Mensile di informazione, politica e cultura dell’Associazione Luciana Fittaioli - Anno VII - nn. 7-8 luglio-agosto 2015 - distribuzione gratuita
la potenza della Cina la saggezza dell’India il “secolo orientale”
सरकार का केवल एक धर्म है - इंडियाफर्स्ट (भारत सर्वोपरि)! सरकार की केवल पवित्र पुस्तक है - संविधान। सरकार को केवल एक भक्ति में लीन रहना होगा – भारतभक्ति ! सरकार की केवल एक शक्ति है – जनशक्ति ! सरकार का सिर्फ एक संस्कार है -125 करोड़ भारतीयों की कुशलता! सरकार की एक ही आचार संहिता होनी चाहिए – सबका साथ, सबका विकास! : नरेन् द्रमोदी (Una sola religione: l’India. Un solo libbro sacro: la Costituzione. Crescere e dividere. Avanzare tutti insieme)
In copertina il Primo Ministro dell’India: Narendra Modi. Il titolo è tratto da un articolo che Xi Jinping, presidente della Repubblica Popolare cinese, fece pubblicare su diversi quotidiani indiani prima della sua visita di Stato in India nel settembre 2014. Modi nelle ultime elezioni generali indiane del 2014 ha ottenuto la maggioranza assoluta ponendo fine ai quasi settanta anni di potere della dinastia Nehru-Gandhi, avviando un percorso di radicale rinnovamento della politica indiana sia interna che internazionale, ne parliamo in un inserto all’interno della rivista. Sopra gli slogan che sintetizzano i nuovi orientamenti di governo del premier Modi.
Il vento del cambiamento
Intervento del premier cinese Li Keqiang al vertice di Davos (Svizzera) del 21 gennaio 2015
Certo, oggi il mondo non è affatto senza problemi. Tensioni regionali, conflitti locali e attacchi terroristici continuano a divampare, ponendo minacce immediate per l'umanità. La ripresa economica mondiale manca di velocità e quantità. Le principali economie stanno procedendo in modo non uniforme. I prezzi delle materie prime stanno attraversando oscillazioni frequenti. E segnali di deflazione hanno reso la situazione ancora peggiore. In realtà, molte persone sono molto pessimiste sul futuro del mondo. Esse credono che la garanzia della pace sia debole e la prospettiva di sviluppo sfuggente. Un filosofo, una volta osservò che non siamo in grado di risolvere i problemi utilizzando lo stesso tipo di pensiero che abbiamo usato quando li abbiamo creati. Infatti i vecchi problemi non possono più essere risolti conservando la mentalità obsoleta dello scontro, dell'odio e dell'isolamento. Il dialogo, la consultazione e la cooperazione devono essere esplorate per trovare soluzioni ai nuovi problemi. E' importante che noi traiamo lezioni della storia, la fonte della nostra saggezza collettiva, per massimizzare la convergenza di interessi tra i paesi. Fortunatamente, in tempo di difficoltà e di esperimenti, l'umanità è stata sempre in grado di trovare il coraggio di uscire dalle situazioni difficili e andare avanti attraverso il cambiamento e l'innovazione. Di fronte a una complessa situazione internazionale, dovremmo tutti lavorare insieme per sostenere la pace e la stabilità. Quest'anno ricorre il 70 ° anniversario della vittoria della guerra antifascista mondiale. Per sostenere la pace e la stabilità serve l’impegno di tutte le
persone nel mondo. L'ordine mondiale stabilito dopo la seconda guerra mondiale, nonché le norme generalmente riconosciute in materia di relazioni internazionali devono essere mantenute, non rovesciate. In caso contrario, la prosperità e lo sviluppo potrebbero essere messi a rischio. La guerra fredda e la mentalità a somma zero devono essere abbandonati. L’approccio del "il vincitore prende tutto" non funziona. Tensioni regionali e conflitti geopolitici devono essere risolti pacificamente attraverso mezzi politici. In un mondo di diverse civiltà tutti noi dovremmo cercare di vivere in armonia. La diversità culturale, come la biodiversità, è il tesoro più prezioso che abbiamo su questo pianeta. La società umana è come un giardino in cui tutte le civiltà umane fioriscono. Culture e religioni diverse devono rispettarsi e vivere in armonia l’una con l'altra. Pur mantenendo stretti naturali legami tra coloro con i quali siamo più d'accordo, dobbiamo anche rispettare coloro con i quali siamo in disaccordo. Come il vasto oceano che fa entrare tutti i fiumi che scorrono in esso, i membri della comunità internazionale hanno la necessità di lavorare insieme per espandere il terreno comune, accettando le differenze e cercando un progresso di reciproco vantaggio attraverso la cooperazione inclusiva e l'apprendimento reciproco Mentre ognuno di noi ha il diritto di adottare politiche economiche in linea con le condizioni nazionali, abbiamo bisogno di rafforzare il coordinamento delle macro-politiche per ampliare la convergenza degli interessi e realizzare lo sviluppo comune. Un proverbio europeo dice: "quando soffia il vento del cambiamento, alcuni alzano muri, altri costruiscono mulini a vento." Dobbiamo agire seguendo la tendenza del nostro tempo.
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Editoriale 52%, “non voto” e proposta di Sandro Ridolfi
pagina 258
Coalizione Sociale Intervento di Maurizio Landini a cura della Redazione
pagina 260
India Dai Nehru-Gandhi a Modi di Sandro Ridolfi
pagina 266
Taxation against overrapresentation Capitale anglofono contro diversità di Domenico Fiormonte
pagina 268
L’accordo di Schengen Fragilità e schizzofrenia di Giacomo Bertini
pagina 272
Le speranze invisibili Pratiche del cambiamento planetario di Giulia Pinna e Domenico Fiormonte
pagina 276
Mafia e Mafie “Merda” e globalizzazione di Giovanni Parentignoti e Redazione
pagina 280
Universalismo giuridico Crisi dei valori e della società “moderna” di Ivano Spano pagina 284 La decadenza dell’Impero romano (prima parte) Analogia con l’attuale società occidentale di Alberto Donati pagina 288 Ancora sul Materialismo Storico La storia è un evento materiale a cura di Sandro Ridolfi
pagina 296
Redazione: via Benedetto Cairoli 30 - 06034 Foligno - E-mail redazionepiazzadelgrano@yahoo.it - Sito internet: www.piazzadelgrano.org - Autorizzazione: tribunale di Perugia n. 29/2009 - Editore: Sandro Ridolfi - Direttore Responsabile: Maria Carolina Terzi - Sito: Andrea Tofi - Stampa: Del Gallo Editori Spoleto - Chiuso: 28 giugno 2015 Tiratura: 2.000 copie - Periodico dell’Associazione “Luciana Fittaioli”
S ommario del mese di luglio-agosto 2015 Le ricette degli “altri” Falafel e Zighinì a cura della Redazione
pagina 300
Giovani a confronto Chi parte e chi resta di Giacomo Bertini
pagina 304
Gender L’inevitabile amore della libertà di Sara Mirti e Elisa Conti
pagina 308
Teatro Sordo Il Laboratorio Zero di Roma (seconda parte) di Dario Pasquarella pagina 312 Routine Le interviste di Dario Pasquarella
pagina 316
Venga a prendere il caffè da noi L’amore a km 0 di Catia Marani
pagina 320
Mondo Gatto Da dei a demoni di Chiara Mancuso
pagina 324
Mosca, Piazza Rossa 9 maggio 2015 70°Grande Guerra Patriottica a cura della Redazione
pagina 328
QR code al sito internet della rivista
52%
Non domandare cosa fa la politica per te, chiediti cosa fai tu per la politica
di Sandro Ridolfi 50%, più o meno, questo è il dato dell’affluenza alle urne nell’ultima consultazione elettorale regionale e, di converso, quello speculare della mancata partecipazione al voto. Grida di trionfo per la rielezione della nostra presidente regionale acclamata (diciamo più sommessamente: “sostenuta”) da, più o meno, 2 umbri su 10. Per la così detta cronaca: per eleggere l’amministratore di un condominio occorre la metà più 1 dei millesimi; per eleggere il Presidente dell’Ente Giostra della Quintana (per fare un esempio di casa nostra) occorrono circa i due terzi degli elettori; ma anche per eleggere un consiglio di amministrazione di una società quotata in borsa occorrono spesso maggioranze qualificate con soglie minime del 30% o del 40% del totale azionario. Per eleggere trionfalmente la presidente della nostra Regione è stato sufficiente poco più del 20% degli elettori, a fronte di un premio di 12 consiglieri su 20! Eppure questa viene candidamente chiamata democrazia occidentale; una democrazia dove, a differenza degli “orridi” totalitarismi comunisti che vedono la partecipazione di oltre il 90% degli elettori per votare una sola lista, sono disponibili tante liste variopinte, ma non ci sono più elettori a votarle; sicché basterebbe dividersi gli eletti nelle sedi dei partiti giocandosi le quote al bingo, tanto poi all’occorrenza (come abbiamo visto con il governo in carica) non c’è problema per gli eletti a passare da uno schieramento all’altro e ritorno, se necessario. Lasciamo l’ironia e veniamo al lato serio della vicenda. Nel precedente numero di maggiogiugno avevamo osservato, prevedendo (facilissima e diffusa previsione) il crollo della partecipazione al voto regionale, che il “non voto” stava acquisendo una valenza politica importante: non più una manifestazione di disinteresse accidioso, ma una contestazione forte e chiara contro lo squallore della politica (tutta) attuale. Ora, se la denuncia, forte e chiara, è giusta e benvenuta, essa tuttavia non può esaurire l’espressione della partecipazione politica dei cittadini, perché essere parte di una polis/comunità sociale richiede, e anzi impone, oltre alla denuncia di ciò che non va, l’avanzamento di una proposta alternativa, richiede cioè
una partecipazione attiva. Se questa politica è talmente squallida da non meritare nessuna espressione di voto neppure critico, la colpa non è solo di “questa politica”, cioè di questi politici, ma prima di tutto di coloro che non si sono impegnati perché vi fossero le condizioni di una diversa e migliore politica e politici: la colpa “prima” è dei cittadini elettori. Nel titolo abbiamo parafrasato una frase attribuita a un defunto pessimo (come tutti!) presidente degli Stati Uniti che diceva: “non chiedere cosa fa l’America per te, ma cosa fai tu per l’America”. Lasciamo lo yankee e veniamo alla nostra realtà. Se i partiti sono quello che sono (posto che si possa ancora usare quel termine che significava “di parte”, per aggregazioni elettorali assolutamente trasversali e dunque prive di qualsiasi identità di parte rappresentata), se i politici sono quello che sono (non aggiungiamo aggettivi per “timore” della legge penale sulla stampa), questo è certamente il risultato di un lungo, attento, scientifico e diremmo persino “criminale” lavoro di allontanamento, in termini di espulsione, dei cittadini dalla partecipazione alla vita politica. Ma è parimenti indiscutibile che tale espulsione è stata resa possibile dalla passiva, colposa se non colpevole e complice, disattenzione degli stessi cittadini. Esaminando l’esito elettorale (pensiamo solo al dato della Lega in Umbria!), è stato detto che l’Italia, cioè gli italiani sono geneticamente e profondamente di destra e che dunque non ci sarebbe medicina e salvezza. L’affermazione è talmente generica che potrebbe essere applicata a qualsiasi paese e popolo europeo (anche se ad alcuni un poco di più… ). L’affermazione è inoltre talmente ovvia che è così tanto vera, quanto altrettanto falsa. E’ vero che gli italiani sono stati sinceramente fascisti durante il fascismo, democristiani durante il quarantennio scudocrociato, berlusconiani nel periodo d’oro del bunga-bunga e oggi si scoprono renziani del “capisco tutto io, faccio tutto io”. Ma dobbiamo anche considerare che l’Italia sconta il prezzo (chiamiamolo trasparentemente l’ “handicap”) della presenza invasiva della Chiesa Cattolica: fascista durante il fascismo, democristiana nel dopo guerra e sempre sfacciatamente “mondana”, cioè implicata negli affari del Mondo. Cionondimeno l’Italia e gli italiani
sono un popolo di lavoratori, uomini più o meno liberi che vivono del prodotto del loro lavoro, o almeno di quello che gli viene lasciato, e non sono servi o parassiti mantenuti. L’Italia è il primo Paese manifatturiero d’Europa e la sua economia si fonda essenzialmente sull’industria meccanica che comporta l’esistenza di una grande, forte e consapevole classe di lavoratori, operai e impiegati, produttivi. Gli italiani, attraverso il lavoro, sono consapevoli dei loro diritti e dei soprusi ai quali il capitalismo li sottopone con sempre maggiore violenza e invasività. Non a caso, dunque, l’Italia è stata la patria di Gramsci e del più grande Partito Comunista d’Europa, almeno sino alla morte di Berlinguer e al suicidio dell’abiura marxista-leninista del vari Napolitano, Veltroni, D’Alema e compari. Questo risultato elettorale, indiscutibilmente di destra persino estrema e bovina, può indicare, al contrario, per l’effetto speculare dell’astensione, che una buona metà (ma forse molto di più) del Paese è di gran lunga migliore dei suoi rappresentanti politici e sta prendendo, o meglio sta recuperando, la consapevolezza della propria condizione e con essa dei propri diritti e dei propri doveri di partecipazione sociale e quindi politica. Siamo in una fase di disintossicazione dalle droghe del miracolo della crescita infinita del mercato globalizzato, del “privato è bello”, della rendita parassitaria dei frutti avvelenati del denaro moltiplicato come pani e pesci dalla illusoria finanza mondiale. Il capitalismo, ci insegna il marxismo-leninismo, divide la società in due classi: da una parte i lavoratori sfruttati ed espropriati del prodotto del proprio lavoro, che poi significa della propria vita, e dall’altra i padroni dei mezzi di produzione, della ricchezza sottratta ai lavoratori. Questa società genera un’ideologia conforme che induce gli sfruttati a credere che quello sia il loro ruolo per legge di natura (e la chiesa - tutte le chiese - ci mette sopra anche: per volontà divina). E’ tempo del cambiamento, è tempo del recupero dell’identità e quindi dell’unità della classe, è tempo di produrre una nuova proposta politica che cambi “lo stato di cose presente”. Sarà la “Coalizione sociale” lanciata dalla FIOM? Ne parliamo all’interno della rivista in un altro inserto.
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Coalizione Sociale
non si aderisce, si partecipa
Sabato 6 e domenica 7 giugno si è svolta a Roma la prima assemblea nazionale della Coalizione Sociale. All’assemblea erano invitati a partecipare “tutti”: associazioni, organizzazioni, comitati, singole persone interessate e impegnate a costruire questo nuovo soggetto politico aperto. Politico e non partitico, nella pessima declinazione alla quale oggi sono ridotte quelle formazioni puramente elettorali che ancora portano, impropriamente, quel nome. Moltissime le diverse forme associative presenti, ma non con organismi o rappresentanti legali, ma con il loro bagaglio di esperienze e proposte da mettere a patrimonio comune. Diversi anche i “politici” di mestiere che si sono “affacciati” in quei due giorni, ma nessuno sul palco, nessuno al microfono e neppure nominati da nessuno. Non c’erano documenti preparatori, nè ci sono stati documenti conclusivi, solo interventi e report dei dibattiti tematici nei quali si è articolata l’assemblea. Nel sito della Fiom potrete trovare i filmati integrali dei due giorni e i soli due interventi finali in qualche modo “ufficiali”: quello di Rodotà e quello di Landini. Senza alcun commento (non ne ha bisogno) e con la sola avvertenza che si tratta di una trascrizione non ufficiale, riportiamo di seguito l’intervento di Landini che dà una prima lettura di questa novità politica assoluta, il cui significato è ben rappresentato dal sottotilo sopra. Nota: i titoletti dei paragrafi non sono ufficiali e sono stati inseriti solo per facilitare la lettura. (SR)
Il potere nelle mani di pochi. La loro forza è nella nostra disunione
Io penso che siamo di fronte a un problema nuovo e cioè sono messi in discussione radicalmente i diritti delle persone gli spazi di democrazia e questo peso della finanza, questa involuzione della politica in Italia e in Europa che mette al centro la finanza, sta riducendo la vita delle persone a una condizione inaccettabile. Il problema più grosso che ognuno si trova di fronte è che questo processo sta accentrando, senza precedenti, il potere finanziario ed economico in mano a pochi fonda la sua forza proprio sul massimo di possibile competizione tra le persone che per vivere debbono lavorare. E’ sulla nostra disunione che loro si rafforzano, è sulla nostra frammentazione, è sul nostro pensare che ognuno, da solo, può trovare una soluzione; quindi questa novità di oggi troverà la sua forza solo se ci rendiamo conto che siamo all’inizio di un cammino. Quando ho visto giornali e televisioni che fanno sondaggi, chiedevano quanti voti potrebbe prendere, o quando qualcuno all’inizio diceva aderisco alla coalizione, a me veniva da ridere perché, a tanti che mi dicevano io vorrei aderire, rispondevo come fai ad aderire a una cosa che non c’è; tu puoi partecipare, come me, se sei d’accordo con il progetto. Dall’altra parte i sondaggi, gli interventi, sono in realtà il tentativo di tenere sotto controllo la situazione, cioè di misurare quello che sta succedendo nella stessa logica con cui in tutti questi anni si è misurato e affrontato. Sarebbe, e lo dico con molta franchezza, molto rassicurante che fosse uscita da questa assemblea una nuova forza politica; erano tutti più contenti; il fatto che di questo tema non se ne è neanche parlato in questi giorni, aumenterà il fatto che non capiscono quello che sta succedendo. Ma proprio per questa ragione, siccome Rodotà ci incitava tutti a non avere paura, ad avere coraggio, io mi permetto di dire che quelli che pensavano a certe cose che noi non stiamo facendo, ma ne facciamo delle altre, fanno
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bene ad avere timore di quello che stiamo facendo: lo debbono proprio avere! Perché se posso dirla, e non saprei dirla diversamente, da metalmeccanico: noi ci siamo rotti le scatole di essere quelli che pagano le tasse, che si fanno il mazzo dalla mattina alla sera, e non contano assolutamente nulla nelle decisioni che vengono prese in questo paese e in Europa. L’altro elemento che secondo me è il punto di fondo dal quale ripartire tutti assieme, dobbiamo cogliere che questa divisione, questa frantumazione, questa contrapposizione che si è determinata in questi anni noi la dobbiamo radicalmente cambiare. Guardate che non solo il lavoro dipendente classico, ma tutte le forme di lavoro, dipendente o non, fino all’autonomo, e se vogliamo essere sinceri anche dentro alle imprese gli imprenditori non hanno tutti la stessa condizione, non sono tutti uguali, dipende in quale punto della filiera produttiva ti trovi. Se ci pensate è proprio questo punto la novità e se vogliamo essere onesti non l’ha mai fatta nessuno una cosa così e quindi non è né semplice, né facile, né scontata. Mi permetto di dire che noi dobbiamo sentirci su di noi, certo il coraggio e al limite l’entusiasmo della possibilità di fare questo percorso, ma dobbiamo tutti utilizzare il massimo della nostra intelligenza e della nostra responsabilità. Lo dico a partire da una organizzazione strutturata come la Fiom che ha le sue abitudini e suoi modi di fare, ognuno di noi deve essere, con coraggio, disponibile a un cambiamento. Che non vuol dire che ognuno di noi domani deve smettere di fare quello che fa, ognuno di noi dovrà continuare, nell’organizzazione, nel movimento, nel luogo, a fare quello che fa; il punto, però, è che dobbiamo renderci conto non solo di mettere in rete le nostre esperienze, qui io vedo l’elemento di novità non facile né scontato, ma renderci conto che dobbiamo insieme costruire nelle azioni che si fanno ogni giorno, quella unità di azione e quella capacità di progetto che fa della pratica concreta la novità.
Abbiamo sempre difeso le leggi, oggi dobbiamo contrastarle
Volete che vi faccio degli esempi? Io lo dico, per me è un fatto nuovo. Io ho sempre pensato in anni che ho fatto di lavoratore, prima, e poi di delegato, mi sono sempre mosso chiedendo l’applicazione delle leggi, ci siamo battuti per chiedere che applicassero lo statuto, che applicassero le leggi, noi eravamo i garanti dell’applicazione delle leggi in questo Paese. Oggi noi siamo in un’altra situazione. Se ragiono oggi io non posso chiedere l’applicazione del Job Act, debbo battermi per cambiare il Job Act e per renderlo inapplicabile. Se andranno avanti sulla riforma della scuola, noi avremo di fronte il problema di quale azione gli studenti e gli insegnanti, ma se va avanti la Coalizione non è un problema solo degli studenti e degli insegnanti, allora anche lì noi avremo il problema di come contestiamo e sosteniamo la contestazione con una pratica per non fare applicare quella legge e andare in un’altra direzione. Come qui veniva detto, e io penso che sia un tema da affrontare, il riutilizzo degli spazi pubblici per scopi sociali deve diventare un elemento di iniziativa; anche questo apre un problema che riutilizzare gli spazi pubblici per fini sociali puoi trovare qualcuno che ti dice che stai facendo delle cose che vanno contro determinate leggi. Allora io dico, proprio perché noi abbiamo questa finalità, che non vuol dire essere dei fuorilegge, ma è quella che se delle leggi sono ingiuste, quelle leggi vanno cambiate. Se quelle leggi impediscono i diritti delle persone, quelle leggi vanno cambiate, e allora è qui l’elemento che vedo, qui c’è la pratica, qui c’è l’elemento di responsabilità. Lo stesso per la casa. Di fronte alle prime occupazioni non è che io ero entusiasta, ma quando scopri (qualcuno potrebbe dire lo capisci solo quando toccano i metalmeccanici, ebbene sì, quando toccano i metalmeccanici forse capisco meglio) che un metalmeccanico, al limite in cassa integrazione o disoccupato, aveva
bisogno di occupare una casa perché non ce l’aveva o aveva lo sfratto, e quando eventualmente scoprivo che quello di fianco all’appartamento che era stato occupato era un altro metalmeccanico che era incavolato perché l’occupazione riduceva il valore del suo appartamento, io mi sono detto, cavolo, ma sono tutte e due metalmeccanici, perché devono essere in competizione, tutte e due stanno difendendo un diritto comune: quello della casa. Allora il problema è che nella nostra testa dobbiamo cominciare a ragionare in modo diverso, se ci sono un sacco di case sfitte, di spazi inutilizzati, deve diventare una battaglia. Il problema è cosa facciamo, come evitiamo il conflitto tra di noi, tra chi ha il bisogno, tra chi ha il problema e come trasformiamo l’unità tra di noi in un conflitto verso quelli che non risolvono i nostri problemi, questo è il punto.
Unire le forze, mettere in comune le esperienze Rispondere alla partecipazione
Proviamo a pensare ad altre cose, proviamo a pensare al significato che possono avere le scuole popolari; noi in questo senso dobbiamo avere un progetto, dobbiamo discutere. Ci sono tante esperienze in giro, non è che ti devi inventare delle cose, deve anche partire dalle pratiche che ci sono e che hanno funzionato, non siamo mica tutti Archimede, non siamo mica tutti Maradona, ce n’era uno, ora dobbiamo cercare di capire là dove le cose stano funzionando il perché e non avere paura di metterle assieme, il punto è proprio questo. Anche queste due giornate cosa ci dicono, quasi trecento associazioni, alcune che neanche pensavi che potessero esistere e che si sono semplicemente presentate dicendo vorrei essere anch’io dentro la Coalizione Sociale per fare meglio quello che sto facendo. Questa è una ricchezza incredibile e noi non possiamo permetterci di sputtanare un patrimonio di questo genere per mire personali o per beghe politiche, non possiamo farlo, non ci è permesso.
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E dall’altra parte, perché dico che fanno bene ad avere paura, perché chi pensa, guardate la follia a cui siamo giunti, tu sei di fronte al fatto che il 50% non va a votare e quelli lì discutono di chi ha vinto le elezioni? Senza rendersi conto che se tu li prendi a uno a uno e vai a vedere quanti voti hanno preso sul numero delle persone che dovrebbero votare, quando gli va (scusate la volgarità) di culo, arrivano a non più del 20% reale. Di che maggioranza stanno parlando? Di quale maggioranza del Paese? Rappresentano chi? E’ in nome di quei voti lì che ci stano dicendo che loro possono fare tutto senza parlare con nessuno. Perché stanno modificando e cancellando i diritti, stanno cambiando la Costituzione dicendo che qualcuno ci ha votato. No, la maggioranza del Paese non vi ha proprio votato e voi la maggioranza del Paese non la rappresentate! Noi non stiamo dicendo, non siamo diventati improvvisamente matti, bisogna volare basso come dicono dalle mie parti, non possiamo dire che la rappresentiamo noi, dobbiamo però avere la consapevolezza, questo è il punto, che quello che sta succedendo in questo Paese è che non c’è una rappresentanza, che c’è una domanda di partecipazione, di essere coinvolti, che non ha oggi una risposta.
Stiamo stati battuti. Dove abbiamo sbagliato? Cosa dobbiamo cambiare
Allora perché la Fiom ha aperto questa discussione? Lo dico per l’ultima volta e non lo dirò mai più. Non per altruismo, non prendiamoci in giro, siamo partiti da una nostra discussione interna molto banale, proprio banalissima. Abbiamo scioperato, ha fatto lo sciopero generale la Cgil, poi l’ha fatto l’Uil e poi abbiamo fatto di tutto, uno brutalmente dice cosa avete ottenuto? Niente. Vogliamo dire com’è? Lo statuto l’abbiamo bloccato? No l’hanno cancellato. Le pensioni ci sono ancora? No le hanno tolte. La scuola si è fermata? No vanno avanti. E allora il problema è: perché sta accadendo tutto questo? Perché è possibile che venga avanti un processo di questa natura? Perché dell’articolo 18 si incazzano solo quelli che ce l’hanno e per gli altri che non lavorano non è un problema? E quali errori ha commesso io per determinare questa condizione? Perché non debbo solo parlare degli altri, non debbo solo pormi il problema che c’è uno cattivo, perché quello cattivo vince, che cosa ho sbagliato io per non riuscire ad affrontare questa situazione? Cosa debbo cambiare anch’io per essere in grado di affrontare questa situazione? Come vedete non è altruismo, il problema è come lo riconquisto uno statuto dei lavoratori davvero, come evito la competizione? Dobbiamo continuare ancora a far credere che quattro euro all’ora è uno stipendio da paese in via di sviluppo o noi abbiamo in casa nostra, in ogni luogo pubblico e provato, cooperative, sottocooperative, finti appalti in cui la gente è costretta a lavorare a tre quattro euro all’ora. Non è così? E allora guardate che il processo che viene avanti è di far diventare questa la norma. Oggi sui giornali tra le tante interviste ci sono anche esponenti del governo che dicono basta con i contratti nazionali e che dicono bisogna andare sulla strada della contrattazione aziendale. Vogliamo dirla in italiano? Il modello Fiat che abbiamo visto tutti. Vi ricordate nel 2010 quando la Fiom era contro e tutti ci spiegavano è un caso eccezionale non ripetibile che
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lo si fa perché a Pomigliano non c’è voglia di fare nulla, c’è la camorra, ma state tranquilli che non avverrà più. Bene adesso stiamo assistendo al fatto che quel modello si sta estendendo a tutto il settore privato, nel pubblico l’hanno già realizzato perché sono cinque anni che non ci sono più i contratti nazionali. Se passa quel modello lì, altro che riunificazione del lavoro: siamo di fronte alla corporazione azienda per azienda, gruppo per gruppo. E se passa una logica di questo genere non c’è più la confederalità sindacale, o la sindacalizzazione che veniva annunciata, ma c’è la competizione di un lavoratore contro l’altro, che determinerà il fatto che pur di vivere l’importante è che vada bene la mia azienda; cosa succede fuori non mi interessa perché altrimenti non ho neanche più il posto. E’ questa la logica drammatica dentro la quale noi siamo.
Far dialogare le esperienze Creare tante Coalizioni nei territori
Allora il punto di novità è proprio quello di capire che le singole attività, le singole esperienze che noi stiamo mettendo in campo, debbono dialogare tra di loro. Fatemelo dire più forte, non lo so se ci arriviamo, ma nella mia testa c’è che: o si costruisce un progetto generale che è in grado di tenere assieme queste cose nella pratica o altrimenti non se ne viene fuori. E dire dopo l’assemblea cosa si fa? Qui ne sono state dette tante ma, in questo vedo un elemento di responsabilità di ognuno di noi, io penso che è chiaro che a questo punto noi potremmo dire (fatemela dire così) che la Coalizione Sociale esisterà se si costituiscono tante coalizioni sociali nei territori e tante pratiche sociali nei territori, se no, non esisterà! So che c’erano tantissime persone alle quali un giorno e basta per parlare non gli era sufficiente e si voleva trovare il modo di parlare anche oggi; intanto rendiamoci conto del fatto che non finisce mica il mondo oggi, siano solo all’inizio e quindi c’è ne spazio per tutti, ma allo stesso tempo noi abbiamo bisogno che il livello di responsabilità, di creatività che abbiamo utilizzato in questi giorni venga costruito sui territori.
Insisto, ma a me sembra questo un passaggio decisivo, sia per mettere in rete le esperienze, sia per assumere una responsabilità su di noi. Siccome stiamo mettendo assieme associazioni, esperienze, movimenti, singole persone, non giriamoci attorno, ognuno di noi ha la gelosia della sua esperienza e della sua identità, in un processo di questo genere non è che uno deve rinunciare alla sua organizzazione o alla sua identità, ma deve, oltre a quello che fa, costruire assieme agli altri delle pratiche e mettere in rete le relazioni e costruire gli elementi. Allora questo è il processo vero che noi dobbiamo mettere in campo. E quando dico un progetto comune a me pare che dentro queste cose ci sono una serie di elementi. Io penso che in generale, e credo che Rodotà nell’intervento che ha fatto oggi ci ha dato una mano consistente anche sull’approccio teorico, dei valori, dell’approccio generale (del resto gli intellettuali, come si dice, se sono intellettuali qualcosa debbono fare) ma c’è un elemento di pratica molto consistente.
Cominciare da una scuola che formi menti critiche e non automi
E allora noi qui oggi, oggettivamente, abbiamo alcuni elementi pratici. Se pensiamo alle questioni della scuola, certo noi non possiamo far diventare quel problema lì solo un problema degli studenti e della scuola, perché badate che se va così, si rischia di finire prima ancora di cominciare. E allora è evidente che noi ci dobbiamo porre il problema di come quella lotta proseguirà e di come l’obiettivo di avere una scuola pubblica, che abbia il compito di formare delle persone capaci di spirito critico con l’obiettivo di cambiare la società, non di essere di serie A o di serie B o funzionali a questo o quell’altro modello. Allora se noi volgiamo che questa funzione di formi, allora è evidente che abbiamo bisogno di allargare questa pratica e abbiamo bisogno di costruire anche dei rapporti. Mi permetto in questo caso, perché c’è il problema degli esempi oltre che delle cose in generale, di dire quello che ognuno può fare. Qui è stato anche raccontato, ma io insisto così almeno qualcuno anche fuori di qui capisce meglio quando noi diciamo
che delle cose si possono fare senza fare assistenzialismo, noi recentemente a proposito di rapporto tra lavoro e scuola, tra formazione e lavoro, siamo riusciti a fare una cosa alla Lamborghini e alla Ducati. Non c’è solo il problema dei turni, del salario, c’è anche un’esperienza di rapporto scuola-lavoro; ci sono dei giovani, alcuni dei quali avevano smesso di studiare, che possono tornare a scuola, negli ultimi due anni di istituto tecnico faranno formazione teorica, con aule costruite dentro quelle imprese, pagate da quelle imprese; non vanno a lavorare, non sono sulle linee di montaggio, non fanno produzione, studiano e addirittura in quegli accordi sono pagati per studiare. Ci sono 600 euro, e vorrei che fosse chiaro al premier, come vedi non è assistenzialismo e mi permetto anche di dire, così è chiaro il ragionamento, non è che qui 600 euro lì glieli dà l’azienda; certo formalmente è l’azienda, ma è l’apporto sindacale, è attraverso il lavoro di quelli che lavorano lì che è possibile dare 600 euro anche agli altri. Sono soldi nostri e abbiamo affermato lì un principio: che il reddito minimo se si costruisce non è che deve essere pagato con il contributo delle altre persone, deve essere a carico delle imprese, come in questo caso, o della fiscalità generale, cioè sono quelli che prendono di più che devono porsi il problema di garantire il diritto anche a quelli che non ce la fanno.
Creare lavoro con rispetto dei diritti Un lavoro senza diritti non è un lavoro
Non lo so se è un ragionamento troppo complicato da capire, glielo lo spieghiamo meglio, però questo è un punto preciso. E perché io penso che questa sia una battaglia oggi da fare? Perché non è alternativa all’occupazione. Non facciamo questo giochino, noi oggi stiamo ponendo un altro tema: noi vogliamo difendere un lavoro con diritti e quindi noi non accettiamo la logica che sta passando, che pur di lavorare uno deve accettare qualsiasi condizione e addirittura ringraziare perché qualcuno ti fa lavorare. Il lavoro o ha dei diritti o non è un lavoro! Ed è proprio allargando l’occupazione che allora si può arrivare anche a un sistema universalistico, come esiste anche in altre parti d’Europa, in cui un cittadino, proprio perché è un cittadino, ha anche delle tutele. E del resto, scusatemi, ma se io le tutele non ce le ho quando ne ho bisogno, quando ce le dovrei avere? Quando dovrei averla la tutela: quando un lavoro non lo trovo; ma ci si dice devi essere disponibile a lavorare, lo sto chiedendo, non è che c’è qualcuno che non lo vuol fare; ma non devi dirmi di no più di alcune volte, pronto a discutere; non è che io penso che pago uno tutta la vita che non lavora. Il passaggio però è come affronto situazioni che non sono dovute alla persone, che è in una fase in cui il lavoro non c’è, oppure che lo deve cambiare, che ha bisogno di formazione. Parliamo di formazione, ma dentro alle imprese metalmeccaniche noi siamo di fronte al fatto che la formazione in pratica non esiste. Abbiamo fatto un’indagine, hanno risposto centomila persone, la media della formazione sono 8 ore all’anno, capite che c’è chi non la fa mai e in tutta la vita la formazione non esiste? Allora questo io credo che sia un punto, per fare degli esempi, è allora evidente che una battaglia generale come stiamo proponendo di mettere in campo su determinati argomenti, deve avere delle pratiche contrattuali, aprendosi, di azione nei territori che siano in grado di avere una coerenza con questo tipo di bisogni.
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La corruzione è divenuta sistema e uccide la democrazia
E in questo senso, mi permetto di dire, che c’è un tema che vada assunto ed è la questione morale; e, badate, la questione morale è anche un problema di comportamenti individuali e collettivi e di valori, perché si può chiacchierare quanto ci pare, ma non conta quello che dici, conta quello che fai. E allora mi permetterei di dire che il premier e anche segretario del PD fa bene a preoccuparsi di cosa c’è fuori dal PD, ma che sarebbe ora di preoccuparsi anche di quelli del PD che mettono dentro; sarebbe ora che uno affrontasse la situazione per quello che è, perché qui non è che uno è di destra, di sinistra, di centro, qui siamo a un elemento di fondo che riguarda i comportamenti delle persone, delle società e anche di chi fa politica. Perché, come ci veniva giustamente ricordato, noi non possiamo banalizzare, noi siamo di fronte a un vero e proprio sistema, la corruzione è un sistema in questo paese, che serve per avere più potere e più soldi e che si alimenta, perché uno non ha mai abbastanza potere e abbastanza soldi. Questo è il tema con cui fare i conti. Io lo dico venendo da una regione l’Emilia-Romagna, e anche per me è stato un elemento di riflessione. Ma in una regione come la mia, con le tradizioni, è mai stato possibile che per scoprire che c’era la ndrangheta che ormai controllava il mercato edile nel pubblico e nel privato ci sono voluti quattro anni di interventi della magistratura e nessuno di noi, io lo dico anche dal sindacato, dai partiti, dalle istituzioni, si era reso conto di quello che succedeva, oppure, se anche se ne era reso conto, non aveva le antenne e la forza per impedire quello che stava avvenendo? Quando sei di fronte a un passaggio di questo genere non devi usare l’argomento semplicemente come campagna elettorale, devi capire che quello che sta avvenendo è una degenerazione sociale e di comportamenti e quindi una crisi della democrazia nel nostro paese, contro la quale tu devi intervenire.
Costruire il lavoro per recuperare etica e società civile Investimenti pubblici. Il caso Ansaldo
Si dovrebbe preoccupare questo governo, perché in giro per l’Italia succede anche questo, certo che c’è la disoccupazione, perché uno che ha la partita Iva, che è un precario, lo prendono a contratto a tutele progressive e gli dicono che ha anche la malattia, ha anche le ferie, sta meglio di prima anche se è licenziabile; ma vogliamo dircela tutta, noi siamo di fronte al fatto, se non volgiamo nasconderci, che siamo al punto, non che c’è il diritto al lavoro, ma che uno, pur di lavorare, deve pagare per essere assunto. Siamo di fronte a questa situazione e se passa una cultura di questo genere proviamo a metterci nei panni di una persona di questa natura, che è precaria, che un lavoro non ce l’ha, che per lavorare deve accettare qualsiasi condizione fino anche a pagare; ma se passa questa è la vita, la logica, quella persona lì cosa mai potrà pensare della politica, del sindacato, della azione collettiva. Da un certo punto di vista è chiaro che questo è funzionale anche a un cambio di cultura e quindi la ricostruzione etica e civile parte anche dal denunciare queste situazioni, ma anche dal ricostruire una pratica che non lasci sola quella persona lì ad affrontare il suo problema. Questo è il punto che abbiamo di fronte.
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Questo è certo che chiede un cambiamento del sindacato, fuori dubbio, ma vuole anche dire superare queste divisioni tra forme di lavoro diverse. E lo dico perché c’è un altro tema e voglio fare un altro esempio, poi vado verso la conclusione, che riguarda come si crea lavoro i questo paese. Uno la può girare come gli pare, ma se nel nostro paese non c’è una ripresa degli investimenti pubblici e privati seri, tu nuovi posti di lavoro non ne crei; del resto, se ci pensate, chi è che sta assumendo? Quelle imprese che hanno prodotti, hanno investito e molto spesso stanno esportando; perché quelli che prodotti ne hanno pochi, che investimenti non li hanno fatti, se uno non ha da lavorare non assume, in questa fase qui continuano a licenziare. E aggiungo, quando si parla di politica industriale dico che c’è anche un ruolo pubblico e mi assumo la responsabilità di quello che sto dicendo. Faccio un esempio, adesso voi pensate che parlo di FCA Marchionne, no, mi fermo prima, tratto un altro argomento, più utile, parliamo di una azienda pubblica: Finmeccanica. Quando ho scoperto, perché non sapevamo questo, mi chiedo, essendo pubblica, come può il governo coprire questa cosa, tu scopri che strategicamente il governo italiano è d’accordo a vendere il settore Ansaldo trasporti, cioè significa che un punto forte di nostra di competenza, saper fare treni e sapere fare segnalamento anche elettronico per fare funzionare le ferrovie, che è un punto di forza, si decide di venderlo a una casa straniera, è l’opposto di quello che succede negli altri paesi, negli altri paesi nel settore dei trasporti fanno politiche pubbliche, fanno investimenti. Provate a pensare ai francesi, quando gli volevano vendere la Alstrom, hanno chiamato l’Alstrom e gli hanno detto tu da qui non vai via, discutiamo, e la General Electric, che ha preso un pezzo di Alstrom, ha dovuto firmare un accordo che se non aumenta di mille occupati, per ogni posto di lavoro sotto ai mille deve dare 50mila euro allo Stato francese. Noi qui siamo all’opposto, che non solo hanno fatto vendere questa cosa, ma tu scopri che una parte delle retribuzioni del capo di Finmeccanica, che era legata a obiettivi, che premiano il merito dicono loro, quale era l’obiettivo che doveva realizzare? Vendere l’Ansaldo. Quindi noi siamo di fronte a un governo che paga e aumenta lo stipendio al manager non perché fa crescere il nostro settore industriale o che lo rilancia, ma perché al limite vende bene un’impresa senza sapere che cosa succede. Capite quando si parla di politica industriale di quale logica stiamo parlando e della necessità, a questo punto, di aprire altri elementi?
Mettere assieme la pratica nei territori Individuare forme, luoghi e metodi di lavoro comune
Allora io credo che in questo quadro, nella discussione che noi stiamo facendo e che abbiamo fatto, proseguire questo nostro lavoro e mettere in campo un’azione concreta debba essere in grado di tenere assieme queste diverse azioni, che vuol dire ogni giorno, che vuol dire costruire nei territori assemblee, confronti, discussioni, anche sul piano della rete. Guardate che c’è anche il problema del modo in cui stiamo insieme, dei luoghi, delle forme con cui ci si integra, ci si incontra, si discute, e cioè là nei luoghi che già ci sono o che puoi prendere, devi anche trovare il modo perché divengano luoghi aperti, che si mescolano, che affrontano anche questa situazione.
Dobbiamo aprire anche una discussione, secondo me, perché nella pratica un percorso democratico vero vuol dire che in queste iniziative territoriali tu devi portare la discussione che abbiamo fatto, capire lì cosa sta succedendo, mettere nella condizione anche loro di come proseguire e se, come qui molti hanno detto, sostenere anche con mobilitazioni, poi discutiamo le forme e i modi anche qui innovativi che possiamo affrontare. Da sindacalista, io non sono altro ma la vedo così, io vedo un unico percorso se si vuole segnare questo elemento di democrazia, quello che se ci si da un tempo, fissando anche delle giornate nei territori in cui fai delle cose, c’è bisogno di un mese, di due mesi, di tre mesi, bisogna che finito questo percorso in tutta Italia nei territori, a quel punto lì ci si ritrovi ancora qui, ma non più come adesso tra associazioni e organizzazioni, ma con i frutti di quella discussione e di quelle esperienze che abbiamo prodotto, ed è quella allora la sede per lanciare la manifestazione, le mobilitazioni, quello che decideremo assieme per valorizzare le pratiche. Nel frattempo però non possiamo aspettare tre mesi per vedere cosa succederà, abbiamo bisogno che concretamente, nel momento che facciamo questa discussione, vadano avanti anche queste pratiche. La discussione allora anche su quali leggi servono, a partire da quelle che dovrebbero applicare e non stanno applicando; penso ai disastri che hanno fatto sull’acqua dove c’è un referendum, dove ci sono dei pronunciamenti e dove nonostante questo si sta tentando di fare tutt’altro, di andare verso una privatizzazione del servizio. Allora dentro questa idea di come si fa per contrastare determinati provvedimenti anche di legge, noi dobbiamo aprire questa discussione che sia un elemento di conseguenza che vada in questa direzione. Sono mesi che si sta facendo la guerra sui numeri e in realtà siamo di fronte al fatto che non sta cambiando nulla o poco della situazione con cui abbiamo a che fare. Allora questo a me pare il percorso che abbiamo davanti, io penso in questo senso, la fantasia che a me viene dalla discussione di questi giorni è proprio questo percorso. Alcuni appuntamenti sono stati indicati: la manifestazione del 20 “Fermiamo la strage” per quello che è avvenuto, aprire una discussione anche in questo senso.
I fiori dell’autunno Siamo noi che difendiamo questo paese
Ma se il percorso che noi qui stiamo ragionando e preparando si vuole allargare e vuole avere questa dimensione nazionale, perché siamo convinti che la maggioranza delle persone che vivono in questo paese oggi ha bisogno di mettersi assieme per potere avere voce in capitolo, avere una rappresentanza e provare a cambiare questa situazione, allora, anche se andiamo verso l’autunno (fatemela dire così sempre come immagine sindacale) a me viene in mente che se proviamo a costruire questo percorso e insieme lo affrontiamo con la responsabilità e la disponibilità a gestire anche la difficoltà di mettere assieme tanti soggetti per garantire un elemento di democrazia. Noi dovremmo immaginare che un’eventuale iniziativa di mobilitazione – insisto – che dobbiamo studiarla, ragionarla visto che dobbiamo mettere assieme soggetti così diversi tra di loro, in che modo e in che forma va fatta, come se noi pensassimo che anche in autunno possono sbocciare dei fiori, come se ci fosse un primo di maggio che noi non facciamo a maggio ma lo facciamo in autunno, perché diventa un elemento di unità del paese. Lo dobbiamo dire con forza perché questo è il punto che abbiamo di fronte: se c’è una politica che sta dividendo e contrapponendo il paese è quella che sta portando avanti questo governo, che non è diverso da quello di Letta e da quello di Monti che applica la stessa politica, che deriva dalla lettera della BCE , non è un’altra, è la stessa! Allora se noi vogliamo aprire un processo diverso e vogliamo dare forza e valore al lavoro, ai diritti, alla democrazia fondata sulla partecipazione, questo è quello che dobbiamo fare. Stiano tranquilli tutti perché un processo di questa natura è un processo che è fondato su un punto molto preciso: qui non si sta discutendo cosa succede a qualcuno di noi, qui si sta discutendo cosa succede a tutti noi se stiamo zitti e non ci muoviamo ad affrontare questa situazione. Se c’è qualcuno che davvero ha interesse a difendere questo paese glielo diciamo: sì, siamo noi proprio perché non abbiamo niente da perdere e allora questo è il punto e questo il lavoro che dobbiamo fare.
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La più grande democrazia del Mondo Nel “politichese” corrente si usa chiamare così il sistema politico indiano per l’enormità del numero degli elettori che ha superato, nelle elezioni generali del 2014, gli 800 milioni, dei quali però solo il 68% è andato alle urne (percentuale altissima se si considera che negli USA, “massimo” esempio di democrazia, la percentuale dei votanti alle presidenziali non raggiunge neppure il 49% degli aventi diritto). In disparte da questa interpretazione del tutto occidentale capitalistica della “democrazia” (“demo” popolo, “crazia” potere) intesa non come partecipazione attiva ed effettiva alla gestione della “cosa pubblica”, ma come teorico diritto di fare una croce su di una scheda con tanti simboletti, nel caso dell’India potremmo dire che ben poco è più lontano dalla verità. Dagli oggi sessantacinque anni trascorsi dalla dichiarazione di indipendenza dall’Inghilterra (15 agosto 1947), che peraltro potremmo far risalire sino a quasi 100 dalla fondazione del Partito del Congresso Indiano (1919), questo immenso Paese è stato governato da un’unica famiglia in via ereditaria diretta (quasi reale): la famiglia Nehru-Gandhi. Precisiamo anzitutto che il secondo cognome Gandhi non ha nulla a che vedere con
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quello del “Mahatma”, vero ispiratore morale e politico dell’indipendenza indiana, bensì deriva dal cognome acquisito della terza discendente della famiglia Nehru: Indira, coniugata con Feroze Gandhi senza parentela ma semplice omonimia con il “Mahatma”. Un poco di genealogia. Nel 1919 il capostipite Motilal Nehru assume la presidenza del Partito del Congresso che, da quel momento in poi, spesso coniugata con la carica di Primo Ministro della nazione, trasmetterà ai suoi discendenti. A Motilal succede infatti il figlio Jawaharlal (Pandit, come lo chiamava il “Mahatma”), primo ministro indiano dal 1947 al 1964. A questi, morto di “morte naturale” (la precisazione non è senza rilievo per quanto appresso si dirà), succederà la figlia unica Indira (coniugata come detto con Gandhi, da cui l’aggiunta del secondo cognome). Indira Nehru Gandhi verrà uccisa dalle proprie guardie del corpo nel 1984 (n.b. per memoria anche il “Mahatma” era stato assassinato il 30 gennaio 1948). A Indira avrebbe dovuto succedere il secondo figlio Sanjay, già avviato alla carriera politica, il quale, tuttavia, era deceduto nel 1980 in un incidente aereo mentre “giocherellava” con il suo jet personale. A ricoprire le cariche di Presidente del Partito del Congresso e
Primo Ministro fu quindi chiamato l’altro figlio Rajiv, sino ad allora estraneo alla politica della famiglia. Anche quest’ultimo morì nel 1991 di morte violenta ucciso dalla sue guardie. La successione, duplice, a quel punto sarebbe dovuta passare alla moglie di Rajiv: Sonia Maino; tuttavia, stante la sua origine italiana, le fu riservata la sola presidenza del Partito del Congresso, mentre la carica di Primo Ministro venne attribuita a un indiano: Mahnmohan Singh, ma solo temporaneamente, ovviamente, in attesa della “maturazione” politica dell’erede legittimo: Raul Gandhi, quinto discendente della dinastia Nehru. Raul Gandhi entrò effettivamente in politica nelle ultime elezioni generali del 2014, ma fu clamorosamente sconfitto dall’emergente Narendra Modi a capo della coalizione del Partito Popolare indiano. Le più recenti elezioni amministrative, anche della Capitale Delhi, hanno confermato il dato del crollo dei consensi del Partito del Congresso e quindi la verosimile fine della dinastia Nehru-Gandhi. Che sia iniziata in India la democrazia? Lo vedremo nei prossimi anni; intanto cerchiamo di conoscere il “nuovo” che è prepotentemente emerso e come tale si pone sia sulla scena interna che su quella internazionale. (SR)
Dal socialismo laburista, al socialismo marxista
Socialismo è un termine politico iscritto nella Costituzione della Repubblica indiana. Non si tratta tuttavia del socialismo marxista-leninista che ricorre nelle definizioni degli Stati comunisti, passati e presenti. Il riferimento è al socialismo laburista inglese, vagamente marxista, ma decisamente più ideologico che economico, sostanzialmente socialdemocratico. L’origine di questo riferimento politico ideologico è facilmente comprensibile in quanto legata, nel versante culturale, dalla formazione delle classi dirigenti indigene nella così detta madre patria Inghilterra dove, appunto, il socialismo laburista era assai radicato e sostenitore della concessione della indipendenza alle antiche colonie; nel versante politico economico, dalla necessità di immaginare un nuovo percorso di crescita economica svincolato dalla dipendenza dalla ex madre patria e, dunque, anche autonomo nel posizionamento nello scenario delle relazioni internazionali. Al socialismo laburista si ispirò costantemente la politica del partito del Congresso della famiglia Nehru-Gandhi, che più volte si avvicinò strategicamente al blocco del socialismo reale sovietico, sostenendo sia una politica economica caratterizzata da un certo dirigismo statale, sia un posizionamento internazionale autonomo dall’occidente anglosassone (l’India fu tra le nazioni fondatrici del così detto “terzo polo” degli Stati “non allineati”, con la Yugoslavia di Tito). Al socialismo faceva riferimento anche la “predicazione” del Mahatma Gandhi (ne riportiamo una citazione in penultima pagina) anche se, nel suo caso, si trattò di un riferimento ancor più ideologico, meglio descrivibile con il termine di “socialismo umanista”. L’ispirazione socialista laburista della politica della famiglia Nehru-Gandhi contribuì sicuramente a liberare l’India della soggezione culturale al dominio britannico, ma anche a eliminare, almeno sulla carta, le antiche divisioni in caste riconoscendo la parità dei diritti a tutti i cittadini, senza distinzioni, appunto, di caste, sesso e religioni. La preminenza della matrice ideologica socialista non produsse, tuttavia, un adeguato riscontro sul piano degli interventi economici e sociali e, a circa 70 anni dalla dichiarazione di indipendenza, l’India sconta ancora un arretramento economico sociale spaventoso. Va osservato, peraltro, che la caratterizzazione dirigista centralizzata del governo laburista indiano ha sicuramente rappresentato un valido strumento per la conservazione dell’unità di un paese, non solo immenso per estensione e popolazione, ma altresì caratterizzato da una significativa pluralità culturale e linguistica. Grande importanza per la protezione da rischi di dissoluzione centrifuga va, infine, riconosciuta alla prevalenza della religione induista che, con le sue caratteristiche sincretiche e la mancanza di una struttura gerarchica, non ha mai costituito un contropotere politico a quello istituzionale suscettivo, appunto, di fomentare fenomeni autonomisti. Di tutt’altra origine, sia di “casta” sociale che di formazione culturale, è invece la vicenda del nuovo indiscusso leader indiano Narendra Modi. Nulla a che vedere con la borghesia anglofona e nessuna prossimità con i centri di potere della capitale Deli. Nato da famiglia modesta, cresciuto nella cultura indiana di una regione periferica il Gujarat (per le nostre dimensioni un grande Stato di oltre 60 milioni di abitanti), di lingua non Indi ma, appunto Gujarati, si è imposto nel-
la politica nazionale dopo alcuni anni di governo quasi autocratico del proprio Stato, come leader di una coalizione nominalmente dichiarata conservatrice, in contrapposizione al così detto progressismo del partito del Congresso. Forte del successo di alcune importanti riforme economiche attuate nel proprio Stato, improntate al nostro così detto liberismo, si è presentato sulla scena politica dell’intera nazione indiana come un restauratore, da un lato, e un privatizzatore, dall’altro. Non è facile (e non ce lo possiamo permettere in queste poche righe) tradurre quei due termini propri della nostro lessico politico nella realtà storica e culturale indiana. Restaurare, per un paese uscito solo da 70 anni da alcuni secoli di dominio economico e culturale di una lontanissima potenza straniera, forse andrebbe letto come rivendicazione della propria storia, cultura e identità e, dunque, non conservare ma ri-creare. Privatizzare, in un paese caratterizzato da condizioni di estrema ricchezza di pochi e indescrivibile povertà di tantissimi, forse andrebbe letto come potenziale rottura di quegli schemi di divisione di classi economiche e non caste etnico-sociali. Sta di fatto che nello stesso tempo in cui l’epoca del regno laico laburista della famiglia NehruGandhi ha visto la sua fine, il mondo attorno all’India è radicalmente cambiato, in preda a una evoluzione politicoeconomica senza precedenti forse nell’intera storia dell’umanità. Mentre ancora l’India si dibatteva in una condizione economica di povertà e ingiustizia sociale estrema, alcuni Stati più prossimi, non solo l’immensa Cina, ma anche in Indocina, hanno intrapreso un percorso di sviluppo impressionante. Nello stesso tempo sono radicalmente mutati gli scenari geopolitici internazionali e quel dominio dell’occidente capitalista che per secoli aveva schiacciato anche l’India, sta rapidamente declinando, sin quasi a scomparire del tutto nell’area dell’estremo oriente cino-indiano. All’India si sta dunque prospettando un futuro del tutto nuovo e inatteso che, a cominciare dalla rivendicazione della propria identità finanche linguistica (molto forte è la richiesta dell’abbandono della lingua inglese), la sta forse inserendo nello scenario del socialismo reale cinese, da cui il titolo di copertina di questo numero. Sarà il “conservatore” Modi a guidare questo percorso? Lo vedremo presto. Intanto un selfie con il primo ministro Li Keqiang. (SR)
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Taxation against overrapresentation? (ovvero capitale anglofono contro diversità)
di Domenico Fiormonte
Nel suo recente saggio In Europa sono già 103. Troppe lingue per una democrazia? (Laterza, 2014), Tullio De Mauro osserva che la questione della lingua in Europa “è una questione politica di democrazia, di partecipazione paritaria delle popolazioni al governo dell’Unione” (p. X). Nelle pagine seguenti il linguista sostiene appassionatamente e con solidi argomenti storici la causa del multilinguismo, tuttavia nelle conclusioni si schiera dalla parte del globish (l’inglese globale): “Ma a quale lingua soprattutto rivolgerci nella vita civile e politica di una piena democrazia unitaria dell’Europa? [...]. Se vogliamo un’Europa in cui i cittadini, per riprendere l’idea di Aristotele, parlino una lingua per discutere e decidere insieme “che cosa è giusto e che cosa no” per la comune pólis europea, oggi questa lingua è senza dubbio l’inglese” (p. 82). Sebbene l’adesione di De Mauro sia tutt’altro che acritica, la sua tesi è molto diffusa nelle élites occidentali. Si prende volentieri atto (in modo assai meno sofisticato del noto linguista) del dominio di certe forze e si conclude che tanto vale accodarsi a esse per non soccombere. Ma chi e che cosa riguarda questa sopravvivenza? Siamo sicuri che le nostre istituzioni, le nostre società, i nostri territori e le nostre memorie possano trarre benefici dal monolinguismo anglofono e dai suoi collegati politico-culturali? De Mauro crede sia pos-
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sibile portare nell’uso dell’inglese “tutta la ricca varietà di culture, di significati e di immagini delle diverse lingue, senza abbandonarle” (p. 83). Pur ammettendo che ciò sia possibile, dobbiamo però verificare le attuali forze in campo. Secondo l’ultima edizione di Ethnologue nel mondo esistono 7.106 lingue, ma le prime 8 lingue sono parlate dal 40,3% della popolazione mondiale (più di due miliardi e mezzo di persone) e la percentuale sale al 79,4% per le prime 88 lingue. Secondo Ethnologue le lingue di origine europea sono 285, il 4% delle lingue parlate nel mondo, ma coloro che le parlano sono più di un miliardo e mezzo di persone, il 26,3% della popolazione mondiale. Secondo l’indice di diversità linguistica (ILD), messo a punto dal gruppo di ricerca Terra lingua.org, “dal 1970 c’è stato un calo del 20% nella diversità linguistica globale” e “all’erosione della diversità linguistica si affianca l’erosione dei saperi ambientali (i cosiddetti TEK, Traditional Environmental Knowledge) codificati nelle lingue.” Tale processo di assorbimento o scomparsa della diversità linguisticoculturale è uno dei temi che marcano in modo più profondo l’epoca che viviamo. Il problema delle lingue infatti non è solo un problema di democrazia e partecipazione/inclusione sociale, ma è sempre più collegato alla diversità biologica, per questo oggi si parla di diversità bioculturale (bio-
cultural diversity). Lingue e vita, culture e colture, sono strettamente intrecciate ed è chiaro che la varietà e la ricchezza di entrambe sono condizione necessaria per una mutua sopravvivenza. Come scrive Luisa Maffi: "E’ stato osservato che esiste un collegamento fra la diminuzione della diversità culturale e biologica e lo sviluppo di società complesse, stratificate e densamente popolate e i poteri economici globali [...]. Dagli antichi imperi all’economia globalizzata contemporanea questi complessi sistemi sociali si sono diffusi ed espansi ben oltre i confini dei propri ecosistemi di origine, sfruttando ed esaurendo le risorse naturali su vasta scala e imponendo l’assimilazione culturale e l’omogeneizzazione delle diversità culturali”. (Maffi 2010, p. 8) In altre parole, la ricchezza bioculturale non si sovrappone necessariamente a quella materiale. Nella Figura 1 questa divaricazione è abbastanza evidente: i puntini neri rappresentano il numero delle lingue e l’intensità crescente del verde la diversità vegetale: le aree a più alta diversità sono concentrate nel sud del mondo. Ma lo stesso discorso può essere fatto per lo stretto rapporto fra diversità animale (mammiferi, uccelli, rettili e anfibi) e numero delle lingue endemiche, ovvero quelle lingue e quei vertebrati superiori che appartengono unicamente a un dato paese o regione (Tabella 1, pagina 270)
Figura 1. Distribuzione della diversità vegetale e delle lingue nel mondo (fonte www.terralingua.org) Se poi sovrapponiamo la Figura 1 alla Figura 2, che rappresenta la mappa della “guerra al terrorismo” ideata nel 2010 da un Generale del Pentagono, la situazione diventa ancora più chiara. Come osserva il
sociologo e antropologo Geoffrey Bowker (2010) ciò che il Pentagono etichetta asetticamente come “nonintegrating gap”, gli spazi resistenti all’integrazione, sono proprio i territori al cuore della diversità bio-
culturale. È in questi vasti (ancora per quanto?) “interstizi” che si custodisce la vita ed è sempre da lì che provengono molte delle più complesse civiltà e popolazioni del pianeta.
Figura 2. La guerra al terrorismo secondo il Pentagono. Il “Functionign core” - nucleo funzionante - è rappresentato da stati e territori sotto il controllo delle maggiori potenze globali. (fonte: http://commons.wikimedia.or/ wiki/File:Map_of_the_Pentagon%27s_War_on_Terrorism_strategy_2010.jpg)
In un contesto di tal genere allora appare evidente che la scelta della lingua inglese non può essere considerata neutra, poiché essa è, volente o nolente, collegata a un progetto geopolitico. Esattamente il contrario degli “imperi tolleranti” di cui parla De Mauro (l’impero asburgico, e persino quello romano, ecc.). Per la prima volta nella storia questo progetto si serve di un codex universalis, il software, i cui linguaggi si basano sull’inglese. Così come largamente anglofoni sono i loro proprietari: Google, Microsoft, Apple, IBM, Facebook, ecc. Attraverso le molteplici estensioni di questo codice, a cominciare dai social media, viene esercitato un potere e un controllo sulle masse che va ben oltre lo scenario degli imperi coloniali moderni. Ricordiamoci le proporzioni dello scandalo datagate: secondo un documento del gennaio 2013 la National Security Agency statunitense e la sua gemella britannica (GCHQ: Government Communications Headquarters) in un mese raccoglievano qualcosa come 181 milioni di record, tra metadati e contenuti
(testi, audio e video). Sono proporzioni senza precedenti nella storia del pianeta, anche perché vi sono prove che ogni traccia che lasciamo nella rete rimanga “per sempre”. E che cosa hanno in comune il sistema di spionaggio globale di NSA e GSHQ, i protocolli di Internet e la retorica della scienza? Semplice: la lingua inglese. Ciò che pare sfuggire a De Mauro è che l’inglese è ancora una lingua proprietaria e questo capitale genera un surplus economico che a sua volta si declina in potere economico, militare e politico. Accettare l’inglese vorrebbe dire dare ancora più potere a chi ha già tutto. È di questo capitale che dovremmo parlare, senza il quale qualsiasi démos, come dimostrano gli ultimi anni, rischia di essere divorato da un insaziabile oíkos. In un’ottica di giustizia redistributiva, come proposto all’indomani della crisi finanziaria del 2008, chi ha di più dovrebbe pagare di più, chi possiede un vantaggio competitivo dovrebbe accettare limiti e contrappesi. Perciò l’unico modo in cui sarebbe
Tabella 1. Endemismi nelle lingue e nei vertebrati superiori: comparazione dei primi 25 paesi. In grassetto sono indicati i 16 paesi che appaiono in entrabe le liste (fonte Skutnabb-Kangas 2004)
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possibile accettare l’inglese come lingua veicolare è chiedendo agli anglofoni, cioè i proprietari della gallina dalle uova d’oro, di rinunciare a parte dei loro “introiti”. Infatti, il problema non è tanto accettare il dato di fatto del globish come lingua parlata nel mondo, ma i rapporti di forza che si stabiliscono su altri livelli, per esempio quello della ricerca scientifica (che vuol dire brevetti, tecnologia, ecc.). L’economista ungherese Lukács (2007) è stato fra i primi a parlare di una tassa sui proventi del capitale linguistico. Un altro economista e linguista, Michele Gazzola, ha pubblicato una serie di studi sugli svantaggi del monolinguismo anglofono nella UE e in uno di questi scrive: “Se l’inglese fosse l’unica lingua ufficiale della UE-24 la metà circa della popolazione residente sarebbe totalmente esclusa dalla comunicazione. Il tasso di esclusione linguistica sale all’81% se interpretiamo per esclusione anche un accesso non agevole ai documenti. A tal proposito va subito precisato che la differenza concettuale fra inglese e ‘English as a Lingua Franca’ o ELF è priva di qualsiasi rilevanza nella valutazione dell’efficacia e dell’equità delle politiche linguistiche. [...] Il regime multilingue è molto più efficace di un regime monolingue basato solo sull’inglese o di un regime oligarchico. In secondo luogo, esso risulta essere alla prova dei fatti la politica linguistica che crea meno diseguaglianze non solo fra Paesi ma anche fra residenti con status socioeconomico diverso. Una politica linguistica restrittiva (monolingue od oligarchica) genererebbe significative diseguaglianze fra gruppi sociali per quanto riguarda l’accesso alla comunicazione con le istituzioni comunitarie, penalizzando in particolar modo i più anziani, i residenti facenti parte delle fasce di reddito meno alte, i residenti con un livello di istruzione medio-basso, i disoccupati, i disabili e a quelli che si dedicano ai lavori domestici (una categoria spesso collegata al genere). Al contrario, una politica linguistica multilingue fondata su un uso intensivo della traduzione e dell’interpretariato, anche se a un costo non nullo, rende possibile nelle attuali circostanze storiche una comunicazione più inclusiva. In questo senso i risultati qui esposti sembrano dare sostegno empirico all’idea secondo cui un regime linguistico multilingue può contribuire alla coesione sociale in Europa.” (Gazzola 2014).
Winston Churchill nel 1943 pronunciò un famoso discorso a Harvard preconizzando la globalizzazione anglofona attraverso la colonializzazione dell’immaginario (“the empire of the mind”). Dunque perché mai dovremmo rinunciare a cedere parte della nostra sovranità espressiva e semiotica senza avere nulla in cambio? Perché di proprio questo si tratta: colonialismo linguistico, come scrive da trent’anni Robert Phillipson: "'Imperialismo linguistico' è un'espressione che sintetizza una moltitudine di attività, ideologie e relazioni strutturali. Si ha imperialismo linguistico all'interno di una struttura sovraordinata di relazioni asimmetriche Nord/Sud, dove le lingue si intrecciano con altre dimensioni (in modo particolare nell'educazione, nella scienza e nei media), economiche e politiche" (Phillipson 1997). È possibile reagire? E come? Innanzitutto affermando chiaramente che questa situazione è ingiusta e insostenibile per la stragrande maggioranza degli uomini e delle donne del pianeta. Qui non vale nemmeno più la distinzione Nord-Sud, anzi, le realtà più vicine al “centro” rischiano di essere assorbite molto più velocemente dei margini. È necessario mettere in atto, per usare un termine ghandiano, una Satyagraha linguistico-culturale a livello globale. La lotta per la giustizia linguistico-culturale può essere realizzata in vari modi. Prima di tutto attraverso l’introduzione di una serie di ‘tasse linguistiche’ progressive e diversificate in vari ambiti e luoghi (es. basandosi sulle competenze linguistiche registrate da strumenti di rilevazione ufficiali, come Eurobarometer, ecc.). La domanda successiva è: perché non sollevare, anche per le lingue intese come strumento di espressione della conoscenza (per es. nella scienza), la cosiddetta eccezione culturale? “L’eccezione culturale” fu introdotta in Europa grazie al presidente francese François Mitterand e al ministro della cultura Jack Lang negli anni Ottanta ed è rimasta uno strumento per la difesa del patrimonio culturale europeo. La differenza è che l’eccezione linguistica, oltre a poter essere applicata a livello globale, non riguarderebbe solo i prodotti, ma per la prima volta anche i processi che ne sono alla base. Non solo la cultura e la conoscenza che vengono prodotte
(film, musica, letteratura – ma anche ricerca, brevetti, tecnologia...), ma in che lingua vengono prodotte. Impossibile? Non è vero, il rispetto e la valorizzazione della diversità linguistico-culturale è previsto nella Dichiarazione Universale sulla Diversità Culturale UNESCO del 2001, dove si chiede agli stati di intervenire per tutelare il multilinguismo e la diversità culturale. Se poi qualcuno avesse paura che troppe regole sfocino in un “protezionismo culturale” (senza il quale, per altro, l’industria culturale europea sarebbe scomparsa), si possono studiare anche altri modi, più soft e più graduali per poter bilanciare lo squilibrio. Si potrebbero prevedere, come accade in molte parti del mondo con il genere, le etnie e le minoranze in genere, meccanismi di “quote” per frenare i privilegi anglofoni. Uno dei principi cardini della rivoluzione americana fu “no taxation without representation”. Il rovescio di questo principio dovrebbe essere: “taxation against overrepresentation”. Se hai un monopolio, le strade sono due: o rinunci al monopolio, caso impossibile nel caso della lingua inglese, oppure fai delle concessioni ai competitor. In questo modo non si discriminerebbero gli anglofoni ma si permetterebbe agli altri di gareggiare, se non ad armi pari, almeno senza un braccio legato dietro la schiena... Se tutte le lingue e le altre culture devono essere sullo stesso piano e siamo tutti d’accordo nell’evitare l’estinzione delle diversità, allora questa forse è una delle poche strade percorribili. Non stiamo in fondo chiedendo poi tanto: se persino l’ex capo della FED Alan Greenspan era d’accordo su una serie di correttivi allo strapotere del capitale finanziario globale, non si capisce perché il capitale linguistico anglofono debba sottrarsi a una richiesta di maggiore equità. La globalizzazione economica, ovviamente, non è targata solo inglese (ma anche cinese, russa, ecc.), ma è proprio per questo che tassare i proprietari dell’inglese è necessario: per introdurre il principio che tutti abbiamo diritto alle pari opportunità espressive e che non possiamo permettere che le nostre culture (tutte le culture) siano sottorappresentate, inglobate e alla fine scompaiano, lasciando mute le nostre memorie bioculturali più profonde.
Riferimenti bibliografici e sitografia Biodiversity Indicators Partnership. Index of Linguistic Diversity http://www.bipindicators.net/ild Geoffrey Bowker (2010), “All Knowledge is local”, Learning Communities: An International Journal of Learning in Social Contexts, n. 2. http://www.cdu.edu.au/centres/spill//journal/LC_Journal_Issue2_ 2010.pdf Winston Churchill (1943), The English Empire of the Mind (Harvard 1943). https://youtu.be/ohe-6E2L3ks Tullio De Mauro (2014), In Europa sono già 103. Troppe lingue per una democrazia?, Roma-Bari, Laterza. Ethnologue: http://www.ethnologue.com/ Eurobarometer. http://ec.europa.eu/ public_opinion/cf/index_en.cfm Domenico Fiormonte, Desmond Schmidt, Paolo Monella, Paolo Sordi. “The Politics of Code. How digital representations and languages shape cultures”. http://infolet.it/ 2015/ 06/02/the-politics-of-code/ Sergio Foà, Walter Santagata (2004). “Eccezione culturale e diversità culturale. Il potere culturale delle organizzazioni centralizzate e decentralizzate”, Aedon. Rivista di arti e diritto online, 2, 2004. http://www.aedon .mulino.it/archivio/2004/2/santfoa.htm Michele Gazzola, (2014). “Partecipazione, esclusione linguistica e traduzione: Una valutazione del regime linguistico dell’Unione europea”, Studi Italiani di Linguistica Teorica e Applicata, 43 (2): 227-264. http://www.michelegazzola.com/attachments/File/Papers/SILTA-PUB-2.pdf. A. Lukács, G. Kovács (2007). Economic Aspects of Language Inequality in the European Union, College for Modern Business Studies, Tatabánya, Hungary. http://www. ekolingvo.com/Eco_languages.pdf. Luisa Maffi (2010), “What is Biocultural Diversity?”, in Maffi, L., Woodley, E. (a cura di), Biocultural Diversity Conservation. A Global Sourcebook, Washington and London, Earthscan. “NSA Files Decoded”. The Guardian. http://www.theguardian.com/us-news/thensa-files Robert Phillipson (1997), “Realities and Myths of Linguistic Imperialism”. Journal of Multilingual and Multicultural Development, Volume 18, Issue 3, pp. 238-248. Disponibile online su http://www.lenguasvivas. org/campus/files/0_30/lingimperialism.pdf Tove Skutnabb-Kangas (2004), “On Biolinguistic Diversity - linking language, culture and (traditional) ecological knowledge”. http://www.helsinki.fi/hyy/skv/v/Sk-Kangas_Madrid_March_2004_paper.doc Terralingua: http://www.terralingua.org/ UNESCO - Dichiarazione Universale sulla Diversità Culturale (2001): http://portal. unesco.org/en/ev.php-URL_ID=13179& URL_DO=DO_TOPIC&URL_SECTION=201.html
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Cosa prevede Schengen L’accordo di Schengen intendeva eliminare in maniera progressiva i controlli delle persone alle frontiere comuni e introdurre un regime di libera circolazione per i cittadini degli Stati firmatari, degli altri Paesi europei e di tutti quelli che decidevano di aderire. Gli Stati che hanno deciso di partecipare allo spazio Schengen sono diventati sempre più numerosi e la stessa Italia ne è diventata membro nel 1990. Oggi Schengen si compone di 26 Paesi europei, di cui 22 sono anche membri dell’Unione europea. La Bulgaria, la Croazia, Cipro, l’Irlanda, la Romania e il Regno Unito sono Stati membri dell’UE, ma non fanno ancora parte dello spazio Schengen. Esserne parte, concretamente significa che in questi paesi non vengono più effettuati controlli alle frontiere interne, cioè quelle in comune con un altro Stato aderente al trattato del 1985, mentre i controlli vengono realizzati secondo criteri definiti alle frontiere esterne. Per poter entrare a far parte del club Schengen occorrono rigidi requisiti, infatti ogni Paese aderente ha dovuto dimostrare di essere in grado di assumersi la responsabilità del controllo delle frontiere esterne per conto degli altri Stati Schengen; di poter rilasciare, con le adeguate verifiche, visti uniformi per soggiorni di breve durata ai cittadini extra europei; di poter e saper cooperare efficacemente con gli altri Stati Schengen per mantenere un alto livello di sicurezza una volta che i controlli sarebbero stati aboliti; applicare l’insieme delle regole Schengen; imporre la collaborazione delle forze di polizia e la prote-
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zione dei dati personali; connettersi al sistema d’informazione Schengen (SIS) e al sistema d’informazione visti (VIS) e utilizzarli. Va inoltre ricordato che gli Stati Schengen sono sottoposti a valutazioni periodiche per accertare che applichino correttamente le norme.
Sospensione: eccezione o regola? Può sembrare un’ironia ma non lo è. Proprio nel giorno del suo trentesimo anniversario, il 14 giungo 2015, il Trattato di Schengen ha visto la sua sospensione, creando non pochi problemi al nostro Paese alle prese con gli sbarchi continui di migranti e con quelli che giunti al nord del nostro territorio non possono varcare le frontiere. Tuttavia, non è la prima volta che il Trattato viene sospeso. Infatti ogni stato firmatario dell’accordo può interrompere temporaneamente il trattato per specifici motivi. Di solito si ricorre alla sospensione quando uno stato vuole rafforzare le misure di sicurezza all’interno del suo territorio. I casi di temporanea interruzione di Schengen però non sono mancate in passato, basti ricordare la sospensione dell’Austria del trattato in concomitanza del Campionato europeo di calcio del 2008; il caso della Danimarca che nel 2011 ha deciso di reintrodurre il controllo alle proprie frontiere terrestri e marittime al fine di far diminuire il crimine transfrontaliero; la Francia ha sospeso il trattato in seguito agli attentati di Londra nel 2005; la Norvegia ha sospeso l’accordo successivamente agli attentati subiti dal Paese il 22 luglio 2011 e nel 2014 per allerta terrorismo;
Buon compleanno Schengen di Giacomo Bertini
Nel 1985 a Schengen, una cittadina nel sud del Lussemburgo, cinque Stati della allora Comunità europea, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Francia e Germania, decisero di abolire i controlli alle frontiere interne, dando così vita allo spazio di Schengen. Questo fu un atto rivoluzionario e innovativo in quanto per secoli, proprio quei confini, erano stati la ragione per guerre tanto lunghe quanto insensate. Tuttavia nelle ultime settimane sembra che lo spazio Schengen e la libertà di movimento che da esso è scaturita, siano sempre più messe in discussione, con troppi Stati che reclamano una forte difesa dei propri immaginari confini dai migranti extra europei, che negli ultimi anni a ritmo crescente tentano di arrivare nel vecchio continente alla ricerca di una nuova vita. L’Europa sta assumendo così un atteggiamento sempre più schizofrenico, incapace di agire come un’entità forte e unita nelle posizioni da assumere sulla questione immigrazione, dimostrando così tutta la sua debolezza. Una fragilità che potrebbe però costarle cara in un futuro neanche troppo lontano. la Polonia ha interrotto Schengen durante il Campionato europeo di calcio 2012 e nel 2013 in occasione della conferenza sui cambiamenti climatici tenutasi a Varsavia infine la Germania ha recentemente sospeso Schengen durante l’ultimo G7 tenutosi a Garmisch-Partenkirchen solo poche settimane fa. Anche l’Italia per ben due volte ha interrotto i suoi vincoli con Schengen: nel 2001 nel corso del G8 di Genoa e nel 2009 durante quello dell’Aquila. Le varie sospensioni non si sono protratte per un lungo periodo di tempo, ma solo per alcuni giorni, e le motivazioni addotte per giustificare la mancata applicazione del trattato sono state legate ha fenomeni di terrorismo o grandi eventi sportivi. Tuttavia, l’ultima sospensione, che è oggi in corso è, anche se ancora informalmente, quella francese, voluta per bloccare i migranti che cercano di attraversare il confine franco-italiano. Il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, intervenuto nella cittadina lussemburghese di Schengen alle celebrazione per il trentesimo anniversario dalla firma del Trattato, ha affermato che l’accordo «ha reso lo spazio europeo più sicuro, e sbaglia chi lo mette in relazione all’aumento dei flussi di migranti in Europa». Nel suo intervento, il presidente ha poi aggiunto che «Schengen viene spesso criticato e lo si accusa di tutti i mali dell’epoca», denunciando «le analisi superficiali e l’analfabetismo politico» di chi mette in relazione quel Trattato con i flussi migratori. La realtà dei fatti è che la sua sospensione per il G7 in Germania e poi la chiusura della Francia ha creato una sorta di blocco in Italia, dove migliaia di migranti sbarcano e altret-
tanti si dirigono verso altri Paesi cercando di passare le frontiere con la Francia e l’Austria, in direzione per lo più del Nord del mondo. Un caso esemplare di ciò che sta accadendo è quello di Ventimiglia, dove la polizia francese ha creato un cordone per non permettere il passaggio dei richiedenti asilo di origine eritrea che, disperati, chiedono di raggiungere i parenti in Francia. Secondo i dati del Ministero dell’Interno, dal 1 gennaio 2015 sono arrivati in Italia 57.019 migranti, tra cui 5.262 minori, molti di questi sono oggi rinchiusi nei centri di accoglienza o soggiornano nelle varie stazioni italiane, aspettando il loro treno che li porti via dall’Italia. Negli ultimi giorni, mentre Angelino Alfano con i ministri degli interni di Francia e Germania si trovavano in un meeting in Lussemburgo alla ricerca di una possibile soluzione a quella che viene definita la crisi dei migranti, il quotidiano britannico The Guardian ha rilevato che alcuni leader europei sarebbero in trattative segrete con i governi dei Paesi di origine di questi, tra cui vi è anche il governo di Asmara, guidato dal dittatore Isaias Afwerki, per chiedere la chiusura delle frontiere dei Paese del corno d’Africa, in cambio di denaro o di un alleggerimento delle sanzioni internazionali a suo carico. Non solo la Norvegia si sarebbe recata in Eritrea, definita la Corea del Nord dell’Africa a causa del regime repressivo e sanguinario, per stringere un accordo che consentirebbe al Paese di rispedire a casa i richiedenti asilo eritrei. Secondo il quotidiano, anche funzionari italiani e britannici si sarebbero recati nella capitale eritrea per accordi simili.
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I ministri degli interni dei Paesi dell’UE riuniti in Lussemburgo non sono riusciti a trovare un accordo sulle nuove linee guida per l’Unione in materia di immigrazione, in particolare è visto come un pugno allo stomaco per gli altri Paesi Ue la ridistribuzione dei richiedenti asilo attraverso un sistema di quote, accordo proposto e sostenuto dalla Commissione europea. Secondo il ministro dell’interno lettone ci sono molte divergenze tra i paesi europei sulla questione, in particolare i paesi dell’Europa dell’est non vogliono che l’adesione al sistema di quote sia obbligatoria, ma preferiscono che sia volontaria. La questione si discuterà di nuovo nel vertice del 25 e 26 giungo a Bruxelles. Alla fine del vertice il ministro dell’interno Alfano ha affermato che il clima è stato positivo, anche se «sui numeri occorre ancora discutere». Al termine della riunione Francia e Germania hanno confermato la loro posizione. Parigi e Berlino hanno detto di essere favorevoli al sistema delle quote, ma hanno vincolato la loro approvazione alla garanzia da parte dell’Italia che i migranti in arrivo nel paese siano identificati e schedati, inoltre queste hanno chiesto di affidare la prima accoglienza alle autorità europee, dimostrando così di non avere alcuna fiducia nell’operato dell’Italia, magari, verrebbe da pensare, anche giustamente. Nel vano tentativo di trovare una soluzione l’Italia minaccia di mettere in campo un fantomatico Piano B, che consentirebbe il rilascio di migliaia di visti visa Schengen da parte delle autorità ai migranti, che potrebbero così oltrepassare i confini indisturbati.
Schizzofrenia europea Ciò che emerge chiaramente dall’attuale situazione è che l’Europa è incapace di prendere decisioni e dimostrarsi così pronta ad assumere un potere politico di maggiore spessore, ha deciso di dimenticare quel principio di solidarietà presente all’interno del Trattato di Lisbona e punto fondante dell’Unione, preferendo rivolgersi ad uno spietato dittatore per fermare l’avanzata dei migranti. Il Trattato di Lisbona vi ha introdotto un’esplicita clausola di solidarietà, l’articolo 222. Questa dispone che gli Stati membri agiscano congiuntamente, «in uno spirito di solidarietà», qualora uno Stato membro che sia oggetto di un attacco terroristico sul suo territorio o vittima di una calamità naturale o causata dall’uomo, chieda assistenza. In particolare, l’UE utilizza tutti i mezzi di cui dispone, compresi, eventualmente, mezzi militari messi a disposizione dagli Stati membri, per prestare assistenza allo Stato che l’abbia richiesta, al fine di proteggere le istituzioni democratiche e la popolazione civile da attacchi terroristici o dagli effetti di una calamità. Sicuramente la collaborazione con i Paesi di provenienza di coloro che decidono di abbandonare le loro terre è una strategia che non può essere evitata, anzi probabilmente è la
principale arma contro una vera e propria tratta umana in cui i trafficanti di uomini sono gli unici a trarne un pericoloso profitto, ma si può non tenere alcun conto della natura del governo con cui si tratta? In un contesto così variegato e controverso è sempre il realismo politico a farla da padrone, e sembra non esserci spazio per l’umana compassione.
Noi europei La maggioranza se non tutti i mezzi di informazione di cui possiamo avvalerci, ogni qualvolta che un barcone sbarca sulle coste italiane, descrivono la situazione come al limite o di emergenza. Tuttavia basta prendere poche cifre per comprendere, che una situazione, non di certo rosea, è in realtà ancora lontano dall’essere un’emergenza. Oggi l’Unione europea conta una popolazione di 500 milioni di abitanti ed ospita centomila migranti e richiedenti, insomma una situazione non proprio di assedio come qualcuno vorrebbe farci credere e molto diversa da altri situazioni che alcuni Paesi devono affrontare. Il Libano ad esempio, ha sei milioni di abitanti e accoglie oltre 1,2 milioni di rifugiati, soprattutto siriani, anche la Giordania ha una popolazione di otto milioni di abitanti e oltre 600mila rifugiati, ed altresì la Turchia che ha 80 milioni di abitanti, ospita 1,8 milioni di rifugiati. Per quanto riguarda nello specifico il caso Italia, dei migranti che arrivano sulle nostre coste solo una piccola parte desidera rimanere sul nostro territorio, una grande maggioranza decide di andare via. Le ragioni che li spingono a dirigersi verso altri lidi sono molteplici. Una maggiore prosperità economica, la presenza di uno stato sociale più generoso, famigliari che si sono già costruita una vita in quei Paesi, ma anche un fattore di primaria importanza come la lingua che viene parlata. L’italiano è infatti per lo più una lingua sconosciuta a chi non è cresciuto nel nostro bel Paese, ciò fa si che i migranti prediligano mete in cui si parli francese, inglese o tedesco o comunque in cui si possa sempre utilizzare una lingua franca come l’inglese ed essere perfettamente compresi, cosa che come ben sappiamo in Italia non avviene. La domanda da porsi è facile: se molti italiani vanno o sognano un futuro all’estero, perché i migranti dovrebbero voler restare in Italia? Se la nostra stessa classe dirigente si ponesse questo interrogativo probabilmente si potrebbero risolvere i problemi di qualche migrante e di molti italiani. Ogni giorno sul tema immigrazione vengono dette tante demagogiche parole, che sono solo l’ennesima testimonianza di classi dirigenziali incapaci di svolgere le loro mansioni, perché «quando coloro che ci governano riescono a farci credere che i nostri problemi dipendono da chi sta peggio di noi, allora si compie il capolavoro della classe dirigente».
Vent’anni di nulla
di Giacomo Bertini
Il 7 marzo 1991 non è una data come tante altre. Anche se sono passati non più di vent’anni da allora, in molti oggi hanno totalmente dimenticato quel che accadde, soprattutto nelle file della politica. Eppure, molti di coloro che oggi occupano un posto nel nostro Parlamento, già all’epoca sedevano sulle poltrone di palazzo Madama. Infatti quel 7 marzo arrivarono nel porto di Brindisi a bordo di navi mercantili e di imbarcazioni di ogni tipo, oltre 27 mila migranti. Questi non provenivano dall’Africa, ma bensì dalla più vicina Albania, un Paese all’epoca devastato da una forte crisi economica e da una classe dirigente incapace di sopravvivere senza la protezione dell’Unione Sovietica, che proprio in quegli anni vedeva il suo tramonto dopo la caduta del muro di Berlino. L’Italia scoprì di essere diventata la terra promessa per tanti albanesi, che per molto tempo l’avevano conosciuta solo attraverso la nostra televisione ed il nostro cinema. Una terra in cui lavorare e costruirsi un futuro migliore. A quel primo imprevisto sbarco il Paese non era preparato, si dimostro cosi fondamentale la solidarietà proveniente dalla società civile per la creazione di una prima accoglienza. A venti anni di distanza dal quel primo sbarco, qualcosa è cambiato: non sono più gli albanesi a riversarsi sulle
nostre coste ma bensì gli abitanti del sud del mondo. A parte questo “piccolo” particolare, costante è rimasta l’incapacità del nostro governo di affrontare la questione immigrazione. Eppure, venti anni sono passati. In questi afosi giorni di luglio, gli sbarchi di migranti provenienti dalle coste libiche continuano senza che possano essere effettuati, dalle nostre forze dell’ordine gli adeguati controlli, ma soprattutto senza riuscire a dare a costoro la necessaria e dovuto assistenza di cui avrebbero bisogno. Nonostante i grandi sforzi effettuati da dottori, interpreti, volontari e tutti coloro che ogni giorno dedicano il loro tempo per prestare un primo soccorso a chi scende da quei miserabili barconi, essi sono essenzialmente lasciati soli dalla politica, incapace di offrire le dovute soluzioni a quanto sta avvenendo. Unica proposta presentata ad oggi dai Paesi membri dell’Unione europea, in pieno accordo con il nostro governo, è la missione navale EuNavFor. Questa punta a «rompere il modello di business di contrabbandieri e trafficanti» che sulla tratta dei più poveri del mondo stanno costruendo un vero e proprio impero economico. Per eliminare questo business, secondo quanto stabilito dal Consiglio dei Ministri degli Esteri e della Difesa dei 28 Stati membri, non si dovrà per forza distruggere le imbarcazioni usate
dai migranti, ma basterà “eliminare e renderle inoperative”. Sembra questo un gioco di parole adatto per sedare gli animi dei più contrari a questa operazione. La missione EuNavFor, con sede a Roma, avrà al comando l’ammiraglio italiano Enrico Credendino. La missione durerà un anno e si pensa che avrà un costo di circa di 11,82 milioni di euro. Il testo approvato dal Consiglio dei Ministri stabilisce di procedere subito con la fase uno, ossia l’identificazione e il monitoraggio dei network dei trafficanti attraverso la raccolta delle informazioni e la sorveglianza delle acque internazionali. La seconda fase della missione dovrebbe prevedere l’eliminazione delle imbarcazioni degli scafisti in acque internazionali, mentre la terza fase, la più difficile da realizzare, consisterà nell’intervento diretto nelle acque e lungo le coste libiche, tuttavia per fare ciò occorrerà il via libera del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite o del consenso del momentaneamente inesistente governo libico. Sicuramente, danneggiare o eliminare il business degli scafisti sarebbe una grande vittoria per l’Europa e per gli stessi migranti, però non si può non sottolineare come i nostri governanti hanno totalmente dimenticato di mettere tra le loro priorità in agenda un aiuto concreto a coloro che fuggono dalla guerre o dalla miseria.
Le speranze invisibili Temi, luoghi e pratiche del cambiamento planetario E critica vuol dire cultura e non evoluzione spontanea e naturalistica. Antonio Gramsci di Giulia Pinna e Domenico Fiormonte Uno spettro si aggira per il pianeta: lo spettro del cambiamento. Lontano dagli anatemi dello sviluppo, dalla cappa depressiva dei media eurocentrici, dal narcisismo e dal controllo di Facebook e Google, si intrecciano i sentieri più o meno nascosti su cui camminano gli innovatori, i ricercatori e gli attivisti di una svolta imminente. Sono i fondatori del nuovo codice. Con tale espressione riassumiamo la sfida di quei gruppi e di quella comunità che attraverso l’adozione di stili di vita, pratiche e tecnologie in discontinuità con il mainstream (tutto il visibile che ci opprime), cercano, per parafrasare Boaventura de Sousa Santos, di rifondare l’emancipazione individuale e sociale, reinventando e riscoprendo saperi ed esperienze indigene. E la cosa interessante è che lo fanno da Nord a Sud, da Est a Ovest, superando gli schemi e le geopolitiche, mentali ancor prima che materiali, ereditate dal Novecento. Per decenni hanno vissuto, forse per salvaguardarsi, senza comunicare fra loro. Oggi formano un vero e proprio tessuto globale che comincia a prendere forma concreta, sviluppando reti di rappresentanza e condivisione e istituzioni per l’educazione e la trasmissione di nuovi modelli di conoscenza, relazioni umane, economia, politica, agricoltura, ecc. A differenza dei movimenti del passato, i promotori del nuovo codice non si schierano contro il vecchio. La contrapposizione e il conflitto non vengono negati o respinti, ma la energie si concentrano nella creazione più che nella contrapposizione. Il loro approccio è praticoolistico e mira all’integrazione di quattro dimensioni fondamentali: economica, ecologica, etica e sociale. Infine, pur nell’eterogeneità e ricchezza d’intenti, non si può nascondere che molte di queste realtà nascono con una forte spinta verso l’integrazione fra dimensione interiore e mondo esteriore.
Il cambiamento può avvenire per transizione da un modello vecchio ad uno nuovo, come nel caso delle Transition Towns, o sperimentalmente ex-novo con la costituzione di comunità intenzionali che rispecchino i principi di unità e integrazione delle quattro sfere della nuova visione, provando così a costruire direttamente il mondo nuovo che renda implicitamente obsoleto quello che fino ad ora evidentemente “non ha funzionato”. Una mappa esaustiva di questa seconda via del cambiamento è offerta da Manuel Olivares in due libri-viaggi tra le “comuni, comunità [ed] ecovillaggi”, in Italia, in Europa e nel mondo. Il punto di partenza comune alla base delle quattro sfere citate è il moto di reazione alla disconnessione dell’essere umano moderno dai “fatti fondamentali della vita”, citando le parole che Fritjof Capra utilizza nel suo illuminante opuscolo “ Ecoalfabeto. L’orto dei bambini”:
Quando il pensiero sistemico viene applicato allo studio delle relazioni multiple che collegano tra loro i membri della famiglia terrestre, si possono distinguere alcuni principi di base. Possono essere chiamati principi ecologici, principi di sostenibilità, o principi comunitari; oppure si possono persino chiamare i fatti essenziali della vita. Serve un programma scolastico che insegni ai nostri bambini i seguenti fatti fondamentali della vita: • Che un ecosistema non genera rifiuti, dato che gli scarti di una specie sono il cibo dell’altra; • Che la materia circola continuamente attraverso la rete della vita; • Che l’energia che alimenta questi cicli ecologici deriva dal sole; • Che la diversità garantisce la capacità di recupero. (Capra, 2005, p. 41)
A livello economico, si guarda al superamento delle diseguaglianze create dall’attuale sistema capitalista globale, all’autodeterminazione delle comunità locali e indigene, alla loro indipendenza dai circuiti della produzione, del consumo e della finanza mondiali. Le soluzioni trovate sono nuovi modelli di imprenditoria sostenibile, di “lavoro utile”, di politica virtuosa, di autoproduzione, di condivisione, di utilizzo di monete alternative. Esempi italiani di transizione a questo livello sono i GAT (Gruppi Acquisto Terreni), il REES Marche, il Sardex, l’Impact Hub Sicilia, la rete di imprenditori Etinomia. Dal punto di vista ecologico, il cambiamento si fonda su due ragioni complementari. Da una parte, si cerca si affrontare la fine dell’era del petrolio, cominciando a mettere in pratica le misure necessarie ad una transizione verso l’utilizzo di energie proporzionate alla presenza umana sempre crescente sul nostro pianeta. Questa condizione è però ormai talmente palese da essere accettata anche dalla cosiddetta governance internazionale che propone soluzioni di “sviluppo sostenibile”. Tali soluzioni, che aderiscono a logiche vecchie appartenenti allo stesso regime industriale che ha creato l’attuale crisi planetaria, sono state ribaltate dalle ultime teorie sul modello di “decrescita” che forniscono, per utilizzare le parole di una tra le più recenti antologie sul tema, un vero e proprio “vocabolario” alternativo per la lettura della “nuova era”. Dall’altra parte, l’ecologia viene vista come strettamente legata alla riappropriazione da parte delle comunità locali della gestione del proprio territorio secondo le necessità e le conoscenze degli abitanti del luogo. La salvaguardia della biodiversità e la sovranità alimentare sono quindi funzionali alla vita delle comunità locali, alla loro cultura e alla loro definizione identitaria.
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La stretta connessione tra biodiversità, cultura e identità è alla base del lavoro di due scienziati indiani straordinari: Debal Deb e Vandana Shiva. Il biologo, convertitosi in agricoltore, Debal Deb, chiamato “India’s rice warrior”, ha creato nella regione indiana dell’Orissa un centro per la coltivazione e conservazione di più di novecento varietà autoctone di riso, che rischiavano l’estinzione, portandosi dietro il bagaglio di conoscenze e culture indigene a loro legate. I semi, in questo caso, “non sono solo quelli materiali, ma le radici da cui germogliano le libertà fondamentali, le capacità umane e una comune speranza concreta”. Un’interessante sintesi del pensiero di Vandana Shiva, soprattutto in relazione alla realtà italiana, si trova in due documenti presentati entrambi in Italia nel 2013: una è la “Carta di Arcevia”, co-redatta dal mondo dell’agricoltura biologica italiano e sottoscritta, come prima firmataria dalla stessa Shiva, che promulga “Un modello di agricoltura per una nuova società”; l’altra è “La legge del seme”, presentata alla nona edizione di Terrafutura, redatta da un gruppo di lavoro composto da maggiori esperti nei loro rispettivi campi, e promossa da Navdanya International, in collaborazione con la Regione Toscana e Banca Etica. Riportando letteralmente le parole di intento degli autori:
La Legge del Seme è proposta come uno strumento per i cittadini da utilizzarsi ovunque e in ogni contesto per difendere la loro libertà e la sovranità dei semi, nonché con l’obiettivo di fornire una guida pratica per ogni futuro sviluppo di leggi e politiche in materia di sementi. (http://www.navdanyainternational.it/attachments/article/245/S EME.pdf) A livello internazionale, il polso della situazione si può avere leggendo la “Declaration of Nyéléni”, sottoscritta da rappresentanti di più di 80 Paesi durante il primo Forum Internazionale per la Sovranità Alimentare, tenutosi il 27 Febbraio 2007 nel villaggio di Nyéléni, Sélingué, Mali. Le altre due sfere, quella etica e quella sociale, sono ancor più strettamente interconnesse tra loro. D’altronde, la ricerca di innovazione dal punto di vista propriamente “umano”, come singolo e nelle sue relazioni con gli altri, passa attraverso la sovversione della concezione cartesiana della realtà, ovvero la divisione tra l’essere umano e la natura, tra l’Io e il mondo esterno. Il cambiamento mira alla costruzione di esseri umani in-
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seriti nelle comunità e comunità inserite nell’ecosistema e che in esso tessono reti di condivisione e solidarietà. In questo senso, ancora una volta secondo leggi naturali, la persona è considerata parte del tutto e può conquistare la propria esistenza felice solo attraverso “la collaborazione, l’associazione, la formazione di reti”, proprio come la vita ha agito nella “conquista del pianeta, sin dai suoi primordi”. Inoltre, la piramide del potere è rovesciata (grassroot democracy) e le comunità organizzate sono funzionali alla creazione di nuove gerarchie intricate in cui il cambiamento avviene prima nelle coscienze individuali, poi nei piccoli gruppi e poi “viralmente” su larga scala. Alcune esperienze sono più note, altre rimangono ancora nell’ombra, nonostante ci sia chi, nei media dell’informazione più libera, cerchi di portarle a galla e renderle visibili al grande pubblico. Di fatto, la diffusione di informazioni positive su questi temi è di grande aiuto per coloro che custodiscono il seme del cambiamento ma non hanno ancora trovato il nutrimento giusto per farlo germogliare. A livello nazionale e internazionale sono nate reti di rappresentanza come la Fellowship for Intentional Community, punto di incontro e cooperazione per le comunità intenzionali di qualsiasi tipologia, la GEN (Global Ecovillage Network), confederazione mondiale delle esperienze degli ecovillaggi e la sua corrispondente italiana, la RIVE (Rete Italiana Ecovil-
laggi); oppure, di più ampio respiro, la Via Campesina, che riunisce 164 organizzazioni in 73 Paesi, che difendono l’agricoltura biologica su piccola scala come base per una società giusta. Infine, esistono diverse istituzioni che propongono corsi brevi o Master sui temi della nuova visione olistica. Tra questi, lo Schumacher College, che sorge a pochi chilometri da Totnes, culla del movimento delle Transition Towns; GAIA Education, creata da rappresentanti di ecovillaggi dei cinque continenti e attualmente gestita in collaborazione con l’ecovillaggio, centro di formazione e comunità spirituale di Findhorn in Scozia; il Centre for Ecoliteracy a Berkeley, California, fondato nel 1995 da Fritjof Capra, Peter Buckley e Zenobia Barlow. I corsi da loro proposti vanno da Master in Scienze Olistiche, Economia per la Transizione, Design Ecologico, Wilderness, Mindfulness al programma onnicomprensivo EDE (Ecovillage Design Certificate). Le esperienze qui descritte brevemente ci sembrano rappresentare quell’ “intenso lavorio di critica, di penetrazione culturale, di permeazione di idee attraverso aggregati di uomini” che precede, secondo Gramsci, ogni rivoluzione. A ciascuno e a tutti noi rimane la sfida di unire le sfere in un unico grande cerchio e lavorare intensamente affinché sempre più menti si aprano verso nuove forme di vita, visione e condivisione, e le speranze ora invisibili si palesino e contagino anche i più scettici.
Lettera dal Futuro
Kakiriguma, 30 Marzo 2015 Cari Amici, vi scrivo da un piccolo villaggio tribale nella regione indiana dell’Orissa. Sopra di me gli alberi di tamarindo cantano suonati dal vento caldo. Intorno, le colline spoglie colorate di giallo e ocra fanno da sfondo agli spostamenti rituali delle mucche al pascolo. Sono in India da più di due mesi ormai e in questo tempo, “fuori dal tempo”, l'India ha assunto per me un valore estremamente importante nel mostrarmi forme futuriste ed evolute di vita su questo pianeta, e continua a farlo, giorno dopo giorno. Nonostante sappia che prima o poi ci sarà un “ritorno a casa”, questo non mi pre-occupa, in quanto penso che il vento di cambiamento che soffia sui nostri tempi, vada dall'India all'Italia, al Senegal, all'Australia, senza confini, unendo i cuori di chi lavora affinché l'essere umano non tradisca se stesso e, quindi, la propria Madre Terra. In Orissa sono arrivata un mese fa per l’Ecovillage Design Course organizzato dall’associazione THREAD*, facente parte del network internazionale di ecovillaggi (GEN). È il secondo anno che l’associazione invita studenti internazionali a partecipare. Per più di vent’anni ha organizzato questo training esclusivamente per le popolazioni tribali. G. John, il maestro, è un indiano del Sud, specializzato in Process Work Training. Il suo sogno realizzato è stato quello di dare ai tribali gli strumenti per vivere in insediamenti sostenibili ed avere i propri sistemi di rappresentanza che gli consentissero di non sottostare alla volontà omologante della politica nazionale e alle incursioni delle multinazionali del cibo e dell’energia. Ha creato, insieme a tante altre persone che hanno creduto in lui, una rete di 2240 ecovillaggi tribali, promuovendo alcuni principi chiave che mettono in relazione individuo-comunità-pianeta: gli individui scoprono se stessi e si evolvono partendo dalla propria visione e i propri valori; la comunità si occupa dei propri membri e condivide i propri beni con tutti; la natura è protetta ed amata e tutti e tre questi elementi vivono in una relazione simbiotica armonica e di mutuo supporto. Il corso, rivolto a noi studenti stranieri, affrontava questi stessi argomenti, dividendo gli insegnamenti in quattro settimane rispettivamente dedicate a etica, comunità, ecologia ed economia. I villaggi facenti parte dell’ONS (Orissa Nari Samaj), federazione di 54 associazioni di donne tribali, che vivevano in condizioni di povertà pre-industriale, ai margini delle misure del welfare statale, ora hanno ampliato i propri orizzonti seguendo i principi di permacultura, vivendo in dignitose e coloratissime case di fango e paglia, ciascuna con un angolo cottura e un bagno esterno (costruiti o in costruzione con sovvenzioni statali), in una società equa nel trattamento dei propri membri (rapporto uomo-donna, istruzione bambini, sostentamento anziani), e con un sistema articolato di rappresentanza e risoluzione pacifica dei conflitti, parallelo a quello governativo, costituito per lo più da donne.
Ieri mattina abbiamo avuto la fortuna di sederci in cerchio con i membri del villaggio, per scambiare le nostre idee e dare risposte alle rispettive curiosità verso l’Altro. La cosa che più mi emoziona è la Verità della loro evoluzione: la scelta di lavorare le terre comuni e condividerne i frutti; quella di istituire delle banche di semi e di riso; le casse comuni per le emergenze (malattie, disastri naturali, educazione superiore per i ragazzi che vogliono andare al College); lo scambio di tecniche, idee, prospettive nel mercato settimanale che raggruppa diversi villaggi dello stesso distretto; l’importanza riservata all’educazione costante sulla propria visione del mondo; la forza delle donne che hanno assunto una posizione centrale nel movimento anti-OGM. Tutte queste azioni sono Semplicemente Vere, perché nascono da bisogni reali, appartenenti, e sono il frutto di un lavoro di anni di umile analisi introspettiva e di gruppo. La permacultura in India è un mezzo potentissimo per garantire la sicurezza alimentare dei più poveri. La “bio-edilizia” rappresenta la possibilità di dare a tutti una casa dignitosa, utilizzando le risorse che ognuno ha a disposizione nel proprio ambiente. Lo scambio e la condivisione sono fondamentali per la sopravvivenza anche a fronte di un clima sempre più incerto che riserva improvvisi periodi di siccità o inondazioni di intere regioni. Siamo lontani dai trattati universitari sulla sostenibilità delle università occidentali. Le radici così profonde di questo cambiamento, non possono che nutrire una pianta sana, forte e duratura. Sicuramente fare il corso di Design di Ecovillaggi in questo contesto è stata davvero un'occasione unica e una fonte di grande, grande ispirazione. L'idea fondamentale è che partendo da se stessi e dalla propria visione, tutto è realizzabile. Anzi, è questa l’unica via. Se si cerca di manipolare il mondo esterno senza rispettare la propria essenza, infatti, il risultato non sarà mai soddisfacente. Al contrario, si produrranno delle distorsioni della realtà, illusorie e pericolose. Credo quindi che l’unica rivoluzione possibile sia in ciascuno di noi: la trasformazione sociale può realizzarsi esclusivamente attraverso un movimento di persone padrone di loro stesse, centrate nella propria identità di esseri umani. E’ molto complesso armonizzare valori, risorse ed azioni ma la mia esperienza indiana mi insegna che è possibile e i risultati sono Realmente Straordinari. Vi abbraccio e vi auguro chiarezza e coraggio. Giulia Pinna
* THREAD (Team for Human Resource Education and Action for Development) è un ente di formazione, fondato nel 1984, che ha come obiettivo quello di dare più potere e visibilità sociale ai gruppi marginalizzati, come per esempio le comunità tribali, aiutandoli a rivendicare il proprio diritto alla terra, alla salute, al cibo e ad uno standard di vita dignitoso. Opera principalmente in Orissa. www.siddarthvillage.com
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“La mafia è una montagna di merda” Peppino Impastato di Giovanni Parentignoti La nascita della mafia viene solitamente ricondotta a metà del diciannovesimo secolo, perché proprio in questo periodo iniziano a vedersi quelle connotazioni specifiche della mafia alla ricerca di collusione col potere pubblico. Inizialmente non era una setta segreta e nemmeno una lobby losca, ma essendo quella siciliana una storia fatta di sbarchi e colonizzazioni, la gente cercava in qualche modo di entrare in contatto con questi nuovi poteri, ricercando compromessi per poter proteggersi dalle prevaricazioni. In generale in Sicilia, l’incapacità dei governi centrali di far sentire la propria presenza, favorì il rafforzamento di poteri privati o di gruppi con le caratteristiche pro-
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prie di veri “clan”. La difficile situazione economica dell’isola, permetteva ai ricchi proprietari, una politica vessatoria contro i contadini e i mezzadri. Fu alla vigilia dell’unificazione che risaltano chiari i primi sintomi di un fenomeno che di li a poco avrebbe dilagato distinguendosi dalla normale criminalità. La mafia non è solo clan, ma anche atteggiamenti e comportamenti, infiltrazioni nel potere pubblico e nelle decisioni di importanza primaria, la mafia è quindi eliminazione di chi può intralciare questo connubio che ad oggi ancora esistente e radicato come una piovra e che da qualche anno non uccide più in quanto si è installato e radicato fortemente nella stanza dei
bottoni. Il primo omicidio di “stampo mafioso” può ricollegarsi al 3 marzo 1861, quando fu ucciso il medico Giuseppe Montalbano che alla guida dei contadini rivendicò la proprietà di tre feudi spettanti al comune di Santa Margherita Belice, usurpati dalla principessa Filangieri con la complicità degli agrari e dei baroni. Nel 1863 toccò a un generale garibaldino Giovanni Corrao, a seguire il direttore del banco di Sicilia Noterbartolo. Il 1900 si apre con l’uccisione a Corleone nel 1905, del contadino socialista Luciano Nicoletti, che fu in prima fila nelle lotte per le “affittanze collettive” e questo segno la sua condanna a morte.
I killers della mafia l’aspettarono in contrada San Marco la sera del 14 ottobre 1905, mentre tornava a piedi in paese, dopo una dura giornata di lavoro sui campi. Due colpi di lupara posero fine alla sua esistenza. Decine gli omicidi commessi specialmente nella zona Corleone e nella provincia di Agrigento, tutte collusioni politico-mafiose e con la collaborazione dei ceti ricchi e borghesi. Nel periodo prefascista ultimo omicidio fu quello di Sebastiano Bonfiglio, sindaco di monte San Giuliano; il periodo fascista fece nascondere i “mafiosi” e fino al 1943 non vi furono più omicidi legati al fenomeno mafia. Il 2 Settembre 1943 a Quarto Mulino di S. Giuseppe Jato viene ucci-
so Antonio Mancino, carabiniere di 24 anni, la prima vittima di Salvatore Giuliano, cominciano poi ad essere colpiti i sindacalisti come Andrea Raia e Nunzio Passafiume, il triangolo è sempre Agrigento, Caltanissetta e Palermo che si mobilita contro rappresentanti in primis del partito comunista: Casarrubea e Lo Jacono, Placido Rizzotto partigiano socialista, passando per decine di altri omicidi che ci catapultano ai nostri tempi con Peppino Impastato, Mauro De Mauro, Attilio Bonincontro, Gaetano Longo, Boris Giuliano, Francesco Borrelli, Pio La Torre, al 2000 dove la mafia colpisce per racket e estorsione e colpisce anche bambini e disabili per dare segni di forza e cinismo.
Ricordando le morti di Falcone e Borsellino, eroi del primo maxi processo contro la mafia, ci si rende conto oggi che l’omicidio, per la mafia, è diventato di secondaria importanza e non perché la mafia si sta estinguendo, ma perché è finalmente riuscita nell’intento di infiltrarsi negli ambiti di comando quali la politca, la scuola, l’imprenditoria, le banche e la chiesa. La mafia si evolve, parte da radici di protesta, diventa sanguinaria e adesso affonda i propri tentacoli nelle istituzioni e nei posti centrali di comando. Ancora oggi più che mai si deve alzare alta la voce, con quella fatidica frase di Peppino Impastato: “ LA MAFIA E’ UNA MONTAGNA DI MERDA”.
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Mafia e globalizzazione
estratto da un saggio di Umberto Santino “Marxismo, mafia e antimafia”, pubblicato in tedesco in: Historisches-kritishes Woertbuch des Marxismus, htpp://www.hkwm.de
La lotta alla mafia negli ultimi decenni Sul piano istituzionale la risposta alla violenza mafiosa si concreta, come abbiamo già visto, con la legislazione antimafia e la celebrazione di processi che si concludono con pesanti condanne per capimafia e gregari. Sul piano sociale e politico, con l’impoverimento delle forze di sinistra, sindacali e di partito, dissanguate dall’emigrazione, a contrastare la “borghesia mafiosa” negli anni ’60 e ’70 sono minoranze. Tra le esperienze più significative, l’impegno dei rappresentanti socialcomunisti all’interno delle istituzioni, e in particolare della Commissione parlamentare antimafia, contro gli uomini della Democrazia cristiana, il partito al potere, legati alla mafia (Mafia e potere politico 1976); le esperienze non violente di Danilo Dolci (Santino 20002009); l’attività di analisi e di impegno sociale della Nuova sinistra, e in particolare di Giuseppe Impastato, proveniente da una famiglia mafiosa, impegnato radicalmente contro la mafia e ucciso dai mafiosi nel maggio del 1978 (Impastato 2002-2008). A lui è dedicato il Centro siciliano di documentazione, fondato da chi scrive e da Anna Puglisi nel 1977, il primo centro studi sulla mafia sorto in Italia. Il Centro ha coniugato l’analisi, l’attività educativa nelle scuole e l’impegno sul territorio e ha avuto un ruolo decisivo nel salvare la memoria di Impastato, che rappresentanti delle istituzioni volevano far passare per terrorista e suicida, e per ottenere giustizia (Commissione… antimafia, 2001, 2006, 2012). Dopo i grandi delitti e le stragi ci sono grandi manifestazioni e nascono comitati, centri studio e associazioni. Nel 1995 nasce Libera, un coordinamento nazionale di varie associazioni. Molte iniziative sono effimere, altre si sviluppano con una certa continuità. Tra queste particolarmente significative sono le attività di educazione alla legalità nelle scuole(Cavadi 2006, Gunnarson 2008), quelle anti-
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racket, sviluppatesi soprattutto dopo l’assassinio, nel 1991, dell’imprenditore Libero Grassi, che si è rifiutato di pagare il “pizzo” (Autori Vari 2011), quelle per l’uso sociale de beni confiscati, che riprendono alcune linee che furono del movimento contadino (Santino 2000-2009, Jamieson 2000, Schneider and Schneider 2003).
Donne mafia e antimafia
La mafia si presenta formalmente come associazione monosessuale, essendo formata da soli uomini, ma il maschilismo non è una specificità mafiosa, esso è uno dei caratteri storici della società in cui è nata. Poiché l’organizzazione mafiosa non ha principi fissi e immutabili, ma è essenzialmente opportunista, coniugando rigidità formali ed elasticità di fatto, essa concede spazio alle donne, in varie forme: trasmissione dei codici culturali, coinvolgimento nelle attività, nell’esercizio della signoria territoriale ecc. (Siebert 1994). Recentemente si è registrato un caso in cui una donna ha assunto anche formalmente posizioni di comando, in sostituzione dei congiunti in carcere (Puglisi 2005-2012). Il movimento antimafia ha visto e vede la partecipazione attiva delle donne, dalle lotte contadine (ai tempi dei Fasci siciliani si formarono Fasci di sole donne) ai nostri giorni. La prima associazione di massa è stata l’Associazione delle donne siciliane per la lotta alla mafia, formatasi nel 1980 (Puglisi già citata) e alcune donne sono diventate un punto di riferimento per le attività antimafia, come Francesca Serio, la madre del sindacalista Salvatore Carnevale, ucciso nel 1955 (Levi 1955) e Felicia Bartolotta, la madre di Peppino Impastato (Bartolotta 1986-2003, Puglisi e Santino 2005), costituitesi parti civili nei processi contro i responsabili dell’assassinio dei figli.
Il paradigma della complessità L’analisi della mafia e delle lotte
contro di essa, condotta dal Centro Impastato, si è sviluppata lungo una linea di fondo: la demistificazione degli stereotipi (la mafia come emergenza, cioè fabbrica di omicidi; la mafia come antistato, cioè soggetto criminale avverso alle istituzioni; la mafia come subcultura marginale o come piovra universale), mettendo in luce la continuità e la complessità del fenomeno mafioso, non riducibile agli aspetti comportamentali, le sue interazioni con il quadro istituzionale, la molteplicità dei soggetti di tipo mafioso, e l’integrazione dei paradigmi (associazione a delinquere tipica e impresa mafiosa). Il “paradigma della complessità” coniuga associazionismo criminale e sistema relazionale, collega l’agire criminale ai processi di accumulazione e di formazione del dominio, con l’esercizio di una “signoria territoriale” tendenzialmente assoluta (che va dal controllo delle attività economiche a quello sulle relazioni interpersonali), dà spazio agli aspetti culturali e al consenso sociale, legge la sua storia come intreccio di continuità e trasformazione, con una forte capacità di adattamento al mutare dei tempi e del contesto. Così si spiega la persistenza della mafia in fasi storiche diverse e la sua capacità di insediamento in Paesi diversi dalle aree originarie, come per esempio negli Stati Uniti (Romano 1966; Block 1980, Santino e La Fiura 1990; Lupo 2008). Ci siamo posti il problema dei rapporti tra mafia e società, mafia e capitalismo, pervenendo alla seguente conclusione: è possibile definire mafiogena una società che presenta determinate caratteristiche: buona parte della popolazione considera la violenza e l’illegalità come mezzi di sopravvivenza e per l’acquisizione di un ruolo sociale; l’economia legale è troppo debole; lo Stato e le istituzioni sono sentiti come lontani e accessibili solo attraverso la mediazione dei mafiosi; il tessuto sociale è troppo fragile; la sconfitta delle lotte precedenti ha sedimentato una cultura della sfiducia e della rassegnazione.
Per quanto riguarda il rapporto con il capitalismo si può parlare di una via criminale al capitalismo e di una via criminale del capitalismo, ma per evitare criminalizzazioni generalizzate bisogna distinguere varie fasi e varie situazioni. Nella transizione dal feudalesimo al capitalismo si formano organizzazioni di tipo mafioso dove non si afferma il monopolio statale della forza (in Sicilia, nel contesto dell’impero spagnolo, convivono potere centrale e poteri locali); nei paesi a capitalismo maturo troviamo organizzazioni di tipo mafioso in presenza di determinate condizioni: un imponente flusso migratorio e le difficoltà all’integrazione, per cui una parte dei migranti si dedica ad attività illegali, i mercati neri originati dai proibizionismi (il caso più esemplare sono gli Stati Uniti, con il proibizionismo prima dell’alcol poi delle droghe, esteso a livello internazionale); nel capitalismo globalizzato la diffusione delle mafie si spiega con le grandi opportunità offerte dai processi di globalizzazione. Sul fronte dell’antimafia, nella fase delle lotte contadine (dalla fine dell’800 alla prima metà degli anni ’50 del XX secolo) la lotta alla mafia è una forma di lotta di classe; successivamente è una forma specifica di attività di soggetti della cosiddetta “società civile” e presenta caratteristiche e limiti (monotematicità, precarietà ecc.) dell’azione sociale nella società contemporanea (Santino 2000-2009; 2008-2011)
Mafie e globalizzazione La diffusione della mafie italiane nel mondo attuale (Forgione 2009) e la formazione e lo sviluppo di altre organizzazioni di tipo mafioso (clan corso-marsigliesi, clan turchi, mafie nei paesi ex socialisti, triadi cinesi, yakusa giapponese, cartelli colombiani e gruppi criminali in altri paesi dell’America latina, mafia nigeriana ecc.) sono effetto dei processi di globalizzazione che sono criminogeni per alcune ragioni di fondo: 1) l’aumento degli squilibri territoriali e dei divari sociali; 2) la finanziarizzazione dell’economia; 3) l’affermazione del neoliberismo. Negli ultimi anni i ricchi sono diventati ancora più ric-
chi, i poveri ancora più poveri: il 23 per cento della popolazione mondiale consuma l’80 per cento delle risorse, poco più di 300 persone a livello mondiale possiedono quanto due miliardi e 300 milioni di persone, cioè il 45 per cento della popolazione mondiale. Per molte aree del pianeta, l’Africa, l’America Latina, i paesi ex socialisti, buona parte dell’Asia, emarginate dalle dinamiche della globalizzazione che rafforzano i centri e dilatano le periferie, l’unica risorsa disponibile, o la più conveniente, è il ricorso all’accumulazione illegale, con la formazione e lo sviluppo delle mafie, cioè di soggetti professionali dell’accumulazione illegale (Santino 2007). La finanziarizzazione dell’economia ha comportato lo smantellamento dell’economia reale, produttrice di beni e servizi, ridotta ormai a una frazione minima dell’economia complessiva, e l’incremento vertiginoso degli scambi finanziari con mera funzione speculativa, con un movimento giornaliero di capitali superiore a 2.000 miliardi di dollari. Il sistema finanziario ha un alto tasso di opacità, con il proliferare dei paradisi fiscali e delle innovazioni finanziate (futures, derivati, hedge funds ecc.), per cui è diventato sempre più difficile distinguere flussi legali e illegali di capitali. Il Finanzcapitalismo si è imposto come “forma di potere in sé” (Gallino 2011, p. 6); la crisi degli ultimi anni è stata prodotta dal sistema finanziario che la sta risolvendo a suo favore, ricapitalizzando le banche e sottraendo altri capitali all’economia reale. Il neoliberismo si è imposto come “pensiero unico”, senza alternative; nel suo nome viene smantellato lo Stato sociale, il capitale delocalizza la produzione andando alla ricerca del lavoro a basso costo, annullando le conquiste dei lavoratori e condannando masse crescenti alla disoccupazione e alla precarietà. In questo contesto il “villaggio globale” è un grembo ospitale per le mafie, nei centri e nelle periferie del pianeta. Un’alternativa alle mafie e al capitalismo globalizzato può venire solo dalla reazione di grandi masse di emarginati se sapranno darsi un progetto e nuove forme di organizzazione. È la sfida del terzo millennio.
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Universalismo giuridico
e crisi dei valori e della società “moderna” di Ivano Spano L’attuale società, definita moderna o post-moderna, si regge sul modello economico capitalista che ne rappresenta la struttura fondante e centrale per la sua definizione e organizzazione. L’attuale fase di “sviluppo” caratterizzata dal processo di globalizzazione ha definitivamente e inequivocabilmente caratterizzato tale società come “società di mercato” dove, si afferma, operino individui liberi e indipendenti, tuttavia condizionati dal bisogno di possedere beni economici. Per questo, si danno un ordinamento giuridico e uno stato che sanzionano tali possibilità e regolano i rapporti conseguenti. L’immaginario moderno istituisce l’individuo libero e indipendente che entra in rapporto con altri individui soltanto tramite le leggi e il contratto giuridicamente sanzionato e pone, quale rappresentante della collettività, lo Stato (autorità astratta, potere impersonale che detiene il monopolio legale della forza). Nella società moderna il legame sociale è sostituito dal rapporto giuridico, la collettività dallo Stato, la ricerca della verità e della giustizia sono mosse dal calcolo di una razionalità strumentale sostanziata dalla ricerca dei mezzi più idonei per il raggiungimento di un fine (quest’ultimo sempre più esterno alla ragione stessa). Quando il legame sociale si traduce e si manifesta come rapporto giuridico significa che è istituito il divieto gene-
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rale di interferire in qualsiasi modo nella sfera altrui senza il possibile consenso dell’interessato ovvero, come afferma Kelsen “il diritto che spetta a ciascun soggetto su una cosa consiste nel potere a lui attribuito dall’ordinamento giuridico di impedire a qualunque altro soggetto di interferire nel godimento della cosa stessa”. Questo potere risiede nel meccanismo capace di attivare il potere coercitivo dello Stato, unico legittimo detentore della forza. Altrimenti, se si vuole ottenere il possibile godimento della cosa altrui è necessario stipulare, con quest’ultimo, un libero contratto, ovvero attivare un rapporto giuridico. Il diritto non è solo, quindi, un mezzo per risolvere i possibili conflitti, ma è il principio organizzativo-ordinatore mediante il quale i singoli individui entrano in rapporti reciproci. Ciò, comporta due conseguenze: nella modernità non ci può essere società senza l’istituzione del monopolio legale della forza (la cosiddetta “violenza legittima”) e questo monopolio legale esprime la funzione tecnica-pratica di impedire l’uso privato della forza (la violenza illegittima). Punto di riferimento dell’ordinamento giuridico è, dunque, l’individuo considerato isolato e la società appare “solo” come una trama di rapporti che si istituiscono mediante il diritto contrattuale. L’identificazione del legame sociale
con il rapporto giuridico consensuale e una novità assoluta nella storia e può considerarsi un carattere fondante della modernità e della salvaguardia del sistema capitalistico. Il perché di questo supera, probabilmente, la giustificazione immediata della necessità di un ordinamentoregolamenetazione della civile convivenza. Per Noberto Bobbio, questa convivenza ha imposto (almeno tendenzialmente) il “governo della legge” al posto del “governo degli uomini”. Ogni potere che viene esercitato non è più un potere personale, non riflette una posizione di un uomo rispetto a un altro, ma è fondato sulla legge, è autorizzato dalla legge, é legittimato dalla legge. Per Kelsen, il diritto è, essenzialmente, una tecnica di produzione di comandi, mediante procedimenti regolati dallo stesso diritto. Con questo vengono meno il governo diretto della forza, il potere assoluto, se pur sciolto nella legge, nonché il riferimento a una comunità omogenea fondata su identità di valori in cui, l’assenza del conflitto è immaginata come conseguenza del carattere organico dei rapporti sociali. Il diritto diviene un misuratore universale dei comportamenti. Rispetto a questo misuratore tutti i cittadini sono uguali e, di riflesso, tutti gli uomini sono cittadini. Il diritto (astratto) parifica, quindi, dal punto di vista formale le diversità profonde dell’esistenza umana.
Norberto Bobbio
Il diritto, allora, rende possibile l’obiettivo dell’unificazione di una società atomizzata e permette - la coesistenza di quel politeismo dei valori teorizzato da Weber e da Kelsen, - la possibilità della mancanza di valori assoluti e di verità ultime vincolanti, - l’atomizzazione e la dissipazione individuale della società, - di realizzare, allo stesso tempo, una unificazione profonda e forte della società degli atomi, in modo da impedire che l’individualismo si risolva nel disordine e nel conflitto permanente. E’ il trionfo dell’universalismo giuridico, dell’astrazione del diritto che segna l’inizio di un processo di desostanzializzazione e di devalorizzazione dell’individuo e della società (Pietro Barcellona, Dallo Stato sociale allo Stato immaginario). L’astrazione del diritto tende a neutralizzare le differenze o, quanto meno, a renderle contingenti (contigue quote ripartite e assegnate) e tuttavia ugualmente riconducibili a un unico misuratore quantitativo, a un equivalente generale dell’astrazione stessa. Nella concezione politica e dell’universalismo giuridico moderno si annida una sorta di concezione autoritaria dove è scarsamente possibile riconoscere “l’essere – altro dell’altro”. Questione razziale e neo-nazionalismi sembrano diventate questioni centrali del nostro tempo. Il germe della violenza verso il “diverso” è connessa, in
qualche modo, all’apparente unificazione giuridica dei cittadini che porta con sé il rifiuto del non omologabile, del non contingente. La struttura della nostra concezione del soggetto moderno impone di riconoscere solo l’identico, il simile a sé e trasforma automaticamente l’altro, il diverso, in strumento del proprio desiderio e del proprio bisogno: il bisogno coattivo di ridurre l’altro, il differente, a oggetto di dominio. L’universalismo giuridico si manifesta in tutte le sue contraddizioni. Apparentemente sembra capace di accogliere tutte le differenze e di istituire l’individuo singolo come titolare di diritto. Di fatto, neutralizza le differenze trasformandole in diversità riconducibili allo schema della transazione degli interessi. L’universalismo è, di fatto, troppo debole per reggere il peso delle differenze irriducibili, per definire modalità di cooperazione tra “diversi” che non si risolvono della neutralità dello scambio formale. Dall’altra è troppo forte come criterio unico di visibilità e rappresentabilità dell’individuo e della collettività, lasciando fuori campo ogni potere reale e ogni effettiva disuguaglianza. Come detto, con il formalismo giuridico e l’universalismo giuridico il potere si depersonalizza e al governo degli uomini si sostituisce il governo delle leggi. L’affermazione dell’eguaglianza formale rappresenta il grande espedien-
te, il grande artificio con il quale la borghesia, dopo aver vinto la sua rivoluzione, rinuncia apparentemente a una presa diretta del potere. Il potere borghese capitalismo non è visibile direttamente nell’ordine formale che viene istituito dall’eguaglianza dei diritti. Come afferma Kant, il grande teorico dello Stato di diritto e dell’eguaglianza formale, l’eguaglianza formale può ben coesistere con la disuguaglianza dei possessi. L’eguaglianza formale rappresenta l’istituzione di un grande ordine artificiale, sostitutivo del precedente ordine fondato sulla presunta naturalità dell’organizzazione gerarchica – feudale e istituisce, per la prima volta, l’articolazione delle diverse sfere in cui si differenziano i rapporti sociali: la sfera della politica e della economia (affidandone l’autonomia alla normatività giuridica che si pone, appunto, come forma generale dei possibili rapporti tra cittadini). Il paradosso di questa “messa in forma” della società moderna risiede nel fatto che il giuridico a cui spetta il primato e il compito di regolare i rapporti nei diversi ambiti, impedendo l’invasività del conflitto, è sostenuto da nient’altro che da una grundnorm (Kelsen), cioè da una grande norma che è una pura ipotesi: trattiamo gli uomini come se fossero uguali (oppure, l’ordinamento giudiziario è fondato da un “fatto costituente” irriducibile all’ordine che successivamente viene instaurato).
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L’universalismo giuridico si esprime attraverso norme prive di contenuto, forme vuote che i fatti devono riempire. Il paradosso di questa forma vuota sta nel fatto che proprio attraverso questo vuoto avviene continuamente una inversione tra fatto e valore. La norma è potente per la sua assoluta universalità e convenzionalità ma è anche assolutamente impotente perché subisce i contenuti che non riesce a determinare. La norma moderna è una norma che non decide, che regola il gioco ma non decide chi vince. Per questo, essa recepisce i contenuti di un altro gioco. Il primato dell’ordine artificiale è, in realtà, continuamente smentito dal primato dei rapporti economico-sociali: l’ordinante è, a sua volta, ordinato e la contingenza presupposta non consiste nell’informale accadere degli eventi ma nella necessitante organizzazione capitalistica dei rapporti sociali di produzione. Il diritto dello stato moderno afferma che tutti i cittadini sono pari soggetti di diritto poiché la legge è scritta in modo che , astrattamente, chiunque può ricorrere a essa, ma lascia fuori dalla porta le condizioni materiali che rendono effettiva questa possibilità. L’astrazione del diritto, l’artificialità dell’ordine giuridico, ci consegnano, dunque, alla realtà dei rapporti di forza che esprimono le condizioni materiali della nostra esistenza.
Come afferma Marramao, se la purezza della forma giuridica consiste nella sua astrazione, nella sua vuotezza e se non esiste limite sostantivo di contenuti e di valori, allora, anche l’ordine giuridico della procedura può essere travolto dalla contingenza e il diritto può essere rovesciato nella forza. Si potrebbe dire che la crisi del formalismo kelseniano è inevitabile: la forza dell’ordine può rovesciarsi dell’ordine della forza senza nessuna apparente soluzione di continuità (Pietro Barcellona, Le passioni negate). Da questo punto di vista anche la normalità é qualcosa che la teoria sociale ha sempre presupposto senza, però, chiarire contenuti e ambiti. Al suo posto si è sviluppata la concezione/conoscenza della anormalità nelle sue diverse forme ed espressioni: anormalità come diversità irriducibile. Sin dall’inizio, l’oggetto sociale è concepito come un oggetto patologico: la patologia è caratteristica costituzionale della macchina sociale. Scoprendo, di volta in volta, delle condizioni sostanzialmente patogene in grado, cioè, di minacciare la salute complessiva dell’organismo sociale, la scienza della patologia sociale ha contribuito a svalutare e delegittimare ogni aspetto autonomo, autoregolativo dell’azione umana e a trasformare l’azione in comportamento standard, pre-definito, rego-
lato. In questo senso, si può convenire sul fatto che il “dominio” pubblico possa non passare necessariamente attraverso la repressione, quanto attraverso il controllo, la regolazione e normalizzazione sociale. Come afferma Dal Lago (La produzione della devianza): “L’intervento dello stato in campo penale ha oggi una funzione sostanzialmente politica. Essa non ha lo scopo di eliminare la criminalità, ma quello di costituire costanti riserve di consenso e di legittimazione in una situazione in cui il richiamo ai valori dell’ordinamento giuridico e sociale è divenuto impraticabile”. E’ all’interno di questo approccio al problema dell’universalismo giuridico che prende corpo il lavoro di Isa Anastasia “L’universalismo giuridico. Indagine esplorativa sulle forze armate”. Questo, non senza prima analizzare come all’interno delle società moderne fondate sui principi dell’universalismo giuridico stesso, si collochino i temi del conflitto e della pace, della non violenza (Gandhi), del disarmo e del disarmo culturale (Panikkar). L’interrogativo fondamentale è se la leva umanitaria costituisce un tema eccellente su cui far convergere attenzioni di ordine politico, di ordine economico, di ordine morale. L’etica è, forse, catturata dalla politica?
Primo contingente interamente femminile del PLA cinese applicato in missioni di pace dell’ONU in Africa
Per la studiosa Marie-Dominique Perrot (Mondialiser le non-sense, L’age d’homme) ciò non sarebbe una novità, sostenendo che l’aggettivazione umanitaria, riferita a processi di ingerenza, costituisce una strategia di eufemizzazione che, in quanto tale, pertiene all’ingerenza senza qualificarla. Come se l’aggettivo “giusta”, riferito alla “guerra”, non riguardasse la guerra stessa, dura, crudele, spietata, disumana, ma la giustizia. E’, questa, la cultura dell’astuzia che vuol far credere nella ineluttabile riconciliazione tra due entità, riconciliazione, di fatto, inesistente o, di gran lunga labile, vaga. La compatibilità tra nome e aggettivo propone, per sostenersi, una conversione: quella di ingerenza convertita in cura altrui. Di fronte “all’ingerenza umanitaria” e alla “guerra giusta”, Pietro Barcellona (Le passioni negate), sottolineando la mistificazione in atto, pone la questione se “è lecito domandarsi se si può continuare a parlare di ‘modernità incompiuta’ o se si deve, ormai, riconoscere che quanto sta accadendo è immanente al codice genetico della modernità, al dispiegarsi compiuto del suo progetto di dominio razionale sulla natura e sugli uomini”. E’, forse, questa modernità una finzione della storia? E’ così che la ricerca di Isa Anastasia
pone al centro delle problematiche connesse all’universalismo giuridico la “questione militare” in cui il formalismo giuridico (stato maggiore, comando, ordine...) produce comportamenti che possiamo definire “marziali” riducendo il soggetto a meccanico oggetto del diritto. In questo ambito, allora, che rapporto può porsi tra soggettività e guerra “giusta”, tra la tutela della propria vita e la tutela della vita degli altri, tra conflitti etnici, economici e operazioni di peacemaking e peacekeeping? Dalla ricerca di Isa Anastasia, ricerca qualitativa che meriterebbe di essere maggiormente estesa per la sua rilevanza sociale, culturale e politica, appaiono tutte le contraddizioni aperte dalla crisi dell’universalismo giuridico verso l’esigenza di un accordo reali tra forma e sostanza ovvero tra l’affermazione di diritti che possiamo ritenere universali e modalità di conquistarli e mantenerli. Emerge il sentimento di una possibile trasformazione storica: da una società obbediente a una società condividente, partecipativa, autopoietica. Una società mondo, insieme di nazioni, di popoli, di comunità, di etnie, di soggetti che solo potrà lottare contro le catastrofi delle società attuali per la salvezza collettiva, altrimenti la catastrofe sarà la salvezza stessa. Questo significa anche produrre concretamente limiti alla espansione dei rapporti mercantili e sviluppare regioni, aree a economia sociale – cooperativistica secondo un concetto di sviluppo auto sostenibile, adeguato e conforme alle esigenze di ogni comunità, di ogni gruppo umano. E’ necessario definire, quindi, collettivamente una ipotesi, un “progetto” di politica sociale che renda visibile la coincidenza tra divenire individuale e trasformazioni sociali. Occorre aprire un orizzonte progettuale in grado di agire “produzione di territorio” come bene che produce la forma, la qualità e lo stile dell’insediamento umano. Hoederlin, in questo senso ha parlato di “abitare poeticamente la terra” ossia della necessità di rompere la razionalità del calcolo dell’uomo sulla natura, per liberare quelle potenzialità, quelle modalità espressive, creative e relazionali che ci rimandano alla memoria dell’unità mitica tra uomo e natura, tra uomo e uomo, al punto che il mondo sia veramente il nostro mondo.
In conclusione, potremmo citare quelle che sono state indicate da Ernesto Baroni (Dalla sovranità degli stati alla sovranità personale e comune dei cittadini) come le 5 rivoluzioni copernicane che potrebbero caratterizzare la nostra epoca: 1. Il passaggio dall’autorità morale posta fuori di noi, all’autorità morale fondata sulla coscienza personale, 2. Il passaggio dalla cultura come possesso del sapere e monopolio dell’informazione, alla cultura come ricerca della conoscenza dei processi e delle esperienze reali attraverso il dialogo, la riflessione, la condivisione, 3. Il mutamento radicale della politica retta dalla gestione dei rapporti di forza, alla politica come arte della comunicazione, delle sinergie tra i progetti, della espressione diretta delle risorse e della capacità autopoietica delle comunità insediate, singoli e gruppi, 4. Il mutamento dell’economia come accumulazione di capitali e sfruttamento indiscriminato delle risorse, all’economia come realizzazione di progetti umani in relazione con l’ambiente, nell’ottica dell’autosostenibilità e dell’esercizio di governo diretto da parte della comunità insediata, 5. Il passaggio dalla sovranità astratta degli stati, alla sovranità personale e comune dei cittadini, nonché il passaggio dalla proprietà privatapubblica alla proprietà personalecomune. E’ questa, forse, la rivoluzione pacifica che è in atto e che ci attende. Come tale non può essere pianificata o decretata. Non osserverà una serie di norme emanate da uno stato, da élites o da costruttori di modelli per calcolatore. Se si compirà sarà organica ed evolutiva. Sorgerà dall’immaginazione, dall’intuizione, dagli esperimenti e dalle azioni mosse, dal cuore e dalla mente, di molti individui. Il suo peso non ricadrà sulle spalle di singole persone o di un gruppo identificabile. Nessuno ne godrà il credito, anche se a qualcuno potrà toccare qualche insulto o qualche biasimo. E ciascuno potrà contribuirvi. Riscopriremo, così, il senso della nostra appartenenza non già nella figura dell’utopia o del progetto predeterminato ma nella proliferazione dei percorsi evolutivi e biografici: natura e storia intrecciate negli infiniti racconti della complessità.
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L’analogia tra l’attuale decadenza della società occidentale e quella dell’Impero romano
(parte 1 di 3)
di Alberto Donati Prologo Negli articoli precedenti si sono posti in evidenza gli attuali caratteri della società occidentale. Come si è visto, essi, indotti dalla lobby capitalistica, sono tali da causare la decadenza dei suoi tradizionali valori ordinanti: il primato del “Libro della Natura” (“Liber Naturae”) sul “Libro della Scrittura” (“Liber Scripturae”), vale a dire, l’esaltazione della cultura umanistica e scientifica di contro ai fondamentalismi religiosi; la moralità implicata dalla preminenza della famiglia in quanto cellula dell’organismo sociale, in quanto “piccolo Stato” (“parva respuplica”); l’autonomia dell’essere umano significata dalla sua “dignità inerente” (“inherent dignity”), così definita in quanto connessa alla presenza dei “diritti innnati” (“inhernt rights”, “natural rights”). A tale decadenza si correla il pericolo di un secondo Medio Evo, a fondamento capitalistico, ben più terribile del primo in considerazione degli strumenti di controllo della persona umana messi a disposizione delle oligarchie capitalistiche e religiose dalla scienza. In Italia è già possibile notare il controllo sempre più invasivo dei mass media, in particolare, della televisione di Stato, da parte della gerarchia cattolica
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(papista), il suo impiego spregiudicato al fine di inculturare e di assoggettare il popolo italiano. Si potrebbe, tuttavia, pensare che questo quadro, pur non essendo privo di precisi riscontri fattuali, sia anche il prodotto di una visione pessimistica, in quanto tale, meramente soggettiva. Ma non è così poiché lo sfaldamento della società civile, pur informata, sostanzialmente, a quei medesimi valori, è una esperienza storicamente già vissuta avendo avuto luogo nel quadro della decadenza dell’Impero romano. Le cause sono le stesse: formazione dell’oligopolio avente ad oggetto gli strumenti della produzione economica; la riduzione dell’essere umano ad appendice di tale apparato; la diffusione del multiculturalismo e, quindi, del nichilismo; la propagazione della immoralità correlata alla decadenza della famiglia; infine, l’induzione del protagonismo del cristianesimo cattolico. Le pagine che seguono sono, pertanto, dedicate alla descrizione della precisa analogia esistente tra il presente e questa esperienza storica, ad invitare a prendere consapevolezza della strategia elaborata dalle lobbies capitalistiche e religiose al fine di asservire definitivamente l’essere umano.
SOMMARIO: PARTE I. LA FISIONOMIA DELLA SOCIETA’ ROMANA NEL PERIODO IMPERIALE 1. Motivazione dell’indagine. -2. I caratteri della società romana nel periodo imperiale. L’oligopolio terriero. -3. La pax romana. -4. Il cosmopolitismo e l’affermazione della filosofia scettica. -5. Il venir meno del bonum commune, lo scadimento dello spirito patriottico. -6. Dall’etica rigoristica all’etica edonistica. -7. La decadenza della famiglia. -8. La diseducazione dei giovani. -9. La formazione della giurisprudenza arbitraria. -10. Lo scadimento dell’ars oratoria. -11. L’assolutismo politico. PARTE II. LA CATTOLICIZZAZIONE DELL’IMPERO ROMANO 12. Dall’umanesimo classico all’umanesimo cristiano. -13. La sussunzione del nichilismo nel “pirronismo cristiano”. -14. Riepilogo. PARTE III. LE ANALOGIE TRA LA SOCIOLOGIA CAPITALISTICA E LA SOCIOLOGIA DEL PERIODO DELLA DECADENZA DELL’IMPERO ROMANO 15. La rilevanza politica e culturale della analogia tra periodi storici. -16. Le analogie strutturali tra la feudalità terriera e la feudalità capitalistica. -17. Le analogie sovrastrutturali: la a-nomia etica. - 18. Sintesi delle analogie. -19. Conclusione. PARTE IV. L’ALTERNATIVA: LA RIPROPOSIZIONE DELLA CULTURA DELL’UMANESIMO 20. Le religiosità come fonti di politeismo e di scetticismo. -21. Religiosità e filosofia. -22. Il ritorno a Dio inteso come summa Ratio, unica possibilità di salvezza per l’uomo
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PARTE I LA FISIONOMIA DELLA SOCIETA’ ROMANA NEL PERIODO IMPERIALE
1. — Motivazione dell’indagine Così come la società romana, informata al primato di una theologia naturalis in cui Dio è concepito come summa Ratio, al conseguente primato degli jura naturalia (nei termini consentiti dai tempi), trapassa in una società caratterizzata dal dominato politico, dall’oligopolio fondiario, dal multiculturalismo e, quindi, dal nichilismo, per poi rinvenire nel cristianesimo la sua compiuta espressione, analogamente, con un ricorso vichiano, la società moderna, originariamente incentrata sul deismo illuministico, sulla conseguente vigenza degli human rights, sulla individualità dell’iniziativa economica, sta assumendo un assetto caratterizzato dall’oligopolio capitalistico, dal dominato politico cui esso dà luogo, dal multiculturalismo e, quindi, dal nichilismo, sta tornando a rinvenire nel cristianesimo, separato dall’Illuminismo, la propria teologia ordinante. Per meglio evidenziare il mutamento a livello sovrastrutturale in atto, conviene, pertanto, approfondire lo studio della società romana, del suo essere involuta nella adozione del cristianesimo cattolico per il cui superamento si sono resi necessari: 1517 anni, assumendo come punto di riferimento l’inizio della Riforma; 1648 anni, assumendo come punto di riferimento la conclusione vittoriosa per l’area riformata della Guerra dei trent’anni; 1688 anni, assumendo come punto di riferimento la “Gloriosa rivoluzione” inglese; 1776 anni, assumendo come punto di riferimento la dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti; 1789 anni, assumendo come punto di riferimento la rivoluzione francese e la connessa “Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen”.
2. — I caratteri della società romana nel periodo imperiale. L’oligopolio terriero I caratteri fondamentali della società romana nel periodo imperiale ne spiegano la progressiva decadenza. Il primo, è di natura economica e consiste nella formazione del latifondo, dell’oligopolio terriero, alimentato dal lavoro degli schiavi. Questo evento si connette, da un lato, alla scomparsa della classe degli agricoltori, dei liberi proprietari di fondi, del nerbo della società romana, dall’altro, alla permanenza dei proprietari appartenenti alla classe dei senatori, divenuti latifondisti. L’impiego degli schiavi importa la svalutazione e la diminuzione della redditività del lavoro libero, della sua valenza culturale, politica ed etica, induce un conseguente decadimento dello spessore etico della società civile. La rendita latifondista diviene la categoria economica e politica ordinante. Essa è il corrispettivo che la società civile deve pagare per l’acquisizione delle derrate alimentari detenute in regime di oligopolio dai proprietari terrieri. La concentrazione del capitale fondiario nelle mani della oligarchia, induce la progressiva scomparsa del ceto medio, l’accrescimento della povertà della base sociale: “Questo quadro dell’Italia sotto l’oligarchia è un quadro raccapricciante. La fatale antitesi tra il mondo dei mendicanti e il mondo dei ricchi non vi era affatto attenuata o mitigata. Quanto più [...] la ricchezza saliva a vette vertiginose, quanto più profondo si apriva l’abisso della miseria [...]. Quanto più questi due mondi si avversavano,
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tanto più si incontravano per distruggere la vita domestica, perno e nerbo di ogni nazionalità, nella medesima pigrizia e dissolutezza, nella stessa dissipazione e nella stessa codarda indipendenza, nella stessa corruzione diversa soltanto nella tariffa, nella stessa capacità a delinquere [...]. Ricchezza e miseria intimamente congiunte cacciarono gli Italici dall’Italia e riempirono metà della penisola d’un formicolio di schiavi e l’altra metà d’uno spaventoso silenzio. È un quadro orrendo ma non è caratteristico; la stessa situazione finisce col verificarsi sempre là dove in uno Stato si sviluppa il dominio dei capitalisti. Come i torrenti brillano di diversi colori, ma le cloache si vedono uguali dappertutto, così anche l’Italia dei tempi di Cicerone assomiglia essenzialmente all’Ellade di Polibio, e meglio ancora alla Cartagine del tempo di Annibale, dove in modo affatto simile il capitale, che dominava onnipotente, aveva rovinato il ceto medio, fatto salire al massimo splendore il commercio e l’economia dei latifondi, e infine condotta la nazione a una putredine morale e politica intonacata d’una luccicante vernice. Tali gli enormi danni che il capitale ha sempre causato alle nazioni e alle civiltà, e che continua a causare nel mondo odierno” (T. Mommsen).
3. — La pax romana Un ulteriore carattere della società romana, che concorre ad indurne la progressiva decadenza, è individuato da un evento glorioso, la fine delle guerre puniche (anno 146 a.c.). Da questo momento si inaugura la pax romana, non nel senso che Roma non abbia più bisogno di guerreggiare, bensì nel senso che essa non ha più nemici che possano metterne in pericolo il primato. Come osservato da Montesquieu, “Più [...] [gli] Stati sono sicuri, più, come acque tranquille, sono soggetti alla corruzione” (Montesquieu). Da questo stesso momento, inizia a dispiegarsi, con un procedimento irreversibile, la decadenza morale della società romana. La virtus non è, infatti, più necessaria al fine di conservare la società, i costumi possono rilassarsi. È a partire da questo momento che iniziano ad operare le ulteriori cause della decadenza così sintetizzabili: l’induzione del pluralismo culturale correlato allo scetticismo; lo scadimento dello spirito patriottico; la decadenza morale; la decadenza della famiglia; lo svilimento dell’educazione giovanile; la crisi della giustizia; l’inaugurazione dell’assolutismo politico; l’affermazione del cristianesimo.
4. — Il cosmopolitismo e l’affermazione della filosofia scettica A seguito della sua espansione imperiale, Roma diviene una capitale cosmopolita, cui consegue il pluralismo culturale. Lo scetticismo ne diventa la fonte di legittimazione filosofica. Se si dà il pluralismo delle verità, nessuna è realmente tale. Di conseguenza, il nichilismo assurge al rango di valore filosofico ordinante, assumendo così anche il ruolo di causa ulteriore della decadenza dell’impero. Esso è espresso dal passaggio dal politeismo proprio della cultura romana, quantunque, in realtà, un monoteismo panteistico, posto in un rapporto di consonanza con la virtus romana, al politeismo come conseguenza della fisionomia cosmopolita acquisita dallo Stato romano in seguito alla sua espansione. Si verifica, in tal modo, la kenosis, vale a dire, lo scadimento qualitativo delle divinità (c.d.) pagane.
Questo transito è espresso da Cicerone nei seguenti termini: “Potete ora constatare come partendo da eccellenti ed utili scoperte relative al mondo della natura si sia giunti ad ammettere, come ovvia conclusione, dèi falsi ed immaginari: di qui false opinioni, errori conturbanti e superstizioni poco meno che senili. Abbiamo così imparato a conoscere l’aspetto degli dèi, la loro età, i loro abiti e i loro ornamenti nonché il loro sesso, i loro matrimoni e i loro rapporti di parentela e il tutto abbassato al livello delle umane debolezze. Basti dire che vengono rappresentati in preda alle passioni e la tradizione ci informa dei loro desideri, delle loro amarezze, dei loro sfoghi d’ira. Non furono neppure indenni da guerre e battaglie, come riferiscono le leggende, e non si limitarono, secondo quanto narra Omero, a parteggiare per l’uno o per l’altro di due eserciti in lotta, ma combatterono proprie battaglie, come quelle contro i Titani e contro i Giganti. Trattasi di credenze più che sciocche che rivelano solo un’estrema superficialità e leggerezza. Ad ogni modo però, pur disprezzando e respingendo codesti racconti favolosi, potremo ugualmente riconoscere l’esistenza e la natura della divinità presente in ciascun elemento - Cerere sulla terra, Nettuno nel mare, altri altrove - ed apprenderne il nome consacrato dall’uso: e questi dèi è nostro dovere rispettare e venerare. Non v’è nulla di più elevato, di più puro, di più venerando e di più sacro del culto degli dèi purché li si venerino con purezza, rettitudine ed integrità di mente e di parola” (M.T. Cicerone). Tale assetto è indotto dalla necessità, per la città di Roma, in quanto capitale dell’Impero, di rappresentare la totalità delle religioni proprie dei popoli assoggettati. Non l’integrazione delle loro culture con quella romana, non la formazione di una corrispondente κοινή (koinè) religiosa, ma la compresenza di religiosità diverse, ciò che induce, fatalmente, il primato del nichilismo, in quanto unica filosofia capace di coordinare verità diverse ed opposte mediante la pratica della tolleranza: Nel mito di Hermes, che ne costituisce una significativa rappresentazione, “troviamo la negazione dei principi di identità, di non contraddizione e del terzo escluso, e le catene causali si riavvolgono su se stesse in spirali: il ‘dopo’ precede il ‘prima’, il dio non conosce limiti spaziali e può, in forme diverse, essere in posti diversi allo stesso tempo. Hermes trionfa nel II secolo dopo Cristo. Il II secolo è un periodo, dal punto di vista politico, di ordine e pace, e tutti i popoli dell'impero sono apparentemente uniti da un linguaggio e da una cultura comuni. L'ordine è tale che nessuno può sperare di cambiarlo con un qualunque tipo di operazione militare o politica. [...] il mondo del II secolo è un crogiolo di razze e lingue; un crocevia di popoli e idee, un mondo in cui tutti gli dèi sono tollerati. In precedenza questi dèi avevano significato qualcosa di molto profondo per la gente che li aveva adorati, ma quando l'impero aveva inghiottito i loro paesi, aveva anche dissolto la loro identità: non ci sono più differenze tra Iside, Astarte, Demetra, Cibele, Anaitis e Maia. [...] Nell'ambito di questa dimensione sincretistica, uno dei principi del razionalismo greco, quello del terzo escluso [o A è vero o A è falso, tertium non datur], entra in crisi. È possibile che molte cose siano vere allo stesso tempo, anche se si contraddicono l’un l'altra” (U. Eco); “Il principio razionalista del post hoc, ergo propter hoc [dopo questo, pertanto a causa di questo] viene sostituito dal post hoc, ergo ante hoc [dopo questo, quindi, prima di questo]” (U. Eco).
L’epicureismo, come teorizzato da Tito Lucrezio Caro, è significativo della inversione filosofica ed etica che ha luogo nella società romana. La cultura tradizionale divenuta, di fatto, “gretto legalismo: morta lettera accettata senza assenso” (V.E. Alfieri), viene sostituita dal diffondersi di questa filosofia assai più adatta a giustificare e ad ispirare il lassismo dei costumi. Non che gli Dèi non esistano, ma, pur esistendo, non si occupano delle cose umane, l’uomo è “gettato” in questo mondo e deve provvedere al meglio alle proprie necessità senza che ciò implichi la presenza di una teleologia cosmica, di una teleologia metafisica. È in questo contesto che si sviluppa lo gnosticismo, prodromico del cristianesimo. Nella cultura greca, “gnosi significava vera conoscenza [...] in quanto opposta alla semplice percezione (aisthesis) o all’opinione (doxa). Ma nei primi secoli dell’era cristiana, la parola venne a significare una conoscenza metarazionale e intuitiva, il dono divinamente concesso o ricevuto da un intermediario celeste e che ha il potere di salvare chiunque riesca a conseguirlo. La rivelazione gnostica dice in forma mitica come la divinità stessa, essendo oscura e inconoscibile, contenga già in sé il germe del male e dell’androginia che la rende contradditoria fin dall’origine, poiché non è identica a se stessa [i.e., non è omogenea]. Il suo esecutore subordinato, il Demiurgo, dà vita a un mondo sbagliato e instabile in cui una porzione della stessa divinità cade come in prigionia o in esilio. Un mondo creato tramite l’errore è un cosmo abortito” (U. Eco).
5. — Il venir meno del bonum commune, lo scadimento dello spirito patriottico Il valore ordinante il comportamento del cittadino romano fino alla conclusione delle guerre puniche era costituito dal perseguimento del bonum commune, dalla sua sovraordinazione rispetto al suo interesse personale. Come ricordato da Agostino (per altro, cristianamente in chiave critica), “i Romani disprezzarono gli interessi privati per l’interesse comune che è lo Stato e per il suo erario, resistettero all’avarizia, provvidero alla patria con libere consultazioni e in virtù delle proprie leggi non furono soggetti alla delinquenza e alla passione. Con tutte queste belle doti aspirarono come per una via giusta agli onori, al potere e alla gloria. Sono stati onorati quasi presso tutti i popoli, hanno imposto le obbligazioni del potere a molti popoli ed oggi hanno la gloria pressoché in tutti i popoli nella letteratura e nella storia” (Agostino (santo)). La perdita della valenza ordinante propria del bonum commune, la preminenza dell’individualismo causa ed effetto, al tempo stesso, del pluralismo culturale e del diffondersi dell’epicureismo, è un ulteriore profilo che segna la decadenza romana: “in Epicuro abbiamo la completa, la più recisa, svalutazione dell’azione, in nome dell’egoismo e del piacere individuale, coll’affermazione della priorità di valore della vita contemplativa [...] esso negava la vita politica e la totale soggezione dell’individuo alla Città. L’individuo è posto solo e assoluto in se stesso, irrelativo agli altri elementi della realtà [...]. Ora, benché a Roma la Città fosse rimasta appena una parola, un mito, tuttavia [...] il sensus civitatis, come anche la pietas, rimanevano per forza d’abitudine, per tradizione, per gretto legalismo: morta lettera accettata senza assenso, ma che non si poteva violare.
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E l’epicureismo toglieva il sensus civitatis, negando la Città, e toglieva la pietas, negando la religione degli dèi, richiedeva un’ascesi di rinunzia rivolta alla vita contemplativa, richiedeva, insomma, tutto ciò che i romani non potevano dare. La parola dell' epicureismo urtava contro la vita pubblica romana: come quella che negava tutta una tradizione, tutta una storia, da cui era naturale che gli uomini non si potessero distaccare facilmente” (V.E. Alfieri). Tuttavia, l’epicureismo, formalmente rifiutato dalla cultura romana, di fatto, ne diviene, sino alla definitiva affermazione del cristianesimo, lo spirito informatore, come anche attestato dalla seguente testimonianza di Cornelio Tacito: “costoro che istigano ad abbandonare i reparti e a lasciare il campo [...] sono ascoltati liberamente nell’assemblea; al punto che, qualunque cosa dica un tribuno della plebe, anche se mira a tradire la patria e a distruggere la Repubblica, voi, o Quiriti, siete avvezzi ad ascoltarlo e, presi dal fascino che esercita su di voi quella magistratura, consentite che sotto di essa si nasconda qualsiasi misfatto. [...] perché in questo appunto consiste la libertà di Roma, nel non rispettare né il Senato, né i magistrati, né le leggi, né i costumi degli antenati, né le istituzioni dei padri, né la disciplina militare” (Tito Livio). Tale decadimento è anche reso tramite il venir meno della distinzione tra l’“uomo pubblico” e l’“uomo privato”. Essa stava a significare la preminenza del primo sul secondo, la sovraordinazione del bonum commune, del bonum civitatis (“benessere dello società”), al bonum individuale. Nel processo della decadenza questa relazione gerarchica si inverte: “Si iniziava una nuova vita, più incomposta, meno severa, ma non perciò meno importante nella storia. Lo spirito della civitas era morto. Tolto quel giogo, la Città restava un mito campato in aria; e irrompevano sulla scena, in una lotta turbinosa di individualità contrastanti e di interessi cozzanti, finalmente, gli uomini: uomini interi e non più unicamente cives” (V.E. Alfieri), in quanto tali posti in un rapporto di estraneità con i valori che avevano fondato la grandezza di Roma.
6. — Dall’etica rigoristica all’etica edonistica L’etica classica era informata al primato della ragione, alla capacità di quest’ultima di presiedere al governo delle passioni promananti dalla corporeità. Questa relazione gerarchica si inverte. Tale evento, come riferito da Agostino, è visivamente rappresentato da un quadro in cui è la voluttà a presiedere sulle virtù: “Nel quadro la voluttà è assisa in trono come un’affascinante regina, le virtù le sono soggette come serve, intente a spiare un suo cenno per eseguire il suo comando, e cioè gli ordini che impartisce alla prudenza affinché con vigilanza cerchi il modo con cui la voluttà possa dominare e conservarsi; alla giustizia affinché accordi i favori di cui dispone per acquistare le amicizie indispensabili ai vantaggi materiali e non commetta ingiustizia contro gli altri perché non avvenga che a causa della violazione delle leggi la voluttà non possa vivere tranquilla; alla fortezza affinché, se sopravverrà un dolore fisico che non conduce alla morte, mantenga coraggiosamente nel pensiero la propria padrona, cioè la voluttà, allo scopo di mitigare le fitte del dolore presente col ricordo dei precedenti godimenti; alla temperanza per farle usare dei cibi e degli altri piaceri nel giusto limite, affinché non avvenga che con la smodatezza qualche cosa di nocivo turbi la salute e si pregiudichi così la voluttà che gli Epicurei ripongono prevalentemente nel benessere fisico. In que-
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sto modo le virtù con tutta la gloria del proprio valore obbediranno alla voluttà come a un’imperiosa e laida donnicciola” (Agostino (santo)). Per questa via, “la pubblicità è concessa alle opere disonorevoli, la segretezza alle opere lodevoli; la dignità è nascosta, l’indegnità palese; un’azione cattiva richiama tutti a osservarla, la parola buona trova appena alcuni ad ascoltarla, come se ci si debba vergognare dell’onestà e gloriare della disonestà”; “i nostri antenati [...] [ebbero] le doti che li resero grandi e che a noi mancano: l'operosità in privato, una giusta amministrazione in pubblico, l’animo libero nelle decisioni, non soggetto alla delinquenza e alla passione. A loro posto noi abbiamo la dissolutezza e l’avarizia, nell’amministrazione dello stato il dissesto, in quella privata l’abbondanza. Apprezziamo la ricchezza e facciamo l'ozio, non esiste distinzione fra onesti e disonesti, l'ambizione usurpa le prerogative della virtù. [...] ne consegue un assalto allo stato privo di difensori” (così, sul piano descrittivo, Agostino (santo)); “la città fu depravata dal lusso e dall’inerzia” (Agostino (santo)). La pratica della dissolutezza è accompagnata, legittimata e diffusa, dalla pratica di culti religiosi immondi, da rappresentazioni artistiche, in particolare, da quelle poetiche e teatrali, anch’esse immorali. Mentre, in precedenza, i romani “Esercitavano queste arti con tanto maggiore bravura quanto meno si davano ai piaceri e all’infiacchimento spirituale e fisico” (Agostino (santo)), in seguito, non sono più le divinità a vietare l’immoralità, ma sono esse stesse che la pretendono, punendo il comportamento opposto: “Apertamente in pubblico sconcezze mischiate a crudeltà, azioni disonorevoli e delitti delle divinità, compiuti o inventati, divennero celebri perché furono loro consacrati e dedicati in determinate solennità fisse dietro loro richiesta e col rischio della loro collera se non si eseguivano. Si affermarono così come spettacolo agli occhi di tutti per essere proposti all’imitazione. Dunque i dèmoni rivelano con piaceri di tal fatta di essere spiriti immondi, con le proprie dissolutezze e malvagità tanto vere che simulate confermano di esser fautori di scelleratezze e disonestà chiedendo agli svergognati la celebrazione di fatti simili ed estorcendola ai timorati” (Agostino (santo per la Chiesa)). Il processo di decadimento dei costumi è espresso dalla sostituzione della pietas erga Deum (devozione verso Dio), erga parentum (verso gli ascendenti), erga patriam (verso la società tramandata dagli ascendenti stessi) (Digesta Iustiniani, 1, 1, 2), con il valore del ludus, vale a dire, con l’edonismo: lustra, libidines, luxuries. Si sviluppano, così, due superstitiones, la superstitio aristocratica avente ad oggetto lo studio della filosofia, di questa branca del sapere importata dalla Grecia, che, però, non viene più intesa come via ad Deum, ma come legittimazione dello scetticismo. Accanto ad essa, si sviluppa la superstitio popolare avente ad oggetto l’introduzione di culti nuovi, anche orgiastici. Queste superstitiones si risolvono nella affermazione dell’individualismo edonistico, nella pratica, appunto, del ludus. Non più il bonus vir, vale a dire, colui che si attiene ai precetti etici, che, pertanto, si relaziona alla donna mediante il matrimonio, dando luogo ad una famiglia ordinata prodromica di una società civile specularmente ordinata, ma un individuo irrelato (malus vir), privo ormai del sensus civitatis, indifferente, quindi, al bonum commune, ovvero relazionato agli altri in quanto fonti del proprio vantaggio: l’individualismo diviene “sbrigliato padrone” (V.E. Alfieri).
7. — La decadenza della famiglia La famiglia è una ulteriore sede in cui è possibile verificare lo spessore della decadenza morale della società romana. Originariamente, la famiglia, conformemente alla filosofia intellettualistica, è intesa come “parva res publica” (“lo Stato in piccole dimensioni”) poiché così come essa si configura, parimenti, la società politica, non potendosi dare uno Stato ordinato sulla base di un istituto famigliare disordinato. Perciò, la famiglia è anche definita “seminarium rei publicae” (“semenzaio dello Stato”). Nel periodo della decadenza della società romana, dalla sua valenza giuspubblicistica si transita progressivamente ad una valenza giusprivatistica. Indicativa, al riguardo, è l’analisi differenziale che Cornelio Tacito traccia rispetto all’incorrotto costume dei Germani (a suo tempo proprio anche della società romana): “nei rapporti matrimoniali vige una austerità che costituisce l’aspetto più encomiabile dei loro costumi. Infatti, quasi unici tra le stirpi barbare, i Germani si accontentano di una sola moglie, tranne pochi che, non per eccesso di sensualità, ma per questioni di nobiltà, ricevono varie proposte di matrimonio. Non è la moglie che porta la dote al marito, bensì il marito a offrirla alla moglie: di tale gesto sono testimoni i genitori e i parenti, che valutano e apprezzano i doni. [...] Vivono quindi in castità ben salvaguardata, e non si lasciano corrompere dagli allettamenti degli spettacoli o dai banchetti che eccitano le passioni. Uomini e donne allo stesso modo ignorano lo scambio di segrete lettere d’amore. Gli adulteri sono rarissimi presso queste genti così numerose; la punizione per tale colpa è immediata e affidata al marito: di fronte ai parenti stretti caccia di casa l’adultera, denudata e coi capelli rasati e, spingendola con la frusta, le fa attraversare tutto il villaggio. Per l’onore prostituito non è ammesso perdono: né la bellezza, né la giovane età, né le ricchezze potrebbero procurarle un nuovo marito. Nessuno dei Germani, infatti, irride l’adulterio, e non si definisce un fatto di moda il corrompere e il lasciarsi corrompere. [...] Così come hanno un solo corpo e una sola vita, prendono anche un solo marito; nessun pensiero oltre a quello, né un desiderio più ampio, e non tanto lo amano come marito, ma piuttosto come simbolo del matrimonio. Limitare il numero dei figli o uccidere i figli successivi al primo è ritenuto un crimine: le loro buone tradizioni hanno più valore di quanto altrove ne abbiano le buone leggi” (C. Tacito). Il decadimento della famiglia si svolge parallelamente alla emancipazione della donna sia dalla dipendenza paterna, sia da quella maritale e alla acquisizione di un protagonismo tanto in campo economico, quanto in quello politico: “le donne [...] facevano anche della politica; apparivano nelle assemblee dei partiti e prendevano parte con il loro denaro e con i loro intrighi alle sfrenate consorterie del tempo. [...] Chi vedeva donne agire sullo stesso scenario politico di Scipione e di Catone e accanto ad esse vedeva [...] il giovane elegante con il mento liscio, con la sua fine voce [...], poteva ben raccapricciare dinanzi a un mondo innaturale nel quale i sessi sembravano dover cambiare le parti” (T. Mommsen). Correlativo, il fenomeno della facilità dei divorzi, e dei matrimoni senza prole o con il minor numero di figli, il calo demografico della popolazione propriamente romana, parte costitutiva della grandezza di Roma: “Dove erano i tempi nei quali per i Romani la qualifica di procreatori di figli (proletarius) costituiva un titolo d’onore?” (T. Mommsen). La vastità dell’Impero importava che i servizi pubblici e le
attività economiche ad essa connesse, tenessero “occupata fuori del paese una gran parte dei proprietari di latifondi e quasi tutta la classe dei commercianti se non per tutta la vita, però sempre per lungo tempo, e disabituava particolarmente quest’ultima al vivere cittadino nella madre patria, e a quello nell’ambito della famiglia, [...] demoralizzandola con la vita nomade” (T. Mommsen). Al tradizionale protagonismo maschile nell’intrecciare relazioni sentimentali, si affianca quello femminile, “Intrighi amorosi d’ogni sorta erano all’ordine del giorno” (T. Mommsen).
8. — La diseducazione dei giovani Alla decadenza della famiglia, al venir meno della valenza ordinante propria del bonum commune, fa seguito la corruzione dei giovani. Significativa, anche in questo caso, è la testimonianza di Cornelio Tacito: “voglio [...] ricordare la severa disciplina dei nostri antenati riguardo all’educazione e formazione dei figli. Ciascuno anticamente faceva allevare il proprio figlio, nato da casta genitrice, non nella cella di una nutrice pagata, ma in grembo e in seno alla madre, la cui precipua lode era il governo della casa e la cura dei figli. Si sceglieva poi una parente attempata, di provati e stimati costumi: a lei si affidava tutta la prole di una stessa famiglia; e in sua presenza non era lecito dire turpitudini né fare cosa che paresse disonesta. Ella con un certo sacro ritegno e con verecondia, dirigeva, assistita dalla madre, non solo gli studi e le occupazioni, ma anche le distrazioni e i giuochi dei fanciulli. [...] Questa severità tendeva a far sì che la natura di ciascuno, sincera e intatta né distorta da alcuna perversione, avvertisse subito nell’animo l’attrazione per le arti liberali, e sia che inclinasse alla milizia o alla scienza del diritto o allo studio dell’eloquenza, non ad altro pensasse che a questo e di questo solo colmasse lo spirito” (C. Tacito); “Ma oggi affidano l’infante a una qualunque ancella greca, cui si aggiunge l’uno o l’altro dei servi, presi a caso fra tutti, un buono a nulla, inetto a qualsiasi lavoro serio. I verdi e teneri e ignari animi s’imbevono subito delle favole e dei pregiudizi di costoro; e nessuno si preoccupa in tutta la casa di quel che si dice o fa alla presenza del piccolo padrone. Anzi, gli stessi genitori abituano i fanciulli non già all’onestà e alla modestia, ma alla licenza e al motteggio canzonatorio: così che lentamente s’insinua nell’animo l’impudenza e il disprezzo di se stessi e degli altri. Mi sembra veramente che i vizi propri e particolari di Roma siano concepiti quasi nel ventre materno, voglio dire la frenesia per gli istrioni e la passione per i gladiatori e per le corse dei cocchi. E un animo occupato e assediato da siffatte cure quale posto lascia alle arti liberali? Quali giovinetti puoi trovare che in casa parlino d’altro? Quali altri discorsi li sentiamo fare se entriamo in una scuola? Neppure i maestri parlano d’altro conversando con gli scolari; essi infatti attraggono i discepoli non con la severità della disciplina e con le prove dell’ingegno, ma con lusinghe e con piaggerie” (C. Tacito); “Sorvolo sull’insegnamento elementare, quasi trascurato del tutto; non si attende con la dovuta serietà alla lettura degli scrittori né allo studio dell’antichità né delle scienze né dei fatti umani nel tempo” (C. Tacito); “sarei disposto ad ammettere agevolmente che molti filosofi delle età trascorse siano stati maestri di virtù e che, come insegnavano, così siano vissuti; ma ai giorni nostri il nome di filosofi è servito per lo più da paravento a vizi mostruosi” (M.F. Quintiliano).
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9. — La formazione della giurisprudenza arbitraria Quanto alla giustizia, la crisi della giurisprudenza romana è significativamente resa dalla seguente affermazione: “giudici che sentenziano in forza del loro potere e non del diritto e delle leggi” (C. Tacito). Prima, il diritto civile (jus civile) aveva ad oggetto “il rispetto e l’uguaglianza dei cittadini nelle controversie e nei rapporti reciproci, in base alla legge e alla consuetudine” (M.T. Cicerone), aveva come scopo la realizzazione della “dignità della vita, poiché la virtù, il lavoro onesto sono premiati con onori, ricompense, fasto, mentre la colpa e la frode vengono punite” (M.T. Cicerone); successivamente, queste idealità si affievoliscono a causa, appunto, dell’emergere di una giurisprudenza legata, non al rispetto della giustizia, ma degli interessi emergenti. Prima, “Il diritto e la morale presso di loro [i romani] non avevano efficacia in virtù delle leggi ma della natura”, dopo, il diritto “da eticamente perfetto è divenuto eticamente depravato” (Agostino (santo)). I termini della crisi possono essere ulteriormente evidenziati rilevando come essa sia stata indotta dal tramonto della visione giusnaturalistica della giustizia. In precedenza, il giurista romano veniva educato al diritto naturale e a derivare da esso il diritto civile. Quest’ultimo, dunque, ai suoi occhi non veniva in considerazione come una realtà locale, come un diritto “circoscritto in un piccolo ed angusto luogo”, ma come un’applicazione del diritto di matrice divina (jus naturale), in quanto tale, universale ed invariabile. Non si trattava soltanto di una mera costruzione logica, retorica, ma di una visione capace di indurre preziose applicazioni pratiche consistenti nella capacità del giurista di adeguare il diritto alle nuove istanze maturate nel contesto sociale, di dar luogo, dunque, ad una più puntuale applicazione di quel medesimo diritto sommo (“il diritto non può conservarsi se non vi è qualche giurista capace, quotidianamente, di miglioralo”) (Digesta Iustiniani 1, 2, 2, 13). Ciò che è espresso dalla formula “jus a justitia appellatum” (“il diritto discende dalla giustizia”) (Digesta Iustiniani 1, 1, 1, pr.), talché, “Il diritto civile è quello che non si discosta in tutto dal diritto naturale o [dal diritto] delle genti, né in tutte le cose lo asseconda: pertanto, quando aggiungiamo o togliamo qualcosa al diritto comune, otteniamo il diritto proprio [di ciascuna comunità politica], cioè il [diritto] civile” (Digesta Iustiniani 1, 1, 6, pr.). Da questa visione si decade in quella in cui la derivazione del diritto civile dal diritto sommo si perde e ciò che rimane sono le disposizioni normative umane contingenti e variabili: “si sono dati ad imparare alla lettera le formule dell’editto pretorio e le leggi del diritto civile” (“se ad album et rubricas transtulerunt”). Questa parabola discendente si conclude, tralasciando i passaggi intermedi, con la codificazione giustinianea, con la promulgazione dei “Iustiniani Digesta seu Pandectae” (anno 533 d.c.). Il diritto naturale (jus naturale) era stato la fonte più significativa della giurisprudenza romana. Con tale codificazione il complesso delle massime giuridiche (regulae), reso possibile da una esperienza secolare, è ridotto a legge, previa esclusione di quelle di esse non più ritenute adeguate ai tempi. Per questa via, la fonte della giustizia diviene la volontà dell’Imperatore (“Quod principi placuit legis habet
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vigorem” - “Ciò che l’Imperatore vuole è legge”) (Iustiniani Digesta, 1, 4, 1, pr.). Muta anche la stessa nozione della legge positiva. Da “comune stipulazione della repubblica” (“communis rei publicae sponsio”) (Iustiniani Digesta, 1, 3, 1), diventa il tramite di quella stessa volontà. Giustizia e legge positiva intesa come latrice della volontà dell’Imperatore, si identificano. Ciò non è senza ragione. Ed infatti, se l’Imperatore, in quanto garante della oligarchia terriera, è tale in ragione della sua investitura divina (Digesta Iustiniani, Const. “Deo auctore”, pr.), la fonte del diritto non può che essere la sua volontà. I magistrati vengono degradati al ruolo di meri ministri (i.e., esecutori) della legge al punto che è fatto loro divieto di procedere alla relativa interpretazione. Le norme devono essere applicate secondo il loro tenore letterale: “Nessuno, né di coloro che al momento sono esperti di diritto né di quelli che lo saranno in seguito, ardisca annettere dei commentari a questi testi produttivi di diritto [...]. Se dunque taluni oseranno operare in tal modo, essi siano assoggettati ad imputazione di falso, ed i loro libri siano poi in ogni caso distrutti. Se, d'altro canto, come si è detto, qualcosa apparisse ambiguo, i giudici ne riferiscano all'altezza imperiale e ciò venga chiarito ad opera dell'autorità dell’imperatore, alla quale sola è stato attribuito il potere di emanare leggi e di interpretarle” (Iustinianus, Constitutio Tanta). Quando la legge contrasti con il diritto naturale, non è più il giudice che deve provvedere alla adeguazione della prima al secondo, ma, questo compito spetta, in virtù della sua investitura divina (Rm 13, 1; Gv 19, 11), allo Imperatore stesso: “Solo a noi è lecito e doveroso verificare l’interpretazione interposta tra l’equità e la legge” (“Inter aequitatem et jus interpositam interpretationem nobis solis et oportet, et licet inspicere”) (Codex Iustinianus 1, 14, 1). Come rilevato da G. Vico, nella società romana, “la giurisprudenza fu rigida finché la repubblica fu in crescita, fu mite e rilassata nella decadenza dell’impero. Essa infatti fu da principio la saggezza per la quale l’impero romano divenne forte; poi il rimedio che lo rese saldo quando si indeboliva; infine il male che lo portò alla ro¬vina. Difatti, tolta la discriminazione tra parenti più o meno stretti e abolito il diritto della nobiltà, nelle famiglie patrizie venne meno la ricchezza, si spense il nome e si dissolse la virtù. Concessi agli schiavi tanti benefici, il sangue nobile dei romani si diluì a poco a poco e infine si corruppe. Una volta data la cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’impero, si estinsero l’amore per la patria e la venerazione del nome romano nei cittadini indigeni. Con il progressivo rafforzamento del diritto privato, i cittadini credettero che il diritto non fosse altro che la loro propria utilità e non si curarono più del bene pubblico. Una volta fuso il diritto romano con quello delle province, queste, già prima di essere invase, cominciarono a costituirsi in stati autonomi; e una volta sciolto questo legame, per cui si era soprattutto accresciuto l’impero romano e per cui i soci del popolo romano non avevano altro merito che la fedeltà mentre il popolo romano aveva sia la gloria del nome che la forza del comando, la monarchia romana s’indebolì gradualmente, quindi fu disgregata e distrutta. Così la giurisprudenza rilassata fu la causa principale della corruzione sia dell’eloquenza, sia della potenza romana” (GB Vico).
10. — Lo scadimento dell’ars oratoria Parallelamente alla decadenza della giurisprudenza si sviluppa lo scadimento dell’oratoria. Nella cultura giuridica romana classica, in quanto basata, non sulla legge, ma sul diritto naturale e sulla consuetudine giuridica, l’oratoria svolge un ruolo primario in quanto su di essa si basa la ricostruzione del fatto, la sua interpretazione, la sua collocazione nella norma di diritto positivo, o nel precetto di diritto naturale, che meglio si prestano alla sua disciplina giuridica. La Rhetorica è propriamente tale in quanto è strumentale rispetto al conseguimento della giustizia: “la finalità di questo genere [giudiziale] è l’equità” (M.T. Cicero). È per questo motivo che l’oratore è definito come “sacerdote di questa arte” (“eius artis antistes”), talché, il dono dell’oratoria “non deriva da noi, ma [ci appare come] essere stato concesso a noi da Dio” (“non partum per nos, sed divinitus ad nos delatum [videtur]”) (M.T. Cicero). Una retorica avulsa dal perseguimento di questa finalità, esiste solo nel pensiero scettico. Per ciò, una tale retorica è definita “abilità [...] prava imitatrice della virtù” (M.T. Cicero). L’arte oratoria, rettamente intesa, contribuisce al bonum commune. È in ragione di questa finalità che viene definita come civilis scientiae pars (“parte della scienza civile”). Per altro, essa in tanto può assurgere ad una tale funzione in quanto non sia separata dalla philosophia intesa come sapientia: “[l’oratore dedicherà] tutte le sue forze [...] non per parlare ed agire nella società, bensì per poter dire cose gradite agli Dèi, e per agire in tutto più che può, nel modo che è loro di maggior gradimento (Platone). Quando la separazione abbia luogo, quando, dunque, sia stato “omesso lo studio della sapienza” (M.T. Cicerone), la retorica si trasforma in sofistica, in falsa philosophia, fonte di ingiustizia e di dissesto sociale: “Che cos’è infatti tanto disumano quanto il convertire in rovina e danno dei buoni quella eloquenza dataci dalla natura per la salvezza e la conservazione degli uomini?” (M.T. Cicerone). Donde la sua riprovazione: “Tale è la natura della cavillazione, definita dai greci sorite, che da fatti con evidenza veri, tramite piccolissime mutazioni, essa conduce a fatti che sono con evidenza falsi” (Digesta Iustiniani, 50, 17, 65); la sofistica è l'arte di disputare per guadagno; il sofista è un “antilogico”, vale a dire, maestro nell'arte del contraddire su tutto; il sofista è un incantatore ed un imi-
tatore; “ai giorni nostri il nome di filosofi è servito per lo più da paravento a vizi mostruosi (maxima)” (M.F. Quintiliano). Tale riprovazione ha natura etica, ma non si è mancato di rilevare come sia ingiustificata l’assenza di sanzioni giuridiche: “E sebbene in uno stato non vi debba esser nulla tanto di incorrotto come le elezioni ed i processi, non capisco perché sia punibile chi li corrompa con denaro, e colui invece che lo faccia servendosi dell’elo¬quenza abbia a riportarne perfino lode. A me invero colui che corrompe il giudice con la sua parola sembra agir peggio di chi lo corrompe con denaro, per questo fatto appunto, che nessuno può corrompere con denaro un onesto, mentre lo può con la parola” (M.T. Cicerone). Dall’essere la retorica orientata alla realizzazione dei precetti di diritto naturale, segue che l’oratore non può che essere virtuoso, segue, dunque, che “non è possibile essere un dialettico senza la virtù” (Plotino).
11. — L’assolutismo politico Come noto, la società romana transita dalla forma repubblicana (“Senatus populusque romanus”) al principato e, successivamente, al dominato: il civis romanus diviene subditus. La forza centrifuga del pluralismo, la sua efficacia disgregante sulla società civile, fatalmente, conduce al dispotismo: “L'eccessiva libertà [...] non può trasformarsi che in eccessiva schiavitù, per un privato, come per uno Stato [...] È naturale, quindi, [...] che la tirannide non si formi da altra costituzione che la democrazia: cioè [...] dalla somma libertà viene la schiavitù maggiore e più feroce” (Platone); “la libertà pendendo tuttora in licenza, degenera finalmente in servaggio” (V. Alfieri); “Corrotti in una nazione tutti i diversi ceti, è manifestamente impossibile che ella diventi o duri mai libera” (V. Alfieri). Questo evento è significato dalla lex regia de imperio (Digesta Iustiniani, 1, 4, 1, pr.), secondo Vico mai promulgata, eppure presente nei Digesta di Giustiniano. Alla sua stregua, il popolo romano aveva trasferito irreversibilmente all’Imperatore la propria sovranità politica, la propria libertà. Il dispotismo era divenuto così di origine democratica. (prosegue nei prossimi numeri)
Dopo la pubblicazione degli inserti sul materialismo dialettico e sul materialismo storico estratti dalla “Lezioni del leninismo” scritte da Stalin, il prof. Donati ci fatto avere la lettera che pubblichiamo nella pagina a fianco, nella quale mette in discussione la continuità tra il pensiero di Marx e quello di Lenin e Stalin; potremmo dire, in generale, l’applicazione del pensiero scientifico elaborato dal Marx (ed Engels) da parte dei partiti comunisti. In sostanza (nostra opinione) il prof. Donati riconduce il pensiero di Marx ancora nell’alveo dell’astrazione filosofica che cerca, seppure nella realtà materiale del mondo vivente (lontana quindi dall’idealismo del “Mondo delle Idee” di origine platoniana), una ragione “superiore”, con le sue parole: l’esistenza di “valori immanenti e ordinanti”. Da qui il richiamo alla “rivoluzione illuministica” che, rimossa la fede irrazionale, ha affermato tuttavia l’esistenza di una nuova divinità: “la ragione”, assurta al rango dell’“Essere Supremo” nel cui nome venne promulgata nel 1789 la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. “Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti” afferma il primo articolo della Dichiarazione del 1789 e, in virtù di tali diritti “innati”, lo Stato deve rispettarli e tutelarli. Siamo a “distanza stellare” (permettendoci di parafrasare i termini usati dal prof. Donati) dal pensiero di Aristotele, al quale Marx e l’intero pensiero marxista si ricollega dopo due millenni di oblio, che affermava che l’uomo è tale in quanto è parte di una comunità (Polis, Stato), prima e fuori è: o bestia o dio, in ambedue i casi senza titolarità o necessità di diritti. L’essere umano non ha diritti “innati”,
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bensì deriva i suoi diritti dall’essere parte di una comunità, i suoi diritti sono quindi “sociali”. La comunità è una realtà materiale e le sue caratteristiche organizzative determinano la qualità e la quantità dei diritti che attribuisce (o nega) ai suoi cittadini. Ne consegue, così afferma il materialismo storico, che la modificazione delle iniquità nella distribuzione dei diritti non può essere realizzata col richiamo a inesistenti diritti naturali “innati”, ma solo modificando i rapporti sociali; solo cambiando la realtà materiale che produce le idee “sbagliate” si possono affermare, attraverso una diversa realtà materiale, le idee “giuste”. Da qui l’affermazione di Marx: “Chiamiamo comunismo il movimento reale che cambia lo stato di cose presente”. Solo cambiando la realtà materiale possiamo giungere a cambiare le idee e questo è un processo “reale”, cioè concreto, che non necessità e non presuppone l’esistenza di valori “immanenti e ordinanti”, perché lui stesso li crea nel suo percorso dialettico. Il prof. Donati ci ha anticipato un approfondimento dell’argomento che, effettivamente, ci ha inviato, ma di dimensioni tali che, per ragioni tipografiche, potremo pubblicare in diverse puntate nel prossimo anno. Per tenere vivo l’argomento, aperto a nuovi e diversi interventi, pubblichiamo nelle pagine seguenti due brevi saggi estratti da più ampie elaborazioni che, molto meglio di queste poche righe, possono aiutare a comprendere il pensiero materialista di Marx e la assoluta continuità con l’evoluzione di Lenin, Stalin, ma anche di Gramsci, Mao e molti altri riferimenti del movimento comunista mondiale. (SR)
ancora sul Materialismo Storico Gentilissimo Avvocato, mi consenta brevissime considerazioni sulla parte del pensiero di Stalin pubblicata (è sicuro che l’abbia scritta lui?). Preciso che esse sono svolte a maggior gloria della filosofia di Marx di cui sono allievo e continuatore. Altro Marx, altro Engels, altro Lenin, altro Stalin. La loro considerazione congiunta è pericolosa. A mio avviso, si deve, preliminarmente, accertare il pensiero di Marx; successivamente, quello di ciascuno di questi pensatori e, infine, svolgere la comparazione traendo le relative conclusioni. Il “materialismo storico” introdotto da Marx, come è noto, pone l’assetto economico della società umana come fonte della filosofia della storia, come fonte del dover essere politico. Marx discopre il movimento dialettico che si sviluppa tra i detentori dei mezzi di produzione della ricchezza sociale e la rimanete parte della società ridotta ad organo di questa stessa produzione. L’idea di base - derivata dall’economia classica - è che il lavoro è la sola fonte della ricchezza. Ma mentre esso ha carattere sociale, l’acquisizione dei relativi risultati ha carattere privato. Questo fatto, in tanto può trasformarsi in una relazione dialettica, in tanto può essere fonte di una filosofia della storia, in quanto siano compresenti due ideali di giustizia: la “proprietà del lavoro” (Property of labour), cui ontologicamente afferisce l’altro, l’“astenersi da ciò che è altrui” (alieni abstinentia). Queste sono le istanze etiche e politiche che Marx pone a fondamento della filosofia della storia. Esse danno ragione dell’origine del movimento dialettico che si sviluppa nella società (causa initalis), delle sue modalità di svolgimento (causa modalis), della sua conclusione costituita dalla loro compiuta vigenza (causa finalis). Il sistema è completo, è ordinato, la progressio in infinitum, vale a dire, il non senso, sono esclusi. La motivazione della immanenza e della universalità di quelle idee di giustizia non richiede il ricorso alla di-
mensione metafisica. Come già affermato da Ugo Grozio, le verità morali, in quanto per sé evidenti (“principia enim eius juris per se patent atque evidentia sunt”), hanno vigenza “etiamsi daremus non esse Deum”. Si è, pertanto, in presenza, non dell’ateismo negatore della giustizia, dell’ateismo che confluisce nello scetticismo, ma dell’ateismo etico (in realtà, intrinsecamente deistico). Marx, nel delineare la sua filosofia della storia, non ha alcun bisogno di rinvenire nella dialetticità della natura fisica il fondamento e la giustificazione della dialetticità sociale. Il riferimento a tale dialetticità non supporta il suo pensiero, ma lo indebolisce, poiché lo rende debitore e dipendente dalla scienza della natura. Non è tutto. Dire che la natura segue il metodo dialettico significa accedere all’eracliteo panta rei, nel cui contesto è vero tutto e il contrario di tutto, nel cui contesto vige la coincidentia oppositorum, senza che né l’uno né l’altro dei due termini della contrapposizione possa trascendere l’altro (con linguaggio tratto da tutt’altro contesto, “boni et mali in ecclesia permixti”). La filosofia di Hegel è ricalcata su questa visione. In altri termini, o della progressività della natura, del suo procedere dal meno verso il più, si rinviene la causa initialis, la sua modalità (come è possibile che dal meno provenga il più?) e la sua causa finalis, oppure, si scade nello storicismo, non ci si allontana di un passo dall’idealismo. Al posto dello “spirito assoluto” viene posta la materialità della società e della natura, ma i termini sono solo invertiti, il risultato non cambia, il non senso prevale sul senso, resta che la filosofia della storia manca di valori immanenti ed ordinanti, fatta eccezione per quello che si risolve nella “volontà di potenza”. Siamo a distanza stellare dal pensiero di Marx che è, e continua ad essere, un prosecutore dell’Illuminismo, la cui pregnante attualità è, purtroppo, oscurata da quel “materialismo” frutto di una riduttiva interpretazione del suo pensiero. Alberto Donati
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la Storia è un processo Materiale e non Spirituale
Il “Materialismo Storico” non ha niente a che vedere con il termine materialismo in generale. Il testo fondamentale in cui Marx presenta la propria concezione materialistica della storia è "L'ideologia tedesca" (1845-46), scritta in collaborazione con Engels durante l'esilio di Bruxelles e rimasta inedita fino al 1932. Tale concezione non si definisce materialistica perché postula la riducibilità di tutta la realtà a materia, ma perché riconduce le forme di esistenza umana alle “condizioni materiali di vita degli uomini”, non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza, cioè al processo di autoformazione costituito dalla prassi lavorativa. L'originalità di quest'opera risiede nel tentativo di cogliere il “movimento reale” della storia (il contrario di ideologia qualcosa di non reale, un inganno, una falsa rappresentazione della realtà che nasconde quella vera), al di là delle rappresentazioni ideologiche che ne hanno velato da sempre la struttura. Basilare è qui la contrapposizione tra scienza reale positiva e l’ideologia che mistifica la realtà. Marx intende per ideologia una falsa rappresentazione della realtà, mistificazione della realtà: essa è il processo per cui alla comprensione oggettiva dei rapporti reali fra gli uomini si sostituisce un'immagine deformata di essi. Gli uomini infatti si formano un'idea di sé, della propria posizione nella totalità sociale, in rapporto alle istituzioni politiche e alle varie realtà culturali della propria epoca; ma la realtà della loro vita, concretizzata dalla posizione di classe all'interno del modo di produzione, resta invece perlopiù nascosta alla loro coscienza. La "coscienza sociale" (come gli uomini si rappresentano) non corrisponde dunque immediatamente all' "essere sociale" (ciò che gli uomini sono): tale coscienza è "ideologica", è coscienza "falsa" che occulta la realtà, perché l'immagine che gli uomini hanno di sé è un'immagine che nasconde la propria condizione reale e che, in virtù di questo occultamento, svolge una funzione essenziale per mantenere l'ordine sociale esistente: nascondendo l'arbitrarietà dello sfruttamento e del dominio di classe, ne legittima l'esistenza. L'intento di Marx è quello di svelare, al di là delle ideologie mistificanti, la verità (condizioni materiali di vita) sul-
la storia, mediante il raggiungimento di un punto di vista obbiettivo sulla società, che permetta di descrivere non ciò che gli uomini pensano di se stessi, ma che cos'è l'umanità (modo attraverso cui produce se stessa attraverso il lavoro) intesa in modo scientifico e non ideologico. Marx afferma che l’umanità è una specie evoluta, composta di individui associati, che lottano per la propria sopravvivenza. Di conseguenza, la storia non è, primariamente, un evento spirituale, ma un processo materiale (costruzione delle condizioni, materiali di vita) fondato sulla dialettica bisogno/soddisfacimento. Gli idealisti, afferma Marx pensano che sono le idee sbagliate a incatenare gli uomini e tentando, conseguentemente, di trasformare la coscienza (le idee) degli uomini e non le loro condizioni di vita, non accorgendosi che, in questo modo, essi finiscono per: 1) sopravvalutare la funzione delle idee (viste come forze trainanti degli avvenimenti) e degli intellettuali (concepiti come i "fabbricanti della storia"); 2) presentare le proprie idee come universalmente e sovratemporalmente valide; 3) credere che tutto il negativo del mondo risieda nelle idee sbagliate e che l'emancipazione umana consista nel sostituire a idee false idee vere, tramite una battaglia puramente filosofica; 4) fornire, di conseguenza, un quadro inevitabilmente deformante e mistificante (ideologico) del reale. A questi traviamenti dell'ideologia, Marx, sulla base della propria concezione materialistica della storia, oppone: 1) che le vere forze motrici della storia non sono le idee, bensì le strutture economico-sociali; 2) che le idee non hanno mai un valore universale e sovratemporale, in quanto rispecchiano sempre determinati interessi e rapporti storici fra gli uomini; 3) che la vera alienazione non risiede nelle idee, ma nelle situazioni sociali concrete, per cui la vera liberazione dell'uomo non è un problema filosofico, ma un problema pratico-sociale; 4) che le teorie hanno senso e utilità solo se unite alla prassi.
da Democrito a Epicuro La Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro è la tesi di laurea in filosofia di Karl Marx, conseguita il 15 aprile 1841 a Jena. Il giovane Marx si muove ancora nell'alveo della sinistra hegeliana, ma già sono presenti gli elementi della svolta che lo faranno approdare al materialismo storico. Epicuro è presentato da Marx come "il più grande illuminista greco'', come colui che portò fino in fondo la critica della religione a favore dell'autocoscienza umana; in questo Marx rompe con la condanna hegeliana di Epicuro, che poggiava su una lunga tradizione risalente a Cicerone e a Plutarco. Dall'attenta analisi delle due forme di atomismo antico, Marx evince la superiorità di Epicuro, per l'attenzione che egli presta al reale, liquidato da Democrito come mera apparenza fenomenica. Marx interpreta significativamente la situazione della filosofia dopo Hegel in analogia con la situazione delle filosofie ellenistiche dopo Platone e Aristotele, domandandosi implicitamente se sia possibile un nuovo avvio filosofico dopo il compimento della filosofia nelle grandi sintesi sistematiche. La risposta che egli propone è esemplare e sintomatica di quello che sarà lo sviluppo del suo pensiero: proprio in questi momenti post-sistematici diventa possibile la ripresa di contatto della filosofia con la realtà, quella sua realizzazione nel mondo esterno che costituirà il cuore della riflessione marxiana. In quest'ottica si legge la Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro che non è che l'inizio di un più ampio studio sull'età ellenistica (in realtà mai portato a termine), al quale Marx stesso rinvia nelle pagine iniziali della sua dissertazione. Dice Labriola nel suo celebre “Del materialismo storico”: “ le idee non cascano dal cielo [...]. L'uomo sviluppa, ossia produce se stesso, non come ente genericamente fornito di certi attributi, che si ripetano o si svolgano secondo un ritmo razionale; ma produce e sviluppa se stesso, come causa ed effetto, come autore e conseguenza ad un tempo, di determinate condizioni, nelle quali si generano anche determinate correnti di idee, di opinioni, di credenze, di fantasia, di aspettazioni, di massime”. Marx, com’egli stesso confessa, non passa indenne dalle ammalianti sirene dell’hegelismo e del suo processo dialettico: tuttavia, si propone di far poggiare la dialettica dov’è giusto che poggi. Non sulla testa, ovvero sulle idee (come era in Hegel), ma sui piedi, ovvero sui fatti materiali: alla dialettica di idee che trova il suo luogo d’azione sulle pagine dei libri, si sostituisce la dialettica materiale che si concretizza sulle piazze come ribaltamento rivoluzionario, come negazione del capitalismo. Proprio su questa concezione si basa il “materialismo storico” marxiano, ovvero come mate-
rialismo letto in chiave storica e dialettica. Marx afferma che “il difetto principale di ogni materialismo fino ad oggi, ..., è che l'oggetto, il reale, il sensibile è concepito solo sotto la forma di oggetto o di intuizione; ma non come attività umana sensibile, come attività pratica, non soggettivamente. E' accaduto quindi che il lato attivo è stato sviluppato dall'idealismo in contrasto col materialismo, ma solo in modo astratto, poiché naturalmente l'idealismo ignora l'attività reale, sensibile come tale. [il materialismo meccanico] vuole oggetti sensibili realmente distinti dagli oggetti del pensiero; ma egli non concepisce l'attività umana stessa come attività oggettiva. Perciò nell' ‘Essenza del cristianesimo’ egli considera come schiettamente umano solo il modo di procedere teorico, mentre la pratica è concepita e fissata da lui soltanto nella sua raffigurazione sordidamente giudaica. Pertanto egli non concepisce l'importanza dell'attività ‘rivoluzionaria’, dell'attività pratico-critica”. A sua volta, però, l’idealismo hegeliano, con il suo impeccabile procedimento dialettico, è inutile se è non riferito alla materia: si tratta dunque (ed è quello che Marx si propone di fare con l’elaborazione del “materialismo storico”) di coniugare l’idealismo e il materialismo, desumendo dal primo l’attenzione per la storia, dal secondo la centralità indiscussa della materia. Agli anni della sua tesi di laurea, però, Marx non aveva ancora maturato queste idee: dopo Hegel, egli dice, la filosofia riprende la sua funzione illuministica di critica della realtà, così come, dopo Aristotele, Epicuro, “il più grande illuminista greco”, aveva portato fino in fondo la critica della religione, combattuto il fatalismo e rivendicato la libertà dell'autocoscienza umana.
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Le ricette (e le vite) degli “altri” L’assunto secondo il quale “siamo ciò che mangiamo” si coniuga anche all’imperfetto: eravamo ciò che mangiavamo. La cucina famigliare, le ricette materne sono la nostra identità e le nostre radici. Sono una piccola memoria portatile di ciò che il caso, il luogo di nascita, il destino hanno fatto di noi. (Pietro Veronese, “Cum-Panis”). Continuando a parlare degli “altri”, in attesa che a parlare siano loro stessi, pubblichiamo in questo numero un estratto da un “originale” libro di ricette edito dall’Associazione Culturale Multietnica “La Kasbah onlus” che, attraverso la descrizione di alcune ricette così dette etniche, ci racconta alcune drammatiche storie, ancora assolutamente attuali nello loro drammaticità irrisolta, di rifugiati nel nostro Paese. Non aggiungiamo commenti perché i racconti si spiegano da soli. Vogliamo invitare i nostri lettori immigrati a partecipare a un seguito di questo inserto invindoci le loro ricette tipiche con le loro storie.
Falafel (Palestina) ono nata a Baghdad, in Iraq, ma sono palestinese. La Sdopofamiglia di mia nonna ha dovuto lasciare la Palestina l’occupazione israeliana.
Mia nonna adesso è tornata a Ramallah, in Palestina. Quando ero piccola mi raccontava tante fiabe e mi parlava spesso di Ramallah: mi diceva che era un paradiso, pieno di verde, di frutta e di vegetazione. Ma poi diventava triste e cambiava argomento. Quando ero piccola, e avevo circa dieci anni, rimanevo incantata a osservare mia madre che cucinava; e allora le davo una mano. Volevo cucinare anch’io, ma per timore che potessi farmi male mi faceva fare solo piccole cose. Ricordo che un giorno lei è uscita per fare delle commissioni e casa è rimasta libera. Mi sono chiusa in cucina e ho preparato di nascosto da mangiare per tutta la famiglia: ho preparato il riso con la carne. Quando mia madre è rientrata e ha trovato tutto pronto è rimasta molto meravigliata, voleva rimproverarmi ma alla fine mi ha sorriso, mi ha dato un bacio sulla fronte e mi ha detto che ero proprio una monella. I falafel però ho imparato a cucinarli quando era già grande. La prima volta che li ho preparati è successo in Italia. Perché da noi questa è generalmente una ricetta da uomini. E l’ho scelta proprio perché mi ricorda la storia dell’incontro con mio marito.Avevo diciotto anni, vivevo a Baghdad e andavo spesso con mia madre a comprare i falafel in un ristorante vicino casa nostra. Lì lavorava Wisam, e preparava personalmente i falafel. Un giorno mia sorella è rientrata a casa e mi ha detto che quel cuoco le aveva chiesto
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il numero di telefono perché voleva conoscermi. Ho sentito un tuffo al cuore e così abbiamo iniziato a telefonarci. Io aspettavo che i miei uscissero di casa per sentire la sua voce. Dopo un mese ha chiesto ufficialmente la mia mano a mio padre e abbiamo festeggiato invitando a casa nostra la sua famiglia. È la cerimonia di fidanzamento ufficiale, in arabo si chiama khoutba. Ricordo che in quell’occasione ero molto emozionata e mi sentivo una principessa. Le ragazze non devono fare nulla: solo essere eleganti, profumate e truccate. E ricevere attenzioni e doni. La mamma di Wisam mi ha regalato tanto oro: collana, bracciali, orecchini e anello. Ma poi ho dovuto vendere tutto l’oro che avevo: un anno dopo la nascita della mia prima figlia la situazione in Iraq è precipitata. Era il 2003, con precisione il 20 marzo, quando ha avuto inizio la guerra degli Usa contro l’Iraq. Noi siamo palestinesi e non abbiamo avuto problemi durante il regime di Saddam Hussein, perché lui tutelava i nostri diritti di profughi senza patria. Avevamo tutti una casa e lavoravamo. Ma dopo il 2003 tutto è cambiato. Ricordo quel 19 marzo del 2003. Ero in cucina con la mia famiglia quando abbiamo appreso dell’ultimatum degli Stati Uniti e che la mattina seguente i militari americani sarebbero venuti in Iraq. Non ho chiuso occhio e il 20 marzo alle cinque in punto abbiamo sentito la sirena. Dopo circa mezz’ora sono iniziati i bombardamenti. Io sono scesa al primo piano, a casa di un nostro parente perché pensavamo fosse più sicuro. Ma non lo era affatto: vicino casa c’era un edificio del governo ed era un bersaglio. Le bombe non smettevano più di esplodere. Ero terrorizzata, avevo paura per me, per i miei due figli...
Falafel Ingredienti: 2 cipolle bianche, 1/2 kg di ceci, prezzemolo, 1 lt di olio di semi, un cucchiaio di cumino, 1 cucchiaio di bicarbonato, Sale q.b. Preparazione (per 4 persone) Mettere a mollo mezzo chilo di ceci in acqua fredda per ventiquattro ore. Quando sono gonfi, sfregarli con le mani per eliminare le bucce. Scolare i ceci e unire un ciuffo di prezzemolo, la cipolla tritata finemente, un cucchiaino di sale e un cucchiaio di semi di cumino tritati.Tritare il composto con un tritacarne e unire un cucchiaio di bicarbonato sciolto in un bicchiere di acqua. Preparare i falafel a piacimento: possono avere la forma di polpette oppure di dischetti spessi due centimetri e larghi sei, purché di forma e dimensione regolare. Mettere un litro di olio di semi in una padella larga e far friggere i falafel finché non sono ben dorati (circa 4 minuti). Servire i falafel caldi accompagnati dalla salsa cacik a base di yogurt magro, cetrioli e menta. Non voglio più ricordare quegli anni: abbiamo perso tutto. La casa, il ristorante di mio marito, tanti parenti e amici sono morti. A quel punto la nostra situazione, intendo come palestinesi, si è fatta molto difficile: se scoprivano che eri palestinese ti ammazzavano. Io e Wisam abbiamo deciso di lasciare l’Iraq e siamo andati in Siria, dove abbiamo provato a ricostruire la nostra vita. Ma è stata dura. Siamo rimasti a Damasco per un anno, lì è nata la mia terza figlia. Molti altri palestinesi si sono trasferiti in Sira perché l’Iraq era diventato pericolosissimo per noi, ma dopo un anno abbiamo lasciato anche la Siria. Tramite un’organizzazione che si occupava dei palestinesi siamo stati mandati nel campo profughi di Tenef, al confine tra Siria ed Iraq. Una tendopoli enorme, dove vivevamo con migliaia di altri palestinesi, nel deserto. Un giorno, ricordo, è esplosa una bombola del gas in una tenda, e una donna è morta. Era terribile, ma abbiamo dovuto per forza rimanere lì per circa tre anni. Ci sentivamo fuori dal mondo anche se avevamo la televisione con le parabole. Nella tendopoli non c’era l’ospedale, e così sono dovuta andare a partorire in un ospedale siriano il mio quarto figlio. E dopo il parto sono tornata a Tenef. E lì siamo rimasti in attesa che qualcuno ci dicesse che ne sarebbe stato del nostro futuro. Il progetto di reinsediamento gestito dalle Nazioni Unite ha smembrato la mia famiglia: i miei genitori sono stati
mandati in Svezia; noi, insieme ad altre cento persone, siamo stati assegnati all’Italia, ma nessuno di noi voleva venirci. Sapevamo che l’Italia non poteva offrirci le stesse opportunità di Paesi del nord Europa o dell’America. All’inizio ci siamo rifiutati perché volevamo rimanere con le nostre famiglie. Ma ci hanno dato un ultimatum: o l’Italia o rimanere nella tendopoli di Tenef. Così siamo arrivati a Riace, dove siamo rimasti per più di un anno, fino a quando abbiamo riprovato a riunirci con la mia famiglia in Svezia. Ma per colpa della convenzione di Dublino dopo pochi mesi a Goteborg il governo ci ha rispedito in Italia. Non ho capito perché. Ora mia madre vive in Svezia, mia nonna in Palestina, noi in Calabria, i parenti di mio marito in Olanda... La cosa più triste è non poter più stare tutti insieme, nelle ricorrenze, nelle feste dei bambini, durante il ramadan. Mangiavamo tutti insieme... che tavolate! Ma non voglio diventare triste perché voglio raccontarvi un’ultima cosa riguardo la preparazione dei miei falafel. Continuo a chiedere a mio marito cosa ne pensa dei miei falafel. Ma ogni volta mi dice che sbaglio qualcosa: troppo sale, poco cumino... Si sente più bravo di me e si diverte a non darmi mai soddisfazione. In realtà i suoi falafel sono buonissimi e ogni volta che li prepara io e i bambini siamo felici perché ne andiamo pazzi. Sì: amo mio marito.
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Zighinì (Eritrea) quattordici anni ho imparato a cucinare. Mia maA dre mi ha insegnato a preparare lo zighinì quando eravamo in Sudan. La prima volta che l’ho preparato
in Italia non è venuto bene perché non ho trovato la farina giusta. E poi in Italia l’injera deve lievitare più di tre giorni, perché il clima è più freddo rispetto all’Eritrea o al Sudan. L’ingrediente fondamentale per la preparazione dello zighinì è il berberè, a base di peperoncino piccante e spezie che serve per insaporire la carne. Lo zighinì si prepara nelle occasioni speciali, come i matrimoni e le feste religiose. Durante questi pranzi importanti in Eritrea vengono servite delle bevande alcoliche preparate in casa, come il mies e la suha. Ai matrimoni o quando nasce un bambino in Eritrea è come in Italia: offriamo i confetti. Ma quando mi sono sposata io, purtroppo, non ho potuto festeggiare come avrei voluto, offrendo a tutti queste cose. Ma è una lunga storia... Sono nata in un campo profughi del Sudan, perché i miei genitori erano scappati dall’Eritrea. Nel 2003, all’età di quindici anni la mia famiglia è ritornata in Eritrea, perché ci avevano detto che la situa-
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zione ormai era tornata tranquilla. È stata quella la prima volta che ho conosciuto il mio paese di origine. Ma quando siamo arrivati la situazione che abbiamo trovato era tutt’altro che serena. Io e i miei fratelli non conoscevamo la lingua tigrina, ma solo l’arabo e per questo a scuola siamo stati iscritti a classi con ragazzini di quattro anni più piccoli. Nel 2006 nella scuola sono arrivati i militari e hanno prelevato i miei fratelli per il servizio militare. Sono stati portati in un campo di addestramento. È un posto orribile dove finiscono sia uomini che donne, perché il servizio militare è obbligatorio per tutti. In questi campi succedono cose atroci: i militari stuprano le donne, commettono torture e molte persone vengono mandate a casa con seri problemi di salute mentale. Uno dei miei due fratelli è tornato dopo un anno e ci ha raccontato delle cose assurde. L’altro fratello non è mai più tornato; è morto lì, e lo abbiamo saputo con una telefonata. Mia madre non ha potuto neanche vedere il suo corpo. È impazzita dal dolore. Mio padre in seguito a questo episodio ha iniziato ad avere problemi con tutti perché andava negli uffici e gridava, denunciava le atroci condizioni di vita degli eritrei nella loro terra e alla fine hanno imprigionato anche lui. Non so se è vivo o morto.
Zighinì Ingredienti: 500 gr di manzo, 500 gr di pomodori pelati, 1 cipolla, 2 spicchi d’aglio, 3 cucchiai di berberé, 1 bicchiere d’acqua, Sale q.b Preparazione (per 4 persone): In una padella antiaderente munita di coperchio far appassire a fuoco lento una grossa cipolla tritata finemente. Dopo cinque minuti aggiungere tre cucchiai di berberé, un bicchiere d’acqua e il sale. Fare restringere lentamente, poi aggiungere 500 grammi di salsa di pomodoro e, se necessita, un altro bicchiere d’acqua. Continuare a sobbollire per quindici minuti. Aggiungere 500 grammi di manzo tagliato a cubetti. Aggiungere due spicchi d’aglio e proseguire la cottura per circa un’ora, finché la carne non sarà cotta e il fondo ristretto. Si serve insieme a verdure lessate e uova sode adagiate sul pane “injera” che viene strappato in piccoli pezzi con i quali prendere con le dita ogni pizzico di carne e contorno. Injera Ingredienti: farina di semola, acqua tiepida Preparazione (per 8-12 persone): Mescolare in una ciotola capiente 150 grammi di farina di semola (ma tradizionalmente si prepara con la farina di un cereale tipico dell’Africa e introvabile in Occidente, il teff) con due bicchieri di acqua fredda. Una volta ottenuta una pastella liquida e omogenea, coprire la ciotola con la pellicola e lasciare fermentare per tre giorni a temperatura ambiente. Scaldare molto bene una padella antiaderente e versare su di essa un mestolo di composto. Lasciare cuocere per circa due o tre minuti, da un solo lato. Conservare la injera in un contenitore ermetico per evitare che si asciughi troppo. In Eritrea tu non puoi avere una vita tua, loro decidono tutto per te. Per un lungo periodo cercavo di uscire poco, loro possono prenderti per strada e portarti nei campi di addestramento. Io e il ragazzo che avevo iniziato a frequentare decidemmo di accelerare le nostre nozze e di rinviare i festeggiamenti, per evitare che mi arruolassero. Mio marito lavorava per il governo, in pratica svolgeva tutte le mansioni che gli chiedevano di fare, lavori di muratura, o riparazione di strade, servizi, pulizie, eccetera. Tutti in Eritrea devono prestare questi servizi al governo ricevendo in cambio una paga di cinque euro al mese. Mio marito dopo il matrimonio ha deciso di non lavorare più per il governo, ma sono venuti a cercarlo a casa e così è stato costretto a scappare. Quando sono venuti nuovamente a cercarlo io ero incinta di due mesi del mio primo figlio, e ho semplicemente dichiarato di non sapere dove fosse. Loro mi hanno prelevata con la forza e imprigionata nel carcere di Adabeto, dove sono rimasta per due mesi. Mi hanno picchiata, e un giorno sono caduta a terra e ho perso conoscenza a causa dell’ennesimo pestaggio. Mi hanno portata in ospedale e per fortuna la gravidanza non ha avuto complicazioni. Sono stata rilasciata e sono tornata dai miei genitori. Anche mio padre era stato portato nel carcere di Adabeto. E di mio marito avevo perso le tracce. Parlavo sempre di lui a mio figlio; gli mostravo le sue foto. Lo conosceva solo così: in fotografia. Altro che tranquilla: la vita in Eritrea era impossibile. Perciò sono scappata insieme a mio figlio e a mia madre, per tornare di nuovo in Sudan. Ma la nostra vita anche lì era molto difficile per noi cristiani, e dovevo stare molto attenta; non potevo uscire di casa, dovevo essere sempre coperta e la vita era un inferno. Ma per fortuna in Sudan ho ritrovato mio marito: è lì che padre e figlio si sono visti per la prima volta... Avevamo capito che la nostra vita era a rischio ovunque e non avevamo un posto sicuro dove andare. E per questo abbiamo proseguito il nostro viaggio: avevamo deciso di lasciare l’Africa. Abbiamo attraversato il deserto a bordo di un camioncino; abbiamo viaggiato sempre in piedi. A bordo c’eravamo duecento persone, donne, uomini e bambini. Siamo stati male, abbiamo rischiato la morte, ma alla fine siamo riusciti ad arrivare in Libia. Quando siamo arrivati a Tripoli c’era con
noi anche il nostro secondo bambino. E aveva solo cinque mesi quando abbiamo fatto il viaggio in mare, otto giorni dopo, insieme ad altre duecentosettanta persone. Siamo arrivati a Lampedusa due settimane prima del naufragio del 3 ottobre 2013 dove sono morte tante persone come noi, anche bambini piccoli come i miei figli. Anche la nostra barca stava affondando, ma per fortuna i soccorsi sono arrivati in tempo. Ho un ricordo bello del nostro arrivo nell’isola; le persone sono state generose, i soccorritori sono stati molto bravi con noi. Ma è durato poco... Durante la nostra permanenza nel centro nessuno voleva farsi identificare, volevamo proseguire il nostro viaggio e chiedere asilo altrove. Dopo tre giorni siamo stati portati nel campo di Pozzallo. L’impatto con quel posto è stato terribile, non era un campo, era un grande capannone dove tutti, circa duecento persone, dormivano insieme, per terra; e i bagni e le docce erano in comune. Appena arrivati sono scoppiati grandi disordini con la polizia, perché nessuno voleva farsi prendere le impronte digitali e sottoporsi al fotosegnalamento. Ma ci hanno costretti a essere identificati. Dopo due giorni ci hanno ordinato di salire su un autobus, senza dirci dove ci avrebbero portato. Lo abbiamo chiesto ma ci rispondevano di non saperlo. Nessuno ci dava informazioni. Io, mio marito, mia madre e i miei due bambini eravamo già seduti quando hanno riaperto le porte e ci hanno ordinato di scendere. Nessuno capiva perché, e cosa stesse succedendo. Siamo scesi tutti e all’improvviso alcune persone hanno iniziato ad urlare e a scappare. Ho visto la polizia rincorrere e afferrare alcuni miei connazionali. Nella confusione ho perso di vista mio marito. Ci hanno ordinato nuovamente di salire e le porte si sono chiuse; l’autobus è partito nella confusione più totale. Mio marito non era più al mio fianco. Non lo vediamo da quel giorno... Adesso la mia vita è nelle mani dalla Commissione che decide chi può rimanere in Italia e chi deve ritornare nell’inferno dal quale è scappato. Quando preparo lo zighinì rivivo all’istante mille ricordi: belli e dolorosi; sento i profumi, rivedo i volti di persone care. Penso a mio fratello che non c’è più; a mio padre che non so se è ancora vivo; a mio sorella in Canada. E a mio marito che non so ancora dov’è.
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I “giovani” italiani, quale futuro e dove?
(aspettative, esperienze e storie a confronto) di Giacomo Bertini
Chi parte Carlo parlami un po’ di te liberamente...
del nord Italia ci sia più lavoro ed opportunità, è realmente così?
Sono un ragazzo di 25 anni, sono nato e cresciuto a Verona. Finito il liceo classico mi sono iscritto alla facoltà di Scienze Politiche della Statale di Milano, corso di laurea in Scienze Internazionali e Istituzioni Europee. Grazie al progetto Erasmus ho passato 6 mesi a Louvain La Neuve, una cittadina universitairia di circa 20 mila studenti alle porte di Bruxelles. Un’esperienza importante e indimenticabile senza la quale non avrei mai deciso di iscrivermi ancora in Belgio per la laurea specialistica. Ero già abituato a vivere fuori casa, ma l’Erasmus é stato davvero una svolta nella mia vita. Tornato in Italia ho terminato la laurea triennale, ho frequentato i corsi singoli della specialistica in Relazioni Internazionali nella stessa università e poi a settembre dell’anno dopo sono partito di nuovo per il Belgio, all’Université Libre de Bruxelles. Tra qualche giorno mi laureo, e poi chissà, ho ancora voglia di studiare e imparare qualcosa di nuovo.
Non conosco direttamente la realtà lavorativa nel sud Italia per cui posso parlare solo attraverso le testimonianze dei molti amici che provengono da regioni del sud che ho incontrato nelle mie esperienze unviersitaire. Da quello che mi raccontano emerge sempre la sensazione che il sud sia fermo e il nord in movimento, che ci sia lavoro e opportunità per tutti. E quando mi dicono queste cose penso ai migranti che arrivano sulle coste italiane con la convinzione che l’Italia sia El Dorado. Ecco, penso che, seppur in termini sicuramente diversi, si possa fare una qualche analogia. Si pensa sempre che dall’altra parte si viva meglio e ci siano più possibilità. Purtroppo, però, non credo sia tutto vero.
Si è soliti pensare che nelle regioni
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Cosa ti ha spinto ad andare via? Tre motivi. Innanzitutto l’Erasmus. Se non avessi vissuto 6 mesi all’estero grazie al programma europeo non avrei mai deciso di iscrivermi in un’università straniera per continuare gli studi. Questa esperienza
mi ha aperto gli occhi, facendomi capire che esiste un altro mondo al di fuori della realtà in cui siamo cresciuti. Non per forza migliore o più bella, anzi. Ma esiste, e sta a noi decidere di aprirci al mondo o di restare nel nostro giardino, con i soliti amici e a fare le solite cose. Un altro motivo per cui ho deciso di partire é stata la volontà di continuare a migliorare le lingue. Non volevo “perdere” il francese che avevo imparato e il Belgio rappresentava un’ottima possibilità in questo senso. Un paese dove il multilinguismo é all’ordine del giorno e ti permette di parlare Inglese e Francese allo stesso tempo. E anche l’italiano, qui infatti c’è una comunità molto numerosa. Infine, il discorso economico ha certamente pesato. La sola retta universitaria é un quarto più bassa di quanto pagavo in Italia. L’anno scorso ho vissuto in una residenza universitaria situata sul campus dove per una camera singola con bagno privato pagavo lo stesso prezzo di quello che pagheresti a Milano per una camera condivisa. Per il resto il costo della vita, e anche quello degli affitti in generale, é pressoché simile a Milano.
Semmai tornassi, pensi che per te sarà facile trovare lavoro con il tuo titolo di studi? No, assolutamente. Penso di avere le stesse possibilità dei miei colleghi che si laureano a Milano piuttosto che Padova. Il solo vantaggio, penso, saranno le competenze linguistiche acquisite che immagino siano superiori alla maggior parte dei neo-laureati italiani. Intervistando nostri coetanei, ciò che emerge è la voglia di partire per la mancanza di lavoro e di politiche rivolte ai più giovani. E’ cosi anche per te, o in Veneto c’ è un’aria diversa? Parlo di Verona. E una città bellissima, forse una delle tre più belle in Italia. Ma i veronesi sono molto chiusi, all’antica, gelosi della loro privacy e della loro città. Ed é una città per vecchi, dove gli spazi sociali sono molto pochi, e quei pochi che riescono a sopravvivere sono presi di mira. Le politiche giovanili sono pressoché inesistenti e il fatto che la maggior parte degli studenti universitari veronesi non studino in città dovrebbe far riflettere. Si muovono tutti verso Milano, Trento, Bologna, oppure all’este-
ro. Dal punto di vista occupazionale, farei lo stesso discorso anche se, guardando gli annunci di lavoro, mi semhra che forse qualcosa ultimamente si stia muovendo. Durante la stagione estiva per i giovani si aprono molte posizioni. Tra il lago di Garda, la stagione lirica in Arena e la bellezza della città, i turisti che arrivano, sono davvero tanti e molti i giovani che scelgono di lavorare in un bar o come comparsa per pagarsi gli studi e mettersi da parte qualcosa. Ma per il resto dell’anno, la città non offre moltissimo. Andare via per te è stata una scelta di successo? Dipende cosa si intende per successo. Dal punto di vista sociale e delle amicizie, senza dubbio. Ho incontrato e conosciuto gente da ogni parte del mondo. Nel mio corso di laurea, almeno il 60-70% degli studenti sono stranieri. E in generale, fare amicizia qui é più facile che in Italia. Certo, in Italia ho lasciato molti amici e la famiglia, e ho poche possibilità di vederli, ma per ora sono riuscito a ben armonizzare le due realtà, quella italiana e quella belga. Al contrario, devo ammettere che so-
no rimasto un pochino deluso dall’università. Mi aspettavo qualcosa di meglio, forse le aspettative erano troppo alte, o forse, trattandosi di un grande ateneo, soffre la stessa disorganizzazione e mancanza di rapporto diretto coi professori come in Italia. A Louvain La Neuve, invece, anche l’esperienza universitaria é stata molto positiva. Diciamo che tornando indietro sceglierei sempre di partire, ma probabilmente non tornerei in questa università. Per quanto riguarda il punto di vista lavorativo, la speranza é quella, ma non sono ancora in grado di dare un giudizio. Pensi di voler tornare in Italia? Sicuramente si. Il nostro clima e il nostro cibo non si trovano da nessun’altra parte. Scherzi a parte, il mio desiderio é quello di tornare in Italia per fare un altro Master e poi cercare lavoro. Dopo due anni e mezzo che vivo all’estero mi rendo conto che tutte le critiche che lanciamo al nostro Paese sono ingiuste. L’Italia resta uno dei paesi migliori al mondo, e noi giovani dobbiamo tornare ad esserne il motore trainante.
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I “giovani” italiani Chi resta
I ragazzi italiani partono. Che sia per un breve periodo, che sia per qualche anno o che sia via per una vita, gli italiani partono affamati di conoscenza, con tanta voglia di scoprire qualcosa di nuovo, in fondo però come ci raccontano Miriam e Carlo in queste interviste, con il desiderio di tornare a casa per arricchire il proprio territorio. Un amore, quello per la propria terra che dura una vita, anche se qualche volta o troppo spesso è una passione non corrisposta. So che hai un’affascinante e non comune famiglia alle spalle, ma anche una ricca esperienza di vita, ti andrebbe di raccontarmi un po’ di te? Chiamare “non comune” la mia famiglia è una grande forma poetica, io solitamente la definisco folle, pazza, caotica, avventurosa, un po' come tutte le famiglie, con la differenza che la mia è extra large. Sono la prima di undici fratelli e sorelle, tutti nati da due genitori meravigliosi e “fuori di testa” perché hanno scelto di spendere la loro vita per una causa bella e faticosa come quella di una famiglia numerosa. Sette maschi e quattro femmine, ci dicono di avere lo stesso “imprinting” ma sicuramente la convivenza non è sempre facile. Tuttavia è proprio questo il bello della mia realtà, la costante necessità di confrontarti con qualcuno diverso da te, a partire dal colore dei calzini fino alla quantità di sale nella pasta: la mia famiglia è la più grande palestra di vita che abbia potuto avere, mi ha insegnato il rispetto, il compromesso, il perdono, tutte qualità che vanno allenate giorno dopo giorno per trovarsi bene con chiunque incontrerò nella vita. Io di incontri ne ho fatti tanti, sono sempre stata una “free spirit”, le
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origini australiane di mio padre mi hanno permesso di andare due volte in Australia per il periodo estivo, negli Stati Uniti come ragazza alla pari frequentando alcuni corsi a Stanford, ho viaggiato in tutta Europa con qualche puntata anche negli Emirati Arabi e in Sudamerica. Tutto questo, lo specifico, senza chiedere un centesimo a nessuno perché avere una famiglia numerosa e per giunta mono reddito ti impone, per così dire, di “imparare a cavartela” con determinazione ed inventiva. Da quando ne ho avuto la possibilità ho messo in pratica quelle che erano le mie competenze più affermate facendo la babysitter, l'animatrice, mille tipi di lavori con i quali potermi rendere autonoma, lavori che mi hanno permesso di conoscere quel mondo sconosciuto che mi affascinava così tanto. Il tutto, chiaramente, senza mettere da parte il mio percorso universitario in Scienze Politiche all'Università di Perugia. Come mai nonostante i tuoi tanti viaggi e le tante conoscenze hai comunque sempre scelto di tornare a Perugia? Quando ho iniziato a viaggiare avevo 19 anni, tanta curiosità di uscire da questo mondo che mi sembrava stretto e austero, tanta voglia di mettermi in gioco e sentirmi “libera”. Ho visto il mondo, conosciuto persone, realtà, tradizioni: eppure in fondo sentivo sempre un pizzico di nostalgia di casa. Ciò che mi mancava era il calore di un italiano che ti saluta con due baci pur non avendoti mai visto prima, il suono delle fragorose risate nelle sere d'estate, la bellezza di una chiacchierata vera che non termina con una pacca sulla spalla. Sono cose che ti mancano, se non le hai più.
Cosa trovi e cosa ti offre in più il tuo territorio rispetto agli altri luoghi in cui sei stata? Assolutamente nulla. O forse tutto. Mi guardo intorno e penso che non avrei bisogno di altro nella vita che di questi colori, di questi profumi, di queste tradizioni. Il mio territorio mi offre la bellezza e vorrei bastasse questo per essere felici, per sentirsi al proprio posto. Purtroppo, senza la possibilità reale di restare, senza condizioni economiche che lo permettano, la bellezza non basta. Sempre più spesso, anche con statistiche alla mano, si dice che l’Italia è un paese per vecchi. Credi che questa affermazione sia vera? E’ di qualche giorno fa la notizia dell'età media in Italia secondo l'Istat: 44,4 anni. Si, l'Italia è un paese per vecchi e lo è nella realtà dei fatti. Credo però che il problema non sia esclusivamente legato ai tanti giovani che partono alla ricerca della propria fortuna abbandonando il Paese, ma sia alla radice. Il nostro tasso di nascita nazionale è sotto l'1%, il saldo italiano tra nascite e morti quest'anno ha toccato il record negativo dal 1917-1918: siamo sotto di centomila unità e, stavolta, non a causa della Grande Guerra. L'Italia è un Paese per vecchi perché non investe nel suo futuro, e il suo futuro siamo noi, la nostra generazione, oggi. E’ un circolo vizioso: se io giovane non ho possibilità di lavorare non posso stabilizzarmi, se non posso stabilizzarmi non investirò nel paese né in termini produttivi ed economici, tantomeno in termini societari (un lavoro, una casa, una famiglia), se non investirò nel Paese, il Paese non evolverà.
Si parla tanto di politiche giovanili, ma a livello politico ed economico ben poco si sta facendo per cercare di garantire quel ricambio generazionale che sarebbe linfa per il nostro Paese. Mi sembra di percepire una sorta di diffidenza, di mancanza di fiducia nei confronti dei giovani, la non volontà di dare delle possibilità, di investire nella nostra formazione. Ci vuole coraggio, tanto nella politica, quanto nei cittadini credo che sia questo che manca realmente. Perché per te restare è meglio che partire? Non credo che si possa generalizzare, che sia meglio una cosa piut-
tosto che un'altra. Penso che partire sia coraggioso, ci si dà una possibilità affrontando il mondo di petto, forse con tanta paura, forse con un po' di solitudine, ma cercando la propria fortuna. Restare è ugualmente coraggioso, nella speranza di dare qualcosa di bello a questo Paese, accontentandosi forse di ciò che si ha, ma impegnandosi a guardare il futuro con ottimismo, senza scoraggiarsi o arrendersi. Cosa pensi dei tuoi coetanei che decidono di partire? Mi chiedo spesso se chi parte lo faccia per scelta o per necessità. Io sono stata molto fortunata: appena laureata ho iniziato un'espe-
rienza di servizio civile che mi ha permesso di conoscere da vicino il mondo della formazione per gli adulti. Questo lavoro ha fatto in modo che mi formassi in un contesto lavorativo ben specifico e che fossi assunta da un'agenzia formativa privata nazionale. Dove lo vedi il tuo futuro? Al momento? In un bilocale di 50mq che sto cercando nella mia città, per realizzare il mio desiderio di indipendenza senza dover fuggire lontano. Nel futuro mi immagino impegnata in fantastici viaggi “alternativi” con una famiglia tutta mia, tanti amici ed il profumo di Umbria in ogni angolo della mia vita.
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L’inevitabile amore della libertà di Sara Mirti e Elisa Conti La malattia dell’amore
“La nostra malattia è fare l’amore?”; così ha scritto qualcuno nella dedica di un libro di Marguerite Duras trovato su una bancarella. Sembrerebbe una mano femminile e c’è una data né troppo lontana, né troppo vicina: novembre 1989. Chissà quanti anni avrà avuto l’autrice della dedica, chissà se avrà trovato la persona giusta (non quella a cui ha affidato il libro, altrimenti non sarebbe finito altrove), se avrà avuto figli o meno, e chissà se ormai ha imparato a convivere con una sindrome amorosa tanto complicata quanto comune? Quella dell’amore paradossalmente potrebbe apparire ad alcuni come una malattia facile da gestire, eppure, e lo sappiamo bene, non c’è nulla di più difficile da curare, da lenire, da addomesticare. Noi non siamo come tutte le altre creature viventi che popolano questo pianeta, animali o vegetali: noi siamo coscienti di esistere, e nutriamo una certa consapevolezza della nostra individualità, dei nostri sentimenti, dei nostri limiti. Mentre il cosiddetto diritto naturale c’impone di nascere, ammalarci, subire gli eventi e morire, di volta in volta vari diritti sociali sono intervenuti per tutelare le nostre aspettative, la qualità di questo nostro vivere. La tendenza ad amare di ogni essere umano ha la stessa urgenza del respirare, la stessa naturalezza, propria dei bambini, del provare a reggersi in piedi da soli per fare qualche passo. E’ un percorso pieno di ostacoli che per di più conduce inevitabilmente a una fine, ma è comunque un destino che non si può evitare di abbracciare. Lo sapevano bene Sansone e Dalila (o dovrei dire Shimshòn e Dlilà), affetti da un amore
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terminale a cui non hanno potuto sottrarsi: paladini di opposte fazioni, immersi quindi in una società ostile, essi hanno cercato solo di allungare di una manciata di giorni il loro amore. Ogni volta che Dalila legava Sansone per i Filistei ella strappava un altro abbraccio all’amato. Ma quei legami e quegli abbracci si spezzavano sempre, come un filo di stoppa che si spezza senza essere toccato dal fuoco, ma soltanto sfiorato dal respiro della fiamma; essi non si sono mai traditi, ma si sono accompagnati a vicenda verso un’inevitabile fine (si veda “Vita di Sansone”, trad. E cura di Erri che Luca, Universale Economica Feltrinelli, Milano 2002, p. 55). Accade ancora oggi che, com’è accaduto a Sansone e Dalila, sia l’amore ad essere contagiato da affezioni sociali, pseudoculturali e pseudoreligiose. A muovere contro l’amore tra due individui spesso sono gli interessi, espliciti o meno, di altri individui, che non sono necessariamente la maggioranza e che non sono sempre spinti dalle migliori intenzioni possibili. Non solo odi etnici, dunque, faide familiari (ricordate Romeo e Giulietta?), differenti appartenenze religiose o di classe: anche due persone dello stesso sesso, ancora oggi, nel 2015, non sempre e non ovunque sono libere di amarsi. Ancora oggi autorità di ogni ordine e grado, incapaci di far fronte ai cambiamenti, lamentano la paura del diverso, dell’estraneo, di quell’elemento perturbante che si nasconde, dormiente, in ogni ordine costituito e che, cacciato dalla porta, finisce sempre per irrompere dalla finestra. Il perturbante s’incarna in colui o in colei che può eludere la Norma, può aggirare i dettami socia-
li e per questa sua natura viene considerato destabilizzante, pericoloso; e gli innamorati lo sono sempre, a prescindere dalla loro appartenenza sociale, culturale, religiosa, a prescindere dal loro orientamento sessuale. “Non si può identificare lo spettacolo dell’eterosessualità con il desiderio amoroso profondo: l’eterosessualità quali oggi si presenta non è che la forma dominante ‘normale’ dell’Eros mutilato ed è in primo luogo negazione dell’amore tra persone di sesso diverso, oltre che negazione dell’omoerotismo. [...] Il desiderio amoroso profondo si coglie e intuisce sotto, attraverso e oltre le attuali manifestazioni contraddittorie d’ ‘amore’. Amore forse è la tendenza al superamento del delirio individualistico, solipsistico, idealistico, ‘normale’; amore è la tendenza all’annientamento delle categorie fruste, nevrotiche ed Egoistiche del ‘soggetto’ e dell’ ‘oggetto’. A suo modo Feuerbach l’aveva intuito. Marx pure.” (M. Mieli, “Elementi di critica omosessuale”, a cura di G. Rossi Barilli e P. Mieli, Feltrinelli, Milano 2002, p. 65).
Cuori distratti
Immaginate dei fiori recisi, posati con tante buone intenzioni, ma con troppa fretta, in un vaso; immaginate la loro reciproca sorpresa nel ritrovarsi fuori contesto, senza radici, in un ambiente limitato, e per di più tra sconosciuti. Ecco, spesso le persone fanno conoscenza allo stesso modo dei fiori recisi: si scontrano apparentemente per caso e si ritrovano costrette le une vicino alle altre. D’altra parte abitiamo tutti un unico mondo troppo angusto...dove altro potremmo andare?
Accade così che le persone dopo essersi scontrate, magari finiscono per innamorarsi, del tutto incuranti del possibile disastro che ne potrebbe derivare. Ma “disastro” non significa obbligatoriamente morte o sciagura...a volte significa soltanto che un uomo, o una donna, ha deciso di staccarsi dalla propria stella, dalla o dalle certezze intorno cui la propria vita gravitava fino all’istante prima, rompendo la propria fissità “cosmologica”: è un dis-astro. Un essere umano che decida di dis-astrarsi, di abbandonare la propria stella o tutte le stelle del cielo, lo fa perché sono troppo lontane, perché su di esse non è riuscito a trovare la propria immagine più vera. Per ritrovare se stessi, infatti, serve un altro essere umano che si fermi sotto i nostri occhi abbastanza a lungo da fare le veci di uno specchio, di una qual si voglia trasparenza in grado di riflettere i nostri cieli di carta di burattini indisciplinati. Il dis-astro è la libertà di apparire nella propria umanità, nella propria immanenza. E’ l’unica via che ha l’uomo per trovarsi attraver-
so un altro uomo; e a volte lo fa trasformando l’essere amato nella propria stella caduta. C’è un po’ di dis-astro nell’etica, nella filosofia, nella sociologia, nell’antropologia, nella letteratura... Ma è uno sguardo romantico a muovere la maggiore delle leve con cui dis-astrarsi dal nostro universo di valori fissati prima ancora che noi nascessimo. “Il dis-astro [...] non è neppure soltanto l’interruzione di un progetto forse già fallito prima del suo stesso sorgere. Il dis-astro inaugura la possibilità che l’umano arrivi a se stesso attraverso l’altro uomo. Tutto sembra allora giocarsi all’interno di questa possibilità: che l’arroccamento su di sé e la perseveranza nel proprio essere, che posticipano e fisiologizzano gli altri in funzione delle proprie necessità vitali o delle ricorrenti ragioni superiori, possano interrompersi per un attimo. Se questa distrazione da sé è possibile, allora non solo sarà possibile la libertà di questo poi si tratta -, ma sarà possibile anche quel mondo comune in cui l’umano appare all’umano nella sua li-
bertà e nel suo segreto, un mondo che sfugge al dominio della necessità che tutto soffoca e travolge: sia questa necessità nella forma delle leggi inflessibili della natura o in quella dei meccanismi subdoli e schiaccianti di una società. Il dis-astarsi da sé è l’etica, è il sociale. È la stessa filosofia. [...] Se è possibile distrarsi da sé, se qualcosa può essere diverso da come è, e se, ancora, il mondo degli uomini può venire smentito nella configurazione che si ritrova ad avere, nella sua facile e tragica prevedibilità, allora anche l’umano è possibile: possibile perché interrompe il muro invalicabile della necessità che lo soggioga, e possibile perché per un attimo, quasi miracolosamente, si sospende la violenza reiterata di insistere ad oltranza su se stessi come se non vi fosse nessun’altra possibilità data all’umano se non quella di lottare o di patteggiare con gli altri, come se all’umano non riguardasse la libertà di poter trascendere in qualche modo rispetto a se stessi - che è poi l’unico modo per trovarsi per davvero. [...]
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La distrazione si fa allora una macchietta comica, talora una tragedia. [...] Vi è un essere distratti, e vi è un distrarsi da sé: e questo distrarsi da sé per volgersi ad altro, questo essere strappati con forza dall’obbligo fisiologico di rimanere pur sempre presso di sé, inaugura l’apparizione di un mondo differente, che è poi il mondo dell’umano, dove qualcosa d’altro oltre a me e ai miei interessi è presente - e non si tratta per nulla di qualcosa di sopravvenuto o di accidentale rispetto al mio essere. La distrazione da sé accade all’umano, quasi controvoglia: basta osservare quanto avviene già, nonostante tutto, ogni giorno. [...] La distrazione da sé è l’ingresso dell’infinito nell’esistenza, perché essa rompe con ogni definizione: nessuna distrazione da sé sarebbe possibile se, per l’umano, davvero tutto fosse così come è, se tutto corrispondesse senza residui alla propria definizione. La distrazione da sé è lo sbriciolarsi faticoso della ripetitività in apparenza ineluttabile delle proprie faccende. Ingresso e rottura non sono un’apertura agli altri: sono, semmai, l’irruzione dell’impensato dentro il già pensato, il venire in luce della prossimità ad altri, non come un’esistenza buona, bensì come la condizione umana, la bontà dell’esistenza. L’ingresso dell’Infinito nell’esistenza - «presenza dell’Infinito in un atto finito» (Etica e Infinito, 7; 94) - è la socialità stessa. [...]” (F. Riva, La distrazione da sé, ovvero: la prossimità, il sociale, in E. Lévinas, Etica e Infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, a cura e con un saggio introduttivo di Franco Riva, trad. di M. Pastrello, Città Aperta Edizioni, Troina (En) 2008, pp. 7 ss.). Ora spostate la vostra immaginazione da un vaso di fiori a un autobus affollato nell’ora del rientro serale, in cui ciascun passeggero incarni il proprio personale disastro: immaginate che il trucco non regga più, che non ci sia più molta differenza tra un vestito elegante e uno consumato visto che a sera sono entrambi sgualciti; immaginate i passi pesanti e l’incertezza di chi abbia abbandonato ogni maschera inespressiva e ora sia preda di troppi tic. Immaginate di poter leggere sul volto di chi vi è di fronte ogni pensiero, ma di non avere abbastanza spazio per voltarvi, di non sapere dove altro posare lo sguardo. Ora immaginate che un bambino si fermi a guardarvi, vi sorrida e vi chieda a cosa state pensando. Come spieghereste il vostro stato d’animo? Come si fa a spiegare un qualsiasi sentimento a chi non l’ha ancora mai provato?
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La teoria del gender o la teoria del Tutto
Non vi è nulla di semplice in natura, nulla che si possa dare per scontato; tutto è soggetto a mutamento, mentre noi esseri umani, creature consapevoli di esistere e che da sole abbiamo dato un nome a noi stesse e a ciò che ci circonda, appellandoci a definizioni sempre più complesse e precise, abbiamo ingaggiato con la natura una difficile partita a scacchi destinata a non finire mai. Per esempio, cosa significa “gender”? Genere certo, ma anche identità e appartenenza a una categoria, oppure “semplicemente” sesso; si tratta insomma di una parola che ha forti implicazioni sociali e che è complicata da tradurre (per esempio “gender balance”, “l’equilibrio tra i due sessi”, spesso viene impropriamente tradotto come “equilibrio di genere” e trova il corrispettivo in italiano nella perifrasi “pari opportunità” che accumuna in sé temi diversi, come uguaglianza, emarginazione e discriminazione). “C’è un bisogno profondo, tipicamente umano, di definire e definirsi secondo il ‘genere’ (Argentieri 1988); di attribuire un’identità maschile o femminile al mondo circostante ben al di là del campo specificatamente sessuale. Perfino il linguaggio, in molti ceppi linguistici, estende la distinzione del genere grammaticale in maschile, femminile, neutro talvolta, a tutto il mondo animato e inanimato [...]. A mio avviso, sia pure in modo schematico, il problema della sessualità umana si può così articolare: - Un primo livello biologico, anatomico (con lo specifico substrato genotipico, fenotipico, ormonale ecc.). - Un secondo livello del genere, cioè del senso psicologico di appartenenza al maschile o al femminile, che si costruisce necessariamente nella dimensione relazionale; sia nel rapporto con gli altri come uguali o differenti, sia nel rapporto con il proprio corpo. - Un terzo livello delle vicissitudini pulsionali con le loro necessarie componenti istintuali, da cui deriva l’agire o il non agire il comportamento propriamente sessuale. - Un quarto livello poi - il più discutibile - riguarda i ruoli e le funzioni solo secondariamente e socialmente “sessualizzate” (ad esempio, connotare come “maschili” o “femminili” attitudini emotive o intellettuali o mestieri o modelli di comportamento). - C’è infine un quinto livello metaforico - il più ambiguo - in cui si parla di “maschile” o “femminile” come estensione analogica, poetica, suggestiva del discorso; oppure come composita duplicità
dialettica di una stessa realtà umana (ad esempio, i concetti di animus e anima). [...] Troppo spesso [...] tra l’uno e l’altro si verificano conflitti e contraddizioni” (S. Argentieri, “A qualcuno piace uguale”, Einaudi, Torino 2010, pp. 22 ss.). Conflitti e contraddizioni che nemmeno noi adulti riusciamo a dipanare. La sex education rappresenta una delle armi a nostra disposizione per insegnare agli esseri umani a convivere con se stessi, col timore e tremore con cui ci approcciamo al corpo agito, vissuto. Già nel 1924 Sabina Spielrain (che insieme a Vera Schmidt aveva fondato l’Asilo Bianco) introduce l’educazione sessuale nel suo asilo. Ma quando dovrebbe iniziare una corretta e “sana” educazione sessuale? Di fatto, nel momento in cui iniziamo a nominare le diverse parti del corpo essa è già iniziata; tanto vale allora conoscerne i diversi aspetti. Perché dunque si ha così tanta paura di parlarne? L’impressione è che la sex education sia stata pensata più per preparare i genitori alle diverse fasi di esplorazione e crescita che attraverseranno i loro figli che per i bambini stessi. Certo aver iniziato in tenera età un dialogo aperto su ciò che concerne la sfera sessuale potrebbe risultare estremamente utile durante l’adolescenza, ma la verità è che la sex education prima di tutto è estremamente utile a genitori ed educatori che dovranno trovarsi a fronteggiare atteggiamenti e domande inerenti la sfera “sessuale” da parte di bambini e adolescenti, e che dovranno farsi trovare pronti, offrendo il proprio supporto e la propria competenza. Per lo più le diverse religioni vedono nei bambini delle creature innocenti, dei fogli bianchi pronti per essere scritti, ma spesso, proprio in virtù di questa loro “disponibilità”, li considerano bersagli privilegiati del Male, ospiti naturali di elementi perturbanti. In bambini e adolescenti si nasconde infatti il seme del nuovo così come del diverso, un potenziale di cambiamento più o meno destabilizzante; da qui l’animoso contendersi le loro menti, le loro azioni, i loro atteggiamenti: la formazione dei minori, l’abbiamo visto con la recente polemica della cosiddetta “teoria del gender”, rischia di diventare un terreno di scontro senza quartiere. In realtà la teoria del gender, così com’è stata presentata recentemente da molti, non esiste e non è mai esistita. Ad esistere invece è quello che Michael Crisantemi in un articolo ha definito “paradigma eterosessuale”: “La prova più evidente di questo assunto è rinvenibile nella sentenza della Corte Costituzionale 170/2014 sul c.d. divorzio imposto.
La Consulta pare virare su un’interpretazione ancora più originalista dell’art. 29 arrivando ad affermare la superiorità de ‘l’interesse dello Stato a mantenere il carattere eterosessuale del matrimonio’, interesse che in nessun modo potrebbe essere paragonato a quello egoistico e personale delle ricorrenti (nel caso di specie, due coniugi, in seguito al cambio di sesso del marito, chiedono di poter rimanere uniti in matrimonio). Ecco che denunciato il paradigma eterosessuale, scovato, accerchiato e minacciato, non resta che affermarlo con chiarezza, se non con un certo orgoglio, e costituzionalizzarlo. Se la tutela accordatagli finora dal peso della tradizione e dalla naturalezza ha cominciato a scricchiolare si cerca allora di rinsaldarlo tramite l’argomento costituzionale. Ma qui si tratta di capire ciò che per il nostro ordinamento è considerato santo. L’espressione non ha nulla di metaforico: per dirla con il sociologo francese Eric Fassin, una cosa santifica, in una società democratica, è ciò che si ritiene essenziale e che pretende di essere sottratta alla deliberazione politica, per assurgere ad una verità assoluta che trascende la storia. E questa verità che si pretende intoccabile altro non può che essere il paradigma eterosessuale: maschio e femmina li creò: tertium genus non datur” (M. Crisantemi, “La santità del paradigma eterosessuale”, 23 maggio 2015). Polimorfismo perverso da una parte e santità dall’altra...come se ne esce? Quando si dice che “il bambino è il padre dell’uomo” non solo s’intende, romanticamente, che il bambino possiede uno spirito più elevato rispetto all’uomo, ma ci si riferisce soprattutto al fatto che il bambino ha una mente pensante, assorbente, onnivora, in grado di catalogare già dai primi giorni di vita le emozioni, le sensazioni, gli ambienti, le persone. In questo senso sarebbero auspicabili ambienti deprivati, “denutriti” (che, per dirla con la Montessori, mantengano il bambino affamato di conoscenza), addirittura armoniosi e rispettosi del bambino e del suo percorso d’individualizzazione e di caratterizzazione. Ogni bambino si trova a dover perdonare molto agli adulti che gli sono intorno: errori, scelte azzardate, infiniti cambi di programma... La verità è che facciamo fatica a rivolgerci a un bambino come faremmo con un essere dotato di una mente pesante, piuttosto ci riesce più semplice trattarlo come fosse nulla più di un tubo digerente... Ma il bene, il bello e il vero (di derivazione montessoriana) rimangono tutt’ora gli unici principi in grado di far crescere il bambino in un ambiente armonioso, tanto a casa
quanto a scuola. Basta solo avere il coraggio di andare a cercare tali principi al di là di verità preconfezionate. Dopo un’attenta osservazione di ciò che lo circonda, il bambino fa emergere in totale autonomia la propria volontà, il proprio interesse; è la sua missione quella di fare continuamente nuove scoperte…la sua attenzione pian piano verrà polarizzata da ciò che incontra durante il suo percorso di ricerca. Al bambino va lasciata libera scelta, bisogna dargli fiducia e sapergli restituire un ambiente attivo, in grado di fornirgli tutti gli strumenti che gli servono. In quest’ottica, qualsiasi forzatura, “santa” o “malvagia”, finirebbe per negare ogni libera scelta ed annullare così ogni intento educativo. La sex education serve proprio a questo: spiegare ai genitori le fasi fisiologiche (a partire dall’anatomia del corpo proprio e altrui, fino ad arrivare all’implicazione della sessualità nelle relazioni umane; tutte fasi già presenti nella crescita e in alcun modo indotte) dello sviluppo sessuale dei bambini, affinché non si stupiscano, non si scandalizzino e soprattutto non li lascino soli. Quello che spaventa di più, forse, è proprio la libera scelta che andrebbe lasciata ai bambini: essi sono figli della società in cui nascono, eppure potrebbero decidere di non abbracciarne le ideologie. Proprio come hanno già fatto divinità (si pensi a Urano) e re (per esempio Erode) prima di noi, per impedire che nasca qualcuno in grado di sovverti-
re il nostro reame di certezze e di prendere così il nostro posto, troppo spesso ci abbandoniamo a pressioni diseducative e profondamente dannose per lo sviluppo armonioso e cosciente di un individuo. Se persino il buon Dio ci ha lasciato il libero arbitrio, pur sapendo già quale uso ne avremmo fatto, chi siamo noi per limitare la futura libertà di amare dei nostri figli? Perché strumentalizzarli, farne uno scudo umano in difesa delle nostre sia pur intime convinzioni? I costumi, le società continueranno a cambiare, spesso in meglio, e no, non finirà il cielo per questo, ma se anche l’universo intero alla fine dovesse collassare scandalizzato, per quel tempo tutte le nostre certezze saranno già diventate inevitabilmente polvere. “Dietro la repressione dell’omosessualità si cela un’omosessualità come ponte, ponte verso l’ignoto (o, forse, verso ciò che sappiamo da sempre senza saperlo). Ancor oggi troppa gente ha paura di passare realmente sull’altra sponda. [...] In ogni caso, andare oltre è possibile soltanto quando il desiderio sessuale si è liberato completamente. Al di là della gaia totalità vi è tutto il resto: il ‘Paradiso’ ci attende…” (M. Mieli, “Elementi di critica omosessuale”, op. cit., pp. 139-140). Molto spesso al di là di quel ponte ci sono i bambini che siamo stati, i nostri figli, amici e parenti: vale davvero la pena consegnare all’incoscienza e al vuoto una parte così grande di noi stessi?
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IlstoriaTeatro sordo della Compagnia
Laboratorio Zero di Roma (parte seconda)
di Dario Pasquarella Si ringrazia Elisa Conti per la traduzione dell’elaborato di tesi da cui sono tratte le diverse parti di questo articolo.
L’inizio di Ginetta come unica regista
Dopo due spettacoli, Tonino Cufano decise di ritirarsi. Ginetta entrò nel panico: ora doveva rimboccarsi le maniche e continuare per la sua strada. La regia globale, gli effetti sonori e le luci preoccupavano molto la regista che solo in un secondo momento prese coraggio e iniziò il suo cammino. La segretaria della sezione Provinciale ENS di Paolino Gambacorta, chiamò Benedetto Tudino un artista estroso, provando così a lavorare con compagnia del teatro dei sordi pur non conoscendo la comunità dei sordi e la lingua dei segni. Per la prima volta fu chiamato a collaborare un udente che non conosceva la lingua dei segni, e tale situazione migliorò con la presenza di Maria Luisa Franchi come volontaria che segnava e traduceva Benedetto porterà in scena con Ginetta “C’era una volta, Rugantino ...” creando una sua sceneggiatura, i costumi, ecc. In questa occasione riesce a valutare e a stimolare al meglio l’arte e il mimo dei sordi, per questo motivo lo spettacolo è molto ricco di espressione tanto che durerà ben tre ore. La ricerca degli attori e la nomina del ruolo del protagonista portò un disquilibrio iniziale in quanto il profilo di Rugantino era quello di un personaggio magro, agile e dinamico. A tali requisiti non corrispondeva nessuno e così si scelse di optare per Emanuela Cameracanna. Per la prima volta all’interno del teatro dei sordi una donna aveva il ruolo del protagonista maschile, tale scelta fu fatta in virtù della sua mascolinità ed energia. Inizialmente vi fu-
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rono preoccupazioni da parte della regista ma lo stesso pubblico ignaro ne fu affascinato. Gli attori erano: Rosanna Betto, Emanuela Cameracanna, Di Vita Gianni, Conchita Forlasto, Francesco Raffaelli, Ginetta Rosato, Anna Maria Saba e Francesca Sassi. Attori emergenti: Daniele Arioli, Daniela Quarta, Maria Grazia Ciolini,Paolo Tilli, Vera De Giacobbi, Sergio Di Pietra, Alberto Muscio e Franco Mastria. Lo spettacolo fu 11 Giugno 1987 Roma, presso il Teatro Colosseo. La regia fu di Ginetta Rosato e Benedetto Tudino. Scenografia e Costumi a cura di Luisella Zuccotti. Collaborazione Musicale di Claudio Rovagna. Voce in scena e voci fuori campo furono di Maria Luisa Franchi. Durante lo spettacolo il pubblico non si accorse di nulla, la finzione del teatro ebbe il massimo risultato, un’attrice nei panni di uomo, in un ruolo di uomo ebbe il suo successo. Con grande entusiasmo ci fu una proposta che portò delle entrate alla compagnia. Dice Ginetta: “Il Presidente della Sezione Provinciale ENS Luigi Bove, mi suggerì di gestire il bar del circolo che in quel periodo era molto frequentato da soci sordi. L’incasso avrebbe coperto le spesse di scenografia, costumi, fitto del teatro, e altro ma...per me significava poche ore di sonno tanto lavoro...” (vi veda Rosato, G.., Laboratorio Zero, Roma, Kappa, 2011, p. 10). Purtroppo nell’autunno del 1987 in Via Gregorio Settimo la sezione dell’ ENS di Roma e il teatro dovettero cambiare sede, così la compagnia con le proprie forze dovette trovare una nuova sede. Gli uffici della Sezione ENS furono trasferiti in Via Bezzecca ma per il teatro non esisteva più spazio. Inoltre dopo le tre tournee in cui Daniele Arioli interpretò Mastro Titta, uno degli attori fece un grave incidente e fu costretto a rimanere fermo; solamente con il sostegno e le
continue esortazioni della moglie, riuscì, dopo qualche tempo, a riprendere possesso della mobilità delle sue mani, ovvero riuscì a segnare. Ci una replica, il 28 novembre 1987, presso lo Stabilimento Militare di Fontana Liri (Frosinone). “Infatti in questa collaborazione il regista udente voleva mettere in scena uno spettacolo di quattro ore, e accadde così che durante la trasferta a Frosinone ripresi in mano il tutto e diminuii lo spettacolo togliendo parti del copione, fino a quando non risultò di due ore, il regista, che era in platea e osservava lo spettacolo, dapprima si infuriò per aver tolto parti del copione e per non averlo avvertito, ma poi mi disse che ero pronta come regista. Il mio operato ed il copione funzionavano e così mi disse di continuare da sola.Vedeva in me delle capacità e così potevo continuare il mio percorso. Così iniziai, ma per le musiche i rumori io non potevo occuparmene, e questo è stato un problema. Dovetti iniziare a lavorare con un udente e solo un rapporto di fiducia poteva rassicurarmi. “E così fin ora lo è stato, finora sembra di aver avuto una fiducia, ultimamente alcuni udenti hanno manifestato il loro interesse, ma io vorrei che i sordi si rendessero conto che è una possibilità di cultura alla pari” (intervista a Ginetta Rosato del 22 Maggio 2013 - di questa intervista ho conservato il documento filmato). Poi ci fu la replica del 3 marzo 1988, Roma Teatro Brancaccio; la sede Centrale ENS organizzò una manifestazione artistica di due giorni dal titolo “Sentiamoci amici”. Vennero premiate persone sorde e udenti che appartenevano al campo artistico, sportivo e sociale. In quell’occasione vi fu anche uno spettacolo della compagnia Ciclope di Palermo. Replica all’estero, il 9 luglio 1989, a Washington D.C. (USA), presso la Gallaudet University.
“L’Hotel del Libero Scambio”, 1993 “Collegandoci a ciò, un altro episodio fu la partenza per Washington D.C. L’organizzazione prevedeva vitto e alloggio pagato per tutta la compagnia mentre le spese di viaggio dovevano essere a nostro carico. Una volta un volo del genere era molto caro, oggi invece è tutto più accessibile. Proprio all’interno dell’ENS il commissario udente con relazioni con il Ministero degli affari esteri e dei beni culturali, ci garantì il supporto economico da entrambi gli enti; così gli diedi carta bianca perle questioni burocratiche, e intanto noi preparavamo la partenza. Ci domandò quanti fossimo a partire e tra attori efalegnami il numero si aggirava intorno alle ventidue persone, più i parenti di alcuni che avrebbero provveduto da soli alle proprie spese; ma la sua risposta fu negativa: eravamo in troppi. [...] Noi avevamo già prenotato come d’accordo, ma il commissario, rimasto deluso, si ritirò e non ci aiutò. Noi dovevamo comunque partire anche perché in caso contrario avremmo dovuto pagare una multa. La somma dei biglietti era intorno ai 22 milioni, e allora Luisella Zuccotti, Luigi Bove, Emanuela Cameracanna ed io, mettemmo le quote per poter partire. Restammo per una settimana al “Fastival Deaf Way”; fu un’esperienza bellissima che ci diede molta soddisfazione. Dopo andammo una settimana a New York, alle Cascate Niagara, a Boston, e, finito il nostro itinerario, tornammo a Roma”(intervista a Ginetta Rosato del 22 Maggio 2013 di questa intervista ho conservato il documento filmato). Dopo lunghe peripezie per trovare i fondi e promuovere lo
spettacolo, eventi negativi rallentarono la partenza fino a quando ciascun attore di propria iniziativa volle contribuire alle spese. Fu sufficiente un contributo di 10 milioni di vecchie lire per poter portare il mobilio che, una volta arrivato in America, l’artigiano Serafino Flavi poté assemblare. Attori: Emanuela Cameracanna, Daniele Arioli, Rosanna Betto, Vera De Giacobbi, Di Vita Gianni, Anna Maria Saba, Paolo Tilli e Ginetta Rosato. Nuovi attori: Antonio Carboni ruolo Gnecco, Maria Baffigi ruolo Amica, Carmine Cubelli ruolo soldato e Amico, Teresa Giangirolami ruolo Donna Marta, Francesco Raffaelli ruolo Marchese Facconi, Paolo Rossini ruolo Amico, Maria Rybicka ruolo Amica, Maurizio Scarpa ruolo Scariotto. Attori ritiratisi: Conchita Forlasto, Francesco Raffaelli, e Francesca Sassi, Daniela Quarta, Maria Grazia Ciolini, Sergio Di Pietra, Alberto Muscio e Franco Mastria che non vollero partecipare. Solo con tale opportunità la regista Ginetta potrà verificare, comprendere e percepire che solo attraverso l’integrità della lingua dei segni come vera lingua autentica, si sarebbe stato possibile dare vita al teatro sordo, grazie al “Festival Deaf Way” infatti riuscì iuscrà a vedere compagnie segnare e manifestare le proprie identità. Il Laboratorio Zero a confronto con le altre compagnie straniere aveva un livello minore di qualità, pur mantenendo una profonda passione per il teatro, il suo patrimonio linguistico era riconducibile ad un italiano segnato che interferiva notevolmente sull’identità del sordo; forse questo ac-
cadeva perché in Italia le ricerche scientifiche su tale lingua ancora non erano state avviate. Questo non accadeva nelle altre compagnie straniere che invece mantenevano il proprio patrimonio linguistico ovvero la propria lingua dei segni francese, inglese spagnola ecc.
L’avventura di Laboratorio Zero
La compagnia prese il nome di Laboratorio Zero e tale nominazione derivò da un lungo periodo di mancanza di incassi e di fondi e da qui “zero”: indicava il nuovo avvio, lo start per ricominciare. “...si respirava un’aria di scoraggiamento per la mancanza di aiuto e di sostegno morale. Questi temi sono all’ordine del giorno all’interno del gruppo e come racconta la regista: Zero soldi, Zero aiuto delle persone, Zero sostegno morale ...” (Zinna, S., Dar voce alla Cultura Sorda, Roma, Aletti, 2010, p. 90). Nel 1987 divenne ufficiale il nome di Laboratorio Zero, e tutto ciò è stato reso possibile grazie a Luigia Rosato, conosciuta meglio con il nome di Ginetta, che, pioniera nel territorio Laziale, aveva fondato tale laboratorio già dieci anni prima. Il logo della compagnia era “ ...La produzione di una delle tessere d’ingresso al teatro, di provenienza greca- romana. Era abbastanza frequente anche nell’antichità l’impiego di speciali contrassegni come abbonamenti dalle dimensioni di una medaglia. Il numero XVII diciassette, riportato nella maschera, forse indicava i posti a sedere. I Forellini ai lati servivano per legare i lacci ...” (Rosato, G.., Laboratorio Zero, Roma, Kappa, 2011, p. 200).
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“Il Cilindro”, 2002 “[...] mi chiesero di fare altri spettacoli e io accettai, e man mano che la mia esperienza cresceva i miei spettacoli aumentavano. Non ho mai pensato di essere una regista, il mio incarico di attrice era già importante, ma ci fu un evento che segnò il passaggio come regista” (intervista a Ginetta Rosato del 22 Maggio 2013 (di questa intervista ho conservato il documento filmato). Nel 1990 Ginetta prende coraggio e decide di lavorare da sola come regista, con la “Carmen” di Georges Bizet. La musicalità di questa opera verrà trasformata ed evidenziata da balli e coreografie di Anna Rocca. Per i dialoghi verrà utilizzata la lingua dei segni, che delineerà un approccio globale e altamente artistico. In questo momento si concluse la collaborazione con Luisella Zuccotti per la realizzazione delle scenografie (verrà Sostituita con Serafino Flavi). Gabriella Fusco continua a confezionare e cucire i costumi dal 1984. Attori: Emanuela Cameracanna, Maurizio Scarpa, Ginetta Rosato, Giusy Botto,Vera De Giacobbi, Maria Rybcka, Paolo Tilli. Arrivarono nuovi attori: Carmela Ricciardolo, Alfredo Mastromatteo, Giuseppe Bianculli, Corrado D’Aversa. Voce di scena e voce fuori campo di Maria Luisa Franchi e Renato Vicini. Spettacolo: 1 giugno 1990, Roma- Teatro Orione. Repliche: 28 giugno 1990, Roma Cinecittà-tenda 90’ - 07 dicembre 1990, Barcellona (Spagna) “IV Biennal International de teatre de sords” - 11 Maggio 1991, Como teatro Lotta.
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Nella “IV Biennal International de teatre de sords” di Barcellona (Spagna) ci furono vari spettacoli di compagnie russe e svedesi e in questa circostanza si verificò un incontro particolarmente rilevante: un attore sordo russo diede dei consigli a Ginetta sul teatro, su come velocizzare i movimenti, dare i tempi e come focalizzare un metodo efficace per le entrate e le uscite. Ginetta dopo questa esperienza tornò a Roma arricchita e molto soddisfatta. Per la prima volta, nel ruolo di regista, riuscì a delineare una buona linea sul come creare le scene, dando una visione completa dello spettacolo e ponendosi come guida per il gruppo degli attori. Fondamentale passaggio in questo periodo è la corrispondenza e l’integrità della lingua dei segni, con la sua costruzione e dinamicità: si passa dall’italiano segnato alla LIS. Il teatro dovette cambiare ancora sede, cercarono e infine trovarono una sistemazione nell’Istituto Statale per Sordomuti di Via Nomentana, n. 54. Lì ci fu una stanza a disposizione proprio dove erano collocati i dormitori; occuparono quindi una stanza dell’ex dormitorio maschile e femminile anche una stanza per l’ufficio e i bagni. Nel 1992 la stessa regista decise di optare per un nuovo genere teatrale ovvero la commedia “Hotel del Libero Scambio” di Goerges Feydeau, tale cambio fu grazie al suggerimento di Giulia Porcari. Tale commedia ebbe una novità esilarante, le scenografie infatti erano aperte, vale a dire senza
pareti. Ginetta comincia a capire l’importanza della LIS e scoprirsi consapevole. Attori: Maurizio Scarpa, Ginetta Rosato, Giusy Botto, Daniele Arioli, Maria Rybicka, Gianni Di Vita. Emanuela Cameracanna, Paolo Tilli e Francesco Raffaelli. Nuovi attori: Barbara Di Renzo, Luciana Rinaldi, Angelo Santinelli, Roberto Porcu e Francesco Russo. Voce fuori campo e di scena di Maria Luisa Franchi, Anna Rocca, Marco Nardi e Renato Vicini. Lo stesso spettacolo venne ripetuto il 28 maggio 1993, Roma Teatro Vascello, gli spettatori seguirono attentamente tutta la scena, per la prima volta lo spettacolo in Lingua dei Segni Italiana. Grande soddisfazione ed ottimo livello di gradimento da parte del pubblico. Ci furono ulteriori repliche: 11 giugno 1993, l’Aquila Teatro S. Agostino - 13 novembre 1993, Roma Teatro Avila. Durante le repliche quattro attori furono sostituti: Daniela Quarta, Massimiliano Cascitti, Antonio Carboni e Massimo Raimondi. Ci fu una nuova replica il 17 giugno del 1994, a Pescara nel Teatro Massimo. Nel 1993 la sede fu spostata al dormitorio femminile ma sempre in Via Nomentana, n.56 purtroppo con uno spazio ridotto, perché vari direttori occuparono tali spazi come la sezione maschile. “Il grande problema che affligge il Laboratorio Zero è quello di non avere un domicilio e una vera sede, anche in questo momento storico il Laboratorio Zero si trova in questa situazione.
Nel 1994 circa, tornando da una tournée a Pescara trovammo una spiacevole, orrenda sorpresa: il direttore scostante, ci fece trovare tutto il materiale scenico, attrezzature varie costumi, il tutto buttati fuori in via Nomentana.Cercai spiegazioni e con aggressività mi rispose che avevamo occupato la proprietà abusivamente; anche con il contratto registrato fecero storie, quindi dovetti preparare di nuovo una lettera e una volta trovato il contratto registrato e ottenute le scuse, dovemmo riportare il tutto in sede. Questo atteggiamento mi ferì molto perché sottolineò un atteggiamento di disinteresse e mancanza di rispetto: potevano trovare un’altra locazione, ma non buttare tutto fuori dal teatro, per strada; non lo dimenticherò mai quel giorno. Anche perché all’interno dell’istituto il CNR, il Gruppo Silis la scuola e altri che conoscevano il nostro elaborato, non ci supportarono e vedendo questa situazione non reagirono difendendoci, anzi furono distaccati. Dovemmo muoverci da soli, solo Maria Luisa Franchi ci ha sempre sostenuto. Molto ma molto, ci ha aiutato, facendoci da tramite per chiamate, giri burocratici e quant’altro” (intervista a Ginetta Rosato del 22 Maggio 2013 - di questa intervista ho conservato il documento filmato). Nelle parole della regista si possono capire quante vicissitudini ha dovuto affrontare il Laboratorio Zero. La sede era diventata dunque una cantina umida, con una finestra che dava direttamente sulla strada e di conseguenza tutte le sporcizie e gli scarichi di macchine potevano facilmente entrare. Infatti arrivata la stagione fredda e umida, piogge e temporali aggravarono la situazione. “Tanti documenti costumi e materiali scenici del Laboratorio Zero erano stati buttati dal direttore dell’istituto, la stessa persona da sempre scostante nei nostri confronti e che ci obbligò ad avere come sede una cantina, molto umida, con a terra acqua insomma un luogo sporco; ci disse: o questa situazione o niente. Noi fummo costretti ad accettare,così, tempo dopo, il degrado totale, i topi e le infiltrazioni d’acqua avevano mangiato costumi e documenti. Corrado, Emanuela e Luisella mi aiutarono a fotocopiare quel che restava di tutto un nostro archivio e spostammo il tutto per salvare ciò che restava, ma buttammo materiali e costumi di scena a non finire (intervista a Ginetta Rosato del 22 Maggio 2013 (di questa intervista ho conservato il documento fil-
mato). Se da una parte il continuo spostamento di sede in sede, il dover trasferire e trasportare materiali scenici creava dei disagi, dall’altra parte Ginetta era esausta per il poco tempo che poteva dedicare alla creazione di nuovi spettacoli. Le nuove commedie “Centocinquanta, la gallina canta” e “Ciambellone” di Achille Campanile, fecero nascere nella regista una rinnovata autostima, così continuò a portare avanti con gli spettacoli, attenta ad approfondire, curare e migliorare la traduzione in LIS del testo scritto. Lo spettacolo ci fu il 23 maggio 1996, Roma, al Teatro Euclide. Attori: Corrado D’Aversa, Barbara De Renzi, Gianni Di Vita, Maurizio Scarpa, Francesco Raffaelli e Angelo Santinelli. Nuovi Attori: M. Beatrice D’Aversa, Paola Cirelli, Fabio Meneghel. Voce fuori campo e di scena di Maria Luisa Franchi, Fulvia Carli, Rosanna Zanchetti e Maria Civita Di Mario. Luisella Zuccotti riprese il lavoro di scenografia e Paola Amendola entrò nel gruppo apportando la sua capacità nel disegnare i costumi e la scenografia. Nel 1997 Ginetta realizza il suo nuovo progetto teatrale, “La Dama di Chèz Maxim” di Georges Feydeau. Però Paola Amendola si trasferì a Bologna. Ginetta chiese nuovamente a Zuccotti, di ritornare per lavorare per le scenografie con Riccardo Ferracuti. Inoltre l’attore Gianni De Vita decide di ritirarsi per impegni familiari. Attori: Corrado D’Aversa, Emanuela Cameracanna, Angelo Santinelli, Fabio Meneghel, Paola Ciselli, Maurizio Scarpa, Beatrice D’Aversa, Francesco Raffaelli, Massimiliano Cascitti e Barbara De Renzi. Nuovi attori: Gabriella Alesi, Myriam Gorini, Cinzia Grazi, Marco Gobbi e Annarita Fabiani. Lo spettacolo andò in scena il 6 Giugno nel 1997 Roma, al Teatro Vittoria. Regia Ginetta Rosato. Coreografia di Michela Fontanini. Costumi a cura di Gabriella Fusco e Giorgio Meneghel. Scenotecnici: Serafino Flavi e Luisella Zuccotti. Voce fuori campo e di scena di Massimo Albanesi, Marcello Cardarelli, Maria Luisa Franchi, Alessandra Rossini, Renato Vicini e Rosanna Zanchetti. Ci fu la replica il 30 ottobre 1997 a Trieste, al Teatro Sloveno, durante il “Primo Festival Teatrale del Sordo” organizzato dalla Sezione Provinciale ENS di Trieste. Il Festival era suddiviso in tre categorie: commedia, poesia e sketch. “...Dopo lo spettacolo, ricevemmo dal pubblico tantissimi complimenti tanto che ci fu assicurato
il premio. Che delusione! Fu invece premiata la Compagnia di Catania e a noi fu assegnato il terzo premio. Gli attori delusi e mortificati piansero veramente lacrime amare. Malgrado questo flop, decisi di studiare e capire cosa dovevo ancora migliorare ...” (Rosato, G.., Laboratorio Zero, Roma, Kappa, 2011, pp. 12-13). Nel 1997 ci fu la fine della collaborazione tra Ginetta Rosato e Luisetta Zuccotti, addetta alla scenografia. La compagnia poté godere di momenti di fermo e momenti di continua evoluzione. Il nuovo progetto fu “Servizio Completo”, commedia di Derek Benfield. Attori: Emanuela Cameracanna, Maurizio Scarpa, Paola Cirelli, Corrado D’Aversa e Fabio Meneghel. Lo spettacolo ci fuil 23 ottobre 1999 a Roma, presso il Teatro Orione.Regia di Ginetta Rosato. Costumi a cura di Gabriella Fusco e Giorgio Meneghel. Scenotecnici: Serafino Flavi e Riccardo Ferracuti. Voce di scena e fuori campo: Marcello Cardarelli, Silvia Del Vecchio e Walter Longoni. Si replicò il 29 ottobre 1999 a Palermo, al Teatro Massimo, durante la partecipazione al “Secondo Festival Teatrale del Sordo”, organizzato dall’ ENS Comitato Regionale Sicilia. La compagnia Laboratorio Zero aveva lavorato bene, impegnandosi per raggiungere il sogno di venire finalmente premiati. Il primo premio andò alla Compagnia di Palermo, il secondo posto fu assegnato alla compagnia di Catania e Laboratorio Zero conquistò nuovamente il terzo premio. “...Anche questa volta fu premiata la Compagnia di Palermo, al secondo posto la Compagnia di Catania e noi di nuovo al terzo! Mi convinsi che il genere comico non si addiceva a manifestazioni quali festival e tanto meno a un pubblico sordo. La comicità delle commedie portate in scena era tipica del mondo udente e non coinvolgeva il pubblico sordo. Giunsi alla conclusione che per arrivare al cuore del pubblico, coinvolgerlo e farlo ridere dovevo portare in scena situazioni comiche tipiche della comunità sorda utilizzando elementi della cultura sorda. Dentro di me si agitava il tarlo del dubbio. Nel profondo dell’anima ero convita che l’arte è una, senza distinzione tra sordi e udenti, che avevamo l’obbligo di conoscere e portare in scena opere scritte da autori famosi italiani o stranieri quali De Filippo, Pirandello, Miller, Brecht, e altri ...” (Rosato, G.., Laboratorio Zero, Roma, Kappa, 2011, p. 13 ).
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“Routine”: le interviste a cura di Dario Pasquarella
Come mi sono già trovato a spiegare altre volte, una delle caratteristiche del Teatro Sordo LIS è la ricerca sul campo, resa possibile dalla partecipazione attiva di tutti: regista e curatore del testo in primis, ma anche attori, tecnici e, non ultimo, il pubblico. Tutti vengono chiamati ad esporre le proprie idee o i propri sentimenti circa il tema preso in esame e, a lavoro concluso, dopo aver portato in scena lo spettacolo, a tutti viene richiesto un feedback, sottoforma di opinione libera o sottoforma d’intervista strutturata. Il compito del regista, dunque, non si esaurisce con la stesura e la messa in scena di una drammaturgia, ma continua anche dopo, attraverso la verifica dei risultati ottenuti, delle emozioni e dei contenuti trasmessi. A poco più di un mese da “Routine”, presentiamo qui di seguito le opinioni dei protagonisti di quell’evento, tecnici e attori. (Dario Pasquarella)
Alessia Cirillo (attrice):
Ho iniziato a fare teatro quest’anno per la prima volta... da fine settembre - inizio ottobre. La prima volta che ho calcato il palco in veste di attrice è stato in occasione del Festival del Teatro Sordo di Foggia, in cui ci siamo classificati secondi nella categoria “Sketch”. La mia avventura è iniziata per caso: due anni fa ho frequentato con Dario un corso per docenti LIS, poi ho saputo che era diventato presidente di Laboratorio Zero... Una volta, discutendo del più e del meno, gli avevo detto che mi sarebbe piaciuto provare a fare un corso di teatro, poi però non ci siamo più visti per un anno intero. Un giorno, all’uscita dallo stadio, per festeggiare la vittoria della Roma mi sono vista al pub con Mariapaola e Gabriella (noi tre siamo amiche e andiamo spesso allo stadio a vedere le partite di calcio insieme), due delle altre attrici, che mi hanno detto che Dario stava preparando un nuovo spettacolo e che cercava una terza attrice... Mi ha chiesto se volessi partecipare e io ho accettato. Non conoscevo da vicino il mondo del teatro dei sordi (sono nata in una famiglia di udenti), ma mi sono trovata subito a mio agio. Soltanto per un momento mi sono sentita “bloccata”, perché mi è stato affidato un personaggio per molti aspetti simile a me, alla mia storia, ed è stato difficile interpretarlo mantenendo un certo equilibrio. Poi
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però ho superato i miei blocchi...ne sono stata soddisfatta e desidero ripetere quest’esperienza: insomma, all’inizio è iniziato tutto quasi come un gioco ed ora invece è diventata una cosa seria!
Gabriella Alesi (attrice):
Ho iniziato a fare teatro vent’anni fa, presso la sezione CGSI di Roma; lì si organizzavano piccoli spettacoli di poesia, e che in realtà, da un punto di vista stilistico, non erano vere e proprie poesie, ma “canzoni”, legate al ritmo e al movimento, abbastanza libero, del corpo. Facevo parte di un gruppo di quattro persone, guidato e consigliato dalla bravissima Emanuela Cameracanna che si occupava proprio di questo. La prima volta che ho affrontato un pubblico è stato appunto con una canzone, “Romolo e Remo”. Quando hanno visto la mia esibizione, le persone hanno cominciato a dirmi che ero stata brava e che ero portata per lo spettacolo, ma io non ci volevo credere. Poi la regista Ginetta Rosato mi ha chiamata a collaborare con lei per uno spettacolo, perché serviva un’attrice. Il titolo dell’opera era “La dama di Chez Maxim”. Non avevo un ruolo importante, ma comunque impegnativo: ho dovuto imparare il copione, provare i costumi, le posizioni, i movimenti e, oltre che sulla parte legata alla recitazione, ho dovuto esercitarmi anche sulla parte danzata: è stata la prima volta che mi so-
no trovata a fare un corso di ballo! La prima volta che mi sono trovata ad interpretare un personaggio importante (il secondo per importanza dopo il protagonista) è stato ne “Il Cilindro” (atto unico di Eduardo De Filippo), spettacolo con cui abbiamo vinto il 4° Festival Nazionale Teatrale del Sordo di Firenze nel 2003. La prima volta che ho partecipato ad uno spettacolo in cui hanno partecipato in maniera integrata sordi e udenti è stato “Rumori fuori scena” (2007), in cui ho avuto il ruolo di uno dei protagonisti. Infine la prima volta in cui ho sperimentato un nuovo stile di teatro, basato su un copione originale, è stato l’anno scorso in “Oltre gli Occhi” di Dario e Silvia Liberati (curatrice del testo in italiano). Si tratta d uno stile di teatro completamente diverso rispetto a quello a cui ero abituata: con Ginetta si lavorava con un copione “classico” e personaggi già dati che bisognava “soltanto” studiare; con Dario invece si lavora molto sulla creazione del copione e del personaggio. Nel teatro sordo LIS sono necessari uno scambio e un confronto continuo per definire il testo. Quando ho partecipato a spettacoli basati su una drammaturgia originale, come “Oltre gli Occhi” e “Routine”, mi è stato chiesto d’immaginarmi nei panni del personaggio che avrei dovuto interpretare e che per la maggior parte del tempo e delle prove è ancora “in costruzione”.
Si ringrazia l’autore delle fotografie, Marco Foschi. Ho capito subito che la mia sarebbe stata una parte difficile, completamente opposta al mio modo di essere e di sentire. Le diverse culture e le religioni a volte possono portare le persone ad essere felici, altre volte invece le costringono ad andare contro il proprio essere e contro la propria volontà; addirittura, a volte, possono persino imporre violenze fisiche...ma tutti hanno il diritto di provare ad essere felici.
Mariapaola Antro (attrice):
Fare l’attrice è stata una bella esperienza, a volte dura, ma piena di soddisfazioni. Non avevo mai fatto l’attrice prima d’ora, ma i miei amici (Dario e Gabriella) mi avevano spinto a provare; inoltre avevo seguito da vicino alcuni spettacoli teatrali in cui ha partecipato Gabriella, compreso “Oltre gli Occhi”. Anche io, come Alessia, sono nata in una famiglia di udenti e lavoro in un contesto udente, per questo sono più abituata ad usare l’italiano segnato piuttosto che la LIS. Recitare è stata una bella esperienza, anche se non sono mancati, com’è normale che sia, momenti di tensione, di vergogna, di stress. Il momento più difficile è stato ritrovarmi sul palco del Festival di Foggia e dover segnare “masturbarmi”...non è davvero nel mio carattere esprimermi in questo modo, davanti a un pubblico poi... ma è stato utile, una sorta di “battesimo del fuoco”. Una volta
superato quel momento, grazie anche agli insegnamenti e all’aiuto di Dario, tutto è stato più semplice. Sono felice perché alla fine tutto il nostro lavoro, i sacrifici, le corse per arrivare alle prove, lo studio, sono stati premiati...
Anna Nocella (attrice vocale):
Quando Dario mi ha proposto di partecipare a uno spettacolo che avesse come protagonista la donna, ho accettato subito fidandomi di lui, del suo punto di vista di ricercatore oltre che di artista. Conoscevo Dario perché frequentavo i suoi corsi di arte del corpo e sapevo che stava lavorando duramente per mettere a punto un nuovo tipo di teatro. Ero felice di prendere parte alle sue sperimentazioni. Prima dello spettacolo “Routine” avevo già collaborato con lui quando mi aveva proposto una sostituzione momentanea per lo spettacolo “Oltre gli occhi” che mi ha catapultata improvvisamente sul palco nel giro di cinque giorni; un’esperienza forte ed entusiasmante che meriterebbe però un racconto a parte. Quanto a “Routine”, lo spettacolo è già iniziato dietro le quinte. L’attrice sorda mi prestava una parola e io (udente) le prestavo un segno. Sara, che si è occupata della cura del testo italiano, riusciva a risolvere con la sua imperturbabile pazienza qualunque piccolo imprevisto che a noi sembrava invece catastrofico. C’era chi si occupava degli effetti sonori e si
ritrovava contemporaneamente a proporre un movimento, un ritmo del corpo, un prezioso punto di vista sui costumi. Ricordo Dario molto concentrato durante la scelta delle musiche, si fidava di chi le poteva sentire ma non voleva rinunciare a spiegarci le sensazioni che avrebbero dovuto evocare.La mia mente torna sempre con stupore e commozione a quel momento; è il ricordo a cui sono più legata perché io amo la musica e il suo linguaggio è così universale da poter essere raggiunto anche solo con l’immaginazione; così universale da diventare fondamentale anche in uno spettacolo di Teatro sordo LIS! Insomma, c’è stata una collaborazione totale e coerente, parlo di coerenza perché “Routine” è uno spettacolo che vede come argomento la liberazione dai ruoli ed è proprio quello che è accaduto: ognuno di noi, varcato il confine del proprio ruolo (regista, attrice, codrammaturgo, fonico) ha incontrato la terra fertile del dialogo e ha visto crescere ogni scena! Si potrebbe pensare che l’immaginazione appartenga soltanto ai bambini e che si perda crescendo, che ognuno di noi sia destinato col tempo a svuotarsene gradualmente, diventarne arido ma il nostro regista invece ha dato prova del fatto che non deve essere per forza così. Nella mia esperienza passata ho avuto a che fare con diversi “addetti ai lavori” ma con Dario il teatro è tornato a essere un gioco, un gioco serio.
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Come ho già detto, l’obiettivo dello spettacolo doveva essere la liberazione di ciascuno dai ruoli, all’interno e all’esterno del nostro lavoro teatrale, ed è proprio quello che è accaduto: tutti ci siamo lasciati contaminare a vicenda dal punto di vista degli altri, e lo scambio reciproco è stato la base della costruzione di ogni scena. Dario è un vero professionista (come regista, attore, ecc.), ma è anche una persona ugualmente “vera”, che non nasconde se stesso dietro a delle maschere o, appunto, a dei ruoli. Si potrebbe credere che l’immaginazione appartenga soltanto ai bambini e che poi si perda crescendo, che ognuno di noi sia destinato col tempo a diventare arido, svuotandosi gradualmente da ogni immaginazione e legandosi piuttosto alla contingenza di ogni giorno, proprio come farebbe un automa. Dario invece ha dato prova del fatto che non deve essere per forza così: ogni giorno di prova è stato diverso dall’altro, non c’è mai stata un’immagine uguale a se stessa, ma continuo fluire di immagini diverse da cui attingere, che ci fossero da stimolo a livello personale e teatrale; tutti doni che Dario ci ha generosamente prestato. Nella mia esperienza ho avuto a che fare con registi, o con chi si definiva tale, ma con Dario il teatro è tornato ad essere un gioco serio: d’altra parte un grande artista deve essere per forza una grande persona.
Elisa Conti (effetti sonori):
Sono una sognatrice e un’appassionata di musica “viscerale” (come la definisco io) e proprio su questo presupposto ho basato la mia collaborazione con Laboratorio Zero. Tutto è iniziato nel 2007: il quel periodo stavo per conseguire la laurea triennale e, in qualità di educatrice professionale di comunità, stavo frequentando il mio tirocinio presso il circolo 173 di Roma. Mi inserirono in un progetto teatrale dedicato a bambini e adulti; la regista era Ginetta Rosato! Mi ritrovai al suo fianco durante le prove, ad osservare il suo lavoro e così mi resi subito conto che mancavano rumori e musiche! Mi feci coraggio e, nonostante la qualità del mio segnato non fosse quella di oggi, provai a chiederle il motivo di tale assenza. Anche i bambini sordi potevano vivere la musica sulla scena... Ginetta fu entusiasta di questo mio progetto e così, già nella settimana successiva, mi ritrovai a collaborare con attrici sorde, immersa nelle prove teatrali per la preparazione de “La casa di Bernarda Alba”. È iniziato così il mio percorso professionale e umano nel mondo dell’arte dei sordi. Semore nel
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2007 ho conosciuto Dario; con lui mi sono occupata delle musiche per i bambini dello Smaldone e del Circolo 173. Dal 2007 fino ad oggi non ho mai smesso di occuparmi di rumori e musiche per gli spettacoli. Mi sono formata con Giorgio Albertazzi, Luciano Mazzetti, e ho lavorato con registi del calibro di Duccio Forzano e Lorenzo De Feo. Sono un’interprete di Lingua dei Segni (attualmente svolgo la mia professione presso l’Accademia di belle Arti di Roma), ma anche un’educatrice montessoriana, e una docente di teoria al secondo e terzo livello nei corsi di LIS, e nei corsi assistente alla comunicazione. Tra me e Dario ci sono da anni una grande intesa, fiducia, cooperazione e sinergia. La riuscita di “Routine” è stato un ulteriore esperimento e un ulteriore impegno per quanto riguarda la creazione delle scene e la collocazione delle musiche al loro interno. La stessa fiducia che ha contraddistinto il mio lavoro con Ginetta Rosato a partire dal 2007, ha caratterizzato anche il mio lavoro con Dario, a partire già dal 2008, quando abbiamo realizzato laboratori teatrali per bambini in via Nomentana, e allo Smaldone (si trattava di spettacoli ideati da Dario, mentre a me spettava la cura del testo scritto), fino ad arrivare agli spettacoli di oggi, rivolti invece a un pubblico adulto. La messa in scena di “Routine” è stata un’esperienza intensa, dal punto di vista dell’impegno professionale, esperienziale e creativo. Si tratta di un testo che merita attenzione... Dario ha già delle idee precise in testa anche per quanto riguarda gli effetti che devono avere musiche e rumori sulle riverse scene; sta a me poi concretizzarle. Il primo vero exploit per quanto riguarda della scelta musicale è stato “Oltre gli Occhi”...sono molto legata a quella colonna sonora. Ma è sempre così: più volte viene ripetuto uno spettacolo, più ci si lega intimamente ad esso...e “Routine” rappresenta la nostra nuova avventura che già ci sta dando tante soddisfazioni.
Laura Rubin (effetti sonori):
Ho lavorato per trent’anni nel campo del doppiaggio, in qualità di sincronizzatrice, tecnico del suono ed effetti speciali; poi, all’età di 50 anni, ho deciso di mollare ogni cosa per seguire i miei sogni e ho iniziato a lavorare coi bambini; ho seguito dei corsi per diventare educatrice e ho completato anche il corso triennale di LIS (lingua dei segni italiana). Durante uno dei corsi di formazione ho conosciuto Elisa che mi ha chiesto di collaborare con lei nelle sue atti-
vità teatrali in qualità di tecnico del suono. Così ho iniziato a lavorare con Dario (allo spettacolo “Oltre gli occhi” prima e a “Routine” dopo) e con Ginetta Rosato. La mia opinione è che scegliere le musiche per un testo classico implichi un lavoro diverso dallo scegliere musiche e rumori per un testo originale, nato ex-novo. Un copione classico dà molti più punti di riferimento (la scenografia, la storia e i personaggi noti...) a tecnici, attori e pubblico, e la musica in questo caso funge da importante supporto; mentre sui testi originali la musica si integra al messaggio, con una vera e propria funzione narrativa. E’ stata un’esperienza molto importante e impegnativa, e sono onorata di aver potuto partecipare a questo progetto.
Dario Pasquarella (regista, attore, scenografo, costumista e autore):
Il mio lavoro ha l’obiettivo di spingere le attrici (e, per tramite loro, anche il pubblico) ad esprimere le proprie emozioni, cercando di collegare i propri sentimenti al linguaggio del corpo e poi alla LIS e alla lingua italiana. Per fare questo è stato necessario per prima cosa creare un gruppo di lavoro solido e funzionale, in cui ciascuno si sentisse a proprio agio e riuscisse così ad esprimersi liberamente. Il secondo passo, partendo da un’idea originale e dal lavoro di gruppo, è stato quello di riuscire a creare un copione in cui l’italiano e la LIS possano esprimere se stesse e le rispettive culture alla pari. In Italia sono il primo e l’unico regista sordo a lavorare su drammaturgie originali e a occuparmi di teatro sordo LIS: la nascita di questo nuovo tipo di teatro (un teatro capace di usare la LIS in maniera profonda, e quindi di esprimere la cultura sorda) si collega alla ri-nascita di una letteratura visiva LIS, con i suoi diversi generi letterari e i suoi peculiari registri linguistici. Il mio lavoro consiste anche nella ricerca sul campo di tipo sociale e antropologico: attori, attrici, tecnici, pubblico, si trovano inseriti in un campo di ricerca delineato tutt’intorno a loro e vengono chiamati in causa attivamente, viene chiesto loro di apportare le rispettive opinioni, i propri vissuti, di fare un confronto continuo. Lo scambio culturale o linguistico infatti è un arricchimento comune e un’occasione di crescita artistica e personale. “Routine” è il secondo lavoro che porto avanti; il primo, “Oltre gli occhi”, nonostante abbia coinvolto più attori, è stato preparato in un tempo più breve, quindi ci sono stati pochi incontri poco scambio.
“Routine” invece è stato preparato in tempi più lunghi che, per esempio, hanno reso possibile la traduzione della filastrocca; avere più tempo insomma ci ha permesso di ottenere più risultati da un punto di vista linguistico. Se in “Routine” ci sono state delle parti non tradotte, queste sono state il frutto di una scelta precisa, voluta: nel caso di metafore visive particolarmente iconiche la voce s’interrompe dopo aver lanciato un semplice input; al pubblico poi viene data la possibilità di capire da solo, facendo proprie le emozioni delle attrici. Nonostante “Oltre gli Occhi” abbia richiesto una gestione più complicata delle diverse scene (ci sono stati sette cambi d’abito), “Routine” ha incluso un’identica presenza di performance e di movimento del corpo. Come si struttura un gruppo di lavoro? Prima si chiamano le persone, volontarie, diverse tra loro: c’è chi non conosce il teatro chi lo conosce; si parte insomma da punti di vista e da basi culturali differenti, e per motivi differenti. Chi spinto dalla voglia di apparire su un palcoscenico, chi affascinato dall’indossare panni diversi, chi perché lo fa con serietà e professionalità. In alcuni percepisco delle difficoltà e chiedo loro cosa li ha colpiti, bloccati, con altre persone invece può esserci un feedback e una comprensione quasi automatici. Il Teatro sordo LIS ha come obiettivo la formazione di letteratura visiva LIS di qualità (mente gli udenti possono giovarsi della letteratura in italiano da anni e anni, i sordi si trovano penalizzati dal fatto che le ricerche
sulla LIS in Italia sono iniziate soltanto a partire dal 1980). Purtroppo in Italia il mondo dell’arte dei sordi risente della mancanza di una formazione specifica a cui qualsiasi persona possa avere accesso; ma la situazione sta lentamente cambiando. Questi miei spettacoli rappresentano l’inizio del teatro sordo LIS e si collegano a una costante ricerca sul campo che non potrà mai considerarsi conclusa, come tutto ciò che riguarda le mille variabili che costituiscono l’essere umano; guai se fossimo tutti uguali, nel bene o nel male, se il progetto nazista avesse vinto o se tutte le routine di questo mondo finissero per prendere il sopravvento sulle nostre vite.
Sara Mirti (curatrice del testo in italiano):
Dario è un artista instancabile e una delle persone più colte che io conosca. Come sempre, quando la conoscenza è supportata dalla passione, i risultati possono essere davvero sorprendenti. Chi lo conosce e ha avuto la fortuna di collaborare con lui sa che con Dario non si finisce mai d’imparare, che la sua curiosità, la sua ansia di confronto e ricerca può essere davvero infinita. Le sue tecniche teatrali sembrano state studiate apposta per esaltare le potenzialità creatrici già proprie dell’essere umano che tuttavia dell’arte e nella letteratura esplodono in tutta la loro potenza. E’ sorprendente veder nascere scene dal nulla, veder plasmare sotto i propri occhi situazioni, uomini, donne, sentimenti, caratteri. La sera
della prima ho sentito le gambe farsi di gelatina...me ne stavo seduta su un gradino, letteralmente abbracciata al corrimano, in ascolto: sentivo il pubblico muoversi allegro e incuriosito; poi lo spettacolo è iniziato: attraverso i costumi, le luci e le musiche, si potevano percepire chiaramente i respiri di Dario e delle attrici (e, sono sicura, anche di chi si occupava degli effetti sonori, anche se la loro postazione era alle mie spalle e non potevo vederle) andare all’unisono: stesse apnee e stessi identici sospiri. Tutto ha funzionato alla perfezione, ma ero ugualmente preoccupata: non tutte le persone venute a vederci conoscevano la LIS, per molti anzi si trattava del loro primo spettacolo di teatro sordo… E invece i commenti più entusiasti sono venuti proprio da chi non aveva mai incontrato il mondo artistico sordo prima di allora. All’inizio erano intimoriti e si aspettavano di non riuscire a capire nulla, di trovarsi comunque di fronte a qualcosa di sconosciuto, di difficile fruibilità, ma poi hanno dovuto ricredersi: non solo sono riusciti a seguire lo spettacolo nella sua interezza (e in questo bisogna ammettere che l’idea di proporre al pubblico una drammaturgia nata direttamente tanto in LIS quanto in italiano ha funzionato), ma molti mi hanno chiesto come e dove si potesse seguire un corso per imparare la LIS. A spettacolo finito l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era che il lavoro di gruppo era stato efficace in ogni sua parte...ed ero davvero fiera di farne parte.
Venga a prendere il caffè da me
In Italia si consumano generalmente 2-3 tazzine di caffè al giorno a testa. Il Paese maggior produttore al mondo di caffè è il Brasile. Sembra però, contrariamente a quanto si possa pensare, che la pianta del caffè non sia originaria del Brasile, bensì dell’Etiopia, dove venne scoperta intorno all’anno mille. Poi verso il 1300 si diffuse nella zona dei paesi arabi, e arrivò in Europa, precisamente in Francia, solo nel 1600. La prima città in cui si diffuse in Italia fu Venezia, dove venne aperta la prima “bottega del caffè”. Nel 1763 la città contava ben 218 locali. In breve tempo il caffe' divenne un prodotto di alto gradimento, spesso segno di amicizia e di amore: nella citta' di predilette del cuore vassoi ricolmi di cioccolata e caffe', quale devota espressione di affetto. Nel 1645 in tutta Italia presero a diffondersi ovunque le botteghe del caffè. La sua diffusione portò ad una richiesta di coltivazione in larga scala che permise, dal 1727, la creazione delle prime grandi piantagioni di caffè in Brasile. Come si fa a fare un buon caffè brasiliano? E’ molto semplice, dice Marco, basta preparare innanzitutto la spuma di latte, montando il latte con la canaletta della macchina espresso o con l'apposito stantuffo manuale, fino a ottenere una crema densa e gonfia simile alla panna montata. In un bicchierino di vetro da caffè versate lo zucchero, il Baileys e la spuma di latte; versate quindi la tazzina di caffè, spolverate di cacao e servite caldo. Non resta altro che berlo e rimanerne deliziati
Meglio l’amore a km 0 di Catia Marani Marco, racconta che sin dalla prima vacanza a Rio de Janeiro, era rimasto affascinato dal clima, dal cibo, dalla musica, dall’allegria dei brasiliani, ma soprattutto dalla bellezza delle donne che in ridottissimi bikini affollano le spiagge festaiole e modaiole di Copacabana e Ipanema. A Ipanema aveva conosciuto due anni fa la giovanissima e graziosa Ana Rosa. Quasi subito le aveva chiesto di trasferirsi in Italia e diventare sua moglie. Quel breve soggiorno era bastato per fargli decidere di fare quel passo, lungo tutta una vita (si fa per dire). Infatti, appena l’aveva potuta portare con lui in Italia (Ana Rosa non era ancora maggiorenne quando aveva dato il primo bacio a Marco), erano andati a convivere in un minuscolo appartamento del centro storico. In un caldo pomeriggio di giugno, Marco ed io, ci siamo accomodati in salotto e subito, sentendosi veramente a proprio agio, mi ha svelato i segreti per fare un buon caffè brasiliano. C- Perché un bel ragazzo, che non avrebbe nessun problema a trovare una donna, per innamorarsi la prima volta ha dovuto volare dall’altra parte del mondo. Sei un esterofilo oppure il tuo è stato stordimento da jet-lag o, peggio ancora, una goliardata fra amici in vacanza che t’è sfuggita di mano come succede nei film?
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M- (Marco ride) Non lo so, pensavo solo di andare a fare una vacanza con un gruppo di amici, divertirmi, e trovare tanto sole e mare limpido. Con questo non dico che le ragazze fossero un argomento secondario, anche se ero appena uscito da un periodo di crisi sentimentale. Con la precedente fidanzata avevamo compiuto il decimo anniversario di fidanzamento e c’eravamo detti:-“O ci sposiamo o ci lasciamo”. Ci lasciammo. Quel viaggio serviva a voltare pagina, pensando perfino che se mi fossi trovato bene sarei rimasto qualche giorno in più dei miei amici. C- Cosa ti ha fatto decidere, in un solo mese, di sposare una ragazza del tutto sconosciuta? M- La sua gioia di vivere e il suo modo di darmi confidenza da subito, mi hanno fatto sentire apprezzato, nonostante non facessi nulla di particolare per piacergli. Dopo appena una settimana che uscivamo insieme mi aveva già fatto incontrare sua madre e le sue sorelle. Vivevano in un quartiere popolare di San Paolo, in una casetta che qui sarebbe stata considerata poco più di una capanna, ma pulita e molto dignitosa. Vivevano in due stanze in sei e mangiavano una cucina povera ma buona che con allegria e semplicità avevano diviso con me, nonostante non mi conoscessero. Proprio la loro genuinità, il loro modo di vivere senza pretenziosità, mi aveva conquistato. Pensavo che quella magia non sarebbe mai finita, neppure lontano da San Paolo.
C- E quindi l’hai messa sull’aereo e l’hai portata fin qui. M- Non subito, Ana Rosa non aveva ancora compiuto 18 anni. Le mancavano meno di sei mesi ed io, già trentenne, nell’attesa facevo la spola da qui a lì, ogni due mesi. La portai in Italia in ottobre. Senza nessuna preoccupazione la madre, almeno non me lo diede a vedere, me l’affidò. C- Sei ancora convinto che Ana Rosa era venuta via dal Brasile, dalla sua povera casa, lontana dai suoi cari che non potevano darle nulla, perché era innamorata di te? M- Questa domanda mi sembra un po’ cattivella, sottintende forse che era venuta via con me solo per sfuggire la miseria? C- Io non sottintendo nulla, chiedevo soltanto. M- Già, le stessa domanda che si facevano anche i miei genitori. Poi, un giorno, vedendomi così deciso a portare qui Ana, me ne hanno dette di tutti i colori: “Sei matto, non potrà funzionare. E’ troppo giovane, è troppo diversa da noi. Anche i genitori, ti sembra normale che senza sapere neppure chi sei ti affidano la loro figlia? Ma che gente è? E tu sei davvero convinto che è innamorata di te e non dell’idea di sfuggire alla miseria? La conosci da così poco tempo. Non fare atti sconsiderati, e così via... di questo passo”. C- Erano contrari quindi. M- Contrarissimi, ma io se permetti a trent’anni decido della mia vita e non ho dato ascolto a nessuno. Neppure ad un amico che aveva avuto un’esperienza simile, e che non era per nella finita bene. C- E quanto tempo dopo vi siete sposati? M- Colpo di scena. Non c’è stato nessun matrimonio, per fortuna. Dopo due mesi che era qui, in attesa che arrivassero i documenti dal Brasile per le pubblicazioni e cavoli vari, da deliziosa e sorridente ragazza s’era trasformata in una rompic.... pazzesca. Era sempre immusonita, arrabbiata perché
da noi era autunno, pioveva e non c’era il sole, e neppure il mare. La pioggia le metteva tristezza ed il freddo le faceva venire mal di testa. Poi premeva affinchè andassimo dopo sposati a vivere in casa dei mie genitori – puntualizzo: ma non con i miei genitori - perché era più bella e grande, dopo che questi ultimi, messa da parte ogni riserva, l’avevano accolta con tutti gli onori. Diceva sempre:” tanto prima o poi sarà nostra, i tuoi genitori sono vecchi”. Oppure:” che se ne fanno di una casa così grande, la dessero a noi che presto avremo tanti bambini!”. Continuamente ripeteva che si annoiava a casa e per farla sentire apprezzata, le avevo proposto di venire qualche ora a lavorare nell’azienda di famiglia, ma non lo ha mai fatto, impuntandosi che voleva iscriversi ad una scuola per modelle. Un giorno, ero già molto provato da tutta questa serie di capricci, mi sono visto recapitare da uno spedizioniere un materasso nuovo, ordinato per televendita a mia insaputa. Mentre cercavo di farle capire che avrei gradito decidere insieme se acquistare un nuovo materasso, una nuova cucina o una nuova casa, si è infuriata e mi ha tirato addosso un bicchiere d’acqua urlandomi dietro che non avrebbe più dormito dove altre donne avevano dormito prima di lei. A quel punto, ho rifatto l’imballo e... via subito! C-Il materasso? M- No, Ana Rosa. C- Della serie sembrava amore ma era un calesse! E poi? M- A settembre mi sposo con Flavia, conviviamo da un anno. Non ci crederai, abitava due isolati più avanti, l’ho conosciuta in palestra. La amo, è la donna per me. Stesso cielo, stesso sole, stessa pioggia. Ora voglio una donna a chilometro zero! C- Caffè espresso, decaffeinato o... M- No grazie, il caffè mi rende nervoso, un orzo va benissimo.
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Espiazione
Doppio Misto
I matrimoni misti sono in notevole aumento. Leggevo che oggi in Italia sono il 10%. Sembra che gli uomini siano più “disponibili” di noi donne all’integrazione raziale. Il fatidico “SI”, fra diverse nazionalità, viene pronunciato più frequentemente al centro nord, anziché al sud. Gli uomini prediligono sposarsi con donne dell’est e sentirlo pronunciare in ucraino: ” Чи приймаєте ви цю жінку, щоб бути Ваша дружина legittima?” (tradotto sareb-
be: “vuoi tu sposare questa donna?”). Nelle loro preferenze, le ragazze brasiliane sono “solo” al quarto posto. Noi donne al contrario abbiamo gusti più esotici, mettendo nella scala di gradimento, per primi, gli uomini marocchini. Non mi ha sorpreso scoprire che le coppie miste vanno incontro alla separazione più precocemente delle altre (la durata media di tale convivenza coniugale è di 9 anni, contro i 14 di quelli celebrati fra italiani). Ma come si possono affrontare le pressioni che potrebbero provenire dalla propria famiglia nel caso di matrimonio misto in vi-
DEDICATA A LUI Caffè nero bollente E ammazzo il tempo bevendo caffe' nero bollente in questo nido scaldato gia' dal sole paziente ma tu che smetti alle tre, poi torni a casa da me tu che non senti piu' niente, mi avveleni la mente! Un filo azzurro di luce scappa dalle serrande e cerco invano di inventare qualcosa in mutande un'automobile passa o una mosca vola bassa mi ronza, gira, gira, ma sbaglio la mira. Vorrei cercare qualche cosa da fare fuori e camminare senza orgoglio, darsi a un rubacuori. Ma io come Giuda so vendermi nuda la strada conosco, attirarti nel bosco attirarti nel bosco, attirarti... Voci di strada all'orecchio, tutto e' poco eccitante in questo inverno colore caffe' nero bollente ammazzo il tempo cosi' ma scappero' via di qui da questa casa galera che mi fa prigioniera. Con gli occhi chiusi a mille miglia per conto mio odio la sveglia che mi sveglia, oh mio Dio! Ma io come Giuda so vendermi nuda da sola sul letto mi abbraccio, mi cucco malinconico digiuno senza nessuno! Io non ho bisogno di te, io non ho bisogno di te perche' io non ho bisogno delle tue mani, mi basto sola! E ammazzo il tempo bevendo caffe' nero bollente in questo nido scaldato orami da un sole paziente che brucia dentro di me, che e' forte come il caffè Un filo azzurro di luce scappa dalle serrande e cerco invano di inventare qualcosa in mutande un'automobile passa o una mosca vola bassa mi ronza, gira, gira, ma sbaglio la mira. Vorrei cercare qualche cosa da fare fuori e camminare senza orgoglio, darsi a un rubacuori. Ma io come Giuda so vendermi nuda da sola sul letto mi abbraccio, mi cucco malinconico digiuno senza nessuno! Io non ho bisogno di te, io non ho bisogno di te perche' io non ho bisogno delle tue mani, mi basto sola! E ammazzo il tempo bevendo caffe' nero bollente in questo nido scaldato orami da un sole paziente che brucia dentro di me, che e' forte come il caffe'
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sta? Provando a riunire le due famiglie destinate ad imparentarsi, per partecipare ad un “tranquillo” pranzo domenicale, e mentre sorseggiano il caffè, invitarli a vedere il film più simpatico della passata stagione cinematografica. “Non sposate le mie figlie” ha una trama molto semplice: un ricco e borghese avvocato di Chinon (cittadina del centro della Francia) ha quattro figlie. Le prime tre hanno sposato, un arabo musulmano, un ebreo sefardita e un cinese. Tutti i sogni di rispettabilità sociale del capofamiglia - che si considera di larghe vedute perché «gollista» - sembrano naufragare, anche perché ai tradizionali pranzi di famiglia scappa sempre qualche battuta fuori luogo o qualche piatto che piace a uno ma «offende» l’altro. L’unica speranza per l’avvocato Chinon di accompagnare all’altare almeno una figlia, per celebrare un matrimonio cattolico con un bianco di nazionalità francese, sarà data dalla scelta che farà la sua ultimo genita non ancora fidanzata, ma...
Facciamolo fare a loro Phalenophis Il famoso detective Nero Wolf, nelle trasposizioni televisive è più spesso rappresentato come di corporatura robusta, piuttosto che veramente obesa. Raffinato buongustaio, assai pignolo, considera il lavoro alla stregua di un indispensabile fastidio che gli consente di tenere un alto tenore di vita; è moderatamente iroso non parla di lavoro a tavola e, pur avendo una vasta clientela femminile, è fortemente misogino, coltiva orchidee nel giardino pensile della sua casa, un elegante palazzo situato al numero 918 della 35a strada ovest di New York. Conduce orari di lavoro rigidissimi (non dedica infatti a tale attività un minuto in più del previsto, cosa che sottrarrebbe tempo alle altre attività, fra queste la coltivazione delle orchidee. Nella vita reale, conosco un signore, che al pari di Nero Wolf vive da single, e
considera il lavoro una indispensabile fonte di reddito che gli permette di dedicarsi alle sue passioni, fra queste anche la coltivazione delle orchidee. Le Phalenophis sono anche la mia passione, soprattutto se bianche, ma in tanti anni che tento di coltivarla non sono quasi mai riuscita ad ottenere che rifiorissero o sopravvivessero in cattività. Ho chiesto a questo signore di dirmi come è possibile che avesse tutte quelle piante di orchidee così rigogliose. Prima di tutto, mi dice, vanno esposte alla luce (ma non al sole) e tenute sempre con un sottovaso mezzo pieno d’acqua; durante la stagione più calda è opportuno nebulizzarle con uno spuzzino anche sulla parte aerea; un po’ di concime ogni tanto e il gioco è fatto. Semplice no? Ma a me non riesce nonostante abbia seguito tutti i suoi consigli di farle sopravvivere né d’estate n’è d’inverno. Questione di stile.
Mode & Modi Portateci a ballare I balli latino americani sono molto in voga soprattutto d'estate quando si ha più voglia di uscire e ci si diverte all'aperto. Sono balli dai ritmi incalzanti e sensuali le cui origini vengono attribuite in generale nel territorio cubano. Una coppia di miei simpatici amici, eccellenti ballerini, mi hanno documentato sulla storia e le caratteristiche di alcuni. Così ho scoperto che fra le danze caraibiche e quelle latino americane vi sono molte differenze. Le Danze latino-americane comprendono: il Samba, nato in Brasile; il Cha cha cha originario di Cuba; la Rumba anch’essa cubana; il Passo Doble proveniente dalla Spagna ed il Jive di origine nord-americana. Le Danze Caraibiche mescolano, in modo allegro, ritmo, vivacità e sensualità e comprendono: la Salsa, nata dal Son Cubano e poi influenzato da un miscuglio di generi musicali; il Merengue, danza dal ritmo travolgente nata nella Rep.Dominicana, probabilmente dall'imitazione dei movimenti a cui erano costretti gli schiavi nei campi, per via delle catene alle caviglie che non consentivano grandi movimenti, ma permettevano di trasferire ritmicamente il peso del corpo da un piede all'altro; la Bachata, nata fra la gente povera della Rep. Dominicana, rappresentava un modo di evadere e spezzare la routine della vita quotidiana. I miei amici, assidui frequentatori di sagre estive, inoltre, mi hanno detto che praticare il ballo in generale è un’ottima terapia di coppia. La vera novità di questi ultimi due anni è la Kizomba, detta anche tango africano, che ha origini a Capo Verde. La mano del ballerino preme contra la schiena della ballerina tacitamente segnalando la prossima mossa. Il modo in cui ci si muove ha molto a che fare con il tango, ma non è cosi rigido con il movimento del corpo, perché la parte africana ha un’influenza maggiore. In pratica la Kizomba è più rilassata di un tango, e più intima, lenta e sensuale di una salsa. Insomma ballare è un pretesto per abbracciarsi ridere e sentirsi più attraenti e dato che... da cosa nasce cosa, portateci a ballare!
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Mondo Gatto
di Chiara Mancuso
Un paio di sere fa, per contrastare la mia insonnia, iniziai a fare un po’ di “zapping” in televisione e, oltre alle televendite che mandano a random e che non conciliano affatto il sonno per colpa del fastidiosissimo tono di voce del conduttore, mi imbattei in un programma intitolato “101 gatti”: vista la mia passione per i felini, mi fermai a guardare e fra le varie curiosità di cui parlarono, mi colpì particolarmente un aneddoto riguardante Mariantonietta, ultima regina di Francia. Vista l’ora tarda, il sonno, e l’attendibilità che si può dare ad una trasmissione mandata a mezzanotte da un’emittente privata, non avevo dato credito alla storia, ma mi riproposi di andare a fare una ricerca su Internet , e, dopo aver consultato varie fonti, scoprii che non avevo sognato: avreste mai detto che la “simpatica”, quanto sfortunata Mariantonietta, oltre alla passione per il gioco d’azzardo, i gioielli e il principe Fersen avesse anche un amore smisurato per i suoi sei gatti d’Angora, al punto che, alla vigilia della rivoluzione francese, intuendo la brutta fine che le sarebbe toccata, li fece imbarcare da un fedelissimo per lo stato del Maine (patria della “Signora Flecther” per intenderci), dando, pare, il via alla razza del Maine Coon, un gattone bellissimo con caratteristiche simili all’Angora, ma più grosso ,meno elegante e più colorato? Il perché non avesse fatto fuggire anche i figli resta un mistero, ma viste le bizzarre vicende del personaggio, non mi farei troppe domande!
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Il gatto in Italia: viaggio nella “saggia ignoranza popolare” Che l’italiano non sia proprio un popolo dalla cultura “gattaia”, me ne sono accorta quando cinque anni fa sono entrati nella mia vita i miei attuali mici: prima una, la madre, che poi ne ha partoriti 3, e dopo 3 mesi altri 6…in meno di 6 mesi mi sono ritrovata da 0 a 10 gatti! Oltre alla fatica alle spese e alle preoccupazioni che 10 gatti possano portare, mi hanno dato tanta di quella gioia, da costringermi a tenerne 5! All’inizio non ne capivo assolutamente nulla su come bisogna curare un gatto e i consigli che i vicini mi dispensavano erano proprio fuori dal mondo: dal dare solo avanzi, alla pasta col sugo, o le lische di pesce, alla diatriba se fosse meglio sterilizzarli o no, se fosse il caso di vaccinarli o no... insomma nessuno ci capiva niente! Mi rivolsi ad un esperto, a quello che chiamiamo affettuosamente il “Dott. House” dei gatti, un veterinario che è davvero un “mago” nel suo mestiere: ho visto gatti investiti che qualcuno avrebbe anche lasciato sul ciglio della strada senza speranza, ritornare a correre dopo essere stati operati da lui! E grazie a lui, iniziai a vedere la luce in fondo al tunnel dei luoghi comuni e mi resi conto che ciò che la gente crede di sapere su come andrebbe trattato un gatto, è lontano anni luce dalla salute stessa del povero malcapitato micino, visto spesso come un secchio della spazzatura animato, adatto a mangiare quello che non possiamo mettere nell’indifferenziata. L’arrivo dei miei gatti segnò l’acuirsi dell’odio reciproco con i miei ex vicini di casa e, se sono diventati “ex”, anche i loro comportamenti nei confronti dei miei piccoli nuovi inquilini pelosi hanno contribuito al non rimpiangere affatto la loro amicizia: la loro disapprovazione si esprimeva in vari modi! Dal cacciarli semplicemente a parolacce, a innaffiare la gatta mentre stava allattando, al preparare trappole, dove uno dei miei gatti stava quasi perdendo una zampa.
Da Dei a Demoni Se in Egitto i gatti erano venerati al pari di dei, al punto che la dea Bastet aveva le sembianze di una donna con la testa di gatto, e quando moriva un gatto il padrone dello stesso si radeva le sopracciglia in segno di lutto, tutt’altra sorte avrebbe aspettato i poveri felini nella “civilissima e cristianissima” Europa del medioevo. Gli antichi egizi chiamavano "miao" il gatto; addomesticarono quelli che vivevano ai bordi del delta del Nilo, originariamente per debellare i topi che infestavano i granai. In seguito, col passare del tempo, non ci fu casa o tempio od edificio che non registrasse la presenza di almeno un gatto, tenuto peraltro con ogni cura. Il culto di Bastet raggiunse una diffusione tale che il gatto in Egitto era protetto dalla legge. Era vietato fargli del male o trasferirli al di fuori dei confini del regno dei faraoni. Chi violava tali disposizioni, era passibile di pena di morte. Nonostante le leggi egizie proibissero l'esportazione dei gatti, ritenuti animali sacri, i navigatori fenici li contrabbandarono fuori del paese, facendone oggetto di commercio insieme ad altre merci preziose. Furono poi i Romani a portarli per primi nelle isole britanniche.
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Anche i mussulmani avevano in particolare simpatia i gatti: narra la leggenda che il profeta Maometto assorto nella preghiera, non si fosse accorto che un aspide lo stesse mordendo, e solo l’intervento di un gatto tigrato gli salvò la vita. Il profeta gli accarezzò la testa e rimase impressa una “M” sulla fronte del gatto(disegno che tutt’ora è visibile in alcune razze), sigillando così l’amicizia fra l’uomo e il gatto. E forse proprio per questo che i cristiani si schierarono contro i poveri felini, al punto che nel XIII secolo papa Gregorio IX li dichiarò ufficialmente incarnazione del demonio, forte pure dell’appoggio di alcuni santi, tra cui anche San Domenico, e promulgò la bolla Vox in Rama , con la quale si apriva ufficialmente la caccia ai gatti neri, considerati i “familiari” delle streghe, una sorta di demone che aiutava le malefatte delle malcapitate o, poteva anche esserne un tramite nel quale la strega poteva incarnarsi per camminare di notte. Solo i gatti completamente neri erano considerati maledetti in un primo momento: venivano presi e messi in delle ceste per poi essere uccisi sul rogo nella notte di San Giovanni, durante in solstizio d’estate, assieme alle rispettive padrone. Vennero risparmiati gli altri fino all’avvento del “grande” Innocenzo VIII alla fine del 1400 che , con la bolla “Summis desiderantes” estese la caccia a tutti i gatti e a chiunque li possedesse. La bolla in questione coincise con la pubblicazione nel 1486 del “Malleus Maleficarum”, il “manuale d’istruzione” per gli inquisitori, su come riconoscere, perseguire ed interrogare un sospetto di eresia o stregoneria; il possedere un gatto era fra gli indizi più forti per incriminare qualcuno di stregoneria. Lo so che può sembrare assurdo, ma l’ultimo gatto giustiziato con l’accusa di stregoneria fu ucciso nel 1712.
Le origini del male Il mantello nero, sacro per gli egizi, diveniva il simbolo del male nel medioevo fino ai giorni nostri: chi di voi non conosce almeno una persona che trema nel vedere attraversare un gatto nero? Ebbene c’è più di una spiegazione logica a quella che è diventata più di una superstizione: in un periodo in cui non c’era illuminazione nelle strade, quando un gatto attraversava la strada di notte, rischiava di far imbizzarrire i cavalli con conseguenze anche gravi e il fatto che questi incidenti avvenissero di notte, e che il mantello sembrasse scuro, fece additare automaticamente il gatto nero come causa principale delle disgrazie! L'altra motivazione ha a che fare con i pirati turchi che erano soliti portare a bordo delle navi dei gatti neri per cacciare i topi nella stiva (neri perchè così erano meno visibili nel buio). Quando i pirati approdavano vicino a una città, in attesa di saccheggiarla, i gatti potevano approfittarne per scendere a terra. Vedere in giro un gatto nero, quindi, divenne un presagio di sventura. Il nero poi, il colore del male per eccellenza, della morte, non poteva che travestire un figlio perfetto del demonio, dagli occhi iridescenti, grazie al caratteristico “tapetum lucidum”, una struttura cristallina organica situata dietro la retina. Inoltre, grazie al suo finissimo udito ed alla sensibilità tattile delle sue vibrisse, esso è capace di muoversi con assoluta sicurezza anche nel buio più completo; l'orecchio del gatto è in grado di percepire i cambiamenti nell'aria di umidità e di pressione e quindi il gatto ha sostanzialmente la capacità di prevedere i cambiamenti climatici strofinandosi l'orecchio con la zampa. Questa sua abilità, che andava al di là dei cinque sensi, era conosciu-
ta e sfruttata dai contadini, ma divenne un'altra caratteristica che faceva associare il gatto a Satana. Infatti uno degli appellativi di quest'ultimo è Principe dell'Aria. Il fatto che queste caratteristiche fossero comuni a tutti i gatti ne decretò poi la persecuzione a tappeto, con conseguenze terribili per l’intero continente: l’eliminazione dei felini, in alcune zone quasi fino all’estinzione, portò alla proliferazione di topi e ratti, che, oltre ad essere il flagello di cantine e granai, sono la causa di almeno 35 malattie gravi, tra cui la peste bubbonica che mise in ginocchio l’Europa intera. L’illuminismo mise fine a questa e ad altre assurde persecuzioni ed il gatto rientrò nel focolare domestico, al fianco della donna che assieme a lui aveva subito la ferocia dell’ignoranza nei secoli bui, diventando il simbolo dell’aristocrazia e dei salotti della nuova borghesia. Tuttavia le stupide credenze rimangono e una spiegazione a questo ce la da E. Burnet Tylor nel suo trattato Alle origini della cultura - vol. I - La cultura delle credenze e delle superstizioni (p. 75): “Quando una consuetudine, un'arte o una credenza è stabilmente entrata nel mondo, le influenze contrarie possono contrastarla a lungo così debolmente che essa può sopravvivere di generazione in generazione, come un corso d'acqua che, una volta formatosi nel suo letto, scorrerà per secoli. Questa è soltanto una permanenza della cultura e ciò che più sorprende è come mai mutamenti e rivoluzioni dei fatti umani abbiano lasciato scorrere per così lungo tempo tanti di questi debolissimi rivoli”.
Conclusioni : io e i miei gatti Per quanto mi riguarda, non ho mai creduto alle superstizioni e da quando ho la mia splendida gatta nera Alcesti e il suo fratellone di quasi 8 kg Speedy, mi sento fortunata, perché osservare l’eleganza di un gatto è uno spettacolo unico, il loro mirabile senso dell’equilibrio quando riescono con sicurezza a correre sui bordi delle tegole è come vedere due ballerini della Scala o due acrobati sul filo, i salti perfetti sono superiori a qualsiasi gesto atletico, la loro bellezza è un dono che arricchisce anche la giornata più buia. Starei le ore a specchiarmi in quegli occhi grandi e luminosi, nel privilegio di essere stati scelti: si perché un gatto sceglie di restarti accanto, non lo puoi possedere, è uno spirito troppo libero per poter dire “ho un gatto”, piuttosto, “Ho l’amicizia di un gatto”…si, perché il gatto ama, non tutti incondizionatamente, ma una persona per volta, scelta con cura, con un amore che lo fa restare anche giorni ad aspettare, senza mangiare. Il ronfare festoso delle fusa sulla spalla, mentre ti sorprendono sul divano o alla finestra , è il suono di una gioia sincera, lo sguardo fisso che ti segue in silenzio per ore, con discrezione, senza invadenza è tutto quello che ti basta per non sentirti solo. E, si, capisco quella matta di Mariantonietta, che, colta dalla disperazione, pensò subito alla salvezza dei suoi amati gatti d’Angora: oggi so che avrei fatto lo stesso, oggi so che avrei tenuto i miei gatti anche con il rischio di essere accusata di stregoneria, perché ne vale veramente la pena poter godere del dono dell’amicizia di un gatto, poter affondare le dita in sette chili di morbidezza, poter navigare in quello sguardo che sa sedurre, con furtivo fascino, che sa vedere oltre le apparenze, mentre con tenerezza tuffa le sue zampine in fondo al tuo cuore.
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Immagini dalla
70째della Vittoria della
(che alcuni chiamano anche
Piazza Rossa
Grande Guerra Patriottica Seconda Guerra Mondiale)
Rappresentanze degli eserciti dei Popoli vincitori contro il nazi-fascimo europeo e il militarismo fascista giapponese In questa pagina Cina e India, nella pagina a fianco Serbia e Bielorussia. A destra in alto i tre presidenti della Russia, Cina e India
Armenia, Azerbajan, Tagikijstan Nella pagina a fianco Cosacchi
Il buddhismo nasce in India cinquecento anni prima di Cristo con la predicazione del “Buddha storico”, il principe Siddharta Gautama, e grazie anche alla longevità del predicatore raggiunge subito una vastissima diffusione nel nord più popoloso dell’India. Nei secoli seguenti il buddhismo verrà rimontato dal ritorno della religione induista che, in verità e in ragione della sua natura sincretica (capace cioè di recepire anche altre credenze religiose), lo assorbe nel proprio ricchissimo Pantheon. Il buddhismo si estenderà e sedimenterà invece definitivamente nell’Indocina, nella Cina e in Giappone, in misura prevalente su qualsiasi altro culto anche preesistente. La radice del pensiero buddhista resta comunque fortemente radicata nelle cultura indiana e a lui (l’Illuminato) si è richiamato spesso anche il “Mahatma” (Grande Anima) Gandhi
समाजवादी कौन है? समाजवाद एक सुंदर शब्द है। जहाँ तक मैं जानता हूँ, समाजवाद में समाज के सारे सदस्य बराबर होते हैं, उसी तरह समाजरूपी शरीर के सारे अंग भी बराबर है। यही समाजवाद है। सारी दुनिया के समाज पर नजर डालें तो हम देखेंगे कि हर जगह द्वैत-ही-द्वैत है। एकता या अद्वैत कहीं नाम को भी नहीं दिखाई देता। वह आदमी ऊँचा है, वह आदमी नीचा है। वह हिंदू है, वह मुसलमान है, तीसरा ईसाई है, चौथा पारसी है, पाँचवाँ सिक्ख है, छठा यहूदी है। इनमें भी बहुत सी उप-जातियाँ हैं। मेरे अद्वैतवाद में ये सब लोग एक ही जाते हैं; एकता में समा जाते है। यह समाजवाद बड़ी शुद्ध चीज है। Cos’è il socialismo? Il socialismo è una bella parola. Per quanto ne so, tutti i membri della società sono uguali nel socialismo, nessuno inferiore, nessuno superiore. Tutte le parti del corpo umano sono uguali, allo stesso modo tutti gli organi del corpo sono uguali. Questo è il socialismo. Se guardiamo il mondo, vedremo le società in tutto il mondo divise in due. Unità non compare da nessuna parte. Uno è in alto, l’altro è in basso. Uno è indù, uno musulmano, un terzo cristiano, zoroastriano il quarto, il quinto sikh, il sesto ebraico. Ci sono anche molte sotto divisioni. Tutti sono uguali nella mia visione monoteista; tutti sono raccolti in una unità. Il socialismo è una cosa pura.
মেঘের পরে মেঘ জমেছে, আঁধার করে আসেআমায় কেন বসিয়ে রাখ একা দ্বারের পাশে। কাজের দিনে নানা কাজে থাকি নানা লোকের মাঝে, আজ আমি যে বসে আছি তোমারই আশ্বাসে। আমায় কেন বসিয়ে রাখ একা দ্বারের পাশে। তুমি যদি না দেখা দাও কর আমায় হেলা, কেমন করে কাটে আমার এমন বাদল-বেলা। দূরের পানে মেলে আঁখি কেবল আমি চেয়ে থাকি, পরাণ আমার কেঁদে বেড়ায় দুরন্ত বাতাসে। আমায় কেন বসিয়ে রাখ একা দ্বারের পাশে। Nubi su nubi si addensano e si fa buio. Amore mio, perché mi lasci tutto solo sulla porta ad aspettarti? Nei momenti più intensi del lavoro durante il giorno sto tra la gente ma in questo momento così buio e desolato solo in te posso sperare. Se non mi mostri il tuo volto se mi lasci qui in disparte non so come riuscirò a sopportare queste lunghe ore di pioggia. Osservo in lontananza l'oscurità del cielo e il mio cuore gemendo vaga col vento inquieto. Rabindranath Tagore