12 dicembre 2014
contro il Governo dei Padroni
Mensile di informazione, politica e cultura dell’Associazione Luciana Fittaioli - Anno VI - n. 12 - dicembre 2014 - distribuzione gratuita
Sciopero Generale
“Prima di giudicare (e per la storia in atto o politica il giudizio è l’azione) occorre conoscere e per conoscere occorre sapere tutto ciò che è possibile sapere” (Antonio Gramsci) “Faremo il possibile per esporre in forma semplice e popolare, senza presupporre la conoscenza nemmeno dei concetti più elementari. Vogliamo farci comprendere dagli operai.” (Karl Marx)
Sommario del mese di dicembre Da Berlino a Gauntanamo La democrazia e il patriot act di Sandro Ridolfi
pagina 5
Il declino dell’Impero USA e l’Europa Crescita “normale” e investimenti di Sandro Ridolfi
pagina 7
Smile, you are in Gaza La ripresa della vita “normale” a Gaza di Valentina Venditti
pagina 9
Nuove regole o “forza bruta” Putin parla dell’America a cura della Redazione
pagina 13
Antiumanesimo Fondazione economica (parte seconda) di Alberto Donati
pagina 17
Sulla Contraddizione Mao Zedong (parte seconda) a cura della Redazione
pagina 21
Malattia mentale o malessere sociale L’idea della salute “soggettiva” di Ivano Spano
pagina 27
Storia del teatro dei sordi (parte seconda) Lingua dei segni teatrale di Dario Pasquarella
pagina 31
Storie di guerra partigiana La lunga marcia della Brigata Maiella di Alba Liberatore
pagina 35
Il Don Giovanni Prova di resilienza di Catia Marani
pagina 39
Mo’ viene Natale Lo spirito dei Natali passati e presente di Chiara Mancuso
pagina 43
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Redazione: via Benedetto Cairoli 30 06034 Foligno redazionepiazzadelgra‐ no@yahoo.it Autorizzazione: tribunale di Perugia n. 29/2009 Editore: Sandro Ridolfi Direttore Responsabile: Maria Carolina Terzi Sito Internet: Andrea Tofi Stampa: Del Gallo Editori Spoleto Chiuso: 23 novembre 2014 Tiratura: 3.000 copie Periodico dell’Associazione “Luciana Fittaioli”
di
Mario rossi (qualsiasi)
la Coop Centro italia, la “nostra” storica Coop umbria divenuta Centro italia con la fusione con la Coop senese, sta acquistando l’intera catena dei supermercati della famiglia Conti di Terni. si profila la nascita di un “super gruppo” (in verità “tutto Coop” che acquista il capitale Conti) nel mondo della distribuzione alimentare della nostra regione (oltre al reatino, parte del marchigiano e alla Toscana senese). Circa 100 punti vendita, circa 3.500 dipendenti, circa 800 milioni di fatturato. la notizia in un momento di grande crisi, che ha colpito anche il più “povero” settore alimentare (ci torniamo di seguito), apparirebbe, a prima vista, come un segnale positivo. E’ davvero così? o dietro la manovra di acquisizione si nascondono “differenti” problematiche imprenditoriali? Non è competenza “tecnica” di questa rivista divulgativa di analizzare processi economici e finanziari così complessi, è però compito della politica, intesa nel senso enunciato dall’incipit gramsciano del conoscere per
sapere e poi poter giudicare, porsi i problemi della comprensione di eventi che potrebbero riflettersi pesantemente sui rapporti economici e quindi condizionare quelli sociali, cioè l’universo della “polis” comunità. le coop, non solo quelle più note della distribuzione alimentare, ma anche quelle delle costruzioni, degli appalti pubblici, delle assicurazioni, ecc. sono da tempo al centro di una indagine promossa dal giornale “il Fatto quotidiano”. Precisiamo che non intendiamo “agganciarci” o anche solo riferirci a quell’indagine che ha generato un forte scontro politico (economico) che ha portato, appunto, il mondo della coop indagate a revocare le inserzioni pubblicitarie su quel giornale. si tratta di un altro profilo decisamente politico, ma nel senso deteriore del termine, cioè non della “polis” comunità ma delle “politichesi” lotte di potere. un dato tuttavia è interessante ricavare da quelle indagini (perché di questo se ne farà richiamo in seguito) ed è quello del “dominio”, cioè di chi detiene il potere su queste coop e chi lo determina. sul punto il “Fatto” fa
Coop
la Coop sei tu (?)
un interessante parallelo tra il crollo dell’unione sovietica imputato a Gorbaciov e la sfascio del grande Partito Comunista italiano imputato a occhetto. il crollo (e lo sfascio) della centrale di controllo del potere politico ha lasciato nella mani dei dirigenti (commissari, manager, ecc.) le grandi aziende pubbliche (da noi le cooperative), sicché questi ultimi, da esecutori delle volontà del centro politico che li aveva preposti a quegli incarichi, si sono improvvisamente trovati ad essere proprietari delle aziende amministrate, senza più un sostanziale controllo, obbligo di rendiconto, ecc. Nell’ex unione sovietica i dirigenti sono diventati i nuovi padroni plurimiliardari, in italia cosa è accaduto (o sta accadendo) nelle stanze di gestione delle coop? Ci torneremo. atteniamoci, per il momento, alla “nostra” storica cooperativa di consumo e ripercorriamone, ma davvero brevemente, la sua genesi ed evoluzione, non per nostalgia di “un tempo che fu”, ma per capire meglio cos’è diventata oggi e, quindi, dove sta potenzialmente andando.
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Le cooperative di consumo nascono con il compito, oggi si usa dire molto più elegantemente “mission” o “core business”, di fornire ai propri soci, che erano (e ancora oggi sono) prevalentemente i cittadini lavoratori delle fasce economico sociali più deboli, prodotti alimentari di buona qualità a un prezzo accessibile. La crescita economica del nostro Paese, e quindi del livello sociale dei propri cittadini, nel tempo e giustamente ha comportato la trasformazione degli originari “spacci” alimentari, spesso allo “sfuso”, in supermercati sovrabbondanti di prodotti e iper tecnologici. La crisi che, come abbiamo più sopra anticipato, ha colpito pesantemente persino il più povero, cioè basilare, settore della alimentazione, ha fatto “rimettere i piedi in terra”. Allo sfavillio degli “ipermercati”, cittadelle avveniristiche del consumo, si sono affiancati con crescente capillarità di distribuzione e successo di fatturato i discount alimentari, esercizi basati essenzialmente sui principi opposti: bassi costi di gestione e quindi bassi costi di vendita, con selezione attenta dei prodotti meno costosi (niente o pochi marchi, niente o scarse importazioni, stagionalità, naturalità, filiere corte, ecc.). Un’azienda (cooperativa) che volesse mantenere fede alla propria missione istituzionale originaria dovrebbe porsi quale primo e principale obiettivo quello di individuare le modalità più efficaci per assicurare ai propri clienti (ma non si chiamano soci?) il miglior sostegno economico e quinti eticosociale possibile. Verrebbe allora da pensare che una cooperativa di consumo dovrebbe abbandonare le politiche dei centri, iper, supermercati “sfavillanti” e riconvertirsi rapidamente in una struttura di distribuzione di basso profilo di immagine e conseguentemente di bassi costi, ma capace di dare un’adeguata risposta quali-quantitativa alle attuali esigenze di un vasto impoverimento dei propri destinatari. Torniamo al nostro caso dell’ingigantimento della “nostra” storica cooperativa di consumo.
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Sappiamo che negli ultimi anni, oramai in verità molto numerosi, le coop hanno sviluppato una seconda branca aziendale, niente affatto coerente con la vera e propria missione imprenditoriale, dedicandosi pesantemente ai mercati finanziari. Poche parole: le coop di consumo sono in sostanza degli sportelli bancari che raccolgono denaro dai propri soci in forma di prestiti, fuori dalle regole del sistema del credito e sottratte al controllo della Banca d’Italia (n.b. nessuna “nostalgia” per un controllo del tutto inesistente come ci ha insegnato il caso del buco spaventoso del Monte dei Paschi, ma già basterebbero le vicende penali della nostra piccola ex Banca Popolare di Spoleto, commissariata dalla Banca d’Italia ma solo dopo l’intervento della magistratura penale!). Cosa hanno fatto le coop (inclusa la “nostra”) di quelle enormi raccolte liquide? Le hanno investite nell’ottimizzazione della loro rete di approvvigionamento e distribuzione? In parte anche, ma in larga parte le hanno invece investite in operazioni finanziarie ad alto, sovente altissimo rischio. Gli esiti li conosciamo: perdite, diciamo..., “significative”. Non vogliamo tornare ad Aristotele che definiva un’aberrazione immorale la rendita dal prestito del denaro, ma pensare che una cooperativa nata per assistere i bisogni alimentari dei propri soci si trasformi in uno speculatore finanziario appare davvero una “aberrazione” (e ciò a prescindere dal risultato peraltro, come detto, “non positivo”). L’odierna operazione di acquisizione di una catena di distribuzione alimentare sembrerebbe, infine, avere ricondotto l’operatività della “nostra” coop di consumo al suo ambito istituzionale, ma... La catena Conti è manifestamente un doppione della catena della Coop acquirente, sia per tipologia di immagine e tecniche di vendita che, cosa ancora più importante, per territorio. Se è vero (com’è vero) che il sistema della distribuzione di più alto profilo sta sensibilmente soffrendo: da un lato l’im-
poverimento della massa degli utenti, dall’altro la concorrenza dei citati discount, perché acquistare un’altra catena verosimilmente nelle medesime condizioni di sofferenza (se non già attuale, verosimilmente potenziale, la crisi non si arresta e l’impoverimento della popolazione colpisce sempre più pesantemente anche il settore di base dell’alimentazione)? Due debolezze non danno una forza, ma una debolezza doppia, tanto più quando, come detto, si insiste sullo stesso territorio, cioè sulla stessa utenza, e dunque si corre il rischio di una concorrenza in casa propria. Dato per certo che questa operazione di acquisizione non comporterà miglioramenti per l’utenza (la missione storica delle cooperative di consumo), quale o quali potrebbero essere le “differenti” ragioni di una operazione di “gonfiamento” di fatturato (punti vendita, dipendenti, ecc.)? Sui rapporti con la politica abbiamo già detto, ma aggiungiamo ancora che se nella prima fase, già ampiamente consolidata, la morte del centro del relativo potere politico ha reso le aziende padrone di se stesse, l’attuale fase di disfacimento dei partiti sta facendo sì che ai nuovi padroni manchi l’interlocutore storico, ancorché a rapporti di forza “ribaltati”. La più grande realtà nella distribuzione alimentare in Umbria è di gran lunga la Conad, sicché la “storica” Coop sembra essere regredita a un livello inferiore, già per peso politico, oggi anche per peso aziendale. Crescere “fisicamente” dunque può essere un’esigenza di capacità (forza) di interlocuzione politica nei confronti di controparti non più o sempre meno “omogenee”. La più recente storia imprenditoriale italiana (ma non solo) ci ha consegnato degli esempi assai poco entusiasmanti di crescite strumentali a fini “altri”, cioè non pertinentemente aziendali, tutte finite male, per non dire malissimo (dal “caso di scuola” della Parmalat, alla Giacomelli Sport, alla assai più piccola ma molto vicina Wonderfull).
di Sandro ridolfi
il 9 novembre scorso è stato celebrato il 25° anniversario della “caduta” del Muro di Berlino. Sono anni, oramai, che questa celebrazione rituale perde sempre più enfasi e (più o meno finta) allegria. Sono gli anni della crisi sempre più grave dell’occidente capitalistico che non solo non promette più le illusioni di ricchezza e libertà propagandate al di là del muro negli anni della guerra fredda, ma sta scaricando buona parte della propria crisi proprio su quei paesi trascinati nell’area dell’Unione economica europea sostanzialmente come serbatoi di mano d’opera a basso costo. la stessa ex Germania dell’Est, a venticinque anni dall’unificazione, sta prendendo coscienza di una annessione iniqua che, dopo avere distrutto le magari inferiori e più rozze tutele sociali del socialismo reale, continua a depredarla e tenerla in condizione di inferiorità sotto tutti i punti di vista. Questa volta alle celebrazioni
berlinesi ha partecipato uno degli artefici di quella “caduta”, o meglio del disastroso “crollo” dell’intero sistema orientale: Michail Gorbaciov. Ma questa volta vi ha partecipato non più come “eroe” lodato dall’occidente, ma come “pentito” di un errore storico gigantesco (ci torniamo in un successivo inserto). Eppure gli Stati Uniti, la patria, o meglio il proprietario del copyright della “libertà”, per bocca del suo sempre più debole e appannato premio nobel per la Pace (anche su lui ci torniamo in un altro inserto), ha rivendicato con orgoglio quell’evento che ha dato finalmente libertà e democrazia ai popoli dell’est europeo schiacciati dal giogo del socialismo reale della ex superpotenza sovietica. il premio nobel per la Pace, dopo avere ammonito il governo cinese a rispettare il diritto di protesta democratica dei giovani occupy di Hong Kong (ricevendo di risposta un: preoccupatevi delle manganellate dei vostri poliziotti ai vostri giovani – vedi inserto nel numero precedente – e non interferite negli affari inter-
Libertà (?)
da Berlino a Guantanamo
ni di un paese sovrano), avrebbe a suo dire (così dice la stampa occidentale, ma è assai improbabile che abbia veramente avuto la sfacciataggine di farlo davvero) invitato sempre il governo cinese al rispetto dei diritti civili e in particolare della libertà di stampa nel corso dell’ultimo vertice dell’aPEC a Pechino, infine, non pago di seminare ammonimenti e minacce, nel corso della recentissima visita in Myanmar avrebbe auspicato per quel paese delle libere e democratiche elezioni, forte della sua recente esperienza del disastro delle costosissime elezioni di medio termine per il rinnovo del parlamento USa, elezioni alle quali, nonostante le spese pubblicitarie strabilianti (quasi il pil annuo di Myammar), hanno preso parte meno della metà degli elettori. Un fatto, non di poco conto, però il premio nobel per la Pace ha dimenticato di dirlo, o meglio di farlo pur avendone assunto l’impegno diversi anni fa: la chiusura, o meglio l’ancora attuale esistenza in pieno regime di attività, del campo di concentramento e tortura di Guantanamo.
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Qualche giorno fa, scorrendo tra i diversi canali televisivi satellitari, si è fermata (ma molto per poco, in verità…) l’attenzione su di un programma seriale prodotto negli Stati Uniti e distribuito, sembra con grande e costante interesse, anche in Europa e in Italia in particolare. Si tratta di uno dei tanti programmi polizieschi, caratterizzati da un sempre crescente utilizzo di mezzi, informazioni (ma poi saranno vere?), iper tecnologiche. La serie si intitola NCSI (credo…) e racconta delle straordinarie avventure di super poliziotti tecnologici, organizzati in squadre speciali al di sopra delle ordinarie organizzazioni di polizia ma anche di intelligence internazionale degli USA, essenzialmente dedicati alla lotta contro i terroristi, ovviamente sempre di matrice islamica, che attentano non solo alla sicurezza degli Stati Uniti (che sarebbe ben poca cosa, come dire “di casa”), ma dell’intera umanità (per lo più minacce nucleari e meglio ancora oggi, batteriologiche), circostanza che abilita gli Stati Uniti ad assumersi (arrogarsi) la difesa (dovere o diritto?) dell’intero mondo “libero”. Si tratta di un programma destinato a un pubblico vasto, forse anche minorile, e quindi diffusore di un messaggio subliminale educativo (ovviamente con il punto interrogativo, per quanto appresso dirò). Ebbene nell’episodio casualmente intercettato aveva luogo una complicatissima caccia ad anonimi terroristi internazionali (poi come detto accertati di matrice islamica) che si proponevano di fare esplodere niente meno che una portaerei nucleare americana ancorata nel porto di Napoli. I bravi super poliziotti, con una acuta strategia d’imboscata si acquattavano negli angoli della stiva della portaerei e sma-
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scheravano il terrorista di turno nell’atto di innescare l’esplosione nucleare. Aveva luogo una colluttazione con tanto di spari che, ovviamente, ferivano il cattivo che, infine, veniva legato a una lettiga e sottoposto a un serrato interrogatorio per scoprire mandanti, strategie, ecc. Il tizio in questione, declinate le proprie generalità americane, invocava la lettura dei propri diritti. Chi non ha visto nei milioni di telefilm polizieschi americani il fatidico momento della lettura dei diritti? Un classico dei classici. Non la ripetiamo proprio perché, nel nostro caso, il bravo super poliziotto capo, sorprendentemente, invece di leggere al prigioniero gli storici diritti costituzionali americani gli rispondeva che lui, il terrorista, non aveva diritti. Alle ingenue (a quel punto…) insistenze del prigioniero ferito e decisamente malmesso, il poliziotto replicava che nel suo caso avrebbe fatto applicazione del “Patriot Act” che negava all’arrestato qualsiasi diritto, ma aggiungeva anche, e qui viene il colpo di scena che risolverà l’indagine sui mandanti, progetti, ecc., che era già pronto a decollare un aereo militare per trasportare il prigioniero nella base di Guantanamo dove, senza diritto appunto ad alcun processo, si sarebbero perse per anni le tracce della sua stessa esistenza. Al solo gesto di due robusti marines di acciuffare il ferito per trascinarlo all’aereo già con i motori accessi, quest’ultimo cedeva e raccontava tutto, pur di non finire a Guantanamo. Grandi sorrisi di soddisfazione dei tutori della legge e della libertà per un altro pericolo scampato all’intera umanità. Il programma, come detto, è di ordinario intrattenimento e grande diffusione nazionale USA e internazionale. Un
programma sostanzialmente educativo. Ma quale educazione? Proviamo a trasportare la vicenda alle cose di casa nostra, anzi proprio a “cosa nostra”. I nostri poliziotti arrestano un pericoloso mafioso sicuramente colpevole di gravissimi reati di sangue. Lo interrogano per avere i nomi dei complici, mandanti, organizzazione, ecc. L’arrestato si difende e invoca il diritto al “giusto processo”, alla presunzione di innocenza fino a condanna definitiva, ecc. ecc. A quel punto i poliziotti gli spezzano un braccio e ripetono le domande. Magari si tratta di un pluriomicida, spacciatore di eroina, violentatore, pedofilo e chi più ne ha più ne metta, ma… è possibile, non dico legale o legittimo, solo culturalmente e moralmente possibile, rompergli un braccio per farlo collaborare? Il commissario Montalbano che spezza un braccio a un perfido, efferato, violento criminale mafioso e poi sorride contento di avere assicurato alla giustizia una rete di criminalità mafiosa. Lo passiamo in prima serata televisiva per l’educazione dei nostri giovani al senso di legalità, libertà e democrazia? Eppure gli americani se ne fanno merito e vanto e tutti, intendo tutti anche i nostri poliziotti (vedi il caso Abu Omar) e non solo i terroristi islamici, debbono saperlo e esserne grati. Il muro di Berlino è caduto, il recinto elettrificato di Guantanamo è perfettamente in piedi e in funzione, non sappiamo quanti detenuti ci siano ancora, ma sappiamo che ce ne sono e quel “ingenuo” (?) telefilm americano ci dice che altri ne sono entrati e potranno entrare in futuro perché il premio Nobel per la Pace non ha proprio alcuna intenzione di mettere fine a quella barbarie ma... il referendum della Crimea viola il diritto internazionale...
di Sandro ridolfi
il declino di un impero
Pochi mesi fa è stato pubblicato in italia il nuovo saggio dell’ex ambasciatore Sergio romano, noto e rispettato (per competenza, lucidità e imparzialità) editorialista de la repubblica. il titolo è pienamente esplicativo del contenuto: “il declino dell’impero americano”. Che gli USa fossero entrati da diverso tempo nella fase del definitivo declino del loro “impero” è un dato noto e percepibile a chiunque non si rifiuti di leggere la realtà, per dedurne le dovute conseguenze e assumere le necessarie “contromisure” e, al contrario, in quanto incapace di “intendere e volere”, continui a chiudere gli occhi e ad affidarsi a dogmi di fede. l’ultimo libro dell’ambasciatore romano segue precedenti pubblicazioni che già anticipavano i segnali di questa crisi che oggi è manifesta sia nella sua gravità che nella sua irreversibilità. "le guerre non vinte, come quelle dell'afghanistan e dell'iraq, - scrive l’ambasciatore romano - sono inevitabilmente, per una potenza imperiale, guerre perdute. la crisi dell'impero americano è cominciata a Kabul e a Baghdad, ma diviene ancora più evidente quando i più vecchi e fedeli alleati degli Stati Uniti lanciano segnali di fastidio e cominciano a fare scelte politiche che danno per scontato il declino della potenza americana.” “Se il declino degli Stati Uniti come impero mondiale sembra evidente, - aggiunge l’ambasciatore romano - non altrettanto chiaro è il modo in cui gli americani sapranno attraversare questa fase della loro storia. la condizione imperiale è esaltante, una droga da cui non è fa-
cile disintossicarsi. la francia uscì dalla seconda guerra mondiale sostanzialmente sconfitta, ma cercò di prolungare la sua presenza in indocina, in algeria, e non ha ancora perduto l’abitudine a mandare i legionaires negli Stati africani di cui si considera protettrice. la Gran Bretagna ha continuato a credere per molti anni in un impero camuffato da Commonwealth”. la storia ci ha insegnato che un impero che crolla lancia segnali di una estrema pericolosità, tanto più quando la sua forza imperiale era stata fondata essenzialmente su quella militare. a differenza di altri grandi imperi della storia, occidentale e orientale, gli USa infatti non hanno mai avuto un predominio culturale, hanno preso tutto quel che potevano, risorse naturali, economiche e umane, ma non hanno mai lasciato tracce del loro passaggio (a parte la Coca Cola e i Mcdonald’s). il loro disfacimento quindi non genererà nuove identità comunque eredi dell’antico impero dominatore, ma rivolte e rifiuti totali e potenzialmente violenti. Queste considerazioni, implicite nella narrazione delle vicende della nascita e dell’attuale declino dell’impero americano, conducono l’ambasciatore romano ad assumere le seguenti conclusioni: “la parabola del declino americano sarà tanto meno pericolosa quanto più verrà accompagnata dalle scelte prudenti e ragionevoli della Cina, della russia, del Brasile, dell'iran e dei paesi a cui ho già dedicato alcune pagine. Ma la responsabilità maggiore, in questo quadro, è dell'Europa. l'Unione europea e gli Stati Uniti hanno un enorme patrimonio di interessi comuni nell'economia, nella finanza, nella ricerca scientifica, nella lotta contro il terrorismo e la
USA contro Europa
declino, crescita “normale”, Europa criminalità internazionale. dipende interamente dai suoi membri. Se continueranno a rifiutare la prospettiva di un governo comune, saranno indotti a coltivare la propria individualità e continueranno ad avere, per meglio giustificare la propria esistenza, interessi diversi. Un'Europa divisa, per gli Stati Uniti, è il migliore degli alleati possibili. l'affermazione spiacerà a molti, ma l'unità dell'Europa si farà soltanto a dispetto dell'america.” Se non fosse abbastanza chiaro da tempo, basterà citare la recentissima vicenda della crisi ucraina. Siamo “onesti” e diciamo che dell’Ucraina all’Europa non è mai importato niente, così com’è stato peraltro per tutti gli altri Stati dell’Europa orientale, malamente aggregati al carro dell’Unione Europea un po’ per manie di grandezza (28 Stati, 500 milioni di abitanti, ecc.); un po’, in gran parte, per l’acquisizione di territori più prossimi e più “domestici” per la delocalizzazione delle imprese occidentali; un po’, infine, come serbatoio di mano d’opera a basso costo e irrilevante professionalizzazione. a scatenare il “furore” ucraino (peraltro paese con forte deriva fascista) sono stati gli Stati Uniti che hanno obbligato l’Europa ad assumere atteggiamenti conflittuali con la storica e non domata grande avversaria degli USa: la russia rinata dalle ceneri del crollo dell’UrSS. la russia (e bisogna considerare ormai la nuova UrSS, che si chiama Unione Economica Euroasiatica che include, oltre alla Bielorussia, sostanzialmente tutti gli Stati centro asiatici produttori di risorse energetiche) è un partner strategico per l’Europa sia come fornitore di risorse energetiche che come mercato sempre più vasto, ricco e interessante.
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Ma di più, la Russia, storicamente e culturalmente europea assai più dell’anglosassone Inghilterra appendice mercenaria dell’impero USA, è oggi, grazie al BRICS e allo SCO, la porta preferenziale non solo per l’estremo oriente, ma anche per tutto il Mondo emergente. Rompere con la Russia è una follia già nell’immediato, come lo stanno vivendo molti Sati europei esportatori, ma soprattutto nel futuro di un Mondo che sta spostando a grandissima velocità il suo asse economico e politico fuori dal “vecchio” come dal “nuovo” continente. Sganciare le sorti dell’Europa da quelle dell’America è un imperativo e un’emergenza. Come fare, qualche lezione possiamo provare a prenderla magari proprio dai nuovi paesi emergenti.
La teoria della “crescita normale” della Cina e l’investimento del “tesoro” della Russia
Aprendo il recentissimo vertice dell’APEC (Cooperazione Economica Asia-Pacifico) di Pechino il presidente cinese Xi Jinping ha esposto la teoria della “crescita normale” elaborata dalla nuova dirigenza cinese. Dopo numerosi anni di crescita vorticosa che ripetutamente ha superato indici a due cifre, oggi la crescita dell’economia cinese ha rallentato per stabilizzarsi, progettualmente, attorno al 7,5%. Una percentuale alta, di fronte ai segni negativi del resto del Mondo, ma soprattutto enorme in termini assoluti considerando che oggi l’economia cinese è la prima del Mondo avendo superato, secondo i dati di ottobre del Fondo Monetario Internazionale, quella USA: 17.600 contro 17.400 di Pil reale (n.b. merita notare che il Presidente cinese definisce sempre l’economia cinese la seconda del Mondo, anche se non precisa se si riferisce al paragone con gli USA o con la sommatoria della UE). Ebbene esponendo la sua teoria di “crescita normale”, sostanzialmente anche al fine si rassicurare gli altri paesi sul rischio di una frenata dell’economia cinese dagli effetti potenzialmente depressivi sulle già malmesse economie del resto del Mondo, Xi Jinping ha precisato che la “frenata” non è dovuta a fattori di dinamiche del mercato (esterno, riduzione delle esportazioni, o interno, avvicinamento alla saturazione), ma è la conseguenza di precise scelte politiche di governo economico. “Nuova normalità – ha detto Xi Jinping – non è una novità. Nei 35 anni tra il 1978 e il 2013 la crescita annuale dell'economia cinese è stata in media vicina al 10% e, tra il 2003 e il 2007, ha
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raggiunto l’11,5%. Questa crescita economica ha cambiato il destino di diverse centinaia di milioni di cinesi, che sono stati sollevati dalla povertà abietta. Tuttavia non può durare per sempre. Questa crescita così importante è avvenuta a un prezzo elevato di inquinamento dell'aria e di sfruttamento esaustivo delle risorse naturali. E' tempo di ripensare la crescita della Cina sotto una nuova normalità, con nuove idee e in un nuovo quadro. L'economia cinese ha bisogno di una pausa e, ancora più importante, di una revisione della modalità di una crescita sostenibile. L'essenza della "nuova normalità" non è solo una questione di velocità. E' più importante una struttura economica migliore che si basi più sul settore terziario e sull'innovazione.” Cosa ci dice e cosa potrebbe (dovrebbe) insegnarci la nuova politica economica cinese: che anche nel pieno di una crescita forte e costante un paese che sappia governare i propri processi economici deve prevedere il futuro e intervenire già oggi per guidarli, non abbandonarsi al solo “mercato”, ma costruire lui il mercato del futuro con una sola parola: innovazione, che non sono gli 80 euro per la spesa di casa, né la riduzione del costo della manodopera (economica e di tutele giuridiche), né la riduzione delle imposte generalizzata e non orientata. In questo modo si da solo”respiro” congiunturale a una crisi strutturale che tale rimarrà e si aggraverà sempre più. Una seconda lezione potremmo ancora trarla dall’altra nazione emergente che, invece, diversamente dalla Cina, sta vivendo un momento congiunturale di crisi, seppure fortemente indotta da fattori esterni (sanzioni ed effetti negativi sugli scambi commerciali). Prima di partire per il vertice del G20 in Australia il Presidente Putin ha rilasciato una lunga intervista nel corso della quale ha anche affrontato il tema della crisi del rublo e del pericolo della stagnazione dell’economia russa. A prescindere dal fatto che in questo momento la svalutazione del rublo sta fortemente premiando l’economia russa (esportazioni di energia in dollari, riduzione delle importazioni come conseguenza della svalutazione = miglioramento della bilancia commerciale e protezione delle produzioni interne), il Presidente ha risposto alla domanda circa le intenzioni del governo di immettere liquidità nel sistema economico interno. E’ bene sapere che il governo russo dispone non di un “tesoretto”, ma di un vero e proprio tesoro di riserve di valuta pregiata e oro accumulato negli anni del boom delle esportazioni
energetiche. Questo tesoro è stato blindato dal governo come riserva strategica per i rischi di potenziali anni “bui”, ora se ne chiede lo “sblocco”. Così ha risposto Putin. “Stiamo prendendo in considerazione tutti gli scenari, tra cui la potenziale caduta catastrofica dei prezzi per le risorse energetiche. Il Ministero dell'Economia e delle Finanze prefigura ogni scenario. Ho parlato di squilibri del capitale, da un lato, e delle materie prime, d'altra parte. Quando appaiono, in alcuni casi a causa di considerazioni politiche, diversi paesi - e in particolare le economie emergenti – subiscono un duro colpo e si trovano in grandi complicazioni. Un paese come il nostro trova la situazione più facile da affrontare. Perché? Perché siamo produttori di petrolio e gas e gestiamo le nostre riserve in valuta estera/oro con parsimonia. Le nostre riserve sono grandi e ci permettono di sentirci sicuri sulla nostra capacità di mantenere gli impegni sociali e i processi di bilancio e l'intera economia entro un certo quadro. Eravamo già pronti a dissigillare le nostre riserve anche prima degli eventi delle fluttuazioni del tasso di cambio del rublo o della riduzione dei prezzi del petrolio. Abbiamo parlato di un possibile utilizzo di quei fondi in diverse aree di intervento. Una è quella delle infrastrutture. Questo significa che si possono utilizzare le riserve ma solo per investimenti che prospettino ritorni economici e non solo per risolvere i problemi contingenti”. Anche la Russia, dunque, ci indica la strada di un intervento programmato del governo nel reindirizzo strutturale del sistema economico mediante investimenti pubblici che prospettino ritorni economici e non solo misure contingenti finalizzate a sostenere l’emergenza della imprenditoria privata in crisi di liquidità e di progetto, come nel nostro caso delle “sblocca cantieri” e simili opere faraoniche (ponte di Messina e tunnel della Val di Susa) insulse e improduttive. Nota di colore che ci rimanda alle conclusioni dell’ambasciatore Romano. Proprio in questi giorni il segretario del tesoro americano ha violentemente attaccato la politica monetaria europea che comprime il mercato interno e sta portando a una continua svalutazione dell’euro di fronte al dollaro, una politica che, in sostanza, riduce le importazioni dell’Europa dagli Usa e stimola il contrario. Secondo il governo americano l’Europa si dovrebbe ancora di più indebitare per sostenere la ripresa dell’economia USA! Ovvio per dei sudditi.
Gaza
Smile, you are in Gaza
Statue in vetroresina, argilla e “macerie” realizzate da Eyad Sabbah a Shujaiyya di
V. V.
Ogni volta che entro a Gaza ho la sensazione di tornare a casa mia, perché Gaza è così ti avvolge e ti stravolge, ti conquista con i suoi sorrisi, la sua creatività, la dignità, la sua voglia di vivere nonostante tutto. Sono fuori dal checkpoint di Eretz in attesa dei controlli, fa un caldo che non è normale per novembre e mi accorgo di avere sbagliato completamente abbigliamento. Seduta nella panchina accanto a me c’è una donna con due
bambini di tre e quattro anni. Sono curiosi, vispi, si guardano attorno e urlano con meraviglia “mamma mamma guarda... un cane” ignorando forse che stavano indicando i cani addestrati dall’esercito o forse, riuscendo a vedere, come solo i bambini sanno fare, in quel cane solo un tenero animale. … poi con la più grande naturalezza vengono a dare la mano a tutti noi che eravamo lì ad aspettare e in un attimo l’attesa diviene meno stancante. in quel momento penso che ho dei giochini dentro la mia valigia. Tiro
fuori due palline e le do ai bambini che felici iniziano a mostrarle a tutti assieme al loro migliore sorriso. La mamma mi guarda e mi chiede da dove vengo. Le dico “italia”, lei mi dice che è originaria del ’48 ma e’ sposata con un uomo di Gaza e vivono a Jabalya. Lei si meraviglia della mia conoscenza di Jabalya, le spiego che è una delle zone dove lavoro e molti miei amici abitano lì. in quel momento tira fuori dalla sua borsa dei mandarini e una banana e chiede ai figli di darmeli. Questo è il benvenuto di Gaza. Questa eè la gente di Gaza.
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Smile, you are in Gaza Finiti tutti i controlli, mi incammino per i quasi 2 km del tunnel che dividono il checkpoint israeliano da quello interno di Gaza. La donna e i bambini invece erano ancora là fuori in attesa, ci siamo lasciate con la speranza di incontrarci a Jabalya. Mi stupisce sempre constatare la loro forza e la loro umanità nonostante la situazione che sono costretti a vivere. Sono passati due mesi e mezzo dalla fine dell’offensiva militare “Margine Protettivo” e la devastazione è percepile oltre che visibile negli occhi della gente: più di 2200 morti (80% civili) tra cui più di 510 bambini e 230 donne; 11,000 I feriti, sono 44,300 le case
colpite e 20.000 quelle completamente distrutte o non più agibili; più di 220 le scuole e 58 tra ospedali e cliniche danneggiati. “Lo sai che sono morti tanti bambini? Ora sono tutti in paradiso” mi dice la nipotina di 4 anni di un mio caro amico di Jabalya. Io non sapevo cosa rispondere ai suoi occhi innocenti e chiedo solo: “E come lo immagini il paradiso?”. Lei ci pensa, mi guarda e dice: “pieno di giocattoli!”. Dal primo giorno di tregua, la popolazione di Gaza è tornata in strada, cercando di riprendere la propria vita, per quelli che sono rimasti, per i bambini. Molti di quelli che hanno perso la casa hanno
Smile, you are in Gaza Non è stato semplice tornare a scuola, quelle scuole che sono state rifugi durante I bombardamenti che hanno ospitato anche 100 persone per classe in condizioni igieniche precarie. Ancora oggi circa 39 mila persone vivono rifugiate in 18 scuole UNRWA. Le prime settimane di scuola sono state dedicate al-
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lo svolgimento di attività ricreative e di supporto psicosociale dei bambini, per aiutarli a tornare ad una qualche “normalità”, a sconfiggere la paura e tornare tra i banchi a studiare. A far questo sono state non solo le organizzazioni internazionali ma anche e soprattutto le associazioni palestinesi e anche
trovato alloggio presso parenti e amici in una straordinaria gara di solidarietà. Molti altri però vivono ancora in alloggi di fortuna o in tende costruite proprio di fronte alle macerie della propria casa o in strutture provvisorie stile container di metallo che però non hanno elettricità né sistema idraulico. Oggi c’è il sole ma le scorse settimane il maltempo ha messo nuovamente a dura prova la popolazione. Le scuole iniziate il 14 settembre portano i segni dei bombardamenti e molte classi devono far lezione con la pioggia che cade dai buchi sul tetto e il vento che entra dalle pareti danneggiate. Ma Gaza non si arrende, I bambini fanno a turno per cambiare I secchi che si riempiono d’acqua mentre imperterriti continuano ad ascoltare l’insegnante.
giovani volontari che attraverso musica, gioco e ascolto hanno accompagnato I bambini in questo percorso di reinserimento. “Molti bambini avevano paura ad uscire di casa, a lasciare I genitori. Abbiamo visto però che sono felici quando stiamo con loro, quindi li accompagnamo, giochiamo con loro nel cortile delle scuole e poi facciamo delle attività nel pomeriggio” dice un giovane animatore palestinese.
Smile, you are in Gaza Durante I 51 giorni di bombardamenti, I giovani palestinesi non hanno mai smesso di prendersi cura dei bambini organizzando laboratori nelle case, nelle scuole UNRWA, negli ospedali sfidando I missili degli F16. “Non potevamo
stare a casa, fare qualcosa era il nostro dovere nei confronti del nostro popolo e dei bambini con I quali lavoriamo”. Ogni volta che vado a Shujaiyya faccio fatica a credere che quello che vedo sia vero. Un intero quartiere
raso al suolo, attorno solo rovine, macerie e crateri. Mi fermo a parlare con un ragazzo che ha costruito una tenda accanto alla sua casa distrutta. Era una casa di quattro piani vivevano li’ lui e tutti I suoi fratelli con le loro famiglie. Non e’ rimasto piu’ niente. Nella devastazione improvvisamente vedo un bambino che gioca su una macchina mezza distrutta fa finta di guidarla e ride.
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Smile, you are in Gaza
Il livello della devastazione di Gaza é stato testimoniato anche dal Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon che, in ritorno da un suo viaggio a Gaza, ad ottobre, il primo dopo i 51 giorni di attacco, ha affermato che niente lo avrebbe potuto preparare alla distruzione a cui ha assistito. Durante la sua visita Ban Ki Moon si è recato nella scuola dell’UNRWA del campo profughi di Jabalya colpita il 30 Luglio dove si trovavano più di un migliaio di sfollati provenienti dal Nord della Striscia di Gaza dopo essere stati costretti a lasciare le proprie case. 16 persone sono state uccise e molte altre ferite dopo che i colpi hanno colpito due aule e un bagno. L’esercito Israeliano aveva ricevuto le coordinate della scuola almeno 17 volte. Ban Ki Moon ha anche nutrito speranze sulla ricostruzione. E c’è grande attesa per la ricostruzione a Gaza soprattutto ora che l’inverno è alle porte e sono molti gli sfollati e quelli che non hanno ancora accesso ad elettricità, gas e acqua potabile. Il 12 ottobre al Cairo 50 paesi donatori hanno deciso di stanziare complessivamente un ammontare pari a 5,4 miliardi di dollari ma nonostante tutto e come era facilmente previdibile date le esperienze passate, il processo stenta a partire e sembra più lungo del previsto. Tanti sono i paletti imposti dallo stato di Israele che non vuole permettere l’ingresso di quei materiali che sono considerati di “doppio uso” ossia che possono essere utilizzati sia per scopi civili che militari come il cemento, il metallo e così via. Per ovviare a questa situazione l’ONU ha nominato un “Coordinatore speciale per il processo di pace in Medio Oriente”, Robert Serry, che ha messo su un meccanismo temporaneo congiunto tra l’ONU, governo di Palestina ed Israele, il Gaza Reconstruction Mechanism (GRM), allo scopo di: permettere ai palestinesi di condurre la ricostruzione, supportare il settore privato di Gaza, assicurare I donatori che I loro investimenti nei lavori di ricostruzione verranno portati avanti senza ritardi, rispondere alle esigenze israeliane di verificare l’utilizzo del materiale per esclusivi scopi civili. Il funzionamento del GRP si basa sulla premessa della “stabilità politica, capacità tecnica per l’ingresso dei materiali, e la disponibilità di adeguati finanziamenti”. Il GRP
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prevede, la messa in funzione di un database presso il Ministero degli Affari civili Palestinese a disposizione delle agenzie di intelligence israeliane, che seguirà ogni materiale e permetterà il controllo sia di chi vende che di chi compra. Infine è previsto l’invio di centinaia di osservatori internazionali esperti in diversi settori per monitorare tutto il processo di ricostruzione e l’ingresso dei materiali con la conseguenza prevedibile di dilatare a dismisura i tempi in una situazione che potrebbe raggiungere a breve il collasso. Inoltre la stampa israeliana ha calcolato che più del 60% dei soldi stanziati per Gaza finiranno nella casse del governo israeliano che sarà il fornitore esclusivo di materiali e macchinari necessari per la ricostruzione. Nel frattempo quasi giornalmente a Gaza ci sono imponenti manifestazioni di fronte la sede dell’UNRWA per denuciare l’impunità di israele, per chiedere si inizi a ricostruire ciò che è stato distrutto a partire dalle case, la rete fognaria, la centrale elettrica, gli ospedali e le scuole e per spingere anche gli stati donatori a non accettare che Israele guadagni anche dalla distruzione che esso stesso ha creato. La ricostruzione di ogni casa deve essere approvata dal GRM; chi ha potuto ha cercato di coprire i buchi con ciò che ha trovato: legno, plastica, nylon. Non c’è nuovo cemento e quello che si trova è molto costoso e di scarsa qualità. Ma non si può stare solo in attesa.
Non vogliono l’ennesimo paliativo, vogliono una presa di posizione forte che porti finalmente ad una fine del blocco. Per chiunque abbia visto Gaza dopo Piombo Fuso appare chiaro che questa volta è stato molto molto peggio. Non è facile credere ancora al diritto internazionale, alla comunità internazionale... c’è stanchezza, tanta. I palestinesi questa volta lo hanno detto chiaramente e senza mezzi termini: non accetteremo niente di meno del riconoscimento dei nostri diritti, della fine dell’assedio, della possibilità di pescare e coltivare, dell’apertura dei confini, del diritto all’autodeterminazione. Qualcuno dovrà pure ascoltare. Forse ha ascoltato la Svezia decidendo di riconoscere lo stato di Palestina unendosi a Malta e Cipro che sono gli altri unici due stati dell’europa occidentale ad avere proceduto al riconoscimento formale. Un riconoscimento dal forte potere simbolico. Segnali importanti sono arrivati anche dai parlamenti di Spagna, Inghilterra e Irlanda che si sono pronunciati a favore del riconoscimento. Forse ha deciso di ascoltare il Consiglio dell’ONU per i diritti Umani che ha deciso di inviare una commissione d’inchiesta guidata dal giudice Shabas per accertare i crimini di guerra commessi da Israele e dai gruppi armati palestinesi. Sarebbe potuto essere un primo passo se Israele non avesse negato l’ingresso ai membri della commissione e dichiarato di non voler collaborare in alcun modo con l’inchiesta. Ma dopo 66 anni l’immobilità della comunità internazionale non stupisce più... ma intanto... Gaza resiste.
Dopo 20 anni di “pensionamento” politico, salvo, almeno nei primi anni, alcune apparizioni sostanzialmente pubblicitarie, Mikhail Gorbaciov, oramai ottantenne ma ancora in ottime condizioni fisiche e psichiche (lo ha dimostrato alla recente celebrazione del 25° anniversario di Berlino di cui abbiamo parlato in un articolo precedente) è tornato, anche se in posizione di “seconda linea”, alla ribalta della vita politica russa. Ci è tornato con un sito internet e radiofonico che trasmette le sue posizioni politiche sugli eventi che riguardano in partcolare la condizione politica interna e internazionale che sta vivendo oggi la Russia. Ci è tornato schierandosi apertamente a fianco di Putin e della sua politica che, dopo 20 anni di vero e proprio sfacelo economico, politico e morale, ha di fatto “rimesso in piedi” il gigante russo, anche nel suo ruolo di attore di primo piano nella scena politica mondiale. Per giungere a questo ritorno
e assumere queste posizioni politiche Gorbaciov, l’ultimo presidente della Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, ha compiuto un radicale ripensamento della sua politica che portò al collasso di quell’immensa nazione, trascinando con sé i numerosi Stati all’epoca satelliti: un vero e proprio “pentimento” (o “endorsement” come oggi si usa dire nella lingua yankee). “Molti all’epoca mi avevano detto di non fidarmi degli americani - ha dichiarato Gorbaciov - e non avevano torto”. Reagendo violentemente al discorso di Obama che ha indicato la Russia tra i tre terribili mali che affliggono il Mondo, mettendola tra l’ebola e l’Isis, Gorbaciov ha lanciato la denuncia riporatta nel titolo dell’inserto, aggiungendo, riferendosi a Obama: “almeno avessero una leadership come si deve”. Non siamo all’inizio di una nuova “guerra fredda” e tanto meno al rischio
Valdai
«L’unica febbre che colpisce il nostro mondo è l’America con le sue pretese di leadership» (Mikhail Gorbaciov)
di una vera e propria guerra a seguito delle pretestuose vicende dell’Ucraina - ha concluso Gorbaciov - ma è giunto sicuramente il tempo di reagire alla prepotenza dell’Impero Usa (in declino, come scritto in un precedente articolo) e lanciare un nuovo dialogo che coivolga a pieno titolo anche le nuove realtà economico-politiche emerse ed emergenti, per ristabilire un nuovo ordine mondiale equo o quanto meno equilibrato. Nella riunione del Valdai Club tenuta a Sochi lo scorso mese, Putin ne ha tracciato le linee. Riportiamo di seguito un estratto di quel lungo intervento (reperibile per intero nel sito internet del Presidente della Fedarazione Russa “kremlin”); è interessante leggerlo per conoscere diverse verità e aiutare a comprendere la realtà. Non aggiungiamo commenti, è un documento informativo e come tale lo offriamo all’intelligenza dei nostri lettori. (SR)
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Il Presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin Colleghi, signore e signori, amici, è un piacere darvi il benvenuto alla riunione XI del Valdai Internazionale Discussion Club. Spero non vi dispiacerà se parlerò direttamente e francamente. Alcune delle cose che dirò potrebbero sembrare un po' troppo dure, ma se non diciamo direttamente e onestamente quello che realmente pensiamo, tutto ciò non ha molto senso. Abbiamo bisogno di essere diretti e schietti oggi al fine di tentare di andare a fondo su ciò che sta realmente accadendo nel mondo, per cercare di capire il motivo per cui il mondo sta diventando meno sicuro e più imprevedibile e perché i rischi sono in aumento in tutto il mondo.
Nuove regole o “forza bruta”? La discussione di oggi si svolge sul tema: “nuove regole del gioco o un gioco senza regole?”. Penso che questa formula descriva con precisione il punto della svolta storica nel quale ci troviamo oggi e le scelte che abbiamo tutti di fronte. Per analizzare la situazione odierna dobbiamo rifarci alle lezioni della storia. Prima di tutto i cambiamenti nell'ordine mondiale - e quelli che stiamo vedendo oggi sono eventi di questa portata - in genere sono stati accompagnati se non da una guerra globale, da catene di conflitti a livello locale intensivi. In secondo luogo la politica globale, le questioni di guerra e pace e la dimensione umanitaria compresi i diritti umani, sono soprattutto un problema di leadership economica Il mondo è pieno di contraddizioni oggi. Dobbiamo essere sinceri nel chiederci se abbiamo una rete di sicurezza affidabile. Purtroppo non vi è nessuna garanzia e nessuna certezza che l'attuale sistema di sicurezza globale e regionale sia in grado di proteggerci da sconvolgimenti. Il sistema attuale si è seriamente indebolito, frammentato e deformato. E’ vero, molti dei meccanismi che abbiamo per assicurare l'ordine del mondo sono stati creati molto tempo fa, soprattutto nel periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale. Vorrei sottolineare che la solidità del sistema creato allora non riposava solo sui rapporti di forza e sui diritti dei paesi vincitori, ma sul fatto che i 'padri fondatori' di questo sistema avevano
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rispetto l’uno per l'altro, non hanno cercato di mettere alla stretta gli altri, ma hanno tentato di raggiungere accordi. E' mia convinzione che non possiamo disperdere questo meccanismo costruito nel corso degli ultimi decenni, a volte con tanta fatica e difficoltà, e semplicemente distruggerlo senza costruire nulla al suo posto. In caso contrario, saremmo lasciati senza strumenti diversi dalla forza bruta. Ciò che dobbiamo di fare è di eseguirne una ricostruzione razionale e di adattarlo alle nuove re- Sochi 2014 altà nel sistema delle relazioni interna- Allo stesso tempo, il controllo totale zionali. dei media globali ha reso possibile cambiare, a discrezione, il bianco con I sedicenti Vincitori della “guerra il nero e il nero con il bianco. fredda” In una situazione in cui c’era il dominio Ma gli Stati Uniti si sono dichiarati di un solo paese e dei suoi alleati, o mevincitori della guerra fredda, non han- glio dei suoi satelliti, la ricerca di soluno ritenuto necessario fare accordi. In- zioni globali spesso si è trasformata nel vece di creare un nuovo equilibrio di tentativo di imporre le proprie ricette potere, essenziale per mantenere l'or- come universali. Le ambizioni di un dine e la stabilità, hanno preso misure paese sono cresciute così tanto che quel che hanno gettato il sistema in uno paese ha iniziato a presentare le politisquilibrio acuto e profondo. che messe a punto nelle sue stanze del La guerra fredda si è conclusa, ma non potere come la visione di tutta la comusi è conclusa con la firma di un trattato nità internazionale. Ma non è così. di pace, con accordi chiari e trasparen- La stessa nozione di 'sovranità nazioti sul rispetto delle vigenti norme o la nale' è diventata un valore relativo per creazione di nuove regole e norme. la maggior parte dei paesi. In sostanza, Questo ha fatto si che i sedicenti 'vin- ciò che viene proposto è la formula: citori' della guerra fredda hanno deci- maggiore è la lealtà verso l’unico censo di rimodellare il mondo secondo i tro di potere del mondo, più grande diloro bisogni e interessi. venta questo centro di potere e la legitPerdonate l'analogia, ma questo è il timità del suo regime. modo in cui i nuovi ricchi si comportano quando improvvisamente finisce la Un potere “sovra-legale” loro grande fortuna, che in questo caso Le misure adottate contro coloro che è la leadership economica e il dominio rifiutano di sottoporsi sono ben note e del mondo. Invece di gestire il loro pa- sono state provate e testate più volte. trimonio con saggezza, anche a proprio Esse comprendono l'uso della forza, la beneficio, hanno commesso tante follie. pressione economica, la propaganda e Siamo entrati in un periodo di diverse l’ingerenza negli affari interni, esse interpretazioni e di silenzi deliberati fanno appello a una sorta di legittimanella politica mondiale. Il diritto inter- zione 'sovra-legale' quando c’è bisogno nazionale è stato costretto a ritirarsi di giustificare un intervento illegale in più e più volte per l'assalto di nichili- questo o quel conflitto o rovesciare i smo giuridico. L'obiettività e la giusti- regimi scomodi. Non è per niente che il zia sono stati sacrificati sull'altare del- 'Grande Fratello' sta spendendo mila convenienza politica. Interpretazio- liardi di dollari per mantenere tutto il ni arbitrarie e valutazioni di parte mondo, tra cui i propri più stretti alleahanno sostituito le norme giuridiche. ti, sotto sorveglianza.
Proviamo a chiederci come stiamo in questa situazione, quanto siamo sicuri, come è felice vivere in questo mondo. Forse non abbiamo reali motivi per preoccuparci? Forse la posizione eccezionale degli Stati Uniti e il modo con cui stanno portando avanti la loro leadership economica e politica in realtà è una benedizione per tutti noi e la loro ingerenza negli eventi in tutto il mondo sta portando la pace, la prosperità, il progresso, la crescita e la democrazia, e dovremmo forse solo rilassarci e godere di tutto questo? Lasciatemi dire che non è assolutamente così. Un diktat unilaterale con l’imposizione di propri modelli produce il risultato opposto. Invece di risolvere i conflitti porta alla loro escalation, invece di Stati sovrani e stabili vediamo la crescente diffusione del caos e al posto della democrazia vi è il supporto per un populismo molto discutibile, l’apertura ai neofascisti e ai radicali islamici. Gli ideologi del caos (in)controllato Perché gli Stati Uniti sostengono queste situazioni? Lo fanno perché decidono di usarle come strumenti per raggiungere i loro obiettivi, per poi però bruciarsi le dita e subire il contraccolpo. Non smetto mai di essere stupito dal modo in cui gli Stati Uniti e i loro satelliti non finiscono mai di calpestare lo stesso rastrello, come si dice qui in Russia, vale a dire, ripetere lo stesso errore più e più volte. Gli Stati Uniti hanno sponsorizzato i movimenti estremisti islamici per combattere l'Unione Sovietica. Questi gruppi hanno acquisito la loro esperienza di combattimento in Afghanistan e in seguito hanno dato vita ai talebani e ad Al-Qaeda. L'Occidente, se non li ha direttamente supportati, almeno ha chiuso gli occhi per l'invasione della Russia da parte di terroristi internazionali. Solo dopo che degli attacchi terroristici terribili sono stati commessi sul suolo americano gli Stati Uniti hanno compreso la comune minaccia del terrorismo. Permettetemi di ricordarvi che siamo stati il primo paese a sostenere il popolo americano in quei momenti, i primi a reagire come amici per la terribile tragedia dell'11 settembre. Durante le mie conversazioni con i leader americani ed europei ho sempre parlato della necessità di combattere il terrorismo insieme, come una sfida su scala globale. Non possiamo rassegnarci ad accettare questa minaccia,
non si può dividerla e usare due pesi e due misure. I nostri partner all’inizio hanno espresso il loro consenso, ma poi siamo tornati al punto di partenza. Prima c'è stata l'operazione militare in Iraq, poi in Libia, che è stata spinta sull'orlo di cadere a pezzi. Perché la Libia è stata spinta in questa situazione? Oggi è diventato un campo di addestramento per terroristi. Solo la determinazione e la saggezza dell’attuale leadership egiziana può salvare questo paese arabo chiave dal caos e dal dilagare degli estremisti. In Siria, come in passato, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno iniziato finanziando e armando direttamente i ribelli e consentendo loro di riempire i loro ranghi con mercenari provenienti da vari paesi. Vorrei chiedervi da dove vengono questi ribelli, come ottengono i loro soldi, le armi e gli specialisti militari? Da dove viene tutto questo? Come ha fatto il famigerato ISIS a diventare un gruppo così potente, in sostanza una vera e propria forza armata? Chi finanzia il terrorismo Per quanto riguarda le fonti di finanziamento, oggi, il denaro non proviene solo dalla droga, la cui produzione è aumentata enormemente da quando le forze della coalizione internazionale sono presenti in Afghanistan. Sappiamo che i terroristi ricevono soldi dalla vendita del petrolio. Il petrolio viene prodotto in zone controllate dai terroristi, che lo vendono a prezzi di dumping, lo producono e lo trasportano nel loro territorio. Ma qualcuno compra questo petrolio, lo rivende e fa profitto, senza pensare al fatto che in questo modo sta finanziando i terroristi che potrebbero venire, prima o poi, a semi-
nare distruzione nei loro stessi paesi. Da dove prendono le nuove reclute? In Iraq, dopo che Saddam Hussein è stato rovesciato, le istituzioni dello Stato, compreso l'esercito, sono state mandate in rovina. Abbiamo detto a quei tempi di stare molto attenti. Non bisogna dimenticate che (giustamente o no) erano a capo di una grande potenza regionale, in cosa sono stati trasformati? Qual è stato il risultato? Decine di migliaia di soldati, funzionari ed ex attivisti del partito Baath sono stati trasformati in resistenti e oggi si sono uniti alle fila dei ribelli. Forse questo spiega il motivo per cui il gruppo Stato islamico si è rivelato così forte in termini militari. La Russia ha avvertito ripetutamente circa i pericoli di azioni militari unilaterali, intervenire negli affari degli Stati sovrani e flirtare con gli estremisti e i radicali. A volte si ha l'impressione che gli Stati Uniti sono costantemente in lotta con le conseguenze delle loro politiche, sono costretti a dedicare tutto il loro impegno nell’affrontare i rischi che essi stessi si sono creati. La ricerca del “centro del male” Colleghi, questo periodo di dominio unipolare ha dimostrato in modo convincente che un solo centro di potere non è più in grado di gestire i processi globali. Al contrario, questo tipo di costruzione instabile ha dimostrato la sua incapacità di combattere le minacce reali, come i conflitti regionali, il terrorismo, il traffico di droga, il fanatismo religioso, lo sciovinismo e il neonazismo. Allo stesso tempo, ha aperto la strada alla rinascita del peggiore nazionalismo, ha manipolato l'opinione pubblica e lasciato che il forte sopprima i più deboli.
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In sostanza, il mondo unipolare è semplicemente un mezzo per giustificare la dittatura sulle persone e paesi. Il mondo unipolare si è rivelato troppo scomodo, pesante e ingestibile anche per il suo leader autoproclamato. Questo è il motivo per cui vediamo dei tentativi di ricreare una parvenza di un mondo quasi-bipolare come modello conveniente per perpetuare la leadership americana. Non importa chi prende il posto del “centro del male” della propaganda americana, il vecchio posto dell'URSS. Potrebbe essere l'Iran, un paese che cerca di acquisire la tecnologia nucleare, la Cina, la più grande economia del mondo, o la Russia, una superpotenza nucleare. Stiamo assistendo a nuovi sforzi per frammentare il mondo, tracciare nuove linee di divisione, mettere insieme coalizioni non costruite per qualcosa, ma nei confronti di qualcuno, chiunque esso sia, creando l'immagine di un nemico, come è avvenuto durante gli anni della guerra fredda e, in questo modo, ottenere la diritto di questa leadership, o diktat, come la si vuole chiamare. Gli Stati Uniti hanno sempre detto i propri alleati: "Abbiamo un nemico comune, un terribile nemico, il “centro del male”, voi siete i nostri alleati e noi Vi stiamo difendendo da questo nemico e quindi abbiamo il diritto di darvi ordini, costringervi a sacrificare i vostri interessi politici ed economici e pagare la vostra quota dei nostri costi per questa difesa collettiva, ma siamo noi, naturalmente, a dirigere tutto questo". In breve, vediamo oggi tentativi, in un mondo nuovo, di riprodurre modelli già noti di gestione globale, tutto questo per garantire agli Stati Uniti una posizione eccezionale e trarre vantaggi politici ed economici. Ma questi tentativi sono sempre più fuori dalla realtà e sono in contraddizione con la diversità del mondo. I passaggi di questo tipo creano inevitabilmente scontro e generano contromisure che hanno l'effetto opposto a quello sperato. Illegittimità e illogicità delle sanzioni Le sanzioni minano le fondamenta del commercio mondiale, le norme dell'OMC e il principio di inviolabilità della proprietà privata. Costituiscono un duro colpo per il modello liberale della globalizzazione dei mercati, per la libertà e per la concorrenza che, permettetemi di notare, è il modello economico di cui hanno beneficiato soprattutto i paesi occidentali. Dopo tutto la pro-
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sperità degli Stati Uniti si basa in gran parte sulla fiducia degli investitori e dei detentori stranieri di dollari e titoli statunitensi. Questa fiducia è chiaramente minata e i segni di delusione nei frutti della globalizzazione sono visibili oggi in molti paesi. Abbiamo già visto che sempre più paesi sono alla ricerca di modi nuovi per diventare meno dipendenti dal dollaro, con la creazione di sistemi finanziari e di pagamento alternativi e valute di riserva. Penso che gli Stati Uniti stanno semplicemente tagliando il ramo su cui sono seduti. Non è possibile mescolare la politica e l'economia, ma questo è ciò che sta accadendo ora. Ho sempre pensato e continuo a pensare oggi che le sanzioni per motivi politici sono state un errore che danneggia tutti. Sappiamo che queste decisioni sono state prese sotto pressione. Ma permettetemi di sottolineare che la Russia non ha intenzione di venire a mendicare alla porta di nessuno. La Russia è un paese autosufficiente. Lavoreremo all'interno dell'ambiente economico straniero che ha preso forma, svilupperemo la produzione nazionale e la tecnologia e agiremo in modo più decisivo per realizzare la trasformazione. Le pressioni esterne ci aiutano a consolidare la nostra società, ci tengono allerta e ci fanno concentrare sui nostri obiettivi principali di sviluppo. Non abbiamo alcuna intenzione di farci chiudere fuori da nessuno e di vivere in autarchia. La Russia, l’Asia e l’Europa Alcuni dicono oggi che la Russia sta girando le spalle all’Europa e che è alla ricerca di nuovi partner commerciali,
soprattutto in Asia. Lasciatemi dire che questo non è assolutamente vero. La nostra politica nella regione Asia-Pacifico non è iniziata ieri e non è iniziata in risposta alle sanzioni, ma è una politica che abbiamo seguito da un bel po' di anni a questa parte. Vorrei aggiungere che le relazioni internazionali devono essere basate sul diritto internazionale, che si dovrebbe poggiare su principi morali come la giustizia, l'uguaglianza e la verità. Forse la cosa più importante è il rispetto per gli altri e per i loro interessi. Si tratta di una formula ovvia, ma seguendo questa potrebbe cambiare radicalmente la situazione globale. Onorevoli colleghi, la Russia ha fatto la sua scelta. Le nostre priorità stanno ulteriormente migliorando le nostre istituzioni democratiche, l’economia, lo sviluppo interno accelerato, tenendo conto di tutte le moderne tendenze positive nel mondo e il consolidamento della società basata su valori tradizionali e il patriottismo. Abbiamo una positiva agenda orientata alla integrazione pacifica; stiamo lavorando attivamente con i nostri colleghi dell'Unione economica eurasiatica, l'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, il BRICS e gli altri partner. Questo programma ha lo scopo di sviluppare legami tra i governi, non di dividere. Sì, certo, la costruzione di un ordine mondiale più stabile è un compito difficile. Stiamo parlando di un lavoro lungo e difficile. Il nostro compito comune è quello di risolvere il problema fondamentale in questa nuova fase di sviluppo. Vi ringrazio per la vostra attenzione.
Antiumanesimo
La fondazione economica dell’Antiumanesimo (seconda parte)
di ALberto doNAti
Nel numero precedente ci si è introdotti alla fondazione economica della filosofia del nichilismo, ovvero, ciò che non cambia, della cultura dell’antiumanesimo. Nell’articolo che segue continua la descrizione dell’azione corrosiva indotta dal sistema economico mettendo in evidenza come la libertà dalla morale (illuministica) non sia affatto una conquista, ma un perverso strumento di governo, di svilimento e di assoggettamento della persona umana. L’articolo si conclude con l’indicazione di un possibile neoilluminismo basato sul protagonismo dei cives.
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8. — c) la corruzione degli adulti Una nuova stella si è definitivamente accesa nel firmamento giuridico: il diritto alla propria identità. Esso potrebbe essere definito come il diritto ad essere ciò che si è, o si ritiene che si sia, nel momento in cui lo si è. Il diritto alla propria identità contiene, dunque, un momento dinamico nel senso che i suoi contenuti possono variare nel tempo risolvendosi, così, anche nel diritto al “vestito di Arlecchino”, vale a dire, nel diritto ad una “identità nomade”, nel diritto alla identità plurima (plural identity; multiple self). Si afferma così la “priority of the self” (la priorità di se stessi), donde l’introduzione dell’“absolute individual right” (diritto assoluto alla propria individualità), talché, non si dà più il diritto alla libertà (“no right to liberty”) - tale in quanto fondato sulla moralità tradizionale (protestante ed illuministica) e, per ciò, capace di uniformare le relazioni intersoggettive -, ma il diritto alle libertà (“the right to liberties”). Questo processo sociologico può essere ulteriormente sintetizzato affermando che ha avuto luogo il transito dagli Human Rights (diritti umani) agli Individual Rights (diritti individuali), dalla Freedom of Speech (libertà di parola) alla Freedom of Expression (libertà di espressione), vale a dire, alla libertà di vilipendere la bandiera nazionale, di camminare nudi per le strade, etc., dalla Liberty (libertà) alla License (licenza), dalla Happiness (felicità) fondata sulla moralità (non quella cattolica), alla Happiness fondata sulla sua negazione. Si è così indotta la formazione di un umanesimo negativo incentrato sul protagonismo del loose individual (individuo slegato), tale in quanto sciolto “dal matrimonio e dalla famiglia, dalla scuola, dalla chiesa [protestante], dalla nazione, dal lavoro e dalla responsabilità morale” (R. Nisbet). Una degradazione già rilevata da Francesco De Sanctis a proposito dell’Italia cattolica: “Cosa [...] [è rimasto] nella coscienza? Nulla. Non Dio, non patria, non famiglia, non umanità, non civiltà”. Per altro, il loose individual, la “liberazione” dall’etica, non sono che strumenti di governo del sistema capitalistico della produzione, poiché tanto maggiore la corruzione tanta maggiore il profitto, tanto maggiore la facilità dell’arbitrio economico e, quindi, politico.
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9. — d) la corruzione dei giovani Un significativo momento di riscontro di questa sociologia è costituito dalla progressiva espunzione dalla pubblica istruzione, vale a dire, dalla sede in cui si formano i futuri cittadini, degli aspetti culturali dell’esperienza umana, dalla conseguente riduzione della educazione scolastica (preuniversitaria ed universitaria) alla preparazione professionale, tecnica, all’apprendere il know haw che presiede allo svolgimento delle varie attività produttive. Ciò comporterà, progressivamente, il degrado culturale delle generazioni a venire a tutto vantaggio delle oligarchie finanziarie, industriali e religiose, a tutto vantaggio della formazione, già in corso, di istituzioni educative d’élite da cui sono esclusi i giovani appartenenti alle classi popolari. È, dunque, in via di svolgimento “Un attacco concentrato [...] al fine di orientare le scuole e le università verso la formazione professionale: ridurre la parte dedicata alla cultura umanistica e alle scienze sociali, abbassare il livello dell’insegnamento non professionale. Per questa via, la forza lavorativa, sempre più massiva, che si rende necessaria al buon andamento del sistema, sarà deputata, fin dall’infanzia, a riprodurre in se stessa la propria esistenza sociale e il suo asservimento tramite il linguaggio che le viene insegnato, i sentimenti che le vengono inculcati, i vantaggi che essa apprende a desiderare” (H. Marcuse). Edonismo estremo e povertà culturale: questo è il programma educativo dei giovani, dei protagonisti della società di domani, chiamati anche a pagare l’astronomico debito pubblico accumulato dai loro ascendenti. Il sistema, infatti, costringe i genitori a vivere sulle spalle dei propri figli e dei propri nipoti (c.d. solidarietà intergenerazionale), li induce a venire meno al dovere primario consistente nel provvedere al miglioramento della loro esistenza. Si comprende, così, il vero significato della liturgia della fede sponsorizzata dalla Chiesa cattolica. All’essere umano che ha smarrito la ragione e con essa la capacità di essere il protagonista del proprio futuro, viene proposta le fede, l’abbandono alla speranza in un intervento divino che, per altro, non potrà esserci poiché Dio ha dato all’uomo la ragione e se egli l’abbandona non può che farsene carico. Le sventure sociali sono la giusta punizione per questo abbandono. Sbagliare
per poi pretendere che Dio vi ponga rimedio è un non senso che, tuttavia, giova massimamente alla religiosità cattolica in quanto basata sulla superstizione, in quanto sovrastruttura del sistema economico, di quello feudale e latifondista, prima, di quello capitalistico, oggi. La fede, infatti, non sorretta dalla razionalità, posta, dunque, come alternativa alla ragione, diviene un “oppio” che consente di alienare in una dimensione transmondana i problemi del presente a tutto vantaggio delle lobbies egemoniche, di cui, la stessa Chiesa cattolica è parte costitutiva rinvenendo nell’economia capitalistica la propria fonte di finanziamento, concorrendo, così, anche all’accrescimento della povertà e della disoccupazione giovanili, che essa, poi, ipocritamente denunzia.
10. — e) la denaturalizzazione della natura Il sistema capitalistico della produzione, lasciato a se stesso, importando uno sfruttamento massivo delle risorse terrestri, altera anche gli equilibri naturali, mettendo in forse la stessa sopravvivenza dell’uomo. Per la prima volta nel corso dello svolgimento storico le modalità produttive della ricchezza sociale causano una alterazione dell’ambiente naturale tale da recare pregiudizio alle istanze esistenziali dell’essere umano e, più latamente, dei viventi.
Da un lato, la concorrenza tra le imprese, dall’altro, la connessa necessità di stimolare la domanda dei consumatori, richiedono una continua innovazione tecnologica diretta, per un verso, a diminuire i costi di produzione delle singole merci e, quindi, i relativi prezzi di vendita al dettaglio, per altro verso, ad introdurre nuove merci. Questo processo avviene mediante un progressivo ampliamento della base di produzione reso possibile dalla formazione di concentrazioni di capitali industriali e finanziari sempre più estese. È in tal modo che la produzione economica dalla dimensione locale è trascorsa a quella regionale, quindi, a quella nazionale, infine, a quella metanazionale, alla sua attuale strutturazione globalizzata. Questo medesimo progressivo ed inarrestabile ampliamento causa un proporzionale accrescimento della utilizzazione delle risorse naturali. Figurativamente, la produzione economica capitalistica è simile ad un vortice ascensionale. Essa, infatti, in ragione della sua continua espansione, da un lato, induce il depauperamento delle risorse naturali, dall’altro, altera la qualità dei beni definiti, nel quadro della letteratura che, a vario titolo, ne ha fatto oggetto di studio, come “comuni”, con conseguente significativo scadimento della qualità della vita sotto il profilo della salute. Tali beni, infatti, sono l’aria, le acque marine, le acque dolci, il terreno, il patrimonio
costituito dalla flora, il patrimonio faunistico, il clima. Il fenomeno è aggravato dal fatto che i paesi emergenti, nell’adottare il sistema economico industrializzato e dovendo quanto più possibile contenere i costi produttivi, bruciano le tappe della loro modernizzazione obliterando le istanze ecologiche, concorrendo, così, significativamente, all’accrescimento dell’inquinamento complessivo.
11. — f) il declassamento della scienza a tecnica La visione culturale informata al “paradigma scientifico”, vale a dire, al predominio della scienza, nata da Galileo Galilei, basata sulla triade, conoscenza scientifica, sperimentazione e tecnologia, cui si correla l’affermazione del valore della libertà, per questa via, sul piano politico, della democrazia, è ormai trascesa dall’avere la scienza acquisito natura strumentale rispetto alle esigenze del sistema capitalistico della produzione, dall’essere stata incorporata in questo stesso sistema, dall’essere diventata organo della produzione capitalistica. L’universalismo della scienza è divenuto parte costitutiva e significante dell’universalismo capitalistico, della globalizzazione economica e, quindi, politica della società umana. La scienza non è più l’espressione della filosofia dell’umanesimo, non è più al servizio dell’uomo ma del sistema economico capitalistico, ne supporta il valore ordinante costituito dal nichilismo, come anche attestato dal rilievo filosofico acquisito dalla c.d. fisica del caos. La scienza, infatti, è divenuta atea. Per altro, se non esiste un principio (latamente inteso) ordinante e razionalizzante il tutto, la scienza non può darsi, essa non è che tecnologia. Se “la scienza [...] [è] essenzialmente un’economia di pensiero” (E. Mach), se i concetti scientifici non sono che il prodotto del “desiderio di abbreviare e di semplificare la comunicazione” (E. Mach), se le leggi della natura, in realtà, non sono che convenzioni che si stabiliscono tra gli scienziati (E. Mach), se “nella natura non vi è né causa né effetto. La natura è qui e ora” (E. Mach), se “la coscienza è un prodotto del cervello” (I. Tattersall), se sono i “processi fisici che producono la mente” (E.O. Wilson), se, dunque, non è la mente (l’anima) a servirsi del cervello, ma è quest’ultimo che regola la mente secondo un rapporto di natura organica; se, tutto ciò
è vero, è evidente che la scienza ha abdicato al proprio statuto filosofico per transitare al servizio del nichilismo capitalistico favorendo, così, significativamente anche il riemergere dei fondamentalismi religiosi, in primo luogo, di quello cattolico.
12. — Le conseguenze politiche: la corruzione dello Stato L’utilitarismo indotto dalla logica del profitto, così come corrompe la base sociale, corrompe anche lo Stato: “Sta nascendo [...] un nuovo sistema sociale: un regime neo- o semi-fascista [...]. Indizi sicuri orientano in questa direzione: [...] la crescita della popolazione dipendente, l’alleanza della Mafia con i gruppi di affari legittimi, il contagio della violenza, [...] la concentrazione delle armi di annientamento nelle mani delle autorità costituite, la corruzione che infetta l’insieme del processo democratico” (H. Marcuse). La più elevata manifestazione di questa corruzione, quella da cui procedono tutte le sue ulteriori manifestazioni, è costituita dalla adesione della classe politica (e sindacale) al neoliberismo capitalistico, alla globalizzazione, intesa, non come processo di unificazione economica e, quindi politica, dell’umanità, ma riguardata come strumento illimitato delle speculazioni finanziarie ed industriali. 13. — Riepilogo: verso il Medio Evo capitalistico Il complesso delle tendenze precedentemente riferite, induce a ritenere che la società stia evolvendo verso un secondo Medio Evo, incomparabilmente più terribile del primo. Ed infatti, il progresso scientifico, le istanze connesse alle strategie militari, hanno sviluppato un sistema di controllo della persona umana suscettibile di essere integrale, capace di dar luogo ad una società orwelliana informata alla onnipresenza del Grande Fratello, alla compiuta realizzazione del benthamiano Panopticon (D. Lyon). Questo bagaglio tecnologico è destinato a divenire lo strumento suscitativo del consenso politico, religioso ed economico, la cui efficacia sarà direttamente proporzionale al livello raggiunto dalla centralizzazione dei capitali e dal conseguente livello di concentrazione del potere politico, dal grado di connessione tra quest’ultimo ed il potere religioso, poiché la “teocrazia sarà la forma odiosa e caricaturale della futura organizzazione delle democrazie” (J. Attali).
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L’“Eclisse della ragione” (M. Horkheimer) porta con sé il riemergere di quella “eccessiva liberta” prodromica del passaggio all'assolutismo politico e religioso: “L'eccessiva libertà [...] non può trasformarsi che in eccessiva schiavitù, per un privato, come per uno Stato [...] È naturale, quindi, [...] che la tirannide non si formi da altra costituzione che la democrazia: cioè [...] dalla somma libertà viene la schiavitù maggiore e più feroce” (Platone); “Gli approcci liberali, gli approcci della sinistra e della destra radicali, sembrano, tutti insieme, condurre verso la schiavitù” (T. J. Lowi); “la libertà pendendo [...] in licenza, degenera finalmente in servaggio” (V. Alfieri); “Corrotti in una nazione tutti i diversi ceti, è manifestamente impossibile che ella [nazione] diventi o duri mai libera” (V. Alfieri). Sul piano delle relazioni internazionali, lo scadimento nella arbitrarietà delle relazioni umane è significato dalla riemersione dei fondamentalismi religiosi. Sulla base del loro attivismo, essi si suddividono in due versanti, da un lato, quello mussulmano facente capo, nelle sue manifestazioni più estreme, ad al-Qāʿida, alla Jihad, all’Isis, etc., dall’altro, la religiosità occidentale espressa dal cattolicesimo legato al sionismo ebraico ed al protestantesimo. L’antagonismo tra le civiltà si trasforma, per questa via, in uno “scontro” (S.P. Huntington) che sempre più tende ad assumere la fisionomia di una guerra di religione mondiale combattuta, almeno al momento, con metodi non tradizionali, ma non per ciò meno guerra. A questa fenomenologia si aggiunge la prossimità del collasso economico degli Stati Uniti: “il dollaro tiene solo grazie a Pechino” (J. Attali), l’“indebitamento generale del paese supera già il PIL mondiale” (J. Attali). La svalutazione del dollaro avrebbe conseguenze molto gravi sul tessuto economico internazionale, innesterebbe una crisi dagli effetti imprevedibili. Inoltre, gli imperi in agonia possono reagire ricorrendo alla guerra e questo è quanto sembra che stia accadendo se si considera il complesso delle relazioni conflittuali che gli USA vengono intessendo con una parte significativa delle popolazioni mussulmane e con la Russia, allontanando quest’ultima dall’Europa mentre dovrebbe più che mai essere integrata in essa, se si considera quella parte degli interventi militari statunitensi non supportati dalle Nazioni Unite.
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13. — L’alternativa L'uomo può ancora impedire l’evento catastrofico verso cui il nichilismo lo sta conducendo, rendendosi artefice e non oggetto di storia, modificando il corso degli eventi, dando ad essi un indirizzo razionalistico. Ed infatti, “quel che molti non paiono ancora voler capire è che qui [...] non si tratta di questioni finanziarie, ma di esseri umani e non è pensabile che i pochi dominanti ricchi operino solo per cancellare i poveri” (G. Rossi). Occorre prendere atto: 1) che il potere politico è passato alle multinazionali; 2) che la globalizzazione è governata dalla dottrina del neoliberismo, dalla dottrina del “fascismo bianco”; 3) che a causa di ciò, per effetto del libero mercato, le condizioni lavorative dell’Occidente, frutto di un secolare processo storico, verranno adeguate a quelle dei paesi in via di sviluppo; 4) che, pertanto, povertà, sottoccupazione e disoccupazione sono le reali prospettive di medio periodo; 5) che non solo i governi sono divenuti “agenzie di affari del capitalismo”, ma, prima ancora, i partiti politici ed i sindacati; 6) che, di conseguenza, la base non ha più una reale rappresentanza politica e sindacale: “Quello che il proletariato non è riuscito a realizzare (‘Proletari di tutto il mondo unitevi’), il capitalismo lo ha compiuto: esso si pone come una potenza globale strutturata rispetto a quella dei governi [e dei sindacati]” (G. Ruffolo-Sylos Labini); 7) che le religioni sono, tutte, direttamente e/o indirettamente, ugualmente al servizio delle oligarchie capitalistiche. La “de-secolarizzazione del mondo”, la “evangelizzazione dell’Europa”, la “islamizzazione della modernità” (S.P. Huntington), non sono altro che religionisizzazioni (si perdoni il neologismo) del sistema. A questa presa di coscienza, deve seguire la formazione di movimenti politici e sindacali nazionali ma coordinati e, quindi, congiunti a livello internazionale, diretti: a) a riaffermare il principio secondo cui il capitale finanziario ed il capitale industriale sono il prodotto del lavoro sociale. Di essi è, politicamente (non giuridicamente), comproprietaria la base produttiva, donde consegue che la loro destinazione non può contraddire la dignità della persona umana, vale a dire, il diritto al lavoro,
alla giusta retribuzione ed alla protezione sociale; b) a porre il capitale finanziario come strumentale rispetto al capitale industriale; c) ad espungere dalla globalizzazione la dottrina neoliberista; d) ad equiparare le condizioni di lavoro dei paesi in via di sviluppo a quelle vigenti nella società occidentale, ad impedire, pertanto, con ogni mezzo, la concorrenza, al ribasso, tra i lavoratori; e) a restituire “alla politica [...] [il] controllo sui movimenti internazionali dei capitali” (G. Ruffolo-Sylos Labini); f) a rendere possibile la “riproposizione di un modello d’impresa [...] non più prigioniera della massimizzazione del profitto nel breve periodo, ma dispiegata verso una serie di azioni rivolte al suo sviluppo economico, sociale e culturale” (G. Ruffolo-Sylos Labini); g) a consentire il “ritorno non al disegno di Bretton Woods, ma al suo progetto rivale, quello proposto nella stessa sede da John M. Keynes”, basato sul rifiuto dell’egemonia americana (G. Ruffolo-Sylos Labini); h) a realizzare una riforma morale moderata e, tuttavia, decisa, tenuto conto del fatto che il lassismo attuale è uno dei più potenti strumenti di governo di cui l’oligarchia capitalistica spregiudicatamente si serve. Non la riproposizione di un’etica fine a se stessa, tanto meno la riproposizione dell’etica cattolica (papista) basata sul primato della sofferenza e della obbedienza ai detentori del potere economico, ma, un’etica per così dire, utilitaristica, vale a dire, quella implicata dal bisogno di conservare la dignità della persona umana. In sintesi, “è necessaria un’inversione della politica economica per ridimensionare il potere del capitalismo finanziario e per restituire allo Stato e alla democrazia le leve del finanziamento dello sviluppo, specialmente durante una fase di crisi. Così sarà possibile promuovere una crescita sostenibile e un più alto grado di eguaglianza e di consenso sociale” (G. Ruffolo-Sylos Labini). La realizzazione di questo compito è nelle nostre possibilità, è un preciso dovere che abbiamo sia nei nostri confronti, sia nei riguardi della nostra discendenza, delle generazioni future, sia, infine, ma soprattutto, nei riguardi del supremo valore della giustizia.
Il pensiero di Mao
Sulla Contraddizione
(segue dal numero di novembre) La contraddizione principale e l’aspetto principale della contraddizione Nella questione del carattere particolare della contraddizione vi sono altri due problemi che è necessario analizzare a parte: la contraddizione principale e l’aspetto principale della contraddizione.
1) La contraddizione principale Nel processo di sviluppo di una cosa complessa esistono numerose contraddizioni; tra di esse vi è necessariamente una contraddizione principale la cui esistenza e il cui sviluppo determinano o influenzano l’esistenza e lo sviluppo delle altre contraddizioni. Per esempio, nella società capitalista le due forze in lotta, il proletariato e la borghesia, formano la contraddizione principale. Le altre contraddizioni (quali per esempio la contraddizione fra la residua
classe feudale e la borghesia, la contraddizione fra la piccola borghesia contadina e la borghesia, la contraddizione fra il proletariato e la piccola borghesia contadina, la contraddizione fra la borghesia non monopolistica e la borghesia monopolistica, la contraddizione fra la democrazia borghese e il fascismo borghese, la contraddizione fra i paesi capitalisti, la contraddizione fra l’imperialismo e le colonie, ecc.), sono tutte governate e influenzate da questa contraddizione principale. Quando l’imperialismo aggredisce un paese, le diverse classi del paese, eccetto un pugno di traditori, possono temporaneamente unirsi per condurre una guerra nazionale contro l’imperialismo. In una circostanza del genere la contraddizione fra l’imperialismo e quel paese diventa la contraddizione principale, mentre tutte le contraddizioni fra le diverse classi del paese sono relegate temporaneamente in secondo piano e assumono una posizione subordinata. Tuttavia cambiando la situazione le contraddizioni cambiano posizione.
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Quando l’imperialismo non ricorre alla guerra, ma impone la propria oppressione con metodi relativamente più moderati (politici, economici, culturali, ecc.), le classi dominanti di un paese capitolano davanti all’imperialismo; fra i due si stringe un’alleanza per opprimere insieme le grandi masse popolari. In queste condizioni spesso le grandi masse popolari ricorrono alla guerra civile per lottare contro l’alleanza formata dagli imperialisti e dalla classe feudale, mentre l’imperialismo, invece di ricorrere a un’azione diretta, usa di frequente metodi indiretti per aiutare i reazionari del paese a opprimere il popolo: in questi casi le contraddizioni interne diventano particolarmente acute. Ma allorché una guerra civile rivoluzionaria assume in un paese proporzioni tali da minacciare l’esistenza stessa dell’imperialismo e dei suoi lacchè, cioè dei reazionari locali, allora l’imperialismo, per mantenere il suo dominio, fa spesso ricorso ad altri metodi: o cerca di dividere il fronte rivoluzionario dall’interno o invia direttamente le sue truppe in aiuto ai reazionari locali. In questi casi gli imperialisti stranieri e i reazionari locali si pongono in modo assolutamente aperto a un polo, mentre le grandi masse popolari si pongono all’altro polo, costituendo così la contraddizione principale che governa o influenza lo sviluppo delle altre contraddizioni. In ogni caso tuttavia è assolutamente certo che in ciascuna delle diverse fasi del processo di sviluppo esiste solo una contraddizione principale che svolge la funzione dirigente. Da ciò consegue che se in un processo esistono numerose contraddizioni, solo una di esse è la contraddizione principale, che ha una funzione dirigente e decisiva, mentre le altre hanno una posizione secondaria e subordinata. Quindi nello studio di un processo, se si tratta di un processo complesso che contiene più di due contraddizioni, dobbiamo fare ogni sforzo per trovare qual è la contraddizione principale. Una volta trovata questa contraddizione principale, è facile risolvere tutti i problemi. È questo il metodo che c’insegna Marx nel suo studio della società capitalista. Questo stesso metodo ci è indicato da Lenin e Stalin, nel loro studio dell’imperialismo e della crisi generale del capitalismo e nel loro studio dell’economia sovietica. Ma migliaia di studiosi e di uomini d’azione non comprendono questo metodo; perciò essi si muovono letteralmente alla cieca, non riescono ad afferrare il nocciolo della questione e non possono quindi trovare il metodo per risolvere le contraddizioni.
2) L’aspetto principale della contraddizione Abbiamo appena detto che non bisogna trattare tutte le contraddizioni di un processo come uguali, che occorre distinguere la contraddizione principale e quelle secondarie e stare attenti soprattutto ad afferrare la contraddizione principale. Ma in ogni contraddizione, sia essa principale o secondaria, i due aspetti contraddittori si possono trattare come fossero uguali? No, neanche questo è possibile. In ogni contraddizione gli aspetti contraddittori si sviluppano in modo ineguale. Talvolta sembra che le forze siano in equilibrio, ma non si tratta che di una situazione temporanea e relativa; la condizione fondamentale è lo sviluppo ineguale. Dei due aspetti contraddittori, uno è necessariamente principale, l’altro secondario. Principale è quello che nella contraddizione svolge il ruolo dirigente. Il carattere di una cosa è determinato soprattutto dall’aspetto principale della contraddizione, il quale occupa la posizione dominante. Ma questa situazione non è statica: gli aspetti di una contraddizione, quello principale e quello se-
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condario, si trasformano l’uno nell’altro e in conseguenza il carattere della cosa cambia. In un determinato processo o in una determinata fase di sviluppo della contraddizione l’aspetto principale è A e quello secondario B; in un’altra fase di sviluppo o in un altro processo di sviluppo la posizione rispettiva di questi aspetti si capovolge. Il cambiamento avviene in funzione del grado di aumento o di diminuzione della forza con cui ognuno dei due aspetti lotta contro l’altro nel processo di sviluppo della cosa. Noi parliamo spesso di “sostituzione del vecchio da parte del nuovo”. La sostituzione del vecchio da parte del nuovo è una legge universale ed eterna dell’universo. Una cosa si trasforma in un’altra secondo la sua natura e le condizioni in cui si trova e mediante un salto; questo è il processo di sostituzione del vecchio da parte del nuovo. In ogni cosa è insita la contraddizione fra il suo vecchio aspetto e il suo nuovo aspetto e ciò genera una serie di lotte intricate. Per mezzo di queste lotte il nuovo sorge, cresce e diventa predominante; il vecchio invece decresce e gradualmente si avvicina alla morte. Non appena il nuovo aspetto strappa al vecchio aspetto la posizione principale, la qualità della vecchia cosa si trasforma nella qualità della cosa nuova. Quindi la qualità di una cosa è determinata soprattutto dall’aspetto principale della contraddizione principale. Quando l’aspetto principale della contraddizione, ossia quello che occupa la posizione predominante, subisce una modificazione, muta in conseguenza anche la qualità della cosa. Il capitalismo, che nella vecchia società feudale aveva una posizione subordinata, si trasforma nella società capitalista in forza dominante; di conseguenza muta anche la natura della società che si trasforma da feudale in capitalista. Le forze feudali invece, nella nuova società capitalista, si trasformano da forze predominanti quali erano in passato in forze subalterne e quindi gradualmente scompaiono.
Con lo sviluppo delle forze produttive la borghesia da classe nuova che svolgeva una funzione progressiva diventa una classe vecchia, che svolge una funzione reazionaria e infine viene rovesciata dal proletariato e trasformata in una classe che, espropriata dei mezzi di produzione e privata del potere, a sua volta va verso l’estinzione. Il proletariato, che numericamente è molto superiore alla borghesia e si sviluppa contemporaneamente ad essa, ma che si trova sotto il suo dominio, costituisce la forza nuova; da una posizione iniziale di subordinazione alla borghesia, esso diventa via via più forte e diventa una classe autonoma e assume un ruolo dirigente nella storia finché conquista il potere e diventa classe dominante. A quel punto la natura della società cambia da quella della vecchia società capitalista in quella della nuova società socialista. In questo modo nel mondo il nuovo sostituisce sempre il vecchio, il nuovo subentra al vecchio, il vecchio viene eliminato per far posto al nuovo, il nuovo emerge dal vecchio. Nello studio, quando si passa dalla non-conoscenza alla conoscenza, si ha la stessa contraddizione. All’inizio, quando ci accostiamo allo studio del marxismo, c’è una contraddizione fra la nostra ignoranza o la nostra limitata conoscenza del marxismo e la conoscenza del marxismo. Tuttavia, studiando con assiduità, possiamo trasformare l’ignoranza in conoscenza, la conoscenza limitata in conoscenza profonda, l’applicazione alla cieca del marxismo in un’applicazione magistrale. Alcuni pensano che per certe contraddizioni le cose non vadano così. Secondo loro, per esempio, nella contraddizione fra le forze produttive e i rapporti di produzione, le forze produttive sono l’aspetto principale; nella contraddizione fra la teoria e la pratica, l’aspetto principale è la pratica; nella contraddizione fra la base economica e la sovrastruttura, l’aspetto principale è la base economica; secondo loro le
posizioni rispettive degli aspetti non si convertono l’una nell’altra. Questa concezione è propria del materialismo meccanicista e non del materialismo dialettico. È evidente che le forze produttive, la pratica e la base economica svolgono in generale la funzione principale, decisiva e chi lo nega non è un materialista. Ma in determinate condizioni i rapporti di produzione, la teoria e la sovrastruttura assumono, a loro volta, la funzione principale, decisiva. Bisogna riconoscerlo. Quando senza una modificazione dei rapporti di produzione le forze produttive non possono più svilupparsi, la modificazione dei rapporti di produzione svolge la funzione principale, decisiva. Nei momenti in cui, come ha detto Lenin, “senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario”, la creazione e la diffusione della teoria rivoluzionaria svolgono la funzione principale, decisiva. Quando si deve svolgere un compito (non importa quale), ma non esistono ancora né un orientamento, né un metodo, né un piano, né una politica per svolgerlo, allora l’elaborazione dell’orientamento, del metodo, del piano e della politica diventa fondamentale, decisiva. Quando la sovrastruttura (politica, cultura, ecc.) ostacola lo sviluppo della base economica, le trasformazioni politiche e culturali diventano fondamentali, decisive. Dicendo questo assumiamo una posizione contraria al materialismo? No. Noi riconosciamo infatti che nel corso generale dello sviluppo storico il fattore materiale determina quello spirituale e l’essere sociale determina la coscienza sociale, ma in pari tempo riconosciamo, e dobbiamo riconoscere, la reazione del fattore spirituale su quello materiale, della coscienza sociale sull’essere sociale, della sovrastruttura sulla base economica. Così facendo non andiamo contro il materialismo, ma al contrario evitiamo di cadere nel materialismo meccanicista e difendiamo il materialismo dialettico. 3) Conclusione Se, studiando il carattere particolare della contraddizione, si rinuncia all’esame di questi due problemi (la contraddizione principale e le contraddizioni secondarie di un processo, l’aspetto principale e quello secondario nella contraddizione), ossia si rinuncia all’esame del carattere distintivo di questi due problemi propri della contraddizione, allora si cade nell’astrazione, non si riesce a comprendere concretamente le condizioni di sviluppo di una contraddizione e di conseguenza non si riesce a trovare il metodo giusto per risolverla. Il carattere distintivo o la particolarità di questi due problemi propri della contraddizione rispecchia l’ineguaglianza delle forze presenti nella contraddizione. Nulla al mondo si sviluppa in modo assolutamente equilibrato e noi dobbiamo combattere la teoria dello sviluppo uguale o teoria dell’equilibrio. Inoltre le condizioni concrete di una contraddizione e le modificazioni cui sono soggetti l’aspetto principale e quello secondario della contraddizione nel processo di sviluppo mostrano proprio la forza del nuovo che sostituisce il vecchio. Lo studio dei diversi stati di squilibrio nelle contraddizioni, lo studio della contraddizione principale e delle contraddizioni secondarie, dell’aspetto principale e di quello secondario di una contraddizione è uno dei metodi essenziali grazie al quale un partito rivoluzionario determina correttamente le sue direttive politiche e militari, strategiche e tattiche. Questo metodo deve essere oggetto di attenzione da parte di tutti i comunisti.
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L’identità e la lotta degli aspetti della contraddizione Dopo aver chiarito il problema del carattere universale e del carattere particolare della contraddizione, dobbiamo passare allo studio del problema dell’identità e della lotta degli aspetti (dei poli) della contraddizione.
1) L’identità dei due aspetti della contraddizione Identità, unità, coincidenza, compenetrazione, permeazione reciproca, interdipendenza (o esistenza interdipendente), interconnessione, cooperazione: tutte queste espressioni diverse hanno lo stesso significato e si riferiscono ai due punti seguenti. In primo luogo, ciascuno dei due aspetti di ogni contraddizione nel processo di sviluppo delle cose trova il presupposto della sua esistenza nell’altro aspetto ed entrambi coesistono in una entità unica; in secondo luogo, ciascuno dei due aspetti contraddittori, in determinate condizioni, si trasforma nel suo opposto. Questo è ciò che si chiama identità. Lenin ha detto: “La dialettica è la teoria che studia come gli opposti possono essere identici e come essi diventano identici (come essi cambiano e diventano identici); a quali condizioni essi si trasformano l’uno nell’altro e diventano identici; perché la mente dell’uomo non deve considerare questi opposti come cose morte, pietrificate, ma come cose vive, condizionate, mobili, convertibili l’uno nell’altro”. Cosa significa questo passo di Lenin? In ogni processo gli aspetti contraddittori si escludono a vicenda, sono in lotta tra loro, si oppongono l’uno all’altro. Aspetti contraddittori di questo genere sono sempre presenti sia nei processi delle cose sia nei processi dei pensieri umani. Un processo semplice racchiude solo una coppia di opposti, mentre un processo complesso ne contiene più di una. Queste coppie di opposti, a loro volta, entrano in contraddizione fra loro. È così che si formano tutte le cose del mondo oggettivo e tutti i pensieri umani; è così che essi sono costretti a trasformarsi. Ma se così è, vi è un’assoluta mancanza di identità o unità. Perché, allora, parliamo di identità o unità? Perché nessuno dei due aspetti della contraddizione può esistere senza l’altro. Senza l’altro aspetto che si oppone ad esso, vengono meno le condizioni di esistenza di ogni aspetto di una contraddizione. Riflettete: può uno dei due aspetti contraddittori di una cosa o di un concetto del pensiero umano esistere indipendentemente dall’altro? Senza vita non c’è morte; senza morte non c’è vita. Senza alto non c’è basso; senza basso non c’è alto. Senza infelicità non esiste felicità; senza felicità non esiste infelicità. Senza il facile non esiste il difficile; senza il difficile non esiste il facile. Senza il proprietario terriero non esiste il fittavolo; senza il fittavolo non esiste il proprietario terriero. Senza borghesia non vi è proletariato; senza proletariato non vi è borghesia. Senza oppressione nazionale imperialista non esisterebbero colonie e semicolonie; senza colonie e semicolonie non esisterebbe oppressione nazionale imperialista. Così accade per tutti gli opposti. In determinate condizioni essi da una parte sono opposti fra loro e dall’altra sono reciprocamente connessi, si compenetrano, si permeano reciprocamente, sono interdipendenti: questo è ciò che si chiama identità. In determinate condizioni a tutti gli aspetti contraddittori è inerente la non-identità e perciò essi si chiama-
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no opposti. Ma allo stesso tempo fra loro esiste anche identità e per questo sono reciprocamente connessi. Appunto a ciò si riferisce Lenin, laddove afferma che la dialettica studia “come gli opposti possono essere e come essi possono diventare identici”. Come possono esserlo? In ragione del fatto che la loro esistenza è reciprocamente condizionata. Questo è il primo significato dell’identità. Ma è sufficiente affermare solamente che l’esistenza di entrambi gli aspetti della contraddizione è reciprocamente condizionata, ossia che tra di essi esiste un’identità e pertanto essi coesistono in una sola entità? No, non è sufficiente. La questione non si limita al fatto che i due aspetti della contraddizione condizionano reciprocamente l’esistenza l’uno dell’altro. Ancor più importante è il fatto che gli opposti si convertono l’uno nell’altro. In altre parole, in determinate condizioni ciascuno dei due aspetti contraddittori inerenti a una cosa si trasforma nel suo opposto, passa nella posizione occupata in precedenza dal suo opposto. Questo è il secondo significato dell’identità degli opposti. Perché c’è anche identità? Voi vedete che mediante la rivoluzione il proletariato da classe dominata si trasforma in classe dominante e la borghesia, che aveva fino allora dominato, si trasforma in classe dominata, passa nella posizione occupata in precedenza dal suo opposto. Io chiedo: come potrebbe verificarsi un simile mutamento, se fra gli opposti non esistesse, in determinate condizioni, un nesso e un’identità? Cose tra loro contraddittorie si trasformano l’una nell’altra: esiste dunque una determinata identità tra esse. Consolidare la dittatura del proletariato o la dittatura del popolo significa preparare le condizioni per mettere fine a questa dittatura e passare a uno stadio superiore in cui non esisterà più alcun tipo di Stato.
Creare e sviluppare il Partito comunista significa esattamente preparare le condizioni per la scomparsa del Partito comunista e di tutti i partiti politici. Creare un esercito rivoluzionario diretto dal Partito comunista e condurre la guerra rivoluzionaria significa esattamente preparare le condizioni per eliminare per sempre la guerra. Abbiamo qui tutta una serie di opposti che in pari tempo si condizionano a vicenda. Tutti gli opposti sono legati da un nesso reciproco; essi non solo in determinate condizioni coesistono in un’entità unica, ma in determinate condizioni si trasformano l’uno nell’altro: è questo il significato dell’identità degli opposti nella sua piena accezione. Questo è appunto quel che vuol dire Lenin quando afferma: “[...] come possono diventare (come si trasformano e diventano identici); in quali condizioni essi si trasformano l’uno nell’altro e diventano identici [...]”. Perché “[...] la mente dell’uomo non deve considerare questi opposti come morti, pietrificati, ma come vivi, condizionati, mobili, convertibili l’uno nell’altro”? Perché tali sono in effetti le cose oggettivamente esistenti. L’unità o identità degli aspetti contraddittori di una cosa che esiste oggettivamente non è mai morta, pietrificata, ma viva, condizionata, mobile, transitoria, relativa; ogni aspetto contraddittorio si trasforma, in condizioni determinate, nel suo opposto. Il riflesso di questo stato reale delle cose nel pensiero umano costituisce la concezione marxista, materialista dialettica, del mondo. Solo le classi dominanti reazionarie di ieri e di oggi e i metafisici che sono al loro servizio considerano gli opposti non come vivi, condizionati, mobili, convertibili l’uno nell’altro, ma come cose morte e pietrificate e diffondono dappertutto questa concezione falsa per disorientare le masse popolari e prolungare così il proprio dominio. I comunisti devono
denunciare queste idee erronee dei reazionari e dei metafisici, far conoscere la dialettica inerente alle cose, accelerare la trasformazione delle cose, al fine di raggiungere gli obiettivi della rivoluzione. Quando affermiamo che gli opposti diventano identici solo in determinate condizioni, noi ci riferiamo a opposti reali e concreti e a trasformazioni ugualmente reali e concrete dell’uno nell’altro. Marx ha detto: “Ogni mitologia vince, domina e plasma le forze della natura nell’immaginazione e mediante l’immaginazione; essa svanisce quindi quando si giunge al dominio effettivo su quelle forze”. Sebbene i racconti delle innumerevoli metamorfosi che figurano in questi miti (e nelle fiabe) possano recare piacere all’uomo, poiché rappresentano in modo fantasioso il superamento delle forze della natura da parte dell’uomo, ecc. e perché i migliori tra questi miti possiedono un “fascino eterno”(Marx), tuttavia i miti non sono basati su contraddizioni concrete esistenti in condizioni determinate e perciò non sono il riflesso scientifico della realtà. In altre parole, nei miti e nelle fiabe gli aspetti che formano una contraddizione hanno un’identità immaginaria, non un’identità reale. La dialettica marxista invece riflette scientificamente l’identità che esiste nelle trasformazioni reali. Perché solo l’uovo può trasformarsi in pulcino e non lo può la pietra? Perché esiste un’identità fra la guerra e la pace e non fra la guerra e una pietra? Perché un uomo può generare solo un uomo e non qualcosa d’altro? La ragione di ciò è semplicemente che l’identità degli opposti è possibile soltanto in condizioni determinate e necessarie. Senza determinate e necessarie condizioni, non può esservi alcuna identità. Perché la rivoluzione democratica borghese del febbraio del 1917 in Russia fu direttamente connessa con la Rivoluzione socialista proletaria d’Ottobre, mentre la rivoluzione borghese in Francia non fu direttamente connessa con una rivoluzione socialista e la Comune di Parigi del 1871 ha finito col soccombere? Perché il sistema nomade della Mongolia e dell’Asia centrale fu direttamente connesso con il socialismo? Perché infine la rivoluzione cinese può evitare la via capitalista e passare direttamente al socialismo, senza seguire il vecchio cammino storico dei paesi occidentali, senza attraversare la fase della dittatura borghese? La ragione di ciò sta unicamente nelle condizioni concrete dell’epoca. Quando esistono determinate necessarie condizioni, nel processo di sviluppo di una cosa sorgono determinate contraddizioni e queste contraddizioni e tutte le contraddizioni di questo tipo dipendono l’una dall’altra per la loro esistenza e si trasformano l’una nell’altra. In caso contrario niente di ciò è possibile.
2) La lotta dei due aspetti della contraddizione Questo è il problema dell’identità. Ma cos’è allora la lotta? Che rapporto esiste fra l’identità e la lotta? Lenin ha detto: “L’unità (coincidenza, identità, equipollenza) degli opposti è condizionata, provvisoria, transitoria, relativa. La lotta degli opposti che si escludono reciprocamente è assoluta, come sono assoluti lo sviluppo, il movimento”. Che cosa significa questo passo di Lenin? Tutti i processi hanno un inizio e una fine; tutti i processi si trasformano nel loro opposto.
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La stabilità di tutti i processi è relativa mentre invece la mutabilità che si esprime nella trasformazione di un processo in un altro è assoluta. Il movimento di ogni cosa presenta due stati: uno stato di riposo relativo e uno di cambiamento evidente. Ambedue questi stati del movimento sono dovuti alla lotta reciproca dei due elementi contraddittori contenuti nella cosa stessa. Quando il movimento di una cosa si trova nel primo stato, essa subisce soltanto modificazioni quantitative e non qualitative e perciò sembra essere in uno stato di riposo. Quando invece il movimento di una cosa si trova nel secondo stato, essa ha già raggiunto un dato livello massimo di modificazioni quantitative nel primo stato, si verifica la dissoluzione della cosa come entità, avviene un cambiamento qualitativo e di conseguenza la cosa appare in stato di cambiamento evidente. L’unità, la coesione, l’unione, l’armonia, l’equipollenza, la stabilità, la stagnazione, il riposo, la continuità, l’equilibrio, la condensazione, l’attrazione, ecc., che noi osserviamo nella vita quotidiana, sono tutte manifestazioni delle cose che si trovano nello stato di modificazioni quantitative. Al contrario la dissoluzione dell’unità, la distruzione dello stato di coesione, di unione, di armonia, di equipollenza, di stabilità, di stagnazione, di riposo, di continuità, d’equilibrio, di condensazione, d’attrazione, ecc. e il loro passaggio allo stato opposto sono tutte manifestazioni delle cose che si trovano nello stato delle modificazioni qualitative, mentre avviene la trasformazione di un processo in un altro. Le cose mutano continuamente passando dal primo al secondo stato, mentre la lotta degli opposti esiste in entrambi gli stati, ma trova la sua soluzione durante il secondo stato. Ecco perché diciamo quindi che l’unità degli opposti è condizionata, temporanea, relativa, mentre la lotta degli opposti che si escludono reciprocamente è assoluta. Abbiamo già detto sopra che gli opposti possono coesistere in un’entità unica e che possono anche trasformarsi l’uno nell’altro perché tra due opposti vi è identità; così dicendo noi ci riferivamo al fatto che in determinate condizioni cose opposte possono essere unite e anche trasformarsi l’una nell’altra, mentre in mancanza di quelle condizioni esse non possono opporsi tra di loro, non possono coesistere e non possono trasformarsi l’una nell’altra. L’identità degli opposti si verifica soltanto in condizioni determinate e perciò diciamo che essa è condizionata e relativa. Ora aggiungiamo che la lotta degli opposti percorre tutto un processo dal principio alla fine e fa sì che un processo si trasformi in un altro e, dato che la lotta degli opposti esiste dappertutto, diciamo che la lotta degli opposti è incondizionata, assoluta. L’identità condizionata e relativa combinata con la lotta incondizionata e assoluta costituisce il movimento contraddittorio di tutte le cose. Noi cinesi diciamo spesso: “Le cose fra loro opposte sono reciprocamente complementari”. Ciò equivale a dire che fra gli opposti esiste identità. In questa espressione è racchiusa la dialettica; essa è in contrasto con la metafisica. “Cose fra loro opposte” indica la reciproca esclusione o lotta degli opposti. “Sono reciprocamente complementari” indica che in determinate condizioni i due aspetti contraddittori si uniscono e diventano identici. La lotta sta proprio nell’identità; senza lotta non ci può essere identità. Nell’identità vi è la lotta, nel particolare vi è l’universale, nel carattere individuale vi è il carattere generale. Per usare le parole di Lenin, “vi è un assoluto anche nel relativo”.
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Conclusione Possiamo a questo punto concludere brevemente. La legge della contraddizione inerente alle cose, cioè la legge dell’unità degli opposti, è la legge fondamentale della natura e della società e quindi anche del pensiero. Essa è l’opposto della concezione metafisica del mondo. La sua scoperta ha costituito una grande rivoluzione nella storia della conoscenza umana. Secondo il materialismo dialettico, la contraddizione esiste in tutti i processi che si verificano nelle cose oggettive e nel pensiero soggettivo, essa percorre tutti i processi dal principio alla fine: in questo consiste il carattere universale e assoluto della contraddizione. Ogni contraddizione e ciascuno dei suoi aspetti hanno le loro proprie caratteristiche: in questo consiste il carattere particolare e relativo della contraddizione. In determinate condizioni gli opposti sono caratterizzati dall’identità e quindi possono coesistere in un’entità unica e trasformarsi ciascuno nell’altro: questo è ancora il carattere particolare e relativo della contraddizione. Ma la lotta degli opposti è ininterrotta; essa continua sia quando gli opposti coesistono sia quando stanno trasformandosi l’uno nell’altro: questo è ancora il carattere universale e assoluto della contraddizione. Quando studiamo il carattere particolare e relativo della contraddizione, dobbiamo tener presente sia la differenza fra la contraddizione principale e quelle secondarie sia la differenza fra l’aspetto principale e quello secondario della contraddizione; quando studiamo il carattere universale della contraddizione e la lotta degli opposti, dobbiamo tener presente le differenze fra le varie forme di lotta; altrimenti gli errori sono inevitabili. Se, alla fine del nostro studio, avremo un’idea chiara delle tesi essenziali sopra esposte, potremo battere in breccia le concezioni dogmatiche che si oppongono ai principi fondamentali del marxismoleninismo e nuocciono alla nostra causa rivoluzionaria; potremo anche aiutare i compagni ricchi d’esperienza a elevare a sistema questa loro esperienza, a elevarla a principio e a evitare così la ripetizione degli errori tipici dell’empirismo. Queste sono alcune semplici conclusioni che scaturiscono dal nostro studio della legge della contraddizione.
Salvador Dalì Di ivano Spano
Quanto più la mia vita viene spiegata sulla base di qualcosa che è già nei miei cromosomi, di qualcosa che i miei genitori hanno fatto o omesso di fare…, tanto più la mia biografia sarà la storia di una vittima. (James Hillman, il codice dell’anima) “L’epoca delle passioni tristi” è il titolo di un saggio di uno psicanalista parigino Miguel Benasayag e di uno psicanalista professore di psichiatria infantile all’Università di Reims, Gerard Schmit, entrambi impegnati a rispondere alle problematiche poste dalla condizione del disagio del vivere. Quelle che Spinosa chiamava le “passioni tristi”, non riferendosi alla tristezza del pianto quanto al sentimento di impotenza, di disgregazione, corrispondono a quel malessere diffuso, a quella tristezza che sembrano caratterizzare, in maniera crescente, la condizione esperenziale di molte persone. La tesi dei due autori è convincente: i problemi della gente non sono altro che il segno visibile della crisi della società e della cultura contemporanea. Scrivono: “Senza rendersene conto e senza che nessuno in particola-
re l’abbia deciso, la nostra società ha prodotto una specie di ideologia della crisi, un’ideologia dell’emergenza, lentamente e in modo impercettibile, si è insinuata a ogni livello, dallo spazio pubblico alle sfere più intime e private, fino a costituire, in ognuno di noi, il modo di pensarsi come persona. Questa ideologia di ripiego, però, non è una ‘narrazione’ o una cosmogonia completa in grado di sostituire davvero l’ideologia precedente, ma si rivela piuttosto un ‘patch-work’, una sorta di stampella che consente di fare ‘come se le cose funzionassero ancora nonostante la crisi”. Si è, ormai, diffuso il “quotidiano della precarietà” che ha preso il posto dell’ottimismo diffuso a piene mani dalla ragione e dalla “fede” illuministica nel progresso tendenzialmente illimitato. La cura, anziché legarsi a esperienze capaci di andar oltre l’attuale modello di società e ridare senso ai legami e alla intrapresa umana, si limita a effettuare flebo al “corpo sociale” per rispondere allo stato di costante emergenza e tentare di mantenere almeno il ricordo della “società opulenta”. Di certo, il disagio della nostra civiltà non chiama in causa esclusivamente intelligenze e
competenze tecniche ma richiede una “capacità di salto”, di “de-angolazione” al fine di cogliere la complessità della realtà e restituire a essa un senso, una polisemia oramai ridotta a “puro segno” sottratto alla sfera del senso e affidato a quella della comunicazione e delle sue leggi. Ecco che la “terapia” per questa società in crisi, dovrebbe essere certamente prossima a quell’atteggiamento clinico che vede il terapeuta di fronte al malato-degente, ascoltarlo, aldilà della descrizione e dall’analisi dei suoi sintomi per arrivare a delle presunte cause del malessere, valutando ogni cosa con il ricondurla a tutta la realtà del paziente stesso. “Quando ci si limita a fare diagnosi di schizofrenia e di melanconia clinica sulla base della presenza di sintomi staccati dal contesto umano e personale del paziente, trionfalizzando (così) elementi parcellari e labili come essi sono, si rischia di cadere in tagliole micidiali che conducono a diagnosi inestistenti e a tragiche conseguenze (possibili): una diagnosi sbagliata o ideologica in psichiatria può trascinare con sé fenomeni psicologici disastrosi che si perdono nel tempo ma lasciano tracce indelebili”. (Eugenio Borgna, Malinconia)
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Salute sociale
Liberarsi dalla necessità dei farmaci (e dalla psichiatria)
Soggetto e Oggetto; sintomi e malattia Il separare, allora, il “soggetto” dall’ “oggetto” (sintomi/malattia) permette di intervenire esclusivamente su quest’ultimo, riducendo l’atteggiamento clinico a pura “medicalizzazione”. Come ricorda Michel Foucault nel suo saggio “La nascita della clinica”, con l'avvento della clinica il soggetto (malato) diventa come un leggio su cui leggere un testo (sintomi, malattia) indifferente al soggetto che lo porta. Così, si operano due straordinarie quanto drammatiche separazioni: quella tra soggetto (malato) e oggetto (malattia) e quella tra il soggetto e il suo ambiente, la sua storia. L’unica storia che vale si riduce alla “storia della malattia”, all’anamnesi. Ma, come affermano Benasayag e Schmit (L'epoca delle passioni tristi) “esistono… ben pochi punti in comune tra un terapeuta che ritiene che, poiché i comportamenti psicologici hanno sempre una base biologica, si debba mettere a punto una ‘terapia delle molecole’, e quello che, all’opposto cerca di accompagnare il suo paziente nella ricerca del senso che si nasconde nel cuore del sintomo. Tali approcci rinviano a concezioni filosofiche, a visioni dell’essere umano, della società e della cultura del tutto differenti, dando luogo di conseguenza a pratiche terapeutiche radicalmente diverse e talvolta opposte”. In termini più generali potremmo dire che le contraddizioni di questa società in crisi e della crisi si traducono in esperienze, comportamenti e vissuti a livello individuale, lasciando il soggetto impotente nell’attivare risposte adeguate a livello soggettivo ma altrettanto responsabile per il “suo” stato di cose. Il panorama che si apre è “quello in cui ‘tutto è possibile’, in cui nessuno afferma niente… e in cui spesso tutto finisce con l’abbandono dei pazienti e delle loro famiglie, che rimangono di fronte ai loro problemi, con un’incertezza e una solitudine ancora più assoluti”. Ma, la non assunzione del rischio della vita ci vede estremamente deboli e dipendenti. Gli individui sono chiusi in loro stessi, imprigionati nell’armatura che si sono costruiti. La paura dell’ “altro” L’altro appare come un pericolo, come fonte di incertezza e di imprevedibilità. E’, per questo, che l’altro deve essere ricondotto a modelli noti, riportato alle proprie personali sicurez-
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ze, essere, in qualche modo, copia conforme. L’altro perde la propria alterità, unicità: esiste “non in sé ma per me”. E’, questa, la cultura della dipendenza. Il potere stesso, politico, economico, affettivo, i modelli culturali dominanti, strumentalizzano la paura di vivere degli individui e li mantiene nella dipendenza e in quell’atteggiamento di fuga che é alla base dell’incapacità di assumere responsabilmente la propria vita. La fuga dalla paura di vivere ci chiude in noi stessi, ci rende soli. L’apertura al rischio, all’imprevisto, alla vita come alla morte é, per eccellenza, apertura all’altro (che è in noi e fuori di noi). L’altro, come afferma Levinas (Etica e infinito) è l’infinito, colui che non può mai essere dato per scontato o ricondotto a modelli predeterminati. L’andare verso l’altro e l’assunzione dell’angoscia di fronte al rischio dell’esistenza sono connessi intimamente. Questa è anche l’esperienza che aprendoci al massimo rischio ci consente di aprirci alla presenza rischiosa dell’altro, di sentirci responsabili verso l’altro, di cogliere l’assoluta inoggettivibilità dell’altro e del vincolo di reciprocità, di intersoggettività che unisce l’uno e l’altro. Queste condizioni culturali-ambientali hanno contribuito, allora, a far aumentare i soggetti con identità precarie ove agisce un difetto di socializzazione-integrazione grazie alla rottura dei legami sociali (che comporta una esperienza di sé incoerente, come mancanza) e che li fa vivere in una alternativa fra desiderio di vivere e paura di vivere (o squallido vuoto). Quando incontrano, per altro, la necessità di un cambiamento, come è necessario avvenga nelle varie età della vita, non lo tollerano, vanno in crisi, non sopportano di stare in un equilibrio precario ma indispensabile per permettere delle trasformazioni. Spesso sono persone che sentono un disagio, una sofferenza intensa, talvolta percepiscono anche sintomi acuti, somatici e/o psichici, vissuti come minacce per la propria integrità (l’esempio più semplice è quello che viene indicato come “attacco di panico”). Altre volte la sofferenza viene espressa attraverso emergenze comportamentali come agiti suicidari o discontrolli impulsivi. Essi sono alla ricerca di un aiuto, ma questa richiesta è solo episodica e l’aiuto richiesto è fantasticato come una guarigione dai sintomi e, comunque, del “tutto o niente”. E’ lontano l’interesse a capire qualcosa di sé e il
disagio, anche se intenso, di tipo ansioso o depressivo, è estraniato, vissuto come un accidente che arriva dall’esterno direttamente. Riduttivismo e complessità; biologia e psicologia Per questo, una psichiatria che sia adeguata a rispondere a queste come ad altre richieste d’aiuto, deve necessariamente accettare la complessità, rinunciare a ogni riduttivismo, superando l’alternativa che costringe a scegliere fra fattori biologici o psicologici. E’ la relazione con la persona che vive l’esperienza di difficoltà e sofferenza dove deve dispiegarsi il fare psichiatrico. Inoltre, l’attività psichica, sana o patologica, si manifesta nella relazione ed è in essa che la psichiatria deve conoscerla. Solo così potrà mantenere la creatività, la funzione generativa, la funzione terapeutica. Se ciò non avviene, il rischio è di colludere col contesto culturale che è: - quello di una indifferenza (al di là di un impegno tecnico); - della perdita di contatto con le passioni e perdita della tensione emotiva; - dell’evitamento del dolore (l'anestesia totale); - del conformismo (non lasciare mai la strada vecchia per la nuova); - del relativismo culturale generale; della sostanziale stanchezza e noia (del già vissuto, di un quotidiano sempre uguale e mortificante).
Salvador Dalì
Purtroppo, la cultura psichiatrica attualmente prevalente è imprigionata in questo contesto e non sembra aprirsi a nuovi sviluppi. E’ fuori di dubbio che le varie edizioni del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali-DSM, abbiano portato un aiuto nella ricerca biologica ed epidemiologica, ma è vero anche che alla lunga e nei suoi ultimi sviluppi, la tassonomia mostra i suoi limiti, esercitando sempre più un’azione perversa. Dalla prima edizione del Manuale (1952) i disturbi mentali codificati sono già 370 nella IV edizione (1994) e a ogni revisione si lavora per inserirne sempre di nuovi come, ad esempio per la revisione appena licenziata (V edizione), in cui semplici atteggiamenti legati al carattere (come difficoltà emotive, comportamento capriccioso dei bambini, angoscia degli adolescenti, eccessivo consumo di cibo) e al comportamento (come il disturbo provocatorio oppositivo cioè a dire un comportamento negativistico, provocatorio, disobbediente e ostile verso le figure autoritarie), divengono malattie. Il gruppo di esperti dell’APA American Psychiatric Association ha imposto di aggiungere, nella nuova edizione del Manuale, un nuovo disturbo denominato “rischio sindrome” riferito a persone che possono essere considerate a rischio di sviluppare nel tempo un di-
sturbo mentale, anche se non presente, venendo considerate affette da “psicosi da rischio di sindrome”. L’obiettivo, con l'attuale revisione del Manuale, è quello di diagnosticare i disturbi quanto più rapidamente possibile (prevenire), perfino prima che il disturbo si sia verificato. Questa nuova categoria diagnostica potrebbe includere, ad esempio, adolescenti che manifestano “timore eccessivo, delusioni e comportamento o linguaggio disordinato”. Allen Frances, Professor di Psichiatria e Presidente del Dipartimento di Psichiatria e Scienze del Comportamento alla Duke University (USA) che, per altro, ha presieduto il gruppo di esperti che ha redatto la versione DSM4 del Manuale (1994), sta denunciando una divulgazione incontrollata di false epidemie sul disturbo mentale. Afferma: “questa medicalizzazione all’ingrosso di problemi mentali potrebbe portare all’erroneo etichettamento di disturbo mentale per decine di milioni di passanti innocenti: E’ una questione sociale che trascende la medicina”. Allen Frances, per sua stessa ammissione, sostiene di non voler vedere ripetersi gli stessi errori provocati dal DSN IV, rispetto, ad esempio, il disturbo da Deficit di Attenzione (ADHD), l’autismo e il disturbo bipolare nell’infanzia che hanno costretto milioni di bambini, anche di due anni, ad essere bombardati con antipsicotici e antidepressivi (Ritalin, Adderal, Prozac, ecc.). L’apertura e l’esclusione della violenza Gli psichiatri si sono appiattiti su modelli che hanno avuto, inizialmente, una certa utilità ma che, sempre più, si sono allontanati dalla possibilità di accogliere l’unicità delle storie individuali, i valori, le aspirazioni e le priorità particolari di ogni singola persona, tanto meno il modo in cui cambiano nel tempo. “L'apertura, come segno (come simbolo) di libertà di un servizio di psichiatria ospedaliera, e l'esclusione radicale di ogni violenza (cosa possibile e realizzabile), si costituiscono come le due condizioni essenziali perché la psichiatria si riconosca nelle sue fondazioni cliniche e nelle sue fondazioni umane. Il tema della violenza, in psichiatria, non è un tema ideologico, o pretestuoso, ma è un tema con cui hanno a che fare le coscienze e la cultura. Non solo nel contesto di una psichiatria ospedaliera, ma anche in quello di una psichiatria ambulatoriale (territoriale) il tema e la tentazione della violenza
riemergono continuamente. Al di là delle violenze manifeste... ci sono le violenze mascherate e nascoste: la violenza dell'insensibilità e della noncuranza; la violenza della delega esclusiva alla farmaco-psichiatria nelle strategie terapeutiche e testuale rinuncia alla relazione (dialogica), la violenza del cocktail farmacologici che non nascono da una riflessione sui modi complessi di essere di una sintomatologia neurotica e psicotica; la violenza della fretta e della routine, certo, che feriscono e lacerano le coscienze divorate dall'ansia e dalla sofferenza, e anelanti a un attimo di ascolto e di pazienza (ancora più importanti, o almeno ugualmente importanti, che con la rapida e gelida prescrizione farmacologica); la violenza delle molte forme di 'oggettivazione' dell'altro-da-noi che, infinitamente sensibile a ogni equivalenza emozionale e a ogni gesto di delicatezza e di rispetto, risente in sé un ulteriore (intollerabile) sofferenza dinanzi a ogni distanza, e a ogni sopraffazione, anche inespressa. Ma c'è poi, impalpabile e concreta, la violenza del linguaggio: del linguaggio 'tecnico', e del linguaggio gelido e indifferente delle convenzioni, che non tengono presenti la fragilità e la rabdomantica capacità di ogni paziente (di ogni persona che soffra e che sia disperata, e sola) nel cogliere la non partecipazione e il rifiuto ad ascoltare che si nascondono nelle forme del linguaggio opaco e insignificante”. (Eugenio Borgna, Noi siamo un colloquio). Presunto “normale”; ordine e disordine La conseguenza di tutto questo sembra essere quella di avere degli psichiatri sempre più coartati, riduttivisti e fedeli a un concetto di malattia meccanico: malattia come rottura/devianza dello stato (presunto) normale. Essere sano, però, significa non soltanto essere normale in una situazione data, ma essere normativo in questa e in altre situazioni. Quello che caratterizza la sanità è la possibilità di superare la norma (l’ordine) che definisce il normale momentaneo, la possibilità di tollerare delle infrazioni alla norma abituale (disordine) e di istituire delle norme nuove in nuove situazioni (nuovo ordine). La sanità è una maniera di affrontare l’esistenza sentendosi non soltanto possessori o portatori ma, anche, all’occorrenza, creatori di valore, instauratori di norme vitali.
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E', questa, quella che George Canguilhem (Il normale e il patologico) definisce normatività biologica per cui l’organismo non è gettato in un ambiente al quale si deve adattare, ma struttura il suo ambiente nello stesso tempo in cui sviluppa le sue capacità normative, regolative. La normatività biologica appare come la capacità di essere e divenire all’interno di fattori interagenti la cui dinamica e complessità definiscono la natura stessa del sistema, nonché il tempo biologico. Questo rappresenta il fondamento e il cammino che porta alla stessa idea costruttivista di salute. Ognuno è autore, co-autore della propria salute, del proprio benessere soggettivo. Una salute, quindi, come effetto dell'organizzazione ma altresì una organizzazione come effetto della salute. Si tratta, quindi, di passare da una visione esclusivamente sanitaria ed economico-assicurativa di vita, intesa come sinonimo di quantità e longevità, a una visione più psicologico-edonistica e soggettiva della vita. Passare, cioè, dal combattere, curare, guarire il malessere, all'insegnare, pensare e imparare il benessere, dalla salute come vittoria, alla salute come condivisione e costruzione. La psicologia e la medicina nelle loro componenti sociali e culturali, si dovrebbero risignificare in quanto portatrici di questa possibile trasformazione e di un paradigma, di un modello concettuale fondante l'idea di salute soggettiva. Il piacere del futuro, l'essere sano non solo spazialmente ma anche temporalmente, sta nel piacere di pensare e di sentire di vivere in uno spazio di possibilità. Se questi indicatori saranno usati come misura del percorso verso lo sviluppo del benessere soggettivo, sarà proprio questa soggettività a determinare la salute di cui stiamo parlando e di cui dobbiamo costruire e ricostruire collettivamente l'organizzazione. Deprivazione della soggettività Contrariamente, la medicina, nell’epoca moderna non ha operato solo per oggettivare l’uomo, deprivarlo, quindi, della sua soggettività, quanto ha agito per medicalizzare qualsiasi espressione della sofferenza e del disagio umano. (A mo’ di nota a pie’ di pagina è necessario ricordare anche il fatto che, oggi, sono in crescita significative-qualificate iniziative tese a “umanizzare la medicina” in tutte le sue espressioni e manifestazioni). Dal canto suo anche la psichiatria ha subito la stessa evoluzione (o involuzione) della medicina da cui ha preso corpo e legittimazione “scientifica”. Soffocata
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da una medicina totalmente organicista, costretta dal sapere tecnico a rompere la visione filantropica, la psichiatria è stata ridotta a uno sterile e disumanizzante esercizio classificatorio e prescrittivo, punti essenziali per una rapida, omogenea e “universale “ (oggettiva) diagnosi e una altrettanto rapida, omogenea e “universale” terapia sintomatologia. Ha, così, ucciso o spinto al suicidio la psiche per sostituirla con il cervello, accettando l’ideologia organicista aberrante che vuole che psiche e cervello siano da considerarsi sinonimi e, quindi, che ogni sofferenza psichica non sia altro che un guasto bio-neurologico. Si è, così, compiuto il sacrificio della psiche sull’altare della biologia, prodotto l’annientamento dell’anima a favore della materia anatomica, si è ridotto ogni biografia a biologia. E’ da qui che bisogna partire per comprendere come il Manuale Diagnostico e Statistico dell’Associazione Americana di Psichiatria, più notoriamente conosciuto come DSM V°, nella sua versione attuale, non sia un innocuo e utile strumento di studio, di analisi, ma una potente –vera e propria- arma clinica per annullare ogni espressione della soggettività, dell’ individualità che non sia compatibile con la cultura dominante, positiva, conservativa, e con le corrispondenti organizzazioni-istituzioni sociali: una ricerca utopica ma di una brutale operatività per costringere-parametrare a una presunta norma-normalità universale ogni comportamento, ogni pensiero, ogni diversa espressione dell’animo, negare il fatto (intollerabile pena la delegittimazione del sistema stesso) che le sofferenze della vita provengono dalla vita stessa e che molti nostri dolori sono, di fatto, dolori esistenziali, dolori relazionali, dolori, come si dice, “contest dependent”, contesto dipendente. Uguaglianza della diagnosi e del trattamento; l’alienazione del soggetto Una eguaglianza di diagnosi, ovviamente, una eguaglianza di trattamento contro qualsivoglia turbamento dell’esistenza. Una eguaglianza di dominio, una alienazione del soggetto democraticamente diffusa. In cambio: una giusta timidezza, una giusta aggressività, una giusta tristezza, una giusta fame, una giusta dieta, una giusta emozione, una giusta indignazione, una giusta tolleranza, una giusta guerra…, insomma una giusta vita psico – farmaco – controllata e dipendente. Allora, no a programmi di annessione coatta, di integrazione o di unificazione tali da ridurre le diver-
se espressioni della soggettività, anche nelle sue dimensioni di disagio! Se di integrazione si deve parlare, allora si deve parlare, contro ogni pensiero unico, di integrazioni solo “collaborative” e “locali”, incontro di atteggiamenti, disponibilità, saperi, competenze capaci di considerare la “cura della psiche” come “cura dell’esistenza offesa”, nelle sue relazioni con se medesima e con altre esistenze molto più a loro agio in un sistema di libere convivenze piuttosto che in un regime imposto di matrimoni monogamici. Vorrei chiudere queste riflessioni prendendo a prestito dal lavoro di Bertoli, Bertini e Segatori “Il manifesto di psiche. Per una psichiatria e una società senza psicofarmaci”, il fatto che l’attuale psichiatria rievochi il personaggio di una metafora: l’uomo che in piena notte era curvo sotto il cerchio di luce di un lampione. Dopo mezz’ora in quella posizione, due persone di buona volontà, osservandolo con attenzione e preoccupazione, gli si avvicinano chiedendo il motivo di quel comportamento. L’uomo riferisce di aver perduto le chiavi di casa, per cui i due si aggregano per aiutarlo nella sua affannosa ricerca. Passa un’altra mezz’ora e, dopo aver setacciato centimetro per centimetro tutto il territorio, senza nulla trovare, gli chiedono se fosse sicuro di aver perduto le chiavi proprio in quel punto. Allora, il personaggio si erge in piedi e molto cordialmente dice “Oh no! Le chiavi le ho smarrite nel folto di quei cespugli… ma, là è troppo buio per cercarle”. Questa è la percezione netta di buona parte dell’attuale involuzione della psichiatria (e si potrebbe dire di buona parte della coscienza collettiva), di un certo modo di lavorare con i soggetti sofferenti a partire dai bambini, dalle pratiche diffuse nell’affrontare le difficoltà psicologiche personali e relazionali: il guardare in maniera miope un segno e correre con l’indice nel dizionario della malattia e subito -di seguitoin quello del farmaco-corrispondente risolutore. Per ricordare un esempio usato dallo psicanalista Aldo Carotenuto “E’ come guardare un quadro d’autore con lo stesso spirito con cui si prende nota di un segnale stradale”. Allora, contro ogni tentativo di ridurre a puro segno ogni espressione dell’uomo, a partire dall’alba della sua esistenza: “E’ vietato uccidere la mente di ognuno di noi”! Allora, come ha affermato Alfred Bleuler, il fine ultimo di ogni terapia si riassume in queste parole quotidiane e bellissime “il più forte stende la mano al più debole”.
Teatro sordo/LIS
Storia del teatro dei sordi (seconda parte)
di
dario PaSquarella
Tratto dalla tesi di laurea. Si ringrazia Elisa Conti per la traduzione.
La differenza tra la lingua dei segni teatrale e il teatro dei sordi-LIS Va fatta una netta distinzione tra il livello culturale e il livello linguistico di una forma teatrale. Nella traduzione dall’italiano alla lingua dei segni si avrà sempre una traduzione in cui sarà comunque l’italiano a delineare i contenuti. Infatti se, attraverso una prima traduzione, testi scritti in italiano possono essere
espressi in LIS sia da attori sordi che da attori udenti, invece, analizzando il livello culturale e “di comunità” di una platea sorda, è necessario compiere un’ulteriore distinzione tra una traduzione fedele di un testo, per sua natura incapace di raggiungere il massimo dell’espressione emotiva ed espressiva, e una traduzione “poetica”; tra un testo nato in italiano e uno riscritto e ripensato direttamente in LIS. Nella poesia in lingua dei segni, come anche nella filastrocca, c’è un livello espressivo attivo in cui il potere dominante viene detenuto dalla LIS e dalle sue configurazioni. Utilizzando ritmi differenti da quelli propri di un’espressività vocale (o di
una traduzione simultanea in lingua vocale), è possibile esprimere un testo teatrale in cui un’eventuale traduzione sarebbe inutile e peggiorativa: andrebbe a sminuire la bellezza ritmica delle configurazioni (in questo caso una traduzione vocale risulterebbe interrotta e mai fluida), e in cui l’unica soluzione potrebbe essere una traduzione consecutiva o attuare una forma di riassunto, o di tecnica musicale che andrebbe a coprire i silenzi della traduzione. E cosa accade per ciò che riguarda il feed-back della platea? Per ognuno il coinvolgimento personale, l’entrare in empatia o meno con il teatro o con la poesia, è differente da persona a persona.
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Vorrei sottolineare che in Italia, per quanto riguarda il teatro sordo, c’è una vera e propria mancanza di elaborato emozionale, espressività dell’attore (ed è questo aspetto a determinare l’originalità dei contenuti), ciò a causa anche di un disequilibrio culturale del teatro e di una mancata collaborazione per arrivare a determinare un filo conduttore di ricerca e di continua evoluzione di questo magnifico contesto che è appunto il teatro. Un altro elemento che purtroppo va ad intaccare la ricerca del teatro sordo è la mancata presenza di riprese e prodotti video di tutti quegli spettacoli (oppure delle prove degli spettacoli) di anni passati, che potrebbero determinare una fonte di ricerca e di studio. Magari esperienze di vita quotidiane di contesti e di periodi storici passati potrebbero determinare un elemento di spunto e di stimolo per un vero elaborato di drammaturgia. Uno spettacolo originale, cioè una vera rappresentazione di teatro sordo-LIS, si basa su un copione scritto e pensato in LIS (e poi trascritto in italiano da un curatore del testo udente) e una regia sorda; fondamentale sarà dunque il lavoro degli attori (sordi e udenti), il training e la lotta positiva tra segni e parole italiane: alla fine gli elaborati degli attori, sotto la guida costante del regista, contribuiranno alla formazione della drammaturgia e al buon esito dello spettacolo. L’obiettivo di tale spettacolo è riuscire a suscitare nel pubblico, tanto udente quanto sordo, le stesse emozioni e restituire così al teatro la propria funzione sociale ed educativa.
Lo spazio scenico
Gli attori che segnano, devono avere una posizione sempre frontale rispetto al pubblico, nel teatro degli udenti, invece, l’attore può addirittura recitare fuori campo, o dare le spalle alla platea, mentre gli attori sordi devono essere visti sempre dal pubblico.
Entrate e uscite
Vi racconto una curiosità. A teatro gli attori udenti durante le prove stabiliscono una battuta/chiave, che è il segnale, per avere un filo conduttore con i restanti attori dietro le quinte che aspettano di entrare in scena; invece, quando tocca a noi attori sordi avvicendarci sul palco, sulla scenografia vengono fatti dei piccoli fori in due o tre posizioni per rendere visibile tutta la scena attraverso un’attenta visione della situazione sul palco; quindi è suf-
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ficiente ricordarsi di vedere concretamente il segno/chiave d’ingresso da dietro la scenografia. Per avere un’ulteriore sicurezza, due persone possono seguire la scena dall’alto, salendo oltre le quinte, ma, coperti dal buio, senza essere visti dal pubblico, oppure lateralmente alla scena (dipende dalle situazioni e dalle scenografie adottate); gli attori invece sanno della loro presenza: in questo caso basterà un semplice scambio di sguardi per capire quando entrare o uscire, o per essere aiutati se ci si dimentica di entrare o uscire al momento appropriato. Durante una mia docenza, tempo fa, proposi ad un gruppo di corsisti di lingua dei segni questa domanda: In quale modo si può ottenere un’entrata perfetta con una scenografia completamente chiusa? Descrivi con più esempi una scenografia completamente chiusa. Queste sono state le risposte: - Monitor dietro le quinte da cui gli attori possono vedere e seguire lo spettacolo per sapere quando entrare. - Un interprete avvisa del turno. - Tutti gli attori sono sempre presenti sul palco. - Quando la luce si accende è il segnale per entrare in scena. - Si usa un cronometro e i tempi calcolati durante le prove.
La bellezza della scenografia, i costumi e il materiale scenico
Il particolare della scenografia è la cura e l'importanza dei colori perché durante il progetto di realizzazione è fondamentale un'armonia cromatica. È
importante scegliere i costumi seguendo delle linee guida, per rendere al meglio la visibilità globale dell'attore e dell'ambiente che lo circonda. Tutto ciò serve per dare una visione nitida dei segni. Se si utilizzano in eccesso colori come il fucsia, o altri colori appariscenti, oppure colori che riflettono le luci del palco, come l’argento o l’oro, ecc., si potrebbero interferire con l’attenzione del pubblico che, di conseguenza, non potendo seguire lo spettacolo in maniera ottimale, finirebbe per perdere i contenuti della trama. Come si può evitare tutto ciò? La regola nell’estetica dei colori riguarda per prima cosa la scenografia, poi il materiale scenico, e infine i costumi. In primis con il progetto delle scenografie si può fin da subito stabilire la composizione, la disposizione, il livello cromatico, ed infine il mobilio. È fondamentale che ci sia una correlazione tra questi elementi e che si crei un equilibrio cromatico affinché la scenografia e i colori creino a loro volta una scena equilibrata. Un pubblico a maggioranza sorda, infatti, potrebbe essere distratto da scene troppo appariscenti, oppure il suo sguardo potrebbe esserne eccessivamente affaticato: in entrambi i casi, una scenografia non curata nei dettagli rischierebbe di fargli perdere alcune parti dello spettacolo, costringendolo a faticare per riallacciare i fili della storia. Anche le parrucche, i capelli e i cappelli non debbono oscurare il viso. Tutto ciò è fondamentale per il primo obiettivo che è la cura della comunicazione a e della chiarezza del segnato.
La tecnica della luce
In teatro sono utilizzate particolari atmosfere che dipendono molto dagli elementi che emergono dal copione, dalle informazioni di luoghi e orari descritti nei vari atti. È importante la luce, una luce meno forte può creare disagi al pubblico, mentre una luce studiata ad hoc permette alla platea di seguire lo spettacolo. Un piano di luci studiato alla perfezione mira a eliminare la stanchezza perché gli occhi devono seguire il movimento delle mani, ovvero della lingua dei segni. Si devono evitare le ombre: se c’è poca luce, il viso dell’attore può oscurarsi creando delle occhiaie e ombre sul viso. Le luci devono rendere chiaro, leggibile, il volto, perché il volto è fondamentale per l’espressione: dà le informazioni esplicite e soprattutto implicite nelle dinamiche e nei rapporti sul palco. L’inizio di ogni spettacolo in LIS con il sipario chiuso è avvisato da tre colpi di luci che danno l’avvio e che annunciano lo start di posizione iniziale degli attori. Gli udenti invece utilizzano la musica per dare inizio a uno spettacolo, o addirittura un’apertura silenziosa.
La tecnica del sonoro
Il livello sonoro, la musica in sé è un elemento che completa il teatro. In primis va specificata la posizione della console e delle rispettive casse interne al palco ed esterne in sala. Di solito la postazione del tecnico è in fondo alla platea, lì dove i tecnici luci e audio hanno la propria postazione. Per noi sordi tale livello può essere sia omesso che in-
serito nel progetto. Per noi è possibile concretizzare i rumori e i suoni: la musica infatti può essere una calda sensazione che rende il nostro teatro completo. Tale livello è percepibile per noi attraverso insonorizzazioni e audio posti in precise location. Per il pubblico sordo può essere utile avere con sé un palloncino gonfiato posto al livello diaframmatico, per trasformare note e tracce di rumori in vibrazioni attraverso questo involucro che servirà da cassa di risonanza e su cui le mani potranno essere poste, diventando un ponte, un passaggio per le sensazioni. Si tratta di un metodo di diffusione corporea utilizzabile da ciascun sordo presente in platea. Questa percezione di vibrazioni consentirà una comprensione globale e un’integrazione completa. Per quanto concerne la responsabilità di tale esperienza ci sono due punti di vista: •Quello dell’attore e del suo feedback di memorizzazione di azioni e di copione: viene esaminata con cura la propria memoria visiva, collegata all’azione del.proprio ruolo, per es. come avvicinarsi al telefono per poter.rispondere, o ad eventuali rumori scenici o ad elementi di arredo; tale .azione nella mente dell’attore ha un’importanza scenica. •Quello del tecnico audio competente in lingua dei segni, il quale sarà contattato un mese o un mese e mezzo prima affinché possa seguire tutto l’andamento del suono, e sarà supportato da un’esperta dello spettacolo; la sua responsabilità è posta su due livelli fondamentali. Il primo è una conoscenza ad hoc
dello spettacolo, un seguire costantemente l’andamento scenico di battute incisive che proclamano ed evidenziano l’azione, che potrebbe avvenire o mancare per qualche intoppo scenico: sarà allora che il tecnico dovrà seguire oppure omettere tale rumore. La differenza tra rumore scenico e melodia di sottofondo deve seguire l’andamento delle vicende e delle situazioni in atto. Analizzando il sonoro da un punto di vista d’insonorizzazione e di riflesso ci sono elementi che possono essere buoni conduttori del suono, come il ferro o il legno e, infine, il cemento. Per quanto riguarda il livello d’insonorizzazione di casse e di sub, maggiore sarà la presenza di tali apparecchiature e migliore sarà la percezione di vibrazioni che il sordo e la platea potranno avvertire, come avviene in discoteca: il sordo avrà la percezione migliore del suono vicino al dispositivo della cassa maggiore.
Accessibilità
Per quanto riguarda l’accessibilità dello spettacolo, l’udente all’ingresso del teatro potrà scegliere di poter prendere in dotazione le cuffie (l’interprete in questo caso si troverà in una cabina separata, dotata di microfono) mantenendo solo per lui la traduzione oppure l’udente competente della LIS potrà scegliere di non avere alcuna intrusione sonora. Qualora tale servizio non fosse progettato, lo spettacolo potrebbe avere una voce fuori campo (l’interprete in questo caso sarà seduto in prima fila) che svolga un’esatta traduzione, percepita da tutta la platea. Una mia osservazione di tali esperienze, mi ha portato a pensare che la cuffia in dotazione sia l’elemento che può delineare il livello di concentrazione e di naturalezza dello spettacolo senza invadere lo spazio e la bellezza della LIS in quelle persone che sono competenti o che sfidano il proprio livello di LIS anche nei primi gradi di conoscenza di questa lingua. Nei primi spettacoli la messa in voce a campo libero, veniva effettuata simultaneamente. Le interpreti o gli interpreti posizionati in prima fila svolgevano la traduzione, la platea aveva questo feed-back con la traduzione della messa in voce. Un’altra tecnica è quella dei “sottotitoli”: questa è una tecnica usata normalmente anche nel teatro udente (qualora vengano messe in scena opere in lingua straniera) e in realtà il testo viene normalmente proiettato non “sotto” lo spettacolo, ma “sopra” la scena e gli attori.
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Per il pubblico certo è una comodità, ma per gli attori che dovranno segnare in simultanea al testo? Un attore udente può ricevere un feedback sonoro senza bisogno di controllare le scritte che appaiono alle proprie spalle, ma come può regolarsi un attore sordo? Semplice: verranno istallati altri schermi sulla parete opposta alla scena, di spalle al pubblico, affinché gli attori sordi possano segnare in simultanea al testo che viene invece passato in automatico. Rientra tra le possibili strategie anche prevedere una scena partecipata contemporaneamente da attori udenti (che useranno la voce) e sordi (che segneranno), allo scopo di integrare tra loro le due diverse prospettive linguistiche mantenendo l’integrità formale di ciascuna.
Accessibilità per i sordi
A questo punto è opportuno fare una piccola precisazione: come detto sopra, uno spettacolo udente può essere accompagnato da “sopra-titoli”; l’alternativa è la presenza di un interprete ITA-LIS posizionato a una delle estremità della scena. Naturalmente in questo caso dovrà essere mantenuta un’illuminazione sufficiente della sala, tale da rendere sempre visibile l’interprete al pubblico. Anche il teatro dovrebbe essere dotato di poltroncine posizionate alle estremità della sala, a una distanza dalla scena che sia abbastanza
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contenuta, in modo tale da facilitare la visione (se fossero posizionate troppo lontano, il pubblico sordo dovrebbe portare con sé dei potenti cannocchiali, del tipo usato da Galileo Galilei!).
La traduzione simultanea e in parallelo: problemi nell’utilizzo della voce
Un altro aspetto fondamentale che fa parte del livello globale del suono nel teatro sordo è la presenza del servizio della messa in voce per gli udenti ovvero la cosi detta traduzione simultanea e in parallelo: durante le prove è fondamentale che attori udenti siano presenti affinché risultino adeguatamente idonei al profilo di prosodia della segnatura, costruendo un profilo adatto all’attore ed al suo ruolo. Tale servizio è funzionale e correttamente individuale per coloro che non hanno competenza nella lingua dei segni ma che potrebbero seguire tale spettacolo con un’apposita cuffia: attraverso una cabina vocale la traduzione può essere sintonizzata solo nell’orecchio dell’udente che ne ha bisogno. Gli attori vocali devono seguire l’attore con la propria voce omettendo d’intervenire qualora si presenti la mancanza della battuta o l’improvvisazione di uno degli attori, che, in situazioni di caos o di fermo scenico, potrebbero anche segnare parti non presenti nel copione: sarà allora che la voce dovrà costantemente
seguire la segnatura dell’attore. Il termine “simultanea” nell’ambito del teatro va a determinare quel livello di consapevolezza e di lavoro di squadra che delinea l’andamento prosodico dello spettacolo. Infatti possono avvicinarsi a questo ruolo allievi competenti nella LIS, purché siano stati partecipi di un training comune. Per un regista sordo dare fiducia alle due diverse figure professionali del tecnico del suono e dell’interprete vocale (o degli interpreti vocali), non è un problema secondario. Mentre nel primo caso adattamento ai tempi delle diverse scene, una volta studiato e adeguatamente provato, salvo imprevisti, difficilmente darà adito a problemi durante lo spettacolo, viceversa le interpretazioni vocali sono sempre esposte a problematiche di vario genere. Se a prestare la propria voce ai personaggi sarà un interprete di professione, poco avvezzo alle interpretazioni teatrali, la cosa migliore è che, non potendo provare per mesi e mesi, non potendo insomma preparare l’interprete questo nuovo ruolo, vengano date istruzioni affinché egli o ella si attenga a un tono di voce freddo, quasi distaccato, un tono di voce tipico proprio dell’interprete professionista. Se invece a prestare la propria voce saranno attori veri e propri, sarebbe opportuno che conoscano la LIS, oppure sarà necessario un tempo di prove molto più lungo e difficile.
Brigata Maiella
La lunga marcia della Brigata Maiella
«La Maiella è il Libano di noi abruzzesi. I suoi contrafforti, le sue grotte, i suoi valichi sono carichi di memorie. Negli stessi luoghi dove un tempo, come in una Tebaide, vissero innumerevoli eremiti, in epoca più recente sono stati nascosti centinaia e centinaia di fuorilegge, di prigionieri di guerra evasi, di partigiani, assistiti da gran parte della popolazione» Ignazio Silone
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la brigata Maiella: il lungo viaggio dei ragazzi della montagna madre di
AlbA liberAtore
Ci sono storie che ci piace raccontare perché rendono le conversazioni piacevoli, altre che, per il loro ritmo cadenzato, ci assicurano un sonno più lieto e altre ancora che vorremmo dimenticare, perché provocano troppo dolore. infine, ce ne sono alcune, forse le più importanti, che dobbiamo leggere e rileggere, affinché non si perdano tra le trame del tempo e possano continuare a farci riflettere. la storia della brigata Maiella è una storia poco nota, che ha rischiato di perdersi nel tempo, ma che vive ancora negli occhi dei ragazzi ormai cresciuti che la animarono e nei ricordi delle città che, come un’onda anomala, la videro risalire l’italia.
Una cicatrice chiamata “Gustav”
dea dani, soubrette disoccupata e il suo cappellino decorato d’uva guardano famelici le pietanze esposte nel banco della rosticceria Scarponi. e’ il 1943, roma è occupata dai nazisti e lei in tasca ha soltanto due povere lire. Mentre sta ordinando due crocchette di patate, il suo collega Mimmo Adami irrompe entusiasta nel locale: «Scarpò, no je dà retta, niente crocchette de patate che sò ranciche, dacce er pollo, du’ lasagne e un fiasco de vino», «No, Mì no! rifamo come l’altra volta che emo magnato e poi te sei fatto arrestà», «No. Magnamo, pagamo e s’annamo a preparà!» «Perché?», «Una grande notizia!», «Che è? Che è successo?», «indovina!», «É finita la guerra?» «Mejo! Una scrittura!», «dove?», «Una meravigliosa tournée in Abruzzo», «Come in Abruzzo?.. ma ce sta ancora l’Abruzzo?», «Ma che sta a dì? Aò!», «Ma l’Abruzzo non è quello andove ce sta la guerra?», «embé? Ma la guerra sta in tutto il mondo dea!», «eh.. ma lì ce ne sta de più!!». Monica Vitti pronuncia questa battuta tragicomica in una delle scene iniziali del film “Polvere di stelle”, del 1973. ed è proprio così, la compagnia di
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avanspettacolo di dea e Mimmo (Alberto Sordi) si apprestava a partire alla volta di una terra ferita dalle bombe e malata di miseria. i ripetuti bombardamenti delle forze alleate sulla città di Pescara e sui paesini limitrofi, su Chieti, su Avezzano, sullo scalo ferroviario di Sulmona ad agosto ’43, avevano provocato la morte di numerosi civili. e l’Abruzzo, suo malgrado, si trovò, sin dai giorni che seguirono questi eventi, a rivestire un ruolo centrale nella storia del secondo conflitto mondiale. Qui si incrociarono le vicende di Mussolini, detenuto sul Gran Sasso dopo la sfiducia del Gran Consiglio del fascismo e liberato dai tedeschi il 12 settembre, del re e di badoglio, che salparono dai porti di Pescara e ortona (CH) per raggiungere i territori liberati, lasciando il Paese preda della confusione post-armistizio. e, per più di otto mesi, da ottobre 1943 a metà giugno 1944, il fronte della campagna d’italia stazionò sul territorio abruzzese, dove i nazifascisti tracciarono la linea Gustav, protetta dal feldmaresciallo Kesselring e “tampinata” dalle forze alleate di Montgomery. la linea Gustav, che si estendeva dal Golfo di Gaeta, sul tirreno, fino ad ortona, sull’Adriatico, passando per gli Appennini, era lo scoglio che gli Alleati dovevano superare per conti-
nuare la loro avanzata verso nord. Numerosi furono gli scontri che vi si consumarono: il più importante si svolse a Montecassino, nel lazio, ma il territorio abruzzese fu teatro di cruente battaglie, tra cui quella del fiume Sangro, che nel novembre ’43 interessò la zona di lanciano (CH) e quella di ortona, dove il mese successivo si combatté per settimane e nel corso della quale morì un ingente numero di civili e di uomini appartenenti ad ambo gli eserciti.
le stragi
le truppe di Kesselring commisero atroci eccidi di civili, a Pietransieri (AQ) e a S.Agata di Gessopalena (CH). Nell’intento di sfollare la zona della linea Gustav, di particolare interesse per i tedeschi e per scoraggiare la formazione di gruppi di rivolta, Kesselring intimò, attraverso un manifesto in lingua tedesca affisso nella zona di roccaraso (AQ), a fine ottobre, a tutta la popolazione dell’area di abbandonare le proprie case, poiché tutti coloro che si fossero trovati ancora in paese o sulle montagne sarebbero stati considerati ribelli e ad essi sarebbe stato riservato il trattamento stabilito dalle leggi di guerra dell’esercito germanico: la fucilazione sul posto.
Alcuni abitanti migrarono verso centri vicini, come Sulmona, mentre altri trovarono rifugio nei boschi di Pietransieri, in località Limmari. Fu proprio lì che la furia tedesca li raggiunse. Si trattò di una strage unica nel suo genere, poiché inflitta senza alcuna motivazione, neanche quella di rappresaglia, e per la quale nessuno avrebbe mai pagato: il 21 novembre del 1943 vennero massacrate 109 persone, tra cui 57 donne e 41 minori di quattordici anni. Si salvarono una bimba di 8 anni e la nonna di 78. Il nuovo anno si aprì con un nuovo eccidio, che aveva l’obiettivo di punire l’assassinio di due soldati tedeschi e il ferimento di altri due. Un’operazione che costò la vita a 41 civili e si consumò all’alba del 21 gennaio ’44, quando i tedeschi piombarono nelle case di S.Agata di Gessopalena.
Le due resistenze: quella armata e quella “umanitaria”
E’ in questo contesto che nacque e si sviluppò la resistenza abruzzese, quella armata e quella di popolo. Il 5 dicembre del ’43, mentre l’Italia era divisa in due dall’occupazione nazifascista a nord e dalla presenza alleata a sud, in un Abruzzo devastato dalla guerra, dopo la liberazione della piccola città di Casoli (CH) da parte degli alleati, si costituì, come ricorda Carlo Troilo, la Brigata Maiella: “Promotore della sua nascita fu mio padre, Ettore Troilo. Volontario a 18 anni nella Grande
Guerra, socialista riformista, allievo di Turati a Milano e poi segretario di Matteotti a Roma, attivo avvocato antifascista durante il ventennio, Troilo raggiunse il natio Abruzzo dopo aver partecipato alla difesa di Roma a Porta San Paolo, fu catturato dalle SS, riuscì a fuggire, radunò una quindicina di uomini, quasi tutti contadini, ed arrivò a Casoli, dove chiese al comando alleato le armi necessarie ai suoi uomini per combattere contro i nazisti. Dopo molti e umilianti rifiuti (gli inglesi vedevano dovunque ‘communists’) Troilo incontrò l’ufficiale che per primo ebbe fiducia nei montanari abruzzesi, il maggiore Lionel Wigram”. La Brigata Maiella nacque per volontà di pochi uomini, che ben presto crebbero di numero fino a superare le mille unità. Per volere del suo fondatore, la Maiella fu una formazione di volontari, in cui si sarebbe potuto entrare per scelta e, altrettanto per scelta, uscire senza ritorsioni. Una formazione che aveva l’unico obiettivo di battersi per l’Italia: nei volontari era centrale il desiderio di liberare il Paese e ricostruire una democrazia nella quale le diverse sensibilità politiche di tutti avrebbero potuto trovare spazio. E così la battaglia della Maiella ebbe inizio con il tragico scontro di Pizzoferrato (CH) del febbraio ’44, in cui cadde anche il maggiore Wigram. Dal 28 febbraio 1944 la formazione entrò a far parte del ricostituito Eser-
cito italiano (dal 18 aprile CIL: Corpo Italiano di Liberazione). Dal punto di vista amministrativo ed operativo era alle dipendenze della 209A Divisione italiana, ma rivendicò e ottenne l’autonomia sulla conformazione e disciplina interna. A ciò si aggiunse il rifiuto di prestare giuramento al Re Vittorio Emanuele III e la conseguente richiesta di sostituire le stellette al bavero con un nastro tricolore come segno di riconoscimento. La sua attività continuò con l’inseguimento del nemico a Campo di Giove, Sulmona, L’Aquila che vennero liberate nel giugno del ’44. L’ingresso della formazione a Sulmona viene ancora ricordato come un fatto curioso, poiché la città, in attesa degli alleati, aveva tappezzato le strade con scritte di benvenuto in inglese, mentre la popolazione fu felicemente sorpresa di accogliere dei giovani corregionali. L’ impegno al fianco degli Alleati non si esaurì con la liberazione dei confini regionali: i volontari armati della Maiella, dopo aver liberato l’Abruzzo, infatti, si sarebbero spinti verso nord, costituendo l’unico caso di formazione partigiana ad aver operato attivamente al di fuori del proprio territorio. Un altro Troilo, Domenico, vicecomandante della formazione, spiegò così la scelta di continuare a combattere con il II Corpo d’Armata polacco:“Fu naturale per noi dire che volevamo continuare”.
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Gli ottanta giorni della “campagna delle Marche” videro la Maiella operare nell’interno, sulla direttrice Aquila-Fabriano-Pergola, alla destra dei paracadutisti della “Nembo” ed alla sinistra dei polacchi. Due battaglie costarono alla formazione tre caduti, nove feriti e un prigioniero: la presa di Cingoli, che i tedeschi abbandonarono per non finire accerchiati e il duro scontro di Montecarotto, durato quattro giorni ed altrettante notti. A fine agosto i volontari vennero inviati di rinforzo ai polacchi nell’abitato di Pesaro, dove sostennero aspri combattimenti fino al 2 settembre, giorno in cui i tedeschi lasciarono definitivamente la città. Alla fine dell’anno, la Brigata Maiella fu impegnata negli scontri di Monte Castellaccio (Modigliana), Brisighella e Monte Mauro, punto fondamentale per l’offensiva alleata, mentre negli stessi giorni veniva liberata Ravenna, con l’apporto della 28ª Brigata Partigiana “ M. Gordini”. L’attività in Emilia-Romagna continuò e il 21 Aprile 1945 si svolse una battaglia cruciale. Questo il ricordo di quella giornata del Comandante Ettore Troilo: “Alle ore 5 inizia l’attacco per l’occupazione di Bologna, oltrepassato l’Idice avanza a Cavaliere della via Emilia unitamente ad un plotone polacco della III Divisione Carpazi. Occupato S. Lazzaro di Savena ed oltrepassato il Savena prosegue sulla Via Emilia rastrellando i campi adiacenti. A 2 chilometri da Bologna viene fermata da reparti celeri polacchi e inglesi che vogliono sfruttare il successo così rapidamente ottenuto dalla Compagnia; ma questa reagisce anche con le armi e riesce ad entrare in Bologna fra i primissimi reparti, accolta entusiasticamente dalla popolazione” (tratto dal Diario Storico conservato presso l’Archivio di Stato di Chieti). La formazione si sciolse il 15 luglio 1945, con una solenne cerimonia a Brisighella. Il 2 maggio 1965, in virtù “dei 15 mesi di lotta sostenuta con penuria di mezzi affrontando sempre forze soverchianti nemiche” la Brigata Maiella venne decorata con la Medaglia d’Oro al Valor Militare. E’ l’unica brigata partigiana ad aver ottenuto questo riconoscimento. I maiellini non erano i soli a lottare per la libertà. Alla lotta armata abruzzese si affiancò un altro tipo di resistenza: quella che, in seguito, è stata
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definita “umanitaria” e Ettore Troilo che nacque in risposta al dolore e alla sopraffazione che il nemico aveva seminato, squarciando in due il territorio con la costruzione della linea Gustav. Nella regione dall’inizio della guerra erano transitati oltre 135.000 prigionieri. Dopo l’armistizio un gran numero di soldati di tutte le nazionalità e di militari del disciolto esercito italiano era fuoriuscito, nel tentativo di raggiungere i territori liberati. Ennio Pantaleo, classe 1930, il più giovane volontario della Brigata Maiella (per potersi unire alla formazione mentì sulla propria età, aiutato da una notevole statura) nel libro autobiografico “Avevo solo 14 anni”, racconta di aver incontrato, durante il suo quotidiano giro nelle campagne vicino Sulmona, alla ricerca di qualche pa- di ogni ceto. Coscientemente misero tata, tre prigionieri inglesi in fuga a rischio la loro vita, per dare rifugio dal campo n. 78. Non esitò a portarli e protezione, per vestire e sfamare a casa e, non potendo la sua famiglia coloro che cercavano la libertà. Diviaccoglierli tutti e tre, ne ospitò uno, sero con loro, come è stato detto,« il affidando gli altri a due famiglie fi- pane che non c’era». Fu questo il terdate, in attesa di permettere loro di reno su cui nacque spontaneamente, percorrere i sentieri della libertà. E’ come scelta di popolo, la Resistenza: solo uno dei tanti casi. Un più cele- scelta istintiva, che divenne consapebre fuggiasco si rifugiò tra le monta- volezza, che si organizzò fino ad asgne abruzzesi nella speranza di rag- sumere struttura militare. Vi è una giungere Bari. Il sottotenente Carlo continuità spirituale e materiale fra Azeglio Ciampi. Dopo essersi rifu- l’assistenza data da gente di ogni giato a Scanno (AQ) per qualche me- classe sociale a coloro che cercavano se, nel marzo del 1944 venne aiutato rifugio in queste città, in questi paead oltrepassare le linee nemiche con si, in queste montagne e la costituun rocambolesco cammino attraver- zione della gloriosa Brigata Maiella, so i monti sovrastanti Sulmona, un che percorse, combattendo, da Sud a cammino a cui recentemente è stato Nord, il suo sentiero di gloria: da dato il nome di “Sentiero della liber- queste terre, da questi monti fino tà”. Molti anni più tardi, da Presi- all’Emilia, a Bologna, dove i suoi uodente della Repubblica italiana, ri- mini entrarono per primi, il giorno cordando quegli anni di dolore ma di della Liberazione di quella città. E grande solidarietà, avrebbe detto:“In ancora si spinsero più a Nord fino ai quelle giornate dell’inverno 1943- confini della Patria, segno sponta1944 fu scritta, con grande sponta- neo vissuto di quella che è la nostra neità, una vera epopea popolare. grande forza: l’unità d’Italia” (diUna tra le pagine più nobili e forse scorso pronunciato a Sulmona il 17 tra le meno note della nostra storia. maggio 2001 nella cerimonia celeColpisce la coralità dell’impresa, a brativa della marcia «Il sentiero delcui parteciparono persone e famiglie la libertà»).
Eva
Il Don Giovanni
Madamina, il catalogo è questo Delle belle che amò il padron mio, Un catalogo egli è che ho fatt’io, Osservate, leggete con me. In Italia seicento e quaranta, in Almagna duecento e trent’una Cento in Francia, in Turchia novant’una Ma in Ispagna son già mille e tre. V’ha fra queste contadine, Cameriere, cittadine V’han contesse, baronesse, Marchesane, principesse, E v’han donne d’ogni grado,
D’ogni forma, d’ogni età. Nella bionda egli ha l’usanza Di lodar la gentilezza Nella bruna la costanza, Nella bianca la dolcezza. Vuol d’inverno la grassotta, Vuol d’estate la magrotta; È la grande maestosa, La piccina è ognor vezzosa. Delle vecchie fa conquista Pel piacer di porle in lista; Ma passion predominante È la giovin principiante. (…)
Don Giovanni è un'opera lirica in due atti di Wolfgang Amadeus Mozart. È la seconda delle tre opere italiane che il compositore austriaco scrisse su libretto di Lorenzo Da Ponte, il quale attinse a numerose fonti letterarie dell'epoca. Prima esecuzione: 29 ottobre 1787. Personaggi: Don Giovanni, Leporello, Zerlina, Don Ottavio, Donna Elvira, Il Commendatore, Donna Anna, Masetto.
Ogni mese Piazza del Grano offre questo spazio a tutte le donne. Manda la tue mail a “da donna a donna” : pp.zzadelgranodonne@libero.it
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Prova di resilienza
di Catia Marani
in psicologia la resilienza stà ad indicare la capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici, anche se il termine era stato inizialmente coniato in metallurgia per comprovare la resistenza agli urti dei metalli, proprio come ha saputo fare la Signora Loretta. Ha avuto la forza per perdonare (ma non dimenticare) la “distrazione” avuta dal marito. Ci sediamo davanti alla solita tazza di tè e mentre cominciamo a chiacchierare mi meraviglio del tono sereno con cui si mette a raccontare che ad una sagra paesana il marito non smetteva più di ballare con una collega di lavoro, incontrata lì per caso (così gli aveva fatto credere). Poco dopo scoprirà che erano amanti da quasi un anno. C - Sulla base della tua esperienza, quali comportamenti possono suonare come campanelli d’allarme in un matrimonio dove uno dei due tradisce? in poche parole, come ci si accorge che il proprio marito o la propria moglie ha un amante? L: non conoscevo quella donna ma il primo sospetto l’ho avuto subito quella sera quando li ho visti ballare. i loro sguardi si incrociavano senza parlare, in una confidenza e un’intesa che fino a quel momento credevo esistesse solo fra noi. Ho percepito quanto fosse lontano e che forse lo avevo già perso. Più tardi mentre tornavamo a casa, prendendola un po’ da lontano, provai a buttare là qualche allusione. Lui invece di essere divertito dalla mia gelosia, si mise subito sulla difensiva. non si premurò di rassicurarmi con parole d’amore ma si mise a difendere la collega dicendo che ero ingiusta a pensar male di lei, perché era più giovane di me, facendola passare per una “facile” solo per qualche ballo. Convinto di avermi persuaso della loro buonafede, era diventato anche più audace, fino ad inviarle messaggi col telefonino. dopo averne intercettati alcuni l’ho messo alle strette. all’inizio ha negato e ha avuto anche la faccia tosta di fare l’offeso. C - Secondo te dove è comincia l’infedeltà di tuo marito? nel momento a cui ha iniziato a pensare all’altra o nel momento in cui è passato all’azione? L: Ma guarda io sono una donna molto pragmatica e credo che il vero tradimento inizia quando si passa all’azione. desiderare qualcuno al di fuori della coppia, incrociato per la strada non lo reputo un vero tradimento ma una fantasia erotica. C - Secondo alcune statistiche, il 53% delle donne sarebbe disposto a perdonare un tradimento mentre gli uomini perdonano molto meno, appena il 13%. tu come sei riuscita a perdonarlo? L: Fingere che non sia successo nulla è impossibile. E’ una profonda ferita che si può rimarginare ma la cicatrice resta, insieme alla diffidenza nei confronti di chi ha tradito. E’ accaduto più di sei anni fa, eppure ogni volta che mi dice che ritarda a tornare a casa, oppure se sento squillare il suo cellulare e lo vedo allontanarsi mentre risponde, il mio cuore accelera il battito…il sentimento di sfiducia non è completamente svanito, sei sempre un po’ sul chi va là. C - Cosa ti ha spinto a perdonarlo? L: tante cose: dopo un odio pazzesco che ho provato verso di lui sono caduta in depressione e mia madre e mia suocera mi sono state molto vicine. Per questo in quel periodo avevo trascurato parecchio i miei bambini. E’ stato lui a farsi carico di qualsiasi cosa avessero bisogno. non ha per-
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messo che se ne occupasse nessun altro. avevo il diritto come moglie tradita di pretendere che se ne andasse di casa, ma da madre non me la sono sentita di allontanarli dal padre. Ho pensato che se un domani mi fosse successo qualsiasi cosa, una malattia o un incidente, che mi avesse impedito di seguirli, avrebbe saputo farlo bene quanto me. Piano piano abbiamo ricominciato a parlare con sincerità, dei suoi e dei miei errori. Quelli che ci avevano fatto arrivare ad un passo dalla separazione. abbiamo capito che quello che avevamo costruito fino ad allora era troppo grande e non potevamo distruggerlo. io nonostante tutto lo amo molto e, sarò un’illusa ma quando mi ha detto che non poteva vivere senza di me, gli ho voluto credere. C - Che consiglio daresti ad una donna che stà vivendo un’analoga situazione? L: E’ difficile dare consigli, ogni storia è diversa…l’unica cosa che mi sentirei di dire è di non essere precipitosa e di prendersi del tempo per ragionare con calma su ciò che vuole veramente. E’ normale che appena dopo aver scoperto un tradimento si vorrebbe buttare il proprio uomo fuori di casa ma non bisogna dimenticare che se ciò è accaduto significa che alla base c’è un problema nella coppia e seppure lui è il primo responsabile di tanta sofferenza forse dobbiamo cercare di capire se ci sono anche delle responsabilità nostre. C - dopo che hai scoperto il tradimento, hai mai provato a contattare l’altra e se lo hai fatto, con che tipo di approccio? L: no, non l’ho fatto perché mio marito mi giurò che non l’avrebbe più vista qualsiasi decisione avessi preso. Che per lui la cosa era finita lì. Che se a me era crollato il mondo, anche lui stava soffrendo tantissimo e non si sarebbe mai perdonato di essere stato la causa della rovina della nostra famiglia. ti posso dire invece che un problema non di poco conto è dovuto al fatto che la città è piccola, troppo piccola per non impedirmi di doverla ancora incontrare. Fortunatamente fino ad ora è successo solo una volta e ti assicuro che non sono stata io a cambiare strada quando ci siamo riconosciute da lontano. io non avevo nulla di cui vergognarmi. C – Sicuramente, eppure molte donne tradite provano vergogna pensando che la cosa può diventare di pubblico dominio, eppure sono la parte offesa, perchè? L: Quando ho scoperto il tradimento, per qualche tempo mi sono isolata da tutti, anzi nascosta, perché pensavo “Oddio lo sapranno già tutti che sono “cornuta”! anche le mie colleghe, anche i vicini! E gli amici? Se lo sapevano, ne parlavano fra loro, ne ridevano? all’inizio ho provato tanta vergogna, è un sentimento che non sai gestire in quel momento. C - Un’azienda americana ha ideato un anello anti-adulterio il quale dopo un po’ di tempo che viene indossato marchia sul dito la frase “i’m married”, sono sposato/a, pensando di proporre una soluzione, alquanto bizzarra direi, per prevenire il tradimento. Lo metteresti al dito di tuo marito? L: E’ un’idea che non merita neppure di essere commentata. Proporre un’idiozia del genere non ha nulla a che fare con l’amore, per cui dove non c’è amore non c’è tradimento. C – Qual è l’ultima cosa a cui pensi prima di andare a dormire? L: Mettiamo a letto i bambini e poi cerchiamo di andare a letto insieme per addormentarci uno fra le braccia dell’altro. (mi strizza l’occhio e… a buon intenditor poche parole).
♀ contro ♂ Femmine contro Maschi La differenza dell’infedeltà nei due sessi, è così reale che una donna appassionata può perdonare l’infedeltà, ciò che è impossibile ad un uomo. (Stendhal) Quella che si prova di fronte a un tradimento è un'emozione forte, a volte anche distruttiva. Nonostante la gelosia dipenda dai caratteri e dalle esperienze, esiste una sostanziale differenza tra le donne e gli uomini. In caso di infedeltà, infatti, l'uomo ha maggiori difficoltà a perdonare mentre noi siamo più indulgenti. Queste le conclusioni di uno studio condotto da un gruppo di ricercatori della Pennsylvania State University e pubblicato sulla rivista scientifica "Psychological Science". I ricercatori hanno scoperto che quando una donna scopre l'infedeltà di un uomo non è tanto sconvolta dal fatto che il suo partner ha avuto un rapporto sessuale con un'altra donna, ma che avrebbe potuto innamo-
rarsi dell'altra mettendo in pericolo la loro relazione. La rabbia femminile, infatti, consiste più nella paura di perdere il rapporto che garantisce sicurezza a lei e ai suoi figli. Per questo quando una donna scopre un tradimento dove non c´è stato alcun coinvolgimento di sentimenti è più disposta a perdonare (da qualche parte ho letto addirittura che da un sondaggio fatto in Gran Bretagna le donne inglesi siano disposte a perdonare fino a tre tradimenti!). Gli uomini inoltre hanno più difficoltà ad accettare che il tradimento della loro donna possa diventare di pubblico dominio, e a conferma di questa stessa tesi, ricordo che una conoscente, nonostante il marito avesse scoperto la sua relazione extraconiugale, non aveva preso la decisione di lasciarla, cosa che invece fece subito, appena una parente di quest’ultimo, si prese la briga di informalo che tutto il paese dove abitavano ne era ormai a conoscenza.
In Libreria Consigliati e Sconsigliati Momento di una coppia di Nelly Alard – Gremese Editore L’ho citato perché mi è stato segnalato come il best- seller del momento in Francia da una mia amica che lo ha letto, dicendo che non gli è sembrato di aver trovato nel romanzo, ben scritto, nessuna novità riguardo all’argomento tradimenti. Il marito tradisce la moglie che vorrebbe riconquistarlo, l’amante però non lo vorrebbe lasciare ritornare a casa. Non vi rivelo il finale in quanto la mia amica mi riferisce che è l’unico elemento di forza del racconto che ci riporta ad un famoso film degli anni ’80 “Attrazione Fatale”. Anna Karenina di Lev Tolstoj Chi non conosce la storia dell’amore fedifrago ed infelice di Anna Karenina ed il Conte Vronskij? Se qualcuno non la conosce non perda l’occasione di andarsela a leggere.^^^^^SI Il desiderio di essere come tutti di Francesco Piccolo - Einaudi A Bevagna al Teatro Torti, sabato 13 dicembre 2014, alle ore 18, interverrà l’autore di questo libro che descrive gli allegri conflitti tra un padre anticomunista e un figlio “sbagliato” che ama Berlinguer. Francesco Piccolo, scrittore e sceneggiatore, ha vinto con questo libro il premio Strega 2014. L’evento, alla sua seconda edizione, è parte di un’iniziativa di Claudio Cutuli, con la direzione artistica di Francesco Chiamulera che lo presenta, è gratuito ed aperto a tutti. Consiglio, data l’affluenza di prenotarsi per partecipare telefonando allo 0742679840.^^^^^^SI
Le immagini utilizzate in questo inserto sono pitture ispirate a Tamara De Limpicka
Segnalateci le letture che vi hanno coinvolto di più, oppure quelle che vi hanno deluso scrivendo al nostro indirizzo mail e noi le citeremo su “Consigliati e sconsigliati dalle donne”.
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Espiazione
“Cattive Segretarie” Un uomo racconta perché ha dovuto licenziare la segretaria:“Due settimane fa, in occasione del mio cinquantesimo compleanno, mi sentivo un po’ giù, complice la crisi di mezz’età. Scendo dal letto e dopo essermi guardato allo specchio per vedere se c’erano nuove rughe, mi dirigo in cucina per fare colazione, sapendo che mia moglie sarebbe stata carina e mi avrebbe detto ”Buon compleanno, AMORE!” e sicuramente mi avrebbe fatto trovare anche un regalino. Lei invece non mi dice neppure “Buongiorno”. Esco e monto in macchina per andare in ufficio sentendomi ancora più depresso e nervoso. Entrando in ufficio, la mia segretaria, Simona, mi dice: “Buongiorno capo e buon compleanno”. Già mi sentii un poco meglio e mi senti ancora meglio quando verso mezzogiorno entrò in ufficio dicendo: ”E’ il suo compleanno, perché io e lei non andiamo a pranzo insieme?”. Allora rispondo: ”E’ la cosa più bella che ho sentito questa mattina, andiamo Perbacco!”. Ci rechiamo non al bar sotto l’ufficio dove consumiamo spesso il panino ma in una trattoria a conduzione familiare. Tornando verso l’ufficio Simona mi fa: ”E’ un giorno speciale per te, perché dobbiamo andare in ufficio? Perché invece non andiamo a casa mia che è qua vicino e beviamo qualcosa?”. Non ci penso più di tanto e le rispondo di si. Dopo aver bevuto un paio di Martini e fumato una sigaretta, lei mi
dice: ”Vado di là e mi metto in dosso qualcosa di più comodo. Se non ti dispiace…” ed io dico quasi col fiato corto: “ma scherzi? fai pure.”. Resto solo con la mia fantasia e due minuti dopo ne esce fuori portando una immensa torta…seguita da mia moglie e i nostri due bambini. Tutti cantavano “Tanti auguri a te”…ed io ero nudo come un verme, solo con i calzini in dosso, steso sul divano”.
Benessere al Naturale
Mode & Modi
Una vita sentimentale poco serena può essere causa di grande stress. Lo stress è un grande nemico della nostra salute sia fisica che mentale. A livello fisico sentiamo una grande stanchezza che non riusciamo a smaltire neppure con il riposo mentre a livello psicofisico fra i sintomi più tangibili riconosciamo la scarsa capacità di concentrarci anche nel compiere le azioni più comuni. Vincono ansia e apatia su tutto. Alimentarci in modo giusto può aiutarci a recuperare un po’ di forze. Assumere quotidianamente per periodi di un mese due o tre volte l’anno il magnesio può aiutare molto a ritrovare le forze. L’effetto è garantito (l’ho sperimentato di persona per superare un piccolo problema di salute), vi sentirete come Braccio di Ferro dopo aver ingoiato un intero barattolo di spinaci. Attente anche a non bere troppi caffè, perchè se ci danno l’illusione di farci sentire più dinamici, al tempo stesso ci possono impedire di riposare bene di notte, stessa riflessione vale per il tè, che contiene la teina. Anche i massaggi possono farci diminuire il grado di ansia, provate ad esempio a premere con l’indice, per cinque minuti, il punto che si trova tra le due sopracciglia: esercitate un po’ di forza nella pressione, il beneficio sarà immediato.
Regali Natale è alle porte e ci piace fare doni quasi quanto riceverne. I doni più sentiti però non sono quelli che obbediscono ai dettami del calendario, ma quelli inattesi che nascono dal desiderio sincero di voler sorprendere o ringraziare chi si ama. Per ottenere l’effetto “gradita sorpresa” è necessario che nella scelta non ci basiamo su ciò che piacerebbe a noi, ma concentriamoci sulla persona a cui è diretto il regalo, pensando ai suoi gusti, alle sue passioni o ai suoi hobby. Non limitiamoci a regalare oggetti perché si possono regalare anche esperienze (viaggi, biglietti per un concerto o l’iscrizione ad una scuola di balllo). Ma cosa si può regalare ad un uomo? Se lo conosciamo da poco tempo è meglio non andare molto sul personale e non spendere troppo (potrebbe risultare imbarazzante per chi lo riceve), mentre se è il nostro compagno dovrebbe essere più facile sapere cosa potrebbe farlo felice. Per quanto riguarda i figli è difficile che non passi giorno senza che ne abbiano ricevuti, soprattutto se dobbiamo farci perdonare le troppe ore trascorse lontano da casa per lavoro. Ecco, forse ritagliarci un po’ di tempo libero da distribuire fra compagni e figli, allontanando ansie e nervosismo, sarebbe un bel regalo da fare a tutta la famiglia!
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Come sognano le Donne
Vetro Poche notti fa ho fatto un sogno che al risveglio mi ha lasciato un certo turbamento: ero davanti al lavandino e stavo sciacquando sotto al rubinetto dei calici di vetro o di cristallo. Ad un certo punto questi si sono rotti fra le mie mani, senza che avessi fatto nessuna pressione, fragilissimi come bolle di sapone, però ricordo di non essermi ferita. Al mattino sono andata a cercare il significato del sogno ed ho scoperto che il vetro può avere significati ambivalenti riferiti alle sue principali caratteristiche: fragilità e trasparenza. Se nel sogno si vedono vetri roti ciò potrebbe significare che pensiamo che nella nostra vita qualcosa è andato in frantumi: obbiettivi da raggiungere che non si sono concretizzati facendoci perdere la fiducia in qualcosa cui credevamo. Il vetro nel rompersi può provocare ferite, allora in quel caso il sogno è legato ad un evento che ci ha fatto particolarmente soffrire, oppure se non ci sono né tagli né fuoriuscita di sangue, si può interpretare come buona capacità di superare l’evento. Sognare vetri rotti che sono a terra possono stare a significare che ci sentiamo in colpa per qualche cosa e che temiamo rimproveri o mortificazioni. Sognare un vetro di una finestra sporco potrebbe nascondere un certo bisogno di fare chiarezza sulla realtà.
Natale
Mo’ viene Natale! di Chiara
MaNCuso
Non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo di strade Ho tanta stanchezza sulle spalle Lasciatemi cosĂŹ come una cosa posata in un angolo e dimenticata Qui non si sente altro che il caldo buono Sto con le quattro capriole di fumo del focolare (G.Ungaretti)
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Premessa Lo Spirito dei Natali Passati
Immaginatevi la scena: vigilia di Natale, una bambina di otto anni va a trovare i suoi nonni ed entrando in casa, di risposta alle insistenti proposte di dolcetti vari, inizia a recitare la poesia che vi ho trascritto di sopra, accasciandosi sulla sedia spostata volutamente in un angolo, come aveva fatto la mattina prima per la recita di Natale a scuola. Dopo lo sgomento iniziale, la nonna inizia ad urlare: “A picciridda sta male!!!” (la bambina sta male!). Si, quand’ero piccola ero una promettente attrice, avevo una spiccata indole melodrammatica! Peccato che del teatro mi siano rimaste solo le promesse, dei famosi “Le faremo sapere!” Mi piaceva questa poesia e la interpretavo come se ne capissi veramente il senso; tuttavia, nonostante ne cogliessi la drammaticità, ero una bambina e aspettavo il Natale come tutti i bambini, con tutta l’emozione, la trepidazione, lo sfavillio negli occhi ecco! Non avevo idea delle “capriole di fumo del focolare” e mi piacevano i chiassosi “gomitoli di strade”! Mi godevo il “tempo dell’attesa”, la preparazione del presepe, il profumo delle bucce delle arance che io e le mie sorelle strizzavamo sulle candele sul tavolo imbandito a festa, quel profumo che ti resta nelle dita e nei vestiti, ma più ancora nella memoria. E quando arrivava il Natale…non riuscivo a dormire in attesa della mattina: mi giravo e rigiravo nel letto in attesa dell’alba che sembrava non arrivare mai! I regali, il pranzo dai nonni, la Tombola: tutto era perfetto! Tutto, tranne il fatto che il tempo che in venti giorni sembrava essersi fermato, improvvisamente si fosse ricordato di scorrere e in men che non si dica, già arrivava l’Epifania, la festa più odiata che ci sia... il giorno in cui sbucava sempre qualche compito da fare che durante le vacanze era del tutto sparito, puff! Scomparso nello zaino, per poi risbucare alle sette di sera del sei gennaio, con tutta la difficoltà che la malavoglia ti mette addosso!!! E la tristezza del giorno dopo...ne vogliamo parlare? Un attimo pri-
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ma la casa, la città, ogni angolo era tutto uno sbrilluccicare di lucine e addobbi colorati e il sette gennaio il Nulla! Il grigio... Quasi quasi mi rimetto a piangere...
Lo spirito del Natale Presente
L’altro giorno passando in macchina in superstrada, mentre parlavo del più e del meno con i miei genitori, guardando distrattamente i negozi, dissi sorridendo “Ah! Un babbo natale di quattro metri!”. Guardai l’orologio che segnava 25 ottobre ’14, rallentai la macchina, mi voltai e guardai meglio e come Tweety quando vede passare Gatto Silvestro iniziai a ripetere “Oh
Dio! E’ vero! E’ vero! E’ proprio un babbo Natale di quattro metri!” Va bene arrivare primi nelle strategie di marketing, ma mancano due mesi esatti a Natale!!! Ci sono ancora le decorazioni di Halloween e in mezzo alle zucche sbuca fuori babbo Natale! Com’è possibile? Dentro di me iniziava a prendere forma non più la gioia del bambino che si rende conto che le feste si stanno avvicinando, ma l’ansia di tutto quello che adesso nella mia vita comporta l’arrivo del Natale. Si, perché da una decina d’anni a questa parte, il periodo che va dall’avvento al capodanno, è diventato insopportabile: prima che mi laureassi e che trovassi lavoro, facevo la promoter, si, avete capito bene!
Ero una di quelle signorine “carine e coccolose”, come i pinguini del film Madagascar, che il cliente normale evita come gli esattori delle tasse: le regole erano semplici, bastava solo sorridere, essere gentili, convincenti, ma non insistenti, chiare nelle spiegazioni, ma non superare le cinquanta parole, capelli in ordine, ben truccate, ma senza esagerare, tailleur scuro, camicia rigorosamente bianca, portamento sempre eretto, non parlare di altro se non del prodotto. E che ci vuole? Se poi magari mi mettevano vicino ad un frigorifero, o, peggio, ai congelatori, dopo un paio d’ore il mio colorito iniziava ad intonarsi a quello della camicia... “posso mettere un golfino bianco?” chiedevo timidamente in agenzia. “Ma stai scherzando?” No: la promoter deve stare a soffrire lì, nella sua postazione per otto ore! Certo, per quasi cinque euro l’ora ne valeva la pena... E quando si lavorava di più? Nel periodo dell’anno in cui la gente è disposta anche a subaffittare la cuccia del cane pur di avere l’ultimo modello di smartphone! A Natale... “A Natale puoi fare tutto quello che non puoi fare mai” recitava una canzoncina e sembra che la gente ci creda veramente! Si, negli anni in cui ero nella mia “privilegiata postazione”, vi giuro che ho visto di tutto: gente che si sveglia alle sei della mattina dell’otto dicembre per mettersi in coda per le mitiche promozioni di Natale, con l’espressione dei guerrieri pronti all’attacco: appena la saracinesca accenna un timido movimento, già sono dentro al negozio, con uno sprint da formula uno, pronti a prendere il primo panettone ad un euro, con la certezza che se avessero tardato, che dico di un giorno, di una sola ora, non lo avrebbero più trovato! Perché quel panettone ha tutto un altro sapore: è il gusto della vittoria, dell’essere lì, anziché a casa a letto, o a messa per chi ancora crede e si ricorda che queste sono feste cattoliche. Ed io ero lì, con il mio sorriso simile ad una paresi facciale di terrore, schivando i carrelli che di tanto in tanto mi finivano addosso, con le canzoni di Natale sparate al massimo dagli altoparlanti, dai televisori, dagli stereo, dai bigliettini di au-
guri e dall’immancabile Babbo Natale. All’inizio dici: “Che bello! C’è proprio l’atmosfera di Natale!”, ma dopo dieci ore, perché ovviamente in quei giorni mi fermavo più del dovuto nel centro commerciale, iniziavo ad avere la nausea, non scherzo, proprio non ne potevo più : me lo sognavo pure di notte il Babbo Natale, con il suo vocione, e la sua barba invadente sporca di bibita gassata, sognavo di incontrarlo nel salotto, non come da piccola, per prendere i regali, ma per dargli una bella randellata o dirgli “Buttati che è morbido!” e accenderlo per davvero il camino, anziché lasciargli pure il panettone! Il calendario dell’avvento sembrava diventato il muro degli ergastolani, tuttavia anche unico mezzo per capire in che giorno della settimana fossi, perché quando lavori tutti i giorni per venti/trenta giorni di fila, inizi a chiederti chi sei, da dove vieni, e soprattutto, perché se anche Dio ha ritenuto opportuno riposarsi il settimo giorno, per te non arriva mai il giorno di riposo? “Beh, però nei giorni festivi chissà quanto guadagni?” mi chiedevano le amiche con aria maliziosa: dai sei ai dieci euro in più, ma non sempre... Mi auguro che adesso, per le mie amiche promoter le cose siano migliorate, ma dubito che da un paio d’anni a questa parte, in Italia, il paese del bradipismo storico, qual-
cosa sia cambiato! Comunque, adesso che il mio avvento non lo trascorro più nei gironi danteschi dei supermercati, posso tirare un sospiro di sollievo, penserete! Sono passata dai gironi dell’Inferno ai cori angelici... insegno musica, un bel salto di qualità, penserete! Certo, per carità, ma chi ha un figlio sa quanto può essere traumatico un “Saggio di Natale”: la scuola di musica inizia ad ottobre e, dopo i primi giorni, arriva qualche collega che ti dice con candore “Che facciamo per il saggio di natale? Hai già pensato a qualcosa?” Per tre mesi ritornano i jingle che dovevo sopportare per otto ore al giorno....tutti i giorni...e quando finalmente, alla spicciolata, arrivano le recite e i saggi di Natale, non ne puoi più! Al decimo “Jingle bells” senti che un tic nervoso già ti fa tremare l’occhio, dopo il ventesimo il tremore ha preso anche le mani e i piedi, al trentesimo sei fuori dal teatrino a preferire di tremare per il freddo, prima di trasformarti nel protagonista di Shine. Poi arrivano i miei ragazzi: chitarre elettriche, batteria...“Ma non è un repertorio di Natale! ” qualcuno dei miei colleghi mi obietta. E’ vero, lo confesso: ho bandito il repertorio di Natale dai miei programmi scolastici, per spirito di sopravvivenza e per evitare un suicidio di massa dei genitori!
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Il pranzo di Natale
E finalmente arriva Natale! Che gioia! Se non fosse che devi andare alla Messa presto se no non si trova posto, poi dai parenti, presto anche lì se no li senti già che sbuffano come una pentola a pressione, sarebbe una giornata perfetta dopo tutta la confusione dei giorni precedenti! Il Santo Natale... Mi alzo presto e non per scartare i regali, no, perché quando si supera il mito di babbo Natale, non ci sono più i regali sotto l’albero, non li incartano nemmeno, oppure, se qualcuno lo incarta, nemmeno fai in tempo a dire “Grazie!” che l’altro ti risponde in fretta “E’ una crema per il corpo!” o “un libro” o quello che volete; ma perché? Già che non c’è più l’attesa del regalo sotto l’albero, almeno dammi due minuti di suspence! Come se fuori dall’uovo di pasqua trovassimo la scritta:” la sorpresa è quel portachiavi stupido che non ti è servito nemmeno l’anno scorso, ma la cioccolata non è male!” Vabbè! Passiamo oltre, a quello che tutti gli italiani medi aspettano per un anno intero: il Pranzo di Natale! Io non amo molto mangiare, colpa forse delle mille allergie e intolleranze che in questi anni hanno rovinato questi momenti, ma il pranzo di Natale è la cosa che più difficilmente riesco a mandare giù, perché si Deve mangiare tanto! Io che sono meri-
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dionale poi... ricordo con terrore il fritto, il soffritto, la pasta al forno, le lasagne, la carne al forno, il pollo al forno, il pesce fritto, le patate, perfino l’insalata sembra pesante e unta in mezzo a tutto quel banchetto di nozze, come se per un anno tutti avessero digiunato e si fossero dati appuntamento per la mangiata del secolo! E poi, nel meridione se non mangi tutto è offesa grave...sei fuori dal clan! Finito il secondo inizia la parte più difficile da digerire: i discorsi dei pranzi con i parenti! Si fa a gara per chi urla più forte, e gli argomenti poi...dai comizi politici al razzismo, dai problemi economici al tempo: sembra quasi di stare da Bruno Vespa, se non che qualcuno sfortunatamente si ricorda di me... Quando ero piccola le domande erano sempre in terza persona:“Ma non mangia? Ma non parla?” Da adolescente: “E il ragazzo non ce l’hai?” Adesso, da dodici anni a questa parte: “E quando ti sposi?” Ed io rispondo sempre allo stesso modo da trent’anni a questa parte: “Penso che mi stia venendo la febbre! Mi metto un po’ sul divano...” e sto lì fino a Santo Stefano, a leggere qualcosa... Finalmente arrivano i dolci: “Non lo prendi il panettone?” sono allergica al 90% degli ingredienti, mangiare solo i canditi non mi sembra il caso...”il pandoro?” lì saliamo
al 99% di intolleranza, l’unica cosa che potrei mangiare è lo zucchero a velo. “Allora un torroncino!” Ma si, dai che male farà un torroncino...ahhhh! Friabile!!! Il torrone Friabile deve il suo nome non alla sua consistenza, ma all’effetto che ha sui denti: li rende, appunto, friabili! E’ un’arma impropria! Si frantuma in mille pezzi, si appiccica e macchia tutti i tessuti e non si rompe mai come vorresti! E mentre sto lì sul divano, con il mio mal di denti, guardo la finestra e aspetto il tramonto: allora mi ricordo di Ungaretti e ne capisco il senso, con triste malinconia, chiedendomi che fine abbia fatto la bellezza della vigilia di Natale, che fine abbia fatto quel Gesù Bambino piccolo piccolo dimenticato nel presepe...che fine ha fatto il suo vagito nella notte, se ti proibiscono perfino di menzionarlo a scuola ai bambini, “Per rispetto delle minoranze religiose”? Che cosa festeggiamo più o meno allegramente attorno ad un tavolo troppo imbandito, troppo chiassoso, troppo grasso? Ha vinto veramente quell’icona della bibita americana, il Babbo Natale con il suo pancione enorme e con la sua bottiglia in mano? La sua presenza invadente ha cancellato il nostro piccolo Gesù Bambino? Beh, allora “Lasciatemi così come una cosa buttata in un angolo e dimenticata”.
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