seriosi e ufficiali degli insegnanti, ci facevano sentire a nostro agio sicuri di non trovarci mai soli nei labirintici corridoi, e sempre pronti a mezzogiorno e mezzo a scodellarci tanta pappa buona appena uscita dai grossi pentoloni fumanti. Sono tornata dopo quarant’anni a visitare la mia ex scuola in un giorno di festa. Orrore! Hanno tagliato il rigoglioso albero che faceva da bomba libera tutti. Cibo: da fast food in contenitori di plastica portati dal pulmino della ditta convenzionata. Resto a gironzolare fin dentro la mia vecchia aula (com’è piccola!). Pulizia dei locali: vedo arrivare una giovane africana (lei forse veramente di Adua, o davvero etiope come Aida o egiziana come Amneris, eccoli finalmente qua, quando i barconi non si ribaltano nel canale di Sicilia, in carne e ossa e non più esotici miti coloniali!), mandata da una cooperativa di servizi. Arriva ed entra in azione con un moderno kit pulizie ben dopo che i bambini sono usciti, nessuno di loro la incrocia, il servizio (che ora non è più integrato con quello di distribuire il cibo o accompagnare ai bagni) scatta dopo che se ne sono andati, dunque non la conosceranno mai, come non conosceranno i cuochi della ditta che prepara i pranzi. Peccato, occasione di crescita mancata! La saluto ed esco. Me ne sono tornata a casa e… vi dirò… non tanto per la nostalgia dei vecchi ricordi, ma… lo confesso… pensando ai servizi offerti ai bambini di oggi, ho pianto come una fontana. Enrica Bottini
Brodino e gelatina per ammalati Per prima cosa preparare un brodo vegetale facendo cuocere per alcune ore dei bei porri grossi e bianchi, carote dolci lunghe e un po’ di cerfoglio. Salare leggermente e, a cottura avvenuta, passare da un tovagliolo che non sappia di detersivo. Il brodo ottenuto, squisito, aromatico e sano, risulterà di gran lunga superiore a qualsiasi brodo di carne. A caldo nel brodo, sciogliere 35 gr. di gelatina (colla di pesce in fogli) per ogni litro di liquido, quindi filtrare e far ghiacciare dentro la vaschetta dei cubetti. Volendo, si può preparare il tutto anche con gusto dolce omettendo il sale e sostituendolo con dello zucchero. Buon appetito, se ne avete. N.d.R.
educatHARDcore Mi ero quasi convinta, che parlando male del “socialume” ci potessero accusare d’insensibilità, ma quello che ho visto una sera en passant mentre spippolavo la tele fra una chanson di san scemo e l’altra mi ha fatto letteralmente saltare dal divano e ve lo devo raccontare, poi ognuno la pensi come crede che tanto Katrame, si sa, è una redattrice cattiva e crudele. Da un telegiornale locale mostrano da una cittadina della Toscana una sequela di carrozzelle ortopediche con sopra dei diversamente abili (oggigiorno si dice così) accompagnati da operatori per le strade della città, e fin lì…. Volendo vedere dove andavano a parare e poco interessata alla kermesse canora, resto sintonizzata su quel canale: appare una parente, forse una mamma, che presenta un’associazione che chiede di unificare alcuni parametri nostri con quelli di Olanda e Svezia, paesi che si occuperebbero con maggiore sensibilità delle esigenze di questi pazienti. Stacco della telecamera su una delle interessate che chiede appunto un operatore sociale che si occupi di coccole, massaggi e carezze che altri gli negano: - Possibile - dico io - che nessuno in casa l’abbia mai accarezzata, che non l’abbiano mai portata a fare massaggi? Che cani! - Ma ecco che si svela l’arcano, appare il logo dell’associazione e… altro che coccole e carezze mentre capisco il senso del termine massaggi: oplà vediamo la figurina dell’invalido in carrozzella che tutti conosciamo ma “cavalcato” da un altro soggetto nella posizione del kamasutra di quello seduto e l’altro a gambe larghe in braccio al primo (non ne so il nome indiano). Per me il simbolo è chiaro! Si richiede da parte di questa gente la figura professionale dello scopatore di disabili offerto dalla Asl e dai Servizi sociali!!!!!!!!!!!!!! Lasciamo stare il fatto che provare un orgasmo non dovrebbe essere né nella sfera dei diritti e tanto meno in quella dei doveri legislativi, essendo attinente al puro caso, alla magia di un incontro, al sentire interiore e al puro desiderio che tante volte resta tale anche per i più perfetti di noi che, perché appunto siamo un animale culturale e non di natura, se non troviamo un partner ce ne facciamo una ragione, e che, se proprio l’ormone galoppa, ci si pasticcerà da soli alla bell’è meglio strofinandosi contro qualcosa; e lasciamo stare anche che vorrei saper certa gente da che razza di parenti è circondata per farli arrivare a pensare che come invalidi nessuno di loro mai troverà chi si rapporterà sessualmente con loro per amore e creano pure l’associazione per farsi scopare da estranei, come a sottolineare che i loro corpi sono troppo mal formati per attrarre in modo naturale il sesso altrui (che non è vero perché si conoscono fior di tetraspastici e focomelici che da adulti hanno fatto matrimoni d’amore e passione e si sono anche separati e risposati due, tre volte come qualsiasi bellone di Hollywood). Ma quello che colpisce di più è che qui, diventando un diritto fornito da un servizio pubblico, va da sé che una nuova figura professionale pagata da tutti noi incombe nello sfondo: l’operatore alla trombata. Scusate se è poco, già vedo a Scienze dell’Eduforma-psico-peda ecc. ecc. il corso per formare tale figura professionale e il mucchio di disoccupati disgraziati che, oltretutto convinti di fare una bella cosa socio-buona-di sinistra, andranno a frequentarlo, pagati poi (se non gratis per tirocinio), una volta diplomati, una miseria dalle cooperative sociali a sparare pugnette e ditali a questi utenti (cui fondamentalmente, secondo me, s’infonde una grande disistima di sé), a meno che non ci si voglia convenzionare direttamente con le prostitute/i previo loro un corso di formazione presso le agenzie pedagogiche (non so con quale impostazione didattica), ma queste/i che non sono cretine/i non staranno certo alle tariffe da fame della Cooperativa Pinco Pallo & C. e preferiranno sempre i cadeau di Berlusconi (facendo benissimo). E poi il tutto
dove dovrebbe avvenire? In casa del paziente, mentre nella stanza accanto i parenti aspettano che si eroghi il servizio, come quando vengono a farci le flebo a casa? Oppure all’ASL, o magari presso la sede della cooperativa, in apposita saletta dedicata a soddisfare (è proprio il caso di dirlo) la prestazione all’utente? Io dico: i nazisti sono dei cani a pensare che ci siano vite non degne di essere vissute, ma chi condanna un giovane di venti anni a fare sesso socio-sanitario così, non la crea pure esso col suo “buonismo” una vita non degna di essere vissuta? Quella dell’operatore naturalmente, non quella dell’utente che, va da sé, tanto lo sculo che ha avuto nella vita se lo deve tenere ugualmente sesso o non sesso, nazisti o non nazisti, mamme con demenziale senso di colpa o meno. E poi si devono avere sempre Olanda e Svezia, o magari la Svizzera, come modelli? Sono sempre i più bravi in tutto loro? E non crediate che se anche ci si fermasse alle carezze e alle coccole (perché è chiaro che qui c’è il Vaticano e come al solito si faranno le cose a mezzo), non sia meno depravato e depravante, poiché resterà comunque, almeno a mio modesto avviso, il fatto che un gesto fra i più naturali del mondo come una carezza sarà offerta (o meglio dispensato) a progetto con firma di medico, assistente sociale, responsabile ASL e operatore, ma scherziamo? E poi se mancano i finanziamenti dal Ministero delle politiche sociali o da quello della Salute che si fa? Coito interrotto???!!! Katrame
Lato B Dietro ogni scemo c’è un villaggio. L’adagio, coniato dall’antipsichiatria italiana per dare conto della stretta connessione tra patologia e normalità, la dice lunga sulla pletora di lavoratori e professionisti che si stringono intorno all’utente dei servizi. Sono tantissimi e sarebbero tutti disoccupati se non producessero a ritmo serrato patologie da curare, disagi da alleviare, sindromi da combattere e lutti da elaborare. Il sociale muove molto denaro e impiega molta gente. Nel sociale le condizioni lavorative sono di poco superiori a quelle dell’industria, ma gli stipendi sono inferiori e i contratti, quando vengono firmati, valgono molto poco e non tutelano nessuno. Tuttavia, a queste condizioni sottosta anche gente che non è ridotta alla fame e che potrebbe cimentarsi in altri lavori. Perché lo fanno? Chi ha case, soldi in banca ed eredità in arrivo, perché non guarda il grande fratello e i tamarri tutto il giorno? Invece li guarda solo quando torna a casa stremato e deve accontentarsi della prima serata e dei riassunti. Certo, qualcuno che ha una inclinazione o un talento si trova sempre, dappertutto, ma come
i necrofori non sono necrofili, sono anzi viveurs che hanno trovato un impiego comunale ben retribuito, i lavoratori del sociale non sono madriterese, molti di loro sarebbero attenzionati dai servizi come elementi antisociali se non lavorassero proprio in quelle strutture. E’ più probabile che il sociale sia un alibi. I genitori lasciano volentieri la casa e l’azienda a quei figli che si rimboccano le maniche e si danno da fare, ma dopo aver speso tanto per farli studiare (per loro lo studio è solo moneta sonante che scorre via) non vogliono vederseli tornare a casa pieni di vernice o di morchia. Meglio la merda, puzza ma è umana, sa di psicoanalisi e di etologia. E poi anche il chirurgo si copre di deiezioni e il chirurgo è un dottore, anzi, un dottorone. Parigi val bene una messa. Visto così, il sociale scade a socialume, sentina di tutte le ipocrisie, ma è così che stanno le cose ed è questo che abbiamo trovato per arrivare a fine mese e a fine vita senza troppi pensieri. Guru
Flagellanti di ieri e di oggi Dal medioevo fino agli anni ’60 del XX secolo era in uso alle confraternite di assistenza ai malati e moribondi presentarsi nelle case con l’alto cappuccio nero tipico del boia e del frate inquisitore. Ai già lancinanti dolori delle doglie o del cancro si andava così ad aggiungere un tale macabro apparato. Scopo del cappuccio e della cappa horror era quello di nascondere il viso, per non poter far vanto della buona opera di misericordia prestata, di quello che veniva chiamato giornante: un volontario che secondo il giorno in cui era chiamato era definito giornante del martedì, del mercoledì, del giovedì ecc. ecc. Negli anni ’60 del ‘900 dunque all’epoca dei Beatles e dei Rolling Stones, dopo settecento anni i giornanti si scappucciano, finalmente consci dell’inutile mascherata che andava ad aggiungere il ridicolo al male, anche se oggi il tutto è sostituito da tute stile prigioniero di Guantanamo le quali hanno pure loro un certo lato spettacolare, cosicché invece che alla sala delle torture sembra di essere portati direttamente al braccio della morte. L’accompagnamento di confraternite varie nei lutti e dolori in città come ad esempio Firenze, la quale di tutto il Paese conta una delle più alte presenze di associazioni di volontariato in rapporto al numero dei residenti, è abitudine radicatissima nei secoli, come si diceva, e oggi sembra proprio che una certa soglia di pudore abbia finito con l’essere superata, facendo rientrare dalla finestra i cappucci che i misericordiosi fratelli avevano buttato fuori dalla porta. Le associazioni in cui ci si unisce, apparentemente per superare – in realtà per non chiudere mai – un lutto definitivo o incombente sono molteplici: abbiamo ad esempio visto recentemente in una rete locale l’associazione
genitori dei morti in culla (in realtà la sindrome da apnea neonatale, un disturbo relativamente raro), è questo un luogo ove ci si macera in gruppo su come quel maledetto giorno, magari di diciotto anni prima, si sono rincalzate troppo le copertine a dei figli che ormai oggi sarebbero in ogni caso degli adulti e, forse, comunque ugualmente morti se non in culla in curva con l’automobile. Un altro che non trova pace nella città dei fiori è il bambino che, morto anni fa di una maledetta forma tumorale, continua anno dopo anno a occhieggiarci dai manifesti posti nei viali cittadini per volere degli affranti genitori che hanno costituito una fondazione ad hoc per famiglie con problemi simili al loro, rinnovando così a ogni stagione l’esposizione di quel visino agli occhi di qualsiasi passante, senza rendersi conto della spettacolarizzazione che ciò implica per la loro disgrazia e che porta il pubblico, anno dopo anno, a gettare sguardi sempre più indifferenti se non scocciati dalla ripetitività della cosa, al loro figlio. Ciliegina sulla torta la tassista che, reduce da un lutto personale, accompagna gratuitamente col suo taxi pieno di colori, peluches e palloncini, i bambini che necessitano di cure oncologiche all’ospedale pediatrico Meyer. Per accompagnare gratuitamente un bimbo all’ospedale c’è davvero bisogno di questa fata turchina dai mille travestimenti, e col cruscotto pieno di foto di testoline pelate, per far sentire il piccolo paziente ancora più speciale di quanto, purtroppo per lui, non sia già? Si dovranno aspettare altri settecento anni per capirlo? C’è modo di ammalarsi e morire in pace senza le mascherate, i frizzi, lazzi e cotillones dell’assistenzialismo più volgare? N.d.R.
Cattivi maestri In questo periodo di caccia alle streghe intervistiamo volentieri un gruppo di persone che si vorrebbero vedere al rogo ma che scopriamo non essere quei terribili bau bau che certa stampa ci vuole descrivere. Voi conoscete Ivan Illich e ciò che lui intendeva e immaginava parlando di una società conviviale alternativa a quella in cui noi viviamo. In realtà come le vostre (centri sociali autogestiti, circoli anarchici) cosa significa prendersi cura degli altri, o meglio, come si realizza questa cura? Per noi prendersi cura degli altri è accoglierli, farlo senza evitare il conflitto quindi senza escluderlo. Lo spirito è tuttora quello delle società di mutuo concorso, luoghi dove naturalmente le persone erano invitate a essere autonome e spontanee, perché queste società non erano nate per aiutare Loro (quelli che nell’associazionismo sono considerati bisognosi) ma per sostenere un Noi, per sostenersi a vicenda. Il punto è che qui al circolo anarchico condividiamo valori e abbiamo criteri molto diversi rispetto a quelli dell’associazionismo moderno. Qui tutto è subordinato alla conoscenza, tutto parte dalla relazione orizzontale con l’altro, non dalla pretesa di aiutarlo ma dal desiderio di conoscerlo di starci insieme, dalla curiosità, dall’interesse umano. Il nostro stare insieme si basa sull’empatia non sull’ideologia. Darwin parlava del mutualismo fra gli animali… Conoscete i passerottini di Kropotkin? (da “La Morale Anarchica”) Si creano qui reti alternative all’associazionismo ufficiale? Certo, noi avevamo fatto un’associazione di arti e mestieri perché alcuni di noi sono artigiani, insomma sappiamo fare dei lavori che sono utili e volevamo trasmettere questi saperi ad altri che li tramandassero. Non so per quale ragione ma molti di quelli che venivano a imparare erano dei senza tetto, sono venuti loro, non li abbiamo cercati noi. Uno di questi si ammalò gravemente, noi cercammo di convincerlo a curarsi ma lui ci spiegò che non voleva essere “ospedalizzato” e noi non abbiamo insistito. Si chiamava Mustafà, gli siamo stati accanto finché ha voluto, non ci siamo imposti con la pretesa di sapere ciò che fosse bene per lui. E poi c’è Sergino… l’abbiamo incontrato una sera in cui dei vigili volevano sgomberarlo dal posto dove era solito dormire, proprio davanti al circolo. L’abbiamo difeso, i vigili se ne sono andati e così abbiamo fatto amicizia. Ora Sergino sa che se ha voglia c’è un posto spesso aperto, dove può trovare compagni e che quello che c’è da mangiare, da bere e per vestirsi al circolo è di tutti, e se non ha soldi non importa, ognuno da ciò che può. Abbiamo anche litigato una volta e per un po’ lo abbiamo perso di vista ma poi è tornato, cose che succedono! Questi sono due esempi ma, è chiaro, la nostra realtà è più complessa, come la vita d’altronde. In conclusione i cattivi maestri non siamo noi bensì un associazionismo che ha perso completamente i suoi valori originari ed ha occupato il vuoto (speculandoci) lasciato dalla morte della convivialità. Manuela Minneci
Toilette 1975 Studio per: La giornata del buon borghese. Inchiostro su carta. Bozzetto a cura dell’artista Mario Agostini (www.marioagostini.com) Omaggio alla redazione del PeriodicoMARCO che con entusiasmo pubblica
EMERGENCY Nella suggestiva scenografia dell’ex convento delle Oblate, a Firenze, incontro Francesca Testa, volontaria da anni di Emergency, l’associazione che offre cure alle vittime della guerra e della povertà. Visto il modo con cui viene trattato il sociale in questo numero, abbiamo voluto farci un opinione di come un gruppo che lavora seriamente su gravissime emergenze possa agire sullo sfondo dell’attuale sistema. L’istituzionalizzazione, il gigantismo burocratico, l’adozione di modalità di comportamento e di finalità proprie di imprese a fini di lucro, la subalternità nei confronti della politica è un depotenziamento per il vostro operato? Emergency sta diventando un associazione istituzionalizzata perché crescendo si ha bisogno di regole, anche se lo statuto non prevede forme di burocrazia, poiché è un’associazione non governativa e senza scopo di lucro. I volontari giovani tollerano male questa sorta di imposizione, come non dargli ragione da un lato? Urgenze, interrogativi e difficoltà, la vostra libertà di cura verso gli altri è limitata? Due sono i punti fondamentali per Emergency: la cura degli altri e la gratuità,consideriamo quest’ultimo come un diritto inalienabile. Curare e diffondere una cultura di pace Qual è l’iter che seguite per costruire gli ospedali nei paesi ospiti? Si stipulano accordi con le autorità locali e si studia la situazione politica del momento, ciò è importante perché occorre lasciare la struttura che si crea al paese ospite. Emergency collabora con l’architetto Raul Papaleo per creare architetture non solo belle ma che si integrano con la cultura del posto, la manodopera e le conoscenze sono locali, moltissimi assunti sono locali mentre i medici e gli infermieri del posto vengono formati con dei corsi. Ad esempio l’ospedale in Iraq di Arbil e Sulemanja in questa fase Emergency monitora e poi verrà via. Quindi ricapitolando le fasi sono: sopralluogo-contatti autorità-presentazione progetto e accordo con l’autorità che deve accettare le condizioni di Emergency. Usufruite di finanziamenti? Riguardo i finanziamenti dei governi locali essi consistono nella dotazione gratuita dei terreni dove si costruisce l’ospedale curando tutti senza discriminazione e portando le tecniche più avanzate delle medicina nelle aree di crisi internazionale. Gli Ospedali sono puliti, belli e curati anche se sono strutture in situazione critiche. Noi crediamo a una presa in carico della persona nel suo complesso e non solo della sua malattia. La maggioranza dei pazienti sono bambini spesso vittime di mine come i così detti pappagalli verdi. In Italia che attività avete avviato? Emergency opera anche in Italia, infatti ci sono due realtà di Poliambulatorio una a Porto Marghera e l’altra a Palermo, dove vanno molti italiani e non solo gli stranieri irregolari che temono le denunce dei medici. Poi in realtà per ora in Italia nessun medico ha denunciato mai nessun irregolare! Inoltre ci sono due Polibus a Foggia e a Siracusa che si occupano della salute dei lavoratori nei campi di raccolta di pomodori, arance, ecc. Insomma si cerca di dare delle risposte ai bisogni sociali estremi presenti nei paesi in cui operiamo. Francesca Scaramozzino “Crediamo nella eguaglianza di tutti gli esseri umani a prescindere dalle opinioni, dal sesso, dalla razza, dalla appartenenza etnica, politica, religiosa, dalla loro condizione sociale ed economica. Ripudiamo la violenza, il terrorismo e la guerra come strumenti per risolvere le contese tra gli uomini, i popoli e gli stati. Vogliamo un mondo basato sulla giustizia sociale, sulla solidarietà, sul rispetto reciproco, sul dialogo, su un’equa distribuzione delle risorse. Vogliamo un mondo in cui i governi garantiscano l’eguaglianza di base di tutti i membri della società, il diritto a cure mediche di elevata qualità e gratuite, il diritto a una istruzione pubblica che sviluppi la persona umana e ne arricchisca le conoscenze, il diritto a una libera informazione. Nel nostro Paese assistiamo invece, da molti anni, alla progressiva e sistematica demolizione di ogni principio di convivenza civile. Una gravissima deriva di barbarie è davanti ai nostri occhi. In nome delle “alleanze internazionali”, la classe po-
litica italiana ha scelto la guerra e l’aggressione di altri Paesi. In nome della “libertà”, la classe politica italiana ha scelto la guerra contro i propri cittadini costruendo un sistema di privilegi, basato sull’esclusione e sulla discriminazione, un sistema di arrogante prevaricazione, di ordinaria corruzione. In nome della “sicurezza”, la classe politica italiana ha scelto la guerra contro chi è venuto in Italia per sopravvivere, incitando all’odio e al razzismo. È questa una democrazia? Solo perché include tecniche elettorali di rappresentatività? Basta che in un Paese si voti perché lo si possa definire “democratico”? Noi consideriamo democratico un sistema politico che lavori per il bene comune privilegiando nel proprio agire i bisogni dei meno abbienti e dei gruppi sociali più deboli, per migliorarne le condizioni di vita, perché si possa essere una società di cittadini. È questo il mondo che vogliamo. Per noi, per tutti noi. Un mondo di eguaglianza.” Emergency
Meccanismo perverso Intervisto Marco (omonimia puramente casuale) un lavoratore del sociale perché ci racconti fatti e impressioni del suo lavoro. Hai lavorato per una cooperativa sociale? Sì, a Roma e per esperienza posso affermare che l’utente è solo una somma di denaro che la cooperativa accoglie. Non conoscono e non interessa la loro storia. Le cooperative sono un caporalato, la camorra dei servizi sociali; il capo mafia è il direttore sanitario che fa da cerniera fra i servizi. Noi operatori non veniamo seguiti. Tempo fa c’era stata una proposta, un disegno di legge per bay passare le coop: permettere alle persone che ne avessero avuto bisogno di prendere contatto direttamente gli operatori, ma le coop sono insorte e non se n’è fatto di nulla. A Roma ho lavorato per la cooperativa sociale “Psicosociosanitaria”, la maggior parte dei loro utenti erano disabili. Io non avevo ancora fatto il corso per diventare Operatore socio-sanitario (OSS), e poiché questo genere di professionalità mancava, affidavano i casi, anche quelli difficili, agli operatori diciamo inesperti: io ero uno di quelli. Fortunatamente mi piace l’autonomia, mai mi spaventa, e credo di essere una persona piuttosto creativa, lasciato a me stesso non stavo male, potevo seguire la mia sensibilità. In quel tempo mi è stato assegnato un caso difficilissimo, un ragazzo con una “psicosi d’innesto” con una madre “bipolare”, è andata a finire che mi sono occupato di entrambi, è stata dura. E poi? È passato del tempo… adesso sono Oss. Da qualche anno faccio assistenza agli anziani nelle Residenze sanitarie assistite (RSA una struttura relativamente nuova, prima c’era la lungodegenza, il gerontocomio in pratica). Anche lì ho visto speculare, speculare su queste persone che spesso non hanno nessuno a difenderle. Le cooperative sociali usano le diagnosi di Alzheimer per prendere in carico le persone. L’Alzheimer ormai è diventata una malattia sociale, è una forma di demenza che, come altre, per essere accertata ha bisogno dell’esame autoptico che si può fare solo a morte avvenuta, quindi è molto semplice diagnosticare la demenza, è come per la “pazzia”. L’antipsichiatria a questo proposito ha già detto molto. Insomma alla fine sicuramente che ci guadagna sono le cooperative e i giudici tutelari. Puoi parlaci meglio di queste figure? I giudici tutelari, spesso sono ex-magistrati a riposo, sono amministratori, prendono la pensione dell’anziano, e se è poca, anche quella di accompagnamento. É chiaro perché il sistema ha tutto l’interesse a diagnosticare una demenza…
Che hai visto ancora? Un altro esempio di questo meccanismo perverso si trova nel caso della Disfagia. Per gli anziani che non sono più in grado di nutrirsi normalmente è somministrata la PEG, una terapia che costa 40€ a flacone! Un bel guadagno per le case farmaceutiche. Nell’ascoltare le risposte di Marco non ho potuto fare a meno di riandare con la memoria a una mia esperienza in veste di animatrice: quando Mirella è arrivata a Villa Solaria mi ha subito colpita. Era una donna molto intelligente e colta, piena di energia, con una buona dose di rabbia. M’interessava questa donna, un’ex-maestra forse un po’ acida ma grintosa, con due occhi scuri belli vispi. L’avevano messa lì perché malata di Alzheimer, eppure io che le avevo parlato non avevo avuto l’impressione che fosse affetta da demenza, i suoi discorsi filavano perfettamente. Poi, piano piano, l’ho vista arrendersi e sfiorire, dopo un paio di mesi aveva perso lo spirito e la ragione. Purtroppo non saprò mai se è stata la malattia a prosciugarle l’intelletto o piuttosto tutti gli psicofarmaci che le davano. So che quando ancora ragionava, la sua versione dei fatti a proposito del ricovero era molto diversa da quella della responsabile della struttura. Mi diceva Mirella: “Io non volevo ricoverarmi ma sai alla fine insistono così tanto che ti costringono a firmare”. Mirella conosceva la Storia e amava la Musica classica. La cosa che si era portata da casa, e cui teneva di più era la sua raccolta di CD. Manuela Minneci
Prendi un poco di zucchero che la pillola va giu... L’aggettivo sociale significa letteralmente “che riguarda la società umana” e in particolare i rapporti tra individui e gruppi entro una comunità determinata. Oggi usiamo correntemente l’aggettivo sostantivato “sociale” per indicare l’insieme di attività, pubbliche e private, che abbiano lo scopo di coprire le esigenze dei cittadini che non possono per motivi economici o di salute provvedere ai bisogni primari, in realtà ci troviamo, sempre più spesso, di fronte ad un sociale che si rivolge a bisogni secondari o peggio ancora indotti dal consumismo. Il sociale ovviamente presumerebbe una società. La società attuale sembra avere un’accezione più nominale che sostanziale che si basa su un sistema di valori, di cultura, tradizioni, abitudini ed elementi comuni che, nonostante l’ostentato sventolamento di tricolori, sono stati travolti sul nascere da un sistema contrario che si avvale ancora di riferimenti linguistici appartenenti al sociale per affermare, di fatto, l’interesse dell’individuo che prevarica quello del gruppo, in una sfrenata corsa verso il primo posto che non conosce ostacoli e regole né di carattere etico né di carattere ideologico e culturale, infangando spesso anche i legami affettivi, derivandone una comunicazione più virtuale che reale, più apparente che sincera, più convenzionale che necessaria. Tra gli individui quelli che hanno un potere reale sono pochi, gli altri subiscono, oppure pietosamente tentano di imitare i più forti o li servono in cambio di favori, poi ci sono quelli che si oppongono, ma sono perdenti. In tale contesto sembra paradossale parlare di sociale e di società, perché sono termini che coprono in modo ridondante un edificio senza strutture portanti. Se vi fosse una società reale che riflettesse i veri bisogni dell’umanità, se vi fosse più solidarietà, più comunicazione, più senso di appartenenza non vi sarebbe un bisogno così prepotente di sociale. Peraltro dove lo stato o l’ente pubblico è chiamato a intervenire nel modo più etico possibile, come nell’assistenza e cura dei cittadini, lo fa poco e male, strizzando un occhio agli interessi economici dei privati che gestiscono le mille zone grigie autorizzate legalmente a speculare sui problemi più gravi della salute e della solitudine, come ben ci mostrano gli esempi delle case di cura e ambienti simili. Preso atto che in molti casi famiglie più consapevoli e gruppi sociali più solidali potrebbero sostituire l’assistenzialismo pubblico, laddove si verifichi la necessità di gestire anziani con patologie croniche degenerative o gravi problematiche psichiche, vediamo l’assenza dello stato sostituita da una pletora di associazioni, cooperative, enti religiosi e quanto altro; entità che perseguendo scopi e metodi del neoliberismo e praticando la politica di dipendenza dal pacco-dono fanno naufragare ogni aspirazione all’autonomia sociale ed economica della persona nonché alla legittima ribellione. In questo modo, curando così il sintomo e non le cause con mille palliativi come il sorriso-terapia, la danza-terapia o la delfino-terapia, contribuiscono a reiterare un mondo dove ai nostri bambini, cui sempre più si negano lo spazio e il tempo di giocare lontano dalle play-station, si offrono, paradossalmente, corsi di ludoterapia. Laura Turchi
¬LUCA BUSSOLETTI – Il cantacronache (IlFatto Quotidiano/Collezione Ubix)
Integriamo alla certezza di essere temporaneamente partecipi allo scardinamento di vari aspetti della società la medesima convinzione di essere unici ed irripetibili, ogni mattina, ogni qualvolta prendiamo decisioni, compiamo scelte, siano esse di natura prettamente personale o foriere di cambiamenti sociali. L’era della digitalizzazione non ha fatto altro che amplificare questa sensazione d’impotenza e di fragilità di fronte alle mal celate problematiche e responsabilità, di cui l’uomo stesso è il principale artefice. La musica, nell’accezione universale, da questo trambusto perenne non si è mai dissociata, anzi, ne ha sempre tratto linfa vitale per l’autosufficienza, ricreando nuove basi di sopravvivenza. Per l’occasione indichiamo solo alcuni periodi social-culturali dove la musica è stata parte preponderante del cambiamento: Gli Intonarumori di Russulo per il Futurismo, Il Jazz per l’emancipazione dei neri, la Psichedelia degli anni ’60 per la rivoluzione pacifista, il Punk ≠ No Future! Luca Bussoletti, giovane cantautore romano, con il suo “Cantacronache” racchiude questo senso di spaesamento e lo rivolta con l’ironia e la denuncia, lo sconfigge con il brio della giovane età e con la volontà di non arrendersi. Il “Cantacronache” è un disco ‘sociale’ che guarda al ‘sociale’, promosso da Il fatto Quotidiano, novità per il quotidiano che deve far riflettere sulla validità del lavoro; si distende, per tutta la sua durata, con leggiadra follia, fra le nefandezze moderne e l’amore per la vulnerabilità della vita. Come se Luca Bussoletti fosse un braccio esteso, invisibile, de “Il Fatto Quotidiano”, ne assimila i contenuti rendendoli gocce di spiccata genuinità in un deserto di speranze. Un Italia differente, l’Italia di chi apre gli occhi e, “vede il traffico nel mondo”, “Un traffico stupendo”, di chi, in questa società senza futuro, sarà “un vecchio Peter Pan che non fa più le tre e non vede di buon occhio la battaglia”. Luca Bussoletti è un menestrello del nuovo millennio, un giullare della democrazia in rovina, e nel suo personale viaggio si fa accompagnare da Dario Fo, Ascanio Celestini e da ottimi musicisti… ed intorno rovine, vetrine rotte e spazi vuoti. Nella chiusura della recensione per Saltinaria scrissi ‘L’amarezza, il disagio, la precarietà oramai stabilizzata, la globalizzazione, l’attualità, la formazione, la nuova emigrazione: ogni brano è un quadro ironico dell’odierno Limbo italiano. Nel calderone di Luca Bussolotti c’è tutto e ce n’é per tutti… Un Dante del moderno, una divina commedia con un solo canto!’ TRACKLIST 1. a spasso col mio cane 2. la sindrome di Peter Pan 3. a solo un metro (feat. Dario Fo) 4. Patrizio l’emigrante 5. c’era una volta un re 6. buon Natale 7. Corinna 8. mi amo 9. quando diventi acqua 10. tutto giù per aria + l’aereo di carta di Ascanio Celestini Hanno suonato in questo disco: Riccardo Corso: chitarre acustiche, chitarre elettriche, basso, programmazione e sinth Salvatore Romano: chitarra acustica Andrea Nicolè: batteria Andy Bartolucci: pianoforte Piero Ducros D’Andria: basso Sul web: www.lucabussoletti.com Grazie a: Saltinaria.it Rubrica musicale a cura di: Giuseppe Bianco
CONTENUTI REDAZIONALE pag.2 UNA RIFLESSIONE PER INIZIARE pag.3 IL PROBLEMA pag.4 KUORE L’ANGOLO MELENSO pag.5 BRODINO E GELATINA PER AMMALATI pag.5 EDUCATHARDCORE pag.6 LATO B pag.7 FLAGELLANTI DI IERI E DI OGGI pag.9 CATTIVI MAESTRI pag.10 EMERGENCY pag.12 MECCANISMO PERVERSO pag.13 PRENDI UN POCO DI ZUCCHERO CHE LA PILLOLA VA GIU’ pag.14 LUCA BUSSOLETTI IL CANTACRONACHE pag. 15
MARCO redazione@periodicomarco.it Fascicolo N°10 - Anno III Autunno/Inverno 2011 Rivista aperiodica di cultura e società. Supplemento a L’ALTRACITTA reg.trib. N°4599 del 11/7/96 Direttore Responsabile Cecilia Stefani Redazione Massimo De Micco Guru Katrame Consuelo Lorenzi Manuela Minneci Francesca Scaramozzino Laura Turchi Art Director Michele Vella Progetto Grafico e Impaginazione Raffaele Vella (raffaelevella@hotmail.it) Fotografia Raffaella Milo (raffaella.milo@alice.it) Rubrica musicale Giuseppe Bianco
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