MAGGIO-GIUGNO

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Mensile di informazione, politica e cultura dell’Associazione Luciana Fittaioli - Anno VII - nn. 5-6 - maggio-giugno 2015 - distribuzione gratuita

9 maggio 1945 - 9 maggio 2015 l’Unione Sovietica libera l’Europa


La bandiera della vittoria nello spazio

La bandiera rossa dell’Unione Sovietica, sollevata il 30 aprile 1945 dai tre soldati dell’Armata Rossa sul palazzo del Reichstag di Berlino, è da sempre il simbolo ufficiale della vittoria sul nazi-fascismo. La bandiera, conservata nel museo dell’esercito di Mosca, viene esposta nelle parate per la commemorazione della vittoria sulla Piazza Rossa il 9 maggio di ogni anno. In occasione del 70°anniversario della vittoria, una copia della bendiera è stata consegnata dal cosmonauta Alexey Leonov, autore delle prima “passaggiata” nello spazio, al cosmonauta Yuri Lonchakov, capo della missione in corso sulla stazione spaziale MIR (oggi ISS, stazione spaziale internazionale), perché la esponga il 9 maggio 2015 nello spazio a testimonianza e memoria della indimenticabile sconfitta del nazi-fascismo. “Molti cercano di riscrivere la storia - ha detto il cosmonauta Leonov - ma noi non lo permetteremo”


Spesso ci viene ripetuta la domanda: perché Piazza del Grano parla delle più diverse vicende del Mondo e non si occupa (se non episodicamente) di quelle nazionali e locali? Viene un risposta “istintiva”: ne vale la pena? C’é una risposta più profonda (a parte l’impossibilità “tecnica” di trattare dell’attualità per una rivista con cadenza, oggi, bimensile): nel Mondo stanno avvevendo mutamenti sensazionali che certamente si rifletteranno sul nostro futuro, nazionale e locale. A livello nazionale e, ancor più, a livello locale, stiamo vivendo una “calma piatta” che, ci auguriamo, sia in realtà il preavviso non della quiete, ma della tempesta. E la tempesta è forse già alle porte con il progetto della “Coalizione sociale” lanciato dalla FIOM (ne facciamo un cenno in un altro inserto all’interno). Per ora, in attesa di conoscerne di più, continuiamo a parlare del contesto globale e, nei nostri limiti di possibilità e capcità, a fornire gli strumenti per capire e partecipare, quando ne sussisteranno le condizioni. Il manifesto della foto sopra, al di là della retorica giovanile ma onesta di quegli anni formidabili, sembra oggi avere ripreso piena attualità. Il “non voto”, che oggi interessa più della metà degli elettori italiani, è forse, per assurdo, la prima manifestazione di partecipazione politica dopo decenni di delega, a volte fideistica e passiva, altre volte interessata dalle logiche corruttive dello scambio. Questo “non voto” che rifiuta, finalmente, anche la peggiore manifestazione politica del voto di protesta, è forse il presupposto di una nuova presa di coscienza culturale, sociale e quindi politica, della necessità di una partecipazione attiva, diretta e personale. Ci fermiamo qui, con la speranza che motiva l’ostinazione che sostiene la pubblicazione di questo strumento di comunicazione, scambio e conoscenza, di poter parlare presto, molto presto, di nuovo del nostro Paese, del nostro territorio, della nostra classe come protagonista di un rinnovamento politico, sociale e culturale di risonanza mondiale. Siamo pur sempre il Paese di Antonio Gramsci! (SR)

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Editoriale L’Iran e la “via della seta” di Sandro Ridolfi

pagina 174

Armenia Diaspora e Olocausto a cura della Redazione

pagina 176

TTIP USA-UE Libero scambio o frontiera economica di Giacomo Bertini

pagina 180

Il Capitale Sociale Costruzione sociale della salute di Ivano Spano

pagina 184

Modello 730/2015 La Semplificazione diventa Complicazione di Loretta Ottaviani pagina 188 I Rifugiati La mediazione culturale di Laura Toro

pagina 192

Terrorismo L’arma dei potenti da Noam Chomsky

pagina 196

Glauber Rocha Canfaceiro del cinema di poesia di Giovanni Parentignoti

pagina 200

L’antiumanesimo capitalista (terza parte) La sociologia a fondamento capitalistico di Alberto Donati pagina 204 La FIOM e il “Principe” Note su Macchiavelli e il Partito da Antonio Gramsci

pagina 210

Redazione: via Benedetto Cairoli 30 - 06034 Foligno - E-mail redazionepiazzadelgrano@yahoo.it - Sito internet: www.piazzadelgrano.org - Autorizzazione: tribunale di Perugia n. 29/2009 - Editore: Sandro Ridolfi - Direttore Responsabile: Maria Carolina Terzi - Sito: Andrea Tofi - Stampa: Del Gallo Editori Spoleto - Chiuso: 30 aprile 2015 Tiratura: 2.000 copie - Periodico dell’Associazione “Luciana Fittaioli”


S ommario del mese di maggio-giugno 2015 Le lingue degli “altri” Il razzismo spiegato a mia figlia da Tahor Ben Jelloun

pagina 216

Giovani a confronto Chi parte e chi resta di Giacomo Bertini

pagina 220

Angeli Storia e gerarchie di Sara Mirti

pagina 224

Teatro Sordo Il Laboratorio Zero di Roma (prima parte) di Dario Pasquarella pagina 228 Routine Una nuova forma di teatro di Dario Pasquarella

pagina 232

Venga a prendere il caffè da noi Piccoli uomini crescono di Catia Marani

pagina 236

E adesso Pubblicità! Dal Gattopardo alla Gallina di Chiara Mancuso

pagina 240

L’Aqida Tahawiya Il credo islamico a cura della Redazione

pagina 244

QR code al sito internet della rivista


di Sandro Ridolfi

Gli accordi di Losanna sembrano avere posto fine al lunghissimo capitolo del così detto “programma nucleare iraniano”, denunciato dall’occidente come finalizzato non a scopi civili, ma per la costruzione di armi nucleari. Non entriamo qui nel merito di “chi ha diritto di dire a chi” se può o no dotarsi di un arsenale nucleare. Ad arrogarsi questo diritto sono ovviamente coloro che l’arsenale nucleare lo hanno già e lo conservano, implementandolo costantemente, ma – dicono loro – solo per garantire la pace nel Mondo (attraverso la minaccia della guerra atomica?). Sono molti i Paesi che dispongono di armi nucleari, direttamente o indirettamente (vedi Italia e Germania che pur non disponendo di armi nucleari proprie ne hanno però in grande abbondanza nel loro territorio, stipate nelle basi delle forze di occupazione USA). Un solo Paese, tuttavia, nella storia ha fatto uso effettivo del proprio armamento nucleare su obiettivi civili: gli Stati Uniti

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d’America. Non intendiamo minimamente sostenere il diritto dell’Iran di dotarsi di armi nucleari perché questo diritto dovrebbe essere negato a tutti, a cominciare, appunto, da coloro che le hanno già e dovrebbero smantellarle. Comunque gli accordi di Losanna sanciscono il diritto dell’Iran di proseguire con il proprio programma di produzione di energia nucleare per usi esclusivamente civili, sottoponendosi al monitoraggio di una produzione non militare. A monitorare e garantire il rispetto da parte dell’Iran dell’uso civile della sua energia nucleare sarà la Russia. Chiusa così la “partita” della minaccia iraniana, quel Paese esce, anche formalmente, dalla “lista nera” dei “Paesi Canaglia” redatta dal gendarme del Mondo: gli USA (lista a questo punto ridotta alla sola Corea del Nord che, peraltro, ha anch’essa iniziato un percorso di “riabilitazione”, sempre grazie alla Russia che la sta inserendo nel sistema economico

della neonata Unione Economica Euroasiatica – EEU e, in percorso, in quello di coordinamento militare della Shanghai Cooperation Organisation – SCO). Cosa c’è dietro questo accordo e quali le sue prospettive lo possiamo leggere dall’articolo che abbiamo pubblicato a pagina 171: il Mondo è cambiato, è inevitabile seguire il “vento del cambiamento”, inutili e impotenti vecchi o nuovi “muri”. L’occidente ha esaurito il suo plurisecolare ciclo propositivo. Non commentiamo pregi o difetti, per non dire “nefandezze”, registriamo il solo dato scientifico della fine di un predominio economico, e quindi militare e culturale, di fronte all’entrata in campo di nuove realtà, sempre economiche, con i loro nuovi portati sociali e culturali. Stare dentro o fuori questi percorsi di cambiamento significa progettare un futuro, sicuramente diverso, ma comunque possibile; o, al contrario, condannarsi all’isolamento e all’inevitabile regressione


Il nucleare iraniano e la “via della seta” Gli Stati Uniti sono sicuramente condannati a quest’ultimo esito, perché la loro vicenda imperiale (il più grande, potente e violento impero che sia mai esistito nella storia del Mondo) è stata basata esclusivamente sul (pre)dominio militare, sul saccheggio delle risorse naturali e umane del resto del Mondo e quindi, perso il controllo di queste risorse, necessariamente gli USA sono destinati a implodere per la loro strutturale incapacità di integrazione con le altre realtà economiche, politiche, sociali e culturali. Non la stessa, invece, appare la sorte possibile dell’Europa che, pur avendo anch’essa basato gran parte della propria “fortuna” sul dominio dei Paesi più poveri (o meglio “più deboli”), ha tuttavia creato: da un lato, al proprio interno, un sistema economico e sociale di significativa autosufficienza; dall’altro lato, all’esterno, relazioni di interdipendenza non solo economiche con vasta parte del resto del Mondo, che potrebbero costituire i veicoli di un nuovo “patto” mondiale, diversamente equilibrato, ma potenzialmente condiviso. Leggiamolo proprio nella vicenda dell’Iran. Dalla caduta dello Scià Reza Pahlavi (figlio di un sergente maggiore incoronato dagli occupanti inglesi “Cesare” dell’antichissimo regno persiano – Scià è la mutazione fonetica di Cesare, anche se l’unico nella storia a conquistare la Persia fu Alessandro Magno, impresa che non riuscì ai romani) l’Italia, grazie all’intelligenza dei propri “boiardi di Stato” (vedi articolo su Breda-Ansaldo pubblicato nel numero precedente di questa rivista) si è posta come il principale interlocutore economico (ma forse anche “sotterraneamente” politico) della Repubblica Islamica dell’Iran con l’Europa. Ancora vigenti le drastiche sanzioni USA e “in barba” anche a

quelle ufficiali dell’Unione Europea, l’Italia ha mantenuto fortissimi scambi economici con l’Iran, peraltro in settori strategici quali l’energia, ecc., oltre a quelli propriamente commerciali del “made in Italy” della moda e del lusso. Tutto ciò nonostante la presidenza della Repubblica del “cattivissimo” Ahmadinejad (per inciso, uscito dalla scena politica alla scadenza del suo ultimo mandato come si usa – si dovrebbe usare – nei sistemi di ricambio democratico) che negava (così dicevano i suoi accusatori, ma non era vero) che noi europei avevamo bruciato 5 milioni di connazionali ebrei nei forni crematori e quindi non si capacitava come mai i palestinesi e gli arabi del medio oriente in genere fossero così restii a cedere la loro terra, case e beni per risarcire i sopravvissuti dalla barbarie dell’olocausto europeo (vedi articolo sulla Palestina pubblicato nel numero precedente). Distrutto l’Iraq dall’invasione USA, destabilizzato gran parte del nord Africa con la devastazione della Libia, in piena crisi politica e, forse ben presto anche economica, la Disneyland degli Emirati e dell’Arabia Saudita, l’Iran con la sua forte e consolidata identità statuale, si pone come l’interlocutore più importante e valido per l’intero mondo arabo (anche se non è esatto, perché gli iraniani sono indoeuropei e non arabi ed è la fede religiosa che li lega al mondo musulmano). Ristabilire relazioni economiche e quindi politiche “piene” con quello Stato è dunque un imperativo irrinunciabile per il sistema economico europeo, Italia in testa. Ogni medaglia ha il suo rovescio che, in questo caso, può essere considerato un “doppio”. Il nuovo gigante economico e politico cinese ha lanciato, infatti, la sua strategia di integrazio-

ne asiatica anche verso il medio oriente, progettando la nuova “via della seta”. Si tratta di un progetto infrastrutturale di vastissima portata economica che punta a collegare Pechino (il mare della Cina) a Teheran (il mare persico), lambendo l’India, attraversando il Pakistan e l’Afghanistan. Saranno strade, ferrovie, oleodotti, gasdotti, ma anche reti informatiche, scambi e contaminazioni culturali e, infine, anche coordinamento militare. All’ultimo vertice dello SCO (che di fatto si pone come l’alternativa “totale” alla NATO atlantica e alla SEATO pacifica) tra gli Stati membri, i candidati e gli osservatori, c’era anche l’Iran in persona del suo Presidente della Repubblica Rohani. Nel corrente anno 2015, sotto la presidenza di turno della Russia, nello SCO, già partecipato dalla Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan, entreranno ufficialmente sia l’India che il Pakistan; in lista di attesa Bielorussia, Mongolia, Sri Lanka, Siria, Serbia (ultima) e, appunto, l’Iran. In altre parole l’Iran è la seconda “porta” di ingresso (contatto) tra l’Occidente europeo e l’estremo Oriente, dopo la Russia. Non è dunque un “caso” che sia stata proprio la Russia a essere incaricata di monitorare il programma nucleare dell’Iran, Paese al quale, va aggiunto, la Russia già fornisce l’intero supporto logistico militare. Gli accordi di Losanna sono dunque un passo avanti di straordinaria importanza anche per il nostro futuro (vera o non vera la “storiella” della bomba atomica iraniana progettata per distruggere Israele e, quindi, anche la Palestina, eliminando in un solo colpo ebrei e palestinesi e contaminando l’intera regione, così “brillantemente” risolvendo alla radice quel problema “negato”).

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Il più antico popolo indoeuropeo l’Armenia è una delle prime culture preistoriche conosciute nella regione, databile al carbonio intorno al 6000 a.C.-4000 a.C. Gli Armeni sono uno dei sottogruppi più antichi del gruppo degli Indoeuropei. Il nome originario armeno per questa regione è “la terra di Haik” che, secondo la leggenda, era discendente di Noè. Il Monte Ararat, montagna sacra per gli Armeni, è tradizionalmente considerato il luogo dove si posò l'arca di Noè dopo il diluvio universale. Tra il 1500 e l’800 a.C., il regno di Armenia si estendeva dal Mar Nero fino al Mar Caspio, compresa gran parte del territorio dell'attuale Turchia orientale giungendo, tra il 95 e il 66 a.C., sotto il regno di Tigrane il Grande, alla Siria e al Libano. Nel 66 a.C. le legioni romane di Pompeo invasero l'Armenia che divenne un protettorato romano. In questo periodo l'Armenia subì l'influenza della cultura romana al punto che lo storico Strabone scriverà che tutti in Armenia parlano lo stesso linguaggio. Nel 114, con l'imperatore Traiano, l'Armenia diventa definitivamente una provincia romana. Nel 301, l'Armenia divenne la prima nazione ad adottare il Cristianesimo come religione di Stato. Essa istituì una propria Chiesa che sussiste attualmente come indipendente dalla Chiesa Cattolica Romana e da quella Ortodossa. Secondo la tradizione, la Chiesa Apostolica Armena venne istituita da due dei dodici apostoli: San Giuda e San Bartolomeo, che predicarono il Cristianesimo in Armenia dal 40 al 60. Nel 591 l’imperatore bizantino Maurizio portò gran parte del territorio armeno all'interno dell'Impero. Nel 645 gli Arabi Musulmani del Califfato attaccarono la regione conquistandola. Tuttavia, esistevano ancora zone dell'Armenia sotto l'Impero Bizantino. La popolazione che abitava quelle regioni mantenne una grande influenza sull'Impero. L'imperatore Eraclio (610-641) era di discendenza armena, così come l'imperatore Filippico (711-713). L'imperatore Basilio I, che salì al trono nell'867, fu il primo di quella che viene chiamata la dinastia armena, indicando così la forte presa degli

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Armeni sull'Impero Romano d'Oriente. Nel 1071, dopo la sconfitta di Bisanzio da parte dei Turchi, l'Armenia venne conquistata dai Musulmani. La situazione diede ai Curdi l'opportunità di espandersi nel territorio dell'Armenia. Infine venne conquistata dagli Ottomani che rimasero padroni dell’Armenia per centinaia di anni. Mehmed II conquistò Costantinopoli nel 1453, e ne fece la capitale dell'Impero Ottomano. Poi il Sultano invitò l'arcivescovo armeno a stabilire un patriarcato a Costantinopoli. Gli armeni di Costantinopoli crebbero vertiginosamente di numero e divennero una componente rispettabile della società ottomana fino all’arrivo al potere dei “giovani turchi” e al massacro degli armeni del 1915. Con la caduta dell’Impero Ottomano e il trattato di Sèvrese del 1920 venne riconosciuta la Repubblica di Armenia che avrebbe dovuto annettere i territori dell'Armenia Ottomana. Tuttavia, il Trattato fu respinto dal movimento nazionale turco, guidato dal generale Mustafa Kemal. Seguì una guerra turco-armena che si concluse con il Trattato di Alexandropol e sancì la vittoria turca e l'annullamento delle concessioni di Sèvres. Immediatamente dopo, il 29 novembre 1920, l'Undicesima Armata Sovietica entrò in Armenia e la regione fu incorporata nell'Unione Sovietica il 4 marzo 1922. L'Armenia Sovietica partecipò alla Seconda guerra mondiale inviando centinaia di migliaia di soldati al fronte per difendere la madrepatria sovietica. L'Armenia beneficiò ampiamente del sistema economico sovietico, così villaggi di provincia divennero gradualmente città. Con la pace e l’unificazione sovietica vi furono grandi mutamenti demografici tra gli Stati confinanti che ebbero risvolti disastrosi durante e dopo il conflitto del Nagorno-Karabakh. L'Armeniaè uscita dall'Unione Sovietica il 21 settembre 1991. In ottobre di quello stesso anno venne eletto presidente della nuova Repubblica Ter-Petrosian già a capo del Soviet supremo dell'Armenia. Dall’1 gennaio 2015 l’Armenia è entrata a far parte dell’Unione Economica Euroasiatica con la Russia, Bielorussia e Kazakistan.


Armenia diaspora e genocidio “L’armenità è come una traccia esile di flauto, che l’orecchio appena percepisce ai confini dell’udito; come due profondi orientali occhi neri sotto sopracciglia foltissime, intravisti in filigrana dietro paesaggi consueti. È il tan estivo, la bevanda di yogurt acqua e sale che disseta come nessun’altra, e che solo da noi si beveva: sono i dolci di miele e d’ambrosia, sono i berek di sfoglia squisita ripieni di tutto. L’armenità è sapere che in ogni dove c’è uno simile a te, che ha una simile storia alle spalle; che due s’incontrano in un qualsiasi caffè del vasto mondo, scoprono che il loro nome termina in –ian, cominciano diffidenti a parlare e si scoprono presto cugini. E si raccontano, e ciascuno prende piacere della storia dell’altro, e la riconosce. L’armenità è sentire in se stessi l’eco e il ricordo delle vaste pianure dell’Anatolia e dei morti che ancora le abitano, e là hanno lasciato le flebili voci del loro rimpianto”.

La diaspora e la conservazione dell’identità La caduta di Ani – antica capitale del Regno d’Armenia in epoca medievale – avvenuta per mano tartara nel 1044, diede origine alla prima diaspora della storia armena. Nuclei consistenti di Armeni emigrarono alla volta della Crimea, Polonia, Ungheria, Transilvania e Cilicia. E dopo di allora altri flussi migratori si verificheranno, nel corso della complessa e travagliata storia di questo piccolo e antico popolo, dotato di una non comune capacità di adattamento e nel contempo di un forte istinto di autoconservazione. Tra le più antiche sedi della diaspora armena deve essere menzionata Israele. Attualmente a Gerusalemme, che fu meta di pellegrinaggi fin dai primi secoli, vivono circa 2.000 armeni, mentre alcuni nuclei risiedono a Jaffa, Haifa e Raffa. La presenza storica degli armeni è testimoniata dall’estistenza del quartiere armeno all’interno della Città Santa, in cui hanno sede la chiesa di San Giacomo, la biblioteca dei ma-

noscritti miniati e il seminario apostolico, uno tra i più importanti per il popolo armeno. Altro paese in cui si verificarono migrazioni armene a partire dal IV secolo d.C. è Cipro. Attualmente vi risiedono circa 3.000 armeni che, nonostante l’esiguità numerica, sono in grado di gestire alcune importanti istituzioni confessionali e civili, oltre ad una emittente radio ricevuta in tutto il Medio Oriente. In Iran risiedono circa 400.000 armeni, discendenti di quella comunità che si era venuta a formare a seguito del trasferimento forzato degli abitanti armeni di Giulfa ad Isfahan durante il regno dello scià Abbas il Grande, a cavallo tra il XVI e il XVII sec. Infine, tra i paesi che registrano presenze armene in epoca remota, ricordiamo l’Etiopia. Attualmente vi risiedono circa 2.000 armeni. Tuttavia, quando si pensa alla diaspora armena si fa più facilmente riferimento a quella derivata dalle conseguenze dei massacri del 189496 e del genocidio del 1915, e costituita quindi dai sopravvissuti, in fuga verso paesi più accoglienti e sicuri. Tra i paesi europei la Francia è

quello che censisce il maggior numero di armeni (circa 500.000 persone), seguito dalla Polonia (circa 100.000), dalla Spagna (circa 60.000), dalla Germania (circa 40.000) e dalla Grecia (circa 30.000) e a seguire altre comunità, più esigue numericamente, come quella italiana, che conta 2.000 componenti. In Medio Oriente, la Giordania, il Libano e la Siria registrano complessivamente circa 700.000 armeni che si sono dotati di scuole, chiese e giornali propri. Tuttavia, a seconda della situazione politica, queste comunità alternano momenti di sicurezza e benessere ad altri di incertezza e precarietà. Particolarmente penalizzata è stata negli ultimi anni la comunità armeno-libanese, che dai tempi della guerra civile è andata via via assottigliandosi, avendo in molti scelto nuovamente la via dell’emigrazione. A Istanbul risiedono circa 90.000 armeni. La più numerosa ed importante comunità diasporica armena risiede in Nord America e principalmente negli Stati Uniti, dove vivono oltre un milione di armeni, soprattutto in California e Los Angeles è la città a più densa concentrazione armena.

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Il mantener viva la lingua armena tra le diverse diaspore è impresa non facile, soprattutto con il trascorrere degli anni e i passaggi generazionali. Ma se nei secoli la religione e la lingua sono sempre stati quella forza di coesione che ha protetto gli armeni dai più massicci tentativi di acculturazione da parte di popoli dominatori e dominanti, oggi gli armeni sparsi nel mondo hanno il dovere e il bisogno estremo di non perdere definitivamente il proprio patrimonio linguistico. Lingua significa coesione tra gli armeni della diaspora e legame - nonostante le diversità tra l’idioma occidentale ed orientale - con l’Armenia attuale, che alcuni definiscono, sia pur un po’ astrattamente, “Madre Patria.” Ma come viene espresso dagli armeni della diaspora quella equilibrata dualità che li fa sentire in egual misura armeni e italiani, armeni e francesi, armeni e americani? Uno dei più famosi figli della diaspora in generale, e di quella francese in particolare, è sicuramente Charles Aznavour, al secolo Aznavourian. In conclusione all’autobiografia in cui esordisce raccontando le proprie origini, Aznavour con semplicità dichiara: “Quando mi chiedono se mi sento più armeno o più francese, c’è una sola risposta possibile: cento per cento francese e cento per cento armeno. Sono come il caffelatte: una volta mischiati gli ingredienti, non si può più separarli”. E continua la sua riflessione, sottolineando il valore culturale ed umano conferitogli dal fatto di appartenere a due culture, di aver sentito fin dall’infanzia parlare due lingue. Percezione questa molto comune tra gli armeni della diaspora. Anche Carlo Arslan dichiara di possedere una “doppia anima” e, a proposito delle modalità di insediarsi ed inserirsi in un paese ospitante, ricorda che “le prime cose che un armeno costruisce in un paese sono la chiesa e la scuola. È la difesa della propria identità attraverso la religione e la cultura. [...] Uno dei segreti dell’unità è proprio l’unità religiosa, ma non fanatica, e la difesa della cultura e del libro”. E la sorella Antonia ne completa il pensiero, affermando che “l’armeno, per la sua storia di perseguitato, cerca di persuadere, non di imporsi”

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Il Genocidio Armeno del XX Secolo Durante la prima guerra mondiale (1914-1918) si compie, nell’area dell’ex impero ottomano, in Turchia, il genocidio del popolo armeno (1915 – 1923), il primo del XX secolo. Il governo dei Giovani Turchi, preso il potere nel 1908, attua l’eliminazione dell’etnia armena, presente nell’area anatolica fin dal 7° secolo a.C. Dalla memoria del popolo armeno, ma anche nella stima degli storici, perirono i due terzi degli armeni dell’Impero Ottomano, circa 1.500.000 di persone. Molti furono i bambini islamizzati e le donne inviate negli harem. La deportazione e lo sterminio del 1915 vennero preceduti dai pogrom del 1894-96 voluti dal Sultano Abdul Hamid II e da quelli del 1909 attuati dal governo dei Giovani Turchi. Le responsabilità dell’ideazione e dell’attuazione del progetto genocidario vanno individuate all’interno del partito dei Giovani Turchi, “Ittihad ve Terraki” (Unione e Progresso). L’ala più intransigente del Comitato Centrale del Partito pianificò il genocidio, realizzato attraverso una struttura paramilitare, l’Organizzazione Speciale (O.S.), diretta da due medici, Nazim e Chakir. L’O.S. dipendeva dal Ministero della Guerra e attuò il genocidio con la supervisione del Ministero dell’Interno e la collaborazione del Ministero della Giustizia. I politici responsabili dell’esecuzione del genocidio furono: Talaat, Enver, Djemal. Mustafa Kemal, detto Ataturk, ha completato e avallato l’opera dei Giovani Turchi, sia con nuovi massacri, sia con la negazione delle responsabilità dei crimini commessi. Il genocidio degli armeni può essere considerato il prototipo dei genocidi del XX secolo. L’obiettivo era di risolvere alla radice la questione degli armeni, popolazione cristiana che guardava all’occidente. Il movente principale è da ricercarsi all’interno dell’ideologia panturchista, che ispira l’azione di governo dei Giovani Turchi, determinati a riformare lo Stato su una base nazionalista, e quindi sull’omogeneità etnica e religiosa. La popolazione armena, di religione cristiana, che aveva assorbito gli idea-

li dello stato di diritto di stampo occidentale, con le sue richieste di autonomia poteva costituire un ostacolo ed opporsi al progetto governativo. Il 24 aprile del 1915 tutti i notabili armeni di Costantinopoli vennero arrestati, deportati e massacrati. A partire dal gennaio del 1915 i turchi intrapresero un’opera di sistematica deportazione della popolazione armena verso il deserto di Der-Es-Zor. Il decreto provvisorio di deportazione è del maggio 1915, seguito dal decreto di confisca dei beni, decreti mai ratificati dal parlamento. Dapprima i maschi adulti furono chiamati a prestare servizio militare e poi passati per le armi; poi ci fu la fase dei massacri e delle violenze indiscriminate sulla popolazione civile; infine i superstiti furono costretti ad una terribile marcia verso il deserto, nel corso della quale gli armeni furono depredati di tutti i loro averi e moltissimi persero la vita. Quelli che giunsero al deserto non ebbero alcuna possibilità di sopravvivere, molti furono gettati in caverne e bruciati vivi, altri annegati nel fiume Eufrate e nel Mar Nero. L’obiettivo degli ottomani era la cancellazione della comunità armena come soggetto storico, culturale e soprattutto politico. Non secondaria fu la rapina dei beni e delle terre degli armeni. Il governo e la maggior parte degli storici turchi ancora oggi rifiutano di ammettere che nel 1915 è stato commesso un genocidio ai danni del popolo armeno.

Mustafa Kemal Atatürk


Intervento del Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin alla cerimonia per il centenario dell’olocausto armeno Erevan 24 aprile 2015 Amici, signore e signori, Sono grato al Presidente dell'Armenia Serzh Sargsyan per l'invito a partecipare all’evento commemorativo di oggi. Abbiamo simpatia sincera per il popolo armeno, che ha attraversato una delle più grandi tragedie della storia umana. Più di 1,5 milioni di persone pacifiche sono state uccise e ferite, e più di 600.000 sono state cacciate dalle loro case e hanno sofferto la repressione di massa. Numerosi monumenti architettonici di inestimabile valore e oggetti sacri sono stati distrutti e libri antichi e preziosi manoscritti furono bruciati. Gli eventi del 1915 hanno scosso il mondo intero. La Russia sentiva questi eventi come il proprio dolore. Centinaia di migliaia, addirittura milioni di armeni indifesi e senza casa hanno trovato rifugio nell'Impero russo e sono stati salvati. Sono stati gli sforzi diplomatici della Russia che hanno assicurato la condanna internazionale della violenza inflitta al popolo armeno. Su iniziativa del Sergei Sazonov, il ministro degli Esteri di Russia, la Russia e la Francia, come il presidente francese ha ricordato poco fa, hanno fatto una dichiarazione congiunta nella quale

hanno direttamente chiamato questi eventi un crimine contro l'umanità e la civiltà. I rapporti tra i popoli fratelli della Russia e dell'Armenia sono sempre stati caratterizzati da particolare vicinanza spirituale e sostegno reciproco. Così è stato durante gli eventi drammatici di un secolo fa, durante la Grande Guerra Patriottica, e durante il terremoto devastante Spitak. Anche oggi, condividiamo il dolore del popolo armeno. Amici, voglio sottolineare che in centinaia di città di tutta Russia sono in programma più di 2.000 eventi commemorativi dell’olocausto armeno. Non solo i membri della grande comunità armena in Russia, che conta circa tre milioni di persone, vi stanno prendendo parte, ma partecipano anche decine di migliaia di persone di altre etnie. La Russia rimane risoluta in quella che è sempre stata la sua visione coerente che non c'è e non può essere alcuna giustificazione per l'assassinio di massa di qualsiasi popolo. La Russia ha firmato e ha avviato una serie di atti giuridici internazionali che pongono le basi per il diritto penale internazionale moderno, tra cui la Convenzione per la prevenzione e la

repressione del crimine di genocidio. La comunità internazionale deve fare tutto il possibile per assicurare che questi tragici eventi non si ripetano più, in modo che tutti i popoli possano vivere in pace e armonia e non devono conoscere gli orrori che nascono da inimicizia religiosa, il nazionalismo aggressivo e la xenofobia. Purtroppo vediamo che il neo-fascismo ha ancora una volta alzato la testa in molte parti del mondo, i nazionalisti radicali cercano il potere e l'antisemitismo è in aumento. Vediamo anche i segnali di russofobia. Dobbiamo chiederci perché questo sta accadendo e quale ne è la causa? In tutte le nostre azioni dobbiamo pensare prima di tutto quello che potrebbe succedere dopo, dobbiamo pensare alle conseguenze. Allo stesso tempo, come ci ricordano i tragici eventi degli anni passati, dobbiamo anche guardare al futuro con ottimismo, credere negli ideali di amicizia, di buon vicinato e di solidarietà, imparare la bontà e l'armonia e imparare a rispettare l'altro e rispetto per reciproci interessi. Questo è l'unico modo per rendere il Mondo un posto migliore, più stabile e più sicuro. Amici, siamo con voi. Grazie per la vostra attenzione.

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Cristoforo Colombo

TTIP?

Sempre più frequentemente, leggendo i giornali o semplicemente guardare un servizio di informazione, è possibile incorrere nella misteriosa sigla TTIP. Con questa si intende il Trattato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti. Il TTIP è un accordo commerciale di libero scambio tra l’Unione europea e gli Stati Uniti d’America le cui negoziazioni sono iniziate nel giugno 2013 e tutt’ora in fase di discussione. Inizialmente il TTIP veniva chiamato TAFTA, da area transatlantica di libero scambio, riprendendo l’acronimo di altri simili trattati già esistenti, come il NAFTA. L’obiettivo di ambedue le parti contraenti è quello di integrare i due mercati, riducendo i dazi doganali e rimuovendo, in una vasta gamma di settori, le barriere non tariffarie, ossia le differenze in regolamenti tecnici, norme e procedure di omologazione, standard applicati ai prodotti, regole sanitarie e fitosanitarie. Ciò renderebbe possibile la libera circolazione delle merci, faciliterebbe il flusso degli investimenti e l’accesso ai

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rispettivi mercati dei servizi e degli appalti pubblici. Sicuramente non mancano posizioni contrastanti riguardo le finalità di tale accordo. Alcuni sostengono che questo faciliterebbe i rapporti commerciali tra il vecchio ed il nuovo continente, portando opportunità economiche, sviluppo, un aumento delle esportazioni e anche dell’occupazione, mentre altri denunciano che ci sia il pericolo reale che le legislazioni di Stati Uniti ed Europa si pieghino alle regole del libero scambio stabilite da e per le grandi aziende europee e statunitensi. Se il progetto avrà successo, sarà la più grande area di libero scambio esistente, poiché UE e USA rappresentano circa la metà del PIL mondiale e un terzo del commercio mondiale. Va sicuramente sottolineato come, al di là della semplice opportunità economica e di sviluppo per i due continenti, il trattato pone anche una questione geopolitica. Washington non vuole solo conquistare una buona fetta del mercato europeo, ma anche allontanare ogni possibile riunificazione dell’Europa con la Russia, e soprattutto per contenere l’avanzata della Cina. (GB)


TTIP USA-UE

Zona di libero scambio o frontiera economica? di Giacomo Bertini

La fase della negoziazione

Nell’estate del 2013 Barack Obama e l’ex presidente della Commissione europea José Manuel Barroso, hanno dato inizio ai negoziati del TTIP, dopo oltre dieci anni di discussioni e confronti. Già nel 2015 si dovrebbe arrivare ad un accordo definitivo, tuttavia ad oggi risulta difficile pensare che ciò sia possibile. Una volta terminato il trattato, sarà necessario l’approvazione del Parlamento europeo e conseguentemente la ratifica da parte dei Parlamenti nazionali. Un’operazione lunga che sicuramente darà adito a non poche discussioni interne. Nel frattempo a condurre i colloqui sul tavolo delle trattative è per l’Unione europea la direzione generale commercio della Commissione UE, ossia uno dei “ministeri” in cui è suddivisa la stessa Commissione, oggi diretta dalla svedese Cecilia Mallström, subentrata da poco al belga Karel De Gucht, con la nomina della nuova commissione Juncker.

TTIP: di che cosa parliamo?

Nel documento diffuso dalla UE, redatto nel giugno 2013, declassificato solo nel ottobre 2014, al momento unico documento ufficiale, il TTIP viene definito «un accordo commerciale e per gli investimenti». L’obiettivo dichiarato dell’accordo, con una valenze piuttosto generica, è «aumentare gli scambi e gli investimenti tra l’UE e gli Stati Uniti realizzando il potenziale inutilizzato di un mercato

veramente transatlantico, generando nuove opportunità economiche di creazione di posti di lavoro e di crescita mediante un maggiore accesso al mercato e una migliore compatibilità normativa e ponendo le basi per norme globali». L’accordo dovrebbe seguire tre strade principali: aprire una zona di libero scambio tra Europa e Stati Uniti, come quella già esistente tra gli Stati membri dell’UE; uniformare e semplificare le normative tra le due parti e infine migliorare le normative stesse. Il documento individua pertanto tre principali aree di intervento: l’accesso al mercato, gli ostacoli non tariffari e le questioni normative.

Accesso al mercato

Attraverso l’accesso al mercato si vuole creare un mercato unico in quattro differenti settori: merci, servizi, investimenti e appalti pubblici. L’accordo intende eliminare tutti i dazi sugli scambi bilaterali di merci «con lo scopo comune di raggiungere una sostanziale eliminazione delle tariffe al momento dell’entrata in vigore dell’accordo». Il testo prevede misure antidumping, per evitare la vendita di un prodotto sul mercato estero a un prezzo inferiore rispetto a quello di vendita dello stesso prodotto sul mercato di origine, e misure di salvaguardia «che consentano ad una qualsiasi delle parti di rimuovere, in parte o integralmente, le preferenze se l’aumento delle importazioni di un

prodotto proveniente dall’altra Parte arreca o minaccia di arrecare un grave pregiudizio alla sua industria nazionale». La liberalizzazione riguarda anche i servizi, «coprendo sostanzialmente tutti i settori»; inoltre si prevede anche di «assicurare un trattamento non meno favorevole per lo stabilimento sul loro territorio di società, consociate o filiali dell’altra parte di quello accordato alle proprie società, consociate o filiali». I servizi audiovisivi non sono inclusi, come voluto dal governo francese. Nel settore degli appalti pubblici, si vuole «rafforzare l’accesso reciproco ai mercati degli appalti pubblici a ogni livello amministrativo (nazionale, regionale e locale) e quello dei servizi pubblici, in modo da applicarsi alle attività pertinenti delle imprese operanti in tale campo e garantire un trattamento non meno favorevole di quello riconosciuto ai fornitori stabiliti in loco». Quest’aspetto permetterà ad aziende europee di poter partecipare a gare d’appalto statunitensi e viceversa. Infine vi è un capitolo sugli investimenti e la loro tutela. Nel negoziato è previsto l’inserimento dell’arbitrato internazionale Stato-imprese, il cosiddetto ISDS ( Investor-to-State Dispute Settlement). Infatti le decisioni di questo arbitrato internazionale saranno superiori alle leggi nazionali e, quindi, alle stesse sentenze dei tribunali.

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Questioni normative e ostacoli non tariffari

L’obiettivo in questo campo di applicazione dell’accordo è «rimuovere gli inutili ostacoli agli scambi e agli investimenti compresi gli ostacoli non tariffari esistenti, mediante meccanismi efficaci ed efficienti, raggiungendo un livello ambizioso di compatibilità normativa in materia di beni e servizi, anche mediante il riconoscimento reciproco, l’armonizzazione e il miglioramento della cooperazione tra autorità di regolamentazione». Le barriere non tariffarie sono misure scelte per limitare la circolazione di merci, esse non consistono nell’applicazione di tariffe, ma sono limiti di altro tipo. Un esempio di ciò è rappresentato dai limiti quantitativi, che consistono nel fissare quantità massime di determinati beni che possono essere importati.

Norme

L’ultimo punto del trattato, che risulta essere ad oggi alquanto generico, si pone l’obiettivo di creare un unico regolamento nell’area di libero scambio, si creano cosi le basi per la nascita di regole a valenza globale. Viene poi affermato, che occorre favorire gli scambi «di merci rispettose dell’ambiente e a basse emissioni di carbonio», che vanno garantiti «controlli efficaci, misure antifrode», «disposizioni su antitrust, fusioni e aiuti di Stato». Inoltre, l’accordo dovrà trattare la questione «dei monopoli di stato, delle imprese di proprietà dello stato e delle imprese cui sono stati concessi diritti speciali o esclusivi», e le questioni «dell’energia e delle materie prime connesse al commercio»; ed includere «disposizioni sugli aspetti connessi al commercio che interessano le piccole e medie imprese» e «deve contemplare disposizioni sulla liberalizzazione totale dei pagamenti correnti e dei movimenti di capitali».

I favorevoli all’accordo

Numerose indagini, portate vanti da diversi istituti pongono l’accento sugli effetti benefici che il TTIP avrà sulle economie USA e UE. Il Center for Economic Policy Research di Londra e l’Aspen Institute affermano che ci sarà un aumento degli scambi tra i due continenti, in particolare ne beneficeranno le imprese europee che vedranno aumentare il volume delle loro esportazioni (l’incremento sarebbe del 28 per cento, circa 187 mi-

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liardi di euro). Infatti anche se i dazi tra USA e UE al momento sono tra i più bassi, quasi la metà di quanto imposto verso gli altri paesi del mondo, applicati su un grande volume possono diventare un ostacolo avendo un impatto importante sul prezzo del bene finale. Gli studi favorevoli al trattato hanno inoltre stimato che il PIL mondiale aumenterà di quasi un punto percentuale, pari a 119 miliardi di euro, e naturalmente ciò vuol dire una buona crescita per il PIL dei singoli Stati coinvolti. Vi sarebbe poi, ed è un aspetto non secondario, benefici anche sul lato dell’innovazione, con nuove tecnologie sui diversi mercati e un consistente aumento della concorrenza. Inoltre si avrebbero dei benefici derivanti dalla semplificazione burocratica e dalle regolamentazioni, con la riduzione sia dei costi delle ispezioni che quelli delle attività economiche che operano nei due mercati, facilitando il compito delle imprese in quanto dovranno rispettare una normativa unica. Tra coloro che spingono per l’accordo ci sono soprattutto le multinazionali e alcune grandi lobby, in quanto legate da un filo comune. Una ricerca effettuata dal Corporate Europe Observatory (CEO), un gruppo di ricerca che lavora per la trasparenza nel rapporto tra lobby e istituzioni comunitarie, ha messo in evidenza come il principale gruppo di pressione sulla Commissione europea è stato fino ad ora quello del settore agroalimentare di cui fanno parte multinazionali come Nestlé e Mondelez (ex Kraft) ma anche la Food and Drink Europe, il più grande lobbista europeo che rappresenta aziende del calibro di Coca Cola e Unilever. Come si evince sempre dalla ricerca, le multinazionali alimentari, agro-commercianti e produttori di sementi hanno avuto più contatti con la Direzione Generale Commercio che i lobbisti della farmaceutica, chimica, industria finanziaria e di auto messi insieme. I favorevoli all’accordo in casa nostra, è senza dubbio il Governo. Il premier Renzi ha detto che il Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti ha «l’appoggio totale e incondizionato del governo». Inoltre ha definito tale accordo «non è un semplice accordo commerciale come altri, ma è una scelta strategica e culturale per l’Ue».

Scettici e contrari all’accordo

Come in tutti i dibatti di grande rilevanza, ci si ritrova sempre a fare distinzione tra i favorevoli e i contrari, ma in particolare in questo caso lo scontro è tra le grandi multinazionali portatrici di principi capitalistici e dedite solo all’accrescimento del proprio fatturato e i singoli cittadini ed associazione a difesa di regole per la tutela dell’ambiente, della salute dei consumatori e dei lavoratori Secondo il premio Nobel per l’economia, Joseph Stiglitz, il trattato «mina le tutele che europei e statunitensi hanno creato in decenni e accresce le disuguaglianze sociali, dando profitti a poche compagnie multinazionali a spese dei cittadini”. I contrari a questo accordo sono soprattutto associazioni, come la StopTTIP Alliance, organizzazione che riunisce oltre 200 associazioni da tutta Europa, che nello scorso luglio ha lanciato una petizione in cui si chiedeva di annullare i negoziati del TTIP per «impedire che gli standard dei diritti su lavoro, sociale, ambientale, privacy e norme di consumo vengano abbassati e i servizi pubblici (come l’acqua) e dei beni culturali vengano deregolamentati in negoziati non trasparenti». I firmatari sono stati oltre un milione e mezzo, con i tedeschi in testa. Infatti le firme raccolte nel Paese sono state quasi 934mila, ben il 1298% rispetto alla soglia fissata al lancio dell’iniziativa, che era di 72mila firme. Tra i maggiori oppositori del trattato, ci sono poi gli inglesi, con più di 212mila firme raccolte, il 387% rispetto alle previsioni iniziali di 54.740. Tra i più attivi nella campagna sono stati poi i francesi, gli spagnoli, i belgi, gli olandesi, gli austriaci, gli sloveni e i finlandesi. In Italia la petizione non ha riscosso un grande successo, anzi è stata piuttosto ignorata, avendo raccolto solo 14.456 firme, un misero 26% rispetto alla soglia fissata. Tuttavia, anche se tale petizione ha superato il milione e mezzo di firme non è stata iscritta nel registro delle iniziative popolari, perché secondo la Commissione europea «la proposta d’iniziativa esula manifestamente dalla competenza della Commissione di presentare una proposta di atto legislativo dell’Unione ai fini dell’applicazione dei trattati». Tutte le singoli associazioni che si stanno unendo vogliono dimostrare come l’opinione pubblica europea in questa determinata questione sia molto forte, e che di conseguenza deve essere ascoltata.


Le preoccupazioni maggiori provengo dal settore agroalimentare dato che ci sarebbe il reale rischio che al compimento dell’accordo, il continente europeo possa essere invaso dai prodotti agroalimentari statunitensi i quali, a differenze di quelli europei, sono soggetti a meno restrizioni e controlli sulla qualità. Tutto ciò andrebbe a discapito della salute dei consumatori e dei piccoli e medi produttori europei, i quali vedrebbero chiudersi il loro mercato a favore della scarsa qualità dei prodotti. Un aspetto da sottolineare in questo caso è anche la scomparsa del principio della precauzione, in base al quale, se su un prodotto non ci sono sufficienti evidenze scientifiche che ne escludono la nocività, ne viene bloccato il commercio in attesa di indagini più chiare. Un orientamento opposto a quello statunitense, che prevede la possibilità di vendere ogni prodotto fin quando non sia dimostrata la sua pericolosità per la salute. I critici al TTIP si stanno battendo molto anche per l’esclusione dal trattato dell’arbitrato internazionale Stato-imprese, il cosiddetto ISDS. Tale pratica permetterebbe ad una impresa di ricorrere ad un arbitrato internazionale contro la decisione di uno Stato, nel caso in cui questa abbia pregiudicato i suoi profitti o messo a rischio i suoi investimenti. Questa pratica non nuova, ha creato già in passato conflitti tra Stati e multinazionali, e si tratterebbe di un’ulteriore riduzione di autonomia politica

dei governi nazionali rispetto alle multinazionali. A titolo esemplificativo basti pensare al caso della Philip Morris ad oggi in causa contro i governi di Uruguay e Australia, colpevoli a loro avviso di voler convincere la gente a non fumare.

La questione geopolitica

L’UE è il più grande importatore di manufatti e di servizi, dispone del maggior numero di investimenti all’estero ed è il principale destinatario al mondo di investimenti stranieri. Washington e Bruxelles vogliono chiudere questo accordo prima della fine del mandato dell’amministrazione Obama. Tale ragione risiede nel fatto che questo trattato ha una valenza geostrategica, dato che costituisce un’arma decisiva di fronte all’irresistibile crescita della potenza cinese e del gruppo Brics. Infatti, tra il 2000 e il 2008 il commercio internazionale della Cina si è quadruplicato, avendo delle ripercussioni notevoli sia sulle esportazioni che sulle importazioni. Di conseguenza gli Stati Uniti hanno perso la loro leadership come potenza commerciale mondiale che durava da un secolo. Prima della crisi internazionale scoppiata nel 2008, gli USA erano il socio commerciale più importante per 127 Stati, mentre la Cina lo era solo per 70. Questa tendenza si è invertita, infatti oggi la Cina è il socio commerciale più importante per ben 124 Stati, mentre gli USA solo per 76. Se l’economia di Pechino continuerà a

crescere nei prossimi dieci anni addirittura potrebbe minacciare la supremazia del dollaro. L’accordo al TTIP con i suoi favorevoli e i suoi contrari, riveste ancora di più una questione importante a causa dei suoi obiettivi geostrategici. Washington non vuole apparire come il nuovo colonizzatore, tuttavia vuole blindare una grande zona di libero scambio, dove i prodotti di Pechino o di altri Paesi emergenti avrebbero difficile accesso. Dopo anni di discussioni e di riunioni tenutesi in assenza di trasparenza, solo attraverso le pressioni provenienti dal mondo civile, si è ottenuto la declassificazione di un solo documento riguardante i principali contenuti del TTIP e ciò che esso comporta per il contraente europeo. Nonostante ciò, la genericità di tale documento non permette la piena comprensione di quali cambiamenti il TTIP porterà nelle economia dei Paesi UE e conseguentemente sulla qualità di vita dei cittadini. E’ innegabile riconoscere il potenziale di crescita che il TTIP può avere sulle economie coinvolte, tuttavia propria l’eccessiva segretezza e la quasi totale assenza di interesse delle istituzione europee da quanto espresso dai suoi cittadini anche attraverso la petizione Stop-TTIP, lascia presagire la presenza nel trattato di un eccessiva tutela degli interessi della grandi multinazionali a discapito non solo dei piccoli produttori, che in molti Paesi rappresentano l’ossatura delle economie nazionali, ma anche della tutela del cittadino.

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Il concetto di capitale sociale è divenuto di estrema importanza durante gli anni sessanta. Inizialmente, è stato introdotto dai sociologi allo scopo di comprendere il funzionamento del mercato e studiare, analizzare le diverse forme di organizzazione economica. Bourdieu (1980) tratta il capitale sociale in termini strumentali. Di fatto, lo considera una risorsa, frutto di un’azione deliberata, utile alla messa in opera delle strategie individuali. Portes, in collaborazione con Sensenbrenner, non fornisce una vera e propria denominazione, piuttosto si sofferma a ricercarne le origini e concretizzarle in quattro fonti: l’interiorizzazione dei valori, gli scambi di reciprocità, la solidarietà e la fiducia imposta tramite meccanismi di premio – punizione. Colui che ha inquadrato il concetto di capitale sociale nella maniera più influente, non a caso molti autori alla stregua di Putnam (1993) e Fukuyama (1996) hanno preso spunto da lui per proseguire nelle loro indagini, è Coleman (1990). Coleman, partito con l’obiettivo di distinguerlo da altri due tipi di capitale di cui il soggetto dispone, quello fisico rappresentato dai beni tangibili, quello umano rappresentato dalle capacità e dalle abilità personali, approda a una definizione in cui il capitale sociale è raffigurato come patrimonio di relazioni, nelle e tramite le quali ognuno di noi può, scambiandosi informazioni, aiuti reciproci e cooperando, nel rispetto di norme socioculturali prestabilite, produrre valori (materiali e simbolici) dei quali il singolo non può appropriarsi, poiché costituiscono un bene collettivo (questo tipo di capitale è definito sociale proprio perché i partecipanti non producono benefici solo per se stessi, ma per tutti i membri) (Mutti,1988). Coleman elenca anche vari esempi di capitale sociale non limitandone le forme possibili e dimostrando come il suo interesse principale sia rivolto agli attori strategici che, come pedine libere da ruoli e stereotipi, si muovono all’interno del tessuto relazionale nel quale possono, attraverso la dipendenza reciproca, pro-

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durre capitale sociale. Ritornando a Putnam e Fukuyama, si può dire che il focus dell’attenzione, che in Coleman centra la produzione di cultura, sia stato spostato sull’aspetto di riproduzione di quest’ultima: il capitale sociale è identificato con la fiducia e la capacità cooperativa che, trasmesse culturalmente, rappresentano un’eredità etica, religiosa, sociale non possono quindi essere prodotte intenzionalmente, dipendono dalla condivisione di norme, valori e dalla capacità di subordinare i propri agli altrui interessi, indebolendo in tal modo i fenomeni di opportunismo e rendendo più efficiente l’organizzazione sociale. Da questi primi sviluppi del concetto si ricava effettivamente come esso sia stato soprattutto usato allo scopo di dimostrare il modo con cui i fenomeni sociali condizionino il funzionamento dell’economia. Fortunata Piselli (1995), nel panorama teorico si alza a muovere una critica in particolare nei confronti di Coleman che, pur affermando l’inerenza del capitale sociale alla struttura delle relazioni sociali e definendolo in base alla sua funzione, lo svaluta perché lo inquadra nei limiti di mero strumento quando esso è intangibile, situazionale e dinamico, dipende dal contesto e dagli obiettivi, si concretizza nell’azione creativa degli attori e nella realizzazione di progetti pratici. Il capitale sociale è incorporato nelle reti sociali, dalle quali non può prescindere, ma ciò non significa che si confonda con esse che si distinguono per il fatto di poter essere analizzate, come mostrerò più avanti, per le loro caratteristiche morfologiche, per la natura dei legami e per i contenuti che transitano. Il capitale sociale, a differenza delle reti, è sempre fonte di benefici e la sua validità dipende dalle risorse necessarie nei singoli casi e non dalla forma e dai contenuti delle reti che influiscono di certo sulla sua produttività, ma non attraverso una relazione meccanica.


il Capitale Sociale Salute come costruzione sociale di Ivano Spano

Lungo questo percorso critico-costruttivo, Trigilia (1995), come Mutti, ha tentato di enfatizzare la necessità di ancorare il concetto di capitale sociale a quello di rete e di analisi di rete, per riconoscerne le potenzialità e favorire la messa a punto di politiche più appropriate per promuovere lo sviluppo. Trigilia consiglia di non considerare il capitale sociale automaticamente una risorsa per lo sviluppo e di provare a immaginarlo realmente come insieme di relazioni sociali di cui un soggetto, singolo o collettivo, dispone in un determinato momento e tramite il quale può usufruire di risorse cognitive, come la fiducia e le informazioni, che lo aiutano a raggiungere mete altrimenti non raggiungibili o, se tali, solo ad un costo superiore. Trattare i concetti di capitale sociale, rete e analisi di rete come un “efficiente incastro” servirà a rivalutare le risorse sociali di auto organizzazione , i modi e i confini della politica e l’utilità del mercato. Ora più che mai mi sembra palese la necessità di parlare dell’analisi di rete, il cui oggetto di studio è la relazione sociale e la realtà – società come rete di relazioni. Essa riprende dalla sociologia di Sorokin, Von Weise, Simmel, i concetti di relazione, forma di relazioni, avvicinamento - di stanziamento, spazio sociale e realtà sociale come precipitato delle relazioni tra uomini. Per questi autori non esiste solo l’individuo o la società: l’individuo esiste nel momento in cui è in relazione con e solo allora diviene società. Tale visione della realtà conduce al grande dibattito, irrisolto, sul rapporto Macro - Micro, Individuo – Società, Attore Sociale – Sistema, con l’incommensurabile difficoltà di individuare nella trama il bandolo della matassa inerente al ragionamento sulle interconnessioni uomo – uomo (Di Nicola, 1988). L’analisi di rete studia i fenomeni, i comportamenti come effetti strutturali e lega la persistenza delle relazioni all’esistenza di una struttura reticolare, in cui si snoda la

vita del soggetto, che condiziona scelte e opportunità di quest’ultimo. Le reti si possono distinguere in base alle loro caratteristiche morfologiche, alla natura dei legami e ai contenuti che transitano (principale aspetto per cui si differenzia dal capitale sociale). Esse si snodano su tre livelli principali: primario, secondario e reti di reti. Il livello primario racchiude quel tipo di rapporti, parentela, amicizia,vicinato, di lavoro, che sono caratterizzati dalla condivisione di sentimenti, emozioni, affettività. Il livello secondario si scinde in formale, che riguarda i servizi, le istituzioni, create per assicurare specifici servizi alle persone, in cui i rapporti sono asimmetrici, professionali, ed informale che riguarda quei gruppi, quelle associazioni in cui soggetti svolgono delle attività sulla base di interessi comuni. Il livello di reti di reti è definito dai collegamenti tra una rete e l’altra sul territorio. Le reti sono inoltre caratterizzate da diverse variabili: - multiplessità, numero di ruoli e relazioni che connettono due persone tra loro, - simmetria, rapporto di potere tra due persone - intensità, grado di coinvolgimento di un legame - ampiezza, numero di persone coinvolte - densità, quantità di interrelazioni tra attori - interconnessione, numero di persone necessarie per connettere ogni due attori nel percorso più breve - settorialità, grado in cui la rete possa essere distinta in sottounità (Quaderni di Animazione e Formazione, 1995) Ogni soggetto crea ed entra a far parte di più reti sociali (quelle che Simmel chiama cerchie sociali) le quali, attraverso il gioco delle relazioni, sono messe in comunicazione, per cui il soggetto agisce liberamente ma entro un sistema di vincoli, risultante dalle caratteristiche delle reti di appartenenza e dalla posizione occupata in esse.

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La costruzione sociale della salute

Questa analisi dei concetti di capitale sociale e di rete permette di dare fondamento teorico-concettuale adeguato al processo di "costruzione sociale della salute". Nel documento contenente le indicazioni emerse dal III Simposio dell’International Network for a Science of Health è scritto che: “la salute e la qualità della vita sono frutto del concorso della responsabilità individuale, delle azioni collettive e delle politiche pubbliche (Ingrosso, 1994). La costruzione sociale della salute è realizzata all’interno del sistema sociale ovvero essa è costruzione, nella comunicazione, dei problemi del corpo e della psiche, e significa necessità di tematizzazione dei problemi individuali. Negli ultimi anni, anche se si disquisisce tanto di salute, essa è ancora considerata ciò in base al quale porsi il problema dell’assenza di malattia e definire le possibili soluzioni per debellarla (malattia, valore positivo e salute, valore riflessivo). Se nel XVIII secolo l’attenzione dell’Io pensante era rivolta totalmente al corpo, allo scopo di preservarlo da qualsiasi malessere, stigmatizzandolo con una inconsistente dissociazione dalla mente, nell’era moderna il focus attentivo si sposta all’Io come sé autonomo capace di riflessione, ai problemi psichici e ai casi in cui la persona non è più in grado di svolgere le mansioni quotidiane da sola. Questo salto di qualità è avvenuto soprattutto con la nascita della psicoanalisi, con Freud che dubita sull’esistenza di confini tra salute e malattia, ma pecca nel relativizzare la salute (eludendo così la possibilità di distinguerla) poiché la relega al ruolo di semplice comparsa: la non malattia. Nel secondo dopoguerra si afferma il paradigma relazionale che rifiuta l’idea di malattia: il sintomo è indicativo dei problemi inerenti alla comunicazione e delle reazioni ad essi; etichettare il soggetto come malato lo spinge a vestirne i panni, a chiudersi come una tartaruga nel suo guscio, aumentando in tal modo la sofferenza e fomentando l’incapacità di cercare delle soluzioni. Tale teoria fallisce nel distinguere la salute dalla malattia ignorando, di fatto, che ogni tipo di disagio riguardi l’individuo e, con l’affermare l’essenza relazionale dei problemi, non fa altro che confermare la separazione tra il corpo e la mente, unica tra i due a poter vivere problemi relazionali. La distinzione tra salute e malattia comporta il rovesciamento del codice precedente con la conseguenza che quest’ultima non sarebbe più il centro attorno a cui ruota il programma sanitario, ma l’altra faccia della medaglia, la mancanza di salute. Non si parlerebbe più di una cultura della cura, bensì della prevenzione a partire da una profonda, meticolosa osservazione dell’autonomia individuale in tutti i suoi aspetti sociali, psichici e somatici (Baraldi, in Ingrosso, 1994). Seedhouse, nel tentativo di individuare i modi di definire la salute mettendola in primo piano, ne individua cinque storicamente importanti: - salute come stato ideale (esempio significativo la definizione dell’OMS: stato di benessere fisico, psicologico e sociale) - salute come “fitness” fisica e mentale, una sorta di palestra nella quale mantenersi in allenamento per poter rispettare i doveri sociali - salute come prodotto, bene di consumo, pillola da ingurgitare favorendo l’arricchimento della macchina sanitaria - salute come forza, risorsa di energia - salute come sviluppo delle potenzialità personali dovuto a fattori, in parte, comuni a tutti (cibo, acqua, casa…) e a fattori specifici di certe fasi o condizioni della vita. Elenco essenziale ma utile a mostrare la diversità di riferi-

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menti in un determinato ambiente sociale e la trasformazione di un’idea in un modello operativo. Per capire cosa significhi, realmente, dire che la salute sia costruita socialmente è indispensabile ripercorrere il cammino nell’ambito della sociologia (il concetto di costruzione sociale della salute concerne l’analisi della società). Negli anni cinquanta la sociologia della medicina, promotrice della propria continuità con la medicina sociale, propone il proprio contributo ad individuare le condizioni e le conseguenze sociali di sviluppo delle patologie. Durante gli anni settanta si studiano le modalità con cui la medicina si fa portatrice di categorie, valori, richieste sociali di ordine e controllo, quasi fosse la detentrice della verità assoluta. Risulteranno esplicativi, a riguardo, alcuni concetti che mi accingo ad esporre partendo da quello di iatrogenia sociale di Friedson. Esso rappresenta il danno sociale derivante dal passaggio dall’idea di devianza biologica a quella di devianza sociale nell’applicazione dei saperi medici; egli non si ferma ad una relazione univoca tra medico e paziente e guarda all’influenza che quest’ultimo ha, attraverso la comunicazione, sulla maniera con cui il medico esercita la professione. Fabrega sottolinea il carattere sociale della malattia, affermandone l’origine dai mutamenti nell’operare, comportarsi, definirsi e parlare dei propri sentimenti. Engelhardt distingue la malattia dall’infermità, esse riflettono livelli di astrazione distinti del fenomeno dello star male. Di questo fenomeno il paziente ha un’idea tutta sua, che non collima con quella del medico. Compreso ciò si è strutturata un’area di cura nella quale prende forma il ruolo attivo dei singoli e delle famiglie, “self care”. E’ la sociologia di matrice fenomenologica a interessarsi del vissuto soggettivo della malattia e delle attività terapeutiche di cura non istituzionali (dalla famiglia ai guaritori tradizionali). Un tentativo decisivo di individuare come uno specifico gruppo sociale attribuisca significato ai problemi sanitari è stato compiuto dalla Herzlich nel sintetizzare tre concezioni diffuse: - salute in un vuoto ossia non percezione del dolore (essere) - riserva di salute per contrastare la malattia (avere) - salute – equilibrio (fare). La Pierret allarga l’orizzonte delle rappresentazioni sociali, differenziandole in: - salute – malattia: condurre una vita normale per salvare il corpo dalla malattia, - salute – strumento: salute come mezzo per affrontare gli obblighi sociali, - salute – prodotto: espressione dell’io alla ricerca di ciò che gli dà piacere, soddisfazione, - salute – istituzioni: patrimonio collettivo assicurato dalla gestione sociale. Da un’attenta lettura di queste definizioni si denota come, il concetto di rappresentazione sociale, non abbia tenuto conto degli aspetti impliciti e simbolici, proprio in un campo come quello della salute ove non tutto quello che si vive si riesce a mettere in parole. Sarebbe un errore non rendere conto, in ultima analisi, di due importanti assetti oppositivi al rappresentazionismo, il costruttivismo radicale ed il costruzionismo sociale. Il primo ha elaborato una teoria dell’osservatore in base alla quale ogni conoscenza, anche quelle che riguardano la salute e la malattia, dipendono dalle categorie dell’osservatore e dal significato che egli assegna.


Il secondo ha tentato di spiegare i processi di descrizione, da parte dell’individuo, del mondo circostante, dichiarando che: la conoscenza in generale è un prodotto dell’interazione sociale, costruito tramite comunicazione. Riflettendo su questa affermazione e prendiamo in considerazione i due principali poli interagenti nel campo della conoscenza della salute, il medico, possessore del sapere oggettivo, rappresentante delle organizzazioni sanitarie, e il paziente, portatore del sapere soggettivo della sofferenza, che accomuna i singoli individui, i gruppi, la società, alba dei grandi mali e conduttrice del treno che corre sul binario parallelo a quello della vita, la morte. Il paziente, dominato dalle sue paure, cerca nella medicina, nei mix di farmaci che promettono guarigioni miracolose, il mezzo per risolvere il problema di fondo ossia il suo essere umano e in quanto tale mortale. Il corpo è idealizzato come una macchina da perfezionare, sia esteticamente che da un punto di vista funzionale. A tal scopo l’individuo si sforza di condurre una vita basata su sane abitudini e quando si verificano dei disturbi si rivolge ai parenti, agli amici, al medico di base, sfoglia enciclopedie e riviste mediche alla disperata ricerca di rimedi. Affida se stesso senza remore, perplessità, incertezze al medico, chiedendogli e pretendendo che plachi quel sordo dolore che risiede nella sua anima, straziato ormai da una società che lo bombarda di inquietanti messaggi di immortalità e lo inaridisce studiandolo, come una cavia, nel laboratorio ipertecnologico della sopravvivenza. Ma, il rapporto medico paziente è insoddisfacente: il paziente oltre alla competenza reclama capacità di ascolto, attenzione, negate dalla riluttanza del medico a dare informazioni, dall’uso inappropriato del gergo medico e dall’atteggiamento evasivo, tutte realtà innegabili vissute da ognuno di noi ogni volta che richiede una consulenza sanitaria (CENSIS, 1998). Il medico, ultimo operatore di una gigantesca catena di montaggio, con la mente plasmata da concetti sempre più specialistici e settoriali, tronfio delle sue capacità e abilità, ostenta sicurezza e vende false promesse di miglioramento definitivo, a chi ripone in lui ingenue aspettative, figlie della sua passività e di questo tempo in cui si può avere ciò che si desidera senza fare il minimo sforzo. Mancano reale informazione, apprendimento, maturazione delle capacità di salute, responsabilità verso se stessi all’interno della relazione medico – paziente poiché non c’è comunicazione nell’interazione. (Melucci, in Ingrosso, 1994/2) Il paziente riversa le sue sensazioni, percezioni, emozioni (intollerabili, invivibili) nella stanza della cura, quasi fossero una pesante zavorra dalla quale liberarsi. Il medico, investito del ruolo di risolutore, si prende in spalla un bagaglio di esperienze che non gli appartiene e nel quale potrebbe perdersi, proprio come in un labirinto, e svolgendo il suo lavoro scientifico di analisi, riconoscimento, categorizzazione del sintomo non fa altro che spingere il paziente, che assillato dall’eco dei suoi limiti si priva del suo mondo interiore, a divenire un burattino senza volto, senza storia. Ad incrementare questo circolo vizioso si avviano le politiche preventive, gli spot pubblicitari, i programmi salutistici, le informazioni e gli standard diffusi dalle agenzie sanitarie che accrescono l’incertezza e non lasciano spazio all’ascolto dei segnali che il nostro corpo ci invia. Spesso, terrorizzati dall’incombenza del male ignoto ci autodiagnostichiamo una patologia e ci autosomministriamo prodotti chimici in un folle gioco ad esclusione nel quale crediamo che, se incarniamo una determinata malattia, evitiamo le restanti. Ricorriamo ai medici per i piccoli fastidi, prole di una società in corsa, per essere rassicurati sulla minaccia dei grandi disturbi. La pratica medica, alleata del bisogno di consolazio-

ne, regala il palliativo che mette a tacere il corpo, lo anestetizza, fino alla volta successiva, l’importante è non fermarsi mai per essere sempre pronto, come una macchina produttiva, a rispondere agli obblighi sociali. La diagnosi è accurata, gli interventi variano dai sintomatici, ai chirurgici, a quelli che riguardano gli stati limite, ma tutto questo potenziale di grande efficacia non annovera il collante, la responsabilizzazione individuale. Il corpo non deve essere considerato un congegno, ma la nostra casa, il nostro habitat, la fonte di significato, un libro aperto, scritto dagli eventi e ove la morte deporrà la parola fine. Dobbiamo imparare a confrontarci con quest’ultima e a considerarla come tappa della vita, e a sperare nella medesima e nelle nostre capacità di riconoscere e mettere in atto il potenziale di risorse per promuovere il benessere. Prendersi cura è un’espressione che si riferisce sia a chi si prende cura di sé, sia a chi aiuta gli altri a prendersi cura di se stessi, per cui per definire la malattia e la salute lo si fa in un processo comunicativo all’interno di una relazione in cui il paziente può farsi curare solo se si affida, ma solo lui può scegliere di affidarsi. Il medico non è più il profeta salvatore bensì colui che educa alla consapevolezza di sé, del proprio corpo, della propria vita nella quale si alterna il piacere al dolore, espressioni dello stesso fenomeno, l’esistenza. Sfatiamo il mito della salute come assenza di malattia e rendiamoci conto che essa non è uno stato di benessere acquisito in modo definitivo ma, un processo costruito socialmente in tutte le sue dimensioni relazionali, psicologiche, culturali e tecniche. Quale è il processo comunicativo all’interno del quale avviene la definizione, il riconoscimento, della malattia? Questa domanda, è necessario, valutarla su due piani: quello del paradigma biomedico e quello di trattamento, cura, promozione del benessere e della salute da parte delle istituzioni. Il sociale influisce sulla determinazione della malattia, basti pensare alle conseguenze dell’abuso di farmaci e dell’intervento medico ossia le malattie iatrogene e agli atteggiamenti, ai comportamenti prodotti dalle politiche preventive e definibili come patologici. La sofferenza è simbolo dello squilibrio dell’individuo nel suo rapporto con se stesso, con gli altri e con il cosmo, segnala la dimensione complementare ai processi vitali, della quale la cura dovrà rendere conto, dando voce a chi la vive sulla sua pelle. Mettere il paziente al centro dei servizi sanitari, come primo referente, è una tappa fondamentale nel processo di costruzione sociale della salute affinché si possa dare vita a opere efficaci ed efficienti. In tale prospettiva è fondamentale il ruolo delle istituzioni, i cui cambiamenti sono profondamente legati a quelli culturali in generale e, nello specifico, che riguardano il concetto di salute e malattia. Con il trascorrere del tempo i problemi aumentano ed essi richiedono risposte adeguate che le attuali politiche sanitarie, poiché caratterizzate da disarticolazione, frammentazione, spietata competitività tra prestazioni e tra aziende, non sono in grado di fornire. Per rispondere in modo corretto al bisogno di salute si dovrebbero attivare, diversamente, le politiche sociali poiché: - si moltiplicano i soggetti coinvolti, - si incrementano l’articolazione e l’intrecciarsi delle relazioni tra i soggetti e tra i comparti nonché tra i sistemi, - si incrementano le reti di informazione e di comunicazione (Tognetti Bordogna, in Ingrosso, 1994/2). Non serve solo riordinare, riorganizzare le diverse strutture ma si deve in primis dare spazio alle esigenze, ai bisogni dei soggetti: è da questi che si deve partire perché le istituzioni possano erogare servizi, invece di sfoggiare presunti saperi e, camminando nel buio, elargire disservizi.

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di Loretta Ottaviani I fatti

Partiamo da alcuni fatti: il 15 aprile è stato lanciato il nuovo modello di dichiarazione dei redditi predisposto direttamente dal Fisco e scaricabile online da milioni di lavoratori e pensionati. Una «rivoluzione» l’ha chiamata il direttore dell’Agenzia delle Entrate Rossella Orlandi, perché da «controllore» il Fisco diventa primo attore e responsabile, accanto al contribuente, dei dati, il tutto in nome della semplificazione e per rendere la vita più facile a cittadini e imprese. Ma per ammissione della stessa Agenzia delle Entrate, quest’anno a usufruire della dichiarazione online senza apportare modifiche in autonomia o con l’aiuto di commercialisti o Caf, saranno in pochissimi. Il motivo è noto: la gran parte dei mo-

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delli precompilati dovrà essere integrata perché non comprensiva di spese sanitarie e altri oneri detraibili, quali le tasse scolastiche e universitarie, le spese di ristrutturazione sostenute nel 2014, le erogazioni liberali, le spese funebri, le detrazioni per gli inquilini, le spese per attività sportiva dei ragazzi, le detrazioni per canoni di locazione degli studenti, le spese veterinarie, le rette per asili nido, l’assegno al coniuge separato, i contributi della badante…. Dati che, vista la velocità della stessa operazione messa in piedi dall’amministrazione finanziaria in appena dieci mesi, saranno inclusi solo a partire dal prossimo anno. Quindi il 730 precompilato, per il contribuente con oneri detraibili, sembra fatto apposta per rendere indispensabile l’aiu-

to del Caf o di un professionista a meno che lo stesso abbia una buona preparazione in materia fiscale Di fatto il contribuente ha di fronte due possibilità: - accettare il 730 precompilato senza correggerlo o integrarlo - se, invece, alcuni dati non risultano corretti o sono incompleti, o mancano del tutto, il contribuente può modificare o integrare la dichiarazione. Queste operazioni possono essere effettuate direttamente dall’interessato o tramite un soggetto delegato (sostituto, Caf, professionista). Quando la dichiarazione è modificata, viene elaborato e messo a disposizione un nuovo modello 730 con il risultato di una nuova liquidazione delle imposte dovute o del rimborso spettante.


Modello 730/2015

quando la Semplificazione diventa Complicazione

Con l’approvazione definitiva del decreto sulle semplificazioni fiscali, si è avviata, ufficialmente, la nuova era del modello 730 precompilato. Si tratta di una vera e propria rivoluzione nei rapporti fisco-contribuente, ma non mancano le insidie e i dubbi, tanto che, più di una rivoluzione, quella del 730 precompilato sembra una sperimentazione. Un esperimento dettato dalla fretta e fatto sulla pelle del contribuente e dei professionisti. Infatti quando il governo, a ottobre 2014 ha dichiarato che per il 2015 avrebbe messo a disposizione dei contribuenti “la dichiarazione in un click” in realtà si è venduto un prodotto che, oltre a non avere, era ancora tutto da pensare e studiare. E così, in una corsa contro il tempo, entro 7 marzo 2015 i professionisti, che assistono i sostituti d’imposta/datori di lavoro, hanno dovuto caricare di contenuti (le certificazioni attestanti i redditi erogati, le ritenute operate, le detrazioni d’imposta effettuate e i contributi previdenziali e assistenziali trattenuti) una scatola vuota predisposta dall’Agenzia delle Entrate in tempi brevissimi, senza creare le condizioni minime per evitare ai professionisti di lavorare in emergenza, come ormai sta accadendo da molto tempo e per lo più sotto lo spettro di vedersi sanzionati per ogni comunicazione telematica omessa, tardiva od errata. Il processo di semplificazione porta con sé nuovi obblighi di comunicazioni a carico dei professionisti e per il contribuente adempimenti complessi e anche troppo oneroso, infatti è suo compito dichiarare i propri redditi e farlo senza commettere errori, pena l’irrogazione di sanzioni: sono quindi ancora molto lontani i tempi in cui il rapporto con chi paga le tasse sarà semplificato, tanto che per il 2015 viene stimato che di circa 20 milioni di 730 precompilati, il 71,7% di essi avranno bisogno di essere integrati (senza contare le correzioni che si renderanno necessarie per il restante 28,3%), e per il 2016, le denunce precompilate da integrare, pur riducendosi, resteranno comunque circa il 45,2% del totale. Possiamo quindi definire queste denunce “ precompilate da compilare”.

I controlli da parte dell’Agenzia precompilata (direttamente o tramite testano le spese indicate nella dichiadelle Entrate il sostituto d’imposta), l’Agenzia ese- razione saranno effettuati nei con-

A seconda che il contribuente accetti o modifichi la dichiarazione proposta dall’Agenzia, direttamente o tramite un soggetto delegato (sostituto, Caf o professionista), è prevista una diversa procedura sui controlli documentali. Il contribuente che accetta il modello 730 precompilato, senza apportare modifiche, e lo presenta direttamente o tramite il sostituto d’imposta, ha i seguenti vantaggi: non saranno controllati i documenti che attestano le spese indicate nella dichiarazione, i cui dati sono stati forniti all’Agenzia delle Entrate da banche, assicurazioni ed enti previdenziali non sarà effettuato il controllo preventivo sui rimborsi d’imposta superiori a 4.000 euro, previsto in presenza di detrazioni per familiari a carico e/o eccedenze derivanti dalla dichiarazione precedente. Se, invece, il contribuente modifica la

guirà il controllo formale su tutti gli oneri indicati, compresi quelli trasmessi dagli enti esterni (banche, assicurazioni ed enti previdenziali). Sono da considerarsi modificate le dichiarazioni precompilate in cui si effettuano variazioni o integrazioni dei dati indicati in dichiarazione che incidono sulla determinazione del reddito o dell’imposta, comprese le variazioni che, pur non modificando il risultato finale della dichiarazione, intervengono sui singoli importi del modello 730 precompilato, per esempio, l’eliminazione di un reddito o di un onere e l’aggiunta di un reddito o di un onere di altro tipo di pari importo. Per i contribuenti che presentano il modello 730 precompilato, con o senza modifiche, tramite un Caf o un professionista abilitato, i vantaggi sono i seguenti: - i controlli su tutti i documenti che at-

fronti del Caf o del professionista; - non sarà effettuato il controllo preventivo sui rimborsi d’imposta superiori a 4.000 euro, previsto in presenza di detrazioni per familiari a carico e/o eccedenze derivanti dalla dichiarazione precedente. Eventuali richieste di pagamento che derivano dal controllo documentale saranno inviate direttamente al Caf o al professionista. Quindi se il Caf o il professionista sbagliano saranno loro stessi a dover pagare un importo pari alla somma delle imposte, sanzioni e interessi che sarebbero stati richiesti al contribuente a seguito del controllo, salvo i casi di condotta dolosa di quest’ultimo, ovvero se il contribuente presenta false dichiarazioni, e il Caf non se ne accorge, la responsabilità è sempre personale, e quindi le sanzioni saranno comunque a carico del contribuente infedele.

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Breve guida operativa

Tutti quelli che vorranno ostinarsi a usufruire del modello 730 precompilato dovranno operare nel seguente modo: 1) il 730 precompilato doveva arrivare a casa di tutti i contribuenti, in realtà è semplicemente “disponibile” sul sito internet dell’Agenzia delle Entrate e, per vederlo quindi, occorre. accreditarsi on-line, per telefono o recandosi in uno degli uffici dell’Agenzia per ottenere l’apposito codice PIN o l’equivalente codice PIN dell’INPS. Inoltre il modello 730 precompilato non sarà messo a disposizione di tutti i contribuenti, ma solo di chi ha presentato il 730 nel 2014 e ha una certificazione modello CU (quello che una volta era il CUD) rilasciata da un Sostituto d’Imposta nel 2015. 2) con il codice PIN si accede nell’apposita al sito dell’Agenzia delle Entrate www.agenziaentrate.gov.it, nella sezione 730 precompilato, che permette di... 3) visualizzare il 730 precompilato e un prospetto con l’indicazione sintetica dei redditi e delle spese presenti nel 730 precompilato e delle principali fonti utilizzate per l’elaborazione. 4) se le informazioni in possesso dell’Agenzia delle entrate sono incomplete, queste non sono inserite direttamente nella dichiarazione ma sono esposte in un apposito prospetto per consentire al contribuente di verificarle ed eventualmente indicarle nel 730 precompilato. Nello stesso prospetto sono evidenziate anche le informazioni che risultano incongruenti e che quindi richiedono una verifica da parte del contribuente. Ad esempio, non sono inseriti nel 730 precompilato gli interessi passivi comunicati dalla banca se sono di ammontare superiore rispetto a quelli indicati nella dichiarazione dell’anno precedente. 5) visualizzare l’esito della liquidazione: il rimborso che sarà erogato dal sostituto d’imposta e/o le somme che saranno trattenute in busta paga. 6) visualizzare il modello 730-3 con il dettaglio del risultato della determinazione delle imposte a credito o a debito.

La beffa del 730 precompilato

L’Agenzia delle Entrate, con il 730 precompilato, mette insieme tutte le informazioni in suo possesso e le propone on-line al contribuente che dovrà attivarsi per correggere, confer-

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mare o modificare. Ovviamente è disponibile anche la scelta per rifiutare. E’ piuttosto evidente però che la procedura è tutt’altro che accessibile a tutti (pensiamo ai pensionati, culturalmente avversi all’uso di tecnologie) e per essere sicuri di non incorrere in sanzioni o problemi, oltre possedere un computer e una connessione internet, è necessario avere conoscenze delle normative fiscali vigenti allo scopo di verificare l’esattezza dei dati inseriti dall’Agenzia delle Entrate e per inserire, senza incorrere in errori, quelli mancanti, al fine di vedersi riconosciute le detrazioni e le deduzioni cui si ha diritto. Dal 1° maggio 2015 pertanto il contribuente può inviare telematicamente la dichiarazione all’Agenzia delle Entrate (così come precompilata dalla stessa oppure modificata/integrata), che renderà disponibili i relativi risultati contabili (730-4) al sostituto d’imposta. Utilizzando tale modo di presentazione della dichiarazione, il contribuente dovrà però “monitorare” la propria area autenticata poiché è nella stessa che l’Agenzia delle Entrate comunicherà: - l’avvenuta corretta presentazione della dichiarazione con relativa data e riepilogo dei principali dati contabili (entro 5 giorni dalla presentazione); - eventuali comunicazioni di irregolarità (ad esempio, invio dei dati al sostituto d’imposta non andato a buon fine). Inoltre le comunicazioni dell’Agenzia delle Entrate, relative alla dichiarazione saranno inoltrate all’indirizzo di posta elettronica indicato dal contribuente nell’apposita sezione dell’area autenticata. In questo scenario abbastanza complesso che si prospetta al contribuen-

te è ragionevole prevedere un incremento di coloro che si rivolgeranno a Caf e Professionisti se non altro per evitare controlli e responsabilità, che in questo caso ricadrebbero su Caf e professionisti, in quanto dovranno, non solo a “validare” la dichiarazione, ma anche trasmetterla (il termine ultimo di presentazione è stato uniformato e fissato al 7 luglio). In sostanza, se i dati sono errati a pagare saranno Caf e professionisti procurando un divario a sfavore fra costo della prestazione e rischio da assumere in nome e per conto del contribuente/cliente e le multe e sanzioni che si troverebbero a pagare. A tal proposito lo il decreto legislativo del M.E.F. n. 175/2014 relativo alle semplificazioni fiscali ha rimodulato i compensi ai CAF e ai professionisti abilitati per l’assistenza fiscale finalizzata alla presentazione delle dichiarazioni dei redditi. Non è da escludere che in questo scenario complesso e oneroso per il contribuente, lo stesso decida di accettare il 730 precompilato così com’è rinunciando alle detrazioni fiscali, pur di evitare controlli e costi aggiuntivi. L’ipotesi è abbastanza fondata se si pensa che molti degli oneri detraibili sono di importo minimale e danno diritto a un risparmio di imposta che in alcuni casi non giustifica il sostenimento del costo della prestazione di Caf e professionisti per la presentazione del 730, che costituirà quindi fattore di scoraggiamento. Ad essere ottimisti il numero zero del precompilato potrebbe scoraggiare circa il 50% di contribuenti aventi diritto a percepire le detrazioni e chi troverà vantaggio da questa “rivoluzione” sarà solo lo Stato, che vedrà migliorare i suoi conti sotto forma di minor rimborso di imposte ai contribuenti.


QU.I.R. ovvero il T.F.R. in busta paga

Il DPCM n. 29/2015, contenente il regolamento con le norme attuative delle disposizioni introdotte dalla legge di stabilità per il 2015 (legge 190/2014) a dato il via, a decorrere dal 3 aprile 2015, alla facoltà di scelta per il lavoratore di richiedere al datore di lavoro la monetizzazione della quota di TFR maturata nella mensilità, compresa quella destinata alla previdenza complementare, a titolo di quota integrativa della retribuzione QU.I.R. ma al di là della definizione non si tratta di un vero e proprio aumento dello stipendio, ma semplicemente di TFR che viene versato in busta paga mensilmente La scelta vincolerà il lavoratore fino al 30/06/2018 senza possibilità di recesso anticipato. Il lavoratore deve innanzitutto valutare i costi/benefici della sua scelta e la valutazione va effettuata in modo approfondito in quanto varia per ogni lavoratore a fronte di diverse variabili. La regola generale è che all’aumentare del reddito, automaticamente diventa anche più onerosa la Qu.I.R. rispetto al TFR considerato come “buona uscita” o a quello investito nella previdenza integrativa. Quindi, l’aumento di livello della retribuzione fa crescere lo svantaggio fiscale per chi opta per la liquidazione in busta paga. Altro importante fattore da considerare è il vincolo di scelta; infatti, una volta effettuata, non può più essere revocata e resterà operativa fino al 30 giugno 2018.

L’aspetto della Qu.I.R. che sicuramente ha fatto più discutere, è la tassazione che si applica all’importo che verrà corrisposto mensilmente sul cedolino. Infatti, al posto della tassazione separata, tali somme saranno soggette all’aliquota marginale IRPEF ordinaria. Ed è proprio qui il paradosso: il lavoratore, per ottenere denaro che gli spetta di diritto, deve pagarci maggiori tasse. Con l’intento dichiarato dal Governo di vo-

ler accrescere il potere di acquisto delle famiglie italiane, sembra proprio che l’unico obiettivo sia invece quello di voler aumentare le entrate erariali. La prima erogazione della QU.I.R. potrebbe avvenire già con la busta paga di maggio qualora il lavoratore ne abbia fatto richiesta entro il 30 di Aprile 2015. E’importante conoscere alcune particolarità della normativa , per cui di seguito ne viene proposta una sintesi

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L’importanza della mediazione culturale parliamo dei rifugiati di Laura Toro


Io penso... Quando cominci ad avvicinarti al mondo dei rifugiati, hai in mente le immagini di massa che popolano la televisione e il web: le interminabili code agli sbarchi, i sovraffollati centri di prima accoglienza, le decine di corpi di chi non ce l'ha fatta. Li associ ad altre immagini: le folle urlanti degli stadi, le brulicanti vie delle metropoli, i grandi assembramenti delle manifestazioni. Sembra che il mondo di oggi si muova in gruppo. Poi, piano piano, come in uno zoom cinematografico, impari a distinguere i volti, le espressioni e infine la voce di ognuno di loro. Ridiventano individui, persone, contatti personalizzati. Allora comincia l'attività del mediatore e traduttore. Mi sposto continuamente dal gruppo al singolo, dall'antropologico allo psicologico. Divento ponte, le braccia aperte non per abbracciare, ma per unire. Quando cominci a conoscere le storie dei richiedenti asilo capisci che non riuscirai a rimanere distante come il tuo ruolo richiede. Devi entrare in breve tempo nel privato di queste (finalmente) persone senza passare per lo stadio dell'amicizia che rende spontaneo il raccontarsi. Le loro vicende non sono mai facili. Devi ricacciare indietro un nodo alla gola che vorresti liberare, perché la tua mente deve essere attenta a trasportare nel tuo mondo non solo il racconto, ma anche il non detto, tradurre non solo le parole, ma anche le culture che le veicolano e che rimangono per loro ovvie, inutili da riferire. C'è tempo dopo, da sola, per rielaborare e gestire il carico emotivo di quello che hai sentito. Ogni storia aggiunge un tassello al puzzle delle immagini di massa, delle code agli sbarchi, del sovraffollamento nei centri di prima accoglienza. Lo zoom torna indietro, ma stavolta non troppo. D'ora in poi sarà un piano americano, in cui ti soffermi sui volti, le posture e gli atteggiamenti; in cui riconosci quello che c'è di comune (il deserto, il barcone, il mare, la paura), e sai già che oltre la massa c'è anche qualcosa di unico, spesso di terribile. Per questo vuoi che tutti percorrano la tua stessa strada, zoomando avanti e indietro, per recuperare l'umano che un mondo di gruppi sta sfaldando. È difficile spiegare con esattezza al

piccolo gruppo di ragazzi provenienti dal Gambia le specificità della figura di un mediatore e distinguere il suo operato da quello delle molte altre figure coinvolte alla rinfusa nell’accoglienza dei rifugiati anche perché a farlo è proprio la loro mediatrice.

Loro chiedono... Questo è il secondo gruppo che viene accolto a Foligno dalla collaborazione fra la Caritas diocesana e la Casa dei Popoli. Spieghiamo che l’intervista collettiva che abbiamo proposto offrirà a tutti i soggetti coinvolti la possibilità di analizzare il proprio operato e di migliorarlo. Ma ancora non riescono a parlare liberamente anche delle difficoltà che hanno incontrato fin qui, perché non vogliono offendere nessuno. La percezione finora, infatti, è quella di generale soddisfazione da entrambe le parti, per aver ricevuto e, ugualmente, per aver fornito una risposta sufficientemente adeguata alle esigenze che di volta in volta si sono presentate. Spostiamo l’attenzione sul periodo passato in Sicilia per creare la necessaria distanza per la narrazione. L’accoglienza dei grandi numeri rende i contatti personali difficili e il lavoro di mediazione estremamente complicato. Questo può aiutare a far emergere i principali elementi necessari per instaurare una relazione efficace. Finalmente cominciano i racconti. La primaria esigenza espressa è la comunicazione efficace. In una situazione di emergenza passano in secondo piano i principi fondamentali di cura e attenzione, e questo aggiunge stress allo stress, da entrambe le parti; a volte si perde la percezione netta e veritiera di quale possa essere un buon compromesso tra le priorità di chi accoglie e quelle di chi arriva. Si agisce secondo protocolli non adeguatamente condivisi. Da parte nostra, la maggiore priorità è la cura igienico sanitaria. Per un profugo è il cibo, visto che spesso non mangia e non beve da due o tre giorni. Il cibo è la prima forma di accoglienza, e costituisce un nutrimento anche per l’anima di persone stremate. In questo caso, un traduttore ha il compito di illustrare cosa succederà, mentre un mediatore spiegherà anche le ragioni dei nostri comportamenti, compiendo la prima azione di comunicazione efficace.

La nostra umanità permette di superare questi disagi e lenisce in parte gli effetti di queste carenze. A detta di tutti, infatti, la stragrande maggioranza delle persone che si occupa dei rifugiati li tratta, e li ha trattati fin da subito, in maniera gentile e comprensiva, una piccola parte che li tratta, e li ha trattati fin da subito, come una fonte di disturbo, una “scocciatura” che avrebbe voluto evitare. Una seconda esigenza fondamentale è l’informazione costante e puntuale: è importante sapere con certezza i luoghi e i tempi degli spostamenti e dei trasferimenti. È successo che i ragazzi siano stati avvisati appena mezz’ora prima della partenza per Roma (solo un volontario, a denti stretti, aveva provato ad avvisarli che, forse, il trasferimento sarebbe avvenuto in giornata): molti di loro, nella concitazione dell’urgenza, non sono riusciti neanche a mangiare o ad andare in bagno; la polizia che li scortava non avrebbe permesso loro di fare nessuna di queste due cose per ore, né all’aeroporto, né in aereo. Una volta arrivati, dopo tutti i dinieghi ricevuti fino a quel momento, non hanno avuto più il coraggio di fare ulteriori richieste agli operatori che erano venuti a prenderli e che, dal canto loro, ignoravano la situazione. Una maggiore informazione avrebbe evitato questo ulteriore disagio. Mi viene da pensare che la semplice ma utile domanda che ogni operatore dovrebbe farsi ad ogni passaggio è “Se questo succedesse a me, lo accetterei?”. In tutto ciò la figura del mediatore è importante proprio in virtù della necessità di rispettarsi a vicenda: se vuoi essere rispettato devi rispettare a tua volta ma, per farlo, devi sapere cosa e come fare. Così si arriva alla terza caratteristica che rende possibile ed interessante l’opera del mediatore: la conoscenza. Non sempre è un’esigenza espressa esplicitamente, ma viene da sé, nasce dal bisogno di inserirsi in un contesto nuovo, che i richiedenti asilo sanno essere forse un nuovo luogo dove costruire il resto della loro vita. Chi, prima di dover scappare dal proprio paese, svolgeva un lavoro che lo metteva a contatto col pubblico, sa che se una persona è ben accolta si troverà bene nel paese in cui va. Allora si vuole sapere, chiedere, di rapportarsi costantemente con chi dovrà essere oggetto e soggetto di provvedimenti e progetti.

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Il miglior mediatore è allora chi è già portatore di due o più culture, perché può più facilmente mutuare valori e usanze da un lato all’altro, spiegare a chi accoglie e a chi è accolto come funzionano le cose, i meccanismi antropologici e sociali che regolano le azioni individuali; può tradurre non solo le parole, ma le enciclopedie, gli scenari entro cui gli individui si muovono. Chi, come me, ha una sola cultura di base, deve a sua volta chiedere, osservare, comparare costruttivamente la cultura dell’altro con la propria, immedesimarsi. Soprattutto non dimenticare mai che tutti si aspettano da chi li accoglie la stessa cosa: riuscire a non perdersi, né umanamente, né lavorativamente, mantenendo le proprie abilità, che vanno esercitate per non essere dimenticate, e la propria identità: una vera sfida per chi abbia abbandonato tutto per andare così lontano, una sfida che non finisce mai. Bisogna superare l’istintiva

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tendenza, che ho osservato molte volte nel corso degli anni, di equiparare la scarsa conoscenza della propria lingua ad una carenza di conoscenza o di maturità, come se parlare come bambini significasse esserlo anche anagraficamente: siamo di fronte a persone grandi, o diventate grandi, che hanno preso decisioni difficili e rischiose, che hanno delle competenze, a volte delle famiglie proprie. Non hanno bisogno di pillole indorate, ma di sapere le cose come stanno esattamente, per poter fare le proprie scelte di vita. Certo, nessuno vuole essere trattato male, ma al contrario, ci tengono a dare e ricevere gentilezza e considerazione: un concetto semplice da raccontare e da condividere ma assai più difficile da applicare. Un buon mediatore prima di tutto dovrebbe sempre chiedere, confrontarsi instancabilmente, comunicare e facilitare il passaggio di comunicazioni tra le autorità, le strutture di accoglienza e i rifugiati stessi. Se so-

no le autorità a doversi spendere un po’ di più nel tentativo di capire, è ugualmente doveroso da parte di chi è oggetto di accoglienza cercare di farsi capire al meglio per non lasciare l’intera responsabilità della comunicazione all’altro: anche per questo serve un mediatore che si metta sempre in discussione, che non creda di sapere già tutto, ma che cerchi di volta in volta nuove conferme. Mentre esprimono questi desideri, mentre chiedono di non veder perduti i propri anni, i lavori che hanno imparato o gli studi compiuti, mentre dicono che la maggior parte delle cose sono andate per il meglio ma che, a volte, hanno sofferto della mancanza di una comunicazione efficace, spesso l’incertezza nelle loro parole non è semplicemente conseguenza di una lingua “barbara”, ma al contrario è il sintomo evidente di una verità svelata a fatica, di un bisogno profondo di sicurezza e di un’altrettanto profonda incertezza sul futuro.


RIFUGIATO

(www.traccani.it) Individuo che, per ragioni essenzialmente politiche, ma anche economiche e sociali, è costretto ad abbandonare lo Stato di cui è cittadino e dove risiede, per cercare rifugio in uno Stato straniero. I rifugiati nazionali sono persone che cercano rifugio nello Stato di cui sono cittadini, in seguito al trasferimento a un altro Stato o all’occupazione bellica delle regioni in cui risiedevano. Dalle origini alla Seconda guerra mondiale. Il problema dei rifugiati si affacciò sulla scena europea all’inizio degli anni 1920, quando un gran numero di persone provenienti in massima parte dalla Russia e dai territori già soggetti alla sovranità dell’Impero ottomano si vide costretto all’esilio sotto la pressione dei capovolgimenti politici seguiti alla Prima guerra mondiale e alla Rivoluzione russa. I primi strumenti internazionali furono elaborati, nel quadro della Società delle Nazioni, nel tentativo di rispondere a situazioni particolari: il Consiglio della Società delle Nazioni adottò una prima risoluzione sui rifugiati il 26 febbraio 1921 e successivamente, il 27 giugno dello stesso anno, decise la costituzione di un Alto commissariato per i rifugiati, affidandone l’incarico a F. Nansen che si occupò (1921-29) dei rifugiati russi, armeni e greci, per i quali adottò il passaporto Nansen, primo esempio di documento di viaggio internazionale per i rifugiati. Successivamente, sempre nell’ambito della Società delle Nazioni, furono adottati ulteriori strumenti internazionali: l’accordo del 12 maggio 1926, sui rifugiati russi e armeni; l’accordo del 30 giugno 1928, sui rifugiati assiri o assirocaldei e turchi. Dopo la morte di Nansen, nel 1930, fu costituito un nuovo organismo per la protezione dei rifugiati, detto Ufficio Nansen, le cui funzioni, insieme a quelle dell’Alto commissariato per quelli provenienti dalla Germania, istituito nel 1933 in seguito al flusso di persone che fuggivano il regime nazista, furono assunte, a partire dal 1° gennaio 1939, da un nuovo Alto commissariato. Nel corso degli anni 1930 il flusso dei rifugiati fu ulteriormente alimentato dall’avvento di regimi autoritari in alcuni paesi europei, ma l’approccio rimase invariato: si ebbero così la Convenzione del 28 ottobre 1933, sui rifugiati spagnoli; la Convenzione del 10 febbraio 1938, sui quelli provenienti dalla Germania; il Protocollo del 14 settembre 1939, sugli austriaci. Il dopoguerra. Al termine della Seconda guerra

mondiale, le potenze alleate crearono l’UNRRA (United Nations Rehabilitation Relief Agency), che si occupò, fino al 1947, del rimpatrio dei prigionieri di guerra e di determinate categorie di rifugiati. In seguito all’avvento dell’ONU, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite trasferì le competenze dell’UNRRA e dell’Alto commissariato istituito nel 1939 all’Organizzazione internazionale per i rifugiati con mandato limitato fino al 1952. In vista dello scadere di tale termine, l’Assemblea generale diede vita, il 3 dicembre 1949, all’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. La convenzione di Ginevra sui rifugiati Individui che, per ragioni essenzialmente politiche, ma anche economiche e sociali, sono costretti ad abbandonare lo Stato di cui sono cittadini e dove risiedono, per cercare rifugio in uno Stato straniero. Gli stessi possono eventualmente chiedere asilo allo Stato di rifugio o ad altri Stati, ove ne ricorrano le condizioni (Diritto d’asilo. Diritto internazionale), ma le due ipotesi, come pure lo status giuridico di rifugiato e quello di richiedente asilo vanno comunque tenuti distinti. Cenni storici: i primi strumenti internazionali in materia di rifugiati furono elaborati, nel quadro della Società delle Nazioni, nel tentativo di rispondere a situazioni particolari: il Consiglio della Società delle Nazioni adottò una prima risoluzione sui rifugiati il 26 febbraio 1921 e successivamente, il 27 giugno dello stesso anno, decise la costituzione di un Alto commissariato per i rifugiati. Successivamente, sempre nell’ambito della Società delle Nazioni, furono adottati ulteriori strumenti internazionali: l’accordo del 12 maggio 1926, sui rifugiati russi e armeni; l’accordo del 30 giugno 1928, sui rifugiati assiri o assiro-caldei e turchi e, nel corso degli anni 1930, la Convenzione del 28 ottobre 1933, sui rifugiati spagnoli; la Convenzione del 10 febbraio 1938, sui rifugiati provenienti dalla Germania; il Protocollo del 14 settembre 1939, sui rifugiati austriaci. Al termine della seconda guerra mondiale, le potenze alleate crearono l’UNRRA (United Nations Rehabilitation Relief Agency), che si occupò, fino al 1947, del rimpatrio dei prigionieri di guerra e di determinate categorie di rifugiati. Dopo l’istituzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, l’Assemblea generale di tale Organizzazione trasferì le competenze dell’UNRRA e dell’Alto

commissariato istituito nel 1939 all’Organizzazione internazionale per i rifugiati, con mandato limitato fino al 1952. In vista dello scadere di tale termine, l’Assemblea generale diede vita, il 3 dicembre 1949, all’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. La Convenzione di Ginevra sui rifugiati. - Il quadro della disciplina internazionale è stato completato dalla Convenzione di Ginevra del 28 gennaio 1951 sullo status dei rifugiati, successivamente integrata per mezzo di un protocollo aggiuntivo, adottato a New York il 31 gennaio 1967, che ha anche definito la nozione di rifugiato dal punto di vista del diritto internazionale. In base a tale disposizione, per rifugiato si intende la persona che si trova fuori del paese di cui è cittadino (se apolide, del paese di residenza abituale), temendo a ragione di essere perseguitata per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, e che non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di quel paese. Tali requisiti individuano la figura del rifugiato politico in senso stretto e riflettono in misura rilevante il contesto storico in cui sono stati adottati. La Convenzione che regola aspetti specifici della questione dei rifugiati in Africa, adottata nel 1969 dall’Organizzazione per l’unità africana, oggi Unione Africana, e la Convenzione sullo status dei rifugiati negli Stati arabi, adottata dalla Lega degli Stati arabi nel 1994, hanno proposto una definizione di rifugiato più ampia rispetto a quella data dalla Convenzione di Ginevra del 1951. La definizione di rifugiato ha inoltre subito un’estensione sul piano operativo, anche tramite l’azione dell’ACNUR che, fin dalla metà degli anni 1950, ha ampliato il proprio mandato anche a gruppi di persone che varcano una frontiera internazionale in conseguenza di conflitti, o mutamenti radicali di carattere politico, sociale o economico nei loro paesi di origine e che sono sprovvisti della protezione dei propri governi. A partire dagli anni 1990 si è registrato un aumento crescente del numero dei rifugiati che, a causa di guerre civili e persecuzioni etniche e religiose, sono stati costretti ad abbandonare i loro paesi, nelle zone di crisi del Medio Oriente, dell’Asia meridionale e orientale, dell’Africa, dell’America latina e della stessa Europa, soprattutto a seguito delle guerre nelle repubbliche ex iugoslave, cercando asilo nei paesi limitrofi.

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L’aereo e l’equipaggio che ha sganciato la bomba atomica su Hiroshima tratto da un articolo di Noam Chomsky docente presso il MIT di Boston Dobbiamo partire da due postulati. Primo, che gli avvenimenti dell'11 settembre costituiscono una atrocità spaventosa, probabilmente la maggiore perdita simultanea di vite umane della storia, guerre escluse. Il secondo postulato è che dovremmo porci l'obiettivo di ridurre il rischio che possano ripetersi tali attentati, siano essi rivolti contro di noi o contro altri. Cominciamo dalla situazione in Afghanistan. In tale paese vi sarebbero milioni di persone minacciate dalla carestia. Questo era già vero prima degli attentati: sopravvivevano soprattutto grazie all'aiuto internazionale. Ma, il 16 settembre, gli Stati uniti hanno imposto al Pakistan di sospendere i convogli di automezzi che portavano cibo e altri generi di prima necessità alla popolazione afghana. Tale decisione non ha provocato alcuna reazione in Occidente e il ritiro di personale umanitario ha reso ancora più problematica l'assistenza della popolazione. Una settimana dopo l'inizio dei bombardamenti, le Nazioni unite ritenevano che l'avvicinarsi dell'inverno avrebbe reso impossibile l'invio di cibo, già ridotto al lumicino dai raid dell'aviazione americana. Quando alcune organizzazioni umanitarie civili o religiose e lo stesso portavoce della Fao hanno chiesto una sospensione dei bombardamenti, tale notizia non è stata neppure riferita

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dal New York Times; il Boston Globe se l'è cavata con appena una riga. Nell'ottobre scorso, la civiltà occidentale si era rassegnata al rischio di veder morire centinaia di migliaia di afghani. Nello stesso momento, il leader di tale civiltà faceva sapere che non si sarebbe degnato di rispondere alle proposte afghane di negoziare sulla questione della consegna di Osama bin Laden, né sulla richiesta di una prova su cui fondare una possibile decisione di estradizione. Avrebbe accettato soltanto una capitolazione senza condizioni. Ma torniamo all'11 settembre. Questa volta le armi hanno puntato su un bersaglio insolito: gli Stati uniti. L'analogia così spesso evocata con Pearl Harbor non è appropriata. Nel 1941 l'aviazione nipponica ha bombardato alcune basi militari in una colonia di cui gli Stati uniti si erano impadroniti in condizioni poco encomiabili; i giapponesi non avevano attaccato direttamente il territorio americano. In questi ultimi due secoli, noi americani abbiamo scacciato o sterminato popolazioni di indios - milioni di persone - conquistato la metà del Messico, saccheggiato le regioni dei Caraibi e dell'America centrale, invaso Haiti e le Filippine, uccidendo in quest'ultima occasione anche 100mila filippini. Poi, dopo la seconda guerra mondiale, abbiamo esteso il nostro dominio sul mondo nella maniera ben nota. Ma quasi sempre eravamo noi ad uccidere e il combattimento avveniva al di fuori del nostro territorio nazionale.


Terrorismo l’arma dei potenti «Come mai - si chiede il presidente Bush - siamo così odiati», quando siamo «così buoni»? I leader statunitensi continuano a non curarsi degli effetti a lungo e medio termine della loro politica estera, che li spinge ad usare qualsiasi mezzo per imporre al mondo la propria supremazia. Il finanziamento da parte dell'amministrazione Reagan della contro-rivoluzione anti-sandinista in Nicaragua (57mila vittime), l'aiuto militare alla «lotta contro il terrorismo» condotta dal governo di Ankara contro i kurdi (due-tre milioni di rifugiati, decine di migliaia di vittime, 350 città e villaggi distrutti), il sostegno incondizionato all'occupazione israeliana dei territori palestinesi sono tutti episodi che mostrano come i dirigenti statunitensi non si facciano alcuno scrupolo ad appoggiare pratiche di violenza calcolata e «guerre di bassa intensità» che possono essere equiparate al terrorismo. Ma, come mostra efficacemente la parabola di Osama bin Laden, i loro successi di ieri possono essere scontati successivamente ad un prezzo altissimo. Ma, come si ha modo di constatare quando ci fanno domande, ad esempio, sull'Ira e sul terrorismo, le domande dei giornalisti sono molto diverse, a seconda che riguardino una sponda o l'altra del mare di Irlanda. In generale, il pianeta appare sotto tutt'altra luce a seconda che si impugni da molto tempo la frusta o che si sia abituati a subirne i colpi nel corso dei secoli. Forse è per questo, in fondo, che il resto del mondo, pur dimostrando un orrore senza eccezioni di fronte alla sorte delle vittime dell'11 settembre, non ha reagito come abbiamo reagito noi agli attentati di New York e di Washington. Per comprendere gli avvenimenti dell'11 settembre, occorre operare una distinzione fra gli esecutori del crimine e l'area diffusa di comprensione di cui ha goduto tale crimine, anche fra i suoi oppositori. Gli esecutori? Supponendo che si tratti della rete di bin Laden, nessuno conosce la genesi di questo gruppo fondamentalista meglio della Cia e dei suoi accoliti, che ne hanno tanto incoraggiato la nascita. Zbigniew Brzezinski, segretario alla sicurezza nazionale dell'amministrazione Carter, si è addirittura felicitato della «trappola» tesa ai sovietici nel 1978, manovrando gli attacchi dei mujaheddin (organizzati, armati e addestrati dalla Cia) contro il regime di Kabul: una manovra che ha spinto alla fine dell'anno successivo i sovietici ad invadere il territorio afghano. Solo dopo il 1990 e dopo l'installazione di basi americane permanenti in Arabia saudita, su una terra sa-

cra all'Islam, questi combattenti sono diventati nemici degli Stati Uniti. Adesso, se si vuole spiegare l'area diffusa di simpatia di cui godono le reti di bin Laden, anche fra le classi dominanti dei paesi del Sud del mondo, occorre considerare innanzitutto la collera che suscita l'appoggio degli Stati Uniti a regimi autoritari o dittatoriali di ogni sorta; occorre ricordarsi della politica americana che ha distrutto la società irachena; occorre non dimenticare l'appoggio costante di Washington all'occupazione israeliana dei territori palestinesi dal 1967 ad oggi. Nel momento in cui gli editoriali del New York Times lasciano intendere che «loro» ci detestano perché noi difendiamo il capitalismo, la democrazia, i diritti umani, la separazione fra Stato e chiesa, il Wall Street Journal, meglio informato, ci spiega che «ci» detestano perché abbiamo ostacolato la democrazia e lo sviluppo economico e appoggiato regimi brutali, o addirittura terroristici. Fra le alte sfere dell'Occidente, la guerra contro il terrorismo è stata equiparata a una «lotta contro un cancro diffuso dai barbari». Queste affermazioni sono tutt'altro che nuove; ne parlavano già venti anni fa il presidente Ronald Reagan e il suo segretario di stato Alexander Haig. E per combattere i nemici depravati della civiltà, all'epoca il governo americano organizzò una rete terroristica internazionale di dimensioni senza precedenti. E, se tale rete commise atrocità innumerevoli da un capo all'altro del pianeta, il massimo impegno venne dedicato all'America latina.

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Il diritto internazionale è debole, Un caso, quello del Nicaragua, è incontestabile: e infatti è stato risolto dalla Corte internazionale di giustizia dell'Aja e dalle Nazioni Unite. Chiedetevi pure quante volte questo precedente indiscutibile di un'azione terroristica a cui uno Stato di diritto ha voluto rispondere con i mezzi del diritto sia stato richiamato dai commentatori più in voga. Eppure, si trattava di un precedente ancora più estremo degli attentati dell'11 settembre: la guerra dell'amministrazione Reagan contro il Nicaragua ha provocato 57mila vittime e la rovina di un intero paese. All'epoca, il Nicaragua aveva reagito non facendo esplodere bombe a Washington, bensì appellandosi alla Corte internazionale di giustizia. E la Corte decise, il 27 giugno 1986, dando ragione alle autorità di Managua. Condannò «l'uso illegale della forza» da parte degli Stati Uniti (che avevano minato i porti del Nicaragua) e ingiunse a Washington di porre fine al crimine, senza dimenticare di pagare danni e interessi rilevanti. Gli Stati Uniti replicarono che non si sarebbero piegati a tale giudizio e che non avrebbero più riconosciuto la giurisdizione della Corte. Allora il Nicaragua chiese al Consiglio di sicurezza dell'Onu l'adozione di una risoluzione secondo cui tutti gli Stati erano tenuti a rispettare il diritto internazionale. Non si citava nessuno Stato in particolare, ma il messaggio era evidente. Gli Stati Uniti esercitarono il loro diritto di veto contro questa risoluzione. A tutt'oggi, quindi, gli Stati Uniti sono l'unico Stato che sia stato condannato dalla Corte internazionale di giustizia e che nel contempo si sia opposto a una risoluzione che chiedeva il rispetto del diritto internazionale. Dopo di che, il Nicaragua si rivolse all'Assemblea generale dell'Onu. La risoluzione proposta ottenne soltanto tre voti negativi: quelli degli Stati Uniti, di Israele e del Salvador. L'anno successivo il Nicaragua richiese di votare sulla stessa risoluzione. Stavolta, soltanto Israele appoggiò la causa dell'amministrazione Reagan. Arrivato a questo punto, il Nicaragua aveva esaurito tutti i mezzi giuridici a sua disposizione, e tutti erano falliti, in un mondo dominato dalla forza. Questo precedente non lascia adito a dubbi. Quante volte se ne è parlato, all'università, sui giornali? Si tratta di una vicenda per molti aspetti rivelatrice. Innanzitutto rivela che il terrorismo funziona. In secondo luogo che ci si sbaglia a considerare il terrorismo uno strumento dei deboli. Come la maggior parte delle armi di morte, il terrorismo è soprattutto l'arma dei potenti; quando si sostiene il contrario, ciò avviene unicamente perché i potenti controllano anche gli apparati ideologici e culturali che consentono di far passare il terrore per qualcosa di diverso. Uno dei mezzi più correnti di cui dispongono per ottenere tale risultato consiste nel far scomparire la memoria degli avvenimenti di disturbo; in tal modo, nessuno se ne ricorda. Del resto, la potenza della propaganda e delle dottrine americane è talmente grande da imporsi alle sue stesse vittime. Andate in Argentina, e vedrete che dovrete essere voi a rievocare certi fatti. Allora vi diranno: «Ah, sì, ma lo avevamo dimenticato!». Nicaragua, Haiti e Guatemala sono i tre paesi più poveri dell'America latina. Figurano anche tra i paesi in cui gli Stati Uniti sono intervenuti manu militari, il che non è necessariamente una coincidenza fortuita. Tutto ciò avvenne in un clima ideologico contrassegnato dai proclami entusiasti degli intellettuali occidentali. Qualche anno fa, l'autocompiacimen-

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to faceva furore: fine della storia, nuovo ordine mondiale, stato di diritto, ingerenza umanitaria e via dicendo. Era moneta corrente, proprio mentre lasciavamo che si commettessero atrocità innumerevoli. Anzi, peggio, davamo un nostro contributo attivo. Ma chi ne parlava? Una delle più grandi conquiste della civiltà occidentale consiste forse nel rendere possibile questo tipo di incongruenza in una società libera. Uno stato totalitario è privo di questo dono. Che cosa è il terrorismo? Nei manuali militari americani, si definisce terrore l'uso calcolato a fini politici o religiosi della violenza, della minaccia di violenza, dell'intimidazione, della coercizione o della paura. Il problema di una simile definizione è che essa coincide abbastanza precisamente con quello che gli Stati Uniti hanno definito guerra di “bassa intensità”, rivendicando questo genere di attività. D'altronde, nel dicembre 1987, allorché l'Assemblea generale dell'Onu ha adottato una risoluzione contro il terrorismo, c'è stata una sola astensione, quella dell'Honduras, e due voti contrari, quelli di Israele e degli Stati Uniti. Perché lo hanno fatto? A causa di un paragrafo della risoluzione che precisava che non si intendeva rimettere in discussione il diritto dei popoli a lottare contro un regime colonialista o contro una occupazione militare. Orbene, all'epoca il Sudafrica era alleato degli Stati Uniti. Oltre agli attacchi contro i paesi limitrofi (Namibia, Angola, ecc.) che hanno provocato centinaia di migliaia di morti, il regime dell'apartheid di Pretoria doveva affrontare all'interno del paese una forza definita «terrorista»: l'African National Congress (Anc). Quanto a Israele, occupava illegalmente alcuni territori palestinesi fin dal 1967, altri in Libano fin dal 1978, guerreggiando nel sud del Libano contro una forza che Israele stesso e gli Stati Uniti tacciavano di «terrorismo»: gli Hezbollah. Nelle analisi abituali del terrorismo, questo tipo di informazione o di richiamo non è frequente; affinché le analisi e gli articoli dei giornali siano ritenuti rispettabili, conviene in realtà schierarsi dalla parte giusta, ossia dalla parte di chi dispone delle armi più potenti.


Negli anni '90 i peggiori attacchi contro i diritti umani sono stati riscontrati in Colombia. Tale paese è stato il principale destinatario dell'aiuto militare americano, a eccezione di Israele e dell'Egitto, che costituiscono due casi a sé. Fino al 1999, il primo posto spettava alla Turchia, a cui gli Stati uniti hanno consegnato una quantità crescente di armi fin dal 1984. Perché proprio quell'anno? Non perché questo paese, membro della Nato, dovesse affrontare l'Unione Sovietica, già allora in fase di disfacimento, ma affinché potesse portare avanti la guerra terroristica che aveva iniziato contro i kurdi. Nel 1997, l'aiuto militare americano alla Turchia ha superato quello che il paese aveva ottenuto in negli anni dal 1950 al 1983, cioè il periodo della guerra fredda. Risultato delle operazioni militari: da 2 a 3 milioni di rifugiati, decine di migliaia di vittime, 350 città e villaggi distrutti. Man mano che la repressione si intensificava, gli Stati Uniti continuavano a fornire quasi l'80% delle armi utilizzate dai militari turchi, accelerando addirittura il ritmo delle consegne. La tendenza si è ribaltata nel 1999, allorché il terrore militare naturalmente denominato «controterrorismo» dalle autorità di Ankara - aveva conseguito i suoi obiettivi. Succede quasi sempre così quando il terrore è gestito dai suoi principali utilizzatori, cioè dalle forze al potere. Nel caso della Turchia, gli Stati uniti hanno trovato un paese tutt'altro che ingrato. Washington le aveva dato gli F-16 per bombardare la sua popolazione e la Turchia li ha utilizzati nel 1999 per bombardare la Serbia. Poi, pochi giorni dopo l'11 settembre, il primo ministro turco Bülent Ecevit ha fatto sapere che il suo paese avrebbe partecipato con entusiasmo alla coalizione americana contro la rete di bin Laden. In tale occasione, il primo ministro spiegò che la Turchia aveva un debito di gratitudine nei confronti degli Stati Uniti, che risaliva alla sua «guerra contro il terrorismo» e all'appoggio incondizionato che era stato assicurato da Washington. Certo, anche altri paesi avevano sostenuto la guerra di Ankara contro i kurdi, ma nessuno con zelo ed efficacia paragonabili a quelli degli Stati Uniti. L'appoggio dei turchi ha goduto del silenzio, e forse è più giusto dire del servilismo, degli ambienti colti americani, che non potevano certo ignorare le vicende in corso. Gli Stati Uniti dopo tutto

sono un paese libero e i rapporti delle organizzazioni umanitarie sulla situazione in Kurdistan erano di dominio pubblico. All'epoca, quindi, abbiamo deciso di dare il nostro contributo alle atrocità. La nostra coalizione contro il terrorismo comprende altre reclute di prima scelta. Il Christian Science Monitor, probabilmente uno dei migliori giornali sull'attualità internazionale, ha rivelato che alcuni popoli che non amavano affatto gli Stati Uniti cominciavano a rispettarli di più, particolarmente felici di vederli alla testa di una guerra contro il terrorismo. Il giornalista, che peraltro era uno specialista dell'Africa, citava come esempio simbolo di questa svolta il caso dell'Algeria. Eppure, doveva sapere che l'Algeria conduce una guerra terroristica contro il suo stesso popolo. Sia pure: ma che fare nella situazione attuale? Un radicale estremista come il Papa suggerisce di ricercare i colpevoli del crimine dell'11 settembre per sottoporli a giudizio. Ma gli Stati Uniti non desiderano ricorrere alle forme giudiziarie normali, preferiscono non dover addurre alcuna prova, e si oppongono all'esistenza di una giurisdizione internazionale. Anzi, quando Haiti chiede l'estradizione di Emmanuel Constant, giudicato responsabile della morte di migliaia di persone dopo il colpo di stato che ha rovesciato il presidente Jean-Bertrand Aristide il 30 settembre 1991, e presenta prove della sua colpevolezza, la richiesta non sortisce alcun effetto a Washington, né suscita alcun dibattito. Per lottare contro il terrorismo è necessario ridurre il livello del terrore, e non aumentarlo. Allorché l'esercito repubblicano irlandese (Ira) commette un attentato a Londra, gli inglesi non distruggono né Boston, città in cui l'Ira conta numerosi sostenitori, né Belfast. Cercano i colpevoli, e poi li giudicano. Un mezzo per ridurre il livello del terrore consisterebbe nel cessare di contribuirvi noi stessi. Per poi riflettere sugli orientamenti politici che hanno creato un'area diffusa di appoggio, di cui hanno poi approfittato i mandanti dell'attentato. In queste ultime settimane, la presa di coscienza dell'opinione pubblica americana sulle realtà internazionale di ogni sorta, di cui prima solo le élite sospettavano l'esistenza, costituisce forse un passo avanti in questa direzione.

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Parlare di Glauber Rocha significa parlare di cinema di liberazione; come spesso viene detto il Cinematographe, nasce a Parigi in una sera del lontano 1895, precisamente il 28 dicembre; nello scantinato del Grand Cafè, al salon Indien, 33 spettatori pagano un franco per assistere alla proiezione dei dieci film brevi proposti dai fratelli Lumiere; tra gli spettatori vi è Melies, che diverrà maestro impareggiabile della surrealtà filmica, vista, dissipata e elevata ad opera d’arte; cominciano già a scontrarsi due filosofie di pensiero: quella del cinema menzogna e quella del cinema poesia. I primi film brasiliani (1898), raccontano del mito della ricchezza e di mondi improbabili trattando lo spettatore come un bambino inebetito; si tratta di cinema spazzatura, che copia anche malamente i prodotti europei e nord-americani; il cinema è già retorica, propaganda nichilistica del potere e del pensiero dominante, si tende a imprimere l’impove-

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rimento ideologico e culturale e la soggezione al dominante; ma alcuni autori come Humberto Mauro, Mario Peixoto e Barreto si ribellano a questa logica cominciando a parlare di estetica del cinema brasiliano; dagli anni ‘20 agli anni ‘60 vi è una nicchia cinematografica che esprime le profonde lacerazioni della società brasiliana, violentata in ogni aspetto: si va da “O segredo do Corcunda” di Alberto Traversa a “Primeira missa” di Lima Barreto. Fu l’opera di Peixoto “Limite” ad aprire la strada all’onda libertaria che fiorisce in Brasile col nome di Cinema Novo; figura dominante dello stesso è Glauber Rocha (Vitoria da Conquista, 14 marzo 1939, Rio de Janeiro 22 agosto 1981); il suo è un cinema di liberazione, anarchico; è un ribelle che non si tira indietro nelle battaglie delle idee. Ha un rapporto profondo con la libertà e rifiuta endemicamente ogni forma di potere; non comprende come puo’ una minoranza dell’umanità, es-

sere causa principale della fame nella quale versa la maggioranza degli umani; Rocha s’incontra con Godard, Straub e Vertov dichiarando guerra al cinema spettacolare integrato nella società dello spettacolo; definisce il cinema stesso come ” secchio dell’immondizia delle belle arti” e lo svuota di ogni presunzione spettacolare o di basso prodotto alimentare. Le sue sequenze sono piene di cinismo, anarchia, irriverenza, romanticismo e inquietudine, piene di poetica libera da regole di composizione e contrarie al montaggio discorsivo; il cinema udigrudi di Rocha è un insieme di tracce mnesiche che costruiscono una storia, che è la sua e quella del Brasile; l’unione delle immagini è musicale e nei suoi film si viaggia , si piange d’amore e si sputa contro lo schermo; si torna in un’epoca dove tutti sognavamo di essere fratelli e sorelle e nei suoi personaggi è facile ritrovare sia Socrate che Cartesio, sia Marx che Cristo.


Glauber Rocha

Cangaceiro del cinema di poesia di Giovanni Parentignoti

Il suo primo lungometraggio è del 1962 e si intitola Barravento; Nel 1964 dirige “Il dio nero e il diavolo biondo” (“Deus e o diabo na terra do sol”) ambientato nel nord-est del Brasile dove Rocha segue il tracciato della siccità attraverso una coppia di contadini alla ricerca della liberazione, nel 1967 dirige Terra in trance e nel 1969 è costretto ad abbandonare il Brasile per la durissima censura governativa; continua a lavorare sia in Africa che in Europa e collabora con diversi artisti tra i quali Carmelo Bene. In ogni documentario, lungometraggio o scritto, Rocha utilizza l’arte del realismo per tessere passioni utopiche. Nel 1962 Barravento vince il premio “Opera Prima” al Festival internazionale del cinema di Karlovy Vary, in Cecoslovacchia, nel 1966 “Deus e o Diabo na Terra do Sol” vince il Gran Premio Latinoamericano al festival del Mar del

Plata, in Argentina; nel 1967 “Terra em Transe” viene proibito in tutto il territorio brasiliano per essere considerato irriverente verso la chiesa e sovversivo; nel 1968 JeanLuc Godard invita Rocha a recitare nel suo film “Vent d’est”, dove Rocha interpreta se stesso; nel 1969 il lungometraggio “Antonio das Mortes” viene presentato al Festival di cannes e Glauber divide il premio come miglior regista con Vobtech Jasny; dal 1972 Rocha riprende a Cuba il progetto “America Nuestra”, che aveva pensato prima di “Terra em Trans”e; con Marcos Medeiros produce “Historia do Brasil” che viene terminato grazie alla collaborazione di Renzo Rossellini e fu venduto alla RAI. Nel 1973 Rocha, tornato in Europa, abita a Roma e continua a portare avanti tantissimi progetti e collaborazioni; nel 1981 incontra il presidente brasiliano Joao Batista Fi-

gueiredo in Portogallo, pero’ la sua retrospettiva viene bloccata al quinto giorno di proiezione per un incendio, alcune copie vengono anche distrutte dal fuoco. Intanto in Brasile viene pubblicato “Revolucao do Cinema Novo”, una raccolta di articoli e cura di e interviste con Glauber Rocha, organizzata da lui stesso. Si aggravano però i suoi problemi di salute e Roche va in ospedale a marzo del 1981 dove si sottopone a un trattamento per la broncopolmonite; il 21 agosto viene riportato in Brasile dal Portogallo e il giorno dopo muore. Da quel giorno, i suoi film saranno proiettati in retrospettiva in diversi paesi del mondo, a settembre il festival internazionale del cinema di Figueira da Foz, Portogallo, e l’Encuentro de L’Intelectuales por la Soberiana de Los pueblo de Nuestra America, a Cuba, rendono omaggio al genio del cinema maledetto, Glauber Rocha.

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No, non ce ne siamo liberati No, non ce ne siamo liberati, ci circonda e ci sovrasta come una piovra con sempre piu’ tentacoli. La mafia sta nei negozi che assumono personale e allo stesso tempo fanno già firmare la lettera di dimissioni; la mafia sta nei medici, negli avvocati, nei notai che ti cercano 1000 euro e se vuoi la fattura ti dicono che allora devi pagare l’iva; la mafia sta nel poliziotto, nel carabiniere, nel finanziere che va dalla prostituta per scopare gratuitamente vendendo il proprio silenzio; la mafia sta nei direttori dei corsi di formazione per l’abilitazione al sostegno che ti cercano 3000 euro sottobanco o qualche prestazione sessuale sotto-letto; la mafia sta nei datori di lavoro che ti assumono part-time e ti fanno lavorare 12 ore al giorno; la mafia sta nel maresciallo della marina militare che vende ai suoi commilitoni il cibo destinato alle mense; la mafia sta nel vigile urbano che vede un auto posteggiata nel posto riservato ai disabili e fa finta di niente perchè è quella dell’amico; la mafia sta nei cantieri di lavoro dove decine di persone vengono pagate per non fare nulla; la mafia sta nel politico di turno che ti cerca un modestissimo posto di lavoro ricattandoti per tutta la vita; la mafia sta nel finanziere che sequestra 100 chili di pesce e ne dichiara 50 perchè l’altro se lo divide con gli amici ; la mafia sta nell’avvocato che non vuol seguire il tuo caso perchè non vuole inimicarsi la Procura; la mafia sta nel dirigente della casa di cura che ti fa firmare un contratto da 1000 euro e a fine mese te ne da 400; la mafia sta nel bar che aumenta i prezzi in modo assurdo per i turisti; la mafia sta nelle gare d’appalto truccate e fatte sotto-banco; la mafia sta nel traffico di clandestini dove politici, avvocati e insulsi procacciatori lucrano a dismisura; la mafia sta nel prete che rendendo grazie e dio si scopa il ragazzino durante la confessione; la mafia sta nelle missioni di pace dove ragazzini guadagnano qualche migliaio di euro in piu’ e razzolano, violentano e uccidono con la benedizione delle nazioni unite; la mafia sta nell’uomo che costringe la propria compagna a subire violenza e la ricatta e minaccia; la mafia sta nel libero professionista che cerca una segretaria e le dice che le serve per reggergli le bretelle; la mafia sta nelle 100 euro che il camionista

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mette dentro il libretto di circolazione e consegna alla pattuglia per poter passare senza essere controllato; la mafia sta nelle 100 euro che lo studente mette dentro il libretto universitario e lo consegna al professore per passare serenamente l’esame; la mafia sta nel banchiere che segnala ai malviventi i migliori risparmiatori; la mafia sta in chi usa nelle costruzioni edilizie materiale differente da quello dichiarato; la mafia sta in vaticano dove vengono nascosti tutti i segreti inerenti certi sequestri e certi attentati; la mafia sta nel presidente della repubblica che sa e non parla; la mafia sta nei giornalisti, nei cronisti, nei direttori dei mezzi di comunicazione; la mafia sta nei genitori che non vogliono che i loro figli si ritrovino in classe con extracomunitari, disabili o emigranti; la mafia sta nell’insegnante che mette da parte il figlio dell’operaio; la mafia sta in chi approfittando della propria posizione ricatta e umilia l’altro uomo; la mafia sta in chi non parla, tace e acconsente la mafia sta in chi con le parole e gli atti denigra volutamente un’altra persona; la mafia sta ancora in migliaia e migliaia di posti…in quanti hanno utopicamente cercato di combatterla e quanti ci hanno rimesso la vita o la loro liberta’…la mafia non morira’ mai se non quando sara’ lo stesso uomo a morire per sempre !!! L’attenzione sulle malformazioni neonatali è nata in seguito alle segnalazioni di un medico del presidio ospedaliero di Augusta, Giacinto Franco. Dopo la segnalazione l’Osservatorio epidemiologico regionale istituì una commissione di studio, costituita dal professor Salvatore Sciacca, da Anselmo Madeddu del Registro Territoriale di Patologia e da Sebastiano Bianca dell’Ismac. Lo studio esitato nell’aprile del 2001, mise in evidenza una elevata incidenza di malformazioni congenite nell’area di Augusta, Priolo e Melilli. In particolare vennero evidenziati significativi scostamenti in eccesso a carico dei difetti del setto interventricolare e delle ipospadie (cioè il mancato sviluppo dell’organo genitale nel bambino). Questi dati furono definiti interessanti dagli esperti del Rtp e Ismac anche alla luce di recenti studi dei ricercatori inglesi che hanno ipotizzato una correlazione tra questi tipi di malformazioni

congenite e la presenza di fattori di rischio di origine ambientale. Nel luglio del 2001 la stessa équipe del Rtp ha presentato ufficialmente i risultati di un Atlante, questa volta riguardante i dati di mortalità che hanno finito per confermare i dati già emersi riguardo all’incidenza delle malformazioni. Più in particolare nella provincia di Siracusa è stato osservato un tasso di mortalità di 8,5 casi per centomila abitanti nel Distretto di Augusta a fronte dei 3,3 casi della media nazionale. Alle stesse conclusioni era giunto lo studio sull’incidenza in base al quale era stato osservato un tasso di 3,3 casi di malformati su cento nati ad Augusta, a fronte della media nazionale di due casi. Destò particolare interesse il dato di Canicattini Bagni, dove nel quinquennio ’95/99 fu osservato un tasso superiore ai 6 casi di bambini malformati su cento nati. L’allarme suscitato da questi dati ha spinto la Procura di Siracusa, diretta da Roberto Campisi, ad avviare una indagine che è tuttora in corso e i cui risultati si annunciano clamorosi. Secondo i dati della letteratura scientifica i fattori di rischio legati all’insorgenza di malformazioni congenite sono soprattutto le cause di natura genetica, le infezioni contratte in gravidanza, alcune malattie materne come il diabete insulino dipendente, ma anche alcune abitudini di vita come fumo e alcol in gravidanza, agenti teratogeni, cioè esposizione a radiazione ionizzanti e a fattori chimici.


Tra quest’ultimi sono annoverati parecchi metalli e sostanze liberate nei processi produttivi dell’industria petrolchimica, in particolare il mercurio. (fonte: lasvolta.net). Sono una cinquantina gli indagati nelle diverse inchieste avviate dalla Procura In primo luogo, si è cercata una correlazione fra il pesce pescato ad Augusta e l’aumento di malformazioni nei bambini. Alla Procura di Siracusa sono in corso anche altre due indagini nell’ambito dell’inquinamento. La prima sui danni all’atmosfera l’altra sulla contaminazione del sottosuolo. Secondo il procuratore capo di Siracusa, Roberto Campisi, e a parere del sostituto procuratore Maurizio Musco, che stanno svolgendo le indagini (fra le quali quella su presunte irregolarità nelle modalità di smaltimento dei rifiuti pericolosi nell’Enichem di Priolo e quella sull’inquinamento della fauna marina nella rada di Augusta) “le analisi compiute, anche dall’Icram, la struttura di ricerca collegata con l’Istituto superiore della sanità, hanno già portato ad accertare risultati preoccupanti per la presenza di metalli pesanti nei pesci della rada di Augusta. E dato che queste sostanze non fanno parte del corredo genetico dei pesci, stiamo ora lavorando per risalire alle cause”. Sotto indagine le malformazioni neonatali, gli aborti spontanei o procurati, i casi di tumore e le malattie professionali denunciate dai lavoratori del Petrolchimico. La procura

sta conducendo un’inchiesta parallela con l’obiettivo di accertare l’eventuale correlazione tra questi fenomeni inquinanti e la nascita nella zona di bambini con malformazioni. La media accertata nei comuni dell’area industriale è di gran lunga superiore rispetto alla soglia massima indicata dall’Organizzazione mondiale della sanità: circa il 5-6 per mille invece del 2 per mille. Tra gli studi ordinati dalla magistratura, è stata condotta una ricerca su 600 coppie di genitori che hanno generato figli negli ultimi dieci anni. La metà di queste coppie sono state selezionate tra quelle che hanno generato figli che hanno presentato alla nascita malformazioni di diverso grado ed entità. Comparando gli stili e le abitudini alimentari nel periodo della gestazione di questi due gruppi di trecento genitori, è stato verificato che una quota significativa tra quelli che hanno poi generato figli con malformazioni avevano utilizzato pesce proveniente dalla rada di Augusta. Simile l’inchiesta aperta dalla Procura di Gela. Il magistrato Alessandro Sutera ipotizza che ci sia un rapporto causa-effetto fra le emissioni del petrolchimico e i bimbi nati con malformazioni. L’indagine prenderebbe in considerazione un arco di tempo di 8 anni a partire dal ‘95. In questo tempo almeno 30 piccoli sarebbero nati con malformazioni all’ospedale Vittorio Emanuele di Gela a causa dell’inquinamento industriale. Il sindaco di Gela,

Rosario Crocetta, ha attivato il registro delle nascite di bambini malformati e ha istituto una commissione scientifica che dovrà indagare sulle cause del fenomeno. Ha inoltre avviato le pratiche per giungere alla firma della convenzione già stipulata con l’Azienda ospedaliera locale per la tenuta del registro dei tumori. La commissione scientifica-istituzionale, composta cioè da medici (due dei quali anche consiglieri comunali) e da funzionari municipali, dovrà compiere una ricerca statistica, indagini di tipo socio-ambientali e dovrà procedere alla classificazione delle malformazioni dei neonati. Nel frattempo la Finanza di Siracusa ha sequestrato a Catania un capannone di un’azienda situata nella zona industriale della città, nel quale erano depsitati rifiuti speciali provenienti da stabilimenti del Petrolchimico di Priolo. Il provvedimento è stato disposto dal Tribunale di Siracusa e riguarda tutta la struttura, il cui valore complessivo supera i due milioni di euro. Si tratta dello smaltimento di rifiuti della centrale elettrica a gassificazione. Infine il Gip ha ordinato la scarcerazione di cinque dirigenti dello stabilimento Enichem di Priolo arrestati tre mesi fa nell’ambito dell’inchiesta sullo smaltimento dei rifiuti pericolosi. Il provvedimento riguarda gli ex direttori dello stabilimento e i responsabili dei settori ambiente e sicurezza e della tenuta dei registri dei rifiuti.

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La sociologia a ovvero, la sociologia Si conclude con questo articolo la serie degli interventi dedicati alla descrizione della sociologia a fondamento capitalistico. Nei numeri precedenti si sono posti in evidenza i caratteri dissolutori della società occidentale indotti dalla lobby capitalistica, in particolare: l’individualismo etico; il transito dalla libertà alla licenza; la poliarchia causata dalla apertura ai flussi migratori; il femminismo anarchico; la dissoluzione della famiglia e il connesso fenomeno della omosessualità e della eterofobia. Questo numero è dedicato, da un lato, alla eterofilia, al recupero, quindi, del rapporto uomo-donna come condizione imprescindibile per il rinnovamento della società, dall’altro, alla indicazioni dei pericoli involutivi che minacciano la società.

[nota editoriale: i capitoli precedenti sono stati pubblicati nei numeri 1-2 gennaio-febbraio e 2-3 marzo-aprile e sono reperibili nel sito internet piazzadelgrano.org negli “sfogliabili” o nelle singole rubriche tematiche dalle quali sono prelevabili in copia word]

SOMMARIO: 1. La perdita della omogeneità culturale della società: l’individualismo estremo, ovvero, l’absolute individual right. -2. Dalla libertà alla licenza. -3. Il pluralismo, ovvero, la poliarchia. Il transito dalla political diversity alla political division. -4. Il tramonto della democrazia. -5. Il femminismo anarchico (radical feminism). -6. Segue: il versante teologico. -7. Segue: il versante politico. -8. La dissoluzione della famiglia. Premesse metodologiche. -9. La fenomenologia della famiglia a fondamento capitalistico. -10. Segue. -11. Le conseguenze derivanti dalla dissoluzione della famiglia: l’omofilia. -12. Verso la rifondazione del rapporto uomo-donna, come condizione del rinnovamento della società. -13. No alla riproposizione della “famiglia cristiana”. -14. Considerazioni conclusive: pluralismo e progressiva attuazione dell’assolutismo politico. -15. I prodromi papisti.

di Alberto Donati 12. — Verso la rifondazione del rapporto uomo-donna come condizione del rinnovamento della società Nulla di più errato che ripensare la storia del rapporto uomo-donna alla luce dell’individualismo attuale, della attuale separazione e contrapposizione dei due sessi, così come, più in generale, è errata la storiografia basata sul senno del poi. Storicamente e culturalmente, l’uomo e la donna vengono in considerazione come una unità che rinviene nel matrimonio e nella famiglia il proprio momento di attuazione. Il soggetto della vicenda storica è, dunque, la famiglia. L’uomo e la donna che fanno storia appartengono ad una famiglia di cui, dunque, non sono che promanazioni. Storicamente e culturalmente, l’uomo non agisce come maschio, ma come responsabile dell’ordinamento della società. Egli pensa ed agisce, in primo luogo, come padre della donna, quindi, come marito, come fratello, come

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figlio; egli dunque, opera costantemente coniugandosi con la donna. Questa relazione è, a seconda dei momenti esistenziali, reciprocamente gioiosa o sofferta, ma tendenzialmente convergente. Speculare la posizione della donna che, infatti, si coniuga con il padre (ovviamente anche con la madre), con i fratelli e le sorelle, soprattutto con i figli. L’uomo e la donna collaborano; la loro è una coesistenza che rinviene nella famiglia il momento della sua più elevata manifestazione; la loro è una communio (“comunione”) e non un bellum (guerra) come postulato dal “radical feminism”, soddisfacendo, così, le istanze del sistema capitalistico della produzione. L’uomo e la donna non sono entità destinate a vivere su piani paralleli; essi sono complementari, quindi, destinati ad unirsi costituendo l’una caro (“una sola carne”) nel matrimonio e nella discendenza, dando, così, luogo a quella che i maggiori definivano una “comunione del divino ed umano diritto” (“divini et humani juris communicatio”).


fondamento capitalistico dell’antiumanesimo

La storia della società umana, è storia della famiglia, poiché essa è la cellula dell’organismo sociale, senza cui quest’ultimo non potrebbe esistere.Solo in omaggio ad un principio di economia storiografica, di regola si fa riferimento al protagonismo maschile, lasciando in ombra quello femminile. Ma la realtà è ben diversa poiché senza la donna quel protagonismo è semplicemente inimmaginabile. La donna è la depositaria della vita e della sua continuazione. Ma la vita non viene in considerazione solo sotto il profilo biologico e animalesco. Essa è, infatti, adattamento reattivo all’ambiente sia naturale che sociologico, essa è evolutività, è una modalità che deve essere organizzata e perché ciò avvenga si rende necessaria la costituzione della famiglia, l’elaborazione delle regole che presiedono alla sua conservazione nel tempo, al di là della morte dei suoi fondatori. La famiglia, a sua volta, è il fondamento della società civile di cui, analogamente, si devono elaborare le regole che ne disegnano la fisionomia politica, che presiedono ai rapporti tra le

famiglie. La donna, unendosi all’uomo, dà luogo ad una unità duale, ad una comunione diretta al soddisfacimento di esigenze, non solo materiali, ma etiche e politiche, tutte confluenti nel fine di conseguire “un livello sempre più elevato di moralità, di conoscenza e di benessere”. E’ in virtù di questa unità-dualità che si è enunciata la regola: “dal matrimonio le voci ‘mio’ e ‘tuo’ devono essere del tutto espulse ed [...] è necessario che i coniugi rendano comuni i corpi, le opere, gli amici e i familiari”. Tutto ruota intorno al primato della famiglia, in quanto cellula fondante della società e, quindi, dello Stato. La famiglia, posta come cardine della società, moralizza il rapporto uomo-donna, disponendolo di conseguenza il complesso delle relazioni sociali. Per questo motivo, la donna è respinta dai contesti culturali antievolutivi, in primo luogo, nella cultura occidentale, dal cristianesimo. La finalità di procreare (“bonum prolis”) attribuita al matrimonio è una invenzione dei preti.

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Nel Vangelo, la donna, se proprio non se ne possa fare a meno, non è che “remedium concupiscentiae” (soddisfacimento della concupiscenza carnale), non è che un vas eiaculationis (vaso per l’eiaculazione). La figura di Maria, che non viene fecondata secondo natura, che, a parte la generazione del figlio del Dio trinitario, non svolge nessun ruolo teologico (il culto mariano è un’altra invenzione dei preti), nulla ha a che vedere con il ruolo che la donna ha svolto ed è chiamata a svolgere, insieme all’uomo, nella società umana. Tra la donna e il Nuovo Testamento l’incompatibilità è totale, poiché il suo essere depositaria della vita, per questa via, della formazione della società politica, della elaborazione dei valori che ne rendono possibile il progressivo miglioramento, contraddice le istanze della charitas e dell’Apocalisse. Se il valore ordinante è il rifiuto del mondo (“vendete ciò che possedete e il ricavata datelo in elemosina”) (Lc 12, 33; Mt 19, 21), se l’operato della Genesi è destinato alla distruzione tramite l’Apocalisse, la donna è strumento del diavolo. Occorre una teologia opposta a quella cattolica perché la donna e il suo rapporto con l’uomo possano venire adeguatamente nobilitati e divinizzati. Concludendo, la crisi della famiglia, che è la crisi del rapporto uomo-donna, che è anche crisi dello Stato, non si risolve, semplicisticamente, reintroducendo il divieto del divorzio, il divieto dell’aborto e quant’altro. Il divorzio, l’aborto, la prassi delle fecondazioni artificiali, per lo più, lesive della dignità della persona umana e espressione del transito della medicina da arte curativa ad attività commerciale (c.d. medicina dei desideri), sono conseguenze, non cause della crisi. La causa della crisi della famiglia va rinvenuta nel sistema capitalistico della produzione, nella legittimazione dell’individualismo estremo su cui esso si basa. La terapia è, dunque, conseguente. Non si tratta, per altro, di sopprimere tale sistema ma di renderlo compatibile con le esigenze della famiglia, di distoglierlo dal suo fine primario costituito dalla produzione del profitto realizzata mediante lo sfruttamento sconsiderato delle risorse umane e naturali. In altri termini, si deve far sì che la famiglia torni ad essere il soggetto economico della società civile, superando, in tal modo, il principio della atomizzazione dei redditi. Al riguardo, si rinvia a quanto esposto nel numero di dicembre dell’anno appena trascorso. Solo su queste basi sarà possibile accedere ad una nuova costituente in cui l’uomo e la donna ridefiniscano i reciproci rapporti, tornando a porre la famiglia come “seminarium rei publicae” (semenzaio dello Stato), come cellula di un organismo sociale volto a realizzare “un livello sempre più elevato di moralità, di conoscenza e di benessere”.

13. — No alla riproposizione della “famiglia cristiana” Come momento di reazione alla attuale decadenza della famiglia viene in considerazione l’azione svolta dai fondamentalismi religiosi, per quanto riguarda la nostra esperienza, dal fondamentalismo cattolico. Per altro, tale azione ha solo finalità politiche essendo diretta a realizzare e a conservare il papismo poiché chi controlla la famiglia controlla anche lo Stato. Al fine di orientarsi correttamente, conviene richiama-

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re i caratteri fondamentali del cattolicesimo. Esso non è una religione, è, invece, un pensiero politico totalizzante che si serve della religione per realizzarne i contenuti. Cinque, almeno, ne sono i caposaldi che ne disegnano l’architettura. Il primo, è costituito dall’essere il Papa vicario di Dio sulla terra, dall’essere, dunque, Dio in terra (quantunque questa qualifica contrasti apertamente con il testo evangelico). Donde il secondo: il suo essere assistito dal dogma della infallibilità, il suo essere la verità vivente. Da queste premesse segue il terzo dei caposaldi: l’assolutismo religioso e politico. Il ruolo della verità risiede nella delegittimazione e nella repressione dell’errore. Senza la verità, l’errore non potrebbe darsi e l’uomo sprofonderebbe nel caos. Chi possiede la verità ha, pertanto, diritto di disporre di tutto il potere che si rende necessario per la sua vigenza. Poiché, dunque, il Papa è, addirittura, la stessa verità divina, ne discende che egli è titolare di un potere di pari latitudine, è, di conseguenza, detentore della “potestas absoluta” (“potestà assoluta”). L’essere umano viene, pertanto, in considerazione solo come “ovis” (pecora), come soggetto privo di autodeterminazione. Ed infatti, “appare quanto sia pretestuoso contrapporre i diritti della coscienza al vigore obiettivo della legge interpretata dalla Chiesa” (Giovanni Paolo II). Da quelle stesse premesse discende, ancora, la delegittimazione della scienza intesa come ricerca della verità. Ed infatti, se la verità è data, è assurda, è inammissibile, una attività che sia diretta alla conoscenza di una ulteriore verità. Essa non potrebbe essere che ricerca dell’errore. Ciò che è espresso dal “noli altum sapere” (“non osare di sapere”) (Rm 11, 20; 12, 16), dal conseguente primato della ignoranza scientifica e, più latamente, culturale, dalla sentenza di condanna di Galileo Galilei, mai revocata, nonostante le ipocrite scuse. L’ultimo dei caposaldi, quello che permea tutti i precedenti, è costituito dalla charitas, il cui significato è la sopportazione incondizionata del male, sia fisico che morale, ad imitazione del Dio sofferente personificato da Gesù di Nazareth. Sintetizzando, dalla vicarietà divina deriva l’assolutismo papista; dal possesso della verità discende l’esaltazione dell’ignoranza, vale a dire, la delegittimazione della cultura laica; dalla charitas, la povertà fisica e morale. Dunque, soggezione, ignoranza e povertà sono i valori ordinanti la società cattolica, la società papista, come, del resto, attestato da due millenni di storia. Il favore del cattolicesimo per la famiglia, lungi dall’essere fine a se stesso, si incastona in questo contesto. La famiglia è, infatti, posta come strumentale rispetto alla inculturazione del papismo, a cominciare dalla prassi del battesimo mediante il quale il minore, del tutto incapace di intendere e di volere, viene incorporato nell’ordinamento canonico, in aperta violazione del suo diritto alla libertà di coscienza e di autodeterminazione. La difesa della famiglia non è che una cortina fumogena dietro cui si nasconde la negazione della filosofia dell’umanesimo, la legittimazione, quindi, dell’antiumanesimo, la difesa del sistema capitalistico della produzione di cui la Chiesa è parte costitutiva come lo è stata del sistema feudale di famigerata memoria


14. — Considerazioni conclusive: pluralismo e progressiva attuazione dell’assolutismo politico Altro il pluralismo costruttivo, altro il pluralismo anarchico. Il pluralismo, di per se stesso, è una forza centrifuga, è una forza disgregante la società per ciò stesso che si traduce nel bellum omnium contra omnes (“la guerra di tutti conto tutti”). Il pericolo ad esso immanente può essere superato solo in tre modi. Il primo, è basato sulla individuazione di valori, ultimi, generalissimi, comuni a tutti gli essere umani, all’interno dei quali può dispiegarsi il pluralismo, in quanto loro espressione, in quanto modalità capace di importarne una più puntuale applicazione. Tali valori, afferenti alla cultura dell’umanesimo, possono, così, essere sintetizzati: 1) la fonte primaria del sapere umano è il Liber Naturae, donde il precetto primario “sapere oportet” (doverosità della conoscenza”); 2) esistenza di un principio metafisico che dà ragione dell’esistente; 3) affermazione della inherent dignity (dignità ontologica), tale in quanto connessa agli inherent rights (diritti ontologicamente inerenti alla natura umana); 4) conseguente prescrizione dell’etica informata alla “alieni abstinentia” (“astenersi da ciò che è altrui”); 5) primato della famiglia eterosessuale; 6) natura strumentale delle religiosità rispetto alla loro attuazione. Donde, complessivamente, discende che, tanto la persona umana quanto la società politica cui essa dà luogo, devono perseguire il raggiungimento di “un livello sempre più elevato di moralità, di conoscenza e di benessere”, vale a dire, la liberazione, per quanto umanamente possibile, dalla ignoranza, causa primaria del male sia fisico che morale, causa primaria della ingiustizia. Il secondo dei modi diretto a contenere gli effetti nega-

tivi dell’individualismo e della poliarchia è costituito dal ricorso al valore della tolleranza. Per altro, nella sua più elevata teorizzazione, il presupposto che ne sta alla base è il convincimento secondo cui la verità non esiste e, pertanto, tutto è ugualmente vero ed ugualmente falso, tutto, dunque, deve essere ammesso, appunto, tollerato: “i concetti di giustizia, di uguaglianza, di felicità, di tolleranza, tutti i concetti insomma che nei secoli precedenti il nostro si credevano una cosa sola con la ragione o sanzionati da essa, hanno perso le loro radici intellettuali. Sono ancora scopi e fini, ma non esiste più nessuna entità razionale autorizzata a darne un giudizio positivo e a metterli in rapporto con una realtà oggettiva. Confermati da venerabili documenti storici, godono ancora di un certo prestigio; alcuni di essi informano le leggi di alcuni grandi paesi. Tuttavia, manca ad essi ogni conferma da parte della ragione, intesa nel senso moderno del termine” (M. Horkheimer). Il presupposto della tolleranza, eretta a sistema di governo, è, dunque, il pluralismo delle verità, ovvero, il nichilismo, vale a dire, l’antiumanesimo. Per altro, l’“Eclisse della ragione” (M. Horkheimer) non può non portare con sé la cultura della violenza, il riemergere dei fondamentalismi religiosi, di quella “eccessiva liberta” prodromica del passaggio all'assolutismo politico e religioso: “L'eccessiva libertà [...] non può trasformarsi che in eccessiva schiavitù, per un privato, come per uno Stato [...] E' naturale, quindi, [...] che la tirannide non si formi da altra costituzione che la democrazia: cioè [...] dalla somma libertà viene la schiavitù maggiore e più feroce” (Platone). Viene, così, in considerazione il terzo dei modi con cui la forza disgregante del pluralismo viene eliminata. Esso consiste nel ricorso all’assolutismo politico (T. Hobbes).

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15. — I prodromi papisti Come posto in evidenza da Marx, tutti i sistemi economici basati sull’oligopolio, quindi, sulla oligarchia, sul conseguente assoggettamento dell’essere umano, necessitano di una sovrastruttura religiosa che li giustifichi, che ne induca la doverosa sopportazione, che delegittimi le eventuali opposizioni soprattutto di natura culturale. Il sistema capitalistico della produzione non fa eccezione. Il processo volto a dotarlo di un supporto religioso è appena agli inizi e, nell’area occidentale, sembra delinearsi nel senso di un lento, ma progressivo, trapasso del protestantesimo al papismo. L’assolutismo papista e l’assolutismo capitalista, la negazione dei diritti umani, ovvero, la loro strumentalizzazione al soddisfacimento delle rispettive esigenze, il fatto che la Chiesa sia parte integrante del tessuto capitalistico in quanto fonte economica per la copertura delle sue ingentissime necessità, il pirronismo del primo (espressione tratta da D. Antiseri), il nichilismo del secondo, sono i presupposti che ne rendono possibile la confluenza. Momento indicativo di questa tendenza è, senza dubbio, il discorso tenuto dal Papa al Parlamento Europeo il 25 novembre 2014. Preliminarmente ci si deve domandare come sia stato possibile che tale organo abbia potuto invitare il capo della sé dicente Santa Sede perché pronunziasse un discorso avente ad oggetto la politica europea. Questo ente non è parte degli Stati costitutivi dell’Unione e, tuttavia, al suo rappresentante è stata data la possibilità di prendere la parola per giunta in veste di soggetto gerarchicamente sovraordinato avente il diritto di sindacarne lo svolgimento politico. La domanda diviene: qual è la componente sociale rappresentata dal Papa? Verrebbe di rispondere, quella cattolica. Per altro, i cittadini cattolici sono rappresentati dai parlamentari che essi hanno concorso ad eleggere, per questa via, sono rappresentati dall'Unione stessa. Ma, allora, è inammissibile che l’elettorato cattolico benefici di una doppia rappresentanza: quella parlamentare e quella della sé dicente Santa Sede. In questo modo, infatti, si verifica una inammissibile discriminazione nei confronti dei cittadini non cattolici. Chi rappresenta, dunque, il Papa? La risposta è semplice: niente meno che il Dio trinitario di cui egli assume di essere il vicario sulla terra (“Pontifex Christi vicarius”), in quanto tale padrone di tutto e di tutti. A questo punto, si affaccia una serie di ulteriori domande: è possibile che il Parlamento europeo, nel terzo millennio, inviti a parlare un soggetto che si pone come vicario di Dio, di conseguenza come beneficiario del dogma della infallibilità, come depositario della potestas absoluta su tutta l’umanità? E’ possibile che il Parlamento, mediante tale invito, abdichi alla propria sovranità essendo impossibile una relazione paritaria con chi assume di essere Dio in terra? Come può il fautore della cultura dell’assolutismo religioso e politico assumere la veste di protagonista in un contesto parlamentare che si richiama alla Carta europea dei diritti dell’uomo, per questa via, alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo votata dalle Nazioni Unite nel 1948? Su quali basi si è reso possibile che la Chiesa cattolica, dopo avere scomunicato la Riforma protestante, l’Illuminismo, il cristianesimo illuministico, il pensiero socialista, dopo essersi resa responsabile della guerra dei trent’anni (16181648) al fine di ripristinare il proprio assolutismo sull’Europa, prenda la parola nel Parlamento europeo nato dall’anticattolicesimo?

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Come è possibile che il Papa torni a fondare sul cristianesimo la formazione dell’Europa moderna senza distinguere tra il cristianesimo cattolico, il cristianesimo protestante, il cristianesimo illuministico, senza separare, vale a dire, il cattolicesimo dal cristianesimo che ha effettivamente concorso alla sua costruzione? Come è possibile che parli di democrazia, di dignità della persona umana, quando è capo di un corpo ecclesiastico ridotto in schiavitù in quanto privato della libertà di coscienza, di parola e di movimento, quando è guida di un corpo ecclesiastico basato sulla discriminazione della donna; quando è al vertice di una istituzione che definisce gli human rights un “deliramentum” (“deliramento”), un “pestilentissimus error” (“pestilentissimo errore”), una “immoderata libertas” (“immoderata libertà”), una “summa impudentia” (“somma impudenza”), come “mors animae” (“morte dell’anima”) (Gregorius XVI, Ep. encycl. “Mirari vos”), come “gravissimus error” (“gravissimo errore”) (Pius IX, Ep. encycl. “Quanto conficiamur”), come “horrendum systema” (“orrendo sistema”) (Pius IX, Ep. encycl. “Qui pluribus”); quando in tale sua qualità qualifica come “pretestuoso contrapporre i diritti della coscienza al vigore obiettivo della legge interpretata dalla Chiesa” (Ioannes Paulus II, Discorso ai partecipanti ad un corso promosso dalla Penitenzieria Apostolica, in OR, 17/18 Marzo 1997, §. 5, p. 7)? Come può il Papa lamentare la separazione della Unione Europea dai cittadini, quando il principio di sussidiarietà, che la esprime, rinviene nel cattolicesimo, nel Diritto canonico, la sua più elevata teorizzazione? Come può invitare al dialogo? Che dialogo può esserci con chi assume di possedere la verità divina, con chi, di conseguenza, pone la controparte dialogante nella dimensione dell’errore? Che altra funzione, allora, può avere questo dialogo se non quella di corrompere l’interlocutore? Come è possibile che il Papa si dichiari favorevole ad una “Europa protagonista, portatrice di scienza” quando la condanna di Galileo Galilei, del fondatore della scienza moderna, non è stata revocata, avendo formato oggetto solo di ininfluenti scuse?


Come può denunciare i mali del capitalismo, come può pronunziarsi contro la povertà di cui esso è responsabile, contro la “cultura dello scarto”, quando la Chiesa ne è parte costitutiva ed integrante traendo da tale sistema le ingentissime risorse finanziarie di cui necessita per lo svolgimento della propria azione, quando a causa di questi stessi prelievi è essa stessa causa non secondaria di quella medesima povertà, di quella medesima “cultura dello scarto”? Come può il rappresentante di una istituzione, che è stata condannata dalle Nazioni Unite per pedofilia, venire a parlare di etica? Come può il rappresentante religioso dei paesi afferenti all’area della Controriforma (Italia, Spagna Portogallo, etc.), della palle al piede dell’Unione Europea, parlare di politica economica? Come è possibile che questo Papa dichiari non tollerabile che “il Mar Mediterraneo diventi un grande cimitero”, quando egli stesso ha aperto le frontiere meridionali italiane alla libera immigrazione incrementando significativamente e ingiustificatamente il fenomeno delle traversate disperate, rendendosi, quindi, moralmente responsabile dei relativi naufragi? Come è possibile, infine, che il Papa si permetta, nel Parlamento europeo, di proporne l’assoggettamento al proprio potere, di indicare, quindi, l’assolutismo papista come il rimedio alla sua inadeguatezza politica e culturale? L’iniziativa del Parlamento Europeo costituisce, dunque, una grave offesa allo spirito democratico che ha animato ed anima i cittadini europei, delegittima il secolare itinerario storico che si è reso necessario per consentirne la istituzione. Per altro, l’assurdità di tale iniziativa non è priva di una inquietante motivazione. Il sistema capitalistico della produzione evolve lungo tre precise direzioni: l’oligopolio, le delocalizzazioni, l’implementazione del nichilismo. Alla prima, si connette il progressivo tramonto della democrazia. Come, infatti, non si è mancato di osservare, l’“avvento della globalizzazione [...] ha, in larga misura, vanificato la tradizionale funzione della democrazia, spostando, progressivamente in ambiti transnazionali, sui quali i cittadini dei singoli

Stati non possono influire, le sedi in cui si formano le decisioni che toccano i loro destini” (F. Galgano). La seconda è responsabile, nell’area occidentale, del progressivo aumento della disoccupazione e della povertà, il progressivo tramonto del welfare state. Sul piano culturale, e si viene così alla terza delle direzioni, tali politiche sono sorrette dalla diffusione del nichilismo, vale a dire, dalla filosofia dell’antiumanesimo. Quella assurdità, allora, è solo apparente. Così come il cattolicesimo, in virtù dell’assolutismo pontificio, ha rappresentato la sovrastruttura religiosa e politica dell’oligopolio romano, prima, e feudale, poi, parimenti, si candida a divenire la sovrastruttura religiosa e politica dell’oligopolio capitalistico. Così come la charitas papista è stata strumentale rispetto alle esigenze della rendita feudale, tale rimane, mutatis mutandis, nei riguardi del profitto capitalistico. Su questa strada si muove la celebrazione del prossimo anniversario della Riforma (2017) che verrà, infatti, svolto all’insegna di una tendenziale riconciliazione dei protestanti, in particolare, dei luterani, con il papismo, di una tendenziale riproposizione di quella vocazione al Führer Prinzip per certi versi tipica del popolo tedesco, di quella vocazione verso la tragedia posta in luce da Karl Barth, richiamando il pensiero espresso da Georges Clemenceau: “l’essenza dell’uomo sta nell’amare la vita. Il tedesco non conosce tale culto della vita. Vi è nell’anima tedesca, nell’arte, nel pensiero e nella letteratura di questa gente una sorta d’incomprensione per tutto ciò che la vita è realmente, ciò che costituisce il suo fascino e la sua grandezza, e al suo posto c’è un amore morboso e satanico per la morte. Questa gente ama la morte. Questa gente ha una divinità che considera con tremore, e tuttavia col sorriso dell’estasi, come se fosse colta da una vertigine. E questa divinità è la morte. [...] Il tedesco, le boche, le va incontro come se fosse la sua amica più cara” (Barth K., Pace e giustizia sociale, I, I tedeschi e noi, trad. it. Festa F.S., Castelvecchi, Roma, 2014, p. 41). Parafrasando l’incipit del “Manifesto del Partito Comunista”, “un fantasma si aggira per l’Europa”, il papismo. L’ombra del Leviatano si fa sempre più estesa, l’inno della Marsigliese, l’Inno dei Lavoratori, riprendono ad essere sussurrati.


La FIOM e il “Principe” La FIOM ha lanciato il progetto della “coalizione sociale”. E’ troppo presto per esprimere valutazioni adeguatamente approfondite, essendo ancora in corso di elaborazione la complessità del nuovo progetto politico. Ne facciamo quindi solo una brevissima analisi, cercando di interpretarne (ci auguriamo correttamente) gli elementi fondamentali. Non si tratta di un “partito”, nel significato puramente elettorale al quale sono oggi ridotte quelle forme di associazione politica che ancora fanno impropriamente uso di quel “nome”; ma neppure di un “movimento”, con le caratteristiche protestatarie sovente caratterizzate dalla contigenza e monotematicità, prive di identificazione di classe e soprattutto di progetto ulteriore e dunque tutte, indistintamente, destinate ad esaurire la propria forza coagulante e propulsiva in un arco di tempo brevissimo, scomparendo o trasformandosi in “altro”. Nulla a che vedere, dunque, né con l’esperienza propriamente politico-governativa dalla Syriza greca; né con la contestazione sostanzialmente populista del “podemos” spagnolo. Molto di più, molto più nuovo o forse, in verità, moto più “antico”: è il ritorno a Marx. Il marxismo ci ha insegnato che è il tipo di gestione dell’economia che determina le caratteristiche sociali e culturali di una società. La società capitalista, nella quale viviamo, è caratterizzata dalla divisione in classi che oggi, in conseguenza della crisi indotta dal predominio della finanza sull’economia reale, sono ridotte sostanzialmente a due: da un lato i padroni della finanza che determinano le sorti del Mondo (occidentale) e dall’altro i “subalterni”. Chi sono i “subalterni”? Sono tutti coloro che con il loro lavoro (attuale, perso, in cerca di occupazione) creano la ricchezza, che viene poi espropriata e manipolata dai padroni. Per cambiare radicalmente questa società ingiusta occorre cambiare il sistema di produzione, distribuzione e appropriazione della ricchezza che viene dal lavoro. Per fare ciò occorre riunire tutti i “subalterni”, ridare loro la consapevolezza di essere, nelle pure infinite varietà di stato sociale (occupati e disoccupati, operai e impiegati e persino liberi professionisti), una unica classe sociale, la classe “subalterna”, la classe degli espropriati del prodotto del proprio lavoro e persino dello stesso diritto al lavoro. Non si tratta dunque di cambiare o influenzare un governo o un’amministrazione, mi di ribaltare i rapporti di forza del conflitto antagonista tra detentori e produttori della ricchezza insito nel sistema capitalista e ridare ai veri produttori della ricchezza, i lavoratori, il dominio sul loro prodotto e, per esso, sulle loro vite. Non un partito elettorale, dunque, né un movimento, ma una intera società (appunto una “coalizione sociale”) che riprende co-

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scienza di sé, dei suoi diritti e del suo ruolo sociale. In un Mondo di economia globalizzata la “coalizione sociale” dovrà necessariamente essere globale, perché il conflitto antagonista sociale non è nazionale, ma coinvolge l’intero sistema del capitalismo globalizzato. Ogni movimento ha bisogno di una guida, di una avanguardia che recepisca e riunifichi le più varie istanze economiche, politiche e sociali e le riconduca a unità per tutta la classe rappresentata. La FIOM, almeno per l’Italia, sembra proporsi come il “soggetto politico” in grado di stimolare, unificare e guidare questa immensa coalizione di classe. Il sindacato si fa “soggetto politico”, esce dal ruolo puramente difensivo o rivendicativo della fabbrica, o comunque del luogo di lavoro degli occupati, per raccogliere l’intero universo dei “subalterni” (lavoratori, disoccupati, in cerca di lavoro, ecc.). Il marxismo leninismo ci ha insegnato che questo ruolo spetta al “partito” della classe: al Partito Comunista; ma ci ha anche insegnato che un pensiero scientifico non ammette dogmi o stereotipi immodificabili e, ancora di più, che ogni realtà deve esprimere la proprio tipicità. In occidente i partiti politici sono scomparsi dopo avere perso il contatto con la propria classe. I sindacati, al contrario, sono gli unici soggetti associativi che ancora oggi hanno mantenuto uno stretto rapporto organico di identificazione con la propria classe. Spetterà al sindacato, divenuto “soggetto politico” assumere la guida della “coalizione sociale” (della classe)? Lo vedremo e sinceramente ce lo auguriamo. Per ora ricordiamoci di uno dei più grandi pensatori del Mondo che proprio al tema della guida della classe ha dedicato grande parte del proprio lavoro: Antonio Gramsci. A fianco e a seguire pubblichiamo alcuni estratti dai suoi Quaderni scritti nel carcere fascista dedicati, appunto, alla individuazione del “novello Principe” come Gramsci usava chiamare il Partito Comunista, guida della classe operaia, sviluppando criticamente la prima intuizione di teoria politica elaborata da Nicolò Machiavelli alcuni secoli prima. Lo scritto non è di facile lettura perché si tratta di appunti vari che Gramsci non poté rielaborare in forma organica a causa delle limitazioni imposte dal carcere fascista e può sembrare persino “datato”. Questo non è però assolutamente vero, perché oggi l’insegnamento politico di Gramsci guida la rinascita sostanzialmente di tutto il sud America ed è notissimo anche in India. Sarà bene farne tesoro anche per l’imminente “rivoluzione culturale” lanciata dal progetto di “coalizione sociale” della FIOM. Ci torneremo sicuramente nei prossimi numeri. (SR)


dai Quaderni del Carcere di Antonio Gramsci Il Principe del Machiavelli potrebbe essere studiato come una esemplificazione storica del «mito» sorelliano, cioè di una ideologia politica che si presenta non come fredda utopia né come dottrinario raziocinio, ma come una creazione di fantasia concreta che opera su un popolo disperso e polverizzato per suscitarne e organizzarne la volontà collettiva. Il carattere utopistico del Principe è nel fatto che il «principe» non esisteva nella realtà storica, non si presentava al popolo italiano con caratteri di immediatezza obbiettiva, ma era una pura astrazione dottrinaria, il simbolo del capo, del condottiero ideale; ma gli elementi passionali, mitici, contenuti nell'intero volumetto, con mossa drammatica di grande effetto, si riassumono e diventano vivi nella conclusione, nell'invocazione di un principe, «realmente esistente». Nell'intero volumetto Machiavelli tratta di come deve essere il Principe per condurre un popolo alla fondazione del nuovo Stato, e la trattazione è condotta con rigore logico, con distacco scientifico: nella conclusione il Machiavelli stesso si fa popolo, si confonde col popolo, ma non con un popolo «genericamente» inteso, ma col popolo che il Machiavelli ha convinto con la sua trattazione precedente, di cui egli diventa e si sente coscienza ed espressione, si sente medesimezza: pare che tutto il lavoro «logico» non sia che un'autoriflessione del popolo, un ragionamento interno,

che si fa nella coscienza popolare e che ha la sua conclusione in un grido appassionato, immediato. La passione, da ragionamento su se stessa, ridiventa «affetto», febbre, fanatismo d'azione. Ecco perché l'epilogo del Principe non è qualcosa di estrinseco, di «appiccicato» dall'esterno, di retorico, ma deve essere spiegato come elemento necessario dell'opera, anzi come quell'elemento che riverbera la sua vera luce su tutta l'opera e ne fa come un «manifesto politico». Si può studiare come il Sorel, dalla concezione dell'ideologia-mito non sia giunto alla comprensione del partito politico, ma si sia arrestato alla concezione del sindacato professionale. È vero che per il Sorel il «mito» non trovava la sua espressione maggiore nel sindacato, come organizzazione di una volontà collettiva, ma nell'azione pratica del sindacato e di una volontà collettiva già operante, azione pratica, la cui realizzazione massima avrebbe dovuto essere lo sciopero generale, cioè un'«attività passiva» per così dire, di carattere cioè negativo e preliminare (il carattere positivo è dato solo dall'accordo raggiunto nelle volontà associate) di una attività che non prevede una propria fase «attiva e costruttiva». Nel Sorel dunque si combattevano due necessità: quella del mito e quella della critica del mito in quanto «ogni piano prestabilito è utopistico e reazionario». La soluzione era abbandonata all'impulso dell'irrazionale, dell'«arbitrario» (nel senso bergsoniano di «impulso vitale») ossia della «spontaneità».

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Può un mito però essere «non-costruttivo», può immaginarsi, nell'ordine di intuizioni del Sorel, che sia produttivo di effettualità uno strumento che lascia la volontà collettiva nella sua fase primitiva ed elementare del suo mero formarsi, per distinzione (per «scissione») sia pure con violenza, cioè distruggendo i rapporti morali e giuridici esistenti? Ma questa volontà collettiva, così formata elementarmente, non cesserà subito di esistere, sparpagliandosi in una infinità di volontà singole che per la fase positiva seguono direzioni diverse e contrastanti? Oltre alla quistione che non può esistere distruzione, negazione senza una implicita costruzione, affermazione, e non in senso «metafisico», ma praticamente, cioè politicamente, come programma di partito. In questo caso si vede che si suppone dietro la spontaneità un puro meccanicismo, dietro la libertà (arbitrio-slancio vitale) un massimo di determinismo, dietro l'idealismo un materialismo assoluto. Il moderno principe, il mito-principe non può essere una persona reale, un individuo concreto, può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell'azione. Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico, la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali. Nel mondo moderno solo un'azione storico-politica immediata e imminente, caratterizzata dalla necessità di un procedimento rapido e fulmineo, può incarnarsi miticamente in un individuo concreto: la rapidità non può essere resa necessaria che da un grande pericolo imminente, grande pericolo che appunto crea fulmineamente l'arroventarsi delle passioni e del fanatismo, annichilendo il senso critico e la corrosività ironica che possono distruggere il carattere «carismatico» del condottiero (ciò che è avvenuto nell'avventura di Boulanger). Ma un'azione immediata di tal genere, per la sua stessa natura, non può essere di vasto respiro e di carattere organico: sarà quasi sempre del tipo restaurazione e riorganizzazione e non del tipo proprio alla fondazione di nuovi Stati e nuove strutture nazionali e sociali (come era il caso nel Principe del Machiavelli, in cui l'aspetto di restaurazione era solo un elemento retorico, cioè legato al concetto letterario dell'Italia discendente di Roma e che doveva restaurare l'ordine e la potenza di Roma), di tipo «difensivo» e non creativo originale, in cui, cioè, si suppone che una volontà collettiva, già esistente, si sia snervata, dispersa, abbia subito un collasso pericoloso e minaccioso ma non decisivo e catastrofico e occorra riconcentrarla e irrobustirla, e non già che una volontà collettiva sia da creare ex novo, originalmente e da indirizzare verso mete concrete sí e razionali, ma di una concretezza e razionalità non ancora verificate e criticate da una esperienza storica effettuale e universalmente conosciuta. Il carattere «astratto» della concezione sorelliana del «mito» appare dall'avversione (che assume la forma passionale di una repugnanza etica) per i giacobini che certamente furono una «incarnazione categorica» del Principe di Machiavelli. Il moderno Principe deve avere una parte dedicata al giacobinismo (nel significato integrale che questa nozione ha avuto storicamente e deve avere concettualmente), come esemplificazione di come si sia formata in concreto e abbia operato una volontà collettiva che almeno per alcuni aspetti fu creazione ex novo, originale. E occorre che sia definita la volontà collettiva e la volontà politica in generale nel senso moderno, la volontà come coscienza operosa della necessità storica, come pro-

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tagonista di un reale ed effettuale dramma storico. Una delle prime parti dovrebbe appunto essere dedicata alla «volontà collettiva», impostando così la quistione: quando si può dire che esistano le condizioni perché possa suscitarsi e svilupparsi una volontà collettiva nazionalepopolare? Quindi un'analisi storica (economica) della struttura sociale del paese dato e una rappresentazione «drammatica» dei tentativi fatti attraverso i secoli per suscitare questa volontà e le ragioni dei successivi fallimenti. Perché in Italia non si ebbe la monarchia assoluta al tempo di Machiavelli? Bisogna risalire fino all'Impero Romano (questione della lingua, degli intellettuali ecc.), comprendere la funzione dei Comuni medioevali, il significato del Cattolicismo ecc.: occorre insomma fare uno schizzo di tutta la storia italiana, sintetico ma esatto. La ragione dei successivi fallimenti dei tentativi di creare una volontà collettiva nazionale-popolare è da ricercarsi nell'esistenza di determinati gruppi sociali, che si formano dalla dissoluzione della borghesia comunale, nel particolare carattere di altri gruppi che riflettono la funzione internazionale dell'Italia come sede della Chiesa e depositaria del Sacro Romano Impero ecc. Questa funzione e la posizione conseguente determina una situazione interna che si può chiamare «economico-corporativa», cioè, politicamente, la peggiore delle forme di società feudale, la forma meno progressiva e piú stagnante: mancò sempre, e non poteva costituirsi, una forza giacobina efficiente, la forza appunto che nelle altre nazioni ha suscitato e organizzato la volontà collettiva nazionale-popolare e ha fondato gli Stati moderni. Esistono finalmente le condizioni per questa volontà, ossia quale è il rapporto attuale tra queste condizioni e le forze opposte?


Tradizionalmente le forze opposte sono state l'aristocrazia terriera e più generalmente la proprietà terriera nel suo complesso, col suo tratto caratteristico italiano che è una speciale «borghesia rurale», eredità di parassitismo lasciata ai tempi moderni dallo sfacelo, come classe, della borghesia comunale (le cento città, le città del silenzio). Le condizioni positive sono da ricercare nell'esistenza di gruppi sociali urbani, convenientemente sviluppati nel campo della produzione industriale e che abbiano raggiunto un determinato livello di cultura storico-politica. Ogni formazione di volontà collettiva nazionale-popolare è impossibile se le grandi masse dei contadini coltivatori non irrompono simultaneamente nella vita politica. Ciò intendeva il Machiavelli attraverso la riforma della milizia, ciò fecero i giacobini nella Rivoluzione francese, in questa comprensione è da identificare un giacobinismo precoce del Machiavelli, il germe (più o meno fecondo) della sua concezione della rivoluzione nazionale. Tutta la storia dal 1815 in poi mostra lo sforzo delle classi tradizionali per impedire la formazione di una volontà collettiva di questo genere, per mantenere il potere «economico-corporativo» in un sistema internazionale di equilibrio passivo. Una parte importante del moderno Principe dovrà essere dedicata alla quistione di una riforma intellettuale e morale, cioè alla quistione religiosa o di una concezione del mondo. Anche in questo campo troviamo nella tradizione assenza di giacobinismo e paura del giacobinismo (l'ultima espressione filosofica di tale paura è l'atteggiamento maltusiano di B. Croce verso la religione). Il moderno Principe deve e non può non essere il banditore e l'organizzatore di una riforma intellettuale

e morale, ciò che poi significa creare il terreno per un ulteriore sviluppo della volontà collettiva nazionale popolare verso il compimento di una forma superiore e totale di civiltà moderna. Questi due punti fondamentali – formazione di una volontà collettiva nazionale-popolare di cui il moderno Principe è nello stesso tempo l'organizzatore e l'espressione attiva e operante, e riforma intellettuale e morale – dovrebbero costituire la struttura del lavoro. I punti concreti di programma devono essere incorporati nella prima parte, cioè dovrebbero «drammaticamente», risultare dal discorso, non essere una fredda e pedantesca esposizione di raziocini. Può esserci riforma culturale e cioè elevamento civile degli strati depressi della società, senza una precedente riforma economica e un mutamento nella posizione sociale e nel mondo economico? Perciò una riforma intellettuale e morale non può non essere legata a un programma di riforma economica, anzi il programma di riforma economica è appunto il modo concreto con cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale. Il moderno Principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell'imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume.


Si è detto che protagonista del Nuovo Principe non potrebbe essere nell'epoca moderna un eroe personale, ma il partito politico, cioè volta per volta e nei diversi rapporti interni delle diverse nazioni, quel determinato partito che intende (ed è razionalmente e storicamente fondato a questo fine) fondare un nuovo tipo di Stato. È da osservare come nei regimi che si pongono come totalitari, la funzione tradizionale dell'istituto della corona è in realtà assunta dal partito determinato, che anzi è totalitario appunto perché assolve a tale funzione. Sebbene ogni partito sia espressione di un gruppo sociale, e di un solo gruppo sociale, tuttavia determinati partiti appunto rappresentano un solo gruppo sociale, in certe condizioni date, in quanto esercitano una funzione di equilibrio e di arbitrato tra gli interessi del proprio gruppo e gli altri gruppi, e procurano che lo sviluppo del gruppo rappresentato avvenga col consenso e con l'aiuto dei gruppi alleati, se non addirittura dei gruppi decisamente avversari. La formula costituzionale del re o del presidente di repubblica che «regna e non governa» è la formula giuridica che esprime questa funzione di arbitrato; la preoccupazione dei partiti costituzionali di non «scoprire» la corona o il presidente, le formule sulla non responsabilità, per gli atti governativi, del capo dello Stato, ma sulla responsabilità ministeriale, sono la casistica del principio generale di tutela della concezione dell'unità statale, del consenso dei governati all'azione statale, qualunque sia il personale immediato di governo e il suo partito. Col partito totalitario queste formule perdono di significato e sono quindi diminuite le istituzioni che funzionavano nel senso di tali formule; ma la funzione stessa è incorporata dal partito, che esalterà il concetto astratto di «Stato» e cercherà con vari modi di dare l'impressione che la funzione «di forza imparziale» è attiva ed efficace. È l'azione politica (in senso stretto) necessaria perché si possa parlare di «partito politico»? Si può osservare che nel mondo moderno in molti paesi i partiti organici e fondamentali, per necessità di lotta o per altra causa, si sono frazionati in frazioni, ognuna delle quali assume il nome di Partito e anche di Partito indipendente. Spesso perciò lo Stato Maggiore intellettuale del Partito organico non appartiene a nessuna di tali frazioni ma opera come se fosse una forza direttrice a sé stante, superiore ai partiti e talvolta è anche creduto tale dal pubblico. Questa funzione si può studiare con maggiore precisione se si parte dal punto di vista che un giornale (o un gruppo di giornali), una rivista (o un gruppo di riviste), sono anch'essi «partiti» o «frazioni di partito» o «funzione di determinati partiti». Si pensi alla funzione del «Times» in Inghilterra, a quella che ebbe il «Corriere della Sera» in Italia, e anche alla funzione della così detta «stampa d'informazione», sedicente «apolitica», e perfino alla stampa sportiva e a quella tecnica. Del resto il fenomeno offre aspetti interessanti nei paesi dove esiste un partito unico e totalitario di Governo: perché tale Partito non ha più funzioni schiettamente politiche ma solo tecniche di propaganda, di polizia, di influsso morale e culturale. La funzione politica è indiretta: poiché se non esistono altri partiti legali, esistono sempre altri partiti di fatto o tendenze incoercibili legalmente, contro i quali si polemizza e si lotta come in una partita di mosca cieca. In ogni caso è certo che in tali partiti le funzioni culturali predominano, dando luogo a un linguaggio politico di gergo: cioè le quistioni politiche si rivestono di forme culturali e come tali diventano irrisolvibili.

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Ma un partito tradizionale ha un carattere essenziale «indiretto», cioè si presenta esplicitamente come puramente «educativo» (lucus ecc.), moralistico, di cultura (sic): ed è il movimento libertario: anche la così detta azione diretta («terroristica») è concepita come «propaganda» con l'esempio: da ciò si può ancora rafforzare il giudizio che il movimento libertario non è autonomo, ma vive al margine degli altri partiti, «per educarli», e si può parlare di un «libertarismo» inerente a ogni partito organico. (Cosa sono i «libertari intellettuali o cerebrali» se non un aspetto di tale «marginalismo» nei riguardi dei grandi partiti dei gruppi sociali dominanti?). La stessa «setta degli economisti» era un aspetto storico di questo fenomeno. Si presentano pertanto due forme di «partito» che pare faccia astrazione (come tale) dall'azione politica immediata: quello costituito da una élite di uomini di cultura, che hanno la funzione di dirigere dal punto di vista della cultura, dell'ideologia generale, un grande movimento di partiti affini (che sono in realtà frazioni di uno stesso partito organico) e, nel periodo più recente, partito non di élite, ma di masse, che come masse non hanno altra funzione politica che quella di una fedeltà generica, di tipo militare, a un centro politico visibile o invisibile (spesso il centro visibile è il meccanismo di comando di forze che non desiderano mostrarsi in piena luce ma operare solo indirettamente per interposta persona e per «interposta ideologia»).


La massa è semplicemente di «manovra» e viene «occupata» con prediche morali, con pungoli sentimentali, con miti messianici di attesa di età favolose in cui tutte le contraddizioni e miserie presenti saranno automaticamente risolte e sanate. Quando si vuol scrivere la storia di un partito politico, in realtà occorre affrontare tutta una serie di problemi molto meno semplici di quanto creda, per es., Roberto Michels che pure è ritenuto uno specialista in materia. Cosa sarà la storia di un partito? Sarà la mera narrazione della vita interna di una organizzazione politica? come essa nasce, i primi gruppi che la costituiscono, le polemiche ideologiche attraverso cui si forma il suo programma e la sua concezione del mondo e della vita? Si tratterebbe in tal caso, della storia di ristretti gruppi intellettuali e talvolta della biografia politica di una singola individualità. La cornice del quadro dovrà, adunque, essere più vasta e comprensiva. Si dovrà fare la storia di una determinata massa di uomini che avrà seguito i promotori, li avrà sorretti con la sua fiducia, con la sua lealtà, con la sua disciplina o li avrà criticati «realisticamente» disperdendosi o rimanendo passiva di fronte a talune iniziative. Ma questa massa sarà costituita solo dagli aderenti al partito? Sarà sufficiente seguire i congressi, le votazioni, ecc., cioè tutto l'insieme di attività e di modi di esistenza con cui una massa di partito manifesta la sua volontà? Eviden-

temente occorrerà tener conto del gruppo sociale di cui il partito dato è espressione e parte piú avanzata: la storia di un partito, cioè, non potrà non essere la storia di un determinato gruppo sociale. Ma questo gruppo non è isolato; ha amici, affini, avversari, nemici. Solo dal complesso quadro di tutto l'insieme sociale e statale (e spesso anche con interferenze internazionali) risulterà la storia di un determinato partito, per cui si può dire che scrivere la storia di un partito significa niente altro che scrivere la storia generale di un paese da un punto di vista monografico, per porne in risalto un aspetto caratteristico. Un partito avrà avuto maggiore o minore significato e peso, nella misura appunto in cui la sua particolare attività avrà pesato più o meno nella determinazione della storia di un paese. Ecco quindi che dal modo di scrivere la storia di un partito risulta quale concetto si abbia di ciò che è un partito o debba essere. Il settario si esalterà nei fatterelli interni, che avranno per lui un significato esoterico e lo riempiranno di mistico entusiasmo; lo storico, pur dando a ogni cosa l'importanza che ha nel quadro generale, poserà l'accento soprattutto sull'efficienza reale del partito, sulla sua forza determinante, positiva e negativa, nell'aver contribuito a creare un evento e anche nell'aver impedito che altri eventi si compissero.

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Le lingue degli “altri”

Proseguiamo la rubrica “Le lingue degli altri” pubblicando un estratto dal libro: “Il razzismo spiegato a mia figlia”, un romanzo scritto in forma di dialogo (domanda-risposta) dallo scrittore franco-marocchino Tahar Ben Jelloun e pubblicato nel 1998. È stato tradotto in oltre 25 lingue. Ben Jelloun è convinto della possibilità e del dovere di educare i giovani ai valori del rispetto e della tolleranza. Ne siamo ovviamente convinti anche noi e con questa pubblicazione vorremo fornire sia ai più giovani, ma soprattutto ai più grandi che hanno il dovere di educare i più giovani, uno spunto e uno strumento di discussione e riflessione. Utilizziamo la tecnica del “testo a fronte” per agevolare la lettura anche a coloro che non conoscono il francese, lingua bella, ricca e complessa non meno di quella italiana, tuttavia sempre più marginalizzata a vantaggio di un ben più misero “codice” inglese da business. Ci scusiamo, ovviamente, con i conoscitori della lingua francese per la traduzione “artigianale”. (SR)

Le Racisme expliqué à ma fille Extrait du livre de Tahar Ben Jelloun

Il Razzismo spiegato a mia figlia Estratto dal libro di Tahar Ben Jelloun

- Si j’ai bien compris, le raciste a peur de l’étranger parce qu’il est ignorant, croit qu’il existe plusieurs races et considère la sienne comme la meilleure? - Oui, ma fille. Mais ce n’est pas tout. Tu as oublíé la violence et la volonté de dominer les autres. - Le raciste est quelqu’un qui se trompe. - Les racistes sont convaincus que le groupe auquel ils appartiennent – qui peut être défini par la religion, le pays, la langue, ou tout ensemble – est supérieur au groupe d’en face. - Comment font-ils pour se sentir supérieurs? - En croyant et en faisant croire qu’il existe des inégalités naturelles d’ordre physique, qui leur donne un sentiment de supériorité pas rapport aux autres. Ainsi, certains se réfèrent à la religion pour justifier leur comportement ou leur sentiment. Il faut dire que chaque religion croit être la meilleure pour tous et a tendance à proclamer que ceux qui ne la suivent pas font fausse route. - Tu dis que les religions sont racistes? - Non, ce ne sont pas les religions qui sont racistes, mais ce que les hommes en font parfois et qui se nourrit du racisme. En l’an 1095, le pape Urbain II lança, à partir de la ville de Clermont-Ferrand, une guerre contre les musulmans, considérés comme des infidèles. Des milliers de chrétiens partirent vers les pays d’Orient massacrer les Arabes et les Turcs. Cette guerre, faite au nom de Dieu, prit le nom de “Croisades”. [La croix, symbole de chrétienté, contre le croissant, symbole des musulmans]. Entre le XIème et le XVème siècle, les chrétiens d’Espagne ont expulsé les musulmans, puis les Juifs en invoquant des raisons religieuses. Ainsi, certains prennent appui sur les livres sacrés pour justifier leur tendance à se dire supérieurs aux autres. Les guerres de religion sont fréquentes.

- Se ho capito il razzista ha paura dello straniero perché è ignorante, crede che ci sono diverse razze e lui si considera come il migliore? - Sì, figlia mia. Ma non è tutto. Hai dimenticato la violenza e la volontà di dominare gli altri. - Il razzista è qualcuno che sbaglia. - I razzisti sono convinti che il proprio gruppo di appartenenza - che può essere definito dalla religione, paese, lingua, o l’insieme di queste cose - è superiore rispetto al gruppo opposto. - Come mai si sentono superiori? - Credendo e facendo credere che ci sono diseguaglianze naturali fisiche che gli danno un senso di superiorità sugli altri. Così, alcune persone si riferiscono alla religione per giustificare il loro comportamento o sentimento. Va detto che ogni religione credi di essere la migliore per tutti e tende a proclamare che coloro che non la seguono sbagliano. - Tu dici che le religioni sono razziste? - No, non sono le religioni che sono razziste, ma ciò che gli uomini ne fanno a volte che alimenta il razzismo. Nel 1095, papa Urbano II ha lanciato dalla città di Clermont-Ferrand, una guerra contro i musulmani, considerati infedeli. Migliaia di cristiani sono partiti verso i paesi dell’Oriente per fare strage di arabi e di turchi. Questa guerra, fatta nel nome di Dio, prese il nome di "Crociate". [La croce, simbolo della cristianità contro la mezzaluna, simbolo dei musulmani]. Tra l'XI e il XV secolo, i cristiani della Spagna hanno cacciato i musulmani e gli ebrei, adducendo motivi religiosi. Così alcuni prendono spunto dai libri sacri per giustificare la loro tendenza a dirsi superiori agli altri. Le guerre di religione sono frequenti.

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- Mais tu m’as dit un jour que le Coran était contre le racisme. - Oui, le Coran, comme la Thora ou la Bible, tous les livres sacrés sont contre le racisme. Le Coran dit que les hommes sont égaux devant Dieu et qu’ils sont différents par l’intensité de leur foi. Dans la Thora, il est écrit: “si un étranger vient séjourner avec toi, ne le moleste point, il sera pour toi comme un de tes compratriotes... et tu l’aimeras comme toi-même.” La Bible insiste sur le respect du prochain, c’est à dire de l’autre être humain, qu’il soit ton voisin, ton frère ou un étranger. Dans le Nouveau Testament, il est dit: “Ce que je vous commande, c’est de vous aimer les uns les autres”, et “Tu aimeras ton prochain comme toi-même”. Toutes les religions prêchent la paix entre les hommes. - L’autre jour à la télévision, quand il y a eu des attentats, un raciste, d’après toi? - Non, il n’est pas raciste, il est ignorant et incompétent. Ce journaliste confond l’islam et la politique. Ce sont des hommes politiques qui utilisent l’islam dans leurs luttes. On les appelle les intégristes. - Ce sont des racistes? - Les intégristes sont des fanatiques. Le fanatique est celui qui pense qu’il est le seul à détenir la Vérité. Souvent, le fanatisme et la religion vont ensemble. Les intégristes existent dans la plupart des religions. Ils se croient inspirés par l’esprit divin. Ils sont aveugles et passionnés et veulent imposer leurs convictions à tous les autres. Ils sont dangereux, car ils n’accordent pas de prix à la vie des autres. Au nom de leur Dieu, ils sont prêts à tuer et même à mourir; beaucoup sont manipulés par un chef. Evidemment, ils sont racistes.

- Ma tu mi ha detto un giorno che il Corano era contro il razzismo. - Sì, il Corano, come la Torah o la Bibbia, tutti i libri sacri sono contro il razzismo. Il Corano dice che gli uomini sono uguali davanti a Dio e che sono diversi per l'intensità della loro fede. Nella Torah è scritto: "se uno straniero viene presso di voi, non caccia telo, ma accoglietelo come un compatriota... e amatelo come amate voi stessi." La Bibbia insiste sul rispetto per gli altri, cioè per un altro essere umano, che sia un tuo vicino, fratello o estraneo. Nel Nuovo Testamento si dice: "Quello che io vi comando che vi amiate gli uni gli altri" e "Ama il prossimo tuo come te stesso." Tutte le religioni predicano la pace tra gli uomini. - L'altro giorno in tv, quando ci sono stati degli attentati, il giornalista era razzista secondo te? - No, non è razzista, è ignorante e incompetente. Questo giornalista confonde l'Islam e la politica. Questi sono i politici che usano l'Islam nelle loro lotte. Sono chiamati fondamentalisti. - Sono razzisti? - I fondamentalisti sono fanatici. Il fanatico è colui che pensa di essere l'unico a possedere la verità. Spesso, il fanatismo e la religione vanno insieme. Esistono fondamentalisti in maggior parte delle religioni. Pensano che si ispirano allo spirito divino. Sono ciechi e appassionati e vogliono imporre le proprie convinzioni su tutti gli altri. Sono pericolosi perché non danno valore alla vita degli altri. Il nome del loro Dio, sono disposti a uccidere e anche a morire; molti vengono manipolati da un capo. Ovviamente, sono razzisti.

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- C’est comme les gens qui votent pour Le Pen? - Le Pen dirige un parti politique fondé sur le racisme, c’estdire la haine de l’étranger, de l’immigré, la haine des musulmans, des Juifs, etc. - C’est le parti de la haine! - Oui, Mais tous ceux qui votent pour Le Pen ne sont peutêtre pas racistes... Je me le demande... Sinon, il y aurait plus de quatre millions de racistes en France! C’est beaucoup! On les trompe; ou bien ils ne veulent pas voir la réalité. En votant pour Le Pen, certains expriment un désarroi; mais ils se trompent de moyen. - Dis-moi, Papa, comment faire pour que les gens ne soient plus racistes? - Comme disait le général de Gaulle, “vaste programme”! La haine est tellement plus facile à installer que l’amour. Il est plus facile de se méfier, de ne pas aimer que d’aimer quelqu’un qu’on ne connaît pas.... - Alors, le raciste est quelqu’un qui n’aime personne et est égoiste. Il doit être malheureux. C’est l’enfer! - Oui, le racisme, c’est l’enfer. - L’autre jour, en parlant avec tonton, tu as dit. “L’enfer c’est les autres.” Qu’est-ce que cela veut dire? - Ça n’a rien à voir avec le racisme. C’est une expression qu’on utilise quand on est obligé de supporter des gens avec lesquels on n’a pas envie de vivre. - C’est comme le racisme. - Non, pas tout à fait, car il ne s’agit pas d’aimer tout le monde. Si quelqu’un, disons ton cousin turbulent, envahit ta chambre, déchire tes cahiers et t’empêche de jouer toute seule, tu n’es pas raciste parce que tu le mets hors de ta chambre. En revanche, si un camarade de classe, disons Abdou le Malien, vient dans ta chambre, se conduit raison qu’il est noir alors, là, tu es raciste. Tu comprends - D’accord, mais “L’enfer, c’est les autres”, je n’ai pas bien compris. - C’est une réplique tirée d’une pièce de Jean-Paul Sartre qui s’appelle Huis Clos. Trois personnages se retrouvent dans une belle chambre après leur mort, et pour toujours. Il devront vivre ensemble et n’ont aucun moyen d’en échapper. C’est ça l’enfer. D’où l’expression “L’enfer, c’est les autres.” Là, ce n’est pas du racisme. J’ai le droit de ne pas aimer tout le monde. Mais comment savoir quand ce n’est pas du racisme?....

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- Come sono le persone che votano per Le Pen? - Le Pen è a capo di un partito politico basato sul razzismo, cioè sull'odio verso gli stranieri, gli immigrati, l'odio contro i musulmani, gli ebrei, ecc - E’ il partito dell’odio! - Sì, ma ma non tutti quelli che votano per Le Pen sono razzisti ... mi chiedo ... Altrimenti ci sarebbero più di quattro milioni di razzisti in Francia! Questo è troppo! Si sbagliano; o non vogliono vedere la realtà. Votando per Le Pen alcuni esprimono disagio; ma sono sbagliati i mezzi. - Dimmi, papà, cosa si può fare perché non ci siano più razzisti? - Come diceva il generale de Gaulle occorre "programma globale"! L'odio è molto più facile da installare rispetto dell'amore. È più facile essere sospettosi, non amare che amare qualcuno che non conosci .... - Così, il razzista è qualcuno che non ama, è un egoista. Deve essere infelice. E’ un inferno! - Sì, il razzismo è un inferno. - L'altro giorno parlando con lo zio mi ha detto. "L'inferno sono gli altri". Cosa significa? - Non ha nulla a che fare con il razzismo. Si tratta di un termine usato quando si deve convivere con delle persone con le quali non si desidera vivere. - E' come il razzismo. - No, non del tutto, perché non si tratta di amare tutti. Se qualcuno, ad esempio tuo cugino turbolento, invade la tua stanza, strappa i tuoi taccuini e ti impedisce di giocare da sola, non sei razzista perché lo cacci dalla tua camera. Tuttavia, se un compagno di classe, ad esempio Abdou del Mali, entra nella tua stanza, è tu lo cacci perché è nero, allora in questo caso tu sei razzista. Mi capisci - Va bene, ma "L'inferno sono gli altri" non l’ho capito. - Si tratta di una citazione tratta da una commedia di Jean-Paul Sartre intitolata Huis Clos. Tre personaggi si trovano in una bella sala dopo la loro morte e dovranno restarci per sempre. Dovranno vivere insieme e non hanno via di scampo. Questo è l'inferno. Da qui l'espressione "l’inferno sono gli altri." In questo caso non c'entra il razzismo. Ho il diritto di non amare tutti. Ma come sapere quando non è razzismo? ...


Conclusion La lutte contre le racisme doit être un réflexe quotidien. Notre vigilance ne doit jamais baisser. Il faut commencer par donner l’exemple et faire attention aux mots qu’on utilise. Les mots sont dangereux. Certains sont employés pour blesser et humilier, pour nourrir la méfiance et même la haine. D’autres sont détournés de leur sens profond et alimentent des intentions de hiérarchie et de discrmination. D’autres sont beaux et heureux. Il faut renoncer aux idées toutes faites, à certains dictons et proverbes qui vont dans le sens de la généralisation et par conséquent du racisme. Il faudra arriver à éliminer de ton vocabulaire des expressions porteuses d’idées fausses et pernicieuses. La lutte contre le racisme commence avec le travail sur le langage. Cette lutte nécessite par ailleurs de la volonté, de la persévérance, et de l’imagination. Il ne suffit plus de s’indigner face à un discours ou un comportement. Il faut agir, ne pas laisser passer une dérive à caractère raciste. Ne jamais se dire: “Ce n’est pas grave!” Si on laisse faire et dire, on permet au racisme de prospérer et de se développer même chez des personnes qui auraient pu éviter de sombrer dans ce fléau. En ne réagissant pas, en n’agissant pas, on rend le racisme banal et arrogant. Sache que des lois existent. Elles punissent l’incitation à la haine raciale. Sache aussi que des associations et des mouvements qui luttent contre toutes les formes de racisme existent et font un travail formidable. A la rentrée des classes regarde tous les élèves et remarque qu’ils sont tous différents, que cette diversité est une belle chose. C’est une chance pour l’humanité. Ces élèves viennent d’horizons divers, ils sont capables de t’apporter des choses que tu n’as pas, comme toi, tu peux leur apporter quelque chose qu’ils ne connaissent pas. Le mélange est un enrichissement mutuel. Sache enfin que chaque visage est un miracle. Il est unique. Tu ne rencontreras jamais deux visages absolument identiques. Qu’importe la beauté ou la laideur. Ce sont des choses relatives. Chaque visage est le symbole de la vie. Toute vie mérite le respect. Personne n’a le droit d’humilier une autre personne. Chacun a droit a sa dignité. En respectant un être, on rend hommage, à travers lui, à la vie dans tout ce qu’elle a de beau, de merveilleux, de différent et d’inattendu. On témoigne du respect pour soi-même en traitant les autres dignement.

Conclusione La lotta contro il razzismo deve essere un impegno quotidiano. La nostra vigilanza non deve mai abbassarsi. Dobbiamo anzitutto dare l'esempio e prestare attenzione alle parole che usiamo. Le parole sono pericolose. Alcune sono usate per ferire e umiliare, per alimentare la diffidenza e persino odio. Altre sono deviate dal loro profondo senso e alimentate da intenzioni di gerarchia e discriminazione. Altri sono belle e felici. Dobbiamo abbandonare le idee preconcette, alcuni detti e proverbi che sono in linea con generalizzazioni e quindi vanno verso il razzismo. E alla fine eliminare dal proprio vocabolario espressioni che portano idee false e perniciose. La lotta contro il razzismo inizia con il lavoro sul linguaggio. Questa lotta richiede anche la volontà, la perseveranza e la fantasia. Non è sufficiente essere indignati contro un discorso o un comportamento. Dobbiamo agire, non lasciare passare una deriva razzista. Mai dire: "Non è grave!" Se lasciamo fare e dire, lasciamo che il razzismo prosperi e si sviluppi anche in persone che avrebbe potuto evitare di cadere in questa piaga. Non reagire, non agire, rende il razzismo banale e arrogante. Sappiate che esistono leggi. Esse puniscono l'istigazione all'odio razziale. Sappiate inoltre che esistono associazioni e movimenti che lottano contro ogni forma di razzismo e fanno un ottimo lavoro. Guardando una classe scolastica si vede che sono tutti diversi, che la diversità è una bella cosa. Questa è una possibilità per l'umanità. Questi studenti provengono da diversi retroterra, sono in grado di portare cose che tu non hai, si può dare loro qualcosa che non conoscono. La mescolanza è un arricchimento reciproco. Infine, sappiate che ogni faccia è un miracolo. È unica. Non incontrerai mai due volti assolutamente identici. Che importa la bellezza o la bruttezza. Sono cose relative. Ogni faccia è un simbolo di vita. Ogni vita merita rispetto. Nessuno ha il diritto di umiliare un'altra persona. Ogni individuo ha il diritto alla dignità. Rispettando un altro, onoriamo, attraverso di lui, la vita in tutto ciò che ha di bello, meraviglioso, diverso e inaspettato. Si dimostra rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità.


I “giovani” italiani, quale futuro e dove?

(aspettative, esperienze e storie a confronto) di Giacomo Bertini

Chi parte Quanti sono i nostri giovani connazionali che hanno deciso di intraprendere la strada della partenza? Sicuramente sono molti e non sempre si ha la possibilità di dar voce a costoro. In questa breve intervista prende la parola un ragazzo che sin dalla sua adolescenza è stato catturato da culture differenti, al fine di migliorare se stesso ed aprirsi a contesti socialmente diversificati. Durante questo lungo percorso di vita ha avuto modo di incontrare persone provenienti da ogni luogo, con molte delle quali si sono creati forti legami. Oggi lui vive a Bruxelles, e la sua storia merita di essere letta. Da quanto tempo oramai vivi fuori dall’Italia? Posso dire che manco dall’Italia in maniera continua da più o meno tre anni, a ciò vanno aggiunti due periodi di un anno prima e cinque mesi poi. Quando hai iniziato ad avere il desiderio di partire? Perché? Ho iniziato ad avere il desiderio di partire dopo aver fatto, durante la mia adolescenza, delle vacanze studio all’estero e aver conosciuto gente da tutta Europa. Successivamente, l’esperienza Erasmus in Svezia ha confermato ed accresciuto questo desiderio. Sicuramente il rap-

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porto che ho instaurato con dei ragazzi della mia età di altre nazionalità, ha spinto la mia curiosità a conoscere differenti realtà. Quale è stata la tua prima esperienza all’estero? La mia prima esperienza all’estero è stata una vacanza studio di due settimane a Londra. Poi? Oltre alla prima vacanza studio, ce sono state altre tre rispettivamente in Inghilterra ed a Malta. Successivamente durante la mia carriera universitaria ho sfruttato le occasioni messe a disposizione dall’Università di Perugia facendo l’Erasmus in Svezia di un anno. Prima della mia Laurea triennale ho inoltre svolto uno stage di cinque mesi a Bruxelles. Ed ora, dove ti trovi? Ora mi trovo a Bruxelles, l’esperienza dello stage mi ha fatto innamorare della città perciò ho deciso di stabilirmi qui. Perché sei arrivato a Bruxelles e perché hai deciso di viverci? Appena arrivato in città ho avuto la fortuna di incontrare ragazzi del posto che mi hanno fatto sentire parte della città dal primo momento. Non mi sono mai sentito uno straniero o fuori luogo, e per questo ho deciso di ritornarci per un periodo più lungo. Inoltre vorrei dire che

per apprezzare veramente Bruxelles non bisogna chiudersi nella bolla eurocratica che la città si è costruita negli ultimi anni. Se mi fossi rifugiato solamente nel contesto delle istituzioni europee e del mondo che ne gravita attorno, non sarei qui probabilmente. Cosa fai oggi a Bruxelles? In questo momento sono iscritto al secondo anno di Master in Relazioni Internazionali e a breve mi laureerò. Inoltre lavoro in un’Ong, USE-IT, che si occupa di turismo per giovani viaggiatori. Cosa ti ha offerto questa città che l’Italia non ti ha dato? Per prima cosa, Bruxelles mi ha donato un’ambiente giovanile, con molti divertimenti, eventi di ogni tipo e stimoli. Un’atmosfera distesa e mai opprimente. Da dove vengo in Italia purtroppo questo tipo di cose sono quasi inesistenti, e quando qualche giovane volenteroso prova ad organizzare un evento o cose del genere si percepisce sempre una forte opposizione da parte degli amministratori/forze dell’ordine. Inoltre, un aspetto molto importante di Bruxelles è la sua peculiarità di trovarsi nel cuore dell’Europa. Infatti da Bruxelles si possono raggiungere in poche ore molte città europee come Parigi, Amsterdam e Londra.


C’ è qualcosa che vorresti esportare dell’Italia nelle tue esperienze all’estero? Sfortunatamente mi viene in mente solo cibo. Cosa ti aspetti dal tuo futuro e dove vorresti essere? Mi aspetto di trovare un lavoro che mi dia soddisfazioni e vivere in una città stimolante. Sono certo che a Bruxelles di possibilità ce ne sono molte. In questo momento vorrei rimanere a vivere qui, o in una città come Amsterdam ad esempio. Non nascondo però che più passa il tempo più vorrei tornare a casa, anche se di stimoli ce ne sono veramente pochi. Come queste esperienze hanno inciso sulla tua vita? Queste esperienze mi hanno permesso di crescere moltissimo e aprirmi mentalmente. Durante questo lungo percorso ho avuto modo di incontrare persone da ogni parte d’Europa e non solo, con molte delle quali si sono creati forti legami. Viaggiare è sempre un’ottima occasione per andare a trovare amici conosciuti durante queste esperienze e scoprire nuove città dal punto di vista dei giovani del luogo. Grazie a tutte queste esperienze,

con un gruppo di amici abbiamo creato recentemente un sito internet che ha proprio come obiettivo quello di consigliare bar, ristoranti, spazi all’aperto, birrifici, festival musicali, eventi e molto altro in varie città europee, focalizzando l’attenzione su quei posti frequentati dagli autoctoni e cercando di evitare le classiche trappole per turisti. Il nome del sito è thevibetribe.eu e vi consiglio di darci un’ occhiata. Una delle maggiori difficoltà per i ragazzi che decidono di trasferirsi all’estero sono le lingue, tu come hai superato questo ostacolo? Ricordo ancora la mia prima volta in Inghilterra a 15 anni, in cui per farmi capire dovevo usare i gesti, nonostante avessi già studio l’inglese da almeno tre anni. Da li in poi ho cominciato a vedere i miglioramenti anno dopo anno, vacanza studio dopo vacanza studio. Incontrare amici di altre nazionalità è stata la cosa più importante per praticare e riuscire finalmente a parlare inglese. Il francese invece l’ho imparato grazie alla mia fidanzata e agli amici francesi conosciuti in Svezia. Andare spesso a trovarli mi ha permesso di praticarlo, e fi-

nalmente ho cominciato a ingranare. Questi tre anni a Bruxelles mi hanno ulteriormente permesso di perfezionarlo. Pensi che un giorno tornerai? Ne sono sicuro, e sono sempre convinto che l’Italia sia il più bel paese del mondo. Abbiamo tutto, il mare, le montagne, il cibo, il calore della gente. Ogni anno che passa mi manca sempre di più, ma per il momento so che non avrei molte possibilità, soprattutto lavorative. Che consigli daresti per chi come te ha una prospettiva di vita internazionale? Consiglio di non chiudersi mai mentalmente ed essere sempre disposti a conoscere culture differenti dalla propria. Solo così è possibile intraprendere una vita internazionale. Cosa pensi di avere in più o di avere perso rispetto ai tuoi coetanei che sono rimasti? Penso, e rischio di ripetermi, di essermi arricchito culturalmente, oltre ad aver appreso due lingue che se fossi rimasto a casa probabilmente non sarei capace di parlare. Quello che invece ho perso è il tempo che non ho trascorso con la famiglia, purtroppo è il prezzo da pagare.

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Chi resta

Perché tanti giovani italiani decidono di rimanere nel nostro Paese? Sicuramente motivi familiari, affettivi, lavorativi, economici o anche per le sostanziali difficoltà che un’esperienza all’estero può comportare. Poi, c’è chi resta perché è sicuro che in Italia stanno arrivando momenti migliori. E’ quindi la capacità di sperare e vedere al di là di un ostico presente un ottimo motivo per restare. Raccontami liberamente un po’ di te Sono un ragazzo nato nel lontano 1986. Mi sono diplomato nel 2005 come tecnico chimico-biologo, con la speranza di poter trovare dopo i miei studi un lavoro inerente a ciò che avevo appreso durante la carriera scolastica. Purtroppo, da dopo il diploma fino ad ora ho fatto un solo colloquio in un laboratorio chimico, quindi troppo poco per ambire al lavoro che desidero fare. La mancata opportunità è dovuta anche al fatto che nella nostra regione, aziende, laboratori che lavorano nel settore chimico-biologico non sono molto presenti, o comunque le offerte per tali impieghi richiedono di aver già maturato esperienza o possedere titoli di studio più alti. Quindi avendo preso atto della situazione locale, mi sono rimboccato le maniche ed ho svolto lavori completamente diversi da quello che avrei preferito, tuttavia continuando comunque a fare domande per il “lavoro dei sogni”. Cosa offre il territorio in cui vivi? Il territorio in cui vivo in questo preciso momento storico purtroppo offre sempre di meno per i motivi che oramai sappiamo tutti a memoria. Dal punto di vista lavorativo credo che ci sia un involuzione, si chiede sempre di più a chi lavora, ore, velocità, efficienza, anche se la velocità e la precisione o efficienza io le trovo due cose difficili da far convivere insieme in ambito lavorativo, e la maggior parte delle volte con contratti-stipendi ridicoli.

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La sensazione che si ha dell’Italia è che non sia un paese per giovani, cosa ne pensi? Credo che la definizione “l’Italia non è un paese per giovani” sia giusta, perché lo vediamo dalle persone che siedono nel nostro Parlamento. L’età media è di 54 anni, non c’è un ricambio generazionale, anche se devo dire che secondo me questo trend passerà ed i giovani diventeranno gli attori principi della riscossa italiana. Qual è la tua percezione dei giovani che vanno fuori? Cosa pensi di loro? Per i vari motivi che ho menzionato sopra, molti ragazzi fuggono da questo Paese per tentare la fortuna, fare un esperienza o studiare in un'altra nazione. Credo che la cosa sia estremamente giusta visto l’immobilità socio economica che stiamo vivendo. Anche io fino a poco tempo fa ho accarezzato l’idea di farmi un esperienza a stelle e strisce, fondamentalmente primo, per migliorare il mio inglese, secondo per provare cosa significa la parola lavoro in una nazione oltreoceano, ed infine mettere alla prova me stesso in un ambito completamente diverso da quello attuale. Purtroppo gli Stati Uniti sono una tra le nazioni più ostriche per poter provare a fare un esperienza lavorativa per un ragazzo non laureato Perché restare? I motivi principali del mio restare in questa nazione non sono chiari neanche a me. Tuttavia credo che la situazione attuale non può che risollevarsi visto il periodo brutto che stiamo passando, quindi magari inconsciamente resto in Italia perché vorrei vedere, anche se lenta, una piccola ma sostanziale riscossa che faccia aumentare la qualità di vita generale delle persone, magari ritornando al livello di benessere sociale degli anni novanta. Forse tutto ciò è frutto della mia utopia, però credo che qualcosa di buono dal futuro ce la meritiamo.


Terremoto Nepal Conoscete tutti l’evento del gravissimo terremoto che ha colpito il piccolo e poverissimo Stato del Nepal, investendo, peraltro, l’area più popolosa della Valle di Kathmandu con la stessa capitale. Immaginate, se non fossero stati sufficienti le notizie di stampa, la gravità della situazione umanitaria che sta vivendo. Per coloro che, come i cittadini di Foligno, hanno vissuto in prima persona l’esperienza di un terremoto, non è difficile comprendere lo stesso stato d’animo di quella popolazione, terrorizzata anche dal continuo ripetersi delle scosse, che sembrano tutt’altro che, come si usa dire, di assestamento, data la violenza che ripetutamente supera i picchi massimi del terremoto di Foligno del 1997. Scossa dopo scossa continuano a sgretolarsi molti edifici e infrastrutture già irreversibilmente compromesse dalle prime scosse di intensità impressionante. La conformazione morfologica del Nepal, paese montano con difficili e insufficienti infrastrutture viarie, rende quanto mai problematico lo stesso arrivo degli aiuti e la stagione prossima all’estate, paradossalmente, tende ad aggravare la situazione per la naturale fortissima piovosi-

tà monsonica. Tutto il Mondo si è mobilitato per fornire aiuti che, nella endemica povertà di quel piccolo Paese, iniziano dagli stessi mezzi di scavo per la ricerca di eventuali superstiti. Non parliamo di numeri di morti (lo fanno già sin troppo le televisioni), parliamo dei vivi e dei loro bisogni primari. Il Centro Studi Platone ONLUS che, con la gemella Plato Study Center NGO, da oltre 15 anni gestisce una scuola nel sud dell’India e alcuni interventi in Nepal, Kathmandu e Pokara, ha aperto una sottoscrizione della quale pubblichiamo la locandina con i riferimenti in calce. Conosciamo da anni il Centro Studi Platone che, proprio per la scuola indiana, è stato in passato gemellato con il nostro Ente Quintana e con le famacie comunali AFAM. Il collegamento diretto che il Centro Studi Platone ha da anni con alcune realtà infantili nepalesi garantisce un percorso di distribuzione degli aiuti mirato ed efficiente. Vi invitiamo a voler dare il vostro aiuto inviando contributi sui numeri di conto corrente indicati nella locandina, con la certezza della loro corretta, efficiente e soprattutto efficace distribuzione. Grazie

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Figure angeliche di Sara Mirti Indroduzione

Esistono creature dotate di un corpo di carne e ossa e creature spirituali che a volte possono prendere sembianze corporee, così ci hanno insegnato; e tra queste ultime creature possiamo certamente annoverare le figure angeliche. Ma da dove vengono? Quando fanno per la prima volta la loro comparsa nelle diverse narrazioni sacre? Per capirlo, dobbiamo fare un passo indietro. Secondo la teoria della mente bicamerale proposta da Julian Jaynes, le molteplici divinità che si sono succedute a capo delle stirpi umane sono nate nell’emisfero destro del nostro cervello; o meglio, sarebbero le voci degli dèi, i loro comandi, le loro leggi, le loro reazioni di sdegno o di approvazione ad essere nati e ad aver trovato una dimora nel nostro emisfero destro, quello che, tra le tante funzioni, ha avuto anche il compito di farci adattare alle situazioni inaspettate, quello che sovraintende il canto ma non la parola (per esempio, alcuni pazienti che hanno perso l’uso della parola a causa di un’emorragia all’emisfero sinistro, riescono ancora a cantare senza sbagliare quasi nessuna parola) e che ogni volta che può se la prende con la soggettività umana che risiede invece nell’emisfero sinistro, sede della nostra facoltà di parola e di scrittura. La lotta è fra i dettami divini e la nostra presa di coscienza. Fin tanto che gli dèi hanno abitato nella mente degli uomini e hanno vissuto con loro non c’è stato mai nemmeno bisogno di prodigarsi in preghiere. Accade lo stesso oggi nei pazienti schizofrenici: essi non pregano per udire le voci nella loro mente, non ne hanno bisogno; ma per le menti bicamerali le voci non erano

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un sintomo di una qualche patologia, erano soltanto una risposta adattativa all’ambiente. In caso di stress o di situazioni difficili le voci dicevano agli uomini come comportarsi, senza esitazione e senza farsi pregare; solo con l’avvento di civiltà sono divenute gradualmente più complesse, intorno alla fine del III millennio a. C., a volte si avverte la necessità di porre agli dèi alcune domande che potremmo definire “di servizio” e che ancora non somigliano alla nostra concezione di preghiera che invece diviene necessaria per comunicare con divinità distanti che ci conoscono di meno e che quindi hanno bisogno di essere informate circa i nostri turbamenti e i nostri desideri, almeno tanto quanto noi abbiamo bisogno di essere informati sui loro.

L’origine degli angeli secondo J. Jaynes

“Nel cosiddetto periodo neosumerico, alla fine del III millennio a.C., le raffigurazioni, in particolare quelle sui sigilli cilindrici, abbondano di scene di ‘presentazione’: un dio minore, spesso di sesso femminile, presenta un individuo, presumibilmente il proprietario del sigillo, a un dio più importante. Questa situazione è del tutto in accordo con quella da noi ritenuta come probabile in un regno bicamerale, cioè che ogni individuo doveva avere il suo dio personale, che sembrava intercedere in suo favore presso dèi situati più in alto nella gerarchia. E questo tipo di scena di presentazione o di intercessione si protrae per una gran parte del II millennio a. C. A un certo punto però si verifica un mutamento vistoso. Dapprima gli dèi principali scompaiono da tali scene, così come accade nell’altare di Tukuti-Ninurta. Poi subentra un periodo in cui il dio personale dell’individuo viene raffigurato in atto di presentare quest’ultimo solo

al simbolo del dio. Quindi, alla fine del II millennio a. C., cominciano a mostrarsi, come intermediari e messaggeri fra gli dèi scomparsi e i loro seguaci afflitti, esseri ibridi che manifestano una fusione di caratteri di uomo e di uccello, a volte simili a un uomo barbuto dotato di due serie di ali, incoronato come un dio e spesso recante una sorta di borsa che contiene forse gli ingredienti per una cerimonia di purificazione. Questi presunti membri delle corti celesti si trovano con crescente frequenza sui sigilli cilindrici e sui rilievi assiri. Nei casi più antichi, tali angeli o genii, come li chiamano per lo più gli assiriologi, sono raffigurati in atto di presentare un individuo al simbolo di un dio, come nelle antiche scene di presentazione. Ma ben presto anche questo motivo viene abbandonato. E all’inizio del I millennio a. C. troviamo tali angeli in scene di ogni genere, a volte in compagnia di esseri umani, altre volte impegnati in varie lotte con altri esseri ibridi. A volte hanno testa di uccello; oppure sono tori alati o leoni alati con testa umana che vigilano su palazzi come quello di Nimrud del IX secolo o sorvegliano le porte di Khorsabad dell’VIII secolo a. C. Oppure ancora sono raffigurati con la testa di falco e grandi ali distese, mentre seguono un re, con una pigna che è stata immersa in un secchiello, come in un rilievo del IX secolo a. C. raffigurante Assurnasirpal, una scena che fa pensare a un battesimo. In nessuna di queste raffigurazioni gli angeli sembrano parlare o gli esseri umani ascoltare. È una scena silenziosa in cui la realtà uditiva dell’atto bicamerale sta diventando una supposta e presunta relazione muta. Diventa, diremmo noi, mitologica”(J. Jaynes, “Un’origine degli angeli”, in “Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, trad. di Libero Sosio, Adelphi, Milano 1996, pp. 279 ss).


L’assenza degli dèi crea angeli e demoni

Insomma, a un certo punto della storia umana, periodo che Jaynes individua all’inizio del I millennio a. C., in Mesopotamia, le voci degli dèi hanno smesso di risuonare nelle nostre teste, le loro esistenze allucinatorie hanno smesso di coesistere negli spazi umani e la voce della nostra soggettività è rimasta da sola a confrontarsi con tutto ciò che la circondava. Cambiano gli ziqqurat che ora diventano dimore dai troni vuoti, piattaforme che attendono la ridiscesa degli dèi; anche la cosiddetta “torre di Babele” non era altro che una postazione svuotata della divinità e in attesa del suo ritorno (quando poi le divinità vi fecero davvero ritorno i risultati furono nefasti). Gli dèi, tanto quelli superiori, associati ai re, ai nobili e alle loro corti, quanto quelli personali posti a protezione e sostegno della gente comune, hanno abbandonato la Terra, migrando in massa verso il cielo che ne ha rapito la presenza, e divinità inferiori hanno preso su di sé il preciso compito di fare da pontieri, da intermediari tra l’immanenza degli uomini e l’invisibilità degli dèi troppo lontani; e così agli angeli sono spuntate le ali e i demoni si sono trovati a riempire con la loro presenza il vuoto di regole e spiegazioni, il vuoto d’iniziativa che comporta ogni sparizione delle divinità. Venuto a mancare il sostegno delle voci e dei loro dettami, ogni nuovo avvenimento naturale si pensava animato da volontà altre che non parlavano con gli uomini se non per trarli in inganno: demoni malvagi che si sentivano rumoreggiare attraverso ogni nuova catastrofe, attraverso ogni malattia, ecc. Nel frattempo gli dèi hanno preso a parlare agli uomini tramite messaggeri alati, in grado di raggiungerli ovunque essi fossero andati a nascondersi: gli angeli. Gli angeli esistono nel nostro immaginario da molto tempo, ma si tratta pur sempre d’immagini stereotipate, condizionate dal tempo e dal luogo in cui viviamo. La loro figura, variamente definita a seconda del ruolo nelle diverse gerarchie di riferimento, ha finito per subire grandi o piccole variazioni di significato: non più soltanto messaggero o esecutore di volontà superiori, ma anche compagno di vita, “doppio”, nel bene e nel male, di ciascuno essere umano, giovane o anziano, dal più debole al più potente, figura di collegamento, mediatore tra umanità e divinità in diverse culture e attraverso modalità di volta in volta differenti; ma un angelo, è bene ricordarlo sempre, può essere anche un

angelo caduto, malvagio ingannatore ed usurpatore, artefice di ogni umana sciagura. Si narra che all’inizio si mescolarono alle donne umane, dando origine ai Giganti e permettendo, tramite il loro apporto, agli uomini di vivere molto più a lungo di quanto non accada oggi. Alcuni immaginano gli angeli come dei soldati buoni ma armati fino ai denti, privi di uno sguardo umano, in grado d’incutere timore e tremore. Altri li immaginano come dei puttini, eterni bambini dalle ali piccole e aggraziate. Esistono poi uomini e donne che possiedono capacità di protezione e di trascendenza simili a quelle che immaginiamo dovrebbero avere delle creature nate di solo spirito: accade che alcuni esseri umani possiedano un’empatia tale da essere scambiati per figure angeliche in carne ed ossa, simili in tutto e per tutto ai messaggeri degli dèi, a soldati delle buone battaglie, a divinità inferiori e, appunto perché inferiori, dotate di una bellezza più comprensibile agli uomini, frutto di uno strano miscuglio di terra e cielo, ricordi viventi di un momento all’inizio del tempo in qui il cielo e la terra erano ancora una cosa sola.

Esseri alati dai diversi nomi

Non basta avere le ali per poter essere definiti angeli, per buona pace dei molti “Eros” ornamentali, delle tante Afrodite di pietra, marmo, pittura o terracotta, delle Vittorie, degli Ermeti, di alcune personificazioni dei venti, delle sirene o della folla di mostri e animali mitologici, e persino con buona pace di quelle donne angelicate che pure contribuirono attivamente al pentimento e al ritorno a Dio di tanti bravi poeti; eppure erano tutte creature ugualmente dotate di ali. Infatti non basta saper volare attraverso mondi e culture, prendersi cura degli eroi o di semplici esseri umani, o essere posti a guardia di tombe e anime, per poter essere definiti angeli a tutti gli effetti... I nomi degli angeli deriverebbero dal lungo contatto che il popolo ebraico, reso prigioniero, ebbe con i babilonesi (VI sec. a. C.), derivanti probabilmente dall’angelologia presente nella Persia zoroastriana (più di 1500 anni fa), che poi ricomparve nelle scritture apocalittiche giudaiche,

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nel cristianesimo, nello gnosticismo e nella tradizione sciita dell’islamismo, tutt’ora prevalente in Iran. Gli angeli da meri collaboratori della divinità diventano così figure di primo piano. Nello Zoroastrismo erano sette le entità (Amesha Spenta, gli "Immortali Benefici") più vicine al “Saggio Signore”, dio supremo (Ahura-Mazda), così come sette (e con caratteristiche simili) sono gli Arcangeli posti vicino a Dio per celebrarne la gloria, descritti in Tobia (12, 15). Nello zoroastrismo esiste anche una figura analoga a quella del “nostro” angelo custode, un doppio trascendente con un preciso scopo protettivo. Naturalmente ce n’è uno per ogni essere che è, che è stato e che sarà: si tratta delle Fravashi, che si trovano fin dall’inizio dei tempi di fronte ad Ahura-Madza, e che pre-esistono agli esseri che verranno al mondo; il loro compito è quello di farsi strumenti divini nel governo del mondo. Esse sono una sorta di assemblea permanente di tutti gli individui che nasceranno, che sono nati e che sono già morti. Tra le divinità assiro-babilonesi spicca per importanza il dio Anu (il cielo) che aveva al proprio servizio un certo numero di entità a lui sottoposte, i sukkali, vale a dire una moglie e una lunga schiera di figli, che avevano funzione di messaggeri. Poi vi erano delle divinità personali poste a difesa di ciascun uomo fin dalla nascita. Essi dovevano contrastare gli spiriti malvagi, ma qualora l’uomo sotto la loro protezione avesse compiuto atti “peccaminosi”, avrebbe spezzato il legame con la propria divinità personale e sarebbe stato abbandonato al proprio destino. Gli angeli biblici invece, continuano a svolgere il proprio ruolo di guardiano e guida sempre e comunque, finché l’individuo è in vita e finché l’anima beata non verrà ricondotta in cielo. Altre due divinità babilonesi, aventi ruolo di araldi, si avvicinano forse di più alla nostra concezione di angelo: Nabu e Nusku. Agli assiro-babilonesi si deve, inoltre, la definizione dei cherubini e dei serafini.

Le visioni

Le visioni del profeta Ezechiele danno dei cherubini una descrizione differente rispetto a quella dei karibu assiri o degli animali alati (Samuele, 22, 11) che potevano essere cavalcati (Salmi, 18, 11) e sono di difficile interpretazione a causa del linguaggio profeticopoetico (come ricorda Janis, c’è uno stretto rapporto, anche a livello di reazioni neurologiche, tra la musica strumentale e la poesia, e tra entrambe le

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cose e voci degli dèi sotto forma di allucinazioni uditive). Dice Ezechiele: “Ciascuno aveva aspetto d’uomo, ciascuno con quattro facce e quattro ali. I loro piedi erano zampe affusolate e la loro pianta era come quella della zampa di un vitello, scintillanti come il luccicare di un bronzo levigato. Avevano mani umane di sotto le ali sui loro quattro lati; avevano facce e ali tutti e quattro. Le ali erano accoppiate a due a due. Essi avanzavano senza girarsi e ciascuno avanzava dritto davanti a sé. Le forme delle facce erano di uomo; poi le forme di leone sul lato destro dei quattro, di bue sul lato sinistro dei quattro, e ciascuno di essi aveva forme di aquila. Le loro ali erano distese verso l’alto; ciascuno aveva due ali che si toccavano e due che velavano i loro corpi. Ciascuno procedeva dritto davanti a sé. Procedevano dove tirava quel vento senza girarsi. Tra gli esseri apparivano come dei carboni infuocati che sembravano lampade, essi lampeggiavano fra gli esseri e il fuoco splendeva e da esso schizzavano fulmini” (Ezechiele, 1, 5-13).Si era intravista nei cherubini la sagoma di un braccio umano sotto le loro ali. Vidi pure quattro ruote a fianco dei cherubini, una ruota vicina a ogni cherubino; le ruote avevano l’aspetto luccicante del crisolito. Apparivano di forma identica tutte e quattro come se una ruota fosse congegnata nell’altra. Quando si muovevano procedevano sui quattro lati, nel procedere non si giravano, ma là dove si rivolgeva la principale andavano senza girarsi. Tutto il corpo, il dorso, le mani, le ali e le singole ruote erano piene d’occhi tutt’intorno, ognuno dei quattro aveva la propria ruota. (Ezechiele, 10, 8-12). E’ probabile che il testo di Ezechiele avrebbe subito diverse interpolazioni in epoca posteriore e che la versione corretta dovrebbe parlare non di quattro volti, ma di quattro attributi accomunati nello stesso essere: testa umana, corpo di leone, zampe di toro, ali d’aquila. Questo corrisponderebbe alle raffigurazioni dei karibu: gli animali alati, i cherubini assiri. E’ molto probabile inoltre che alla descrizione fatta da Ezechiele abbiano contribuito forti influenze culturali egizie (con le quali il popolo ebraico era stato a lungo in contatto). Come non ricordare allora Bes, divinità di probabile origine sudanese o somala, raffigurata con un corpo umano ma dotato di due paia di ali, di una testa circondata da numerose piccole teste di animali (leoni, tori, coccodrilli) e interamente ricoperto di occhi? Il profeta Isaia descrive i serafi-

ni: il loro nome deriva dal termine ebraico “seraph”, che significa "bruciare, ardere", e sono quindi esseri di fuoco. Essi compaiono nella visione che Isaia ebbe di Dio nel tempio di Gerusalemme. E’ il momento della sua vocazione e il profeta descrive gli angeli librasi attorno al trono di Dio: “Nell’anno della morte del re Ozia vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato e i suoi lembi riempivano il tempio. Dei serafini stavano sopra di Lui; ognuno di essi aveva sei ali; con due si coprivano la faccia, con due si coprivano i piedi e con due volavano. L’uno all’altro si gridavano dicendo: «Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti; tutta la terra è piena della sua gloria». Gli stipiti delle soglie tremavano per la voce di quelli che gridavano, mentre il tempio si riempiva di fumo” (Isaia, 6, 1-4). Per quanto il testo rimanga oscuro, secondo alcuni è comunque possibile fare dei paralleli tra le immagini evocate e l’arte siriana dell’inizio del I millennio a.C.

Le gerarchie degli angeli

Onnipresenti fin nei cristianesimi di ogni tempo (e, con cautela, nell’Islam), gli angeli vengono spesso descritti secondo una precisa gerarchia celeste. Prima sfera: -I serafini (in ebraico Seraphim) appartengono al più alto ordine di Angeli, situato nel cielo Empireo, o cristallino, il più prossimo a Dio, da cui ricevono direttive immediate. Sono angeli dotati di sei ali: due per volare, due per coprirsi il volto e due per coprirsi i piedi. Innalzano incessantemente lodi a Dio. Infine, secondo san Tommaso D’Aquino presiedono alla carità. -I cherubini (nome ebraico Cherubim) risiedono oltre il trono di Dio, nelle profondità del firmamento, il cielo dello zodiaco; sono infatti i guardiani della luce e delle stelle. Essi rielaborano le intuizioni immediate dei Serafini traducendole in riflessioni e pensieri di saggezza riguardanti l'evoluzione dei sistemi planetari. Hanno quattro ali e quattro facce: una umana, una di bue, una di leone e una di aquila. I Cherubini sono angeli dediti alla protezione; essi stanno a guardia dell'Eden e del trono di Dio. I cherubini hanno una perfetta conoscenza di Dio, superata soltanto dall'amore dei serafini verso Dio. Pare che sul coperchio dell'Arca dell'Alleanza vi fossero proprio due cherubini contrapposti. -I troni (in ebraico ophanim, in greco Thronoi) hanno forma mutevole e infiniti colori.


Si trovano nel settimo cielo, che corrisponde all'orbita di Saturno. Il loro compito è quello di tradurre in opera la sapienza e il pensiero elaborato dai Cherubini. Sono descritti come ruote intersecate ad altre ruote, delle quali se una si muove avanti e indietro, l'altra si muove da un lato all'altro. Queste ruote sono dotate di innumerevoli occhi. Ezechiele non descrive esplicitamente queste ruote come angeli, ma come oggetti o "creature viventi" dotati di uno spirito. Seconda sfera: -Le dominazioni (in ebraico hashmallim, in greco Kyriotetes) emanano la loro influenza a partire dall’orbita di Giove. Essi devono regolare i compiti degli angeli inferiori. Ricevono ordini dai serafini, cherubini o direttamente da Dio. È estremamente raro che si mostrino agli esseri umani. Essi, si suppone che compongano l'esercito dell'Apocalisse e da loro dipendono l'ordine universale e la disciplina ferrea alla quale gli angeli si rivolgono per mantenerlo. -Le virtù, anche chiamate "fortezze" (in greco Dynameis) risiedono nella sfera orbitale di Marte. Il loro dovere è quello di osservare i gruppi di persone. La loro forma è simile a lampi di luce, che ispirano nell'umanità molte cose, come l'arte o la scienza. -Le potestà (in ebraico Elohim, in greco Exusiai) estendono il loro dominio sul Sole. Esseri angelici dai molti colori, come vapori nebbiosi, sono gli elementi portanti della coscienza e i custodi della storia. Gli angeli della nascita e della morte sono potestà. Sono accademicamente guidati e interessati all'ideologia, filosofia, teologia, religione. Le potenze sono le menti: sono un gruppo di esperti, che servono da consiglieri e pianificatori della politica. Il loro compito è quello di sorvegliare la distribuzione di poteri all'umanità. Nella credenza popolare sono loro che accompagnano le decisioni dei padri e li consigliano nella cura della famiglia. Entro le potestà, vi sono le potenze: esse sviluppano le ideologie, laddove le autorità scrivono i documenti e le dottrine. Entrambe, potenze e potestà, sono coinvolte nella formulazione delle ideologie. Terza sfera: -I principati (in greco Archai) esercitano i loro influssi dall'orbita di Venere. Esseri angelici dalla forma simile a raggi di luce, si trovano oltre il gruppo degli arcangeli. Sono gli angeli guardiani delle nazioni e delle con-

tee, e di tutto quello che concerne i loro problemi ed eventi (politica, problemi militari, commercio). Uno dei loro compiti è quello di scegliere chi tra l'umanità ha la facoltà di dominare sugli altri. -Gli arcangeli, il cui influsso giunge fino a Mercurio, sono i più grandi consiglieri e amministratori inviati dal Cielo. Un arcangelo ha normalmente un ruolo di grande importanza nei riguardi dell'uomo. Secondo l'angelologia dello Pseudo-Dionigi, tuttavia, gli arcangeli stanno appena al di sopra degli angeli comuni. Alcuni ritengono che gli arcangeli non siano divisi in separati ordini, ma nella tradizione cattolica gli arcangeli (Michele, Raffaele, Gabriele, e in alcuni casi Uriel, colui che senza accorgersene, stando a Milton, lasciò passare Lucifero sulla Terra), sono cherubini o serafini, oltre che essere arcangeli. Tuttavia, in ogni caso, essere arcangelo implica chiaramente l'appartenenza alla prima sfera degli angeli. Come è scritto nella Bibbia, anche Lucifero era un cherubino; in seguito alla sua ribellione a Dio, fu affrontato, sconfitto dall'arcangelo e serafino Michele. -Gli angeli appartengono all'ordine

più basso della gerarchia degli angeli e sovraintendono a tutte le occupazioni egli esseri umani; non a caso risiedono nello spazio cosmico più prossimo alla Terra, quello della Luna. La parola "angelo" proviene dal greco "anghelos", cioè "messaggero". Attraverso la cosiddetta “corona angelica”, simile a un rosario, si pregano gli angeli di ogni ordine e grado affinché intercedano presso Dio, oppure per ottenere persino delle indulgenze. Leggendo le loro rispettive competenze sembra si stia parlando di altri esseri rispetto a quelli che, sotto forma di statue, nel sud Italia, tanto per fare un esempio, vengono minacciati di vendetta dalle folle vittime di siccità e carestia, e che sono arrabbiate con loro come lo sarebbero con un pessimo avvocato. Eppure quelli elencati nelle diverse sfere celesti sono, a livello teorico, gli stessi angeli a cui vengono strappate le ali d’oro o che vengono girati con il viso rivolto alla parete, some fossero in punizione: finito il mondo bicamerale, le nostre menti soggettive non riescono più ad ottenere allucinazioni e risposte dagli idoli...possiamo soltanto, all’occorrenza, prendercela con loro.

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IlstoriaTeatro sordo della Compagnia

Laboratorio Zero di Roma (parte prima) di Dario Pasquarella Nel panorama della cultura sorda Laboratorio Zero è un’associazione teatrale di grande importanza ed è per me fonte di conoscenze e approfondimenti basati su un principio di tecnica scenica fondamentale: la comunicazione in LIS, la Lingua dei Segni Italiana. Devo ringraziare la sezione dell’Ente Nazionale Sordi di Roma, che anni fa mi propose di partecipare al programma televisivo Ciak Si Segna dove mi ritrovai in un gruppo di ragazzi sordi segnanti con i quali intrapresi una grande esperienza che divenne per me un prezioso momento di socializzazione e di appartenenza ad una comunità segnante. Subito dopo è capitato che Laboratorio Zero cercasse un attore sordo per lo spettacolo “Trappola per topi” e Alessandro de Luca, consigliere dell’ENS, propose alla regista sorda Luigia Rosato il mio nominativo. Luigia Rosato mi chiese d’insegnare teatro ai bambini, arte del corpo e cinema ad adolescenti ed adulti. Grazie ad un’autentica collaborazione e ad una solida cooperazione ho potuto vedere, interagire, apprendere le diverse tecniche teatrali. Insomma mi sono trovato a vivere una metamorfosi personale e, quasi contemporaneamente, un’evoluzione di Laboratorio Zero. Facendo parte della Compagnia, infatti, la mia esperienza all’interno del teatro è cresciuta notevolmente, tanto che, ad oggi, mi trovo ancora dentro Laboratorio Zero, da ben undici anni. Attualmente il mio obiettivo è quello di formulare un

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progetto per un corso di Teatro in LIS per sordi ed udenti, un training azione - esplorazione, per formulare un Teatro Catartico nel quale le persone possano decodificare, esplorare ed elaborare le proprie emozioni. A partire dal 2011 ho fondato l’associazione “Arte&Mani” e dal 2012 sono diventato presidente della compagnia Laboratorio Zero. Quelle che seguono sono parti d’interviste da me svolte in occasione della tesi di laurea magistrale in Teorie e Pratiche del Lavoro Teatrale. Ringrazio Elisa Conti per la traduzione.

Il Laboratorio Zero

Ci sono voluti anni prima che, grazie all’ingegno e alla passione di Ginetta Rosato, il teatro sordo romano riuscisse ad esprimersi pienamente in LIS. Le prime forme di teatro, infatti, erano prevalentemente “bimodali”: erano eseguite cioè in italiano segnato. Solo successivamente, di spettacolo in spettacolo e di copione in copione, si è arrivati a spettacoli eseguiti in LIS. Il Laboratorio Zero di Roma, che inizialmente si chiamava La Mandragola, nasce negli anni’70 e produce una vasta raccolta di documentazioni del teatro dei sordi in cui si sperimentano e s’interpretano copioni teatrali, utilizzando spesso tecniche autodidatte. Il primo fondamento di essere un attore, si sa, è quello di poter riuscire a trasmettere emozioni, e Ginetta Rosato, fondatrice del gruppo romano di teatro sordo, nutriva da moltissimo tempo un sentimento propositivo e molto audace verso il teatro. Ma dovette aspettare prima di veder realizzato il proprio sogno: fondare una compagnia di

teatro sordo. Iniziò tutto nel 1974/75, al teatro Sistina di Roma: il Comune aveva organizzato una manifestazione teatrale internazionale. Insieme ad alcuni amici Ginetta andò a questo festival, dal titolo Città di Roma; tra le compagnie teatrali udenti che partecipavano, vi era anche una compagnia teatrale di sordi della Gallaudet D.C. University di Washington che si presentava con due spettacoli, il primo dei quali era una commedia: L’eredità, di Francesca Paradisi, nella quale gli attori segnavano in ASL (American Sign Language). La compagnia utilizzava un duplice canale, con attori e interpreti. L’intero spettacolo era così accessibile ad una platea di sordi e udenti che potevano goderne nelle rispettive lingue, American Sign Lauguage e italiano. Questo fu il commento che riportò la regista: «Vidi per la prima volta uno spettacolo dove vi erano attori sordi segnanti in American Sign Lauguage con gli interpreti che traducevano». Ogni personaggio, infatti, veniva interpretato da un attore sordo, seguito da un attore-ombra udente, che condivideva con l’attore sordo le stesse espressioni, i costumi, la medesima parte, e che aveva il compito di “mandare in voce” i segni del suo omologo sordo, vale a dire che aveva il compito di tradurre stando sul palco. Nel secondo spettacolo messo in scena dalla compagnia teatrale americana, il monologo di Anton Checov dal titolo “Sul danno del tabacco”, vi era una traduzione simultanea (che necessitava di una lunga preparazione precedente). L’impatto fu notevole e di grande formazione.


"La Casa di Bernarda Alba"

Il momento della nascita della compagnia teatrale romana era imminente. Ginetta, Lucilla Masi e Luisella Zuccotti iniziarono ad organizzare un progetto per creare quell’idea che fu anche l’inizio della compagnia teatrale sorda romana. Ricorda Ginetta: «Iniziammo a cercare appassionati o quantomeno aspiranti attori ma nessun uomo era disponibile, presi dal calcio consideravano il teatro come attività per sole donne. Qui iniziai a cercare una soluzione, fino a quando trovai un copione adatto ad un solo gruppo di donne, “La casa di Bernarda Alba”». Attrici di quello spettacolo furono: Sara Salimbeni, Rossana Betto, Mara Adanti, Ginetta Rosato, Angela Manieri, Lucilla Masi, Conchita Forlastro, Mary, Luisella Zuccotti, Franca Bevilaqua e Cristina Migliorini. Pian piano la comprensione del copione e l’inizio delle prove portarono il gruppo ad un livello di consapevolezza teatrale. Nel circolo c’era una piccola sala che poteva ospitare circa 120 persone. Ginetta chiese al Presidente dell’ENS Aldo Petrucci di poter costruire un palco, ma purtroppo ottenne una risposta negativa, per mancanza di fondi. Ma Ginetta, imperterrita, continuò la sua

lunga ricerca, e decise di rivolgersi al Presidente FISS Francesco Rubino, il quale, entusiasta, commissionò a un fabbro di Coppolecchia di Torino la costruzione dei cavalletti e di un palco. Scrive ancora Ginetta Rosato: «Molto tempo fa il teatro si svolgeva all’interno dei circoli, e lo spazio scenico era all’interno di essi, di conseguenza creare tutto l’ambiente era il primo passo da fare. Il palco doveva avere un’altezza idonea affinché vi fosse una visuale ad hoc, e ricordo che l’allora Presidente dell’associazione sportiva FISS ordinò di fare un palco con misure da me concordate pagando l’intero progetto, e una volta assemblato il tutto, sempre a sue spese, costruì le quinte abbattendo i muri del circolo, per poter permettere le entrate e le uscite alle attrici. Ricordo che il Presidente Nazionale dell’Ens Jeralla ci regalò un sipario di velluto color ocra, raffinato e molto ampio. Adesso questa solidarietà e sostegno per il teatro è molto difficile, si usano frasi come “sì, avrete questo ... vi concederemo o regaleremo ...”, sempre con tempi indefiniti e promesse mai concretizzate. Ai miei tempi vi erano persone che, credendo in questa arte, sostenevano il teatro a proprie spese. Iniziammo

i lavori ma serviva una regista, io non avevo mai avuto questo ruolo, ma accettai; il luogo d’incontro era alla sede dell’ ENS a via Gregorio Settimo. Il caso e la fortuna vollero che si verificasse l’incontro con un professore di italiano udente e segnante [Tonino Cufano, con cui Ginetta condividerà la regia] che lavorava all’Aurelia; venne e mi spiegò che aveva sentito parlare di questo mio progetto; presentandosi disse inoltre che molto tempo prima all’Università aveva avuto come professore il grande Edoardo de Filippo - al che, lo accolsi e procedemmo nel nostro progetto. Premesso che all’epoca non vi era l’interprete, vale a dire il ruolo professionale dell’interprete, coloro che potevano farlo erano i figli udenti delle famiglie sorde; decisi dunque di prendere una sorella o dei volontari e così il professore poté seguire le loro voci mentre noi sordi ci occupavamo del nostro operato». Luisella Zuccotti curò la scenografia e le illustrazioni, Sergio Lavo costruì strumenti ed elementi scenici come un fucile, ecc ... Claudio Orazi si occupò del suono e delle luci. Il 26 Marzo 1977, finalmente, andò in scena per la prima volta “La Casa di Bernarda Alba”.

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C’era una volta, Rugantino..., 1987 Concluso o spettacolo, nel momento dei ringraziamenti e dei saluti finali, la regista decise di annunciare pubblicamente la nascita di quel laboratorio tanto atteso e desiderato. Infatti aveva già pensato di cambiare il nome della compagnia che, nata come La Mandragola, diventò Laboratorio Teatrale dei Sordi Romani, affinché rispecchiasse appieno il gruppo teatrale. Il pubblico rimase sbalordito da tale evento; in platea vi erano sordi e udenti che potevano seguire e assistere con facilità al primo spettacolo romano. La traduzione vocale era stata affidata ad Anna Maria Peruzzi e a Teresa Romanazzi.

Ricordi e considerazioni sulla prima volta del teatro LIS

Testimonianza di Anna Maria Peruzzi, interprete vocale: «È stata la grande passione di Ginetta Rosato per il teatro a smuovere tutto. Nel 1977 lavoravo al 4° piano della sede centrale dell'Ente Nazionale Sordi a Roma, quando venni a sapere che alcune ragazze sorde che stavano preparando uno spettacolo teatrale con il linguaggio mimico gestuale (antesignano della Lingua dei Segni Italiana, LIS) e che avevano bisogno di una persona volenterosa, come allora erano spesso definiti gli interpreti, disponibile a rendere comprensibile alle persone udenti lo spettacolo. Un po' scettica e

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molto incuriosita scesi al 1° piano, dove era il teatro, e fui subito conquistata dalla freschezza, dall’ entusiasmo, dalla tenacia, dalla caparbietà e dall’orgoglio di questi giovani attori sordi. Coinvolta dalla loro passione, decisi di accettare di essere la voce fuori campo insieme a Teresa Romanazzi; misi a disposizione la mia conoscenza della lingua dei segni e della cultura sorda. Alla fine si decise di dare la messa in voce traducendo il segnato e leggendo il copione, soluzione non banale e la cui complessa difficoltà riuscii ad apprezzare solo alcuni anni dopo, in seguito alla ricerca scientifica sulla lingua dei segni che alcuni linguisti iniziarono negli anni '80. Nello specifico, il problema era dovuto al fatto che gli attori usavano un italiano segnato invece che la lingua dei segni, ossia i segni venivano usati seguendo la struttura grammaticale della lingua italiana anziché quella propria – e diversa - della lingua dei segni. Per la posizione della voce fuori campo si decise per la visibilità e quindi, con molta emozione, mi ritrovai seduta in prima fila, con le spalle al pubblico e munita di microfono e copione teatrale. Lo spettacolo venne visto da tutta la comunità dei sordi romani e da molte persone udenti e riscosse un grandissimo successo e apprezzamento dovuto, oltreché alla bravura degli attori, anche

alla novità assoluta di una messa in scena tradotta. La prima replica fuori Roma si tenne l'anno successivo a Mantova, presso lo storico teatro Bibbiena. Così nacque il primo teatro italiano dei sordi. Per i giovani sordi il teatro non rappresenta solo un mezzo per esprimere la loro capacità di regalare emozioni e sentimenti, ma anche una ricchezza intellettuale in quanto essi, nel ricercare il segno giusto per il significato italiano, si avvicinano sempre di più e in un modo non tradizionale alla conoscenza della lingua italiana, che per loro, non dimentichiamolo, è una seconda lingua. Il teatro, in questo senso, è stimolo nella ricerca e nella affermazione della propria identità di persona sorda con pari diritti, doveri e dignità di cittadino italiano con libero accesso alla comunicazione». Il progetto vocale durante le prove si è basato su un continuo esercizio di quattro mesi con un parallelismo LIS - italiano. Questo momento fu molto importante, nello spettacolo ci fu per la prima volta la messa in voce dello spettacolo, ovvero le due aspiranti interpreti facevano una traduzione vocale; va precisato che fino ad ora il ruolo dell’interprete non era stato ancora definito, perché soltanto da lì a breve si poté arrivare alle prime ricerche tanto sull’importanza di questo ruolo e quanto sulla lingua dei segni.


Gli spettacoli continuano Ci fu una replica de “La casa di Bernarda Alba” il 24 Aprile 1978 al Teatro Bibbiena a Mantova, con una prima sostituzione: Angela Manieri venne sostituita da Giusy Botto per il ruolo di Amelia, una delle figlie di Bernarda. Questa fu la prima esperienza di sostituzione in cui la regista si trovò a valutare l’inserimento di una nuova candidata attrice, ottenendo ottimi risultati in appena due mesi di prove. Il successo fu garantito la platea ne fu riconoscente, e con molta gioia iniziò ad apprendere l’importanza di ciò che stava succedendo, ma, per mancanza di fondi e di fiducia, dal 1977 al 1984 la compagnia si fermò, fino a quando attraverso un bando della regione Lazio Ginetta non poté riprendere in mano la situazione, continuando a promuovere attività teatrali come “La Gatta Cenerentola”, di Roberto De Simone. Ginetta e il professor Tonino Cufano iniziarono a lavorare, ma il copione non era facile perché il testo era in napoletano, con tanto di canzoni e musiche. L’autore delle musiche alla fine diede il permesso, ma costrinse la compagnia a firmare un contratto che prevedeva una forma privata dello spettacolo. Dovettero attenersi a tali disposizioni e così l’incasso fu deludente e il pubblico fu molto ristretto. Lo spettacolo del 15 dicembre 1984 a Roma, presso il Teatro Tor di Nona, fu il primo debutto in un teatro, non in un circolo con sedie come in precedenza, ma in un vero teatro anche se piccolo con novanta posti a disposizione. La regia fu di Tonino Cufano e di Ginetta Rosato. Attrici: Mara Adanti, Rossana Betto, Emanuela Cameracanna, Lucilla Masi, Giuseppina Mazzerbo e Annarella Saba. Attori: Patrizio D’Ottavi, Gianni Di Vita, Fernando Figliolia, Giacomo La Grotteria, Francesco Raffaelli e Francesco Sassu. Scenografia e Costumi a cura di Luisella Zuccotti. Per le voci fuori campo: Amori Tiziana, Cianconi Letizia, Di Clemente Elisabetta; per le voci femminili: Cherri Stefania; per il canto Romanazzi Gianni. Tonino Cufano diede un ottimo supporto per le canzoni segnate e per le voci. La musica fu composta ed eseguita da: Altamura Roberto, De Boins Luciano, Montuori Claudio, dal vivo. La tecnica utilizzata durante lo spettacolo era bimodale, trascurando così l’integrità della Lingua dei Segni Italiana. Fu Maria Luisa Franchi a chiedere alla regista, di utilizzare la LIS e non l’italiano segnato.

Dall’Italiano Segnato alla LIS Testimonianza di Maria Luisa Franchi e il suo grande sostegno e collaborazione con il Laboratorio Zero: «Ho collaborato con Ginetta Rosato e con il Teatro Zero per diversi anni con grande soddisfazione e profonda gioia. Ho imparato da lei e più in generale dalla compagnia tutta, cose di grande importanza, dagli aspetti artistici agli aspetti creativi e tecnici, ma soprattutto ho avuto modo di comprendere un aspetto che avevo vissuto nella mia famiglia, ma che non avevo mai messo a fuoco tanto chiaramente: il legame fraterno che lega i sordi tra loro e che crea il senso di comunità dominato dalla condivisione linguistica. La lingua dei segni è la colonna portante di tutti i rapporti, è la catena che lega indissolubilmente i sordi tra loro e ne caratterizza i rapporti. Mio padre era sordo e sono cresciuta in una realtà in cui vivere con una persona sorda e insieme alla comunità sorda era la quotidianità, in casa si comunicava in italiano o in lingua dei segni in maniera quasi indifferente e ambedue venivano utilizzate per la comunicazione giornaliera sia da mia madre che dai miei due fratelli. La nostra casa era sempre piena di persone sorde amici o parenti che comunicavano con la mimica si diceva all’epoca, oggi si direbbe in LIS, e attraverso questa particolare forma di comunicazione si creavano i rapporti, si intessevano le relazioni e soprattutto si costruivano reti di sostegno e aiuto reciproco, ma di questo né la mia famiglia, né più in generale i sordi, né tantomeno io ne eravamo consapevoli. La prima volta che ho visto al lavoro la compagnia teatrale di Ginetta Rosato è stata in realtà la prima volta che vedevo una rappresentazione teatrale con attori sordi, si trattava della rappresentazione de “La gatta cenerentola” un’opera di Roberto De Simone e al di là della struggente emozione che ho provato durante lo spettacolo, sono rimasta veramente colpita dalla modalità linguistica utilizzata. Il testo era una rielaborazione del testo originario in un misto di italiano con cadenza napoletana, espresso dalle voci fuori campo, mentre gli attori accompagnavano le straordinarie espressioni facciali e atteggiamenti posturali, anche tipici e propri della LIS, all’italiano parlato al quale abbinavano i segni della LIS. Ero sconvolta poiché mi rendevo perfettamente conto che, benché lo spettacolo fosse stato creato per i sordi e le persone sorde in sala avrebbero certamente goduto delle emozioni visive dei colori, dei movimento, delle espressioni, dei ritmi dettati, non avrebbero capito molto di ciò che veniva detto, delle battute degli attori, per intenderci. Per poter

comprendere quello spettacolo infatti erano necessari due elementi: essere molto vicini per poter seguire il labiale oltre ai segni e conoscere bene l’italiano per comprendere le frasi espresse, come ripeto, in italiano supportato dai segni oggi diremmo Italiano Segnato. La cosa mi meravigliò e mi scandalizzò moltissimo. Era il 1984 e io collaboravo già da circa 2 anni con l’istituto di Psicologia (attuale Istituto di Scienza e Tecnologia della Cognizione) del CNR dove un gruppo di sordi e udenti, capitanati dalla dott.ssa Virginia Volterra, effettuava delle ricerche per comprendere il funzionamento della forma di comunicazione utilizzata dalle persone sorde e per il nostro gruppo di lavoro, quello spettacolo aveva delle carenze. Ero una giovane universitaria che da vergognosa figlia di un sordo ero diventata orgogliosa sostenitrice della lingua di appartenenza dei sordi, e quindi anche mia. Pertanto, forte delle competenze acquisite con Virginia Volterra, affrontai la Ginetta Rosato cercando di capire come fosse nata quella scelta linguistica, esprimendole la mia meraviglia e spiegandole quale sarebbe stata, secondo me la strada alternativa». Certamente il livello di scetticismo di Ginetta era elevatissimo, in realtà non accantonò l’idea, ma anzi mi invitò a partecipare e vivere con loro la costruzione dello spettacolo successivo. Parallelamente io ho cercato di coinvolgere lei e Emanuela Cameracanna facendogli conoscere l’attività dell’Istituto, del CNR e la Dott.ssa Volterra, scatenando anche ironia da parte di Ginetta e Emanuela e soprattutto sdegno perché, sostenevano, i sordi di cultura, quelli più intelligenti, più istruiti certamente usavano la mimica in casa e tra di loro, ma non l’avrebbero mai usata in pubblico e men che mai in una rappresentazione teatrale! Poi attraverso il lavoro insieme e la conoscenza reciproca sono riuscita a convincere Ginetta [...] Con Ginetta e Emanuela leggevamo il testo cercavamo di individuare come rendere la battuta in LIS o come trasformare il senso in modo che potesse essere comprensibile dai sordi e quindi in LIS. Si trattava di una vera e propria attività interlinguistica e interculturale, si operava nella riformulazione delle frasi in modo che acquisissero significati consistenti, equivalenti e comprensibili dalla comunità dei sordi segnanti. [...] Le prove erano costellate di istanti di discussione e confronto, ognuno offriva il proprio contributo in termini linguistici e... polemici, ma quanta ricchezza di opinioni, di crescita e di spunti di riflessione, riuscendo ad ottenere risultati straordinari fino ad arrivare alle punte di eccellenza raggiunte oggi».

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Una nuova forma di teatro Ne ho già discusso in altri articoli, ma vale sempre la pena ricordarlo: il regista decide di narrare una storia, magari prendendo spunto dalle esperienze, dalle parole, dai segni, dal linguaggio corporeo di persone incontrate per caso, oppure da amici, parenti, o da se stesso; poi gli attori, sordi e udenti, hanno il preciso compito di rielaborare il concetto dato fino a restituirne una propria versione, il più possibile veritiera, e lo stesso compito spetta ai tecnici delle luci e del suono, ai curatori del testo, fino ad arrivare al pubblico (il cui feedback è fondamentale), a cui viene chiesto un confronto diretto tra la propria vita e le situazioni proposte sulla scena, come se ciascuno si trovasse di fronte a uno specchio. Infine, spetterà al regista, colui che detiene il potere di cucire tra loro vite ed esperienze diverse, restituire una versione unitaria del tema prescelto, senza tradire il proprio obiettivo iniziale.

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A fare da ponte tra l’idea di uno spettacolo e la sua effettiva realizzazione c’è una serie di tecniche teatrali di cui il teatro sordo-LIS si serve per esprimere se stesso: una volta deciso il tema da trattare inizia, infatti, da parte del regista un’attività di studio e documentazione; successivamente comincia la ricerca di coloro con cui condividere una simile avventura. Una volta trovato gli attori attraverso candidature volontarie, aperte a chiunque, sordi, udenti, attori professionisti o alla prima esperienza, inizia un lavoro di training di durata variabile. Per prima cosa si svolgono degli incontri individuali tra il regista e i singoli attori, in cui viene dato a ciascuno il tema prescelto e in cui ogni singolo attore viene stimolato a svolgere una propria ricerca sul campo, a sviluppare un certo grado di consapevolezza in merito; poi iniziano gli incontri e il lavoro di gruppo, in cui si accrescono tanto le rispettive conoscenze sul tema quanto quelle interpersonali, si crea un legame di gruppo,

e in cui il regista svolge il ruolo di conduttore. Durante questi incontri ci saranno esercizi atti a potenziare la capacità espressiva, in parole e in segni, di ciascuno. Fondamentale è la costante raccolta di video-appunti che serviranno per documentare e commentare le idee sviluppate e per non disperdere gli sforzi di ciascuno. Il tema scelto per questo mio nuovo spettacolo, “Routine”, è stato quello del ruolo della donna nella società, presente passata e futura; per questo ho scelto per la realizzazione del mio progetto quattro attrici: tre attrici sorde e una udente, due alla loro prima esperienza e due attrici professioniste. Per le attrici sorde ho scelto tre diversi colori: in fondo è la società stessa che dà a ciascuna donna una posizione ben definita, un “colore” in cui far rientrare tutta la sua vita, le sue aspettative, la sua identità, e spetterà poi alle donne riuscire a realizzare se stesse partendo dal quel colore toccato loro in sorte.


“Routine” di Dario Pasquarella

Che cos’è il teatro sordo-LIS? Non mi stancherò mai di spiegarlo: si tratta di una forma di produzione teatrale, basata su un copione originale, in cui la LIS (lingua del Segni Italiana) e l’italiano coesistono, alla pari, con le rispettive culture e le proprie particolarità linguistiche. Questo permette tanto a un pubblico sordo quanto a un pubblico udente di abbracciare le emozioni del racconto teatrale, di capire più facilmente i personaggi e di essere quindi parte attiva della “macchina teatrale”. Il teatro sordo-LIS sta crescendo in modo inarrestabile, proprio in virtù di questo suo potenziale creativo e di questa sua intrinseca capacità didattica. Questa sua facoltà creativa e formativa, inesauribile, è tale appunto perché è in grado di prendere spunto da entrambe le culture, quella udente e quella sorda. Si tratta di una novità nel panorama del teatro sordo italiano, di una mia creazione nata lungo il mio percorso professionale e umano. La produzione “Arte&mani” è stata da me fortemente voluta proprio per far crescere il teatro sordo-LIS, ed è un progetto che ho portato avanti parallelamente al mio impegno con la compagnia di teatro sordo Laboratorio Zero. Ma come funziona il teatro sordo-LIS? Il blu (metafora visiva legata all’acqua e al cielo), il marrone (la terra e i suoi frutti) e il rosso (il fuoco e il calore) sono serviti come spunto per creare altrettante metafore visive. Certo, sono soltanto alcuni degli esempi possibili, ma l’intento vuole essere “semplicemente” quello d’iniziare un ragionamento che ognuno dovrà poi concludere dentro di sé, nella propria vita; si tratta insomma di un invito ad avviare un’intera catena di ragionamenti proprio a partire dallo spettacolo fruito. Infatti all’attrice vocale, sempre presente in scena, è toccato il compito fondamentale d’interagire col pubblico, di renderlo partecipe delle varie riflessioni proposte, impersonando una sorta di coscienza collettiva in grado di raggiungere chiunque attraverso i segni, la voce, il mimo e la danza. Quello di stimolare riflessioni e ragionamenti non è certo un compito facile, né per il regista, né per gli attori: affinché ciò sia possibile è neces-

sario che ogni messaggio dato passi in maniera chiara attraverso ogni canale linguistico (LIS e italiano) e corporeo (linguaggio universale-performativo). Questo spettacolo non è il punto di arrivo, ma è il luogo di partenza delle mie sperimentazioni e delle mie ricerche sulla LIS. La Lingua dei Segni Italiana, non mi stancherò mai di ripeterlo, è una vera e propria lingua, quindi possiede diversi registri (formale o informale, quotidiano letterario...) che non tutti i segnanti conoscono e di cui non tutti riescono parimenti a fruire. Eppure esiste una vera e propria letteratura LIS, esistono autori, storie, poesie, canzoni, filastrocche, proverbi...e ora anche opere teatrali originali. Ogni cultura si nutre della propria lingua e della vivezza delle sue produzioni. La LIS è una lingua vivissima, che anzi deve ancora scoprire tutte le proprie potenzialità, e il mio sogno è che bambini e ragazzi sordi possano un giorno ave-

re a disposizione una cospicua quantità di video-testi su cui studiare, con cui confrontarsi e su cui basarsi per iniziare a costruire una propria personalità indipendente, senza dover ricorrere soltanto a contenuti mediati dalla lingua italiana. In un auspicabile contesto di bilinguismo scolastico, l’ideale sarebbero delle videoteche in cui i ragazzi sordi possano accedere direttamente a documenti in LIS, senza sottotitoli e senza sonoro, ma in cui, a conclusione della parte LIS, venga inserito anche un testo in italiano corretto, letterario se è necessario, evitando quindi ogni forma di traduzione letteraria, impossibile nella sua realizzazione e comunque inefficace nel trasmettere fedelmente una cultura. Si tratta della problematica e annosa scelta tra una traduzione fedele ma brutta (cioè inefficace, incapace di veicolare emozioni) e una traduzione infedele ma bella (quindi fedele nei contenuti e nelle reazioni suscitate).

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Per poter scegliere, tuttavia, bisogna tener conto del fatto che quando la LIS e l’italiano vengono utilizzati parallelamente, mantenendo l’integrità di entrambi, permettono di veicolare anche le proprie rispettive culture, salvaguardando sfumature emozionali e particolarità linguistiche. Poter accedere a simili contenuti permetterebbe ai giovani, sordi in primo luogo, ma anche udenti che s’interessino alla LIS, di avere maggiori armi espressive e culturali con cui strutturare, difendere e affermare la propria individualità, qualsiasi sia la propria cultura d’origine. Mi sono chiesto molte volte perché in tutti questi anni non sia mai stata effettuata una ricerca sul campo in grado di stimolare forme nuove di teatro...certo, i motivi storici e sociali possono essere molti, ma rimango convinto che per lo più la mancata ricerca si debba a una mancata fiducia nelle proprie possibilità, alla paura di non farcela. Ho provato anch’io la stessa cosa: quando stavo per laurearmi, per esempio, a un certo punto ho credu-

to davvero di non farcela…poi ho capito che la paura non mi sarebbe servita a nulla e che, se non mi fossi arreso, alla fine ce l’avrei fatta a raggiungere i miei obiettivi. Poi ho aspettato alcuni anni prima di trovare il coraggio di presentare la mia prima opera teatrale originale (nata dalla collaborazione con Silvia Liberati), ma il risultato di “Oltre gli Occhi” ha rinnovato la mia fiducia in me stesso e il mio desiderio di continuare a sperimentare e a raccogliere video-documenti LIS. La mia ricerca riguarda proprio quest’aspetto: io sono fermamente convinto che l’integrità della forma e del contenuto dei testi nati in italiano e in LIS vadano rispettate. E’ compito degli artisti e degli educatori fare da ponte tra le due lingue e tra le loro diverse espressioni: serve una ricerca costante sul campo, uno scambio continuo e un feedback efficace. L’occasione e il luogo di tale ricerca può essere la produzione artistica; in questo caso, il teatro basato su un testo originale. Dopo essermi concentrato su questa nuova forma teatrale, ho capito che era il momento di con-

centrarsi sulla stesura del copione, non più soltanto inteso come testo “di servizio” per addetti ai lavori, ma vero e proprio strumento di memoria storica del progetto teatrale, perché nato dallo scambio costante, avvenuto sul campo, durante le prove, tra LIS e italiano. L’intento di Routine è quello di consegnare alla storia teatrale di Arte&Mani e di Laboratorio Zero un’opera fondata su un testo nato contemporaneamente sia in italiano che in LIS. Le due lingue, le due culture, i due diversi punti di vista sono stati trattati alla pari, e proprio da questo loro intreccio nasce lo spettacolo. Mi spiego meglio: tutto nasce da una mia idea, dalla mia esigenza di affrontare il tema della violenza sulle donne. Ho svolto delle ricerche e avviato gli incontri di training con le attrici, poi io e la curatrice del testo italiano ci siamo incontrati scrivendo insieme il testo e decidendo insieme i rispettivi segni. Una volta conclusa una parte di copione, questo veniva poi sottoposto alle attrici che avrebbero dovuto reinterpretarlo, farlo proprio, e proporne una versione “corretta”.


Se in italiano io posso citare o declamare il testo di qualcun altro senza che quel testo diventi mio, in LIS invece ciò non è possibile: essendo il corpo parte integrante del tessuto del racconto, nel momento in cui segno la poesia o la frase di qualcun altro, essa diventa mia, perché mio è il corpo su cui si inscrive. Nemmeno lo stesso autore potrebbe mai segnare in maniera assolutamente identica la stessa cosa più volte: ad ogni sua riproduzione, infatti, la letteratura segnata si trasforma un po’; anche per questo è importante raccogliere video-testi che conservino la memoria di contenuti e autori. Lo stesso avviene con gli attori e le attrici in scena: dal momento che il testo del copioni e le intenzioni del registra s’inscrivono nel loro corpo, essi ne diventano interpreti-autori; e questo è ancora più evidente nel lavoro di riadattamento dei gesti, dei segni e del parlato dell’attrice vocale cui spetta il difficile compito d’integrare tempi d’esecuzione diversi (ciò che in segni si esprime velocemente in italiano potrebbe aver bisogno invece di molto più tempo, e viceversa), mantenendo inalterati i livelli espressivi ed emozionali. “La donna non è gente”, così si dice...cioè la donna è un po’ meno umana rispetto all’uomo, ha un valore minore, dei limiti oggettivi...o almeno questo è quello che credono in molti. Sappiamo invece che è vero tutto il contrario e che tutti gli sforzi fatti dagli uomini per sottomettere e umiliare le donne non sono serviti a nulla: molti sono gli uomini che continuano a temere le donne, la loro forza, il loro potere di dare la vita; solo che nascondono questa paura esternandola in molte forme di costrizioni e di violenza. Sulle spalle delle donne giace il mondo intero che, nonostante il suo peso e la sua presunzione, non riesce né riuscirà mai a schiacciarle. Le donne hanno ruoli precisi in famiglia e in società, certo, ma hanno anche un’individualità, un corpo, delle speranze... Il mondo degli uomini si è sempre arrogato il diritto di parlare delle donne e di decidere al loro posto, ma questa volta è il punto di vista delle donne ad essere rappresentato, sono le loro voci, i loro segni, i loro corpi a raccontarsi e a mettere in discussione le regole imposte dalle loro famiglie e dalla società, affinché nessuno dimentichi le loro storie e il loro sacri-

ficio. E’ difficile parlare di violenza, difficile ammettere che sia un argomento ancora attuale. Ha scritto M. Yourcenar: “La memoria delle donne somiglia a certi loro antichi tavolini da lavoro per cucire. Ci sono dei cassetti segreti: ce ne sono di chiusi da molto tempo che non si possono più aprire; ci sono dentro fiori secchi che sono ormai solo polvere di rose; e ci si ritrovano anche

matasse imbrogliate, a volte qualche spillo”. La speranza è che la solita routine che porta le donne a sopportare, a dare quasi per scontato un destino di sacrifici e di continue scommesse con se stesse, venga infine interrotta. Una profonda rivoluzione sociale e culturale aspetta ancora le donne, e una nuova routine in cui, questo è il nostro auspicio, sarà bandita ogni forma di discriminazione e di prepotenza.

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Venga a prendere il caffè da me

Dalla nonna materna, quand’ero bambina, di domenica dopo pranzo, aspettavo con ansia di prendere il caffè. Appena la cucina si riempiva di quell’aroma, la guardavo ansiosa e, i miei genitori prima facevano finta di meravigliarsi nel vedere che nonna mi porgeva il bicchierino col caffè, poi di indignarsi: - E’ una pazzia! Non si può dare il caffè ai bambini. Il caffè si beve quando si diventa grandi! - Mia nonna mi faceva l’occhiolino e mi porgeva il “caffè”: un bicchierino d’acqua, un cucchiaino di caffè e uno di zucchero. Prima di berlo tutto d’un fiato, aggiungevo un altro pò di zucchero e dicevo: “Io sono grande!”. E’ da quei tempi che non ho più bevuto un caffè tanto buono. Una mia amica, qualche tempo fa per aver commesso lo stesso gesto complice col nipote, è stata redarguita dalla nuora che l’ha definito un gesto “sciocco e inappropriato”, dato che tutti sanno che nel caffè c’è la caffeina che è un potente stimolante capace di provocare dipendenza. Certo, tutto vero, salvo poi vedere in pizzeria che la maggior parte dei bambini scolano intere lattine di coca-cola, oppure, dopo la partita di football sorseggiano bricchi di tè confezionato. Gesti inappropriati anch’essi direi, dato che: una tazzina di caffè contiene circa 50 mg di caffeina, una lattina di coca-cola ne contiene circa 40 mg. e una tazza di tè ne contiene circa 28 mg. Senza poi mettere nel conto che in una lattina di coca-cola ci sono circa dieci cucchiai di zucchero e l’infuso di tè confezionato fornisce minimo 50 calorie.

Piccoli uomini crescono di Catia Marani Giacomo è figlio unico, ha dieci anni ed è un bel bambino dalla faccia simpatica, coi capelli quasi rasati ai lati della testa, che termina squadrata per effetto del suo fitto ciuffo di riccioli castani. Dice che è un look molto di moda fra i ragazzini della sua età. Frequenta la quinta elementare e quasi tutti i pomeriggi dopo i compiti va al “campetto” ad allenarsi con il pallone. Tifa per la “ Juve” ed era fidanzato con Melissa, una sua compagna di classe, a suo dire bellissima, (ci tiene ad informarmi che nella classifica fatta in classe fra maschi è al secondo posto per bellezza), con occhi neri e capelli castani molto lunghi. C - Quale materia scolastica preferisci? G - La matematica è la mia materia preferita. Mi piace anche studiare scienze. In italiano sono abbastanza

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bravo in grammatica, mentre non mi piace fare composizioni. Poco tempo fa mi hanno regalato un libro, ma ho letto soltanto mezza pagina. E’ la storia di un cane che diventa molto amico di un uomo. Mi piacerebbe continuare a leggerlo ma non ho tanto tempo da dedicare alla lettura. C - Quante ore al giorno dedichi allo studio, e quando hai bisogno di un aiuto a chi ti rivolgi, alla mamma o al papà? G - Generalmente due ore, un’ora e mezza la dedico alle materie orali e per gli scritti in genere mi basta una mezz’oretta. Sono uno dei più bravi della classe, perché mio padre se non prendo bei voti si incavola di brutto. Studio da solo, poi lui controlla se faccio bene, ma se ho bisogno di aiuto devo per forza chiedere a lui. Mamma a casa non c’è quasi mai perché lavora tutto il giorno. Io però preferirei farli con lei.


C - Con chi trascorri il pomeriggio, quando torni da scuola, se tua madre non c’è? G - Con i nonni paterni fino a quando la sera viene a prendermi papà. Poi andiamo a casa nostra e dopo arriva anche mamma, che è sempre stanca ma mi fa lo stesso un sacco di coccole. Adesso che sono grande però quando ho voglia di parlarle rubo il telefonino a nonno e la chiamo di nascosto per chiederle di tornare presto. C - Fra le tue amicizie ci sono anche ragazze? G - Si, le ragazze corrono e fanno i nostri stessi giochi e dicono anche qualche parolaccia, meno dei maschi...ma... C - Hai un amico del cuore? G -Si uno, e due amiche del cuore. C - Se potessi rinascere, sceglieresti di essere un maschio o una femmina? G - Un maschio. E’ più divertente! C - In casa chi è più severo, papà o mamma? G - Papà. Perde subito la pazienza. Quando faccio i compiti se non capisco immediatamente alza la voce, e io non lo sopporto. Mamma è la mia preferita perchè ha il cuore più tenero, e mi perdona anche se faccio qualcosa di sbagliato. C - Dimmi di Melissa, come mai non siete più fidanzati?

C - Boh! Chi le capisce le femmine. Comunque adesso è fidanzata con un mio compagno di classe. C - Quale parte del tuo corpo ti piace di più e quale invece vorresti cambiare? G - Mi piacciono molto i miei capelli, e invece vorrei essere più alto e più magro. Peso 35 chili e secondo me dovrei pesare di meno. C - Un tuo pregio e un tuo difetto? G - Beh il pregio è la simpatia. Sono simpatico a tutti. Un difetto…faccio troppi scherzetti e tante volte gli altri perdono la pazienza e si arrabbiano. Quella che faccio arrabbiare di più è nonna: gliene faccio in continuazione perché con lei mi annoio. C - Quale lavoro ti piacerebbe fare da grande? G - Il poliziotto o il calciatore. C - Un giorno ti piacerebbe sposarti e avere dei figli? G - No, no non mi voglio sposare (vorrei sottolineare che ha risposto – NO- senza un minimo di esitazione), però i figli si, li voglio. Anche se non ho moglie li faccio con le fidanzate. C - Che tipo di padre vorresti essere? G - Presente come il mio, ma con il carattere e la dolcezza di mamma. C - Coca- cola, tè o caffè? G - Coca-cola!

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Espiazione

Tutta colpa di Edipo Un furto, una donna in fuga con il malloppo viene uccisa brutalmente nel lugubre motel di Norman Bates, sulla statale deserta e nebbiosa. Inizia così il thriller diretto da Alfred Hitchcock. Non è soltanto una famosa pellicola cinematografica, capace di lasciare lo spettatore insonne. E’ un horror, pieno di simbolismi, tratto dal romanzo ispirato alle vicende reali di Ed Gein, svelati nel film, dallo psicologo dopo l'arresto seguito da un lungo colloquio con il giovane Norman ( interpretato da

Antony Perkins): dieci anni prima Norman aveva ucciso sua madre e il compagno in quanto, dopo la morte del padre, egli aveva sviluppato un forte patologico complesso di Edipo nei confronti della donna, la quale fidanzandosi con un altro uomo aveva (secondo Norman) tradito il figlio. Così Norman aveva avvelenato lei e il suo compagno. In seguito a questo, il rimorso per il suo gesto aveva scisso in due la personalità del giovane, dandone una parte (e in un certo senso riportandola in

DEDICATA A LUI Il caffè della Peppina Il caffè della Peppina non si beve alla mattina né col latte né col the ma perché, perché, perché? La Peppina fa il caffè fa il caffè con la cioccolata ma ci mette la marmellata mezzo chilo di cipolle quattro o cinque caramelle sette ali di farfalle e poi dice: "Che caffè!!!" Il caffè della Peppina non si beve alla mattina né col latte né col the ma perché, perché, perché? La Peppina fa il caffè fa il caffè col rosmarino mette qualche formaggino una zampa di tacchino una piuma di pulcino cinque sacchi di farina e poi dice: "Che caffé!!!" Il caffè della Peppina non si beve alla mattina né col latte né col the ma perché, perché, perché? La Peppina fa il caffè fa il caffè con pepe e sale l'aglio no perché fa male l'acqua si ma col petrolio, insalata senza olio quando prova col tritolo salta in aria col caffè. Il caffè della Peppina non si beve alla mattina né col latte né col the ma perché, perché, perché?

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vita) a sua madre, che faceva rivivere vestendosi come lei e riuscendo perfino ad imitarne perfettamente la voce. La gelosia che Norman aveva per sua madre non era però sufficiente a renderla del tutto viva, perciò egli inscenò anche il contrario, cioè rese "sua madre" gelosa di lui. Di conseguenza ogni volta che Norman aveva a che fare con donne che non erano sua madre, quest'ultima per proteggerlo, eliminava letteralmente la fonte delle tentazioni con l'omicidio.


Facciamolo fare a loro Secondo Freud, questa fase detta appunto "edipica" è fondamentale per lo sviluppo sessuale e l'identificazione del bambino, che lotta con tutte le sue forze per allontanare il padre e per prendere il suo posto nei riguardi della madre. Solitamente il complesso di Edipo si manifesta intorno ai 3 anni e dura fino ai 6-7 anni, momento in cui tale complesso si avvia alla risoluzione. E’ bene sapere che un complesso di Edipo non risolto potrebbe provocare dei disturbi psichici più o meno gravi. Il complesso di Edipo si risolve in maniera naturale quando il bambino capisce che non può avere con la madre lo stesso rapporto che invece ha suo padre. Affinché ciò accada è necessario che vi sia la giusta autorità paterna, ovvero il padre deve imporre dei "limiti" a questi atteggiamenti e non assecondarli. Noi madri dobbiamo imparare a farci un po’ da parte e agevolare i rapporti fra di loro. Educhiamo i padri ad usare con i figli la stessa dolcezza di cui siamo capaci

noi. La madre inoltre deve elogiare e valutare la figura paterna agli occhi del bambino e coinvolgere il padre ad una maggiore partecipazione nella vita del piccolo. Cambiare il pannolino, spingere la carrozzina, allattare con il biberon un bambino, dovrebbe essere naturale per loro quanto lo è per noi. Bisogna dire che oggi succede più spesso di qualche anno fa. Non dobbiamo essere gelose del rapporto esclusivo che creiamo con i nostri piccoli perché col tempo si potrebbe rivelare insano: con più facilità possono diventare adulti insicuri, diffidenti verso tutto e tutti, con un basso grado di autostima ed incapaci di amare altre donne al di fuori della madre stessa. Lasciamoli quindi educare anche ai padri senza metterci sempre nel mezzo, tanto lo sanno tutti che “ Ifigli sono delle madri”!

Mode & Modi Lessico famigliare

Per tutti gli anni che mia figlia ha frequentato la scuola, ogni volta che rincasava mi limitavo a chiedere:-“Come è andata oggi a scuola?”, e lei stringatamente rispondeva un rassicurante:-“Normale”. Difficilmente si sbilanciava con qualche parola in più per descrivere le sensazioni provate durante la mattinata. Più diventava grande, più il dialogo si riduceva. Colpa forse anche delle mie giornate piene di cose da fare che mi distraevano e mi impedivano di soffermarmi sui particolari. Quelli che, poi, fanno la differenza. Ora, che è grande, quando la sento rientrare silenziosa le domando :”Come è andata oggi al lavoro?- e mi sento rispondere:- “Normale”, mi chiedo:-“Ma dove avrò sbagliato?. Leggendo in qualche rivista di psicologia ho scoperto che se non sappiamo rivolgere domande giuste, non possiamo ricevere risposte soddisfacenti. Infatti sembra che sarebbe stato molto meglio rivolgersi ai figli con domande più interessanti come: Hai sentito qualche frase buffa oggi a scuola? Hai aiutato qualcuno oggi o sei stato aiutato? Con chi giochi a ricreazione? Cosa avresti fatto al posto della maestra in quella circostanza? Naturalmente ad una stessa espressione verbale possono corrispondere più significati e finalità. A seconda delle intenzioni con cui pronunciamo le parole, insieme con gli altri elementi di comunicazione ( espressione del viso, tono della voce, ecc.), possiamo esprimere differenti messaggi: complicità, rimprovero, elogio, richiesta o semplicemente dire qualcosa per informare. Tuttavia, negli anni, sembrerà paradossale, ma ho sperimentato non di rado che anche la discrezione o il silenzio, possono fornire un’occasione, fra genitore e figlia/o, privilegiata per incontrarsi. Comunque, se non riusciamo ad instaurare con loro un rapporto basato sul dialogo, non rammarichiamocene più di tanto, perchè Freud stesso alla domanda: - “Come possiamo fare per crescere i nostri figli?”, risponderebbe:-“Fate come credete, tanto sbaglierete comunque”.

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E adesso Pubblicità! di Chiara Mancuso

“Quando egli tornò in sala da pranzo tutti erano già riuniti, la Principessa soltanto seduta, gli altri in piedi dietro alle loro sedie. E davanti al suo posto, fiancheggiati da una colonna di piatti, si slargavano i fianchi argentei dell’enorme zuppiera col coperchio sormontato dal Gattopardo danzante. Il Principe scodellava lui stesso la minestra, fatica grata, simbolo delle mansioni altrici del pater familias. Quella sera, però, come non era avvenuto da tempo, si udì minaccioso il tinnire del mestolo contro la parete della zuppiera: segno di collera grande ancor contenuta, uno dei rumori più spaventevoli che esistessero, come diceva ancora quaranta anni dopo un figlio sopravvissuto: il Principe si era accorto che il sedicenne Francesco Paolo non era al proprio posto. Il ragazzo entrò subito(“Scusatemi, papà”) e sedette. Non subì rimprovero, ma padre Pirrone che aveva più o meno le funzioni di cane da mandria, chinò il capo e si raccomandò a Dio. La bomba non era esplosa. Ma il vento del suo passaggio aveva raggelato la tavola e la cena era rovinata lo stesso” [...]

L’altro giorno, mi venne in mente questa scena de “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, mentre passava in televisione la pubblicità che vedeva protagonista una famiglia “tipo” italiana all’ora di pranzo: la madre chiamava ripetutamente i figli senza alcuna risposta, quando, d’un tratto con lo smartphone decideva di scattare una foto alla tavola imbandita e di inviarla ad ognuno di loro con un MMS ed ecco, come per magia, tutti accorrevano , dicendo con la bocca piena “Mamma sei il nostro ristorante preferito!” Ma che meraviglia! Già il fatto che una madre sia costretta a mandare un MMS per chiamare i figli è agghiacciante, ma che poi, senza che nessuno avesse accennato ad una minima scusa, come complimento si senta anche rispondere “Sei il nostro ristorante preferito” per aver messo in tavola un pasto precotto, beh, è al di là di ogni immaginazione.

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Altri tempi... Certo, dal Gattopardo ad oggi i tempi sono cambiati così tanto che a stento riusciamo a pensare che sia passato solo un secolo, come se dopo secoli di semi-paralisi nelle gerarchie sociali, di colpo tutto abbia iniziato a correre ad un ritmo talmente veloce da non riuscire più a controllare la direzione, come se ci trovassimo a bordo di un’auto da corsa e avessimo preso la patente da un paio di giorni, e dobbiamo affrontare una serie di curve a 200 km all’ora. Un caro sacerdote, padre Fabrizio, di cui ricorre proprio in questi giorni l’anniversario della sua prematura scomparsa, diceva che la pubblicità è lo specchio di quello che la società è diventata, o meglio, quello che il “mercato” vorrebbe farci diventare. E la famiglia è sempre stata al centro degli spot pubblicitari, perché di fronte a quello che essa dovrebbe rappresentare, tutti istintivamente ci sentiamo coinvolti o vorremmo esserlo. Ma veramente vorremmo essere chiamati a tavola da un MMS per poi consumare un tristissimo piatto precotto? Se il “Top” della cucina, pubblicizzata anche da famosi chef, è composta da buste congelate solo da mettere in padella, cosa ci diranno i nostri mariti? “Mia madre scongelava i bastoncini meglio di te”? o “come metteva il risotto nel microonde mia madre non la eguagliava nessuno”... Siamo davvero diventati così? Apertissimi alle unioni omosessuali, senza però guardarci in faccia, incapaci di occuparci dei nostri figli senza l’aiuto di una esperta “tata” e lasciamo che un estraneo famoso con dei biscotti riesca a consolare un bambino per un goal mancato perché noi abbiamo tempo di andare a vedere la partita di nostro bambino? I nostri figli...poveri bambini iper-impegnati senza un pomeriggio a settimana libero, senza il sano tempo della noia, quello necessario a sviluppare la fantasia... E invece no, pieni fino allo sfinimento di allenamenti, attività che magari non vorrebbero nemmeno fare, ma che invece Devono, per essere Impegnati, per avere delle “possibilità“ in futuro, come se fossero degli adulti in miniatura. Eppure un tempo non eravamo così, e non parlo di cinquant’anni fa, appena qualche decennio. Ecco che nel giro di vent’anni siamo passati dalla perfetta famigliola che si ritrova allegramente la mattina ad inzuppare gli stessi biscotti nel latte, ridendo e scherzando come se alle 7 del mattino non aspettassimo altro, ad Antonio Banderas che con gli stessi biscotti parla con una gallina che sembra chiedersi se non fosse stato meglio finire essa stessa nel forno... Va bene: la prima scena, con i bambini che si alzano senza storie, che si preparano da soli, che hanno già lo zaino pronto con i libri giusti, con un padre che non pensa minimamente ad accendere la televisione o a leggere il giornale, ma che scherza amorevolmente con i suoi figli, con una madre appena uscita vincitrice da un concorso di bellezza, beh, si era troppo finta anche per una pubblicità di biscotti zuccherosi, ma cancellare completamente il tavolo, la cucina, i bambini e tutto il resto e sostituirli con Zorro che parla con un pollo, non sarà un po’ eccessivo?

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Dall’uomo che non deve chiedere all’uomo che non può chiedere Per non parlare degli uomini e delle donne delle pubblicità: siamo passati da mezzo secolo di machismo all’uomo che prende il grembiule e inizia a spolverare per casa… Per carità, nulla di male, ma fino all’altro ieri appariva un super muscoloso macho con lo sguardo duro che gettava le donne ai suoi piedi, mentre una voce inquietante affermava “per un uomo che non deve chiedere mai”; adesso, arriva un ragazzo insignificante, che va in vacanza con le amiche nella più sudicia delle case vacanza e, difronte ad una vasca dove sembra essere passato uno stormo di piccioni afferma con decisione “Tranquille ragazze: ci penso io!” E fin qui nulla di strano: finché quel disgraziato non tira fuori dalla borsa l’anticalcare…no, non è possibile? Ma un uomo non distingue nemmeno un anticalcare da uno sgrassatore e mi volete far credere che questo tipo addirittura si porta dietro tutto il kit di pulizia, manco fosse Mary Poppins? E le amiche? Anziché dare una mano, gli trovano altri spazi da pulire e poi, solo alla fine della vacanza, perché dopo aver pulito tutta casa da solo, sarà passata almeno una settimana, vanno al mare insieme e, qui c’è davvero l’umiliazione più grande del nostro povero Cenerentolo: non solo ha fatto lo schiavo alle tre sorellastre, ma si tuffa a mare con salvagente, braccioli, maschera e pinne… Ma davvero l’uomo sarebbe così? O una statua greca da venerare o un domestico cagnolino da compagnia che per fare colpo sulla sua ragazza si deve travestire da coniglio rosa, con tanto di ukulele?


Ma anche le donne...

Conclusioni

Se l’uomo si vede spogliato o meglio, vestito dai panni di casalingo imbranato, le donne della pubblicità non se la passano meglio! Dalle creme antirughe, anticellulite, antismagliature, anti-età, i rimmel effetto MANGA, i rossetti volumizzanti e i fondo tinta effetto “maschera cinese”, alle scene più assurde in ascensore o in ufficio, in preda a isteriche crisi premestruali o agli odori più improbabili, come se la donna fosse una sorta incrocio fra una mummia egizia costretta a restauri continui prima di trovarsi con la pelle del tutto simile ad una pergamena antica, ad una specie di animale strano che se non sta attenta a quello che indossa rischia di non potersi sedere nemmeno accanto a qualcuno al bar per il cattivo odore che emana! Ma perché? Se non ci vedete uscire da una vasca piena di oro fuso credete veramente che puzziamo come capre di montagna? In perenne dieta, perché anche un cioccolatino può tramutarci in una donna di Botero, strette in pantaloni che fanno la pancia piatta e il sedere sodo, mentre trangugiamo yogurt miracolosi che ci fanno sgonfiare come per magia. E ci vogliono far credere veramente che potremmo chiudere in faccia la porta a George Clooney se non ci porta il nostro spumante preferito!

Ma alla fine, ce la beviamo veramente? Si, insomma, crediamo davvero che la famiglia ideale sia legata ad un sms, che i nostri uomini possano essere solo o Apollo o il re dei casalinghi imbranati, che le nostra bellezza dipenda da una crema viso o da una barretta dietetica? Se fra cinquant’anni guardassero le pubblicità che dipingono i nostri giorni, credete che l’idea che potrebbero farsi di noi sarebbe vicina alla realtà o solo un grottesco modo per prenderci in giro e farci comprare anche la merendina che ci farà tornare i brufoli che una crema miracolosa ci avrebbe fatto sparire? Eppure, gli stereotipi ci camminano accanto e si radicano nei nostri pensieri, quando proviamo un pantalone “magico” e ci sembra davvero di aver perso una taglia, mentre gustiamo senza rimorsi una merendina light. E cosa avrebbe detto, invece, il principe di Salina? Avrebbe mandato anche lui un MMS al figlio? O Forse un messaggio vocale, con il “minaccioso tinnire del mestolo contro la parete della zuppiera?


Ignoranza, formidabile alleato del potere della religione Il marxismo-leninismo, come pensiero scientifico della realtà materiale, rifiuta l’esistenza della divinità. Più correttamente deve dirsi che il marxismo-leninismo non si pone il problema della divinità, in quanto non risolvibile con criteri scientifici e attribuisce all’irrazionale dell’uomo la creazione delle infinite divinità che popolano da secoli il Mondo. Non è un dio che ha creato l’uomo, ma è sempre e solo l’uomo che ha creato e continua a creare un dio ogni qual volta non sa dare risposte alle realtà materiali che si trova a dover affrontare nella sua vita concreta. Per lo stesso motivo il marxismo-leninismo non si pone neppure il problema di negare la divinità, in quanto negazione impossibile di ciò che non esiste. Ciò che il pensiero scientifico, e dunque politico e culturale, marxista-leninista contrasta radicalmente è la “religione”, intendendo con questo termine quell’attività umana, questa sì intrinsecamente scientifica e ragionata, che ha costruito, su di un sentimento irrazionale, una struttura di potere e dominio che, simulando una missione divina post morte (la parola di dio per la ricongiunzione al creatore), interviene invece nella vita materiale, economica, politica, sociale e culturale dell’umanità vivente. La religione, tutte le religioni (monoteiste, politeiste, mistiche o magiche) sono state create da uomini esclusivamente per dominare la vita attuale degli altri uomini e dunque sono state sempre al servizio delle classi economicamente dominanti, quando non sono, loro stesse, la classe economicamente dominante. Afferma il marxi-

smo-leninismo che la religione (più correttamente: la religiosità) è un “affare privato” che appartiene alla sfera strettamente personale dell’emotivo del singolo uomo e non deve mai interferire nella vita sociale. Ben oltre il precetto della “libera Chiesa in libero Stato”, il marxismo-leninismo afferma che non deve esserci “nessuna Chiesa”, ma “libera religiosità privata”. La religione, nel senso sopra indicato, è dunque un nemico “inconciliabile” dell’umanità. Ma il nemico peggiore, non a caso formidabile alleato della religione, è l’ignoranza, perché su questa la religione può fondare saldamente il suo potere di detenzione dell’ “unica verità” assumendone, come detto, una missione di interpretazione non discutibile in quanto affidatale dalla “parola di dio”. Combattere le religioni (tutte) richiede dunque di combattere anzitutto l’ignoranza che costituisce il loro punto di forza. Nel nostro occidente “capitalista-cristiano” (termini non caso qui unificati dal trattino congiuntivo per attestare l’unione perversa dell’economia con la “parola di dio”) l’ignoranza in questo momento colpisce un’altra religione, peraltro derivata dallo stesso ceppo fantasioso, l’Islam. Da marxisti-leninisti cominciamo col combattere questo primo alleato della religione cristiana e dunque di seguito pubblichiamo, con riduzioni esclusivamente tipografiche, i principi della religone musulmana, concludendoli con la trascrizione dell’ultimo discorso del profeta dell’Islam pronunciato alla Mecca pochi mesi prima della sua morte a Medina. (SR)


L'Aqida Tahawiya Il Credo Islamico

Introduzione Nel Nome di Allah Il Misericordioso, Il Compassionevole, Il Perdonatore L'Aqida di Al-Tahawi è rappresentativa del punto di vista di AhlulSunnah Wa Jama', è stata la più applaudita, e certamente indispensabile, elaborazione di referenza per Il Credo Musulmano, della quale questa è l'edizione Italiana. Si può dire che l’Imam Abu Ja`far alTahawi (239-321) rappresenti il credo sia degli Ash`ari che dei Maturidi, soprattutto di questi ultimi, poiché anch’egli seguiva il madhhab di Hanafi. Abbiamo perciò scelto di includere l'intero testo tradotto della sua Dichiarazione della Dottrina Islamica, comunemente nota come `aqida tahawiyya. Questo testo, che rappresenta il punto di vista di Ahl al-Sunna wa al-Jama`a, è stato a lungo l’opera sulle credenze islamiche più largamente acclamata, e certamente indispensabile. La “Dottrina” di Tahawi (al-`Aqida), sebbene contenuta di dimensioni, è un testo basilare in tutte le epoche, poiché elenca ciò che un musulmano deve conoscere, credere e comprendere interiormente. Tra i Compagni, i Successori e tutte le maggiori autorità islamiche, come i quattro Imam e i loro autorevoli seguaci, c’è unanimità sulle dottrine elencate in quest’opera, le quali derivano interamente dalle indiscusse fonti primarie della Religione, del Corano e degli Hadith confermati. Poiché si tratta di un testo sulla dottrina islamica, quest’opera riassume le argomentazioni avanzate in quelle due fonti per definire le solide credenze e, similmente, le argomentazioni promosse nel rifiuto delle opinioni di sette che hanno deviato dalla Sunna.

At-Tawheed: L'Unicità di Allah Noi proclamiamo l’unità di Allah, credendo, con l’aiuto di Allah, che: 1. Allah è Uno, senza altri compagni. 2. Non c’è nulla come Lui. 3. Non c’è nulla che può superarLo. 4. Non c’è altro dio al di fuori di Lui. 5. Egli è l’Eterno senza un inizio e stabile senza una fine. 6. Egli non perirà mai e mai giungerà ad una fine. 7. Nulla accade a meno che Egli non lo deliberi. 8. L’immaginazione non può concepirLo e l’intelletto non può comprenderLo. 9. Egli è diverso da ogni altro essere creato. 10. Egli vive e non muore mai, ed è eternamente attivo e non dorme mai. 11. Egli crea senza averne bisogno e provvede al Suo creato senza sforzo. 12. Egli causa la morte senza timore e riporta alla vita senza difficoltà. 13. Egli è sempre esistito insieme ai suoi attributi prima della creazione. Portare il creato in essere non aggiunse nulla ai Suoi attributi che non fosse già lì. Così come Egli era, insieme ai Suoi attributi, nella preeternità, così Egli rimarrà attraverso i tempi. 14. Non fu che dopo l’atto della creazione che Egli potè essere descritto come “il Creatore”, né fu soltanto per l’atto dell’origine che Egli potè essere definito “l’Originatore”. 15. Egli è sempre stato il Signore, anche quando non esisteva nulla di cui essere Signore, ed è sempre stato il Creatore anche quando non esisteva il creato. 16. Nello stesso modo in cui Egli è “Colui che porta alla vita i morti”, dopo averli portati alla vita una prima volta e merita questo nome

prima di portarli alla vita, così merita anche il nome di “Creatore” prima di averli creati. 17. Questo accade poiché Egli ha il potere di fare ogni cosa, tutto dipende da Lui, tutto è facile per Lui, ed Egli non ha bisogno di nulla. “Nulla esiste che gli rassomigli. Lui è quello che ascolta, quello che osserva.” (alShura 42:11) 18. Egli ha dato origine al creato con la Sua conoscenza. 19. Egli ha assegnato un destino a coloro che ha creato. 20. Egli ha assegnato loro una durata di vita fissa. 21. Nulla di loro era a Lui nascosto prima di crearli, ed Egli sapeva tutto ciò che avrebbero fatto prima di crearli. 22. Egli ordinò loro di obbedirGli e proibì loro di disobbedirGli. 23. Tutto accade secondo il Suo decreto e la Sua volontà e la Sua volontà viene attuata. L’unica volontà che la gente possiede è quella che Egli vuole per loro. Ciò che Egli vuole per loro accade e ciò che Egli non vuole non accade. 24. Egli dà guida a chiunque Egli voglia e protegge queste persone e le tiene al sicuro dal male, per la Sua generosità; ed Egli svia dal sentiero chiunque Egli voglia e degrada tali persone, e le affligge, per la Sua giustizia. 25. Tutti sono soggetti alla Sua volontà attraverso la Sua generosità o la Sua giustizia. 26. Egli è Esaltato senza avere avversari o eguali. 27. Nessuno può evitare il Suo decreto e ritardare il Suo comando o dominare i Suoi affari. 28. Noi crediamo in tutto questo e siamo certi che tutto viene da Lui.

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Il Profeta 29. E siamo certi che Muhammad (che Allah lo benedica e gli conceda la pace) è il Suo Servo e Profeta eletto e il Suo Messaggero nel quale Egli si compiace, 30. E che Egli è il Sigillo dei Profeti e l’Imam dei timorati di Dio e il più onorato di tutti i messaggeri e il Diletto del Signore di tutti i mondi. 31. Ogni pretesa di esser profeta dopo di lui è falsità e inganno. 32. Egli è colui che è stato inviato a tutti i jinn e tutto il genere umano con verità e guida e con luce e illuminazione. Il Corano 33. Il Corano è la parola di Allah. È venuto da Lui come parola senza che sia possibile dire come. Egli lo inviò sul Suo Messaggero come rivelazione. I credenti lo accettano come verità assoluta. Essi sono certi che esso sia, in verità, la parola di Allah. Non è stato creato come è creata la parola degli esseri umani, e chiunque lo ascolti e dichiari che si tratta di parola umana è diventato un infedele. Allah lo ammonisce e lo censura e lo minaccia con il Fuoco quando Egli, che sia lodato, dice: “Lo inabisserò nel saqar!” (alMuddaththir 74:26) Quando Allah minaccia con il Fuoco coloro che dicono: “Questa è solo la parola di un essere mortale!” (74:25) noi sappiamo per certo che è la parola del Creatore del genere umano e che è totalmente diversa dalla parola del genere umano. Non somiglianza ad Allah 34. Chiunque descriva Allah come simile in qualche modo ad un essere umano è diventato un infedele. Tutti coloro che comprendono questa volontà staranno in guardia e si tratterranno dal fare affermazioni simili a quelle degli infedeli e sapranno che Egli, nei Suoi attributi, non è come gli esseri umani. Visione di Allah 35. La Contemplazione di Allah da parte del Popolo del Giardino (Paradiso) è vera, senza che la loro visione sia onnicomprensiva e senza che sia nota la modalità della loro visione. Come si è espresso il Libro del nostro Signore: “In quel giorno vi saranno volti splendenti, con lo sguardo fisso verso il Signore.” (al-Qiyama 75:22-3) La spiegazione di questo è come Allah sa e vuole. Tutto ciò che ci è giunto su questo dal Messaggero, che Allah lo benedica e gli conceda la

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pace, in autentiche tradizioni, è come egli ha detto e significa ciò che egli ha inteso. Noi non ci addentriamo in questo, non proviamo a interpretarlo secondo le nostre opinioni e non lasciamo che la nostra fantasia prenda il comando. Il Vero Musulmano 36. L’Islam di un uomo non è sicuro a meno che non sia basato sulla sottomissione e sulla accettazione. Chiunque desideri sapere cose la cui conoscenza è al di là della propria capacità e chiunque non sia soddisfatto dell’accettazione, troverà che il suo desiderio lo allontana da una comprensione pura della vera unità di Allah, da una chiara conoscenza e da una corretta credenza, e che egli oscilla tra la fede e lo scetticismo, tra la conferma e la negazione e tra l’accettazione e il rifiuto. Egli sarà soggetto ai bisbigli e si troverà confuso e pieno di dubbi, poiché non sarà né un credente che accetta, né un non credente che rinnega. 37. La fede di un uomo nella contemplazione di Allah da parte del Popolo del Giardino non è corretta se egli immagina come possa essere o la interpreta secondo la sua personale comprensione, poiché l’interpretazione di questa visione e, in realtà, il significato di qualunque dei sottili fenomeni che si trovano nel regno del Signore, avviene evitando la sua interpretazione e attenendosi strettamente alla sottomissione. Questa è la religione dei Musulmani. Chiunque non si guardi dal negare gli attributi di Allah, o dal paragonare Allah a qualcun altro, ha perso il sentiero e non è riuscito a comprendere la gloria di Allah, poiché il nostro Signore, il Glorificato e il Celebrato, può essere descritto esclusivamente in termini di unicità e assoluta singolarità e nessuna creatura Gli assomiglia in alcun modo. 38. A Lui non possono essere posti limiti, non può essere soggetto a restrizioni, non ha arti o parti di corpo. Né può Egli essere contenuto nelle sei direzioni come tutte le cose create. [...] Al-Qadr - Il Decreto 42. Il patto che Allah fece con Adamo e la sua stirpe è vero. 43. Allah sapeva, prima dell’esistenza del tempo, l’esatto numero di coloro che sarebbero entrati nel Giardino e l’esatto numero di coloro che sarebbero stati mandati nel Fuoco. Questo numero non verrà né aumentato né

diminuito. 44. Lo stesso vale per tutte le azioni compiute dalle persone, le quali si verificano esattamente nel modo in cui Allah sapeva che sarebbero state realizzate. Ciascuno è indirizzato verso ciò per cui è stato creato ed è l’azione con la quale la vita di un uomo è sigillata a dettare il suo destino. Coloro che sono fortunati sono fortunati per decreto di Allah, e coloro che sono disgraziati sono disgraziati per decreto di Allah. 45. L’esatta natura del decreto è il segreto di Allah nella Sua creazione e a nessun angelo vicino al Trono, e a nessun Profeta inviato con un messaggio ne è mai stata data conoscenza. Addentrarci in questo e riflettere troppo su questo porta soltanto distruzione e perdita e sfocia nella ribellione. Siate dunque estremamente cauti nel pensare e riflettere su tale questione o nel lasciare che vi assalgano i dubbi, poiché Allah ha tenuto la conoscenza del decreto lontana dagli esseri umani e ha proibito loro di indagare su questo, dicendo nel Suo Libro: “A Lui non sarà chiesto conto di ciò che avrà operato, ad essi invece sì!” (al-Anbiya’ 21:23) [...] 46. Questo è in breve ciò che gli Amici di Allah con il cuore illuminato devono sapere, e ciò costituisce il grado di coloro che sono saldamente dotati di conoscenza. Esistono infatti due tipi di conoscenza: quella che è accessibile agli esseri creati e quella che non è accessibile agli esseri creati. Negare la conoscenza accessibile è mancanza di fede, e avanzare pretese nei confronti della conoscenza inaccessibile è mancanza di fede. La fede può essere salda soltanto quando viene accettata la conoscenza accessibile e non viene ricercata quella inaccessibile. [...]


Al-'Ummah 54. Noi chiamiamo la gente della nostra qibla Musulmani e credenti fintanto che essi riconoscono ciò che il Profeta, che Allah lo benedica e gli conceda la pace, ha portato e fintanto che accettano come vero tutto ciò che egli ha detto e ciò di cui ci ha narrato. 55. Noi non ci addentriamo in vane discussioni su Allah, né permettiamo dispute sulla religione di Allah. 56. Noi non discutiamo del Corano e affermiamo che esso è la parola del Signore di tutti i Mondi, con la quale lo Spirito Degno di Fiducia è sceso e che ha insegnato al più onorabile di tutti i Messaggeri, Muhammad, che Allah lo benedica e gli conceda la pace. È la parola di Allah e ad essa non è paragonabile la parola di alcun essere creato. Non diciamo che esso fu creato e non andiamo contro la Congregazione (jama`a) dei Musulmani a questo proposito. 57. Non consideriamo nessuno della nostra qibla come infedele a causa di nessuna cattiva azione che abbiano commesso, fintanto che essi non considerano quella azione come legittima. 58. Né affermiamo che la cattiva azione di un uomo di fede non abbia un effetto negativo su di lui. 59. Speriamo che Allah perdonerà coloro tra i fedeli che hanno compiuto buone azioni e che concederà loro di entrare nel Giardino per mezzo della sua Misericordia, ma non possiamo essere certi di questo, e non possiamo affermare che ciò accadrà sicuramente e che essi saranno nel Giardino. Chiediamo il perdono per coloro tra i fedeli che hanno compiuto cattive azioni e, benché temiamo per loro, non ci disperiamo per loro. 60. Sia la certezza sia la disperazione

allontanano dalla religione, ma il sentiero della verità per la gente della Qibla si trova tra queste due. 61. Una persona non abbandona la fede se non abiurando ciò che l’ha avvicinata ad essa. 62. La fede consiste nell’affermazione con la lingua e nell’accettazione con il cuore. 63. E tutto ciò che è provato dal Profeta, che la pace sia su di lui, a proposito della Shari`a e della spiegazione (del Corano e dell’Islam) è vero. 64. La fede è, in sostanza, la stessa per tutti, ma la superiorità di alcuni sopra altri è dovuta al loro timore e alla loro consapevolezza di Allah, alla loro opposizione ai propri desideri, e alla scelta di ciò che più piace ad Allah. 65. Tutti i credenti sono Amici di Allah e i più nobili tra di loro agli occhi di Allah sono coloro che sono più obbedienti e che seguono il Corano con maggior zelo. 66. La fede consiste nella fede in Allah, nei Suoi Angeli, nei Suoi Libri, nei Suoi Messaggeri, nell’Ultimo Giorno e nella credenza che il Decreto -- sia in ciò che vi è di buono e di cattivo, sia in ciò che vi è di dolce e di amaro -- viene da Allah. 67. Noi crediamo in tutte queste cose. Non facciamo alcuna distinzione tra i messaggeri, accettiamo come vero ciò che ognuno di loro ha portato. 68. Quelli della Comunità di Muhammad, che Allah lo benedica e gli conceda la pace, che hanno commesso peccati gravi saranno nel Fuoco, ma non per sempre, a patto che essi muoiano e incontrino Allah come credenti affermando la Sua unità anche se non si sono pentiti. Essi sono soggetti alla Sua volontà e al Suo giudizio.

Se Egli vuole, Egli può perdonarli e concedere loro la grazia per la Sua generosità, come è menzionato nel Corano quando Egli dice: “All’infuori di questo [shirk], egli perdona a chi Gli pare e piace” (al-Nisa' 4: 116); se egli vuole, egli li punirà nel Fuoco per la Sua giustizia, e poi li condurrà fuori dal Fuoco per la Sua misericordia e per l’intercessione di coloro che furono a Lui obbedienti, e li manderà nel Giardino. Questo accade perché Allah è il Protettore di coloro che Lo riconoscono e non li tratterà nell’aldilà così come tratta coloro che Lo negano, che sono privi della Sua guida e che non sono riusciti ad ottenere la Sua protezione. O Allah, Tu sei il Protettore dell’Islam e del suo popolo; rendici saldi nell’Islam fino al giorno in cui Ti incontreremo. 69. Acconsentiamo a compiere la preghiera sotto la guida di chiunque tra la gente della Qibla, siano essi giusti o ingiusti, e a compiere la preghiera funebre quando chiunque di loro muoia. 70. Non affermiamo categoricamente che uno di loro andrà al Giardino o nel Fuoco, e non accusiamo nessuno di loro di kufr (mancanza di fede), shirk (associare altre divinità ad Allah), o nifaq (ipocrisia), fintanto che non abbiano dimostrato apertamente uno di questi comportamenti. Lasciamo i loro segreti ad Allah. 71. Non acconsentiamo all’uccisione di nessuno nella Comunità di Muhammad, che Allah lo benedica e gli conceda la pace, a meno che non sia obbligatorio farlo secondo la Shari`a. 72. Noi non accettiamo la ribellione contro il nostro Imam o contro chi è a capo dei nostri affari anche se essi sono ingiusti, né auguriamo loro il male, né ci esimiamo dal seguirli. Riteniamo che l’obbedienza a loro sia parte dell’obbedienza ad Allah, il Glorificato, e perciò obbligatoria fintanto che essi non ordinano di commettere peccati. Preghiamo per la loro giusta guida e chiediamo la grazia per i loro errori. 73. Seguiamo la Sunna del Profeta e la Congregazione dei Musulmani ed evitiamo la devianza, le differenze e le divisioni. 74. Noi amiamo le persone giuste e affidabili, e odiamo quelle ingiuste e sleali. 75. Quando la nostra conoscenza di qualcosa non è chiara noi diciamo: “Allah è più saggio.” [...]

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Al-Akhirah - Dopo la Vita 78. Crediamo nei nobili angeli che prendono nota delle nostre azioni, poiché Allah ce li ha assegnati come due guardiani. 79. Crediamo nell’Angelo della Morte che si occupa di prendere gli spiriti di tutti i mondi. 80. Crediamo nella punizione nella tomba per coloro che la meritano, e nelle domande nella tomba da parte di Munkar e Nakir sul proprio Signore, la propria religione e il proprio profeta, come viene trasmesso negli hadith dal Messaggero di Allah, che Allah lo benedica e gli conceda la pace, e nei racconti dei Compagni, che Allah si compiaccia in tutti loro. 81. La tomba è uno dei prati del Giardino o una delle fosse del Fuoco. 82. Crediamo nella resurrezione dopo la morte e nella ricompensa per le nostre azioni nel Giorno del Giudizio, nell’esposizione delle opere, nella resa dei conti, nella lettura del libro, nella ricompensa o nelle punizioni, nel Ponte e nell’Equilibrio. 83. Il Giardino e il Fuoco sono cose create che non giungeranno mai ad una fine e noi crediamo che Allah le abbia portate in essere prima del resto del creato e che poi Egli abbia creato le persone che abiteranno ciascuno di essi. Chiunque Egli desideri va nel Giardino per la Sua munificenza e chiunque Egli voglia va nel Fuoco verso ciò per cui è stato creato. 84. Sia il bene sia il male sono stati entrambi decretati per le persone. 85. La capacità, in termini di grazia divina e di favore, di far sì che

un’azione si verifichi non può essere attribuita ad un essere creato. Questa capacità è parte integrante dell’azione, mentre la capacità di compiere un’azione, in termini di salute e abilità, trovandosi nella posizione di agire e possedendo i mezzi necessari, esiste in una persona prima dell’azione. È questo tipo di capacità che è l’oggetto dei precetti della Shari`a. Allah il Glorificato dice: “Il Dio carica sulle spalle di ognuno solo il peso che egli può portare.” (al-Baqara 2:286) 86. Le azioni delle persone sono create da Allah ma guadagnate dalle persone. 87. Allah, il Glorificato, ha caricato sulle spalle delle persone solo il peso che esse possono portare e le persone sono in grado di fare soltanto ciò che Allah ha concesso loro di fare. Questa è la spiegazione dell’espressione: “Non c’è potere e forza se non da Allah.” Aggiungiamo a questo che non esiste stratagemma o modo in cui una persona possa evitare o rifuggire la disobbedienza ad Allah se non con l’aiuto di Allah; e nessuno possiede la forza di mettere in pratica la disobbedienza ad Allah e rimanere saldo in essa, a meno che Allah non glielo renda possibile. 88. Tutto accade secondo la volontà di Allah, la Sua conoscenza, la predestinazione e il decreto. La Sua volontà supera tutte le altre e il Suo decreto supera qualunque stratagemma. Egli fa ciò che Egli vuole e non è mai ingiusto. Egli è esaltato nella Sua purezza sopra ogni male o perdizione ed Egli è perfetto al di là di ogni difetto o colpa. “A lui non sarà chiesto conto di ciò che avrà operato, ad essi invece sì!”

(Anbiya' 21:23) 89. I morti traggono beneficio dalle suppliche e delle elemosine dei vivi. 90. Allah risponde alle suppliche della gente e dà loro ciò che chiedono. 91. Allah ha il controllo assoluto su tutto e nulla ha controllo su di Lui. Nulla può essere indipendente da Allah, nemmeno per il battito di un ciglio, e chiunque si consideri indipendente da Allah, anche solo per il battito di un ciglio, è colpevole di mancanza di fede e entra a far parte della gente della perdizione. 92. Allah è irato ed è compiaciuto ma non nello stesso modo delle creature. […] 102. Concordiamo sul fatto che restare uniti è il vero e giusto cammino e che la separazione è deviazione e tormento. 103. Esiste un’unica religione da Allah nei cieli e sulla terra e questa è la religione dell’Islam (“sottomissione”). Allah dice: “La religione verace, amata dal Dio, è l’islām.” (Al `Imran 3: 19) Ed Egli dice anche: “Lieto sono io nel sapere che l’islām è la vostra religione.” (al-Ma'ida 5: 3) 104. L’Islam si trova tra l’eccesso e la mancanza, tra il paragonare gli attributi di Allah al creato (tashbih) e privare Allah degli attributi (ta`til), tra il determinismo e il libero arbitrio, e la certezza e la disperazione. 105. Questa è la nostra religione ed è ciò in cui crediamo, sia internamente sia esternamente, e noi rinunciamo ad ogni associazione, davanti ad Allah, con chiunque vada contro ciò che abbiamo detto e chiarito.


Sermone dell’Addio Disse il Profeta (s.A.'a.s.) sul Monte della Misericordia nel pellegrinaggio di Addio: "Popolo, ascoltate le mie parole (e fatene tesoro), poiché io non so se mi sarà concesso di potervi incontrare in questo luogo e di eseguire il pellegrinaggio, dopo quest'anno. Oh gente! ALLAH dice: Oh uomini, vi abbiamo creato da un maschio e da una femmina e abbiamo fatto di voi popoli e tribù affinché vi conosceste a vicenda. Presso ALLAH, il più nobile di voi è colui che più lo teme. Un arabo non é superiore ad un persiano né un bianco ad un nero, tranne che in timor di ALLAH. Tutto il genere umano discende da Adamo ed Adamo fu creato dalla polvere. Ogni pratica dei giorni dell'ignoranza e oggi sotto i miei piedi! Tutti gli interessi e le usure sono aboliti. Gente! il vostro sangue, i vostri beni e il vostro onore sono inviolabili fino al giorno in cui comparirete davanti al vostro Signore, come inviolabili sono questi giorni, questo mese, questa città. In verità, tra non molto, ciascuno di voi dovrà rispondere delle sue azioni. Gente! Quelli di voi che sono coniugati hanno dei diritti nei confronti delle loro mogli e le mogli, a loro volta hanno diritti nei confronti dei loro mariti. E dovere dei mariti rispettare I diritti coniugali delle mogli ed e loro diritto che le mogli si comportino onestamente. Se esse si comportano disonestamente, ALLAH vi autorizza a non adempiere il debito coniugale, allontanandole dai vostri letti e, castigarle, ma non severamente. Se si ravvedono é vostro dovere provvedere a vestirle e a nutrirle, mantenendole come si conviene. Non é concesso alla moglie di dare a terzi una cosa di proprietà del marito, senza il consenso di lui. Trattate le donne con gentilezza, poiché esse sono le vostra compagne e sono il gentil sesso. Siate testimoni di ALLAH per quanto concerne le donne, poiché è ALLAH che ve le ha affidate e dalla Parola di ALLAH deriva il vostro diritto di unirvi con loro. Nessuna cosa appartenente ad un fratello è lecita per un musulmano, ad eccezione di quella che gli viene data vo-

lontariamente. Perciò non fatevi torti a vicenda. Gente! Ogni musulmano e fratello di ogni altro musulmano e tutti i musulmani costituiscono una fratellanza. Per quanto riguarda i vostri dipendenti, o padroni, siate solleciti a nutrirli con ciò' di cui voi stessi vi nutrite e a vestirli con gli abiti cui vi vestite voi stessi. State attenti a non andare alla rovina, dopo di me, litigando tra voi e facendovi violenza gli uni gli altri. Gente! Nessun profeta verrà suscitato dopo di me e nessuna comunità religiosa si formerà dopo di voi (per volere di ALLAH). In verità, io vi lascio qualcosa che, se ad esse vi attenete, vi impedirà di andare in perdizione: il libro di ALLAH e la condotta del suo Profeta. Satana ha ormai perduto ogni speranza di essere adorato in questa terra, però non si darà per vinto e cercherà di sedurvi in cosa minori dell’adorazione, perciò state attenti a non lasciarvi sedurre da lui in qualcuno degli aspetti minori della religione. Adorate ALLAH, il Signor vostro, eseguite le cinque orazioni quotidiane, osservate il digiuno del mese di Ramadan, pagate prontamente la purificazione dei vostri beni (zakat), eseguite il pellegrinaggio alla casa di ALLAH, obbedite a chi tra voi ha il comando e, cosi facendo, entrerete nel paradiso del vostro Signore. Che coloro che sono presenti portino questo messaggio a chi é assente. Può darsi che molti di coloro a cui il messaggio sarà portato lo capiscono meglio di coloro che lo hanno udito con le loro orecchie. E finalmente disse il profeta Muhammad (s.A.'a.s.): Quando vi chiederanno di me cosa direte? All’unisono i presenti risposero: Noi renderemo testimonianza che tu ci hai portato il messaggio che ti era affidato, hai adempiuto la tua missione e ci ha consigliato per il nostro bene! Allora l'Apostolo di ALLAH (s.A.'a.s.) alzò verso il cielo la sua mano chiusa con l’indice teso e poi, rivolgendola verso i presenti, disse: Oh ALLAH, rendi testimonianza! Oh ALLAH, rendi testimonianza!

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COSTITUZIONE (LEGGE FONDAMENTALE) DELL’UNIONE DELLE REPUBBLICHE SOCIALISTE SOVIETICHE (Approvata dall’VIII Congresso (straordinario) dei Soviet dell’URSS il 5 dicembre 1936) Art. 122 - Alla donna sono accordati nell’URSS diritti uguali a quelli dell’uomo in tutti i campi della vita economica, statale, culturale e socio-politica. La possibilità di esercitare questi diritti è assicurata dall’attribuzione alla donna dello stesso diritto dell’uomo al lavoro, alla retribuzione del lavoro, al riposo, all’assicurazione sociale e all’istruzione; dalla tutela, da parte dello Stato, degli interessi della madre e del bambino; dalla concessione di congedi di gravidanza alla donna, con mantenimento del salario, e da un’ampia rete di case di maternità, di nidi e di giardini d’infanzia.


В. В. Маяковский ВЛАДИМИР ИЛЬИЧ ЛЕНИН Мы хороним самого земного изо всех прошедших по земле людей. Он земной но не из тех, кто глазом упирается в свое корыто. Землю всю охватывая разом, видел то, что временем закрыто. Он как вы иясовсем такой же, только может быть у самых глаз мысли больше нашего морщинят кожей да насмешливей и тверже губы, чем у нас. Не сатрапья твердость триумфаторской коляской, мнущая тебя, подергивая возжи. Он к товарищу милел людскою лаской. Он к врагу вставал железа тверже. Знал он слабости знакомые у нас как и мы перемогал болезни. Я знал рабочего. Он был безграмотный.

Vladimir Ilic Lenin Noi seppelliamo quest'oggi l'uomo piu ̀terrestre che sulla terra abbia camminato, un uomo terrestre non come quelli che vedono soltanto il loro passo, ma un uomo terrestre che ha visto il segreto del mondo e ciò che il tempo nasconde. Egli è simile a noi, in tutto uguale, solo, all'angolo degli occhi più che a noi forse, gli corrugano la pelle i suoi pensieri e le labbra ha più ironiche e più dure. Ma non è la durezza del tiranno che ti travolge sul carro del trionfo con uno strappo di redini. Lenin si ergeva contro il nemico più duro del ferro,

Не разжевал даже азбуки соль. Но он слышал, как говорил Ленин, и он знал - всё. Я слышал рассказ крестьянина-сибирца. Отобрали, отстояли винтовками и раем разделали селеньице. Они не читали и не слышали Ленина, но это были ленинцы. Я видел горы на них и куст не рос. Только тучи на скалы упали ничком. И на сто вёрст у единственного горца лохмотья сияли ленинским значком. Скажут это о булавках Ахи. Барышни их вкалывают из кокетливых причуд. не булавка вколота значком прожгло рубахи сердце, полное любовью к Ильичу. Этого не объяснишь церковными славянскими крюками, и не бог ему велел избранник будь! Шагом человеческим, рабочими руками, собственною головой прошёл он этот путь.

ma col compagno era dolce come una materna carezza. Le nostre debolezze erano le sue debolezze, come noi superava le stesse malattie. Ho incontrato un operaio analfabeta. Non sillabava neppure una parola. Ma aveva sentito la voce di Lenin ed egli sapeva tutto. Ho ascoltato il racconto d'un contadino siberiano: espropriarono le terre, le difesero con le baionette e come un paradiso diventò il villaggio. Essi mai avevano letto Lenin, nè ascoltata la sua parola, ed erano leninisti. Ho visto montagne senza erbe né fiori.

Soltanto le nuvole pesavano sulle rocce e nello spazio di cento verste c’era un solo montanaro, ma sopra il petto, sul vestito di stracci, gli scintillava il simbolo di Lenin. Oh, non è un ornamento che le ragazze appuntano per civetteria, non è un amuleto, è un emblema il distintivo sul cuore che brucia pieno d'amore per Il'itch. Questo prodigio non si spiega coi libri della subdola teologia slava e non è un Dio che a lui ordinò: «Sii il mio eletto». Con passo d'uomo e braccia d'operaio, con la sua intelligenza, egli percorse questo cammino.


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Per il lungo fronte di scompartimenti e cabine un funzionario cortese s'avanza. Porgono i passaporti e io consegno il mio libriccino purpureo. Per certi passaporti ha un sorriso alla bocca. Per altri un contegno sprezzante. Con rispetto prende i passaporti con il leone inglese a due piazze. Mangiandosi con gli occhi il bravo zio, senza cessare d'inchinarsi, prende, come prendesse una mancia, il passaporto d'un Americano. E a un tratto la sua bocca si contorce come per una scottatura.

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и стр ытр рте на а к м е о р е . м ио и тр ца а еое н кн у на а еое а.оу еое н т н мс му ю еоетк ро по.саргак .орсо к е , ео , б ндп нд т япа ор т о иб ло у ы еоя карб к п ео д,у а ио д, а ет, ио и з пе к нд дв дл нм е о тлк х з с ом тл йт етя й ортр с нптео к на жарр в в ло чт о, ау ло тс , ау б в о.сортр ю а е в ю мло Il signor funzionario infatti prende il mio passaporto dalla pelle rossa. Lo prende come una bomba, lo prende come un riccio. come un rasoio a due tagli. Con quale voluttà dalla casta gendarmesca io sarei fustigato e crocifisso perché ho fra le mani, con falce e martello, il passaporto sovietico. Io come un lupo divorerei il burocratismo. Ma questo... Io lo traggo dalle larghe brache, duplicato d'un peso inestimabile. Leggete, invidiate, io sono cittadino dell'Unione Sovietica. (Vladimir Majakovskj)


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