www.piazzadelgrano.org
Editoriali 2009-2011 in collaborazione con
www.memori.it
Introduzione Col mese di ottobre scorso abbiamo concluso l’esperienza del mensile di “informazione, politica e cultura” Piazza del Grano che, due anni prima, di fronte all’evidenza di una crescente disaffezione a una politica sempre più autoreferenziale, disattenta e incapace di interpretare i bisogni e le speranze dei cittadini, avevamo pensato proprio come strumento di provocazione e di stimolo al dibattito politico e culturale della nostra Città, mettendo a disposizione di tutti coloro che ne avessero avuto la volontà, l’intelligenza e il coraggio un mezzo/luogo fisico per esprimere le loro idee, le proposte e i progetti. Il bilancio dei due anni del mensile lo abbiamo tratto nell’ultimo articolo di fondo del numero di ottobre 2011, che riportiamo in chiusura della presente pubblicazione. Abbiamo detto allora che la conclusione dell’esperienza del mensile non significava affatto l’abbandono del progetto politico e culturale che ne aveva motivato la nascita, progetto che anzi stava già proseguendo nella diversa forma comunicativa del nuovo quotidiano “on line” al quale, non a caso, abbiamo trasferito la testata all’indirizzo internet “www.piazzadelgrano.org”. A fianco del quotidiano telematico abbiamo poi posto mano al progetto della “casa editrice”, già preannunziato nei mesi precedenti, lanciando il concorso per la pubblicazione di scritti inediti, “Racconta”, in collaborazione con la casa editrice romana Memori. Gli opuscoli, che mensilmente stiamo distribuendo in 1.000 copie, vogliono rappresentare una anteprima dell’attività della “casa editrice”, ma anche riproporre contributi che, oltre la contingenza della loro pubblicazione temporale, possono ancora formare oggetto di riflessione, scambio e dunque dibattitto. Con l’odierna pubblicazione riproponiamo alcuni contributi, che chiamiamo “editoriali” in ragione della collocazione fisica che ebbero nelle pagine dei precedenti numeri del mensile, ma senza alcuna pretesa di qualificazione “intellettualistica” e tanto meno “opinionistica” (volendo dare alla desinenza “-istica” l’accezione degenerativa tipica dei “tuttologi” e peggio ancora degli ultimi arrivati tra
i sapienti del nulla: i “tecnici”). Ché, anzi, proprio il rifiuto delle “belle opinioni” era stata (e rigorosamente sarà ancora negli imminenti progetti di ritorno su carta in corso di messa a punto) la cifra qualificante del nostro periodico. Materiali di scambio, proposte di confronto, stimoli di dibattito, questo è il significato, lo spirito e lo scopo degli articoli che di seguito riproponiamo, convinti che i temi trattati, estratti come detto dalle contigenze temporali che li avevano stimolati, sono ancora tutti pienamente attuali e aperti alla più ampia discussione. Non è, infine, senza significato che abbiamo deciso di concludere questa pubblicazione col ricordo di uno degli eventi forse più “nobili” degli ultimi anni della nostra storia post bellica: la sentenza del Tribunale di Torino che per la prima volta (come atto giudiziario) ha ricordato la grande differenza che corre tra il dio pagano del profitto capitalista e il diritto alla vita dei lavoratori sfruttati da quel capitalismo senza scrupoli. Gli scenari di crisi che ci si prospettano, giorno dopo giorno sempre più tetri, debbono metterci in guardia dal ritorno (se mai se ne andata) di una aggressività padronale persino più spietata di quella sin qui conosciuta, capace di mettere sui due piatti della bilancia da un lato il bisogno del lavoro e dall’altro lo scambio col rischio della vita.
U n’o c c as i one d a no n p e r d er e di Luigi Napolitano (novembre 2009) La toponomastica sostituisce Giordano Bruno con San Domenico ma rimane la sua storia, il suo insegnamento. Foligno deve approfittarne: cittadini storici e quelli giunti da fuori, esperienze diverse da mettere insieme per una prosperità di sviluppo culturale che arricchisce la realtà in cui si concretizza. La casualità è senz’altro una costante della vita che finisce con l’incidere profondamente nel quotidiano di ciascuno. Ed è proprio la casualità di esser nato a Nola, città che diede i natali all’illustre filosofo Giordano (alla nascita Filippo) Bruno e la presenza nel mio studio di una stampa commemorativa che mi offrono la possibilità di porgere all’attenzione dei lettori queste brevi riflessioni. In un cordiale colloquio con uno degli esponenti dell’Associazione editrice del giornale, sono venuto a conoscenza della circostanza che la piazza intitolata a San Domenico era, in epoca precedente, dedicata a quel luminoso esempio della libertà di pensiero soffocata dall’Inquisizione che fu Filippo Bruno, il quale (forse per caso!) appartenne all’ordine dei frati domenicani assumendo il nome di Giordano all’epoca della sua iniziazione ecclesiastica. La fierezza del personaggio e la sua decisione, fino alla morte, nel fermo rifiuto all’abiura della sua dottrina ben si attagliano allo spirito che pervade la città di Foligno, che ha costituito nel XIII secolo l’unico baluardo ghibellino in Umbria ed è stata insignita, a seguito dei pesantissimi bombardamenti subiti nel corso della seconda guerra mondiale, del riconoscimento di Medaglia d’Argento al valor civile per aver “sopportato con fiero comportamento i bombardamenti e partecipato con intrepido coraggio alla lotta per la liberazione” (come si legge nel sito Internet della città). Ancora la casualità, se mi è consentito includere nell’ampio significato del termine gli eventi sismici del 1997, ha dettato i tempi e le priorità delle Ammini- pag. 3 strazioni Civiche che si sono succedute a far data da quei tragici eventi, assorbendone in maniera preponderante le
energie e fornendo, tuttavia, risorse economiche necessarie a restituire tanti palazzi storici ad un appropriato decoro ed alla ultimazione di una serie di opere altrimenti irrealizzabili, rendendo per un lungo periodo meno palpabile una crisi economica che ha coinvolto l’intero pianeta con un’intensità che tuttora preoccupa non poco. La chiusura di un periodo fatto di emergenze ed il momento contingente, credo rendano non più procrastinabile una programmazione di ampio respiro che consenta la realizzazione delle tantissime vocazioni cittadine siano esse economiche o culturali e, comunque, nel rispetto delle esigenze di tutti i ceti sociali non disgiunte da quelle dei tanti neocittadini provenienti da paesi e culture diverse ma non per questo meno meritevoli di attenzioni, soprattutto al fine di una corretta canalizzazione di energie che possono, anzi devono, costituire un valore aggiunto e non causa di un’immotivata conflittualità anche solo potenziale. Un ambiente che mette insieme esperienze, ricordi e visioni del mondo diverse porta una prosperità di sviluppo culturale che arricchisce la realtà in cui si concretizza; e che arricchimento deve essere stato quello di cui frà Giordano Bruno ha gratificato le tante città in cui ha vissuto da esule, emigrante, fuggitivo, scomunicato, maestro, fino al tradimento subito dal patrizio Giovanni Mocenigo. Il compito più gravoso spetta, funzionalmente, all’Amministrazione Civica che, supportata dalle forze politiche che la compongono e adeguatamente pungolata dall’opposizione, dovrà creare e coordinare tali processi coinvolgendo e mediando tra tutte le forze sociali, produttive e intellettuali che dovranno fare la loro parte se vorremo vedere appagato il desiderio di un “furore eroico con il quale l’anima rapita sopra l’orizzonte de gli affetti naturali vinta da gli alti pensieri, come morta al corpo, aspira ad alto” (De gli eroici furori – Giordano Bruno, Londra 1585).
Drag hi e luc e rt ol e di Sandro Ridolfi (gennaio 2010) Nella nuova rubrica dedicata alla Politica e all’Etica, che ab-
biamo aperto in questo primo numero del 2010, abbiamo voluto ricordare la figura politica di Enrico Berlinguer; torneremo ancora sull’argomento per approfondire e discutere la storia del Pci. Enrico Berlinguer è stato un personaggio politico molto discusso nel suo tempo all’interno della sinistra comunista extra parlamentare; mai tuttavia è stata messa in discussione la sua dirittura morale. Fu Berlinguer a porre al primo posto della vita politica la “questione morale” in un momento assai difficile per l’Italia. Nel suo monito Enrico Berlinguer non si riferiva alle ruberie di craxiana memoria, ma a una visione dell’impegno politico inteso come servizio ai propri ideali e alla società e non come esercizio di un potere presuntuoso e arrogante o, persino peggio, come impiego di sopravvivenza. Si attribuisce a Mao una denuncia che recita: «Abbiamo seminato una stirpe di draghi, stiamo raccogliendo lucertole». Oggi guerrigliere dei diritti civili dapprima si strappano le vesti per la libertà del popolo tibetano poi, finite le Olimpiadi di Pechino e in vista dell’esposizione internazionale di Milano con la Cina ospite d’onore, dimenticano il Dalai Lama ricordandosi che in fondo qui siamo cattolici, non disdegnando personali candidature a governatorati. Altri accendono fiaccole in difesa delle popolazioni in fuga dalle guerre etniche del Darfur, del Kurdistan, della Somalia e tante tante altre e poi approvano, o comunque ipocritamente “tollerano”, i respingimenti in mare di quegli stessi fuggiaschi per non dispiacere a un elettorato incattivito da una gravissima crisi economica e occupazionale. Escort, viados e statuette di metallo riempiono le prime pagine dei nostri quotidiani e delle televisioni. Certamente “questa” politica e “questi” politici giustificano un sentimento sempre più diffuso e crescente di disillusione e persino di rifiuto della politica come “cosa sporca”. C’è però un detto che potremmo così parafrasare: “non domandarti cosa fa la politica per te, chiediti piuttosto cosa fai tu per la politica”. La politica comincia dalla propria casa, quartiere pag. 5 o posto di lavoro. Bisogna tornare a fare politica, tutti. Le elezioni cadono oramai ogni anno, ma nulla cambia nella vi-
ta politica se non cambia la partecipazione attiva e quotidiana del popolo.
L a P ol it ic a Og g i di Luigi Napolitano (gennaio 2010) Il termine politica ha etimologia greca, è legata alla polis come comunità dei cittadini e indica secondo Aristotele l’arte di governare uno Stato, governo che fin dall’epoca greca poteva realizzarsi, secondo il pensiero del filosofo, in varie forme quali: la democrazia ossia il governo del popolo, l’oligarchia ossia il governo di pochi, la monarchia ossia il governo di un sol uomo. Nell’accezione comune la politica indica anche l’attività dell’opposizione, ossia di coloro che, confrontandosi con i governanti e proponendo soluzioni alternative, finalizzano le loro iniziative a sostituirsi a questi ultimi. Un’ulteriore nozione della politica, sviluppata nell’umanesimo, vede in essa un valore, la concepisce come la modalità più autentica dell’agire umano e implicita nella formula aristotelica dell’uomo “animale politico” che esalta e contrappone la vita attiva alla vita contemplativa. La vita attiva si realizza oggi per la maggioranza delle persone esclusivamente mediante l’esercizio del voto che una legge, quanto mai improvvida e approvata nell’indifferenza di coloro che vi si sarebbero potuto e dovuto opporre, ha limitato alla scelta dello schieramento, negando la possibilità di valutare all’interno dello stesso le persone più meritevoli e di creare con loro un opportuno, se non necessario, patto di fiducia. Un esempio di vita attiva va senz’altro individuato nella manifestazione svoltasi a Roma il 5 dicembre 2009 che, senza alcun supporto da parte delle strutture classiche del mondo della politica, grazie agli strumenti tecnologici che hanno rivoluzionato il mondo delle comunicazioni e non solo, ha radunato in piazza un popolo che, in modo assolutamente pacifico, ha manifestato le proprie istanze. La funzione più autentica della politica resta, comunque, la gestione del potere e costituisce, di fatto, una necessità il cui fine ultimo dovrebbe essere il bene comune realizzato nel
rispetto delle norme e dei sistemi che regolano la vita pubblica dello Stato. Tuttavia, da tempo, si avverte diffusamente in tutti i contesti relazionali, rispetto alla politica, un senso di disagio, se non di fastidio. Sensazione che trova il suo fondamento nello spettacolo a cui assistiamo quasi quotidianamente allorquando i nostri rappresentanti istituzionali, democraticamente eletti seppur scelti dagli apparati partitici, si confrontano su argomenti che dovrebbero essere, ma non sempre, anzi quasi mai sono, di interesse generale. Sembrano in questo contesto quanto mai opportuni i continui inviti da parte delle più alte cariche dello Stato ad abbassare i toni di un confronto tra le parti mai stato tale, anzi divenuto scontro violento e dalla natura endemica, che certamente non costituisce un buon viatico per affrontare serenamente le prossime elezioni di marzo, le annunciate riforme del sistema giudiziario e fiscale da parte del governo in carica e l’approvazione di tutta una serie di leggi in tema di famiglia, di bioetica, di scuola, di università, di integrazione e di lavoro. Il nostro sistema che può definirsi di democrazia compiuta, basato in quanto tale sulla pluralità dell’offerta politica e, dunque sull’alternanza, non può prescindere dal sentimento di appartenenza alla comunità nazionale che trova il suo momento politico più alto nella approvazione della Carta Costituzionale entrata in vigore il 1° gennaio 1948 che, a distanza di oltre sessanta anni nei quali il mondo è cambiato vertiginosamente, necessita di alcuni fisiologici ritocchi che consentano un miglior funzionamento della nostra macchina statale dando agilità alle decisioni politiche e trasparenza alla gestione del potere. Tali modifiche non possono, ovviamente, riguardare in alcun modo i diritti delle persone e le regole costituenti le fondamenta della nostra democrazia, né le organizzazioni costituzionali nella loro funzione di controllo. Al fine di rendere democraticamente compiuto il quadro degli schieramenti che si contendono il potere ed essendo ad oggi quanto mai chiara la po- pag. 7 sizione dello schieramento governativo, sembra opportuno che l’opposizione, abbandonando un terreno di scontro ste-
rile per il bene comune ed una conflittualità interna ai più incomprensibile, renda conoscibili le sue offerte politiche palesando un progetto chiaro sulle tante questioni relative alla gestione dello Stato e della società.
Crit ic a e au to c rit ic a di Sandro Ridolfi (febbraio 2010) Nella storia dei popoli e dei governi è accaduto alcune volte che eventi negativi straordinari hanno travolto le pur ottime capacità e l’onesto impegno dei responsabili del governo. Altre volte è persino accaduto che grazie alla capacità ed all’onestà di certi governanti tali eventi negativi hanno avuto conseguenze di minore gravità. Queste però sono state sempre eccezioni. La “regola” che ci ha insegnato la storia è stata quella di governanti modesti nel gestire la normalità e del tutto incapaci di gestire l’emergenza. Nella cultura comunista, che non conosce né l’assoluzione garantita del pentimento né la dannazione eterna per l’imperdonabile, la vita sociale e politica viene governata con gli strumenti della critica e della autocritica. La prima per indagare sulle ragioni degli eventi, comprenderne cause e conseguenze per correggere l’errore e migliorare il futuro; la seconda per accertare le responsabilità, riconoscerle ed ammetterle per diventare migliori e nuovamente utili. Diceva il Presidente Mao: “Siamo al servizio del popolo, perciò non abbiamo paura quando gli altri notano e criticano le nostre manchevolezze. Siamo pronti ad accettare la critica dei nostri difetti da chiunque. Se hanno ragione loro, ci correggeremo. Ogni proposta diretta a migliorare il benessere del popolo sarà da noi accettata”. L’Italia sprofonda in una crisi economica gravissima che certamente viene da lontano, ma che ha trovato nel nostro paese un terreno fertile preparato da politiche di governo dell’economia insensate e l’Umbria non si sottrae a questa crisi e critica. La regione “ex bella” sta degradando rapidamente verso una diffusa meridionalizzazione economica, sociale e culturale, sempre più aggrappata a sussidi e ad opere pubbliche troppo spesso inutili, scoordinate e fini
a se stesse. Una dopo l’altra cadono le “eccellenze” e soprattutto si va dissolvendo la struttura portante della produzione meccanica di qualità che sin dall’inizio del novecento aveva fatto di questa piccola regione un punto di riferimento nazionale. In pochi anni si sta disperdendo un enorme patrimonio, sia economico che culturale, faticosamente accumulato in decenni di buon governo comunista. Abbiamo di recente assistito ai confronti delle “primarie” che ha (ri)portato alla ribalta personaggi che stanno dimostrando una longevità politica che insegue da vicino il record di Andreotti che sino a ieri sembrava irraggiungibile. Eppure non s’è sentita l’eco di una sola critica, tanto meno di pentimenti e meno che mai di autocritiche.
Il Pa e se Re a le di Sandro Ridolfi (marzo 2010) Elezioni regionali: chi “corre” e chi non “corre”; decreti ministeriali: chi viene “ripescato” e chi resta “fuori”; interventi del Capo dello Stato: chi “ossequia” l’Alta Carica e chi ne chiede l’“impeachment”; pronunce di tribunali: chi “subisce” le nuove regole ad hoc e chi le “ignora”; e ancora risse parlamentari, voti di fiducia, immunità a “tutti i costi”. La “governance” dello Stato, delle Regioni, della Pubblica Amministrazione in genere la fa da padrona nella stampa, nelle televisioni, nell’attenzione del dibattito politico, culturale (se così si può chiamare la bagarre in corso) e sociale. Ma la società, il così detto “Paese Reale”, dov’è? Non possiamo e non vogliamo affatto sminuire o sottovalutare l’importanza della definizione degli assetti di potere e di governo del Paese nel senso più ampio e in tutte le sue articolazioni centrali e locali; ma ci poniamo con forza la domanda: il governo di quale Paese? Se dovessimo per un attimo paragonare il Paese una azienda (e non andiamo lontano da una ideologia da tempo dilagante) diremmo che stiamo assistendo a una rissa all’interno del Consiglio di Amministrazione tra chi vuole pag. 9 assumerne la presidenza, chi le deleghe con tanto di poteri ed emolumenti, chi “sotto sotto” si occupa invece dei suoi
“benefit” particolari (comprese le carte di credito per i “bisogni sessuali”); ma l’“oggetto” dell’amministrazione dov’è? L’azienda è allo sbando, la barca affonda, il Paese sprofonda in una crisi gravissima, eppure la “ciurma” e i passeggeri di prima classe sembrano non curarsene, continuando a cantare e ballare (o a “scannarsi” tra di loro) nei lussuosi saloni dei piani alti. Usciamo dalla metafora per denunziare e cercare, per quello che è nelle nostre possibilità, di riportare l’attenzione sulla gravità della crisi economica e occupazionale che sta colpendo il nostro territorio. Una fabbrica di oltre mille lavoratori è oramai data per “morta”. Mille dipendenti diretti, altrettanti se non di più nell’indotto nel senso più ampio, incluso quello dei servizi anche commerciali. Duemila o più famiglie a rischio di reddito “zero”. Facciamo una semplice moltiplicazione e potremmo immaginare un’intera cittadina di adulti, giovani, anziani e bambini, delle dimensioni più o meno di Trevi o Montefalco, in imminente rischio di disoccupazione e povertà assoluta. Tante le responsabilità che vengono da lontano: a partire dalla incompetenza di imprenditori “fasulli”, dalle regalìe dello Stato a fondo perduto, dalle distrazioni di fondi e mancati investimenti, dalla totale assenza, soprattutto, di ogni controllo e governo dell’economia nazionale abbandonata all’arrembaggio degli speculatori. Ma tante anche le responsabilità più recenti fino a quelle di oggi: a partire dall’assenza di un serio piano di intervento pubblico che sta esponendo quel complesso aziendale, oramai fermo da oltre un anno, al rischio di uno “spezzatino” sfacciatamente speculativo, ancora una volta basato sulla “caccia” ai finanziamenti pubblici, qualunque essi siano e da dovunque provengano, ma comunque senza alcuna seria prospettiva aziendale per il futuro. Per quello che possiamo contribuire con questo periodico locale abbiamo allora deciso di modificarne, per questo numero, l’impostazione, dedicando la prima pagina alla lotta degli operai della Merloni in difesa del loro posto di lavoro, delle loro famiglie, della loro dignità umana. Ci auguriamo che anche la “politica politicante” del nostro ter-
ritorio abbia la sensibilità e l’intelligenza di fare altrettanto, abbandonando le logiche puramente elettoralistiche di chi “vince” e chi “perde”, per assumere la priorità della difesa e della cura del “Paese Reale”, del lavoro e dei lavoratori sul quale e sui quali “dovrebbe” essere fondata la nostra Repubblica.
L a p ol it ic a c h e v or r ei di Luigi Napolitano (aprile 2010) Educare alla legalità significa elaborare e diffondere la cultura dei valori civili, con la consapevolezza della pari dignità Ho vissuto il giorno della maturità scolastica come quello della liberazione da una incomprensibile costrizione, durata tredici anni, alla quale mi vedevo sottoposto da un inspiegabile obbligo di legge e dal tacito accordo tra i professori e i miei genitori. Il tempo ha, naturalmente, modificato questa mia iniziale visione della vita scolastica e fatto apprezzare, valutandolo con occhio diverso, sicuramente reso più maturo e addirittura affettuoso dal tempo, il lavoro di chi, con uno sforzo ciclopico, ha cercato di instillare giorno dopo giorno nella mia mente l’importanza della conoscenza e della formazione. In una società dove i lavori manuali più umili a breve saranno, probabilmente, svolti da droidi e che oggi vengono svolti prevalentemente da persone costrette, per esigenze di vita primarie, ad abbandonare i loro paesi di origine, appare fondamentale il ruolo della scuola a cui sono legati i problemi dei docenti. Sono loro, infatti, il pilastro portante dell’intero sistema e la loro formazione, che prevede un excursus severissimo e il confronto quotidiano con gli studenti e le loro famiglie, unitamente a programmi adeguati e condizioni ambientali soddisfacenti, meriterebbero grande attenzione e profusione di mezzi. In questo contesto appare quanto meno riduttiva la discussione oggi in atto, basata prevalentemente sulla preoccupazione di contenere i costi di gestione del mondo scolastico. Il diritto allo pag. 11 studio, che può consentire a ciascuno il miglioramento della propria condizione di vita, è e deve essere considerato un
bene primario di ciascuno, ma soprattutto della società. Del pari appare inspiegabile che di un altro bene primario quale il diritto alla salute e dell’assistenza sanitaria si parli esclusivamente in termini di costi e di tagli alla spesa, elementi questi che, di fatto, pongono dei forti limiti al servizio, hanno reso impossibile la ricerca e allontanato dal nostro paese le menti migliori. Un paese civile ha l’obbligo di garantire a tutte le persone presenti sul suo territorio una corretta ed esauriente assistenza sanitaria che non può svilupparsi senza adeguati investimenti nella ricerca. Ancora difficile da comprendere è la scarsa attenzione al mondo del lavoro, alle difficili condizioni in cui operano le aziende con la conseguente ricaduta a carico dei lavoratori e alla sicurezza in cui operano. Anche qui è apparso quanto meno singolare il tentativo di introdurre una norma che, laddove il contratto collettivo di lavoro non arriva, avrebbe attribuito al ministro del Lavoro il diritto di disciplinare la materia consentendo l’inserimento nel contratto individuale di una clausola compromissoria che avrebbe affidato la risoluzione delle controversie tra datore di lavoro e lavoratore ad un arbitro anziché al giudice. Non è un caso, dunque, che il Presidente della Repubblica abbia rimesso il testo della legge alle Camere in quanto una norma siffatta sembra aggirare il disposto dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori e violare il principio della parità nella stipula del contratto di lavoro che, in seguito alle modifiche proposte, definire giusto appare arduo. Altresì sono caduti in una sorta di oblio, argomenti che hanno occupato la scena mediatica in maniera prepotente quali la regolamentazione dei rapporti di fatto delle coppie, il testamento biologico, la legge sullo studio delle cellule staminali e sulla fecondazione assistita. Né si ode alcun accenno circa la tutela dell’ambiente, del territorio e la gestione delle risorse idriche ed energetiche che un’avventurosa liberalizzazione del mercato vorrebbe affidata a privati. E’ su questi argomenti, quasi tutti di rilievo Costituzionale, che avrei pensato, ma forse mi appare più corretto dire desiderato, si sviluppasse il dibattito tra coloro che si sono
candidati ad amministrarci in vista dell’ultima tornata elettorale. Non entro nel merito dell’esclusione della lista di un importante partito dalla competizione elettorale laziale, essendo stati fin troppo dibattuti la vicenda, i dubbi, gli aspetti che poneva e in particolare quello relativo al rispetto sempre e comunque della legge, ma dopo aver ascoltato le considerazioni degli eletti a presiedere regioni importanti come il Piemonte e il Veneto, già precedute da quelle di esponenti di spicco della stessa parte politica nei confronti del metodo farmacologico per l’interruzione precoce di gravidanza, ossia la pillola RU486, mi piace concludere ricordando prima di tutto a me stesso, ma anche a chi avrà la pazienza di leggere queste mie considerazioni, il concetto di legalità e di educazione alla stessa, diffuso nel sito web del Comune di Firenze. “L’educazione alla legalità ha per oggetto la natura e la funzione delle regole nella vita sociale, i valori della democrazia, l’esercizio dei diritti di cittadinanza. Educare alla legalità significa elaborare e diffondere la cultura dei valori civili, consente l’acquisizione di una nozione più profonda dei diritti di cittadinanza, partendo dalla consapevolezza della reciprocità fra soggetti dotati della stessa dignità. Essa aiuta a comprendere come l’organizzazione della vita personale e sociale si fondi su un sistema di relazioni giuridiche, sviluppa la consapevolezza che condizioni quali dignità, libertà, solidarietà, sicurezza non possano considerarsi come acquisite per sempre, ma vanno perseguite, volute e, una volta conquistate, protette.”
La Gr ec i a e l e me rav i gl i e ac robati c he del ca pit a lis mo di Sandro Ridolfi (maggio 2010) La Grecia, ovvero il dissesto del bilancio pubblico della Grecia, è da alcuni giorni sulle prime pagine di tutti i giornali; quando questo articolo verrà pubblicato probabilmente ci saranno stati sviluppi che potrebbero avere cambiato il qua- pag. 13 dro politico ed economico attuale. Il tema di questo articolo tuttavia, anche se mosso dalla drammaticità dell’attualità,
va oltre quest’ultima e vuole parlare di un aspetto per così dire “universale” del capitalismo contemporaneo: della sua capacità di trarre profitto anche dalle più grandi dis-grazie. E’ opinione comune, o almeno questo è il risultato del condizionamento mediatico, che la crisi economica della Grecia sia dovuta agli eccessi di benessere dei propri cittadini, alla loro ignavia, alla loro corruzione morale ed economica. In parte è vero; ma quali le origini e le ragioni? Come mai un popolo modesto, lavoratore e onesto ha potuto divenire in così poco tempo un popolo di parassiti appesi ai sussidi dello Stato, affascinato da improvvisi e immeritati (in verità piccoli e miserabili) privilegi? La ragione è tutta nella natura corrotta e corruttrice dell’economia e della cultura capitalista. Da sempre (troverete nelle pagine interne un brano di Platone che oltre duemila anni fa denunziava proprio i danni nefasti di queste politiche) la concessione al popolo “bue” di regalie immeritate, di privilegi illegittimi e di quant’altro di illecito e illegale è stato un potente strumento di controllo da parte delle classi governanti. Per dilagare nella sua nuova versione del libero e sfrenato “mercato globale”, il capitalismo ha dovuto “oscurare” l’intelligenza dei popoli e lo ha fatto scientificamente, sollecitandone i lati “oscuri”, corrompendolo e rendendolo complice delle sue ingiustizie e illegalità. Al popolo greco il capitalismo ha elargito “a piene mani” le briciole delle sue sempre più grandi e sempre più concentrate ricchezze, per comprarne il consenso o almeno un colpevole silenzio. Dove sono allora le vere ragioni della crisi economica della Grecia? Sono nella insaziabile sete di ricchezza delle nazioni già più ricche. Il disavanzo del bilancio greco è interamente dovuto a un eccesso di importazioni che ha portato ad un indebitamento estero insostenibile e, guarda caso, proprio nei confronti di quegli Stati che oggi, arrogantemente e spocchiosamente, ne censurano gli eccessi delle modeste politiche sociali. Il debito dell’economia greca ha sostenuto il grande arricchimento di quella tedesca. Ora proprio la Germania è chiamata a salvare la Grecia, finanziando quel debito che è stato contratto, come detto,
in grande parte proprio con lei stessa. In sostanza dunque una “partita di giro”. Ed ecco la doppia acrobazia del capitalismo. Col prelievo dalle tasche dei propri cittadini la Germania (probabilmente) sosterrà il debito greco; la Grecia sicuramente non lo rimborserà, almeno non tutto o comunque non in tempi “ragionevoli”, ma nello stesso tempo, invece, lo rimborserà subito e con altissimi interessi. La Grecia, contabilmente risanata, continuerà a importare beni socialmente inutili (enorme è la spesa militare) a prezzi altissimi, “fuori mercato”, proprio dalla sua finanziatrice Germania, la quale dunque si ripagherà con gli interessi della sua odierna “pelosa” generosità. Ma a chi andranno i benefici di questi (indiretti) rimborsi? In parte certamente a sostegno dell’economia e quindi di tutti i cittadini tedeschi, ma in parte, in buona parte, nelle tasche dei padroni dell’economia tedesca. Meraviglie del capitalismo! Il popolo greco pagherà con enormi sacrifici il risanamento della propria economia, il popolo tedesco sosterrà in parte tali oneri, i padroni guadagneranno due volte: sul debito greco e sulla sua restituzione col sovrapprezzo delle importazioni. Toccherà anche a noi? Ultima meraviglia: l’euro scende, ma anche il petrolio (in dollari!) “stranamente” scende, le industrie europee rinforzano la loro competitività… anche questo sulla pelle dei greci.
Il pa rti to di ma gg io ran z a re l at iv a di Luigi Napolitano (maggio 2010) Le ragioni del non voto. Gaber e De Andrè tra i sostenitori. Cambiare tutto perché nulla cambi. Smarrimento o scelta politica? Sono rimasto profondamente colpito dalla simpatica vignetta pubblicata a pagina dieci nello scorso numero di questo giornale nella parte che diceva “fa molto pensare che circa trenta elettori su cento in Umbria abbiano scelto di non votare”. Ritengo, infatti, che la Regione Umbria sia stata fin qui pag. 15 egregiamente governata e, seppur lo spettacolo offerto dal partito di maggioranza della coalizione che da sempre de-
tiene il potere, in occasione delle elezioni regionali di quest’anno, non è stato dei più esaltanti, pensavo che la regola da cui discende l’indissolubile legame tra l’esercizio di un diritto, definito dalla Costituzione inequivocabilmente all’art.48 “dovere civico” e lo status di cittadino, fosse di maggior presa sull’elettorato di questa splendida regione. Ho così cercato di approfondire le cause di un fenomeno che su scala nazionale, alle ultime elezioni, è andato anche oltre la percentuale umbra portando il numero degli astenuti a sfiorare la quota del trentasette per cento rendendolo, di fatto, il maggior partito del Paese. In questo lavoro mi sono subito imbattuto in una datata intervista a Giorgio Gaber che, scoprendosi deluso da uno Stato che non funzionava affermava “il senso della parola democrazia si è annacquato ed è ormai perso in un mare di finzioni tanto che il cittadino vota sempre meno nonostante si tenti di condizionarlo” e nei versi di Fabrizio de Andrè che dice “votare assomiglia a quell’ora d’aria che ti concedono in galera prima di tornare dietro le sbarre, di respirare la stessa aria di un secondino non mi va perciò ho deciso di rinunciare alla mia ora di libertà”. Entrambi denunciano, in tempi non sospetti, alcuni guasti dell’apparato democratico, mostrando un’insofferenza verso un sistema che stabilisce ciò che è bene per il singolo in quanto componente della comunità e non tiene conto di ciò che il singolo vuole per sé. Altro punto fermo degli iscritti al partito del non voto è che il gratificato dal voto deve rappresentare gli interessi di chi lo ha votato bilanciandoli con gli interessi altrui e non metterli da parte dopo aver intascato il voto. Ancora vengono denunciate: la corruzione; le campagne elettorali imperniate sulla violenza verbale dispensata dai candidati a piene mani, vissute tra litigi ed animosità al limite dello scontro fisico, sempre incentrati su differenze artificiali e prive di fondamento, utilizzati per nascondere l’assoluta mancanza di differenze reali tra i due poli che si contendono il governo del paese; gli slogan demagogici miranti unicamente a far leva sulla stantia e sempre più improponibile scelta di campo tra destra e sini-
stra come configurate e proposte dai politici d’oggi; il disastroso esito di iniziative che sembrava dovessero determinare svolte epocali nella vita politica italiana. Il referendum del 1993 indetto con l’obiettivo di abbattere la partitocrazia non ha certo bonificato il sistema dalla partitocrazia ma solo causato qualche operazione di maquillage. Il tanto magnificato maggioritario si è risolto prima nel “Mattarellum”, poi addirittura nel “Porcellum”, l’abolizione del Ministero dell’Agricoltura ha portato alla nascita del Ministero per le risorse agricole, lo stop al sistema del finanziamento pubblico dei partiti è stato ignorato. Tutto ciò che con i voti referendari si era creduto di buttare fuori dalla porta è rientrato dalla finestra. D’altronde i meccanismi non cambiano facilmente se già nel “Gattopardo” Giuseppe Tomasi di Lampedusa aveva sottolineato come per le classi dominanti del meridione l’obiettivo era quello di cambiare tutto, affinché non cambiasse nulla. Infine, ma non da ultimo, viene indicata la totale padronanza della scena politica da parte di una maggioranza che non sviluppa alcun utile dibattito per la società e l’assenza di una credibile proposta alternativa che determina un vuoto rispetto al quale non si intravvede alcun tentativo che lo possa colmare. Da tutte queste indicazioni si è formato in me il convincimento che il non voto più che esprimere uno smarrimento dell’elettore sia un chiaro invito, molto politico, indirizzato alla nostra classe governante a ricercare gli elementi che consentano una riqualificazione del dibattito e una maggiore attenzione ai problemi dei cittadini più che a quelli delle persone che la politica gestiscono.
L’ ev as ion e e l’ am b u lan z a. So cia lis m o o ba rb ari e di Sandro Ridolfi (giugno 2010) Da lungo tempo, si potrebbe dire da sempre, sentiamo dire (e alla fine tutti facciamo il coro) che un male endemico, pag. 17 quasi epidemico, dell’Italia è l’evasione fiscale (una volta si diceva anche il lavoro “sommerso”, ma questo “indice” eco-
nomico è da un po’ di tempo scomparso dal lessico politico-economico, chissà perché). In Italia si pagano tasse (imposte!) esageratamente elevate che penalizzano lo sviluppo economico e la gestione della “macchina” pubblica, colpa dell’evasione che se fosse efficacemente combattuta porterebbe nelle casse dello Stato più risorse. Più risorse, certo, ma da destinare come e a cosa? Non all’aumento dei servizi pubblici in senso lato, non alla sanità, non alla scuola (pubblica), non alla ricerca (pubblica), non alle pensioni o allo stato sociale in genere, voci tutte da “tagliare” drasticamente per abbattere il così detto “disavanzo pubblico”. E allora a cosa? Ad abbattere il carico fiscale alle imprese, a finanziare le imprese, a finanziare e sostenere l’economia privata. Ma in cosa si sostanzia in verità l’evasione fiscale? Esattamente nella stessa cosa, denaro delle imprese (grandi, medie e piccole, anche piccolissime artigianali e commerciali) che, evadendo le imposte, di fatto, almeno in parte, reinvestono il “prodotto” dell’evasione nel sostegno alle proprie attività. Vero questo, cosa c’entra la lotta all’evasione fiscale con lo sviluppo economico? Nulla! La lotta all’evasione fiscale assolve a un principio etico, di equità e onestà e, sostanzialmente, è diretta a sostenere i fabbisogni della “macchina” pubblica (è almeno dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino della rivoluzione francese del 1700 che il concetto di imposte è legato alla sostegno della spesa pubblica). Un problema etico, dunque, e non economico. Perché confondere i due termini, perché imputare alla immoralità fiscale (sia chiaro: un crimine gravissimo) ciò che invece è legato a un altro fenomeno? Perché imputare alla cattiva morale di tutti i cittadini quello che invece è il prodotto di una, a voler giudicare bene, incapacità di una classe imprenditoriale cialtrona e contoterzista, a volerla giudicare “meglio”, a una distrazione a fini personali da parte dei signori di quella classe degli utili prodotti dalle proprie imprese industriali e commerciali? Serve a confondere le idee, a depistare l’attenzione e l’intelligenza dei lavoratori dal vero “male endemico” della nostra economia capitalista fatta
da capitalisti senza capitali, da speculatori senza imprese, da cialtroni che vivono di sovvenzioni pubbliche (delle tasse pagate dagli altri, appunto) per farne ricchezza personale sempre più grande, sempre più concentrata. La confusione è divenuta tanto grande che persino quei politici che dovrebbero combatterla l’hanno assorbita fino a farne bandiera dei loro progetti di riforma devastatrice dei principi stessi dello stato moderno, etico e sociale. “Non gli mandiamo l’ambulanza” (a chi non paga le “tasse”) ha detto un “certo” leader della opposizione! Ma sì, togliamo i diritti fondamentali della persona umana, quelli chiamati diritti “naturali”. E intanto smantelliamo lo stato sociale, smantelliamo i servizi pubblici, smantelliamo l’industria pubblica, quella a cui si deve “realmente” il “miracolo” economico dell’Italia del dopoguerra. Aveva ragione Rosa Luxemburg quando diceva “socialismo o barbarie”, il socialismo è stato abiurato, stiamo andando verso la barbarie.
Cal ig ol a e i l suo c a va ll o di Luigi Napolitano (luglio 2010) Il disprezzo per le istituzioni non soffre l'usura del tempo Uno degli aneddoti della storia dell’impero di Roma che, più di altri, ha colpito la mia immaginazione di scolaro, è stata la nomina a senatore da parte dell’imperatore Caligola del suo cavallo il cui nome, pare, fosse Incitatus. Non riuscivo ad immaginare la presenza di un cavallo nel Senato, luogo, pensavo, costruito per ospitare persone ma, soprattutto, non riuscivo a capire cosa a-vrebbe potuto “dire” e fare Incitatus in un contesto che mi avevano insegnato esser deputato a ospitare dibattiti e decisioni circa gli interessi e il futuro della Città. La curiosità per questa vi-cenda, che poi ho scoperto essere una leggenda, nata forse da una semplice dichiarazione di Caligola, mi ha indotto negli anni dell’adolescenza ad andarla ad approfondire. Ho così appurato che il breve impero di Gaio Giulio Cesare Germanico, detto Ca- pag. 19 ligola, fu caratterizzato oltre che da comportamenti stravaganti, eccentrici e talvolta addirittura depravati da una serie
di atti che tendevano a una continua umiliazione della classe senatoria, il cui culmine sarebbe stato raggiunto col decreto di nomina del cavallo che esprimeva il disprezzo dell’imperatore per il Senato. Questo ricordo temporalmente risalente alla mia vita scolastica e riposto negli archivi della memoria, mi è tornato in mente leggendo le cronache legate alla nomina di un nuovo ministro, alle vicende conseguenti ed alle reazioni che ha scatenato all’interno della stessa parte politica di appartenenza. La nomina a ministro di un deputato della maggioranza, già sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, effettuata inizialmente “per l’attuazione del federalismo”, deve essere apparsa agli occhi dell’inconsapevole titolare del dicastero per le Riforme per il Federalismo, una grave deminutio, in quanto si è affrettato a dichiarare, corroborato da analoga dichiarazione del titolare del ministero dell’Economia e delle Finanze, che unico responsabile del federalismo è lui. La funzione del nuovo ministero è divenuta così “per la sussidiarietà e il decentramento”. Soddisfatti dalla modifica, il rilievo che i politici di appartenenza leghista hanno mosso alla nomina è stato quello di dichiarare che “l’unico errore fatto è stato quello di aver dato una delega sbagliata al neomini-stro in quanto toccava il federalismo che è, invece, una cosa della Lega”. A questa nomina, alle modalità di individuazione delle funzioni ed alla repentina modifica non hanno fatto seguito, nel mondo politico, particolari commenti negativi fino a che il titolare del nuovo ministero, dopo soli cinque giorni, ha eccepito, in base alla legge, il legittimo impedimento a partecipare all’udienza del processo sul tentativo di scalata ad Antonveneta in cui è imputato ed ha motivato la richiesta di sospensione del processo con la necessità di organizzare il nuovo ministero, circostanza questa smentita addirittura dal Quirinale che ha fatto presente che il nuovo ministero, essendo tra quelli senza portafoglio, ossia privi di autonomia di spesa, non hanno una loro struttura. A seguito dell’intervento della più alta carica dello Stato e di numerosi esponenti politici non solo dell’opposizione ma anche della
sua parte politica, il neoministro ha rinunciato al legittimo impedimento. Nonostante la vicenda si sia chiusa con la rinuncia al legittimo impedimento e con le dimissioni del ministro, non stupisce che, dopo la locuzione “leggi ad personam”, sia stata coniata quella di “ministero ad personam”. A margine di ciò, voglio ricordare che i ministri (dal latino minister che significa servo, inteso come servitore dello Stato per quel determinato ambito), normati dall’art.92 della Costituzione, sono i capi dei ministeri (intesi come importanti organi amministrativi dello Stato Italiano, distinti da una specifica competenza con struttura molto complessa), nonché membri del consiglio dei ministri, che dirigono l’azione amministrativa e adottano le decisioni di maggiore importanza. E’ evidente pertanto il prestigio di una tale posizione, così come il rispetto che coloro i quali la esercitano dovrebbe manifestare. Essendo l’impero di Caligola durato solo quattro anni e, assistendo nel nostro paese da molti più anni, oltre che all’episodio descritto, anche a tanti altri di cui sono piene le cronache, quali l’acquisto di case di cui non si conoscono gli autori dei pagamenti, vendite di palazzi nel centro di Roma a cifre di gran lunga inferiori al loro valore reale, esecuzioni di lavori pubblici appaltati a sodali e amici in totale disprezzo delle regole, condanne anche a diversi anni di carcere di per-sonaggi che rivestono cariche pubbliche di primo piano, concludo con l’augurio per noi tutti di uscire, quanto prima, da un letargo verso la continua violazione di valori etici fondamentali nel quale sembriamo caduti da troppo tempo.
La f e c on dazi on e a ssi sti ta di Luigi Napolitano (novembre 2010) Occorrono risposte soddisfacenti alle esigenze di una materia in continua evoluzione. E’ legittimo soddisfare il desiderio di maternità superando un limite della natura? Le recenti polemiche sollevate da esponenti della Chiesa pag. 21 Cattolica sull’assegnazione del premio Nobel per la medicina al dottor Robert Edwards, padre della fecondazione as-
sistita e, dunque, realizzata al di fuori del corpo della donna e la richiesta della prima sezione del Tribunale Civile di Firenze alla Corte Costituzionale di pronunciarsi circa la legittimità della norma con la quale si vieta alle coppie sterili di accedere alla fecondazione eterologa, ossia con ovuli o seme donati da persone estranee alla coppia, ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica il problema della legittimità dell’intervento della scienza su un evento, considerato per millenni un mistero imperscrutabile, quale la procreazione ed i limiti che alla stessa possono e/o devono imporsi. Da sempre, basti pensare al processo a Galileo, la Chiesa Cattolica e il mondo scientifico contrappongono le loro diverse vedute su tanti fenomeni legati all’innovazione scientifica, per cui è normale che il contrasto divenga più duro quando l’argomento del contendere è la vita umana. Compito del legislatore, in casi come questo, è di regolamentare la materia nel rispetto degli argomenti delle parti in causa ma, soprattutto, delle esigenze della comunità che amministra. In Italia, fino al 2004, anno di promulgazione della legge 40, la materia era affidata alla coscienza degli aspiranti genitori ed al rispetto della deontologia medica. Si erano ritenute possibili la stipula del contratto di maternità surrogata con il quale una donna poteva impegnarsi, generalmente dietro corrispettivo, a ricevere l’embrione di una coppia sterile al fine di farlo sviluppare e con l’obbligo, dopo il parto, di consegnare il bambino, senza alcuna ingerenza futura, alla coppia committente la quale avrebbe assunto tutti i diritti e i doveri propri dei genitori; la fecondazione sia omologa, ossia con ovuli o seme provenienti dalla coppia, che eterologa, con possibilità di accesso a tali tecniche sia di coppie non sposate che di donne single. Il sorgere di problemi riguardanti questa attività, hanno richiesto, nel tempo, l’intervento sempre più frequente della Giustizia, la quale ha decretato l’illegittimità della revoca del consenso alla fecondazione eterologa dei mariti, prima consenzienti, mediante l’azione di disconoscimento della paternità, la nullità del contratto di maternità surrogata per mancanza
nell’oggetto dei requisiti di possibilità e liceità oltre che per l’impossibilità di dedurre in obbligazione prestazioni consistenti nel concepimento dello sviluppo fetale del nascituro, l’illegittimità del rifiuto di un medico, basato esclusivamente sul divieto posto da norme deontologiche, ad impiantare, dopo la morte di uno dei coniugi, embrioni crioconservati. Dopo una battaglia parlamentare, più politica e ideologica che scientifica, sotto la spinta di forti pressioni esterne che hanno pesantemente condizionato esponenti del mondo politico i quali, nel loro privato, raramente possono definirsi rispettosi dei dettami di chi quelle pressioni ha esercitato, il 19 febbraio 2004 è stata approvata in parlamento la Legge n.40 “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”, confermata nel 2005 seppur per il mancato raggiungimento del quorum, da un referendum abrogativo. Il testo normativo, che ha recepito alcune indicazioni della giurisprudenza, non sembra aver dato soddisfacenti risposte alle esigenze ed alle problematiche connesse alla delicatezza ed all’importanza di una materia in continua evoluzione; esempio ne siano l’obbligo di impianto di tutti gli embrioni prodotti, che impedisce, di fatto, di eseguire una diagnosi pre-impianto e la disparità tra cittadini abbienti e non, in quanto il divieto di fecondazione eterologa è aggirabile andando a svolgere la pratica in paesi dove è ammessa. Ragioni per le quali, relativamente agli articoli più contestati, da parte di tanti tribunali civili e soprattutto della Consulta, ha subito un lento ma progressivo smantellamento che l’ha privato di senso e di autorità. Valga da ultima la sanzione inflitta dalla Corte Europea di Strasburgo all’Austria, la cui normativa conteneva un analogo divieto di fecondazione eterologa, dichiarato illegittimo perché discriminatorio ed invasivo della sfera privata. Appaiono, infine, condivisibili le critiche alla legge, mosse con una lucida analisi, che ha riscontrato nella stessa due obiettivi fortemente ideologici quali la legittimità di un solo modello familiare, pag. 23 costituito dalla coppia stabile ed eterosessuale e la preminenza della posizione giuridica dell’embrione rispetto a
quello non solo della coppia ma della madre stessa nonché una sostanziale avversità alle tecniche di procreazione medicalmente assistita che trova il suo culmine in un atteggiamento discriminante nei confronti dei nati grazie a tale tecnica, quale il loro inserimento per legge in un apposito registro. Condivido pienamente le parole del neo-premio Nobel per la medicina “Nulla è più speciale che avere un figlio. E’ la cosa più importante della vita”, penso che un neonato, concepito naturalmente o con tecniche medicalmente assistite, sia sempre frutto d’amore e provo grande apprezzamento per la scienza quando aiuta a superare un ostacolo naturale, tentando di soddisfare il desiderio di maternità di donne che, per vari motivi, non riescono ad appagare in modo naturale questo loro legittimo desiderio, per cui auspico una rivisitazione della legge che, nel rispetto della personalità di tutte le parti coinvolte da queste tecniche ne sappia cogliere, libera da pregiudizi, tutti gli aspetti veramente rilevanti.
“ S a n i t o p o l i ” u n a q u e s t i o n e pe n a l e . D i r i t t o a l l a s a l u t e u n a q u es t i o n e p o l i t i c a di Sandro Ridolfi (dicembre 2010) Ci è stato chiesto come mai questo giornale non ha parlato delle inchieste penali in corso presso la ASL, il Comune e la VUS. La risposta è già nel titolo. Le questioni penali, se tali sono e come le riterrà la magistratura, competono a quest’ultima. Alla politica, alla quale invece si ispira ed è dedicato questo giornale, compete la ricerca e la critica delle ragioni che hanno reso possibile una così grande deriva morale che prescinde comunque dall’accertamento di fatti di rilevanza penale. La difesa e la concreta assicurazione del diritto alla salute e alla buona amministrazione in genere è stata una prerogativa di merito della nostra regione dall’immediato dopoguerra sino almeno alle ultime amministrazioni comuniste. Constatare il degrado di un tanto grande patrimonio morale, culturale e sociale è il fatto più grave che emerge dalle indagini della magistratura penale. Se ab-
biamo il diritto, ma anche il dovere, di lamentare e denunciare inefficienze, insufficienze, scarsità di qualità dei servizi erogati dalle strutture sanitarie, amministrative e di servizi pubblici nella nostra città è perché alcuni decenni addietro un grande numero di cittadini impegnati, onesti e competenti, sotto la guida di un grande Partito Comunista e con la forza di una vasta partecipazione e consenso popolare, hanno saputo creare queste realtà, facendo emergere la nostra città e la nostra regione dalle devastazioni della seconda guerra mondiale all’eccellenza di un sistema sociale moderno, equo e solidale. Alla vicenda della buona amministrazione municipale dedichiamo l’inserto di questo numero, alla lungimiranza, ma anche al coraggio delle scelte e dell’impegno nella difesa e nell’affermazione del diritto alla salute vogliamo dedicare questo articolo. Citeremo un’esperienza di assoluta avanguardia destinata a restare nella storia della medicina e della salute pubblica, ovviamente per coloro che vorranno e sapranno ricordarla, difenderla e proseguirla. Il 13 maggio 1978 il Parlamento italiano ha approvato la legge n. 180, universalmente nota con il nome di “legge Basaglia” dal suo ideatore e promotore, lo psichiatra Franco Basaglia (anche se va ricordato che tale legge, e in genere il pensiero medico scientifico che la muoveva, è stato parimenti merito anche della moglie Franca). La “legge Basaglia” costituisce ancora oggi, a oltre 30 anni dalla sua promulgazione, la normativa in materia di salute mentale più avanza del mondo. La “legge Basaglia”, tuttavia, a oltre 30 anni dalla sua promulgazione, non ha ancora trovato nel nostro paese compiuta applicazione, tante sono state e sono ancora le resistenze non solo, o non soltanto, scientifiche, quanto soprattutto culturali ed economiche. 30 anni di straordinarie esperienze e risultati non sono bastati a fugare un quasi ancestrale rifiuto per il disagio mentale come malattia sociale e anzi, proprio in questi ultimi tempi, si sta assistendo a una regressione culturale che rigetta il malato mentale pag. 25 nel recinto del “diverso”, dei tanti diversi: asociali, omosessuali, tossici, immigrati, così detti abilmente diversi ed
emarginati in genere. Una società che corre, che compete in un mondo globalizzato, che parla inglese, sembra non poter tollerare la presenza dei “diversi”: i matti vanno di nuovo rinchiusi nei manicomi oggi chiamati strutture protette, i dasabili mentali, meglio noti col nome di “ritardati”, vanno espulsi dalle scuole degli abili e di nuovo ghettizzati nelle apposite differenziali (questo sarà l’esito della abolizione degli insegnanti di sostegno). Più di 30 anni fa non era così, non era questo il sentimento culturale, morale, sociale e politico della nostra città e della nostra regione. La salute mentale era di competenza della Provincia che gestiva la rete degli ospedali psichiatrici, cioè dei manicomi, uno persino imponente in rapporto alle dimensioni della città di allora c’era anche a Foligno, in via Oberdan, negli edifici oggi occupati dalla Università. Quando nel 1978 entrò in vigore in tutta Italia la “legge Basaglia”, in Umbria non vi fu alcuna conseguenza perché era già stata applicata da almeno un decennio. Un giorno di diversi anni prima, infatti, operai della Amministrazione della Provincia cominciarono a demolire, silenziosamente e senza alcun clamore propagandistico, l’alto muraglione che, praticamente nel cuore della città di Perugia, circondava il vasto ospedale psichiatrico. I matti, così venivano ancora chiamati ma con confidenza e simpatia e senza paura o disprezzo, iniziarono a uscire dal loro carcere, a spargersi nella città, a vivere come uomini liberi “diversi” in mezzo a tutti gli altri uomini liberi ma tutti, comunque e ciascuno in modo proprio, “diversi”. Di quell’evento è stata incisa la memoria in due lungometraggi girati uno dal regista Marco Bellocchio col titolo di “Matti da slegare” e l’altro dal regista Gianni Serra col titolo di “Fortezze vuote”, quest’ultimo proprio nell’ex manicomio di Perugia. Quella scelta non fu certamente facile né per chi la decise, né per quanti se la trovarono nella loro vita quotidiana. C’era allora una grande spinta culturale e soprattutto c’era grande partecipazione, fiducia e rispetto tra gli amministrati e i loro amministratori. Non era certamente “Atlantide” e vizi e difetti, piccoli e gradi, sicuramente abbondava-
no anche allora, ma contro questi, quando eccedevano ed emergevano, non c’era bisogno dell’intervento della magistratura, prima arrivava il giudizio e, se dovuta e necessaria, la condanna di una cittadinanza attenta e partecipe. C’era un grande Partito comunista.
L a f a mi gl ia di f a tt o di Luigi Napolitano (dicembre 2010) L’intervento dello Stato sul rapporto di convivenza, invasione di campo o tutela di diritti? Uno degli argomenti che, al pari delle comete di corto periodo, appare di tanto in tanto sulla scena politica nazionale è quello legato ai rapporti di coppia non regolamentati dal matrimonio ed in particolare alla rilevanza che gli stessi assumono per la società in cui si realizzano. Un’ampia discussione su questo argomento si è avuta nel periodo successivo alle elezioni politiche del 2006 quando la coalizione uscita vincitrice, comprendente tutti i partiti del centrosinistra, pose all’ordine del giorno dei lavori parlamentari il problema dei diritti civili e del riconoscimento delle unioni delle coppie di fatto sia etero che omosessuali. L’epilogo di quella breve stagione governativa è noto, ma va detto che il corso dell’iter legislativo del disegno di legge, prima indicato come Di.Co. (Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi), poi con l’acronimo CUS (Contratto di Unione Solidale), per le forti contrapposizioni createsi a seguito delle critiche di incoerenza rispetto all’impostazione originaria definita nel programma dell’Unione, fu abbandonato dalla stessa parte proponente, ancor prima della fine della legislatura. A difesa del legislatore, per la mancata promulgazione di una legge specifica, va detto che l’argomento è di grande delicatezza per le implicazioni sociali che ne scaturiscono, per le difficoltà concrete che si pongono nella pratica quotidiana e per il principio secondo il quale il diritto deve dare certezze non potendo fondarsi, in alcuna circo- pag. 27 stanza, su dichiarazioni di parte. La nostra Costituzione, all’art. 29, recita “La Repubblica riconosce i diritti della fa-
miglia come società naturale fondata sul matrimonio”. Del pari l’art. 16 della Dichiarazione Universale dei Dirit-ti dell’Uomo afferma “Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione... La famiglia è il nucleo na-turale e fondamentale della società ed ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato”. L’orientamento di entrambe le norme citate sembra essere quello di individuare la funzione primaria della famiglia nell’ambito riproduttivo della società sia da un punto di vista biologico che socio-culturale basata sul matrimonio inteso come l’istituto giuridico da cui scaturiscono una serie di effetti normativamente regolamentati. Il termine matrimonio nasce dall’unione di due parole latine mater, madre, genitrice e munus, compito, dovere; il matrimonium era, dunque, nel diritto romano un compito della madre. Su questi presupposti, bisogna valutare quali siano le tutele che lo Stato deve, o meglio dovrebbe, dare alla famiglia di fatto, priva di un’unità coniugale, che fonda il rapporto solo sul sentimento di affetto ed amore. Nessun dubbio sorge circa la capacità socio-culturale di una famiglia non basata sul rapporto matrimoniale e circa i diritti dei figli che il nostro ordinamento ha quasi del tutto equiparato, siano essi legittimi, ossia nati in costanza di matrimonio, naturali, ossia nati da genitori non sposati, o riconosciuti, ossia per i quali i genitori hanno posto in essere un atto formale di riconoscimento. Indipendentemente dalla condizione di nascita devono, infatti, essere mantenuti, cresciuti ed educati da entrambi i genitori secondo le possibilità familiari e nel ri-spetto delle loro inclinazioni ed hanno diritto ad una quota di eredità in virtù del vincolo di pa-rentela che li lega al defunto. Solo per completezza di informazione aggiungo che i figli naturali, in caso di matrimonio dei genitori, divengono legittimi. Unico elemento discriminante per i figli naturali è dato dal fatto che i nati all’interno di una convivenza sono in rapporto solo con gli a-scendenti, ossia nonni e bisnonni e non con i collaterali, ossia zii e cugini. Più problematico è invece indivi-
duare le tutele a favore del convivente. Da alcuni giuristi la tutela più rilevante è stata individuata nel disposto dell’art. 2 della Costituzione laddove recita “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo, sia nelle formazioni sociali”. Altre ne esistono in ambiti più circoscritti, delineati da alcune leggi e dalla giurisprudenza quali: la possibilità di succedere nel contratto di locazione in caso di morte del convivente e, in presenza di figli naturali quando cessa la convivenza; il diritto al risarcimento del danno per morte del convivente provocato da un fatto illecito di un terzo; il diritto di ricevere prestazioni assistenziali dai consultori familiari. Nessun diritto patrimoniale è riconosciuto, invece, al convivente in tema successorio e di reversibilità pensionistica. Nè allo stesso è consentito, sul solo rapporto di convivenza, qualora l’altro abbia bisogno di un intervento medico urgente, autorizzarlo. In questo contesto bisogna interrogarsi circa la necessità di un intervento legislativo che, stabi-lendo delle regole, sottrae spazio alla libertà di chi ha scelto la convivenza come stile di vita e che potrebbe surrogare la previsione legislativa con una serie di strumenti giuridici per la regolamentazione degli aspetti patrimoniali della convivenza, attuabili anche nelle more di risoluzione di un precedente matrimonio, i cui tempi non sono, in genere, lunghissimi. E’infatti possibile autoregolamentarsi contrattualmente prevedendo la ripartizione delle spese quotidiane e non, la suddivisione dei beni in caso di separazione, la disposizione testamentaria del patrimonio, la designazione di un amministratore di sostegno per il caso che un’infermità o una menomazione fisica/psichica provochi l’impossibilità di provvedere ai propri interessi, la redazione di un te-stamento biologico che consente, per l'eventualità di una malattia allo stadio terminale o di una lesione traumatica cerebrale invalidante ed irreversibile o in previsione di una futura incapacità, di dettare disposizioni inerenti alle cure mediche cui si intende o pag. 29 meno essere sottoposti. Essendo i rapporti delle coppie eterosessuali già giuridicamente disciplinati dal matrimonio,
istituto la cui normativa può e deve essere adattata all’evoluzione della società, appare quanto me-no singolare la richiesta di norme di tutela per chi non abbia ritenuto opportuno assoggettarsi a quelle esistenti. Il Codice civile italiano, nulla prevede a proposito della diversità di sesso degli sposi, ma in alcuni articoli contiene le parole moglie e marito, previsione che ha fatto ritenere ad alcuni Tribunali fondata l'impossibilità di celebrare un matrimonio omosessuale. La Corte Costituzionale, recentemente, ha respinto come inammissibili ed infondati i ricorsi sui matrimoni dello stesso sesso poiché ha ritenuto la questione non di sua competenza. Tali pronunce, seppur giuridicamente motivate, privano, di fatto, di qualsiasi diritto e/o tutela le coppie tra persone appartenenti allo stesso sesso. Essendone il numero in costante crescita, avendo il Parlamento Europeo emesso una Risoluzione che invita gli Stati membri ad abolire ogni disparità di trattamento delle persone con orientamento omosessuale e in particolare ad eliminare gli ostacoli frapposti al matrimonio ovvero ad un istituto giuridico equivalente, garantendone pienamente diritti e vantaggi, stante la sempre più manifestata propensione di tali coppie alla loro ufficializzazione, sembrano maturi i tempi per una regolamentazione legislativa che elimini una disparità discriminante.
Cr o l l a P o mp ei , s ca d e l a m o r a l e, m a i n ostr i p olitic i r es tan o in am ov ibili di Luigi Napolitano (gennaio 2011) Mi sono trovato recentemente, per ragioni familiari, a passeggiare per il centro di Firenze senza avere una meta precisa. Vi mancavo da oltre venti anni e il tempo aveva senz’altro attenuato, nei miei ricordi, lo splendore che offre anche ad un occhio poco esperto come il mio questa meravigliosa città. Ciò che, tuttavia, ha colpito in maniera particolare la mia attenzione è stata l’indicazione del “Cenacolo di Fuligno”, museo di cui non conoscevo l’esistenza e che sicuramente, in altri tempi, mi sarebbe sfuggito. Un’ovvia curiosi-
tà mi ha spinto in via Faenza 42 ed ho così scoperto che il Cenacolo, museo ad ingresso gratuito e, di certo per me non il più famoso di Fi-renze, era il refettorio monumentale del convento delle terziarie francescane della Beata Angelina da Foligno, oggi utilizzato per iniziative sociali, che conserva, oltre tante opere danneggiate dall’alluvione del 1966, un bellissimo affresco del Perugino raffigurante l'Ultima Cena. Quella che per me è stata una casuale scoperta è null’altro che l’ennesima dimostrazione che il nostro paese, come unanimemente riconosciuto nel mondo intero, è uno scrigno unico, stracolmo di bellezze naturali e opere d’arte che lo rendono meta privilegiata del turismo di ogni genere. Un rapporto di PriceWaterhouse Coopers su arte, turismo culturale e indotto economico commissionato da Confcultura e dalla Commissione Turismo e Cultura di Federturismo ha stabilito che il Pil dell’Economia turistica in Italia nel 2008 si è aggirato intorno ai 163 miliardi di euro, pari al 10,6% del Pil nazionale, circostanza questa che da sola legittimerebbe una grande attenzione e una maggiore profusione di risorse alla cura del nostro patrimonio naturale, artistico e culturale. E’ per queste ragioni che destano sconcerto notizie come quella del crollo della Domus dei Gladiatori nell'area degli scavi di Pompei, che non è azzardato collocare tra i siti archeologici più famosi del pianeta, che va aggiungersi al crollo, altrettanto grave, verificatosi nel mese di marzo nella Domus Aurea, edificio voluto da Nerone dopo l'incendio che nel 64 dopo Cristo distrusse gran parte di Roma. Esse denotano, infatti, un’incuria che viene da lontano e che sarebbe ingiusto ascrivere al solo ministro dei beni culturali in carica che, minimizzando gli eventi, non rende di certo ragione delle sue attività nell’esercizio delle funzioni cui è preposto. Tuttavia l’attuale ministro, che ha bocciato senza remore e senza averli visti film di cineasti italiani da lui bollati come parassiti di stato perchè non di stretta osservanza governativa, si è reso protagonista di iniziative, non proprio orto- pag. 31 dosse, quali il premio speciale assegnato al Festival di Venezia per la produzione del film “Goodby mama”, il cui unico
pregio pare sia nei servigi resi al capo del governo dalla regista e le consulenze assegnate, con atteggiamenti criticabili quanto meno sul piano etico, all’ex marito della sua attuale compagna ed al di lei figlio. Di minor rilevanza per la non irreversibilità, almeno per ora, ma altrettanto problematico si è rivelato l’insuccesso conseguito dalla gara, andata deserta, che doveva raccogliere le proposte degli sponsor per il restauro del Colosseo, simbolo di Roma, con una formula di finanziamento integrale da parte dei privati che il ministro aveva definito come un modello da applicare anche ad altri monumenti del nostro Paese. Pur volendo riconoscere ai nostri politici una strenua appartenenza ai seguaci della cultura sofistica nella parte che nega l’esistenza di una verità assolutamente valida e che ritiene unico metro di valutazione l’individuo, per cui per ciascuno è vera solamente la propria percezione soggettiva, senza arrivare a pretendere da loro ciò che ogni Stato chiede ai suoi cittadini, ossia onestà e rettitudine di comportamento, sembrerebbe quanto meno opportuno che finalmente si attui il principio valido per qualsiasi attività secondo il quale anche le cariche istituzionali diano non solo onori, ma anche responsabilità, concetto in base al quale si determina un obbligo di rispondere delle scelte compiute nell’esercizio delle proprie funzioni. Nonostante il concetto di morale, inteso come l’insieme delle consuetudini sociali legate ad una certa tradizione culturale, negli ultimi anni, grazie ai nostri governanti sia scaduta notevolmente, cosa mai dovrà succedere perchè un politico, riconoscendo le proprie responsabilità faccia un passo indietro?
No n è c h e l ’i n i zi o, l a l ot ta c on ti n u a ! di Sandro Ridolfi (febbraio 2011) La crescita “infinita” del mercato improvvisamente, bruscamente, drammaticamente è finita. Il capitalismo americano, entrato forse (finalmente) nella sua agonia, sta menando colpi di coda all’impazzata in tutto il mondo, bombardando, invadendo, inflazionando, destabilizzando l’intero occidente al quale si aggrappa come un naufrago cercando di portalo a fondo con lui. Ma quel che è più grave è che non c’è all’orizzonte alcuna proposta, progetto alternativo, fosse anche e ancora all’interno dello stesso sistema capitalista. Spaventoso e “spaventante” è il vuoto della politica, di una cultura politica di alternativa, che certamente non è minimamente rappresentata dalla così detta opposizione (tutta) che si dibatte: nella migliore delle ipotesi in un disperato tentativo di sopravvivenza, nella peggiore nella imitazione sterile e pedestre dell’altra parte. Solo una guerra di casta tra chi è arrivato e chi vuole arrivare, tutta impegnata nella ricerca e nella manifestazione dell’immagine di sé, lontano e del tutto indifferente alle esigenze, alle richieste, ai bisogni della così detta “gente”, che poi è il popolo, le masse dei lavoratori, degli studenti, dei disoccupati, degli immigrati. Forse non è più il tempo di “resistere, resistere, resistere” perché giorno dopo giorno è sempre minore e più povero quel che resta da difendere delle grandi conquiste sociali, economiche, culturali e morali degli ultimi decenni che hanno contribuito alla nascita del nostro Stato sociale e democratico. E’ il tempo di reagire, di contrattaccare, di proporre e di pretendere. Non sarà un piccolo periodico di periferia a cambiare la storia, ma ciascuno può e deve dare il proprio, ancorché modesto, contributo. Ai lavoratori in lotta contro la violenza padronale che vuole cancellare i diritti conquistati con la Costituzione repubblicana, agli studenti in lotta contro la barbarie della cancellazione del diritto all’istruzione, ai tanti e diversi discriminati, emarginati per censo, per pag. 33 sesso, per etnia, vogliamo dedicare un messaggio lanciato da Fabrizio De Andrè tanti anni fa che sembrano ieri, anzi
oggi. “Anche se il nostro maggio ha fatto a meno del vostro coraggio, se la paura di guardare vi ha fatto chinare il mento, se il fuoco ha risparmiato le vostre Millecento, anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti. E se vi siete detti non sta succedendo niente, le fabbriche riapriranno arresteranno qualche studente, convinti che fosse un gioco a cui avremmo giocato poco, provate pure a credevi assolti siete lo stesso coinvolti. Anche se avete chiuso le vostre porte sul nostro muso la notte che le pantere ci mordevano il sedere lasciamoci in buonafede massacrare sui marciapiedi, anche se ora ve ne fregate, voi quella notte voi c'eravate. E se nei vostri quartieri tutto è rimasto come ieri, senza le barricate, senza feriti, senza granate, se avete preso per buone le "verità" della televisione, anche se allora vi siete assolti siete lo stesso coinvolti. E se credente ora che tutto sia come prima perché avete votato ancora la sicurezza, la disciplina, convinti di allontanare la paura di cambiare, verremo ancora alle vostre porte e grideremo ancora più forte, per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti, per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti.”
I p ot e r i d e l lo St at o, l ’e v er s i o ne e gl i sc e nari f ut uri p ossi bi li e im possi bi li di Luigi Napolitano (marzo 2011) La nostra costituzione attribuisce al Parlamento il potere legislativo, ossia il potere di legiferare per le materie espressamente indicate nel secondo comma dell’articolo 117, al Potere Giudiziario, inteso come il complesso degli organi dell’autorità giudiziaria, ossia i magistrati, quello di risolvere le controversie di natura civile, penale e amministrativa nel rispetto del contraddittorio delle parti, della trasparenza del procedimento e motivando la decisione. Va da sé che tale ultima funzione si realizza mediante l’applicazione delle norme che il primo potere ha emanato. La stessa costituzione sancisce che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di con-
dizioni personali e sociali e l’obbligatorietà dell’azione penale da parte del pubblico ministero. Aggiungo che la colpevolezza di una persona è accertata solo con la conclusione del terzo grado di giudizio. Un precedente del mancato rispetto di queste basilari regole, si può ritrovare, nella nostra storia e prima dell’approvazione della Costituzione vigente, nel tentativo di alcuni coraggiosissimi giudici del Tribunale di Torino di non applicare, interpretandole in bonam partem, ossia a favore di coloro che furono costretti a subirle, le norme relative ai limiti di proprietà immobiliare e di attività industriale e commerciale destinate ai soli cittadini italiani di razza ebraica. La storia è nota e finì con la fuoriuscita di quei magistrati dai ranghi di appartenenza e con la loro collocazione nelle fila dei partigiani che, con le forze alleate, sconfissero il nazifascismo. Crea un notevole sconcerto sentir oggi affermazioni, rilasciate anche da esponenti del governo, rispetto ad un presunto atteggiamento eversivo della magistratura che nell’esercizio delle sue funzioni indaga, in un più ampio contesto, anche il Presidente del Consiglio dei Ministri e viene accusata di voler sovvertire il voto popolare che, dunque, più che l’esercizio di un diritto democratico costituirebbe un limite all’applicazione della Costituzione. Siffatte affermazioni fanno intendere, infatti, quale sia il concetto di Stato e quanto ne rispettino le istituzioni alcune delle persone deputate a rappresentarlo. Ancor più sconcertanti appaiono le opinioni di coloro che, dichiarandosi terzi rispetto alle opposte fazioni politiche circa gli eventi giudiziari citati, accusano i paladini della rivoluzione sessuale di ergersi a sacerdoti della virtù e i custodi dei valori tradizionali di trasformarsi in cantori di costumi rilassati evidenziando un rovesciamento dei ruoli. Un’interpretazione siffatta degli eventi sposta il piano del discorso ponendolo in una real-tà diversa da quella che il paese sta vivendo. Realtà di cui i telespettatori che seguissero solo la rete principale della televisione pubblica avrebbero un’idea pag. 35 ancor più remota. In un paese dove la spettacolarizzazione e la personalizzazione non avessero preso il sopravvento
sulle idee, di-storcendo il significato stesso del termine politica che indica l’arte di governare, dove non si vie-ne eletti per volontà dei capi dei partiti ma per volontà del popolo, sicuramente il Presidente del Consiglio, trovandosi nella situazione del nostro, avrebbe fatto un passo indietro al fine di con-sentire la formazione di un nuovo governo rispettoso delle regole, capace di condurre un civile confronto con le opposizioni e di porre in essere provvedimenti utili agli interessi sociali, bonificando il clima dagli asfissianti integralismi che realizzano solo sterili e violenti scontri. Poiché anni di questo sistema politico ci hanno dimostrato che un’eventualità del genere non sembra realizzabile, pur di uscire da una situazione di stallo che può solo ulteriormente danneggiare il sistema Italia penso che saremo costretti ad accettare un’innaturale alleanza che veda schierate insieme le forze che non si riconoscono in questa compagine governativa, il cui scopo dovrebbe essere quello di promulgare una legge che elimini il conflitto di interessi e di realizzare alcune chiare riforme in materia elettorale, fiscale, di informazione al fine di realizzare finalmente un sistema compiutamente bipolare ma che dia voce anche a parti rilevanti di elettorato non in linea con gli schieramenti maggiori.
It a li ano a ch i? di Sandro Ridolfi (aprile 2011) Si festeggiano i 150 anni dell’Unità d’Italia. A restare freddi di fronte a questo evento mediatico si rischia di passare per leghisti. Entusiasmarsi al canto dell’Inno di Mameli e allo sventolare del tricolore si rischia di passare per fascisti. Tra le due, decisamente la prima! Infondo, a parte le sceneggiate populistiche dei leader iper-romanizzati e la stupidità bovina delle ronde padane, il federalismo regionale e la difesa del ruolo fondamentale svolto dai Comuni in una democrazia partecipata trovano fondamento proprio nella nostra Costituzione antifascista e repubblicana. Il progetto europeo, evoluto dalla Comunità Economica della fondazione degli anni ‘60, all’Unione Politica degli
anni ’80-’90, prefigurava un percorso di progressiva dissoluzione degli Stati nazionali per realizzare un’unione di popoli, molto più numerosi degli esistenti Stati unitari o federali, fondata sul riconoscimento delle innumerevoli peculiarità regionali e sul ruolo di democrazia diretta svolto dalle autonomie comunali. Quel progetto straordinariamente innovativo e persino antagonista a quelli sino ad allora realizzati con le forzate unificazioni stanzialmente militari (paradigmatica quella degli Stati Uniti del nord America), è stato travolto dall’infatuazione della globalizzazione dei mercati e ciò è avvenuto proprio durante la presidenza italiana della Commissione Europea di Prodi. L’impreparata (e sotto questo aspetto, insensata) improvvisa apertura ai nuovi Stati dell’oriente europeo, non aveva infatti più lo scopo di arricchire la grande poliedricità del “vecchio” continente europeo, ma quello di aprire non già “a” nuovi mercati, bensì “da” nuovi mercati, dacché l’unica mercanzia che è transitata attraverso le nuove frontiere aperte è stata la mano d’opera a basso costo, sia in forma “fisica”, con l’importazione delle masse di badanti e di manovalanza per l’edilizia o l’industria, sia in forma di merci prodotte in quei paesi, molto meno costosi, in stabilimenti opportunamente delocalizzati dalle industrie dell’occidente d’Europa. Questa considerazione ci riporta, per singolare specularità, alla vicenda dell’unione anzituttomilitare, poi politica e amministrativa della penisola italiana. Nel 1860 un migliaio di giovani tra l’entusiasta e il fanatico, infiltrati da agenti piemontesi, presero il mare dalla Liguria verso la Sicilia strada facendo armati dallo stesso Regno piemontese e silenziosamente, ma attentamente protetti dalla potente marina inglese. Sbarcarono in mille sulla punta ovest della Sicilia e dopo averla attraversata sino al capo opposto e avere poi risalito la Calabria e la Campania, giunsero ancora in poche migliaia a Napoli, dove affrontarono l’ultima battaglia per la disfatta del regno di Napoli. pag. 37 Vinta questa battaglia, pochi giorni dopo toccò a loro arrendersi e deporre docilmente le armi ai piedi dell’assai
più forte esercito piemontese, che nel frattempo era disceso dal nord sino ai confini della Campania proprio per assicurarsi il bottino dell’avventura garibaldina. Garibaldi aveva percorso un intero regno, combattendo e vincendo battaglie campali e conquistando città e alla fine aveva sconfitto e cacciato l’ultimo re borbone. Ma Garibaldi nulla sapeva e nulla aveva mai voluto sapere e comprendere delle realtà economiche, sociali e culturali di quei territori, anzi di quei popoli. Nobili, latifondisti, borghesi, mafiosi o camorristi da una parte e servi, “cafoni” (contadini), pescatori e operai delle industrie meccaniche napoletane dall’altra, e i rapporti economici, sociali e culturali che li contrapponevano, non avevano avuto alcun interesse per il “liberatore”; quegli argomenti non erano parte del suo progetto che aveva, come ebbe, un solo obiettivo: spodestare un re per sostituirlo con un altro. Il regno di Napoli era stato conquistato dal regno del Piemonte e la sua annessione agli altri territori conquistati dall’esercito piemontese aveva dato vita a un aggregato geografico e politico più grande, chiamato Italia, anzi Regno d’Italia. Per i popoli di quegli Stati conquistati e annessi non era cambiato nulla, soprattutto non erano cambiati i rapporti e i sistemi di dominio. Scrisse Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo: “tutto era stato cambiato perché nulla venisse cambiato”. Qualcuno inorridirà nel leggere le parole che seguono, ma occorrerà dirle: se non vi sono informazioni certe sui rapporti che intercorsero tra Garibaldi e la mafia siciliana durante l’attraversamento dell’Isola, è invece certo che l’Eroe dei due Mondi si compromise con la camorra napoletana per ottenere il controllo della città e soldati “freschi” per l’ultima battaglia del Volturno. In quel tempo a Napoli c’era anche Mazzini. Se c’è stato un “eroe positivo” in quelle vicende, paradossalmente, fu proprio l’ultimo re borbone, Francesco II detto “Franceschiello”, che mostrò l’intelligenza di accettare la fine di un’epoca, quella del suo regno, e abbandonò Napoli senza combattere per evitare al “suo popolo” un tragico bagno di sangue oramai inutile. Il mer-
cato del sud era stato “aperto” alle nascenti economie industriali del nord. Scriveva Gramsci nel 1920: “Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d'infamare col marchio di briganti.” Sono passati 150 anni e il senso e lo scopo di quella “conquista” è ancora lo stesso: importare manodopera compromettendosi con la criminalità organizzata locale. Un’ultima considerazione. La penisola italiana è stata bensì terra di conquista praticamente da parte di tutti gli imperi o regni o bande corsare provenienti dalle coste del mediterraneo e dall’oltre Alpi, ma proprio per questo è stata la fucina delle più grandi, uniche, produzioni artistiche, scientifiche e culturali dell’intero bacino del mediterraneo e dell’Europa continentale. Chiusa nei confini del piccolo regno sabaudo l’Italia è stata marginalizzata dagli sviluppi della fine ottocento e dell’intero novecento; è diventata a sua volta, per quasi un secolo, il “serbatoio” di mano d’opera a basso costo dell’Europa e dell’America. Ora si sta rifacendo a spese dei nuovi aggregati più poveri dell’est europeo e del nord Africa. Per i comunisti che riconoscono nel Mondo intero un’unica patria abitata da un unico popolo c’è ben poco da festeggiare.
L a v ol o n tà d e i p o p ol i fi lo c on d u t to r e d e l l a p ol i t i ca di Luigi Napolitano (aprile 2011) L’immobilismo nel quale il mondo sembrava precipitato a seguito della crisi economica che l’attanaglia sembrava, fino a poche settimane fa, caratterizzato ideologicamente solo da un improbabile scontro tra i seguaci dell’Islam e gli occidentali. Sono bastati una serie di eventi imprevedibili e sembra passato un secolo da quando era il gossip a dettare i tempi della nostra politica e l’unica preoccupazione pag. 39 dei media il passaggio da un gruppo parlamentare all’altro di questo o quel deputato, assurto per qualche momento
alla ribalta nazionale. Ho individuato negli eventi di cui parlerò una volontà popolare che a mio modo di vedere deve essere il filo conduttore della politica, il cui compito, attraverso l’esercizio dell’attività di governo deve essere il bene degli amministrati. L’anelito di libertà ed il desiderio dei popoli che abitano la sponda africana del Mediterraneo, che si sono diffusi attraverso i nuovi canali di comunicazione telematica, hanno dimostrato quanto infondate fossero le paure di uno scontro tra religioni, evocate dai soliti disfattisti che, in maniera miope, non hanno saputo cogliere i sentimenti di quelle genti che con espressione sintetica, ma molto incisiva, sono stati definiti come gli autori della rivoluzione “Pane e Libertà”. E se, grazie alla presenza di istituzioni più o meno forti, in Tunisia e sopra tutto in Egitto, dove l’esercito si è rifiutato di sparare sulla folla, si è potuto realizzare un cambiamento dei regimi che per tanti, troppi anni, hanno tenuto in uno stato di sudditanza e povertà i popoli di quei paesi, è sotto gli occhi di tutti il dramma che sta vivendo la Libia. Qui, infatti, il dittatore che da anni gestisce il potere, preoccupato solo di se stesso e dei suoi interessi, non ha esitato a scatenare una guerra civile, bombardando le città che gli si sono rivoltate contro, seminando morte e terrore. Non ho simpatia per quel regime, ma neanche ritengo giusti interventi di altre nazioni a sostegno di una delle parti che si contendono il potere e, di fatto, costituiscono una limitazione alla autodeterminazione. A tacere della considerazione che i modelli democratici, come dimostrano l’Iraq e l’Afghanistan, non sono esportabili con la forza delle armi e che, spesso, dietro questo nobile sentimento, non manifestato in circostanze analoghe, si nascondono interessi neanche troppo velati. Altresì nella volontà popolare va individuato un mutato atteggiamento di molti governi, a partire dal nostro, verso l’energia nucleare a seguito del disastro ambientale provocato dalla centrale nucleare colpita dal terremoto che ha funestato il Giappone. Valga per tutti quello del governo tedesco che, in questo frangente, ha assunto una posizione di gran-
de prudenza, per certi versi addirittura revisionista verso questa fonte energetica non controllabile e incapace di evitare scorie, che lascia ai posteri elementi di inquinamento di cui non si conoscono le potenzialità negative. Non essendo possibile, tuttavia, dall’oggi al domani rinunciare alla maggiore fonte di produzione dell’energia, è auspicabile che il mondo della scienza e le autorità internazionali sappiano indirizzare nel miglior modo possibile le scelte necessarie. Mi preme, infine, dar risalto al sentimento di appartenenza manifestatosi con il successo che il popolo ha attribuito ai festeggiamenti per i nostri primi 150 anni come Nazione, ricca di differenze, talvolta profonde, ma unita. Le bandiere tricolori e l’inno d’Italia intesi non come segno di appartenenza ad una parte politica ma ad un popolo ricco di storia artistica, politica, culturale, sembrano manifestare la consapevolezza di se stesso ed il bisogno di una classe politica alla sua altezza.
In No me de l Po pol o I t al ia no Il c on ce t to d e l l a vor o e l a s e nt e nz a T hys s en di Luigi Napolitano (maggio 2011) Il concetto del lavoro ha subito una profonda mutazione nel corso dei secoli. Considerato dalla Bibbia una condanna, a coloro che lo praticavano, nel mondo antico, veniva riservato addirittura un ruolo di subordine. La sua importanza sociale e il principio che l’operosità sia una dimensione importante per la realizzazione dell’essere umano si sono imposti molto lentamente. Solo recentemente si è sviluppata una vera e propria etica del lavoro, fino alla sua individuazione quale motore della crescita economica e del benessere sociale. La nostra Costituzione pone il lavoro a fondamento della Repubblica (art.1), lo riconosce come diritto di tutti i cittadini (art.4), delinea il nostro sistema in senso spiccatamente sociale e solidaristico (artt. 35-40) finalizzandolo non pag. 41 solo all’arricchimento individuale ma anche alla crescita del be-nessere comune nel rispetto delle regole (art. 41). E’ par-
tendo da questo contesto che va letta la sentenza emessa dalla Corte d’Assise di Torino per il rogo della Thyssen che, riconoscendo la validità dell’impianto accusatorio, ha affermato il principio che sono gli imprenditori i responsabili della sicurezza dei luoghi di lavoro e riconosciuto colpevoli di omicidio volontario, con dolo eventuale, i vertici manageriali dell’azienda. Il dolo eventuale si caratterizza per il fatto che l’evento illecito non costituisce l’obiettivo che persegue l’autore dell’azione o dell’omissione e, tuttavia, lo stesso accadimento viene preveduto come conseguenza possibile della condotta posta in essere. L’elemento caratterizzante di tale figura giuridica, sotto il profilo psicologico, è l’accettazione del rischio da parte dell’agente. Rispetto alle precedenti pronunciate per eventi simili, è questo l’elemento di novità introdotto dalla sentenza, che cancella definitivamente la locuzione “morti bianche” per definire il fenomeno delle morti sul lavoro, dove l’uso dell’aggettivo bianco allude all’assenza di una mano direttamente responsabile dell’incidente. Non credo che una sentenza di condanna possa essere letta come una vittoria di una parte e far gioire alcuno, ma può sicuramente significare molto per la sicurezza e la salute dei lavoratori. Non è possibile, infatti, considerare la morte sui luoghi del lavoro un inevitabile tributo da pagare sull’altare dell’arricchimento, del profitto sempre e comunque an-che a costo di risparmiare sui sistemi di sicurezza o il frutto di un cinico capriccio di un Dio cattivo. La sentenza “Thyssen” deve essere letta non in chiave punitiva ma come un deterrente nei confronti di quegli imprenditori che pensano di poter aggirare le norme in tema di sicurezza ed un incentivo per i sindacati che devono pretendere la messa in sicurezza delle produzioni e dei luoghi di lavoro, la messa a disposizione delle protezioni necessarie, l’istituzione dei presìdi sanitari e delle visite mediche specialistiche. E’ altresì auspicabile che possano finalmente ridursi i drammatici numeri delle statistiche che dicono che tre persone, ogni giorno, uscite per esercitare un diritto fondamentale non tornano a casa, privando del loro affetto i propri cari,
vittime anche loro di una tragedia tanto più grave quanto culturalmente ac-cettata. Statistiche sicuramente sottostimate, in quanto non tengono conto di quei lavoratori neanche registrati come tali e di quei lavoratori vittime di incidenti stradali causati dalla stanchezza della guida o del lavoro precedente, dall’esposizione ad agenti cancerogeni e tossici che quasi mai, o a grande fatica, si riesce a dimostrare essere la causa della morte. In relazione alla sentenza appaiono anomali i commenti dei politici. Positivi quelli del Mi-nistro del Lavoro e del Presidente della regione Piemonte che, pur appartenendo allo schieramento governativo il cui compito principale di questi giorni sembra essere la demonizzazione, se non la criminalizzazione dei Magistrati e che in un recente passato ha edulcorato, non poco, il Decreto Legislativo in materia di sicurezza sul lavoro del Governo Prodi. Decreto non poco avversato dall’allora Presidente della Confindustria, oggi considerato come possibile neopolitico e che qualcuno vorrebbe a capo dello schieramento che quel provvedimento promulgò. Fondamental-mente negativi quelli e-spressi dal Sindaco del Comune di Terni e dal Presidente della stessa Provincia, appartenenti a quella parte politica che della solidarietà sociale e della tutela del lavoro dovrebbe essere custode, i quali hanno definito la sentenza “punitiva” ed “eccessivamente dura” mostrando di essere preoccupati per la possibilità che vi siano pericoli per il futuro di un consistente numero di posti di lavoro così trascurando il primario interesse generale al rispetto di un principio fondamentale quale la sicurezza sui luoghi di lavoro. Naturalmente la sentenza, per produrre i suoi effetti, dovrà concludere il suo iter per il quale sono previsti altri due gradi di giudizio. Con buona pace di chi considera il nostro sistema giudiziario da stravolgere!
Re f e r e nd um nuc l ea r e U n pic c o lo “si ”, un g ra nde “M A”. .. di Sandro Ridolfi (giugno 2011) “Prima di giudicare (e per la storia in atto o politica il giudi-
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zio è l’azione) occorre conoscere e per conoscere occorre sapere tutto ciò che è possibile sapere”. Questo insegnamento di Antonio Gramsci può essere considerato il “manifesto” di questo giornale. Improntato alla diffusione del pensiero e dell’azione comunista, questo giornale si è posto l’obiettivo di stimolare l’interesse alla conoscenza, al confronto, al ragionamento, “seminando” idee, provocazioni e informazioni. Coerentemente con tale fine il giornale è aperto a ogni contributo, da chiunque provenga purché con onestà mentale e trasparenza morale, che possa contribuire, attraverso l’arricchimento critico delle conoscenze, alla crescita qualitativa (e anche quantitativa) della partecipazione alla vita politica. Il 12 giugno si svolgeranno alcuni referendum abrogativi, frutto di iniziative popolari e perciò dimenticati, per non dire persino oscurati, dalla politica così detta “di palazzo”. Due i temi principali: la difesa della natura pubblica dell’acqua e l’opposizione alla (re)introduzione nel nostro Paese della produzione di energia nucleare. Sul primo tema possiamo dire che non c’è discussione, altri articoli lo tratteranno in questo numero e al “bene comune” acqua è dedicata la contro copertina. Quanto al secondo tema, invece, la questione è più “controversa”; non tanto sull’opzione del voto, poiché indiscutibilmente si dovrà esprimere anche in questo referendum un “si” abrogativo, quanto sulle motivazioni e soprattutto sulle responsabilità morali di tale rifiuto. Alcuni decenni or sono l’Italia era all’avanguardia mondiale nella ricerca della produzione di energia nucleare per fini civili. Allora però, in un contesto di forte partecipazione consapevole, dovuta anche alla presenza di un grande Partito Comunista, gli italiani dissero un netto “no” all’energia nucleare. Il nostro Paese aveva però un bisogno di risorse energetiche enormemente superiori alle proprie capacità di produzione autoctona. Lontano dall’immaginare la riconversione della avanzatissima ricerca sull’energia nucleare verso quella su fonti alternative, l’opzione politica ed economica fu allora di accentuare l’approvvigionamento dall’esterno di petrolio e gas in due dire-
zioni, che il particolare contesto degli equilibri geopolitici dell’epoca singolarmente consentivano al nostro Paese di frontiera cerniera, dall’Unione Sovietica e dal mondo arabo. L’Eni, il piccolo gatto schiacciato dai mastini delle “Sette Sorelle” che monopolizzavano il mercato del petrolio descritte da Enrico Mattei, è divenuto così una delle più grandi “sorelle”, la quinta o persino la quarta. L’Italia allora non ha invaso o colonizzato i paesi produttori, ma ha pagato con la moneta peggiore che sia mai stata coniata: la vendita delle armi. E’ in quegli anni che si è sviluppata una tra le più avanzate industrie belliche del mondo che ha portato l’Italia, nel 2010, a divenire il secondo esportatore di armi subito dietro gli USA. Quell’ignobile sistema di scambio, che condannava i paesi esportatori a bruciare tutte le loro ricchezze in beni assolutamente inutili e così a rimanere sottosviluppati, da circa un ventennio è ulteriormente degenerato. Il collasso del sistema sovietico, ponendo fine all’equilibrio dei due blocchi, ha radicalmente cambiato le regole del gioco, anzitutto per l’Italia. Al mercato “armi contro petrolio” si è sostituito il più semplice “bombe per il petrolio”. Jugoslavia, Iraq, Afganistan e oggi Libia sono altrettanti scenari di guerra nei quali il nostro Paese è stato costretto a entrare per non restare tagliato fuori dall’approvvigionamento delle risorse energetiche. Dire “no” oggi al nucleare significa dunque dire “si” alle guerre di aggressione ai paesi produttori o anche sfortunati soli transiti di condotte di petrolio e gas. Questo lo dobbiamo sapere. Dobbiamo sapere che se giustamente non vogliamo che i nostri figli siano esposti ai rischi del malfunzionamento di un sistema di produzione di energia nucleare dimostratosi ancora molto insicuro, i figli dei paesi produttori di energia dovranno subire violenze, devastazioni, miseria e, se non bastasse, anche un forte inquinamento nucleare dall’uranio impoverito utilizzato nelle armi più moderne. E qui si impone il “MA”. No al nucleare, certamente, ma a condizione che cambino radicalmente sia la no- pag. 45 stra politica economica e sociale interna, che la nostra politica estera nei confronti dei paesi produttori del terzo mon-
do. “MA” (a condizione che) che lo Stato, e solo lo Stato, riprenda in mano totalmente la ricerca e la produzione di energie alternative, a uno stesso tempo imponendo la più drastica possibile riduzione dei consumi energetici superflui. “MA” (a condizione che) ancora lo Stato, e solo lo Stato, cessando la produzione e la vendita di armi, scambi tecnologie, infrastrutture, beni e strumenti produttivi in grado di aiutare realmente lo sviluppo dei paesi produttori, nonché ponga termine, subito e incondizionatamente, a qualsiasi politica di aggressione mascherata sotto ridicoli veli umanitari. Non è impossibile, qualcuno lo sta già facendo. La Cina, il paese che si avvia a essere il più grande consumatore di energia del mondo, approvvigiona enormi quantità di risorse dall’estero, ma non vende armi e non bombarda, non invade, non devasta alcun paese. Un altro modello di sviluppo è possibile, “ma” occorre averne coscienza e consapevolezza collettiva e quindi occorre che la collettività, cioè lo Stato, ri-assuma il suo ruolo di unico titolare e tutore dei beni e dei diritti fondamentali dell’uomo. Un solo “si” senza “MA” è un atto di egoismo vergognoso.
Il p a r ti to d i G r am s ci di Sandro Ridolfi (luglio 2011) Il Partito Comunista cinese celebra il suo 90° anniversario. La Cina e il popolo cinese festeggiano il 90° anniversario del loro Partito Comunista. Nel sentimento del popolo cinese il Partito Comunista è parte integrante dell’identità storica, sociale e culturale della nazione. Nell’articolo a fianco cerchiamo di comprendere, con l’aiuto dell’analisi di un eminente studioso della Cina, la peculiarità della compenetrazione, per così dire ancestrale, che esiste tra lo Stato e il popolo e pervade lo stesso nucleo familiare cinese. In questo articolo cerchiamo di spargere alcuni semi per la comprensione della analoga compenetrazione che caratterizza il rapporto tra il Partito Comunista, lo Stato e il popolo cinese. Facciamo un salto indietro nella storia della nostra scienza politica. Partiamo da Macchiavelli al quale si deve il primo trattato di
scienza politica moderna: Il Principe. Per la fondazione dello Stato moderno Macchiavelli costruisce la figura mitica del Principe, attribuendo allo stesso il ruolo di espressione della volontà collettiva, guida e tutore degli interessi diffusi e comuni del popolo, in breve di coscienza popolare. A fianco dello Stato, organizzazione amministrativa della vita sociale, Macchiavelli colloca il Principe, collettore dei sentimenti, dei desideri e dei bisogni popolari, col compito di elevarli dal particolare per renderli universali e dunque comuni e condivisi, in certo senso il cuore e la mente dello Stato. Per Macchiavelli il Principe è ancora un mito, che lui stesso cerca vanamente di tradurre nella realtà di un personaggio fisico. E’ con Gramsci che il Principe, o come lui lo chiama il novello Principe, assume fattezze reali, diventa attuale e concreto. Il Principe per Gramsci è il Partito, il soggetto collettivo per sua natura astratto dal particolare, che raccoglie, rielabora e universalizza il sentimento popolare. Il Partito è l’intellettuale collettivo, è il cuore e la mente che guida la costruzione e l’azione dello Stato che a sua volta unisce, sostiene e protegge il suo popolo. Se il popolo è quello delle masse dei lavoratori, allora il Partito, il Principe intellettuale collettivo, è il Partito Comunista, soggetto pensante in grado di creare, organizzare ed evolvere la cultura popolare, dando consapevolezza e coscienza alle masse della loro identità di classe e, attraverso questa, il progetto del futuro. Tornando ora alla Cina, il Partito Comunista cinese nasce nel 1921 all’esito della vittoria della rivoluzione bolscevica e della nascita del primo Stato di democrazia popolare della storia. Il Partito Comunista cinese assorbe la dottrina marxista e ne fa propria l’evoluzione leninista, finendo tuttavia per appiattirsi, dopo la vittoria sul Kuomintang e la fondazione della Repubblica Popolare, sulla versione pragmatica dell’Unione Sovietica della quale, per un certo periodo, imita, senza fortuna, alcuni processi economici e sociali. Nel 1966 Mao lancia la Grande Rivoluzione Culturale che “strappa” la vicenda della co- pag. 47 struzione del comunismo in Cina da quella, oramai perdente, dell’Unione Sovietica krusceviana. Il Partito Comunista ci-
nese torna ad essere ciò per cui era nato, l’intellettuale collettivo organico alle masse popolari. Il Partito esce dai palazzi, ripudia l’astrattezza delle importazioni acritiche di esperienze altrui, corregge la presunzione del governo dall’alto e, tornando tra le masse che rappresenta ed esprime, recupera e ricuce la storia e la cultura popolare cinese. Marx si innesta così su Confucio. Un’unica storia, un’unica cultura, un unico sentimento verso la costruzione della società armoniosa, cioè della società comunista. Mao ha realizzato l’insegnamento di Gramsci, ha dato vita al “Principe”, voce corale del popolo cinese. La Cina non è l’utopia (il “nessun luogo”) perché esiste davvero in uno spazio fisico e temporale ben definito. La Cina non è l’Eldorado (il “paese d’oro”) perché è fatta e cresce col ferro e il carbone. La Cina non è il modello unico e perfetto da replicare, perché ogni realtà è diversa e deve quindi riconoscere e valorizzare le proprie diversità. La Cina è un esempio vivo di un percorso concreto per la realizzazione del mondo nuovo e il Partito Comunista cinese gramsciano ne è la sua anima e guida.
Il c an one t e le vi si vo di Luigi Napolitano (ottobre 2011) La Giostra della Quintana settembrina segna, nei miei bioritmi, la fine dell’estate ed il ritorno alle consuetudini invernali tra le quali rientra una più assidua visione dei programmi televisivi, soprattutto serali. Questa abitudine mi ha indotto a ripercorrere la storia della televisione e ad una considerazione, in particolare, che vorrei condividere con coloro che avranno la curiosità e la pazienza di leggere queste brevi note. Premetto di ritenere ancora attivi gli effetti del tristemente famoso editto bulgaro, perché pronunciato a Sofia il 18 aprile 2002 dall'allora Presidente del Consiglio durante una conferenza stampa, con il quale denunciò quello che, a suo dire, era stato un uso criminoso della tv pubblica da parte di due giornalisti e di un autore satirico, affermando successivamente che sarebbe stato un preciso dovere della nuova dirigenza RAI non permettere più il ripe-
tersi di tali eventi. Affermazione che comportò l’estromissione dei tre dal palinsesto della RAI, rivelando da parte dei chiamati in causa una compiacenza che sfiorò il servilismo. La televisione, da decenni oggetto di arredamento di tutte le case, come parola ha la sua etimologia nel termine greco tele ossia a distanza e nel verbo latino video ossia vedo; come strumento diffonde contemporaneamente i medesimi contenuti visivi e sonori consentendo agli utenti la percezione di notizie, spettacoli ed avvenimenti anche in tempo reale. Costituisce, di fatto, uno dei mezzi di comunicazione di massa più diffusi ed apprezzati e per la stessa ragione è tra i più discussi. Parte in Italia nel 1954 come soggetto pubblico, gestito dalla Stato in regime di monopolio. Nonostante le numerose richieste da parte di soggetti privati di fare televisione, sia il Parlamento che la Corte Costituzionale si pronunciano negativamente. E’ solo nel 1974 con la sentenza n. 225 e nel 1976 con la sentenza n. 202 che la Corte Costituzionale liberalizza la possibilità per i privati di trasmettere programmi televisivi prima via cavo, poi via etere. Queste vicende ed una successiva normativa, spesso promulgata ad hoc nell’interesse dell’autore dell’editto (all’epoca solo imprenditore), hanno cristallizzato in Italia una situazione per cui ad una televisione affidata allo Stato e gestita con finalità pubblica si è contrapposta una televisione privata, finanziata dalla pubblicità e volta al profitto economico. Nella fase iniziale la televisione italiana pubblica era, per unanime riconoscimento degli organi di informazione internazionali, una delle più pedagogiche al mondo. Le sue finalità erano certamente educative, basti pensare alla tra-smissione “non è mai troppo tardi” del maestro Manzi, e se da un lato la programmazione, pur non cercando il consenso dei telespettatori, poteva essere considerata soporifera, dall'altro ebbe indubbi benefici nei confronti di una situazione nazionale, a quei tempi, caratterizzata da una certa arretratezza nei costumi e da una disomogeneità culturale. Non è solo pag. 49 una battuta umoristica quella secondo la quale, almeno a livello linguistico, la televisione ha più merito di Garibaldi
nella realizzazione dell'unità d'Italia. Con il passare degli anni e l’affermarsi della televisione privata-commerciale, si è assistito ad una dissennata rincorsa all’audience da parte della televisione pubblica, per ragioni chiaramente pubblicitarie e dunque finanziarie e, ad uno scadimento del servizio che ha reso l’offerta di entrambe pressoché identica. Se a queste televisioni si aggiunge l’offerta di quella privata a pagamento, che si è assicurata la trasmissione degli eventi sportivi di particolare importanza e la visione di film e telefilm in prima visione, appare indispensabile per quella pubblica offrire programmi di buona qualità culturale, che sappiano dare una visione non di parte degli eventi di rilevanza sociale. Per cui, pur dando per scontata l’occupazione da parte dei politici della TV pubblica, connaturata al suo ruolo di mezzo di comunicazione di massa, appare inaccettabile la cancellazione alla quale stiamo assistendo di quasi tutti i programmi non in linea con l’orientamento politico governativo e l’appiattimento di quelli di intrattenimento e dei notiziari. Il tutto a dispetto della circostanza che la Presidenza del Consiglio di Amministrazione dell’ente sia affidata ad un esponente dell’opposizione che più che un ruolo di garanzia sembra svolgere la funzione del Re Travicello. A questo punto mi domando quale sia la ragione per la quale il solo possesso di un apparecchio televisivo comporti l’obbligo per noi cittadini di pagare il canone di abbonamento che, secondo uno studio dell’Anci, è l’imposta meno gradita dagli Italiani.
U lt imo di Sandro Ridolfi (ottobre 2011) Lo scorso mese abbiamo festeggiato il traguardo del secondo anno di vita del giornale. Questo mese, con il venticinquesimo numero, ne comunico la chiusura. Uso la prima persona per significare la responsabilità che mi assumo di questa decisione in qualità di editore (che poi, molto semplicemente, vuole dire ideatore - non da solo – redattore, impaginatore e distributore). Due anni fa è scomparso l’ultimo
Partito Comunista italiano del XX secolo. E’ scomparso frantumandosi addosso alle scogliere del governo verso il quale lo avevano ipnoticamente attratto le sirene del potere. Qualcuno è rimasto sui legni della nave convinto ancora di riprendere il mare, i topi in maggioranza l’hanno presto abbandonata mettendosi in salvo su nuove imbarcazioni che di nuovo hanno solo la bandiera non più d’un solo colore. Rifondazione era il nome di quel partito che, nato dai resti del PCI, si era proposto l’ambizioso progetto di evolvere il pensiero scientifico marxista-leninista per aggiornarne i principi fondanti della lotta per l’emancipazione delle classi subalterne al nuovo contesto economico e sociale del mondo globalizzato. Rifondazione, tuttavia, scontava due limiti gravissimi: la senilità ideologica della componente più matura e la grave carenza culturale di quella più giovane. Rifondazione è stata incapace, perché culturalmente impreparata, di riconoscere e radicarsi nella propria naturale base sociale, la classe lavoratrice, perdendosi nella ricerca di egemonia di effimeri movimenti interclassisti privi di identità sociale e culturale. “Ricominciare dal basso a sinistra” è stata l’ultima parola d’ordine; ma quale “basso” e quale “sinistra” Rifondazione non è stata in grado di definirli, proprio perché priva degli strumenti di scienza e conoscenza. “Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza” insegnava Gramsci, “non c'è posto fra noi per chi non ha studiato abbastanza” incalzava Lenin, “apprendere dalla saggezza delle masse” aggiungeva ancora Mao. La forza di un Partito Comunista poggia interamente sulla propria cultura politica, sul sapere, sul conoscere, sul comprendere il presente per poter progettare il futuro. Nel vuoto lasciato dal collasso del partito comunista questo giornale è stato pensato, a immagine dell’insegnamento di Gramsci, per provocare, nei limiti delle proprie oneste capacità, la rinascita dell’intelligenza comunista, entrando nelle case dei lavoratori per incoraggiarli e aiutarli ad esprimere i loro pensieri pag. 51 e a far sentire la loro voce. Il bilancio di due anni di pubblicazioni è stato sorprendente per certi aspetti, deludente per
l’obiettivo principale. Il giornale ha riempito un vuoto di comunicazione, ma anche di idee e di dibattito nella nostra città. Bene! Questo fa sicuramente piacere. Ma non era per questo obiettivo che era stato pensato. Il giornale ha stimolato la cosiddetta “società pensante” della città, in parte avvicinandola nonostante differenze ideologiche anche forti, in parte spaventandola, forse proprio quando le differenze ideologiche avrebbero dovuto essere minori. Bene, anche questo. Ma non era per questo obiettivo che era stato pensato. Il giornale è entrato in molte case nelle quali, forse, l’unica forma di informazione era riservata alle tv del governo o del loro padrone (che poi sono la stessa persona). Molto bene, in questo caso. Ma non era solo per questo obiettivo che era stato pensato. Il giornale non ha avuto invece ritorni proprio da quegli ambienti sociali per i quali era stato pensato e ai quali era destinato. Non ostante una diffusione capillare e un evidente gradimento manifestato dalla rapida consumazione delle copie in tutti i quartieri e le frazioni della città, è mancata la risposta. Un giornale può essere uno strumento importante di un movimento o di un partito, ma non può supplire la loro mancanza. A due anni di distanza è tempo di tirare onestamente le somme e chiudere questa esperienza prima che possa diventare qualcosa d’altro. Non si ferma però l’esperienza di Piazza del Grano che prosegue, in nuova veste e forma, col sito del quotidiano on line PdG News. E’ un’esperienza nuova tutta da costruire e forse, proprio grazie all’accessibilità del mezzo informatico, riuscirà a stabilire quell’interscambio che è mancato al mensile, affiancando alle notizie quotidiane, spazi di dibattito, blog, forum. Un facebook intelligente dove l’ “amicizia” non nasce e non si esaurisce in un click, ma può richiedere e produrre idee e confronti. L’appuntamento da oggi non sarà più mensile, ma quotidiano. E’ un nuovo inizio.
Supplemento del periodico Piazza del Grano Autorizzazione dei tribunale di Perugia n. 29/2009 via della Piazza del Grano n. 11 - Foligno e-mail redazionepiazzadelgrano@yahoo.it Stampato presso GPT Srl - CittĂ di Castello gennaio 2012
Alcuni piagnucolano, altri bestemmiano ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti. Antonio Gramsci