NOVEMBRE-DICEMBRE

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Mensile di informazione, politica e cultura dell’Associazione Luciana Fittaioli - Anno VII - nn. 11-12 novembre-dicembre 2015 - distribuzione gratuita


Il “Job Act” della Confindustria e la ripresa che non c’é 9 mesi dal “lancio” del Job Act di Renzi (di Sqinzi!), dopo l’annuncio dei dati “falsati” del Ministro del Lavoro sull’aumento dell’occupazione, poi “coretti” di diverse centinaia di migliaia con la cancellazione di numeri insesistenti, questo è il bilancio della nuova legge sui contratti di lavoro: 1) nonostante la forte incentivazione alla stipula dei nuovi contratti così detti “a tutele crescenti” (bonus fiscale 2015 di 8 mila euro per assunto), oltre i due terzi dei nuovi contratti sono stati stipulati a tempo determinato, i padroni hanno “schifato” il regalo del Governo; 2) nonostante l’aumento dei contratti di lavoro, che dovrebbe corrispondere alla creazione di nuovi posti di lavoro, il monte ora lavorate in Italia è diminuito, che significa che i nuovi contratti e molti dei precedenti “riconvertiti” sono a part-time, termine inglese che in lingua italiana si traduce in “sotto-occupazione”, dunque dal precariato si sta passando alla sotto-occupazione, senza tutele giuridiche e previdenziali per i nuovi occupati (contrattualizzati); 3) la percentuale dei giovani disoccupati ha toccato il massimo storico del 44,2%, mentre l’occupazione giovanile è scesa al suo minimo storico del 14,5%, dunque nessuna nuova assunzione giovanile, neppure con bonus, a part-time e senza tutele; 4) la disccupazione complessiva è risalita al 12,7%, prossima al suo massimo storico del 13% del novembre 2014, tutto ciò mentre il calo dell’euro e del prezzo del petrolio e l’abbondanza della liquidità bancaria fornita dalla BCE ha raggiunto condizioni di massimo favore per l’industria italiana. In sostanza un fiasco economico clamoroso, ma forse (e magari anche più del “forse”) un successo politico padronale che con la collaborazione del Governo Renzi, intanto, ha cancellato i diritti dei lavoratori “gratis”!


Eppure

Per gli incolori che non hanno canto neppure il grido, per chi solo transita senza nemmeno raccontare il suo respiro, per i dispersi nelle tane, nei meandri dove non c'è segno, nÊ nido, per gli oscurati dal sole altrui, per la polvere di cui non si può dire la storia, per i non nati mai perchÊ non furono riconosciuti, per le parole perdute nell'ansia per gli inni che nessuno canta essendo solo desiderio spento, per le grandi solitudini che si affollano i sentieri persi gli occhi chiusi i reclusi nelle carceri d'ombra per gli innominati, i semplici deserti: fiume senza bandiere senza sponde eppure eterno fiume dell'esistere. (Pietro Ingrao)


Coalizione e rivista di Sandro Ridolfi

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Xi Jinping negli Usa Un maoista nell’ “Impero del male” di Sandro Ridolfi

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Intervento del Papa all’ONU Il trionfo dell’ingiustizia di Alberto Donati

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La Sinistra in Europa Sinistra mia non ti conosco di Giacomo Bertini

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Blair, Iraq Inquiry Il nipotino del “bisonte della reazione” di Sandro Ridolfi

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Giubileo 2016 L’aggravamento dell’ordine pubblico di Alberto Donati

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Riforma “Giannini” La buona e la cattiva scuola di Chiara Mancuso

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Nepal tra India e Cina Storie di emigrazione a cura della Redazione

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Mediterraneo ed Europa Il Mediterraneo come paradigma di Ivano Spano

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Atene Sovietica La democrazia primitiva a cura della Redazione

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La decadenza dell’Impero romano (terza parte) Analogia con l’attuale società occidentale di Alberto Donati pagina 464 Ancora sul marxismo Il materialismo: Mao, Stalin, Guevara a cura di Sandro Ridolfi

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S ommario del mese di novembre-dicembre 2015 Le lingue degli “altri” 1 Il Tramonto di Isaak Babel a cura della Redazione

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Le lingue degli “altri” 2 Il camnion per Berlino di Hassan Blasim a cura della Redazione pagina 480 Giovani a confronto Chi parte e chi resta di Giacomo Bertini

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Sogni e Poesia Il teatro di Vucciria di Sara Mirti

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Teatro Sordo Il Laboratorio Zero di Roma (quarta parte) di Dario Pasquarella pagina 492 Medusa Della bellezza insultata a cura di Dario Pasquarella

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Venga a prendere il caffè da noi Infedele per vocazione di Catia Marani

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Amilcare Bencivenga Professore di filosofia di Francesca De Angelis

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70°della vittoria Immagini da Piazza Tienanmen a cura della Redazione

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La coalizione sociale e la rivista comunista Il 13 settembre scorso si è svolta al Teatro Ambra Jovinelli di Roma la seconda assemblea nazionale della “Coalizione Sociale”, convocata per fare il punto sul lavoro svolto dopo la prima assemblea di giugno e programmare quello futuro. Molte associazioni hanno portato il resoconto del lavoro svolto e altre i nuovi progetti di lavoro per il futuro. I resoconti e i progetti sono stati assolutamente encomiabili per l’impegno di lavoro e di idee, ma il bilancio complessivo è stato di una sostanziale modestia (intesa in termini quantitativi e non certo qualitativi) della mobilitazione auspicata. La stessa FIOM, che pure si era fatta interprete dell’esigenza di una “rivoluzione culturale” nella vita politica dei lavoratori italiani (tutti: occupati, disoccupati e giovani in cerca di prima occupazione) e si era posta come promotore del progetto di rinascita della cultura della solidarietà e della partecipazione, sembra essersi un poco defilata, rinchiusa nel suo principale compito (giusto e corretto) di difensore dei diritti e degli interessi dei lavoratori della categoria di appartenenza, in un momento peraltro di estrema debolezza dell’intero sistema produttivo nazionale e occidentale. Non è il caso certamente di trarre conclusioni di insuccesso di una così grande proposta politica. Troppo presto per farlo e troppo profonda la china da cui risalire dopo tanti anni di devastazione culturale e politica per immaginare risultati eclatanti al solo inizio di una lunga, forse lunghissima marcia. Basti pensare alle vicende della Grecia che nella seconda chiamata elettorale ha visto quasi la metà della popolazione rimanere assente, passiva, remissiva. Non siamo nelle condizioni della Grecia e non ci arriveremo (c’è un abisso di potenzialità produttive tra i nostri due Paesi), ma la strada segnata sembra essere la stessa: smantellamento dello stato sociale e dei diritti dei lavoratori e, quindi, del futuro delle nuove generazioni, almeno per quello che avevano immaginato le generazioni precedenti. La così detta “politica ufficiale” si perde in stupidaggini, chiacchiere e sceneg-

giate. E’ buffo (buffo?!) sentire dire da un imprenditore nazionale di primissimo livello mondiale che il job act è “solo” una legge che regola i rapporti di lavoro, ma a condizione che questi rapporti ci siano, che cioè ci sia il lavoro, altrimenti è solo “fumo”; come fumo sono il Senato delle Regioni e tante altre inutili amenità del “governicchio” Renzi e sue coccinelle. Eppure di fronte a questa situazione di degrado (“degrado” è forse il termine più pertinente) apparentemente si stende una “calma piatta” di assenza e passività. Avevamo già scritto che la “bonaccia” (calma piatta in mare) è spesso il preavviso di una tempesta in arrivo. Restiamo della stessa idea e speranza. Con questo numero di novembre-dicembre 2015 Piazza del Grano completa sette anni solari dalla prima edizione in bianco e nero del settembre 2009. Sette anni che hanno visto una vasta, qualificata e diversificata partecipazione di collaborazioni, e soprattutto un grande numero di lettori affezionati e attenti come testimoniano le oltre 250.000 copie distribuite in questi anni. Partendo da una edizione in formato quotidiano in bianco e nero di 8 pagine, giunge con questo numero a 100 pagine a colori in formato di rivista, quasi un libro. In sette anni, grazie alla passione e alla fantasia degli oltre 200 “scrittori”, abbiamo toccato e trattato i più diversi temi senza scrupoli, remore o false presunzioni. Dalla filosofia greca all’oroscopo, dalle religioni orientali alla cucina, dall’economia politica alle favole per bambini, e così via. A tutti coloro che hanno voluto dare il loro contributo è stato dato spazio e possibilità di esprimersi al meglio delle proprie competenze e passioni, non solo senza neppure la stessa idea di una “censura” selettiva dei contenuti, ma neppure di qualità di mezzi espressivi, affiancando senza remore reverenziali e ipocrite presunzioni, giovani a professori universitari, operai a scrittori professionali, ecc. Lo scopo era di produrre del materiale accessibile a tutti: per età, strumenti culturali e interessi; creare una piazza non “virtuale” ma tangibile,

sempre più ampia e bella, di scambio e incontro. La rivista è stata pensata come un operatore culturale aperto e flessibile, affiancando anche la disponibilità di uno spazio fisico attrezzato (biblioteca, sala computer, sala eventi e proiezioni) dapprima in via della Piazza del Grano (da cui il nome della rivista) e poi in Corso Cavour; nonché promuovendo eventi culturali e politici (dalla conferenza di Cremaschi in via della Piazza del Grano, a quella di Veltroni a Palazzo Trinci), ma anche musica, presentazione di libri, ecc. Dopo sette anni è venuto il momento di tirare un bilancio e di dover prendere atto che, se la rivista di per sé, come si dice, “funziona” ancora e bene, il progetto del promotore culturale non è decollato. La rivista (ce lo diciamo da soli) sta rischiando di trasformarsi da “provocatore” di intelligenza in “dispensatore” di intelligenze; con un termine molto brutto si sta trasformando in un “prodotto” autoreferenziale. Non era e non è questo lo scopo per il quale è stata pensata, fortemente e faticosamente sostenuta in tutti questi anni. Occorre concludere che la rivista (il progetto pensato dietro lo strumento della rivista) sta infondo scontando la stessa “calma piatta” che caratterizza l’intero scenario della vita politica, intesa come polis partecipazione diretta dei cittadini. E’ tempo allora di fare una pausa di riflessione e quindi di “fermarci”. Mai dire mai è la regola di ogni impegno politico e grande è la consapevolezza della asperità della strada da percorrere dal degrado nel quale è caduto il nostro Paese. Dunque non una fine, ma una sospensione di riflessione. Con questo numero cessano per ora le pubblicazioni di Piazza del Grano, ma il sito internet resta aperto, accessibile sia per l’archivio dei sette anni di pubblicazioni, sia per gli eventuali scambi, commenti, suggerimenti, nuove proposte che facciano rinascere la rivista, ma con il concorso e la partecipazione attiva e appassionata di tanti, se non di “tutti”. Grazie a tutti coloro che hanno partecipato in ogni modo: scrivendo, distribuendo e, soprattutto, leggendo. (SR)

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di Sandro Ridolfi Un evento “epocale” Xi Jinping, Presidente della Repubblica popolare, ma anche Segretario Generale dal Partito Comunista cinese, ha visitato per la seconda volta gli Stati Uniti del nord America, con l’obiettivo di stabilire nuovi legami fondamentalmente commerciali (economici e finanziari) tra i due Stati, ma anche per sostenere gli scambi culturali e scientifici, nonché le relazioni tra i due popoli. Quasi ignorato del vergognoso livello di “non-informazione” dei mezzi di comunicazione nostrani (non a caso L’Italia è al 180esimo posto nella classifica mondiale della libertà di stampa, dopo lo Zimbabwe!) questo viaggio costituisce un evento “epocale” destinato a cambiare la storia almeno di questo secolo XXI. La super-potenza comunista cinese ha incontrato la (sempre più ex) super-potenza capitalista americana per affermare che il mondo non è più “unipolare”, ma neanche “bipolare” come ai tempi dell’USA-URSS, ma “multipolare”, dove tutti gli Stati hanno gli stessi diritti e nessuno ha più quello di decidere per tutti. In un mondo di “uguali”, legati da un unico destino planetario, non ci dovrà più essere spazio per le guerre, per il dominio, per lo sfruttamento. Ognuno potrà e dovrà percorrerà la strada che sarà in grado di scegliere, ma non sarà a spese degli altri, ma inestricabilmente con gli altri. L’argomento è vastissimo, dagli innu-

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merevoli aspetti e riflessi; in questo articolo, in coerenza con l’ispirazione marxista-leninista di questa rivista, vogliamo trattare brevemente l’aspetto delle ragioni della scelta del Partito (e dello Stato) comunista cinese. L’ “impero del male” E’ pacifico che gli Stati Uniti sono un Impero, il più grande, potente e violento nella storia dell’umanità, tale da meritare giustamente l’attributo di “impero del male”. Sino alla seconda guerra mondiale gli Stati Uniti si sono dedicati al saccheggio del centro e del sud America, il loro “giardino di casa”, seguendo l’indirizzo politico di James Monroe che, al Congresso del 1823, affermò: “l’America agli americani”, politicamente e militarmente tradotto in: “l’America ai nord americani”. Per quasi due secoli gli Stati Uniti hanno sostenuto, difeso e spesso imposto regimi dittatoriali in tutti gli Stati del centro-sud America, non facendosi scrupoli, ma anzi vanto di rovesciare governi legittimi (affermò il segretario di Stato Henry Kissinger, all’epoca dell’assassinio di Salvador Allende, che il governo di uno Stato era “una questione troppo importante perché gli elettori cileni possano essere lasciati a decidere da soli”). Su quella barbarie politica ed economica, ma anche sulla ingiustizia e sulla discriminazione sociale al proprio interno nei con-

fronti delle minoranze indigene, nere, ispaniche e, anche, europee povere non anglofone, gli Stati Uniti hanno creato una immensa ricchezza per la loro ristretta oligarchia dominante (il 50% della ricchezza degli Usa è in mano all’1% della popolazione, mentre il 90% della popolazione possiede poco più del 10% della ricchezza). Questa ricchezza, investita nella creazione di un esercito di dimensioni impressionanti (gli Usa spendono per la difesa una somma pari a quella dei 20 maggiori Stati che seguono, Russia e Cina incluse), dopo la seconda guerra mondiale ha consentito agli Usa di invadere (sostanzialmente) e sottomettere tutti gli altri continenti, saccheggiando anche quelli e così sempre più incrementando l’immensa ricchezza della propria oligarchia. Non contenti degli espropri “manu militari”, gli Stati Uniti hanno anche “tassato” il Mondo imponendo la loro moneta, il dollaro, che hanno stampato e continuano a stampare a totale discrezione senza alcuna reale contropartita di valore economico (non solo senza parità con l’oro, ma persino con lo stesso PIL), che il resto del Mondo, in virtù dell’equiparazione con il petrolio (“petrodollaro”), è stato costretto ad accettare, finanziando così l’immenso deficit degli USA (si stima più volte superiore alla sua ricchezza reale). Ma non è finita qui.


Un maoista nel cuore dell’“impero del male” Nel 2009 gli Stati Uniti hanno infestato il Mondo con i loro “titoli tossici” dando il via a una crisi economica mondiale che ancora oggi non si riesce a fermare. Con la dottrina Bush delle “guerre preventive”, hanno poi destabilizzato l’intero Medio Oriente con riflessi, oggi, estesi sino all’Africa centro-settentrionale. Come mai allora il Presidente della Cina comunista oggi tornata, proprio in seguito alla sua elezione, al più rigoroso maoismo, tende la mano a questo “impero del male”, con l’esito paradossale di aiutarlo a evitare, o almeno a rallentare un declino politico ed economico oramai inarrestabile? La risposta è proprio nell’insegnamento maoista, ovvero marxista-leninista; la risposta è nel pensiero scientifico del materialismo storico. Comunismo, socialismo, materialismo storico Al materialismo storico marxista-leninista abbiamo dedicato numerosi articoli negli ultimi numeri della rivista e anche in questo numero ci torniamo pubblicando alcuni contributi dei suoi maggiori teorici. In questa sede, al solo fine di commentare le ragioni del viaggio di Xi Jinping negli USA, faremo quindi solo pochi cenni per massime a fini di semplicità esplicativa. Cominciamo col definire il “comunismo”, o meglio l’obiettivo finale della costruzione della “società comunista”: il “comunismo” è una società dove non ci saranno più classi sociali, né Stato, né lo stesso Partito Comunista, ove ciascuno sarà libero di realizzare i propri desideri, e quindi la propria individualità personale, perché: da un lato sarà padrone unico del prodotto del proprio lavoro, dall’altro ci saranno beni e mezzi a sufficienza perché ciascuno ab-

bia quanto gli occorre senza nulla dover togliere ad altri. Possiamo a questo punto definire il “socialismo”, ovvero quel percorso economico, politico, culturale e sociale che porterà al suo termine alla realizzazione della società comunista: il “socialismo” è null’altro che la produzione di beni, con l’attenzione di dividerli sempre più equamente tra tutti. Ha scritto il Che: “più produciamo beni da dividere equamente tra il popolo, più avanziamo nella costruzione del socialismo”. Perché è necessario produrre beni per cambiare una società ingiusta e ineguale in una società giusta e comunista ce lo insegna il “materialismo storico”. “Le idee giuste non cadono dal cielo, né sono innate nelle persone”, ha scritto Mao, esse sono il prodotto dei rapporti economici della società che le riflette; per cambiare le idee sbagliate in quelle giuste occorre cambiare i rapporti di produzione, cioè cambiare la realtà materiale. Il socialismo, producendo beni e dividendoli tra tutti, crea quelle diverse condizioni materiali che porteranno alla produzione di idee diverse; cambiando le condizioni materiali ingiuste, crea le condizioni materiali per una nuova società giusta. L’uomo, l’essere umano, non è geneticamente buono o cattivo, onesto o disonesto, pacifico o violento, sono le condizioni materiali nelle quali nasce, si forma e vive, che ne determinano la natura, i pensieri e le azioni. Una realtà povera genera (e impone) ignoranza, sfruttamento, espropriazione e violenza; una realtà benestante genera (e comporta) sapienza, onestà, rispetto e pace sociale. Ecco allora i due capisaldi fondamentali per la costruzione della società socialista: la “pace” e lo “scambio”.

La pace e lo scambio La “pace” è sempre stata un punto fondamentale, una pregiudiziale irrinunciabile del marxismo-leninismo, perché la guerra (qualsiasi guerra anche se moralmente giusta) comporta sempre violenza, distruzione e impoverimento economico e morale e quindi si pone in antagonismo radicale e inconciliabile con gli interessi del popolo (dei popoli). All’indomani stesso della presa del potere da parte della rivoluzione bolscevica Lenin impose – letteralmente “impose” contro il parere di moltissimi, incluso lo stesso Trotsky creatore dell’Armata Rossa - la stipula della pace di Brest-Litovk, con la quale la Russia vedeva menomato il suo antico impero di quasi tutti gli Stati occidentali, ma il massacro di popolo aveva termine. Fu in realtà un “desiderio”, perché subito dopo la fine della prima guerra mondiale gli eserciti vincitori, uniti a vasti pezzi degli sconfitti, aggredirono la neo-nata Russia sovietica cercando di abbatterne il governo popolare, senza successo ma al prezzo di altri tre anni di guerra bestiale. Dialogare con “l’impero del male”, come anche con il rinato militarismo giapponese o qualsiasi altro regime anche violento e dittatoriale (dal Myanmar, all’Africa centrale) per la Cina marxista-leninista è dunque un imperativo che significa escludere alla radice qualsiasi rischio di guerra tra i popoli. Ciò non vuol dire che nella fase di costruzione del socialismo non siano necessari eserciti e che quindi non sia necessario dover sperperare immense risorse economiche in insulsi investimenti militari: la “pace armata” è una conseguenza inevitabile della genetica determinazione del capitalismo di schiacciare popoli, governi e civiltà intere da sottomettere e sfruttare.

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Ma deve essere “pace” o comunque “non guerra”; da qui la ricerca costante del dialogo, dei luoghi di confronto politico-diplomatico (vedi la visita all’ONU), che evitino le bestialità che abbiamo visto di recente molto da vicino nella disintegrazione militare della ex Jugoslavia e ancora oggi vediamo nel violento conflitto militare tra il governo fascista di Kiev e le regioni russofone dell’Ucraina sud orientale. La bestialità dell’embargo Il secondo caposaldo è quello dello “scambio”, cioè della instaurazione e mantenimento di relazioni fondamentalmente economiche, ma anche scientifiche e culturali, con tutti gli Stati e i relativi popoli, qualunque sia la natura e la tendenza del regime al governo. Due ragioni sostengono questa necessità: una morale e l’altra materiale. Isolare un popolo (lo strumento tipico è quello dell’embargo) è una delle misure politiche più violenta e disumana che si possa concepire perché, ipocritamente mirando a un governo, in realtà colpisce un popolo che potrebbe essere lui stesso vittima di quel governo. L’esempio è semplice e di immediata evidenza: basta pensare all’assedio di una città i cui difensori (gruppo al potere) non si arrendono e allora viene affamato tutto il popolo di quella città, perché si ribelli e si unisca agli aggressori, o perché soffrendo e morendo tolga di fatto sostegno materiale al gruppo al potere. Oltre 50 anni di embargo hanno costretto il popolo cubano e vivere di aiuti, quando ce ne sono stati, o delle poche risorse a disposizione di un’isola, come dice il nome: isolata. Qualunque siano state le ragioni politiche per cui l’oligarchia al potere nell’ “impero del male” ha cercato di abbattere il regime ostile di quell’isola, per 50 anni il popolo cubano è stato condannato al sottosviluppo e a una onorevole povertà. Il marxismoleninismo insegna invece lo spirito internazionalista secondo il quale tutti i popoli sono titolari di uguali aspirazioni e aspettative e che non può esserci un popolo libero (poeticamente potremmo dire: felice) se non sono liberi (e felici) tutti i popoli del mondo. Quindi mai un governo marxista-leninista potrà immaginare politiche di esclusione di popoli fossero anche quelli dell’Impero Usa, delle dittature di Myanmar o di tanti altri Stati dittatoriali, violenti o fascisti asiatici, africani o americani.

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L’economia globalizzata La seconda ragione è propriamente economica. In un mondo di economia globale o globalizzata tutte le economie nazionali sono legate a un destino fortemente unitario, sicché la crescita dell’una intanto si verifica in quanto crescono anche le altre, così come la crisi dell’una (tanto più se l’ “una” è o sono le maggiori economie del mondo) si riverbera sull’andamento economico dell’altra. Per conservare la crescita della propria economia, grazie alla quale, per quanto sopra detto, sarà possibile cambiare le condizioni materiali del proprio popolo, la Cina ha bisogno che anche l’economia degli Usa (ma vale anche per l’Europa) sia stabile e dinamica. Ne trarranno beneficio le oligarchie al potere in questi Stati capitalisti? Probabilmente, anzi certamente sì, ma ne trarrà beneficio anche il popolo cinese, nonché gli stessi popoli dei paesi capitalisti. L’ “impero del male” cadrà, oramai ha iniziato il suo irreversibile declino, ma non sarà con una guerra militare, né economica o finanziaria, se sarà, e tra non molto tempo accadrà, sarà per l’esaurimento del ciclo storico del sistema capitalista; ma nel frattempo il popolo cinese (parliamo del viaggio del Presidente cinese in Usa), ma anche il popolo americano e quelli del resto del mondo, potranno profittare di una crescita economica stabile e pacifica e con essa del miglioramento (chi più chi meno) della proprie condizioni di vita. Gli interessi dei popoli Questo insegna il marxismo-leninismo, il materialismo storico, gli interessi del popolo anzitutto e quindi la crescita economica che cambia lo stato di cose presente elevandolo dalla miseria al benessere, dall’ignoranza alla sapienza, dalla paura alla fiducia, dalla violenza alla convivenza. Ciascun popolo troverà la sua strada e costruirà il suo percorso socialista con le proprie caratteristiche, con il comune obiettivo della costruzione della società globale comunista. Un maoista è entrato nel cuore dell’ “impero del male” per difendere gli interessi, i diritti, le aspettative e le aspirazioni del suo popolo e di tutti i popoli del mondo. Il fondamentalismo ideologico, vale tanto per quello religioso come per quello laico, il martirio eroico (quasi sempre con la pelle degli altri), non hanno spazio, riconoscimento e compatibilità con il pensiero scientifico marxista-leninista.

Estratto dal documento del Governo cinese per l’intervento di Xi Jinping all’Assemblea Generale dell’ONU

“Ad ogni individuo spettano tutti i diritti umani”, ma la guerra, la povertà, le malattie e la discriminazione, tra gli altri, ancora minacciano e sfidano questa nobile aspirazione. La Cina sostiene che la comunità internazionale deve gestire la questione dei diritti umani in modo imparziale, obiettivo e non selettivo e respingere ogni tentativo di politicizzare il problema o esercitare la politica del doppio standard. Quest'anno ricorre il 70°anniversario della fondazione delle Nazioni Unite (ONU) e la vittoria della guerra antifascista mondiale e la guerra del Popolo Cinese contro l'aggressione giapponese. Come risultato della vittoria contro il fascismo, l'ONU incarna l'ardente speranza delle persone in tutto il mondo alla pace e allo sviluppo. La sua fondazione è stata un evento epocale nella storia del genere umano e una pietra miliare nella ricerca della pace e del progresso. Negli ultimi 70 anni, come organizzazione intergovernativa più rappresentativa e autorevole nel mondo, le Nazioni Unite, con i suoi tre pilastri della pace e della sicurezza, dello sviluppo e dei diritti umani, ha svolto un ruolo insostituibile e dato un grande contributo nel promuovere il progresso umano. Settanta anni dopo la Carta delle Nazioni Unite rimane più che mai valida.


La Cina e il nuovo ruolo delle Nazioni Unite Viviamo in un mondo che cambia, ricco di nuove opportunità e sfide. Il sistema e l'ordine internazionale stanno subendo profondi aggiustamenti, con spostamento dei rapporti di forza a favore della pace e dello sviluppo. D'altra parte ci sono una moltitudine di sfide nuove e difficili. L'economia mondiale non ha recuperato l'impatto persistente della crisi finanziaria globale. La povertà e altri problemi a livello mondiale persistono ancora. Questioni di tensione regionali continuano a divampare. Terrorismo, sicurezza informatica e altre minacce non convenzionali alla sicurezza sono in aumento. Il raggiungimento della pace e lo sviluppo mondiale è una battaglia ancora lunga e in salita. In questo contesto occorre un aumento di maggiori responsabilità per le Nazioni Unite. Oggi il ruolo delle Nazioni Unite deve essere rafforzato e non indebolito; la sua autorità deve essere sostenuta e non messa in discussione.

Il 70°anniversario delle Nazioni Unite è un importante momento per la comunità internazionale per ripensare alla propria storia, guardare al futuro e raggiungere i seguenti obiettivi in modo da trasformare la visione della Carta delle Nazioni Unite in realtà. - E' importante ricordare le lezioni della storia e sostenere l'esito della guerra antifascista per "salvare le future generazioni dal flagello della guerra". - E' importante rispettare la scelta del percorso di sviluppo e del sistema socia-

le dei paesi e risolvere le differenze e le controversie in modo pacifico attraverso il dialogo e la consultazione. - E' importante sostenere la sicurezza comune, globale, cooperativa e sostenibile e garantire la sicurezza di ciascun paese, costruire un'architettura di cooperazione per la sicurezza internazionale sulla base di apertura, trasparenza e uguaglianza, intraprendere un nuovo percorso verso la sicurezza da parte di tutti, di tutto e per tutti. - E’ importante promuovere una maggiore democrazia e lo Stato di diritto nelle relazioni internazionali. I principi della coesistenza pacifica, uguaglianza e giustizia devono essere sostenuti nelle relazioni internazionali. Devono essere adottate norme universalmente applicabili per distinguere il bene dal male e promuovere la pace e lo sviluppo. I paesi, grandi o piccoli, forti o deboli, ricchi o poveri, sono tutti uguali membri della comunità internazionale, con il diritto alla partecipazione paritaria nella regolamentazione in materia internazionale basata su leggi. Nessun tentativo dovrebbe essere fatto, in nome di "stato di diritto", di minare i diritti e gli interessi degli altri paesi. - E’ importante mantenere e sviluppare un'economia globale aperta, migliorare il governo economica globale e garantire pari opportunità, regole eque e parità di diritti nell'ambito della cooperazione economica internazionale. - E' importante per far progredire la cooperazione allo sviluppo globale, con

particolare attenzione su come affrontare i problemi di sviluppo dei paesi in via di sviluppo, in modo da aiutare tutti i paesi in un percorso di sviluppo equo, inclusivo e sostenibile. - E' importante rispettare il diritto dei paesi di scegliere il proprio percorso di sviluppo dei diritti umani, porre uguale importanza sul dialogo e sulla cooperazione paritaria e costruttiva, affrontare questioni dei diritti umani in modo giusto ed obiettivo. - E’ importante cercare un terreno comune, pur riservandosi le differenze, che abbracci l'apertura e l’inclusività, utilizzare i rispettivi punti di forza attraverso gli scambi e l'apprendimento reciproco, lavorare insieme per il progresso comune nonostante le differenze e valorizzare la diversità culturale del mondo. - E’ importante costruire un nuovo tipo di relazioni internazionali caratterizzato dalla cooperazione win-win, determinare un ordine più giusto ed equo e costruire un progetto di futuro comune per l'intera umanità. I paesi dovrebbero allineare i loro interessi con quelli di altri paesi, ampliare i settori di interessi convergenti e perseguire la pace, lo sviluppo attraverso la cooperazione. - E' importante prestare maggiore attenzione alla voce dei paesi in via di sviluppo negli affari internazionali, comprendere le loro aspirazioni, proteggere i loro diritti e interessi e aumentare la loro presenza decisionale nelle Nazioni Unite e nelle istituzioni internazionali.

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Il discorso del Papa alle Nazioni Unite

L’ultima settimana dello scorso settembre, a New York, nel corso dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, è stato celebrato il 70°anniversario della fondazione dell’Istituzione internazionale. In diversi giorni si sono succeduti sul palco degli oratori numerosi capi di Stato, tra essi il Capo della Chiesa Cattolica Romana, Stato del Vaticano, membro osservatore dell’ONU. Dell’intervento del Papa romano parliamo nelle pagine seguenti con l’articolo inviatoci dal prof. Donati dal titolo, assai “esplicito”, “Il trionfo dell’ingiustizia”. Invitiamo i nostri lettori a leggerlo e a formarsi le proprie opinioni, pronti, come sempre, a ricevere e pubblicare interventi anche di diverso orientamento, purché corretti e documentati. All’Assemblea della Nazioni Unite facciamo un altro richiamo pubblicando, in calce all’articolo intitolato “Un maoista nel cuore dell’Impero del male”, la sintesi della posizione della Repubblica Popolare cinese sul vecchio e soprattutto sul nuovo ruolo dell’Istituzione internazionale in un contesto mondiale radicalmente modificato nello spazio sensazionale di pochissimi anni. La stampa e in genere le fonti di comunicazione nazionali, come denunciamo anche nell’articolo ora richiamato, ha dato pochissimo spazio a questo evento epocale, concentrata sul dibattito parlamentare idiota della riforma del Senato e sull’ancor più stupida vicenda dei viaggi, degli inviti (o non inviti) e delle carte di credito del “povero” Sindaco Marino. Se notizie sono giunte di ciò che stava accadendo oltre oceano, queste hanno riguardato il viaggio del Papa romano, dapprima a Cuba, poi alla Casa Bianca e infine all’ONU. In verità, nella stampa internazionale, ma anche in grande misura in quella USA, quel viaggio, tutt’altro che pastorale (gli USA sono anti-papisti più di quanto non siano protestanti) bensì

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politico (soprattutto nell’ “aggancio” con Cuba, oggi punto di riferimento di tutto il sud America, questo sì, cattolico), è stato decisamente “oscurato” dalla concomitanza con il viaggio attraverso gli USA del Presidente della Cina e, a seguire, dall’intervento del Presidente della Russia all’ONU. Il cattolicesimo è una religione marginale nel contesto mondiale e, per di più, praticata oggi in Stati non di primo piano internazionale. Tuttavia da noi è “Religione di Stato” e dunque è giusto che, almeno a casa nostra, gli riconosciamo la dovuta attenzione (in termini di “allerta”, ovviamente), da cui l’importanza della pubblicazione dell’articolo del prof. Donati. Ma quel che è accaduto in quegli stessi giorni negli Stati Uniti, ed è stato esplicitato negli interventi (ci sia consentito) più importanti all’Assemblea delle Nazioni Unite, è di importanza epocale per l’intero Mondo (e quindi anche per noi, cattolici o non) e forse costituirà una data storica per i prossimi (ci auguriamo) molti decenni. Del definitivo ingresso del “continente” Cina sul primo piano della scena politica (dopo quella economica) mondiale parliamo nell’articolo sulle ragioni e finalità del viaggio di Xi Jinping negli USA. Vogliamo qui segnalare, invitandovi ad ascoltarlo per intero nel filmato doppiato in lingua italiana al link https://youtu.be/r8DJJ9JMJEs, alcuni passaggi salienti dell’intervento del Presidente Putin all’Assemblea dell’ONU, con l’avvertenza di intendere bene che, oramai in via generale, ma specificamente nella sede in questione, il Presidente della Federazione Russa è oggi l’interlocutore (potremmo anche chiamarlo il “portavoce”) non solo della rinata potenza ex sovietica, ma dell’intera metà (anzi”due terzi”) del Mondo emergente (dal Brics allo SCO, dalla Cina all’India, all’Iran, al Sud Africa, all’intero libe-

rato sud America) nei rapporti con l’ “antico” occidente atlantico (USA ed Unione Europea). Concordate o meno con i partner del Brics e dello SCO (questo non lo sapremo mai sicuramente) le affermazioni, denunce e aperture del Presidente Putin oggi rappresentano il futuro del Mondo per chi avrà l’intelligenza e l’umiltà (intesa in termini di “parità”) di starci e di lavorare assieme. Pochi punti chiari tra “il detto e il non detto”, ma tutti molto ben comprensibili per chi deve intendere: 1) il Mondo non è più unipolare, cioè è tramontato il tempo dell’ “impero” (USA ovviamente), ma non è neppure tornato al bipolarismo dei blocchi USA/URSS dietro i quali si nascondevano, ma in verità venivano soffocati i “piccoli”, il Mondo oggi è multipolare e dalle molteplici diversità, dove nessuno ha può potere di comandare e imporre propri modelli ad altri; 2) il Mondo è un sistema integrato e inter-reattivo, dove i danni causati da prepotenza e miopia politica in un luogo si riflettono in danni in tanti altri luoghi e nei confronti di tutti, inclusi coloro che hanno causato quei danni (altrove Putin aveva parlato di coloro che non smettono mai di “calpestare lo stesso rastrello” fomentando situazioni di caos delle quali perdono sistematicamente il controllo); 3) il Mondo è anche un sistema integrato a livello economico, dove si cresce tutti insieme, pur sempre ciascuno con i propri tempi e modi, oppure ci si danneggia tutti; dove chi vuole partecipare deve trattare con tutti e con tutti alla pari, altrimenti è lui a mettersi fuori dal “gioco”; 4) “detto e non detto”: la Russia (e la Cina, anche se non da sole) hanno già sconfitto il nazismo e il fascismo una volta, possono farlo ancora, chiunque sia, si chiami o si (tra)vesta il nuovo fascismo. (SR)


Il trionfo dell’ingiustizia di Alberto Donati

I Nel mese di settembre ha avuto luogo un nuovo vistosissimo bagno di folla da parte del Papa nel corso della sua visita negli Stati Uniti. La Chiesa - in quanto istituzione mondana in cui “Cristo tutto dì si merca [mercanteggia]” (Dante, Paradiso, XVII, 51) - vive di tali bagni. Si può dire che non passi giorno senza che essa, in un modo o nell’altro, faccia notizia, non si può vivere senza la sua ingombrante presenza. Nessun uomo politico può vantare simili successi mediatici. Viene spontaneo domandarsi quale possa esserne la ragione. La risposta non è difficile. Il Papa non assume la responsabilità politica di quello che dice. Mentre i capi di Stato rispondono di fronte alle proprie popolazioni, il Papa è volutamente esente

da questo rendiconto. Egli, pertanto, ben può permettersi di andare in giro, a spese del contribuente italiano, a predicare la pace e quant’altro, tanto non gli costa nulla. In realtà, egli è l’Ayatollah, la guida spirituale e politica dei paesi cattolici (Italia, Spagna, Portogallo, centro e sud America e relative dipendenze) e le sue responsabilità sono gravissime essendo, il cattolicesimo, la causa primaria della arretratezza di tali aree. La sua abilità consiste nell’essere separato dalle società civili in quanto residente nello Stato pontificio, sé dicente Città del Vaticano. Da questa privilegiata posizione può lanciare il sasso e nascondere la mano. Le religioni sono ontologicamente connesse al potere politico e quella cattolica non fa eccezione. Il suo re-

ferente è la lobby capitalistica di cui, infatti, è parte integrante traendo dal capitale finanziario e dal capitale industriale, per non parlare d’altro, il proprio ingentissimo sostegno economico, causa non secondaria della arretratezza economica italiana. La povera gente - tale in quanto privata dalle lobbies cattoliche di una cultura adeguata - lo sta a sentire fondandone così, a proprio danno, il successo mediatico. Per questa via, come ben noto alla Chiesa, “de la falsa oppinione nascono li falsi giudicii, e de’ falsi giudicii nascono le non giuste reverenze e vilipensioni; per che li buoni sono in villano dispetto tenuti e li malvagi onorati ed esaltati” (Dante Alighieri, Il convivio , IV, I, che è uomo di pensiero anticattolico).

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II La Chiesa, condannata per pedofilia dalle Nazioni Unite si è presentata alla relativa Assemblea Generale e, come se nulla fosse accaduto, ha impartito una lezione di etica politica. Il Papa ha preso la parola non in quanto membro di tale consesso, ma nella ben diversa veste di vicario del Dio trinitario sulla Terra e, quindi, in quanto a tutti divinamente sovraordinato. Due cose colpiscono: come sia possibile che questa autorevolissima organizzazione dia credito ad un soggetto che, nel ventunesimo secolo, vanta di avere assurde prerogative divine; come sia possibile che essa stia ad ascoltare un capo religioso che rifiuta il suo statuto culturale, che rifiuta il principio di pariteticità degli Stati, che ripudia il principio della loro sovranità in spiritualibus e li ritiene soggetti al proprio potere. La spiegazione di questo monstrum sia culturale che politico, va rinvenuta nel fatto che il Papa si presenta come rappresentante della vasta area cattolica senza, per altro, averne uno specifico mandato. Pertanto, tale area è presente all’O.N.U. sia mediante i propri rappresentanti politici, sia tramite il Papa. Questa doppia inammissibile rappresentanza si riproduce puntualmente all’interno dei singoli Stati dove i cattolici sono presenti sia tramite i propri parlamentari, sia tramite la Chiesa di Roma. Le componenti cattoliche nazionali sono i cavalli di Troia che consentono alla Chiesa di invadere gli Stati e di limitarne proporzionalmente la sovranità. E’ veramente incredibile che, sul piano internazionale, si possa dare tanto credito alle visite papali e ai relativi discorsi, salvo a dover supporre che il cattolicesimo, dietro la facciata del populismo, in realtà soddisfi le istanze imperialistiche delle lobbies dominanti. III In che cosa consiste il messaggio del Papa? Per intenderne i contenuti si deve avere ben presente la distinzione tra l’etica intenzionale e l’etica fattuale. La prima - chiamata simulata philosophia - si risolve nel parlare della giustizia, nel porla come il fine primario dell’essere umano, senza che a ciò faccia seguito la sua effettiva realizzazione (Platone, Leggi, 689b). In questo contesto, la giustizia non è che una cortina fumogena dietro cui abilmente nascondere l’ingiustizia. L’etica fattuale, invece, fa risiedere la giustizia nella sua realizzazione, vale a dire, nell’apprestare gli strumenti al-

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l’uopo necessari (“i costumi sono la [vera] beltà dell’anima”). L’etica cattolica, da sempre, appartiene al primo contesto. Per misurare la statura etica dei singoli, come degli uomini politici, non si deve far riferimento alle loro dichiarazioni, ma ai fatti. Il papa, per tacere d’altro, si è lasciato alle spalle l’Argentina, un paese segnato dalle favelas, un paese che è stato funestato dalla Guerra Sucia, vale a dire, da un programma di repressione politica violenta attuato dalle forze armate, caratterizzato dal ricorso alle incarcerazioni senza processo e in luoghi segreti, alla tortura, agli omicidi e alle sparizioni. Durante questo periodo si calcola che ci furono circa 2.300 omicidi politici e circa 30.000 persone scomparvero (desaparecidos). Il Papa si lasciato alle spalle un’Italia la cui capitale è devastata dalla delinquenza (vd. l’Espresso, 2015, n. 22: “Indifesi”; n. 29: “Roma kaput”; n. 39, Inchiesta: “Il vero volto dei Casamonica”); un’Italia il cui testo costituzionale è informato alla dottrina sociale della Chiesa, vale a dire, ai tre disvalori: ignoranza, povertà e soggezione; un’Italia che è divenuta la base logistica della sé dicente Santa Sede; un’Italia il cui arco politico è compiutamente cattolicizzato e, quindi, dipendente dalle direttive vaticane; un’Italia in cui i parlamentari, all’occorrenza, vengono precettati in S. Pietro alle ore cinque della mattina per assistere alla messa celebrata dal Papa alle ore sei; un’Italia, di conseguenza, in progressiva decadenza e segnata dal separatismo, dalla perdita progressiva dell’identità nazionale, dalla regressione del Mezzogiorno nonostante gli ingentissimi investimenti di cui è stato beneficiario (vd. l’inchiesta svolta da l’Espresso, 2015, n. 36: “E’ sparito il Sud”); un’Italia caratterizzata dal protagonismo della corruzione a tutti i livelli; dal protagonismo della delinquenza organizzata; dalla Madonna che, ad Oppido Mamertina (Reggio Calabria), viene fatta inchinare verso l'abitazione del boss mafioso Peppe Mazzagatti (il corteo era aperto da sacerdoti e amministratori locali. I carabinieri hanno lasciato la celebrazione, ma il comando provinciale ha precisato: “Solo per fare foto e video”. Il sindaco: “A noi pare sia stata ripetuta la gestualità di sempre”); un’Italia segnata dalla presenza di un debito pubblico astronomico che dovrà essere pagato dai nostri figli talché le generazioni adulte attuali vivono letteralmente sulle loro spalle (c.d. solidarietà intergenerazionale) (“Guai a te, terra, [...] li cui prìncipi la domane mangiano”)

(Dante, Il convivio, IV, VI); un’Italia connotata da un tessuto economico che, a causa di questo debito, diventa sempre meno competitivo ed oggetto della fagocitazione da parte delle multinazionali; segnata dalla disoccupazione e dalla povertà crescenti; da un sistema sanitario in cui gli ospedali, fatto unico nell’Europa civile, sono dedicati ai santi, vale a dire, a coloro che hanno perseguitato, direttamente o indirettamente, la scienza, donde il progressivo scadimento della qualità dei relativi servizi; da un apparato giudiziario soggetto alle leggi ingiuste approvate dal Parlamento e, quindi, sfiduciato dai cittadini; da una pubblica istruzione che arretra, invece di elevare, lo spessore culturale del Paese rendendolo inadeguato rispetto alla competizione tecnologica e scientifica globale, da una pubblica istruzione, pertanto, che sbanda le giovani generazioni invece di orientarle verso la costituzione di una società più giusta e più efficiente. Questa è l’etica realmente implicata dal cattolicesimo da cui esso trae alimento poiché, come attestato da duemila anni di storia, tanto maggiore il dissesto sociale tanto maggiore la religiosità cattolica. Allora le chiese cattoliche si riempiono e le processioni si affollano quando la sofferenza sociale è elevata. Chi si lascia alle spalle una tale scia di miserie e di ingiustizie non ha voce in capitolo, non ha diritto di parlare in nome della giustizia.


IV Si possono, ora, valutare gli imperativi etici esternati dal Papa nel corso della sua visita all’Assemblea delle Nazioni Unite: “occorre affermare che esiste un vero ‘diritto all’ambiente’”; “vincere quanto prima il fenomeno dell’esclusione sociale ed economica, con le sue tristi conseguenze di tratta degli esseri umani, commercio di organi e tessuti umani, sfruttamento sessuale di bambini e bambine, lavoro schiavizzato, compresa la prostituzione, traffico di droghe e di armi, terrorismo e crimine internazionale organizzato”; “abitazione propria, lavoro dignitoso e debitamente remunerato, alimentazione adeguata e acqua potabile; libertà religiosa e, più in generale, libertà di spirito ed educazione”; “evitare la guerra tra le nazioni e tra i popoli”; “La casa comune di tutti gli uomini deve continuare a sorgere su una retta comprensione della fraternità universale e sul rispetto della sacralità di ciascuna vita umana”. Questi intenti non sono che frasi poiché non sono sorretti da una diretta assunzione di responsabilità, non sono orientati dalla indicazione di precisi programmi attuativi. Più approfonditamente, la politica economica del Papa è sussunta nella triade: terra, lavoro e casa. “Terra”, vale a dire, ritorno alla economia agricola o, comunque, involuzione della produzione industriale (vd. anche l’enciclica

“Laudato sì”). “Lavoro”, ma quale?, vale a dire, secondo quale modello produttivo della ricchezza sociale? Senza questa indicazione il ricorso a questa parola ha solo carattere demagogico, non è che un vergognoso espediente per accattare il consenso delle masse diseredate dal capitalismo del quale ultimo la Chiesa è, per altro, parte integrante. “Casa”, ma l’abitazione non è che una variabile dipendente dal modello produttivo. Se esso non viene specificato, anche questa parola diviene uno strumento demagogico. La situazione internazionale presenta due problematiche fondamentali. La prima, riguarda il ruolo degli Stati Uniti. Essi sono divenuti il braccio armato di Israele; sono altresì, la causa del fondamentalismo religioso islamico; sono, inoltre, responsabili della tendenziale riproposizione della guerra fredda e della politica diretta a separare l’Europa dalla Russia quando invece quest’ultima dovrebbe essere integrata nella prima con effetti positivi di altissimo livello. La seconda problematica è data dalla globalizzazione economica, da questo evento che non ha precedenti nella storia, cui, finalmente, dovrebbe riconnettersi il tramonto del principio di sovranità nazionale e delle relative conflittualità. Tuttavia, la globalizzazione è, al momento, senza una giustizia che la regoli, vige in essa la legge della giungla. Per-

ché possa esplicare le sue preziosissime implicazioni è dunque necessario un diritto che la assoggetti al fine di salvaguardare la persona umana e l’ambiente. Tale diritto esiste già, ma è volutamente ignorato dalle lobbies politiche asservite a quelle economiche essendo, l’ingiustizia, molto più redditizia della giustizia. Su entrambe queste ben note problematiche il Papa ha taciuto per non urtare la sensibilità del Congresso degli Stati Uniti, per accattivarsene le simpatie. Concludendo, il Papa ha parlato come soggetto politico. Ciò sta a significare che il cattolicesimo è un potere politico che si serve della religiosità per asservire l’umanità. “Humanitas sub Pontifice”, questo è il reale messaggio trasmesso dal Papa, vale a dire: assoggettamento dell’essere umano al suo dispotismo in quanto vicario del Dio trinitario sulla Terra e, quindi, in quanto assistito dal dogma della infallibilità; incanalamento dell’umanità in un percorso culturale, economico e politico che la conduca, non alla riproposizione del Paradiso terrestre come annunziato dall’Antico Testamento (Is 11, 6-9; 32, 3-5.15-17; Cap. 35; 65, 25; Os 2, 18.2122.24; Gl 2, 18-27; Zac 8, 12), ma all’Apocalisse, vale a dire, alla nientificazione dell’operato della Genesi. Con ciò, la filosofia dell’antiumanesimo raggiunge i propri vertici.

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Sinistra mia non ti conosco di Giacomo Bertini

Un po’ di storia

Con il termine di sinistra politica, si indica la componente del Parlamento che si colloca alla sinistra del Presidente dell’assemblea legislativa e, in maniera più generale, l’insieme delle posizioni politiche ritenute come egualitarie e progressiste, opposte rispetto a ciò che viene definito destra. Le denominazioni di destra e sinistra nell’arena della politica nascono in Francia prima della Rivoluzione francese. Quando furono convocati gli Stati generali dal Re di Francia, nel maggio del 1798, un’assemblea doveva rappresentare i tre ordini che all’epoca erano stati istituiti: il clero, la nobiltà e il terzo Stato. Quest’ultimo si divise in destra e sinistra e, continuò anche quando successivamente si formò l’Assemblea nazionale. A destra era presente una corrente che voleva mantenere i poteri monarchici, mentre a sinistra sedevano la componente più rivoluzionaria. Questa presa di posizione sia fisica che culturale, dalla Francia si estese rapidamente a tutta l’Europa. Nel corso del Novecento, la sinistra ha inglobato posizioni ideologiche come il progressismo, la socialdemocrazia, il socialismo, il comunismo, e sotto certi punti di vista il liberalismo sociale. Il termine left è stato utilizzato nel Regno Unito per indicare la componente liberale e laburista, mentre la parola linke in Germania è stata collegata prevalentemente ai socialdemocratici. In Italia, la prima volta che il termine sinistra entrò in voga fu in riferimento alla Sinistra storica, che guidò il Paese dal 1876 per vent’anni con Agostino Depretis. L’ideologia di questo raggruppamento politico era liberale progressista, in riferimento alle idee mazziniane, garibaldine e dunque democratiche.

Morte e rinascita della sinistra

Il 9 novembre ricorre il ventiseiesimo anniversario dalla caduta del muro di Berlino. Un anniversario dal forte valore simbolico, che ha segnato la storia unificando nel corso degli anni i popoli del vecchio continente sotto l’unica bandiera dell’Unione europea; ma la caduta del muro è stato anche il segno tangibile della sconfitta dell’Unione Sovietica e con essa dell’ideologia comunista. Da allora, il significato di cosa sia o faccia una sinistra politica è andato via via modificandosi, perdendosi nei meandri dell’ideologia neo-liberista. Come afferma Paolo Floris D’Arcais, direttore di MicroMega, nell’ultimo quarto di secolo l’Europa ha letteralmente abrogato la sinistra. Quello che è venuto a mancare nel vecchio continente è l’eguaglianza, non solo intesa come la pari dignità di ogni individuo rispetto agli altri uomini, ma lo stesso uso della parola, considerata sovversiva ed antiquata rispetto al mondo moderno. La vittoria della destra nell’Europa post guerra fredda, ormai guidata dalla finanza e dai principi economici piuttosto che dalla democrazia popolare, è il frutto di una sinistra che ha perso la sua identità vendendo la sua anima a quei ideali conservatori e liberali che da sempre hanno contraddistinto la destra. Una destra politica che più che aver vinto la sfida per meriti propri, ha subito la resa incondizionata dei valori di sinistra. Ancor prima della caduta nell’89 di quel famoso muro, la sinistra europea aveva già manifestato i sintomi di quella che sarebbe stata una lenta agonia. Di fatto, quell’attivismo d’azione che aveva da sempre contraddistinto il partito comunista sin dalla sua nascita e che aveva segnato la storia politica dell’Europa con-

temporanea, si spense con le ultime grandi mobilitazioni di massa del 1968-69. Cosi la spinta propulsiva della sinistra cominciò lentamente a spegnersi in una società che almeno esteriormente, diventava sempre più egualitaria con una crescita sostenuta del ceto medio e l’omologazione negli stili di vita. Forse, proprio quella sensazione che l’eguaglianza fosse oramai acquisita, ha reso questo valore sempre meno degno di essere reclamato o addirittura citato, fino a diventare un valore da condividere solo con i membri della propria casta, non estendibile a chi non vi appartiene. Oggi, con una crisi economia mondiale che si prolunga da oltre otto anni una nuova sinistra rinasce in Europa, sicuramente con caratteristiche diverse da quelle che l’avevano contraddistinta nel XX secolo, ma fondata sulla consapevolezza della centralità dei valori dell’eguaglianza, della dignità e della solidarietà. La spinta propulsiva di questa nuova sinistra, viene proprio dalla rinata consapevolezza della costante erosione del ceto medio, di una crescente povertà accompagnata dalla perdita di quei diritti che avevano reso possibile la nascita del welfare state in Europa. Per oltre venticinque anni, quella che si definiva sinistra, non ha fatto altro che agevolare un’omologazione della società e degli stili di governo ai valori di una destra più che politica, economica. La nascita di partiti o movimenti, come Syriza, Podemos, il nuovo Labour, sono la concreta manifestazione che una nuova sinistra fondata sui vecchi valori è viva, ed è pronta a rappresentare le istanze di milioni di cittadini che oramai avevano perso la loro voce.

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Nuovi soggetti politici

Nello scenario europeo sta riprendendo forma una nuova sinistra, su cui difficilmente qualche anno fa qualcuno avrebbe scommesso. In ordine di tempo la più inaspettata avvisaglia della nascita di una nuova sinistra, è stata data dal nuovo leader del Labour inglese Jeremy Corbyn, la cui vittoria alle primarie del partito era solo uno a cento. A dispetto di tutti i pronostici, Corbyn da sempre posizionato nell’ala radicale del partito, è riuscito a diventare il nuovo capo dei laburisti. La sua campagna elettorale ha avuto un repentino slancio quando ha ottenuto il sostegno di due dei principali sindacati britannici, inoltre Corbyn è stato l’unico a votare contro la legge di modifica del welfare state proposta dal governo Cameron, mentre tutti gli altri candidati laburisti si sono astenuti. Durante la fase della campagna elettorale, c’è stata una grande mobilitazione dei cittadini, che in massa si sono iscritti, pagando, per partecipare alle primarie. Da anni il partito laburista non vedeva alla sua guida un dirigente capace di sconquassare l’intera nomenklatura del partito, e forse anche dell’intera politica britannica. Infatti Corbyn è un attivista pacifista nonché presidente del movimento Stop the war, ha lavorato spesso fuori dal Parlamento prendendo le difese degli oppressi e lottando contro le decisioni del suo stesso partito. Definito dal suo diretto avversario David Cameron, leader dei Tory, come una minaccia per la sicurezza nazionale, Corbyn con il suo messaggio anti austerity e solidale, sta conquistando sempre più consensi nel Paese, in cui le politiche conservatrici del governo sembrano avere meno attrattiva per il popolo della regina. . L’elezione di Corbyn ha riavvicinato al partito molti dei suoi ex sostenitori o disillusi della politica, tuttavia uno dei primi compiti del nuovo leader sarà quello di ricompattare il suo stesso partito, messo a dura prova nella suo formazione dall’elezione di un uomo realmente di sinistra dopo anni di ambiguità e centrismo iniziate con l’era di Blair. Corbyn invoca l’eguaglianza, ciò che è mancato alla sinistra anche quando è stata al governo. La sinistra può ritornare l’attore principa-

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le sulla scena politica se riesce ad affiancare i principi di eguaglianza, dignità e solidarietà con l’azione, ma in Gran Bretagna è solo all’inizio di un lungo percorso. Spostandoci verso il continente europeo, troviamo Podemos, il nuovo movimento politico spagnolo guidato da Pablo Iglesias. Le origini di Podemos affondano le proprie radici nel movimento degli Indignados, nato nel 2011 per protestare contro le politiche di austerity causate dalla crisi economica in Spagna. Tuttavia la creazione di questo movimento nasce da un’intuizione esilarante da parte di alcuni politologi di sinistra stanchi di non veder applicata la loro teoria alla pratica quotidiana: la politica oggi è diventata comunicazione, e chi fa politica non milita solamente nei partiti ma in tutti i mezzi di comunicazione. Infatti, il suo leader e gli artefici di questo movimento mettono in discussione anche il fatto che il consenso si costruisce solamente dal basso e sul territorio. Senza dubbio i movimenti sociale che hanno dato vita alle proteste in Spagna, hanno avuto un ruolo prezioso, ma secondo Iglesias per conquistare il potere bisogna concentrarsi sulla leadership e sulla comunicazione. Il movimento politico Podemos è considerato essenzialmente di sinistra, in quanto nel suo programma c’è tutta la volontà di spazzare via i tradizionali partiti spagnoli definiti casta. Nel suo manifesto politico non c’è solo il ritorno all’eguaglianza ma anche politiche verdi ed innovatrice, riguardanti la riduzione del consumo di combustibile fossile, e va incentivata la produzione locale del cibo. Inoltre, i suoi leader manifestano la volontà di nazionalizzare molti servizi del Paese ed anche l’introduzione di un salario minimo garantito. Successivamente alle elezioni politiche europee del maggio 2014, Podemos è entrato nel gruppo del Parlamento europeo della Sinistra unitaria europea, in cui confluiscono anche Syriza, i tedeschi della Linke e quel che rimane dell’Altra Europa per Tsipras. In quelle elezioni europee, Podemos ottenne l’8 % dei consensi. Nelle ultimi elezioni amministrative, che si sono tenute nel maggio scorso, i candidati sostenuti da Podemos hanno registrato un buon successo, prima fra tutti Ada Colau

che è stata eletta sindaco di Barcellona. Anche a Madrid, feudo del Partito Popolare del primo ministro Rajoy, con Manuela Carmela, il movimento Podemos è riuscito a far perdere la maggioranza dei seggi al partito del premier, che comunque è arrivato primo. Il prossimo, ed importante test di Podemos sono le elezioni politiche che si terranno nel dicembre 2015, per le quali il movimento politico avrebbe reali possibilità di vittoria. Andando verso est sulle coste del mar Mediterraneo, incontriamo il primo partito di sinistra che dopo un lungo travaglio, ora è di nuovo al potere. Questo è Syriza, il partito guidato da Alexis Tsipras. Dopo aver ricevuto ben tre conferme politiche, tra cui un referendum in cui tutti lo davano per spacciato, la Grecia è l’unico Paese in Europa in cui c’è una vera sinistra al potere. Forse, proprio, le forte contraddizioni sociali e la riscoperta di un fenomeno da anni debellato come quello della fame è stato il motore che ha reso nuovamente possibile l’affermazione di quel valore di eguaglianza alla base del partito Syriza.


Nonostante sul suo percorso Alexis Tsipras con il suo governo ha incontrato una forte ostilità da parte dei poteri forti dell’Europa come Merkel e Schauble e sia riuscito per ora solo in minima parte ad attuare quelle riforme che lo hanno portato ripetutamente alla vittoria, la fiducia dei suoi cittadini non l’ha ancora abbandonato, forte sintomo della stanchezza di un popolo nei confronti delle vecchie oligarchie che per anni hanno fatto del suolo greco il proprio territorio di caccia. Ciò che sicuramente unisce le storie di queste nuove sinistre è un forte sentimento popolare affamato di giustizia, di diritti, di voglia di riscoprire una propria dignità e di avere nuovamente voce in capitolo in un sistema di democrazie ormai alla deriva. Ma sicuramente la rinascita della sinistra europea è anche merito di singoli uomini o piccoli gruppi che hanno saputo creare una vera leadership in questi partiti in movimento. Corbyn, Iglesias e Tsipras hanno la capacità di diventare la voce dei loro sostenitori, di unire le diverse idee all’interno dei loro gruppi e trascinare e conquistare le vittorie politiche. La loro capacità di accentrare i con-

sensi fanno di loro dei leader credibili, è proprio la credibilità una caratteristica che sembra oramai essersi estinta nella politica italiana, dove tutto può diventare merce di scambio per un pugno di voti, e l’ideologia, almeno nel nostro Parlamento, sembra aver perso qualsiasi valore.

Il contesto Italia

La devoluzione del partito comunista italiano in Ds fino ad arrivare all’odierno Pd, non è stata indolore. In venticinque anni si è quasi totalmente persa l’identità di sinistra, e con essa la rappresentanza di milioni di cittadini, che orami da decenni si trovano ad essere orfani di una forza politica capace di rappresentare le loro istanze. A differenza di quanto è avvenuto e sta avvenendo in altri Paesi europei, neanche la prolungata crisi economico-culturale è riuscita a far riemergere un partito di sinistra. Il Pd che dovrebbe essere il naturale erede dell’ex Pci, con le sue azioni mostra ogni giorno di preferire posizioni decisamente centriste, se non addirittura di destra. Non meno contradditorio sono poi le vicende che hanno scosso quella che si definisce la destra italiana, orfana del

rampante berlusconismo ed in balia di piccoli partiti che galleggiano su un revisionismo storico tipico solo dell’Italia. In questo vuoto ideologico di sinistra e di destra, gli unici che sembrano essere stati capaci di far proprie le istanze dei cittadini, è il Movimento 5 Stelle. Non si può negare che in questi pochi anni di vita sono hanno fatto molti errori politici, molti considerazioni sbagliate ed una comunicazione errata con i possibili sostenitori. Tuttavia, hanno saputo fare di questi errori tesoro e in un tempo relativamente breve sono stati capaci di triplicare, se non addirittura andare oltre, il loro consenso. Affermare che il M5S abbia una radice nella sinistra italiana non sarebbe veritiero, tuttavia ha saputo riempiere parte di quel vuoto lasciato dal Pd, unendo al loro coro di consensi una fetta di popolazione da tempo orfana di una rappresentanza. Anche se ad oggi il voto a sinistra viene ancora identificato come un voto al Partito democratico, l’attuale leader e gruppo dirigente di questo, si stanno adoperando consapevolmente o meno per eliminare questo dualismo. L’Italia sembra dunque essere destinata ancora ad un lungo periodo di latitanza di sinistra.


Il nipotino del “bisonte della reazione” di Sandro Ridolfi

“Bisonte della reazione” è stato, molti anni fa, l’epiteto attribuito a Winston Churchill che guidò la Gran Bretagna durante la seconda guerra mondiale, partecipando attivamente agli accordi di Yalta sulla “spartizione” del Mondo, e alle prime elezioni dopo la vittoria venne sconfitto dall’elettorato laburista e concluse così la sua storica carriera politica. Reazione, in genere e al di là della specifica persona ora nominata, è una qualificazione che politicamente viene attribuita al partito conservatore inglese (Tori Party), in contrapposizione al progressismo attribuito (sulla carta, come diremo) al partito laburista (Labour Party). Se spesso, in onestà, è assai difficile per noi del “continente” distinguere la differenza sostanziale tra le così dette politiche conservatrici del Tori da quelle sedicenti progressiste del Labour, nel caso del “fotogenico” giovane (all’epoca) premier laburista Tony Blair la differenze proprio non si notavano, per non dire (come invece diremo...) che le sue scelte politiche sono state persino peggiori. Se, infatti, la conservatrice Margaret Thatcher (la “Strega”) ha letteralmente devastato il sistema produttivo della Gran Bretagna, trasformando la più antica economia industriale e manifatturiera del Mondo in un porto franco della finanza (fondamentalmente “sporca”) mondiale, al prezzo di milioni di disoccupati e della disgregazione della classe operaia inglese; il laburista Tony Blair ha trasformato quel che restava del plurisecolare impero mondiale britannico in un “valletto” fidato e obbediente del potentissimo Zio Sam. Se la “Strega” ha sposato (in verità forse l’ha indotta lei stessa) la politica classista e reazionaria del cowboy di Hollywood Ronald Reagan; il giovane Blair ha abbracciato (per le ginocchia, come si conviene a un servitore) la politica delle crociate militariste dell’ “evangelico” George W. Bush.

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Due considerazioni storiche appaiono però a questo punto doverose: la prima si conclude agli inizi del ‘900, la seconda poco dopo la fine della seconda guerra mondiale. La prima considerazione storica concerne la fine, tanto repentina quanto inattesa, di un impero mondiale plurisecolare sino ad allora forse il più grande della storia, almeno come estensione planetaria. Nell’arco di pochi decenni, complici le straordinarie evoluzioni tecniche ed economiche avvenute in molte parti dell’antico impero, la Gran Bretagna ha visto letteralmente “disciogliersi” l’impero della Regina Vittoria, non solo perdendo una a una ricchissime immense colonie (dall’occidente, all’oriente, all’africa), ma anche perdendo il suo peso (o potenza) sia militare che economica e finanziaria in uno scenario mondiale oramai cresciuto al di sopra delle sue possibilità di potenza isolana. Alla seconda guerra mondiale, in effetti, la Gran Bretagna arrivò con un fortissimo debito (in termini di insufficienza) militare, tecnologico ed economico, assolutamente inadeguata alla dimensione planetaria del conflitto, dovendo pietire (e poi ottenere) l’aiuto, dapprima finanziario e infine anche militare, dell’emergente potente “cugino” nord americano, a quel punto divenuto, da colonia ribelle, lo “zio” (Sam!). Dalla seconda guerra mondiale la Gran Bretagna da un lato uscì definitivamente “smagrita” del suo antico impero coloniale, dall’altro sostanzialmente indenne, nel suo territorio europeo, dai danni della devastazione del conflitto europeo. Paradossalmente questa seconda “fortuna”, un paio di decenni più tardi e anche meno, si rivelò un fatto di grande debolezza quando, completata la ricostruzione post bellica, ripartì l’economia del continente fondata su nuovi processi produttivi (dagli stabilimenti alle tecnologie) ultra competitivi con l’integro ma

obsoleto sistema produttivo e industriale dell’isola. Pochi decenni dopo la fine della seconda guerra mondiale la Gran Bretagna era dunque ridotta a un paese arretrato, non competitivo, ripiegato su vecchi allori oramai logori e stantii come il ridicolo ruolo folkloristico della famiglia reale, per di più esclusa dal nascete progetto dell’Unione europea che, col trattato di Roma del 1960, stava dando un nuovo futuro al vecchio continente. Se vi fosse stato bisogno di una così detta “prova del nove”, la grottesca guerra della Falkland/Malvinas, che ha visto almeno per un attimo la gloriosa marina inglese sull’orlo di soccombere nello scontro con un’Argentina di pezzenti (ci riferiamo ai generali al potere, ovviamente, e non al popolo argentino), ha dato il colpo di grazia alla boria dell’imperialismo britannico; così come la vittoria della guerra di liberazione algerina aveva sepolto (si spera per sempre) la “grandeur” dell’impero francese (gli imperi di Spagna e Portogallo erano già scomparsi da tempo). Da queste considerazioni storiche, politiche, militari ed economiche, discendono le ragioni sia della scelta socialmente criminale della Strega Thatcher, sia di quella non meno “a-morale” (l’uso di questo termine ricorre nel brano di Cooper che pubblichiamo di seguito) del laburista Blair. La Gran Bretagna, la nazione sicuramente meno europea dell’intero continente geografico, ha così finito per posizionarsi da un lato come “quinta colonna” dell’impero nord americano nell’osteggiare il progetto dell’Unione politica ed economica dell’Europa continentale, dall’altro come supporter organico delle politiche imperialiste dello zio Sam nel resto del Mondo. Alla Thatcher il compito di ostacolare il percorso del consolidamento del vecchio continente unito, a Blair quello di sostenere gli ultimi rigurgiti dell’agonizzante imperialismo mondiale USA.


Come ci insegna il materialismo storico marxista la realtà concreta (materiale) dei rapporti sociali ed economici produce sempre una soprastruttura ideologica conforme a se stessa e dunque, anche nel caso dell’imperialismo servile agli interessi USA del laburista Blair, c’è dietro una precisa elaborazione ideologica “a-morale”, per quanto diremo e anzi potrete direttamente leggere dall’articolo che pubblichiamo nelle pagine seguenti. Nel 2002 Robert Cooper, anziano diplomatico inglese consulente (per non dire “maestro”) del giovane primo ministro Blair, pubblicò sul “The Observer” un lungo saggio intitolato “Lo Stato postmoderno”, nel quale delineava i principi della nuova ideologia imperialista britannica (n.b., vale ripeterlo, al soldo dell’Impero USA). Il saggio, nonostante i tagli apportati per semplificazione ed esigenze tipografiche, può apparire, a prima lettura, sin troppo articolato e complesso; in verità espone un sostanziale “giro di parole” che serve all’autore (a beneficio del suo discepolo) per giustificare un unico e semplice principio: “due pesi e due misure”, alla condizione presupposta, ovviamente, che a scegliere “pesi e misure” siamo noi, cioè l’occidente, o meglio ancora gli USA e il servo GB. L’argomentazione

si fonda su di un assioma storico (un’affermazione che non deve essere dimostrata perché è data per vera all’origine), seguito da un postulato (un principio che viene dato per vero per giustificare i ragionamenti seguenti). L’assioma di Cooper è che la civiltà (ma lui stesso la chiama molto più empiricamente l’ “ordine” sociale) è garantita dalla presenza della potenza di un impero: dove c’è potere dominante c’è ordine e civiltà (vedi l’Impero romano), fuori c’è il caos e la barbarie (vedi le migrazioni barbariche che portarono al crollo dell’Impero romano). Il postulato è che l’Occidente (per intenderci con termine attuale il G7, gli Stati emergenti dell’Europa più USA, Canada e Giappone) dopo la seconda guerra mondiale è entrato nella fase da Cooper definita “post-moderna” caratterizzata da un “ordine” non più basato della supremazia di un unico impero, ma sulla condivisione del potere tra i vari Stai nazionali emergenti. Il resto del Mondo, invece, è ancora nella fase “pre-moderna”, quindi a continuo rischio di caos e barbarie (terrorismo, droga, guerre e dittature). Per garantire l’ “ordine”, sia in termini di difesa del proprio ordine/civiltà, che di “pacificazione” del resto del Mondo, l’Occidente, mentre al suo interno pra-

tica politiche di democrazia, tolleranza, giustizia, libertà (economica!) e chi più ne ha più ne metta, all’esterno deve (DEVE!) praticare inevitabilmente politiche imperialiste di dominio, invasione, guerra e, anche qui, chi più ne ha più ne metta. Sintesi e conclusione: invadere l’Iraq al soldo dello zio Sam era (è stata) dunque una missione storica doverosa (anche se “a-morale” in termini di diritto interno e internazionale), ma inevitabile e meritoria! Nota: nel 2009 il Parlamento britannico ha costituito una Commissione d’indagine sulle motivazioni e sulla condotta della partecipazione della Gran Bretagna alla disastrosa seconda guerra dell’Iraq voluta da Bush figlio, ponendo sotto formale inchiesta l’allora primo ministro Blair. La Commissione denominata “Iraq Inquiry” e presieduta dal Lord John Chilcot ha svolto ad oggi 130 sessioni e raccolto oltre 150.000 documenti e, presumibilmente, entro quest’anno depositerà la sua relazione conclusiva; poi spetterà al Parlamento la decisione di porre, o meno, in stato d’accusa per alto tradimento l’ex primo ministro Blair che, per il momento, continua a girare per il Mondo come “esperto” di politica internazionale super-pagato da governi e società private.

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L’ideologia dell’Imperialismo “umanitario” estratto dal saggio “Lo Stato post-moderno” di Robert Cooper

Nel 1989 i sistemi politici durati tre secoli in Europa si sono conclusi. Quell'anno non segna solo la fine della Guerra Fredda, ma anche, e più significativamente, la fine di un sistema statale in Europa che risale dalla Guerra dei Trent'anni. L’11 settembre ci ha mostrato una delle implicazioni del cambiamento. Per capire il presente, dobbiamo prima capire il passato. L’ordine internazionale fino ad oggi era basato sia su egemonia che su equilibrio. L’egemonia è nata prima. Nel mondo antico l’ordine significava impero. Quelli all'interno dell'impero avevano ordine, cultura e civiltà. Fuori si trovavano i barbari, caos e disordine. L'immagine della pace e dell'ordine attraverso un unico centro di potere egemonico è rimasta forte da allora. Gli imperi, tuttavia, sono mal progettati per gestire i cambiamenti. Tenere un impero unito di solito richiede uno stile politico autoritario; l’innovazione, soprattutto nella società e nella politica, porterebbe all'instabilità. Storicamente, gli imperi sono stati generalmente statici. In Europa, una via di mezzo è stata trovata tra il caos e la stasi dell'impero: il piccolo Stato. Il piccolo Stato è riuscito a stabilire la sovranità, ma solo all'interno di una giurisdizione geografica limitata. Così l’ordine interno è stato acquistato al prezzo dell'anarchia internazionale. La competizione tra i piccoli Stati d'Europa è stata una fonte di progresso, ma il sistema è stato anche costantemente minacciato da una ricaduta nel caos da un lato e nell'egemonia di un unico potere sull'altro. La soluzione a questo è stata un sistema di alleanze che venne visto come la condizione della libertà in Europa. Ma il sistema del bilanciamento dei poteri aveva una instabilità intrinseca, il rischio sempre presente di una guerra, e fu questo che alla fine ne ha causato il crollo. L’unificazione della Germania nel 1871 ha creato uno stato troppo potente per essere equilibrato per qualsiasi alleanza europea; cambiamenti tecnologici hanno alzato i costi della guerra a un livello insop-

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portabile; lo sviluppo della società di massa e la politica democratica hanno reso impossibile la mentalità di calcolo a-morale necessario per ottenere un equilibrio in funzione del sistema di potere. Tuttavia, in assenza di qualsiasi alternativa quel sistema persisteva, e quanto è emerso nel 1945 non era un nuovo sistema, ma il culmine di quello vecchio. Il vecchio equilibrio di potere multilaterale in Europa è diventato un equilibrio bilaterale basato sul terrore in tutto il mondo. Ma non poteva durare. La seconda metà del ventesimo secolo ha visto non solo la fine dell'equilibrio di potere, ma anche il declino del desiderio imperiale: in qualche modo le due cose sono andate insieme. Un mondo che ha iniziato il secolo diviso tra imperi europei finisce con tutti quegli imperi estinti. Il sistema post-moderno in cui noi europei viviamo non si basa su equilibrio. L'Unione europea è diventata un sistema molto sviluppato di interferenza reciproca nei reciproci affari interni. Il Trattato CEE, in base al quale le parti del trattato devono comunicare la posizione delle loro armi pesanti e permettere ispezioni, sottopone la sovranità ai vincoli internazionali. Questa situazione rispecchia il paradosso dell'era nucleare nella quale per difendersi si doveva essere pronti a distruggere se stessi. L'interesse comune dei paesi europei per evitare una catastrofe nucleare si è dimostrato sufficiente per superare la normale logica strategica di diffidenza e di occultamento. La reciproca vulnerabilità è diventata trasparenza reciproca. La concezione di una Corte penale internazionale è un esempio lampante della ripartizione postmoderna della distinzione tra politica interna ed estera. Nel mondo post-moderno, la ragion di Stato e l'a-moralità delle teorie di Machiavelli che hanno definito le relazioni internazionali in età pre-moderna, sono stati sostituiti da una coscienza morale che si applica alle relazioni internazionali e agli affari interni: da qui il rinnovato interesse in ciò che costituisce una guerra giusta.

Qual è l'origine di questo cambiamento fondamentale nel sistema statale? Il punto fondamentale è che "il mondo è cresciuto in onestà". Un gran numero di Stati più potenti non vogliono più combattere o conquistare. E' questo che dà origine a entrambi i mondi pre-moderni e post-moderni. L'imperialismo in senso tradizionale è morto, almeno tra le potenze occidentali. Se questo è vero, ne consegue che non dobbiamo pensare alla UE o alla NATO come la causa principale del mezzo secolo di pace di cui abbiamo goduto in Europa occidentale. Il fatto fondamentale è che i paesi dell'Europa occidentale non vogliono più combattere tra di loro. La NATO e l'UE hanno, tuttavia, svolto un ruolo importante nel rafforzare e sostenere questa posizione. Sono la NATO e l'UE che hanno fornito il quadro entro il quale la Germania ha potuto essere riunificata senza porsi come minaccia per il resto d'Europa come la sua unificazione del 1871. L'Unione europea è l'esempio più sviluppato di un sistema di post-moderno. Esso rappresenta la sicurezza attraverso la trasparenza e la trasparenza attraverso l'interdipendenza. L'Unione europea è più un sistema transnazionale che sovranazionale, un'associazione volontaria di Stati piuttosto che la subordinazione degli Stati a un potere centrale. Il sogno di uno Stato europeo si basa sul presupposto che gli Stati nazionali sono fondamentalmente pericolosi e che l'unico modo per dominare l'anarchia delle nazioni è quello di imporre l'egemonia su di loro. Ma se lo Stato-nazione è un problema, allora il super-Stato non è certo una soluzione. Gli Stati europei non sono gli unici membri del mondo post-moderno. Altrove quello che in Europa è diventato una realtà in molte altre parti del Mondo è un'aspirazione. ASEAN, NAFTA, Mercosur e anche OUA suggeriscono almeno il desiderio di un ambiente post-moderno, e anche se questo desiderio è improbabile da realizzare a breve, l'imitazione è senza dubbio più facile di invenzione.


All'interno del mondo post-moderno, non ci sono minacce per la sicurezza in senso tradizionale; vale a dire i suoi membri non pensano di invadere l'altro. Mentre nel mondo pre-moderno la guerra continua ad essere uno strumento di politica. Ma mentre i membri del mondo post-moderno non possono rappresentare un pericolo l'uno per l'altro, le zone pre-moderne rappresentano una minaccia. La minaccia dal mondo pre-moderno è la più familiare. Se ci deve essere la stabilità, la stessa si basa sull’equilibrio tra le forze aggressive. E' degno di nota quanto poche sono le aree del mondo in cui esista un tale equilibrio. E come alto è il rischio che in alcune zone ci potrebbe presto essere un elemento nucleare nell'equazione. La sfida per il mondo post-moderno è quella di abituarsi all'idea di due pesi e due misure. Tra di noi, operiamo sulla base delle leggi e della sicurezza cooperativa aperta. Ma quando si tratta di Stati al di fuori del continente postmoderno d'Europa, abbiamo bisogno di tornare ai metodi più rudi di un precedente periodo: forza, attacco preventivo, inganno, tutto ciò che è necessario per affrontare coloro che vivono ancora nel mondo del XIX secolo. Tra di noi manteniamo la legge, ma quando operiamo nella giungla, dobbiamo anche usare le leggi della giungla. Nel lungo periodo di pace in Europa vi è stata la tentazione di trascurare le nostre difese, sia fisica che psicologica. Questo rappresenta uno dei grandi pericoli dello Stato post-moderno. Il mondo pre-moderno è un mondo di Stati falliti. Qui lo Stato non è capace di avere il monopolio dell'uso legittimo della forza. O ha perso la legittimità o ha perso il monopolio dell'uso della forza; spesso le due cose vanno insieme. Esempi di collasso totale sono relativamente rari, ma il numero dei paesi a rischio cresce continuamente. Alcune aree dell'ex Unione Sovietica sono candidate, compresa la Cecenia. Tutti i principali settori produttori di droga del mondo sono parte del mondo pre-moderno. Fino a poco tempo fà non c'era una vera autorità sovrana in Afghanistan; né vi è in Birmania o in alcune parti del Sud America, dove i baroni della droga minacciano il monopolio dello stato sulla forza. Tutti i paesi dell'Africa sono a rischio. Nessuna area del mondo è esente da casi pericolosi. In tali aree il caos è la norma e la guerra è un modo di vivere. Lo stato pre-moderno può essere troppo debole anche per assicurare il suo

territorio nazionale, per non parlare di una minaccia a livello internazionale, e può fornire una base per gli attori non statali che possono rappresentare un pericolo per il mondo post-moderno. Se gli attori non statali, in particolare la droga, la criminalità, o terroristi ottengono la possibilità di utilizzare basi pre-moderne per gli attacchi alle parti più ordinate del mondo, allora gli Stati organizzati possono alla fine dover rispondere. Se diventano troppo pericolosi da affrontare per gli Stati stabili, è possibile immaginare un uso dell'imperialismo difensivo. Come dobbiamo affrontare il caos premoderno? Essere coinvolti in una zona di caos è rischioso; se l'intervento è prolungato potrebbe diventare insostenibile nell'opinione pubblica; se l'intervento non ha successo può essere dannoso per il governo che lo ha ordinato. Quale forma dovrebbe assumere un intervento? Il modo più logico per affrontare il caos è quello più utilizzato in passato: la colonizzazione. Ma la colonizzazione è inaccettabile per gli Stati post-moderni. E' proprio a causa della morte dell'imperialismo che stiamo assistendo all'emergere del mondo premoderno. Impero e l'imperialismo sono parole che sono diventate un concetto negativo nel mondo post-moderno. Tutte le condizioni per l'imperialismo non ci sono, sia la domanda che l'offerta per l'imperialismo si sono prosciugate. Eppure i deboli hanno ancora bisogno dei forti e i forti hanno bisogno di un mondo ordinato. Un mondo in cui l’efficienza e il buon governo diano stabilità alle esportazioni e alla libertà, aperto agli investimenti e alla crescita. Ciò che è necessario, allora è un nuovo tipo di imperialismo, uno accettabile per un mondo di diritti umani e di valori cosmopoliti. Possiamo già scorgerne la sua sagoma: un imperialismo che, come ogni imperialismo, ha lo scopo di portare ordine e organizzazione, ma che si basa oggi sul principio della volontarietà. L'imperialismo post-moderno assume due forme. In primo luogo vi è la forma dell'imperialismo volontario dell'economia globale. Questo di solito è gestito da un consorzio internazionale attraverso le istituzioni finanziarie internazionali quali il FMI e la Banca mondiale - è caratteristico del nuovo imperialismo che è multilaterale. Queste istituzioni forniscono aiuto agli Stati che desiderano trovare la via del guadagno nell'economia globale e nel circolo virtuoso di investimenti e di prosperità. Se gli Stati desiderano be-

neficiare di questa opportunità economica devono aprirsi alla interferenza delle organizzazioni internazionali. La seconda forma di imperialismo postmoderno potrebbe essere chiamata imperialismo di prossimità. Il malgoverno, la violenza etnica e la criminalità nei Balcani costituiscono una minaccia per l'Europa. La risposta è stata quella di creare una sorta di protettorato volontario delle Nazioni Unite in Bosnia e Kosovo. Non è una sorpresa che in entrambi i casi l'Alto Rappresentante è europeo. L’Europa fornisce la maggior parte degli aiuti e la maggior parte dei soldati (anche se la presenza degli Stati Uniti è un fattore stabilizzante indispensabile). In un ulteriore mossa senza precedenti, l'Unione europea ha offerto unilaterale il libero accesso al mercato per tutti i paesi della ex Jugoslavia per tutti i prodotti, tra cui la maggior parte dei prodotti agricoli. Non sono solo i soldati che provengono dalla comunità internazionale; è la polizia, i giudici, agenti penitenziari, banchieri centrali e altri. Le elezioni sono organizzate e monitorate dall'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE). La polizia locale è finanziata e addestrata dall'Onu. Un passo in più deve essere fatto. L'UE post-moderna offre una visione di un impero cooperativo, una libertà comune e una sicurezza comune, senza la dominazione etnica e l’assolutismo centralizzato degli imperi del passato, ma anche senza l'esclusività etnica che è il segno distintivo dello Stato-nazione oggi inadeguato in un era senza confini. Un impero cooperativo potrebbe essere il quadro politico interno che meglio corrisponde alla nuova sostanza dello Stato post-moderno: un contesto in cui ognuno ha una quota del governo, in cui nessun paese domina e in cui i principi che governano non sono etnici ma legali. Una tale istituzione deve essere dedicata alla libertà e alla democrazia come suoi elementi costitutivi. Come Roma, questa repubblica dovrebbe garantire ai suoi cittadini alcune delle sue leggi, alcune monete e le strade. Questa visione potrà essere realizzata? Solo il tempo lo dirà. La domanda è: quanto tempo ci può occorrere. Nel mondo pre-moderno la corsa alla acquisizione di armi nucleari continua. Nel mondo pre-moderno gli interessi della criminalità organizzata - compreso il terrorismo internazionale crescono a grande velocità. Potrebbe non esserci molto tempo.

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Il Giubileo

ovvero l’aggravamento dell’ordine pubblico di Alberto Donati La valenza politica del Giubileo Come noto, il Papa, con la bolla “Misericordiae vultus”, ha inaugurato solennemente l’Anno Santo, il nuovo “Giubileo Straordinario della Misericordia”. Ciò offre l’occasione per svolgere alcune considerazioni di carattere generale sul cristianesimo e, in particolare, sul cattolicesimo. In Italia si pensa che religione e politica siano due manifestazioni culturali distinte, separate. Questa idea, perniciosa, ha, a sua volta, natura politica poiché è strumentale rispetto alla soggezione dello Stato italiano alla direttive pontificie. Religiosità e politica sono ontologicamente correlate. Dalla prima deriva la moralità, lo spessore culturale, di un popolo. Nessuna società può essere al di sopra della propria religiosità e coloro che si dichiarano atei, agnostici e quant’altro, in realtà, supportano la religiosità dominante. Un popolo, come l’italiano, che non ha cultura teologica neppure possiede una cultura costituzionale, è oggetto, non soggetto politico. L’indizione dell’“anno santo” non ha, dunque, carattere religioso, anch’essa ha natura politica ed è destinata ad influire, per altro molto negativamente, sul nostro futuro. La bolla (§ 4) si richiama al Concilio Vaticano II, per questa via, al Concilio di Trento, vale a dire, alla negazione radicale dell’Europa sorta dalla Riforma protestante e dall’Illuminismo, dell’Italia nata dalla catarsi risorgimentale.

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Ciò evidenzia la natura antimodernista e, quindi, profondamente reazionaria della Chiesa cattolica, scopre il suo vero volto abilmente nascosto dietro la facciata del modernismo diffusa dai mass media. Ciò fa intendere come per l’Italia, paese confessionale in base all’art. 7 della vigente Costituzione, retto ormai da un arco politico compiutamente cattolicizzato, non ci sia alcuna speranza di un reale rinnovamento. La proclamazione dell’anno santo si colloca a ridosso della ricorrenza dell’anniversario della Riforma che avrà luogo il prossimo anno in Germania ed investirà tutta l’area protestante. Per la prima volta, questo evento commemorativo si svolgerà all’insegna di un avvicinamento tra le due aree. Ciò sta a significare, in prospettiva, il capovolgimento del risultato della guerra dei trent’anni (1618-1648) consistito nella acquisizione da parte degli Stati protestanti della sovranità politica e della congiunta indipendenza da Roma; nella realizzazione della moralità pubblica e privata; nella progressiva attuazione dello Stato garante dei diritti umani. Al termine di tale riavvicinamento, i vinti, vale a dire, i cattolici, riprenderanno a dettare legge ai vincitori; il Papato tornerà ad essere il solo rappresentante del cristianesimo occidentale, donde il suo inserimento nelle sedi in cui si decide la politica internazionale, donde la riproposizione della teoria delle due sorgenti luminose, il luminare maius (il Sole), vale a dire la Chiesa, deposi-

taria della verità, e il luminare minus (la Luna), vale a dire, il potere politico che da essa riceve le indicazioni da seguire. Il risultato finale, come già accaduto nella società d’Antico Regime caratterizzata dall’oligopolio feudale, sarà la legittimazione dell’oligopolio capitalistico, la definitiva e divina destinazione dell’essere umano a mero strumento della produzione del profitto, in ciò la sua “dignità”. Mai, il cattolicesimo ha significato il superamento della ingiustizia, al contrario, esso sempre ha rappresentato la sua legittimazione. La chiesa cattolica è, infatti, l’avanguardia dell’Apocalisse, della distruzione dell’operato della Genesi. Il suo “servizio” consiste nella elargizione del “perdono”, non tanto per i peccati (a ciò provvedendo il c.d. Antico Testamento), quanto piuttosto per le empietà commesse. Per altro, se la società è bene ordinata, tanto l’Apocalisse, quanto il “perdono”, vengono privati di ogni valenza ordinante, la Chiesa stessa diviene inutile. Dunque perché quest’ultima prosperi è necessario che la società civile degeneri. Per tali motivi, da sempre, i valori significanti la società civile informata al cattolicesimo sono: ignoranza, povertà e soggezione. Così come il cattolicesimo ha assunto il ruolo di sovrastruttura religiosa della società dominata dalla oligarchia terriera e feudale, parimenti si viene candidando a sovrastruttura religiosa dell’economia capitalistica, dell’oligopolio capitalistico.


Il cristianesimo cattolico Il riavvicinamento del protestantesimo al cattolicesimo sta ad indicare che il primo ha significativamente perduta la sua identità espressa dal “cristianesimo illuministico”. La differenza tra l’una e l’altra forma di religiosità risiede nell’opposto rapporto in cui il cristianesimo viene posto con il Decalogo, pertanto, nell’opposta modalità con cui il Nuovo Testamento viene relazionato con il c.d. Antico Testamento. Quest’ultimo, secondo la lettura cattolica, è informato al primato del Decalogo, il Nuovo all’opposto valore della charitas. Nel primo, si salvano, mediante l’intervento della misericordia divina, i peccatori, vale a dire, i credenti che si sono attenuti, per quanto umanamente possibile, ai dettami del Decalogo, mentre vengono dannati gli empi, vale a dire, coloro che hanno vissuto irridendo ai suoi comandamenti. Nel Nuovo Testamento, sono, invece, proprio quest’ultimi a salvarsi (“iustificatio impii”), mentre coloro che hanno creduto nel Decalogo vengono dannati per l’eternità. Nell’Antico, Dio è Uno, nel Nuovo è Trino proprio a significare il suo essere charitas (1 Gv 4, 16). Nell’Antico la vicenda cosmica si chiude con trionfo del Decalogo e la restaurazione del Paradiso terrestre dove gli esseri umani, resi definitivamente immuni dal peccato, potranno eternamente godere di Dio. Nel Nuovo, la vicenda cosmica si conclude con la vittoria della charitas sul Decalogo, con la distruzione dell’operato della Genesi ad opera dell’Apocalisse, con l’inaugurazione della “nuova Gerusa-

lemme”, nuova, in quanto non più retta da quella Tavola.

Il cristianesimo illuministico Il cristianesimo illuministico sovverte questa visione poiché unifica i due Testamenti dando la prevalenza al primo di essi: “i precetti morali contenuti nell’Antico Testamento ricorrono anche nel Nuovo uguali o più importanti” (H. Grotius). Il Nuovo Testamento non può contraddire l’Antico (Clarke), donde consegue la permanenza del primato del Decalogo, donde consegue, altresì, che la charitas non è più di precetto, ma di consiglio: “Orbene, [il dovere della charitas] assunto come principio generale è piuttosto di consiglio e proprio di una vita particolarmente degna, ma non è di precetto” (H. Grotius); “una tale sopportazione [delle ingiustizie altrui] non è obbligatoria; il Vangelo ci comanda di amare il prossimo come noi stessi, ma non più di noi stessi” (H. Grotius). Il principio ispiratore di questo orientamento diviene, di conseguenza, il seguente: “Cristo non è un nuovo legislatore” (“Christus non est novus legislator”) (J.G. Heineccius). La relativizzazione della charitas consente, dunque, di porre i precetti della seconda tavola del Decalogo (non uccidere, non rubare, etc.) come i valori, cogenti, ordinanti le relazioni intersoggettive socialmente rilevanti. Per questa via, avviene la saldatura tra il cristianesimo riformato e l’Illuminismo incentrato sul primato del diritto naturale (jus naturale, natural right) dai contenuti analoghi a quelli del Decalogo ma fondati sulla speculazione filosofi-

ca. Da questa concordanza, deriva, appunto, “la conformità dei doveri, che la retta ragione ci insegna, con le massime del Vangelo”, “la conformità della morale cristiana con i lumi più elevati del Buon Senso [vale a dire, della ragione”]” (J. Barbeyrac). Ciò che è ulteriormente sintetizzato nei seguenti termini: “[il diritto naturale] è la voce della ragione confermata dalla rivelazione” (J. Locke). Non più la filosofia dell’umanesimo in funzione della fede, ma la fede in funzione di tale filosofia: “la scrittura non prescrive di non avere fiducia nella nostra ragione, ma di farne uso diligentemente e imparzialmente, senza paura, ma con cautela [...] La ragione è la nostra gloria - la nostra guida - la nostra caratteristica eccellenza” (G. Turnbull). Il messaggio biblico acquisisce, così, una configurazione prevalentemente illuministica, in netto contrasto con tutta la tradizione anteriore. Il rilievo politico attribuito al Decalogo; lo spostamento, indotto dal Protestantesimo, della sovranità religiosa dal vertice cattolico alla base (H. Grotius), prodromico dello spostamento della sovranità politica dal vertice feudale a questa stessa base; la conseguente unificazione della civitas Dei e della civitas hominis significata dall’affermazione secondo cui “la Chiesa e lo Stato cristiano sono [...] una sola cosa” (Th. Hobbes); il primato attribuito al lavoro tramite la divinizzazione della vocatio (Beruf, calling) (M. Weber) e la conseguente delegittimazione della rendita parassitaria feudale; costituiscono le basi del rinnovamento etico, economico e politico della società.

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Giubileo e dissolvimento dell’or- i suoi decreti, affisse alla Croce il superbi, fanfaroni, ingegnosi nel madine pubblico chirografo del Vecchio Testamento le, ribelli ai genitori, insensati, sleali, L’idea del perdono è afferente alla filosofia dell’umanesimo. La società umana non può prescinderne se vuole conservarsi come tale. L’etica del perdono è, dunque, parte integrante del suo tessuto connettivo. Essa trova applicazione nell’amicizia, nell’amore, nella relazione coniugale, nelle relazioni parentali, nell’afflato che unisce gli aderenti ad un medesimo ideale. L’idea del perdono trova riscontro nel diritto privato e, soprattutto, nel diritto penale. Sintetizzando, essa afferisce al valore della humanitas. Il perdono, nelle sue manifestazioni più elevate, presuppone la violazione di una regola di giustizia, sostituendosi alla pena che, invece, ne dovrebbe conseguire. La sua valenza culturale, la sua ammissibilità, risiedono nel suo porsi come strumentale rispetto alla riproposizione della giustizia stessa. Il perdono è un atto di amore verso colui che ne è beneficiato, ma, al tempo stesso, nei riguardi del valore che è stato violato poiché ne richiede la riproposizione, la permanenza. Il perdono, quindi, è legittimo allorché non pregiudichi, nelle relazioni intersoggettive successive, la vigenza della giustizia. Allorché esso venga posto come un dovere assoluto, è evidente che acquisisce una funzione strumentale rispetto al suo dissolvimento. L’Anno Santo, proclamato dal Pontefice, si inserisce nella prima visione del cristianesimo sintetizzabile nei seguenti termini: la charitas al posto del Decalogo. Per meglio intenderne la valenza sociologica si deve tenere presente, come già precedentemente evidenziato, che l’obiettivo della Chiesa consiste anche nel divenire la rappresentante ufficiale della religiosità occidentale, nel promuovere la restaurazione della diarchia costituita dal potere politico e da quello spirituale di cui essa assume di essere la depositaria esclusiva in ragione del suo essere vicaria del Dio trinitario in Terra (!). La Chiesa sa bene che l’uomo non vive senza Dio. Sa altrettanto bene che il Dio della società degenerata dalla immoralità, della società che non vuole ritornare al primato del Decalogo, è il Dio annunziato dal cristianesimo nel cui contesto, infatti, sono gli empi ad essere destinati alla gloria eterna e i giusti ad essere eternamente dannati: “sul patibolo della sua morte [...] Gesù pose fine alla Legge [al Decalogo] (Cfr. Eph. II, 15) e con

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(Cfr. Col. II, 14), costituendo nel sangue, sparso per tutto il genere umano, il Nuovo Testamento (Cfr. Matth. XXVI, 28; I Cor. XI, 25) [...] Nella Croce dunque la Vecchia Legge [il Decalogo] morì, in modo da dover tra breve esser seppellita e divenir mortifera [...], per cedere il posto al Nuovo Testamento” (Pius XII, Litt. enc. "Mystici corporis”); “Se qualcuno afferma che l'uomo può essere giustificato davanti a Dio con le sole sue opere, compiute mediante le forze della natura umana, o grazie all'insegnamento della Legge, [...] sia anatema” (Conc. Trid., Sessio VI, Canones de iustif., Can. 1). La società in cui, storicamente, si afferma il cristianesimo cattolico è descritta dall’apostolo Paolo in termini di tragica attualità: “Non esiste giusto, neppure uno, non c'è chi comprende, non c'è chi cerca Dio; tutti furono fuorviati, tutti si sono corrotti; non c'è chi fa il bene, nemmeno una persona; sepolcro spalancato è la loro gola, tramano inganni con la loro lingua, veleno di aspidi sta sotto le loro labbra; la loro bocca rigurgita di maledizioni e di acidità maligna; i loro piedi corrono veloci a versare il sangue, strage e lamento sono sul loro cammino e non conobbero la via del bene. Non c'è timore di Dio davanti ai loro occhi” (Rm 3, 10-18; vd. anche 1, 26-32); “Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, sì da disonorare fra di loro i propri corpi, poiché essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del creatore, che è benedetto nei secoli. Amen. Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; le loro donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo così in se stessi la punizione che s’addiceva al loro traviamento. E poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa d’una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno, colmi come sono di ogni sorta di ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni d’invidia, di omicidio, di rivalità, di frodi, di malignità; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, oltraggiosi,

senza cuore, senza misericordia. E pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo continuano a farle, ma anche approvano chi le fa” (Rm 1, 24-32). La Chiesa, quindi, come già al tempo della sua prima affermazione, invece di contrastare l’immoralità diffusa ripristinando la vigenza del Decalogo, si presenta come il balsamo per le coscienze, come assicurazione della loro salvezza eterna mediante la elargizione del perdono. Coloro che hanno peccato gravemente sono quelli che maggiormente beneficiano di tale messaggio. Sintomatico, nel contesto dell’attuale Giubileo, è il perdono dei carcerati, il perdono degli aborti: “Il mio pensiero va anche ai carcerati [...]. Nelle cappelle delle carceri potranno ottenere l’indulgenza [...]. Penso a tutte le donne che hanno fatto ricorso all’aborto [...]. Il perdono di Dio a chiunque è pentito non può essere negato” (Francesco, Papa, Lettera a Monsignor Rino Fisichella). Il pensiero del Pontefice non va alle vittime dei reati, nelle sue visite non si reca presso quest’ultime. La sua prima preoccupazione è rivolta verso coloro che hanno violato la giustizia e da essi, ovviamente, è accolto con grande giubilo. Le donne che hanno rispettato il divieto dell’aborto e si sono fatte coraggiosamente carico dei corrispondenti sacrifici si trovano ad essere posposte a quelle che hanno scelto la via inversa: “gli ultimi saranno i primi” (Lc 13, 30), “le prostitute e i pubblicani vi precederanno nel regno dei cieli” (Mt 21, 31). Coloro che sono stati condannati dalla giustizia si salveranno, mentre coloro che li hanno fatti condannare (vale a dire, le vittime) e gli stessi giudici che hanno pronunziate le relative sentenze, saranno dannati per l’eternità: “come il Signore vi ha perdonati, così fate anche voi” (Col 3, 13); “Nella misura con cui avrete misurato sarà misurato a voi” (Mt, 7, 2). Nel nuovo Testamento esiste un solo peccato, imperdonabile, poiché contraddice la stessa essenza divina (1 Gv 4, 16), quello di non avere applicata la charitas. Chi non vive secondo questo valore è dannato per l’eternità: “Se Dio si fermasse alla giustizia cesserebbe di essere Dio, sarebbe come tutti gli uomini che invocano il rispetto della legge” (Francesco, Papa, Bolla “Misericordiae vultus”, § 21).


Per questa via, l’anno santo induce, nella società civile, una intollerabile contraddizione: da un lato, lo Stato che con il codice civile e il codice penale, con i suoi organi di polizia interna, con i suoi magistrati, cerca di indurre uno svolgimento ordinato delle relazioni umane; dall’altro, una religiosità che perdona le violazioni della legge, che delegittima l’operato degli organi di polizia e di quelli giurisdizionali. Il giubileo avrà, dunque, un effetto destabilizzante sull’ordine pubblico. Se i carcerati sono assolti di fronte a Dio (che è il vero offeso), come è possibile che non lo siano anche di fronte agli uomini?

L’inversione di tendenza Una società così dilacerata in questi suoi due aspetti fondamentali non ha avvenire. La soluzione, per quanto riguarda l’Italia, risiede nel riscoprire i valori della catarsi risorgimentale, nel tornare ad espungere la religiosità cattolica dall’area del diritto pubblico e, quindi, del diritto costituzionale; risiede nel restituire alla società italiana la propria religiosità, quella espressa dal nostro riformatore, dal nostro Lutero, dal nostro Calvino, vale a dire, da Fausto Socini (Faustus Socinus senensis) (1539 - 1604), tanto per cambiare

costretto dai cattolici a fuggire dall’Italia, a morire esule in Polonia. Il suo pensiero ha costituito una tappa significativa verso l’affermazione del cristianesimo illuministico, mentre in Italia, per colpa dei cattolici, se ne ignora l’esistenza. Analogamente dicasi per il testo biblico. Così come ogni componente protestante si richiama ad un proprio testo, parimenti, il protestantesimo italiano ha come Bibbia quella tradotta da Giovanni Diodati (1576-1649), introvabile in Italia. In altri termini, ci si deve liberare dalla teologia della croce, in quanto teologia della sofferenza. Se Dio è sofferente, non ci si può rivolgere a lui per essere liberati dalle nostre indigenze. Il Dio sofferente obbliga a sopportare la sofferenza, il malgoverno politico, egli, anzi, ne costituisce la divinizzazione. Si deve, allora, tornare alla religiosità che, al contrario, postula la liberazione dalla sofferenza mediante il ricorso alla giustizia basata sul Decalogo, si deve tornare ad esaltare il merito acquisito alla sua stregua. Solo in tal modo sarà possibile delegittimare le modalità esistenziali attualmente imposte dalla oligarchia capitalistica, così sintetizzabili: sfruttamento massivo e spregiudicato delle risorse sia

umane che naturali; delocalizzazione dei capitali industriali e finanziari; immoralità; corruzione; distruzione della famiglia; contrapposizione dei due sessi e conseguente diffusione della omosessualità; immigrazione massiccia, vale a dire, trasferimento delle problematiche geopolitiche regionali nell’area del Primo Mondo, invece di procedere nella direzione opposta, vale a dire, intervenendo in quelle stesse aree al fine di ristabilire la giustizia. L’area occidentale, l’area, quindi, in cui è maturato lo Stato garante dei diritti umani, l’area in cui è stato possibile introdurre il welfare state, è stata posta, dalla oligarchia capitalistica, fuori mercato ed è, pertanto, destinata a scomparire come già accaduto alla società romana, salvo che la base sociale prenda finalmente coscienza di questa drammatica tendenza e ne inverta i contenuti. Il Giubileo, l’Anno Santo, è il perdono delle scelte di fondo delle oligarchie capitalistiche e degli Stati al loro servizio; è il perdono della politica sconsiderata che, dall’entrata in vigore della vigente Costituzione, sta conducendo l’Italia alla rovina; è, quindi, l’accoglimento delle ingiustizie secondo gli insegnamenti della teologia della sofferenza ad imitazione di quella (falsamente assunta come) divina.


La buona e la cattiva scuola di Chiara Mancuso

“Vivi con quelli che possono renderti migliore e che tu puoi rendere migliori. C’è un vantaggio reciproco, perché gli uomini, mentre insegnano, imparano.” (Seneca) Tema: “ Cosa vuoi fare da grande?” Svolgimento: ” Da grande studierò uno strumento musicale e diventerò una brava musicista, talmente brava da poter fare l’insegnante. [...]” L’altro giorno rimettendo in ordine i miei vecchi quaderni, trovai questo tema scritto in terza elementare, dove pianificavo, con dovizia di particolari, la mia vita, i miei studi, il mio lavoro e nel farlo ero talmente sicura e decisa che alla fine tutti mi presero sul serio, iniziando dalla mia grande maestra “unica”, la maestra Lina Castagna: una donna piccola, minuta, che non ho mai sentito alzare la voce, mai un’affermazione sopra le righe, mai un’assenza, nonostante fosse ad un passo dalla pensione! No, era veramente unica, non solo perché fosse da sola a reggere una classe di 26 bambini, ma soprattutto perché mi ha messo addosso fin dal primo giorno, la smania e la curiosità di conoscere il mondo, di non accontentarmi delle cinque righe scritte sul libro, ma andare oltre, leggere, capire, viaggiare con la mente in posti inesplorati senza paura di chiedere, senza la paura di osare o di sognare un mondo migliore, un mondo che andasse oltre al grigio di una città che in quel periodo ci stordiva con il rombo delle bombe della mafia; sognare oltre le grida e la paura, sognare oltre ai pregiudizi di chi rideva della mia terribile timidezza che come L’albatros di Baudelaire mi faceva sembrare impacciata e goffa in mezzo a tanta sfacciata spaval-

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deria, prima che mi rendessi conto che avrei potuto spiccare il volo...

La pubblica “distruzione”: la riforma Giannini Certo, se avessi saputo allora che, alla fine dei miei studi, diventare un’insegnante potesse essere così difficile, probabilmente avrei scritto anche io “voglio fare l’astronauta e colonizzare Marte” , ma allora sembrava tutto più semplice: bastava “solo” studiare, impegnarsi, poi entrare nelle graduatorie d’istituto , fare un concorso e, finalmente, coronare il sogno di insegnare nella scuola pubblica. E invece no, non avevo fatto i conti con le riforme Moratti, Gelmini e Giannini, che hanno fatto esplodere ancora una volta una bomba nella mia come nelle vite di tanti altri poveri insegnanti disoccupati. Dalla semplice laurea si è passati all’obbligo dell’abilitazione, che si può conseguire solo con corsi a numero chiuso, costosi e lunghi…per farvi un esempio, l’ultima volta che pubblicarono il bando per l’abilitazione all’insegnamento della chitarra, c’era solo un posto a disposizione e a parità di punteggio sarebbe stato scelto il candidato più giovane: non mi scomodai nemmeno a provare... Tanto più che la signora Giannini per noi musicisti ha pensato di complicare ancora di più le cose: i fortunati che hanno conseguito l’abilitazione al conservatorio, si ritrovano con un pezzo di carta inutile in mano, senza un ulteriore corso abilitante, il famoso TFA, “tirocinio formativo attivo”...sempre a numero chiuso e a pagamento, ov-

viamente... In parole povere, vi faccio il quadro della situazione: dopo dieci anni di conservatorio, avrei dovuto fare due anni di Didattica della musica, e in più uno o forse due anni di TFA…fate due conti...considerando poi che bisogna aspettare il famoso concorso o continuare a sperare nel “precariato stabile”! Il caos della riforma è talmente grande che riuscire a riassumere in poche righe quello che sta succedendo nella scuola pubblica è davvero impensabile, anche perché ogni giorno esce fuori qualche nuova clausola, qualche novità che rende impossibile lavorare sia a noi poveri precari, sia ai nuovi “arruolati” delle varie fantastiche fasi di reclutamento, sia ai “vecchi insegnanti” di ruolo. Ci sono in atto vere e proprie guerre di insulti via web fra gli insegnanti di seconda fascia già abilitati e gli insegnanti di terza non abilitati, che vorrebbero avere una possibilità e partecipare al prossimo concorso, ma che vengono snobbati dai colleghi abilitati che si sentono migliori, anche se magari non hanno mai visto una classe in vita loro... E allora come si fa? Può davvero un corso formare un buon insegnante? O, meglio, un insegnante è davvero migliore se ha fatto un corso teorico senza avere la più pallida idea di come si stia in una classe? Cos’è che fa di un insegnante un buon docente, un “capitano, mio capitano!” per citare “l’attimo fuggente”, cos’è che fa davvero la differenza fra un nozionista e un maestro?


Lasciate ogni speranza, voi E feci una mia personalissima classi- solo da due o tre persone e gli ch’intrate fica dei miei insegnanti, in base a co- altri...quali altri? Una volta, per di-

Io personalmente, non credo che un corso, per quanto ben fatto sia, possa “insegnare ad insegnare”: no, per me è un’arte quella dell’insegnamento e l’arte non si può infondere se non ce l’hai nel sangue. L’ho visto facendo il conservatorio ed ora l’accademia Lizard: puoi imparare le migliori tecniche, puoi essere un mostro con lo strumento, ma se sei solo uno sterile esecutore, o un teorico della musica nessuno ti sta a sentire...così come tanti bravi professori che conoscono tutto perché lo hanno studiato solo sui libri, ma poi davanti alla classe non sanno cosa fare e i ragazzi se ne accorgono, e uno studente che non ti stima, non ti starà mai a sentire. Quando frequentavo il liceo e il conservatorio contemporaneamente, le mie idee erano ormai chiare su cosa avrei fatto nella mia vita e già mi ponevo il problema su come sarei stata io come insegnante, vedendo l’incapacità del mio maestro di chitarra e l’insoddisfazione che mi trasmetteva, così decisi che avrei appreso il metodo migliore nel solo modo in cui avevo imparato tutto fino ad allora: osservare, ricordare ed imparare da quello che vedevo e quando qualcuno proprio mi deludeva, mi continuavo a ripetere che non avrei dovuto mai dimenticare per non sbagliare anche io quando sarebbe stato il mio momento.

me mi si presentavano: devo ammettere che tutti i miei prof erano molto preparati nella loro materia, i veri problemi nascevano quando si rapportavano con noi studenti ed era questo che trasformava il mio liceo in un Inferno dantesco, con tanto di gironi. Il girone degli “insicuri”: erano quei professori, pochi per fortuna, che non alzavano nemmeno lo sguardo quando entravano in classe, né quando spiegavano, con gli occhi incollati al libro, o al registro mentre ti interrogavano, così che non riuscivi nemmeno a capire se il loro sudare freddo era dovuto a qualche fesseria che stavi dicendo, o semplicemente stavi andando troppo veloce o troppo oltre lo stretto necessario e non riuscivano più a seguirti! Che noia gli insicuri che ti portavano in classe tutti i loro titoli di studio, dico davvero, dal diploma al dottorato in chissà cosa, pur di dimostrare che meritavano quella cattedra che loro stessi sentivano come se bruciasse sotto le loro dita, stavano seduti come su una “Vergine di Norimberga”, in preda ai mille tic nervosi e alle crisi isteriche quando chiedevi più di una volta qualcosa che non capivi. Il girone degli “indifferenti”: c’erano poi quelli nemmeno ti vedevano, presi solo da loro stessi, o dai loro prediletti, come se la classe fosse composta

vertimento, durante un’interrogazione, anziché rispondere correttamente alla domanda, iniziai a parlare di Topolino, con lo stesso tono pacato di sempre e nonostante i miei compagni fossero scoppiati a ridere, il professore non si accorse di nulla e mi mise il solito “sette” come da quattro anni a quella parte! O come quando ci incontrammo nel corridoio e guardandomi mi disse: “Ma come stai bene senza apparecchio ai denti!” peccato che l’avessi tolto già da tre anni! Il girone dei “Simpatici a tutti i costi o affetti da sindrome di Peter Pan”: anche questi in minoranza, ma pericolosi come uno tsunami, erano quelli che a tutti costi dovevano travolgerti con la loro straripante “simpatia”, quelli che avresti incontrato la sera al pub a fare le gare a chi beve più birre con i propri studenti, o che, con gli stessi, si divertiva ancora a bussare ai campanelli di notte...quelli che facevano gli scherzi stupidi in gita scolastica o si facevano cacciare dai musei per aver preso in giro le guide straniere...li guardavo e mi rendevo conto che una laurea la può prendere anche un idiota, con tanto di lode per giunta! Il girone dei “saggi”: non c’è cosa peggiore dei vecchi insegnanti ad un passo della pensione che credono di avere in loro possesso tutte le perle di saggezza mai scoperte!

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Ne avevo una, una “grande saggia” che mentre spiegava la sua lezione, d’un tratto iniziava ad “aprire il suo libro dei ricordi” e ci rendeva partecipi di noiosissimi aneddoti sulla sua vita! All’inizio facevo finta di ascoltare, ma appena il torpore prendeva il sopravvento, era necessario correre ai ripari! Tenevo sempre un blocco da disegno sotto il banco e, facendo finta di prendere appunti, mi distraevo per sopravvivere a quella dose massiccia e indesiderata di “saggezza”; una volta se ne accorse e quando risentita mi chiese cosa stessi facendo, con sarcasmo le risposi che stavo “illustrando il suo libro dei ricordi”! La mia impertinenza fu punita, ma sempre con estrema “saggezza”: mi chiamò a tradurre una versione di greco che “sembrava” scritta apposta per me, per una persona arrogante, impertinente, strafottente e insensibile! “Hai capito bene?” mi guardò dall’alto in basso. Si che avevo capito: non dovevo farmi beccare! Il girone dei “ cinici” : a tratti sadici possono distruggere tutte le tue sicurezze, soffocanti come un boa costrittore, fastidiosi come un martello pneumatico alle sei di mattina, hanno le loro preferenze che non nascondono, come non fanno nulla per simulare le loro antipatie; e quella che prese di mira me, mi diede il tormento per un anno, martellandomi con una frase costante “Non ce la puoi fare! Qui sopravvivono solo i migliori!” Giuro che ho ancora gli incubi di quella donna, di quando mi lanciava il foglio del compito in classe, delle mille interrogazioni nel mese di maggio, tutti i giorni su tutto il programma, o delle volte che mi diceva che mi avrebbe reso la vita impossibile se non avessi cambiato scuola, convincendomi con le migliori argomentazioni che ero un’incapace, che il conservatorio non mi sarebbe servito a niente, che ero solo una perdente capace solo di piagnucolare…e quando me la trovai ad assistere agli orali del mio esame di maturità e sentirle dire “Ero sicura che ce l’avresti fatta!” mi morsi la lingua e trattenni quelle uniche parole poco educate che mi giravano per la mente in quel momento, contai fino a mille e mi buttai alle spalle tutte le notti insonnie e le paure che mi avevano tormentano in quel percorso ad ostacoli.

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E quindi uscimmo a riveder le lezione all’altra a chiedermi perché stelle... piangessi, a chiedermi cosa mi pasPoveri i miei prof! li ho proprio distrutti! Certo, riconosco che nemmeno io ero una “cliente facile”, una ragazzina che già a quindici anni aveva iniziato a vivere da sola, indurita da un passato difficile in una realtà violenta, cresciuta troppo in fretta e con troppe responsabilità da affrontare, ma sarebbe bastato solo provare ad ascoltarmi un po’, per capire che dietro alla mia impertinenza o ai miei silenzi non si nascondeva una natura menefreghista e irriverente; sarebbe bastato guardarmi in faccia per capire che non avevo bisogno che qualcuno mi ribadisse la mia fragilità, ma mi porgesse una mano da stringere, non avevo bisogno, quando cercavo di nascondere a tutti i costi un pianto improvviso, di qualcuno che mi urlasse “smetti di piangere che non siamo più all’asilo!”...magari avrei avuto bisogno di farmelo quel pianto, di tirare fuori un po’ di quel veleno che mi stava infettando; ma forse era troppo da chiedere ad un professore, che già fa di suo un mestiere difficile, di sforzarsi un po’ di più e non etichettarmi con un facile stereotipo...eppure, quello sguardo arrivò, eppure qualcuno si fermò un attimo, perdendo quei cinque preziosissimi minuti di tempo fra una

sasse per la mente... Si, in mezzo a quegli irreprensibili “super uomini”, in mezzo a quelle perfette macchine da “guerra”, c’era una donna, l’ insegnante più brava che abbia mai avuto: lo pensavo già prima che venisse ad insegnare nella nostra classe, quando con fare gentile aveva sempre un sorriso per tutti, mi esaltai quando divenne la mia insegnante di Fisica e Matematica, consapevole che tanto avrei avuto da imparare . La più grande lezione me la diede come donna, quando dopo la mia prima “esilerante” interrogazione di fisica, finita con delle balbettanti frasi sconnesse dettate dal più patetico degli attacchi di panico della storia, mi raggiunse in corridoio dove ero scappata per la vergogna: non mi chiese di smettere di piangere, non infierì come altri avrebbero fatto ribadendo che avrei dovuto studiare di più, mi ascoltò, per la prima volta in quattro anni qualcuno pensava che avessi qualcosa da dire. Io ero terrorizzata da quella figuraccia e dal fatto che altri in passato mi avrebbero etichettato come la “scema del villaggio” che più di quello non può dare e, invece, “non è successo niente!” mi disse, “un brutto voto è solo un brutto voto; sono sicura che ti rifarai! Ce la puoi fare!”


Allora capii cos’è un’insegnante, cosa è una valutazione, cosa è il fine ultimo di un vero maestro: dare una lezione non era umiliarti davanti a gente che non vedeva l’ora di metterti alla gogna, ma darti la possibilità di rialzarti, capire gli errori senza fare una tragedia, senza rinfacciarli in eterno. Si, senza iperboli o frasi fatte, senza alcuna esitazione posso affermare che Lucia Mirri è stata la migliore dei miei insegnanti, sotto ogni punto di vista, dalla preparazione, alla professionalità, dai modi mai sgarbati, mai frettolosi, mai offensivi: teneva la classe in modo perfetto, nessuno fiatava e nessuno mise mai in dubbio quanto fosse in gamba, neppure i più pettegoli fra i miei compagni, che cercavano i difetti a tutti. Esigente al punto giusto, severa senza sfociare del perfezionismo ossessivo, non aveva bisogno di alzare la voce per farsi sentire e non attaccavano le adulazioni che i miei compagni provavano a srotolare: esisteva solo il merito, senza sconti o pregiudizi. Umanamente è stata l’unica persona a starmi vicino nel periodo più difficile della

mia adolescenza, senza esitare a chiamarmi a casa, per sapere come stavo se avevo bisogno di qualsiasi cosa; mi ha preso la mano e mi ha aiutato a rialzarmi nel momento in cui tutti mi passavano sopra senza nemmeno guardarmi; ricorderò sempre i suoi incoraggiamenti che ancora oggi non mancano ad arrivare.

Conclusioni Allora cos’è che rende un buon insegnante tale? Un costoso corso, un cento dieci e lode, una sfilza di titoli e master meritati o no? La preparazione, certamente, è la prima cosa, altrimenti non mi alzerei alle sei del mattino per cercare di studiare tutti i giorni, dopo che suono da più di vent’anni, ma da sola non basta. E ringrazio tutti i miei insegnanti, ma proprio tutti, perché con i loro errori, con il male che involontariamente, spero, mi hanno fatto, mi hanno spinto a voler diventare un’insegnante migliore di loro, a non cadere nel tranello del qualunquismo e degli stereotipi. Certo, non sarò mai super come la

mia prof di matematica, ma quando apro la custodia della mia chitarra e volano via i vari biglietti che in questi anni i miei piccoli allievi mi hanno nascosto dentro gli spartiti, sento che qualcosa di buono devo aver pur fatto, nonostante i nomignoli che mi hanno appioppato, da Xena a Lady Macbeth, passando per Milady the Winter. Ci vuole cuore oltre che testa, sensibilità e quella forza necessaria per chiudere i problemi personali dietro la porta. Per concludere vi lascio alle parole di Italo Calvino nel libro “Le città invisibili”: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno , non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”


Nepal tra India e Cina

Nello scorso mese di settembre l’Assemblea Costituente nepalese, dopo ben otto anni di discussione e una rielezione generale, ha finalmente approvato a larghissima maggioranza (507 voti contro 25) la nuova Carta Costituzionale che fa dell’ex regno induista del Nepal una Repubblica federale laica. Al raggiungimento dell’accordo dopo tanti anni di dibattito seguiti alla fine della guerra rivoluzionaria condotta dal Partito Comunista Maoista, che ha abbattuto il bicentenario regime autocratico di un re sedicente ancora nel 2000 l’incarnazione di dio Shiva, hanno contributo sia i grandi cambiamenti politici che hanno interessato l’intera area dell’estremo oriente, sia infine il forte richiamo alla solidarietà nazionale di fronte al disastroso evento del sisma dell’aprile scorso. La caduta della dinastia Nehru-Gandhi in India, che ha fortemente indebolito l’omologo Partito del Congresso nepalese, il grande avvicinamento tra la Cina e l’India, entrati organicamente nel sistema integrato politico-militare dello SCO (Shanghai Cooperation Organization) che oggi unisce l’intero centro Asia, dalla Russia, all’Iran, all’Afghanistan, alla Cina, Pakistan e India, hanno indubbiamente contribuito alla formazione di una nuova intesa tra i due maggiori partiti comunisti nepalesi, lo storico Marxista-Leninista e il più recente Maoista che, nell’insieme rappresentano quasi il 70% dei consensi popolari. Subito dopo l’approvazione della nuova Costituzione è stata infatti possibile la formazione di un nuovo governo a guida del leader del Partito Comunista marxista-leninista, Oli, con l’appoggio del leader maoista Dahal (Prachanda), e si profila a breve l’elezione del nuovo Capo dello Stato e questa volta, probabilmente, sarà una donna, Bidya Bhandari, anch’essa leader storica del Partito Comunista marxista-leninista. Come tutti i passaggi storici così tanto sofferti, tuttavia, sono subito seguiti forti dissensi

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da parte di comunità, etnico-religiose, ritenutesi penalizzate o non adeguatamente riconosciute nel nuovo sistema federale, sicché già all’indomani dell’approvazione della Costituzione e della formazione del nuovo governo di unità quest’ultimo sta già promettendo una revisione della Costituzione che tenga conto delle dette lamentele. Sta di fatto che in queste ultime settimane il Nepal è attraversato da forti manifestazioni di protesta delle popolazioni dell’area meridionale confinante con l’India, che stanno bloccando gli approvvigionamenti sia alimentari che soprattutto energetici da quel Paese e dei quali da sempre, e specificamente in questa fase post sismica, il Nepal ha bisogno essenziale (va precisato che non esiste un vero e proprio confine chiuso tra Nepal e India, nel senso che c’è una grande fascia di libera circolazione di mezzi, beni e persone tra i due Stati). Il Nepal è uno dei Paesi più poveri del Mondo, anche a causa dei circa trecento anni di regime autocratico succube delle potenze coloniali occidentali (Inghilterra), che non ha sviluppato l’economia, né la cultura (c’è un 30% di analfabetismo) ed è vissuto di emigrazione. L’articolo che pubblichiamo nelle pagine seguenti da un’idea impressionante della dimensione e gravità del fenomeno migratorio nepalese che costituisce, come ci indicano le cifre riportate, oltre il 30% del PIL nazionale al netto dei “non costi” sociali dei circa 2,5/3 milioni di emigranti. Se questo non bastasse, come sopra detto, si è aggiunto il disastro di un sisma enorme per estensione, vittime e distruzioni, soprattutto di infrastrutture viarie già difficilissime in un paese di morfologia di alta montagna, che ulteriormente aggravano i contatti e gli scambi sia interni che con l’estero. Si apre ora, come detto, un nuovo scenario per il futuro del Nepal, stretto tra i due grandi nuovi sistemi economico-politici asiatici emergenti della Cina

a nord e dell’India a sud. Le avvisaglie non sembrerebbero “buone”, poiché è indubbio che gran parte delle odierne difficoltà di approvvigionamenti alimentari ed energetici che sta soffrendo il Nepal sono indotte da una connivenza tra le popolazioni nepalesi, seppure in legittimo dissenso, e il governo indiano che, sicuramente, non vede di “buon occhio” l’avvicinamento fortemente ideologico del nuovo governo nepalese con la Cina comunista. E in effetti, proprio in questi giorni, il Ministero degli Esteri cinese, rompendo la tradizionale riservatezza della sua tipica politica di non ingerenza negli affari interni degli altri Paesi, ha formalmente annunciato un piano di grandi aiuti per il Nepal, non ultimo con la ardita creazione di infrastrutture moderne, stradali e ferroviarie, di collegamento tra il Tibet e il Nepal che scavalcheranno l’immensa catena dell’Himalaya. E’ tuttavia lecito e doveroso sperare per il meglio, perché nel nuovo scenario mondiale apertosi con la fine dell’Impero USA e in genere del predominio plurisecolare dell’Occidente, se ci saranno (e inevitabilmente ce ne saranno e per molto tempo ancora) “guerre regionali”, dove i più grandi storicamente si misurano tra di loro sulla pelle dei più piccoli, verosimilmente non saranno più guerre di bombe, ma guerre di aiuti economici (anche se sicuramente “pelosi” in termini di interferenze delle economie più grandi in quelle più piccole) dalle quali comunque i piccoli finalmente e almeno un po’ trarranno anche benefici. C’è in sostanza da augurarsi che se il nuovo governo nepalese saprà attentamente “navigare” tra i due giganti vicini, potrebbe finalmente guidare una “gara di aiuti” (finanziamenti, investimenti, ecc.) e invertire una plurisecolare vicenda di povertà e ignoranza estrema. Oggi, ancora e tuttavia, il quadro è quello che emerge dall’articolo che segue ed è un quadro impressionante. (SR)


Storie di migranti

(estratto da un articolo di Enrico Crespi pubblicato il 28 agosto 2015 Non si erano mai visti, da anni, tanti giovani nei villaggi delle colline, lasciate a donne, vecchi e bambini. Negli ultimi 10 anni tantissimi sono migrati (oltre 2 milioni). Magar, Tamang, Gurung, stanchi di vivere con poco, senza opportunità fra i campi faticosamente coltivati delle colline terrazzate del Nepal centrale. Proprio la zona più colpita dal terremoto. Almeno il 35% delle famiglie dei villaggi ha un parente all’estero. Sono tornati per trovare i genitori dai paesi in cui lavorano come schiavi per 500 dollari al mese. (Emirati e Malesia in gran parte). Sono andati, nei giorni successivi al

terremoto, nei villaggi in jeep, camion, pullman stracarichi, in moto. A volte portano tende e teloni, sacchi di riso e noodles, aiutano a spostare macerie, mettere puntelli alle case di mattoni e argilla. Altri non sono tornati per non perdere il salario e il costo del biglietto aereo, come il marito di Sanjeeta Lama, una donna forte del Timal, che alleva i suoi figli, coltiva i campi, paga i debiti fatti per far migrare il marito. Qualche parente è salito per aiutarla a recuperare le cose nella sua casa inclinata, salvare lo stock dei raccolti e i semi per le future piantagioni. Si dormiva in tenda, con i bambini e i vicini di

casa. Poi grazie alle yasta di Takecare Nepal è stato costruito un rifugio in cui vivere e stoccare il mais. Sanjeeta è, nei limiti fortunata, la sua casa può essere riparata, il bufalo e le galline sono sopravvissuti, mais e semi sono salvi. Nel Timal non manca l’acqua. Sotto il villaggio scorre il fiume Sun Kosi, con un po’ di fatica l’acqua è portata su. La sua storia è simile a quella di tante donne che sono sole, nei villaggi a curare bambini campi e animali. Tante di queste donne devono pagare il debito all’agenzia che ha procurato visti e permessi al marito o al figlio.

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I dati ufficiali raccontano di 500.000 nepalesi che lavorano in Malesia, 500.000 negli Emirati, un altro milione sparso per il resto del mondo. Incalcolabile il numero dei migranti in India dove le frontiere aperte impediscono ogni conteggio. Incalcolabile il numero dei migranti clandestini. Si ritiene, in assenza di dati precisi, che circa il 15% del Nepal sia all’estero (2.500.000 persone) e, un altro 10% sia piombato, nell’ultimo decennio, a Kathmandu dando il colpo finale all’equilibrio sociale ed urbanistico della capitale. Tutti vengono dai villaggi, in gran parte da quelli delle colline, con conseguenze sociali ed ecologiche negative anche lì. Il povero Rajesh non ce la fa più, moglie tre figli, laureato, 35 anni, vuole scappare via dal Nepal e come lui tanti altri giovani della middle-class di Kathmandu. Eppure a Rajesh non andava malissimo, lavorava per una INGO, buon lavoro e buon salario (€ 300 al mese), un sistema di previdenza sociale e malattia per i dipendenti e le famiglie e, dunque, assolutamente privilegiato rispetto ad altri settori. Ma nel momento in cui i fondi dall’estero sono diminuiti è stato licenziato in tronco, alla faccia dei diritti sindacali e del lavoro. Oltre la perdita del lavoro è, anche, Kathmandu che gli sta stretta. Mi elenca i noti problemi: non c’è benzina, gas e cherosene (per cucinare), l’energia elettrica è tagliata per sei ore al giorno, i costanti bhanda (scioperi) e julus (manifestazioni) impediscono di muoversi e di lavorare, se, come probabile, la INGO fallisce, non ci sono prospettive di lavoro; affitto, cibo e scuola portano via il 90% del salario. Ma sopratutto non vede prospettive, non riesce ad immaginare il Nepal fuori dal costante casino che blocca tutto da anni, come tanti ha perso speranza nel suo paese. Mi dice, prima l’instabilità politica (11 governi in 10 anni), poi il conflitto, la rivoluzione del 2006, l’estenuante discussione sulla costituzione, scioperi e violenze. Stessa storia per molti medici, laureati, esperti informatici, professori che fuggono dal paese, grazie ai network professionali e famigliari e trovano buone occasioni in occidente o in India, svuotando il Nepal di competenze e opportunità. Quando non emigrano loro spedi-

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scono i figli studiare all’estero. Questi, come Rajesh, sono i privilegiati conoscono l’inglese, hanno un network di conoscenze, qualche soldo, una cultura. Poi ci sono gli altri (circa 10.000 al giorno) che lasciano i villaggi, le famiglie e il contesto sociale in cui sono sempre vissuti per l’avventura. Centinaia di migliaia sono finiti in India attraversando i confini aperti senza problemi, chi vuole andare da qualche altra parte deve faticare mesi per ottenere un passaporto, il contratto di lavoro e il visto. Ogni tanto fuori dall’ambasciata americana di Kathmandu bivaccano intere famiglie in attesa di una green card o per protestare perché non concessa. Le agenzie di lavoro, cresciute come funghi e senza controlli, smerciano gli esseri umani negli Emirati, Malesia, Filippine, Giappone. Le tariffe per visti e permessi arrivano fino a 200.000 rupie (€ 2000 circa), quando per molti paesi il costo reale di visti e permessi è solo di euro 100; le truffe non si contano e, ogni tanto, gruppi di nepalesi con visti e contratti fasulli sono abbandonati negli aeroporti in attesa che la famiglia faccia un altro prestito ad usura, per pagare il biglietto di ritorno. Tornati a Kathmandu distruggono l’agenzia poco onesta. Le irregolarità e le truffe sono tante che il governo ha sospeso per il mese d’agosto l’attività di tutte le agenzie. Nel passato i nepalesi andavano a Hong Kong, Singapore, India per lavorare come poliziotti, militari o nella security (gurkha), nelle piantagioni di tè dell’Assam, nelle famiglie di Dheli o Bangalore nei “dance bar” più scadenti di Sonarchi o Golpitha (le sex aerea di Calcutta e Bombay). Fino al 1990, per ottenere il passaporto bisognava conoscere mezzo governo del Nepal e pagare suntuose tangenti. Dopo, con la “democrazia” e la globalizzazione, è diventato più facile spostarsi e la fuga è diventata irrefrenabile. Nei villaggi circa il 35% delle famiglie ha un membro che è andato all’estero a cercare fortuna e quando torna con un cellullare, un lettore di DVD portatile, una macchina fotografica digitale invoglia altri giovani alla partenza. If he can earn such money, why not me? But lured by dalals (agents), or by returning migrants sharing their experiences, these boys inevitably do not

understand the real economic and psychological price they will have to pay in bidesh (estero), mi racconta un giornalista nepalese. Ma, più che per le sirene del consumo, è la mancanza di opportunità e di sviluppo personale che fa scappare la gente dai villaggi (che formano il 70% del Nepal), dove spesso non vi è neanche una strada carrabile, una scuola secondaria, servizi sanitari, elettricità. Fermarsi lì significherebbe fare il contadino per sempre o correre il rischio che un monsone troppo forte o troppo debole distrugga il raccolto, che l’usuraio porti via la terra, e che i pochi soldi racimolati volino via per la dote di una figlia\sorella. Poco si sta facendo per migliorare la vita nei villaggi e dare opportunità alla gente che li abita e il successo durante il conflitto ed elettorale dei maoisti è, così. spiegato. Gruppi di ragazzi, i futuri lahure (dai vecchi migranti a Lahore), si raggruppano, timidi e impauriti, nell’aeroporto. Tutti con un cappellino colorato dell’agenzia di collocamento e una grossa Tika rossa sulla fonte, a proteggerli nelle “terre impure”. Oggi una delle mete più frequentate è Doha (in genere gli Emirati) dove stanno costruendo grattacieli, fabbriche, piste di sci, stadi del mondiale. Nello stesso aeroporto la maggior parte dei camerieri nei bar è nepalese e può essere il primo incontro del turista che viene da occidente. Solo nel Qatar vivono oltre 300.000 nepalesi che lavorano nelle costruzioni, come domestici, commessi e baristi e sono considerati poco più degli intoccabili in India. Molti abitano fuori dalla città nei campi fatti da una moltitudine di casette di due piani dove vivono in sei per stanza. Quando sono in festa mangiano nei ristoranti nepalesi in città e s’incontrano a Nepali Chowk per parlare, comprare merce e giornali importati dal Nepal. Quando risparmiano qualche soldo, dopo aver spedito gran parte alla famiglia, si comprano una bottiglia di liquore locale (circa una settimana di salario) e lo scolano in compagnia dei colleghi dello stesso villaggio o gruppo etnico o comprano un lettore di DVD e si annichiliscono con i film di Bollywood. Ogni anno circa 160 nepalesi muoiono solo a nel Qatar per incidenti sul lavoro. Il salario medio è euro 600 al mese (+ vitto e alloggio).


Nel 2008 è stato siglato un accordo fra Nepal e Qatar per limitari i diritti assoluti dello sponsor (padrone, kafil), migliorare le condizioni di vita e garantire l’accesso ai diritti fondamentali dei migranti (che possono essere espulsi in ogni momento su volere del padrone). In alcuni campi (quelli delle multinazionali occidentali) qualche miglioramento è avvenuto. Quando le condizioni diventano insopportabili esplodono violenti tumulti come lo scorso novembre a Dubai. Malgrado questo accordo, in questo mercato di esseri umani, le ambasciate nepalesi, gli emigranti e neppure il governo ha nessun potere. Nella generalità dei casi il sogno di comprare una casa o della terra al villaggio, di mandare a studiare i figli a Kathmandu, di assicurare una dote alla figlia si avvera, con immense fatiche e sofferenze e dopo almeno 10 mesi di lavoro per ripagare il prestito per la partenza. Come i loro avi quando andavano a combattere per gli stranieri o coltivare i campi degli inglesi o degli indiani, quando i migranti tornano ai

villaggi vestiti come occidentali poveri e con una cinepresa digitale sono eroi, raccontano storie e trasferiscono nuove idee e suggestioni. Dhane torna a Thulo Parsel, remoto villaggio nel Distretto di Kavre, dopo due anni di lavoro in Malesia. Finalmente può mangiare la polenta (dido) con verdure e un bel pollastro. Alla famiglia racconta storie che qui sono fantastiche, tunnel per le macchine, grattacieli, scale mobili, il mare, le navi. Fa vedere con orgoglio a parenti e amici le foto della sua casa e del suo lavoro. Chi è rimasto lì (le donne) ha curato il campo, venduto il mais, raccolto l’acqua e la legna, dimentica per qualche serata le fatiche durissime e l’attesa del suo ritorno. Non distante a Chapakori, Nirmala e i suoi tre figli sono stati abbandonati dal marito che si è ricostruito una vita nelle Filippine, non ha più inviato soldi, pagato il debito con l’usuraio e la famiglia ha dovuto vendere i pochi ropani di terra con i quali sopravvivevano. I suoceri, malvolentieri, l’hanno accolta, i figli non possono più studiare.

Basterebbe stare per qualche giorno in un villaggio e vedere che per comprare cherosene, sale, tè, e altri generi alimentari non agricoli una famiglia spende in media 500/600 euro all’anno, a cui bisogna aggiungere sementi e materiale agricolo, animali (altri 400 euro senza disgrazie), educazione (nelle scuole primarie circa 50 euro a figlio), più qualche vestito, medicina, qualche spostamento in città. Ballano oltre 1500/2000 euro l’anno che nei villaggi li hanno visti solo gli usurai e qualche fortunato. Questo spiega alcuni dati e le ragioni della fuga: il 30% dei nepalesi non sa scrivere né leggere, su 100 bambini iscritti alle scuole primarie solo 30 raggiungono le secondarie, il 40% dei bambini sotto i 5 anni soffre di malnutrizione. Per il Nepal, le rimesse degli emigrati rappresentano circa il 30% del PIL e circa il 35% proviene dagli Emirati e il 25% dall’India (dove vi è il 60% della migrazione nepalese); questo spiega perché i voli economici della Emirates Airline sono sempre pieni.

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Mediterraneo e Europa tra passato e futuro Il Mediterraneo come paradigma Edouard Glissant afferma: “Io dico spesso che il Mar dei Caraibi si differenzia dal Mediterraneo per essere un mare aperto, un mare che disperde laddove il Mediterraneo è un mare che concentra”.

di Ivano Spano Nella storia, nella nostra storia il “magico lago”, circondato dalle terre di tre continenti, si trasforma in una serie di allegorie e di immagini le cui suggestioni molteplici, discontinue, attraversano i secoli per raggiungerci. In questo non è individuabile una origine che ci consenta di stabilire l’inizio dell’inizio dove dimorano il fascino e la scientificità, la storia, la narrazione di ciò che il Mare Nostrum è ed è, per noi tutti, un mito. Ma forse, ha ragione Karl Kerényi quanto definisce magistralmente il mito “elaborazione non conclusa della realtà”, “epifania”, “realtà che si rinnova costantemente”. Il professor Giuseppe Galasso ci ricorda che “il Mediterraneo mai ha costituito un'area chiusa e conclusa”. Ritornano alla memoria parlate di un tempo passato, porti affollati, mercanti e marinai e un’antica lingua, il sabir, da secoli ormai scomparsa. Il sabir, miscuglio di latino, italiano, francese, spagnolo, arabo ed ebraico che ha consentito la comunicazione tra chi ha attraversato questo mare, tra chi si è affacciato su queste acque pur appartenendo a mondi diversi. Il Mediterraneo è unità della diversità, non un mare ma un susseguirsi di mari, non un paesaggio ma innumerevoli paesaggi, non una civiltà ma una serie di civiltà, accatastate le une sulle altre come direbbe Fernand Braudel. E questa rete, queste mescolanze non generano sovrapposizioni ma una sorta di slittamento dove ogni cosa scivola sull’altra. Sulle acque del Mediterraneo tutto scivola. Durisin ha elaborato una teoria che attribuisce a questo mare una sorta di “centrismo inter letterario” che ha come obiettivo il conoscersi e il ri-conoscere l’altro senza, tuttavia, pensarlo di ridurlo a sé. E’ proprio nel tentativo di disabituarci al “conosci te stesso”, concetto che da Socrate e Platone viene trasmesso alla filosofia europea, che impariamo a ri-conoscere l’altro.

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Le acque del Mediterraneo, allora, non ci dicono solo come entrare, ma anche come uscire. Sono acque di aperture, di eventi singolari straordinari, di eventi inattesi. Il Mediterraneo è un mare interno, interiore, intimo, capace di mettere in contatto il soggetto con sé stesso, grazie al riconoscimento dell'altro. Potremmo dire che l’essenza di questo mare sta nella produzione di autonomia. Come afferma Habib El Maki “Il Mediterraneo riunisce le condizioni di base costitutive di una unità organica... per non parlare dell’arte di vivere mediterranea” (La mèditerranèe en question, CNRS, 1991), quell'arte in cui possono convivere, così come ci dice in maniera magistrale la scrittrice Mernissi, tradizione e modernità. Ma, questa centralità, questa dimensione creativa, trasformativa si perde grazie all’imperialismo dei popoli di un altro mare, l’Atlantico. Nel Mediterraneo l’attitudine a consumare prende, oggi, il posto dell’attitudine a produrre, della dimensione creativa: l’indipendenza diviene dipendenza, l’unità si spezza e i popoli del Mediterraneo si sentono sempre più spodestati del loro Mare (così come si esprime Geroge Corm ne La Mèditerranée réinventée, La Découverte, 1992). E’, un po’, la condizione denunciata da Gunter Anders di “uomini senza mondo”, uomini costretti a vivere all’interno di un mondo che non è il loro, non è più costruito per loro. Qui, l’affermazione, intesa da Heidegger come antropologica, ovvero come universalmente valida, per cui l’ “esserci”, l’ “essere nel mondo”, si riferisce esclusivamente all’uomo in-dipendente, libero, non regge più la prova della storia. Per dirla con Hegel “L’essere del servo non è un essere nel mondo, poiché egli non vive nel suo mondo ma nel e per il mondo degli altri da sé”.


Rispetto all’attuale situazione della realtà del Mediterraneo, così come afferma Bruno Amoroso (Europa e Mediterraneo. Le sfide del futuro), gli orientamenti sono due: - il primo punta, sulla scorta di un colonialismo illuminato, alla sussunzione dell’area del Mediterraneo all’interno dell’economia globalizzata, non immaginando alcuno spazio per la crescita di nuove aree per processi redistributivi, - il secondo orientamento, ritenuto minoritario, punta a una ricostruzione del Mediterraneo come sistema unitario, come “economia mondo”, nell’ottica di un rapporto riequilibrato tra bisogni e sistemi produttivi, rivalutando una strategia policentrica dello sviluppo. Ma, come afferma Michel Serres “come ritrovarsi nel mondo globalizzato che si leva e sembra rimpiazzare l’antico, ben classificato tra luoghi diversi? Lo spazio stesso cambia e comanda altri mappamondi”. Anche Pietro Barcellona (Quale politica per il terzo millennio?), pur valutando come le teorie post-moderniste, annunciando la fine della modernità come “progetto forte”, aprano la strada a nuove interpretazioni del ruolo del Mediterraneo, a nuove chance di espressione e a nuove forme di sviluppo, denuncia come la diffusione planetaria dell’economia di mercato, della globalizzazione, e la reductio ad unum operata dal “pensiero unico” non possano favorire l’espressione di differenze culturali o di identità comunitarie soffocate. “Al contrario sarebbe in atto un processo, fortemente accelerato, di omogeneizzazione e di omologazione delle diverse tradizioni e culture al ‘modello americano’ che appare, sempre più, come il paradigma vincente dell’organizzazione economica, sociale e politica di ogni comunità”. Non a caso, gli Stati Uniti d'America hanno inteso baipassare la questione del Mediterraneo, lavorando per la creazione di un mercato mediorientale, che sulla scorta del piano Mena, patrocinato dal ex presidente Clinton, definisca

una zona di libero scambio tra USA e Medio Oriente entro l'anno 2013. E’ ciò che l' amministrazione USA ha ribatezzato come Great Middle East, Grande Medio Oriente, dove l'aggettivo grande indica l'inclusione di tutta l'area tra la Mauritania e il Pakistan, un ampliamento verso est del progetto Mena, ovvero l'ovvio esito della politica militare statunitense dopo l’11 Settembre. Tutto questo è visibile come volontà statunitense di ostacolare il partenariato euro – mediterraneo, nonché eliminare l'unità dei paesi arabi e soprattutto disegnare una geopolitica diversa, con la presenza dei paesi come Turchia, Iran, Afghanistan e Pakistan. Oggi, più che mai, la realtà del Mediterraneo apre una questione e pone con forza il problema sostanziale del riconoscimento della propria identità e la necessità di contrastare gli effetti devastanti della globalizzazione: la deculturazione in atto, come processo di estraniamento del rapporto con le cose, di desocializzazione dell'individuo, di neutralizzazione della politica. Del resto che cosa si deve decidere se tutto è presentato come vincolo, come necessità. Rispetto a queste decisioni, presentate come oggettive, la democrazia si svuota e l'identità degli individui si impoverisce. Come afferma Barcellona, l'Europa di Maastricht non ci chiede la fiducia sulla base di un nuovo progetto solidale, ma ci impone uno statuto di razionalità calcolistica. Il paradosso di questa idea di Europa risiede nel fatto che universalismo, mercato e tecnologia sono fattori di disgregazione delle identità collettive individuali non elementi unificanti. Viviamo di fatto nell'epoca dei territori senza diritti a cui corrispondono diritti senza territori. Ma, il problema dei diritti richiama quello dei poteri, dei doveri e dei legami sociali. In tutto questo l'allusione è verso la necessità di una rinnovata riflessione politica. Il destino della politica nell'era della globalizzazione è lungi dall'essere ancora pronunciato completamente.

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Nell'ordine della globalizzazione, nell'ordine globale, è apparsa una nuova semantica, quella dei diritti umani. I diritti umani costituiscono la chiave che apre le porte al nuovo tempo della politica, di questa politica. Gli scenari non sembrano neutrali, in ragione dei modi in cui tali porte sono e verranno aperte. La leva umanitaria costituisce un tema eccellente su cui far convergere attenzioni di ordine politico, di ordine economico e di ordine sociale. Per la studiosa Marie-Dominique Perrot, ciò non sarebbe una novità, sostenendo che l'aggettivazione umanitaria, riferita a processi di ingerenza, costituisce una strategia di eufemizzazione, che, in quanto tale, appartiene all'ingerenza, senza qualificarla, come se l'aggettivo giusta riferita alla guerra non riguardasse la guerra stessa, dura, crudele, spietata, disumana, ma la giustizia. E' questa la cultura dell'astuzia che vuol far credere nella ineluttabile riconciliazione tra due identità, riconciliazione di fatto inesistente o di gran lunga labile, vaga. La compatibilità tra nome e aggettivo propone per sostenersi una conversione, quella d'ingerenza convertita in cura altrui. Di fronte all'ingerenza umanitaria e la guerra giusta, ancora Pietro Barcellona (Le passioni negate), sottolineando la mistificazione in atto, pone la questione se è lecito domandarsi se si può continuare a parlare di modernità incompiuta o se si deve ormai riconoscere che quanto sta accadendo è immanente al codice genetico della modernità, al dispiegarsi compiuto del suo progetto di dominio razionale sulla natura e sugli uomini. Danilo Zolo (Chi dice umanità) denuncia il rischio che il diritto umanitario finisca con l'istituire una discriminante tra umano e non umano, sostanzialmente arbitraria. La prospettiva è quella di ridurre a un'unica misura pacificata gli spazi politici, gli Stati sovrani del mondo. Si rompe così la concezione dello stato moderno, dello stato territoriale, identificato da frontiere e confini riconosciuti, spazio che non ammette altri poteri che quello dell'autorità legittima, unica e sovrana. La spazialità tipica dello stato - nazione è sussunta all'interno di uno spazio globale, totale, spazio che non conosce l'idea di limite. Paul Virilio (Un monde surexposé) parla di una spazialità il cui centro non c'è ma è dappertutto e la cui circonferenza è in ogni luogo. La globalizzazione è di fatto la realizzazione del progetto di ridurre tutti a uno e l'affermazione, come dice sempre Barcellona (Le passioni negate), dell'autogenerazione del soggetto. Si potrebbe dire che la biografia è ridotta definitivamente a biologia. L'alternativa a questa catastrofe non è la difesa de diritti umani, non è la difesa della globalizzazione, come promessa di sviluppo, è la capacità di individuare uno spazio, e l'allusione è allo spazio del Mediterraneo, allo spazio europeo, in cui ciascuno di noi possa riacquistare quella appartenenza culturale che è compatibile con la sua appartenenza geografica. Da qui l'esigenza di immaginare un oltre che esca dalla semplificazione che ha rinunciato a capire la ricchezza della vita come complessità, che assuma non l'individuo astratto ma l'unicità come valore, che consideri lo sviluppo come possibilità di promozione, valorizzazione delle risorse collettive, che veda la comunità insediata non come la riserva dei propri sudditi ma come soggetto di autogoverno. La cultura dell'identità, di quella identità però ridotta a uno, fondamentalista, ha di fatto mascherato un valore centrale, quello dell'appartenenza. L'appartenenza è immediatamente sociale nel senso di comune, come dono che si

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condivide e si scambia insieme. L'appartenenza è appartenenza a un rapporto sociale che cominci a farci esistere. Il problema è quello per cui un'esistenza pienamente singolare può emergere da questa appartenenza comune. Nell'appartenenza le identità si trascendono e si definiscono le possibilità del divenire del singolo e della collettività. E' necessario, come ha affermato Franco Cassano, evitare di chiudersi sul Mediterraneo per poterci affacciare su di esso. La prima caratteristica di una società aperta, di una società mondo, come richiederebbero la storia e i significati che il Mediterraneo racchiude in sé, risiede nel fatto che in essa si sviluppano individui appartenenti a diverse nazionalità, un ricco popolo di meticci. La composizione di queste appartenenze multiple non rimanda a nessuna forma di fusione ma alla necessità di identificare prossimità e convergenze nel modo di affrontare il nostro divenire comune. Le appartenenze si limitano, allora, a coabitare, pronte a essere mobilitate in combinazioni di cui non si conosce a priori il contenuto. Saranno gli eventi del divenire che le faranno incontrare in noi. Questa multi - appartenenza ci annovera tra i membri della società - mondo, del popolo – mondo. Non si tratta, certamente, di riproporre un sogno. Non è, per altro, l'affermazione di un universalismo astratto. Si tratta di un popolo - mondo concreto, che mettendo in gioco la propria molteplicità, crea la propria etica improntata alla generosità e alla umiltà, definisce le proprie regole etico - pratiche, improntate al rispetto e alla curiosità spontanea, diffonde la propria solidarietà per affrontare insieme i grandi problemi del mondo contemporaneo. Il problema del Mediterraneo, allora, riguarda tutti, tutti gli europei, e non solo, e come l'Europa deve giocare la sua partita riguardo al sud e io direi riguardo a tutti i sud (ma anche a tutti i nord) del mondo. Oggi è necessario pensare dentro il campo di una logica plurale. Su questa base essere autonomi vuol dire che è stata significativamente investita la libertà come meta da realizzare, nonché l'attenzione alla verità come ricerca. Per questo risulta improbabile pensare a una nuova realtà sociale, a una nuova economia, a una nuova politica, a una rinnovata cultura che vedano il governo delle comunità insediate, senza riflettere sulla mancanza di un'antropologia, di una nuova dimensione dell'esperienza umana che si faccia carico di dare senso allo sviluppo dei processi sociali, delle intraprese economiche, delle risignificate esperienze di democrazia. Occorre recuperare tutti gli spazi, città, economia sociale, movimenti, dove si creano significati capaci di dare rinnovato senso alla vita. E' necessario rompere la costruzione autoreferenziata del soggetto che non riconosce più l'individualità come espressione della socialità ed è giocato tra l'universalismo giuridico dei diritti astratti e la società dei doveri. Al soggetto astratto ego - riferito è necessario opporre la risignificazione dei legami sociali, cioè la costruzione sociale dei significati, ovvero agire per ridare alla società la sua dimensione normativa, regolativa. Dall'ego riferimento all'eco – antropo - riferimento, quindi, come visione essenziale della società futura, la società mondo, così come è stata definita da Edgar Morin. Oggi si sta diffondendo la coscienza che l'identificazione di una società - mondo sia diventata possibile. Questo, anche contro quegli atteggiamenti, che ritengo abbastanza mistificatori, che alludono a una democratizzazione della globalizzazione, ad una “buona” globalizzazione dal basso.


Da qui la necessità di andare oltre all'ideologia economicista, che dà al mercato mondiale la missione di regolare la società – mondo, allorché dovrà essere la società - mondo a regolare il mercato. La società - mondo è espressione del sentimento del comune destino planetario, dell'esigenza di universalizzare comuni valori nel rispetto delle possibilità dell'esistenza della vita, della coscienza di estendere la solidarietà umana, della coscienza che la comunità planetaria è mortale, della consapevolezza che la democrazia rappresenta un principio etico minimo (non si può avere un mondo nobile con mezzi ignobili), della consapevolezza che le guerre in atto sono sempre più guerre civili planetarie, della irrinunciabile esigenza della necessità di sostituire alla politica imperiale una politica confederale, della consapevolezza che solo una società - mondo può rispondere a un terrore mondo, del fatto irrinunciabile che è necessario opporre contro le guerre di civilizzazione una politica della civilizzazione, la costruzione concreta della società - mondo solidale in tutte le sue espressioni. E' questa società - mondo, l'insieme di nazioni, di popoli, di comunità, di etnie, di soggetti, che potrà lottare contro le catastrofi per la salvezza della collettività altrimenti la catastrofe sarà la salvezza stessa. Questo significa anche produrre concretamente limiti all'estensione dei rapporti mercantili e sviluppare regioni, aree a economia sociale cooperativistica, secondo un concetto di sviluppo locale auto-sostenibile, adeguato e conforme alle esigenze di ogni comunità, di ogni gruppo umano. Qui, si evidenzia come lo stesso concetto di sviluppo, appartiene forse più alla sfera dell'etica che a quello dell'economia. Esso mira alla liberazione della personalità umana di tutti gli uomini. Per questo è necessario darsi da fare a identificare le risorse reali, umane e fisiche sprecate, sotto utilizzate o latenti, suscettibili di essere mobilitate per produrre collettivamente e individualmente benessere. Il concetto di locale e di auto sottolineano la necessità di una riconquistata sapienza ambientale e di produzione del territorio da parte degli abitanti in un mondo popolato da tanti stili di sviluppo. Qui, la storia del Mediterraneo, docet! E' necessario stabilire collettivamente un'ipotesi, un progetto di politica sociale che renda visibile la coincidenza tra divenire individuale e trasformazioni sociali. Occorre aprire un orizzonte progettuale in grado di agire produzione di territorio, come bene che produce la forma, la qualità e lo stile dell'insediamento umano. Ma, solo una nuova cultura dell'abitare può produrre territorialità. Afferma Martin Heidegger (Costruire, abitare, pensare in Saggi e discorsi) che solo se abbiamo la capacità di abitare possiamo costruire, solo se nelle trasformazioni o nelle attività di produzione sociale, un luogo viene percepito come dono, attraverso il quale noi stabiliamo un rapporto, riusciamo a ritrovare una sintonia a porre in essere delle possibilità. La dilatazione del territorio dell'abitare è infatti la condizione per inventare modelli spazio - temporali che producano spazio, laddove la crescita quantitativa della congestione lo distrugge, che producano tempo, laddove la civiltà quantitativa della congestione lo dissipa, che producano valore aggiunto estetico, ossia punti di riferimento simbolici sempre carichi di una efficacia semantica, capaci di mantenere una memoria affettiva del proprio habitat, infine, che valorizzino la ricchezza qualitativa e la pluralità dei luoghi spazio - temporali contro la sparizione dello spa-

zio - tempo umano, prodotta dalla ipervelocità dei mezzi di comunicazione. Una concezione della vita, dell'esperienza, uno sviluppo locale, quindi, ma anche una architettura orientati in senso ecologico, che assumano come oggetto un oggetto complesso quale lo spazio del vivere che si corrode più lentamente nello spazio vissuto in maniera tale che quest'ultimo si presenti con una ricchezza di dettagli insospettata per il soggetto, allargando lo spazio della memoria e del sentimento, ampliando i significati che riappaiono sul teatro della nostra vita intima. In questo senso Friedrich Hoederlin ha parlato di “abitare poeticamente la terra”, ossia della necessità di rompere la razionalità del calcolo dell'uomo sulla natura per liberare quelle potenzialità, quelle modalità espressive, creative e relazionali che ci rimandano alla memoria dell'unità mitica tra uomo - natura, tra uomo e uomo al punto che il mondo sia veramente il nostro mondo. In conclusione, potremmo citare quelle che possono essere indicate come cinque rivoluzioni copernicane, che potrebbero caratterizzare la nostra epoca. La prima, il passaggio dall'autorità morale posta fuori di noi all'autorità morale fondata sulla coscienza personale. La seconda, il passaggio dalla cultura come monopolio del sapere, dell'informazione alla cultura come ricerca della conoscenza dei processi e delle esperienze reali, attraverso il dialogo, la riflessione e la condivisione. La terza, il mutamento radicale della politica retta dalla gestione dei rapporti di forza alla politica come arte della comunicazione, delle sinergie tra i progetti, dell'espressione diretta delle risorse e della capacità autopoietica, delle comunità insediate, singole e gruppi. Ancora, il mutamento dell'economia, come accumulazione di capitale e sfruttamento indiscriminato delle risorse, all'economia come realizzazione dei progetti umani in relazione con l'ambiente, nell'ottica dell'auto-sostenibilità e dell'esercizio di governo diretto da parte della comunità insediata. Da ultimo, il passaggio dalla sovranità astratta degli Stati alla sovranità personale e comune dei cittadini, nonché il passaggio dalla proprietà privata pubblica alla proprietà personale e comune. Riferirsi alla multi-appartenenza, come si è fatto, e come la storia del Mediterraneo ci indica, è riferirsi a una forma specifica di apertura al mondo. Essa ci apre verso altre nazionalità, altri saperi, altri punti di vista, altre esperienze, ci rende come il mare fluttuanti e fermi allo stesso tempo. Si può dire che la multi-appartenenza ci insegna a diventare acqua capace di dissolvere le forme, che non sono più espressioni dei bisogni vitali dell'uomo, acqua da cui possono emergere nuove forme per la nostra convivenza. E' questa, forse, la rivoluzione pacifica che si annuncia e che ci attende. Come tale non può essere pianificata o decretata, non osserverà una serie di norme emanate da uno Stato, da élite o da costruttori di modelli per calcolatore. Se si compirà sarà organica ed evolutiva, sorgerà dall'immaginazione, dall'intuizione, dagli esperimenti e dalle azioni mosse dal cuore e dalla mente di molti individui. Il suo peso non ricadrà sulle spalle di singole persone o di un gruppo identificabile. Nessuno ne godrà il credito anche se a qualcuno potrà toccare qualche insulto o qualche biasimo e ciascuno potrà contribuirvi. Riscopriremo così il senso della nostra appartenenza non già nella figura dell'utopia o del progetto predeterminato, ma nella proliferazione dei percorsi evolutivi e biografici, natura e storia intrecciate negli infiniti racconti della complessità.

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Clistene

L’idea di questo inserto nasce dalla lettura di una interessantissima pubblicazione di Carlo Marcaccini, della quale riproduciamo il titolo intero nella pagina a fianco ed estrapoliamo, per ragioni di spazio tipografico, ma anche di “facilitazione” di una lettura non necessariamente accademica, alcuni passaggi a nostro giudizio più significativi. La pubblicazione è di notevole profondità e complessità di ricerca scientifica delle fonti, ma non ce ne voglia l’autore (semmai avrà la possibilià di leggere questa riduzione), perché vorremmo far partecipare a questo importantissimo tema il maggior numero possibile di lettori, ai quali ci permettiamo di ripetere l’invito del Comandante Ugo Chavez quando, parlando in una grande manifestazione popolare, spiegava, invitando il suo popolo alla attenzione e alla pazienda, le teorie di Gramsci sulla conquista delle “casematte” del potere capitalista. Abbiamo fatto tanta strada dai barrios della periferia alla conquista del governo dello Stato venezuelano, non fermiamoci e impariamo le teorie di questo (Gramsci) grande pensatore italiano per governare lo Stato che abbiamo conquistato. In più occasioni abbiamo avuto modo di precisare quanto sia sbagliata la nostra retorica storica che accomuna grossolanamente in una unica cultura quella greca e quella romana. Sono due vicende completamente diverse che,

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nonostante abbiano strettamente convissuto nel lungo periodo della conquista e dominazione romana della Gracia, in realtà non si sono mai fuse, anzi i romani non hanno mai capito e fatto propria la estremamente diversa cultura greca. Persa la conoscenza della lingua greca in occidente, poiché i romani, parlando e scrivendo anche in greco, raramente hanno tradotto in latino le opere greche, ne abbiamo perso per quasi un millennio la memoria e la conoscenza. Sarà il grande rinascimento arabo a tradurre anche in latino le opere greche e così a farne recuperare anche a noi la storia e la cultura. Ma sarà tardi perché oramai l’occidente si era interamente “orientalizzato” soffocato dalla filosofia religiosa cristiana perfettamente innestata sulla cultura romana. Alla Grecia, alla sua cultura sociale, politica ed economica attingerà il marxismo e Aristotele, tra gli altri, sarà il punto di partenza della nuova cultura comunista. Il lavoro che, come detto, pubblichiamo per stralci, va oltre, o meglio più a fondo, e ci dimostra come lo stesso Lenin, dichirandolo o meno non importa, per la fondazione del nuovo Stato sovietico, attinse proprio alla straordinaria esperienza della riforma dei “demos” di Clistene che rapresentò, all’epoca, l’esperimento più avanzato di democrazia popolare. Buona (e paziente) lettura .(SR)


Atene Sovietica

Democrazia primitiva e teorie della rivoluzione L’antichità è un elemento costitutivo del pensiero di Marx e fornisce un esempio a Lenin e ai bolscevichi La democrazia primitiva

Per Marx la democrazia antica può essere un modello anti-borghese solo se viene inserita nella categoria del primitivo. La salvezza infatti per Marx sta nel ritorno della democrazia primitiva, in una struttura civile, morale ed economica che riporti gli uomini (e le donne) in una condizione di uguaglianza reale. La democrazia primitiva di cui parlano Marx e Lenin deriva da questa prospettiva: Atene, ricollocata nella sede storica che le compete in quanto realtà primitiva e sottratta così all’uso ideologico dell’elite dominante, perde la sua visibilità retorica, ma nell’anonimato la sua forza si accresce. La polis non ha un più un ruolo simbolico, ma storico e serve a rendere verosimile un modello politico organico secondo il quale il popolo deve identificarsi col governo, la società con lo Stato, l’individuo con la massa. Ciò che ne esce fuori è un’Atene rivoluzionaria. Il debito di Marx con Aristotele è nella definizione di una comunità naturale come orizzonte iniziale e finale della civilizzazione. Il discorso è economico nella misura in cui l’economico, in senso aristotelico, è solo una parte del politico. La subordinazione dell’aspetto produttivo al criterio politico della cit-

tadinanza è il fondamento dell’uguaglianza nelle comunità antiche. Marx guarda a questo passato, tanto che per lui la prospettiva finale è data dal ripresentarsi della medesima condizione anche se con modalità nuove. Marx rovescia il postulato del progressismo, che vede la storia andare dal peggio al meglio, e preferisce una prospettiva circolare, un’evoluzione a spirale in cui la fine dei tempi coinciderà con l’inizio, ma senza rinnegare la tecnologia moderna, anzi proprio grazie a essa. Per Marx il futuro, non il presente, ma si sposa con il passato. Nel saggio l’Origine della famiglia di Engels, che in parte riproduce appunti inediti di Marx, prende forma l’Atene sovietica, perché quando redige gli appunti Marx ha già in testa la situazione russa. Siamo fra il 1880 e il 1881 e la questione di quegli anni è se in Russia può scoppiare la rivoluzione e se, come vogliono i populisti, la comune rurale russa (“mir” o “obščina”) può costituire il nucleo di un nuovo assetto comunista. La comune rurale sta scomparendo, ma è lo stesso un modello di partenza in quanto essa incarna la democrazia primitiva delle origini che dovrà tornare in vita con la rivoluzione. È del tutto evidente che negli appunti etnolo-

gici Marx sovrappone il mir alla democrazia gentilizia ateniese perché, sia il mir sia il sistema delle gentes, rappresentano lo stesso fenomeno di decadenza di fronte al progresso tecnologico ed economico; ma per questo motivo pare altrettanto evidente che Marx legge l’evoluzione democratica ateniese, da Clistene in avanti, come un’agenda rivoluzionaria, dal momento che essa ha il fine di aggiornare e rendere nuovamente effettiva la democrazia primitiva, garantendone la sopravvivenza. Il nucleo di questa idea, conservato nell’Origine della famiglia di Engels, ha influenzato la teoria rivoluzionaria di Lenin. I demi di Clistene sono come le antiche comuni rurali che si evolvono in soviet, ovvero i demi sono come i soviet perché esprimono la stessa missione rivoluzionaria di riportare in vita una forma primitiva, ma in modo adeguato ai tempi. Anche se l’associazione può sembrare sacrilega, fra Clistene e Lenin c’è un legame. Il primo dà un esempio al secondo perché prospetta una soluzione istituzionale a un problema storico, consente cioè a Lenin di vedere nei soviet (i demi) una via per la rivoluzione, per giunta senza deviare dall’insegnamento di Marx ed Engels.

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Modello implicito ed esplicito In verità questo modello rimane però implicito. Nelle fonti bolsceviche non ci sono accenni chiari e diretti ad Atene, il modello classico non è esplicito, mai vengono esaltati gli uomini dell’antichità nei discorsi tenuti in pubblico, nelle riunioni di partito, nei decreti del governo, ecc. Alla polis non è riservata alcuna funzione retorica, anche se la propaganda è sensibile al mito classico. Durante la guerra civile il popolo lavoratore è rappresentato come Prometeo incatenato, dilaniato da un’aquila bianca simbolo delle forze zariste. Prometeo è un eroe caro all’immaginario comunista. Inoltre Stalin descrive i bolscevichi come il gigante Anteo, che trae nutrimento dalla terra, cioè dalle masse. Ma questo appartiene alla “sovrastruttura”, per così dire. Atene è sovietica nel modo in cui lo era per Marx, Engels e Lenin, poiché la sua democrazia continua a essere inclusa nella categoria del “primitivo” e conserva un modello rivoluzionario. Lo schema rivoluzionario marxista si fonda sulla polis, entra nella storia passando per l’esempio della democrazia attica e da quel momento le rimane attaccato.

Pensiero e azione

Rimane da precisare il senso del rapporto fra la polis e i bolscevichi, che va accuratamente circostanziato. Lenin di certo non ha governato pensando alla polis, né i decreti e le leggi varati dai commissari del popolo o dal congresso dei soviet si ispiravano alla democrazia antica. Il modello comunitario antico, proprio per il modo in cui emerge dalla teoria, ha avuto però un’incidenza reale sull’azione politica dei bolscevichi. Quando Lenin, in Stato e rivoluzione, descrive che cosa dovrà essere la dittatura del proletariato, si richiama espressamente alla democrazia primitiva, nella quale i cittadini stessi amministrano direttamente lo Stato. Il tema dell’estinzione dello Stato e del diritto, che è un argomento costante della propaganda bolscevica, rientra nel problema più ampio della transizione al comunismo, il quale impone la necessità di uno Stato e non della sua soppressione.

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Il paradigma storico della comunità antica e della democrazia attica non è una fuga dalla realtà, ma costituisce il fondamento di un nuovo potere. Le vicende politiche ateniesi, nella lettura di Marx ed Engels, insegnano proprio questo: la democrazia viene costruita con un atto politico grazie al quale lo Stato non scompare ma si rafforza, impegnando i cittadini nell’amministrazione e distribuendo i compiti a vari livelli. I demi sono i soviet locali e sono le cellule di uno Stato rivoluzionario. Senz’altro l’influenza riguarda la teoria, ma senza la teoria Lenin forse non avrebbe pensato di usare la democrazia consiliare, i soviet, come strumento di consenso e di potere. Un’idea originale fra gli stessi bolscevichi. Lenin lancia la proposta nelle sue “Tesi di aprile” dopo il ritorno dall’esilio svizzero, ma essa inizialmente cade nel vuoto, trovando solo il consenso di Aleksandra Kollontaj. Poi “tutto il potere ai soviet” diventerà lo slogan della rivoluzione. Questo non significa che il modello antico fornisca dei suggerimenti diretti per l’architettura costituzionale dello Stato bolscevico. Il peso del modello riguarda solo l’azione. I bolscevichi si sentono autorizzati ad agire sulla base delle circostanze e delle condizioni poste dalla realtà russa, anche in ragione del fatto che, in parte, tali circostanze e condizioni erano già state “ellenizzate” da Marx ed Engels attraverso la comparazione fra l’obščina e il demo attico. L’influsso va visto in una prospettiva di continuità rispetto ai maestri nei quali i bolscevichi non vanno a cercare l’aspetto anarchico-radicale. Quello che a loro interessa è lo Stato inteso come capacità di intervento e di coinvolgimento. In questo il Partito ha un ruolo essenziale, perché anche il Partito ha bisogno di categorie, di riferimenti ideali, di un’agenda morale. Lenin inoltre subisce anche l’ascendente di Paul Lafargue, il genero di Marx, per il quale la polis è una chiara fonte di ispirazione. La questione del rapporto fra l’azione e l’idea, della gerarchia fra l’una e l’altra, non è facilmente risolvibile, a meno che non si rinunci del tutto a considerare le azioni anche alla luce delle intenzioni e delle convin-

zioni. Comunque si guardi la cosa non c’è dubbio che esiste un nesso fra la rivoluzione bolscevica e le teorie marxiste e che c’è un’influenza che, di riflesso, queste hanno avuto sulla storia grazie alla rivoluzione stessa.

La polis come “finzione comunista”

In Marx il sociale e il politico non sono distinti e si illuminano a vicenda. Anzi, egli affronta il ruolo della produzione materiale nella storia partendo da riflessioni di natura giuridico-politica. Come Marx stesso ammette, il primo lavoro a sciogliere i suoi dubbi è la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (1843), in cui il recupero di Aristotele e la riflessione sulla forma politica antica hanno una parte considerevole. La novità introdotta da Marx è il “deperimento” dello Stato e la sua coincidenza con una società senza classi. La scomparsa dello Stato è il rovesciamento dello Stato borghese. La vittoria del proletariato fa crollare il sistema delle classi su cui si basa lo Stato moderno, che verrà travolto con tutto il resto dalla rivoluzione. Cosa lo sostituirà Marx non lo dice, ma questo è un punto di forza della teoria politica marxista che non si avventura in profezie, ma si limita a chiarire un meccanismo di trasformazione. Il “deperimento” dello Stato è più un’immagine suggestiva che un concetto preciso. Marx ha sempre sentito l’esigenza di spiegarsi che tipo di società sarebbe nata dalla rivoluzione, visto che è la rivoluzione l’esito necessario della sua filosofia della storia. Pur senza immaginarsi una società futura, egli ne ha illustrato i presupposti teorici e, soprattutto, nell’ultima parte della sua vita, ha dedicato molto tempo alla storia e all’etnografia nel tentativo di rinvenire degli archetipi possibili. In questa ricerca l’antichità classica ha una parte essenziale, perché essa non solo è alla base del processo evolutivo che conduce alla modernità, ma sembra anche il punto a cui tornare. L’esegesi storica si sovrappone alla visione del futuro. Non si tratta di semplice primitivismo, perché l’antichità finisce per svolgere un ruolo attivo in una prospettiva rivoluzionaria.


Soviet di Pietrogrado

Ritorno allo stato di natura

A torto l’interesse di Marx per le società primitive è stato ricondotto al disgusto sempre più crescente per il capitalismo. Voltarsi indietro, verso un mondo non ancora corrotto dall’avidità, non è solo un modo di manifestare l’insoddisfazione per il presente. La visione di Marx coinvolge l’intero genere umano e prevede un percorso ineluttabile, fissato fin dalle origini. Il cardine della sua dottrina è l’unità tra scienza e storia. La previsione dell’avvento del comunismo non è un obbiettivo solo auspicato ma un esito necessario, non è il mero frutto dell’azione dei politici, ma è la logica conseguenza dell’analisi scientifica condotta con rigore e onestà: “Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente”. Il comunismo, dunque, non è una meta auspicata, ma un destino iscritto nei geni dell’uomo. La scienza coincide già con la costruzione politica e presume di darle concretezza. Marx ha alle spalle un pensiero ben consolidato ma, anziché concentrarsi sull’architettura della società futura, ne sviluppa il nucleo teorico, che consiste nell’innesto di un criterio evoluzionista su una base aristotelica. Aristotele è un autore importante per Marx perché attraverso di lui riscopre l’equilibrio naturale ori-

ginario sovvertito dal processo inesorabile della storia. Nel capitolo X della seconda sezione dell’AntiDu ̈hring, scritto da Marx, Aristotele è ritenuto il primo a stabilire la differenza tra valore d’uso e valore di scambio di una merce e a distinguere due diverse forme del denaro, una come mezzo di circolazione e l’altra come capitale monetario. Nelle due coppie il primo termine rappresenta la conservazione di uno status ideale e giusto, mentre il secondo termine è negativo perché modifica l’armonia naturale della comunità e rappresenta il cambiamento. Per Aristotele la polis esiste per natura ed è contro natura tutto ciò che turba il suo equilibrio sociale e politico, provocandone la decadenza. Marx si sente debitore verso Aristotele e quando elabora la teoria del valore rimane influenzato dalla concezione della polis come sostanza naturale.

La democrazia e lo Stato

Nelle città greche la democrazia fu la forma organizzativa naturale della comunità. In quel periodo insieme alla produzione per uso proprio, si sviluppò l’artigianato che era destinato ad un mercato e alla vendita ad altre province. Il possesso personale era ormai completamente superato; la democrazia costituiva, in questo caso, l’espressione della collaborazione e dell’autonomia di produttori liberi e uguali. Nell’antica Atene, che produsse questo tipo di democrazia nella sua forma più perfetta, le decisioni erano prese dall’assemblea popolare,

che si riuniva ogni mese e ogni settimana, per discutere dei problemi comuni. Le funzioni di governo inoltre, che erano già una necessità importante in questa società sviluppata, non erano svolte da impiegati governativi di professione, ma dai cittadini stessi, che venivano sorteggiati alternativamente, così come venivano sorteggiati anche i giudici, i quali dovevano amministrare la giustizia in tutti i casi di controversie interne. Tutti i cittadini che potevano portare le armi partecipavano alle guerre per la difesa della loro libertà, o nell’esercito, o nella flotta. I generali venivano eletti una volta all’anno dall’assemblea popolare. Anche questa organizzazione era sorta da bisogni pratici, e non come applicazione di un ideale astratto. La democrazia primitiva di Stato e rivoluzione di Lenin, intesa come democrazia diretta, democrazia dei consigli, deriva dall’Atene già sovietica nell’Origine della famiglia di Engels. Gli appunti etnologici di Marx insegnano che uno Stato può essere rivoluzionario e non che la rivoluzione abbatte lo Stato: e quello Stato è l’Atene riformata da Clistene, con i demi del contado che diventano le “unità” sulle quali costruire un regime popolare in grado di esprimere e soprattutto di sostenere i suoi leader. L’Atene di Marx passa nell’Origine di Engels e di qui nella teoria leninista dello Stato. Lenin usa la teoria di Marx ed Engels come autorizzazione ad agire per via istituzionale, per costruire uno Stato e renderlo forte, non per demolirlo.

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L’analogia tra l’attuale decadenza della società occidentale e quella dell’Impero romano

(parte 3 di 3)

di Alberto Donati

Nella parte già svolta sono stati descritti i caratteri dell’impero romano nel periodo della sua decadenza. Si tratta, ora, di porne in evidenza le analogie con l’attuale fisionomia della società capitalistica. Le conseguenze sono tragiche nel senso che, così come l’oligopolio fondiario ha indotto l’implosione della società romana e ne ha favorito la cristianizzazione, parimenti, l’oligopolio capitalistico. Così come il primo è involuto nell’antiumanesimo proprio della società d’“Antico Regime” - per liberarsi dalla quale sono occorsi 1789 anni prendendo come punto di riferimento la rivoluzione francese - analogamente, il secondo sta progressivamente decadendo verso il Medio Evo capitalistico, verso, quindi, la reiterazione della cultura dell’antiumanesimo. Questo evento può essere evitato solo mediante una catarsi sociale, vale a dire, inducendo l’inversione dell’“eclisse della ragione” attualmente in atto, fonte culturale del dominato capitalistico e dei rinascenti fondamentalismi religiosi, primo dei quali, nell’area

occidentale, quello cattolico; può essere impedito solo rifiutando la riproposizione della teologia della “croce”, vale a dire, della teologia della sofferenza ad imitazione, in ciò la sua pretesa doverosità, di quella divina. Ed infatti, così come questa teologia è stata strumentale rispetto al mantenimento della società feudale (c.d. d’“Antico regime”) e del sopruso eretto a sistema di governo, parimenti, se non arrestata, lo diventerà (anzi, lo sta già divenendo) rispetto alla sopportazione delle ingiustizie capitalistiche; così come questa teologia è stata sconfitta dalla teologia deistica e dalla cultura degli human rights, verso un analogo trascendimento deve disporsi l’essere umano. Non esiste altra via di salvezza e tutto è, ancora, nelle nostre mani, in ciò anche le nostre precise responsabilità sia nei confronti dei sacrifici delle generazioni pregresse che, con lacrime e sangue, hanno dato luogo alla Riforma della religione, all’Illuminismo e, in Italia, al Risorgimento, sia nei riguardi della nostra discendenza.

SOMMARIO: PARTE I. LA FISIONOMIA DELLA SOCIETA’ ROMANA NEL PERIODO IMPERIALE 1. Motivazione dell’indagine. -2. I caratteri della società romana nel periodo imperiale. L’oligopolio terriero. -3. La pax romana. -4. Il cosmopolitismo e l’affermazione della filosofia scettica. -5. Il venir meno del bonum commune, lo scadimento dello spirito patriottico. -6. Dall’etica rigoristica all’etica edonistica. -7. La decadenza della famiglia. -8. La diseducazione dei giovani. -9. La formazione della giurisprudenza arbitraria. -10. Lo scadimento dell’ars oratoria. -11. L’assolutismo politico. PARTE II. LA CATTOLICIZZAZIONE DELL’IMPERO ROMANO 12. Dall’umanesimo classico all’umanesimo cristiano. -13. La sussunzione del nichilismo nel “pirronismo cristiano”. -14. Riepilogo. PARTE III. LE ANALOGIE TRA LA SOCIOLOGIA CAPITALISTICA E LA SOCIOLOGIA DEL PERIODO DELLA DECADENZA DELL’IMPERO ROMANO 15. La rilevanza politica e culturale della analogia tra periodi storici. -16. Le analogie strutturali tra la feudalità terriera e la feudalità capitalistica. -17. Le analogie sovrastrutturali: la a-nomia etica. - 18. Sintesi delle analogie. -19. Conclusione. PARTE IV. L’ALTERNATIVA: LA RIPROPOSIZIONE DELLA CULTURA DELL’UMANESIMO 20. Le religiosità come fonti di politeismo e di scetticismo. -21. Religiosità e filosofia. -22. Il ritorno a Dio inteso come summa Ratio, unica possibilità di salvezza per l’uomo

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Rembrandt: Saul di Tarso, detto Paolo

PARTE III LE ANALOGIE TRA LA SOCIOLOGIA CAPITALISTICA E LA SOCIOLOGIA DEL PERIODO DELLA DECADENZA DELL’IMPERO ROMANO 15. —La rilevanza politica e culturale della analogia tra periodi storici La fenomenologia che caratterizza la società capitalistica è analoga a quella riscontrabile nel periodo della decadenza dell’Impero romano. Se si vogliono indagare le conseguenze politiche che possono derivare dalla formazione delle concentrazioni di capitale industriale e finanziario (delle c.d. multinazionali), vale a dire, dal transito da una visione democratica dell’economia - tale in quanto ciascuno è produttore autonomo del proprio reddito -, alla sua visione oligarchica e, quindi, antidemocratica, si deve anche considerare quell’aspetto della vicenda umana caratterizzato da una analoga fisionomia sociologica (historia magistra vitae). Questa esperienza similare, infatti, ha avuto luogo in riferimento al capitale terra, fonte della produzione della ricchezza sociale fino all’avvento dell’economia industrializzata o di mercato che dir si voglia. In termini generali, è una costante storica la concentrazione degli strumenti della produzione della ricchezza sociale nelle mani di una oligarchia, è, dunque, una costante la formazione dell’oligopolio avente ad oggetto tali stru-

menti. Nelle società premoderne, preindustriali, questa concentrazione ha ad oggetto la proprietà terriera. Essa avviene, fondamentalmente, mediante la guerra, mediante gli acquisti che intercorrono tra i privati, mediante la pratica dei matrimoni, il tutto sorretto da un diritto successorio diretto a conservare nel primogenito la proprietà precedentemente acquisita, diretto, quindi, ad evitarne la frantumazione tra gli eredi. Nella moderna società industrializzata, la concentrazione ha ad oggetto sia la proprietà del capitale finanziario, sia quella del capitale industriale. Essa è indotta dalla logica interna di questo stesso sistema che, infatti, anch’esso evolve naturalmente verso l’oligopolio, ai cui vertici si colloca una altrettanto ristretta oligarchia capitalistica. Il diritto tende ad adeguarsi di conseguenza, cercando, in vario modo, di conservare l’unità della proprietà capitalistica, di evitarne la frantumazione tra gli eredi. Si stabilisce, così, tra i due sistemi una analogia, donde la possibilità di assumere il primo come referente per una migliore comprensione del secondo, la conseguente possibilità di prendere le migliori decisioni per il futuro.

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L’analogia tra periodi storici, infatti, non è fine a se stessa. Il vissuto individuale, come il vissuto collettivo, formano l’esperienza, per questa via, fondano quella qualità umana denominata prudenza (prudentia), vale a dire, la capacità consistente nel “porro videre” (“vedere innanzi”), nella idoneità ad assumere le decisioni più opportune. È prudente l’uomo che sia pre-vidente (pre-vedente) e tale diventa colui che abbia esperienza della vita e, quindi, per ciò stesso, sappia prevedere le conseguenze del proprio come dell'altrui agire, sappia, dunque, provvedere (providere) nel migliore dei modi. Analogamente, la conoscenza della storia arricchisce quell’uomo collettivo, che è la società umana, dell'esperienza storicamente acquisita dalle generazioni pregresse, rendendolo proporzionalmente prudente. Per questo motivo, la prudentia si definisce come “conoscenza delle cose che devono essere attuate e fuggite” (“rerum expetendarum fugiendarumque scientia”). Per questo medesimo motivo la storia diviene magistra vitae (“maestra di vita”) (lux veritatis - luce di verità). Nulla, a parte la stessa vita, è più essenziale per il vivente del pre-vedere. La previsione ha ad oggetto eventi visti come conseguenti ad uno svolgimento causale già in corso. La proiezione verso il futuro è animata dalla presenza di specifiche finalità, sia individuali che collettive, cui si correla la scelta dei comportamenti (media) più idonei per il loro conseguimento. Alla individuazione di quelle finalità e di tali comportamenti concorre significativamente anche l’esperienza, per questa via, la prudenza. Trattasi di un concorso poiché mai il futuro ha carattere ripetitivo del presente o del passato, avendo la vicenda umana carattere evolutivo, vale a dire, accrescitivo delle modalità esistenziali pregresse. Il trascorso prepara il futuro, ma l’attuazione di quest’ultimo, la realizzazione del nesso causale tra il primo ed il secondo, dipendono dalla volontà attuale guidata dalla razionalità, dalla capacità, dunque, di correlare questi due termini del divenire. Per altro, l’analogia tra periodi storici non deve essere fondata su similarità apparenti, ma sulla compresenza di dati oggettivi, fattuali, generali. Tali sono i rapporti di produzione. Essi possono essere variamente riguardati, ma ai fini dell’indagine che si viene svolgendo, assume rilevanza la loro concentrazione oligopolistica connessa al pluralismo culturale e al nichilismo, la sua incompatibilità con i valori originari sintetizzabili nel sapere oportet (“doverosità della conoscenza”), nell’alterum non laedere (“non ledere alcuno”), nel Deum colere (“onorare Dio”), nel culto, dunque, di Dio, inteso come summa Ratio, in quanto fonte di quei precetti. Le odierne concentrazioni capitalistiche stanno alla società civile così come il latifondo romano, prima, ed il feudo, poi, si posero nei confronti della società europea del tempo: “La situazione attuale, facendo le debite proporzioni, somiglia a quella della caduta dell’Impero romano, che durò più di tre secoli, sfociando in un disordine millenario” (J. Attali).

16. — Le analogie strutturali tra la feudalità terriera e la feudalità capitalistica La formazione del latifondo nella società romana conclude il processo di accumulazione del capitale terra nelle mani di una oligarchia, fondamentalmente senatoriale e,

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quindi, nobile. Questa formazione si correla ad una società divenuta multirazziale e multiculturale, il cui tratto significante è costituito dalla decadenza dell’umanesimo classico sintetizzato dall’ideale dell’essere umano inteso come kalos kai agaqos (“armonioso sia fisicamente che spiritualmente”), come filomaqhs (o ge ontws), vale a dire, come avente “veramente il desiderio di conoscere”, sintetizzato, pertanto, dall’uomo che è animato dall’eros (“eros”) filosofico, dalla “nostalgia dell’Uno”, perciò capace di colmare “l’intervallo [tra l’esistente e Dio,] sicché il tutto risulti seco stesso unito” (Platone). Il protagonismo economico del latifondo, basato sul lavoro degli schiavi, sulla conseguente svalutazione del lavoro degli uomini liberi, congiunto al multiculturalismo, al lassismo etico e, quindi, al nichilismo, si coniuga, secondo un rapporto d’analogia, con l’odierno protagonismo delle concentrazioni di capitale finanziario ed industriale, anch’esse connesse, in virtù del processo di delocalizzazione, alla svalutazione del lavoro dei cittadini dell’ex Primo Mondo ed alla progressiva erosione di una delle loro conquiste più importanti, il Welfare State. Questa analogia consente di prevedere che, ove non intervengano fatti ostativi, il sistema capitalistico della produzione, al pari del latifondo romano, evolverà compiutamente verso il feudalesimo.

17. — Le analogie sovrastrutturali: la a-nomia etica L’analogia riscontrabile a livello strutturale si ripresenta, puntualmente, a livello sovrastrutturale. La pagina, con cui si apre la Lettera ai Romani dell’apostolo Paolo, è estremamente significativa: “Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, sì da disonorare fra di loro i propri corpi, poiché essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del creatore, che è benedetto nei secoli. Amen. Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; le loro donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo così in se stessi la punizione che s’addiceva al loro traviamento. E poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa d’una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno, colmi come sono di ogni sorta di ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni d’invidia, di omicidio, di rivalità, di frodi, di malignità; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, oltraggiosi, superbi, fanfaroni, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia. E pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo continuano a farle, ma anche approvano chi le fa” (Rm 1, 24-32). Quella pagina, benché datata, è descrittiva della società contemporanea. Significativa è anche questa ulteriore pagina in cui Agostino descrive la forma mentis della classe dirigente romana, al tempo stesso, un manifesto del contemporaneo neoliberismo economico e politico: “simili adoratori e amatori di questi dèi [...] non si preoccupano affatto che la società sia corrotta e depravata. Basta che si regga, dicono, basta che prosperi colma di ricchezze, gloriosa delle vittorie ovvero, che è preferibile, tranquilla nella pace. E a noi che ce ne importa? dicono.


Anzi ci riguarda piuttosto se aumentano sempre le ricchezze che sopperiscono agli sperperi continui e per cui il potente può asservirsi i deboli. I poveri si inchinino ai ricchi per avere un pane e per godere della loro protezione in una supina inoperosità; i ricchi si approfittino dei poveri per le clientele e in ossequio al proprio orgoglio. I cittadini acclamino non coloro che curano i loro interessi ma coloro che favoriscono i piaceri. Non si comandino cose difficili, non sia proibita la disonestà. I governanti non badino se i sudditi sono buoni ma se sono soggetti. Le province obbediscano ai governanti non come a difensori della moralità ma come a dominatori dello Stato e garanti dei godimenti e non li onorino con sincerità, ma li temano da servi sleali. Si noti nelle leggi piuttosto il danno che si apporta alla vigna altrui che alla propria vita morale. Sia condotto in giudizio soltanto chi ha infastidito o danneggiato la roba d’altri, la casa, la salute o un terzo non consenziente, ma per il resto si faccia pure dei suoi, con i suoi o con altri consenzienti ciò che piace. Ci siano in abbondanza pubbliche prostitute o per tutti coloro che ne vogliono usare ma principalmente per quelli che non si possono permettere di averne delle proprie. Si costruiscano case spaziose e sontuose, si tengano spesso splendidi banchetti, in cui, secondo il piacere e le possibilità di ciascuno, di giorno e di notte si scherzi, si beva, si vomiti, si marcisca. Strepitino da ogni parte i ballabili, i teatri ribollano di grida di gioia malsana e di ogni tipo di piacere crudele e depravante. Sia considerato pubblico nemico colui al quale questo benessere non va a genio. La massa sia libera di non far parlare, di esiliare, di ammazzare l’individuo che tenti di riformare o abolire questo benessere. Siano considerati veri dèi coloro che hanno concesso ai cittadini di raggiungerlo e una volta raggiunto di conservarlo. Siano adorati come vorranno, chiedano gli spettacoli che vorranno e che possano avere assieme o mediante i loro adoratori; concedano soltanto che per tale benessere non si debba temer nulla dal nemico, dalla peste, dalla sventura” (Così, sul piano ricostruttivo, Agostino (santo)). La a-nomia etica si coniuga con l’individualismo. È, questo, un ulteriore tratto comune sia al periodo della decadenza romana sia alla società contemporanea. Nella ricostruzione prospettata da Montesquieu, tale aspetto è reso rilevando la progressione verso lo “spirito di uguaglianza estrema” (l’esprit d’égalité extrême). Nella logica del pluralismo culturale tutte le idee sono paritetiche, ciò che importa, con espressione tratta dalla società contemporanea, l’absolute individual right (l’arbitrio individuale), cui si correla la delegittimazione del principio d’autorità significato dalla preminenza dei patres familias, per questa via, sul piano politico, dei senatores, dal rispetto della donna verso l’uomo in quanto padre, in quanto marito e, viceversa, dal rispetto dell’uomo verso la donna in quanto madre, in quanto consorte: “Le deliberazioni del senato non hanno più peso: non si ha dunque più riguardo per i senatori, e quindi per i vecchi. Quando non si ha più rispetto per i vecchi, non ne rimane neppure per i genitori: i mariti non meritano più una maggior deferenza, né i padroni una maggior sottomissione. Tutti finiranno per amare questa sregolatezza: le fatiche del comando saranno di peso, come quelle dell’obbedienza. Le donne, i ragazzi, gli schiavi, non avranno più spirito di sottomissione verso nessuno. Non esisteranno più costumi, amore per l’ordine, e quindi virtù” (Montesquieu). L’individualismo così come importa il venir meno della valenza ordinante propria del bonum commune, parimenti, del bonum familiae, entrambi ritenuti come coercitivi della libertà dei singoli.

Questo assetto sociologico è, dunque, causato dall’oligopolio proprietario avente ad oggetto le fonti della produzione economica, da questa sorta di individualismo proprietario che per mantenersi come tale necessita di un consenso politico della base basato sulla sua corruzione, strumentale rispetto al successivo transito al dispotismo: “Il popolo cade in questa sventura quando coloro ai quali si affida, volendo nascondere la propria corruzione, cercano di corromperlo. [...] La corruzione non farà che aumentare tra i corruttori, ed aumenterà tra coloro i quali sono già corrotti. [...] Più sembrerà che tragga vantaggi dalla propria libertà, e più si avvicinerà il momento in cui dovrà perderla. [...] Presto quel po’ di libertà che rimane diviene insopportabile: si fa strada un solo tiranno, e il popolo perde ogni cosa, compresi i vantaggi della sua corruzione” (Montesquieu). Esiste, pertanto, una precisa analogia tra, da un lato, l’impero romano, connotato dalla formazione della oligarchia latifondista, dal pluralismo culturale, dalla conseguente diffusione dello scetticismo e, dall’altro, la moderna società capitalistica, l’“Impero” capitalistico, caratterizzato: dalla formazione delle concentrazioni capitalistiche, dei “feudi capitalistici”; dal pluralismo culturale e dal conseguente scetticismo; dalla svalutazione dell’umanesimo illuministico, informato anch’esso, al pari di quello classico, al primato delle virtù etiche e dianoetiche, al primato dell’Homme e del Citoyen, come significato dalla Déclaration del 1789; dal transito dall’umanesimo illuministico ad una umanità che ha smarrito la ragione, che fa dell’“Eclisse della ragione”, della “revolt against Reason”, il proprio valore ordinante. Così come il contesto romano è transitato al cristianesimo, in quanto sistema di pensiero capace di legittimare lo status quo, parimenti, la società capitalistica si appresta a subire un processo analogo sulla base della idoneità di questa stessa religiosità a conservare gli interessi della classe dominante, a realizzare la negazione degli human rights, a garantire l’assoggettamento della persona umana alle istanze del profitto.

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18. — Sintesi delle analogie Si possono, ora, riassumere le principali analogie tra la società romana della decadenza e la società contemporanea. In entrambe è riscontrabile la formazione dell’oligopolio avente ad oggetto i beni preposti alla produzione economica, la conseguente espropriazione della base della propria autonomia economica e politica, la sua destinazione ad organo della produzione, rispettivamente, della rendita e del profitto. In entrambe è rinvenibile un evento storico, conclusivo di una guerra, a partire dal quale le rispettive supremazie conseguono una definitiva affermazione: nel primo contesto, la fine delle guerre puniche, nell’altro, la fine della guerra fredda, per altro, al tempo stesso, prodromiche della successiva decadenza. In entrambe è riscontrabile il progressivo protagonismo degli “immigrati” e la loro incapacità di integrarsi, la conseguente riduzione delle componenti originarie a minoranze, l’altrettanto conseguente venir meno del patrimonio dei relativi valori etici e politici: “i vinti hanno dettato legge ai vincitori (victi victoribus leges dederunt)”. Quanto allo scadimento dello spirito patriottico, esso è presente anche nel contesto attuale in cui è lecito il vilipendio della bandiera nazionale, in cui le forze armate sono ormai fondamentalmente mercenarie. Quanto alla diseducazione dei giovani, esso è rinvenibile anche nella modernità, in cui i giovani sono traviati e debilitati dalla pornografia, dall’abuso del sesso e dall’uso della droga, sono allontanati dall’ideale della famiglia, sono deculturalizzati mediante la prassi della settorializzazione della cultura e dal primato del nichilismo. Quanto alla formazione della giurisprudenza arbitraria, analogamente accade nella società contemporanea. Nell’area anglosassone si assiste, infatti, alla formazione di una “new “constitutional morality”” (“nuova moralità costituzionale”), la cui caratteristica è di essere “nemica della antiquata moralità scritta dai Fondatori ed espressa ne Il Federalista”, tanto da indurre il giurista a porsi la domanda: “il richiamo al Rule of Law deve essere respinto in considerazione della vacuità dei suoi contenuti, in quanto appello retorico ad un ideale il cui tempo è trascorso?” (R.H. jr. Fallon). Negli Stati Uniti, la Supreme Court ha introdotto la Liberty soggettivamente intesa, apprestandone, quindi, una tutela disancorata dalle esigenze del bonum commune e della moralità pubblica, secondo i loro originari significati: “la stessa Corte Suprema ha allontanato la nazione da quella libertà moderata che il bene comune richiede e che generazioni di liberals hanno difesa. [...] Cessando di essere la garante della conservazione della Costituzione così come voluta dai suoi fondatori, [...] la Corte ha fatto della libertà individuale il proprio dio - a spese delle esigenze morali, sociali e politiche di una società ordinata” (D. Lowenthal). La Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, con sentenza del 22 febbraio 2008 (affaire E.B. c. France) ha statuito l’idoneità dell’omosessuale, per questa via, delle coppie omosessuali, ad adottare i minori di età in aperta violazione del loro diritto naturale (natural right) a relazionarsi ad una coppia genitoriale eterosessuale, vale a dire, ai protagonisti della generazione della vita. Non sono più i natural rights a conformare le relazioni intersoggettive, ma gli absolute individual rights (“diritti arbitrari”), non è più l’etica a guidare i comportamenti uma-

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ni, ma sono quest’ultimi, come già accaduto nel contesto sociologico romano, a conformare l’etica, “l’esperienza vissuta diviene normatività giuridica” (B. Ackerman). Quanto all’assolutismo politico, un processo analogo è in corso di svolgimento nella società occidentale nel cui contesto si assiste, infatti, ad un progressivo logoramento della democrazia, ad una progressiva decadenza della visione che pone l’essere umano come portatore degli inherent Rights (“diritti immanenti”) e, pertanto, come depositario di una corrispondente inherent Dignity (“dignità immanente”). La formazione della oligarchia capitalistica transnazionale ha ridotto ad una formalità l’esercizio della sovranità popolare a livello nazionale: “L’avvento della globalizzazione [...] ha, in larga misura, vanificato la tradizionale funzione della democrazia, spostando, progressivamente in ambiti transnazionali, sui quali i cittadini dei singoli Stati non possono influire, le sedi in cui si formano le decisioni che toccano i loro destini” (F. Galgano); “Gli ideali di democrazia, per quanto fortemente sentiti, debbono arrendersi di fronte alla realistica considerazione che le regole di democrazia affermatesi entro gli Stati nazionali non sono riproponibili entro la società globale”) (F. Galgano). Così come l’individuo è strumentale rispetto alle esigenze della accumulazione capitalistica, così come il rapporto tra l’impresa capitalistica e l’individuo ha natura organica, parimenti, il rapporto tra lo Stato e l’individuo stesso. Così come la persona umana non ha alcun potere di controllo sulle strategie economiche delle concentrazioni capitalistiche, parimenti sullo Stato: “L’abisso tra i governanti e i governati è così ¬vasto che l’attiva partecipazione dei cittadini agli affari del governo ne è completamente vanificata. Anche le elezio¬ni periodiche divengono un rituale nel corso del quale i votanti scelgono un presidente tra due candidati che essi non hanno nominato per prendere decisioni intorno a problemi che non sono stati neppure discussi, sulla base di fatti che non possono essere resi di pubblico dominio. Ne risulta una politica in cui prevalgono la forma, l’immaginazione e il fideismo, e che ripugna all’uomo libero ed è incompatibile coll’ideale della democrazia” (R.P. Wolff); “è in corso [...] la parabola discendente della democrazia politica; né manca chi già parla di ‘postdemocrazia’” (F. Galgano). Il progressivo transito verso l’assolutismo è anche significato dalla altrettanto progressiva sostituzione degli inherent Rights (“diritti immanenti”) con i fundamental rights (“diritti fondamentali”), altrimenti detti “legal rights” (“diritti legali”), Civil Rights (“diritti civili”), ovvero, con riferimento alla loro matrice culturale, Grundrechte (“diritti fondamentali”). La differenza tra gli inherent Rights ed i fundamental rights risiede in ciò, che i primi sono immanenti alla persona umana e, pertanto, si impongono allo Stato, i secondi sono attribuiti dallo Stato e, indipendentemente da questa attribuzione, la persona umana non ne è portatrice. Nel primo caso, si ha il Government of Right (“Stato garante”), nel secondo, il Rechsstaat (“Stato di diritto”). Formalmente, le due espressioni sono sinonime, culturalmente, sono opposte, indicando, la prima, lo Stato derivato dall’esercizio degli inherent Rights e della inherent Dignity (“dignità immanente”), la seconda, lo Stato rispetto al quale la persona umana non è che un suo organo, lo Stato fondato sulla Menschenwürde (“dignità della persona umana”).


Per questa via, la fonte dei diritti della persona umana torna ad essere lo Stato, il “quod principi placuit” (“la volontà arbitraria del detentore del potere politico”), donde la fondazione dell’assolutismo politico. Esiste, tuttavia, una differenza strutturale tra le due situazioni. Essa potrà avere un notevolissimo rilievo allorché l’umanità, secondo le previsioni di Carlo Marx, si emanciperà dal feudalesimo capitalistico. L’economia latifondista è basata sull’autonomia dei singoli latifondi, sulla loro reciproca separazione donde deriva anche quella degli addetti alle relative coltivazioni; è fondata sulla tendenziale autonomia dei centri urbani anche se, politicamente, facenti capo all’Imperatore inteso come momento unificante. A grandissime linee questa fisionomia permane anche nell’Antico Regime fino, quindi, alla definitiva inaugurazione dell’economia di mercato e delle corrispondenti sovrastrutture giuridiche e politiche. Nell’economia globalizzata a fondamento capitalistico si realizza, invece, la “socializzazione del lavoro”, la “forma cooperativa” del procedimento lavorativo, vale a dire, l’effettiva dipendenza dei partecipanti al ciclo produttivo da un tendenzialmente unico centro direttivo donde la loro interdipendenza. La produzione (ma anche la distribuzione) della ricchezza sociale diviene un fatto collettivo, unitario, appunto. Ciò sta a significare che, mentre per il superamento del feudalesimo d’Antico Regime si è dovuta seguire la via nazionale, nel futuro contesto dell’economia compiutamente globalizzata l’emancipazione dalla feudalità capitalistica sarà necessariamente collettiva e, quindi, anche contestuale.

19. — Conclusione Dell’analogia esistente tra la società imperiale romana, in quanto connotata dalla immoralità e dallo scetticismo, e la società attuale, è ben consapevole la Chiesa cattolica: “Si può rilevare che qualcosa di simile accadde già nel-

l'antichità quando i rappresentanti del potere statale romano lanciarono il seguente appello ai cristiani: tornate alla nostra religione; la nostra religione è gioiosa, abbiamo feste, gozzoviglie e divertimenti, e voi credete in uno che è stato crocifisso. All'epoca i cristiani riuscirono a dimostrare, in modo persuasivo, quanto i divertimenti del mondo degli dèi fossero vuoti e insipidi, e quale altezza regala la fede in quel Dio che soffre con noi e ci porta sulla via della vera grandezza. Oggi è della massima urgenza mostrare un modello cristiano di vita che offra un'alternativa vivibile ai divertimenti sempre più vuoti della società del tempo libero, che deve fare sempre più ricorso alla droga perché è sazia dei miseri piaceri abituali” (J. Ratzinger). Poiché l’uomo non vive senza darsi un assetto religioso, senza porsi in un rapporto ritenuto di consonanza con Dio, così come alla decadenza etica e politica della società romana è corrisposto il cristianesimo, analogamente, quest’ultimo si appresta a divenire l’espressione religiosa della decadenza etica e politica del Primo Mondo: “Io vedo qui una sincronia paradossale: con la vittoria del mondo tecnico-secolare posteuropeo, con l'universalizzazione del suo modello di vita e della sua maniera di pensare, si diffonde, specialmente nei paesi strettamente non europei dell'Asia e dell'Africa, l'impressione che il sistema di valori dell'Europa, la sua cultura e la sua fede, ciò su cui si basa la sua identità, sia giunto alla fine e sia anzi già uscito di scena [...]. L'Europa, proprio nell'ora del suo massimo successo, sembra svuotata dall'interno [...]. Al cedimento delle forze spirituali portanti si aggiunge un crescente declino etnico. C'è una strana mancanza di voglia di futuro. I figli, che sono il futuro, vengono visti come una minaccia per il presente. Ci portano via qualcosa della nostra vita, così si pensa. Non vengono sentiti come una speranza, bensì come una limitazione. Il confronto con l'Impero Romano al tramonto si impone: esso funzionava ancora come grande cornice storica, ma in pratica viveva già di quei modelli che dovevano dissolverlo, aveva esaurito la sua energia vitale” (J. Ratzinger).


PARTE IV L’ALTERNATIVA: LA RIPROPOSIZIONE DELL’UMANESIMO 20. — Le religiosità come fonti di politeismo e di scetticismo Le religioni esprimono la consapevolezza collettiva dell'esistenza di Dio. Storicamente, questa presa di coscienza si verifica in contesti umani omogenei dal punto di vista razziale, talché ogni comunità è caratterizzata da una religiosità propria che si diversifica dalle altre non solo e non tanto sotto il profilo liturgico, quanto piuttosto sul piano dei contenuti, pertanto, in riferimento alle nozioni: di Dio, della provvidenza divina, dell’assetto famigliare e politico, del bene e del male sia morali che fisici, della escatologia. I caratteri dell'esperienza religiosa, soprattutto se basata su un testo ritenuto sacro, sono, fondamentalmente: la ierocrazia, la superstizione, l’oscurantismo, il conservatorismo, la discriminazione sia verso i singoli che verso i popoli in quanto animati da visioni diverse. Tuttavia, la religione assolve il compito di dare alla collettività un sistema di valori comuni, sulla cui base essa realizza la propria unificazione e caratterizzazione, mentre, rimanendone priva, si risolverebbe in un insieme caleidoscopico. La religione nel fissare la verità e, quindi, le regole cui i membri della comunità devono attenersi, delegittima l’attività intellettiva che sia diretta all’approfondimento della conoscenza, alla individuazione di canoni di comportamento più avanzati, in una, delegittima la visione progressiva della vicenda esistenziale umana. Il Dio asseverato dalle religioni è summa voluntas, è un Dio arbitrario, non infrequentemente, violento, insondabile, absconditus (“nascosto”), cui corrisponde l’arbitrarietà dei rapporti umani. In virtù della correlazione, ontologica, tra la religiosità e l’assetto politico ed economico della società, le diversificazioni religiose concorrono a dare ragione della differenziazione delle fisionomie politiche ed economiche umanamente riscontrabili e delle relative conflittualità. La società umana, considerata secondo il complesso delle sue manifestazioni religiose, si presenta come politeista. Questo carattere e la correlata incapacità di autotrascendersi in una verità universale, sono fonti di scetticismo e, perciò, costituiscono la critica più radicale della religiosità. Il pluralismo delle credenze, infatti, è impossibilitato a risolversi in una unità se non nei termini del ricorso alla debellatio realizzata da quella di esse capace di imporsi sulle altre con la forza. La pacifica convivenza di opposte religiosità che, attualmente, è dato riscontrare nei contesti geopolitici della società occidentale, è il portato della libertà religiosa che rinviene il proprio fondamento, da un lato, nel versante arminiano della religiosità riformata e, dall’altro, nell’Illuminismo. Tuttavia, a quest’ultimo soltanto si deve l’emancipazione della società occidentale dalle guerre di religione.

21. — Religiosità e filosofia La necessità di trascendere le limitazioni proprie delle religiosità spinge il pensiero umano a ricercare il “comune”

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(o coinos), la matrice metafisica dell'esistente capace, nella sua unicità e universalità, di orientare l'uomo nel corso della sua vicenda esistenziale. Si determina, così, il passaggio dal pluralismo religioso alla filosofia, a questo che è l’evento più importante della storia. Essa, infatti, induce la spiegazione razionale, in questo senso scientifica, dell’esistente, la conseguente considerazione dell’essere umano in quanto semplicemente tale, del tutto a prescindere, quindi, dalla sua collocazione spazio-temporale, la conseguente individuazione di principi etici e politici universalmente validi. L’avvento della filosofia pone il problema del suo rapporto con le religiosità. Con valutazione d’insieme e seguendo la successione storica verificatasi nell’area occidentale, la relazione tra questi due termini si sviluppa come segue. Nella cultura greco-romana si ha una religiosità dipendente dalla filosofia (“in seguito, certe regole [...] derivanti dalla natura [vale a dire dal Dio discoperto dalla filosofia] e confermate dalla consuetudine [...], furono consacrate dalla religione”) (M.T. Cicerone). Poiché, come affermato da Platone, “è impossibile [...] che la massa sia filosofa” (Platone), la religiosità diviene la cinghia di trasmissione della filosofia alla base (religio ancilla philosophiae - “la religione ancella della filosofia”). Nella successiva fase cristiano-cattolica, il rapporto si inverte ed è la filosofia a divenire dipendente dalla religiosità (“fides est nobilior quam scientia” - “la fede è più nobile della scienza”) (Tommaso d’Aquino) (philosophia ancilla fidei). Segue la cultura illuministica nel cui contesto la religiosità (protestante) torna a dipendere dalla filosofia nei termini del cristianesimo illuministico. Si giunge, così, alla situazione contemporanea dominata dall’“Eclisse della ragione” (M. Horkheimer), dalla conseguente riviviscenza dei fondamentalismi religiosi e della loro conflittualità, dalla tendenziale dipendenza della filosofia e della politica dal loro protagonismo. Il nichilismo moderno, non diversamente da quello affermatosi nella decadenza della società romana, è il portato della tolleranza, vale a dire, della compresenza, nel tessuto sociale, di visioni culturali diversificate ed anche opposte, talché, appunto, esso, in quanto coincidentia oppositorum, diviene la sola categoria ordinante possibile. Tuttavia, così come, nel contesto romano, il cristianesimo ha rappresentato la trasvalutazione teologica del nichilismo, parimenti, nella modernità il neocristianesimo, che si viene attualmente delineando, si appresta ad assolvere questa stessa funzione: “Se si conosce la causa del male, si può anche trovare la via della guarigione: dev'essere reintrodotta l'eredità religiosa, in tutte le sue forme, ma specialmente ‘l'eredità del cristianesimo occidentale’” (A. Toynbee).

22. — Il ritorno a Dio inteso come summa Ratio, unica possibilità di salvezza per l’uomo Al potere tecnologico, che la scienza ha posto nelle mani dell’uomo, non corrisponde una adeguata dottrina morale, ovvero, ciò che non cambia, a questo potere fa da pendant il nichilismo ed il rinascente fondamentalismo religioso (dritto e rovescio di una medesima medaglia).


Come già si è detto, ogni sistema economico e, quindi, politico, trova espressione anche in una forma di religiosità che esprime il consenso sociale alla sua vigenza. Il sistema capitalistico della produzione non farà eccezione. Esso potrà assumere una religiosità volontaristica, ovvero, una religiosità intellettualistica, richiamandosi, rispettivamente, a Dio inteso come summa Voluntas, ovvero, a Dio inteso come summa Ratio. Nel primo caso, la religione si porrà al servizio delle istanze economiche proprie di tale sistema e, quindi, della oligarchia che ne ha il controllo; nel secondo, è questo sistema che viene posto al servizio dell’uomo e, per ciò stesso, deputato alla realizzazione di “un degré toujours plus élevé de moralité, de lumières et de bien-être” (“un livello sempre più elevato di moralità, di conoscenza e di benessere”) (Constitution de la République française du 4 novembre 1848, Préambule). L’umanità è ad una svolta: o l’economia verrà posta in una relazione organica rispetto all’uomo, ovvero, sarà l’uomo a divenire un organo della produzione e del consumo capitalistici, un organo del processo di accumulazione del capitale. Corrispondentemente si disporrà la religiosità. La reazione sia al nichilismo imperante, sia ai fondamentalismi religiosi, fonti di conflittualità e di oscurantismo, sia, infine, alla vocazione assolutistica del sistema capitalistico della produzione, richiede, da un lato, la riproposizione della teologia e della filosofia della giustizia intellettualistiche, i cui valori ordinanti, come più volte ricordato, sono: sapere oportet (“doverosità della conoscenza”), neminem laedere (“non ledere alcuno”), Deum colere (“culto di Dio inteso come summa Ratio); dall’altro, la subordinazione ad essi delle religiosità esistenti, nel senso che quest’ultime diventano gli strumenti per il cui tramite quei valori trapassano nella pratica quotidiana. La tradizione umana assevera due Libri da cui trarre la conoscenza che necessita per lo svolgimento esistenziale: il Libro della Natura (Liber Naturae) ed il Libro della Scrittura (Liber Scripturae sacrae). Nel contesto delle religiosità, il secondo prevale sul primo poiché “Il peso soverchiante di una rivelazione storica di Dio nella forma del libro smentisce la possibilità che, nella natura, Dio si sarebbe già dichiarato in maniera sufficientemente comprensibile e convincente. [...] il significato della natura deve allora sbiadire di fronte a ciò che sta in questi libri o che per questi libri è decisivo. La natura scompare dietro il sovrappieno di queste comunicazioni e diventa la mera scena dove vengono anzitutto compiuti i fatti e i misfatti degni di essere riportati in libri. In essa non c’è niente da leggere” (H. Blumenberg). In realtà il Libro è uno soltanto, il Liber Naturae in quanto sicuramente scritto da Dio. Di esso è parte integrante il Liber conscientiae (seu animae). Da quest’ultimo, più propriamente, l’uomo trae i valori etici cui informare la propria vicenda esistenziale e la stessa esistenza di Dio. Il Liber Naturae, così inteso, possiede questo primato poiché solo per il suo tramite Dio si rivolge indifferentemente a tutti gli uomini, solo in tal modo il suo linguaggio è oggettivato ed universalmente intelligibile. I Libri Scripturarum (i testi sacri) sono teologicamente legittimi solo in quanto siano specula (“specchi”) del Liber Naturae. Per altro, come asseverato dalla scienza moderna, il Liber Naturae, considerato nella sua fisicità, non potrebbe più essere inteso alla maniera della fisica intellettualistica (va-

le a dire, della fisica di Platone, di Aristotele, di Galileo, di Keplero, di Cartesio, di Newton) e della relativa filosofia, vale a dire, come un sistema retto dal principio meccanicistico che rinviene nella causa prima divina (primum movens non motum - “movente primo non mosso”) la propria giustificazione. La natura, infatti, rivelerebbe la compresenza della fisica del caos. Per altro, la causa del nichilismo contemporaneo risiede nel sistema capitalistico della produzione e da questa sede si irradia anche nella stessa scienza (nice nihilism is all we need - “il dolce nichilismo è tutto ciò di cui abbiamo bisogno”) (A. Rosenberg). L’attuale a-moralità dell’economia si coniuga, infatti, con la contestuale a-moralità della scienza, l’una rinviando all’altra e viceversa, talché, “Nel mondo moderno, la scienza e la tecnica” - che hanno natura strumentale rispetto alla produzione del profitto, allo svolgimento, dunque, della accumulazione capitalistica -, “si stanno ormai avviando alla progettazione della produzione e distruzione della totalità delle cose” (E. Severino). Le modalità produttive della ricchezza sociale non hanno solo una valenza economica ma anche culturale. Così come l’uomo produce quanto gli necessita materialmente per la propria sopravvivenza, parimenti, si dispiegano le categorie culturali che si rendono necessarie per lo svolgimento di questa stessa attività. La cultura è un fatto unitario e il rapporto dell’uomo con la natura sotto il profilo conoscitivo (filosofico, scientifico, etc.) è inscindibilmente connesso a questo stesso rapporto riguardato sotto il profilo economico. La logica del profitto, la connessa logica del consumismo che ne costituisce la fonte, determinano, dunque, la desertificazione dei valori etici che erano alla base della società sorta dalla catarsi protestante ed illuministica, causando l'assenza di una visione culturale globale capace di orientare gli uomini in senso razionalistico. La crescente affermazione del “materialismo”, del “relativismo etico”, la crisi morale dello Stato, la trasformazione delle forze armate in forze mercenarie, il decadimento della cultura, la dissoluzione della famiglia, la crescente conflittualità tra i sessi, in una, la dilagante a-nomia etica, il riemergere dei fondamentalismi etnici, politici e, soprattutto, religiosi, non sono, dunque, che sovrastrutture del sistema capitalistico della produzione, sono la conseguenza dell'etica economica informata al primato del profitto, della corrispondente mercificazione dei rapporti umani, del corrispondente asservimento della politica alla logica della accumulazione capitalistica, sono la conseguenza del tendenziale risolversi dell’homo moralis nell’ homo oeconomicus, vale a dire, del transito dalla bonitas alla feritas (“animalità”), alla tribalità (E.O. Wilson). Il nichilismo è la filosofia che consente di rimuovere “gli ostacoli che frenano la volontà di dominio” (E. Severino). Poiché quest’ultima “non può dispiegarsi completamente se esiste il limite invalicabile della verità definitiva proclamata dell’epistéme”, da ciò segue che la “distruzione dell’epistéme e di ogni struttura eterna e immodificabile della realtà”, la conseguente induzione della fisica del chaos, costituiscono la condizione del suo “dispiegamento totale” (E. Severino). Pertanto, lo scetticismo rinvenibile nella scienza non ha una valenza autonoma, è solo contingente in quanto dettato dalle necessità della oligarchia economica al potere. L’uomo può, dunque, oltrepassare questa dimensione raggiungendo le vette animate dal sapere razionale e, quindi, dagli eterni valori della giustizia.

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Proseguiamo anche in questo numero il dibattito sul materialismo storico (e dialettico). In questa introduzione pubblichiamo la definizione “scientifica” di materialismo storico quale elaborata da Marx e da Engels in due testi fondamentali, pubblicati da Engels dopo la morte di Marx: “L’ideologia tedesca” e le “Tesi su Feuerbach”. Il nucleo della concezione materialistica della storia sta nell’affermazione che gli uomini, i quali vivono e producono in una data società, si trovano a muoversi entro «determinati rapporti necessari e indipendenti dalla loro volontà», che sono i rapporti di produzione propri di una determinata fase dello sviluppo storico; questi costituiscono la struttura economica della società, la base reale sulla quale si eleva la sovrastruttura dei rapporti giuridici e politici, la vita intellettuale, morale e religiosa, e soprattutto le forme determinate della coscienza sociale. Nelle condizioni materiali, che comprendono l’ambiente naturale geografico e lo sviluppo demografico, determinanti soprattutto sono le forze produttive (strumenti di produzione, gli uomini che li producono e li muovono, le esperienze e le abitudini di lavoro, i beni prodotti) e i rapporti di produzione (sistemi di produzione: bottega, manifattura, industria; e relazioni di lavoro: schiavitù, artigianato, salariato), che nel loro insieme caratterizzano l’ordinamento di una data epoca storica (schiavismo, feudalismo, capitalismo). Sono i contrasti profondi nel cam-

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po della vita economica e produttiva, e in dati periodi il contrasto fra le forze produttive e i rapporti di produzione, fra l’accrescimento e il progresso dei mezzi di produzione e degli uomini che li usano e i sistemi di produzione e di lavoro, che soffocano il loro sviluppo, determinano i contrasti e i conflitti nel campo sociale, e, nel caso del contrasto fra forze produttive e rapporti di produzione, caratterizzano un’epoca di rivoluzione, in quanto prima o poi quel contrasto sbocca in rivolgimenti e trasformazioni giuridici e politici. In questi conflitti e rivolgimenti le idee agiscono per il materialismo «come forze materiali», accentuando e organizzando il movimento di trasformazione dell’ordine giuridico, politico, sociale e produttivo esistente. Questa concezione ha il suo fondamento nel principio che «la vita non è determinata dalla coscienza, ma la coscienza è determinata dalla vita», che «la coscienza non può mai essere qualcosa di diverso dell’essere consapevole»; perché anzi «la produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza è, in un primo tempo, direttamente intrecciata con la vita materiale» e con l’attività e lo scambio fra gli uomini. Nelle pagine seguenti pubblichiamo quindi tre testi prodotti da tre diversi artecifi della costruzione di uno Stato socialista, che possono dare meglio l’idea concreta dell’applicazione dei principi del materialismo storico, plasmati a seconda delle diverse situazioni storiche temporali e contestuali. (SR)


ancora sul marxismo-leninismo e il materialismo

Le idee giuste (Mao)

a dove provengono le idee giuste degli uomini? CaD dono dal cielo? No. Sono innate? No. Esse provengono dalla pratica sociale e solo da questa.

Provengono da tre tipi di pratica sociale: la lotta per la produzione, la lotta di classe e la sperimentazione scientifica. E' l’essere sociale dell’uomo che determina il suo pensiero. Una volta assimilate dalle masse, le idee giuste, proprie della classe avanzata, si trasformano in una forza materiale capace di cambiare la società e il mondo. Nella loro pratica sociale gli uomini si impegnano in vari tipi di lotta e acquistano una ricca esperienza, sia dai successi che dagli insuccessi. Innumerevoli fenomeni del mondo oggettivo esterno si riflettono nel cervello dell’uomo attraverso i cinque sensi: vista, udito, odorato, gusto e tatto. All’inizio la conoscenza è percettiva. Quando si sono accumulate sufficienti conoscenze percettive, si verifica un salto: la conoscenza percettiva si trasforma in conoscenza razionale, cioè in pensiero. Questo è un processo della conoscenza. E' la prima fase nell’intero processo della conoscenza, è la fase che va dalla materia, oggettiva, allo spirito, soggettivo, dall’essere al pensiero. In questa fase non è stato ancora provato se lo spirito, o pensiero (che include teorie, politica, piani e metodi) rifletta correttamente le leggi del mondo oggettivo esterno; non è ancora possibile stabilire se esso sia o no giusto. Segue la seconda fase del processo della conoscenza, la fase che va dallo spirito alla materia, dal pensiero all’essere, in cui si applica alla pratica sociale la conoscenza acquisita durante la prima fase per verificare se le teorie, la politica, i piani e i metodi raggiungono i risultati previsti. In generale è giusto ciò che riesce, sbagliato ciò che fallisce; questo è vero soprattutto nella lotta dell’uomo contro la natura. Nella lotta sociale le forze che rappresentano la classe avanzata subiscono a volte delle sconfitte non perché le loro idee siano sbagliate, ma perché, nel rapporto delle forze in lotta, esse sono tempo-

raneamente meno potenti delle forze della reazione; possono essere quindi temporaneamente sconfitte, ma finiranno sempre per trionfare. Attraverso la prova della pratica, la conoscenza dell’uomo compie un altro salto, ancora più importante del precedente. Solo questo salto, in effetti, può dare la prova della validità del primo, può cioè provare se le idee, le teorie, la politica, i piani, i metodi, ecc., elaborati nel corso del processo di riflessione del mondo oggettivo esterno, siano o no giusti. Non vi sono altri mezzi per provare la verità. Per il proletariato, lo scopo di conoscere il mondo è trasformarlo, al di fuori di questo non ce n'è altro. Spesso si può giungere a una conoscenza giusta solo dopo molte ripetizioni del processo che comporta il passaggio dalla materia allo spirito, poi dallo spirito alla materia, cioè dalla pratica alla conoscenza, poi dalla conoscenza alla pratica. Questa è la teoria marxista della conoscenza, la teoria dialettico-materialista della conoscenza. Attualmente molti fra i nostri compagni non comprendono ancora questa teoria della conoscenza. Se chiedete loro da dove provengono le loro idee, opinioni, politica, metodi, piani e conclusioni, discorsi e articoli prolissi, trovano la domanda bizzarra e non sanno rispondere. Trovano ugualmente incomprensibile il fenomeno del salto che si verifica di frequente nella vita quotidiana: la trasformazione della materia in spirito e dello spirito in materia. Per questo dobbiamo insegnare ai nostri compagni la teoria dialettico-materialista della conoscenza, perché possano dare un giusto orientamento al loro pensiero, sappiano condurre inchieste e ricerche, facciano il bilancio delle esperienze, superino le difficoltà, commettano meno errori, lavorino bene, lottino con impegno per costruire un paese socialista grande e potente e infine aiutino le larghe masse dei popoli oppressi e sfruttati del mondo per adempiere il nostro grande dovere internazionalista.

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Il leninismo (Stalin) del leninismo: vasto argomento. OccorrerebIunabeprincipi un libro intero per esaurirlo. Anzi, occorrerebbe serie di libri. È naturale, quindi, che le mie lezioni

non potranno essere un'esposizione esauriente del leninismo. Nel migliore dei casi, potranno essere soltanto un riassunto conciso dei principi del leninismo. Ciononostante, ritengo utile fare questo riassunto per fissare alcuni punti di partenza fondamentali, indispensabili per uno studio proficuo del leninismo. Esporre i principi del leninismo, non vuol ancora dire esporre i principi della concezione del mondo di Lenin. La concezione del mondo di Lenin e i principi del leninismo non sono, per l'ampiezza, la stessa cosa. Lenin è un marxista e la base della sua concezione del mondo é, naturalmente, il marxismo. Ma da questo non deriva affatto che una esposizione del leninismo debba partire dall'esposizione dei principi del marxismo. Esporre il leninismo significa esporre ciò che vi è di particolare e di nuovo nell'opera di Lenin, ciò che Lenin ha apportato al tesoro comune del marxismo e che naturalmente è legato al suo nome. Soltanto in questo senso parlerò nelle mie lezioni dei principi del leninismo. Dunque, che cosa è il leninismo? Gli uni dicono che il leninismo è l'applicazione del marxismo alle condizioni originali della situazione russa. In questa definizione vi è una parte di verità, ma essa é ben lontana dal contenere tutta la verità. Lenin ha effettivamente applicato il marxismo alla situazione russa e l'ha applicato in modo magistrale. Ma se il leninismo non fosse che l'applicazione del marxismo alla situazione originale della Russia, sarebbe un fenomeno puramente nazionale e soltanto nazionale, puramente russo e soltanto russo. Invece noi sappiamo che il leninismo è un fenomeno internazionale, che ha le sue radici in tutta l'evoluzione internazionale e non soltanto un fenomeno russo. Ecco perché penso che questa definizione pecca di unilateralità. Altri dicono che il leninismo è la rinascita degli elementi rivoluzionari del marxismo del decennio 1840-1850, per distinguerlo dal marxismo degli anni successivi, divenuto, a loro avviso, moderato, non più rivoluzionario. A prescindere dalla sciocca e banale divisione della dottrina di Marx in due parti, una rivoluzionaria e una moderata, bisogna riconoscere che anche questa definizione, del tutto insufficiente e insoddisfacente, contiene una parte di verità. Questa parte di verità consiste nel fatto che Lenin ha effettivamente risuscitato il contenuto rivoluzionario del marxismo, ch'era stato sotterrato dagli opportunisti della II Internazionale. Ma questa non è che una parte della verità. La verità intera è che il leninismo non solo ha risuscitato il marxismo, ma ha fatto ancora un passo avanti, sviluppando ulteriormente il marxismo nelle nuove condizioni del capitalismo e della lotta di classe del proletariato. Che cosa é dunque, in ultima analisi, il leninismo? Il leninismo è il marxismo dell'epoca dell'imperialismo e della rivoluzione proletaria. Più esattamente: il leninismo è la teoria e la tattica della rivoluzione proletaria in generale, la teoria e la tattica della dittatura del proleta-

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riato in particolare. Marx ed Engels militarono nel periodo prerivoluzionario (ci riferiamo alla rivoluzione proletaria), quando l'imperialismo non si era ancora sviluppato, nel periodo di preparazione dei proletari alla rivoluzione, nel periodo in cui la rivoluzione proletaria non era ancora diventata una necessità pratica immediata. Lenin invece, discepolo di Marx e di Engels, militò nel periodo di pieno sviluppo dell'imperialismo, nel periodo dello scatenamento della rivoluzione proletaria, quando la rivoluzione proletaria aveva già trionfato in un paese, aveva distrutto la democrazia borghese e aperto l'era della democrazia proletaria, l'era dei Soviet. Ecco perché il leninismo è lo sviluppo ulteriore del marxismo. Si mette spesso in rilievo il carattere straordinariamente combattivo, straordinariamente rivoluzionario del leninismo. Ciò è del tutto giusto. Ma questa caratteristica del leninismo si spiega con due motivi: in primo luogo, col fatto che il leninismo è sorto dalla rivoluzione proletaria, e non può non portarne l'impronta; in secondo luogo, col fatto che esso è cresciuto e si è rafforzato nella lotta contro l'opportunismo della II Internazionale, lotta che fu ed è condizione necessaria preliminare per il successo della lotta contro il capitalismo. Non bisogna dimenticare che fra Marx ed Engels da una parte, e Lenin dall'altra, si stende un intero periodo di dominio incontrastato dell'opportunismo della Il Internazionale. La lotta spietata contro l'opportunismo non poteva non essere uno dei compiti più importanti del leninismo.


Marx rivoluzionario (Che)

l socialismo non è una società di beneficenza, non è un Imo.regime utopico basato sulla bontà dell'uomo come uoIl socialismo è un regime al quale si arriva storica-

mente e che ha come base la socializzazione dei beni fondamentali di produzione e l'equa distribuzione delle ricchezze della società, entro un ambito in cui vi sia produzione di tipo sociale. Il socialismo è un sistema sociale che si basa sull'equa distribuzione delle ricchezze della società, ma a condizione che tale società abbia ricchezze da spartire, che vi siano macchine per lavorare e che quelle macchine abbiano materie prime per produrre quanto è necessario per il consumo della nostra popolazione. E nella misura in cui aumentiamo quei prodotti per distribuirli fra tutta la popolazione andiamo avanzando nella costruzione del socialismo. Possiamo dire che la definizione del socialismo è molto semplice: si definisce dalla produttività che è data dalla meccanizzazione, dal giusto uso delle macchine al servizio della società e da un crescente aumento della produttività e della coscienza che sta nel mettere tutto quello che si possiede al servizio della società: produttività, vale a dire, maggior produzione, maggiore coscienza: questo è socialismo... Non vi è altra definizione del socialismo, valida per noi, che l'abolizione dello sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo. Fintanto che ciò non avvenga, si sta nel periodo di costruzione della società socialista e, se invece di verificarsi un tale fenomeno, il compito della soppressione dello sfruttamento ristagna o addirittura si fanno dei passi indietro, non è giusto nemmeno parlare della co-

struzione del socialismo. Il socialismo si basa sulla fabbrica, il socialismo poggia su di una società sviluppata tecnicamente; non può esistere in condizioni feudali, in condizioni pastorali; si sviluppa sulla tecnica. E noi dobbiamo procedere lungo queste due vie dell'aumento della produzione e dell'approfondimento della coscienza. E vogliate perdonarmi se insisto una volta di più su queste cose, ma il fatto è che bisogna fissarsele bene nella mente per poter giungere ad acquisire la nuova categoria di paese socialista in cui si cancelli ormai totalmente lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, in cui tutti i mezzi di produzione siano in potere dello Stato e dove si dia inizio al gran balzo, l'ultimo e definitivo balzo avvistato finora dall'umanità, che è quello della società comunista, società senza classi. Già dobbiamo pensare anche se è come un futuro lontano - al comunismo, che è la società perfetta, che è l'aspirazione basilare dei primi uomini che seppero vedere più in là del tempo presente e predire il destino dell'umanità… Le leggi del marxismo sono presenti negli accadimenti della Rivoluzione cubana, indipendentemente dal fatto che i suoi capi professino o conoscano a fondo, da un punto di vista teorico, quelle leggi. Il marxista deve essere il migliore, il più integro, il più completo degli esseri umani, ma, sempre e soprattutto, un essere umano; un militante di un partito che vive e vibra a contatto con le masse; un orientatore che plasma in direttive concrete i desideri talora oscuri della massa; un lavoratore infaticabile che tutto consegna al suo popolo; un lavoratore che si sacrifica dedicando le sue ore di riposo, la sua tranquillità personale, la sua famiglia o la sua vita alla Rivoluzione, ma che non è mai insensibile al calore del contatto umano. La nostra posizione quando ci chiedono se siamo marxisti o no è la stessa che assumerebbe un fisico al quale si chiedesse se fosse newtoniano" o un biologo al quale venisse chiesto se fosse "pasteuriano". Vi sono verità così evidenti, così legate alla conoscenza dei popoli che è del tutto inutile discuterle. Si deve essere "marxisti" con la stessa naturalezza con cui si è "newtoniani" in fisica o "pasteuriano" in biologia... Il merito di Marx è quello di provocare all'improvviso nella storia del pensiero sociale un mutamento qualitativo; interpreta la storia, ne comprende la dinamica, prevede il futuro ma, oltre a prevederlo, dove il suo impegno scientifico sarebbe terminato, esprime un concetto rivoluzionario: che, non solo bisogna interpretare la natura, è necessario trasformarla. La Rivoluzione cubana prende Marx dove questi avrebbe abbandonato la scienza per impugnare il fucile rivoluzionario e lo prende in quel punto, non per spirito revisionista, di lotta contro quello che segue Marx, di rivivere il Marx "puro", ma semplicemente perché fin lì Marx, lo scienziato, situato fuori della storia, studiava e vaticinava. Dopo, il Marx rivoluzionario, dentro la storia, avrebbe combattuto. Noi, rivoluzionari pratici, semplicemente iniziando la nostra lotta, abbiamo messo in atto delle leggi previste dal Marx scienziato e per questa via di ribellione, nel combattere contro la vecchia struttura del potere, nel basarci sul popolo, ci stiamo semplicemente uniformando alle predizioni dello scienziato Marx.

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Le lingue degli “altri” 1

Nel numero precedente abbiamo pubblicato alcuni racconti brevi in lingua bengali: in questo numero vogliamo fare omaggio a un’altra lingua degli “altri”: il russo, sperando di fare cosa gradita ai tanti nuovi cittadini slavi russofoni che oggi vivono e lavorano nel nostro paese. Pubblichiamo un racconto di uno scrittore ucraino russofono di Odessa, città dove si svolge anche la vicenda del racconto. Odessa è la città scolpita nella memoria anche del nostro occidente dal film di Ejzenstejn, “La Corrazzata Potemkin”, che narrava un episodio della prima rivoluzione antizarista del 1905. Odessa è una delle città martiri della barbarie nazista, specificamente di quella rumena che nel 1941 decimò, tra l’altro, con ferocia inaudita circa 100.000 ebrei sovietici ivi residenti. Oggi nuovamente rigurgiti nazi-fascisti, malamente camuffati da aspirazioni europeiste e antirusse, hanno macchiato di violenza e sangue la città di Odessa. Il racconto, dal titolo italiano “Il tramonto”, fa parte della racconta “Racconti di Odessa” (Одесские рассказы) di Isaak Ėmmanuilovič Babel', combattente dell’Armata Rossa che sconfisse, inseguendolo sino alle porte di Varsavia, l’esercito polacco che aveva invaso la Russia all’indomani della rivoluzione comunista del 1917, traendo da quell’esperienza di guerra l’opera capolavoro “L’armata a cavallo”. Babel’, ammirato e protetto da Maxim Gorkj, alla morte di quest’ultimo venne epurato e condannato a morte durante le così dette “purghe” che precedettero l’invasione tedesca; poi riabilitato e riconosciuto tra i grandi scrittori russi (o meglio russofoni, in quanto di nazionalità ucraina). Per motivi di spazio tipografico non pubblichiamo la traduzione in lingua italiana, invitando i lettori italiani a leggere comunque le bellisime opere di questo grande scrittore quasi tutte giustamente pubblicate in lingua italiana. (SR)

ЗАКАТ (Tramonto) Однажды Левка, младший из Криков, увидел Любкину дочь Табл. Табл по-русски значит голубка. Он увидел ее и ушел на трое суток из дому. Пыль чужих мостовых и герань в чужих окнах доставляли ему отраду. Через трое суток Левка вернулся домой и застал отца своего в палисаднике. Отец его вечерял. Мадам Горобчик сидела рядом с мужем и озиралась, как убийца. - Уходи, грубый сын, - сказал папаша Крик, завидев Левку. - Папаша, - ответил Левка, - возьмите камертон и настройте ваши уши. - В чем суть? - Есть одна девушка, - сказал сын. Она имеет блондинный волос. Ее зовут Табл. Табл по-русски значит голубка. Я положил глаз на эту девушку. - Ты положил глаз на помойницу, сказал папаша Крик, - а мать ее бандерша. Услышав отцовские слова, Левка засучил рукава и поднял на отца богохульственную руку. Но мадам Горобчик вскочила со своего места и встала между ними. - Мендель, - завизжала она, - набей Левке вывеску! Он скушал у меня одиннадцать котлет... - Ты скушал у матери одиннадцать

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котлет! - закричал Мендель и подступил к сыну, но тот вывернулся и побежал со двора, и Бенчик, его старший брат, увязался за ним следом. Они до ночи кружили по улицам, они задыхались, как дрожжи, на которых всходит мщение, и под конец Левка сказал брату своему Бене, которому через несколько месяцев суждено было стать Беней Королем: - Бенчик, - сказал он, - возьмем это на себя, и люди придут целовать нам ноги. Убьем папашу, которого Молдава не называет уже Мендель Крик. Молдава называет его Мендель Погром. Убьем папашу, потому что можем ли мы ждать дальше? - Еще не время, - ответил Бенчик, - но время идет. Слушай его шаги и дай ему дорогу. Посторонись, Левка. И Левка посторонился, чтобы дать времени дорогу. Оно тронулось в путь - время, древний кассир, - и повстречалось в пути с Двойрой, сестрой Короля, с Манассе, кучером, и с русской девушкой Марусей Евтушенко. Еще десять лет тому назад я знал людей, которые хотели иметь Двойру, дочь Менделя Погрома, но теперь у Двойры болтается зоб под подбородком и глаза ее вываливаются из орбит. Никто не хочет иметь Двойру. И вот отыскался недавно пожилой вдовец с взрослыми до-

черьми. Ему понадобилась полуторная площадка и пара коней. Узнав об этом, Двойра выстирала свое зеленое платье и развесила его во дворе. Она собралась идти к вдовцу, чтобы узнать, насколько он пожилой, какие кони ему нужны и может ли она его получить. Но папаша Крик не хотел вдовцов. Он взял зеленое платье, спрятал его в свой биндюг и уехал на работу. Двойра развела утюг, чтобы выгладить платье, но она не нашла его. Тогда Двойра упала на землю и получила припадок. Братья подтащили ее к водопроводному крану и облили водой. Узнаете ли вы, люди, руку отца их, прозванного Погромом? Теперь о Манассе, старом кучере, ездящем на Фрейлине и Соломоне Мудром. На погибель свою он узнал, что кони старого Буциса, и Фроима Грача, и Хаима Дронга подкованы резиной. Глядя на них, Манассе пошел к Пятирубелю и подбил резиной Соломона Мудрого. Манассе любил Соломона Мудрого, но папаша Крик сказал ему: - Я не Хаим Дронг и не Николай Второй, чтобы кони мои работали на резине. И он взял Манассе за воротник, поднял его к себе на биндюг и поехал со двора. На протянутой его руке Манассе висел, как на виселице.


Odessa, foto storica della via principale Закат варился в небе, густой закат, как варенье, колокола стонали на Алексеевской церкви, солнце садилось за Ближними Мельницами, и Левка, хозяйский сын, шел за биндюгом, как собака за хозяином. Несметная толпа бежала за Криками, как будто они были карета скорой помощи, и Манассе неутомимо висел на железной руке. - Папаша, - сказал тогда отцу Левка, - в вашей протянутой руке вы сжимаете мне сердце. Бросьте его, и пусть оно катится в пыли. Но Мендель Крик даже не обернулся. Лошади несли вскачь, колеса гремели,и у людей был готовый цирк. Биндюг выехал на Дальницкую к кузнице Ивана Пятирубеля. Мендель потер кучера Манассе об стенку и бросил его в кузню на груду железа. Тогда Левка побежал за ведром воды и вылил его на старого кучера Манассе. Узнаете ли вы теперь, люди, руку Менделя, отца Криков, прозванного Погромом? - Время идет, - сказал однажды Венчик, и брат его Левка посторонился, чтобы дать времени дорогу. И так стоял Левка в сторонке, пока не занесласьn Маруся Евтушенко. - Маруся занеслась, - стали шушукаться люди, и папаша Крик смеялся, слушая их. - Маруся занеслась, - говорил он и смеялся, как дитя, - горе всему Из-

раилю, кто эта Маруся? В эту минуту Венчик вышел из конюшни и положил папаше руку на плечо. - Я любитель женщин, - сказал Венчик строго и передал папаше двадцать пять рублей, потому что он хотел, чтобы вычистка была сделана доктором и в лечебнице, а не у Маруси на дому. - Я отдам ей эти деньги, - сказал папаша, - и она сделает себе вычистку, иначе пусть не дожить мне до радости. И на следующее утро, в обычный час, он выехал на Налетчике и Любезной Супруге, а в обед на двор к Крикам явилась Маруся Евтушенко. - Венчик, - сказала она, - я любила тебя, будь ты проклят. И швырнула ему в лицо десять рублей. Две бумажки по пяти - это никогда, не было больше десяти. - Убьем папашу, - сказал тогда Венчик брату своему Льву, и они сели на лавочку у ворот, и рядом с ними сел Семен, сын дворника Анисима, человек семи лет. И вот, кто бы сказал, что такое семилетнее ничто уже умеет любить и что оно умеет ненавидеть. Кто знал, что оно любит Менделя Крика, а оно любило. Братья сидели на лавочке и высчитывали, сколько лет может быть папаше и какой хвост тянется за шестьюдесятью его годами, и Семен, сын двор-

ника Анисима, сидел с ними рядом. В тот час солнце не дошло еще до Ближних Мельниц. Оно лилось в тучи, как кровь из распоротого кабана, и на улицах громыхали площадки старого Буциса, возвращавшиеся с работы. Скотницы доили уже коров в третий раз, и работницы мадам Парабелюм таскали ей на крыльцо ведра вечернего молока. И мадам Парабелюм стояла на крыльце, хлопала в ладоши. - Бабы, - кричала она, - свои бабы и чужие бабы, Берта Ивановна, мороженщики и кефирщики! Подходите за вечерним молоком. Берта Ивановна, учительница немецкого языка, которая получала за урок две кварты молока, первая получила свою порцию. За ней подошла Двойра Крик для того, чтобы посмотреть, сколько воды налила мадам Парабелюм в свое молоко и сколько соды она всыпала в него. Но Венчик отозвал сестру в сторону. - Сегодня вечером, - сказал он, - когда ты увидишь, что старик убил нас, подойди к нему и провали ему голову друшляком. И пусть настанет конец фирме Мендель Крик и сыновья. - Аминь, в добрый час, - ответила Двойра и вышла за ворота. И она увидела, что Семена, сына Анисима, нет больше во дворе и что вся Молдаванка идет к Крикам в гости. Молдаванка шла толпами, как будто во дворе у Криков были перекидки.

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Жители шли, как идут на Ярмарочную площадь во второй день Пасхи. Кузнечный мастер Иван Пятирубель прихватил беременную невестку и внучат. Старый Буцис привел племянницу, приехавшую на лиман из Каменец-Подольска. Табл пришла с русским человеком. Она опиралась на его руку и играла лентой от косы. Позже всех прискакала Любка на чалом жеребце. И только Фроим Грач пришел совсем один, рыжий, как ржавчина, одноглазый и в парусиновой бурке.Люди расселись в палисаднике и вынули угощение. Мастеровые разулись, послали детей за пивом и положили головы на животы своих жен. И тогда Левка сказал Венчику, своему брату: - Мендель Погром нам отец, - сказал он, - а мадам Горобчик нам мать а люди - псы, Венчик. Мы работаем для псов. - Надо подумать, - ответил Венчик, но не успел он произнести этих слов, как гром грянул на Головковской. Солнце взлетело кверху и завертелось, как красная чаша на острие копья. Биндюг старика мчался к воротам. Любезная Супруга была в мыле. Налетчик рвал упряжку. Старик взвил кнут над взбесившимися конями. Растопыренные ноги его были громадны, малиновый пот кипел на его лице, и он пел песни пьяным голосом. И тут-то Семен, сын Анисима, скользнул, как змея, мимо чьих-то ног, выскочил на улицу и закричал изо всех сил: - Заворачивайте биндюг, дяденька Крик, бо сыны ваши хочут лупцовать вас... Но было поздно. Папаша Крик на взмыленных конях влетел во двор. Он поднял кнут, он открыл рот и... умолк. Люди, рассевшиеся в палисаднике, пучили на него глаза. Бенчик стоял на левом фланге у голубятни. Левка стоял на правом фланге у дворницкой. - Люди и хозяева! - сказал Мендель Крик чуть слышно и опустил кнут. Вот смотрите на мою кровь, которая заносит на меня руку. И, соскочив с биндюга, старик кинулся к Бене и размозжил ему кулаком переносье. Тут подоспел Левка и сделал что мог. Он перетасовал лицо своему отцу, как новую колоду. Но старик был сшит из чертовой кожи, и петли этой кожи были заметаны чугуном. Старик вывернул Левке руки и кинул на землю рядом с братом. Он сел Левке

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на грудь, и женщины закрыли глаза, чтобы не видеть выломанных зубов старика и лица, залитого кровью. И в это мгновение ители неописуемой Молдавы услышали быстрые шаги Двойры и ее голос: - За Левку, - сказала она, - за Венчика, за меня, Двойру, и за всех людей, - и провалила папаше голову друшляком. Люди вскочили на ноги и побежали к ним, размахивая руками. Они оттащили старика к водопроводу, как когда-то Двойру, и открыли кран. Кровь текла по желобу, как вода, и вода текла, как кровь. Мадам Горобчик протискалась боком сквозь толпу и приблизилась, подпрыгивая, как воробей. - Не молчи, Мендель, сказала она шепотом, - кричи чтонибудь, Мендель... Но, услышав тишину во дворе и увидев, что старик приехал с работы и кони не распряжены и никто не льет воды на разогревшиеся колеса, она кинулась прочь и побежала по двору, как собака о трех ногах. И тогда почетные хозяева подошли ближе. Папаша Крик лежал бородою кверху. - Каюк, - сказал Фроим Грач и отвернулся. - Крышка, - сказал Хаим Дронг, но кузнечный мастер Иван Пятирубель помахал указательным пальцем перед самым его носом. - Трое на одного, - сказал Пятирубель, - позор для всей Молдавы, но еще не вечер. Не видел я еще того хлопца, который кончит старого Крика... - Уже вечер, - прервал его Арье-Лейб, неведомо откуда взявшийся, - уже вечер, Иван Пятирубель. Не говори "нет", русский человек, когда жизнь шумит тебе "да". И, усевшись возле папаши, АрьеЛейб вытер ему платком губы, поцеловал его в лоб и рассказал ему о царе Давиде, о царе над евреями, имевшем много жен, много земель и сокровищ и умевшем плакать вовремя. - Не скули, Арье-Лейб, - закричал ему Хаим Дронг и стал толкать АрьеЛейба в спину, - не читай нам панихид, ты не у себя на кладбище! И, оборотившись к папаше Крику, Хаим Дронг сказал: Вставай, старый ломовик, прополощи глотку, скажи нам чтонибудь грубое, как ты это умеешь, старый грубиян, и приготовь пару площадок на утро, бо мне надо возить отходы... И весь народ стал ждать, что скажет

Мендель насчет площадок. Но он молчал долго, потом открыл глаза и стал разевать рот, залепленный грязью и волосами, и кровь проступила у него между губами. - У меня нет площадок, - сказал папаша Крик, - меня сыны убили. Пусть сыны хозяйнуют. И вот не надо завидовать тем, кто хозяйнует над горьким наследием Менделя Крика. Не надо им завидовать, потому что все кормушки в конюшне давно сгнили, половину колес надо было перешиновать. Вывеска над воротами развалилась, на ней нельзя было прочесть ни одного слова, и у всех кучеров истлело последнее белье. Полгорода было должно Менделю Крику, но кони, выбирая овес из кормушки, вместе с овсом слизывали цифры, написанные мелом на стене. Целый день к ошеломленным наследникам ходили какие-то мужики и требовали денег за сечку и ячмень. Целый день ходили женщины и выкупали из заклада золотые кольца и никелированные самовары. Покой ушел из дома Криков, но Беня, которому через несколько месяцев суждено было сделаться Беней Королем, не сдался и заказал новую вывеску "Извозопромышленное заведение Мендель Крик и сыновья". Это должно было быть написано золотыми буквами по голубому полю и перевито подковами, отделанными под бронзу. Он купил еще штуку полосатого тика на исподники для кучеров и неслыханный лес для ремонта площадок. Он подрядил Пятирубеля на целую неделю и завел квитанции для каждого заказчика. И к вечеру следующего дня, знайте это, люди, он уморился больше, чем; если бы сделал пятнадцать туров из Арбузной гавани на Одессу Товарную. И к вечеру, знайте это, люди, он не нашел дома ни крошки хлеба и ни одной перемытой тарелки. Теперь обнимите умом заядлое варварство мадам Горобчик. Невыметенное сметье лежало в комнатах, небывалый телячий холодец выбросили собакам. И мадам Горобчик торчала у мужниной лежанки, как облитая помоями ворона на осенней ветке. - Возьми их под заметку, - сказал тогда Венчик младшему брату, держи их под микроскопом, эту пару новобрачных, потому, сдается мне, Левка, они копают на нас. Так сказал Левке брат его Венчик, видевший всех насквозь своими глазами


Бени Короля, но он, Левка-подпасок, не поверил и лег спать. Папаша его тоже храпел уже на своих досках, а мадам Горобчик ворочалась с боку на бок. Она плевала на стены и харкала на пол. Вредный характер ее мешал ей спать. Под конец заснула и она. Звезды рассыпались перед окном, как солдаты, когда они оправляются, зеленые звезды по синему полю. Граммофон наискосок, у Петьки Овсяницы, заиграл еврейские песни, потом и граммофон умолк. Ночь занималась себе своим делом, и воздух, богатый воздух лился в окно к Левке, младшему из Криков. Он любил воздух, Левка. Он лежал, и дышал, и дремал, и игрался с воздухом. Богатое настроение испытывал он, и это было до тех пор, пока на отцовской лежанке не послышался шорох и скрип. Парень прикрыл тогда глаза и выкатил на позицию уши. Папаша Крик поднял голову, как нюхающая мышь, и сполз с лежанки. Старик вытянул из-под подушки торбочку с монетой и перекинул через плечо сапоги. Левка дал ему уйти, потому что куда он мог уйти, старый пес? Потом парень вылез вслед за отцом и увидел, что Венчик ползет с другой стороны двора и держится у стенки. Старик подкрался неслышно к биндюгам, он всунул голову в конюшню и засвистал лошадям, и лошади сбежались, чтобы потереться мордами об Менделеву голову. Ночь была во дворе, засыпанная звездами, синим воздухом и тишиной. - Т-с-с, - приложил Левка палец к губам, и Венчик, который лез с другой стороны двора, тоже приложил палец к губам. Папаша свистел коням, как маленьким детям, потом он побежал между площадками и брызнул в подворотню. - Анисим, - сказал он тихим голосом и стукнул в окошко дворницкой, - Анисим, сердце мое, отопри мне ворота. Анисим вылез из дворницкой, всклокоченный, как сено. - Старый хозяин, - сказал он, - прошу вас великодушно, не срамитесь передо мною, простым человеком. Идите отдыхать, хозяин... - Ты отопрешь мне ворота, - прошептал папаша еще тише, - я знаю это, Анисим, сердце мое... - Вернись в помещение, Анисим, - сказал тогда Венчик, вышел к дворницкой и положил руку своему папаше на плечо. И Анисим увидел прямо перед собой лицо Менделя Погрома, белое, как бумага, и он отвернулся, чтобы не видеть такого лица у своего хо-

зяина. - Не бей меня, Венчик, - сказал старый Крик, отступая, - где конец мучениям твоего отца... - О, низкий отец, - ответил Венчик, - как могли вы сказать то, что вы сказали? - Я мог! - закричал Мендель и ударил себя кулаком по голове. - Я мог. Венчик! - закричал он изо всех сил и закачался, как припадочный. - Вот вокруг меня этот двор, в котором я отбыл половину человеческой жизни. Он видел меня, этот двор, отцом моих детей, мужем моей жены и хозяином над моими конями. Он видел мою славу и двадцать моих жеребцов и двенадцать площадок, окованных железом. Он видел ноги мои, непоколебимые, как столбы, и руки мои, злые руки мои. А теперь, дорогие сыны, отоприте мне ворота, и пусть будет сегодня так, как я хочу, пусть уйду я из этого двора, который видел слишком много... - Папаша, - ответил Беня, не поднимая глаз, - вернитесь к вашей супруге. Но к ней незачем было возвращаться, к мадам Горобчик. Она сама примчалась в подворотню и покатилась по земле, болтая в воздухе старыми, желтыми своими ногами. - Ай, - кричала она, катаясь по земле, - Мендель Погром и сыны мои, байстрюки мои... Что вы сделали со мной, байстрюки мои, куда дели вы мои волосы, мое тело, где они, мои зубы, где моя молодость... Старуха визжала, срывала рубаху со своих плеч и, встав на ноги, закрутилась на одном месте, как собака, которая хочет себя укусить. Она исцарапала сыновьям лица, она целовала сыновьям лица и обрывала им щеки. - Старый вор, - ревела мадам Горобчик и скакала вокруг мужа, и крутила ему усы и дергала их, - старый вор, мой старый Мендель... Все соседи были разбужены ее ревом, и весь двор сбежался в подворотню, и голопузые дети засвистели в дудки. Молдаванка стекалась на скандал. И Беня Крик, на глазах у людей поседевший от позора, едва загнал своих новобрачных в квартиру. Он разогнал людей палкой, он оттеснил их к воротам, но Левка, младший брат, взял его за воротник и стал трясти, как грушу. - Венчик, - сказал он, - мы мучаем старика... Слеза меня точит, Венчик... - Слеза тебя точит, - ответил Венчик, и, собрав во рту слюну, он плюнул Левке ею в лицо. - О, низкий брат, - прошептал он, - подлый брат, развяжи мне ру-

ки, а не путайся у меня под ногами. И Левка развязал ему руки. Парень проспал на конюшне до рассвета и потом исчез из дому. Пыль чужих мостовых и герань в чужих окнах доставляли ему отраду. Юноша измерил дороги скорби, пропадал двое суток и, вернувшись на третьи, увидел голубую вывеску,пылавшую над домом Криков. Голубая вывеска толкнула его в сердце, бархатные скатерти сбили с ног Левкины глаза, бархатные скатерти были разостланы на столах, и множество гостей хохотало в палисаднике. Двойра в белой наколке ходила между гостям, накрахмаленные бабы блестели в траве, как эмалированные чайники и вихлявые мастеровые, уже успевшие скинуть с себя пиджаки, схватив Левку, втолкнули его в комнаты. Там сидел уже с исполосованным лицом Мендель Крик, старший из Криков, Ушер Боярский, владелец фирмы "Шедевр", горбатый закройщик Ефим и Беня Крик вертелись вокруг изуродованного папаши. - Ефим, - говорил Ушер Боярский своему закройщику, - будьте такой ласковый спуститься к нам поближе и прикиньте н мосье Крика цветной костюмчик prima, как для своего, и осмельтесь на маленькую справку на какой именно материал они рассчитывают - на английский морской двубортный, на английский сухопутный однобортный, на лодзинский демисезон или на московский плотный... - Какую робу желаете вы себе справить? - спросил тогда Венчик папашу Крика. - Сознавайтесь перед мосье Боярским. - Какое ты имеешь сердце на твоего отца, - ответил папаша Крик и вынул слезу из глаза, - такую справь ему робу. - Коль скоро папаша не флотский, прервал отца Беня, - то ему наиболее подходящее будет сухопутное. Подберите ему сначала соответственную пару на каждый день. Мосье Боярский поддался вперед и пригнул ухо. - Выразите вашу мысль, - сказал он. - Моя мысль такая, - ответил Беня, еврей, отходивший всю свою жизнь голый, и босой, и замазанный, как ссыльно-поселенец с острова Сахалина... И теперь, когда он,благодаря бога, вошел в свои пожилые годы, надо сделать конец этой бессрочной каторге, надо сделать, чтобы суббота была субботой...

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Le lingue degli “altri” 2 Questo inserto vogliamo dedicarlo alla lingua araba, sempre più diffusa nel nostro Paese in seguito dell’arrivo di un numero sempre crescente di rifugiati e non più solo (come se “solo” servisse a sminuire la gravità dell’evento) di disperati provenienti da paesi poveri in cerca di lavoro e mezzi di sostegno per le spesso intere comunità di provenienza. Rifugiati da un disastro che noi stessi occidentali, e tra questi anche proprio noi italiani, abbiamo concorso a causare nei loro Paesi di origine, in parte partecipando attivamente e responsabilmente alle follie genocide dell’imperialismo USA (come in Iraq e in Afghanistan), in parte fomentando, senza poi essere in grado di gestirne le conseguenze, illusorie rivoluzioni sedicenti democratiche, che hanno sì, in taluni casi, abbattuto regimi dittatoriali anche feroci, ma sostituito a questi regimi situazioni di caos incontrolato che sono divenute il terreno fertile delle inevitabili derive estremiste etniche o religiose, o le due cose assieme, comunque sempre sponsorizzate alla fine da interessi economici occidentali. Un Iraq devastato, un Egitto sull’orlo di un difficilissimo equilibrio che forse ha trovato oggi con l’ingresso nella Unione Economica Euro Asiatica della Russia una possibile via di stabilizzazione politica e sociale, una Siria dilianata da una guerra per bande fomentata da un perverso connubio tra imperialismo USA e della sua colonia istraeliana e un rinato fondamentalismo turco. Dentro questo “tritacarne” ancora palestinesi a sud e curdi a nord-est. Una fuga di massa verosilmente anche di persone, famiglie e interi villaggi che forse non avrebbero mai lasciato la loro terra e casa, benchè povera e arretrata, se non si fosse aggiunta la follia della guerra. Il racconto che pubblichiao di seguito, anche con i suoi aspetti tragi-comici, ce ne da uno spaccato. La versione italiana è parziale solo per limitazioni di spazio tipografico.

Il camion per Berlino

Tratto da: Hassan Blasim, «Il matto di piazza della Libertà» Questa storia si è svolta al buio. Se potessi scriverla ancora una volta, riporterei soltanto le grida di terrore e gli altri oscuri suoni che accompagnarono la carneficina. In effetti gran parte della storia andrebbe bene per un programma radiofonico sperimentale. Di certo la maggior parte dei lettori la leggerà come una mera invenzione di un autore di racconti, o forse come una modesta metafora dell’orrore. Ma io trovo che non ci sia bisogno di giurare per indurvi a credere nella stranezza di questo mondo. Ciò di cui ho bisogno è scrivere questa storia, macchia di merda su una camicia da notte. O forse una macchia a forma di fiore selvatico. Nell’estate del 2000 lavoravo in un bar nel centro di Istanbul. Il mio inglese stentato mi era d’aiuto nel lavoro, dal momento che i clienti del bar erano turisti, per lo più tedeschi che parlavano anche loro un inglese buffo. Io ero, allora, in fuga dall’inferno degli anni dell’embargo. Non per paura della fame, né del dittatore. Ero, piuttosto, in fuga da me stesso. E da altri

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mostri. In quegli anni spietati, la paura dell’ignoto era aumentata a dismisura, estirpando dagli esseri umani il senso di appartenenza alla realtà consueta, e riportando in superficie una bestialità che fino ad allora era rimasta sepolta sotto i semplici bisogni quotidiani degli uomini. In quegli anni una crudeltà abietta e animalesca, generata dalla paura di morire di fame, aveva preso il sopravvento. Io sentivo che stavo correndo il rischio di trasformarmi in un topo. Grazie a quel lavoro, avevo messo da parte dei soldi e li avevo usati per pagare i trafficanti che dall’Oriente portano bestiame umano nei campi dell’Occidente. Per essere contrabbandati c’erano vari modi, che differivano nel prezzo: si poteva viaggiare in aereo con un passaporto falso, cosa che però costava tantissimo, o camminare insieme al contrabbandiere attraverso foreste e fiumi di confine, e questo era il modo più economico; c’era la via del mare, e quella dei camion. Io avevo pensato a quest’ultima, malgrado mi preoccupasse la storia di quell’apparecchio che la polizia usa per misurare l’anidride carbonica dentro i camion e individuare così il respiro di chi si nasconde all’interno. Ma non fu quell’apparecchio a farmi desistere dall’idea del viaggio in camion, bensì la storia di Alì l’afghano e del massacro sul camion per Berlino.


L’afghano era un pozzo magico di storie di contrabbandi. Da dieci anni viveva a Istanbul da clandestino, e per vivere produceva e vendeva droga, per poi sperperare tutti i suoi risparmi in prostitute russe e mazzette alla polizia. Qualcuno si è preso gioco di me perché ho creduto alla storia del camion per Berlino. Ma io di fatto ho più d’un motivo per credere a questo genere di storie. Il mondo è, secondo me, estremamente fragile, spaventoso e disumano, e gli basta una lieve scrollata per far fuoriuscire le sue atrocità e i suoi canini primitivi. Senz’altro voi conoscete già molte simili tragiche storie riguardo all’emigrazione e ai suoi orrori, grazie ai mass media che puntano i riflettori soprattutto sugli annegamenti dei migranti. Trovo che agli occhi del pubblico questi annegamenti di massa appaiano come un’avvincente scena da film, una sorta di nuovo Titanic. I media non trasmettono mai, ad esempio, certe notizie di commedia nera, così come a voi non giungono mai le notizie su ciò che gli eserciti della democratica Europa fanno quando di notte, in una gigantesca foresta, catturano un gruppo di esseri umani terrorizzati e inzuppati di pioggia, fame e freddo. Ho visto con i miei occhi dei soldati bulgari colpire un giovane pachistano con una pala fino a fargli perdere conoscenza. Poi ci chiesero, in quel freddo da gelare le ossa, di scendere in un fiume semicongelato. Tutto questo accadde prima che ci consegnassero all’esercito turco. Alì l’afghano sostiene che erano trentacinque giovani iracheni. Giovani sognatori che avevano preso accordi con un trafficante turco per essere trasportati su un camion chiuso che esportava frutta in scatola viaggiando da Istanbul a Berlino. L’accordo era più o meno questo: ciascuno avrebbe pagato quattromila dollari per un viaggio di soli sette giorni. Il camion avrebbe viaggiato di notte, mentre di giorno avrebbe sostato in piccole città di confine. Chi-

unque avesse voluto andare di corpo, avrebbe dovuto farlo durante il giorno, mentre di notte era consentito pisciare sul camion dentro bottiglie di plastica vuote. Era vietato portare in viaggio telefoni cellulari. Tutti quanti erano tenuti a restare in silenzio e trattenere il respiro durante le soste ai valichi di frontiera o ai semafori e a far sì che non ci fossero risse, nel modo più assoluto. Ma quel che veramente preoccupava il gruppo del camion per Berlino era quella storia pubblicata qualche giorno prima dai giornali turchi riguardo a un gruppo di afghani che avevano pagato somme ingenti a un trafficante iraniano per essere trasportati in Grecia all’interno di un camion. Il camion viaggiò per un’intera notte, e prima dello spuntar del sole si fermò. Il trafficante ordinò loro di scendere in silenzio, e disse che erano giunti in una cittadina greca di confine. Gli afghani scesero stringendo le loro valigie. Provando un misto di paura e di gioia, si misero a sedere sotto un gigantesco albero. Il contrabbandiere aveva detto che si trovavano in un boschetto greco e che tutto ciò che avrebbero dovuto fare era aspettare fino al mattino e – quando la polizia greca sarebbe giunta sul posto – presentare immediatamente la richiesta d’asilo. Al mattino i giornali pubblicarono una fotografia degli afghani seduti in mezzo a un parco pubblico al centro di Istanbul. Il camion era andato per tutta la notte in giro per le strade della città, senza neppure uscire dalla periferia. E come in tutte le storie di raggiri e di truffe, il contrabbandiere e il suo camion sparirono, mentre gli afghani furono sbattuti in prigione in attesa del rimpatrio. Il gruppo del camion per Berlino, però, non aveva davanti a sé altra scelta, se non tentare l’avventura. Aver paura di quelle storie di truffe equivaleva a una paralisi, significava perdere la speranza e fare ritorno in un Paese oppresso dalla fame e dall’ingiustizia...

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I “giovani” italiani, quale futuro e dove?

(aspettative, esperienze e storie a confronto) di Giacomo Bertini Diego e Rosalba, amici e oramai ex colleghi universitari, sono i protagonisti di questa intervista. Ragazzi profondamente diversi ma accomunati da passione e forza d’animo, sono il perfetto esempio di una generazione che vive tante incertezze ma che non per questo smette di sognare.

Chi parte: Diego Diego parlaci un po’ di te Mi chiamo Diego Proietti Peparelli, ho quasi 27 anni e sono di Castel Ritaldi, un paesino di poco più di 3000 abitanti situato tra Spoleto e Foligno. Recentemente, lo scorso Aprile, ho finito la mia carriera universitaria, iniziando quella, spero breve, di disoccupato in cerca di un impiego. La mia formazione accademica è prettamente umanistica, mi sono laureato in Relazioni Internazionali, nella Facoltà di Scienze Politiche a Perugia. Quando giunse il momento di iscrivermi all’università, visto che uscivo da un liceo, credevo fosse un passaggio doveroso, non sapevo bene quale fosse la strada da intraprendere; sapevo chiaramente cosa non volevo fare, ma non mi era ancora chiaro quale poteva essere la mia strada: a distanza di 7 anni, posso dire con certezza una cosa: Sono convinto al 100% di quella che è stata la mia scelta, forse anche un po’

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casuale, d’iscrivermi a Scienze Politiche. Non posso dire di aver la certezza che riuscirò a trovare il lavoro dei miei sogni, magari no, però so che questa è la strada giusto, è quello che so, e che mi piace, fare. Dove ti trovi ora? Attualmente sono a Valencia e sto partecipando ad un programma europeo chiamato Eurodyssée. Questo programma promosso dall’Agenzia Umbria Ricerche, è riservato, per l’Italia, ai residenti dell’Umbria e della Valle d’Aosta e prevede un mese di corso di lingua (del paese ospitante, nel mio caso spagnolo) e cinque mesi di stage retribuito presso un azienda/organizzazione della regione ospitante. La Comunitad Valenciana, è l’unica regione in tutto il programma dove questi 5 mesi non vengono considerati come stage, ma come lavoro vero e proprio con tanto di contratto, ma questo io l’ho

scoperto una volta qui.. La Spagna è stata tra i Paesi più colpiti dalla crisi economica, perché questa scelta? La scelta della Spagna, onestamente è stata una scelta casuale perché non parlando affatto il Francese (Francia e Belgio hanno mediamente tra il 60 e il 70% dei progetti) dovevo giocoforza ricercare progetti nell’altro 30% che è quasi interamente rappresentato dalla Spagna, che partecipa al programma con 3 regioni (Comunidad Valenciana, Catalunya, Murcia). Ho scelto Valencia perché solo qui sono riuscito a trovare progetti in linea con la mia area di formazione. Andrò a svolgere il mio stage in un’azienda che si occupa di progettazione europea in ambito climatico. Mi risulta difficile per ora trarre conclusioni da quest’esperienza, dopotutto sono qui da solo due settimane.


Dopo un’esperienze a Nord dell’Europa, essere catapultati nel Sud Europa, quale impatto ha avuto su di te? E’ complicato tentare di paragonare questa esperienza con la mia precedente in Finlandia. Quello che è evidente, è che ora vivo in una città di circa 800 mila persone, circa 4 volte Tampere, quindi sarà tutto amplificato all’ennesima potenza. Un altro fattore insolito è che questo primo mese lo sto trascorrendo in ostello, quindi puoi immaginare come questa cosa abbia dei lati sia negativi che positivi. Appena laureato con il massimo dei voti ed un premio di laurea in mano hai deciso di partire, perché? Nel lasso di tempo tra laurea e la partenza, non hai trovato nulla nel tuo territorio e nel tuo ambito? La notizia della vittoria del premio di laurea, mi ha lasciato di stucco, onestamente non mi aspettavo questo riconoscimento e l’ho

saputo quando già ero qui ma sono fiero di questo risultato. Dopo la laurea, avevo bisogno un attimo di ricaricarmi e decidere cosa fare del mio futuro prossimo; così ho pensato che un’ulteriore esperienza all’estero potesse essermi utile. Per questa ragione, nel periodo che è intercorso tra la mia laurea e la mia partenza non ho cercato grandi opportunità ad essere sincero, perché ero speranzoso che questo progetto andasse in porto. Tuttavia nell’ultimo mese avevo iniziato a guardarmi un po’ intorno, visto che fino a metà settembre ancora non avevo ricevuto alcuna comunicazione ufficiale. Ho saputo della mia partenza solo il 23 settembre, però nonostante tutto sono molto felice di essere qui Se ne avessi l’opportunità, torneresti in Italia? Io sarei felicissimo di tornare in Italia, e quando si chiuderà quest’esperienza lo farò di sicuro. Non sono una di quelle persone che si

preclude qualcosa; so che la situazione del lavoro attuale è difficile e esiste molta competizione, quindi non possiamo permetterci di sbagliare ne di tergiversare troppo. L’Italia è il mio paese e lo adoro, sarei felicissimo di lavorarci, ma se non dovesse esserci possibilità, non avrei alcun problema a farlo altrove. Di converso non credo che una persona per stare bene debba per forza lasciare l’Italia, probabilmente le opportunità ci sono, dobbiamo probabilmente cercare, cercare, cercare, senza trascurare l’importanza della fortuna. Oggigiorno essere la persona che si trova al posto giusto al momento giusto, può essere fondamentale. Tuttavia, a conclusione di questa chiacchierata credo che uno studente debba, in maniera categorica, fare un’esperienza di studio/lavoro all’estero perché credo sia formativa sia dal punto di vista accademico- professionale sia, soprattutto, da quello umano.

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I “giovani” italiani Chi resta: Rosalba Rosalba, raccontaci di te Ho 26 anni e sono originaria della provincia di Frosinone. Sette anni fa mi sono trasferita a Perugia dove ho studiato Relazioni Internazionali. Trascorro il mio tempo libero leggendo (romanzi, saggi, riviste, quotidiani), ascoltando musica (jazz, rock, pop, musica d’autore), andando al cinema per riflettere o commuovermi, progettando viaggi e gite (e, possibilmente, facendoli), organizzando cene tra amici e cucinando per loro. Mi piace conoscere persone e ascoltare le loro storie e, quando posso, faccio del volontariato. Quali sono le ultime novità della tua vita? Ho appena vinto un concorso per il dottorato in “Politica, Politiche Pubbliche e Globalizzazione” presso l’Università degli Studi di Perugia. Questo significa che per i prossimi tre anni vivrò più o meno stabilmente in Umbria, studiando e facendo quello che più mi piace. La tua decisione di spendere il tuo talento in Italia è stata maturata dopo diverse esperienze all’estero. Me ne vuoi parlare? Di queste esperienze, cosa ti porti dietro? Più che di talento io parlerei di passione. Difatti, se sul mio talento si possono avere dei dubbi, di passio-

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ne ne ho certamente da vendere. Ho fatto alcune esperienze all’estero: l’Erasmus in Francia, un periodo di ricerca in Palestina, la scuola di inglese a Malta ed il Volontariato Europeo in Romania. Ognuna di esse, a modo proprio, ha contribuito a formare la mia personalità ed i miei interessi ma, senza alcun dubbio, quelle che si sono rivelate decisive nella determinazione dei miei obiettivi e nelle mie scelte sono l’Erasmus in Francia e il periodo di ricerche per la tesi magistrale trascorso nei Territori Palestinesi. Ho vissuto a Lione nove bellissimi mesi, frequentando alcuni corsi presso l’Université Jean Moulin, svolgendo un tirocinio presso un’ONG, studiando il francese, facendo ricerche per la tesi di laurea triennale e, soprattutto, confrontandomi con una realtà nuova e con persone provenienti da ogni angolo del mondo. Sono stati nove mesi incredibili, nei quali non sono mancate le difficoltà. Al mio arrivo ero una ventunenne impacciata che si trasferiva all’estero per la prima volta, dovendo cercare casa, sbrigare faccende burocratiche e imparare una lingua. Dopo questi nove mesi ero ancora una ventunenne impacciata che, però, aveva imparato a trasformare le difficoltà in opportunità ed era consapevole di avere “le carte in regola” per vincere ogni sfida che la

vita le avrebbe lanciato. L’esperienza palestinese è stata diversa. A distanza di qualche anno non sono ancora in grado di parlarne senza emozionarmi ed avere la sensazione di essere riduttiva ed incapace di esprimere quanto essa sia stata importante per me. Durante l’estate del 2013 mi sono recata per la prima volta in Palestina per un viaggio di conoscenza. Stavo scrivendo la mia tesi di laurea su un progetto di cooperazione decentrata cofinanziato dalla Regione Umbria e volevo conoscere il contesto in cui si stava intervenendo. I luoghi che ho visitato, le sensazioni che ho provato, le storie che ho ascoltato e la percezione di una grande volontà di cambiamento mi hanno resa dipendente da quella Terra tanto affascinante, quanto dannata. Sicché, dopo quattro mesi ero di nuovo lì, per raccogliere materiale necessario per la stesura della mia tesi, per seguire un corso di arbitrato e perché, in quel momento, era l’unico posto nel mondo in cui volessi stare. La mia “curiosità geopolitica” si era trasformata in una forte passione. Da qui la decisione di approfondire sempre di più le mie conoscenze riguardanti il contesto storico, politico e sociale palestinese e la volontà di prendere parte attiva al dibattito sull’autodeterminazione di questo popolo.


Questo bagaglio di esperienze, come si sposa con un dottorato in Italia, più precisamente con la realtà perugina? Credo che le esperienze finora vissute costituiscano una base emotiva e passionale. Un dottorato di ricerca rappresenta invece una solida base scientifica, necessaria a dare un reale contributo al dibattito a cui ho fatto riferimento poc’anzi. Ho scelto di intraprendere questo percorso in Italia perché ritengo che le nostre università, a livello di qualità della didattica, non abbiano nulla da invidiare a quelle del resto del mondo. Confesso che la scelta dell’Università di Perugia è stata prima di tutto sentimentale. Sono molto legata all’Umbria, a Perugia e alla sua Università. Esse rappresentano delle certezze che non sono ancora emotivamente pronta a lasciare. Tuttavia, al di là delle questioni affettive, sono molto interessata alle tematiche che affronterò nel corso di dottorato che sto per intraprendere, conosco e stimo profondamente

molti dei docenti che ne compongono il collegio e sono sicura che mi permetterà di acquisire gli strumenti necessari a raggiungere i miei obiettivi. Scegliere di svolgere un dottorato è una scelta universalmente conosciuta come coraggiosa, cosa immagini alla fine di questo percorso? Quella del dottorato è considerata una scelta coraggiosa perché non si può prevedere cosa accadrà alla fine di questi tre anni. L’università non è in grado di assorbire tutti i dottori di ricerca e, allo stesso tempo, i privati tendono a preferire una maggiore esperienza pratica alle competenze metodologiche che il dottorato fornisce. Da qui, il timore che svolgendo un dottorato si rischi di perdere tempo prezioso che potrebbe essere investito in attività professionalizzanti. Sicuramente alla fine di questo percorso sarò confusa e preoccupata per il futuro, forse anche meno entusiasta rispetto ad ora. Tuttavia, avrò

più competenze e sono certa che troverò il modo ed il luogo per impiegarle. L’importante è saper coniugare teoria e pratica e non perdersi d’animo. Sinceramente, non riesco ad immaginare cosa sarà di me fra tre anni, ma sono certa che ne sarà valsa la pena. Perché restare è la scelta vincente per te? Per me è la scelta vincente perché fare un dottorato è ciò che voglio e lo sto facendo presso un ottimo ateneo. In questi anni imparerò innanzitutto a pianificare degli obiettivi, a perseguire dei risultati e a comunicarli. Approfondirò le mie conoscenze e ne acquisirò molte altre e, poiché il corso prevede anche un periodo di ricerca all’estero, avrò l’opportunità di viaggiare e allargare i miei orizzonti culturali. Ripeto che non so cosa ne sarà di me fra tre anni, ma sono certa che ciò che avrò guadagnato sarà molto più di ciò a cui avrò rinunciato. Per il resto, bisognerà rimboccarsi le maniche.

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di Sara Mirti

Sogni e poesia

Nell’ambito del teatro d’autore, vale la pena raccontare di una compagnia teatrale che ha talento e coraggio da vendere: i Vuccirìa Teatro. I loro spettacoli hanno vinto numerosi premi nazionali e internazionali e narrano di omosessualità, di transessualità, di AIDS, di prostituzione, d’ignoranza, di sfruttamento, di paura, di una Sicilia periferia d’Italia e di una Roma la cui umanità pulsante riesce a sopravvivere soltanto rimanendo ai margini. Tempo fa una coppia di amici mi ha esortato, un po’ per sfida e un po’ per gioco, a cercare sul dizionario il termine “sentimentale” e a trovarne un’accezione davvero positiva...avevano ragione: non ce ne sono. A volte l’aggettivo “sentimentale” assume un’allusione romantica, languidamente buona, è vero; tuttavia esso, se vogliamo attenerci alla letteratura, viene associato anche a coloro che, dando troppa importanza ai sentimenti, non hanno senso pratico, oppure a coloro che mettono tutti i sentimenti, indistinta-

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mente, sullo stesso piano; a delle persone melliflue, false e superficiali, pure loro malgrado, capaci solo di riverberare un’emozione e poi di accantonarla una volta per tutte. Quindi non è certo un male se i personaggi portati in scena dai Vuccirìa Teatro non sono “sentimentali” quanto ci si sarebbe potuto aspettare che fossero; essi sono piuttosto attraversati da una ruvidezza tutta umana che non può non catturare lo spettatore, muoverne le corde più profonde. Sono personaggi pratici, capaci di una poesia spontanea, non ricercata, concentrati su se stessi, ma, proprio per questo, padroni di “una stanza tutta per sé” in cui accogliere dolcemente il mondo e tutti i suoi abitanti. Secondo il mito di Er l’Armeno, che Platone pone alla fine della sua “Repubblica”, sono le “anime dall’effimera sostanza corporea”, prima della nascita, a scegliersi il proprio destino e il proprio daimon protettore...c’è chi arriva prima e chi dopo, rimanendo così senza molta scelta,

ma la durata della vita terrena, il ruolo sociale, il carattere, la fortuna o la sfortuna sono comunque frutto di un’intenzionalità e di una valutazione precise, durate soltanto pochi attimi. Sorprendentemente, sono le anime che vengono dal cielo a fare le scelte peggiori, mentre quelle che risalgono dalle viscere della terra, memori delle sofferenze subite, fanno scelte più accorte. Quindi tutto ciò che siamo e saremo, secondo questo antico pensiero, deriverebbe da tale decisione. L’importante è avere consapevolezza delle nostre scelte: una volta nati non resta che vivere; è inutile, se non dannoso, tentare di cambiare se stessi. Tutto quello che ci resta da scoprire sono le emozioni legate alla nostra vita. Le emozioni vere, anche una volta esaurito il proprio potenziale, odiano i pettegolezzi, odiano cioè essere rivelate e analizzate... Le emozioni vanno soltanto attraversate e trasmesse, e i Vuccirìa in questo hanno ben pochi rivali sulla scena teatrale contemporanea.


Chi sono i “Vuccirìa Teatro”? Il termine “vuccirìa” sta lì a ricordarci che ogni parola è un contenitore lasciato socchiuso, in cui dimorano immagini vecchie e nuove dai molteplici significati: in questo caso macelleria (“bucceria”, dal francese “boucherie”) e confusione, due parole perfette per indicare semanticamente il dolore. Nell’antico mercato di Palermo ("la Bucciria grande") la folla inestricabile che si muove come un unico corpo a molte teste e che è così presa dalla gestione di se stessa da non riuscire a soffermarsi su ciò che la circonda, vaga come in preda a una fame insaziabile, mentre tonnellate di cibo di ogni sorta, poste in bella vista, sembrano attendere placidamente il proprio destino: essere smembrate, comprate, divorate, gettate, sprecate... Le persone invece d’incontrarsi si scontrano, si calpestano, si graffiano, si spezzano l’anima dietro i propri pensieri, per un attimo si sorridono magari, compiacenti, ma l’attimo dopo hanno già ripreso a spingersi lontano le une dalle altre. Mai nome si è rivelato più adatto dunque: nell’eterna lotta che l’arte ha ingaggiato contro la morte, per portare la vita a teatro, ricordarla, evocarla, ampliarne i confini, è necessario riuscire a rappresentarne tutta la confusione, la sua capacità di sopravvivere dopo ogni carneficina, attraverso gli sguardi degli altri, attraverso l’infinita staffetta di ricordi, pensieri, creazioni che ogni nuo-

va opera d’arte inaugura. Quella dei “Vuccirìa Teatro” è una storia folgorante, iniziata da pochissimi anni, ma di certo destinata a non esaurirsi nello scintillare di alcuni momenti di gloria. Due spettacoli all’attivo, due successi eclatanti, e naturalmente un nuovo spettacolo previsto per la prossima stagione; davvero non si potrebbe chiedere di più a una compagnia tanto giovane, né ai suoi altrettanto giovani, straordinari, interpreti. L’avventura degli autori, si sa, è la stessa dei cavalieri antichi: è evento, ricerca, scoperta e perenne ripetersi di nuove lotte. È stato lo spettacolo “Io, mai niente con nessuno avevo fatto”, vincitore del Roma Fringe Festival di un paio d’anni fa, a sancire la nascita del gruppo di lavoro dei Vuccìria. La disposizione dei pochi oggetti sulla scena sembra evocare un risveglio lento...sembra che nessuna delle luci accese in scena riesca a strappare un po’ di pesantezza, di buio, di corporeità a quei pochi, fondamentali, oggetti. La notte che abita i sogni degli esseri umani non è forse delineata da storie e da oggetti abbandonati? L’autore e regista, Joele Anastasi, veste anche i panni del protagonista, Giovanni Motta, giovanissimo siciliano omosessuale, (“bubbo”, se preferite) che va incontro alla vita incurante delle difficoltà, s’innamora, si ammala di AIDS, sogna “l’Italia”, difende la propria famiglia, senza smettere mai di

ballare con il corpo, durante le ore di danza, e con la mente, giorno e notte. Quando appare in scena, vestito di bianco, sembra l’anima di un antico eroe greco. Nell’Ade le “anime” dei morti erano un insieme di corpo e mente, solo erano un po’ meno di entrambi: esse vagavano impoverite, derubate di se stesse, ammalate di morte fino a dimenticarsi la vita. Il personaggio di Giovanni Motta, appena appare in scena, sembra l’anima già trapassata di se stesso: troppo leggero per restare con i piedi piantati per terra, gioca, salta, pieno d’entusiasmo, e sembra quasi non rendersi conto del disastro della sua vita, iniziata per caso o per capriccio sotto cattivi auspici. Balla, canta, gioca ancora e ancora...accettando a piene mani tutto ciò che gli capita. Nessuno però sembra vederlo e capirlo davvero, nessuno tranne, forse, la cugina Rosaria che comunque deve rincorrerne le piroette e non sempre riesce a stare al passo coi suoi pensieri. Potrebbe benissimo essere morto Giovanni Motta, vestito di bianco e sempre preda dei suoi desideri, reale soltanto nei ricordi degli altri due protagonisti che si alternano nel delinearne la storia. Il problema tuttavia non è la morte: quella comunque dovrà arrivare e non ha veri colpevoli, nemmeno quando si tratta di un virus terribile come quello dell’HIV; il problema semmai è il significato che si dà alla propria vita.

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Tutto in Giovanni sembra straboccare di significato, i personaggi del suo racconto, paesani anonimi e all’occorrenza feroci, invece, arrancano, cercano di delinearsi un’identità, di cancellare le ombre, lottano contro le apparenze senza uscirne mai davvero vincitori. La figura alta e forte di Joele Anastasi sa farsi ora piccola, tremula, incerta, dolente, ora animata da un’energia apparentemente inesauribile, per poi ritornare se stessa, attraversando ogni fase di vita del suo personaggio e rendendolo visibile sulla scena. Federica Carruba Toscano - Rosaria, spalla di Giovanni e perfetto alter ego buono di Giuseppe – Enrico Sortino, si muove quasi volando, disegnando scenari diversi col corpo e con la voce, avvolgendo il pubblico con un solo sguardo o inondandolo d’improvvise emozioni. Giovanni e Rosaria sono nati già sconfitti dalla vita, quindi non si aspettano nulla, ma desiderano tutto, e proprio per questo vivono ogni istante come una conquista, come un momento utile all’affermazione di sé. La figura più tragica è quella di Giuseppe, personaggio persosi nell’illusione di poter scegliere cosa e chi essere, figlio di troppe promesse mancate, inconsapevole persino della propria malattia, del proprio appuntamento con la morte, e incapace di abbracciare

qual si voglia destino. Ogni sigaretta che gli brucia troppo velocemente tra le labbra è un desiderio inespresso che aspetta di essere esaudito... Proprio come accade alla torta di compleanno di Salvatore – Joele Anastasi (stavolta lo spettacolo è “Battuage”), infarcita di panna, candeline, stelline luminose e mozziconi. L’amore cantato, disegnato, evocato da “Battuage” è, appunto, una promessa infranta non una, ma mille volte. L’amore di cui si traveste l’umanità in scena è un tentativo di dissimulazione, di sospensione della vita in attesa che la propria vita, quella reale, riprenda da dove si era interrotta anni prima. Si tratta insomma di una specie di brutta copia dell’amore...vera però è la ricerca, prima di tutto, di uno straccio di amor proprio. In “Battuage” la scena si arricchisce di molti elementi, mentre i costumi e le musiche sembrano vivere di vita propria. Il gocciolare di un rubinetto difettoso o di vecchie tubature scandisce il passare inesorabile del tempo: anche in questo caso il protagonista è già morto, come lo sono i suoi sogni e i sogni dei personaggi che lo circondano, ma non se ne avvede. Lui, venuto dalla Sicilia attirato dai casting televisivi che promettono successo facile nel mondo dello spet-

tacolo, si ritroverà a battere il marciapiede per vivere. La fine della sua storia è già stata decisa nell’atto stesso del suo iniziare e quindi ogni lotta risulterà vana: quando le luci della ribalta finalmente si accenderanno, lo faranno su altre vite e su altre storie, saranno lì per celebrare la sua fine. Ci sono persone che non sono nate per essere importanti, per “sfondare”, ma che sono nate per resistere; non sono l’onda, ma sono l’argine che si oppone ad ogni marea... Per cambiare questa posizione è necessario perdere completamente se stessi, rompere gli argini e lasciarsi trasportare lontano dal proprio punto di partenza. Il rischio però è di giungere all’arrivo desiderato senza più occhi per guardare, senza più una coscienza che ci permetta di tornare indietro. “Battuage” è uno spettacolo coraggioso, puntuale e profondo... L’estrema bellezza e l’estrema bruttezza sono la stessa faccia del medesimo amuleto perturbante che ci portiamo sempre dietro, tenuto discretamente in tasca o appeso al collo in modo appariscente. Le maschere, così come i ruoli di tutti i giorni, possono essere cambiate, il loro ordine di entrata in scena sovvertito...non importa: esse servono a canalizzare le identità, a mostrarne un singolo aspetto alla volta.


Le maschere servono a farci apparire più veri senza farci apparire mostruosi. Il trucco invece è come una melma appiccicosa che non si toglie più, come i colori utilizzati dai soldati in guerra: serve per mimetizzarsi, confondere, celare alla vista. Il trucco può nascondere inganni tali che non si possono né perdonare né spiegare. Simone Leonardi, tra gli attori in “Battuage”, riesce a dispiegare la differente natura del trucco e della maschera in maniera netta, efficace:

c’è una differenza crudele, palpabile, tra ciò che siamo e ciò che saremmo potuti essere se avessimo fatto una scelta diversa, più coerente o più coraggiosa. Il corpo di Simone Leonardi sa incarnare personaggi diversi e stati d’animo contrastanti, ogni volta come se fosse la prima volta, svelando un tremito improvviso di stupore; di nuovo Enrico Sortino (autore de “Sette volte un uomo. I sette peccati capitali”), Federica Carruba Toscano e Joele Anastasi, non sono

stati da meno. Il risultato è l’ennesima opera d’arte del gruppo. Il gruppo di lavoro si compone di molte persone (oltre al cast artistico c’è chi si occupa dell’aiuto e dell’assistenza alla regia, del montaggio, della fotografia...) e infatti si vede un moto corale dietro ogni gesto, dietro la scelta di ogni dettaglio. Il nostro auspicio è che la loro voce, diventi sempre più forte, assordate, al punto che si riesca a sentirla ovunque...

Info: www.vucciriateatro.com


IlstoriaTeatro sordo della Compagnia

Laboratorio Zero di Roma (parte quarta)

di Dario Pasquarella Si ringrazia Elisa Conti per la traduzione dell’elaborato di tesi da cui sono tratte le diverse parti di questo articolo. Dal 16 al 20 Novembre 2011 va in scena per la prima volta uno spettacolo con solo attrici udenti ma competenti della lingua dei segni: “Otto Donne e un mistero”, regia di Ginetta Rosato, scenotecnici: Angelo Baiocco, Luigi Rinaldi, Agostino Valentini e Eutizio Taddei. Scenografia ideata e progettata da Katiuscia Andò; musiche e rumori a cura di Elisa Conti. In questa occasione il pensiero della regista ci ha lasciati un po’ perplessi: “Ci sono state notti insonni, posso dire che siete state brave, avete superato difficoltà di memoria, di passaggi, posso dire che siete state migliori, qualche imperfezione tecnica di entrata e uscita, di posizioni, ma non importa, non c’è stato un sordo che mi avesse detto che questo spettacolo non era chiaro. Posso dirlo: siete migliori; è vero il gruppo di attrici udenti è migliore. [...] Ho visto in voi anche una tipologia di segnatura omogenea, è stato interessante valutarvi per nove mesi. Posso dire che in diversi spettacoli non ho provato un livello emotivo forte, invece con voi mi sono emozionata, per la prima volta mi sono emozionata: paura, suspense; avevo paura che il pubblico non restituisse un feedback positivo, invece guardavo tra il pubblico i sordi che erano presi da una grande attenzione tanto da bloccare qualsiasi intervento o chiacchiera altrui” (intervista a Ginetta Rosato del 22 Maggio 2013 di cui ho conservato il documento filmato). Nel 2012 Laboratorio Zero vede pas-

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sare il testimone da Ginetta Rosato a me, Dario Pasquarella. Facendo un salto nel passato, nel 2009 la regista Ginetta propose in commissione il mio nome come candidato idoneo per la presidenza dell’associazione ma gli impegni universitari e lavorativi mi ostacolarono nell’accettare tale proposta. Poi nel 2012 con molta emozione e molto coraggio partecipai all’assemblea candidandomi per poi ottenere il ruolo di Presidente. Ricordo molto bene la data del 13 aprile 2012, quando formalmente ci fu la presentazione e il passaggio automatico alle nostre tre candidature (non vi erano infatti altri candidati): Dario Pasquarella: Presidente; Gabriella Alesi: Vicepresidente; Massimiliano Cascitti: Consigliere. La continua collaborazione con Ginetta era la clausola presente nel nostro patto, e fin qui ci ha sempre sostenuto. Nel 2012 sono diventato anche direttore artistico della Compagnia. La mia prima incertezza era il mancato sostegno economico che in qualche modo mi spaventava. I miei due colleghi, vicepresidente e consigliere, avevano già un lavoro fisso e una stabilità dal punto di vista economico che a differenza di me, libero professionista, mi muovevo di corso in corso come docente diffondendo la mia passione per il movimento del corpo e la cura dell’espressione teatrale. Infatti questa passione per il teatro sordo ha sempre caratterizzato fin da piccolo il mio percorso di vita. Diventare direttore artistico è stato un momento particolare in cui mi sono aperto a nuove prospettive e a cambiamenti artistici che pian piano sto ancora portando avanti. Il mio obiettivo è

ben diverso da quello di Ginetta, abbiamo prospettive differenti. Ho iniziato subito a valutare, anche con un po’ di rabbia, la mancata cura di un archivio teatrale, la mancata raccolta di tutto quel materiale che potesse essere fonte di ricerca e di studio. Io invece volevo e voglio ancora creare uno spazio dove il linguaggio teatrale possa essere assaporato, toccato con mano, dove può e deve essere oggetto di studio e di approfondimenti. Il mio primo passaggio è stato allora quello di distogliere l’attenzione dalle scenografie, e puntare sull’attore, sull’esercitazione, sulla sua crescita. Serviva un supporto video per selezionare e rendere vivo un archivio in grado di raccogliere la canzone in LIS, la poesia e la filastrocca in LIS, le barzellette in LIS, tutti generi che non erano stati ricercate e analizzati a sufficienza, per concedere finalmente un diritto d’autore e una veridicità di contenuti e contrastare l’anonimato. Il mio percorso si è basato su tre livelli che hanno determinato da subito una netta differenza tra la mia gestione e quella di Ginetta. Tanto per cominciare, non so per quale motivo Ginetta non abbia mai pensato di creare ed estendere un corso di recitazione: era questo il mio primo passo da fare. L’arte del corpo, il training, i corsi di teatro, gli stage cinematografici, i workshop: sono questi i passaggi fondamentali, i momenti di alta integrazione tra sordi e udenti. Queste attività, questi nuovi corsi, infatti, possono permettere la crescita di quei giovani sordi che possono e devono essere la ricchezza, la linfa vitale capace di condurre tutti i miei elaborati a una nuova prospettiva di ricerca.


“Otto donne ed un mistero”, giallo di Robert Thomas, 2011. Una considerazione negativa, di grande perdita, è stata quella di pensare che in tutto questo tempo Ginetta avrebbe potuto curare un archivio legato al teatro e a determinati periodi storici, ma purtroppo ciò non è stato possibile, forse per mancanza di stimoli o di mezzi, ma sta di fatto che io ho scelto di prendere questo cammino e di cercare di focalizzarmi su questo, analizzando così i vari istituti conosciuti da lei o da altri, i periodi di guerra, le varie esperienze in istituto e nelle sezioni separate maschili e femminili, le vicende che potevano essere testimonianze dal passato al presente, ricchezze esperienziali, momenti storici vissuti, tutto ciò insomma che poteva essere fonte di approfondimento e di contenuti per creare e produrre spettacoli teatrali e materiali cinematografici, culturali, umani, di vita vera. Dopo l’avvio delle nostre cariche, il passo successivo era dare una nuova immagine al Laboratorio Zero, un nuovo sito che doveva dare un’immagine alla nostra compagnia, per questo chiamammo Gabriele Serpi, un bravo web designer sordo, a collaborare

a questa creazione. Fu un piccolo passaggio storico: la nostra compagnia sorda ha sempre premiato l’identità sorda e la collaborazione di sordi competenti in vari campi. Tale passaggio avvenne grazie al nostro contributo: versammo tre quote per poter acquistare la pagina web da siti americani. Approfittai del periodo estivo per concentrarmi sui contenuti del sito, occupandomi di come strutturare la pagina e del risultato finale. Nel mese di Settembre noi tre e Ginetta ci incontrammo per decidere quale spettacolo mettere in scena, e Ginetta portò un copione: “Extremitie”, “Oltre il limite”, di William Mastrosimone. Poi prese il via il casting e si presentarono molti aspiranti attori, infatti la via telematica e la possibilità di accessibilità ai nuovi social network avevano contribuito alla diffusione della notizia. Il casting veniva formulato per la prima volta con delle regole basilari precise: questo passaggio a un livello formale e competente è avvenuto grazie ai miei studi universitari. Tutto ciò è stato fatto per rendere possibile fin da subito, al momento

dei casting, un archivio di filmati e registrazioni; mentre fino a quel momento i casting venivano svolti in forma colloquiale senza dare importanza ai video, il mio obiettivo era piuttosto rendere visibile il livello emozionale e darne testimonianza. Ognuno di noi aveva un compito ben preciso, io e Ginetta eravamo lì che facevamo le domande, Gabriella Alesi era nel back-stage, Massimiliano Cascitti si occupava dell’accoglienza dei partecipati, ai quali veniva dato un numero progressivo con il logo dell’associazione. Le mie domande erano state preparate già in precedenza. Chiedevamo alcuni momenti d’improvvisazione, e tutto veniva registrato per poter avere una testimonianza e un modello per gli eventuali nuovi provini; vi erano diciassette partecipanti di cui sedici sordi e uno udente. Tornando a casa riflettei molto sui partecipanti in particolar modo sull’unico partecipante udente: eppure i corsisti che imparano la lingua dei segni erano e sono tantissimi, quindi pensavo che se ne presentassero molti, invece si è presentata una sola ragazza udente;

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“Un tram che si chiama desiderio”, 2014 forse la paura prevale sul coraggio, eppure ho sempre pensato che il teatro sia un ottimo momento d’integrazione. Terminato il casting e scelti gli attori, iniziammo a distribuire il copione, ma ci fu un problema proprio il giorno dopo: data la pesantezza e la complessità del copione, le scene erano particolarmente ardue, e noi ci trovammo di fronte ad un primo ostacolo. Ci riunimmo, e dopo aver valutato “L’ospite inattesso”, “The unexpectet guest” di Agatha Christie e “Tredici a tavola” di Marc Gilbert Sauvajon, scegliemmo “Tredici a Tavola”, molto più divertente ed ironico, dopo una prima riflessione su gli attori selezionati, abbiamo dovuto capire attraverso la loro competenza del segnato la loro presenza scenica e l’ipotetico ruolo da assegnare. Una volta andati via gli attori, rimanemmo io, Ginetta e Gabriella per riflettere sulla consegna dei ruoli, questo fu momento delicato e molto pesante e ci furono discussioni animate. Infine, dopo un’attenta osservazione, comunicammo il giorno dopo tramite mail a ciascuno il proprio ruolo. Il nuovo spettacolo dunque era “Tredici a Tavola”, una commedia in tre atti di Marc Gilbert

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Sauvajon. Attrice Protagonista: Grace Giacubbo. Nuovi attori: Emanuele Bianca, Susanna Ricci Bitti, Lorenzo Laudo,Serena Rosaria Conte, Roberto Pugliese, Angelo Mastrolonardo e Luigi De Negri. In data giovedì 1 Novembre 2012, ci fu l’autorizzazione alla SIAE con il rischio di sospensione generale per mancata autorizzazione, fortunatamente ciò non accadde. Imparammo da ciò che la scelta del copione e il passaggio alla SIAE dovevano avvenire per primi, poi, una volta ottenuto il permesso, si poteva dare il via alla selezione. Avendo già un copione, al momento del casting gli attori potevano essere consapevoli del tipo di testo scelto e potevano partecipare o meno. La drammaturgia originale ha il vantaggio di poter avviare casting ed evitare tempi di attesa e forme burocratiche fin dall’inizio, senza dover chiedere autorizzazioni. In prossimità dello spettacolo aumentavano gli incontri per le prove teatrali, ma il gruppo non è mai stato completamente presente, c’è sempre stato un assente o più. La locandina è stata ideata e illustrata da Luisella Zuccotti, disegnatrice sorda, mentre per quanto riguarda la grafica della locandina

il merito va a Matteo Guazzone, ragazzo sordo, competente nell’arte grafica e di assemblaggio dell’immagine, con la mia supervisione in qualità di direttore artistico. Successivamente ci fu una riunione con il presidente, il vice presidente e il consigliere, per stabilire i compiti e i ruoli per ognuno. Le prenotazioni e la questione dei biglietti furono responsabilità di Massimiliano Cascitti. Nel mese di Febbraio mi dedicai alla divulgazione, alla pubblicità dello spettacolo tramite i più noti social network, un passa parola ovvero in questo caso un passa segno. Prenotai il teatro per quattro giorni, tre di spettacolo ed uno per le prove e l’assemblaggio della scenografia, ma anche in ciò ebbi delle riprese da parte di Ginetta, così aggiunsi un ulteriore giorno. Va premesso che questo spettacolo non ebbe nessun tipo di finanziamento, chiesi alle varie associazioni e ai vari enti, ma da parte loro non arrivò alcuna collaborazione o fondo. Organizzai questo spettacolo a mie e a nostre spese. Nel frattempo io e Ginetta ci occupavamo dei costumi dei personaggi, ognuno in base ad una ricerca particolareggiata, affine al personaggio.


Ci furono momenti abbastanza tesi nei quali io e Ginetta non condividevamo gli stessi gusti su scelte di vestiario e di oggetti scenici. Un particolare curioso fu quando con Ginetta decidemmo di scegliere i costumi di scena. Il Laboratorio Zero ha tantissimi vestiti di scena comprati nel tempo e confezionati da vere sarte. Il problema fu quando ci fu l’appuntamento con gli attori, le prove furono particolarmente bizzarre: dai vestiti originali dovemmo apportare modifiche tagli e addirittura delle aggiunte di stoffa. Per arrivare ad un armistizio di pace dovetti comprare abiti nuovi, alcuni dei quali non andarono bene neanche dopo averli indossati e già acquistati, costringendomi acomprarne degl’altri, spendendo molte nostre finanze. Il lavoro per la scenografia iniziò nel mese di Marzo, durò dieci giorni, un tempo record. Scenotecnici: Agostino Valentini, Luigi Rinaldi e Luigi De Negri... Per quanto riguarda il mio ruolo di docente di teatro e di esperto di training, posso dire che il momento della formazione e crescita degli attori avvenne quasi in prossimità dello spettacolo; tale esercitazione doveva essere svolta in primis, ma per i miei impegni di Presidente dell’associazione, l’elaborato fu spostato a prove quasi concluse. Passando dalla sale dell’ ENS al Laboratorio Zero gli attori ebbero un forte impatto con la scenografia, vale a dire che trovarono difficile mettersi in relazione con essa. Le scenografie e gli strumenti scenici posizionati erano parte fondamentale per delineare i ruoli e le relative dinamiche tra il gruppo. Immaginate dei sottili fili invisibili: gli attori devono a questo punto tessere delle trame tra lo spazio e gli oggetti chiave e cercare di conseguenza con i restanti attori di collegare al proprio ruolo e al personaggio una dinamicità e un profilo emozionale. Gli attori immersi in questo nuovo momento furono emozionati, le loro prestazioni ebbero tempi molto più lunghi, per una nuova memoria, per riordinare lo stesso movimento e le battute prodotte precedentemente in uno spazio vuoto ed ora immerso totalmente in una scena reale con mobilio e soprattutto con porte da dove entrare e uscire. Infine ci occupammo degli ultimi

servizi di organizzazione e del noleggio per il trasporto; quest’ultimo fu fondamentale per il trasporto della scenografia, ribadisco, costruita, trainata e trasportata da noi. Giunti alla prima gli attori erano emozionati ed io con loro, nel momento dell’apertura del sipario abbiamo raggiunto però una certa serenità, per poi arrivare agli applausi finali con molta emozione e fatica. Ho sempre pensato dall’esterno che mettere in scena uno spettacolo, dedicarsi al teatro e alle questioni burocratiche fosse un lavoro fattibile, ma per la prima volta, avendo il ruolo di direttore artistico, ho capito che tutto ciò non è facile. Ricordo esattamente di quando dieci anni fa feci il mio ingresso a Laboratorio Zero: vedevo Ginetta muoversi ed organizzarsi, immaginavo che un giorno futuro anch’io avrei realizzato un mio spettacolo con una mia organizzazione... Al termine dello spettacolo gli attori erano contenti, ma pian piano che si avvicinava la pomeridiana, l’ultima messa in scena, gli attori erano un po’ demoralizzati. Erano tristi per la fine di questo viaggio insieme, di questo nuovo esplorare il teatro. A spettacolo concluso, nei camerini, dopo un brindisi con gli

attori e i membri della compagnia, regalai una locandina a ciascuno e condividemmo a turno le nostre emozioni. Ognuno ha voluto esprimere i propri sentimenti e il proprio bagaglio emozionale. Ci sono stati ringraziamenti per la regista, per il direttore artistico; il segno “grazie” è stato il protagonista della serata per poter ringraziare il gruppo di essere stato lì per la prima volta, su di un palco, con l’emozione che faceva tremare le mani, con l’imbarazzo per essere di fronte a un vasto gruppo di spettatori: centinaia di occhi che erano lì per ogni singolo attore. Questo momento per me è stato davvero importante. La condivisione in partenza, le aspettative, lo spettacolo ed infine le emozioni che pian piano prendono forma, questi passaggi sono stati fondamentali per esprimere e tirar fuori i sentimenti, è stato come un tirar a sé una fune, quella delle emozioni. Le mie ricerche per trovare collaboratori, tecnici, illustratori, web-designer ecc. sono mirate a donare un livello di autostima e di grande partecipazione all’interno della compagnia. Penso che ognuno di noi abbia dei talenti e che ricevere un meritato livello di autostima sia gratificante e costruttivo.

Teatrografia “Routine”, drammaturgia originale di Dario Pasquarella e Sara Mirti 2015 “Un tram che si chiama desiderio”, dramma di Tennessee Williams, 2014 “Oltre gli Occhi”, drammaturgia originale di Dario Pasquarella e Silvia Liberati, 2014. “Tredici a Tavola” 2013 commedia di Marc-Gilbert Sauvajon. “Otto donne ed un mistero” 2011 giallo di Robert Thomas. “Rumori fuori scena” 2009 commedia di Michael Fruan. La Casa di Bernarda Alba 2007 dramma di Federico Garcia Lorca. “Trappola per topi” 2005 giallo di Agatha Christie. “Il Cilindro” 2002 commedia di Eduardo De Filippo. “Il Servizio Completo” 1999 commedia di Dereh Benfield. “La Dama di Chèz Maxim” 1997 commedia di Georges Feydeau. “Centocinquanta, la gallina canta” e “Il Ciambellone” 1996 commedia di Achille Campanile. “L’Hotel del Libero Scambio” 1993 commedia di Georges Feydeau. Carmen 1990 commedia di Georges Bizet. “C’era una volta, Rugantino...” 1987 commedia Marco Nica. “La Gatta Cenerentola” 1984 favola di Roberto De Simone. “La Casa di Bernarda Alba” 1977 commedia di Federico Garcia Lorca

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Medusa

o della bellezza insultata di Dario Pasquarella

Il disegno qui di fianco, come in un taccuino di appunti, tutti i miei pensieri. Nel 2003 mi sono trasferito a Roma ed ho iniziato ad osservare il mondo intorno a me. Vivevo con la mia famiglia in un paese in provincia di Benevento e indossavo pensieri, parole ed emozioni come abiti di due taglie inferiori alla mia. Giunto a Roma ho iniziato a riflettere con maggiore serenità su me stesso e sugli altri e questo disegno è l’immagine delle mie riflessioni nel momento della mia vita, in cui ho subito i maggiori cambiamenti.

La Mente Medusa Il bambino è raffigurato con i capelli simili a quelli della Medusa. I capelli di Medusa, immagine mitica, nel mio disegno non hanno serpenti che sputano Veleno; si tratta infatti di un essere di mia invenzione i cui serpenti si avvinghiano alle cose succhiando da esse le informazioni che influenzano e dirigono la vita del bambino. Alle sue estremità ci sono, da un lato, TV, cellulari, videogiochi e libri, in quanto oggetti rappresentativi del mondo materiale e, dall’altro, la famiglia, gli amici, la lingua utilizzata per comunicare, la scuola e l’identità corporea desiderata, rappresentativi del mondo emozionale che, ugualmente, influenza il bambino. Attraverso tutte le influenze che il bambino subirà nel passaggio da infante ad adulto, il suo cuore corre il

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rischio di mutare colore: da rosso potrebbe diventare nero. I due colori sono simbolici: da una parte c’è il rosso che denota la passione, la naturalezza delle emozioni e delle sensazioni proprie del bambino, dall’altra c’è il nero che rappresenta il cambiamento distruttivo indotto dalle idee e dalle costrizioni altrui. Il cuore del mio disegno conserva solo una piccola porzione di rosso, cioè la capacità critica e di resistenza all’invasione esterna. Queste continue, ossessionanti influenze provocano una crisi all’interno di ognuno di noi, che, soprattutto in un bambino non ancora formato né strutturato, indebolisce e mina la solidità delle proprie scelte e la propria creatività, riducendoci, a volte, come automi telecomandati e obbligati a desiderare qualcosa che, se non ci fosse stato imposto con messaggi subliminali, come un vero e proprio lavaggio del cervello,

non avremmo mai scelto. Il corpo è sfruttato e mortificato. Il corpo, con il passare del tempo, ha assunto significati e aspetti diversi: da semplice involucro, contenente la nostra anima, a strumento sessuale; e, pian piano è diventato l’esteriorizzazione della nostra personalità. Ma se nel 1968 il corpo, agghindato con vestiti, collane e tatuaggi, urlava al mondo il proprio dissenso, ora tace, allontanato dal naturale contatto con i propri istinti, si è assopito alle regole di mercato, è diventato un catalogo di moda, testimonianza triste del processo di individualizzazione della nostra società. Modificato mille volte (naso, seno, zigomi...) e mille altre volte ancora (rughe, depilazioni definitive...), esso assolve alla funzione di adeguamento ansioso, assecondando così la perdita di un’identità unica e irripetibile.



Il corpo che si mette alla ricerca di continuo piacere, seguendo ciecamente tutti gli stimoli proposti dalla società esterna difficilmente riuscirà a uscirne soddisfatto...la soddisfazione lascia qualcosa al corpo che la prova, il piacere invece lo svuota anche delle energie che gli sono proprie. Il corpo può cercare piacere in due modi diversi: attraverso oggetti esterni ad esso (legati alla moda, ai consumi...), oppure attraverso la modifica diretta dei suoi limiti, della sua forma, dei suoi confini. In entrambi i casi questa continua, spasmodica ricerca di false soddisfazioni, rischia di portare qualsiasi corpo alla rovina. Per alcuni il corpo è simbolo e, in maniera spiacevole, di necessità di omologazione: esiste solo se somiglia a tutti gli altri, e per conformarsi si ammala o, per esempio, perde la propria spinta alla sessualità. Quello che voglio dire è che in una società caratterizzata dalla confusione e dalla perdita del Sé, anche il sesso, che veniva vissuto in modo naturale, come bisogno istintivo o appagamento d’amore, ora è un problema di prestazione, sempre più complicato dall’ansia e dalla chimica.

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In una società consumistica è facile perdere l’autocontrollo, persino quando si va in farmacia: ormai si prendono medicine per tutto, dall’ansia all’insonnia, al sovrappeso... Il mondo in cui viviamo ci costringe a seguire orari pressanti, ad essere sempre“operativi”, quindi ci costringe ad essere dipendenti da rimedi chimici, veloci, che ci permettano di mantenere le nostre routine, senza che nessun malessere possa intaccarle. Se invece di costringere il nostro corpo, i nostri muscoli, i nostri pensieri in ruoli dati, ci fermassimo un attimo e dessimo libero sfogo anche alle nostre malattie, dandoci il giusto tempo per guarire, allora forse potremmo conservare le nostre energie, invece di spenderle tutte dandoci forme che non abbiamo, cercando piacere e finendo per consumare troppo in fretta la nostra vita.

La bellezza rovinata Lasciamo che la società ci manipoli, come se noi fossimo d’argilla e lei fosse una sorta di “dio vasaio”, dimenticando la natura umana che ci accomuna pur nella nostra diversità. La ricerca della falsa bellezza spin-

ge ad essere tutti uguali e a rifiutare le differenze invece che a farne tesoro. Ricordate cos’è accaduto quando gli europei hanno scoperto le Americhe? Che ne è stato dei nativi? Mentre per motivi di sfruttamento economico se ne distruggevano anche i corpi, la loro “diversità” è stata stigmatizzata e utilizzata come scusa per distruggerne la cultura. Dobbiamo distinguere tra la presunta bellezza, intesa come oggetto del desiderio collettivo, e la bellezza vera e propria intesa come parte integrante di ogni soggetto, di ogni essere umano in quanto tale. La bellezza rischia di diventare un lavoro a se stante, mentre alla presunta bruttezza vengono assegnati i lavori più umilianti. Le persone inferiori o cattive non possono che essere brutte nell’immaginario collettivo: come è accaduto agli schiavi africani, deportati nel Nuovo Mondo, ci vogliono far credere che la “cattiva sorte” viene “naturalmente” attratta dalla bruttezza. Guai allora ad essere brutti: diventeremmo deboli, fragili, esposti ad ogni ingiustizia, senza difese...ma almeno resteremmo noi stessi. Se ci omologassimo fino in fondo, cosa resterebbe della nostra identità?


Non si può apporre dall’esterno la bellezza, si può solo esaltare quella che già c’è all’interno di ognuno. Perché medicalizzare ad ogni costo i corpi, per esempio i corpi dei sordi? Per restituirgli una bellezza che si crede sia andata perduta? Ma non vedete che la bellezza si trova nel profondo di ognuno e che va nutrita, non soffocata con mille oggetti e mille falsificazioni? La bellezza però, per essere riconosciuta deve per prima cosa poter essere narrata, descritta, memorizzata nei suoi contenuti... Per parlare di bellezza l’unica lingua adatta è la propria lingua madre, o la propria lingua naturale...una lingua vocale per gli udenti, visiva per i sordi. Ma cosa succede si vuole narrare la bellezza, o presunta tale, attraverso una lingua che non ci appartiene? Si rischia, ovviamente, si rimanere in superficie, senza mai emozionare davvero. Facciamo l’esempio di uno spettacolo fatto per i sordi e non dai sordi: esso includerà necessariamente un punto di vista udente, e non riuscirà a trasmettere altro che un’immagine sbiadita della bellezza che si sarebbe invece voluto evocare. La LIS potrebbe risultare impoverita, senza ritmo, quasi soffocata nel proprio esprimersi, ma gli spettatori che non conoscono la vera LIS e che guarderanno lo spettacolo per la prima volta non se ne avvedranno, credendo che la vera LIS sia quel poco rappresentato, mentre gli spettatori sordi che o udenti che conoscono la LIS potrebbero non riuscire a fruire della LIS utilizzata. Quindi con una LIS usata per (falsa) bellezza si rischia di non far arrivare il messaggio e di dare un’immagine scorretta della lingua dei segni italiana. È bene tenere presente che quando si parla di spettacoli sordi si sta parlando di spettacoli veri e non soltanto di “spettacoli sociali”. Di uno stesso termine la LIS possiede diverse sfumature, diversi segni...ma troppo spesso si tende, per comodità, a utilizzare soltanto la forma più diffusa...il risultato sarà un testo visivo piatto, senza emozioni, mentre la parte parlata resterà ricca, sfaccettata, piena di significato. Facciamo un altro esempio: tempo fa mi è capitato di vedere un breve filmato: un uomo appoggiato su una macchina lussuosa cerca di ot-

tenere un appuntamento da una donna di passaggio; la donna dapprima accetta, lusingata, ma poi, quando da dietro l’auto esce l’uomo si scopre che la macchina non è la sua: egli infatti ha una bicicletta e offre alla donna un passaggio su quella...la donna, a questo punto, rifiuta. Si tratta di un esempio perfetto di come gli “oggetti di falsa bellezza” possano trarre in inganno: essi trattengono i sentimenti umani alla superficie, lasciando un vuoto in profondità, difficile da colmare. La bellezza non si sceglie a tavolino, non si forgia, essa esiste già. Bisogna solo lasciarla libera di essere.

Conclusione In quanto sordo, abituato quindi a vivere di immagini, vorrei concludere lasciandovene una a me cara: “il corpo spazzatura”! Marchio, simbolo di un’identità costruita con

il tempo e l’attenzione verso se stessi, si moltiplica. Sul nostro corpo non vi è più solo la nostra impronta, frutto di una selezione accurata di stimoli esterni, ma le ferite imposte da tutto ciò che ci circonda, testimonianze indelebili del volere altrui. Noi possiamo scegliere, ma solo tra quello che ci viene imposto. Il corpo si deprime, invecchia insoddisfatto e diventa spazzatura. Se si accetta qualsiasi cosa proposta dalla società, se non si riesce a leggere il proprio malessere, se non ci si rende cura di se stessi e della propria identità, si può finire per distruggere le proprie peculiarità, la propria umanità e per trasformarsi in spazzatura. Possiamo dunque scegliere tra due cuori: quello rosso, il cuore naturale di ogni essere umano, non inquinato dai falsi miti del progresso sociale, e quello nero, oggettivato, quasi meccanizzato, un cuore che di umano non mantiene più nulla...voi quale scegliereste?

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Venga a prendere il caffè da me

Isabel Allende in Afrotida (1997) scrive: “Dove finisce l’olfatto e inizia il gusto? I due sensi sono inseparabili. La tentazione del caffè non nasce dal suo sapore, che lascia una traccia di fumo e brace nel ricordo, ma dalla intensa e misteriosa fragranza da bosco millenario”. E’ afrodisiaco ciò che, gustandolo, stimola il desiderio di fare all’amore: “Metto in bocca un frutto maturo di caffè e ne rompo la buccia assaporandone la mucillaggine dolciastra. Bisogna lavorare un po' con la lingua prima di arrivare a sentire quello che da principio sembra essere il seme. Invece, capisco che si tratta del duro rivestimento di "pergamino" che protegge i chicchi. Come le nocciole, i chicchi di caffè crescono a coppie, l'uno attaccato all'altro. Sputato via il pergamino mi ritrovo infine in bocca i due chicchi ricoperti da una pellicola argentea trasparente simile a carta velina". Il piacere è il loro comun denominatore. Sapori, odori, la consistenza del cibo che incontra la funzione tattile e gustativa della lingua hanno molto in comune con le sensazioni che si provano quando si incontrano due corpi che provano attrazione. Ciò che chimicamente rende il caffè un potenziale afrodisiaco è la sostanza nota a tutti come caffeina: accelera il battito cardiaco, costringe alcuni vasi sanguigni e facilita la contrazione di alcuni muscoli. Il caffè preparato con amore e servito a letto è un gesto davvero romantico.

Infedele per vocazione... di Catia Marani

...e non per mancanza di amore. Secondo Emanuele, paradossalmente, il tradimento è parte dell’amore. In un sondaggio sull’infedeltà coniugale maschile è risultato che dal 9° al 25° anno di matrimonio il tradimento si fa “seriale”, infatti diventa una routine per il 49% degli uomini. Mi sono documentata ed ho scoperto, però, che fra i mammiferi, il più fedifrago non è l’uomo. Il record spetta al leone: osservato con due leonesse è capace di accoppiarsi, nell’arco di 48 ore, 157 volte, ognuna della durata di 30 secondi, a intervalli di 20 minuti. Emanuele è convinto che tradire la propria compagna aiuta a riaccendere, in un rapporto stanco, la passione. Una sorta di terapia, dove per l’uomo l’antitodo alla noia della vita di coppia è “l’altra”. Perchè il fedifrago contento di come gli vanno le cose, per paura di venire scoperto non trascura neppure la moglie, rinsaldando il legame e riaccendendo quella passione che l’abitudine aveva ormai sopito. Il rovescio della medaglia, mi ha confessato, è che la voglia di conquistare può trasformarsi in una dipendenza. C - Ami la tua compagna, non hai mai pensato di lasciarla, ma non hai saputo desistere dal tradirla. Cosa spinge un uomo innamorato a diventare un traditore seriale? E - Io e Lori fra fidanzamento e matrimonio eravamo insieme da venticinque anni, sentivo di avere bisogno di nuovi stimoli. Eppure, allora come oggi, non riuscivo ad

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immaginare la mia vita senza di lei, e non solo perché è la madre dei miei due figli. Ma, al tempo stesso, la routine di tutti i giorni aveva affievolito il desiderio sessuale. Sempre più di rado facevamo l’amore, il sesso mi mancava, ma lei era stanca e sempre indaffarata Non me ne ero accorto fin quando, con un collega di lavoro siamo entrati in un bar per prendere un caffè ed è avvenuto l’incontrato con S., una sua lontana cugina. Ci ha presentati e, sorseggiando il caffè, ho immaginato da certi sguardi di non esserle indifferente. La curiosità di capire quanto a cinquant’anni potevo ancora piacere, e la voglia di provare nuove emozioni, mi hanno spinto a corteggiarla. Il resto è successo perché non ho avuto il coraggio di tirarmi indietro. E’ stata lei a prendere l’iniziativa. C - Accidenti! Non si può dire che il tuo Ego non fosse appagato! Ma il pensiero che S. lo potesse scoprire mettendo a repentaglio la serenità famigliare, cui hai detto di tenere tanto, non ti ha trattenuto dall’accettare qualsiasi provocazione? E - Ho avuto una paura terribile di venire scoperto quando ci siamo visti al primo appuntamento. Paura anche di rimanere deluso da quell’incontro o di deludere... comunque siamo stati in un piccolo albergo fuori mano e in quel miscuglio di emozioni, mi sono sentito... sì insomma non ho dato proprio il meglio di me.


telefonata inaspettata anche solo per prendere insieme un caffè), era sufficiente per alimentare una relazione extraconiugale. Poi tornavano a casa dai loro mariti distratti per i figli, per ragioni economiche, per abitudine. C - Sei mai stato geloso di tua moglie? Potrebbe cedere a q ualcuno che la faccia sentire desiderata. E- Assolutamente no, mia moglie è una donna che non cederebbe a nessuna tentazione, ed io sono molto attento nei suoi confronti: le faccio regali, appena posso, ora che i figli sono grandi, organizzo piccole vacanze per noi due soli, e l’aiuto anche in casa. Lei è molto riservata, non esce mai per partecipare a cene con colleghe, o con amiche single o separate. Le amicizie comuni, sono quelle che frequentiamo da tanti anni, sono coppie tranquille. Andiamo una o due volte a settimana a cena insieme, le donne si mettono a parlare da una parte del tavolo e noi uomini dall’altra. C - E di cosa parlate voi uomini? E - Molto di politica. Le donne invece di abiti, ma soprattutto si lamentano di noi mariti.

Però se davanti hai una donna che sa comprendere il tuo imbarazzo e le preoccupazioni... le situazioni si possono ribaltare. Ho un bellissimo ricordo di quel pomeriggio. Anche lei era sposata e sentiva come me il bisogno di provare l’emozione di sentire “le farfalle nello stomaco”, e come me non aveva nessuna intenzione di mettere a rischio il matrimonio e la serenità famigliare. La nostra relazione è stata breve. Ad un certo punto abbiamo detto basta per il timore di venire scoperti. C - E poi? Le altre, perché e come le hai incontrate? E - Le altre..., oddio, non esageriamo! Non sono stato mica chissà quale Don Giovanni! Dopo si sono succedute altre due storielle, sempre con donne sposate. Le donne sposate non minacciano di farsi trovare davanti alla porta di casa per presentarsi alla moglie dicendo:- “Salve, sono l’amante di tuo marito, ci amiamo, perché non ti fai da parte?”. Meglio non rischiare. E poi con una donna sposata potevo raccontare le mie preoccupazioni di lavoro o famigliari. Avevo qualcuno con cui condividere non solo una storia di sesso. perchè parlare, ridere, è importante quanto andare a letto. C - Ora mi viene in mente una citazione di Oscar Wilde, ”la felicità dell’uomo coniugato…dipende dalle donne che non ha sposato”. Sembra calzare a pennello su di te. Hai avuto la “fortuna” di trascorrere bei momenti grazie alla frequentazione di altre donne che non esigevano nessun coinvolgimento sentimentale. E - Non è proprio così. Non chiedevano nulla di più di qualche ora da passare insieme ogni tanto ma non solo per fare sesso. Apprezzavano piccole attenzioni, che il partner non aveva più (un cioccolatino, un fiore, una carezza o una

C - Andare alla ricerca di un’altra donna per sfuggire alla noia può diventare una necessità? E - Può diventare un vizio. Mi piaceva corteggiare le donne per le quali provavo attrazione fisica. Le emozioni che si provano durante il corteggiamento, per arrivare alla conquista, sono forti e possono dare dipendenza. All’inizio di ogni relazione davo sempre il meglio di me e di conseguenza ero desiderato ed apprezzato in qualsiasi cosa facessi e dicessi. Questo mi faceva sentire euforico e più sicuro. Il mio carattere era migliorato anche in famiglia. C - E... quando hai deciso di “smettere”? E - Quando ho visto mia moglie piangere. Ho capito quanto fosse grande la paura che aveva di perdermi. Quanto fossi importante per lei e i nostri figli. Quanto fosse grande l’amore che provava per me… e quanto ero stato scemo ogni volta che avevo messo a rischio separazione il nostro matrimonio, frequentando le altre. C - Non dirmi che sei stato scoperto. Eri così accorto. E - No. Un giorno mi sono svegliato in un letto di ospedale e la prima cosa che i miei occhi hanno visto era il suo viso bagnato di lacrime. Avevo avuto un grosso infarto. Lei mi aveva salvato la vita chiamando prontamente la Croce Rossa. Sono stato operato e per tre giorni non mi ha mai lasciato. Nonostante fosse molto stanca, nonostante anche i figli avessero bisogno di lei. Nonostante, anche se ne era allo scuro, i miei tradimenti. C - Se fossi stato scoperto, tua moglie ti avrebbe perdonato? N - Io penso di si. E’ una gran donna…è la moglie che dovrebbe avere ogni uomo al suo fianco: capace di qualsiasi sacrificio per me e i figli, instancabile, generosa, intelligente... ed è anche una bella donna. C - Sei stato particolarmente sincero. Ti ringrazio per avermi concesso le tue confidenze. Come sai generalmente l’intervista termina quando offro al personaggio una tazzina di caffè. Non me ne vorrai se, dopo quanto mi hai raccontato, ci salutiamo qui. Sai...non vorrei che la caffeina... E - Ah-ah-ahaha... Non ti preoccupare, con me ormai sei al sicuro. Ora sono un uomo fedele!

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Espiazione Venga a prendere il caffè da noi ed altre storie Il pretore di Cuvio, un certo Augusto Vanghetta, di aspetto laido e di limitata intelligenza, è dotato di insospettabile foga virile: “Ho un cane,” dice, “che vuol mangiare due volte al giorno e che è sempre affamato”. Sapendo che questo suo modo di essere è incompatibile con il decoro che la sua carica richiede, decide di crearsi una facciata di rispettabilità borghese sposando Evelina, orfana bella e benestante di parecchi anni più giovane. La renderà presto infelice tradendola costantemente. La povera Evelina ad un certo punto verrà colpita da una misteriosa malattia che la farà deperire. Per lei si aprirà uno spiraglio di felicità con l’arrivo del giovane aiutante di studio, assunto dal marito perché svolga il lavoro al posto suo. Lo sostituirà del tutto e risveglierà in lei l’amore e il ritorno alla salute. Sarà proprio il pretore che favorirà il loro rapporto, affibbiando la consorte al sottoposto spesso e volentieri, per essere

più libero di frequentare le sue amanti. L’autore di questa spassosa ed erotica narrazione ambientata nella provincia, è lo scrittore Piero Chiara uno dei più noti del XX secolo, le cui storie sono state riportate in alcune commedie tragicomiche del cinema italiano degli anni settanta, come “Venga a prendere il caffè da noi” al quale mi sono io stessa ispirata per il nome della mia rubrica. I suoi racconti non risentono della perdita di attualità, il tempo passa ma i vizi umani restano sempre gli stessi, quelli che argomentano le sue storie: “Le storie che racconto sono manipolazioni di fatti in parte da me vissuti o in parte da me conosciuti direttamente o indirettamente. Il mio autobiografismo non è che l’utilizzazione di una vasta casistica immagazzinata dalla memoria. Naturalmente quel che manca a raggiungere l’effetto narrativo lo aggiungo. Nessuna realtà è buona per sé”.

DEDICATA A LUI “One more cup of coffee” di Bob Dylan Your breath is sweet Your eyes are like two jewels in the sky. Your back is straight, your hair is smooth On the pillow where you lie. But I don't sense affection No gratitude or love Your loyalty is not to me But to the stars above. One more cup of coffee for the road, One more cup of coffee 'fore I go To the valley below. Your daddy hès an outlaw And a wanderer by trade Hèll teach you h ow to pick and choose And how to throw the blade. He oversees his kingdom So no stranger does intrude His voice it trembles as he calls out For another plate of food. One more cup of coffee for the road, One more cup of coffee 'fore I go To the valley below. Your sister sees the future Like your mama and yourself. Yoùve never learned to read or write Therès no books upon your shelf. And your pleasure knows no limits Your voice is like a meadowlark But your heart is like an ocean Mysterious and dark. One more cup of coffee for the road One more cup of coffee 'fore I go To the valley below

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Facciamolo fare a loro Valigie Ogni volta che è tempo di partire, fare le valigie è competenza di mio marito. Riesce a ficcarci tutto ciò che necessario per farmi trascorrere una vacanza serena, ottimizzando al massimo gli spazi. Fortuna che ci pensa lui perchè quando ci spostiamo mi ostino a mettere in valigia di tutto, anche cose di cui sicuramente non avrò bisogno, per appagare il mio senso di insicurezza. Partirei portandomi la casa appresso, ed inizio ad accumulare l’inutile anche una settimana prima. Lui invece razionalizza ed è capace di prendere solo il necessario, lasciando a me tutto lo spazio di cui avrò bisogno. Prima di tutto stila una lista degli oggetti. Poi appoggia tutto sul letto e controlla, lista in mano che ci sia ogni cosa. Sistema le scarpe che imbusta una ad una in appositi sacchetti, e le infila lungo i lati della valigia. Poi passa a riempire i buchi lasciati, dopo la collocazione delle scarpe, incastrando tutto ciò che non si stropiccia, come l’intimo o i costumi se andiamo al mare, sciarpe, cappelli e guanti per la montagna, sempre rigorosa-

mente sistemati in apposite custodie (sono utilissime anche per rifare la valigia più velocemente al momento di ritornare). A seguire inizia ad infilarvi i Jeans, ancora pantaloni e maglie che non perdono la piega. Di nuovo procede a riempire i buchi che si formano, ficcando oggetti come il carica-batterie del telefonino, il phon per i capelli, i miei trucchi, cinture ecc. Solo alla fine stende abiti, camicie, tutto ciò che si può sgualcire con facilità. Osservo la sua abilità senza mettere becco e mi limito a controllare che ci sia entrato tutto. Sono sempre più convinta che vacanze o non vacanze, proprio perché noi siamo meno razionali degli uomini, a “fare la valigie” è bene che siano loro. Già, perché, anche quando ci feriscono con comportamenti e d’istinto vorremmo “fare le valigie” non conviene, neppure oggi che non sussiste più il reato di abbandono del tetto coniugale. (E’ bene sapere che andarsene di casa, nella convinzione di essere dalla parte della ragione, è spesso causa di gravi conseguenze non solo sul piano del diritto penale, laddove l’art. 570 c.p. punisce espressamente l’abbandono del domicilio domestico e la sottrazione all’obbligo di assistenza vicendevole, ma anche sotto il profilo civilistico: si rischia l’addebito della separazione con conseguenze molto rilevanti anche sul piano patrimoniale”.

Mode & Modi 11 Novembre

E’ consuetudine definire novembre il mese dei morti, o più poeticamente “l’estate fredda, dei morti” (ultima strofa della poesia – Novembre- di Giovanni Pascoli). Ma la tradizione popolare vuole che a Novembre, precisamente l’11 novembre, nella ricorrenza della festa di San Martino di Tours, quando per tradizione si assaggia il vino nuovo accompagnato dalle caldarroste, si celebri anche la festa dei cornuti. I cornuti sono i mariti traditi dalle mogli, e questo lo sapevo, ma perché venissero chiamati così non mi era altrettanto noto. Ho scoperto che esistono più versioni a spiegare l’origine e francamente mi sembrano tutte alquanto bislacche, mi limiterò perciò a menzionare la più remota, che si rifà addirittura ai tempi di Minosse, re di Creta, il quale chiese a Poseidone di donargli un toro da sacrificare. Questi lo accontentò, ma Minosse, non ritenendo bello quell’esemplare, non lo uccise. Allora Poseidone, adirato, ispirò amore nella moglie di Minosse, Pasifae, verso quel toro. Essa, completamente innamorata e aiutata da Dedalo, si travesti da mucca e si accoppiò con il toro, frutto di questa unione fu il Minotauro. A questo punto tutti i cretesi, oramai a conoscenza dell’adulterio di Pasifae, si dilettavano a mostrar le corna a Minosse. Cornuti possono essere additati indifferentemente uomini o donne traditi, dai loro partners. La percentuale dei tradimenti riferita ai rispettivi sessi, secondo i dati attualmente riportati da alcuni sondaggi, oggi, è quasi paritaria. E a proposito di modi di dire, è il caso di esclamare: “Chi va con lo zoppo, impara a zoppicare!”

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Amilcare Bencivenga di Francesca De Angelis Amilcare Bencivenga, per trentotto anni Professore di Filosofia e Storia al Liceo Ginnasio tal dei tali di S., era solito fare colazione alle ore sette e trenta in punto anche se era andato in pensione da più di un anno, oramai. Insegnava ancora, a dir la verità, per tre pomeriggi a settimana, a certi suoi studenti che con la materia avevano sempre avuto non poche difficoltà. Il suo andare in pensione era stato celebrato con una solenne cerimonia nell'Aula Magna alla presenza dei suoi colleghi, del Preside e del Sindaco, l'esimio Dottor Cacioppelli, politico navigato nonché insegnante anch'egli, di matematica e fisica però. Oltre alla cerimonia scolastica, il Professore aveva ricevuto l'onore di un encomio giornalistico di una intera pagina sul giornale locale in cui, oltre alle sue doti di maestro di filosofia, si lodavano le qualità morali della sua condotta privata. Sposato da quarant'anni con Elena Fiorini, sua compagna di scuola fin dalle scuole elementari, professoressa di italiano presso il suo stesso Liceo nonché scrittrice dilettante, egli non aveva mai avuto altre passioni fuorché i suoi studenti e la sua cattedra. Gentiluomo d'altri tempi, viveva la condizione di pensionato come primo passo verso una senilità di cui aveva spesso decantato le lodi, e saggezza e temperanza riempivano adesso il suo animo distendendo il loro velo protettivo sulle sue lente giornate nella casa paterna, in cui abitava fin dal giorno del suo matrimonio. Il Professore disdegnava non poco la compagnia dei moderni apparecchi elettronici e tecnologici ma s'era da

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qualche mese appassionato all'uso del computer e di internet. Assieme alla guida esperta del nipote, aveva acquistato un modem adsl ed un pc di ultima generazione e passava le sue mattine navigando di sito in sito. Un giorno, in una mattina di giugno arieggiata e fresca, mentre sorseggiava il suo caffé amaro delle dieci, s'imbatté in un annuncio accattivante quanto inusuale. Lì per lì la sua mente passò oltre e rimosse con la razionalità tutto ciò per cui i suoi sensi avevano sussultato. Poi, col passare dei minuti e delle ore tornò sui suoi passi, cosa quantomai rara, e andò a cercare l'annuncio, cliccando sul link che aveva scosso le sue viscere e che così apostrofava: “Studentessa disinibita offresi per lezioni private”. Il caro Amilcare volle sperimentare il significato di una parola che in vita sua mai aveva conosciuto e rispose, con la serietà che sempre lo aveva contraddistinto: “Professore in pensione sarebbe lieto di incontrarLa.” Amilcare Bencivenga tenne per sé quel minuscolo segreto, egli che mai aveva nemmeno pensato di trasgredire le ferree e felici regole imposte dal Sacro Matrimonio, egli che aveva in Elena Fiorini, sua sposa e confidente, amica e compagna, una irrimediabile e totale fiducia, egli quel giornò vacillò per soli due minuti – il tempo materiale che gli ci era voluto per capire come rispondere all'amabile signorina Alle dodici e trenta in punto Elena entrò nel suo studio e gli annunciò che il pranzo era pronto. Amilcare, come d'abitudine, alzò gli occhi dai suoi libri e, sorridendole dolcemente, si alzò stanco dalla poltrona in similpelle, la raggiunse sulla soglia della porta e la baciò

sulla guancia sinistra. Ella notò solamente che il computer, posto davanti alla foto incorniciata d'argento che ritraeva Amilcare e i suoi studenti l'ultimo giorno ufficiale di insegnamento, aveva la schermo ancora alzato e pensò che egli si stava un poco invecchiando e dimenticava aperto il suo libro elettronico. Mangiarono moderatamente e si distesero insieme per il riposo del primo pomeriggio. Era mercoledì e alle sedici e trenta vennero i suoi amati studenti che nel vociare della loro giovane età lo rapirono al suo mondo. Dopo la cena il Professore tornò un poco affaticato nel suo studio per la lettura distensiva serale, notò che il suo Macintosh era ancora aperto sulla pagina della studentessa e lesse la risposta della giovincella: “Gentile Professore, la attendo alle ore 22”. Il povero Amilcare Bencivenga lì per lì non seppe, per la prima volta nella sua vita, cosa rispondere. La sua filosofia non lo aiutava nelle questioni istintive! Egli era una persona razionale! Una piccola goccia di sudore gli imperlò la tempia e lo scosse facendogli vibrare il ventre al pensiero... Oh quali immondi pensieri lo travolsero! Un turbinio di emozioni, un vortice di sensazioni lo trascinò sulla ripida discesa della vita smodata per un lunghissimo minuto, finché, ripresosi appigliandosi alla parola Professore usata dalla donzella, impose alla sua mente di ricomporsi nell'ordine della gerarchia scolastica e rispose alla giovane: “Gentile Signorina, sarò volentieri da lei per l'ora stabilita, mi dica in che luogo avverrà il nostro incontro. La ringrazio.”


Egli non fece nemmeno in tempo a fantasticare un poco su quell'appuntamento che subito ella gli inviò un messaggio telegrafico: “Via S. Aleramo 14”. Il Professore pensò che fosse uno scherzo amaro... Via Sibilla Aleramo, era l'autrice preferita di sua moglie. Non era possibile! Doveva esserci un errore, una sintesi mal definita, una Nietzscheana potenza sovrumana che sconvolgeva il suo pensiero lineare e ben definito. Amilcare Bencivenga vacillò nuovamente e chiuse con immediatezza il computer. Elena lo raggiunse nello studio per invitarlo a coricarsi ed egli, da bravo e premuroso marito com'era sempre stato, la accudì teneramente fra le sue braccia per tutta la notte, facendo scomparire quelle sensazioni ansiose che lo avevano catturato per ben due volte durante la mostruosa giornata che aveva passato. Egli dormì un sonno profondo e riposante, accanto alla donna della sua vita, l'unica che lo aveva compreso e amato e che gli era stata sempre fedelmente vicino. La mattina di giovedì Elena Fiorini si alzò alle sette e preparò la colazione al marito. Amilcare Bencivenga si alzò disteso e sereno e proseguì nelle sue attività quotidiane: doveva correggere i maldestri compiti scritti dei suoi amati studenti. All'ora del caffé si ricordò del suo appuntamento con la Studentessa.

Alzò lo schermo e trovò un nuovo messaggio della giovane: “ A stasera, Professore!” Egli le rispose con un semplice: “Va bene.” e preparò mentalmente il suo abbigliamento per l'incontro con la ragazza disinibita. Avrebbe indossato il completo da gran cerimonia usato il giorno dell'encomio e l'estroversa fanciulla avrebbe poi saputo cosa fare, egli di certo, non avrebbe fatto nulla, d'altra parte per una volta sarebbe stato lui ad essere studente! La giornata trascorse lenta e sonnacchiosa fino all'ora di cena, quando il Professore si ricordò che non avrebbe potuto uscire con la giovane a meno di non trovare una buona scusa per Elena. Già... Elena. Come togliersi di dosso la frenesia causata dal segreto, e come mentire all'amata? La razionalità gli venne in soccorso: avrebbe detto che sarebbe uscito a fare una passeggiata in solitudine per riflettere e la donna non si sarebbe opposta. Non si era mai opposta ad alcuna sua decisione. Ed il segreto, in fondo in fondo, era solo un incontro con una studentessa anziché con uno studente. D'altronde nei tempi moderni le donne si erano di molto emancipate e non v'era di certo alcun male nel fare ripetizioni ad una donna o ragazza che fosse. Pacificato da questi pensieri Amilcare Bencivenga seguì il suo piano e come previsto nessun ostacolo si oppose al famigerato incontro.

Prese un taxi per raggiungere la via designata ed arrivò alle ventidue meno cinque al numero civico stabilito. Era una villetta con giardino con un unico campanello senza nome. Il professore suonò ed il cancelletto di ferro verniciato in bianco si aprì, egli entrò, percorse il corto viale fino alla porta d'ingresso che trovò socchiusa e varcò la soglia del tradimento. Quello che accadde quella sera il Professore lo tenne stretto per se stesso, custodendo gelosamente i fremiti della pelle bianca della Studentessa. Tornando a casa, un tassista differente dal primo lo accompagnò ed egli si sentì un poco solo, aveva sperato che fosse lo stesso dell'andata, un tipo magro, silenzioso e deferente nei suoi riguardi. Il nuovo era una sorta di caciarone, con catenone d'oro al collo spesso un dito, finto Rolex al polso destro con cui cercava maldestramente di coprire un brutto quanto insignificante tatuaggio e una parlantina sciolta e sboccata che non aveva rispetto alcuno del suo stato d'animo. Il nostro Amilcare Bencivenga, Professore di Filosofia ed integerrimo marito, era oramai corrotto! Il taxi si fermò all'angolo dell'amato Parco dei Bambini, in cui egli e la sua sposa erano soliti scambiarsi le prime tenerezze di gioventù, ma quelli erano altri tempi...

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Amilcare, risoluto a non farsi scoprire da sua moglie, si fece lasciare distante un chilometro buono da casa. Percorse quei metri col passo lento e regolare che lo aveva sempre contraddistinto e si avviò, così, verso il rifugio che negli anni aveva costruito. La notte era serena e fresca ed il leggero venticello che lo circondava dava respiro ai suoi pensieri: nulla di quell'ora secca che aveva trascorso con la giovane poteva trapelare dal suo comportamento, il controllo totale delle membra era indispensabile, sarebbe stato certamente il primo segno che Elena avrebbe captato. Parco. Egli era stato certamente un uomo parco di oscillazioni, sempre misurato e dedito alla suprema Morale. Eccolo dunque avvicinarsi al rifugio, svoltare l'angolo in cui la Macelleria di Ivo resisteva strenuamente con la stessa insegna da generazioni, oltrepassare la cabina telefonica in disuso, procedere verso il portone dai pomelli ottonati che Elena si ostinava a pulire, prendere le chiavi dalla borsa di pelle consunta e girarle nella toppa, girarle e girarle ancora. Il portone si aprì senza cigolii ed egli si vide davanti la tromba delle scale. Due piani lo separavano da lei. Percorse gli scalini con lo stesso passo regolare ed attento, e quando finalmente arrivò alla targhetta ottonata e lu-

cida del suo appartamento si sentì quasi mancare. Gli caddero le chiavi di mano. Sudava freddo. La porta si aprì davanti a lui. Elena Fiorini, con la vestaglia pèsca dai merletti avana, i capelli raccolti d'un bianco argenteo e la ruga della preoccupazione sotto gli occhi lo abbracciò con tutto l'amore di una moglie. Amilcare Bencivenga svenne. La donna tentò di trattenere il marito dalla pesante caduta, ma non poté fare altro che finire anch'ella a terra, sopra di lui che sapeva di bagnoschiuma al cocco, con la vestaglia che si aprì inavvertitamente lasciandole scoperte le anziane gambe. La poveretta tentò di rimettersi in piedi per chiamare un'ambulanza. Non aveva fiato per gridare, non aveva tempo di pensare ai suoi sensi di colpa – se fosse andata con lui a passeggiare sicuramente non gli sarebbe accaduto nulla – ma la forza della disperazione ebbe il sopravvento ed ella, con le ossa doloranti, si scostò da Amilcare, controllò che respirasse ancora e cigolando si alzò. Corse in corridoio e chiamò il 118, poi tornò da lui. Gli fece una carezza sulla guancia e pensò che fosse il caso di avvertire qualcuno. Ma chi? Amilcare non aveva amici tranne forse l'altro professore... quello con cui parlavano sempre di particelle. Ecco! Avrebbe chiamato

il Dottor Cacioppelli. Lui sì che li avrebbe aiutati in qualche modo. Elena Fiorini tornò in casa, prese il cordless e coi capelli un po' sudati e arruffati tornò dal caro Amilcare. Egli respirava lentamente ma non apriva gli occhi. Peppe Cacioppelli era impegnato in un'ammaliante quanto fruttuosa partita di scala quaranta insieme ad una fanciulla che avrebbe potuto essere sua nipote. Ad ogni chiusura di lui, la ragazza si toglieva uno alla volta i pochi e succinti abiti che aveva indosso. La stanza d'albergo era lussuosa ma senza esagerazioni, tranne, forse, un mazzo di rose rosse – 41 - che campeggiavano sopra il tavolino di vera noce posizionato sopra un tappeto persiano. L'esimio Cacioppelli sapeva come si conquista una donna! Prima il romanticismo, poi il gioco erotico e infine... zac! Azzannare la preda. Il suo cellulare squillò nell'attimo esatto in cui la ragazza si toglieva l'aderente camicetta, già sbottonata fino all'ombelico. Egli fece un sobbalzo ma lì per lì non si curò minimamente del trillìo, anzi, ancor più gasato sbirciava il torace e l'addome della giovane che a poco a poco si scoprivano. I patti erano: guardare ma non toccare. Ma il Dottor Cacioppelli avrebbe fatto di certo fatto valere il suo potere, la sua influenza, il suo status di Sindaco di S.!


Al seguitare degli squilli Cacioppelli si innervosì al tal punto che decidette di rispondere, pur con lo sguardo fisso al reggiseno imbottito della signorina. Mentre blaterava confusi sì e no, dovuti a cotanta beltà, ella iniziò una strana danza del ventre ritmata con musica sconosciuta. Il volto della ragazza si era imbronciato già al primo squillo ed egli aveva capito al volo che non avrebbe dovuto contrariarla in alcun modo ma la voce di Elena Fiorini, sconvolta e piangente, gli aveva fatto tornare in mente le sue disquisizioni fisico-filosofiche col vecchio Professore ed egli, in un briciolo di umanità, o forse sovrappensiero, promise alla donna che sarebbe accorso in aiuto – non prima della fine della partita, fantasticò Elena Fiorini si chiese che strano amico avesse suo marito, pareva contrariato o forse indifferente del destino del consorte... Vai tu a capire questi uomini! Ella non sapeva se ricomporsi in attesa dell'ambulanza - troppo elegante non sarebbe stata considerata una buona moglie - rimarrò in vestaglia, pensò – troppo sciatta avrebbe fatto figurare male suo marito – e dunque optò per un completo sobrio, da dopo cena estivo, un poco spaiato, la mezza misura

che il suo Amilcare avrebbe sicuramente approvato. Lo lasciò solo sul pianerottolo e zoppicando andò in camera da letto a prepararsi – doveva fare in fretta o i medici l'avrebbe trovata non pronta! Amilcare Bencivenga, Professore, giaceva a terra. Nella caduta aveva battuto l'osso occipitale e quando tentò di riaprire lentamente gli occhi la sua vista era un poco annebbiata. L'infermiere del 118 suonava insistentemente al nome Bencivenga-Fiorini. La signora Elena era in bagno, a sciacquarsi il volto. L'ambulanza era parcheggiata in doppia fila, con i lampeggianti accesi ostruendo parte della carreggiata. Una mercedes benz vecchio modello, grigia, arrivò a tutta velocità zigzagando vertiginosamente, pareva ci fosse un ubriaco alla guida. L'autista del 118 si affrettò a togliersi dalla strada ma l'autò inchiodò rumorosamente al fianco della crocerossa. Ne scese, dal lato passeggero, il Sindaco in persona. I paramedici pensarono che qualcuno di davvero importante si fosse sentito male, proprio lì, in quel palazzo decandente e fuori moda in cui sarebbero dovuti già entrare. Si affretta-

rono a citofonare ancora. L'esimio Dottor Cacioppelli vestito di tutto punto non ebbe bisogno di presentazioni e col suo cellulare chiamò il fisso del Professore. Al primo squillo rispose la signora Fiorini che immediatamente aprì il portone d'ingresso. La brigata salì, Sindaco in testa. Al secondo piano, Elena Fiorini, dal volto preoccupato, era inginocchiata accanto al marito, gli teneva la mano. Quando vide Cacioppelli pensò allora che quell'uomo fosse un vero amico del suo caro Amilcare. L'infermiere e l'autista si misero ad armeggiare sopra al Professore non mancando di chiedere notizie dell'accaduto alla signora. Amilcare aprì appena gli occhi senza mettere bene a fuoco chi aveva attorno. Sentiva il profumo noto dell'amata moglie, poi, da lontano, ne avvertì un altro, meno familiare ma pungente fino al midollo. Dalla tromba delle scale, a passo svelto e pimpante, si aggiunse all'allegra brigata una ragazzetta, svestita come i giovani d'oggi, che subito si accovacciò sul Professore, baciandolo. Tutti la guardarono sbigottiti, tranne Amilcare Bencivenga, stimato ed integerrimo – quasi – Professore di Filosofia e Storia.

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Immagini dalla Piazza Tienanmen

70°della Vittoria sul nazi-fascismo europeo e l’imperialismo giapponese Uomini e donne della Cina, Eccellenze capi di Stato e di governo e rappresentanti delle Nazioni Unite e delle altre organizzazioni internazionali, Compagni e amici, Oggi è un giorno che sarà per sempre impresso nella memoria delle persone in tutto il mondo. Settanta anni fa il popolo cinese, dopo aver combattuto tenacemente per 14 anni, ha vinto la guerra di resistenza contro l'aggressione giapponese, che segna anche la piena vittoria della guerra anti-fascista mondiale. Quel giorno il mondo è stato benedetto dal sole della pace. In questa occasione, a nome del Partito comunista cinese formulo il più alto omaggio a tutti i veterani, ai compagni, ai patrioti e agli ufficiali che hanno preso parte alla guerra di resistenza e a tutti i cinesi in patria e all'estero che hanno contribuito in modo significativo alla vittoria della guerra. Estendo la sincera gratitudine ai governi e agli amici stranieri che hanno sostenuto e assistito il popolo cinese nella sua resistenza all'aggressione. La guerra del popolo cinese contro l'aggressione giapponese e la guerra anti-fascista mondiale è stata una battaglia decisiva tra la giustizia e il male, tra la luce e le tenebre, tra il progresso e la reazione. In quella guerra devastante, la resistenza del popolo cinese contro l'aggressione giapponese è iniziata molto prima ed è durata più a lungo. Il popolo cinese ha combattuto valorosamente e inflessibilmente e alla fine ha ottenuto la vittoria totale contro gli aggressori militaristi giapponesi, preservando in tal modo 5.000 anni la civiltà della Cina e sostenendo la causa della pace dell'umanità. Questa straordinaria impresa da parte della nazione cinese è stata un esempio raro nella storia della guerra. Durante la guerra, con un enorme sa-

crificio nazionale, il popolo cinese ha sostenuto la parte orientale della guerra mondiale antifascista, rendendo così un determinante contributo alla sua vittoria. Nella sua guerra contro l'aggressione giapponese il popolo cinese ha ricevuto un ampio sostegno da parte della comunità internazionale. Il popolo cinese ricorderà sempre quello che la gente di altri paesi ha fatto per la vittoria della sua guerra di resistenza. L'esperienza della guerra fa più grande il valore della pace. Lo scopo della nostra commemorazione del 70 ° anniversario della vittoria della guerra del popolo cinese contro l'aggressione giapponese e della guerra mondiale antifascista è quello di tenere la storia in mente, onorare tutti coloro che hanno dato la vita, amare la pace e aprire al futuro. Devastando l’Asia, l’Europa, l’Africa e l’Oceania la guerra ha inflitto oltre 100 milioni di vittime militari e civili. La Cina ha subito oltre 35 milioni di morti e l'Unione Sovietica ha perso più di 27 milioni di vite. Il modo migliore per onorare gli eroi che hanno dato la vita per difendere la libertà, la giustizia e la pace è quello di fare in modo che questa tragedia storica non potrà mai ripetersi. La guerra è come uno specchio. Guardandola ci aiuta ad apprezzare meglio il valore della pace. Oggi la pace e lo sviluppo sono diventati la tendenza prevalente, ma il mondo è tutt'altro che tranquillo. La guerra è la spada di Damocle che pende ancora sull'umanità. Dobbiamo imparare le lezioni della storia e dedicarci alla pace. Nell'interesse della pace, abbiamo bisogno di promuovere il senso di una comunità globale e di un futuro condiviso. Il pregiudizio, la discriminazione, l'odio e la guerra non possono che causare disastri e sofferenze, mentre il ri-

spetto reciproco, l'uguaglianza, lo sviluppo pacifico e la prosperità comune rappresentano la strada giusta da prendere. Nell'interesse della pace, la Cina continuerà ad impegnarsi per uno sviluppo pacifico. Noi cinesi amiamo la pace. Non importa quanto forte potrà diventare la Cina non cercherà mai l'egemonia o l’espansione. Non sarà mai lei a infliggere la sua sofferenza passata a qualsiasi altra nazione. Il popolo cinese ha deciso di portare avanti relazioni amichevoli con tutti gli altri paesi. L’Esercito di Liberazione Popolare cinese è l'esercito del popolo. Tutti i suoi ufficiali, gli uomini e le donne devono tenere a mente la loro responsabilità di servire il popolo con tutto il cuore, adempiere fedelmente il sacro dovere di proteggere la sicurezza della nazione e il benessere delle persone, e svolgere la nobile missione di mantenimento della pace mondiale. Il grande rinnovamento della nazione cinese richiede gli sforzi dedicati di una generazione dopo l'altra. Dopo aver creato una splendida civiltà di oltre 5000 anni la nazione cinese sarà certamente in grado di inaugurare un futuro ancora più luminoso. Andando avanti, sotto la direzione del Partito comunista cinese, noi, persone di tutte le etnie del Paese, dobbiamo seguire il marxismo-leninismo, il Pensiero di Mao Zedong, la Teoria di Deng Xiaoping, il pensiero delle tre rappresentanze e la prospettiva dello sviluppo scientifico come le nostre guide per l'azione. Dobbiamo seguire il cammino del socialismo con caratteristiche cinesi. Cerchiamo di tenere a mente la grande verità della storia: la giustizia prevarrà! La pace prevarrà! I popoli prevarranno! Xi Jinping

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Nelle foto della pagina soldati e soldatesse del PLA, People’s Liberation Army - Esercito Popolare di Liberazione cinese. Nella pagina successiva alcune delle rappresentanze degli eserciti dei paesi ospiti presenti con 35 Capi di Stato e di Governo, oltre al segretario dell’ONU. Alla sfilata hanno partecipato 12.000 soldati del PLA, 500 mezzi semoventi e 200 aerei ed elicotteri, oltre a circa 1.000 soldati stranieri ospiti.


Sulla tribuna d’onore della “Città Proibita” (foto sotto) Xi Jinping, Segretario Generale del Partito Comunista e Presidente della Repubblica Popolare, con la divisa di Comandante Supremo dell’Esercito Popolare di Liberazione (PLA), con alla sinistra i due predecessori Jiang Zemin (1993-2003) e Hu Jintao (2003-2013) e alla destra il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin, in ricordo delle due nazioni (popoli) che hanno maggiormente contribuito alla vittoria sul nazi-fascismo europeo e sull’imperialismo giapponese: Unione Sovietica e Cina, e a testimonianza della nuova allenaza storica tra i due popoli e i due Stati.


Cuba Messico Russia Serbia Mongolia






Redazione: via Benedetto Cairoli 30 - 06034 Foligno - E-mail redazionepiazzadelgrano@yahoo.it Sito internet: www.piazzadelgrano.org - Autorizzazione: tribunale di Perugia n. 29/2009 Editore: Sandro Ridolfi - Direttore Responsabile: Maria Carolina Terzi - Sito: Andrea Tofi Stampa: Del Gallo Editori Spoleto - Chiuso: 25 ottobre 2015 Tiratura: 2.000 copie Periodico dell’Associazione “Luciana Fittaioli�

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Il 26 settembre 1980 Enrico Berlinguer, ultimo segretario marxista leninista del grande Partito Comunista di Gramsci e Togliatti, è davanti ai cancelli chiusi della FIAT per sostenere l’ultima battaglia storica della classe operaia italiana sotto l’attacco di una violenta rinascita del dominio padronale. Quella battaglia verrà persa dai lavoratori e di lì a poco finirà in Italia l’epoca delle grandi conquiste civili e sociali dell’Italia post-fascista. Lo stesso PCI verrà infiltrato e snaturato da opportunisti e mediocri politicanti arresi all’allora irresistibile strapotere del capitalismo mondiale. A 35 anni di distanza la storia si ripete con l’attacco oramai frontale e sfacciato agli stessi diritti fondamentali del lavoro e dei lavoratori portato dal “job act” dei boriosi scout del padronato italiano. Guardando i personaggi ricordati in queste due pagine, e pensando al presente, viene in mente una frase attribuita al Presidente Mao, ma forse di origine molto più remota nel “senno popolare” che affermava: “Abbiamo seminato una stirpe di draghi, stiamo raccogliendo lucertole”.


Gli interessi che rappresentano e difendono i sindacati dei lavoratori sono interessi di carattere collettivo e non particolaristico od egoistico; interessi che in linea di massima coincidono con quelli generali della nazione. Il benessere generalizzato dei lavoratori, infatti, non può derivare che da un maggiore sviluppo dell’economia nazionale, da un aumento incessante della produzione, da un maggiore arricchimento del paese, oltre che da una più giusta ripartizione dei beni prodotti. Non è mai accaduto, e non può accadere ai liberi sindacati dei lavoratori, di avere interessi contrari a quelli della collettività nazionale, com’è accaduto -e può sempre accadere, invece,- a determinati tipi di associazioni padronali, i quali sono notoriamente giunti a limitare di proposito la produzione -ed anche a distruggerne notevoli quantità- per mantenere elevati i prezzi, allorquando i prezzi elevati, piuttosto che la massa di prodotti vendibili, assicurano agli interessati maggiori profitti, con danno evidente della maggioranza della popolazione e della nazione. I lavoratori, per la loro condizione sociale, sono i maggiori interessati al consolidamento ed allo sviluppo ordinato della libertà e delle istituzioni democratiche, come lo comprova il fatto che essi hanno costituito il nerbo decisivo delle forze nazionali che hanno abbattuto il fascismo ed hanno portato un contributo efficiente alla liberazione della patria dall’invasore tedesco. I sindacati dei lavoratori, quindi, costituiscono obiettivamente uno dei pilastri basilari dello Stato democratico e repubblicano ed un presidio sicuro e forte delle civiche libertà, che sono un bene supremo dell’intera nazione. Giuseppe Di Vittorio


La Resistenza è l'immagine perfetta del conflitto tra l'essere e il passato. Il linguaggio del sangue non è soltanto dramma nel senso fisico, ma espressione conclusiva d'un processo continuo alla "tecnica" morale dell'uomo. L'Europa è nata dalla Resistenza e l'adulazione delle figure indeterminate di un ordine che la guerra voleva fondare sono rovesciate fin dalle radici. La morte ha un sonno autonomo, e disumana è una mediazione per sollecitarlo con la logica o con l'abilità dell'intelligenza politica. La lealtà della poesia si delinea in una presenza che è fuori dall'ingiustizia e dall'intenzione della morte. Il politico vuole che l'uomo sappia morire con coraggio, il poeta vuole che l'uomo viva con coraggio.

E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore, fra i morti abbandonati nelle piazze sull’erba dura di ghiaccio, al lamento d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo? Alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese, oscillavano lievi al triste vento. Salvatore Quasimodo


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