Mensile di informazione, politica e cultura dell’Associazione Luciana Fittaioli - Anno VII - nn. 3-4 - marzo-aprile 2015 - distribuzione gratuita
“E’ arrivato il momento della resistenza armata”
Noi firmatari, affermiamo la nostra convinzione che la libertà e la dignità sono l'essenza della civiltà. Persone di tutto il mondo nel corso della storia si sono levate in difesa della loro libertà e della loro dignità contro il dominio coloniale, l'oppressione, l'apartheid e la segregazione. Non vi è un rischio maggiore per la nostra civiltà che abbandonare questi principi e consentire irresponsabilmente la loro violazione e negazione. Il popolo Palestinese ha lottato per decenni per la giustizia e la concretizzazione dei propri diritti inalienabili. Tali diritti sono stati più volte ribaditi da innumerevoli risoluzioni delle Nazioni Unite. L’applicazione di questi diritti comporta la liberazione di Marwan Barghouti e di tutti i prigionieri palestinesi, in quanto la loro prigionia altro non è che un riflesso della pluridecennale privazione della libertà che il popolo palestinese ha subito e continua a sopportare. Centinaia di migliaia di palestinesi sono stati imprigionati in uno dei più eclatanti esempi di detenzione di massa che mirano a distruggere il tessuto nazionale e sociale del popolo occupato, e a spezzare la sua volontà di raggiungere la libertà. Alcuni prigionieri palestinesi hanno trascorso oltre 30 anni nelle carceri israeliane, cosa che fa di Israele la potenza occupante responsabile dei più lunghi periodi di detenzione politica nella storia recente. Il trattamento dei prigionieri palestinesi dal momento del loro arresto, durante gli interrogatori e il processo, nonché durante la loro detenzione, viola le norme e gli standard previsti dalla legge internazionale. Tra questi prigionieri, un nome è emerso a livello nazionale e internazionale come fondamentale per l'unità, la libertà e la pace. Marwan Barghouti ha trascorso un totale di quasi due decenni della sua vita nelle carceri israeliane, tra cui gli ultimi 11 anni. E’ il prigioniero politico palestinese più importante e rinomato, un simbolo della missione del popolo palestinese per la libertà, una figura che unisce e un sostenitore della pace basata sul diritto internazionale. Tenendo presente come gli sforzi internazionali portarono alla liberazione di Nelson Mandela e di tutti i prigionieri anti-apartheid, riteniamo che sia responsabilità morale giuridica e politica della comunità internazionale di assistere il popolo palestinese nella realizzazione dei loro diritti deve e garantire la libertà di Marwan Barghouti e di tutti i prigionieri politici palestinesi. Dalla prigione di Robben Island, cella di Mandela il 27 Ottobre 2013 In copertina Marwan Barghouti, il “Nelson Mandela della Palestina”, primo parlamentare del Consiglio Legislativo Palestinese a finire in una prigione di Israele. Leader dell’Intifada, uomo tra i più accreditati a succedere al presidente Yasser Arafat. E’ stato arrestato nel 2002 nella sua casa di Ramallah con l’accusa di essere “complice e mandante” di atti terroristici, processato dalla corte marziale israeliana e condannato a 5 ergastoli. Barghouti si è sempre dichiarato innocente, ma la costante professione di non colpevolezza non ha migliorato né la posizione sua, né quella dei circa 5068 prigionieri politici palestinesi (di cui 195 minori e 13 parlamentari del Consiglio Legislativo Palestinese) reclusi in carceri che si trovano in territorio israeliano.
Non mi fido degli Stati Uniti
Cari compagni, dal 2006, per motivi di salute incompatibili con il tempo e lo sforzo necessario per adempiere ai miei doveri, ho rinunciato alle mie cariche. Non ero figlio di un operaio, né privo di risorse materiali e sociali per condurre una esistenza confortevole; posso dire che ho deciso di sottrarmi consapevolmente alla ricchezza. Molti anni più tardi, un nord americano molto ricco e senza dubbio capace, ha dichiarato che il sistema di produzione e distribuzione privilegiata della ricchezza convertirà, di generazione in generazione, i poveri in ricchi. Fin dai tempi della Grecia antica, 3.000 anni fa, i Greci erano brillanti in quasi tutte le attività: la fisica, la matematica, la filosofia, l'architettura, l'arte, la scienza, la politica, l'astronomia e le altre branche del sapere umano. La Grecia, però, era una terra di schiavi che eseguivano i lavori più duri nei campi e nelle città, mentre una oligarchia scriveva e faceva filosofia. La prima utopia fu scritta esattamente da loro. Osservate bene le realtà di questo nostro pianeta globalizzato e mal distribuito, dove esistono situazioni di vita molto diverse: in alcuni casi con molto meno di quanto c’è bisogno; in altri con tanti mezzi che non sanno cosa farne. Nel frattempo oggi, tra minacce e pericoli della guerra, regna il caos nella distribuzione delle risorse finanziarie e della produzione sociale. La popolazione mondiale è cresciuta tra il 1800 e il 2015 da 1 a 7 miliardi di abitanti. Come potranno essere risolti i problemi dell'aumento della popolazione nei prossimi 100 anni con le esigenze di alimentazione, salute, acqua e abitazioni di cui avrà bisogno la popolazione mondiale quali che saranno i progressi della scienza? Bene, lasciando da parte questi difficili problemi, mi piace pensare che l'Università di L'Avana, quando io sono entrato quasi tre quarti di secolo fa, era l'unica in Cuba. Oggi abbiamo più di cinquanta centri di istruzione superiore sparsi in tutto il paese. Sono impressionato nel considerare che 70 anni sono passati.
Il saluto personale tra i presidenti di Cuba e degli Stati Uniti si è verificato al funerale di Nelson Mandela, un combattente esemplare nella lotta contro l'apartheid, che aveva una certa amicizia con Obama. Occorrerà ricordare che allora erano passati diversi anni da quando le truppe cubane avevano sconfitto l’esercito razzista sudafricano, guidato da una ricca borghesia con grandi risorse economiche. Quel paese arrogante fu costretto a negoziare un accordo di pace che pose fine alla occupazione militare dell'Angola e all'apartheid in Africa. Le truppe internazionaliste cubane sono ritornate con onore dell'Africa. Poi è venuto il “periodo speciale” in tempo di pace, che dura da oltre 20 anni senza alzare la bandiera bianca, cosa che non abbiamo fatto e non faremo mai. Molti amici di Cuba conoscono la condotta esemplare del nostro popolo, e a loro spiego la mia posizione con poche parole. Non mi fido della politica degli Stati Uniti e non ho scambiato una parola con loro, senza che ciò significhi assolutamente il rifiuto di una soluzione pacifica dei conflitti e dei pericoli di guerra. Difendere la pace è un dovere di tutti. Qualsiasi soluzione pacifica e negoziata dei problemi tra gli Stati Uniti e qualsiasi popolo dell'America Latina, che non preveda l'uso di soluzioni di forza, deve essere trattata secondo i principi internazionali. Difenderemo sempre la cooperazione e l’amicizia con tutti i popoli del mondo, compresi quelli dei nostri avversari politici. Ed è ciò che chiediamo a tutti. Il presidente di Cuba ha preso le decisioni secondo le sue prerogative e i poteri concessi dalla Assemblea Nazionale e dal Partito Comunista di Cuba. I gravi pericoli che minacciano l'umanità di oggi devono essere risolti in conformità a norme che siano coerenti con la dignità umana. Da questi diritti non deve essere escluso nessun paese. In questo spirito ho lottato e continuerò a lottare fino all'ultimo respiro. Fidel Castro Ruz
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Editoriale Ukraina e l’olocausto sovietico di Sandro Ridolfi
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Palestina Il riconoscimento del Parlamento UE a cura della Redazione
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Elezioni in Grecia La Rivoluzione “latinoeuropea” di Giacomo Bertini
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Oltre la Globalizzazione Ipotesi per una economia sociale di Ivano Spano
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Finmeccanica, Ansaldo-Breda I “boiardi” di Stato di Sandro Ridolfi
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Inserimento del bambino sordo Riflessioni sulla finalità dell’educazione di Arianna Accardo
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Chinese Dream Il sogno di un popolo di Sandro Ridolfi
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Lotte contadine Avola di Giovanni Parentignoti
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L’antiumanesimo capitalista (seconda parte) La sociologia a fondamento capitalistico di Alberto Donati pagina 120 Stalin: lezioni di leninismo Il materialismo storico a cura della redazione
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Redazione: via Benedetto Cairoli 30 - 06034 Foligno - E-mail redazionepiazzadelgrano@yahoo.it - Sito internet: www.piazzadelgrano.org - Autorizzazione: tribunale di Perugia n. 29/2009 - Editore: Sandro Ridolfi - Direttore Responsabile: Maria Carolina Terzi - Sito: Andrea Tofi - Stampa: Del Gallo Editori Spoleto - Chiuso: 15 marzo 2015 Tiratura: 2.000 copie - Periodico dell’Associazione “Luciana Fittaioli”
S ommario del mese di marzo-aprile 2015 Le lingue degli “altri” Migranti dal Senegal, dicono di noi a cura della Redazione
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Giovani a confronto Andare per tornare - Penelope esiste di Giacomo Bertini e Penelope Gruppo 11 pagina 136 Storia della Fame Dal Mito alla Fame dei Popoli di Sara Mirti
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Drammaturgia originale-LIS Oltre gli occhi di Dario Pasquarella
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Tatuandò Il tatuaggio sordo in Italia (prima parte) di Katiuscia Andò
pagina 148
Venga a prendere il caffè da noi Quando si spegne la “vecchia” fiamma di Catia Marani
pagina 152
Racconto di primavera ...quando il sole si distende sui campi di Chiara Mancuso
pagina 156
Se questo è un uomo (estratto) Alle origini dei forni crematori di Primo Levi
pagina 161
QR code al sito internet della rivista
L’Ukraina e di Sandro Ridolfi
Mercenari del Battaglione ukraino “Azov” con i simboli nazisti della svastica e della NATO
l’olocausto sovietico lcune settimane fa è stato celee c’è stato nella seconda guerra A brato l’anniversario dell’olocau- Smondiale un olocausto ebraico con sto dei 5 milioni di cittadini europei di 5 milioni di morti, ce n’è stato uno etnia ebraica, “rastrellati” in tutte le nazioni dell’Europa, con la complicità diffusa di tutte quelle nazioni e popolazioni, naziste, fasciste e comunque molto affascinate dall’ideologia nazista tedesca (la libera e libertaria Francia non è stata da meno della fascista Italia e della super nazista Ungheria, per citarne alcune). Giusta e doverosa la celebrazione per il dovere della conservazione di un ricordo indelebile di quella bestialità; ma a condizione di un ricordo onesto, sincero e non revisionista e ipocrita. Una per tutte varrà di ricordare l’ipocrita “confessione” di papa Benedetto XVI nel campo di Auschwitz (ritrasmessa da poco dalla Rai) quando, pur accollando al suo popolo tedesco la responsabilità indiscutibile di quell’abominio, affermò che i tedeschi erano stati a loro volta vittime di una illusione di grandezza propagandata da un regime violento e dittatoriale. NON E’ VERO! I tedeschi abbracciarono in larghissima parte il nazismo (come d’altronde fecero gli italiani con il fascismo) e condivisero con piena convinzione e responsabilità: non solo la folle mania di grandezza del Terzo Reich, ma anche quella, ancor più folle, dello sterminio scientifico dei popoli minori (ebrei, zingari e altre minoranze non ariane o comunque non germaniche). Per bruciare nei forni crematori 5 milioni di ebrei (e non solo) fu necessario il “lavoro” duro, incessante e determinato di molti milioni di tedeschi e di altre nazionalità convertite al nazismo. L’Olocausto NON E’ il frutto del nazismo hitleriano, ma del sentimento di folle superiorità di un intero popolo! Non ricordare e non precisare questo significa lasciare aperta la porta alla rinascita di nuovi nazifascismi. E così è stato e così attualmente è sempre più diffuso in molte nazioni europee, dal lepenismo francese al leghismo italiano, passando per il partito “patria” ukraino. Questa considerazione ci porta al tema enunciato nel titolo.
cinque volte più grande di cittadini sovietici (essenzialmente russi) con circa 25 milioni di morti! I sovietici (russi), a differenza degli ebrei, hanno resistito e reagito e alla fine hanno vinto la guerra e cancellato dall’Europa la barbarie nazi-fascista; poi hanno PERDONATO. La Germania, l’Ungheria, la Finlandia, la Romania e la stessa Italia, nazioni che con oltre 4 milioni di soldati avevano invaso l’Unione Sovietica massacrando, appunto, circa 25 milioni di suoi cittadini (tanti soldati, solo 500mila nella disperata difesa di Kiev da parte dell’Armata Rossa, ma molti di più cittadini inermi), sono rinate e stanno vivendo decenni di pace e di benessere economico e sociale, e questo già da quando ancora esisteva l’ “orribile” cortina di ferro. Ora il fascismo rigurgita e rilancia programmi razzisti e xenofobi, di superiorità etnica e di odio verso i diversi. In Ukraina sono riapparse le bandiere e gli stemmi nazisti ed è di nuovo stato seminato l’odio anti russo, anti ebreo, anti zingaro e tra un po’, magari, anche anti greco o anti italiano, popoli inferiori del sud del mondo occidentale. Questo non lo possiamo tollerare tutti (cioè nessuno), ma primi tra i “tutti” i russi che hanno pagato quel prezzo enorme, anche per noi, per la nostra libertà e così detta democrazia occidentale. “Nessuno può dare ordini al Presidente della Russia”, ha replicato Putin al diktat americano sulla Ukraina. Nessuno può giudicare la pericolosità della rinascita dei sentimenti nazisti più di coloro che per opporsi a quei sentimenti hanno pagato quel prezzo altissimo. Poco meno di 70 anni fa, dopo avere travolto le armate rosse che tentavano di difendere proprio l’Ukraina, da Odessa a Kiev, i tedeschi e i finlandesi accerchiarono Leningrado, all’epoca la più popolosa e strutturata città russa, con circa 3,5 milioni di abitanti, più o meno come la Roma di oggi, ma piena di industrie. 900 giorni di assedio; da 1 a 1,5 milioni di morti in
grandissima parte per fame, freddo e malattie collegate. Non fu una follia di resistenza imposta dalla “orrida” dittatura staliniana, non solo perché era impossibile evacuare una città, come detto, delle dimensioni di Roma (dove e con quali mezzi, case, ospedali, infrastrutture, ecc,), ma perché il piano di conquista tedesco non prevedeva la conquista e la sottomissione della città sconfitta, ma lo sterminio scientifico dell’intera sua popolazione: dunque resistere o farsi sterminare come ai tempi delle guerre puniche, galliche o unne. Da 1 milione a 1,5 milioni di morti di fame, freddo e malattie, più di quanti ne morirono nella Germania sotto i bombardamenti alleati dell’intera guerra. Questo in una sola città: donne, bambini, anziani e non solo combattenti. ggi in Ukraina un battagliane di così detti volontari (mercenari), chiamato “Azov”, combatte alle porte di Mariupol alzando le svastiche naziste e gode anche di una rappresentanza eletta nel parlamento di Kiev. Questo fatto è incredibile e impossibile (vorrei richiamare l’intervista dell’ex cancelliere tedesco Schroder pubblicata nel numero di giugno 2014 di questa rivista). La Russia, il popolo russo, il mondo intero non può e non deve permetterlo. Nessuno può ordinare alla Russia come difendere se stessa e il mondo dal pericolo del revanscismo nazi-fascista. Bene sicuramente la tregua e benissimo la fine della guerra e la pace, ma NON SENZA CONDIZIONI. L’Ukraina deve recedere dalla sua politica neo nazista, razzista, xenofoba e anti russa (al momento, perché una ideologia del genere è un virus che si espande senza controllo se non viene ucciso all’origine). In conclusione, stare dalla parte della Russia nella questione Ukraina non significa schierarsi contro l’occidente e le sue sbandierate ideologie di libertà e democrazia; significa stare con la storia, dentro la storia, non dimenticare la storia, quella sin troppo recente dell’olocausto ebraico e ancor più di quello sovietico (russo).
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Il nome della Palestina Palestina è la denominazione romana della provincia che risale all'epoca dell'imperatore Adriano, nel 135 d.C., quando il nome ufficiale di Syria Palaestina sostituì il precedente di Iudaea. Il nome Palestina era tuttavia un toponimo già noto, introdotto da Erodoto e utilizzato dai Greci. Nei più antichi documenti il territorio è noto con nomi diversi. Antichi documenti egiziani si riferiscono alla regione con il nome traslitterato rṯnu. Nella Bibbia la Palestina è indicata con diversi nomi e risulta una presenza contemporanea di più stati sul suo territorio. Oltre ai termini Eretz Yisrael "Terra di Israele", Eretz Ha-Ivrim "Terra degli ebrei", "Terra in cui scorre latte e miele", “Terra promessa”, tutto il territorio a occidente del fiume Giordano in epoca antecedente era chiamato "Terra di Canaan", in quanto abitato dai Cananei. Nella mitologia biblica i cananei sono i discendenti di Canaan figlio di Cam. Secondo la Bibbia questa popolazione sarebbe stata sopraffatta e colonizzata dagli
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Ebrei popolo originario della Mesopotamia meridionale considerati discendenti di Abramo cui Dio avrebbe promesso la terra di Canaan. Con l'arrivo del popolo ebraico la “Terra di Canaan” prese il nome di "Terra di Israele". La storia del territorio a questo punto coincide con la storia del popolo d'Israele. In seguito vi fu una divisione del regno ebraico in due regni separati, quello meridionale regno di Giuda (sottomesso dai babilonesi), quello settentrionale regno di Israele o Samaria (conquistato dagli assiri). La regione costiera invece, colonizzata probabilmente in un'epoca intorno al 1000 a.C. dai Filistei, comprendeva almeno cinque città: Gaza, Ashdod, Ekron, Gath, e Ashkelon. Di questo popolo gli Egiziani antichi danno per primi notizia come uno dei Popoli del mare che invasero l'Egitto durante il regno di Ramses III. "Filistea" è il toponimo da cui è derivato il latino "Palaestina"; dunque "Palestina" è un nome ispirato al popolo dei Filistei. In epoca biblica i Fi-
listei si scontrarono con gli Israeliti per un lungo periodo, subirono sconfitte e vennero infine sottomessi da re David e forse definitivamente sterminati, scomparvero definitivamente come nazione e non sono più citati dai tempi delle invasioni degli Assiri. La terra di Israele in seguito venne sottoposta al dominio persiano, ellenistico e romano. Con il tempo il regno divenne uno stato vassallo e diversi territori della Palestina furono frazionati e passarono sotto diretta amministrazione romana. La complessa organizzazione amministrativa della provincia riflette una grande turbolenza politica al punto che, nel 135, l’imperatore Elio Adriano, noto anche per avere coniato una moneta con il motto “Patientia” (tolleranza) da avere come principio guida della politica di convivenza del vastissimo impero, dispose la distruzione del Tempio di Gerusalemme, alla quale mutò il nome in Aelia Capitolina, e il divieto per gli Ebrei di risiedere nella città sacra di Gerusalemme, centro religioso del giudaismo.
Palestina una nazione negata Capire ciò che sta accadendo in Palestina non è facile, anche perché i grandi mezzi di comunicazione, in particolare la televisione, non ci aiutano. Ignorano o rimuovono deliberatamente le complesse radici del conflitto in atto, affidandosi esclusivamente alle cronache degli inviati speciali o alle dubbie competenze di «esperti» politici o militari, che danno spesso l'impressione di non aver mai messo piede in Palestina. Per di più, il riferimento emotivo al tema dell'antisemitismo e dell'Olocausto e una latente ostilità nei confronti del mondo islamico impediscono a molti europei una valutazione razionale delle responsabilità politiche degli attori coinvolti: gli Stati Uniti, Israele, i paesi arabi, le organizzazioni palestinesi. Nei decenni a cavallo fra Ottocento e Novecento, periodo nel quale le potenze europee, in primis l'Inghilterra, decidevano le sorti della Palestina e incoraggiavano il movimento sionista ad occuparla, la Palestina non era un deserto. Era, al contrario, un paese dove viveva una comunità politica e civile composta di oltre seicentomila persone, che dava nome al territorio in cui viveva da millenni. I palestinesi parlavano l'arabo ed erano in gran parte mussulmani sunniti, con la presenza di minoranze cristiane, druse e sciite, che usavano anch'esse la lingua araba. Grazie al suo elevato grado di istruzione, la borghesia palestinese costituiva una élite della regione mediorientale: intellettuali, imprenditori e banchieri palestinesi occupavamo posti chiave nel mondo politico arabo, nella burocrazia e nelle industrie petrolifere del Golfo Persico. Questa era la situazione sociale e demografica della Pale-
stina nei primi decenni del Novecento e tale sarebbe rimasta fino a qualche settimana prima della proclamazione dello Stato d'Israele nella primavera del 1948: in quel momento in Palestina era presente una popolazione autoctona di circa un milione e mezzo di persone (mentre gli ebrei, nonostante l'imponente flusso migratorio del dopoguerra, superavano di poco il mezzo milione). L'intera vicenda dell'invasione sionista della Palestina e della autoproclamazione dello Stato di Israele ruota dunque attorno ad una operazione ideologica che poi si incarnerà in una sistematica strategia politica: la negazione dell'esistenza del popolo palestinese. Nelle dichiarazioni dei maggiori leader sionisti - da Theodor Herzl a Moses Hess, a Menachem Begin, a Chaim Weizman - la popolazione nativa, quando non è totalmente ignorata, viene squalificata come barbara, indolente, venale, dissoluta. A questo diffusissimo clichet coloniale è strettamente associata l'idea che il compito degli ebrei sarebbe stato quello di occupare un territorio arretrato e semideserto per ricostruirlo dalle fondamenta e «modernizzarlo». E secondo una interpretazione radicale della «missione civilizzatrice» dell'Europa e del suo «colonialismo ricostruttivo», la nuova organizzazione politica ed economica israeliana avrebbe dovuto escludere ogni cooperazione, se non di carattere subordinato e servile, della popolazione autoctona (mentre lo Stato israeliano sarebbe rimasto aperto all'ingresso di tutti gli ebrei del mondo e soltanto degli ebrei). Non a caso, la prima grande battaglia che i palestinesi sono stati costretti a combattere per ri-
salire la china dopo la costituzione dello Stato d'Israele è stata quella di opporsi alla loro vera e propria cancellazione storica. Il loro obiettivo primario è stato di affermare - non solo contro Israele, ma anche contro paesi arabi come l'Egitto, la Giordania, la Siria - la loro identità collettiva e il loro diritto all'autodeterminazione. Soltanto molto tardi, non prima del 1974, le Nazioni Unite prenderanno formalmente atto dell'esistenza di un soggetto internazionale chiamato Palestina e riconosceranno in Yasser Arafat il suo legittimo rappresentante. La negazione dell'esistenza di un popolo nella terra dove si intendeva installare lo Stato ebraico è lo stigma coloniale e, in definitiva, razzistico che caratterizza sin dalle sue origini il movimento sionista: un movimento del resto strettamente legato alle potenze coloniali europee e da esse sostenuto in varie forme. Dopo aver a lungo progettato di costituire in Argentina, in Sudafrica o a Cipro la sede dello Stato ebraico, la scelta del movimento sionista cade sulla Palestina non solo e non tanto per ragioni religiose, quanto perché si sostiene, assieme a Israel Zangwill, che la Palestina è «una terra senza popolo per un popolo senza terra». E' in nome di questa logica coloniale che inizia l'esodo forzato di grandi masse di palestinesi - non meno di settecentomila - grazie soprattutto al terrorismo praticato da organizzazioni sioniste come la Banda Stern, guidata da Yitzhak Shamir, e come l'Irgun Zwai Leumi, comandata da Menahem Beghin, celebre per essersi resa responsabile della strage degli abitanti - oltre 250 - del villaggio di Deir Yassin.
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Poi, a conclusione della prima guerra arabo-israeliana, l'area occupata dagli israeliani si espande ulteriormente, passando dal 56 per cento dei territori della Palestina mandataria, assegnati dalla raccomandazione della Assemblea Generale delle Nazioni Unite, al 78 per cento, includendo fra l'altro l'intera Galilea e buona parte di Gerusalemmme. Infine, a conclusione dalla guerra dei sei giorni, nel 1967, come è noto, Israele si impadronisce anche del restante 22 per cento, si annette illegalmente Gerusalemme-est e impone un duro regime di occupazione militare agli oltre due milioni di abitanti della striscia di Gaza e della Cisgiordania. Il tutto accompagnato dalla sistematica espropriazione delle terre, dalla demolizione di migliaia di case palestinesi, dalla cancellazione di interi villaggi, dall'intrusione di imponenti strutture urbane nell'area di Gerusalemme araba, oltre che in quella di Nazaret. Ma, fra tutte, è la vicenda degli insediamenti coloniali nei territori occupati della striscia di Gaza e della Cisgiordania a fornire la prova più persuasiva del buon fondamento dell'interpretazione «colonialista». Come spiegare altrimenti il fatto che, dopo aver conquistato il 78 per cento del territorio della Palestina, dopo aver annesso
Gerusalemme-est ed avervi insediato non meno di 180 mila cittadini ebrei, lo Stato di Israele si è impegnato in una progressiva colonizzazione anche di quell'esiguo 22 per cento rimasto ai palestinesi, e già sotto occupazione militare? Come è noto, a partire dal 1968, per iniziativa dei governi sia laburisti che di destra, Israele ha confiscato circa il 52% del territorio della Cisgiordania e vi ha insediato oltre 200 colonie, mentre nella popolatissima e poverissima striscia di Gaza ha confiscato il 32 per cento del territorio, istallandovi circa 30 colonie. Complessivamente non meno di 200 mila coloni oggi risiedono nei territori occupati, in residenze militarmente blindate, collegate fra loro e con il territorio dello Stato israeliano attraverso una rete di strade (le famigerate by-pass routs) interdette ai palestinesi e che frammentano e lacerano ulteriormente ciò che rimane della loro patria. Si può dunque concludere che il «peccato originale» dello Stato di Israele è il suo carattere strutturalmente sionista: il suo rifiuto non solo di convivere pacificamente con il popolo palestinese ma persino di gestire la propria egemonia in modi non repressivi, coloniali e sostanzialmente razzisti. Ciò che l'ideologia sionista è riuscita ad otte-
nere - indubbiamente favorita dalla persecuzione antisemitica e dalla tragedia dell'Olocausto - è stata la progressiva conquista della Palestina dall'interno. E ciò ha dato e continua a dare al mondo - non solo a quello occidentale - l'impressione che l'elemento indigeno sia costituito dagli ebrei e che stranieri siano i palestinesi. In questa anomalia sta il nucleo della tragedia che si è abbattuta sul popolo palestinese, la ragione principale delle sue molte sconfitte: il sionismo è stato molto più di una normale forma di conquista e di dominio coloniale dall'esterno. Esso ha goduto di un consenso e di un sostegno generale da parte dei governi e della opinione pubblica europea come non è accaduto per nessun'altra impresa coloniale. Ma qui sta anche il grave errore commesso dalla classe politica israeliana e dalla potente élite ebraica statunitense che ne ha sempre condiviso le scelte politico-militari. Un popolo palestinese esisteva in Palestina prima della costituzione dello Stato di Israele, continua ad esistere nonostante lo Stato di Israele ed è fermamente intenzionato a sopravvivere allo Stato di Israele, nonostante le sconfitte, le umiliazioni, la sanguinosa distruzione dei suoi beni e dei suoi valori.
Risoluzione del Parlamento europeo del 17 dicembre 2014 sul riconoscimento dello Stato di Palestina Il Parlamento europeo, - viste le sue precedenti risoluzioni sul processo di pace in Medio Oriente, - viste le conclusioni del Consiglio «Affari esteri» del 17 novembre 2014 sul processo di pace in Medio Oriente, - viste le dichiarazioni dell'alto rappresentante/vicepresidente sull'attentato alla sinagoga di Har Nof, del 18 novembre 2014, sull'attentato terroristico a Gerusalemme, del 5 novembre 2014, nonché la dichiarazione del portavoce dell'alto rappresentante dell'UE sugli ultimi sviluppi in Medio Oriente, del 10 novembre 2014, - visti l'annuncio del governo svedese relativo al riconoscimento dello Stato di Palestina, del 30 ottobre 2014, nonché il precedente riconoscimento da parte di altri Stati membri prima della loro adesione all'Unione europea, - viste le mozioni sul riconoscimento dello Stato di Palestina approvate dalla Camera dei Comuni del Regno Unito il 13 ottobre 2014, dal Senato irlandese il 22 ottobre 2014, dal Parlamento spagnolo il 18 novembre 2014, dall'Assemblea nazionale francese il 2 dicembre 2014 e dall'Assemblea portoghese il 12 dicembre 2014, - visto il diritto internazionale, - visto l'articolo 123, paragrafo 2, del suo regolamento, A. considerando che l'Unione europea ha confermato a più riprese il proprio sostegno a favore della soluzione a due Stati basata sui confini del 1967, che prevede Gerusalemme come capitale di entrambi gli Stati e la coesistenza, all'insegna della pace e della sicurezza, di uno Stato di Israele sicuro e di uno Stato di Palestina indipendente, democratico, territorialmente continuo e capace di esistenza autonoma, e ha sollecitato la ripresa dei colloqui di pace diretti tra Israele e l'Autorità palestinese; B. considerando che il conseguimento di una pace giusta e duratura tra israeliani e palestinesi rappresenta da oltre mezzo secolo una delle principali preoccupazioni della comunità internazionale, inclusa l'Unione europea; C. considerando che i colloqui di pace diretti tra le parti sono in una fase di stallo; che l'UE ha chiesto alle parti di adoperarsi per favorire l'instaurazione di un clima di fiducia necessario ad assicurare negoziati significativi, di astenersi dal compiere azioni che pregiudichino la credibilità del processo e di evitare le provocazioni; D. considerando che nella sua risolu-
zione del 22 novembre 2012 il Parlamento europeo ha sottolineato che l'unico modo per giungere a una pace giusta e duratura tra israeliani e palestinesi consiste nel ricorrere a mezzi pacifici e non violenti, ha chiesto che siano create le condizioni per la ripresa di colloqui di pace diretti tra le due parti, ha sostenuto, a tale proposito, la domanda della Palestina per diventare uno Stato non membro osservatore delle Nazioni Unite, ritenendolo un passo importante al fine di conferire maggiore visibilità, solidità ed efficacia alle richieste della Palestina, e ha invitato gli Stati membri dell'UE e la comunità internazionale, a tale riguardo, a trovare un accordo in questo senso; E. considerando che il 29 novembre 2012 l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha deciso di concedere alla Palestina lo status di Stato non membro osservatore in seno alle Nazioni Unite; F. considerando che il riconoscimento dello Stato di Palestina rientra nelle competenze degli Stati membri; G. ricordando l'impegno dell'OLP a riconoscere lo Stato di Israele dal 1993; 1. sostiene in linea di principio il riconoscimento dello Stato palestinese e la soluzione a due Stati, e ritiene che ciò debba andare di pari passo con lo sviluppo dei colloqui di pace, che occorre far avanzare; 2. sostiene gli sforzi del presidente Abbas e del governo di consenso nazionale palestinese; sottolinea ancora una volta l'importanza di consolidare l'autorità del governo di consenso palestinese e della sua amministrazione nella Striscia di Gaza; esorta tutte le fazioni palestinesi, incluso Hamas, ad accettare gli impegni assunti dall'OLP e a porre fine alle divisioni interne; chiede al-
l'Unione di continuare a garantire sostegno e assistenza al rafforzamento delle capacità istituzionali palestinesi; 3. ...; 4. ...; 5. ribadisce il proprio fermo sostegno a favore della soluzione a due Stati basata sui confini del 1967, con Gerusalemme come capitale di entrambi gli Stati e con uno Stato di Israele sicuro e uno Stato di Palestina indipendente, democratico, territorialmente continuo e capace di esistenza autonoma, che vivano fianco a fianco in condizioni di pace e sicurezza, sulla base del diritto all'autodeterminazione e del pieno rispetto del diritto internazionale; 6. ...; 7. ...; 8. sottolinea la necessità di una pace globale, che ponga fine a tutte le rivendicazioni e che soddisfi le legittime aspirazioni di entrambe le parti, incluse quelle degli israeliani alla sicurezza e quelle dei palestinesi alla sovranità; pone in evidenza che l'unica soluzione possibile al conflitto è la coesistenza di due Stati, Israele e Palestina; 9. decide di avviare un'iniziativa dal titolo «Parlamentari per la pace» volta a riunire parlamentari europei, israeliani e palestinesi di vari partiti per contribuire a far progredire un'agenda di pace e integrare gli sforzi diplomatici dell'UE; 10. incarica il suo Presidente di trasmettere la presente risoluzione al Consiglio, alla Commissione, al vicepresidente della Commissione/alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ai governi e ai parlamenti degli Stati membri, al Segretario generale delle Nazioni Unite, all'inviato del Quartetto per il Medio Oriente, al governo di Israele, al Presidente dell'Autorità palestinese e al Consiglio legislativo palestinese.
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Le elezioni politiche che si sono tenute in Grecia lo scorso 25 gennaio hanno visto la vittoria della Coalizione della Sinistra Radicale, meglio nota con l’acronimo Syriza, guidata dal suo leader Alexis Tsipras. I cittadini greci hanno scelto la sola ed unica speranza di cambiamento e discontinuità rispetto alle politiche di austerity che hanno indebolito e annichilito, non solo il tessuto economico del Paese, ma anche la tenuta sociale di una popolazione in piena crisi umanitaria. La Grecia con queste elezioni ha voluto gridare che un’Europa diversa, rispetto a quella che ha ampliato le diseguaglianze sociali, è possibile. Anche se, solamente per due voti, Syriza non è riuscito ad ottenere la maggioranza assoluta per formare un governo a guida unica, così nel giro di pochi giorni il neo eletto premier Tsipras ha formato un governo di coalizione con il partito nazionalista dei greci indipendenti, Anel. Benché politicamente distanti, le due formazioni del nuovo governo sono uniti dal fronte comune anti-austerity e contro il memorandum, cioè il patto della Grecia con la troika. Anche se si tratta di una coalizione insolita e innaturale, la creazione di questo governo può andare al di là della semplice ideologia, per il perseguimento del bene comune. Il terremoto politico che ha scosso l’Europa con la vittoria di Syriza, può ridare vitalità ad un continente che per troppi anni è rimasto immobile. Inoltre, la vittoria della Coalizione della Sinistra Radicale ha dimostrato come una diversa Europa possa nascere dalle sponde sud del mar Mediterraneo, e che una rivoluzione dei Paesi Latinoeuropei è possibile. (GB)
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La Rivoluzione “latinoeuropea” parte dalla Grecia di Giacomo Bertini
La nascita di Syriza Benché Syriza ha preso il via subito prima le elezioni politiche del 2004, il processo che ha portato alla sua formazione può essere ricondotto già a qualche anno prima, e cioè allo Spazio per il Dialogo, per l'unità e l'azione comune della sinistra del 2001. Lo "Spazio" era composto da varie organizzazioni della sinistra greca che, nonostante le diverse provenienze ideologiche e culturali, condividevano un’azione politica comune in numerose importanti questioni che impegnavano il Paese alla fine degli anni Novanta, come la guerra nel Kosovo, le privatizzazioni, i diritti sociali e civili. Anche se lo "Spazio" non era un’organizzazione, ma piuttosto il tentativo di unire gruppi diversi, riuscì a creare delle alleanze elettorali per le elezioni amministrative del 2001. Ma l’effettiva data di nascita di Syriza furono appunto le elezioni parlamentari greche del 2004. Molti dei partecipanti allo "Spazio" decisero di sviluppare una piattaforma comune che avrebbe condotto ad un’alleanza elettorale. Ciò portò
all’effettiva formazione di Syriza nel gennaio di quel 2004, in cui confluirono partiti della sinistra radicale, partiti ecologisti ed anche numerosi attivisti di sinistra indipendenti. Alle elezioni la Coalizione raccolse il 3,3% del totale ed elesse sei membri al Parlamento, tutti del Synaspismos, il più grande tra i partiti della coalizione proveniente dal mondo ecologista, e ciò provocò aspre tensioni all’interno di Syriza. Dopo il successo alle elezioni politiche nel 2007, in cui la Coalizione aumentò la sua percentuale di preferenza al 5,04%, il V congresso del Synaspismos elesse come suo presidente il trentatreenne Alexis Tsipras, una mossa che gli permise di raggiungere una considerevole popolarità, che portò ad una significativa crescita di Syriza nei sondaggi. Alle elezioni europee del 2009 Syriza ottenne il 4,7% dei voti, conquistando così un seggio all’europarlamento, sui 22 spettanti alla Grecia. Con le elezioni politiche greche del maggio 2012, Syriza diviene il secondo partito del Paese, preceduto solo da Neo Demokratia e seguita dal Pasok. Un risultato raggiunto in un
quadro a tinte fosche, nel malcontento generale di una popolazione stanca della politica. In seguito alla constatazione del leader di Neo Demokratia di non poter riuscire a formare un governo di solida maggioranza, il leader di Syriza, Alexis Tsipras, venne incaricato dal Presidente della Repubblica Karolos Papoulias di cominciare le trattative per formare una coalizione di governo. Tsipras annunciò che non sarebbe riuscito a formare il governo poiché non disponeva di un numero di deputati sufficiente per avere la maggioranza in Parlamento. Da questo momento fino alle elezioni politiche del 2015, Syriza rimase sempre all’opposizione dando battaglia sia dentro che fuori dal Parlamento. Il momento più importante che ha preceduto la vittoria alle elezioni politiche del 2015, sono state le elezioni europee che si sono tenute nel maggio 2014, che hanno visto Syriza primo partito in Grecia. L’evento ha avuto grande risalto sulla stampa nazionale ed internazionale, poiché è stata la prima volta che un partito di sinistra vinceva le elezioni europee in Grecia.
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Grecia, 5 anni di crisi La disfunzione che ha colpito la Grecia non è solo economica, ma anche, anzi soprattutto politica, istituzionale e sociale. È impossibile negare che la principale colpa della situazione greca è dei vari governi che ben prima della crisi economica mondiale si sono succeduti nelle terre dove è nata la filosofia e la politica. Ma la crisi ellenica irrompe sui mercati internazionali solo cinque anni fa, nel settembre del 2009, quando il governo socialista dell’allora premier George Papandreou, al potere da due mesi, rivela che il debito greco ammonta a 300 miliardi di euro, pari al 113% del Pil. Una cifra ben più alta di quella fino ad allora dichiarata dal governo conservatore precedente, che avrebbe truccato i conti per permettere alla Grecia l’ingresso nell’euro. Il rapporto deficit/Pil venne così rivisto al rialzo, passando dal 3,7 al 12,7%, ben quattro volte oltre il limite fissato dal Trattato di Maastricht. Nel maggio del 2010, l’Unione Europea e il Fondo monetario internazionale approvano un piano di salvataggio triennale per la Grecia da 110 miliardi di euro, il primo per un Paese dell'Eurozona. In cambio degli aiuti, Atene si sarebbe impegnata con Bruxelles ad approvare riforme durissime, improntate sull’austerity, per riportare i conti in ordine. Per il 2010 gli aiuti ammontarono a 45 miliardi di euro, di cui 30 dall’Ue. La somma più elevata è stata quella della Germania, con un prestito di 8,4 miliardi, mentre l’Italia ha stanziato 5,5 miliardi. Un anno più tardi, nel luglio 2011, i leader dell’Eurozona raggiunsero un accordo preliminare per un secondo bailout per la Grecia, che comprendeva aiuti per 50 miliardi di euro provenienti dal settore privato. Nell’ottobre 2011, mentre i leader europei raggiungevano un accordo per cancellare il 50% del debito della Grecia, a patto di ulteriori misure di austerity e riforme per riportare i conti in ordine, il premier George Papandreou annunciò a sorpresa la convocazione di un referendum, che equivaleva di fatto a chiedere ai greci se volevano restare o meno nell’euro. Questa decisione a sorpresa, buttò nel caos ancora di più la il Paese, con l’incubo di un possibile default.
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Nei mesi successivi, il governo greco, anche sotto forti pressioni internazionali, annullò il referendum. Dopo aver provocato un terremoto nella già devastata situazione economicofinanziaria dell’Europa, il premier greco Papandreou si dimise dando vita ad un governo di unità nazionale presieduto dall’ex vicepresidente della Bce Lucas Papademos. Nel febbraio del 2012, i ministri delle Finanze dell'Eurogruppo decisero il varo del secondo pacchetto di aiuti internazionali per sostenere i conti pubblici di Atene. Con il secondo versamento di aiuti, la Grecia fu sottomessa ad una sorveglianza “rafforzata”, che prevedeva la presenza permanente della troika e l’inserimento nella Costituzione di una norma sulla priorità dei pagamenti delle scadenze del debito. Oltre a misure imposte dall’alto, il Parlamento greco approvò un nuovo pacchetto di tagli e riforme, mentre decine di migliaia di persone continuavano a scendere in piazza per protestare contro il rigore imposto dalla troika. Nell’aprile 2012, Papademos convocò le elezioni anticipate per giugno, mentre la guida del governo ad interim venne assunta dal giudice della Corte suprema Panagiotis Pikrammenos. Intanto le voci di una possibile uscita della Grecia dall’euro si fecero sempre più insistenti. Alle elezioni di giungo nessun partito ebbe la maggioranza assoluta, ed il partito Neo Dremokratia di Antonis Samaras ottenne poco meno del 30% dei voti e 129 seggi, decise così di formate un esecutivo con l’appoggio esterno del Pasok e di Dimar, la Sinistra democratica. Per tutto il periodo in cui la Grecia è stata guidata da Samaras fino alle elezioni politiche di gennaio che hanno visto la vittoria di Syriza, la principale politica adottata è stata ancora quella dell’austerity, con una popolazione oramai in una vera e propria crisi umanitaria. Dopo dodici manovre finanziarie, il potere d’acquisto delle famiglie greche è stato ridotto del 40%, con la disoccupazione schizzata alle stelle, con il 25% del Pil polverizzato, con la creazione di due milioni di nuovi poveri, con la sanità pubblica smantellata. Questi sono stati i risultati di una politica stabilita a tavolino ed applicata meccanicamente senza analizzare l’intero contesto e senza dare alcuna importanza alle reali esigenze dei cittadini.
Perché Syriza Mentre il Pasok e Neo Demokratia imponevano il memorandum, misura che ha peggiorato la situazione ellenica, perché oltre a limitare la sovranità greca, il governo greco e le istituzioni europee ed internazionale decisero di chiudere la maxi falla dei conti in rosso con altri debiti infiniti; il Paese veniva attraversato da pesanti scontri e contestazioni organizzate da studenti, anarchici e sindacati. In Grecia si stava vivendo un vero e proprio conflitto sociale, tra chi aveva poco e tra chi non aveva più nulla. Come ha ben sottolineato Giacomo Russo Spena sulla rivista MicroMega, «mentre i greci erano allo stremo e per di più si vedevano negati il diritto alla salute o all’istruzione, o l’insufficienza economica rendeva impossibile mangiare e pagare le bollette di luce e gas, Syriza grazie alla sua gamba sociale, Solidarity for All, ha messo in campo pratiche di mutualismo ovviando alle inadeguatezze dello Stato: mense popolari, farmacie e ambulatori gratuiti, cooperative socio-lavorative, scuole popolari, riallacci delle utenze per i bisognosi». La forza di Syriza è stata quella di essere un partito radicato socialmente sul territorio, vicino ai movimenti, e coerente con se stesso. Lo dicono gli stessi dirigenti di Syriza: «Abbiamo vinto perché siamo andati in mezzo alle strade, nelle piazze, nei luoghi dove mancava tutto - racconta Yannis Albanis, nuovo portavoce del partito - e ci siamo per prima cosa occupati dei bisogni del popolo. È finita l’epoca di quando stavamo rinchiusi a fare le discussioni tra funzionari, oggi è necessario andare nei luoghi dove nasce il conflitto e dove si percepisce il bisogno». Tutta questa attività può essere espressa attraverso un'unica parola che rappresenta un concetto molto più ampio, che a quanto sembra è stato dimenticato da molti governanti europei, “mutualismo”, la parola magica per contrapporsi al disastro umanitario causato dai memorandum imposti dalla troika dall’inizio della crisi. Tsipras propone di fermare una volta per tutto il circolo vizioso dell’austerità che, invece di curare il malato, lo uccide una volta per tutte. Il suo programma economico, presentato a Salonicco lo scorso settembre, è impegnativo, per di più l’emergenza umanitaria del Paese necessita di una terapia shock.
E ora? Il terremoto che la vittoria di Syriza ha portato in Grecia potrebbe avere delle ripercussioni anche sull’intero continente europeo, innanzitutto mettendo fine alla politiche di austerità che mettono a rischio la sopravvivenza della stessa Europa politica e dei suoi giovani. Inoltre le elezioni greche hanno dimostrato che una rivoluzione dei paesi Latinoeuropei non solo è possibile, ma può prendere il via. Tanto più che le elezioni previste per la fine del 2015 in Spagna potrebbero produrre un risultato simile, con l’ascesa di Podemos, movimento populista di sinistra che trae la sua origine dalle rivolte che hanno attraversato la Spagna nel 2011-12 con gli Indignados contro le diseguaglianze e la corruzione. Proprio come Syriza, Podemos trae la sua forza dal coinvolgimento dei cittadini dal basso, ed ha aumentato il suo consenso proprio a causa della mala politica spagnola. Affinché questa rivoluzione democratica venuta dal Sud possa riuscire a modificare davvero il corso della storia, secondo l’economista francese Thomas Piketty in un articolo pubblicato su Repubblica «bisognerebbe che i partiti di centrosinistra attualmente al potere in Francia e in Italia adottino un atteggiamento costruttivo e riconoscano la loro parte di responsabilità nella situa-
zione attuale». In effetti, se una rivoluzione Latinoeuropea dovesse realmente svilupparsi, questi Paesi dovrebbero dire ad alta voce che le fondamenta democratiche di questa Unione Europea andrebbero rifatte, mentre il quadro in cui si muovono le istituzioni europee esistenti, tra rigidi criteri sul deficit e la regola dell’unanimità sulla fiscalità, dovrebbero essere eliminati o almeno rivisitati in favore delle politiche di progresso sociale. Purtroppo la realtà delle cose al momento sembra essere differente. Francia ed Italia si sono allineate su posizioni che non prevedono una totale ristrutturazione europea. Da una parte criticano, ad esempio la clausola del pareggio di bilancio inserito nelle Costituzione, mentre dall’altra giustificano tale accordo agli occhi dei loro cittadini. Se la stessa Francia ed Italia oggi tendessero la mano alla Grecia e alla Spagna per proporre un’autentica rifondazione democratica della zona euro, la Germania, monopolizzatrice del sistema decisionale europeo, non potrebbe fare a meno di accettare un compromesso. Intanto, partendo da fatti concreti, la Grecia ha raggiunto un accordo con i suoi partner dell’eurozona. L’intesa prevede un’estensione degli aiuti ad Atene per quattro mesi, in cambio il governo ellenico dovrà attuare un piano di riforme scelto pro-
prio dallo stesso governo e non imposto da altri. Lotta contro l’evasione fiscale, un ammodernamento del fisco, una revisione della spesa pubblica in tutti i settori, lotta contro la gravissima emergenza sociale fornendo gratuitamente luce e gas ai più poveri, queste sono le misure che il governo greco ha preso per il suo Paese. Il giorno dopo l’accordo con l’Europa, il premier greco Alexis Tsipras si è detto soddisfatto, «Le vere difficoltà sono ancora di fronte a noi, comunque abbiamo raggiunto il nostro principale obiettivo all’interno dell’Eurozona: l’intesa ha cancellato gli impegni sull’austerity dei precedenti governi». Secondo altri invece, Atene non ha troppe ragioni per esultare, dato che il pesante programma di salvataggio oggi in vigore dovrà essere completato sotto il controllo della troika, e soprattutto esponenti a lui vicino hanno definito Tsipras un traditore. Nessuno si aspettava che tutte le richieste avanzate da Atene fossero prese in considerazione. Fin dall’inizio era chiaro che si sarebbe arrivati a un compromesso. Tsipras ha avanzato grandi richieste per poter avere un margine di manovra, quindi concedere qualcosa durante la contrattazione era normale. La Grecia non si è assolutamente piegata a gli ordini di Bruxelles, al contrario, ha dato il via ad una rivoluzione lenta, ma che può accelerare.
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Oltre la Globalizzazione Ipotesi per una economia sociale I processi di globalizzazione in atto e l'associata spinta alla de-localizzazione si manifestano come flusso continuo di persone, cose, denaro, idee che si concentrano in territori urbani che si uniformizzano e divengono inistinguibili così come i comportamenti eterodiretti si omologano e si massificano.
di Ivano Spano
La globalizzazione influenza non solo gli avvenimenti su scala mondiale ma anche la vita quotidiana in quanto rappresenta "la più potente astrazione" (P.Barcellona, 2000) che gli uomini abbiano mai prodotto per semplificare la complessità sociale, culturale, esperenziale del mondo. Questa astrazione nasce dalla rottura tra crescita economica e formazioni sociali comportando anche la separazione tra impresa-produzione e territorio. Ma, forse, la separazione più drammatica è quella dell'individuo dal gruppo, dalla comunità degli altri individui. Oggi, sembra quasi non esista più nessuno disposto a riconoscere che la sua identità sia, in realtà, un prodotto sociale (P.Barcellona 2000). Siamo di fronte al mito dell’autogenerazione in cui non c’è più trasformazione (storia) e alterità. Ciò produce una perdita generalizzata del senso dell'esperienza individuale e collettiva, riduce l'alterità a specchio di un soggetto solo (Z.Bauman, 1999) e lasciato a cavarsela da solo, irrigidito in processi di oggettivazione e di reificazione (I.Spano, 2009). Da qui l'esigenza di immaginare un "oltre" che esca dalla semplificazione che ha rinunciato a capire la ricchezza della vita come complessità, che assume non l'individuo astratto come valore, che consideri lo sviluppo come possibilità di promozione-valorizzazione delle risorse collettive, che veda la comunità insediata come soggetto di autogoverno. E' questa la base per la stessa ridefinizione del "concetto di locale" (A.Magnaghi, 2012). Un salto concettuale richiede di considerare il locale come punto di vista che assume l’unicità, lo specifico come valore, la complessità come regola, l’auto organizzazione sociale ed economica come modalità. Lo stesso concetto di “fare sviluppo” viene fatto coincidere con la “produzione di nuova territorialità” e di “spazi di autonomia locale” (Magnaghi, 2012). Ciò porta alla ne-
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cessità di non procedere a una lettura che “naturalizza” l’impostazione ultra-liberista in economia. L’economia va intesa immersa nei rapporti sociali e mantiene l’obiettivo di rispettare i rapporti plurali tra le persone (Polanyi,1947).Si tratta di concepire una ibridazione all’interno di una “economia pluralista” di cui il mercato é una delle componenti ma non l’unica capace di produrre ricchezza e soddisfazione dei bisogni:l’economia di mercato,l’economia con mercato, l’economia non monetaria (di reciprocità) (Laville,1998). 200 gruppi e reti di sviluppo locale confluiti a Lima (1997) in un primo incontro mondiale sull’economia sociale e solidale individuarono in essa la funzione di rivelare le dimensioni dell’economia occultate dal modello neoliberista. Il suo punto di partenza è lo sviluppo delle capacità locali al fine di: - permettere lo sviluppo di ogni persona e l’assunzione di responsabilità nella definizione di attività socialmente utili, - rafforzare le capacità delle comunità insediate di garantire l’equità, - promuovere accesso e ripartizione egualitaria delle risorse a partire dal livello locale. Processo a medio e lungo termine ha come condizioni: - stabilire un vero e proprio diritto alla iniziativa singola e collettiva, - promuovere processi di partecipazione come capacità di intervento nelle decisioni pubbliche, - articolare in rete le diverse iniziative economiche e sociali, - sviluppare una società civile sul piano locale che internazionale, - lavorare finché lo Stato assuma responsabilità a garanzia reale dei diritti sociali universali.
Lo sviluppo delle società locali rimanda, quindi, a un progetto che richiede il superamento del territorio e dell’ambiente come dati, meri supporti delle attività economiche o come risorsa da consumarsi all’interno dell’idea di crescita illimitata (Georgescu-Roegen, 2003). Un salto concettuale richiede di considerare il locale come punto di vista che assume l’unicità, lo specifico come valore, la complessità come regola, l’auto organizzazione sociale ed economica come modalità (Magnaghi, 2012). Il territorio assume, quindi, la valenza di ecosistema e di società locale intesa come realtà complessa. Il rapporto tra territorio e processi socio-economici locali non va inteso, quindi, esclusivamente come proiezione spaziale di dinamiche economiche, ma come rapporto tra un insieme complesso di elementi le cui specificità territoriali sono espresse fondamentalmente dalla qualità di interazioni sociali e sistemi di comunicazione, cooperazione e scambio all’interno di concreti ambiti di identificazione culturale. La costruzione sociale del territorio (Spano, 2009), che si esplicita nel processo di estensione delle relazioni e di produzione di autonomia dei soggetti, viene intesa come sviluppo delle risorse viste non come date ma come prodotto (emergenza) delle dinamiche relazionali stesse (Spano, Padovan, 2001). Si rende necessario, quindi, intervenire nel ridare senso e competenza ai diversi soggetti sociali per ricostituire il tessuto relazionale e permettere l’emergenza di nuovi soggetti. E’ implicito il riferimento allo sviluppo della “comunità locale” ambito della esperienze vitali e realtà del gruppo sociale in cui l’omogeneità culturale (esperenziale) permette l’adozione di una progettualità immanente, spontanea, implicita, ricorsiva, pressoché autoriferita. Per Sachs (1988) questo sviluppo deve essere endogeno, deve poter contare sulle proprie forze. E’ proprio il processo di creazione di spazi di autonomia lo-
cale, di autoorganizzazione, di costruzione sociale a essere la caratteristica della nuova concezione di sviluppo locale. Ricercare la sostenibilità incentrando l’attenzione sulle regole insediative, di costruzione del territorio, significa introiettare nei progetti territoriali, urbani, architettonici, socio–economico requisiti,variabili, limiti che producono di per sé insediamento ad alta qualità ambientale senza necessità di disinquinare, trasferire rifiuti, restaurare ecosistemi, fare “riserve” di natura, di storia: in sostanza senza necessità di “sostenere” (Magnaghi, 2012). La sostenibilità di risolve in modelli insediativi che si autosostengono senza bisogno di aggiunte alcune. Una trasformazione genetica del modello di sviluppo stesso: da qui il concetto di “locale” e di “auto” che sottolineano la necessità di una riconquistata sapienza ambientale e di produzione del territorio da parte degli abitanti, in un mondo popolato da tanti “stili di sviluppo”(Sachs, 1988). Come afferma Amartya Sen (2000) “E’ importante inoltre tener conto del fatto che l’espansione delle capacitazioni ha un ruolo strumentale anche per la realizzazione di cambiamenti sociali che vanno ben aldilà dell’economico”. Ma, mentre si scardina in maniera dirompente quel rapporto fra comunità e luogo che aveva rappresentato l'elemento determinante nella produzione diversificata dei contesti locali, pratiche di vita e spazi si evolvono separandosi e ricomponendosi in nuove associazioni. Si determinano inedite forme plurali di appropriazione dei diversi contesti territoriali che si insinuano nel testo della città pianificata, reinterpretandolo. Emergono spazialità nuove e complesse che configurano nuove forme di urbanità (Paba, 1998). L’obiettivo è di riformulare scenari e proposte per una ridefinzione di questo concetto in ordine a una nuova grammatica che superi la visione modernista di uso dello spazio e quella contemporanea dei non-luoghi della globalizzazione (Augé, 1993).
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Così, alla “società di mercato” autori come Coraggio (2004) contrappongono come progetto politico la trasformazione dell’economia a partire dalla cosiddetta “economia popolare” come base per la costruzione di una “economia del lavoro” in quanto diritto e condizione materiale che veda protagonisti i legami sociali, il rispetto degli equilibri ecologici e l’iniziativa dello Stato. In particolare, si vengono consolidando le esperienze di Reti e Distretti di economia solidale e di monete complementari. Vanno in questa direzione le proposte considerate da De Sousa Santos (2005) e Coraggio (2004) per l’America Latina, nonché molte iniziative (sia di riflessione teorica che pratiche come il “bilancio partecipativo”) a livello europeo e italiano, intraprese da componenti anti-liberiste (dall’economia sociale di Jean-Louis Laville- 1998, ai Sistemi di Scambio Locale –Terris 2004, alla Rete del Nuovo Municipio –Sullo 2002,Magnaghi 2003, alla Rete del Dopo Sviluppo e alla “decrescita” di Serge Latouche, 2004 e di Mauro Bonaiuti, 2004). Occorre ripensare a “uno sviluppo riprogettato secondo tutto l’uomo (tutte le sue dimensioni, e non solo quelle economiche), perché possa divenire sviluppo per tutti gli uomini” (Zamagni,1994). “D’altra parte la ricerca di paradigmi alternativi, per spiegare –e regolare- lo sviluppo stesso, quali le società locali o i sistemi sociali locali, rappresentano nient’altro che il tentativo di definire tali paradigmi proprio a partire dalle insufficienze dimostrate dagli approcci tradizionali” (Colasanto, 1994). Ormai da alcuni anni si assiste non solo all’emergere ma addirittura al fiorire e moltiplicarsi di iniziative orientate a costituire modalità organizzative, di lavoro, produzione, scambio e consumo diverse da quelle offerte dalle tradizionali istituzioni economiche, che hanno nel mercato il loro riferimento precipuo e indiscusso (Razeto 2003, Magnaghi 2012). Sebbene queste abbiano qualcosa (e talvolta anche parecchio) in comune con i movimenti cooperativo e delle società di mutuo soccorso che hanno caratterizzato in precedenti fasi storiche la ricerca di modalità economiche altre (Allio 2000, 1990, 1989, Gera e Robotti 1989), alcuni di questi movimenti paiono anche significativamente diversi, sia negli obiettivi e nei presupposti che nelle forme organizzative. Alcuni ascrivono tali diversità essenzialmente al mutato contesto nel quale si inseriscono, altri ritengono che dipenda anche da significative differenze rispetto a ciò che si cerca e/o si vuol costruire (Santos 2005b), in un processo di co-evoluzione di svariati fattori. Questi tentativi, e i loro parziali successi, sono documentati da descrizioni e analisi svolte in diversi paesi, da quelli occidentali (e in particolare europei) a quelli della periferia e semi-periferia del mondo. La varietà di tali iniziative è notevole, come del resto varie e molteplici sono le spinte e le esigenze a cui tentano di fornire una qualche risposta (De Rita, Bonomi 1998, Mance 2003, Santos 2005a). D’altro canto, la globalizzazione in atto tende a determinare, per varie aree, un vuoto di iniziative economiche a livello locale e a lasciarne altre in balia di scelte effettuate in parti del mondo diverse da quelle su cui si riverberano le loro conseguenze (Beck 2000, Favaretto 2000, Gallino 2004). Da qui la ricerca di molti enti locali (di governo e/o di sviluppo) di riprendere su rinnovate basi il tema dello sviluppo locale e di coniugarlo in forme compatibili con le nuove tendenze globali (Becattini 1989, Magnaghi 2012). Avanza anche in molti paesi la ricerca di nuove modalità e forme organizzative
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sul piano economico, a vari livelli e di varia portata (Bagnasco 1999, Dolmen-Luzzati 1999, Offe-Heinze 1997). Un esempio sono le monete locali, che costituiscono esperienze di nicchia, significative in alcune realtà europee come la Gran Bretagna (Douthwaite 1996).In Italia va considerata, in questa direzione, la recentissima iniziativa del parco dell’Aspromonte. Tali iniziative hanno invece dimensioni e portata ben maggiori in America latina e, particolarmente, in Brasile e Argentina (Mance 2003). Un’altra modalità è rappresentata dalle cosiddette “reti di economia solidale” che, dopo la straordinaria diffusione avuta in America Latina (Mance 2003), stanno trovando spazio anche in Europa e in Italia (Saroldi 2003). Cresce anche l’attenzione per gli aspetti politico-sociali e organizzativo-economici di comunità locali (Rajan 1993, Wright 1997), sia di paesi e comprensori di dimensioni significative che di ambiti dimensionalmente più limitati, quali piccole comunità e cooperative (Moramarco e Bruni 2000). La condizione di maggior incertezza generalizzata e di bisogno di sicurezza nei confronti di un futuro che appare sempre più fuori dal proprio controllo motiva spesso iniziative che si propongono di diventare più generali nei loro scopi rispetto a loro omologhe del passato, coprendo diversi aspetti della vita – sia economica che sociale. In questi casi l’attenzione per il locale si trasforma spesso anche in attenzione verso la comunità locale di più piccole dimensioni e, nei casi migliori, sui collegamenti tra queste unità più piccole (Bagnasco 1999).
El Greco - Cacciata dei Mercanti dal Tempio
A questi sviluppi qualitativamente differenti rispetto al passato anche abbastanza recente fa riscontro anche il rinnovato interesse, del pubblico in primo luogo, per temi e proposte che fino a pochi anni fa erano veramente solo di nicchia, quali la finanza etica, il commercio equo e solidale (Perna 1998), il consumo responsabile (o critico, Gesualdi 1999) etc. etc. Anche il Consiglio d’Europa ha avviato un lavoro non solo conoscitivo ma anche di promozione di queste iniziative (Burlando 2004, Consiglio d’Europa 2004), considerandole di estrema rilevanza nella promozione della coesione sociale, e quindi del buon funzionamento di un sistema che sempre meno appare “governabile” secondo prospettive che separano considerazioni e interessi di natura economica da quelli sociali e politici in senso lato (Arnsperger e van Parijs 2003). La finanza etica sta vivendo una vera e propria crescita esponenziale, con tutti i rischi che un fenomeno del genere comporta. I fondi di investimento e pensione etici superano ampiamente il 10% del mercato del risparmio gestito negli Stati Uniti e in Gran Bretagna e i loro tassi di crescita, come quelli di molte istituzioni della finanza etica in parecchi paesi europei, sono stati – su un orizzonte temporale decennale – quasi doppi rispetto a quelli dei loro omologhi “tradizionali” (Burlando 2001). L’analisi economica tradizionale sembra ancora poco interessata a - e dunque anche ancora relativamente poco attrezzata per lo studio di - questi fenomeni, ma la situazione sta cambiando significativamente negli ultimi anni.
Da un lato si mettono insieme ambiti di indagine tradizionalmente propri dell’economia ma finora abbastanza separati, quali il programma di ricerca (notevolmente sviluppato in Italia) sui distretti industriali (Becattini 2000) quale componente centrale dello sviluppo locale e le analisi del terzo settore e in particolare delle cooperative e delle associazioni orientate alla fornitura di beni pubblici, dall’altro si accolgono e sviluppano ora prospettive e concetti che provengono anche da altre discipline affini, e in particolare dalla sociologia e psicologia economiche (Webley et al 2001, Zappalà e Sarchielli 2001). Ad esempio i concetti di capitale sociale (Bagnasco, Piselli, Pizzorno 2001 ) e di identità sociale (Haslam 2001) e quello, più recente e meno diffuso, di ricchezza relazionale (Diwan 2001) stanno trovando applicazioni e riconoscimenti sempre maggiori e la stessa idea di coesione sociale come elemento rilevante di una prospettiva di “governance” a molti livelli pare incontrare una maggiore accettazione (Consiglio d’Europa, 2004). Alcuni nuovi ambiti di ricerca in economia, quali l’economia sperimentale, costituiscono poi il “bed test” per l’integrazione di approcci diversi nell’analisi socio-economica come, a esempio, la fornitura privata di beni pubblici (Burlando 1998, Burlando e Guala 2005, Burlando e Webley 1999 e 2005, Caporael et al. 1989, Henrich et al. 2005) o del funzionamento di istituzioni economiche, così come varie forme di mercato e di strutture organizzative (Lewis e Webley in Lewis e Wärneryd 1994).
Finmeccanica, Ansaldo e i “boiardi” di Stato di Sandro Ridolfi l marxismo-leninismo ci insegna Icheche è l’economia (la struttura) determina i processi politico-
sociali di una nazione (la sovrastruttura). Gestendo e orientando i processi economici si determinano le condizioni per la definizione dei rapporti politici, sociali e culturali. Governare un Paese, dunque, significa governarne l’economia; ovvero, rovesciando il postulato, chi governa l’economia governa sostanzialmente anche la politica del Paese. Nei Paesi capitalisti il governo dell’economia è nelle mani di ristrette oligarchie (negli USA il 5% della popolazione possiede, cioè governa, il 90% della ricchezza). Sono dunque queste ristrette oligarchie che determinano il governo di quel Paese orientandone le scelte politiche (nazionali e internazionali), sociali (partecipative o discriminatorie), culturali e scientifiche (l’istruzione come percorso per la consapevolezza o l’ignoranza che determina l’esclusione).
el nostro Paese, dal secondo N dopoguerra, si è sviluppato un sistema economico, come dire, “bi-
nario”: da un lato una economia privata sostanzialmente contoterzista e di scarso profilo tecnico e progettualità evolutiva (fatta eccezione di grandi gruppi “familiari” tori-
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nesi e milanesi, oramai tuttavia passati alla memoria della storia); dall’altro lato una notevole presenza di una economia pubblica che nel tempo si è estesa dai pertinenti settori strategici o infrastrutturali (energia, telecomunicazioni, trasporti, finanza, cantieristica, aeronautica, siderurgia, ecc.), alle produzioni di consumo propriamente concorrenziale (ad esempio alimentari, dalla Motta alla Cirio, automobilistiche e simili, dalla Alfa Romea alla Moto Guzzi, ecc.). Nata dalla necessità della ricostruzione delle devastazioni della guerra, ma facendo anche base su di una consolidata cultura statalista del ventennio fascista, dagli anni ’50 si è progressivamente formata un’industria pubblica, non solo estremamente rilevante nel contesto del prodotto interno nazionale, ma anche capace di competere in posizioni di primissimo livello nel contesto internazionale. Questa forte presenza pubblica, con la sua progettualità di lungo periodo e non legata alla speculazione di breve respiro propria della mediocre imprenditoria privata italiana, non solo ha fortemente condizionato la politica nazionale, ma ha anche caratterizzato il ruolo del nostro Paese nello scenario internazionale. Così da un lato lo
Stato sociale ha trovato le sue basi economiche nel controllo da parte, appunto, dello Stato delle principali aziende nazionali infrastrutturali e produttive che richiedevano un sistema sociale e culturale sempre più avanzato (per produrre la cosiddetta meccanica fine, l’elettronica avanzata, ecc., occorreva un livello tecnico e culturale dei lavoratori adeguato, quindi scuole, salari, servizi, ecc.); dall’altro lato l’Italia è risuscita a costruire relazioni internazionali potentissime pur non essendo mai stato un Paese coloniale e non disponendo di una adeguata forza militare (basti pensare che l’Eni è oggi la quinta o addirittura la quarta azienda petrolifera mondiale). Le forti relazioni con i Paesi dell’ex “cortina di ferro”, come con l’intero Mondo arabo, il nostro Paese le ha stabilite, e in grande parte ancora le conserva e difende, non certamente con la politica estera governativa, totalmente (ma inevitabilmente) asservita alla Nato dei padroni USA, ma attraverso le relazioni economiche delle proprie aziende ancora di Stato (Francia e Inghilterra, nel silenzio supino del governo italiano, hanno devastato la Libia, ma le risorse energetiche di quel Paese sono ancora saldamente nelle mani dell’Eni).
- Breda el nostro Paese, dunque, accanto lcune considerazioni e dati sul giN a una linea di comando formale Agante Finmeccanica prima di politica (il governo con i suoi ministri, passare all’argomento della cessione
sottosegretari, dirigenti della Pubblica Amministrazione, ecc.) è sempre esistita una seconda linea di comando, apparentemente (ma solo apparentemente) subordinata alla prima: quella dei dirigenti delle grandi aziende pubbliche. Si tratta dei “boiardi di Stato”, termine che non è offensivo, ma richiama storiche figure di potentati, aristocratici o tecnici, che in altre società di fatto governavano da “dietro le quinte” la politica degli Stati. Enrico Mattei, creatore della ancora oggi potentissima Eni, in grado di negoziare autonomamente con il “nemico” sovietico, ospitare lo Scià di Persia in fuga, sostenere la rivolta antifrancese algerina e così via, non è stata affatto una figura unica o eccezionale: c’erano e ci sono ancora decine di più o meno grandi Mattei nell’articolato sistema delle industrie pubbliche, capaci di orientare non solo i processi economici nazionali, ma anche la politica estera del nostro Paese. Uno dei più importanti (per non dire il più importante) potentati dell’industria pubblica è Finmeccanica e il suo “boiardo di Stato”, di nuova nomina ma vecchissima storia, è Mauro Moretti, già presidente delle Ferrovie dello Stato (“italiane”, come ha voluto ridenominarle lui stesso).
della Ansaldo-Breda che costituisce l’oggetto principale di questo inserto. Finmeccanica, società per azioni a determinante partecipazione dello Stato, è la più importante realtà produttiva italiana, e ciò non solo per il numero degli addetti e i volumi della produzione, ma soprattutto per le peculiarità di avanzatissimo livello tecnologico e di capacità di penetrazione commerciale (cioè politica) mondiale. Finmeccanica ha oggi un organico di circa 64.000 dipendenti diretti, dei quali circa 38.000 in Italia, ove genera un indotto stimato in circa ulteriori 100.000 addetti. Ma non basta. Il 35% circa dei dipendenti di Finmeccanica è laureato, oltre il 46% possiede un diploma superiore. Le aree di attività, per volume di fatturato, interessano: elicotteri, elettronica per la sicurezza, aeronautica, spazio, sistemi di difesa e trasporti. Il fatturato, infine, nell’anno 2013 ha superato i 18 miliardi di euro; quinta azienda italiana escludendo banche e assicurazioni. Cosa ci dicono questi dati? Non solo che si tratta effettivamente di un gigante (su scala nazionale, ovviamente) per fatturato e occupazione, ma soprattutto che si tratta di una impresa di alto, altissimo livello tecnologico. Non se la prendano i “maghi” del ma-
de in Italy, ma per cucire maglioni o incollare scarpe sono sufficienti tecnologie modeste, parimenti modesti macchinari (cioè investimenti industriali) e ancor più bassa professionalità degli addetti. E’ chiaro allora che industrie di questo genere, costruendo la gran parte del loro fatturato, non su investimenti e ricerca, ma su mano d’opera a basso livello, hanno “vita difficile” in un Paese più avanzato che (magari…) pretende di assicurare ai propri cittadini lavoratori redditi e servizi almeno decorosi e, dunque, sono a grande rischio di delocalizzazione in paesi (magari…) meno “pretenziosi” sui diritti dei lavoratori. Al contrario un’industria che richiede alte professionalità e competenze, sia interne che dall’indotto, ha bisogno di collocarsi in un Paese avanzato, con scuole, sanità, servizi, ecc. e quindi non solo è molto difficilmente delocalizzabile in Paesi meno, chiamiamoli, “evoluti”, ma soprattutto costituisce un forte traino per la crescita sia economica, che culturale e sociale del Paese di insediamento. Finmeccanica, in sostanza, ben più della stessa Eni (n.b. circa 180 miliardi di fatturato), e sicuramente più di banche, assicurazioni e in genere aziende di produzione di servizi, è un patrimonio industriale strategico per il nostro Paese, da difendere, conservare e possibilmente potenziare.
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ue note ancora prima di passare alla Ansaldo-Breda: una di ausiD lio di comprensione, la seconda di do-
verosa critica morale. I cittadini di Foligno e del comprensorio sanno assai bene cosa a voluto dire nella storia dell’intero ultimo secolo e viepiù dovrà valere per il futuro, il fatto che nel nostro territorio si siano insediate industrie di alto livello tecnologico come le Officine delle Ferrovie dello Stato e, sino alla devastazione della seconda guerra mondiale, la fabbrica di aeroplani Macchi. Qualcuno forse ricorderà ancora il detto popolare che si usava nei battibecchi campanistici con i nostri vicini marchigiani quando si diceva che loro ragionavano il metro e noi con il calibro. Industrie di alta tecnologia, quindi scuole per Periti Industriali e per Tecnici Professionali; in genere un vasto indotto di alta professionalità che ancora oggi conserva al nostro territorio impianti industriali (relativamente) importanti, mentre altrove, e non molto lontano, sono state chiuse una dopo l’altra le miriadi di mini fabbriche (assemblatrici o rifinitrici, in verità) legate alla bassa professionalità dell’abbigliamento e simili, soffocate non già dalla crisi economica (molto prima), ma dalle sopravvenute convenienze di delocalizzazioni beneficiate dal drastico calo del costo di una mano d’opera di bassa professionalità. Perdere questa ricchezza di professionalità, conoscenze ed esperienze è la minaccia più grave che incombe sul nostro tessuto produttivo, perché ci esporrebbe a una competizione, sicuramente perdente, con le tante così dette economie emergenti (non parliamo dei nuovi competitori tecnologici), che di emergente hanno solo il basso livello dei costi della manodopera (sia diretti per bassi salari, che indiretti per mancanza di tutele sociali). La seconda nota “etica” riguarda una parte importante della produzione di Finmeccanica e precisamente quella della difesa che, più correttamente, andrebbe chiamata “bellica”. L’Italia è il secondo esportatore di armi, dopo gli USA ovviamente a lunghissima distanza, ma avanti alla stessa Russia, Germania, Inghilterra, ecc. Il mercato della armi non è un “mercato come un altro”. Non parliamo di armi per lo sport del tiro a volo, ma di sistemi missilistici e in genere di così dette armi di potenziale distruzione di massa. E’ aberrante che un Paese che ha iscritto nella sua Costituzione il ripu-
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dio della guerra alimenti per i fini di proprio sviluppo economico le tante, innumerevoli e interminabili guerre nel Mondo. Chi vende la pistola non perciò tira il grilletto, ma certamente ne crea i presupposti. Tutti i media da mesi ci sbandierano lo spauracchio dell’invasione degli eserciti dell’ISIS ma, dato per certo che non esistono fabbriche di missili, carri armati e neppure di pistole nell’intera area del Medio Oriente, come fanno quegli eserciti a essere così armati e costantemente riforniti? Cioè: chi li rifornisce e da chi e come viene pagato per questo “servizio”? Viene il dubbio: non sarà che siamo proprio noi a vendere quelle armi a qualcuno che ce le paga, e molto bene, con dollari o petrolio e poi le fornisce all’ISIS che ce le punta contro? Il problema delle produzioni belliche dell’industria pubblica italiana Finmeccanica è un problema non di poco conto. Uno Stato civile e costituzionalmente pacifico e ostile alle guerre, tutte, dovrebbe pure porsi questo problema e magari riorientare quelle produzioni verso fini civili perché di bisogno ce n’è. Finita la riflessione etica, retorica, ma doverosa, veniamo alla vicenda della Ansaldo-Breda. l nuovo (vecchio) boiardo di Stato Iverità Mauro Moretti ha elaborato (in per ora solo abbozzato) un pia-
no di ristrutturazione per il risanamento dell’intero sistema industriale Finmeccanica. Il piano, come detto, allo stato è solo un “abbozzo”, ma un dato appare chiaro: il filo conduttore, ovvero la linea guida del progetto è quella dei tagli. Viene a questo punto in mente un aneddoto legato alla persona di uno storico (in questo caso davvero) grande industriale italiano: Adriano Olivetti, padre della prima industria informatica del Mondo devastata da una successione “non degna” di tanta genealogia. Si narra che in un certo momento di difficoltà aziendale Olivetti ingaggiò un grande manager pluri titolato di lauree e master internazionali (sarà stato un “bocconiano” anche lui come il “disperso” prof. Monti? Visti gli esiti: probabile) affidandogli il compito di elaborare un progetto di rilancio della sua azienda. Fatti i dovuti studi e approfondimenti il manager sottopose il suo progetto all’industriale e questo progetto era fondamentalmente basato su di una serie di dismissioni, tagli, licenziamenti e simili. Bene, disse, l’ing. Olivetti, però man-
ca un nome nella lista dei licenziandi: il suo. L’ho ingaggiata, precisò Olivetti, per rilanciare l’azienda, non per chiuderla, quindi se il problema che lei ha individuato è quello dei costi del personale cominciamo a ridurli eliminando il suo costo. orniamo ad Ansaldo-Breda. Il T manager di Stato, Moretti, ha individuato la non coerenza del settore
del trasporto ferroviario, costituito appunto dalla partecipazione in Ansaldo-Breda, con la “missione” propria del gruppo aerospaziale. Fin qui nulla di male, anzi corretto, porre rimedio e ordine in “accozzaglie” prodotte in un passato di megalomanie espansive non coerenti e quindi aziendalmente non funzionali. Il punto però è che il manager di Stato ha scelto la via dell’altro manager di Olivetti, tagliare, cedere, in sostanza chiudere un ramo d’azienda comunque strategico per il sistema economico (e ripetiamo quindi: sociale e culturale) italiano.
Occorrerà per chiarezza e completezza dire che gli acquirenti selezionati, il gruppo giapponese Hitachi (che ha prevalso sull’altro concorrente il “supergruppo” cinese della società ferroviaria di Stato che pure, si dice, aveva formulato un’offerta più alta), dovrebbero avere garantito la conservazione dei siti italiani e quindi della relativa occupazione, almeno quella diretta, non si sa dell’indotto. [Nota per i nostri lettori. Le informazioni necessarie per scrivere questo inserto sono state raccolte consultando siti internet internazionali, anche della stessa Hitachi Europa. Nella così detta “era di internet” vi invitiamo, quando potete, a indagare siti internazionali per verificare non solo la completezza, ma la stessa correttezza delle informazioni diffuse dai media nazionali che, normalmente, ribattono notizie prese altrove e spesso, troppo spesso, le manipolano all’occorrenza. Ricordate che nell’ultimo rap-
porto mondiale sulla libertà di stampa l’Italia si è collocata al 75° posto, dopo lo Zimbabwe!] i pone la domanda: perché dismettere il settore ferroviario (n.b. Moretti, come noto e sopra detto, viene direttamente dalle Ferrovie italiane) in un momento storico in cui tutti i Paesi del Mondo stanno facendo investimenti a dir poco enormi proprio sullo sviluppo del settore ferroviario? Eppure finalmente ci siamo liberati dalla cappa della Fiat/Iveco che ci ha obbligati per decenni a penalizzare il sistema di trasporto (persone e merci) ferroviario a vantaggio di quello automobilistico costruendo strade e autostrade all’infinito oggi, peraltro, in gran parte privatizzate, sotto manutenzionate e in molti casi anche sotto utilizzate. Ansaldo-Breda è leader mondiale, seppure per alcuni prodotti in condivisione con il colosso canadese dell’aeronautica Bombardier, e molto spesso vincente (non solo in
S
Italia, basterà citare il notevolissimo appalto delle metropolitane di Honolulu vinto di recente) sui concorrenti europei: i francesi di Alstrom e i tedeschi di Siemens. Dobbiamo ricordare che quando parliamo di treni non ci riferiamo solo al design e all’arredo delle carrozze passeggeri, ma a un vastissimo complesso di tecnologie meccaniche, elettroniche, ecc. di altissimo profilo. Ansaldo-Breda è ben più che un patrimonio storico dell’industria italiana, è, può essere, una punta di diamante delle produzioni avanzate competitiva in tutto il Mondo, un Mondo che, come detto, sta andando sempre più sulla ferrovia. Verrebbe da parafrasare l’ing. Olivetti e dire al manager di Stato: bene, è giusto distaccare da Finmeccanica il settore ferrovie e cederlo ai concorrenti giapponesi, ma completiamo meglio il pacchetto dell’offerta, mettiamo anche il manager, per la nostra Finmeccanica ne troveremo un altro!
Prospettive di di Arianna Accardo Riflessioni sulla finalità dell'educazione Viviamo in una società che potremmo definire “verbale”, costruiamo relazioni fondate su una vera e propria “impalcatura di parole” e la stessa comprensione dei fenomeni impone che si padroneggi il codice linguistico verbalevocale. Come si relaziona questo tipo di società rispetto alla sordità? Il più delle volte, vengono adottate tecniche per ridurre il deficit uditivo della sordità, senza però curarsi di agire sull’handicap che ne deriva. Infatti la protesizzazione, gli interventi di rieducazione alla lingua fonico-acustica, l’apprendimento della lettura labiale sono strategie che, pur finalizzate a migliorare le capacità comunicative, non incidono sulle situazioni di esclusione create dalla stessa organizzazione sociale. Come ha sostenuto Bernard Mottez, l’handicap è l’insieme di limiti e dei divieti posti dalla società ad attività come l’istruzione, il lavoro, il tempo libero (pensiamo al cinema che, in assenza di sottotitoli, è inaccessibile per le persone sorde) dai quali degli individui si trovano esclusi in ragione di un deficit. A complicare ulteriormente la situazione vi è la particolare importanza che la nostra società attribuisce a uno specifico aspetto del linguaggio: si tratta di quella particolare facoltà che prende il nome di know-that, ossia la descrizione verbale dell'insieme dei procedimenti adottati per l'esecuzione di un particolare compito, contrapposta al knowhow, ossia il saper fare, la conoscenza di come eseguire un particolare compito. La drammaticità di tale situazione sta soprattutto nel fatto che quasi tutta l'impalcatura su cui sono costruiti i nostri processi di insegnamento e apprendimento si regga proprio sul know-that, anche nel caso di quelle discipline, come le scienze, in cui l'indiscusso predominio del ragionamento logico-deduttivo ben si presterebbe a modalità di insegnamento di tipo pratico-laboratoriale.
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Quando cerchiamo, quindi, di fare un bilancio su quale sia la situazione che gli alunni sordi vivono nella scuola, il quadro che ne scaturisce non è certo uno dei più confortanti. In moltissimi casi, l'ingresso dei sordi nella scuola degli udenti (scuola comune e non più scuola speciale, vedi legge n. 517/1977) si è trasformato in una sorta di loro isolamento insieme all’insegnante di sostegno rispetto al gruppo classe, nonostante gli intenti iniziali fossero tuttaltro che negativi. L'inclusione, per essere reale, deve favorire quelle pratiche virtuose che trovano nell'idea dell'abbattimento delle barriere alla partecipazione e all'apprendimento i suoi presupposti fondamentali. Per essere efficace il discorso sulla disabilità deve essere affrontato in un’ottica che ci consente di andare oltre un’interpretazione dell'inclusione di tipo esclusivamente compensativa. Perché per essere inclusiva la scuola non può puntare all'omologazione, ma deve riconoscere il valore della piena espressione personale in campo educativo. Sono proprio i fini che contribuiscono a determinare le metodologie, ciò nonostante ancora oggi il principale problema che siamo chiamati ad affrontare, è quello della mancanza di obiettivi chiari e di figure formate con competenza specifica nella comunicazione e nella didattica, in grado di accogliere e soddisfare le peculiari esigenze degli alunni sordi. Sarebbe riduttivo mirare solo al processo di socializzazione. Gli alunni sordi necessitano, in primo luogo, di una didattica appropriata per facilitare il processo di apprendimento e la graduale sistemazione delle conoscenze, infatti, se il lavoro è stato ben definito dall’inizio, è possibile vederne i risultati anche nel corso di un solo anno. È necessario, però, saper valutare i livelli di partenza dell’alunno per regolare in modo adeguato gli obiettivi e le metodologie, saper dosare gli interventi individualizzati in classe, saper intervenire nelle dinamiche di gruppo: tutto questo con la finalità di
migliorare la competenza linguistica dello studente, strumento essenziale per una vera inclusione. Soltanto un’analisi accurata della situazione di partenza consente la definizione di obiettivi educativi e didattici, tali da non esporre l’alunno a un insuccesso e l’insegnante a un senso di inadeguatezza. A proposito degli obiettivi è importante non dimenticare che quelli dell’azione didattica devono essere definiti anche quotidianamente, ponendosi sempre l’interrogativo: “Che risultati posso aspettarmi, in termini di attività, con questa proposta? Lo aiuto ad assumere un ruolo via via crescente, superiore, oppure lo mortifico e gli faccio fare un passo indietro?” Si tratta di avere sempre ben chiare le potenzialità inespresse dello studente per evitare di cedere alla tentazione di cadere in un eccesso di cure, che di fatto finiscono con il tradursi in un'assenza di cure: l’eccesso, infatti, impedisce al soggetto di diventare protagonista e interprete del proprio percorso formativo. Credere nell’esistenza di potenzialità latenti significa, infatti, sollecitare l’alunno a mettersi in gioco, a rischiare, a spingerlo ad andare al di là delle proprie difficoltà, pur senza ignorarle. Troppo spesso si finisce con l’assumere nei confronti degli alunni disabili un ruolo capillare, tanto da arrivare a pensare per loro, a decidere per loro. Ma saper costruire una regia educativa efficace significa costruire con gli allievi un progetto di valorizzazione delle differenze, significa costruire una convivenza intesa come reciprocità. Tutto questo implica che da parte dell’insegnante vi siano alcune condivisioni di fondo: - non ci si può porre in modo impersonale e asettico - non si può accettare la diversità dell’altro se non la si riconosce e accetta, a livello profondo, dentro di sé - non si può valorizzare la diversità, di sé e dell’altro, se non si è in grado di vedere che si possono e si devono usare strategie e canali alternativi.
inclusione del bambino sordo a scuola
Per questo è necessario realizzare quella rivoluzione copernicana tanto cara a Dewey, che auspicava il ritorno della centralità dell’alunno all'interno del processo educativo. Come John Dewey, anche Tsunesaburo Makiguchi era convinto della necessità di andare alla ricerca di nuovi metodi educativi, che ponessero al centro l’individuo. Una convinzione che aveva condotto il pedagogista giapponese a individuare, quale asse portante della sua filosofia, il concetto secondo cui, fine ultimo dell'educazione sarebbe la felicità degli studenti, non quella futura, quanto piuttosto quella attuale. Quando parla di felicità Makiguchi fa riferimento a quel senso di appagamento che sperimentiamo quando siamo immersi in quel processo definito “creazione di valore”, quel processo cioè che ci consente, partendo dal frugare in ciò che è già presente in natura, di far emergere tutto ciò che attiene alle nostre vite umane. Detto in altri termini, quel processo attraverso cui possiamo “rielaborare l’ordine già esistente in natura per produrne un altro particolarmente vantaggioso per l’umanità”. In questo senso, il continuo tendere verso il miglioramento, il desiderio di dischiudere le proprie potenzialità latenti è la caratteristica dell'essere umano che va alimentata e accresciuta, proprio attraverso l'educazione. Dando priorità allo sviluppo delle proprie potenzialità latenti, quindi, l'autore giapponese, non fa altro che far riferimento a quella che era la concezione dell'essenza dell'essere umano formulata da Platone e Aristotele: “Ogni persona è potenzialmente perfetta: tale potenziale richiede di essere espresso e manifestato. Alla base della vita umana risiede la responsabilità di questa realizzazione. «Qualcosa di innato (...) guida la vita di ogni individuo», dunque la felicità è «un senso del divenire». Da ciò consegue che «gli educatori devono impegnarsi per mostrare all’alunno il suo potenziale, ciò che lo renderà capace di realizzare una vita ideale»”. Si tratta di intraprendere quella strada che porta al passaggio, da un’educazione di tipo trasmissivo a quella di tipo relazionale, il cui compito è proprio quello di esaltare e portare a maturazione l’identità specifica dello studente. La vita degli alunni non cambia grazie a lezioni erudite, ma grazie all’umanità delle persone: è per questo che le interazioni tra studenti e insegnanti sono importantissime. In questa prospettiva, il sistema educativo deve essere in grado di accettare, arricchire ed esaltare le diverse identità, abbando-
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nando la pretesa di schiacciarle attraverso l’adozione di un unico modello. A questo proposito afferma Daisaku Ikeda: “La base dell’educazione sta nello scoprire dove si trova il più prezioso tesoro della vita, quello che può fare scaturire grandi cose dall’illimitato potenziale della vita del bambino. La vera educazione nasce dallo sforzo e dalla dedizione per realizzare questo potenziale illimitato. (…). Gli adulti devono avere fiducia nelle potenzialità dei bambini e sforzarsi sempre di trovare il mezzo migliore per farla emergere”. Si tratta di una idea di educazione, basata sul senso etimologico non dell’edere, ossia di allevare, nutrire, ma piuttosto dell’educere, cioè di tirar fuori e sviluppare. L’educazione deve sviluppare nei ragazzi, ma in generale in coloro che educa, la dimensione creativa. Al centro di questo processo va posto cioè l’educando che non è chiamato ad apprendere qualcosa, ma a creare, in questo senso non deve essere riempito ma sollecitato, deve essere reso protagonista. La strada da percorrere, a ben vedere, l’aveva indicata già a suo tempo Maria Montessori. “L’apprendimento può avvenire solo in una dimensione di libertà, che veda l’insegnante come regista di un contesto, di uno «sfondo». La sua è una «programmazione indiretta» volta a non interferire nei processi che si attivano nella mente del bambino”. Come sottolinea giustamente Piero Bertolini, la Montessori si pone lo scopo di “costruire una metodologia pedagogica indiretta che consiste soprattutto nel riuscire a creare occasioni di opportunità favorevoli all’autonomo «muoversi» del bambino, piuttosto che nell’intervenire direttamente, indicandogli «da subito» la strada che deve percorrere e le modalità con cui gli ostacoli incontrati possono essere superati”. Questo non significa certo limitare il compito e il ruolo educativo dell’adulto, ma al contrario amplificarlo, in quanto implica che egli si sforzi di cercare un altro modo per svolgere la funzione che gli spetta. “Operativamente, significa da parte dell’insegnante considerare quanto il soggetto «sa» (auto) costruire, piuttosto che dover colmare quello che, rispetto al nostro sapere, secondo noi stessi, egli scolaro non sa”. Il modo diretto, quello che conosciamo come insegnamento classicamente inteso, “implica necessariamente un giudizio di sfiducia sulle capacità autoformative dei soggetti. Esso stabilisce una precisa gerarchia di potere dove il flusso di controllo si muove da una fonte a un ricevente con scarsissima retroazione. Ge-
nera quindi dipendenza, conformità o viceversa ribellione”. Al contrario, porre al centro del processo educativo l’alunno e lo sviluppo delle sue potenzialità, significa lasciare che sia lui a guidarci “nella ricerca delle strategie di intervento”, significa porsi in condizione di ascolto, dare spazio alla sue esigenze raccogliendo i suoi suggerimenti e lasciando che sia lui a prendere l’iniziativa. In altre parole, si tratta di riconoscere che sia lui a costruire la propria conoscenza e che il compito dell’insegnante consiste nell’elaborare, proprio partendo dai suoi bisogni, i percorsi appropriati atti a garantire il raggiungimento degli obiettivi prefissati. In quest’ottica scegliere di essere insegnante significa: “andare oltre la teoria, oltre le soluzioni preconfezionate, predefinite; significa mettersi in gioco spontaneamente, aprirsi alle esperienze essere vitali e creativi, avere il coraggio di agire senza preconcetti. Essere insegnanti di sostegno significa anche essere esposti alla casualità, essere vulnerabili, pronti all’emergenza, all’imprevisto e all’errore”. Il bambino non apprende se non sente di essere coinvolto direttamente nel suo processo di apprendimento, se non riconosce nella “lezione” il tentativo da parte dell’adulto di comunicare con lui. In questo senso, quindi è determinante fermarsi a riflettere non solo sulla necessità di coltivare un rapporto personale con il bambino ma anche sul tipo di relazione che è necessario costruire. Il fatto di non dare per scontato, per assodato, quello che dobbiamo ancora sperimentare, quello che abbiamo il dovere di offrire come stimoli e occasione di crescita per gli alunni, mettendoci noi per primi alla prova, di vivere con loro, non con l’ansia di fargli imparare qualcosa, ma con il desiderio di vederli sperimentarsi in qualcosa, ci riporta alla necessità della formazione dell’insegnante. Questo processo si fa ancor più urgente laddove è necessario acquisire tempi, strategie, mezzi e risorse specifiche e alternative rispetto a quelle utilizzate con gli udenti. Rispetto a questa esigenza di formazione specifica, l’Istituto Statale per Sordi ha maturato anni di esperienza all'interno del Corso di Didattica Specializzata. Questa riflessione pedagogica rappresenta un punto d’incontro per tutte le figure professionali che affrontano la sfida che ha appassionato i grandi maestri del passato da Pedro Ponce De Leon all'Abate de L'Epée, a Tommaso Silvestri: l'educazione dei sordi, proprio con particolare riferimento alla ricerca di strumenti e strategie per migliorare la loro competenza linguistica.
Come citato sopra, le persone sorde - in ragione del canale acustico vocale compromesso - non imparano spontaneamente la lingua parlata, ma hanno bisogno di un'istruzione formale per poter leggere sulle labbra (lettura labiale) e per sfruttare gli eventuali residui uditivi. Di conseguenza, i sordi difficilmente raggiungono nella padronanza dell'italiano livelli di competenza paragonabili a quelli degli udenti. Gli errori di scrittura sono quantitativamente e qualitativamente diversi, ciò a sostegno di un’ipotesi di specificità del deficit. Queste considerazioni chiamano in causa l’istituzione scolastica. L'inclusione, per essere reale deve favorire un tipo di didattica appropriata, per facilitare il processo di apprendimento e la graduale acquisizione di conoscenze e competenze. Tutto quello che viene proposto attraverso la vista (canale integro nell'alunno sordo) arriva più facilmente, pertanto è indispensabile che il docente di sostegno e l’insegnante curricolare siano coinvolti nella ricerca di strategie didattiche idonee a visualizzare il più possibile i contenuti. Uno degli obiettivi del corso di didattica specializzata è proprio quello di acquisire strumenti e strategie concrete per mediare l'insegnamento delle discipline - attuato in classe prevalentemente attraverso il canale acustico non integro nei sordi con metodologie visivamente accessibili. L’attivazione del Corso ha, dunque, costituito un’ottima risposta alle esigenze di molti docenti la cui preparazione generica della disabilità risultava inefficace per le specifiche problematiche dei sordi. Da quando il Corso è stato inserito nell'offerta formativa dell'Istituto sono state formate circa 500 persone che hanno acquisito strumenti pratici rispetto alla gestione delle difficoltà di comunicazione con gli alunni sordi in classe. Gli obiettivi didattici riguardano prevalentemente la capacità comunicativa riferita all'italiano parlato e scritto che, per l'alunno sordo, inserito nella classe di udenti, è spesso problematica. Nei sordi l’accesso alla lingua parlata è un vero e proprio processo di apprendimento. Di conseguenza, è fondamentale esporre precocemente i bambini sordi alla lettoscrittura, con l’obiettivo di favorire la familiarizzazione alla lingua attraverso la lettura e la scrittura. Questo approccio costituisce uno degli argomenti didattici centrali del Corso. In particolare, il genere narrativo più semplice, la favola, è considerata uno strumento che favorisce la conoscenza del mondo, fa avvicinare il bambino alla
lingua scritta, stimola la memoria, agisce sull’acquisizione del lessico. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, il testo spesso risulta non immediatamente comprensibile al bambino sordo perché, ad esempio, le immagini non sono pertinenti alla descrizione e alle didascalie del testo stesso. Nella scuola dell’infanzia e in parte della primaria l’educatore deve riadattare il testo seguendo, in particolare, due criteri di accesso ai contenuti: la leggibilità e la comprensibilità. Per comprensibilità si intende l’utilizzazione dello spazio sul foglio bianco, la scrittura dell’enunciato su più righe, l’uso di frasi coordinate preferibile a quelle subordinate. Per leggibilità si intende, invece, l’organizzazione logico concettuale del testo, l’esplicitazione dei passaggi necessari alla comprensione dello stesso, l’uso di immagini rispondenti alla situazione illustrata. Se consideriamo, invece, fasce di età più grandi (parte della scuola primaria, secondaria di I e II grado) il docente non dovrà mai far rinunciare l’utilizzo del libro di testo, perché in tal caso si rischierebbe di rafforzare la convinzione (errata) che le difficoltà dell’italiano siano insormontabili. Al contrario, l’alunno sordo deve essere messo in condizione di accedere al libro di testo. È opportuno non sostituire i libri, ma renderli accessibili utilizzando rappresentazioni grafiche della conoscenza quali diagram-
mi, schemi e mappe concettuali che, attraverso il canale visivo, rendano chiare ed esplicite le informazioni e i loro nessi logici. Un’altra metodologia idonea al processo di familiarizzazione dell’italiano scritto è la logogenia che proprio per la specifica modalità attraverso cui propone una stimolazione mirata nell'ambito della morfologia e della sintassi, risulta utile sia per valutare la conoscenza grammaticale in diverse situazioni, sia come integrazione ai metodi di insegnamento dell’italiano a stranieri. Altre strategie fondamentali per favorire l’accesso alle informazioni sono rappresentate dall’uso delle tecnolgie, strumenti importanti per gli alunni sordi perché permettono di sperimentare se e come le conoscenze scolastiche possano passare attraverso le parole scritte, senza le problematiche della lettura labiale. Tali strumenti hanno aperto nuove riflessioni sull’opportunità di puntare sulla scrittura che si costituisce quale chiave di accesso alla cultura. Le tecnologie utili per lavorare in classe con l’alunno sordo sono la Lavagna Interattiva Multimediale, i software didattici, i programmi di sottotitolazione e tutti quegli strumenti di mobile learning che, proprio in virtù della loro natura informatica utilizzano la comunicazione attraverso il canale visivo e costituiscono, dunque, importanti strumenti per abbattere le barriere comunicative.
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“Tutti gli uomini hanno diritto di avere il loro sogno, piccolo o grande, di successo o semplicemente di modesto benessere; ma quando tanti sogni individuali si uniscono in un sogno comune nasce il sogno di una nazione. Il Sogno Cinese è il sogno di tutti i figli e le figlie della Cina per questa e per le future generazioni”. La nuova dirigenza del Partito e dello Stato cinese ha lanciato una vastissima campagna di promozione del progetto di rinnovamento e di ringiovanimento della nazione, raccogliendolo sotto il titolo del “Sogno Cinese”. Vi proponiamo in queste pagine un estratto di alcune parti che possono più incuriosirci, ma anche istruirci sul progetto del sogno cinese. Vogliamo attirare l’attenzione su due aspetti più rilevanti: il primo è che “loro” ci studiano, ci conoscono e sono anche pronti a recepire gli aspetti positivi della nostra storia e cultura; sappiamo e facciamo lo stesso noi? Il secondo è che a fronte di un antagonismo inconciliabile con il sogno (l’incultura) americano, “loro” individuano molte sintonie con il ben diverso sogno europeo nato dalle lezioni devastanti delle due guerre mondiali; quanta parte potremmo condividere di un sogno comune per l’intera umanità?
Il sogno cinese: lo Spirito cinese e la via cinese Il sogno cinese è un ricco concetto poliedrico, ma anche un'idea precisa. Abbraccia la politica, la filosofia, la cultura e le preoccupazioni della moderna società cinese; include la storia e la memoria collettiva del popolo cinese, soprattutto i ricordi sia dei tempi difficili che della Liberazione vissuti in epoca moderna. Si tratta di una rappresentazione vivida della esperienza immediata e della vita reale della gente, di sviluppo e di trasformazione sociale. Essa incarna gli obiettivi di sviluppo, il consenso nazionale, le prospettive future e i piani per il futuro. Il sogno cinese è pieno di gloria, difficoltà e sacrifici memorizzati nella memoria collettiva del popolo. Xi Jinping ha detto che l'idea del sogno cinese è di grande e profonda attualità. La Cina moderna sta vivendo un rapido sviluppo. Mai prima nella storia abbiamo sentito così acutamente che il rinnovamento nazionale, la costruzione di un paese forte e prospero e una vita felice per la nostra gente, sono
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alla nostra portata. Mai prima nella storia siamo stati più vicini al raggiungimento del nostro obiettivo di rilanciare e ringiovanire la nazione cinese. Mai prima nella storia abbiamo avuto maggiore sicurezza nella capacità di realizzare il grande sogno cinese. Spirito culturale, Fondamenti filosofici e Visione di civiltà del sogno cinese Nella storia del mondo, né i disagi, i massacri, le guerre, né alcun altra forza, sono mai riuscite a cancellare il diritto intrinseco dell'umanità a sognare. I sogni esprimono le speranze individuali, le aspirazioni, gli ideali e le aspettative. Nella storia dell'umanità la Cina è l'unica cultura ad essersi sviluppata fino ai tempi moderni lungo un'unica linea ininterrotta. Nonostante i numerosi cambiamenti che hanno avuto luogo in oltre 5000 anni, la cultura cinese continua a mostrare vigore e vitalità. E' ampia e universale; sottolinea la virtù, la benevolenza, l'autodisciplina, i valori morali, la determina-
zione e la forza di carattere. Valorizza l'apprendimento, venera gli insegnanti, e incoraggia un’attenta e chiara riflessione. Le sue preoccupazioni principali sono incentrate sul duro lavoro, sull’auto-miglioramento e sullo spirito di tolleranza e di armonia. L'enfasi della cultura cinese sul duro lavoro e sull’auto-miglioramento si può far risalire ad alcuni dei suoi prodotti letterari più antichi: il Libro della Storia e il Libro dei Cantici. Questi due classici confuciani sono permeati di spirito di diligenza, costanza e perseveranza. Confucio fu un pensatore che ha vigorosamente promosso il duro lavoro e praticato quello che predicava. Il concetto di armonia è un elemento chiave della cultura tradizionale cinese. Sin dai tempi antichi, sia confuciani che taoisti, hanno cercato l'armonia tra il cielo e la terra. Il pensiero confuciano ha sottolineato l'importanza di un buon governo e sostenuto il coinvolgimento nelle questioni sociali e politiche nella ricerca di armonia tra il cielo e la terra.
Il sogno di tanti diventa il sogno di un popolo Pertanto, le vicende umane sono il suo nucleo centrale. La cultura tradizionale cinese sostiene che l'uomo è parte integrante della natura; che il buon governo conduce all'armonia; che dobbiamo vivere in armonia con la natura; che il compromesso e la conciliazione è la strada per il successo; che le società devono essere disciplinate in conformità con una filosofia di armonia anche tra le nazioni. Questo concetto di buon vicinato nelle relazioni internazionali è una sfida ai diversi concetti occidentali ed è diventato un importante fondamento filosofico del sogno cinese. La storia insegna che tutte le idee importate incorrono in grandi difficoltà se non si accordano con i grandi compiti della rivoluzione cinese e della ricostruzione. Passando attraverso grandi difficoltà, con tentativi ed errori, abbiamo finalmente trovato la via giusta per la rinascita della nazione cinese. Questa è la strada dello sviluppo con caratteristiche cinesi. Il sogno americano, il sogno europeo e il sogno cinese Il sogno cinese di far rivivere la nazione cinese è diverso sia dal sogno americano che dal sogno europeo. Si differenzia sostanzialmente dall’individualista, materialista, pragmatico sogno americano che valorizza la conquista e l'acquisizione di ricchezza sopra ogni altra cosa. Si differenzia dal sogno dei paesi europei che, dopo i disastri delle guerre mondiali, stanno ora riflettendo su come ripensare diverse centinaia di anni di colonialismo. Il sogno cinese non ha nulla in comune con i sogni di espansione o di egemonia, al contrario promuove la pace e lo sviluppo mondo. Gli Stati Uniti hanno sviluppato la propria economia e la società a scapito degli interessi e delle prospettive di sviluppo di altri paesi. Mangiano inesorabilmente le risorse mondiali. Un
paese con meno del cinque per cento della popolazione del mondo consuma un terzo dell’energia del mondo. Le risorse del mondo non possono sostenere questo "sogno" di sviluppo che mina il diritto degli altri paesi a svilupparsi. La cultura tradizionale cinese impone, invece, che, nel realizzare il proprio sogno di sviluppo, la Cina metterà in risalto l'amicizia e la costruzione di relazioni positive e coordinerà le sue azioni con quelle degli altri. Si pratica l'armonia e la reciproca assistenza nelle relazioni con gli altri Stati e anche nei rapporti tra l'uomo e la natura, evitano il consumo eccessivo di risorse naturali e la distruzione dell'ambiente che caratterizza il modello americano di sviluppo economico. Il sogno cinese è anche superiore al modello di sviluppo ristretto e particolaristica incarnato nel sogno europeo. Lo scopo del sogno europeo è la tutela degli interessi politici ed economici dell'Europa, per difendere l'attuale struttura di potere globale che favorisca lo sviluppo europeo, per difendere l'intero modello europeo composto dal sistema di welfare, regolamenti in materia di immigrazione, merce, lingue, cultura e così via. La strategia di sviluppo europeo è finalizzata alla tutela degli interessi costituiti. Si tratta di un modello sostanzialmente chiuso di sviluppo basato sul protezionismo regionale. In confronto, il concetto del sogno cinese di sviluppo è più universale e in prospettiva globale. La caratteristica del sogno americano è la massimizzazione del beneficio privato, e il profitto è la sua forza trainante. I cosiddetti valori universali vengono applicati in modo selettivo in base agli interessi degli Stati Uniti. Il sogno americano ignora o schiaccia i sogni di sviluppo di altre nazioni. Ma il "sogno" di perseguire solo i propri interessi porterà inevitabilmente alla
resistenza e all'ulteriore conflitto mondiale. In sostanza, il sogno americano implica un mondo diviso. Il sogno europeo ha in qualche modo modificato e corretto gli eccessi del materialismo dell’America. La devastante esperienza della seconda guerra mondiale ha imposto all'Europa di riflettere criticamente sulla costruzione di una civiltà sostenibile e sul benessere globale. Promuovere l'integrazione e riconoscere le relazioni globali di interdipendenza, le idee tolleranti e pluralistiche contenute nel sogno europeo in una certa misura corrispondono con quelle del sogno cinese. Tuttavia, il punto di partenza del sogno europeo è stata la sua rinascita dalla degenerazione della seconda guerra mondiale, piuttosto che la ricerca attiva della cooperazione con il resto del mondo. A questo proposito si differenzia dall'approccio cinese che ricerca l’armonia e le relazioni amichevoli con tutti gli altri paesi sulla base di uguaglianza e rispetto reciproco. The Chinese Dream è il sogno della Cina come grande potenza Un migliaio di persone possono avere mille sogni diversi. Cos’è che unifica il sogno cinese? Il sogno cinese è fondamentalmente uno: un sogno di liberazione, di rinascita della nazione, di modernizzazione; è un sogno di ricchezza e di forza, di democrazia, di civiltà, di giustizia e prosperità; il sogno di un popolo. Xi Jinping dice: "Ognuno ha il proprio ideale e il proprio sogno. Oggi tutti parlano del sogno cinese. Credo che il sogno più grande della nazione cinese nella storia moderna. Questo sogno racchiude il desiderio di diversi generazioni di cinesi, incarna gli interessi di tutto il popolo cinese e corrisponde alle speranze e le aspettative di tutti i figli e le figlie della Cina.
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La storia ci dice che il nostro futuro personale e il destino sono strettamente legati a quelli del paese e della nazione. Se il paese sta facendo bene, la gente fa bene e tutti fanno bene. Realizzare il grande rinnovamento della nazione cinese è un compito arduo, ma glorioso, che richiederà gli sforzi congiunti di generazioni di cinesi. Noi, questa generazione di membri del Partito comunista, dobbiamo agire come un legame tra passato e futuro e portare avanti la causa della costruzione del Partito, unendo i figli e le figlie della Cina per rafforzare il paese; dobbiamo sviluppare la nostra economia e andare coraggiosamente avanti con il grande compito di far rivivere la nazione cinese." Il sogno cinese è di costruire una grande nazione. Ma questo può essere raggiunto solo con una riforma economica, politica, culturale e sociale; quindi è un sogno di riforma, un sogno di democrazia, di diritto e di sviluppo. Realizzare il sogno cinese significa affrontare questioni come la lotta contro la corruzione, il divario di ricchezza, il degrado ambientale. Esso non solo richiede il coraggio di affrontare i problemi, ma richiede anche misure e metodi efficaci per risolvere questi problemi. Il percorso corretto è l'unità di teoria e di pratica, rendendosi conto che il duro lavoro pratico porta risultati. Per molto tempo i cinesi hanno avuto persone di alto livello culturale, che però non hanno saputo coordinare la teoria e la pratica e, quindi, hanno perso molte opportunità di sviluppo. In confronto, l'Occidente ha da tempo colto l'importanza di collegare l’indagine teorica con l’attività pratica. Per realizzare il sogno di rinascita nazionale la Cina deve imparare dall’approccio pionieristico, progressivo e pragmatico degli europei e mettere queste lezioni in pratica. La Cina ha attualmente una grande opportunità di sviluppo strategico alla sua portata. Per evitare di perdere questa opportunità storica dobbiamo unire la teoria con la pratica. Il sogno cinese è il sogno di felicità di ogni cinese The Chinese Dream è il sogno del popolo, il sogno dell'uomo e della donna comune; è il sogno di giustizia, di successo o semplicemente di diventare modestamente benestante. La Cina ha una tradizione collettivista, ma nel compiere il sogno cinese di rilanciare la nazione e realizzare il benessere del popolo nel suo insieme,
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noi non dobbiamo trascurare gli interessi del singolo. I sogni individuali possono promuovere lo sviluppo di tutto il paese. La cultura europea pone grande enfasi sull'indipendenza, la libertà e la libertà individuale, valorizza le persone di talento che si distinguono dalla massa, incoraggia lo sforzo individuale e la libera creatività individuale. L'enfasi della cultura occidentale sull'individuo ha molto da raccomandare. Oggi il sogno cinese presta consapevolmente attenzione a questi temi. Seppure va ancora sottolineato che il collettivismo non trascura le esigenze del singolo. Il sogno del paese nel suo complesso incorpora i sogni di ogni individuo. Il sogno cinese presta molta attenzione a realizzare i sogni di ogni individuo in materia di istruzione, il lavoro, il reddito, le assicurazioni sociali, l'assistenza sanitaria, le esigenze abitative e per l'ambiente. Rispetta la dignità individuale. Ha creato le nozioni di una "sana mentalità di grande potenza" e di "nazionalismo razionale". Nella teoria e nella pratica del sogno cinese i percorsi di sviluppo individuale e di rinascita nazionale convergono. Il sogno cinese è anche quello della creazione di una nuova immagine nazionale. Dobbiamo sempre presentarci al mondo come un paese modello in via di sviluppo, ma anche come un grande paese. Dobbiamo preservare le nostre tradizioni secolari di cordialità, armonia, onestà e integrità, ma anche, come una grande nazione in via di sviluppo, andare avanti con spirito aperto sicuro di sé, moderno, illuminato e di tolleranza verso il mondo. Il sogno cinese è un sogno culturale Il sogno cinese è un sogno di una Cina colta, di una Cina civile, della ricostruzione dell'immagine della Cina agli occhi del mondo. Mentre la lucentezza del sogno americano svanisce gradualmente e il sogno europeo è ancora nel periodo di esplorazione, il sogno cinese può offrire al mondo un modello concettuale di sviluppo con caratteristiche cinesi che evita gli inconvenienti dello sviluppo capitalistico, prende in prestito dall'esperienza di ammodernamento di altri paesi e sintetizza il meglio dell'Oriente e dell'Occidente. Il sogno cinese offre all'umanità una versione internazionalizzata dello spirito della cultura cinese. Si tratta di un contributo positivo per la ricostruzione di un ordine culturale e di uno sviluppo globale del mondo. Il sogno di una Cina colta significa che, mentre
continua la modernizzazione della sua economia, la Cina deve offrire la sua vasta e ricca cultura al mondo, sottolineando il suo carattere aperto e progressista e la sua difesa accorata dell’ideale culturale della pace. La Cina è l'unico paese nella storia ad aver conservato la sua civiltà fin dai tempi antichi. Nel mondo di oggi di valori umani universali una "Cina culturale" deve presentarsi come un unico, ma allo stesso tempo pluralista e attraente, paese in via di sviluppo competitivo; una Cina che ama la pace e rispetta tutti i valori culturali umani. Amante della pace, creativa, di mentalità aperta, rivolta verso l'esterno e razionale, la "Cina culturale" saprà conquistare la fiducia e il rispetto della comunità internazionale. The Chinese Dream è il sogno di una Cina Bella The Chinese Dream è il sogno di una Cina Bella, di un bellissimo ambiente. Lo slogan "Beautiful China" elaborato dal Partito Comunista Cinese ha risuonato in patria e all'estero. Questa nuova idea è destinata a diventare una parola d'ordine del futuro sviluppo della Cina. Una Cina Bella è, prima di tutto, un concetto ecologico. Dopo 30 anni di rapido sviluppo economico e sociale ci troviamo di fronte all’esaurimento delle risorse, all'inquinamento ambientale e alla degenerazione dell'ecosistema. Come rispettare la natura, agire in armonia con la natura, proteggere la natura, raggiungere lo sviluppo sostenibile, sono i principali problemi che deve affrontare la Cina. Promuovere lo sviluppo verde, l'economia del riciclaggio, lo sviluppo a basse emissioni e stabilire nuovi concetti e pratiche ecologiche, sono indispensabili se vogliamo garantire il continuo sviluppo della nazione cinese e realizzare il sogno secolare di una Cina Bella. Ma la Cina Bella non è solo un concetto ecologico. Si tratta di un concetto più grande e più ampio di civiltà. Il problema dell'ecologia non riguarda solo la natura e l'ambiente, ma è anche legato alla costruzione economica, politica, culturale e sociale di tutta la nostra civiltà. Ne consegue che l'idea di "Beautiful China" non è riferita solo a montagne e fiumi, ma comprende anche la creazione di una società bellissima, cultura, vita e spirito. Il sogno di una Cina Bella è uno stato d'animo che stimolerà la creatività della nazione; un'impresa potente e ambiziosa di cui beneficeranno innumerevoli generazioni future.
Il sogno cinese è un sogno di armonia universale "Il mondo appartiene al popolo" esprime il sogno di armonia globale del popolo cinese. La cultura tradizionale cinese ha sempre sostenuto il sogno di un mondo unito e armonioso, di una grande comunità armoniosa. Il sogno cinese è un sogno di tutto il mondo unito in armonia. La Cina non cercherà mai l'egemonia. Nel nostro mondo moderno turbolento, segnato da attriti tra le nazioni, i popoli e le religioni, la lotta sembra non finire mai, e noi dobbiamo liberarci dell'ombra della guerra e del terrorismo. La pace, la cooperazione internazionale e il vivere insieme in armonia sono chiaramente i migliori modi di gestire le relazioni tra nazioni e popoli. L'importanza della Cina per il mondo di oggi è che la Cina è una forza trainante per il progresso economico, politico e culturale, la pace nel mondo, la sicurezza e la felicità umana. Dall'inizio degli anni 1990 gli Stati Uniti hanno fortemente propagandato la teoria della “minaccia cinese". Secondo gli americani la Cina è un paese "insoddisfatto, ambizioso, irrequieto, determinato a dominare l'Asia." I media occidentali hanno denunciato, una dopo l'altra, minacce economiche, minacce per la sicurezza alimentare, minacce militari, minacce ambientali, culturali, ecc. Dal 2001 un’altra "teoria", impostata alla stessa logica, quella del “crollo della Cina", ha fatto il giro del mondo creando l'immagine della Cina come un paese "potente ma instabile". Queste campagne denigratorie hanno gravemente danneggiato
l'immagine globale della Cina e colpito i suoi interessi nazionali. Le radici di queste teorie si trovano nella mentalità egemonica delle potenze occidentali. A differenza del "con noi o contro di noi", approccio caratteristico della cultura americana, i sostenitori del sogno cinese cercano "un terreno comune tra le differenze”. La cultura cinese è aperta e inclusiva. Nel corso del suo sviluppo la Cina si è continuamente evoluta assorbendo e assimilando diverse culture regionali. Il processo di realizzazione del sogno cinese di far rivivere la nazione, mantenere la mente aperta, adottando i migliori elementi delle culture di altre nazioni, permetterà alla Cina di condividere la cultura mondiale e condividere la propria cultura con il mondo. In questo modo i paesi verranno a comprendersi e rispettarsi reciprocamente e impareranno a vivere in pace con gli altri. Non si tratta di cercare di trasformare gli altri paesi, ma piuttosto di prendere in considerazione i loro interessi e collaborare attivamente con gli altri per affrontare le nuove sfide dello sviluppo del mondo. Questo è il sogno della Cina per il mondo, il vero significato del sogno dell'armonia mondiale. Riforme e Innovazione - le Forze che possono trasformare la Cina I cinesi hanno creato insieme il grande sogno di rinnovamento nazionale. Tuttavia mettere questo sogno in pratica non saranno rose e fiori. La società cinese sta attraversando un periodo di profonda trasformazione; il processo di riforma sta entrando in acque profon-
de; lo sviluppo ha raggiunto un collo di bottiglia; dobbiamo fare uno sforzo determinato per sradicare il problema profondo della corruzione. Attuare il sogno cinese non sarà un letto di rose. Il sogno cinese comprende tutti i tipi di sogni; è pieno di opinioni diverse, differenti punti di vista ed è anche pieno di scetticismo, dubbi, opposizioni e contestazioni. Siamo di fronte a una serie di problemi e la strada da percorrere è spinosa e cosparsa di insidie, ma dobbiamo essere d’acciaio e mobilitare tutte le forze della nazione cinese per intraprendere una nuova “lunga marcia”. La società è presa da una grande passione per la partecipazione politica. Il diritto democratico di essere coinvolti nell’attività politica è diventata un'esigenza fondamentale di tutti i cittadini. Il sogno cinese non è nelle teorie roboanti o nei discorsi degli alti dirigenti; si tratta anche di trattare con concretezza e con i piedi per terra questioni come un bicchiere d'acqua e una boccata d'aria fresca. Oggi, sempre più cittadini cinesi hanno il coraggio di sognare, e sempre più comuni cittadini sono disposti e desiderosi di partecipare agli affari pubblici. Stanno facendo il collegamento tra i propri sogni di tutti i giorni e i grandi sogni politici della nazione, si sta unendo una grande processione di sognatori. La partecipazione democratica al governo è diventata la passione di questa grande nazione di quasi 1,4 miliardi di abitanti, in quanto è l'obiettivo di qualsiasi paese che avanza verso la maturità. E' il presupposto del progresso del nostro Stato moderno verso la prosperità e la forza.
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Avola 2 dicembre 1968
di Giovanni Parentignoti
Avola, comune siciliano in provincia di Siracusa, si affaccia sul Mar Jonio nella parte orientale della Sicilia; la sua economia è legata in principal modo ai prodotti agricoli e alle coltivazioni nonché alla famigerata pasticceria collegata alla prestigiosa mandorla pizzuta di Avola. Dalla città prende il nome anche il famoso vino, il Nero d'Avola, che anche se oggi viene soprattutto prodotto in altre zone, rende la cittadina famosa in tutto il mondo. Avola però diviene anche nota per eventi socio-politici verso la fine degli anni ‘60 e precisamente nell’anno 1968, quando la lotta intrapresa dai lavoratori agrari della provincia di Siracusa vide partecipi i braccianti di Avola. Tutto inizia il 24 novembre 1968, quando la lotta intrapresa dai lavoratori rivendica principalmente l'aumento della paga giornaliera, l'eliminazione delle differenze salariali e di orario fra le due zone nelle quali era divisa la Provincia, l'introduzione di una normativa atta a garantire il rispetto dei contratti e l'avvio delle commissioni paritetiche di controllo. Le trattative si arenano per la rigidità degli agrari; conseguentemente la tensione sale e i braccianti decidono di ricorrere ai blocchi stradali come strumento di pressione. Il Prefetto convoca le parti per il 30, ma gli agrari non si presenteranno. Il 1 dicembre lo sciopero prosegue, anche per sollecitare la Prefettura a una condotta più energica nei confronti dell'associazione degli agrari. Di fronte alle ulteriori esitazioni del Prefetto, che accetta di convocare un nuovo incontro solamente per il 3 dicembre, viene proclamato lo sciopero generale ad Avola. L’aria è tesissima, i blocchi iniziano e la tragedia è alle porte...tutto accadde il 2 dicembre 1968; I braccianti, infatti, non hanno nessuna intenzione di cedere. La polizia l’hanno respinta, e non fanno breccia nemmeno i “caporali” mandati dagli agrari con pressioni e ricatti, e anche con promesse di premi in danaro per chi avesse rotto il blocco e l’unità. Ormai è l’alba dello sciopero generale. Da quindici giorni inutilmente l’agitazione andava avanti in modo “articolato”, i tentativi di aprire la trattativa erano vani. Il fronte agrario siracusano è fortissimo, sostenuto, oltre che dalla Confagricoltura nazionale (con alla testa il conte Gaetani), anche dal Prefetto, notoriamente legato agli
Giovanni Parentignoti commemora i “fatti di Avola” del 2 dicembre 1968 agrari, dal Ministro dell’Interno Franco Restivo, siciliano e uomo degli agrari. I braccianti di Avola si sentono discriminati, hanno messo in discussione il vecchio accordo sindacale, quello che divide la provincia in due zone: la zona Nord, quella dell’agrumeto, attorno a Lentini, classificata “A”, con un salario giornaliero di 3.480 lire per sette ore e mezza di lavoro; e la zona Sud, quella dell’ortofrutta, attorno ad Avola, classificata “B”, con il salario di 3.110 lire per otto ore di lavoro. Rivendicano, dunque, il superamento di quella “gabbia”; e anche un aumento della paga del 10%, circa 350 lire giornaliere. Nel primo pomeriggio del giorno 2 dicembre, mentre un centinaio di braccianti agricoli sono intorno a uno sbarramento di pietre eretto al 20° chilometro della statale 115, poco prima del bivio per il Lido di Avola, nove camionette cariche di agenti, per complessivi novanta uomini, arrivano da Siracusa e si arrestano di fronte al blocco intimandone lo smantellamento immediato. Sono novanta uomini col mitra in mano, il tascapane pieno di bombe lacrimogene, l’elmetto d’acciaio col sottogola abbassato. È quanto basta perché i braccianti esasperati reagiscano con un primo lancio di pietre. I poliziotti sbandano. L’ufficiale che li comanda grida un ordine secco, e una prima scarica di bombe piove sul
gruppo degli scioperanti sprigionando una densa nuvola di fumo bianco. Ma il gas, invece di intossicare gli operai, investe, trasportato dal vento, gli stessi poliziotti i quali vengono contemporaneamente respinti da una seconda bordata di pietre. I piani di battaglia elaborati al tavolino dai comandanti delle forze dell’ordine sono travolti dagli avvenimenti. Da uno scontro frontale la battaglia si frantuma in una serie di piccoli episodi di violenza, uomo contro uomo, e dalla strada si trasferisce nei campi circostanti. Altri braccianti accorrono dal paese e dalle case coloniche vicine. Disseminati e privi di collegamento tra loro, i poliziotti rischiano di venire sopraffatti. Perdono la testa. Qualcuno comincia a sparare. In pochi secondi le grida che fino a quel momento avevano dominato il campo di battaglia vengono coperte da una serie di scariche frastornanti, ininterrotte, un inferno che soffoca il gemito dei primi feriti. Le file dei braccianti indietreggiano, gli uomini si danno alla fuga, la polizia rimane padrona del campo. Ma è una vittoria talmente amara e tragica, che le forze dell’ordine non se la sentono di presidiare il campo di battaglia. Dopo aver operato una diecina di fermi e aver smantellato il blocco stradale, gli agenti abbandonano la zona e lo stesso centro di Avola, consapevoli che la loro presenza potrebbe scatenare reazioni.
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Adesso, alle undici di sera, Avola sembra un paese di fantasmi. Dalle due del pomeriggio la vita si è fermata, i negozi hanno abbassato le saracinesche in segno di protesta e di lutto, le due sale cinematografiche hanno chiuso. Una folla immobile e muta indugia sulla piazza principale dove il sindacalista Agosta ha tenuto un comizio a nome della Federazione dei braccianti. In giro non si vede neppure una divisa. È come se l’intero paese stesse aspettando di riprendere contatto con una realtà che tuttora appare incredibile Muoiono, uccisi dal fuoco delle forze dell’ordine, Giuseppe Scibilia, 48 anni, padre di tre figli, e Angelo Sigona, 25 anni, due figli, del popolo contadino della Sicilia. Il fuoco di piombo, forte e micidiale, lascia sul percorso ben 48 feriti, di cui cinque colpiti in modo alquanto grave. Ritrovati sul selciato tre chilogrammi di bossoli; tra i feriti, Paolo Caldarella che alzata una mano in segno di tregua le viene trapassata da un colpo di pistola, poi cade Giorgio Garofalo: una fucilata gli ha forato in otto punti le anse intestinali (si salverà grazie a tre operazioni). Un’altra fucilata spezza un femore ad Antonino Gianò. E Sebastiano Agostino è colpito al petto poco lontano da Orazio Agosta. Quando non sono i moschetti e i mitra a farlo, sono le pistolettate che feriscono gravemente Giuseppe Buscemi, Paolo Caldarella, Rosario Migneco, Orazio Di Natale. Così viene ucciso Angelo Sigona, 25 anni da Cassibile: inseguito, braccato tra gli alberi, fucilato davanti ad un muretto. Raccolto in un lago di sangue da due compagni, non basteranno a salvarlo due interventi, prima all’ospedale di Noto e poi a quello di Siracusa. Così è ammazzato Giuseppe Scibilia, 47 anni di Avola, pure lui inseguito a trecento metri dal luogo degli scontri e centrato al petto. Non si saprà mai se ad ucciderlo sia stato quell’ufficiale visto da tutti (ma da nessuno identificato) mentre gridava ai suoi uomini che gli passassero i caricatori per il suo personale. E allora, qualche minuto dopo le dieci di sera di quello stesso 2 dicembre, uno scarno ma inequivoco comunicato del Viminale smentisce la prima, più avventata versione: salta il Questore di Siracusa Politi, rimosso dal ministro Restivo e collocato a disposizione proprio «in relazione ai luttuosi fatti di Avola». Bene, ma perché solo lui e non anche il Vicequestore Camperisi che ha guidato la repressione? E perché solo il Questore e non anche
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il Prefetto D’Urso che è stato l’alleato costante degli agrari e che, con quella sua telefonata al sindaco di Avola, ha anticipato la determinazione di soffocare ad ogni costo la lotta dei braccianti? All’annuncio della rimozione del Questore, Leone e Restivo fanno poi seguire una nota ufficiosa non solo per esprimere «il più profondo dolore per l’accaduto» ma anche per manifestare «il fermo intendimento di fare piena luce sugli avvenimenti ». La luce non sarà mai fatta, e gli interrogativi resteranno senza risposta. Ma l’eccidio non resterà senza conseguenze. L’indignazione è così generale, le preoccupazioni talmente diffuse, la pressione delle confederazioni sindacali tanto forte, l’allarme nel padronato così evidente che da Roma parte l’ordine della Confagricoltura di tornare a trattare. Così, proprio mentre ancora è in corso lo sciopero generale e si preparano i funerali di Scibi-
lia e Sigona, a Siracusa si riprendono in pratica si aprono - le trattative sempre rifiutate o rinviate dagli agrari. Si tratta ad oltranza, con l’intervento dei segretari confederali di Cgil, Cisl e Uil. Quindici ore ci vogliono per piegare le resistenze padronali, e alla fine l’accordo segnerà l’abolizione delle differenze salariali tra le due zone, l’aumento delle paghe, la rinuncia al mercato delle braccia (anche se tanto tempo dopo si ricomincerà, e stavolta saranno gli extracomunitari a patirne le conseguenze). Ma c’è anche e soprattutto un punto fermo: Avola diverrà la scintilla di una stagione politica che, comunque la si riguardi a tanti anni di distanza, porrà fine all’intervento della polizia nei conflitti sindacali. Un intervento che dal ‘47 ad allora aveva provocato quasi cento morti. Un elenco chiuso, appunto, dai nomi di Giuseppe Scibilia e di Angelo Sigona.
Quando, tanti anni dopo, Bruno Ugolini ricorderà per il suo giornale quella tragica giornata, scriverà: «Oggi, spulciando su Internet, in un sito dedicato alla storia di Avola, leggo: “Cittadina di 32mila abitanti, situata nel golfo di Noto, in territorio pittoresco e dirupato”. Non trovo cenno di quei suoi figli, Sigona e Scibilia. Eppure è merito loro se quel nome, Avola, suscita ancora tante emozioni». Ebbene, a distanza di anni, si ripete sempre la stessa storia, diritti dei lavoratori calpestati, “potenti” a dettare le leggi dell’economia, gente che protesta e sciopera senza essere ascoltata, proclami televisivi da parte di tutti i rappresentanti politici senza distinzione di colore e promesse disattese; ad Avola come a Battipaglia (dove vi furono altri caduti tra i lavoratori), Mirafiori come Termini Imerese, viviamo nell’attesa che ci scappi ancora una volta il morto
affinché lo stesso possa essere utilizzato come “tornaconto politico”, affinché la piazza regali ancora sangue ai sindacati e a chi in piazza scende solo con giacca e cravatta per apparire; aspettiamo ancora un altro Scelba o lo "scelbismo;
ogni agitazione di lavoratori vista come la lunga mano della cospirazione comunista in agguato e le "forze dell'ordine" chiamate a sparare sui braccianti intese come difensori della minacciata libertà italica. È quasi una guerriglia.
Santinella Argentino per la commemorazione dei fatti di Avola
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La sociologia a ovvero, la sociologia Prosegue in questo articolo la trattazione della seconda delle tematiche prescelte. La prima, dedicata alle cause della crisi italiana da rinvenire, pressoché esclusivamente, nel fatto che la vigente Costituzione accoglie come programma politico, senza il consenso dei cittadini, il c.d. socialismo cattolico (stigmatizzato, già a suo tempo, da Marx e da Engels). La seconda, attinente alla descrizione della sociologia a fondamento capitalistico. Moralità, dignità della persona umana e sistema capitalistico della produzione sono termini incompatibili. Perciò si è potuta rilevare l’attuale “bestializzazione dell’umano” (R. Esposito), ovvero, l’Eclisse della ragione” (M. Horkheimer), perciò è possibile assistere alla riviviscenza dei fondamentalismi religiosi, nemici di Dio e dell’uomo, fautori di ignoranza, superstizione e violenza. SOMMARIO: 1. La perdita della omogeneità culturale della società: l’individualismo estremo, ovvero, l’absolute individual right. -2. Dalla libertà alla licenza. -3. Il pluralismo, ovvero, la poliarchia. Il transito dalla political diversity alla political division. -4. Il tramonto della democrazia. -5. Il femminismo anarchico (radical feminism). -6. Segue: il versante teologico. -7. Segue: il versante politico. -8. La dissoluzione della famiglia. Premesse metodologiche. -9. La fenomenologia della famiglia a fondamento capitalistico. -10. Segue. -11. Le conseguenze derivanti dalla dissoluzione della famiglia: l’omofilia. -12. Verso la rifondazione del rapporto uomo-donna, come condizione del rinnovamento della società. -13. No alla riproposizione della “famiglia cristiana”. -14. Considerazioni conclusive: pluralismo e progressiva attuazione dell’assolutismo politico. -15. I prodromi papisti.
di Alberto Donati 8.— La dissoluzione della famiglia. Premesse metodologiche La fenomenologia sociologica che si è esposta non può non incidere sulla configurazione della famiglia. Considerata l’importanza della problematica ritengo doveroso porre due premesse alla relativa trattazione: la prima, riguardante la matrice culturale cui accedo e che ne costituisce la chiave di lettura; la seconda, volta a precisare il criterio che, a mio avviso, deve presiedere alla regolamentazione del rapporto uomo-donna, talché, tutto ciò che lo rispetta è, dal mio punto di vista, degno di considerazione, tutto ciò che lo contraddice deve essere superato. La matrice culturale cui mi richiamo è quella illuministica. In questo contesto, trova la propria fon-
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dazione la visione dell’essere umano inteso come portatore di diritti innati (inherent Rights). Da ciò segue che non ne è più possibile la differenziazione a seconda del sesso, o della razza, o della religione, o di qualsiasi altro criterio. L’uguaglianza, che specificamente riguarda l’uomo e la donna, è fondata sul fatto che, al di là e al di sopra della diversificazione sessuale, c’è il momento unificante costituito dalla quiddità umana, dalla humanitas; sul fatto che, di conseguenza, comune è la finalità che l’uomo e la donna sono chiamati a realizzare, principalmente mediante la costituzione della famiglia. La sua formazione è un preciso dovere poiché essa consente l’assolvimento di due funzioni primarie: la prima, quella di moralizzare il rapporto uomo-donna, di non relegarlo ad una dimensione meramente sessuale, in questo senso, animalesca (D. 1, 1, 1, 3); la seconda, conseguente, consiste nell’assicurare l’esistenza di una società civile che sia bene constituta.
fondamento capitalistico dell’antiumanesimo
Ed infatti, la famiglia è la cellula dell’organismo sociale (“familia parva respublica”). Se essa è sana, lo Stato è sano, se essa è malata, lo Stato è malato. Non s’è mai data una società politica ordinata, sulla base di una famiglia disordinata. Per ciò, i Romani potevano affermare: “Nessuna cosa mortale è più veneranda del matrimonio” (Nov. 140, in praef.), potevano definire la famiglia, basata sul matrimonio eterosessuale, come “condivisione di tutta la vita” (“consortium omnis vitae”), come “comunione del divino ed umano diritto” (“divini atque humani juris communicatio”) (D. 23, 2, 1), potevano sostenere che “la donna è principio e fine della famiglia” (“mulier familiae suae et caput et finis est”) (D. 50, 16, 195, 5), per questa via, dello Stato. La famiglia, dunque, ha un rilievo giuspubblicistico primario, per ciò essa è definita seminarium rei publicae (semenzaio dello Stato), per ciò, si è affermato “sono i buoni padri, le buone madri, i buoni figli, che formano anche i buoni cittadini” e tali sono perché nobilitati dalla comune finalità consistente nella realizzazione di “un livello sempre più elevato di moralità, di conoscenza e di benessere”.
9. — La fenomenologia della famiglia a fondamento capitalistico Il rapporto uomo-donna è, al momento, caratterizzato da una conflittualità, purtroppo, crescente. La causa della crisi va rinvenuta nel sistema capitalistico della produzione. L'attuale uguaglianza della donna nei confronti dell'uomo poco o nulla ha a che vedere con quella proclamata dall'Illuminismo. Essa ha, invece, un fondamento materialistico rinvenibile nell’inserimento della donna nel ciclo economico (S. de Beauvoir): “l’emancipazione della donna è un fatto compiuto, non tanto perché gli occidentali siano più buoni, ma semplicemente perché era intollerabile in una società tecnicamente avanzata lo spreco che condannava la metà della popolazione attiva a mansioni principalmente domestiche” (J.A. Soggin). Tradizionalmente, il soggetto economico era la famiglia che diveniva, così, il centro di imputazione dei redditi conseguiti dai suoi membri. In famiglia si nasceva, si viveva, si invecchiava e si moriva. La famiglia era un nucleo basato sul vincolo di sangue e sulla relativa solidarietà spirituale ed economica. Il sistema capitalistico della produzione, introducendo il contratto individuale di lavoro, la conseguente individualizzazione dei redditi, congiunta all’affermazione della libera circolazione delle persone, ha frantumato questo nucleo. Ciò sta a significare che, in questo sistema, ognuno deve provvedere a se stesso e questo risultato è conseguibile solo riuscendo a percepire un reddito individuale. Famiglia e sistema capitalistico della produzione divengono, così, entità incompatibili. Il ruolo tradizionale della donna all’interno del contesto famigliare viene dissolto dalla necessità che essa ha di provvedere autonomamente al proprio sostentamento. Questa è la conseguenza del suo essere stata gettata, volente o nolente, nel mercato del lavoro. Il coinvolgimento della donna nel ritmo produttivo, la co-
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stringe a non sposarsi in età giovanile, a rinviare ad una età avanzata la maternità; la costringe alla sessualità fine a se stessa, alla sessualità occasionale, superficialmente vissuta, la induce, tendenzialmente, ad evitare il matrimonio. Quest’ultimo non è più un evento avente sia un rilievo privato e parentale che un rilievo sociale, è invece transitato nella dimensione del consumismo. Quello stesso coinvolgimento lascia uno spazio solo marginale alle esigenze della famiglia e, se ciò non di meno, la donna insiste sulla sua costituzione, si trova a svolgere ben tre lavori: quello derivante dal suo inserimento nell’apparato produttivo, quello di moglie, quello di madre. In questo contesto, la maternità diviene un evento negativo, si potrebbe dire, una maledizione. Essa è, infatti, incompatibile con i ritmi imposti dal sistema produttivo. La donna, per mantenersi competitiva, è anche costretta a ricorre all’aborto, ad affermare il diritto all’aborto. Quest’ultimo, dunque, non rinviene la propria causa nella immoralità della donna e, pertanto, non se ne può venire a capo con il ricorso al moralismo (come ipocritamente pretende il cattolicesimo); l’aborto ha, invece, una precisa motivazione sociologica ed è su questa base che si impone alla donna che ne diviene, piuttosto, la vittima. La responsabilità dell’aborto, in quanto fenomeno sociale, ricade, pertanto, sulla lobby capitalistica di cui, sia detto incidentalmente, la chiesa cattolica è parte costitutiva.
10. — Segue L’individualità dei redditi, nei termini introdotti dal sistema capitalistico della produzione, pone la donna, fatto nuovo nella storia, in competizione con l’uomo. Alla solidarietà tra i due sessi confluente nella famiglia, si sostituisce la lotta per la sopravvivenza. Il ciclo capitalistico necessita che i contratti di lavoro siano individuali, che le unità produttive siano indipendenti. Tanto più il soggetto è libero da legami vincolanti, tanto maggiore il suo rendimento, la sua mobilità, la sua disponibilità a contribuire alla formazione del profitto. Da ciò segue la delegittimazione di quei valori umani che, contraddicendo queste istanze, diminuiscono la produttività individuale. Così come ai rapporti di produzione agricoli (dominanti sino alla rivoluzione industriale), al cui vertice si situava il feudatario, è corrisposta l’esaltazione del matrimonio, è corrisposta la famiglia patriarcale e prolifica, la soggezione della donna prima al padre e poi al marito, la condanna della omosessualità (pendant del valore primario del matrimonio e della prolificità), parimenti, ma con contenuti diametralmente opposti, ai rapporti di produzione industriali, al cui vertice si situa il capitalista, corrisponde la libertà della donna dall’uomo, la donna in concorrenza con que-
st’ultimo, la famiglia nucleare, l’assoggettamento del diritto di famiglia alla logica mercantile (M. R. Marella), un uomo ed una donna vieppiù allontanati dal matrimonio ed aborrenti la generazione, la riduzione della donna a “vas eiaculationis”, infine, la legittimazione della omofilia (pendant della delegittimazione del matrimonio). Si verifica, così, il transito ad una famiglia intesa come “comunità non-sessuale e non consanguinea”, come “comunità sociale” conformata “dal rapporto economico-sociale anziché da quello naturale” (U. Cerroni), come comunità potenzialmente sterile (priva di discendenza). In altri termini, la divisone sociale del lavoro, propria del sistema capitalistico della produzione, induce la “atomizzazione” dei rapporti di lavoro (pur nel loro coordinamento al fine di produrre il profitto), cui corrispondono i contratti individuali di lavoro, l’individualità del reddito, la conseguente autonomia individuale, l’“atomismo individualista” (U. Cerroni). Tale atomizzazione si riflette sulla famiglia inducendo la “tendenza al completamento della ‘contrazione’ della famiglia fino al limite della cosiddetta ‘famiglia nucleare’ coniugale” (U. Cerroni). Su queste basi si intende il processo di privatizzazione del matrimonio che ha avuto luogo sul piano propriamente giuridico.
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Al matrimonio fondato sul dovere si sostituisce il matrimonio basato sull’arbitrio. Più specificamente, alla famiglia fondata sul matrimonio, si sostituisce la famiglia di fatto. E’, così, invertito il principio attestato dalla cultura classica ed illuministica, secondo cui “il coito non fa il matrimonio, ma l’affezione maritale” (“coitus matrimonium non facit, sed maritalis affectio” (D. 24, 1, 32, 13; 50, 17, 30). Per questa via, si attua la delegittimazione della famiglia sotto un duplice profilo. Nel primo, la donna viene espropriata della famiglia, poiché i doveri che quest’ultima implica impediscono che essa possa collocarsi sul mercato come libera venditrice della propria forza lavorativa: “se essa adempie ai suoi doveri nel servizio privato della sua famiglia, essa resta esclusa dalla produzione [...] e non può guadagnare nulla; e se vuole partecipare all’industria [...] ed ottenere una fonte autonoma di guadagno, non è in grado di assolvere ai suoi doveri familiari. E per la donna le cose vanno allo stesso modo sia in fabbrica che in ogni branca di attività, medicina e avvocatura incluse” (F. Engels); la “produzione e la distribuzione di massa reclamano l’individuo intero, e la psicologia industriale ha smesso da tempo di essere confinata alla fabbrica” (H. Marcuse). La potestà del capitalista e la potestà maritale sono incompatibili e, nel conflitto, è la seconda ad essere caducata. L'ulteriore profilo cui si è fatto riferimento, riguarda il rapporto tra i genitori ed i figli. Quest'ultimi devono, anch'essi, potersi inserire nel mondo del lavoro appena ne siano capaci. Il desiderio dell'autonomia dalla famiglia in quanto connesso alla conquista dell'autonomia economica, sottrae i figli all'àmbito famigliare, trasforma la funzione educativa dei genitori in un processo preparatorio all'impiego nel sistema capitalistico della produzione. Muta anche il ruolo degli anziani e, quindi, il loro rapporto con le generazioni più giovani. Nella visione tradizionale, l'anziano è colui che ha acquisito il massimo della prudentia, colui che maggiormente ha contribuito alla conservazione della società. Nel sistema capitalistico, la relazione funzionale dell'individuo rispetto alla produzione del profitto, ha carattere tecnologico. Ciò fa sì che l'anziano diventi obsoleto e venga trasceso dai giovani più pronti e più efficienti nella acquisizione delle innovazioni tecniche. Inoltre, l’esaurimento, per raggiunti limiti d’età, del ciclo lavorativo, la collocazione a riposo, l'uscita, quindi, dal ciclo produttivo, si traduce nella perdita del rango di soggetto attivo, nella acquisizione di un ruolo tendenzialmente parassitario, passivo, ostacolante la mobilità e la produttività dei famigliari, in quanto tale, riprovato. Gli anziani, come i figli, sono un intralcio, una significativa passività. Ne segue l’attualità di quanto affermato da Platone a proposito del res publica corrotta: “quando gli anziani sono senza dignità è necessità che anche i giovani siano senza pudore al massimo grado”. Più comprensivamente, la mercificazione dei rapporti umani propria del sistema capitalistico della produzione, induce la visione borghese del matrimonio e della famiglia: “La borghesia dà storicamente alla famiglia il carattere della famiglia borghese, in cui il legame è costituito dalla noia e dal denaro e di cui fa parte anche la dissoluzione borghese della famiglia” (C. Marx - F. Engels). Sintetizzando ulteriormente, la crisi della famiglia è la
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crisi del rapporto uomo-donna, del carattere antagonistico che esso assume a causa dell’economia capitalistica. Le componenti eterofobiche completano il quadro. Tutto ciò concorre a spiegare la crescente violenza da cui quel rapporto è ormai caratterizzato. Il fondamento economico della crisi della famiglia consente di qualificare la dottrina fautrice della dissoluzione della famiglia come sovrastruttura del sistema capitalistico della produzione.
11. — Le conseguenze derivanti dalla dissoluzione della famiglia: l’omofilia La tematica omosessuale è estremamente delicata. Per altro, in questa sede essa non viene in considerazione sotto il profilo etico, né sotto quello del suo rapporto con la eterofobia. La problematica verrà, invece, riguardata sotto il profilo della sua motivazione sociologica posta come assorbente. Della omofilia viene accolta la definizione che la pone come rifiuto costante ed irreversibile della eterosessualità. Le altre forme non assumono, invece, ai fini della trattazione che si viene svolgendo, una specifica rilevanza.
L’omofilia, nei termini attualmente acquisiti, è, anch’essa, uno degli effetti del sistema capitalistico della produzione, della espropriazione della persona umana avente ad oggetto la famiglia i cui oneri, infatti, come precedentemente osservato, sono incompatibili con la produttività richiesta da questo stesso sistema. Si comprende, allora, perché Barack Obama, nella sua qualità di presidente degli Stati Uniti, dello Stato leader del capitalismo sia industriale che finanziario, si sia fatto propugnatore di questa prassi. Nulla nuoce maggiormente a tale sistema del primato della famiglia. Essa, infatti, soprattutto per quanto riguarda la donna, sottrae energie preziose alla produzione economica, i doveri famigliari diminuisco significativamente la produttività, incidono in misura corrispondentemente negativa sulla formazione del profitto. Nulla, più della famiglia, nuoce alla donna nel suo percorso diretto a dotarsi della idoneità ad inserirsi e a mantenersi nel ciclo produttivo. Quando la donna esclama “Voglio qualcosa di più del marito, dei figli e della casa” (Friedan), non fa che farsi portavoce di una istanza che le è imposta dal sistema economico. L’assorbimento progressivamente maggiore delle ener-
gie individuali nel processo produttivo riduce, dunque, proporzionalmente, la quantità di energie disponibili per le esigenze della famiglia, riduce la disponibilità stessa ad erogarle. L’omofilia si inquadra nella tipologia umana espressa dal loose individual (“individuo sciolto”), vale a dire, dall’essere umano “sciolto dal matrimonio e dalla famiglia, dalla scuola, dalla chiesa [riformata, non cattolica], dalla nazione, dal dovere e dalla responsabilità morale” (R. Nisbet). Pertanto, a ben vedere, l’omofilia non è espressione della libertà ma della soggezione dell’essere umano al sistema capitalistico della produzione, essa è vissuta perché imposta da tale sistema. L’omofilia, al tempo stesso, esprime la protesta verso tale situazione e, in questo senso, acquisisce una precisa dimensione etica.
prosegue nel prossimo numero
Il materialismo storico Concludiamo con la seconda parte delle “Lezioni di leninismo” scritte da Stalin dedicata al “materialismo storico”. Se qualcuno avesse dei dubbi sull’attualità della conoscenza, dello studio e dell’applicazione di questi argomenti scientifici sarà utile sapere che Xi Jinping, alla testa della “prima economia del mondo”, in un intervento del gennaio 2015 a una riunione dell’Ufficio Politico del Partito Comunista cinese, ha rinnovato l’invito a tutti i membri del Partito a studiare gli insegnamenti del materialismo dialettico e del materialismo storico per il ruolo fondamentale che la conoscenza di quei principi ha avuto nello straordinario sviluppo economico cinese e più ancora ne dovrà avere per il futuro dell’obiettivo del grande “Sogno cinese”. Il marxismo leninismo è assolutamente attuale! (SR)
di Josif Stalin
Rimane da chiarire una questione: che cosa si deve intendere, dal punto di vista del materialismo storico, per "condizioni della vita materiale della società" determinanti, in ultima analisi, la fisionomia della società, le sue idee, concezioni, istituzioni politiche, ecc.? Che cosa sono dunque le "condizioni della vita materiale della società"? Quali ne sono le caratteristiche? Senza dubbio, il concetto di "condizioni della vita materiale della società" comprende innanzitutto la natura che circonda la società: l'ambiente geografico, che è una delle condizioni necessarie e permanenti della vita materiale della società e che, evidentemente, influisce sullo sviluppo della società. Quale funzione ha l'ambiente geografico nello sviluppo della società? Non è l'ambiente geografico la forza principale che determina la fisionomia della società, il carattere del regime sociale degli uomini, il passaggio da un regime all'altro? Il materialismo storico risponde negativamente a questa domanda. L'ambiente geografico è, incontestabilmente, una delle condizioni permanenti e necessarie dello sviluppo della società e naturalmente influisce su questo sviluppo, accelerandone o rallentandone il corso. Ma la sua influenza non è un'influenza determinante, perché i cambiamenti e lo sviluppo della società sono di gran lunga più rapidi che i cambiamenti e lo sviluppo dell'ambiente geografico. In tremila anni sono potuti tramontare l'uno dopo l'altro, in Europa, tre ordinamenti sociali differenti: la comunità primitiva, il regime schiavistico, il regime feudale; nello stesso periodo le condizioni geografiche dell'Europa o non sono cambiate per niente o molto poco. Affinché cambiamenti di una certa importanza si verifichino nell'ambiente geografico sono necessari milioni di anni, mentre per i mutamenti, sia pure i più importanti, del regime sociale degli uomini bastano soltanto alcune centinaia o un paio di migliaia di anni. Da questo consegue che l'ambiente geografico non può essere la causa principale, determinante dello sviluppo sociale, poiché ciò che rimane quasi immutato durante decine di migliaia di anni non può essere la causa del-
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lo sviluppo di ciò che è soggetto a cambiamenti nel corso di centinaia di anni. Senza dubbio, poi, anche l'aumento e la densità della popolazione devono essere compresi nel concetto di "condizioni della vita materiale della società", perché gli uomini sono un elemento indispensabile delle condizioni della vita materiale della società, e senza la presenza di un certo numero di uomini non può esservi nessuna vita materiale della società. E’ l'aumento della popolazione la forza principale che determina il carattere del regime sociale degli uomini? Il materialismo storico risponde negativamente anche a questa domanda. Certo, l'aumento della popolazione influisce sullo sviluppo della società, lo agevola o lo rallenta, ma non può esserne la forza principale, e la sua influenza sullo sviluppo sociale non può essere l'influenza determinante, perché non ci dà la chiave per spiegare le ragioni per cui a un determinato ordinamento sociale succede proprio quel nuovo ordinamento e non un altro, le ragioni per cui alla comunità primitiva succede proprio il regime schiavistico e così via. Se l'aumento della popolazione fosse la forza determinante dello sviluppo sociale, una maggior densità di popolazione dovrebbe necessariamente generare un tipo di regime sociale rispettivamente superiore. Ma in realtà le cose non stanno così. La popolazione in Cina è quattro volte più densa che negli Stati Uniti d'America, eppure gli Stati Uniti d'America si trovano a un livello di sviluppo sociale più elevato della Cina, poiché qui continua a dominare un regime semifeudale, mentre gli Stati Uniti d'America hanno già raggiunto da molto tempo il più alto stadio di sviluppo del capitalismo. Da questo consegue che l'aumento della popolazione non è e non può essere la forza principale nello sviluppo della società, la forza che determina il carattere del regime sociale, la fisionomia della società. a) Ma allora, qual è dunque, nel sistema delle condizioni della vita materiale della società, la forza principale che determina la fisionomia della società, il carattere del regime sociale, lo sviluppo della società da un regime all'altro?
Il materialismo storico considera che questa forza è il modo con cui si ottengono i mezzi di sussistenza necessari alla vita degli uomini, il modo di produzione dei beni materiali - alimenti, indumenti, scarpe, abitazioni, combustibili, ecc. - necessari perché la società possa vivere e svilupparsi. Per vivere bisogna disporre di alimenti, indumenti, scarpe, abitazioni, combustibili, ecc.: per avere questi beni materiali è necessario produrli; e per produrli è necessario avere gli strumenti di produzione coll'aiuto dei quali gli uomini producono gli alimenti, gli indumenti, le scarpe, le abitazioni, il combustibile, ecc.; è necessario saper produrre questi strumenti, è necessario sapersene servire. Gli strumenti di produzione con l'aiuto dei quali si producono i beni materiali, gli uomini che mettono in movimento questi strumenti di produzione e producono i beni materiali, grazie a una certa esperienza della produzione e a delle abitudini di lavoro: ecco gli elementi che, presi tutti insieme, costituiscono le forze produttive della società. Ma le forze produttive non costituiscono che uno degli aspetti della produzione, uno degli aspetti del modo di produzione, l'aspetto che esprime l'atteggiamento degli uomini verso gli oggetti e le forze della natura, di cui essi si servono per produrre i beni materiali. L'altro aspetto della produzione, l'altro aspetto del modo di produzione, è costituito dai rapporti reciproci degli uomini nel processo della produzione, dai rapporti di produzione tra gli uomini. Gli uomini lottano contro la natura e sfruttano la natura per la produzione dei beni materiali non isolatamente gli uni dagli altri, non come unità staccate le une dalle altre, ma in comune, a gruppi, in società. Perciò la produzione è sempre, in qualunque condizione, una produzione sociale. Nella produzione dei beni materiali gli uomini stabiliscono tra loro questi o quei rapporti reciproci all'interno della produzione, stabiliscono questi o quei rapporti di produzione. Questi rapporti possono essere rapporti di collaborazione e di aiuto reciproco tra uomini liberi da ogni sfruttamento, possono essere rapporti di dominio e di sottomissione, possono essere, infine, rapporti
di transizione da una forma di rapporti di produzione a un'altra. Qualunque sia però il loro carattere, i rapporti di produzione costituiscono - sempre e in tutti i regimi - un elemento altrettanto indispensabile della produzione quanto le forze produttive della società. "Nella produzione - dice Marx - gli uomini non agiscono soltanto sulla natura, ma anche gli uni sugli altri. Essi producono soltanto in quanto collaborano in un determinato modo e scambiano reciprocamente le proprie attività. Per produrre, essi entrano gli uni con gli altri in legami e rapporti, e la loro azione sulla natura, la produzione, ha luogo soltanto nel quadro di questi legami e rapporti sociali". Dunque la produzione, il modo di produzione, abbraccia tanto le forze produttive della società quanto i rapporti di produzione fra gli uomini, e incarna così la loro unione nel processo di produzione dei beni materiali. b) La prima particolarità della produzione consiste nel fatto che essa non rimane mai per un lungo periodo a un punto determinato, ma è in continuo mutamento e sviluppo; inoltre i cambiamenti del modo di produzione provocano inevitabilmente cambiamenti di tutto il regime sociale, delle idee sociali, delle concezioni e delle istituzioni politiche, provocano una trasformazione di tutto il sistema sociale e politico. Nei diversi gradi dello sviluppo sociale gli uomini si servono di differenti modi di produzione, ossia per parlare più semplicemente, gli uomini hanno un diverso modo di vita. Nella comunità primitiva esiste un determinato modo di produzione; sotto la schiavitù ne esiste un altro; sotto il feudalesimo un terzo, e via di seguito. In rapporto con questi cambiamenti anche il regime sociale degli uomini, la loro vita spirituale, le loro concezioni, le loro istituzioni politiche sono diversi. Quale è il modo di produzione della società, tale sostanzialmente è la società stessa, tali le sue idee e teorie, le sue concezioni e istituzioni politiche. Ossia, più semplicemente: quale è il modo di vita degli uomini, tale è il loro modo di pensare.
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Questo vuol dire che la storia dello sviluppo della società è, innanzitutto, storia dello sviluppo della produzione, storia dei modi di produzione che si susseguono nel corso dei secoli, storia dello sviluppo delle forze produttive e dei rapporti di produzione tra gli uomini. Vuol dire che la storia dello sviluppo sociale è, nello stesso tempo, storia dei produttori stessi dei beni materiali, storia delle masse lavoratrici che sono le forze fondamentali del processo di produzione e producono i beni materiali necessari all'esistenza della società. Vuol dire che la scienza storica, se vuol essere una vera scienza, non può più ridurre la storia dello sviluppo sociale alle gesta dei re e dei condottieri, alle gesta dei "conquistatori" e degli "assoggettatori" di Stati, ma deve innanzitutto essere storia dei produttori dei beni materiali, storia delle masse lavoratrici, storia dei popoli. Vuol dire che la chiave per lo studio delle leggi della storia della società bisogna cercarla non nel cervello degli uomini, e neppure nelle concezioni e nelle idee della società, ma nel modo di produzione praticato dalla società in ogni periodo storico determinato, nell'economia della società. Vuol dire che il compito primordiale della scienza storica è di studiare e scoprire le leggi della produzione le leggi secondo le quali si sviluppano le forze produttive e i rapporti di produzione, le leggi dello sviluppo economico della società. Vuol dire che il partito del proletariato, se vuol essere un vero partito, deve possedere innanzitutto la conoscenza delle leggi dello sviluppo della produzione, la conoscenza delle leggi dello sviluppo economico della società. Vuol dire che, per non sbagliarsi in politica, il partito del proletariato, tanto nello stabilire il suo programma quanto nella sua attività pratica, deve ispirarsi innanzitutto alle leggi dello sviluppo della produzione, alle leggi dello sviluppo economico della società. c) La seconda particolarità della produzione consiste nel fatto che i suoi cambiamenti e il suo sviluppo cominciano sempre con quelli delle forze produttive e, innanzitutto, col cambiamento e con lo sviluppo degli strumenti di produzione. Le forze produttive sono, di conseguenza, l'elemento più mobile e più rivoluzionario della produzione. Dapprima si modificano e si sviluppano le forze produttive della società e poi, in dipendenza da tali cambiamenti e conformemente ad essi si modificano i rapporti di produzione tra gli uomini, i loro rapporti economici. Questo non vuol dire tuttavia che i rapporti di produzione non influiscano sullo sviluppo delle forze produttive e che queste ultime non dipendano dai primi. Sviluppandosi in dipendenza dallo sviluppo delle forze produttive, i rapporti di produzione agiscono a loro volta sullo sviluppo delle forze produttive, al carattere delle forze produttive, i rapporti di produzione agiscono a loro volta sullo sviluppo delle forze produttive, affrettandolo o rallentandolo. È necessario inoltre osservare che i rapporti di produzione non possono troppo a lungo rimanere addietro allo sviluppo delle forze produttive e trovarsi in contraddizione con tale sviluppo, perché le forze produttive possono svilupparsi pienamente solo nel caso in cui i rapporti di produzione corrispondano al carattere, allo stato delle forze produttive e ne permettano il libero sviluppo. Perciò, qualunque sia il ritardo dei rapporti di produzione sullo sviluppo delle forze produttive, i rapporti di produzione devono presto o tardi finire col corrispondere, ed è ciò che essi fanno effettivamente, al livello di sviluppo delle forze produttive, al carattere delle forze produttive. Qualora ciò non avvenisse, l'unità delle forze produttive e dei rapporti di produzione, nel sistema della produzione, verrebbe radicalmente scossa, si verificherebbe una rottura nell'insieme della produzione, una crisi della produzione, una distruzione di forze produttive.
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Un esempio di disaccordo tra i rapporti di produzione e il carattere delle forze produttive, un esempio di conflitto tra di essi ci è offerto dalle crisi economiche nei paesi capitalistici, dove la proprietà privata capitalistica dei mezzi di produzione è in flagrante disaccordo col carattere sociale del processo di produzione, col carattere delle forze produttive. Risultato di questo disaccordo sono le crisi economiche che portano a una distruzione di forze produttive; anzi, questo stesso disaccordo è la base economica della rivoluzione sociale, destinata a distruggere i rapporti attuali di produzione e a crearne di nuovi, conformi al carattere delle forze produttive. Le forze produttive, quindi, non sono solamente l'elemento più mobile e più rivoluzionario della produzione, ma sono anche l'elemento che determina lo sviluppo della produzione. Quali sono le forze produttive, tali devono essere i rapporti di produzione. Se lo stato delle forze produttive indica con quali strumenti di produzione gli uomini producono i beni materiali che sono loro necessari, lo stato dei rapporti di produzione indica a sua volta in possesso di chi si trovano i mezzi di produzione: se a disposizione di tutta la società oppure se a disposizione di singoli individui, di gruppi, di classi che li utilizzano per lo sfruttamento di altri individui o classi. Nel regime della comunità primitiva la proprietà sociale dei mezzi di produzione costituisce la base dei rapporti di produzione. Ciò corrisponde, essenzialmente, al carattere delle forze produttive in questo periodo. Gli utensili di pietra, e l'arco e le frecce apparsi più tardi, escludevano la possibilità di lottare isolatamente contro le forze della natura e contro le bestie feroci. Per raccogliere i frutti nelle foreste, per pescare, per costruire un'abitazione qualsiasi, gli uomini debbono lavorare in comune se non vogliono morire di fame, o essere preda delle bestie feroci, o cadere in mano alle comunità vicine. Il lavoro collettivo conduce alla proprietà collettiva, sia dei mezzi di produzione che dei prodotti. Non si ha ancora nozione della proprietà privata dei mezzi di produzione, salvo la proprietà personale di alcuni strumenti di produzione, che sono in pari tempo armi di difesa contro gli animali feroci. Non esistono ne sfruttamento né classi.
Tali rapporti di produzione corrispondono essenzialmente allo stato delle forze produttive in questo periodo. Invece degli utensili di pietra gli uomini dispongono ora di strumenti di metallo; invece di un'economia misera e primitiva, fondata sulla caccia e che ignora tanto l'allevamento del bestiame quanto la coltivazione della terra, sorgono l'allevamento del bestiame, l'agricoltura, i mestieri, la divisione del lavoro tra questi diversi rami di produzione; diventa possibile lo scambio dei prodotti tra individui e gruppi diversi; diventa possibile l'accumulazione di ricchezza nelle mani di pochi, l'accumulazione reale dei mezzi di produzione nelle mani di una minoranza; diventa possibile la sottomissione della maggioranza alla minoranza e la trasformazione dei membri della maggioranza in schiavi. Non esiste già più il lavoro comune e libero di tutti i membri della società nel processo della produzione, ma domina il lavoro forzato degli schiavi, sfruttati da padroni che non lavorano. Non esiste quindi più una proprietà comune né dei mezzi di produzione né dei prodotti. Essa è sostituita dalla proprietà privata. Il padrone di schiavi è il primo e principale proprietario, il proprietario assoluto. Sotto il regime feudale la base dei rapporti di produzione è costituita dalla proprietà del signore feudale sui mezzi di produzione e dalla sua proprietà limitata sul produttore, sul servo, che il feudatario non può più uccidere, ma può vendere e comprare. Accanto alla proprietà feudale esiste la proprietà individuale del contadino e dell'artigiano sugli strumenti di produzione e sulla loro economia privata, basata sul lavoro personale. Tali rapporti di produzione corrispondono essenzialmente allo stato delle forze produttive in questo periodo. L'ulteriore perfezionamento della fusione e della lavorazione del ferro, la diffusione generale dell'aratro di ferro e del telaio, lo sviluppo ulteriore dell'agricoltura, dell'orticoltura, dell'industria vinicola, della fabbricazione dei grassi, il sorgere delle manifatture accanto alle botteghe degli artigiani: tali sono i tratti caratteristici dello stato delle forze produttive.
Le nuove forze produttive esigono che il lavoratore abbia una certa iniziativa nella produzione, che sia propenso e interessato al lavoro. Per questa ragione il padrone feudale rinuncia allo schiavo che non ha nessun interesse al lavoro e non ha nessuna iniziativa, e preferisce aver a che fare con un servo che possiede un'azienda propria, i propri strumenti di produzione e ha qualche interesse per il lavoro, interesse indispensabile perché il servo coltivi la terra e paghi al feudatario, sul proprio raccolto, un tributo in natura. La proprietà privata in questo periodo continua a svilupparsi. Lo sfruttamento è quasi altrettanto duro che in regime schiavistico; si è solo appena mitigato. La lotta di classe tra sfruttatori e sfruttati è la caratteristica fondamentale del regime feudale. Sotto il regime capitalistico la base dei rapporti di produzione è costituita dalla proprietà capitalistica sui mezzi di produzione, mentre la proprietà sui produttori, sugli operai salariati non esiste più: il capitalista non può né ucciderli né venderli, perché essi sono liberi dalla dipendenza personale, ma sono privi dei mezzi di produzione e, per non morire di fame, sono costretti a vendere la loro forza-lavoro al capitalista, a sottomettersi al giogo dello sfruttamento. Accanto alla proprietà capitalistica dei mezzi di produzione esiste, ed è nei primi tempi largamente diffusa, la proprietà privata del contadino e dell'artigiano - emancipatisi dalla servitù della gleba - sui mezzi di produzione: proprietà che si fonda sul lavoro personale. Le botteghe degli artigiani e le manifatture vengono sostituite da immense fabbriche e officine, fornite di macchine. I domini dei nobili, già coltivati con gli strumenti primitivi dei contadini, vengono sostituiti da grandi aziende capitalistiche, gestite con i criteri della scienza agronomica e munite di macchine agricole. Le nuove forze produttive esigono che i lavoratori siano più progrediti e più intelligenti dei servi ignoranti e arretrati, che siano capaci di capire la macchina e di maneggiarla nel modo dovuto. Per questo i capitalisti preferiscono aver a che fare con operai salariati, liberi dai vincoli servili e abbastanza progrediti per maneggiare le macchine nel modo dovuto. Ma avendo sviluppato le forze produttive in proporzioni gigantesche, il capitalismo è caduto in un groviglio di contraddizioni insolubili. Producendo quantità sempre maggiori di merci e diminuendone i prezzi, il capitalismo accentua la concorrenza, rovina la massa dei piccoli e medi proprietari privati, li converte in proletari e diminuisce la loro capacità d'acquisto, in conseguenza di che lo smercio dei prodotti diventa impossibile. Allargando la produzione e raggruppando in immense fabbriche e officine milioni di operai, il capitalismo imprime al processo della produzione un carattere sociale e mina, per questo fatto stesso, la propria base, poiché il carattere sociale del processo della produzione esige la proprietà sociale dei mezzi di produzione, mentre la proprietà dei mezzi di produzione rimane una proprietà privata, capitalistica, incompatibile col carattere sociale del processo della produzione. Queste contraddizioni inconciliabili tra il carattere delle forze produttive e i rapporti di produzione si manifestano nelle crisi periodiche di sovrapproduzione, quando i capitalisti, non trovando compratori solvibili a causa della rovina delle masse, di cui essi stessi sono i responsabili, sono costretti a bruciare le derrate, distruggere le merci, arrestare la produzione, distruggere le forze produttive, mentre milioni di uomini sono costretti alla disoccupazione e alla fame, non perché manchino le merci ma perché ne sono state prodotte troppe.
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Ciò significa che i rapporti capitalistici di produzione hanno cessato di corrispondere allo stato delle forze produttive della società e sono entrati con esse in contraddizione insanabile. Ciò significa che il capitalismo è gravido di una rivoluzione, chiamata a sostituire l'attuale proprietà capitalistica dei mezzi di produzione con la proprietà socialista. Ciò significa che un'acutissima lotta di classe tra sfruttati e sfruttatori è il tratto caratteristico essenziale del regime capitalista. Tale è il quadro dello sviluppo dei rapporti di produzione tra gli uomini, nel corso della storia dell'umanità. Tale è la dipendenza dello sviluppo dei rapporti di produzione dallo sviluppo delle forze produttive della società, e innanzitutto dallo sviluppo degli strumenti della produzione, dipendenza in virtù della quale i cambiamenti e lo sviluppo delle forze produttive conducono, presto o tardi, a un cambiamento e a uno sviluppo corrispondenti dei rapporti di produzione.
"L'impiego e la creazione dei mezzi di lavoro (gli strumenti di produzione) - dice Marx - benché si trovino in germe presso qualche specie animale, caratterizzano eminentemente il processo del lavoro umano. È perciò che Franklin definisce l'uomo a toolmaking animal, un animale fabbricatore di strumenti. Gli avanzi degli antichi mezzi di lavoro hanno, per lo studio delle forme economiche delle società scomparse, la stessa importanza che la struttura delle ossa fossili ha per la cognizione degli organismi delle specie animali estinte. Le epoche economiche si distinguono non per ciò che vi si produce, ma per il modo in cui si produce... I mezzi di lavoro non danno soltanto la misura del grado dello sviluppo della forza di lavoro umana, ma sono l'indice dei rapporti sociali in cui si lavora". E più oltre: "I rapporti sociali sono intimamente legati alle forze produttive. Acquistando nuove forze produttive gli uomini cambiano il loro modo di produzione, e cambiando il modo di produzione, il modo di guadagnarsi la vita, essi cambiano tutti i loro rapporti sociali. Il mulino a braccia vi darà la società diretta dal signore [feudale], il mulino a vapore, la società diretta dal capitalista industriale.Vi è un movimento continuo di aumento delle forze produttive, di distruzione dei rapporti sociali, di formazione delle idee; immobile è solo l'astrazione del movimento". Engels, caratterizzando il materialismo storico definito nel Manifesto del Partito comunista, dice: "La produzione economica e la struttura sociale che necessariamente ne deriva formano, in qualunque epoca storica, la base della storia politica e intellettuale dell'epoca stessa... Conforme a ciò, dopo il dissolversi della primitiva proprietà comune del suolo, tutta la storia è stata una storia di lotte di classe, di lotte tra le classi sfruttate e le classi sfruttatrici, tra classi dominate e classi dominanti, nelle varie tappe dello sviluppo sociale... Questa lotta ha ora raggiunto un grado in cui la classe sfruttata e oppressa (il proletariato) non può liberarsi dalla classe che la sfrutta e la opprime (la borghesia) senza liberare anche a un tempo, e per sempre, tutta la società dallo sfruttamento, dall'oppressione e dalla lotta di classe...". La terza particolarità della produzione sta in ciò, che il sorgere delle nuove forze produttive e dei rapporti di produzione corrispondenti non avviene al di fuori del vecchio regime, dopo la sua scomparsa, ma nel seno stesso del vecchio regime; non è il risultato di un'azione premeditata e cosciente degli uomini, ma avviene spontaneamente, indipendentemente dalla coscienza e dalla volontà degli uomini. Esso avviene spontaneamente, indipendentemente dalla coscienza e dalla volontà degli uomini per le seguenti due ragioni. In primo luogo perché gli uomini non sono liberi nella scelta di
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questo o quel modo di produzione, perché ogni nuova generazione, al suo ingresso nella vita, trova forze produttive e rapporti di produzione già pronti, come risultato del lavoro delle generazioni precedenti, e quindi ogni nuova generazione è obbligata, in un primo tempo, ad accettare tutto ciò che trova già pronto nel dominio della produzione e ad adattarvisi, per avere la possibilità di produrre beni materiali. In secondo luogo perché gli uomini, perfezionando questo o quello strumento di produzione, questo o quell'elemento delle forze produttive, non hanno la coscienza e la comprensione, né riflettono ai risultati sociali a cui quei perfezionamenti debbono portare; pensano semplicemente ai loro interessi quotidiani, a rendere più facile il loro lavoro e ad ottenere un vantaggio immediato e tangibile. Quando alcuni membri della comunità primitiva cominciarono a poco a poco, e come a tastoni, a passare dagli utensili di pietra agli utensili di ferro, certamente ignoravano e non concepivano i risultati sociali cui avrebbe portato quell'innovazione; essi non avevano la comprensione né la coscienza del fatto che il passaggio a strumenti di metallo significava una rivoluzione nella produzione, che tale passaggio doveva portare, infine, al regime schiavistico. Essi volevano semplicemente rendere più facile il loro lavoro e ottenere un vantaggio immediato e sensibile; la loro attività cosciente si limitava al quadro ristretto di questo vantaggio personale, quotidiano. Quando, durante il regime feudale, la giovane borghesia europea cominciò a costruire accanto alle piccole botteghe degli artigiani grandi manifatture, facendo in tal modo progredire le forze produttive della società, essa certamente non sapeva e non concepiva le conseguenze sociali cui avrebbe portato quell'innovazione; essa non aveva la comprensione né la coscienza del fatto che quella "piccola" innovazione doveva portare a un raggruppamento di forze sociali, il quale doveva concludersi con la rivoluzione contro il potere monarchico di cui essa tanto apprezzava la benignità, e contro la nobiltà nelle cui file sognavano spesso di entrare i suoi rappresentanti migliori. Essa voleva semplicemente ridurre il costo di produzione delle merci, gettare una maggior quantità di merci sui mercati dell'Asia e dell'America, solo allora scoperta, e trarne maggiori profitti; la sua attività cosciente si limitava al quadro ristretto di questa pratica quotidiana. A questo proposito Marx dice: "Nella produzione sociale della loro esistenza [ossia nella produzione dei beni materiali necessari alla vita degli uomini], gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali". Ciò non vuol dire tuttavia che i cambiamenti nei rapporti di produzione e il passaggio dai vecchi rapporti di produzione ai nuovi avvengano pacificamente, senza conflitti, senza scosse. Al contrario, un tale passaggio avviene di solito mediante l'abbattimento rivoluzionario dei vecchi rapporti di produzione e l'instaurazione di rapporti nuovi. Fino a un certo momento lo sviluppo delle forze produttive e i cambiamenti nel campo dei rapporti di produzione si effettuano spontaneamente, indipendentemente dalla volontà degli uomini. Ma questo solo fino a un certo momento, fino al momento in cui le forze produttive, precedentemente sorte e sviluppatesi, siano sufficientemente mature. Quando le nuove forze produttive sono giunte a maturazione, i rapporti di produzione esistenti e le classi dominanti che li personificano si trasformano in una barriera "insormontabile", che può essere tolta di mezzo solo dall'attività cosciente delle nuove classi, dall'azione violenta di queste classi, dalla rivoluzione.
Appare allora in modo chiarissimo la funzione immensa delle nuove idee sociali, delle nuove istituzioni politiche, del nuovo potere politico, chiamati a sopprimere con la forza i vecchi rapporti di produzione. Sulla base del conflitto tra le nuove forze produttive e i vecchi rapporti di produzione, sulla base delle nuove esigenze economiche della società, sorgono nuove idee sociali; queste nuove idee organizzano e mobilitano le masse; le masse si uniscono in un nuovo esercito politico, creano un nuovo potere rivoluzionario e se ne servono per sopprimere con la forza il vecchio ordine nel campo dei rapporti di produzione, e per instaurarvi l'ordine nuovo. Il processo spontaneo di sviluppo cede il posto all'attività cosciente degli uomini lo sviluppo pacifico a un rivolgimento violento, l'evoluzione alla rivoluzione. "Il proletariato - dice Marx - nella lotta contro la borghesia si costituisce necessariamente in classe... per mezzo della rivoluzione trasforma se stesso in classe dominante e, come tale, distrugge violentemente i vecchi rapporti di produzione...". E più avanti: "Il proletariato si servirà della sua supremazia politica per strappare alla borghesia, a poco a poco, tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, vale a dire del proletariato stesso organizzato come classe dominante, e per aumentare con la massima rapidità possibile il totale delle forze produttive. La violenza è la levatrice di ogni vecchia società gravida di una società nuova". Ecco come la sostanza del materialismo storico è stata genialmente esposta da Marx nel 1859, nella storica prefazione alla sua celebre opera Per la critica dell'economia politica: "Nella produzione sociale della loro esistenza gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita ma-
teriale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (il che è l'equivalente giuridico di tale espressione) dentro i quali dette forze per l'innanzi s'erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione - che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali - e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall'idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente tra le forze produttive della società e i rapporti di produzione. Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l'umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già, o almeno sono in formazione". Ecco ciò che insegna il materialismo marxista applicato alla vita sociale, alla storia della società. Tali sono i tratti fondamentali del materialismo storico.
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Le lingue degli “altri”
Abbiamo immaginato questa rubrica come un luogo di incontro e scambio per i tanti immigrati, delle diverse nazionalità, presenti nel nostro territorio, invitandoli a parlare di loro e tra di loro utilizzando ciascuno la propria lingua. Abbiamo iniziato pubblicando dei brevi racconti per bambini in attesa di ricevere contributi spontanei. Pur avendo riscontrato interesse e apprezzamento per l’idea, abbimo tuttavia scontato difficoltà a ricevere contributi. Diverse le ragioni. Sicuramente un riserbo nel raccontare le proprie vite da migranti certamente non belle e felici né per le ragioni della partenza, né in quelle dell’accoglienza. Sicuramente (ce lo hanno detto) anche per una opportuna cautela nell’esporsi per le tante, troppe situazioni di ingiusta non regolarizzazione, Rinnoviamo l’invito, assicurando comunque, nel rispetto della legge, il diritto all’anonimato se richiesto. Abbiamo perciò deciso di mantenere la rubrica, anche sotto il titolo delle “Lingue degli Altri”, pubblicando in questo numero alcuni estratti da interviste rilasciate a istituzioni di monitoraggio pubbliche da immigrati provenienti dal Senegal, tradotte dall’originaria lingua francese in italiano. Per questa volta vogliamo che siano gli italiani a sapere e capire cosa pensano, cosa si aspettavano, cosa hanno invece trovato e, in sostanza, come ci giudicano gli immigrati. Il Senegal è un paese bellissimo, come d’altra parte l’intero continente africano, che ha ben poco da invidiare alla nostra Europa e all’Italia in particolare. La devastazione della crisi economica del capitalismo globalizzato ha colpito violentemente anche quel paese e molti, per necessità, hanno subito l’illusione dell’ostentato benessere occidentale. La delusione è stata grande, sia economica che umana, i brevi racconti che seguono ce la spiegano: prendimone nota e coscienza. (SR)
Gli Europei hanno fatto di noi quello che siamo diventati Quando ero in Senegal vivevo bene. E’ vero che non avevo lavoro, ma almeno la mia vita era passabile, come quella di tanti altri miei coetanei. Avevo la mia famiglia a portata di mano, gli amici e soprattutto una libertà totale, assolutamente totale, di andare ovunque con la coscienza tranquilla. Io, con le mie fantasie, come tanti altri giovani del mio paese. Davvero, avevo tutto, tutto tranne il lavoro. E ad un certo punto il lavoro è diventato indispensabile; per me e per tanti altri come me. Come risorsa principale ed ultima, ho preferito sacrificare tutto ciò che avevo per raggiungere l’Europa, in particolare l’Italia, che prima di arrivare qui vedevo come un paradiso. Infatti, ogni giorno che Dio ha creato, la televisione ci fa vedere cose terribilmente radiose, straordinarie, cose incredibilmente belle, automobili, cose estre-
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mamente piacevoli. Mai cose brutte. E la nostra idea dell’Europa è quella che vediamo alla tv. E da questo nasce un sogno indispensabile per i giovani. Piuttosto morire che non venire in Europa. Questo sogno, così bello, di vedere l’Europa come un paradiso, mi ossessionava giorno e notte. Noi crediamo che una volta in Europa i nostri problemi saranno risolti e potremo aiutare la nostra famiglia, i vicini... gli europei hanno fatto di noi quello che siamo diventati. Siamo delle vittime, ci hanno ficcato in testa questa visione dell’Europa come di un paradiso, senza rendersene conto. Ogni giorno ci fanno vedere e sentire delle cose talmente magnifiche che ci ispirano la tentazione di lasciare tutto, di abbandonare tutto, di affrontare i peggiori sacrifici. Sai, lasciare la propria famiglia a chilometri di distanza nella speranza di trovare il meglio per poterli aiutare è un sacrificio vero.
E quando ti rendi conto della realtà è troppo tardi, sei già arrivato a destinazione. Allora bisogna adattarsi, anche se è una trappola. Una volta che sei arrivato, la cosa più assurda è che non puoi raccontare la verità ai giovani che sono rimasti in Senegal, che ti invidiano perché non sanno come è la realtà qui, non hanno notizie vere, non conoscono la verità; quello che vedono ogni giorno in televisioneè ̀tutto falso, tutte le cose belle sono falsità e fantasie irreali. E’ un peccato terribile che non possiamo convincerli di com’è la vita in questo paese e soprattutto le sue leggi, troppo razziste. Una cosa è sicura: ci hanno ingannato con tutte le belle cose che ci mostrano in continuazione e con le belle parole sull’Africa, apprezzamenti così amabili ma così falsi, parole al vento, assolutamente strumentali. Sono dei veri ingannatori. E poi eccomi qui, in questo paese tanto sognato. Il mio sogno si è realizzato ma è diventato il padre dei miei incu-
bi. Qui gli immigrati non godono di nessuna considerazione. Non ti danno in affitto le case, ti fanno lavorare solo nei lavori peggiori, e magari anche in nero, oppure ti danno meno soldi di quelli che sono scritti nella busta... Posso giurare che i cani e i gatti italiani sono considerati più degli immigrati: quando un gatto è malato si preoccupano molto, quando sta male un immigrato se ne fregano totalmente. Io non ero preparato, credevo che fosse tutto bello Non so, forse qua è difficile, sai, però là cosa potevo fare? Però se sapevo che era così, quando partivo... anzi, no, quando arrivavo... ero preparato. Invece io non ero preparato, credevo che fosse tutto bello. Quello fa male, perché noi abbiamo voglia di lavorare, però se sei preparato è meglio. Qui gli immigrati vengono visti solo come lavoratori, non come cittadini con pari diritti r spetto agli italiani ed è la ra-
gione per cui è difficile anche permettere agli immigrati di lavorare in un luogo diverso. Voglio dire se qualcuno ha altre competenze, che sono diverse da quelle dell’operaio, gli sbarrano la strada.̀ E difficile vedere qualcuno fare un altro lavoro; un esempio personale: io mi sono laureato, ho studiato, però questa è una discriminazione, che un immigrato laureato non possa fare altri lavori che l’operaio. Io ho provato a cercare altri lavori, magari non sono fortunato... però vedo che c’è una discriminazione verso gli immigrati: ho la sensazione che ci sono molti lavori che gli immigrati potrebbero fare, perché hanno le competenze, e sarebbe un’opportunità per migliorare l’integrazione, perché chi ha un certo tipo di lavoro può anche aiutare gli immigrati ad integrarsi, sarebbe anche un’opportunità per accedere ad altre professioni, ma questo non esiste in questa cità ̀, non è come in Francia, lì la società è completamente diversa”.
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L’Africa è stata abbandonata Qui cercano di drammatizzare la situazione del Senegal, ma noǹ e cosi ̀. La situazione dei senegalesì e molto diversa, rispetto a quello che sta succedendo in altri Paesi, ma in generale non c’e ̀una cooperazione equa tra l’Africa e i paesi ricchi: l’Africa è stata abbandonata. Dopo la caduta del muro di Berlino la cooperazione si ̀ e rivolta verso i Paesi dell’Est. Inoltre, le politiche del Fondo Monetario Internazionale hanno avuto degli effetti veramente terribili sui nostri Paesi, perchè sono state decise da persone che non av vano una reale conoscenza della situazione, sono ricette economiche fatte così, in modo superficiale. In Africa ti devi focalizzare sui bisogni essenziali: istruzione, sanità; se si seguono le politiche del Fondo invece si taglia proprio su queste cose! Queste ricette sono state applicate anche in Senegal, e hanno avuto degli effetti perversi. Sono fallimentari, non funzionano. Sono state applicate fin dagli anni Ottanta, poi si è aggiunta una crisi con il rialzo dei prezzi del petrolio, c’è stato anche un aumento dei tassi d’interesse, e questo ha portato ad
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un aumento enorme del debito da pagare, e purtroppo, pensando di raddrizzare la situazione economica, hanno peggiorato, e adesso vediamo le conseguenze. Io vengo anche da una famiglia buona, ma si emigra per disoccupazione! Quelli che erano partiti prima di me li vedevo, quando tornavano giù... se in Europa stessero male, resterebbero in Senegal e non tornerebbero la ̀ Vengo da un paese che si chiama Thie ́s, ero contadino: la mia famiglia ha un pezzo di terra e io la lavoravo. Però poi c’è stata la siccità. Niente acqua, era difficile. I ragazzi come me, se potevano, andavano a Dakar, e sono andato. Ho fatto un po’ di lavori, vendevo varie cose, però era difficile, non c’erano tanti soldi e dovevo trovare un altro modo di sbarcare il lunario. Mamma, papà e tre sorelle erano restati al paese. Un altro fratello era a Dakar con me, ma là non c’erano possibilità, e invece quelli che erano in Europa... soldi, macchine, robe belle... Un amico che era a Parigi mandava sempre soldi, ogni mese; hanno costruito un pezzo nuovo di casa per lui quando tornava... porta-
va sempre tanta roba bella e vestiti, e così mi sono deciso a partire anch’io. Mia mamma era preoccupata, perché non sapevo dove stavo andando né quando tornavo. Aveva paura, però non mi diceva mai di non partire. Mio papà e le sorelle non hanno detto niente. Mio fratello invece era contento, diceva che così poi veniva anche lui! Io volevo arrivare in Europa. Quelli che erano venuti prima di me li vedevo, quando tornavano giù... stavano bene, e dicevano che c’era lavoro. Qualcuno raccontava anche di qualche difficoltà, però poi tutti ripartivano, e allora io pensavo “Se si sta male starebbero qua, non tornerebbero là... Ho cominciato a cercare un visto, all’Ambasciata italiana era difficile, allora sono andato a quella francese e, dopo un po’, me l’hanno dato. Era un visto per turismo, per tutta l’area Schengen. A quel punto ho detto ai miei che partivo, sono tornato a Thie ́s per qualche giorno, per stare con loro, per fare il gri-gri, salutarli... siamo stati insie-me con tutta la famiglia un po’ di giorni e poi sono partito, da Dakar.
Il giorno prima di partire ho pianto molto. Come se la mia casa mi mancasse mentre ci stavo ancora coi piedi dentro Mio marito diceva che qua si stava bene, che il lavoro c’era, che non dovevo preoccuparmi per lui, però certe volte mandava meno soldi, certe volte non li mandava, e quando telefonava io capivo che era triste, che c’era qualcosa, però quando era a casa stava bene... Allora lui ha fatto la domanda qua in Italia, e dopo io ho chiesto il visto all’ambasciata e quando me l’hanno dato sono venuta. Ho aspettato tanto, sei o sette mesi, per avere il visto. La mia famiglia era triste. Prima di me era partito un fratello di mio marito, la casa diventava vuota. Loro capivano che mio marito era qua, ma erano tristi che partivo anch’io, che portavo qua i bambini, perché erano affezionati. Io avevo paura, però ero anche contenta perché raggiungevo mio marito dopo tanto tempo che stavamo lontano. Ero contenta perché i bambini potevano stare col papà. Però il giorno prima di partire ho pianto molto. Come se la mia casa mi mancasse mentre ci stavo ancora coi piedi dentro. Sono partita di sera, tutto il giorno sono stata con la famiglia e tanti amici, c’è stata una specie di festa, abbiamo mangiato e poi mi hanno accompagnato all’aeroporto. Durante il viaggio pensavo a quello
che stavo abbandonando, a com’è l’Italia, a com’è mio marito, che era più di un anno che non lo vedevo... tante cose, tante che non stanno neanche tutte nella testa! I bambini erano con me, il più piccolo dormiva, l’altro sorrideva, era la prima volta che volava. La prima cosa che ricordo dell’Italia sono le luci che si vedevano dal- l’aereo. Era notte, buio, e si vedeva tutto nero con le luci piccole colorate. Sembrava che ci fossero le stelle sulla terra, per terra, giù. Tante... Mio marito ci aspettava, ci ha portato a bere una bibita, e poi siamo andati a casa. Mi ricordo che ero stanca, ma non riuscivo a dormire; ero curiosa, volevo guardare, ma ero un po’ impaurita, era da tanto tempo che non lo vedevo. Da quando eravamo sposati, non ero mai stata con lui più di due mesi... cominciava una vita nuova, avevo un po’ paura, ma ero anche contenta, perché ero con lui. Il primo periodo in Italia è stato brutto, non uscivo mai da sola perché non mi fidavo, non conoscevo la città e la lingua. Mio marito era sempre a lavorare e io in casa. Poi ho trovato un centro dove facevano un corso di cucito, io ero già brava, però là tenevano anche i bambini mentre noi cucivamo, e così ho conosciuto le prime persone. C’erano signore italiane e anche di altri Paesi. C’era una signora marocchina e una nigeriana. Poi
hanno fatto anche un corso d’italiano, così ho imparato anche un po’ la lingua, e i miei figli giocavano con gli altri bambini. Quello più grande ha imparato a parlare prima di me! Per il futuro, chissà... vorrei tornare a casa, ma è difficile; vorrei vedere il mare, mi manca il mare che c’è giù. Però i bambini sono quasi più italiani degli italiani, non lo so come faremo a tornare giù. Ormai stiamo qua, poi vedremo. Si chiama “teranga”, è l’ospitalità, uno aiuta l’altro, così ci si aiuta sempre tutti La prima cosa che mi ha colpito è il freddo. Mi ricordo che non riuscivo a dormire perché tremavo troppo. Un amico di Brescia mi ha fatto stare da lui anche se non avevo i soldi per l’affitto, per noi senegalesi è normale, si chiama “teranga”, è l’ospitalità, uno aiuta un altro, e l’altro aiuta un altro, così ci si aiuta sempre tutti. Con la lingua è stato difficile, all’inizio non capivo niente, niente, solo qualche parola che assomiglia al francese, quindi non parlavo mai. Poi ho comprato un vocabolario e studiavo 10 – 15 parole al giorno, così ho imparato un po’ la lingua. Più tardi ho fatto anche dei corsi, ma all’inizio un po’ mi spiegava il mio amico, un po’ facevo da solo. Ora sono qui da sette anni, ho conosciuto anche qualche italiano, parlo di più.
I “giovani” italiani, quale futuro e dove?
(aspettative, esperienze e storie a confronto) Andare per tornare di Giacomo Bertini
Questa è la storia raccontata da un ragazzo che ha deciso di partire, anche per pochi mesi. Ha trovato di fronte a se le mille sfaccettature che la city per eccellenza può far emergere. Si è messo in gioco per apportare dei miglioramenti a se stesso e non solo. Grazie al suo genuino racconto, emergono tanti punti su cui riflettere. Cosa ti ha spinto a partire? Lo scorso settembre mi sono laureato in Scienze dell'Architettura a Firenze, cosi ho deciso di fare un'esperienza all'estero perché ne sentivo la necessità: sentivo la necessità di dover migliorare il mio inglese e per dirla tutta sentivo la necessità anche di dover staccare per un po' la spina con l'ambiente universitario e con la città di Firenze. Francamente è una cosa che avrei voluto fare da molto tempo: tentare un'esperienza all'estero anche solo per qualche mese. C'è da considerare che facendo un'esperienza di questo tipo ti ritrovi in una città che non conosci, circondato da pochissime persone che conoscevi fin da prima di partire e ti confronti con una realtà, una lingua e una cultura completamente diverse dalla tua, è un modo di mettersi alla prova, porsi da soli in una situazione di crisi e venirne fuori; in pratica crescere. Perché Londra? Io non volevo venire a Londra, però è stato una sorta di esperimento sociale su me stesso, avrei preferito andare a Manchester o Dublino ma ad ottobre mi sono ritrovato a Bruxelles, strana la vita. Dopo essermi fatto una discreta
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cultura sulle birre belga, sono rimasto lì un mese, ho pensato che forse era l'ora di smettere di stampare curriculum usando la carta dell'amico che mi ospitava, così ho deciso di raggiungere la mia ragazza a Londra, sì le ragazze ti fregano sempre. Cosa hai fatto e quanto sei rimasto a Londra? Sono rimasto a Londra per tre mesi. Al mio arrivo mi sono iscritto ad un'agenzia di catering per lavoratori temporanei, in pratica mi spedivano in diverse zone di Londra a fare diversi tipi di lavori dal cameriere al lavapiatti passando dal magazziniere. I vantaggi in questo tipo di lavoro sono molti, ma gli svantaggi altrettanti. Intanto c'è la possibilità di rifiutare qualsiasi tipo di lavoro se non si ha voglia di lavorare o esigenze diverse, d'altro canto c'è la possibilità di vedersi annullato un qualsiasi turno all'ultimo minuto e si deve avere l'elasticità di poter andare in qualsiasi posto. Successivamente ho iniziato una scuola di inglese. Il corso è andato davvero molto bene, il mio inglese è progressivamente migliorato, soprattutto mi sono sciolto nella comunicazione, e sono riuscito a fare buone amicizie, cosa non facile in una città come Londra. Che ambiente ti ha accolto a Londra? La mia fortuna è che non sono a Londra perché ho bisogno di soldi, provengo da una famiglia mediamente agiata, qui ho conosciuto molte persone che sono venute per vera fame e allora ti senti un privilegiato , fatichi, ti fai un gran culo ma in fin dei conti sai di es-
sere fortunato. Per esempio ho conosciuto un ragazzo colombiano che faceva tre lavori, uno la mattina uno la sera e uno la notte, riusciva a dormire solo 5 ore nel pomeriggio, tutti i giorni escluso sabato e domenica, giorni in cui dormiva di più ma comunque lavorava, tutto questo per mettersi i soldi da parte e comprarsi una casa in Colombia con la sua ragazza che non vedeva oramai da due anni. Un piccolo esempio che ti fa rendere conto che c'è tanta gente che va a Londra per trovare fortuna. L'ambiente che ho trovato è un po' stressato, tanta gente che pensa a lavorare, lavorare, lavorare e tanti discorsi sui soldi, sul come “campare” e come diventare ricchi. Quali erano le tue aspettative? Non avevo aspettative, ero pronto ad adattarmi a tutto. Sicuramente sapevo di non piombare nel posto più tranquillo e rilassante sulla faccia della terra. Com’è stato l’impatto con la realtà? A Londra ci sono tante realtà, forse più di qualsiasi altro posto. L'impatto è stato traumatico, la prima settimana ti sembra di perdere gran parte del tuo tempo nei mezzi pubblici, poi piano piano ti abitui un po' all’ambiente circostante. Ripeteresti un’esperienza simile? Certamente. La lingua è comunque migliorata ma forse serviva almeno il doppio del tempo per metterla a punto. Vivere con delle persone che non parlano italiano sarebbe stato molto meglio e magari scegliere una città in Inghilterra che non fosse Londra.
Quali suggerimenti daresti a chi vuole fare la tua stessa esperienza? Vi consiglio di mantenete il vostro modo di fare e di mantenere la spontaneità nel creare relazioni che caratterizza l'Italia. In pratica ricordatevi sempre da dove venite e non fatevi risucchiare passivamente dalla città, io sono felice di essere riuscito a mantenere me stesso in questo senso e contornarmi di belle persone. La mia fortuna è essere andato a scuola e farmi delle amicizie lì, la maggior parte delle persone che studiavano con me non lavoravano e quindi quando io ero libero anche loro lo erano ed è stato facile organizzarci per uscire. Tra lavoratori è più difficile, gli orari sono spesso diversi e la città ti risucchia rubandoti tanto tempo. Passando ad un consiglio un po' più pratico, vi vorrei segnalare che ci sono dei corsi di inglese gratuiti o quasi, vanno cercati ma ce ne sono, l'importante è presentarsi al colloquio per analizzare il tuo livello di inglese non dicendo che si vuole rimanere a Londra poco tempo, una bugia a fin di bene, perché l'ho provato sulla mia pelle e ho dovuto fare un corso a pagamento. Loro voglio giustamente investire su persone che sono motivate e che vogliono restare lungo tempo portando giovamento al paese, questo vale per i corsi d'inglese ma anche per i lavori e così via. Qual è la via più facile/comoda per trovare lavoro? Per la mia esperienza posso consigliare per iniziare le agenzie di cui ho parlato prima, ce ne sono tantissime, praticamente sono il corrispettivo delle nostre agenzie di catering, non hai un vero contratto ma un “casual contract” (con-
tratto a chiamata). Per il resto ci sono molti siti buoni per trovare lavoro, il più buono e più usato è Gumtree, io e la mia ragazza abbiamo trovato lavoro lì, poi c'è il servizio statale tramite JobCentre, nel mio caso non mi ha aiutato molto ma fa un servizio abbastanza efficiente, poi c'è il classico porta a porta con il CV che può sempre funzionare, insomma se si ha voglia di lavorare ogni modo è buono, qui si trova lavoro. Sconsiglio solo le agenzie di reclutamento che ti chiedono soldi per trovarti lavoro, alcune magari lo faranno seriamente ma è una cosa illegale farsi pagare per trovare lavoro a qualcun altro nel Regno Unito e quindi da evitare. Quali sono le maggiori differenze che hai riscontrato tra Italia e Inghilterra? Si dice che se nasci lavapiatti a Londra allora prima o poi diventerai chef, se nasci lavapiatti in Italia allora rimarrai lavapiatti. É una questione di possibilità, a Londra hai sempre l'impressione che qualcosa nel bene o nel male possa succedere, che l'occasione della vita ti possa piombare addosso, in Italia te la devi creare, la devi plasmare, insomma devi inventartela e questo credo non sia sempre un male ma a volte è stancante. Cosa esporteresti dall’Italia e cosa importeresti dall’Inghilterra? Premessa: Amo l'Italia. Non mi sono mai vergognato di essere italiano, anzi ne sono stato sempre orgoglioso e ho spesso discusso con gli italiani che sputavano sul nostro paese dicendo “non ci torno sicuro” e “che ci sto a fare in Italia”, “ sto proprio bene qui” o a chi mi diceva “io oramai sono uno chef, posso trovare tanti lavori come chef” (lavo-
rando in una catena di panini) ho sempre risposto “ no non sei un chef, fai solo panini in una catena” “provalo a dire ad un cuoco italiano se sei uno chef”. C'è una leggera differenza di qualità. Io amo l'Italia proprio per quella differenza di qualità! È il paese più bello al mondo e dove si vive meglio a mio avviso, anche se siamo degli idioti su tanti aspetti, mi permetto solo di dire che mi piace viaggiare, continuerò a viaggiare e consiglio di viaggiare o meglio vivere fuori per apprendere cose nuove, migliorare se stessi e magari per trovare il modo di migliorare il nostro paese. Personalmente sento l'esigenza di dare un contributo per migliorare il mio paese nei suoi lati oscuri, voglio quindi andare per tornare. Cosa mi è mancato dell'Italia? Il bidet, la mortadella, i genitori che invecchiano e non ci sei, oppure i nipoti che crescono e tu non ci sei. In generale dagli inglesi potremmo apprendere tre cose per migliorare: il loro sistema meritocratico, la loro apertura mentale (ma forse è una cosa più londinese che inglese) e i modi gentili e cortesi con cui si confrontano. La meritocrazia la si può percepire in ogni ambito e non si ha mai la sensazione che la situazione per cui si viene valutati sia in qualche modo non trasparente. L'apertura mentale soprattutto a Londra è sorprendente, tutti possono trovarsi di fronte a qualsiasi situazione senza scomporsi di un centimetro, non esiste lo scandalizzarsi. I modi gentili e cortesi sono una caratteristica dei nostri amiconi oltre Manica e vi confido che a volte fanno molto molto piacere, altre volte sembra proprio di essere presi in giro!
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Dal diario di una neolaureata di Penelope Gruppo 11
12 gennaio 2015 Il viaggio della speranza “… e farai un viaggio in una città del nord dove trascorrerai giorni indimenticabili”. Me lo diceva l’oroscopo della scorsa settimana che avrei viaggiato, e ora, ancora incredula, stò romanzando il mio viaggio della “speranza”. Al telefono un addetto al personale, della sede di Milano dell’Azienda dove avevo fatto il mio primo colloquio lo scorso mese, mi comunica che avrebbero piacere di potermi riascoltare alcuni dirigenti, e decidere di conseguenza se sono adatta a ricoprire la figura professionale che cercano per la succursale di Perugia. Ho sentito il cuore che andava all’impazzata spinto dalla speranza di poter portare a casa la vittoria al primo colpo. L’appuntamento fissato per metà mattina mi ha impedito di cavarmela con una giornata, andata e ritorno. Non c’era un treno a disposizione. Sono dovuta partire il giorno precedente e pernottare in albergo per poter essere lì in tempo, alle undici, senza essere troppo in anticipo, perché non volevo dare l’impressione di essere una persona ansiosa. La sede, in pieno centro dentro al quadrilatero della moda, nel cuore pulsante della città, è moderna e luminosa. Un bel sole mi ha fatto sperare che non poteva esserci auspicio migliore nei miei confronti. Il sole che scaldava l’aria del mattino di una città a me praticamente sconosciuta, non me l’ha fatta sentire per nulla estranea. Milano è una bellissima città, elegante, pulita, la gente và un po’ di corsa ma è abbastanza gentile. Peccato, a Milano non c’è Matteo, né mamma, né papà. Se non fossi così legata alla mia terra, potrei prendere in considerazione l’idea di trasferirmici. Ancora una volta ho dovuto rispondere alle stesse domande che mi aveva rivolto il precedente esaminatore. Il primo era un vecchio signore che aveva le mani lievemente tremolanti (ho avuto l’impressione che fosse malato di parkinson) e poi con una donna di una cinquantina di anni che non mi è sembrato avesse simpatia per me (che era una donna l’ho capito quando mi ha dato il suo biglietto da visita. Vestiva e parlava come un uomo). Comunque entrambi molto educati, un po’ meno sorridenti. “Le faremo sapere comunque, anche se l’esito del colloquio dovesse essere negativo. Intanto la ringraziamo per la disponibilità accordataci”. “Le faremo sapere” non è per nulla incoraggiante. Sono passati quasi sette giorni e nulla, nessuno mi ha chiamato. Io mi trattengo dal farlo ma credo che se un’Azienda non ha la sensibilità di avvisare chi ha investito soldi (il viaggio era a carico mio e fra biglietto del treno ed il costo della camera d’ albergo se
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ne sono andati quasi 250 euro) e speranze, non è un’Azienda che dimostra di avere rispetto per i propri dipendenti. Se non si dovessero far sentire, meglio, non avrò la sensazione di aver perso chi sà cosa. Non ero io a non essere alla loro altezza, erano loro che come esaminatori non valevano una ceppa. 22 gennaio 2015 Voglia di tenerezza Lo sapevo che non era facile, ma non pensavo fosse così difficile incassare una sconfitta: “Si ringrazia la S.V della disponibilità accordata, ma per ricoprire il posto di coadiutore amministrativo - risorse umane della ns. Sede in Perugia è stato scelto un altro candidato. Abbiamo avuto modo di conoscere il Suo livello di preparazione professionale che è risultato essere di ottimo livello e si ritiene di poterLa tenere in conto per altri ruoli all’interno dell’Azienda qualora Lei acconsentisse di venire nuovamente contattata nel caso se ne presentasse l’opportunità. Pertanto, ci tenga comunque informati sulla Sua vita professionale aggiornando il Suo c.v. Si coglie l’occasione per inviarLe cordiali saluti”. Il primo vero no della mia vita è arrivato con una mail odiosa e impersonale. Fino ad ora il mio ego si era nutrito dell’amore dei miei familiari. I miei genitori che mi hanno sempre supportato ed accontentato. Anche all’università non ho mai incontrato vere difficoltà. Mi sono innamorata di un ragazzo che mi corrispondeva. Nulla e nessuno mi hanno abituato a resistere allo scoramento che subisce chi si sente sconfitto. Comincio a pensare che forse questa non è la mia strada e di lasciar perdere. L’idea di arrendermi e accettare di entrare negli uffici di una banca, per non trovarmi un domani a rimpiangere di non aver accettato un aiuto che molti altri al contrario avrebbero desiderato, comincia ad insinuarsi nella mia mente. Ricordo che ero piuttosto piccolina quando mi bruciai con il ferro a vapore di mamma. Ustione di secondo grado sul dorso della mano destra. Mamma ebbe la prontezza di mettermi subito la manina sotto l’acqua fredda. I medici del pronto soccorso dissero che grazie al suo giusto primo intervento presto non si sarebbe vista la cicatrice. Allora, dopo aver pianto a lungo per il dolore, mi addormentai sulle ginocchia di mamma. Brucia, la sconfitta brucia come il vapore del ferro da stiro. Ho ventisei anni, ed oggi me ne sento venti di meno. Oggi, come allora vado da mamma, lei saprà come alleviare questo peso che sento alla bocca dello stomaco.
9 febbraio 2015 Tempi migliori Appena sono uscita dal corso d’ inglese, dato che Matteo ha la partita di calcetto, sono andata a trovare un caro amico di università. Ci siamo laureati con una settimana di differenza perché Gianluigi ha frequentato la specializzazione in Economia e contabilità aziendale. Abbiamo vissuto entrambi gli ultimi due anni in parallelo: mentre frequentavamo e ci preparavamo per gli esami della specialistica, io ho portato avanti il praticantato presso un consulente del lavoro, e lui presso uno studio associato di commercialisti. Ci confrontavamo spesso, ci scambiavamo gli appunti e i libri. Ogni giorno alternavamo alla frequenza e allo studio universitario il lavoro presso i rispettivi studi. E’ stato stancante, ma ci dicevamo che dopo sarebbe stato più facile. Ci infondevamo coraggio, ci consigliavamo, ci consolavamo. Ci dicevamo “verranno tempi migliori”. I nostri “tutor” seppur diversi ci hanno accolto alle stesse condizioni e con le stesse parole: ”Sei qui per imparare, non ti darò un soldo, al massimo solo un piccolo rimborso spese”. Promessa mantenuta e neppure tanto! Ma ci siamo accontentati. La prima esperienza di lavoro è quella in cui non acquisisci soltanto professionalità, ma impari anche a gestire i rapporti con i colleghi. Per le mie ex colleghe ho mantenuto affetto e stima. Pierluigi, quando l’ho chiamato, mi ha detto che mi aspettava al San Magno per un aperitivo. Era un pezzo che non c’ incontravamo, potrei considerarlo un ex collega, eppure questa sera l’ho sentito “fratello”. Appena mi ha visto mi ha baciato spiritosamente la mano come solito. Poi, subito attacca: - “Niente di nuovo all’orizzonte?” , “Ho fatto proprio l’altro ieri un altro colloquio, ma per scaramanzia non ne voglio ancora parlare” – “Neppure con un altro sfigato quanto te?”, “ No, dai che ti stò a dire adesso…figurati non ho detto nulla neppure ai miei, ma se succedesse il miracolo sarai il secondo… o il terzo a saperlo!”. Abbiamo rendicontato anche sugli altri: Gaia ha ancora un paio di esami ma a giugno prossimo ce la farà a discutere la tesi, dopo la morte improvvisa della madre ha avuto un lungo e comprensibile periodo di crisi; Lucia ha gettato la spugna, ha trovato lavoro come assistente di poltrona in uno studio dentistico, e si è sposata col suo fidanzato storico; per Mirco tutto come previsto, il padre l’ha messo a lavorare nel suo studio di consulenza prima ancora di laurearsi e stà per dare l’esame per iscriversi all’albo – “scommetttiamo che ce la fa al primo colpo?”. E noi? Gianluigi l’indomani mattina molto presto sarebbe andato a Roma con il fratello che faceva il facchino per una ditta di traslochi, e qualche volta lo portava con lui per fargli guadagnare qualcosa. “Non è proprio quello che sognavo, però mentre aspetto
quella dannata convocazione per revisore contabile…ho imparato a non vergognarmi di nulla, domani mi danno 150 euro. Ci faccio la settimana senza rompere a casa”. Vorrei avere il suo coraggio, ma la paura che pur di guadagnare possa distogliendomi dal mio vero obiettivo mi terrorizza. A casa con i miei non mi manca nulla eppure Dio sa se desidero rendermi indipendente, ma non ad ogni costo. Sono convinta che tutte le rinunce che faccio oggi mi verranno ripagate con gli interessi. E mentre lui parlava ero lontana con i miei pensieri e la paura di restare fregata dalla mia ostinazione mulesca. Ci siamo lasciati augurandoci tempi migliori. 16 febbraio 2015 Penelope esiste I miei è da qualche giorno che li evito. Da quando hanno ricominciato a “suggerire” opportunità meravigliose per il mio futuro. Sono quasi certa che mia madre mi controllava anche la posta elettronica. Non gliel’ho chiesto, tanto avrebbe detto che sono diventata oltre che insopportabile anche paranoica. Comunque io per sicurezza ho cambiato la password d’accesso. Non perché voglio avere segreti con loro ma le mie delusioni non voglio che diventino le loro. Mio padre mi ha addirittura detto “intanto che aspetti di trovare un lavoro perché non fai un figlio? “. Lui mi sbalordisce, mamma mi innervosisce. Adesso si è messa in testa di farmi riprendere in mano i libri per preparare l’esame di iscrizione all’Albo dei Cconsulenti del Lavoro. “Non sarà esattamente quello che avevi in mente, ma ai miei tempi si diceva:, impara l’arte e mettila da parte”. Forse ha ragione Matteo quando mi dice:“Non te la prendere lo fanno perché ti vogliono bene, però io uno scherzetto glielo farei: vai a fare la barista, vieni ad abitare con me e ti rendi indipendente. Poi quando meno te lo aspetti il lavoro giusto arriva e magari ci sposiamo pure!”- allora gli ho detto:-“perché tu una barrista non la sposeresti?”. Ma quando meno ve lo aspettate, cari mamma e papà, caro Matteo, oggi, il lavoro per me, arriva. Torno ora dall’ultimo colloquio con una agenzia interinale alla quale mi ero rivolta qualche giorno fa per consegnare il mio c.v., e …incredibile ma vero mi chiedono loro di lavorare per loro come recluting del personale. Contratto a tempo determinato per sei mesi, poi si vedrà…Mi hanno messo in mano dei fogli con l’elenco dei documenti da presentare qualche giorno prima della stipula del contratto. La prossima settimana inizio. Penelope non sei più una dei sei milioni di italiani sfiduciati e disoccupati, un numero, una statistica, senza volto né nome. Penelope non stai più nel mucchio. Penelope ti sei laureata da soli tre mesi. Penelope sei felice perché i tuoi sforzi sono stati apprezzati. Penelope esisti e fai il tifo per loro!
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Storia naturale e innaturale della Fame di Sara Mirti
Introduzione
La fame è una forza avvolgente, onnipresente a questo mondo, qualcosa che ci riguarda come singoli e come comunità. È un bisogno il cui soddisfacimento totale potrebbe non accadere mai, nemmeno dopo la nostra morte. Le anime dei morti, infatti, così si narra in molti paesi, quando tornano hanno fame e sete, hanno desiderio di rinfrescarsi e di saziarsi, anche se a volte bastano quantità impercettibili di cibo, o, a volte, visto che quello dei morti è una sorta di mondo alla rovescia, il cibo di cui possono nutrirsi non è altro che fetido scarto. Anche quando non si ha più un corpo dunque, e nonostante il fatto che le anime debbano mantenersi la coscienza leggera per poter viaggiare fino all’altro mondo, la fame non smette mai di sollecitare gli umani desideri. Possiamo avere soltanto l’illusione di controllare la nostra fame, di interromperne il flusso…in realtà essa non fa che spostarsi da un aspetto all’altro della nostra vita, si trasforma: quando ci sentiamo sazi diventa, per esempio, fame non più di cibo, ma di sonno, quando siamo riposati invece, diventa fame di azione, bramosia di divertimento; quando siamo sazi anche di divertimento, essa allora si trasforma in desiderio di quiete. La fame non è soltanto fame propriamente intesa, è anche desiderio viscerale, è sete, sonno, curiosità, passione, confronto, voglia di battaglia, è stupore, debolezza e furia cieca. È l’ingrediente segreto con cui è stato impastato ogni essere umano. La fame è odore, sapore, tatto, suono, visione, sogno, incubo, azione, stasi... tutto è fame e il linguaggio del-
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la fame che ogni creatura padroneggia appena venuta al mondo, è la prova di una stessa matrice vitale che avvolge ogni essere dell’universo. La materia ha fame di energia e di tempo, gli esseri umani hanno fame di racconti, di miti fondativi, di dèi, mentre gli dèi hanno perennemente fame di racconti umani che narrino di loro e ne perpetuino l’esistenza. La vita si rinnova solo perché la fame che la muove non è mai di uno solo: ogni elemento ha insieme fame di vita e di morte, ogni elemento divora e viene divorato, mentre la vita è destinata a rimpastarsi senza pace e senza certezze. “La fame è un paese in cui entriamo ogni giorno, come pendolari che attraversino un confine amico. Ci svegliamo affamati. E sopportiamo i morsi della fame per alcuni minuti prima di rompere il digiuno. Più tardi possiamo saltare il pranzo o la cena. Possiamo digiunare per motivi religiosi, o prima di un intervento chirurgico. Possiamo fare un digiuno di tre giorni per depurare il nostro corpo dalle tossine e dalla noia. Possiamo impegnarci in un digiuno persino più lungo, per imitare Gesù nel deserto o per perdere peso. Possiamo intraprendere uno sciopero della fame. Se siamo naufraghi in mezzo al mare, se abbiamo perso il lavoro, se siamo in guerra, potremmo avere fame non per scelta” (Sharman Apt Russell, “Fame. Una storia innaturale”, trad. S. Burlot, Codice Edizioni, Torino 2006, p. 3).
Il mito della fame
Ovidio ci racconta che Carestia ha il suo rifugio da qualche parte in quella che fu la vasta Scizia, e che con lei
vivano Pallore, Brivido e Gelo, suoi degni compari. Eppure fame e carestia non si limitano a operare in un solo paese, esse pervadono di sé interi mondi e persino galassie, oscurità e luce. Nulla può sfuggirgli, così come tutto ricade sotto l’influenza apparentemente nefasta ma fondante della Necessità. A chi spetta la colpa primigenia per l’esistenza della fame dunque? Forse a Eva che non si accontentò di tutti i frutti dell’Eden, ma pretese per sé anche l’unico che le era proibito? E come non ricordare Erisittone, figlio di un re tessalo, che per la sua sfacciata empietà venne punito dagli dèi con una fame terribile, inesauribile, che lo spinse infine a divorare se stesso? Infatti, più egli mangiava, più diventava magro, famelico, rinsecchito... proprio come la “lupa” che Dante incrocia nella selva oscura. Non dimentichiamoci che se “amore” e “morte” hanno una cosa in comune, è proprio una bramosia impossibile da appagare una volta per tutte. Non a caso Eros è figlio della Povertà e dell’Ingegno (Poros, scaturito durante le nascita della dea Teti, direttamente dalla massa informe e pericolosamente creatrice della materia nascosta tra il giorno e la notte, elemento tra gli elementi; esso è anche rappresentazione della “via”, a cui però si deve accompagnare un limite), che fatalmente si sono uniti...da quella unione, se non fame vera e propria, scaturisce comunque l’attrazione, il desiderio indistinto, insaziabile, e quindi, perché no?, anche il nostro potente innamoramento nei confronti della fame.
Dal corpo spinato, fili si arrampicano in aria con la prova dell’urlo. Come una primitiva formula di povertá, tutto il cibo si scioglie nelle gocce per il cuore, tutto il sonno s’incrosta alla materia, quell’incontro tra raptus e firmamento dove ritorniamo cancellati. Milo de Angelis, “Annuario”. Traduzione di Erika Reginato Muñoz.
A quest’innamoramento spettano forse tutte le responsabilità per la venuta incontrastata dei suoi morsi nel nostro mondo. Non a caso il sistema di comunicazione del nostro corpo, ormai abbastanza semplice da decifrare, basa i suoi messaggi, le sue risposte, i suoi aggiornamenti sugli stimoli opposti della fame e della sazietà. Per ogni ormone che urla “Mangia!”, ce ne sarà un altro che sussurrerà alle sue spalle un timido “Basta così”. Ognuno di tali segnali è influenzato “in modo complesso dalla genetica, dalla chimica e dalla cultura” (Sherman Apt Russel, ibidem); ma, mentre il segnale di stop può non arrivare o arrivare a noi in maniera disturbata, il segnale della fame, come si può immaginare, è infinitamente più difficile da sopprimere. “Noi esseri umani siamo onnivori, con un cervello più grande del normale che
richiede moltissima energia. Il modo in cui ci procacciamo il cibo non è qualcosa in cui ci siamo specializzati; più che altro siamo sempre vigili, sempre pronti, con una pietra o con un bastone stretti in pugno” (Sherman Apt Russel, ibidem); oppure siamo pronti ad attaccare con un sorriso, un ghigno, con una parola o con qualsiasi atteggiamento e con qualsiasi oggetto ci capiti a tiro. Quando ci sentiamo lo stomaco in preda ai crampi, le labbra secche, la testa che gira, le gambe deboli...abbiamo fame oppure siamo in balia del desiderio? E presi dalla disperazione, convinti di utilizzare le nostre ultime forze, quanto e come ci batteremmo? Le aree del nostro cervello che si attivano quando abbiamo fame sono le stesse che si attivano anche quando abbiamo sete, o proviamo dolore, o lottiamo per respirare.
La fame produttiva
Il nostro bisogno più profondo, la nostra fame di vita è qualcosa che agisce in modo cosciente e incosciente, cingendoci d’assedio. Anche se “La divisione in cosciente e cosciente del nostro essere, postulata da alcuni, non può dirsi del tutto esatta...io direi piuttosto che è fuorviante: è proprio attraverso la nostra parte ‘incosciente’ che giungono con maggiore efficacia tutti gli stimoli, trasformandosi in azioni senza che quasi ce ne rendiamo conto. Così ad esempio il nostro cuore batte senza che ci sia bisogno dell’intervento della nostra volontà per farlo funzionare. Così pure l’assimilazione del nutrimento nello stomaco e nell’intestino avviene senza il concorso della nostra volontà. Tuttavia siamo sempre noi che provvediamo a far battere il cuore e a far funzionare
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il nostro stomaco, ma ciò avviene automaticamente per effetto della nostra subcoscienza alla quale la nostra volontà non può comandare direttamente” (T. Menegazzi, “L’ipnotismo”, Nerbini, Firenze 1943, p. 46). Cosa dà personalità alla nostra fame, cosa la distingue come “nostra” visto che non possiamo comandarla a piacimento? La specificità del nostro appetito. Fame e appetito non sono necessariamente sinonimi... l’appetito ci spinge a scegliere il cibo (per il corpo o per l’anima) che preferiamo. Oppure ci spinge, non avendo trovato nient’altro di ugualmente soddisfacente, a divorare noi stessi, a fagocitare i nostri sentimenti, le nostre parole, persino il nostro destino. Lo sa bene Giona che, raggiunto dalla volontà di Dio e pervaso dal desiderio di non eseguirla, si rifugia in un mutismo desolato, rifiutando ogni comunicazione esterna. La sua fuga però sarà inutile: egli che tiene chiuse dentro di sé le parole di Dio e che non vuole portarle nella città di Ninive per paura di essere ucciso, per un breve periodo si trasformerà in preda, verrà fagocitato da un grosso pesce e, per poter tornare alla vita, dovrà essere letteralmente vomitato fuori. Forse sarebbe servito uno stomaco più grande persino di quello della balena per poter digerire, assimilare, tanto il profeta quanto la profezia divina che portava in sé. Il desiderio di Dio di parlare con gli uomini, la sua “fame” verso Giona si è rivelata più grande del mare, grande quanto il vuoto disperato che Giona prova dentro di sé e contro il quale non riesce a trovare rimedio. Alla fine la profezia rivelata alla città non si compirà, a causa del pentimento del popolo di Ninive... Parole apparentemente “a perdere” che lasciano nel profeta qualcosa di simile a una “frustrazione della fame” o del desiderio. La fame, si sa, si accompagna sempre ad alti e bassi dell’umore. “Hegelianamente il desiderio dipende dall’Altro, ci trascina verso l’Altro e produce una mancanza, il tempo è il luogo della trasformazione, e il tempo è il Desiderio, tempo senza durata, progressivo annichilimento del mondo da parte del soggetto desiderante. Desiderio dunque come negazione che indica una differenza ontologica tra la coscienza e il suo mondo, differenza che non può essere superata” (Mara Montanaro, “Desiderio Corpo - Riconoscimento nella produzione di Judith Butler”, d & r, Torino
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2010, p.12). Il desiderio ci trascina verso l’ignoto, verso l’altro, sia esso una persona, un insieme di persone di una città lontana, una bestia marina o Dio stesso. Non possiamo più scegliere. La fame in qualche modo dà vita alle nostre personalissime profezie: sappiamo già che non potremo evitarla, ma che dovremo convivere con i suoi continui strattoni, i suoi calci e i suoi pugni alla testa e allo stomaco. D’altra parte, “Il sistema digestivo emette talmente tanti segnali, e con una tale verve e indipendenza, da essersi guadagnato la definizione di ‘secondo cervello’ secondo il dottor Michael Gershon, che contribuì a scoprire il campo della neuro gastroenterologia e che è dedito ad affermazioni quali ‘è in atto un rinascimento delle viscere’ o ‘è mattina nell’addome’. Il sistema nervoso gastrointestinale contiene più cellule nervose del midollo spinale ed è in grado di lavorare in totale autonomia, senza aiuto del cervello: ha dei riflessi, invia, riceve e coordina impulsi nervosi, e agisce sulla base di tali informazioni” (Sherman Apt Russel, op. cit., p. 19). A questo punto ci sarebbe da chiedersi se anche le nostre viscere conoscano una propria etica... Sembrerebbe che, in fondo la conoscano: ciò che deve essere digerito, a causa del suo potenziale caotico, infatti, viene tenuto a debita distanza dal resto del corpo, proprio come si farebbe con un elemento perturbante che volesse entrare in una società ordinata. “Le pareti del tratto gastroenterico devono consentire a certe molecole [...] di essere assorbite dall’organismo, ma impediscono al corpo stesso di ‘penetrare’ nello stomaco e negli intestini. ‘Per quanto paradossale possa sembrare’, scrive Gershon, ‘l’apparato digerente è un tunnel che permette all’esterno di percorrerci. Tutto ciò che sta nel tubo digerente in realtà è al di fuori dei nostri corpi’. Se il vostro stomaco ha un’emorragia potete morire dissanguati. Analogamente, l’acqua e il cibo che percorrono le viscere senza essere assorbite, è come se non fossero state mai bevute né mangiate” (Sherman Apt Russel, ibidem). Il nostro sistema gastroenterico, dunque, alimenta e sostiene l’intera realtà del nostro corpo e della nostra psiche. I filosofi chiamano il regno in cui solo il cibo ha libero accesso “corpo recessivo”, una dimensione corporale di cui siamo davvero ben lieti di non essere i diretti responsabili: ci affidiamo alla saggezza del
nostro corpo e per lo più lo lasciamo fare. Ma...”Se non siamo responsabili noi, chi lo è? La risposta può essere varia: la corteccia cerebrale, il sistema circolatorio, il sistema respiratorio, i pancreas, le pareti intestinali, i nervi, i muscoli, gli ormoni, il gusto di una mela, la parola ‘mela’, il ricordo di una mela. Noi siamo una Gestalt. Aristotele ci definiva i ‘corpi animati’, corpi viventi e vissuti. Il neurobiologo Antonio Damasio ci ha ricordato acutamente che ‘il sé è uno stato biologico ripetutamente ricostruito; non è un minuscolo individuo (il famigerato omuncolo), che se ne sta nel nostro cervello a contemplare quel che succede. [...] Noi decostruiamo il mondo e lo ricostruiamo, creando tessuti e ossa, movimenti e pensieri. Quindi usiamo il pensiero per rifarlo più e più volte al giorno, tutti i giorni” (Sherman Apt Russel, op. cit., p. 22). La gola e la fame a volte si intrecciano e determinano i nostri appetiti...si può dire che spesso in società riserviamo agli altri lo stesso scetticismo che, da bravi onnivori, riserviamo anche al cibo. Quindi, questa fame che ci spinge a sopravvivere e a costruire una realtà adatta a noi, questo cieco desiderio, è costruttivo? Esistono davvero dentro di noi realtà psicofisiche simili a delle ‘macchine desideranti’ in grado di produrre qualcosa di utile? “[...] Quando noi parliamo di macchine desideranti, dell’inconscio come di un meccanismo del desiderio, intendiamo dire che desiderare consiste in questo: fare dei tagli, lasciare scorrere certi flussi. [...] Guattari e io siamo partiti dall’idea che bisognava introdurre la produzione nel desiderio stesso. Il desiderio non dipende da una mancanza, desiderare non è mancare di qualche cosa, il desiderio non rinvia ad una legge, il desiderio produce.[...] Tutto questo in termini diversi significa forse che il desiderio è rivoluzionario. Ciò non significa che voglia la rivoluzione. È meglio di questo. È rivoluzionario per natura perché costruisce delle macchine capaci, inserendosi nel campo sociale, di far saltare qualcosa, di smuovere il tessuto sociale” (Guattari, “Appendice per l’edizione italiana”, “Capitalismo e Schizofrenia” in “Psychanalyse et Transversalitè. Essais d’analyse institutionnelle”, Francois Maspero, Paris, 1972; trad. it. di Levi e Muraro, “Una tomba per Edipo. Psicoanalisi e metodo politico”, Bertani, Verona, 1974, pp. 343-344).
La fame dei popoli
Non sono solo i corpi ad aver bisogno di comunicare la propria fame o la propria sazietà, anche le nostre moderne società hanno bisogno di comunicare ed esorcizzare il concetto della fame; ma affinché funzioni la comunicazione deve essere il mezzo e non il fine, la via e insieme il limite. Oggi invece la comunicazione della fame rischia di divenire mezzo e fine, strumento del desiderio e oggetto desiderato, comunicazione malata, autoreferenziale. Ma se anche noi smettessimo di parlare della fame e dei suoi troppi figli, solo per questo essa smetterebbe di esistere? Che accade quando un’intera comunità si trova a soffrire la fame? Come cambiano le regole sociali e i rapporti personali? Gli antropologi hanno studiato da vicino numerose popolazioni colte, purtroppo, da una fame endemica, traendone diversi risultati: alcune società soffrivano di “frustrazione da fame” dopo una feroce carestia, quindi, anche a distanza di molto tempo dalla catastrofe, gli individui avevano perduto il gusto per il cibo; non mangiavano in compagnia, ma s’ingozzavano appartati, non avevano preferenze di cibo e non avevano sviluppato ricette complesse, soltanto prediligevano una maggiore quantità rispetto ad una minore. Oppure, laddove il cibo dipendeva soltanto da pochi se non da una singola risorsa (per esempio l’ensete, o “falso banano” dei Gurage, in Etiopia sudoccidentale) alcuni immagazzinavano quasi convulsivamente il cibo in eccesso, senza ri-distribuirlo, anche a costo di mandarlo a male. Ma non c’è da stupirsi...Abele, figlio di Adamo ed Eva, il cui destino era quello di venire sacrificato e di veder quindi versata la propria vita, porta la parola “spreco” all’interno del proprio nome; può considerarsi legata al concetto di spreco, dunque, la sacralità di ogni sacrificio, così come il compimento di ogni vita umana che abbia seguito o meno il proprio destino. I Kalauna di Papua Nuova Guinea, tanto per fare un altro esempio, conoscono un potente e temutissimo incantesimo che induceva nella vittima una perenne sensazione di fame tanto vergognosa quanto potenzialmente letale: non solo, infatti, spingeva la vittima persino a rubare negli orti degli altri, ma poteva spingerla a mangiare fino a morire. Il caso più emblematico comunque rimane quello, estremo, dei circa 2000 Ik descritti da Turnbull, situati al confine settentrionale da l’Uganda e il Kenia. Ognuno dei loro villaggi era afflitto da una fame incurabile e questo era causa del di-
sintegrarsi di ogni legame familiare e sociale. A tre anni i bambini venivano buttati fuori di casa e si univano in bande di età crescente per procacciarsi il cibo e difendersi dagli adulti. Vecchi (chiunque sopra ai trent’anni poteva essere definito tale) e malati venivano lasciati a morire da soli. Le persone erano fredde e preferivano condurre una vita solitaria; il matrimonio era per lo più un modo per farsi aiutare a costruire una capanna. In uno scenario del genere in cui non c’era spazio né per l’umanità né per i riti sociali, chi non non si fosse conformato a tali crudeltà sarebbe destinato a soccombere. Proprio questo accadde ad Arupa, una ragazzina di 13 anni, ossuta e con la pancia gonfia, che desiderava più di ogni altra cosa vivere a casa coi genitori. Ella tornava sempre presso il loro recinto e quelli, esasperati, alla fine la fecero entrare nella capanna, la chiusero dentro e se ne andarono; quando tornarono dopo una settimana la piccola era morta di fame. I genitori buttarono il suo cadavere in un fosso e lo coprirono di pietre; naturalmente non vi fu alcun funerale. Quello degli Ik però è un caso limite, il caso di un popolo all’ultimo stadio della fame, una società destinata a scomparire (lo stesso lavoro di Turnbull non cessa tutt’ora di attirare su di sé critiche feroci). La fame può essere naturale, breve o prolungata, indotta, può essere persino una forma “d’arte”
o un fenomeno di devozione religiosa, può essere dovuta a cause esterne o interne all’individuo o alla società, ma quando essa si rivela un fenomeno che affligge un’intera massa di persone, come si può affrontare? Alla fine della seconda guerra mondiale, per esempio, rialimentare persone, civili o prigionieri, che non si nutrivano a sufficienza da mesi o anni è stato un problema di natura medica e umana. C’è voluto l’Esperimento Minnesota, portato avanti nel 1944 presso Il Laboratorio d’Igiene e Fisiologia dell’Università del Minnesota da Ancel Keys, o “scopritore” della dieta mediterranea, per tradurre la parola fame in un linguaggio scientifico credibile, eppure ancora dobbiamo capacitarci della complessità della fame, della sua essenza di spartiacque. Alla fame appartiene insomma quel “rivoltamento” già minacciato alla città di Ninive; un rivoltamento che non è mai distruzione, ma l’effetto di una distruzione, un mutamento estremo dovuto a cause esterne ma profondamente connesse alla nostra vita. Un uomo che si mettesse a predicare risulterebbe essere immediatamente un altro uomo; anche i cuori possono rivoltarsi improvvisamente nel petto, la pelle ferita può rivoltare il proprio colore, così come il sole può rivoltarsi in tenebra profonda (non è un caso che ad Ezechiele Dio vieti di rivoltarsi su un fianco).
Drammaturgia originale LIS di Dario Pasquarella
Prima del famoso Congresso di Milano (1880) i sordi nelle scuole loro dedicate potevano sviluppare la loro cultura, nei suoi diversi generi, a un livello alto; poi però, con l'affermarsi esclusivo dell'oralismo, i segni, vale a dire la cultura, la letteratura dei sordi (canzoni, poesie, teatro....), le filastrocche ecc., sono stati penalizzati e l'intera potenzialità espressiva delle persone sorde, la loro identità, è stata repressa, relegata alle pause tra le lezioni e agli scambi di vita quotidiana. Abbiamo dovuto aspettare le ricerche sulla LIS portate avanti dal CNR a partire dal 1980 per veder rifiorire i vari generi letterari LIS. La LIS, dunque, è già utilizzata per tradurre drammaturgie nate o tradotte in lingua italiana, in un contesto che possiamo chiamare “teatro-LIS”. All’interno del teatro-LIS possiamo distinguere tra regia udente (che rimarrà più fedele al testo italiano, rischiando così che il contenuto non arrivi come dovrebbe al pubblico sordo) e regia sorda (più attenta al messaggio veicolato dalla lingua dei segni che alla fedeltà al testo in italano). La differenza tra il teatro-LIS (una forma di teatro che usa una drammaturgia scritta originariamente in italiano) e il teatro sordo-LIS è la forte presenza al suo interno della cultura sorda. Il pubblico sordo del teatro-LIS, infatti, non riuscirà a cogliere tutte le emozioni che sono veicolate dal testo in italiano, o ci riuscirà soltanto in piccola percen-
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Immaginate che il “mare magnum” della conoscenza umana, sia un mare reale e che sia privo di qual si voglia guardiano. Immaginate che dentro vi galleggino, completamente in balia delle onde e del vento, ritagli di giornali, interi libri, appunti, video, oggetti, pensieri e teorie di ogni sorta; e addirittura persone: attori, autori, registi… L’immagine di un gruppo di lavoro potrebbe essere la stessa. Il vero “mare” l’abbiamo dentro di noi: quando non riusciamo a comprendere e a farci comprendere è come se fossimo sott’acqua, “muti come pesci” (come si dice, sia pure malamente); quando invece, stimolati da un progetto o da una richiesta precisa, troviamo qualcosa che ci sorprende, allora è come se potessimo riemergere per riprendere finalmente fiato.
tuale, mentre il pubblico udente sarà comunque in grado di cogliere gli elementi della lingua parlata che permangono nella forma tradotta del testo. Il teatro sordo-LIS, invece, è una forma di teatro che usa la LIS quale motore della creazione di nuovi testi, nati dalla ricerca e dal lavoro di attori che abbiano una profonda conoscenza di questa lingua e della cultura che ruota intorno ad essa. Esso si basa cioè su una drammaturgia originale, vale a dire su un testo nato già in LIS, un testo che ha assorbito, nell’atto stesso della sua stesura, la cultura sorda, i suoi punti di riferimento e il suo “stile”. Il teatro sordo-LIS, tuttavia, risente della mancanza ormai cronica di una specifica ricerca scientifica che gli permetta di svilupparsi e progredire. Il teatro sordo-LIS ha tutti i requisiti culturali e formali necessari per eccellere; si differenzia da quello “udente” soltanto per il fatto che usa un canale di comunicazione visivo. Beneficiario di questa mia ricerca sarebbe un pubblico sia sordo che udente che conosca o non conosca la LIS, un pubblico a cui le emozioni insite nell’opera teatrale arrivino senza distinzione. Ad ogni modo, accontentarsi di una semplice uguaglianza qualitativa tra il teatro “udente” e il teatro sordo-LIS sarebbe un errore: tale parità dovrebbe essere, nelle intenzioni di chi scrive, soltanto uno degli effetti della produzione-fondazione legata alla ricerca. Il mio progetto è piuttosto quello di
creare un teatro attraverso il quale le persone possano decodificare se stesse e le proprie emozioni, trasformando tutto questo in nuova letteratura. L’effetto principale che vorrei ottenere da questa ricerca è quello di una fondazione vera e propria. Quest’idea di fondazione (già insita nella natura stessa dell’arte teatrale) si sviluppa in due momenti, attraverso due generi diversi di teatro contemporaneo. Il “teatro sordo-LIS” si basa sulla ricerca inerente la LIS, e utilizza tanto la LIS quanto l’italiano, al fine di creare testi e strutture teatrali originali che siano aperti anche a interpolazioni di tipo mimico o performativo-universale, ma senza perdere la propria caratterizzazione e il proprio impianto culturale. Nel mondo udente la drammaturgia può basarsi sulla ripresa di testi storici, classici, ma anche sulla scrittura di testi originali. Fino ad ora non ci sono state composizioni nate appositamente per essere messe sulla scrittura di testi originali. Fino ad ora non ci sono state composizioni nate appositamente per essere messe in scena utilizzando la lingua dei segni e la sua espressività specifica, nonostante il fatto che vi siano molte difficoltà nel tradurre fedelmente un testo nato in lingua italiana in LIS e viceversa, a causa delle molte, troppe, differenze di struttura e di tempo (tradurre in italiano una poesia o una canzone nata in LIS sarebbe poco efficace ed estremamente noioso).
A volte si rischia che il messaggio non passi, che il testo, malgrado tutti gli sforzi fatti, finisca per non coinvolgere il pubblico, per non emozionare, per non educare. Data la sempre maggiore presa di coscienza da parte delle persone sorde dei propri diritti e della propria appartenenza a una specifica comunità (formata da persone sorde o udenti segnanti), si sente sempre di più l’urgenza della nascita di un teatro d’autore sordo, che consenta di guadagnare tanto al mondo dei sordi quanto a quello degli udenti nuove professionalità e di mantenere la giusta memoria delle professionalità già esistenti. Affinché vi sia una reale parità tra questi due strumenti che sono la LIS e la lingua italiana, è essenziale adottare nelle drammaturgie un punto di vista diverso, visivo, verrebbe da dire “un punto di vista LIS”; è fondamentale cioè che i copioni oltre ad essere riadattati secondo le regole della LIS e della cultura sorda, vengano anche composti direttamente in LIS, utilizzando, là dove possibile, gli spunti offerti dalla propria comunità o dalla letteratura sorda-LIS che potrà essere reperita a tale scopo. In questo modo, sulla scena, le emozioni veicolate dalla parte vocale e da quella segnata della drammaturgia presa in esame sarebbero finalmente fruibili in modo paritario. L’obiettivo del teatro performativo è quello di esprimere il contenuto di un testo usando
esclusivamente il proprio corpo; serviranno quindi delle buone capacità espressive e un’ottima padronanza del proprio corpo. Si tratta di una forma di teatro molto legata agli oggetti e, in misura minore, alla scena. Purtroppo gli artisti o le persone comuni appartenenti alla comunità sorda utilizzano ancora troppo poco questa forma di teatro, che è anche una forma di traduzione efficace per ogni tipo di testo; ma comunque quella della performance si sta diffondendo sempre di più.
Sperimentazioni corporee
In occasione della stesura della mia tesi di Laurea Triennale, mi sono trovato ad analizzare l’efficacia e i diversi effetti di un laboratorio teatrale su dei bambini (sordi e udenti) che vi si approcciavano per la prima volta. Ho chiesto loro di realizzare delle piccole costruzioni di oggetti per stimolare la loro creatività; ritengo infatti che l’abitudine alla manualità possa aiutare a liberarsi da un disagio, da gravi traumi o anche semplicemente dalla timidezza. Il disagio, per esempio, può essere trasferito su un oggetto o su un soggetto; oppure si può trasferire sull’oggetto il proprio trauma, alleggerendosi, e l’oggetto resta lì, come monito, a ricordarci di quel periodo. Per esempio io ogni Natale mi sentivo nervoso ed arrabbiato. In questo periodo era mia abitudine andare a vedere i presepi che
ci sono ogni anno nella zona di Benevento, Caserta e Napoli; finché un anno decisi di costruire il mio presepe. A Napoli, nella famosa via San Gregorio Armeno, comprai i pastori e tutti i materiali necessari, poi tornai a casa come preso da una furia che doveva esplodere! Costruii il presepe pezzo per pezzo, facendo tutto da solo, e alla fine la rabbia svanì. Così capii che un buon modo di tranquillizzarsi era quello di trasferire l’ansia su un oggetto e liberarsene. Negli anni, poi non ho più avuto il tempo di costruire “cose” e ho scelto come luogo della mia catarsi il teatro. Il mio obiettivo è tessere un filo lungo che, partendo da un’emozione del bimbo, successivamente si palesi in un oggetto per poi raccontarsi. Ovviamente questi passaggi sono difficili da far capire a un bambino, e quindi tutto si svolge su di un livello più semplice; ad un lavoro di introspezione che va svolto con gli adulti, si sostituisce il gioco/ oggetto/ racconto per stimolare i bimbi, nei quali non c’è ancora una qualsiasi sovrastruttura. Nonostante i piccoli si liberino di ansie, paure e nervosismo, riversando il tutto sull’oggetto costruito, non possiamo parlare di catarsi, a causa della giovane età dei nostri attori. Dunque la funzione del teatro è di mettere in contatto i bimbi con la loro creatività e renderli consapevoli di tutte le modalità espressive da utilizzare per la costruzione del sé.
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La differenza tra la Lingua dei segni teatrale e il teatro Sordo-LIS Va fatta una netta distinzione tra il livello culturale e il livello linguistico di una forma teatrale. Nella traduzione dall’italiano alla lingua dei segni si avrà sempre una traduzione in cui sarà comunque l’italiano a delineare i contenuti. Infatti se, attraverso una prima traduzione, testi scritti in italiano possono essere espressi in LIS sia da attori sordi che da attori udenti, invece, analizzando il livello culturale e “di comunità” di una platea sorda, è necessario compiere un’ulteriore distinzione tra una traduzione fedele di un testo, per sua natura incapace di raggiungere il massimo dell’espressione emotiva ed espressiva, e una traduzione “poetica”; tra un testo nato in italiano e uno riscritto e ripensato direttamente in LIS. Nella poesia in lingua dei segni, come anche nella filastrocca, c’è un livello espressivo attivo in cui il potere dominante viene detenuto dalla LIS e dalle sue configurazioni. Utilizzando ritmi differenti da quelli propri di un’espressività vocale (o di una traduzione simultanea in lingua vocale), è possibile esprimere un testo teatrale in cui un’eventuale traduzione sarebbe inutile e peggiorativa: andrebbe a sminuire la bellezza ritmica delle configurazioni (in questo caso una traduzione vocale risulterebbe interrotta e mai fluida), e in cui l’unica soluzione potrebbe essere una traduzione consecutiva o attuare una forma di riassunto, o di tecnica musicale che andrebbe a coprire i silenzi della traduzione. E cosa accade per ciò che riguarda il feed-back della platea? Per ognuno il coinvolgimento personale, l’entrare in empatia o meno con il teatro o con la poesia, è differente da persona a persona. Il copione con le sue indicazioni e le tracce di movimenti e comportamenti da attuare, per esempio rispondere al telefono e altre azioni riguardanti il mondo degli udenti, delineano una completa influenza del mondo udente e della fedeltà al copione. Un particolare stile va riconosciuto alla regista sorda Ginetta Rosato che ha sempre optato nei suoi 17 spettacoli per copioni analizzati nella loro forma linguistica e non espressiva e di vissuto. Un altro approccio è quello dell’attore sordo Gabriele Caia, formatosi nel Dams di Bologna, che nel 2008 fece uno spettacolo a Roma dal titolo del suo monologo, senza messa in voce, Pa-Pa, con il significato di “impossibile”, della durata di centoventi minuti. Un elemento che
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purtroppo va a intaccare la ricerca del teatro sordo è la mancata presenza di riprese e prodotti video di tutti quegli spettacoli (oppure delle prove degli spettacoli) di anni passati, che potrebbero determinare una fonte di ricerca e di studio. Gli udenti, i drammaturghi udenti, selezionano e delineano il copione attraverso feed-back di testi presi da libri, da esperienze di storicità e di momenti che potrebbero essere comunque elaborati e riportati in un copione. I sordi drammaturghi invece sono pochissimi, se non del tutto inesistenti. Vorrei però sottolineare che nel campo della drammaturgia il video deve essere la fonte principale a cui il sordo può affidarsi per entrare nel mondo del teatro ed esserne coinvolto. Come per gli udenti esiste, per esempio, una grande selezione di parole e un’ampia scelta di registri in grado di rievocare sonorità e bellezze ritmiche, ugualmente per i sordi si potrebbe raggiungere una profonda ricchezza espressiva attraverso l’utilizzo di filmati di repertorio da cui attingere eventuali spunti.
“Teatro sordo-LIS”
Nel contesto del “teatro sordo-LIS” verrà richiesto di focalizzare l’attenzione sulla creazione o sull’interpretazione di un drammaturgia originale, sulla struttura della LIS e su quella della lingua italiana. Il regista conosce già in partenza l’argomento su cui gli attori, sordi e/o udenti, che posseggano una buona competenza della LIS, dovranno cimentarsi, ma gli attori rimangono “nudi”, inconsapevoli fino alla fine dei propri ruoli e della storia. Verranno affidate loro consegne generiche che gli lascino sufficiente libertà d’interpretazione, ma ognuno di loro ignorerà fino quasi alla fine a cosa e a chi sia legato il proprio “esercizio” (“Come ti muoveresti in uno spazio aperto? Come lo immagineresti uno spazio aperto in cui muoversi a piacimento? E uno spazio chiuso? A quale atteggiamento, a quale movimento o esperienza personale colleghi uno spazio ristretto?” - ecc.); poi verrà data a ciascuno una parola chiave da cui partire per elaborare liberamente le proprie interpretazioni, alla graduale scoperta di se stessi e del proprio ruolo sulla scena. In questo modo il regista (che ha scelto l’argomento) continuerà sempre ad avere tra le mani “l’ago” per tenere insieme le varie scene e per stimolare gli attori a dare il massimo, ma saranno gli attori stessi a cucirsi addosso, quasi senza accorgersene, la seconda pelle del proprio personaggio e soltanto alla fine di tale operazione verranno
svelati i ruoli di ciascuno. Lo scopo fondamentale è quello di formare un gruppo affiatato consapevole delle proprie possibilità. L’aspetto più interessante di questo processo è che, una volta raggiunti i risultati desiderati, tutti, il regista e gli attori, dovranno mantenere un certo grado di flessibilità (frutto di un buon lavoro di training iniziale) per ciò che riguarda la messa in scena, dipendendo quest’ultima dall’ampiezza e dalla forma del palco, dalle caratteristiche del teatro, ecc.
La strutturazione del copione
Attraverso un’esercitazione del corpo e della mente, l'attore può conquistare un livello attivo di conoscenza di sé e delle sue capacità: la sua performance sarà dettata da una sfida iniziale tra se stesso e tale tecnica. Completato questo passaggio, in cui ogni attore dovrà impersonare ogni ruolo possibile, si potrà costruire il copione, definire la struttura dello spettacolo, assegnare finalmente le singole parti e formulare il giusto livello di accessibilità per un pubblico udente e sordo. Per prepararsi a un eventuale spettacolo, gli attori dovranno affrontare una fase di training intensa, in cui, oltre che ad esercitarsi col corpo e con la voce, verranno girati, con la “solita” tecnica della telecamera fissa (indispensabile per raccogliere “videoappunti”, vale a dire i documenti di partenza di un primo lavoro drammaturgico) i video dei loro momenti di performance. Alla fine di questo percorso si svolgerà la fase di vera e propria costruzione di una drammaturgia originale. Verranno raccolti i video, le opinioni, si prenderà nota delle difficoltà o delle abilità emerse, ci si confronterà attraverso le prime stesure del testo, ecc., ma la cosa più importante è che la LIS e la lingua italiana verranno trattate e considerate a pari livello. Il regista, a questo punto, potrà utilizzare tutto il materiale raccolto per mettere a punto la drammaturgia vera e propria e lo farà aiutato dalla presenza sul campo, fin dal primo giorno, di un/una curatore/curatrice (udente) del testo, che si occuperà di prendere appunti e colmare i vuoti delle video-narrazioni. In questo modo verrà alla luce una drammaturgia nata dalle idee, dal confronto, dalle performance e dalle strutture della LIS e dell’italiano. Una volta ultimato il testo, verranno consegnate le parti e inizieranno le prove. Verrà mantenuto un certo grado di elasticità e di dibattito anche durante le prove, per capire se qualcosa non va e perché, e come e dove, eventualmente, intervenire.
Perché il lavoro possa essere svolto al meglio è necessaria (obbligatoria) la presenza di tutti, Per provare a spiegare meglio quanto sia importante il lavoro di tutti durante le prove, vorrei utilizzare una metafora visiva: immaginate che, finita la preparazione, io accompagni, una ad una, delle persone, precedentemente bendate, in una stanza buia, chiusa. Ognuno, una volta entrato, rimarrà da solo davanti a un tavolo di cui potrà soltanto immaginare la presenza, almeno finché non si sarà tolto la benda, dietro mio preciso comando. Dopo essersi tolto la benda, un fascio di luce illuminerà il tavolo, svelando la presenza su di esso di un foglio completamente bianco e di una penna. A questo punto chiederò ad ogni persona di scrivere la drammaturgia emersa durante il periodo delle prove. Chi riuscirà a scrivere un testo? Soltanto chi è stato presente e ha capito, interiorizzato il lavoro e i progressi di tutti. Ugualmente, il curatore udente di ogni drammaturgia dovrà rispettare l’originalità dei contenuti, rispettando così anche il cosiddetto diritto d’autore. In questo modo non ci sarà mai un’unica firma alla fine di ogni drammaturgia originale, ma verranno riconosciuti i ruoli tanto del curatore del testo in italiano quanto del regista, autore del soggetto originale, oltre a tutte le altre professionalità necessarie al buon esito di uno spettacolo.
La differenza tra il copione in Lingua dei Segni Italiana e il copione in Italiano Segnato Ci sono due tipologie di traduzione: la traduzione infedele ma bella, e la traduzione fedele ma brutta. Nella seconda metà del 1600 in Francia hanno la meglio le tipologie di traduzioni belle e infedeli. I testi vengono adattati, modernizzati e localizzati per piacere di più ai lettori, evitando di esprimere concetti lontani dal contesto culturale a cui il pubblico è abituato. Alla fine del 1700 fino all’inizio del 1800, la traduzione prende significato dalla lingua e dalla cultura, contestualizzando e mirando al destinatario. Per quanto riguarda la traduzione fedele ma brutta, il rischio è che, per seguire in maniera pedissequa il testo originale, arrivi un messaggio poco chiaro e privo di emozioni. Questa tipologia di traduzione non è fattibile in lingua dei segni: sarebbe inutile, perché mancherebbe il significato stesso del messaggio, che invece può essere veicolato fedelmente attraverso l’Italiano Segnato. Per quanto riguarda invece la traduzione infedele ma bella, si tratta di tradurre i contenuti dei copioni scritti in emozioni vere, per arrivare a parlare alla base della cultura e dell’esperienza di ciascuno. In questo caso, attraverso la
Lingua dei Segni Italiana e i riferimenti alla cultura sorda si può far arrivare al pubblico il significato del messaggio. Immaginate di vivere lungo la frontiera di due paesi irrimediabilmente diversi tra loro: nonostante le differenze tra quei due paesi rimarrà sempre un certo margine di adattamento, un certo spazio vitale in cui le persone creano linguaggi di servizio, utili agli scambi e alla vita quotidiana (Ma attenzione: i due paesi non si fonderanno solo perché tra loro ci sono dei semplici scambi di servizio. Per trasmettere i sentimenti, la cultura, la profondità, le strutture sociali, l’identità serve una vera lingua, LIS o Italiano che sia. Per questo serve porre la giusta attenzione sul registro da usare quando si traduce: io posso comunicare con il mio avvocato tranquillamente, ma se voglio addentrarmi nelle sue materie giuridiche è necessario che io le studi da vicino, riadattando la mia lingua alle esigenze di contenuto. Proprio la relazione tra gli attori e il regista servirà per riadattare il testo alla lingua dei segni. Gli attori scelgono i segni, mentre il regista cura il significato del testo scritto. Si delineano così due livelli di estetica, Emozione e Suono, cioè immagine/figura VS parole a catena. Un ulteriore punto di vista è quello dei vari aspetti e delle regole comunicative.
uesto articolo è il primo frutto di una ricerca sotto forQ ma di documentario incentrato sulla persona e sul lavoro di Katiuscia Andò, che dovrà essere completato a bre-
ve. Tale imponente lavoro (reso possibile dalla collaborazione e dalla disponibilità di Katiuscia e di coloro che hanno deciso di farsi tatuare) nasce dalla volontà di costruire e trasmettere una “memoria” della cultura sorda; infatti il mio progetto, già da qualche anno, è quello di raccogliere, attraverso interviste e vari materiali video, un archivio (un videoarchivio) destinato, questa è la mia speranza, a servire da nucleo iniziale per la formazione di una vera e propria videoteca in cui poter raccogliere testimonianze biografiche e professionali di ogni genere, letterario, artistico, lavorativo, ecc., affinché le giovani generazioni di sordi possano avere dei punti di riferimento e di confronto per organizzare le proprie vite, oltre che, naturalmente, dei materiali accessibili, per la prima volta interamente incentrati sulla propria cultura, da poter consultare e studiare, per accrescere le proprie potenzialità umane. gni forma di espressività umana, sia essa legata all’arte o alla vita di ogni giorno, deriva dal grado di libertà di ciascuno e, ugualmente, è sempre collegata a un’acquisita capacità di “oggettivazione”. Quando si rimane colpiti dall’aspetto esteriore di qualcosa, da un suo dettaglio, dal colore, dal significato che ha di per sé oppure dal valore che quello stesso oggetto assume per alcune persone e non per altre, questo dimostra che il processo di oggettivazione di un nostro personale contenuto è già iniziato. Quando poi, spinti dal desiderio di rinnovare quell’emozione, quella sorpresa, riusciamo davvero a creare un oggetto, esso, nel bene o nel male, è destinato ad accompagnarci per tutta la nostra vita, fisicamente o come ricordo, restituendoci costantemente un significato. Per esempio, uno scritto, un quadro, la statuetta di un presepe, in quanto idea divenuta reale, rimane per sempre, rinnova il ricordo di noi, di come eravamo nel momento che abbiamo prodotto una determinata cosa o che l’abbiamo guardata per la prima volta. Naturalmente si può osservare un identico meccanismo di risignificazione nell’arte del tatuaggio. Ogni segno umano vive di un feedback continuo che rinnova se stesso e la nostra memoria: l’importante è non dimenticarsi di sé, non produrre cose a perdere, allora
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sì sarebbe come parlare a vuoto; è necessario piuttosto mantenere un dialogo costante con se stessi e con gli altri, e prima di tutto con gli oggetti che si produce. Che si tratti di oggetti prodotti e poi dimenticati, che rimangono nel nostro ambiente apparentemente muti, di oggetti creati e poi regalati, venduti o dispersi, o di oggetti che ci ritornano sottoforma di forme, di segni sulla pelle, essi contribuiscono comunque a creare un dialogo tra noi e noi stessi. Un’idea può diventare oggetto concreto: è questo il grande potere degli esseri umani. Se manca questo continuo dialogo con noi stessi non ci può essere empatia nemmeno con gli altri: può esserci soltanto rabbia, voglia di rivalsa verso tutti, reazioni spropositate di paura e di rifiuto. Se non dialoghiamo con noi stessi e con le nostre emozioni, con le nostre opere, passeremo tutta la vita a chiederci chi ce le abbia rubate e a covare rancore. Tutti i nostri corpi possiedo dei segni: espressioni, rughe, macchie, ecc.; essi sono i nostri segni e a saperli leggere, ci impediscono di perderci, ricordandoci chi siamo e quali strade abbiamo percorso. Ugualmente ogni tatuaggio continua a ribadire il proprio significato, continua a ripetere l’intenzione che l’ha progettato e l’atto che l’ha creato; il messaggio che veicola, quindi, non è qualcosa a perdere, pronunciato una volta e poi disperso nelle coscienze attente o distratte di chi doveva riceverlo, ma qualcosa che rimane, vivo, insistente, in grado di mutare e rinnovare il proprio valore. Nulla di simile può essere fatto semplicemente con la voce. Io non indosso tatuaggi, non ancora almeno, eppure l’emozione che mi trasmettono è enorme. E’ come veder moltiplicate le informazioni che il corpo e i segni possono trasmettere. Ma cosa s’intende per “emozione”? La radice della parola emozione deriva dal verbo latino “moveo”, che significa “muovere”, con l’aggiunta del prefisso “e” (movimento da), per indicare che in ogni emozione è implicita una tendenza ad agire. Chi, per vari motivi, non trova da subito un linguaggio adatto per spostare le emozioni da sé all’esterno, finirà per sentirsi solo, oppresso. Non si può resiste a lungo senza comunicare...si finirebbe per perdere le proprie emozioni. Allora è bene che ci siano diverse modalità di comunicazione: disegno, arte, scrittura, parola, segni... Più saranno tali mezzi e meno facilmente potremo perderci.
Dario Pasquarella
Tatuandò:
il tatuaggio sordo in Italia (prima parte) di Katiuscia Andò
Immaginate due mondi paralleli tra loro: uno tutto blu e l’altro tutto rosso. Essendo così diversi, gli abitanti dei due mondi non riescono a comunicare, anzi alcuni non ci hanno nemmeno mai provato. Immaginate ora di essere nati in uno dei due mondi, mettiamo il blu, e nonostante questo scoprite di avere il sangue rosso. A un certo punto della vostra vita scoprite inoltre di saper comunicare tanto in un mondo quanto in un altro….dunque, a quale dei due mondi apparterreste? È la stessa domanda che mi sono dovuta porre io. Io appartengo sia al mondo degli udenti che a quello dei sordi e sono in grado di comunicare con entrambi; la mia vita è simile ad un puzzle di due colori. Non dico che sia facile:
la comunicazione, quella vera, quella in cui non c’è finzione ma le varie informazioni passano davvero da una parte all’altra, non è mai semplice. Per me è bastato accettare entrambi i mondi nella mia vita, mescolare i colori: dal rosso e dal blu è nato così un bel viola, il mio colore preferito, quello che più mi rappresenta e che si trova anche nei miei tatuaggi. Proprio come accade per le vene e le arterie nel nostro corpo: sotto la nostra pelle, dalla superficie alla profondità, ci sono due tipi di vasi, entrambi fondamentali per la nostra vita, arterie e vene, in cui scorre del sangue che normalmente viene rappresentato come rosso e blu, chiaro e scuro; la linfa della nostra comunicazione allora, ciò che ci rende umani, se aves-
se una forma e una materia, probabilmente sarebbe davvero di un bel colore viola. Intanto c'è da premettere che non sono nata sorda, ma udente: sono diventata sorda all'età di 10 mesi. Vivevo con mia nonna in quel periodo perché i miei genitori lavoravano in Germania. Un giorno mi ammalai, una banale febbre comune a tanti bambini, ma mia nonna mi portò all'ospedale perché la febbre era troppo alta e il medico mi prescrisse delle gocce che segnarono per sempre la mia vita. Pochi mesi dopo, e più precisamente l'ultimo giorno dell'anno la mia famiglia si accorse che qualcosa non andava: nonostante i botti per festeggiare il capodanno io dormivo beata nella mia culla.
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Ero sorda, sorda per sbaglio, sorda a causa di quelle gocce auricolari che molto probabilmente danneggiarono irreparabilmente il mio udito. Mamma, preoccupatissima, mi portò con sé in Germania e lì iniziò il mio percorso scolastico tedesco. Frequentai così un Istituto bilingue che integrava bambini sordi e udenti, dove iniziai a parlare tedesco ancora prima dell'italiano con il quale comunicavo soltanto in famiglia. Sono rimasta in Germania fino alla seconda elementare poi fui messa su un aereo insieme a un'assistente e "spedita" in Sicilia. Qui dovetti ricominciare da zero, iniziai di nuovo la prima elementare (in Germania avevo finito già la seconda) per imparare l'italiano, ed è qui che iniziai a disegnare Mentre mia madre si dava da fare in cucina, io ero impegnata a disegnare ininterrottamente; utilizzai dapprima una matita, poi delle matite colorate, ma non mi bastava a passati al tratto più forte e marcato della penna. Nel mio disegno-segno si nascondeva un doppio, una doppia anima, una seconda me stessa in grado di aiutarmi a resistere, ad esprimermi, capace di spingermi
ad andare avanti. Insieme al disegno, dunque, imparai anche ad esprimere il mio disagio: disegnavo mostri, uomini impiccati, uccisi, disegnavo ospedali e sangue e gli insegnanti iniziarono a capire che c'era qualcosa che non andava e probabilmente parlarono di ciò ai miei genitori. La maestra allora m’insegnò a disegnare anche cose belle, luminose, positive: alberi, sole, scene di persone in grado di evocare una certa dolcezza... così ho scoperto cose nuove e in qualche modo si è accesa la luce nella mia vita. Ho iniziato a disegnare nel momento in cui sono stata in grado di tenere una matita in mano, era il mio modo di comunicare, l'unico che conoscevo da sempre. A scrivere invece ho iniziato alla scuola tedesca in età infantile e poi in quella italiana in età adolescenziale, ma con molta vergogna perché l'italiano è sempre stato per me, e lo è tutt'ora, una lingua difficile e talvolta incomprensibile. Il mio rapporto con la scuola è quindi stato un disastro; gli anni migliori sono stati quelli tedeschi perché in Sicilia non hanno mai preso in considerazione i miei reali
problemi. Mia madre cercò una scuola che potesse essere adatta a me, mi portò a Messina, in un convitto di suore dove studiavo (si fa per dire) e restavo li dal lunedì al venerdì. Facevo la terza elementare e avevo già 11 anni. Con la mia famiglia ho iniziato a comunicare alle scuole superiori ma con moltissima difficoltà perché nessuno di loro ha mai voluto imparare la mia lingua; mi sono sempre dovuta sforzare io per imparare la loro. Forse per questo non ero mai abbastanza sazia di disegno, di voglia di comunicare: quando il disegno non è bastato più, sono passata alle tempere, agli acquarelli, agli spray. Il tatuaggio non é stato altro che la conseguenza del mio amore e della mia passione per il disegno. Sono un'artista prima ancora di essere tatuatrice, mi piace pensare che non mi stia limitando semplicemente a tatuare un corpo, ma che piuttosto io mi trovi a disegnare sulla pelle, come un pittore sulla tela di un quadro. Già prima del 2007 io disegnavo, per chi me lo chiedeva, degli schizzi su un foglio che poi venivano trasformati in tatuaggi da altri.
Qualcuno mi ha chiesto spesse volte perché non provavo a tatuare, perché non mi iscrivevo a qualche corso per Tattoo, non nascondo di averci provato ma al quel tempo non avevo le possibilità economiche. Ho dovuto aspettare qualche anno prima di poter incontrare colei che scoprì il mio talento e credette fermamente in me, colei che decise di iscrivermi ad un vero corso di Tattoo e Piercing. Forse per la prima volta nella mia vita ho avuto la possibilità di essere me stessa, di coronare il mio sogno di bambina. Ricordo il mio primo Tattoo, che mi feci in Australia per paura che mia madre lo scoprisse: avevo 18 anni, e mi sono fatta tatuare una rosa con il nome del mio ragazzo. Sono andata in studio già impaurita e questa sensazione è peggiorata con la vista dell'ago, in più sapevo che un tatuaggio mi avrebbe marchiata per sempre. Una volta finito però c'ho preso gusto, ho capito che il dolore si sopporta abbastanza bene e quindi ho continuato con altri Tattoo. Il primo tatuaggio che ho fatto una volta finito il corso professionale per tatuatori ho deciso di farlo a me stessa. Durante il corso non ho mai provato su pelle umana ma solo su pelle sintetica e cotenna di maiale, quindi il mio timore di sbagliare era comprensibile. Così con la mia macchinetta nuova di zecca ho preso coraggio e ho iniziato a tatuarmi sull'avambraccio un Buddha stilizzato anche per capire cosa si prova sia a tatuare la pelle umana che a tatuare in generale un potenziale cliente. Così, piano piano, ho iniziato la mia attività e ora ho uno
studio in cui pratico tatuaggi e piercing. In realtà i piercing all'inizio mi terrorizzavano perché mentre il tatuaggio l'avevo sperimentato su me stessa (e poi il fatto di disegnare comunque mi rende sicura perché so di esserne capace), il piercing, collegato all’immagine dell'ago che entra completamente nella pelle, mi faceva quasi rabbrividire. Ed è per questo, anche se poi ho comunque rotto il ghiaccio con svariati clienti, che preferisco di gran lunga tatuare un'intera schiena piuttosto che fare un solo piercing, soprattutto se in zone potenzialmente dolorose. Ma so bene che si tratta solo di un fattore psicologico: il tatuaggio è il più doloroso in assoluto, perché è una sofferenza continua fino alla fine, il piercing invece dura soltanto un attimo. Quindi eccomi qui: una sorda che, dopo aver frequentato l’accademia di
Belle Arti, è diventata capace di fare tatuaggi. Sono l’unica donna sorda in Italia a farlo. Con le persone sorde comunico nella nostra lingua dei segni italiana, la LIS, con gli udenti invece, essendo io figlia di udenti, sono abituata a comunicare in italiano, usando la mia voce e con l'aiuto della protesi e del labiale me la cavo benissimo. La comunicazione ovviamente è fondamentale: se capisco che un tatuaggio non è adatto alla persona e va modificato lo spiego tranquillamente, comunque rispettando sempre il cliente stesso; certo non cambiando il soggetto da tatuare, ma cambiando la posizione, ad esempio, oppure aggiungendo qualcosa per renderlo particolare. Devo dire che fino a adesso tutti i miei clienti mi hanno ascoltato e si sono fidati pienamente della mia esperienza.
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Venga a prendere il caffè da me Il caffè alla turca và bevuto in tazzine basse e piccole. Per prepararlo bisogna macinare i chicchi in modo uniforme. Prendere uno cezve (uno speciale bricco in rame con manico lungo) o un pentolino lungo e stretto ed inserirci due cucchiaini di caffè macinato ed un cucchiaino di zucchero. Aggiungere poi una tazzina di acqua e mescolare fino allo scioglimento dello zucchero. A questo punto scaldare sul gas. Appena il caffè comincerà a bollire si formerà una schiuma. Quando la schiuma comincerà a salire lungo il pentolino, si toglie dal fuoco e con un cucchiaino si prende la schiuma e si mette nella tazzina. Si rimette poi sul fuoco il pentolino e appena il caffè bolle nuovamente, si toglie dal gas e si versa nella tazzina. In pratica bisogna fare bollire il caffè due volte. Prima di poter bere il caffè alla turca bisogna aspettare che la polvere di caffè si sia depositata sul fondo. E’ possibile aggiungere alla bevanda anche delle spezie come la cannella o il cardamomo.
Quando si spegne la (vecchia) fiamma di Catia Marani Vedere uomini maturi o vecchi accompagnarsi a donne più giovani, alcuni anni fa sembrava fosse una prerogativa degli uomini ricchi, degli uomini potenti o di quelli appartenenti al mondo dello spettacolo. Il loro desiderio di esibire una donna giovane ed avvenente era direttamente proporzionato al grado di opportunismo delle loro accompagnatrici. Quindi, nulla che avesse a che fare con l’amore. Oggi sono molte di più le coppie in cui l’uomo è anziano rispetto alla donna anche fra la gente comune e quasi nessuno ha più da eccepire. Ma se nella coppia ad essere molto più giovane è lui, le cronache di questi giorni ci dicono che nel 2015, l’opinione pubblica non è ancora pronta ad accettarlo. Tutti conosciamo la storia della Senatrice del PD, né giovane né bella, che si è fidanzata con un giovanotto tatuato e muscoloso che di mestiere fa lo spogliarellista. Si sono lasciati coinvolgere in una girandola di apparizioni televisive per chiedere di poter vivere quest’amore senza continuare ad essere ridicolizzati da tutti i media. Anche Giovanni ha vissuto una storia d’amore lunga dodici anni con una donna più vecchia. Da qualche mese è di nuovo solo, pronto ad innamorarsi di nuovo, ma di una più giovane.
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CM: Giovanni come hai conosciuto la tua ex? G:Dopo la separazione da mia moglie, intorno ai quaranta, ho dovuto lasciare la cerchia delle mie amicizie. Per cui mi iscrissi, con lo scopo di allacciarne di nuove, ad un corso di bridge. Ho conosciuto lì questa affascinante signora bionda di cinquant’anni, sensibile e solare. Ne rimasi subito attratto. L’ho dovuta corteggiare a lungo (circa due anni), perché era rimasta da poco vedova con un figlio adolescente. CM: Lei aveva dieci anni più di te. Hai sempre avuto la tendenza a cercare donne più grandi? E se si perché? G: A questa domanda qualche anno fa avrei risposto che le donne più grandi sono la mia passione. La prima volta che mi sono innamorato avevo quindici anni e lei era la cassiera del bar dove andavo a giocare al calcio balilla Con mia moglie eravamo coetanei, frequentavamo la stessa facoltà. Quando ci siamo lasciati non ho mai pensato di uscire con le amiche di mia figlia. Mi venne naturale innamorarmi di S. senza pensare alla differenza di età. Mi piaceva, era una donna come se ne trovavano poche: bionda, con il seno grande, non particolarmente bella ma con una grande sensualità. Una Ferrari in confronto a tutte quelle che avevo conosciuto.
CM: Il fatto che fosse molto ricca ha contribuito a farti pensare che era la donna adatta a te? G: Io svolgo un lavoro che oltre a darmi grande soddisfazione professionale mi permette di vivere senza preoccupazioni economiche. Sapevo che era molto ricca, ma per questo dovevo tenerla a distanza? C’era forse qualcosa di male nel trascorrere insieme le vacanze in località che ammetto non avrei potuto permettermi, o accettare qualche regalo costoso? Era tutto naturale mentre lo vivevo quando ero innamorato. Da quando l’ho lasciata ho preso consapevolezza del fatto che non posso più raggiungere in barca Capri, né sciare a Cortina o andare per musei a Parigi. Ammetto che se l’amore da parte mia era finito la voglia di viaggiare ancora no. Ma non ero più felice per cui ad un certo punto ho detto basta. Costi quel che costi. CM: Ammetti che se non fosse stato per gli agi, l’avresti lasciata prima? G: Ammetto, molto prima, erano già due anni che non facevamo più l’amore. Non provavo più nessun tipo di attrattiva fisica verso di lei. E lei invece di arrabbiarsi mi soffocava con il suo amore come faceva con il figlio. Mi sentivo troppo a disagio non meritava che le diventassi infedele. CM: Perché hai pensato di tradirla? G: Un uomo di cinquantacinque anni comincia a sentire
che la libido cala, soprattutto se non hai gli stimoli giusti vicino. Questi stimoli non può darteli una donna ultrasessantenne nonostante facesse di tutto per mantenere la forma fisica. Era ricorsa anche al chirurgo plastico per togliere un po’ di rughe. Gli anni che passavano erano la sua ossessione e vederla tanto indaffarata a combattere la vecchiaia mi allontanava ancora di più da lei. Inoltre mentre all’inizio della nostra storia non mi importava che quando eravamo fra la gente qualcuno bisbigliava sulla nostra differenza di età, ormai lo trovavo veramente imbarazzante. In quel periodo quando tornavo a casa mia, che non avevo mai definitivamente lasciato, mi sentivo come un pesce che veniva ributtato in mare dopo essere stato a lungo in apnea fuori dall’acqua. CM: Cosa ti spetti ora dall’amore? G: Tanto: vorrei una donna più giovane di me che mi facesse recuperare questi ultimi due anni in cui sento di aver perduto qualcosa. Ora la dico grossa, ma vorrei una donna con cui avere un figlio e togliermi di mente certi brutti pensieri sulla vecchiaia. Una donna giovane mi proietterebbe nel futuro. Giovane e ricca…d’amore per me. Sbaglio o mi guardi male? CM: Non sbagli, tanto che non ti servirei neppure il caffè. Latte, zucchero o panna? G: Panna, grazie.
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Espiazione
L’amore bugiardo Chi non ricorda i simpatici sketch inglesi del Benny Hill Show, famosa sitcom comica inglese, ideati ed interpretati da Benny Hill, iniziata nel 1969 ed andata in onda per diciannove stagioni fino al 1989. In Italia è stata trasmessa da diverse reti televisive. Benny Hill sovente interpretava un lascivo e poco vincente genere di uomo per nulla rispettoso del genere femminile, tanto che alcuni episodi dello show furono definiti troppo sessisti. Io ne ricordo uno particolarmente divertente e Giovanni non me ne voglia, se lo vedo bene ad interpretarlo in sostituzione al simpatico
Benny Hill, il quale, sposato ad una donna più grande e poco avvenente, ma ricca, non riuscendo più a sopportarne la vicinanza decide di affrettarne la dipartita. Per questo pensa di utilizzare un metodo non violento anche se un po’ meno spicciativo dello strangolamento o del solito veleno, per non insospettire né la donna né la polizia. Inizia così a rimpinzare la moglie di cibi grassi e di dolci. Le insegna a fumare come una turca e a bere alcolici come un marinaio nella speranza prima o poi di farla “crepare”. Dai e dai, la donna muore cadendo a bocca avanti sopra un piatto di
DEDICATA A LUI Spaghetti, pollo, insalatina, e una tazzina di caffè a Detroit (Fred Bongusto) Spaghetti, pollo, insalatina e una tazzina di caffè a malapena riesco a mandar giù invece ti ricordi che appetito insieme a te a Detroit Guardavi solo me mentre cantavi “China Town” l’orchestra ripeteva “Schubidù”. Mi resta solo un disco per tornare giù da te a Detroit. Mi resta solo un disco per tornare giù da te a Detroit. Ricordi che notti di follie a Detroit. Spaghetti, pollo, insalatina e una tazzina di caffè a malapena riesco a mandar giù Lola ho fatto le pazzie per te. Ricordi che notti di follie a Detroit. Spaghetti, pollo, insalatina e una tazzina di caffè a malapena riesco a mandar giù la gente guarda e ride non è stata insieme a noi a Detroit. Lola pazzie che non farò più Ricordi che notti di follie a Detroit. Spaghetti, pollo, insalatina e una tazzina di caffè a malapena riesco a mandar giù la gente guarda e ride ma non piange insieme a me per te Lola a Detroit
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spaghetti. Tutto felice in poco tempo si risposa con una donna molto più giovane e bella della defunta, ma che si dimostra da subito molto attratta dai soldi che Benny ha ereditato dalla precedente moglie e infatti: inizia a rimpinzarlo di salsicciotti, dolci e alcolici; gli fa fare l’amore due volte al giorno godendo non del sesso fatto col vecchio Benny ma dell’idea di rimanere presto vedova e ricca, sdraiata sulla sabbia fine di una spiaggia esotica abbracciata ad un muscoloso ragazzo. Chi la fa, l’aspetti?
Facciamolo fare a loro Quanto tempo ci vuole per preparare un buon pollo arrosto? Bè, le loro madri lo sapevano fare bene: affinchè risultasse veramente buono, oltre alla qualità del pennuto, cominciavano almeno la sera prima ad insaporirlo cospargendolo con un buon battuto ricco di erbette (rosmarino, aglio, finocchio selvatico, ecc…). Oltre al condimento sapevano che era importante rispettare i tempi di cottura non esattamente biblici, ma neppure equiparabili a quelli di una fetta di carne girata nella padella antiaderente. A metà cottura aggiungere poi le patate tagliate a spicchi e lasciarle rosolare nell’olio un po’ sfritto rilasciato dal pollo assicura la riuscita del piatto, tanto che insperatamente ci scappa pure di sentirsi dire “è buono come quello che fa mia madre!”. Pensando che ne può valere la pena, nonostante la stanchezza, soddisfatte come se si fosse vinto l’Oscar, si va a letto tardi per ripulire la cucina che è sottosopra come un campo di battaglia. E se invece imparassimo a pensare che cucinare il pollo arrosto richiede troppo
tempo e magari la famiglia si può sfamare anche facendo degli appetitosi hamburgher? E se smettessimo di competere fra noi per sentirci dire dai nostri uomini “Che donna! Sei la più brava!” e ci accontentassimo di essere solo brave? Perché se per essere donne dalla vita in apparenza invidiabile, con mariti perfetti e figli perfetti, si sente durante la pausa del pranzo il bisogno di chiudersi in bagno a piangere c’è qualcosa che non và. Noi. Saper fare tutto non significa necessariamente fare tutto. Gli uomini sono meno competitivi di noi sul lavoro, e più menefreghisti in casa: se tornano dal lavoro e sentono di essere stanchi non si mettono in cucina a preparare il pollo arrosto per moglie e figli. Si mettono sul divano e accendono la televisione e non si preoccupano affatto se ciò che è a tavola per pranzo o per cena è in grado di vincere un premio. E li amiamo lo stesso. Freghiamocene un pochino, facciamo come loro, tanto ci ameranno lo stesso.
Mode & Modi Una Farfalla che fa Primavera
I primi ad utilizzare la cravatta a farfalla furono i mercenari croati, che durante la guerra prussiana del XVII secolo giunsero in Francia a supporto di Napoleone III, e che la usavano per chiudere le camicie sprovviste di bottoni. I nobili francesi, da sempre amanti della moda, si innamorarono di questo accessorio e lo chiamarono “cravate” che vuol dire appunto croato. In italiano esistono diversi nomi con il quale viene indicato, cravattino, farfalla, farfallino, papillon o cravatta a farfalla. Si tratta, comunque, sempre di quell’accessorio, così particolare, della moda maschile che definisce in modo chiaro, preciso e audace l’identità di chi lo indossa. Da simbolo di pura eleganza e dettaglio chic ad accessorio degno di uno scienziato pazzo o di un anarchico bohemienne, il papillon ha saputo resistere allo scorrere del tempo aggiornandosi e rimodellandosi pur rimanendo sempre fedele al suo spirito ribelle. Ne esistono diversi modelli e si distinguono principalmente per dimensione, forma, colore e materiale utilizzato. Già quest’inverno la cravatta a farfalla è tornata di moda e non solo in occasione di importanti cerimonie. Il Papillon, uscito dall’abbigliamento formale, può essere indossato dai giovani soprattutto su un abbigliamento casual o in stile dandy metropolitano, sopra una camicia di jeans, una giacca sportiva o un cardigan di lana. In commercio se ne trovano di due tipi: il farfallino tradizionale, da annodare manualmente, ed il papillon premontato. Regola di buon gusto è quella che raccomanda di non abbinarlo mai se realizzato in tessuto fantasia con camicia anch’essa fantasia. Nel 1830 Honorè de Balzac scrisse il trattato della vita elegante dedicando un intero capitolo sul modo di indossare il papillon. Se nel 1886 veniva tassativamente indossato soltanto sullo smoking, nel corso degli anni a fasi alterne, ha trovato ampio uso nella moda maschile. Gli anni ’20 divennero l’âge d’or del papillon che si impose come icona di stile senza eguali, rivestendo negli anni i colli dei più illustri personaggi del cinema, della musica e del teatro. Attualmente fra i personaggi famosi che lo indossano, Roberto Gervaso giornalista e scrittore, a chi gli chiede perché porta sempre il papillon invece della cravatta, risponde che è l’unico modo per farsi ricordare. Attenzione però, sopra i quaranta fa tanto quadro antico!
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Racconto di Primavera di Chiara Mancuso
Nasce il mattino con il garrito delle prime rondini, simile ad un tenero vagito che riecheggia piano fra le pareti di questo cuore; uno spiraglio di luce illumina le coperte gettate per terra sopra i sogni stropicciati, sgualciti dalle chiacchere dei vecchi rugosi che guardano il cielo in attesa che cada. Ma non oggi, non in questo giorno che si alza così fresco e terso, con le guance arrossate dal sonno appena finito, con gli occhi socchiusi, non ancora pronti per la luce; questa luce rosa, sembra quasi profumare di quelle vernici che a tinte tenui colorano i rami che fino a ieri si stagliavano neri e spogli contro il cielo pallido, ma che adesso si adornano come fanciulle pronte per la festa. Nasce questo giorno che mi conduce a te, mentre il treno fischietta la nostra canzone lasciando questa grigia stazione che puzza di fumo e miseri racconti, come i fantasmi tetri che mi hanno tenuto compagnia per tutto l’inverno, torturando i
miei giorni e le mie notti, convincendomi che mai sarebbe giunta questa rosea alba. Dai finestrini sfessurati con prepotenza entrano i semi dei pioppi, simili a batuffoli di nuvole , come se il cielo terso di questa mattina volesse entrare fin dentro a questo piccolo mondo che si muove sempre più veloce, eppure troppo lento! Mi sembra che non sia passato nemmeno un minuto da quando abbiamo lasciato la stazione, eppure la terra scorre in fretta fuori dal finestrino, i prati ondeggiano come un verde mare insanguinato a tratti da fragili papaveri rossi, gli alberi si piegano verso di me e quasi li sento sfiorarmi. Dio! Mi sento impazzire nell’attesa di arrivare da te, adesso che ormai i miei sogni mi camminano accanto, con le sembianze di un bambino che scalpitando si appiccica al vetro continuando a chiedere “quando arriviamo?”. Invidio il vento che giungerà prima di me , che toccherà pri-
ma di me la tua pelle; immagino già il tuo viso, impaziente come me, velato appena di malinconica nostalgia. Quante volte ho sognato questo momento, quante volte l’ho vissuto nel silenzio del mio cuore , pensando a cosa dirti, cosa fare, ma so già che quando ti rivedrò in quel marciapiede, fra tutta quella gente, la lingua mi si attaccherà al palato e sparirà ogni pensiero. I mille petali sparsi dal vento vestiranno la muta meraviglia di quell’attimo: nessuno potrà toccarci, nessuno potrà capire cosa ci diremo in quel silenzio tutto nostro , nel respiro che precede il suono, nell’attimo di pausa in cui perfino il cuore si ferma , per poi ricominciare il suo battere e levare. Nessuno potrà sentire, nessuno, perché nessuno conosce l’amore che si sussurrano due fiori appena nati, nessuno può percepire le parole che si celano fra le pieghe della notte, nessuno può cogliere la bellezza delle rughe dei petali di rosa affaticate dal peso delle lacrime della rugiada.
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Raccontami, quando il sole si distende sui campi, raccontami, quando i brividi della notte abbandonano i fili d’erba, raccontami i segreti delle fate perdute nei boschi, raccontami i sospiri della sabbia accarezzata dal mare, raccontami il naufragio dolce delle stelle nei tuoi occhi. Parlami con le parole che non ti ho detto… Cantami le ninne-nanne che calmano i bambini, di notte… Guardami come si guarda un mattino… Abbracciami come il giorno abbraccia la notte, come il sole abbraccia i miei fiori, come un bambino abbraccia il cuscino, di notte, mentre un pianto lontano si spegne sopra un letto di mari in tempesta. Nascono dal vagito fresco di un bimbo i miei fiori cullati dal vento, abbracciati da quel primo sole che muto sospira sui campi.
Solo noi, in questo mattino che è stato creato apposta per vederci insieme, solo noi toccheremo le mani piccole di questa primavera che muove i primi passi in questo sentiero sparso di sogni leggeri e fragili speranze. E’ tutto , tutto , tutto, sento che scoppio! E’ tutto per noi questo profumo dolce che si solleva dai campi che danzano sotto il mio sguardo, è per noi questo sole
che scioglie le ultime nevi, è nostro questo tocco leggero che colora ogni cosa... Ecco... da lontano già ti vedo, impaziente, adornata di bellezza: non scorgi ancora il mio sguardo, mentre il treno rallenta e come in un film, mi godo in anteprima lo spettacolo della tua figura, con i capelli mossi dal vento, gli occhi appena lucidi dove sto annegando senza che
tu te ne accorga; sento già il tuo profumo, il tuo respiro , mentre mi manca l’aria , mi manca la terra sotto i piedi. Fatemi scendere, presto! Fatemi sfiorare la sua pelle prima che qualcuno mi svegli e mi dica che è stato solo un sogno , presto! prima che muoia di troppo amore e mi perda fra i petali strappati dei “m’ama o non m’ama”.
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27 aprile 1945 l’Armata Rossa libera Auschwitz Shemà (ascolta) di Primo Levi Voi che vivete sicuri Nelle vostre tiepide case, Voi che trovate tornando a sera Il cibo caldo e visi amici: Considerate se questo è un uomo Che lavora nel fango Che non conosce pace Che lotta per mezzo pane Che muore per un sì o per un no. Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome Senza più forza di ricordare Vuoti gli occhi e freddo il grembo Come una rana d'inverno. Meditate che questo è stato: Vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore Stando in casa andando per via, Coricandovi alzandovi; Ripetetele ai vostri figli. O vi si sfascia la casa, La malattia vi impedisca, I vostri nati torcano il viso da voi.
Se questo è un uomo alle origini dei forni crematori Il titolo dell’inserto ripete quello del libro di Primo Levi, seguito poi dal secondo intitolato “La tregua” (il fotogramma nella pagina a fianco è tratto dall’omonimo film di Francesco Rosi), che narra la sua vicenda di ebreo italiano deportato nel campo di Auschwitz. Il sottotitolo spiega la ragione della pubblicazione di questo inserto. Abbiamo scritto, nell’editoriale dedicato alla questione ukraina e all’olocausto sovietico, che a deportare e sopprimere milioni di ebrei (e non solo) nei campi di concentramento nazisti non furono pochi seguaci dell’imbianchino austriaco, ma l’intero popolo tedesco che lo sostenne con piena condivisione fino alla sconfitta finale. Abbiamo aggiunto che, in verità, non fu il solo popolo tedesco a condividere l’ideologia criminale nazista, ma questa trovò molti proseliti in numerosi Stati europei, non solo in quelli già fascisti (Italia, Ungheria, Romania, Finlandia, ecc.), ma anche in Stati che vantavano, “sulla carta”, grandi tradizioni democratiche e libertarie (la Francia in testa). Con questo inserto vogliamo far capire, ricorrendo alle parole di un ebreo italiano consegnato dal nostro popolo ai boia tedeschi, da dove nasce il lungo percorso criminale che porta ai forni crematori. Nasce dalla affermazione della “diversità”. L’individuazione del “diverso” (da noi), da separare e allontanare dalla (nostra) comunità, è il primo passo che, inevitabilmente, conduce alla fine alla bestialità del campo di sterminio. Saranno forni crematori, bombardamenti al fosforo o all’uranio, o anche le onde del mare, il risultato sarà lo stesso: il “diverso” (da noi), identificato come un pericolo e un nemico, dovrà essere affidato a un boia: fisico, dal cielo o alle forze della natura, purché, comunque, espulso dalla (nostra) comunità. Provate a fermare l’attenzione su queste poche parole di Primo Levi: “ogni straniero è nemico... al termine della catena sta il Lager”. Gli italiani che approvarono le leggi raziali e poi consegnarono gli ebrei ai tedeschi, forse non pensavano che questi li avrebbero bruciati nei forni crematori, né (sempre forse) lo avrebbero fatto loro stessi in prima persona; semplicemente non si posero il problema “finale”, ma affermarono quello “iniziale”: il “diverso” andava separato e allontanato. Senza le leggi raziali, la delazione e la consegna, non ci sarebbero stati i forni crematori o, al contrario, è proprio grazie a quei presupposti ideologici che è poi stato “necessario” costruire i campi di sterminio e i forni crematori. Oggi il “diverso”, il “nemico” è il migrante che invade il nostro paese e rischia di contaminare la nostra cultura (cultura?). Affondiamo i gommoni! Anzi no, lasciamoli inghiottire dal mare. Questa è l’origine del nazismo! Che si chiami lepenismo, leghismo o qualunquismo. (SR)
Estratto dal libro “Se questo è un uomo” di Primo Levi Per mia fortuna, sono stato deportato ad Auschwitz solo nel 1944, e cioè dopo che il governo tedesco, data la crescente scarsità di manodopera, aveva stabilito di allungare la vita media dei prigionieri da eliminarsi, concedendo sensibili miglioramenti nel tenor di vita e sospendendo temporaneamente le uccisioni ad arbitrio dei singoli. Perciò questo mio libro, in fatto di particolari atroci, non aggiunge nulla a quanto è ormai noto ai lettori di tutto il mondo sull'inquietante argomento dei campi di distruzione. Esso non è stato scritto allo scopo di formulare nuovi capi di accusa; potrà piuttosto fornire documenti per uno stu-
dio pacato di alcuni aspetti dell'animo umano. A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che «ogni straniero è nemico». Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoodinati, e non sta all'origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo.
Mi rendo conto e chiedo venia dei difetti strutturali del libro. Se non di fatto, come intenzione e come concezione esso è nato già fin dai giorni di Lager. Il bisogno di raccontare agli «altri», di fare gli «altri» partecipi, aveva assunto fra noi, prima della liberazione e dopo, il carattere di un impulso immediato e violento, tanto da rivaleggiare con gli altri bisogni elementari: il libro è stato scritto per soddisfare a questo bisogno; in primo luogo quindi a scopo di liberazione interiore. Di qui il suo carattere frammentario: i capitoli sono stati scritti non in successione logica, ma per ordine di urgenza. Il lavoro di raccordo e di fusione è stato svolto su piano ed è posteriore. Mi pare superfluo aggiungere che nessuno dei fatti è inventato.
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Ero stato catturato dalla Milizia fascista il 13 dicembre 1943. Avevo ventiquattro anni, poco senno, nessuna esperienza, e una decisa propensione, favorita dal regime di segregazione a cui da quattro anni le leggi razziali mi avevano ridotto, a vivere in un mio mondo scarsamente reale, popolato da civili fantasmi cartesiani, da sincere amicizie maschili e da amicizie femminili esangui. Coltivavo un moderato e astratto senso di ribellione. Non mi era stato facile scegliere la via della montagna, e contribuire a mettere in piedi quanto, nella opinione mia e di altri amici di me poco più esperti, avrebbe dovuto diventare una banda partigiana affiliata a «Giustizia e Libertà». Mancavano i contatti, le armi, i quattrini e l'esperienza per procurarseli; mancavano gli uomini capaci, ed eravamo invece sommersi da un diluvio di gente squalificata, in buona e in mala fede, che arrivava lassù dalla pianura in cerca di una organizzazione inesistente, di quadri, di armi, o anche solo di protezione, di un nascondiglio, di un fuoco, di un paio di scarpe. A quel tempo, non mi era stata ancora insegnata la dottrina che dovevo più tardi rapidamente imparare in Lager, e secondo la quale primo ufficio dell'uomo è perseguire i propri scopi con mezzi idonei, e chi sbaglia paga; per cui non posso che considerare conforme a giustizia il successivo svolgersi dei fatti. Tre centurie della Milizia, partite in piena notte per sorprendere un'altra banda, di noi ben più potente e pericolosa, annidata nella valle contigua, irruppero in una spettrale alba di neve nel nostro rifugio, e mi condussero a valle come persona sospetta. Negli interrogatori che seguirono, preferii dichiarare la mia condizione di «cittadino italiano di razza ebraica», poiché ritenevo che non sarei riuscito a giustificare altrimenti la mia presenza in quei luoghi troppo appartati anche per uno «sfollato», e stimavo (a torto, come si vide poi) che l'ammettere la mia attività politica avrebbe comportato torture e morte certa. Come ebreo, venni inviato a Fossoli, presso Modena, dove un vasto campo di internamento, già destinato ai prigionieri di guerra inglesi e americani, andava raccogliendo gli appartenenti alle numerose categorie di persone non gradite al neonato governo fascista repubblicano. Al momento del mio arrivo, e cioè alla fine del gennaio 1944, gli ebrei italiani nel campo erano centocinquanta circa, ma entro poche settimane il loro
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numero giunse a oltre seicento. Si trattava per lo più di intere famiglie, catturate dai fascisti o dai nazisti per loro imprudenza, o in seguito a delazione. Alcuni pochi si erano consegnati spontaneamente, o perché ridotti alla disperazione dalla vita randagia, o perché privi di mezzi, o per non separarsi da un congiunto catturato, o anche, assurdamente, per «mettersi in ordine con la legge». V'erano inoltre un centinaio di militari jugoslavi internati, e alcuni altri stranieri considerati politicamente sospetti. L'arrivo di un piccolo reparto di SS tedesche avrebbe dovuto far dubitare anche gli ottimisti; si riuscì tuttavia a interpretare variamente questa novità, senza trarne la più ovvia delle conseguenze, in modo che, nonostante tutto, l'annuncio della deportazione trovò gli animi impreparati. Il giorno 20 febbraio i tedeschi avevano ispezionato il campo con cura, avevano fatte pubbliche e vivaci rimostranze al commissario italiano per la difettosa organizzazione del servizio di cucina e per lo scarso quantitativo della legna distribuita per il riscaldamento; avevano perfino detto che presto un'infermeria avrebbe dovuto entrare in efficienza. Ma il mattino del 21 si seppe che l'indomani gli ebrei sarebbero partiti. Tutti: nessuna eccezione. Anche i bambini, anche i vecchi, anche i malati. Per dove, non si sapeva. Prepararsi per quindici giorni di viaggio. Per ognuno che fosse mancato all'appello, dieci sarebbero stati fucilati. Soltanto una minoranza di ingenui e di illusi si ostinò nella speranza: noi avevamo parlato a lungo coi profughi polacchi e croati, e sapevamo che cosa voleva dire partire. Nei riguardi dei condannati a morte, la tradizione prescrive un austero cerimoniale, atto a mettere in evidenza come ogni passione e ogni collera siano ormai spente, e come l'atto di giustizia non rappresenti che un triste dovere verso la società, tale da potere accompagnarsi a pietà verso la vittima da parte dello stesso giustiziere. Si evita perciò al condannato ogni cura estranea, gli si concede la solitudine, e, ove lo desideri, ogni conforto spirituale, si procura insomma che egli non senta intorno a sé l'odio o l'arbitrio, ma la necessità e la giustizia, e, insieme con la punizione, il perdono. Ma a noi questo non fu concesso, perché eravamo troppi, e il tempo era poco, e poi, finalmente, di che cosa avremmo dovuto pentirci, e diche cosa
venir perdonati? Il commissario italiano dispose dunque che tutti i servizi continuassero a funzionare fino all'annunzio definitivo; la cucina rimase perciò in efficienza, le corvées di pulizia lavorarono come di consueto, e perfino i maestri e i professori della piccola scuola tennero lezione a sera, come ogni giorno. Ma ai bambini quella sera non fu assegnato compito. E venne la notte, e fu una notte tale, che si conobbe che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere. Tutti sentirono questo: nessuno dei guardiani, né italiani né tedeschi, ebbe animo di venire a vedere che cosa fanno gli uomini quando sanno di dover morire. Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione. Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e all'alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare; e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno, e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno. Non fareste anche voi altrettanto? Se dovessero uccidervi domani col vostro bambino voi non gli dareste oggi da mangiare?
Rastrellamento di ebrei da parte di fascisti e soldati ialiani a Roma Nella baracca 6 A abitava il vecchio Gattegno, con la moglie e i molti figli e i nipoti e i generi e le nuore operose. Tutti gli uomini erano falegnami; venivano da Tripoli, attraverso molti e lunghi viaggi, e sempre avevano portati con sé gli strumenti del mestiere, e la batteria di cucina, e le fisarmoniche e il violino per suonare e ballare dopo la giornata di lavoro, perché erano gente lieta e pia. Le loro donne furono le prime fra tutte a sbrigare i preparativi per il viaggio, silenziose e rapide, affinché avanzasse tempo per il lutto; e quando tutto fu pronto, le focacce cotte, i fagotti legati, allora si scalzarono, si sciolsero i capelli, e disposero al suolo le candele funebri, e le accesero secondo il costume dei padri, e sedettero a terra a cerchio per la lamentazione, e tutta notte pregarono e piansero. Noi sostammo numerosi davanti alla loro porta, e ci discese nell'anima, nuovo per noi, il dolore antico del popolo che non ha terra, il dolore senza speranza dell'esodo ogni secolo rinnovato. L'alba ci colse come un tradimento; come se il nuovo sole si associasse agli uomini nella deliberazione di distruggerci. I diversi sentimenti che si agitavano in noi, di consapevole accettazione, di ribellione senza sbocchi, di religioso abbandono, di paura,
di disperazione, confluivano ormai, dopo la notte insonne, in una collettiva incontrollata follia. Il tempo di meditare, il tempo di stabilire erano conchiusi, e ogni moto di ragione si sciolse nel tumulto senza vincoli, su cui, dolorosi come colpi di spada, emergevano in un lampo, così vicini ancora nel tempo e nello spazio, i ricordi buoni delle nostre case. Molte cose furono allora fra noi dette e fatte; ma di queste è bene che non resti memoria. Con la assurda precisione a cui avremmo più tardi dovuto abituarci, i tedeschi fecero l'appello. Alla fine, Wieviel Stuck? domandò il maresciallo; e il caporale salutò di scatto, e rispose che i «pezzi» erano seicentocinquanta, e che tutto era in ordine; allora ci caricarono sui torpedoni e ci portarono alla stazione di Carpi. Qui ci attendeva il treno e la scorta per il viaggio. Qui ricevemmo i primi colpi: e la cosa fu così nuova e insensata che non provammo dolore, nel corpo né nell'anima. Soltanto uno stupore profondo: come si può percuotere un uomo senza collera? I vagoni erano dodici, e noi seicentocinquanta; nel mio vagone eravamo quarantacinque soltanto, ma era un vagone piccolo. Ecco dunque, sotto i nostri occhi, sotto i nostri piedi, una delle famose tradotte tedesche, quelle
che non ritornano, quelle di cui, fremendo e sempre un poco increduli, avevamo così spesso sentito narrare. Proprio così, punto per punto: vagoni merci, chiusi dall'esterno, e dentro uomini donne bambini, compressi senza pietà, come merce di dozzina, in viaggio verso il nulla, in viaggio all'ingiù, verso il fondo. Questa volta dentro siamo noi. Tutti scoprono, più o meno presto nella loro vita, che la felicità perfetta non è realizzabile, ma pochi si soffermano invece sulla considerazione opposta: che tale è anche una infelicità perfetta. I momenti che si oppongono alla realizzazione di entrambi i due stati-limite sono della stessa natura: conseguono dalla nostra condizione umana, che è nemica di ogni infinito. Vi si oppone la nostra sempre insufficiente conoscenza del futuro; e questo si chiama, in un caso, speranza, e nell'altro, incertezza del domani. Vi si oppone la sicurezza della morte, che impone un limite a ogni gioia, ma anche a ogni dolore. Vi si oppongono le inevitabili cure materiali, che, come inquinano ogni felicità duratura, così distolgono assiduamente la nostra attenzione dalla sventura che ci sovrasta, e ne rendono frammentaria, e perciò sostenibile, la consapevolezza.
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Sono stati proprio i disagi, le percosse, il freddo, la sete, che ci hanno tenuti a galla sul vuoto di una disperazione senza fondo, durante il viaggio e dopo. Non già la volontà di vivere, né una cosciente rassegnazione: che pochi sono gli uomini capaci di questo, e noi non eravamo che un comune campione di umanità. Gli sportelli erano stati chiusi subito, ma il treno non si mosse che a sera. Avevamo appreso con sollievo la nostra destinazione. Auschwitz: un nome privo di significato, allora e per noi; ma doveva pur corrispondere a un luogo di questa terra. Il treno viaggiava lentamente, con lunghe soste snervanti. Dalla feritoia, vedemmo sfilare le alte rupi pallide della vai d'Adige, gli ultimi nomi di città italiane. Passammo il Brennero alle dodici del secondo giorno, e tutti si alzarono in piedi, ma nessuno disse parola. Mi stava nel cuore il pensiero del ritorno, e crudelmente mi rappresentavo quale avrebbe potuto essere la inumana gioia di quell'altro passaggio, a portiere aperte, che nessuno avrebbe desiderato fuggire, e i primi nomi italiani... e mi guardai intorno, e pensai quanti, fra quella povera polvere umana, sarebbero stati toccati dal destino. Fra le quarantacinque persone del mio vagone, quattro soltanto hanno rivisto le loro case; e fu di gran lunga il vagone più fortunato. Soffrivamo per la sete e il freddo: a tutte le fermate chiedevamo acqua a gran voce, o almeno un pugno di neve, ma raramente fummo uditi; i soldati della scorta allontanavano chi tentava di avvicinarsi al convoglio. Due giovani madri, coi figli ancora al seno, gemevano notte e giorno implorando acqua. Meno tormentose erano per tutti la fame, la fatica e l'insonnia, rese meno penose dalla tensione dei nervi: ma le notti erano incubi senza fine. Pochi sono gli uomini che sanno andare a morte con dignità, e spesso non quelli che ti aspetteresti. Pochi sanno tacere, e rispettare il silenzio altrui. Il nostro sonno inquieto era interrotto sovente da liti rumorose e futili, da imprecazioni, da calci e pugni vibrati alla cieca come difesa contro qualche contatto molesto e inevitabile. Allora qualcuno accendeva la lugubre fiammella di una candela, e rivelava, prono sul pavimento, un brulichio fosco, una materia umana confusa e continua, torpida e dolorosa, sollevata qua e là da convulsioni improvvise subito spente dalla stanchezza. Dalla feritoia, nomi noti e ignoti di
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città austriache, Salisburgo, Vienna; poi cèche, infine polacche. Alla sera del quarto giorno, il freddo si fece intenso: il treno percorreva interminabili pinete nere, salendo in modo percettibile. La neve era alta. Doveva essere una linea se¬condaria, le stazioni erano piccole e quasi deserte. Nessuno tentava più, durante le soste, di comunicare col mondo esterno: ci sentivamo ormai «dall'altra parte». Vi fu una lunga sosta in aperta campagna, poi la marcia riprese con estrema lentezza, e il convoglio si arrestò definitivamente, a notte alta, in mezzo a una pianura buia e silenziosa. Si vedevano, da entrambi i lati del binario, file di lumi bianchi e rossi, a perdita d'occhio; ma nulla di quel rumorio confuso che denunzia di lontano i luoghi abitati. Alla luce misera dell'ultima candela, spento il ritmo delle rotaie, spento ogni suono umano, attendemmo che qualcosa avvenisse. Accanto a me, serrata come me fra corpo e corpo, era stata per tutto il viaggio una donna. Ci conoscevamo da molti anni, e la sventura ci aveva colti insieme, ma poco sapevamo l'uno dell'altra. Ci dicemmo allora, nell'ora della decisione, cose che non si dicono fra i vivi. Ci salutammo, e fu breve; ciascuno salutò nell'altro la vita. Non avevamo più paura. Venne a un tratto lo scioglimento. La portiera fu aperta con fragore, il buio echeggiò di ordini stranieri, e di quei barbarici latrati dei tedeschi quando comandano, che sembrano dar vento a una rabbia vecchia di secoli. Ci apparve una vasta banchina illuminata da riflettori. Poco oltre, una fila di autocarri. Poi tutto tacque di nuovo. Qualcuno tradusse: bisognava scendere coi bagagli, e depositare questi lungo il treno. In un momento la banchina fu brulicante di ombre: ma avevamo paura di rompere quel silenzio, tutti si affaccendavano intorno ai bagagli, si cercavano, si chiamavan l'uri l'altro, ma timidamente, a mezza voce. Una decina di SS stavano in disparte, l'aria indifferente, piantati a gambe larghe. A un certo momento, penetrarono fra di noi, e, con voce sommessa, con visi di pietra, presero a interrogarci rapidamente, uno per uno, in cattivo italiano. Non interrogavano tutti, solo qualcuno. «Quanti anni? Sano o malato?» e in base alla risposta ci indicavano due diverse direzioni. Tutto era silenzioso come in un acquario36, e come in certe scene di sogni. Ci saremmo attesi qualcosa di più apoca-
littico: sembravano semplici agenti d'ordine. Era sconcertante e disarmante. Qualcuno osò chiedere dei bagagli: risposero «bagagli dopo»; qualche altro non vo¬leva lasciare la moglie: dissero «dopo di nuovo insieme»; molte madri non volevano separarsi dai figli: dissero «bene bene, stare con figlio». Sempre con la pacata sicurezza di chi non fa che il suo ufficio di ogni giorno; ma Renzo indugiò un istante di troppo a salutare Francesca, che era la sua fidanzata, e allora con un solo colpo in pieno viso lo stesero a terra: era il loro ufficio di ogni giorno. In meno di dieci minuti tutti noi uomini validi fummo radunati in un gruppo. Quello che accadde degli altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi, noi non potemmo stabilire allora né dopo: la notte li inghiottì, puramente e semplicemente. Oggi però sappiamo che in quella scelta rapida e sommaria, di ognuno di noi era stato giudicato se potesse o no lavorare utilmente per il Reich; sappiamo che nei campi rispettivamente di
Buna-Monowitz e Birkenau, non entrarono, del nostro convoglio, che novantasei uomini e ventinove donne, e che di tutti gli altri, in numero di più di cinquecento, non uno era vivo due giorni più tardi. Sappiamo anche, che non sempre questo pur tenue principio di discriminazione in abili e inabili fu seguito, e che successivamente fu adottato spesso il sistema più semplice di aprire entrambe le portiere dei vagoni, senza avvertimenti né istruzioni ai nuovi arrivati. Entravano in campo quelli che il caso faceva scendere da un lato del convoglio; andavano in gas gli altri. Così morì Emilia, che aveva tre anni; poiché ai tedeschi appariva palese la necessità storica di mettere a morte i bambini degli ebrei. Emilia, figlia dell'ingegner Aldo Levi di Milano, che era una bambina curiosa, ambiziosa, allegra e intelligente; alla quale, durante il viaggio nel vagone gremito44, il padre e la madre erano riusciti a fare il bagno in un mastello di zinco, in acqua tiepida che il degenere macchinista tedesco ave-
va acconsentito a spillare dalla locomotiva che ci trascinava tutti alla morte. Scomparvero così, in un istante, a tradimento, le nostre donne, i nostri genitori, i nostri figli. Quasi nessuno ebbe modo di salutarli. Li vedemmo un po' di tempo come una massa oscura all'altra estremità della banchina, poi non vedemmo più nulla. Emersero invece nella luce dei fanali due drappelli di strani individui. Camminavano inquadrati, per tre, con un curioso passo impacciato, il capo spenzolato in avanti e le braccia rigide. In capo avevano un buffo berrettino, ed erano vestiti di una lunga palandrana a righe, che anche di notte e di lontano si indovinava sudicia e stracciata. Descrissero un ampio cerchio attorno a noi, in modo da non avvicinarci, e, in silenzio, si diedero ad armeggiare coi nostri bagagli, e a salire e scendere dai vagoni vuoti. Tutto era incomprensibile e folle, ma una cosa avevamo capito. Questa era la metamorfosi che ci attendeva. Domani anche noi saremmo di-
ventati così. Senza sapere come, mi trovai caricatosu di un auto¬carro con una trentina di altri; l'autocarro partì nella notte a tutta velocità; era coperto e non si poteva vedere fuori, ma dalle scosse si capiva che la strada aveva molte curve e cunette. Eravamo senza scorta? ...buttarsi giù? Troppo tardi, troppo tardi, andiamo tutti «giù». D'altronde, ci siamo presto accorti che non siamo senza scorta: è una strana scorta. È un soldato tedesco, irto d'armi: non lo vediamo perché è buio fitto, ma ne sentiamo il contatto duro ogni volta che uno scossone del veicolo ci getta tutti in mucchio a destra o a sinistra. Accende una pila tascabile, e ci domanda cortesemente ad uno ad uno, in tedesco e in lingua franca, se abbiamo danaro od orologi da cedergli: tanto dopo non ci servono più. Non è un comando, non è regolamento questo: si vede bene che è una piccola iniziativa privata del nostro caronte. La cosa suscita in noi collera e riso e uno strano sollievo.
Invio di ebrei ai campi di concentramento di transito italiani prima della loro “consegna” ai tedeschi per i campi di sterminio
Dipinti sul “Muro di Palestina”
Poesia di Mahmoud Darwish Carta d’Identità Ricordate! Sono un arabo E la mia carta d’identità è la numero cinquantamila Ho otto bambini E il nono arriverà dopo l’estate. V’irriterete? Ricordate! Sono un arabo, impiegato con gli operai nella cava Ho otto bambini Dalle rocce Ricavo il pane, I vestiti e I libri. Non chiedo la carità alle vostre porte Né mi umilio ai gradini della vostra camera Perciò, sarete irritati? Ricordate! Sono un arabo, Ho un nome senza titoli E resto paziente nella terra La cui gente è irritata. Le mie radici furono usurpate prima della nascita del tempo prima dell’apertura delle ere prima dei pini, e degli alberi d’olivo E prima che crescesse l’erba. Mio padre… viene dalla stirpe dell’aratro, Non da un ceto privilegiato e mio nonno, era un contadino né ben cresciuto, né ben nato! Mi ha insegnato l’orgoglio del sole Prima di insegnarmi a leggere, e la mia casa è come la guardiola di un sorvegliante fatta di vimini e paglia: siete soddisfatti del mio stato? Ho un nome senza titolo! Ricordate! Sono un arabo. E voi avete rubato gli orti dei miei antenati E la terra che coltivavo Insieme ai miei figli, Senza lasciarci nulla se non queste rocce, E lo Stato prenderà anche queste, Come si mormora. Perciò! Segnatelo in cima alla vostra prima pagina: Non odio la gente Né ho mai abusato di alcuno ma se divento affamato La carne dell’usurpatore diverrà il mio cibo. Prestate attenzione! Prestate attenzione! Alla mia collera Ed alla mia fame!
Vi chiamo tutti e dico: offro la mia vita per la vostra vi do la luce dei miei occhi come regalo e il calore del mio cuore. la tragedia che vivo è che il mio destino è lo stesso tuo destino. Vi chiamo tutti vi stringo le mani non sono stato umiliato nel mio paese e nemmeno mi sono ritratto dalla paura rimango in piedi davanti ai miei oppressori orfano, nudo, scalzo ho portato il mio sangue sulle mani e non ho abbassato le bandiere ho preservato l'erba verde sulle tombe dei miei antenati di Tawfiq Zayyad