Mensile di informazione, politica e cultura dell’Associazione Luciana Fittaioli - Anno VII - nn. 9-10 settembre-ottobre 2015 - distribuzione gratuita
con l’orgoglio del disprezzo dei creditori
Η Ελλάδα είναι το εργαστήριο στο οϖοίο ϖαρασκευάζονται ανόητες ϖολιτικές ϖου θα ρίξουν στην Καιάδα την µια µετά την άλλη τις υϖόλοιϖες χώρες της ϖεριφέρειας Η Γερµανία τελικά θα καταβάλει τεράστιο αντίτιµο αν εϖιβάλει αυστηρή λιτότητα στις χώρες µας, ϖαραλληλίζοντας το εϖερχόµενο Μνηµόνιο µε µια Νέα Συνθήκη των Βερσαλλιών Γιάνης Βαρουφάκης La Grecia è il laboratorio di politiche insensate che finiranno per gettare dalla Rupe Tarpea (trasposizione della Caverna Keadas del Peloponneso) uno dopo l'altro tutti gli altri Paesi. La Germania alla fine pagherà un prezzo enorme se continua a imporre queste severe politiche di austerità ai nostri paesi; il Memorandum imposto (alla Grecia) è un nuovo Trattato di Versailles. Gianis Varoufakis
In copertina Gianis Varoufakis, già Ministro delle Finanze del governo Tsipras, con l’estratto della sua dichiarazione di dimissioni dall’incarico di governo, dopo la prima rottura delle trattative con i “prestanome” europei delle banche creditrici (leggi Bundesbank, ne parliamo in un articolo all’interno) e l’esito del referendum che, purtroppo, non è valso alla Grecia a sottrarsi al diktat dei creditori. Contrariamente a quanto si può pensare, o è stato sostenuto dalla stampa dei padroni, tuttavia, lo scontro non ha visto la Grecia perdente, perché ha aperto una finestra sulla constatazione del fallimento delle politiche di austerità volute dalle banche creditrici, sul quale si dovrà tornare presto e la Grecia non sarà più da sola (anche su questo argomento facciamo un breve commento nell’inserto sulla Bundesbank). Sopra, alcune delle affermazioni di Varoufakis che con più chiarezza hanno centrato il cuore del disastro delle politiche di austerità imposte dai creditori, oramai, a tutti i cittadini europei.
Al compagno Tsipras
On. Mr. Alexis Tsipras Primo Ministro della Grecia Mi congratulo calorosamente per la sua brillante vittoria politica, che ho seguito da vicino dal canale Telesur. La Grecia è molto familiare tra i cubani. Ha insegnato la filosofia, l'arte e la scienza dell'antichità quando abbiamo studiato a scuola, e con loro, la più complessa di tutte le attività umane: l'arte e la scienza della politica. Il suo paese, soprattutto il suo coraggio in questo frangente, suscita ammirazione tra i popoli dell'America Latina e dei Caraibi nel vedere come la Grecia, contro le aggressioni esterne, ha saputo difendere la sua identità e cultura. Non dimentichiamo che un anno dopo l'attacco di Hitler alla Polonia, Mussolini ordinò alle sue truppe di invadere la Grecia, e questo paese coraggioso respinse l'attacco e fece retrocedere gli invasori, costringendo il dispiegamento di unità corazzate tedesche verso la Grecia, deviandole dall'obiettivo iniziale. Cuba conosce il valore e la capacità di combattimento delle truppe russe, che, insieme con le forze del suo potente alleato la Repubblica popolare cinese, e altre nazioni del Medio Oriente e dell’Asia, pur cercando sempre di evitare la guerra, non consentono alcuna aggressione militare senza risposta forte e devastante. Nella situazione politica attuale del mondo, dove la pace e la sopravvivenza della nostra specie è in bilico, ogni decisione, più che mai, deve essere attentamente sviluppata e attuata, in modo che nessuno possa mettere in dubbio l'onestà e la serietà che la parte più responsabile e seria dei dirigenti politici impegnano oggi nell’affrontare le calamità che minacciano il mondo. Vi auguriamo, stimatissimo compagno Alexis Tsipras, il più grande successo. Fidel Cstro Ruz
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I Sogni e la Realtà Fidel compie 89 anni a cura della Redazione
pagina 342
Bundesbank crack Gli Idioti di Dusserldorf di Sandro Ridolfi
pagina 344
Immigrazione Una necessità strutturale di Giacomo Bertini
pagina 348
Brics della conoscenza Quanto sta accadendo nel Mondo di Domenico Fiormonte
pagina 352
Inglese lingua “franca” Una fine annunciata di Sandro Ridolfi
pagina 356
Iran dopo l’embargo Reportage da Teheran tratto da Pietrangelo Buttafuoco
pagina 360
Giufà L’antieroe della dispora giudeo-spagnola di Giovanni Parentignoti pagina 364 Per una antropologia naturale La natura del soggetto umano di Ivano Spano
pagina 366
La decadenza dell’Impero romano (seconda parte) Analogia con l’attuale società occidentale di Alberto Donati pagina 372 Ancora su Marx e il materialismo Il materialismo storico cinese a cura di Sandro Ridolfi
pagina 376
Redazione: via Benedetto Cairoli 30 - 06034 Foligno - E-mail redazionepiazzadelgrano@yahoo.it - Sito internet: www.piazzadelgrano.org - Autorizzazione: tribunale di Perugia n. 29/2009 - Editore: Sandro Ridolfi - Direttore Responsabile: Maria Carolina Terzi - Sito: Andrea Tofi - Stampa: Del Gallo Editori Spoleto - Chiuso: 23 agosto 2015 Tiratura: 2.000 copie - Periodico dell’Associazione “Luciana Fittaioli”
S ommario del mese di settembre-ottobre 2015 Le lingue degli “altri” Quattro racconti in lingua Bengali a cura della Redazione
pagina 380
Giovani a confronto Chi parte e chi resta di Giacomo Bertini
pagina 384
Creature capovolte Libero racconto sui demoni di Sara Mirti
pagina 388
Teatro Sordo Il Laboratorio Zero di Roma (terza parte) di Dario Pasquarella pagina 392 “Oltre gli Occhi” Le interviste a cura di Dario Pasquarella
pagina 396
Venga a prendere il caffè da noi Un amore (con)diviso di Catia Marani
pagina 400
Giochi e passatempi di un tempo che fu Come giocavamo... e oggi? di Loretta Ottaviani
pagina 404
Visioni di una notte di mezza estate I peggiori film della mia vita di Chiara Mancuso
pagina 408
Enciclica “Laudato si’” Uno zibaldone di ovvietà Redazione, Donati, Pezzani
pagina 412
QR code al sito internet della rivista
Fidel compie 89 anni, 55 dalla rivoluzione
con Evo Morales, Presidente dello “Stato Plurinazionale della Bolivia” e Nicolas Maduro, Presidente della “Repubblica Bolivariana di Venezuela”
La realtà e i sogni Non smetteremo mai di lottare per la pace e il benessere di tutti gli esseri umani
Escribir es una forma de ser útil si consideras que nuestra sufrida humanidad debe ser más y mejor educada ante la increíble ignorancia que nos envuelve a todos, con excepción de los investigadores que buscan en las ciencias una respuesta satisfactoria. Es una palabra que implica en pocas letras su infinito contenido. Todos en nuestra juventud oímos hablar alguna vez de Einstein y, en especial, tras el estallido de las bombas atómicasen Hiroshima y Nagasaki, que puso fin a la cruel guerra desatada entre Japón y Estados Unidos. Cuando aquellas bombas fueron lanzadas, después de la guerra desatada por el ataque a la base de Estados Unidos en Pearl Harbor, ya el imperio japonés estaba vencido. Estados Unidos, el país cuyo territorio e industrias permanecieron ajenos a la guerra, pasó a ser el de mayor riqueza y mejor armado de la Tierra, frente a un mundo destrozado, repleto de muertos, heridos y hambrientos. Juntos, la URSS y China habían perdido más de 50 millones de vidas, sumadas a una enorme destrucción material. Casi todo el
oro del mundo fue a parar a las arcas de Estados Unidos. Hoy se calcula que la totalidad del oro como reserva monetaria de esa nación alcanza 8 mil 133,5 toneladas de dicho metal. A pesar de ello, haciendo trizas los compromisos suscritos en Bretton Woods, Estados Unidos, declaró unilateralmente que no harían honor al deber de respaldar la onza Troy con el valor en oro de su papel moneda. Tal medida decretada por Nixon violaba los compromisos contraídos por el presidente Franklin Delano Roosevelt.Según un elevado número de expertos en esa materia, crearon así las bases de una crisis que entre otros desastres amenaza golpear con fuerza la economía de ese modelo de país. Mientras tanto, se adeuda a Cuba las indemnizaciones equivalentes a daños, que ascienden a cuantiosos millones de dólares como denunció nuestro país con argumentos y datos irrebatibles a lo largo de sus intervenciones en las Naciones Unidas. Como fue expresado con toda claridad por el Partido y el Gobierno de Cuba, en prenda de buena voluntad
y de paz entre todos los países de este hemisferio y del conjunto de pueblos que integran la familia humana, y así contribuir a garantizar la supervivencia de nuestra especie en el modesto espacio que nos corresponde en el universo, no dejaremos nunca de luchar por la paz y el bienestar de todos los seres humanos, con independencia del color de la piel y el país de origen de cada habitante del planeta, así como por el derecho pleno de todos a poseer o no una creencia religiosa. La igualdad de todos los ciudadanos a la salud, la educación, el trabajo, la alimentación, la seguridad, la cultura, la ciencia, y al bienestar, es decir, los mismos derechos que proclamamos cuando iniciamos nuestra lucha más los que emanen de nuestros sueños de justicia e igualdad para los habitantes de nuestro mundo, es lo que deseo a todos; los que por comulgar en todo o en parte con las mismas ideas, o muy superiores pero en la misma dirección, les doy las gracias, queridos compatriotas. Fidel Castro Ruz Agosto 13 de 2015
Scrivere è una forma d’essere utili se si considera che questa sofferente umanità deve essere più e meglio educata di fronte all’incredibile ignoranza che ci riguarda tutti, ad accezione degli scienziati che cercano nelle scienze una riposta soddisfacente. È una parola che implica in poche lettere il suo infinito contenuto. Tutti nella nostra gioventù abbiamo sentito parlare alcune volte di Einstein e, soprattutto dopo lo scoppio del bombe atomiche a Hiroshima e Nagasaki, che misero fine alla crudele guerra scoppiata tra Giappone e Stati Uniti. Quando quelle bombe furono lanciate dopo la guerra provocata con l’attacco alla base degli Stati Uniti di Pearl Harbor, l’impero giapponese era già sconfitto. Gli Stati Unti, il paese il cui territorio e le cui industrie rimasero estranee alla guerra, divenne quello con la maggior ricchezza e il meglio armato della Terra, di fronte ad un mondo devastato e pieno di morti, feriti e affamati. Insieme, la URSS e la Cina avevano perso più di 50 milioni di vite, sommate a una enorme distruzione materiale. Quasi
tutto l’oro del mondo andò a finire nelle banche degli Stati Uniti. Oggi si calcola che la totalità dell’oro come riserva monetaria di questa nazione ammonta a 8.133,5 tonnellate di questo metallo. Nonostante questo, facendo a pezzi gli impegni firmati a Bretton Woods, gli Stati Uniti dichiararono unilateralmente che non avrebbero onorato il dovere di coprire con la corrispondente quantità di oro il valore della loro carta moneta. Questa misura decretata da Nixon violava gli impegni presi dal presidente Franklin Delano Roosevelt. Secondo un grande numero di esperti in questa materia, si crearono così le basi di una crisi che tra gli altri disastri, minaccia di colpire con forza l’economia di questo modello di paese. A parte ciò vanno calcolate le indennizzazioni dovute a Cuba per i danni causati dall’embargo che ammontano a molti milioni di dollari, come ha denunciato il nostro paese con argomenti e dati indiscutibili nel corso dei suoi interventi alle Nazioni Unite. Com’è stato detto con molta chiarezza dal
Partito e dal Governo di Cuba, con l’impegno della buona volontà e della pace tra tutti i paesi di questo emisfero e dell’insieme dei popoli che formano la famiglia umana, per contribuire così a garantire la sopravvivenza della nostra specie nel modesto spazio che ci corrisponde nell’universo, non smetteremo mai di lottare per la pace e il benessere di tutti gli esseri umani, indipendentemente dal colore della pelle o del paese d’origine di ogni abitante del pianeta, così come per il diritto pieno di tutti di avere, o meno, un credo religioso. Ciò che desidero e auguro per tutti è l’uguaglianza dei diritti di tutti i cittadini alla salute, all’educazione, al lavoro, all’alimentazione, alla sicurezza, alla cultura, alla scienza e al benessere, cioè quegli stessi diritti che proclamammo quando iniziammo la nostra lotta seguendo i nostri sogni di giustizia e di uguaglianza per gli abitanti del nostro mondo; a coloro che condividono in tutto o in parte le stesse idee, e idee molto superiori ma nella stessa direzione, io dico grazie, cari compatrioti.
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Introduzione Con questo epiteto il giornalista finanziario Michael Lewis ha qualificato i “maghi” della finanza tedesca, i padroni della Bundesbank, nel libro “Boomerang” del 2010. Sono passati alcuni anni da quella analisi radicale (in verità da taluni contestata per i toni “apocalittici”, ma non nella sostanza delle argomentazioni tecniche svolte) e forse è arrivata la “resa dei conti”, o almeno sta arrivando proprio nell’occasione del tentativo di massacro dello Stato greco imposto dall’apparente strapotere della Bundesbank tedesca. Abbiamo detto Bundesbank, potere finanziario, e non Bundestag, potere politico, più avanti ne spieghiamo la ragione. Ora occorre però fare un passo indietro e provare a descrivere la reale situazione finanziaria, economica e sociale della pretesa “locomotiva” tedesca, per evidenziarne le criticità e, attraverso queste, riuscire a comprendere le ragioni di certi comportamenti “estremi” e ipotizzare alcuni probabili scenari del tutto sorprendenti.
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Nel febbraio 2014 abbiamo pubblicato un articolo intitolato “Occupazione, disoccupazione... sottoccupazione” (reperibile nel sito www.piazzadelgrano.org), nel quale esaminavamo, sulla base dei dati consuntivi del PIL tedesco al 2013 e prospettici del 2014, traendo informazioni documentate da studi statistici pubblicati dall’Università Duisburg-Essen, quella che abbiamo definito (non solo noi, ovviamente) la “bufala” della locomotiva tedesca; evidenziandone in particolare la gravità strutturale di una apparente piena occupazione camuffata da una enorme sottoccupazione con salari bassissimi e totale assenza di garanzie sociali e previdenziali. Eravamo allora ai tempi, nazionali, della “famigerata” legge Fornero sulla eliminazione delle tutele nel lavoro subordinato e osservavamo come quella legislazione “feroce”, passata alla storia con le lacrime di coccodrillo della Ministra proponente, spingeva l’Italia verso il modello tedesco proprio nel momento in cui quel modello stava mostrando i suoi gravissimi limiti. Il percor-
so normativo suicida della deregolamentazione del mondo del lavoro non si è arrestato e oggi, il boyscout fiorentino, ha imposto il suo “job act” che è andato persino oltre i più oscuri scenari della legge Fornero. Per descrive la reale situazione della Germania riprendiamo alcuni di quei dati con il conforto di aggiornamenti successivi che abbiamo tratto da studi apparsi sul “Financial Time” e sul “Wall Street Journal”. Questi studi ci espongono due scenari del sistema paese Germania: uno economico-produttivo e sociale, l’altro propriamente finanziario. Il primo studio ci prospetta una situazione economica strutturale estremamente problematica e fragile, con le conseguenti potenziali gravissime ricadute sul sistema sociale; il secondo studio ci mostra come proprio la “superefficente” Germania sia quella che più di qualsiasi altro Stato ha subito le sirene della illusione della effimera ricchezza finanziaria, sicché oggi è esposta, più di qualsiasi altro Paese dell’Unione, al rischio di un devastante default finanziario.
“Gli Idioti di Dusserldorf”
Bundesbank, una banca piena di titoli tossici e crediti inesigibili di Sandro Ridolfi
Iniziamo con il profilo economicoproduttivo e sociale A partire dal primo governo socialdemocratico Schroder la Germania ha adottato una politica di crescita economica fondamentalmente basata sulla sottoccupazione, i così detti “mini jobs”, ciò ha fatto sì che: “A partire dal 2003 il tasso di disoccupazione è calato in conseguenza della creazione di un gran numero di lavori a basso salario, a part-time o a orario flessibile, privi dei benefici e delle protezioni di cui hanno goduto le precedenti generazioni del dopoguerra. La Germania oggi ha la più alta proporzione di lavoratori sottopagati in relazione al reddito medio nazionale dell’Europa occidentale” (Financial Time, in seguito ancora citato). L’abbassamento del costo del lavoro, camuffato come detto con la “legalizzazione” di rapporti di precariato sostanzialmente “indecenti” (milioni di lavoratori tedeschi percepiscono retribuzioni tra i 5 e gli 8 euro l’ora, vedi il nostro precedente articolo sopra richiamato), resi, almeno sino ad oggi, socialmente e politicamente “sostenibili” dall’esistenza di uno strutturato Stato sociale, ha provocato tuttavia l’effetto “perverso” di una forte caduta degli investimenti produttivi, in pochi anni scesi dal
24% al 18% del PIL. Ciò ha condotto la Germania, in controtendenza con economie assai più “problematiche” come quella italiana o giapponese ad esempio, a una sensibile riduzione della sua capacità manifatturiera, pur mantenendo una fortissima potenzialità di esportazione dovuta, appunto, prevalentemente ai bassi salari interni. Sul piano sociale si è quindi verificato un notevole peggioramento dell’indice Gini (il parametro di distribuzione sociale della ricchezza) che da una posizione assai buona (0,28) rispetto agli altri Stati europei anche nordici, l’ha avvicinata alle posizioni più inique (0,32) dell’Italia e della Francia ad esempio, le quali, invece, nonostante la grave crisi mondiale non hanno subito, almeno ancora, peggioramenti così violenti. La riduzione degli investimenti produttivi, drogata (cioè occultata come effetto di ritorno negativo) dalla conservazione del surplus delle esportazioni, ha impoverito strutturalmente lo Stato tedesco anche dal punto di vista del così detto “capitale umano”: “In Canada, Francia, Giappone, Polonia, Spagna, Regno Unito e USA, la percentuale di giovani lavoratori con un’istruzione superiore è almeno di 10 punti superiore a quella tedesca – in
molti casi, perfino di 20 punti o più. La Germania, inoltre, è una delle uniche 2 economie avanzate dove la percentuale di 25-34enni con un’istruzione superiore è pari, o inferiore, a quella della generazione precedente (l’altro paese sono gli USA). La Germania ha rinunciato a investire nella sua università pubblica, mentre il settore privato ha mantenuto, ma non incrementato, la disponibilità dei suoi famosi apprendistati." (Financial Time citato). In sostanza in Germania si è verificato un fenomeno di “droga dalle esportazioni” che ha impoverito la ricchezza nazionale intesa come capacità di spesa del mercato interno, accrescendo a dismisura la tesaurizzazione dei profitti dalle esportazioni nel sistema bancario. I tedeschi, alcuni dicono “per cultura”, ma dai dati sopra esposti potremo più correttamente qualificare “per bassi salari/redditi”, hanno una scarsissima propensione alla spesa, che vuol dire che non consumano (se non ovviamente in parte limitata necessaria) i beni che producono, per farne merce da esportazione, dalla quale, come detto, traggono profitti monetari che accumulano nelle loro banche in misura esponenziale, per poi reinvestirli all’estero.
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Questa conclusione ci introduce al secondo profilo finanziario dell’economia tedesca. Nell’ultimo decennio la Germania ha goduto di un surplus dalle esportazioni pari a circa il 6% del proprio PIL che, come detto, ha quasi interamente tesaurizzato. A questo punto i “maghi” della Bundesbank e banche sostanzialmente nazionali collegate (n.b. va osservato che il sistema bancario tedesco è in grandissima parte pubblico, in virtù della diffusione di banche degli Stati federali che, in violazione “sfacciata” delle regole comunitarie, sostengono pesantemente i notevoli debiti pubblici locali!) ha intrapreso una vastissima campagna di investimenti esteri ma, e qui emerge ancora il dato della “miopia” economica della cultura tedesca, non in beni, infrastrutture, siti produttivi o comunque capitali di società produttive e/o patrimoniali estere, bensì in titoli di credito: liquido per (potenziale) liquido, secondo la logica del massimo profitto, cioè a più alto rendimento. Ora è regola “basilare” (lo abbiamo spiegato in un precedente articolo sul significato del così detto “spread”) che più è alto il rendimento offerto da un titolo (un credito), più elevato è il rischio di non riavere non solo il rendimento promesso, ma persino lo stesso capitale prestato/investito (“Argentina docet”!). Di tutto ciò i banchieri tedeschi non si sono affatto curati andando a intercettare, soprattutto negli anni del boom della finanza, i titoli più redditizi e dunque quelli più rischiosi. Scrive Machael Lewis nel libro sopra citato che: “Quando le banche di Wall Street hanno inviato le loro forze di vendita fuori a setacciare il mondo per trovare qualche idiota di indurre a investire nei loro titoli, un numero sproporzionato di quegli idioti erano in Germania”. Al punto che qualcuno ha anche affermato che tra i maggiori responsabili delle bolle speculative dei subprime americani sono stati proprio gli investitori tedeschi che, comprando qualsiasi credito a qualsiasi prezzo, purché dietro l’apparente promessa di un rendimento strepitoso, hanno reso possibile la produzione e la collocazione sul mercato mondiale di una enorme quantità di titoli “tossici”. Oltre ai titoli del debito nord americano i banchieri tedeschi hanno anche pesantemente investito in titoli di debito così detto “sovrano”, cioè prestiti statali, e tra questi ultimi, in
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grande quantità, in titoli del debito greco. E’ stato stimato (Wall Street Journal) che la perdita sugli investimenti esteri della Germania potrebbe aggirarsi attorno al 20% del PIL tedesco! In numeri “semplificati” il giorno che le banche tedesche dovessero prendere (e dare) atto del disastro della non recuperabilità dei crediti esteri, emergerebbe un debito per risanamento del dissesto bancario nazionale tedesco pari a 16.000 euro per ogni famiglia tedesca! Va osservato che né l’Italia né, per quanto consta, la Francia o altri Stati del “meridione” dell’Europa hanno nella così detta pancia dello loro banche (peraltro va detto private o privatizzate) titoli tossici in quantità lontanamente paragonabile a quella delle banche tedesche, oltre al fatto che gran parte delle banche maggiori hanno già attraversato il loro default nominale (vedi Unicredit, Monte dei Paschi, ecc.) e sono quindi già state “risanate”. La sciocchezza della “sovranità monetaria” Prima entrare nel merito del diktat alla Grecia appare opportuno un brevissimo cenno al tema della così detta “sovranità monetaria”, tanto sbandierato dagli anti-euro/Europa (o anti Germania) quanto del tutto storicamente e tecnicamente fuori luogo. Affermazione pregiudiziale: NON è mai esistita, ovviamente nell’occidente capitalistico, la predetta “sovranità monetaria”, cioè, in termini semplificati e comprensibili, i governi statali non hanno MAI avuto il controllo della produzione della moneta anche quando, prima dell’euro o comunque del dollaro moneta di riferimento mondiale, c’erano valute nazionali. La ragione è semplice e perfettamente coerente con la funzionalità del sistema economico produttivo capitalista. La moneta, cioè quel mezzo di ausilio allo scambio delle merci, per essere accettata come tale e quindi sostituire il baratto originario, deve avere un rapporto “equilibrato” con i beni che rappresenta figurativamente. Cioè intanto si accetta moneta in cambio della fornitura, produzione, ecc. di un bene o servizio, in quanto si ha la certezza che con quella moneta si potrà, all’occorrenza, acquistare beni o servizi di valore qualiquantitativo equivalente a quelli ceduti in cambio, appunto, della moneta. Un esempio elementare: intan-
to il produttore di scarpe cederà il suo prodotto in cambio di una banconota, in quanto sarà sicuro che riscambiando quella banconota con un produttore di camice avrà una camicia, che vuol dire che a sua volta il produttore di camice cederà la camicia per la banconota datagli dal produttore di scarpe, in quanto a sua volta sarà sicuro di poterla scambiare con un altro bene, e così via. Ora se le banconote sono superiori alla massa quali-quantitativa dei beni scambiabili ci sarà il rischio che, ad esempio, il produttore di camice non accetterà la banconota del produttore di scarpe e quindi quest’ultimo, a sua volta, non accetterà banconote per le proprie scarpe, e così via. Controllare dunque l’equilibrio del rapporto tra moneta in circolazione e beni scambiabili attraverso l’ausilio della moneta è strategico per la tenuta di ogni sistema economico evoluto (cioè oltre il baratto). Ebbene se a “battere” moneta fosse il governo esiste (esperienza storica) il rischio che questo, per soddisfare le sue esigenze di politiche di governo, stampi moneta indifferentemente dalla verifica dell’equilibrio con i beni disponibili. Storicamente perciò la gestione della moneta è stata sempre tenuta separata dal potere politico contingente e affidata a un ente/soggetto sostanzialmente autonomo.
Gli Istituti di emissione La Banca d’Italia, che stampava la lira, era sotto controllo degli Istituti di Credito soci e lo Stato, Ministero del Tesoro, nominava solo il Governatore con poteri di controllo e direzione molto limitati. La Federal Reserve USA non dipende dal governo, ma anch’essa è indipendente dal potere politico. Analogamente, quando è stata creata la Banca Centrale Europea per gestire la stampa della “moneta unica”, la stessa è stata dotata di totale autonomia rispetto alla Istituzioni sia comunitarie che degli stessi Stati costituenti/aderenti. Da un lato quindi gli Stati (e anche nei suoi limiti ancora attuali l’Unione Europea) con le loro politiche sociali, industriali, commerciali, ecc.; dall’altro lato l’Istituto di emissione della moneta con il compito di controllarne la quantità in relazione alla quantità dei beni in circolazione (tutto ciò detto ovviamente con estrema semplicità per necessità di semplificazione). Il boom della finanza (mondiale) ha tuttavia introdotto un elemento imprevedibile che, in qualche modo, ha “cambiato le carte in tavola”. Le banche che dovevano controllare la moneta/liquidità si sono letteralmente “affogate” nei titoli tossici e hanno contribuito a creare liquidità finanziaria fittizia in misura macroscopicamente sproporzionata alla ricchezza reale e ora non sanno più
come venire a capo di questo squilibrio che hanno creato loro, e non i governi nazionali. Paradossalmente i ruoli si sono ribaltati: non sono gli Stati (i governi degli Stati) che premono sulle banche di emissione per avere più liquidità per le loro politiche di sviluppo, ma sono gli istituti di emissione che affossano gli Stati per riavere la liquidità che hanno artificiosamente creato e “bruciato” nelle follie finanziarie. La Bundesbank contro il popolo greco (e non solo) Possiamo venire ora alla ghigliottina greca perché questo è appunto avvenuto: la Bundesbank (potere finanziario), e non il Bundestag (potere politico), per non dichiarare il proprio default pretende che la Grecia, cioè il popolo greco (ma vale per quello italiano, francese, spagnolo, ecc.), paghi fino all’ultimo centesimo il suo debito sostanzialmente inesistente e comunque insostenibile. Chi si è (almeno in parte) defilato? Il Fondo Monetario governato dagli Stati Uniti che sono proprio quelli che hanno “affibbiato” agli idioti di Dusseldorf una “montagna” di titoli tossici. E’ chiaro che in Germania governo dello Stato (Bundestag) e governo delle banche (Bundesbank) non sono antagonisti, anche perché, per quanto sopra detto, il collasso della Bundesbank costerà tantissimo ai cittadini tedeschi, ma è anche
vero che questo collasso prima poi arriverà e così come la Bundesbank sta oggi strangolando i popoli dei Paesi esteri, non è escluso che alla fine proverà a strangolare anche i cittadini tedeschi e per essi il suo governo. Chi comanda dunque in Germania: la primo ministro Merkel o il Ministro delle Finanze Schaeuble che prende ordini dalla Bundesbank e non dal governo? Dalla crisi finanziaria (e non economica!) dell’occidente non si esce con le politiche di austerità, che vuol dire pagare i debiti delle follie finanziarie, come è stato chiaramente dimostrato dai numerosi anni oramai passati dall’inizio della crisi, ma con una diversa politica produttiva, industriale, sociale e dunque anche di mercato interno e non solo ostinatamente con le esportazioni verso Paesi che: o non sono più in grado di comprare proprio a causa delle crisi finanziaria, o oramai sono in grado da soli di produrre beni equivalenti e forse anche migliori e a miglior prezzo. Prima o poi lo capirà anche il governo tedesco (se non lo ha già capito) e allora anche lui dovrà liberarsi dal pre-dominio delle banche (della finanza) e tornare all’economia reale. La Grecia ha aperto un “varco” fingendo di accettare condizioni oggettivamente non sostenibili, quando questo sarà evidente, si aprirà il secondo tempo della “partita”, ma questa volta a ruoli invertiti e a schieramenti forse molto più equilibrati.
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Anja Reschke, una presentatrice televisiva tedesca, durante il notiziario serale Norddeutscher Rundfunk ha lanciato un duro attacco contro i commenti razzisti e l’incitamento all’odio razziale nei confronti dei rifugiati. Ha inoltre chiesto al pubblico, in questo caso tedesco, di prendere posizione e di non restare in silenzio di fronte a simili episodi. La presentatrice ha concluso il suo editoriale dicendo «Fino a poco tempo fa i razzisti si nascondevano dietro a pseudonimi. Ora invece scrivono i loro commenti usando il loro vero nome. Sembra che non sia più imbarazzante. Anzi, quando pronunci frasi come gli “sporchi vermi dovrebbero annegare in mare”, raccogli grandi consensi e molti mi piace sui social media» La presentatrice ha continuato dicendo «Prima se dicevi cose del genere eri un razzista che nessuno conosceva, ora invece diventi famoso e questo ti fa piacere». La giornalista ha concluso il suo editoriale chiedendo ai tedeschi di
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reagire: «Se non pensi che tutti i rifugiati siano sanguisughe e che debbano essere cacciati via, bruciati o soffocati nelle camere a gas, allora dovresti farlo sapere a tutti, opporti, parlare a voce alta, mettere i razzisti alla gogna». Questa situazione di odio raziale verso i rifugiati da parte di gruppi estremisti di destra, anche se in questo caso circoscritta al territorio tedesco, ha una valenza che trasborda i confini della stessa Germania. In Italia, a parte qualche partito e politico ignorante, gravi dimostrazioni nei confronti dei rifugiati o immigrati non ci sono stati. Tuttavia, nel caso Italia è interessante vedere quale sia il ruolo di una parte di questi immigranti nella nostra economia nazionale. Purtroppo siamo politicamente rappresentati da persone incapaci di vedere al di là della realtà contingente, troppo spesso interessati ai propri interessi o di una minoranza e lontani dalle necessità del paese reale. A volte gli immi-
grati sul nostro territorio vengono demonizzati come usurpatori di posti di lavoro che dovrebbero spettare agli italiani. Però, se si pensa ai lavori più umili, quanti sono gli italiani che ancora sono disposti a “faticare” pur di svolgere un lavoro?. Basti pensare al settore agricolo dove, senza gli immigrati si riscontrerebbe un’insostenibile carenza di manodopera. Gli stessi politici che si lamentano del grande flusso di migranti che dalle aree più povere dell’Africa e dell’Asia tentano di raggiungere il territorio italiano, sono poi i primi a chiudere gli occhi di fronte allo sfruttamento che gli stessi italiani fanno di questi immigrati, creando in Italia un business che vale miliardi di euro. Vale dunque la pena uscire fuori dalla propria zona di confort, abbandonare i pregiudizi che spesso nutriamo nei confronti degli immigrati e dare uno sguardo al duro lavoro e alle condizioni in cui un gran numero di loro vive. Un lavoro con cui spesso tutti noi ci nutriamo.
Immigrazione una necessità strutturale di Giacomo Bertini
Il contesto Puglia Questa breve inchiesta parte dalle campagne della Puglia, e più precisamente nell’area della provincia di Foggia denominata Capitanata. Questa zona è famosa oltre che per le sue immense distese di campi da coltivazione, essenzialmente di frutta e verdura, anche per una consistente presenza quasi tutto l’anno, maggiormente durante il periodo estivo, di persone immigrate impiegate principalmente in agricoltura. La Puglia è una regione con una forte vocazione agricola, e nell’ultimo decennio con una accelerazione significativa negli ultimi cinque anni, in concomitanza con la crisi economica, ha aumentato in maniera considerevole il numero di lavoratori stranieri presenti sul suo territorio. Complessivamente, secondo un’indagine condotta dalla FLAI-CGIL, nel 2013 gli stranieri residenti in Puglia erano 110,338, dei quali 59,683 donne e 50,656 uomini. Per di più l’indagine sottolinea come sia importante il contributo dato dai lavoratori migranti nel settore agricolo, principalmente durante il periodo di raccolta e di lavorazione. Nel 2013 c’erano 39,599 lavoratori migranti, mentre nel 2012 erano 38,211. Ciò nonostante, il settore agricolo è caratterizzato da un fenomeno contradditorio perché gli indicatori economici fanno notare una riduzione significativa di tutta la produzione e commercializzazione agricola sia a livello regionale che nazionale, anche in termini di esportazione. Invece, in termini di occupazione, secondo i dati rilasciati dalla Banca d’Italia, c’è un aumento del 2,2%. Questi dati relativi al settore agricolo sono in controtendenza rispetto al generale dato
sull’occupazione, dato che il tasso di disoccupazione regionale, effetto diretto della recente crisi economica e finanziaria, durante il periodo tra il 2008 e il 2012 è passato dall’11% al 15,7%. Da questi dati emerge come la forza lavoro migrante sia una necessità strutturale. La Capitanata La zona della Capitanata, con le sue particolarità sia a livello geografico che dal punto di vista della strutturazione del mercato del lavoro agricolo, comportano cause e dinamiche di sfruttamento e violazione. Il fattore geografico gioca un ruolo importante nell’isolamento e marginalizzazione degli insediamenti abitativi, chiamati anche ghetti dove i lavoratori migranti vivono, perché questa situazione aiuta a rendere meno visibile la pratica del lavoro seriamente sfruttato e rendere meno percepibile le condizioni di vita che i lavoratori migranti sono costretti a subire ogni giorno. Infatti, è la grande distanza tra i vari centri abitati in Capitanata a facilitare l’isolamento fisico e sociale, la quale rende ancora più complicata qualsiasi forma di controllo sociale ed istituzionale. Invece, le peculiarità del mercato del lavoro agricolo in Capitanata hanno sempre richiesto manodopera non specializzata e basso costo del lavoro in specifici periodi di raccolta dei prodotti. Inoltre, l’attuale struttura di violazioni e sfruttamento, la quale negli ultimi venti anni ha preso in considerazione principalmente gli stranieri, deve essere messe in relazione con la tradizionale pratica del caporalato, tipica del sud Italia ed in questo caso della Capitanata. La provincia di Foggia che coincide
con la zona geografica chiamata Capitanata, è la seconda provincia Italiana per la sua estensione geografica e prima per la superficie pianeggiante. La popolazione dell’intera provincia è distribuita essenzialmente nei centri urbani di medie dimensioni, mentre le zone di campagna sono meno popolate rispetto ad altre aree del centro e nord Italia. Foggia e la sua provincia contano meno di 700,000 abitanti, tuttavia è la provincia in Puglia con il più alto numero di stranieri con 21,168 persone, principalmente Europei ed Africani. Tuttavia, questo numero prende in considerazione solamente gli stranieri legalmente residenti e non prende in esame tutti gli altri lavoratori stagionali, che rappresentano un numero consistente. Il settore agricolo rappresenta il primo segmento dell’economia provinciale. Anche se la provincia di Foggia ha il più alto numero di persone impiegate nel settore agricolo e contribuisce in maniera sostanziale a supportare l’industria primaria, tuttavia ci sono pochi investimenti nell’innovazione e nella meccanizzazione. Infatti, nei recenti anni l’offerta di forza lavoro a basso costo ha scoraggiato le aziende nel razionalizzare i cicli di produzione ed investire in macchinari e tecnologia. Per di più, durante il periodo di raccolta, l’estrema competizione tra gli imprenditori e le aziende di trasformazione del prodotto e la mancata cooperazione tra gli agricoltori ha ulteriormente scoraggiato la meccanizzazione nel processo di raccolta. In questo quadro, la forza lavoro straniera gestita dal caporale compensa la mancanza di cooperazione e fornisce rapidità, flessibilità e prezzi che nessun macchinario potrebbe garantire.
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Dalle varie testimonianza raccolte durante questa inchiesta tra i sindacalisti locali, emerge un quadro del mercato del lavoro agricolo, anche per il lavoratori Italiani, caratterizzato da una forte sotto-occupazione, sotto-pagamento e una diffusione del lavoro grigio. Infatti, accanto al lavoro cosiddetto nero, proliferano differenti forme di irregolarità contrattuali e salariali, di solito collegate a meccanismi di corruzione circa il pagamento di contributi delle giornate lavorate con lo scopo di frodare il sistema di contribuzione sociale al fine di avere accesso alla disoccupazione agricola. Un aspetto importante da sottolineare e che riguarda la provincia di Foggia, è la percentuale di migranti che superano le 51 giornate lavorative, cioè la soglia minima per aver diritto alla disoccupazione agricola. I lavoratori migranti che superano questo numero di giornate lavorative sono solamente il 25,2%, mentre per gli autoctoni questo dato si attesta al 74,7%. Da questi elementi emerge che oggi in provincia di Foggia in agricoltura, vi è una non trascurabile, ed in alcuni casi prevalente, se non addirittura esclusiva presenza di lavoratori migranti per i quali non vengono dichiarate neanche le giornate reali, al fine di ottenere il diritto alla disoccupazione agricola. Oltre a ciò, se alla condizione di sfruttamento e di pressoché totale soggezione al caporale si aggiunge la valutazione relativa alla presenza di migranti senza regolare assunzione e senza permesso di soggiorno, questa situazione assume i tratti di una tragedia umanitaria. Infatti, come dichiarato da Daniele Calamita, sindacalista presso la CGIL-FLAI di Foggia, durante il periodo estivo e per la raccolta dei pomodori, la presenza di lavoratori migranti è stimato intorno alle 10-15 mila unità. Le condizioni di vita del Ghetto Il ghetto di Rignano Garganico, non è facile da raccontare con semplici parole, solo vederlo con i propri occhi può dare la reale conoscenza del modo in cui vivono questi lavoratori migranti. Questo è composto essenzialmente da baracche che crescono al confine di tre differenti comuni: San Severo, Rignano Garganico e Foggia. Tuttavia è chiamato Rignano Garganico perché è il comune più vicino al ghetto.
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Esso può ospitare tra la metà di Luglio e la fine di Agosto fino a 1,200 persone, mentre durante il periodo invernale vi risiedono circa in 200. Le abitazioni sono sprovviste di connessione alla rete idrica ed elettrica e di collegamento alla rete fognaria. Tutte le abitazioni sono in cattive condizioni, nonostante gli interventi di riparazione da parte degli stessi lavoratori durante l’inverno. Un aspetto interessante della condizione abitativa dei lavoratori migranti al ghetto è il titolo d’uso con cui la occupano. Infatti, come dichiarato da padre Arcangelo (padre Scalabriniano che conosce il posto molto bene e che lavora con altri volontari organizzando campi estivi supportando le cause di questi lavoratori migranti) il titolo d’uso è, nella maggior parte dei casi, una occupazione de facto o un comodato d’uso concordato con i proprietari degli immobili. A volte, alcuni lavoratori che risiedono nell’immobile prestano anche l’attività lavorativa in alcuni periodi dell’anno presso i proprietari. Dalle dichiarazioni di padre Arcangelo, durante l’estate il ghetto quadruplica il numero di lavoratori migranti. Intorno alle abitazioni in muratura sono costruite gradualmente un numero di baracche di fortuna occupate da lavoratori della stessa nazionalità o che parlano la stessa lingua delle persone che abitano permanentemente in quelle case. Inoltre, durante l’estate aumentano anche servizi autorganizzati, come veri e propri ristoranti, supermercati dove si possono comprare i beni di prima necessità. Tutte le abitazioni, sia esse in cemento o baracche, sono sprovviste di elettricità, acqua e rete fognaria. Prima del 2011, gli abitanti bevevano acqua proveniente dai canali di irrigazioni dei campi, mentre i bisogni fisiologici erano espletati nei campi intorno al ghetto. Tuttavia nel 2011, attraverso un progetto della regione Puglia, sono state installate presso il ghetto dei depositi con dentro acqua potabile ed alcuni bagni chimici. Dal 2011 questo progetto è ancora operativo, e come dichiarato da padre Arcangelo, la ditta responsabile nell’approvvigionamento dell’acqua arriva al ghetto due o tre volte al giorno, per garantire acqua per tutti. Questo servizio ha un importante impatto, in quanto permette di minimizzare i rischi per la salute e soprattutto avere acqua potabile vicino alle proprie abitazioni. Un altro aspetto interessante da sot-
tolineare riguarda la condizione dei lavoratori migranti è il difficile accesso che loro stessi riscontrano nell’avere cure mediche. Secondo padre Arcangelo, le condizioni igienico sanitarie delle abitazione, in aggiunta alle dure condizioni di lavoro e alla malnutrizione, sono i principale rischi per la salute dei lavoratori migranti. Nonostante la centralità della salute nel lavoro, le istituzioni pubbliche sono totalmente assenti nel dare accesso alle cure mediche. A questo riguardo, dal 2008 in questa regione, le associazioni del terzo settore si prendono cura della salute dei lavoratori migranti. Come dichiarato da padre Arcangelo, prima Medici Senza Frontiere e adesso Emergency, sono presenti nel fornire un’assistenza sanitaria rispettabile. In particolare, Emergency ha promosso due cliniche mobili le quali girano per tutta la provincia di Foggia. Per quanto riguarda l’assistenza attraverso queste cliniche mobili, Emergency collabora con le ASL locali, e manda alle strutture sanitarie pazienti che richiedono esami o visite. Anche se le condizioni di vita al ghetto non sono facili, paradossalmente il ghetto rappresenta per molti lavoratori il posto più sicuro dove si possono costruire dei legami sociali, infatti al di fuori non hanno nessun legame con il territorio, e perché il mercato del lavoro non offre nient’altro sfruttamento. Le condizioni lavorative Il contratto collettivo nazionale e provinciale dei lavoratori in agricoltura, non viene applicato a questi lavoratori migranti. Il rispetto del salario, delle ore lavorative, delle malattie, ferie e qualsiasi altro diritto che dovrebbe essere garantito, scompare. Anche se il contratto di lavoro stabilisce una paga giornaliere tra i 42 e 48 euro per sei ore e mezza di lavoro, i migranti guadagnano solo tra i 25 e i 30 euro per le ore di lavoro che variano tra le dieci e le dodici. In questa parte della Puglia, il maggior business in agricoltura è la raccolta e vendita del pomodoro. Questo inizia a metà Aprile con la sua piantagione, e durante il periodo primaverile le principali mansioni sono l’eradicazione di erbe dove il pomodoro è stato piantato. Mentre, durante il periodo estivo tutti i lavoratori migranti presenti al ghetto alternano lavori al campo con lavori di manutenzione alle case in cui abitano.
Tuttavia, dato che per la raccolta del pomodoro si deve attendere la piena maturazione del prodotto, come un testimone che chiamerò S. mi ha dichiarato, invece di aspettare la raccolta del pomodoro per guadagnare qualche euro, lavorava nel campo per togliere gli insetti dalle pienate del pomodoro, S. riceveva per mezza giornata di lavoro 25 euro, ma altri erano pagati 20 euro. La storia di S. è importante anche per capire come la politica di immigrazione italiana stia fallendo nell’assicurare un posto sicuro a chi arriva sul nostro territorio, ed in particolare come questa legislazione in tema d’immigrazione aumenti il lavoro nero, sotto-pagato e sfruttato. S. è un giovane ragazzo senegalese, che è fuggito dalla sua terra nel 2009 per salvare la sua vita a causa di una guerra civile. E’ scappato in Mali, ma sfortunatamente anche questo Paese era sconvolto da conflitti interni, cosi decise di recarsi in Libia. Come dichiarato da S., la Libia era un buon Paese in cui stare, e lui lavorava in un ristorante, il cui proprietario era diventato un suo buon amico. Purtroppo, la Libia cadde in una guerra civile tutt’ora irrisolta, e c’era un cattivo sentimento nei confronti delle persone di colore presenti sul territorio. Cosi, il proprietario che era diventato amico di S., gli ha intimato di andare via altrimenti lo avrebbe ucciso. L’uomo ha organizzato e pagato il viaggio per nave ad S., cosi lui è arrivato vivo nel 2014 come tante altre persone a Lampedusa. Appena arrivato, S. ha inoltrato la richiesta di richiedente asilo, e fu trasferito in una comunità per richiedenti asilo in Molise. In questa comunità ha lavorato ed ha ottenuto il permesso di sog-
giorno. Quando ho incontrato S. in un piccolo centro per richiedenti asilo in Puglia, lui viveva con altri cinque persone, tutti in attesa di una risposta. Il governo Italiano rilascia documenti per i richiedenti asilo solo a quelle persone che provengono da una zona di guerra, ma non prende in considerazione le persone che fuggono da altre zone di conflitto. Persone come S., che hanno inoltrato la richiesta per richiedenti asilo non possono avere un lavoro regolare, e come S. che stava lavorando per la raccolta del pomodoro senza un contratto di lavoro regolare, sta aumentando, sicuramente non per colpa sua, il lavoro nero, dando potere smisurato alla pratica del caporalato. Questo succede anche perché l’associazione che gestisce questo centro non offre nessun servizio a chi vive li. Questi ragazzi che sono ospitati da questa struttura, passano le loro giornate senza fare nulla. Loro chiedono semplicemente una cosa, un corso di lingua Italiana. Tuttavia, S. vuole rimanere in Italia perché qui ha trovato la pace. La giornata lavorativa dei lavoratori migranti, come dichiarato da padre Arcangelo inizia alle cinque del mattino, senza tenere in considerazione il mezzo che si usa per raggiungere il campo, di solito un furgoncino gestito dal caporale etnico o attraverso la bicicletta, che rappresenta un mezzo di indipendenza dato che non devono pagare per nessun trasporto. Il lavoro nel campo inizia vero le sei del mattino. La raccolta è fatta attraverso delle casse di media grandezza che ogni lavoratore trasporta lungo il filare dei pomodori. Quando il lavoratore ha riempito la propria cassa, versa il tut-
to in una grande contenitore che trattiene circa tre quintali di prodotto. Questo lavoro dura tra le dieci e dodici ore al giorno. Il salario viene dato in base a quanti grandi cassoni da tre quintali il lavoratore migrante raccoglie. Secondo padre Arcangelo, un lavoratore migrante al giorno può raccogliere tra le 8 e 10 cassoni. Il salario pagato attraverso il lavoro a cottimo, 5 euro per cassone, è generalmente inferiore ai 30 euro, perché dai 5 euro si deve sottrarre circa 1-1,5 euro che il caporale prende da ogni cassone. Tuttavia da questa somma bisogna considerare il costo del trasporto, 5 euro, sempre a favore del caporale. Per quanto riguarda il cibo, la maggior parte dei lavoratori migranti del ghetto si porta con se il pranzo, e la stessa cosa avviene con l’acqua. Tuttavia in alcune zone, il caporale obbliga i lavoratori migranti ad acquistare presso di lui acqua e cibo, cosi da aumentare l’estorsione verso i lavoratori. Senza dubbio, i lavoratori migranti sono soggetti allo sfruttamento lavorativo al fine di mandare avanti un settore primario, che senza la loro manodopera scomparirebbe. Questo sfruttamento riguarda le condizioni degradanti delle case in cui vivono, le condizioni igieniche, il salario che percepiscono e le estenuanti ore di lavoro che sono costretti a fare. I lavoratori migranti sono l’ultima ruota della filiera dello sfruttamento, che comprende il caporale che guadagna sulle misere paghe che i lavoratori migranti prendono, sino ad arrivare agli imprenditori agricoli che al cospetto del guadagno, cancellano ogni diritto umano.
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Perché abbiamo bisogno dei BRICS della conoscenza di Domenico Fiormonte
Possiamo continuare a ignorare quanto sta accadendo nel mondo e le connessioni che attiviamo - o meno - con le nostre scelte? È di qualche mese fa la notizia che i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) hanno creato una loro banca. La neonata istituzione finanziaria nasce come sfida diretta alla supremazia occidentale incarnata, a partire dal dopoguerra, da Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale. I BRICS hanno firmato accordi in altri settori e aspirano a dotarsi di una loro agenzia di rating, un loro circuito finanziario e una Internet privata che aggiri il traffico che passa obbligatoriamente dai nodi USA. D'altra parte l'assetto geopolitico dell'industria delle telecomunicazioni è noto: i maggiori fornitori e proprietari di connettività al mondo sono i cosiddetti "tier 1 providers" (T1P). La loro rete è così vasta che non hanno bisogno di comprare transit agreements da altri provider. Sebbene gli intrecci finanziari e commerciali fra questi colossi non siano pubblici, i T1P ufficialmente dovrebbero
essere quattordici, ma secondo alcuni il cuore della dorsale è in mano a sette sorelle: Level 3 Communications (USA), TeliaSonera International Carrier (Svezia), CenturyLink (USA), Vodafone (UK), Verizon (USA), Sprint (USA), e AT&T Corporation (USA). È evidente che i BRICS non siano molto favoriti da questa situazione. Essi rappresentano un quarto del Prodotto Interno Lordo del pianeta, il 43% della popolazione (3 miliardi di persone) e possiedono riserve in valuta pregiata per 4.400 miliardi di dollari. E da tempo si parla di allargare il gruppo ad altri paesi emergenti, come per esempio Turchia e Indonesia (con tassi di crescita del PIL intorno rispettivamente al 5% e 6% annui). A questi dati vorrei affiancare un sunto sulla situazione del "costo della conoscenza"del sociologo ed editor spagnolo Joaquín Rodríguez. Traduco, con qualche aggiunta,
quanto scrive Rodríguez: "Fra i primi cinque gruppi editoriali del mondo, tre si dedicano alla pubblicazione di contenuti scientifico-tecnico-professionali e alla gestione e identificazione di informazioni utili per comunità altamente qualificate che necessitano di contenuti aggiornati. La anglo-olandese Reed Elsevier (fra le altre cose promotrice di Science Direct e Scopus), l'americana Thomson-Reuters (produttrice di Web of Science) e WoltersKluwer (azienda olandese che si è fusa col gigante tedesco Bertelsmann &Springer, facendo nascere SpringerScience+Business). Si tratta di tre giganti che non soltanto fatturano cifre inconcepibili per editori che lavorano in altri settori [Reed Elsevier nel 2013 ha fatturato 7,2 miliardi di dollari, n.d.t.] ma, soprattutto, dominano e controllano la produzione, circolazione e uso della conoscenza prodotta dalla comunità scientifica."
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Ma che cosa c'entra la banca BRICS con il dominio anglofono dell'editoria scientifica? Faccio un passo indietro. Nel marzo 2014, in seguito a una mail di insulti inviata "accidentalmente" alla lista di discussione dell'Associazione di Informatica Umanistica e Cultura Digitale (AIUCD), mi sono dimesso dall'omonima associazione. Non è utile qui ripercorrere le tappe di quella vicenda, ma occorre tuttavia comprendere le ragioni profonde di quello scontro, dove si sono confrontate visioni geopolitiche divergenti. In ballo a mio parere vi era molto di più di una valutazione sull'opportunità o meno dell'affiliazione all'associazione europea di informatica umanistica (EADH), ma (vedi mia mail di risposta): "tre livelli di problemi fra loro strettamente interconnessi: 1) un problema squisitamente politico, ovvero la rappresentanza di AIUCD e delle altre organizzazioni nazionali all'interno degli attuali contenitori (la Alliance of Digital Humanities Organization e la European Association of Digital Humanities), nonché del funzionamento degli stessi; 2) un problema di rappresentazione delle diversità culturali, linguistiche, disciplinari, ecc. all'interno e all'esterno delle organizzazioni; 3) un problema di presenza scientifica delle ricerche non-anglofone all'interno del panorama internazionale delle DH." Purtroppo non è stato possibile discutere di queste cose in un'assemblea plenaria, ma si è preferito procedere in modo autoreferenziale, siglando l'accordo con EADH senza ratifica da parte dell'assemblea. Detto ciò, quello che mi preme analizzare qui è la debolezza delle ragioni (e dei ragionamenti) che stanno dietro scelte ormai assai frequenti negli ambienti accademici e scientifici (non solo italiani). Si tratta dell'ansia e della paura di essere "tagliati fuori" dal gioco "internazionale". Ci ricorda qualcosa? L'affiliazione a EADH è tutto sommato un problema secondario. Il vero nodo è ADHO, un organismo che si definisce internazionalmente rappresentativo delle Digital Humanities, ma creato da "constituent organisations" (USA, UK, Australia, Canada e Giappo-
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ne) le quali decidono chi entra, come e perché. In sostanza una sorta di club inglese che poco ha a che fare con un'organizzazione democratica. Il comportamento di queste e altre organizzazioni e consorzi dominati dagli anglofoni ricorda ciò che scrive il giurista finlandese Martti Koskenniemi criticando la prassi del diritto internazionale: "Ti accetterò, ma solo a condizione che io possa pensarti nel modo in cui posso pensare me stesso". Va detto che la comunità degli umanisti digitali è più aperta e attenta alla diversità di molte altre comunità scientifiche, dove il problema della supremazia anglofona è dato per scontato (si pensi al caso di autolesionismo del Politecnico di Milano). In campo umanistico c'è un dibattito in corso e le cose sono in movimento. Sulla lista diGlobal Outlook Digital Humanities (http://www.globaloutlookdh.org) ha scritto un collega cubano che voleva iscriversi e ha ricevuto incoraggiamenti vari. Tuttavia perché se sono un cittadino cubano o poniamo uzbeko posso affiliarmi individualmente a ADHO e se sono italiano, spagnolo o tedesco devo passare attraverso EADH? L'intenzione esplicita è quella di incoraggiare le affiliazioni senza l'obbligo di abbonarsi alla costosa rivista, ma questo non mette minimamente in discussione il modello chiuso di ADHO, ma anzi lo rafforza. E d'altronde questo l'unico modo per aprire mantenendo il controllo. (Per inciso: 7 membri su 9 dello Steering Committee di ADHO provengono da UK, USA, Australia e Canada. Uno dal Giappone e uno dalla Germania.). In conclusione, la scelta di ADHO, e dunque dell'associata EADH, sembrerebbe quella di mantenere nelle proprie mani il controllo sulle Digital Humanities, cercando di diffondere una immagine "internazionale"di questa comunità scientifica, i cui strumenti però continuano a essere tutti anglofoni: la conferenza annuale, la mailing list Humanist, la rivista LLC/DSH, le monografie più o meno sponsorizzate (tipo Companion). Per non parlare di software, linguaggi e cosiddetti "standard". Le Digital Humanities infatti si occupano soprattutto di digitalizzazione del patrimonio testuale e il ruolo degli
standard è cruciale. Geoffrey Bowker e Susan Leigh Star ci hanno mostrato che gli standard (considerati come "information infrastructures") hanno un forte carattere simbolico ancor prima che materiale e il loro controllo costituisce una della caratteristiche centrali della vita economica. Basti pensare al tempo: il meridiano di Greenwich (1884) pone al centro del mondo uno spazio-tempo locale, quello della località inglese. Ma questo è nulla a confronto della "code hegemony" esercitata in nome e per conto dell'impero anglofono. Il Board of Directors del consorzio internazionale UNICODE, che si occupa della codifica di tutte le lingue del mondo, è formato da Intel, Google, Microsoft, Apple, IBM, OCLC e IMS Health. Nemmeno un rappresentante di una istituzione culturale, di ricerca o di istruzione pubblica. Se questa è la base non possono sorprendere le critiche che da vari fronti sono state rivolte all'etnocentrismo di UNICODE e alla difficoltà per le lingue di scarso valore commerciale di essere rappresentate (cioè di esistere) adeguatamente.
Al cuore della standardizzazione dei protocolli e dei linguaggi della comunicazione digitale vi è dunque il problema linguistico. Come scriveva George Steiner in After Babel "the meta-linguistic codes and algorithms of electronic communication which are revolutionizing almost every facet of knowledge and production, of information and projection, are founded on a sub-text, on a linguistic 'pre-history', which is fundamentally Anglo-American (in the ways in which we may say that Catholicism and its history had a foundational Latinity). Computers and data-banks chatter in 'dialects' of an Anglo-American mother tongue." Il problema ovviamente non è l'inglese in sé, ma l'egemonia di un codice sull'altro. È questo "Anglo-American Esperanto" che permette di declinare e strutturare l'impero della conoscenza digitale in proporzioni e secondo modalità mai sperimentate prima nella storia (nemmeno dal cattolicesimo romano). Mi domando: è questo ciò che conviene a italiani, spagnoli, portoghesi, francesi e in definitiva a tutto il resto del mondo? La mossa dei BRICS, creare una banca, non è solo com'è ovvio una
mossa economica, ma un segnale geopolitico (e culturale): Cina, India, Brasile, Russia e molti altri grandi paesi del mondo sono a favore di un mondo multipolare. Stati Uniti, Europa e i loro (sempre meno controllabili) satelliti, al momento, no. Dal punto di vista geolinguistico, nessuno dei paesi BRICS, nemmeno la Cina, sarebbe in grado di imporre la propria lingua al resto del mondo. Mentre è chiaro il vantaggio assoluto dei "proprietari" dell'attuale lingua franca e degli immaginari a essa collegati. Ovviamente non possiamo sapere se i BRICS si opporranno, dopo il monopolio sul prestito e sulla rete, anche a quello sulla conoscenza. D'altronde non abbiamo bisogno che un cartello di potenze regionali si sostituisca all'impero esistente, ma di fondare un sistema di relazioni politiche, sociali ed economiche completamente diverso. Un nuovo giocatore in campo, tuttavia, è un buon auspicio. Possiamo continuare a ignorare quanto sta accadendo nel mondo e le connessioni che attiviamo - o meno con le nostre scelte? Da Snowden allo strapotere delle multinazionali editoriali, da Monsanto a Google, c'è un
filo rosso che unisce il problema dell'accesso alla conoscenza con quello della rappresentanza politica, la difesa del seme autoctono alla difesa della parola locale. Quali lingue, quale cibo, quali memorie sopravvivranno nel futuro? E chi sarà a deciderlo? Il problema della diversità bioculturale si intreccia allora a quello degli interessi energetici, alimentari, tecnologici, ecc. e la comunità scientifica -- tutte le comunità scientifiche -- sono chiamate a prendere posizione rispetto a un mondo che cambia - ed a un altro che non ne vuole sapere di cambiare. C'è uno squilibrio nelle forze in campo e abbiamo un disperato bisogno di riequilibrare il sistema. La mia perplessità sull'adesione a EADH da parte dell'associazione italiana di informatica umanistica non si basava altro che su questo: una visione diversa del rapporto centro-periferie (a iniziare dalla problematicità di queste definizioni), il rifiuto di una subordinazione ai codici dominanti e ai temi di ricerca mainstream, l'esplorazione di alleanze alternative e in definitiva la creazione di un progetto culturale che uscisse fuori dai limiti imposti dalla fretta, dalla paura e dall'ansia di legittimazione.
Una fine annunciata L’irreversibile declino del dominio linguistico anglosassone di Sandro Ridolfi Nell’ultimo numero abbiamo pubblicato un inserto, scritto da un qualificato ricercatore universitario, sul pre-dominio della lingua inglese sulle Istituzione europee e ciò in contraddizione con quello che era lo spirito iniziale della fondazione della Comunità prima e poi dell’Unione Europea, immaginate sulla valorizzazione della ricchezza delle molteplici diversità, anche linguistiche, del così detto “vecchio continente”. Secondo quello spirito, ogni lingua parlata in Europa era da considerare e rispettare come “ufficiale”, indifferentemente dal numero della popolazione parlante la stessa e persino da un riferimento ufficiale a una forma statuale perché, in effetti, in Europa le lingue parlate sono più numerose degli Stati costituiti (vedi ad esempio la Spagna che ha ben tre lingue “maggiori”: oltre al castigliano, comunemente detto spagnolo, il basco e il catalano che hanno strutture e origini diverse). L’ingresso in Europa dell’Inghilterra (ma l’Inghilterra è Europa?), l’inevitabile confronto con la superpotenza nord americana e la più recente folle euforia della globalizzazione (occidentale), ha portato inaspettatamente all’inserimento dell’inglese non sono come lingua europea (dell’Unione Europea), ma persino come lingua comune a tutti gli Stati dell’Unione, con la degradazione sia delle lingue minori (per popolazione parlante e/o di-
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mensione politico-economica degli Stati di riferimento), che persino delle stesse lingue maggiori (francese, spagnolo, italiano, tedesco, intese sempre negli stessi termini ora detti). Così vediamo non solo i rappresentanti delle istituzioni europee (Commissione, Parlamento, Banca Centrale, Corte di Giustizia, ecc.) parlare e scrivere in inglese, anche se molto raramente è la loro lingua, ma anche i rappresentanti degli Stati dell’Unione “spericolarsi” (è clamoroso il caso del nostro primo ministro del tutto digiuno dei vocaboli e della grammatica anglosassone) in esternazioni in lingua inglese a discapito della propria lingua madre. L’inglese (o almeno quell’insieme di vocaboli che alcuni si spericolano, come detto, a chiamare “lingua inglese”) è divenuto la lingua ufficiale dell’Europa e ciò sia al suo interno, che verso il mondo esterno. Quanto appresso scriveremo (come preannunciato dal titolo dell’inserto) può sembrare andare in contraddizione con l’articolo sopra richiamato: in parte sì, in parte no. Precisiamo e premettiamo che questo inserto non intendere presumere la valenza di un approfondimento scientifico pari a quella dell’articolo pubblicato dal ricercatore universitario, ma si propone solo di dare alcune informazioni, reperite per lo più nel “resto del Mondo” (cioè da ciò che non è occidente: Europa e nord America), traendo al-
cuni spunti di riflessione aperti al confronto con diverse opinioni (purché documentate), nonché soggetti alle verifiche della forte dinamica che sta attraversando, appunto, il “resto del Mondo” e con la quale, prima o poi, dovremo pure fare i conti. Torniamo un passo indietro e diciamo che sì, questo inserto si pone in contraddizione con il timore dell’usurpazione linguistica anglosassone denunciata nell’articolo citato, nella misura in cui, come appresso diremo, espone elementi di recessione della diffusione e quindi del pre-dominio della lingua inglese nel “resto del Mondo”. Ma si pone anche in continuità, e dunque non in contraddizione con quell’articolo, nella parte in cui evidenzierà le ragioni sia politico-economiche, che storico-culturali, della inevitabile necessità del contrasto al pre-dominio linguistico anglosassone. La funzione della lingua e il “codice” inglese Ancora un richiamo che ci permettiamo di fare a due precedenti inserti di questa rivista pubblicati: il primo nel numero di settembre 2012, dedicato specificamente alla “lingua” e intitolato “La funzione della lingua, tra base e sovrastruttura”; il secondo nel numero del mese di febbraio 2013 intitolato “Lo studio del latino apre la mente, il “codice” inglese la impoverisce” (ambedue reperibili nel sito www.piazzadelgrano.org).
Nel primo inserto abbiamo pubblicato un estratto di un saggio di Stalin sulla funzione della lingua che chiarisce alcuni punti fondamentali: il primo è che “La lingua non è il prodotto di questa o quella base, di una base vecchia o nuova, entro una determinata società, ma dell’intero corso della storia della società... Essa è stata creata per soddisfare le necessità non di una sola classe, ma di tutta la società, di tutte le classi della società... Di conseguenza, la funzione ausiliare del linguaggio, come mezzo di comunicazione tra gli uomini, consiste non nel servire una classe a danno di altre classi, ma nel servire egualmente tutta la società, tutte le classi della società”; il secondo è che “la lingua e le sue leggi di sviluppo possono essere comprese solo se vengono studiate in inscindibile connessione con la storia della società, con la storia del popolo a cui appartiene la lingua studiata e che è creatore e depositario di questa lingua” e, terzo, che “La lingua è un mezzo, uno strumento con l’aiuto del quale gli uomini comunicano gli uni con gli altri, scambiano i pensieri e giungono a comprendersi reciprocamente. Essendo direttamente connessa con il pensiero, la lingua registra e cristallizza in parole, e in parole coordinate in proposizioni, i risultati del pensiero e i successi del lavoro di ricerca dell’uomo, rendendo così pos-
sibile lo scambio delle idee nella società umana... Di conseguenza, senza una lingua compresa dalla società e comune a tutti i suoi membri, la società cessa la produzione e cessa di esistere come società”. Il secondo inserto si apriva con una citazione di Gramsci in difesa dello studio scolastico della lingua latina (e greca) e affermava che “Non si impara il latino e il greco per parlarli, per fare i camerieri, gli interpreti, i corrispondenti commerciali. Si impara per conoscere direttamente la civiltà dei due popoli, presupposto necessario della civiltà moderna, cioè per essere se stessi e conoscere se stessi consapevolmente”. In questo secondo articolo, coniugando la lezione di Stalin sulla lingua quale strumento condiviso da tutto un popolo per la stessa creazione del pensiero, prima ancora della sua comunicazione e condivisione, con l’insegnamento di Gramsci sulla funzione di sviluppo mentale e culturale della conoscenza anche delle così dette “lingue morte”, osservavamo come la lingua inglese, nella modalità sostanzialmente commerciale nella quale è stata sviluppata e imposta a tutto il Mondo (occidentale, per quanto appresso diremo) non rispondeva a nessuna delle due esigenze sopra esposte. Ridotta in concreto a un puro “codice” di comunicazione linguistico, la lingua inglese assunta co-
me uno strumento di comunicazione tra popoli e culture diverse, non solo non trasmetteva il percorso di formazione dei rispettivi pensieri, ma non consentiva neppure di conoscere la storia e la cultura dei popoli che ne facevano un uso commerciale. Ciò non vuol dire che in segmenti specialistici (ad esempio nella medicina, nella informatica, forse anche nella finanza, ecc.) un codice inglese non abbia una sua importante valenza per stabilire, appunto come codice condiviso, dei criteri e parametri tecnici universali. Ma in tal caso non siamo lontani, potremmo anzi dire che l’analogia è perfetta, con l’uso universale/universalizzato di molti termini provenienti dalle antiche lingue morte, dal “pi greco” dell’antica Grecia al “plus” latino. Nell’alfabeto Morse tre punti (suoni brevi) sono una “s”, tre linee (suoni lunghi) sono una “o” degli alfabeti latini; ma poi la sequenza di tre punti, tre linee, tre punti (SOS), vuol dire “aiuto” in qualsiasi lingua o alfabeto. E’ evidente che l’alfabeto Morse non è una lingua, ma un codice che consente di scambiare alcune informazioni tra popoli di lingua e culture diverse, ma certamente non scambiare pensieri e conoscenze. L’inglese, così come viene interpretato e imposto nelle comunicazioni commerciali almeno dell’occidente, non è molto differente.
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Le lingue degli “imperi” Prima di entrare nel merito delle informazioni sul declino della lingua inglese nel “resto del Mondo” (chiamiamola “anglosassone” perché oggi è di gran lunga prevalente la volgata nord americana che ha sopraffatto quella dell’isola nord europea), dobbiamo fare un brevissimo passaggio storico sulle ragioni dell’apparente pre-dominio mondiale di quella lingua. Il colonialismo europeo, almeno dalla scoperta dell’America, ha portato diverse nazioni/imperi europei a sottomettere non solo economicamente, ma anche culturalmente vaste parti del “resto del Mondo”. In taluni casi la violenza e la supremazia della colonizzazione ha comportato anche l’imposizione di un dominio linguistico che ha finito per fare proprie di quelle colonie le lingue madri degli Stati colonizzatori. In termini assoluti, forse, la più vasta colonizzazione linguistica è stata quella spagnola (castigliana); ma in termini economici la più importante è risultata, alla fine, senza dubbio quella inglese, non solo per la colonizzazione ex novo (più o meno) di vastissime aree territoriali “disabitate” (dal nord America, all’Oceania australe), ma anche per l’imposizione di una ideologia di superiorità “etnica” dei colonizzatori (ci torneremo più avanti, ma merita ricordare come, sino alla “rivoluzione culturale” gandhiana, gli inglesi avevano inculcato negli indiani la convinzione di essere etnicamente inferiori ai loro dominatori). La vera e propria “esplosione” della super potenza militare nord americana, di lingua rigorosamente anglosassone a livello di classi dominanti, ha poi oscurato nel Mondo (sia “resto del Mondo” che lo stesso “vecchio continente” europeo) il dominio delle altre lingue ex coloniali. L’inglese dunque è divenuto, sostanzialmente per forza militare prima ancora che economica, la teorica unica lingua del Mondo, non ultimo considerando anche che i loro padroni, soprattutto i nord americani, in un perverso miscuglio di prepotenza e ignoranza, non conoscono altre lingue, cioè non si sono mai preoccupati di studiare le lingue degli altri e dunque hanno imposto una sola possibilità di comunicazione (e questo non sarà un handicap di poco conto per quel popolo il giorno, oramai non lontano, del suo inevitabile declino come unica potenza mondiale). A discapito dell’apparente dominio globale, invece, l’inglese non ha penetrato vastissime aree territoriali che oggi stanno assumendo posizioni di primo piano nello scenario
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mondiale, in tutti i sensi e campi, e dunque si trovano a confrontarsi, ma non più in posizione subordinata, con una “seconda parte del Mondo” che, dal loro angolo di visuale, non conosce la o le loro lingue. Accetteranno queste enormi (per popolazione e potenza economica) nuove realtà emergenti di utilizzare anche loro il “codice” linguistico inglese? Gli eventi ci stanno dicendo di no e non solo per ragioni di nazionalismo sciovinista, ma forse proprio per quelle stesse ragioni culturali che erano state alla base del progetto multi-linguistico dell’Unione Europea. La lingua russa e il mandarino cinese La Russia, i russi non conoscono l’inglese e l’apprendimento di quella lingua non è mai stato nelle loro priorità per lo scambio con il resto del Mondo. Due ragioni: la prima che forti di una cultura europea hanno sempre privilegiato la più “colta” lingua francese (dagli zar a Lenin e Stalin, nei rapporti internazionali i russi parlavano in francese); la seconda che sono stati anche loro un impero che ha esteso la propria lingua e cultura ad altri paesi, anche non slavi e quindi molto diversi anche etnicamente, raccolti nell’Impero prima e nell’Unione poi. Diversamente però dai colonizzatori europei i russi non hanno mai soppresso le lingue, e per esse le culture, dei paesi “inglobati”; ma anche in ragione di una forte emigrazione russa in quei paesi e dei principi costituzionali di parità tra tutti gli Stati indipendentemente dal loro peso abitativo ed economico, il russo è stato, e in grande parte è ancora, una seconda lingua “piena” (cioè non solo parlata ma culturalmente conosciuta) negli altri Stati non russi (ad esempio il più grande scrittore ucraino, Nicolaj Gogol, ha sempre scritto in russo e non in ucraino). In sostanza i russi, nel loro contesto politico, sociale ed economico (la Russia viene definita la “sesta parte del Mondo”) possiedono già una lingua universale e mal percepiscono la necessità di adottare un codice straniero. A maggior ragione lo stesso ragionamento vale per la Cina che, salvo aree geografiche assolutamente periferiche, nei suoi 5.000 anni di storia, e quando anche il suo impero mongolo era giunto alle porte dell’Europa, non ha mai sentito la necessità di adottare una lingua di comunicazione “altra” dalla propria. L’idea stessa del “Sogno cinese” lanciato dall’attuale generazione al governo del Partito e dello Stato, innestandosi sul principio pluri millenario dell’ “Unico Cielo” (dove c’è un cinese è
Cina e la Cina è una sola per tutti i cinesi), tende a universalizzare la conoscenza della lingua cinese, anche grazie alla grande innovazione voluta dal Presidente Mao della semplificazione calligrafica della scrittura del “mandarino” di Pechino (se volessimo fare un paragone del tutto indicativo: il cinese semplificato sta al cinese tradizionale, come il volgare del “dolce stil nuovo” stava alla sua nascita al colto latino). E’ dunque impensabile per l’immenso continente cinese di immaginare una diversa lingua di comunicazione universale mentre sta ancora costruendo la sua lingua culturale universale. Il sub-continente indiano Veniamo a questo punto all’India che forse è il “territorio” linguistico e culturale che meglio espone ed esprime i sintomi, oramai più che evidenti, del declino del codice linguistico anglosassone. Il sub continente indiano (oggi di pochissimo meno popolato della Cina, 60/70 milioni di differenza) espone due caratteristiche: la prima è di essere stato colonizzato dall’Inghilterra a partire dal 1600 con le prime basi mercantili della Compagnia delle Indie Orientali e poi “statalizzato” sotto la corona inglese dalla metà del 1700; la seconda è di non avere un’unica lingua, pur nella sostanziale identità etnica e religiosoculturale, ma ben 22 lingue ufficiali riconosciute, seppure con la prevalenza di alcune maggiori: urdu, indi, bengali, malayalam, tamil. Questa frammentazione linguistica indigena, coniugata con l’unicità della potenza coloniale dominante (salvo piccole enclavi portoghesi), ha fatto sì che le così dette aristocrazie o borghesie emergenti locali hanno, nei secoli, accettato la superiorità della lingua e della cultura del paese dominante, finendo con l’utilizzare la lingua inglese anche all’interno dei loro scambi nazionali. E’ avvenuto così che al momento dell’indipendenza dall’Inghilterra e dopo la separazione dai due Pakistan, abortito un tentativo voluto da Nehru di fare dell’indi la lingua “franca”, cioè ufficiale, di tutta la nazione indiana, tale ruolo è stato conservato all’inglese. Ciò ha fatto pensare, almeno sino a “ieri”, che l’ingresso sul primo piano della scena politica mondiale di un paese delle dimensioni dell’India, avrebbe definitivamente confermato il pre-dominio della lingua anglosassone a livello di lingua unica mondiale. Invece il Mondo è cambiato, o meglio sta cambiando a velocità impensabile e anche sul piano linguistico sembra andare in tutt’altra direzione.
Ufa, capitale dello Stato della Baschiria della Federazione Russa, 9-11 luglio 2015, vertice congiunto del BRICS e dello SCO, presenti 14 capi di Stato rappresentanti dei due terzi della popolazione mondiale, nessuna lingua ufficiale (convenzionalmente comune); Narendra Modi, primo ministro dell’India, formula il suo discorso (scritto e parlato) in lingua indi. Narendra Modi è di lingua natale Gujarati, conosce e scrive in inglese il suo blog, ma a livello internazionale ha scelto di presentare se stesso e il suo paese facendo uso della principale lingua nazionale indiana. Cosa sta succedendo in India dopo la caduta della dinastia Nehru-Gandhi e l’avvicinamento, oramai irreversibile, alla Cina? (al vertice di Ufa l’India, assieme a Pakistan, è stata ammessa a far parte dello SCO, il sistema economico militare che unisce la Russia alla Cina e a tutti gli Stati centroasiatici e presto anche l’Iran, “sdoganato” dall’accordo di Ginevra sul nucleare, farà ingresso nello SCO). Estrapoliamo alcuni brani da un articolo apparso recentemente sulla stampa indiana eloquentemente intitolato “After English” (dopo l’inglese). “Nei giorni a partire dalla vittoria decisiva di Narendra Modi e il suo conservatore Bharatiya Janata Party nelle elezioni nazionali dell'India, molti commentatori indiani hanno percepito un punto di svolta nella politica indiana... Durante la campagna elettorale, un rivale spavaldo, Mani Shankar Aiyar, che parla un affettato e raffinato inglese, ha accusato Modi di essere poco colto nella lingua inglese. Ma Aiyare ha perso il suo seggio parlamentare, mentre Modi è diventato Primo Ministro... La vittoria di Modi ha coinciso con un aumento della fi-
ducia nelle lingue regionali... Nel 2012, Bennett Coleman, l'editore del Times of India, il più grande quotidiano inglese del mondo, ha iniziato un giornale in bengalese. Lo scorso ottobre, l'editore di The Hindu, un giornale inglese di oltre 135 anni, ha lanciato una edizione in Tamil... Questi giornali stanno trovando un pubblico eccezionalmente diverso: giovani che acquistano il loro primo quotidiano, adulti più anziani che prima non avevano mai comprato un quotidiano, ecc... Il costante aumento di alfabetizzazione, passata dal 64,8 per cento del 2001 al 73 per cento del 2011, ha avuto conseguenze inaspettate. La nuova classe media preferisce leggere nella propria lingua regionale, piuttosto che in inglese. Nel frattempo, le principali case di mezzi di comunicazione hanno scoperto che il numero dei lettori in inglese è in declino. Insieme con un afflusso di politici provenienti da ambienti non-elite e la crescente importanza della politica regionale, questi sviluppi hanno cominciato a sfidare l'assunto che l'inglese è il mezzo di default della vita pubblica indiana... Una volta l'inglese era legato all'apparato di potere e gli effetti collaterali erano prevedibili. Una formazione inglese era essenziale per chiunque aspirasse ad avanzare nella società, e la "casta inglesesapere" (come la definiva Nehru) ha dominato l'economia dei consumatori... (Oggi) quasi tutte le scuole pubbliche utilizzato una delle lingue regionali come mezzo di istruzione e solo una manciata di scuole private stanno ancora insegnando in inglese. Circa 300 milioni di indiani sono stati alfabetizzati nelle lingue locali... Un sondaggio del 2005 ha rilevato che solo il 3,8 per cento degli indiani di età compresa tra i diciotto e i sessantacinque
è in grado di conversare in inglese con una certa scioltezza; un altro 16,2 per cento lo parla in maniera molto incerta... Modi, è vero, ha dominato i giornali del paese come nessun altro leader durante le recenti elezioni; il suo partito è stato anche in grado di garantire la maggioranza assoluta in parlamento per sé, la prima volta che succede dal 1984. Ma questo può essere un momento eccezionale nella politica indiana. Possiamo leggere in questi vari fenomeni la nascita di una nuova classe media, l'ascesa di partiti a livello statale e la loro influenza crescente in governi di coalizione federali, con la rapida crescita di giornali in una lingua indiana e col continuo rafforzamento delle identità regionali... Ma Modi non sarà l'ultimo primo ministro ad essere più a suo agio con una lingua indiana che con l'inglese.” Considerazioni conclusive Il patrimonio linguistico esprime quello storico e culturale di un popolo, ha scritto Stalin, non può perciò esistere una lingua “franca”, una lingua comune e universale, slegata dalla realtà di un popolo che la ha creata. L’inglese che è certamente una lingua per gli anglosassoni, è solo un codice “Morse” per gli altri popoli che hanno le loro lingue. Ogni popolo per esprimere i suoi pensieri deve poter parlare la propria lingua e se cade il pre-dominio oramai essenzialmente militare USA, cade anche l’utilità del codice inglese. D’altronde negli stessi Stati Uniti l’uso della lingua inglese sta velocemente regredendo in favore di una sempre maggiore diffusione della lingua spagnola, sicché, in un tempo non lontano, a non capire il “resto del Mondo” saranno proprio gli americani e non gli altri popoli emergenti.
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Avevamo dedicato l’editoriale del numero di maggio-giugno scorso all’accordo sul così detto “nucleare iraniano” inserendolo nel cambiamento epocale del quadro geopolitico mondiale indotto dalle nuove alleanze economiche e militari strette tra i giganti dell’estremo oriente, Cina e India, tutti gli stati centro asiatici e la gran parte di quelli ex sovietici sino alle porte dell’Europa. Sul piano politico si è trattato di uno straordinario successo personale del Presidente Putin (che lo stesso Obama ha dovuto formalmente ringraziare, mentre, peraltro, sta ancora “combattendo” con l’ostilità del suo Congresso, sotto forte pressione israeliana). Sul piano economico è stata la consacrazione del progetto cinese della nuova “via della seta” intesa come percorso infrastrutturale, economico e culturale, destinato a unire il Mare della Cina (Pechino) al Mare persico (Teheran) attraversando India, Pakistan e Afghanistan. Ma la “via della seta” storica non finiva a Te-
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heran, bensì proseguiva sino al Mediterraneo per arrivare infine nell’Europa continentale a Venezia. L’Italia, avevamo scritto, in verità non aveva mai rispettato fedelmente l’embargo imposto dagli USA all’Iran e ora, caduta anche la falsa formalità, non è un caso che tra i primi a riprendere i rapporti pieni con l’Iran sia stata proprio l’Italia con la recentissima visita “trionfale” del nostro Ministro degli esteri. Sarà che siamo legati, attraverso il nostro gigante petrolifero ENI, ai giacimenti persiani sin dai tempi di Enrico Mattei; sarà che siamo un paese cattolico e quindi nel profondo certamente non “vicino” a Israele; sarà che per fortuna non ci siamo giocati con l’Iran l’immagine di interlocutore preferenziale del Vecchio continente, come invece è accaduto con il mondo arabo in Iraq e in Libia (per citarne alcune); è un fatto che l’Italia gode in Iran, e in generale tra gli iraniani, di un atteggiamento positivo di grande interesse, apertura e
curiosità. Parimenti è un fatto, però, che noi (i “non addetti ai lavori”) conosciamo pochissimo di quel grande paese di quasi 80 milioni di abitanti, che malamente confondiamo, per la sua religione musulmana, con il mondo arabo (i persiani non sono arabi, ma indoeuropei!). Vittime (poco “combattive” in verità) di una pessima informazione giornalistica addomesticata, pensiamo all’Iran come a un paese sottosviluppato, dittatoriale, dominato dal fondamentalismo religioso. La realtà è molto diversa. Pur con le inevitabili limitazioni indotte da decenni di regime dittatoriale dello Scià, una ferocissima guerra con l’Iraq e il pesantissimo embargo americano, l’Iran è un paese sorprendentemente civile, evoluto e pacifico. Cominciamo a conoscerlo pubblicando di seguito un estratto (ragioni tipografiche) di un recentissimo reportage di un giornalista del Fatto Quotidiano. E’ un po’ “macchinoso”, ma può darci una prima idea da contatto diretto. (SR)
Prendere un gelato a Teheran tra Corano e grattacieli
Estratto dal reportage dall'Iran del giornalista Pietrangelo Buttafuoco Ci sono più giardinieri che poliziotti per le strade e [...] in Iran la transizione è in atto. Nei bookshop, lo dico a beneficio degli esagitati vogliosi di scontro di civiltà, si vendono anche i libri di Oriana Fallaci (che pure si tolse il velo davanti a Imam Khomeini, intervistandolo), non c’è verso di fare il Paradiso in terra e qui, in Iran, si fa esperienza di contraddizioni. [...] Certo, il ritratto di Qasem Soleimani, il generale comandante delle milizie sciite, è stampato sui quaderni scolastici in vendita nelle cartolerie ma è un benemerito quel soldato: stana i terroristi dell’Isis in Iraq, è atteso in Siria, e ha avuto anche la copertina di Newsweek. Ecco il reticolo di Teheran: il realismo nazionalistico è limitato alle didascalie; l’azan, ossia la chiamata alla preghiera, non sconfina oltre i cortili delle moschee e la memoria dei martiri - le donne e gli uomini, i bambini e le bambine spazzati dalla guerra scatenata da Saddam Husseyn - è affidata alla preghiera e alla coscienza collettiva di tutto un popolo devastato da un conflitto neppure troppo remoto. Non c’è famiglia, in Iran, che non pianga un caduto di quella guerra consumatasi dall’estate del 1980 all’agosto del 1988 e tutto quel dolore [...] non è diventato odio perché gli iracheni oggi non sono considerati nemici ma fratelli della grande alleanza sciita. Ecco il giardino persiano. L’arte contemporanea altrimenti detta “degenerata” è spalmata dappertutto [...] Trionfa ovunque il museo a cielo aperto voluto dalla municipalità di Teheran (le gigantografie di opere d’arte di tutto il mondo, a costo di non rispetta-
re il copyright) e la città - una metropoli di 14.000.000 di abitanti - è stata ribattezzata Teherangeles per via dei grattacieli, delle lussuose vetrine e dello struscio di ragazze e ragazzi desiderosi di far “giardino”, persiano va da sé. Stanno in macchina, giovanotti e giovanotte, ascoltano i Barobax, un gruppo pop molto amato, e si danno appuntamento davanti alla vetrina di Burgerland. Il rimorchio tra di loro funziona col bluetooth e i mullah - e con loro i guardiani della rivoluzione già conoscono l’esito di questa situazione: una sorta di “state buoni, se potete”. Lo Stato come entità istituzionale religiosa, in tutto questo volteggiare di turbanti, ha un precedente che fa scuola. La teologia è assai curiosa di Roma, la Repubblica Islamica d’Iran è, infatti, uno Stato Pontificio prossimo già a mutarsi - e senza traumi, a detta degli analisti - in un ovvio Vaticano. La messa è finita per il Papa Re e al clero iraniano, infatti, tocca risolvere il più urgente degli ingorghi: quello di una società che se ne va per un verso mentre le istituzioni fanno proprie tutte le contraddizioni. La messa è finita. Anche nella chiesa di Santa Maria, nel quartiere Taleqani, da dove escono bambini accorsi un’ora prima per “la dottrina”. Nel mese di giugno ci saranno le cerimonie della prima Comunione ma la presenza della grande croce sulla facciata dell’edificio (in questo caso, cristiani di confessione assira) più che una liberalità, svela la realtà di un mondo cosmopolita [...] È la geografia a fare la storia, non viceversa, se il ritratto di Imam Alì, in molti taxi, coabita con quello di Zoroastro.
Alì, genero di Maometto nella catena dei dodici apostoli del Profeta è il primo degli imam (per i sunniti, invece, è il quarto dei “Califfi ben guidati) mentre Zoroastro è Zarathustra, il sacerdote di quel fuoco eterno il cui tempio, in Iran, oltre ad essere la dimora dei Re Magi, custodisce la memoria di Persia. Più che la religione, è l’identità a far da collante. Non si dice “Golfo” né tantomeno “Golfo Arabico”, bensì “Golfo Persico”. Non esiste il Giardino islamico ma solo il Giardino persiano e Ferdousi - il Dante Alighieri dei persiani, autore dello Shahnameh - ha una sorta di sfrontato svolazzo sul turbante che sta a significare un altolà alla barbarie fondamentalista. Le statue del poeta (nato a Tus nel 935 e morto nella stessa città nel 1020) sono ovunque. Il poeta si trova ai piedi della Milad Tower (alta 435 metri, inaugurata nell’ottobre 2008) e la statua al centro della piazza è stata scolpita da Abdolhassan Khan Sadighi, vissuto a lungo in Europa e autore anche della statua collocata a Roma, a Villa Borghese. Nella riproducibilità tecnica del mito, poi, ce ne sono dappertutto e così, il poeta, è presente fin negli scaffali delle drogherie. “C’è solo un argomento che, ancora oggi” - mi dice Masoud Ghasir, ingegnere - “mette d’accordo un iraniano, un ebreo e un turco: ed è l’avversione verso gli arabi. E l’iraniano avrà sempre un verso di Ferdowsi su cui argomentare.” La lingua - il persiano, ovvero il farsi - è un codice indoeuropeo e nella scrittura ufficiale, nel parlato dei telegiornali e nei discorsi, accuratamente aulici, gli iraniani tendono a marcare il genitivo plurale, come a voler de-arabizzare la loro lingua.
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Più che l’identità, pur nelle contraddizioni di molteplici maschere, è la religione quella che il mondo intero cerca nel volto dell’Iran. Il velo delle donne, col caldo, diventa sempre più pesante da portare. Ancor più che coprirsi il capo, infatti, è quel dover avvolgere il collo a sfinire di afa le signore e le ragazze. Ed è in questa stagione che si mobilitano gli agenti di polizia incaricati della vigilanza sulla morale. Le pattuglie femminili poi, particolarmente severe, controllano che neppure uno spicchio di braccio o una caviglia possa sbucare dagli abiti. Ancora una volta, alle istituzioni, spetta una fatica: fare propria la contraddizione. Assisto a questa scena: una poliziotta ferma una donna, ha la caviglia scoperta. La donna, comunque, non è sola. E’ in compagnia del marito. Discutono perfino rabbiosamente ma in punto di sharia la poliziotta nulla può. “La moglie deve onorare il marito”, dice l’uomo. “Lei mi deve obbedienza, e se a me piace che vada così, può andare in questo modo: con il bel piede e con la scarpa nuova”. La poliziotta chiede i documenti, controlla che siano marito e moglie, nulla può e li lascia andare. State buoni, se potete. C’è il guardiano all’ingresso della moschea di Imamazadeh Saleh. Il luogo è sacrissimo, accoglie la tomba in marmo verde di Saleh, il figlio di Musa al-Kazim, il settimo Imam. Accanto al sepolcro, a tre metri di profondità, c’è una sorgente d’acqua, mentre dai terreni circostanti si ricava la sabbia da compattare in dischetti, i turbah. Sono quelli su cui si appoggia la fronte nella prosternazione, questi di Imamazadeh Saleh - di forma quadrata - sono un’eccezione perché solitamente i turbah sono fatti con la terra di Karbal e sono richiesti dai pellegrini, ricercati per por-
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tare con sé - nel mondo - un pezzo di quel luogo santo. Nel cortile esterno, rivestite di porfido nero su cui, con i ritratti, sono incisi i nomi, ci sono le sepolture di giovani martiri. Le madri, le figlie, le sorelle, vi recano il loro pianto. Da piazza Tajrish, nel distretto di Shemiran, si avanza una giovane signora. In chador, dalla falcata avvolta nel drappo, sfoggia una scarpa vezzosa se non viziosa. Il guardiano è armato di piumino (quello per spolverare i mobili), gli serve per segnalare eventuali sconvenienze senza doverle toccare le donne. La signora entra, staglia se stessa contro il mosaico blu e bianco della moschea, passa avanti e lui non la ferma. Lei si toglie le scarpe, si accoccola all’ingresso - quello delle donne - e lì, elegante mistero del creato qual è, aspetta la chiamata alla preghiera. E’ un luogo comune ma fa d’uopo: in Iran c’è il primato nella rinoplastica e il mercato dei cosmetici è tra i più floridi, più che in Occidente. La metropolitana, bella e moderna, prevede vagoni separati ma negli autobus delle linee urbane maschi e femmine stanno insieme. Appunto: state buoni, se potete. Anche l’amministrare tutte queste contraddizioni sta diventando un luogo comune: l’Iran, giorno dopo giorno, perde il primo pretesto, il nemico. Tutti, in Iran, attendono l’accordo con gli Usa per il nucleare. E non per fare guerra. “L’Iran non muove guerra a nessuno” mi spiega l’architetto Mohammad Bahari Razari - “da più di quattrocento anni. Ci siamo ritrovati a essere aggrediti, ci siamo difesi ma troppo vicino è il ricordo del conflitto”. Dice così, l’architetto Bahari Razari, toccandosi la gamba, offesa. E’ un ricordo dei giorni in cui i missili di Saddam arrivano fin dentro Teheran. La società iraniana - intesa
come bazar, luogo aperto dei commerci e degli scambi - è già proiettata all’appuntamento col mondo e il celebre murale dove la bandiera americana svela nella scia delle strisce, le bombe - e, nelle stelle, i teschi - è ormai un feticcio alla Andy Warhol. [...] Le contraddizioni fanno l’identità dell’Iran. Ed è di un incredibile chic che la strada su cui si affaccia l’ambasciata inglese sia intitolata a Bobby Sands, l’eroe della lotta per l’indipendenza d’Irlanda. Se solo l’Italia inciampa in qualche gaffe c’è la possibilità di una ritorsione toponomastica, l’intitolazione a Teheran di una strada a “Martire Edoardo Agnelli” che, nella convinzione degli iraniani, non ha cercato la morte suicidandosi ma l’ha trovata, giusto per mano assassina, per non aver assecondato i progetti mondialisti del papà suo, Gianni, “odiatore del popolo italiano e colonna portante della finanza internazionale[...]. Le leggi proibiscono alle donne di cantare da soliste, in coro però sì, e negli spot di celebrazione della patria [...] non c’è ombra di bang-bang, di parate, di truppe schierate e quel sottintendere Dio, in ogni istante della giornata, assume le sfumature di viraggio cromatico più che un effetto speciale. Con un’idea continua: “State buoni, se potete”. Mosallah Imam Khomeini, la più grande moschea, ancora oggi incompleta, è la loro “Salerno-Reggio Calabria”. Non finiscono mai i lavori ma è già in uso. Si prega col sottofondo dei martelli pneumatici. Non è solo un monumento in omaggio alla Guida della Rivoluzione, è anche la loro agorà e lì, per esempio, il mese scorso - dal 6 al 15 maggio, cinque milioni di visitatori - ha avuto luogo la Fiera del Libro. Sono gran consumatori di libri, gli iraniani.
Tra gli stand, oltre a quello dedicato all’imponente Enciclopedia Islamica, c’è quello italiano e lo stand è assai frequentato anche per via dell’irresistibile richiamo di un’altra enciclopedia, la Treccani (Massimo Bray, attuale presidente, è molto amato in Iran). Il colonnato di Mosallah Imam Khomeini è tutto un ribollire di carta, calligrafie e stranezze. Come il poster di Friedrich Nietzsche: è impegnato a chiacchierare con lo smartphone. In ogni tappa i visitatori - prevalentemente famiglie, con grandi vendite per la letteratura dell’infanzia - vengono accolti da thè e dolci. La bevanda, calda, si gusta intingendo la zolletta per poi tenerla tra le labbra sorseggiandola. Una delizia è il caffè dello stand yemenita, dopo di che una gelatina di datteri squisita e la kermesse è un rimandare al Tajrish, l’affollarsi del bazar dove il tutto, e il contrario di tutto, inevitabilmente costringe ognuno a fare esperienza di contraddizione. Non è certo una contraddizione lo stand della comunità ebraica dove sono esposti i Libri della tradizione sacra ma una incoerenza, rispetto alle informazioni avute prima della partenza, c’è, ed è notevole. Ci sono i libri di Mahmoud Dowlatabadi ma soprattutto ce n’è uno, Il Colonnello, dato per inedito in patria e mai approvato dalla censura. Evidentemente è stato pubblicato. Come pure Dante Alighieri, La Divina Commedia, col canto dove Maometto è dannato agli inferi, tra gli eretici, opportunamente glossato ma, ebbene sì, espunto. La transizione non è un pranzo di gala. La Società Dante Alighieri, qualche tempo fa stava per arrivare in Iran per una serata in onore del poeta ma non ci fu “verso”. Da Qom, dalla città santa degli studi di
teologia, arrivò il no e però i libri di Italo Calvino, di Natalia Ginzburg, di Umberto Eco e di Leonardo Sciascia il fior da fiore del pensiero laico, a volte anche ateo e materialista - non incontrano ostacoli. L’Italia - se si pensa che l’italiano e il persiano erano le lingue franche della Via della Seta - è un racconto che affascina non poco gli iraniani e sta per uscire, pubblicato dalla casa editrice Hermes, La storia della letteratura contemporanea di Giulio Ferroni. La transizione è un bagno di realtà. E’ il potere delle cose. I pasdaran, riconoscibili nell’affollarsi di segni tra i quali il berretto da baseball però grigioverde e una certa barba (inevitabilmente sale e pepe), sono addestrati alle discipline dell’amministrazione, del management e degli studi di giurisprudenza. I figli della Rivoluzione Islamica abitano un Iran parallelo dove accanto ai combattimenti, in Iraq, in Siria - agli ordini di Qasem Soleimani - affrontano la transizione ma proprio il fronte aperto contro l’Isis, giorno dopo giorno, diventa per il governo di Hassan Rouhani il tramite per posizionare la scacchiera ancor prima che i pezzi in gioco. Il futuro è in questo preciso punto della carta geografica e la storia avanza con le mappe più che con i droni. La transizione è uno smottamento di faglia che rasenta il precipizio, non lo insegue. [...] Quella del cinema è un’industria di pregio in Iran. Ovunque campeggia la locandina di un film atteso: Volevo essere Maradona. A differenza del sosia di Youth di Paolo Sorrentino qui arriverà il Maradona vero ed è la Mano dei Dios. Lo zampino di Dio, però. Al 33° Fajr International Film Festival, a fine aprile, è stato presentato “Muhammad, the
Messanger of God”. E’ un film di Majid Majidi, il direttore della fotografia è Vittorio Storaro, vincitore di tre premi Oscar e, prossimamente, arriverà nel circuito internazionale. E’ solo un primo capitolo, ne seguiranno altri due e nel far seguito alla tradizione consolidata delle biografie scritte - racconta la vita del Profeta dell’Islam. Il film è solo l’episodio di Maometto ancora bambino, descritto dalla nascita ai dodici anni. Voluta da Khamanei, corredata dall’infinita mole di riferimenti storici e filologici, la pellicola [...] sfida con spericolata delicatezza la proibizione di rappresentare, attraverso le immagini, l’idea stessa di Dio e del Suo Profeta. Il set, chiuso al pubblico, ma non smontato in attesa delle prossime produzioni, ricostruisce alla perfezione e in ogni dettaglio Mecca e Medina, le città sante. Tutto è visibile nel film: c’è l’episodio del monaco Bahira, il santo cristiano che per primo riconosce i segni della profezia nell’orfano portato al seguito di una carovana; c’è la scena delle palme, chinate per dare ombra al passaggio del piccolo; c’è un primo piano sulle dita, appena dischiuse, di Maometto bambino. Tutto è nell’invisibile. Si scorge per un istante l’occhio del Profeta ma è come se nel metterci quello zampino tutto di tenerezza, il regista, rispettoso del divieto al punto di sfiorare l’invisibile, con la fotografia di Storaro abbia saputo spiegare la commozione di Dio, il dono di quel messaggio di pura luce, puro perdersi nell’abbandono a Dio. A conclusione della proiezione, piangevano tutti. Tutto è visibile nell’invisibile. Tutto cerca un segno. Un mullah si asciuga le lacrime, sorride: “Andiamo a prenderci un gelato”. Più che un’esperienza di contraddizione, un’armonia.
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GiufĂ di Giovanni Parentignoti
Giufà (o Giuchà o Jochà o G'ha) è l'eroe o l'antieroe di una serie di storie popolari fiorite nel bacino del Mediterraneo e diffuse in particolare nel periodo della diaspora giudeospagnola e orientale. La sua comparsa negli scritti siculi è abbastanza recente ma alcune testimonianze riallacciano la sua figura al periodo arabo-normanno del diciannovesimo secolo. E’ nelle famiglie ebraiche che oralmente si diffuse l’usanza di raccontare le gesta comiche e eroiche del personaggio Giufà e addirittura alcuni riallacciano la figura a un uomo realmente esistito in Turchia dal nome Nasreddin Khoja; Giufà è una delle figure tipiche del finto sciocco, che riesce a proporsi per l’arguzia, l’originalità delle soluzioni, e per la comicità che scaturisce dal suo strano agire, in Sicilia, Giufà viene ampiamente raccontato nell'opera di Giuseppe Pitrè, eminente studioso di tradizioni e di folclore siciliano che riprende storie popolari diffuse in varie parti dell’isola, tra la fine dell' '960 e l'inizio del '900. Le sue avventure o scempiaggini costituiscono un ciclo di racconti, spesso collegati, cosicché "storia di Giufà" è sinonimo di racconto interminabile. Gli si attribuiscono le verità più banali espresse in forma sentenziosa. Giufà è planetario per due motivi: a) ovunque esiste lo scemo del villaggio, che talvolta si crede furbo; b) con diversi nomi è presente in Sicilia e nell’Italia centromeridionale; nell’ Andalusia e nei Balcani; nei paesi del Maghreb e in Turchia; nel vicino e nell’estremo Oriente; insomma in tutte le zone della terra che hanno registrato un’incisiva presenza araba, una forte islamizzazione, insomma contatti frequenti con popolazioni musulmane. Così abbiamo Djeha in Algeria e in Marocco, Goha in Egitto, Gihane a Malta, Giaffah in Sardegna, Giucca in Toscana, Giucà in Albania etc. Nel teatro popolare padano-veneto abbiamo la maschera Zani e in Francia Jean le pec; Vi ricordo che in dialetto Gianni o Giovanni suona Giuvà o Giuà. in Trentino esiste Turlulé e nei paesi anglosassoni Noodles. In Turchia il personaggio è noto col nome di Nasreddin Hocha. E’ altresì un personaggio proteiforme e contraddittorio perché se in alcune storielle appare scemo in altre è particolarmente furbo e in altre ancora è l’incarnazione della satira del potere. Molto probabilmente per alcuni il
suo comportamento strampalato, grottesco, surreale, è l’espediente per evitare guai peggiori di quelli nei quali s’è cacciato, per mettere alla berlina chi di lui si ritiene più dotto e furbo e per non doversi acconciare o sottostare ad obblighi o servizi, o per far passare la buriana. Tra i tanti interpreti delle sue storie ricordiamo Ascanio Celestini, ma la tradizione del personaggio viene portata avanti con grande maestria e con fantastiche innovazioni dall’attore Ludovico Caldarera, che assieme all’attrice Monica Andolina confeziona uno spettacolo variopinto e geniale, utilizzando giochi di luci e ombre, marionette e interpretazioni dal vivo. Per secoli nel mondo islamico e nel Mediterraneo le storie di Giufà hanno tramandato perle di saggezza; nella cultura classica araba erano narrate nell’intervallo tra due storie serie. Anche in Sicilia, come ricorda Leonardo Sciascia, «nell’Epopea del vicinato, tragica, non priva di orrori, le storie di Giufà facevano appunto da farsa: a che non si andasse a letto con il sangue guasto». Per al-‘Aqqàd tra gli elementi significativi degli aneddoti spiccano gli aspetti buffi della dimensione umana; ricorda che le contraddizioni dell’essere umano che provocano il ridere e la riflessione sono temi presenti anche nel Corano, nella Torah e nei Vangeli. Lo studioso osserva che ogni cultura ha una letteratura comica e che in par-
ticolare in ogni Paese si trovano aneddoti di Giufà che si distinguono per i tratti tipici locali. Nota che quando la storia di un Paese attraversa momenti di crisi politica, l’aneddoto comico serve ad alleggerire il senso di disagio sia del singolo verso la comunità, sia della comunità nei confronti del regime oppressivo. Giufà quindi assumerebbe peculiarità nazionali adattandosi in una tradizione storica legata alla cultura di un luogo piuttosto che di un altro. Le storie di Giufà acquistano peculiarità tipiche del luogo in cui vengono adottate, tuttavia mantengono delle caratteristiche che sono universali. In alcuni casi restano identiche alle versioni più antiche. Alcune storie del Giufà arabo (Juhà) trasmesse da al-Maydani sono infatti di origine indiana ad esempio. Ma in Italia e in particolar modo nei paesi legati alla cultura araba sembra perdersi la tradizione di tramandare i racconti di Giufà e immersi in una multimedialità incalzante, dimentichiamo i racconti dei nostri nonni, il sedersi tutti accanto per “ascoltarsi”, le risate e il guardarsi in viso prima di andare a letto; sarebbe bellissimo inserire nelle programmazioni scolastiche lo studio della figura di Giufà, in essa si ritrova storia, geografia, civica, origini e detti popolari, tradizione e radici, tutto ciò che oggi la società ci vieta di vivere appieno.
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Per una antropologia naturale la natura del soggetto umano
di Ivano Spano La natura dell'uomo “Nella sua realtà - l' «essenza umana» è l'insieme dei rapporti sociali” (Marx K., Engels F., 1972). Ciò significa che l'individuo umano può esistere solo all'interno della società umana, in una totalità di reali individui che precede l'esistenza del singolo e si sviluppa indipendentemente da lui. Certo, le operazioni del singolo mutano l'ambiente sociale ma i limiti e le possibilità di queste azioni sono determinate, in una misura variabile, propria da questo ambiente. Con questo si vuole affermare, prima di tutto, che l'essenza umana, intesa in senso assoluto e metafisico, spirito universale, non esiste affatto. Ma l'uomo è anche poi, come ogni altra specie animale, un prodotto della natura, anzi un prodotto determinato e limitato dalla natura. L'uomo è tuttavia in grado di elevarsi al di sopra di questi limiti subordinando al suo potere il complesso della natura trasformandola nel suo corpo inorganico. Proprio per questo l'uomo si distingue dall'animale: il suo rapporto con la natura si manifesta come attività vitale propria dell'uomo, diversa da quella dell'animale. L'animale, così come l'uomo, può soddisfare i suoi bisogni per mezzo della sua attività afferrando l'oggetto del
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bisogno e «consumandolo». L'animale, in questa funzione di soddisfacimento attivo dei bisogni, è limitato in quanto è capace di far oggetto della sua vita e della sua attività una cerchia relativamente limitata e circoscritta di oggetti naturali le cui proprietà fisico-chimiche soddisfano i suoi bisogni. Mancando queste condizioni oggettive l'animale non potrebbe sussistere. La limitatezza della sua attività vitale non deve far meccanicamente pensare ad un suo comportamento stereotipato, fisso-rigido. Infatti, vi può essere un adattamento individuale a mutare condizioni ambientali. La limitatezza dell'attività vitale dell'animale va quindi intesa nel senso che sia lo scopo che le facoltà che definiscono detta attività sono strettamente determinate, date con il suo essere e sono essenzialmente immutabili. Ne segue che le connessioni con la natura che l'animale è in grado di utilizzare, di inserire nel suo agire reale, sono in numero già predeterminato e relativamente limitato. Questo agire immediato e limitato determina anche la conoscenza, il modo di orientarsi dell'animale. In particolare, l'animale non ha alcun rapporto ossia i suoi «rapporti» con altri non esistono come rapporti. Poiché lo scopo dell'azione animale (ciò che spinge l'animale all'azione) coincide con l'oggetto dell'azione
stessa (con ciò verso cui l'azione si dirige), per l'animale l'oggetto non si presenta mai nella sua oggettività e nella sua indipendenza dal bisogno, ma è sempre confuso con questo. Come per l'animale non c'è un mondo indipendente dai suoi bisogni, così l'animale stesso non esiste come soggetto indipendente dal suo oggetto. Per questo, la struttura del mondo quale esiste nella mente dell'uomo non è semplicemente più povera o più ricca di quella che c'è nella testa dell'animale, non è solo diversa: tra le due c'è una distinzione decisiva dovuta al fatto che l'animale non dispone di una struttura (insieme di rapporti) e di un'articolazione (di connessioni) stabili. Il medesimo oggetto, infatti, che si presenta in situazioni diverse connesso a bisogni diversi non conserva più per l'animale una sua identità, per cui diventa incapace di agire su di esso allo stesso modo che nella situazione precedente di bisogno. Per quanto riguarda la coscienza e la conoscenza umana, il loro carattere può essere chiarito solo sulla base della natura particolare della attività vitale dell'uomo, cioè del lavoro. Il lavoro è infatti una attività che si rivolge al soddisfacimento del bisogno ma ciò non avviene in modo immediato ma tramite una mediazione.
Questa mediazione si presenta: - come uno strumento di lavoro che l'uomo interpone tra sé e l'oggetto del suo bisogno; - come attività di mediazione, che precede e rende possibile l'utilizzazione dell'oggetto. L'attività produttiva dell'uomo pur avendo anch'essa come fine ultimo la distruzione dell'oggetto - il consumo - presuppone uno strumento di lavoro che solo raramente è un oggetto reperibile in natura e, normalmente, è un oggetto elaborato. In questo modo, nel processo di lavoro si formano di continuo nuovi oggetti che trasformano, a poco a poco, l'ambiente umano. Come risultato di una prima attività di lavoro l'ambiente naturale diviene civilizzato, cioè un ambiente in cui si sono oggettivati i bisogni e le capacità dell'uomo. È solo perché l'uomo vive in un mondo che è diventato umano in questo modo, e solo perché nascendo trova già oggettivati quei bisogni e quelle capacità che si sono manifestate nel passato, e quindi può disporre materialmente di tutti i risultati, di tutto lo sviluppo sociale a lui precedente, solo per questo diventa possibile che il processo di sviluppo non debba ricominciare sempre da capo. Soltanto il lavoro, allora, in
quanto oggettivazione della essenza umana configura, in generale, le possibilità della storia. I risultati che conseguono da questa attività specificatamente umana, il lavoro, possono essere propriamente esaminati su due piani, pur non potendoli pensare separati tra di loro: sul piano degli oggetti e sul piano del soggetto. Sul piano degli oggetti, in quanto l'agire dell'uomo non è diretto a soddisfare immediatamente il bisogno, la cerchia degli stessi su cui può esercitare la sua attività aumenta. Infatti, da una parte cresce il numero di oggetti che possono soddisfare i bisogni umani in quanto l'uomo li utilizza mutandoli nella loro forma, dall'altra, oggetti non idonei a soddisfare immediatamente i bisogni divengono necessari come mezzi dell'attività produttiva. In questo modo la cerchia dei fenomeni naturali controllata dall'uomo si allarga sempre più acquistando il carattere dell'universalità. L'universalità dell'uomo appare proprio in quella universalità che fa dell'intera natura il corpo inorganico dell'uomo, sia perché essa è un mezzo immediato di sussistenza, sia perché è la materia l'oggetto e lo strumento della sua attività vitale. «Che l'uomo viva della natura vuol
dire che la natura è il suo corpo, con cui deve stare in costante rapporto per non morire. Che la vita fisica e spirituale dell'uomo sia congiunta con la natura, non significa altro che la natura è congiunta con se stessa, perché l'uomo è una parte della natura» (Marx K., 1968). D'altra parte la produzione di un oggetto si configura come l' umanizzazione dell’oggetto stesso. Attraverso l’attività umana l'uomo si appropria dell'oggetto come oggetto dei suoi bisogni, esterno e indipendente da lui. È questo il processo di oggettivazione dell'uomo. «Il sole è l'oggetto delle piante, un oggetto a loro indispensabile, un oggetto che ne conferma la vita; parimenti la pianta è oggetto per il sole, come estrinsecazione della forza vivificatrice del sole, della forza essenziale oggettiva del sole. Un essere che non abbia la propria natura fuori di sé, non è un essere naturale, non partecipa all'essere della natura. Un essere che non abbia un oggetto fuori di sé, non è un essere oggettivo. Un essere, che non sia esso stesso oggetto nei confronti di un terzo, non ha nessun essere per oggetto, cioè non si comporta oggettivamente, il suo essere non è oggettivo. Un essere non oggettivo è un non-essere» (Marx K., 1968).
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Esistenza come appropriazione L'oggettivazione dell'uomo significa al tempo stesso appropriazione dell'oggetto. Appropriazione dell'oggetto significa anche appropriazione della forza essenziale-capacità dell'uomo che è divenuta oggettiva. L'uomo sviluppa quindi le sue facoltà solo in quanto le oggettiva, le pratica. «La prassi nella sua essenza e universalità è la rivelazione del segreto dell'uomo come essere ontocreativo, come essere che crea la realtà (umanosociale) e che pertanto comprende la realtà (umana e non umana, la realtà nella sua totalità). La prassi dell'uomo non è attività pratica in contrapposto alla teoria, bensì è determinazione dell'esistenza umana come elaborazione della realtà» (Kosic K., 1965). Ciò che è umano e ciò che umano non è non sono quindi predeterminati ma si determinano storicamente mediante una differenziazione pratica. L'uomo sviluppa, quindi, le sue facoltà-capacità solo in quanto le oggettiva in un processo pratico. Infatti la prima produzione di un oggetto non riesce mai in modo adeguato. Solo la realizzazione dell'oggetto ripetendosi più volte (attraverso la pratica) rende capace l'uomo di svolgere la sua attività anche in circostanze sfavorevoli ed è in questo modo che la facoltà dell'uomo di intervenire sugli oggetti acquista un carattere di universalità. Questo processo di appropriazione si presenta, parimenti, nel corso dell'ontogenesi umana. Per il bambino l'ambiente umano è dato, ma non gli oggetti nella loro qualità umana. Perché il bambino possa entrare in rapporto con questi oggetti come con l'oggettivazione delle forze essenziali dell'uomo, e quindi possa utilizzarli in modo umano, deve sviluppare anche in sé le stesse facoltà, le stesse forze. Questo processo, ovviamente, non è lasciato alla spontaneità e si realizza con la mediazione degli adulti, della società. La socializzazione si compie come iniziazione dell'individuo al sociale. Ma in che cosa consiste il contenuto oggettivo delle facoltà di cui si appropria il bambino? La capacità di produrre un oggetto significa fondamentalmente assimilare una forma di agire che porta sia il mezzo che l'oggetto nella connessione necessa-
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ria a realizzare lo scopo prefissato. Che queste facoltà si sviluppano vuol dire poi che l'uomo diventa capace di valorizzare nel suo comportamento tutte quelle leggi naturali che pure non sono quelle della sua natura biologica, fisiologica, ecc., senza doverle tuttavia alterare. In questo senso Marx (1968) definisce l'uomo reale, corporeo, quell'uomo capace di elevare l'insieme delle connessioni e delle leggi naturali a leggi e principi della sua attività. Abbiamo detto che ogni atto individuale, il lavoro come attività propriamente umana, hanno come premessa necessaria sia lo scopo che il bisogno. Dal punto di vista del processo storico complessivo questo rapporto è rovesciato. L'uomo ha infatti naturalmente dei bisogni costanti (prima di tutto il bisogno di superare i limiti a lui imposti dalla natura stessa per la sua esistenza) ma ciò non toglie che il lavoro non si configura come attività diretta al soddisfacimento di bisogni eterni e immutabili. I bisogni che determina la produzione non , in realtà, sono i meri bisogni naturali ma quelli che la produzione stessa suscita. È solo l'oggetto prodotto dall'uomo che realizza il bisogno umano collettivo. Il carattere storico dei bisogni deriva, allora, dalla attività stessa del lavoro in quanto: — l'oggetto che serve a soddisfare un bisogno non è immediatamente un oggetto naturale ma è un prodotto della attività umana lavorativa, è un prodotto sociale; — il fatto che l'uomo si pone in contatto con gli oggetti atti a soddisfare bisogni attraverso la società umana, il lavoro socializzato, fa entrare l'uomo in contatto con altri oggetti naturali e altri uomini. Ciò determina bisogni sociali ossia bisogni della vita in comune che non si presentano come dati di fatto biologici né come l'umanizzazione dei bisogni di tipo biologico. Accanto all'attività materiale di produzione, ma sottoposte alle sue leggi, possono sorgere altre forme umane di appropriazione della natura, dunque altre specie di produzione. «La religione, la famiglia, lo stato, il diritto, la morale, la scienza, l'arte, ecc. non sono che modi particolari della produzione e cadono sotto la sua legge universale» (Marx, 1968). In questo modo il rapporto tra l'uomo e il suo ambiente si fa sempre più
complesso e multiforme, al punto che il bisogno umano si riferisce a tutta la natura e a tutto l'uomo. L'insieme di questi elementi racchiude il senso di ciò che Marx chiama umanizzazione della natura che si presenta non come mera attività della coscienza. La trasformazione della natura per mezzo del lavoro realizza, al tempo stesso, una trasformazione dell'uomo. Questi è in grado di umanizzare la natura solo in quanto egli stesso si naturalizza sviluppando una essenza universale capace di adattare, sempre più, la sua attività al complesso delle leggi naturali e, quindi di modificare tutta la natura. Inteso in questo modo, l'agire dell'uomo non ha significato di trasformazione esteriore, di raccolta semplice di oggetti prodotti dalla natura nel suo sviluppo e divenire, ma ha il significato della continuazione e del compimento dello sviluppo naturale. «La storia stessa è una parte della realtà della storia naturale, della natura che diventa uomo. La scienza naturale sussumerà in un secondo tempo sotto di sé la scienza dell'uomo, allo stesso modo che la scienza dell'uomo sussumerà la scienza della natura: allora ci sarà una sola scienza» (Marx K., 1968).
Coscienza come appropriazione Se la realtà materiale umanizzata, il mondo delle cose costituisce la condizione oggettiva perché l'uomo da semplice essenza naturale divenga un'essenza appartenente alla specie umana, la condizione soggettiva di questo processo si realizza nello sviluppo e nel perfezionamento della coscienza umana. La coscienza come condizione della natura sociale dell'uomo esiste solo come una coscienza condizionata e posta in essere dalla società, come coscienza sociale. In questo senso si definiscono tutte le forme di coscienza: anche la coscienza sensibile allora che sembra, al contrario, risultare dal collegamento immediato dell'oggetto esterno con gli organi di senso dell'uomo. Di fatto, il carattere immediato, passivo e individuale (non riducibile al sociale) della coscienza sensibile è però una pura apparenza. L'uomo non vede il mondo come esso si riflette nella sua retina. Infatti, la percezione è una attività nel corso della quale l'uomo, fra gli stimoli che raggiungono i suoi organi di senso partendo dall'oggetto, seleziona quelli con il cui aiuto può riconoscere e identificare l'oggetto come oggetto della sua prassi sociale.
Tale selezione, così come ogni altro tipo di attività realmente umana, è anch'essa di origine sociale. Tutti i rapporti umani che l'uomo ha con il mondo, vedere, udire, toccare, pensare, sentire, agire, ecc., o se si vuole, tutti gli organi che definiscono la sua individualità, costituiscono nel loro comportamento di fronte all'oggetto l'appropriazione dell'oggetto stesso. La coscienza umana è, in tutte le sue forme, una attività decisamente tesa all'appropriazione della natura. Gli oggetti per divenire allora elementi della coscienza devono venire appropriati spiritualmente (livello della consapevolezza della propria realtà). Presupposto di questa attività, dell'inserimento dell'uomo nella vita sociale - in definitiva -, è la determinazione di una articolazione stabile tra uomo e fenomeni. Questa necessità è resa possibile per mezzo della coscienza sociale materializzata quale si è fissata nel linguaggio. Naturalmente la struttura in cui i fenomeni vengono articolati non è arbitraria: l'uomo primitivo e l'europeo di oggi vedono, ma in maniera diversa, lo stesso luogo, lo stesso fenomeno dal momento che un oggetto può essere (umanamente) soltanto la conferma di una forza essenziale dell'uomo e quindi può esistere nella misura in cui la forza essenziale, in quanto facoltà soggettiva, si sviluppa. Un oggetto ha senso soltanto per il senso corrispondente. Dice Marx (1968) che l'educazione dei cinque sensi è opera di tutta la storia dell'uomo fino a oggi. L'intuizione umana ha quindi carattere storico. Questo mutamento storicamente condizionato dalla sensibilità umana è, in ogni caso, un processo che segue una precisa direzione e si realizza come sviluppo dell'umanizzazione dei sensi. In che consiste, allora, la tendenza di questo processo? Abbiamo visto come per l'animale di un oggetto hanno importanza soltanto quelle proprietà che gli forniscono un effetto di tipo biologico. L'animale dà forma alla materia secondo la misura e il bisogno della sua specie e, soltanto in questa stessa misura è in grado di conoscerla. Per l'universalità, invece, che caratterizza l'attività lavorativa dell'uomo - ogni oggetto diventa oggetto dell'agire umano, - l'uomo introduce sempre più i singoli oggetti in connessione attiva con gli altri oggetti, - formandosi nuovi bisogni e nuovi
modi di produrre, l'uomo svolge questa attività su terreni nuovi ed entro nuove connessioni (si pensi, ad esempio, alla sperimentazione scientifica). Tutto ciò ha come risultato che l'uomo perviene ad una conoscenza sempre più completa del mondo degli oggetti. Non si tratta però di una completezza di natura quantitativa. La conoscenza umana è, per sua natura, universale, in quanto l'attività dell'uomo è una attività di carattere universale. La cerchia dei rapporti oggettivi, quindi, che cresce continuamente essendo potenzialmente infinita, penetrando nell'attività umana rende accessibili al pensiero dell'uomo nuove relazioni che non sono qualcosa di estraneo all'essenza dell'oggetto dal momento che non esiste in alcun modo una essenza in sé, enigmatica, inattingibile, tale da non poter essere mai acquisita. La natura dell'oggetto consiste infatti proprio nella somma o totalità delle relazioni o proprietà, così come la materia non è altro che la somma e l'unità degli oggetti differenziati e articolati e dei loro rapporti. In questo modo la coscienza umana, quindi la coscienza sensibile, giunge a disporre di una doppia mediazione: da un lato, il suo sviluppo individuale è mediato dall'attività umana nella sua forma principale, cioè dell’attività di lavoro; dall’altra , il suo rapporto con l’oggetto è mediato dalla società, dal grado a cui la coscienza umana è già pervenuta. Le forme storiche della coscienza sociale, nel loro rapporto con gli oggetti del mondo esterno, non sono quindi allo stesso livello. Per l'uomo che vive all'inizio della storia, ancora soggetto alle dipendenze della natura, l'oggetto esiste solo nella sua natura astratta, parziale e solo in quanto soddisfa i suoi bisogni. Per quest'uomo non esistono le qualità specifiche dell'oggetto così come le sue ulteriori determinazioni. Ma, nella misura in cui l'oggetto si inserisce con aspetti e proprietà sempre più numerosi nell'attività sociale di produzione, l'individuo si impadronisce di un'immagine sempre più concreta, una immagine il cui ricco e complesso contenuto si presenterà sempre in seguito nella coscienza empirica anche quando l'individuo scorgerà soltanto l'oggetto (indipendentemente dal suo bisogno). Lo sviluppo della sensibilità umana porta l'oggetto dall'universale-astratto al concreto rendendone accessibile la specificità.
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L'uomo ricco e profondamente sensibile non ha con l'oggetto un rapporto dovuto solo alla sua utilità e quindi non ne vede soltanto relazioni biologicamente significative; al contrario, l'oggetto, nel mondo sensibile di quest'uomo, è ora l'oggetto quale esiste in sé e per sé. Infatti, il senso poco sviluppato, prigioniero dei bisogni primordiali, ha soltanto un senso limitato. L'uomo in preda alle preoccupazioni e al bisogno non ha sensi per le cose belle: il trafficante di minerali vede soltanto il valore commerciale non la bellezza e la natura caratteristica del minerale; non ha alcun senso mineralogico. Dice Marx (1868): «E quindi occorreva l'oggettivazione dell'essere umano, tanto dal punto di vista teoretico che dal punto di vista pratico, sia per rendere umano il senso dell'uomo, sia per creare un senso umano che fosse corrispondente a tutta la ricchezza dell'essere umano e naturale». Ciò implica il passaggio dal rapporto pratico con la realtà al rapporto teoretico, di conoscenza intellettuale del reale. Tale passaggio non significa però in alcun modo un trascendimento del mondo oggettivo, una separazione della conoscenza dai bisogni umani, una pura contemplazione. Al contrario, questo passaggio (che significa il riconoscimento dell'oggetto in ciò che esso è e per come esso esiste in sé), risulta dal fatto che i bisogni da cui tuttora la conoscenza è determinata diventano sempre più molteplici e universali e si rivolgono alla totalità dell'oggetto, della natura e dell'uomo: il che è reso possibile attraverso lo sviluppo della produzione materiale. Questa convergenza tra sviluppo della conoscenza e attività pratica è un processo storico che non riveste necessariamente un carattere progressivo. Infatti, essendo il rapporto dell'uomo con la natura socialmente mediato, l'uomo può realizzare un dominio adeguato della natura soltanto se è in grado di dominare i suoi rapporti sociali. A causa però dell'alienazione il singolo individuo non può fare proprio tutto quello di cui la società si è spiritualmente appropriata nel suo complesso. Ciò determina un contrasto e la separazione tra la coscienza empirica immediata e le forme della coscienza sociale (morale, scienza, arte, politica, ecc.). Questa alienazione che trasforma in ideologie tutte le forme del cono-
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scere, può condurre però solo a contenuti limitati e, in ultima analisi, falsi, indipendenti in ogni caso dal progresso del sapere umano complessivo (naturalmente anche con la soppressione dell'alienazione non può mai realizzarsi una assoluta identità di teoria e prassi, del pensiero scientifico astratto e della coscienza sensibile immediata al limite solo per la costante e ineliminabile mediazione degli organi di senso la dipendenza dai quali determina una deformazione dell'immagine della realtà oggettiva). L'attività conoscitiva dell'uomo, l'appropriazione spirituale del mondo, non sono affatto un processo omogeneo e senza articolazioni. È proprio l'umanizzarsi dei sensi, il perfezionamento delle singole facoltà conoscitive umane, che permettono l'attuazione del processo di conoscenza in un ambito di relativa autonomia per cui l'appropriazione del mondo oggettivo avviene, di volta in volta, per mezzo di uno solo degli organi dell'individualità umana. Ciò significa che la coscienza umana da uno stadio iniziale di completa inarticolazione (impossibilità di scindere i dati derivanti dai diversi organi di senso) si sviluppa fino a giungere a distinguere le immagini fornite da ciascun senso in una situazione in cui i rapporti e le connessioni tra le varie datità diventano sempre più complessi. Con il costituirsi di questa distinzione (che non è mai assoluta in quanto ogni forma di attività conoscitiva è condizionata e guidata da altre) sorge la possibilità di confrontare coscientemente i dati forniti dai singoli organi. Dalle contraddizioni che sorgono da questa attività sorgono nuovi problemi e l'operare teorico e pratico che ne cercano le soluzioni, nel corso del suo sviluppo storico, è in grado di scoprire i limiti dell'agire parziale del singolo, di prendere coscienza e quindi di arrivare a conoscere l'oggetto nella sua realtà umana. L'attività conoscitiva è dunque caratterizzata da un processo ininterrotto in cui la conoscenza supera i propri limiti nella misura in cui ne diventa, a poco a poco, consapevole. In definitiva, l’uomo, utilizzando la mediazione del pensiero, può partire dalle sue percezioni e produrre con la materia della sua coscienza sensibile, nel linguaggio, una struttura di tipo soggettivo, che tendenzialmente, nel suo sviluppo, finisce per corrispondere e per essere isomorfa alla struttura articolata della realtà oggettiva.
Le immagini di questo inserto riproduco particolari di opere di Auguste Rodin
L’analogia tra l’attuale decadenza della società occidentale e quella dell’Impero romano
(parte 2 di 3)
di Alberto Donati
Nei numeri precedenti si è posto in evidenza come l’“Eclisse della ragione” (Horkheimer) sia lo strumento di cui le lobbies capitalistiche si servono per vanificare la cultura degli Human Rights e con essa la società occidentale. Così come l’accumulazione del capitale fondiario nelle mani della oligarchia feudale ha comportato la riduzione dell’essere umano a “servo della gleba”, vale a dire, della terra, analogamente l’accumulazione del capitale industriale e finanziario nelle mani della attuale oligarchia capitalistica implica la riduzione dell’essere umano ad una sua appendice. Perché ciò avvenga è necessario la progressiva vanificazione della cultura che più di ogni altra ha realizzato la protezione della persona umana, quella, appunto, basata sulla affermazione degli Human Rights. Questo processo di decadimento è accompagnato dalla riviviscenza dei fondamentalismi religiosi e, per quanto riguarda l’area occidentale, di quello cattolico, basato sulla negazione del Decalogo e sul primato dei Dio sofferente. Se quest’ultimo patisce, come può l’essere umano, che per giunta ne è ritenuto il respon-
sabile, aspirare ad una esistenza informata alla illuministica “formula della felicità”? Condurre la società ad una condizione di patimento, alla esaltazione della “Croce” e, quindi, a sperare che la sofferenza verrà superata solo nella dimensione transmondana, è quanto necessita alla affermazione, alla conservazione e all’accrescimento del potere delle lobbies dominanti. Questa funzione del fondamentalismo cattolico è anche suffragata dall’esperienza storica. All’“Eclisse della ragione” che devasta la società romana caratterizzata dal latifondismo e dal tramonto del protagonismo dell’uomo libero (vir), fa, non a caso, da pendant la diffusione e l’affermazione del cristianesimo cattolico, l’inaugurazione della società più ingiusta che l’Occidente abbia conosciuto, di una società per liberarsi dalla quale sono occorsi 1789 anni prendendo come punto di riferimento la Rivoluzione francese. Le pagine che seguono sono dirette ad evidenziare questa analogia, questa confluenza del nichilismo filosofico e sociologico nel cristianesimo cattolico, in questa che è la religione degli empi (“giustificati” dalla grazia divina) (Rm 3, 21-24; Gal 3, 24).
SOMMARIO: PARTE I. LA FISIONOMIA DELLA SOCIETA’ ROMANA NEL PERIODO IMPERIALE 1. Motivazione dell’indagine. -2. I caratteri della società romana nel periodo imperiale. L’oligopolio terriero. -3. La pax romana. -4. Il cosmopolitismo e l’affermazione della filosofia scettica. -5. Il venir meno del bonum commune, lo scadimento dello spirito patriottico. -6. Dall’etica rigoristica all’etica edonistica. -7. La decadenza della famiglia. -8. La diseducazione dei giovani. -9. La formazione della giurisprudenza arbitraria. -10. Lo scadimento dell’ars oratoria. -11. L’assolutismo politico. PARTE II. LA CATTOLICIZZAZIONE DELL’IMPERO ROMANO 12. Dall’umanesimo classico all’umanesimo cristiano. -13. La sussunzione del nichilismo nel “pirronismo cristiano”. -14. Riepilogo. PARTE III. LE ANALOGIE TRA LA SOCIOLOGIA CAPITALISTICA E LA SOCIOLOGIA DEL PERIODO DELLA DECADENZA DELL’IMPERO ROMANO 15. La rilevanza politica e culturale della analogia tra periodi storici. -16. Le analogie strutturali tra la feudalità terriera e la feudalità capitalistica. -17. Le analogie sovrastrutturali: la a-nomia etica. - 18. Sintesi delle analogie. -19. Conclusione. PARTE IV. L’ALTERNATIVA: LA RIPROPOSIZIONE DELLA CULTURA DELL’UMANESIMO 20. Le religiosità come fonti di politeismo e di scetticismo. -21. Religiosità e filosofia. -22. Il ritorno a Dio inteso come summa Ratio, unica possibilità di salvezza per l’uomo
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Le Tavole dei Comandamenti, il Decalogo
PARTE SECONDA LA CATTOLICIZZAZIONE DELL’IMPERO ROMANO 12. — Dall’umanesimo classico all’umanesimo cristiano L’assetto sociologico assunto dall’Impero romano favorisce la diffusione del cristianesimo. Quest’ultimo non è la causa della decadenza dell’Impero romano, ma ne è la conseguenza. È in tale veste che esso concorre ad aggravarla e a traghettarla nell’ordine nuovo. Questa umanità ormai priva di moralità, dominata dal nichilismo, caratterizzata dalla compresenza di etnie incapaci di assimilare e di fare propri i valori della cultura classica nonostante la concessione della cittadinanza romana, non può più considerare se stessa come generata da Dio, come pars Dei (“parte di Dio”), come animata dall’ideale dell’uomo kalos kai agaqos (“armonioso nell’aspetto e moralmente equilibrato”), ma richiede una opposta teologia: non più, dunque, la sua generazione da Dio, ma la sua creazione dal nulla (ciò che deriva dal nulla è nulla); non più il Dio somma bellezza e somma armonia, ma un Dio che si fa carne prendendo, così, su di sé le conseguenze che le sono proprie; non più un’etica informata al sapere oportet (“dovere di conoscere”) e al neminem laedere (“non ledere alcuno”), ma al noli altum sapere (“non osare di conoscere”) (Rm 11, 20; 12, 16) e alla charitas, vale a dire, alla
abdicazione di se stessi; non più l’essere umano inteso come detentore della facultas, vale a dire, della autonomia etica e politica, ma l’essere umano posto come suddito (subditus) alla stregua della lex regia de imperio (Digesta Iustiniani, 1, 4, 1, pr.). Si realizza così la liquidazione della cultura classica ulteriormente evidenziata dalla distruzione della biblioteca minore di Alessandria, della stessa biblioteca di Alessandria (a. 400, circa, d.c.) e dalla chiusura della scuola d’Atene, più in generale, evidenziata dalla sostituzione del Liber Naturae con il Liber Scripturae, dalla conseguente sostituzione del primato dei filosofi con il primato dei religiosi. All’affermazione di questo nuovo ordine, fa seguito l’abolizione del divorzio, la sacramentalizzazione del matrimonio, la soppressione delle manifestazioni oscene sostituite, per altro, una volta cessata la ventata iconoclastica (prima metà del secolo VIII), dal definitivo consolidamento di una liturgia basata sul culto delle immagini e, quindi, sulla superstizione, quantunque apertamente vietata dai precetti della prima tavola del Decalogo. Un ordine, indubbiamente nuovo, tuttavia strumentale rispetto alla conservazione della oligarchia terriera cui si aggiunge quella ecclesiastica.
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13. — La sussunzione del nichilismo nel “pirronismo cristiano” Il cristianesimo cattolico si laurea, dunque, come l’ideologia capace di garantire il nuovo ordinamento: “Con il sostegno di Dio, governando l'impero che a noi è stato consegnato dalla Maestà celeste, abbiamo condotto a termine felicemente le guerre, abbiamo onorato la pace, abbiamo sorretto lo stato della repubblica, e abbiamo elevato il nostro animo verso l'aiuto di Dio onnipotente, in modo tale che non confidiamo né nelle armi, né nei nostri soldati, né nei condottieri delle guerre, o nel nostro ingegno, ma rimettiamo ogni nostra speranza nella sola provvidenza della somma Trinità, dalla quale non solo derivarono gli elementi primi di tutto il mondo, ma anche è stato prodotto il loro ordine nell'orbe terrestre” (Digesta Jutiniani, Constit. “Deo auctore”, pr.). Lo scetticismo, la dissoluzione dei costumi, rendevano “necessario cercare una rivelazione che andasse oltre i discorsi umani, una rivelazione annunciata dalla divinità stessa, grazie alla visione, al sogno o all'oracolo. Ma una rivelazione così inedita e mai udita prima doveva parlare di un dio fino ad allora sconosciuto e di una verità segreta. La conoscenza segreta è una conoscenza profonda [...] In tal modo la verità si identifica con ciò che non viene detto o con ciò che viene detto oscuramente, e deve essere compresa a partire da ciò che sta oltre o sotto la superficie di un testo” (U. Eco). Alle guerre imperialistiche ed alle guerre civili si sostituiscono le guerre imperialistiche e civili religiose; il sopruso diviene pedagogo alla charitas; il protagonismo dell’uomo filomaqhs vale a dire, dell’uomo “che ha veramente il desiderio di conoscere”, dell’uomo, pertanto, che è animato dall’erws filosofico, ossia, dal “desiderio di possedere il bene”, è sostituito dal protagonismo del cristiano, dell’uomo, pertanto, animato dall’opposto valore della agape (caritas), dal “noli altum sapere” (“non osare di sapere”) (Rm 11, 20; 12, 16; Gn 2, 17), dall’uomo che è “stoltezza del mondo”, da coloro che sono “la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti” (1 Cor 4, 13), da coloro che sono “stoltezza”, “debolezza”, “ignobile(i)”, “disprezzato(i)”, “nulla” (1 Cor 1, 26-30), scelti da Dio “per confondere i sapienti, [...] per confondere i forti” (1 Cor 1, 27). Dal primato dell’essere umano animato dalla philautia (“amore di se stesso”) in quanto soggetto alla ragione, si transita a quello dell’essere umano animato dal disprezzo di se stesso (Mc 8, 34) in quanto contaminato dal peccato originale, in quanto creato ex nihilo (“dal nulla”) (“Chi ama la propria vita, la perde, e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”) (Gv 12, 25). Dall’amore per il mondo in quanto immagine della sapienza divina, in quanto via ad Deum, si passa al contemptus mundi (“disprezzo del mondo”) in quanto conseguenza del peccato originale (“Non amate il mondo, né ciò che vi è nel mondo. Se uno ama il mondo, in lui non c’è l’amore del Padre”) (1 Gv 2, 15); dal dispotismo di origine democratica alla stregua della lex regia de imperio (Digesta Iustiniani 1, 4 1, pr.) si passa al dispotismo di origine divina (“non est potestas nisi a Deo” (Rm 13, 1; Gv 19, 11). Alla rappresentazione delle divinità afferenti al politeismo classico, si sostituisce la rappresentazione della seconda persona della Trinità, degli angeli e dei santi,
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il culto delle immagini, seguito dal culto delle reliquie; alla visione unitaria della società civile sottentra la sua configurazione dualistica data dalla compresenza della Civitas Dei e della Civitas Hominis, la prima sovraordinata alla seconda; alla facultas, vale a dire, alla libertà nel rispetto del Deum colere (Digesta Iustiniani 1, 1, 2) e del neminem laedere (Digesta Iustiniani 1, 1, 10, 1), succede la libertas christiana espressa dal canone “habe charitatem et quod vis fac” (“perdona e fa quello che vuoi”); alla storiografia incentrata sull’eterno ritorno dell’uguale si sostituisce la storiografia cristiana volta ad intendere il percorso umano come preparazione dell’Apocalisse; alla coscienza umana intesa come specchio di Dio, si sostituisce, per effetto del creazionismo, la coscienza intesa come depositaria di una mera parvenza di Dio, donde la necessità che sia Dio stesso a manifestarsi all’uomo mediante la Rivelazione. Si possono, così, sintetizzare i caratteri del “pirronismo cristiano”: passaggio dal Dio unico (summa Ratio) al Dio trinitario (summa Voluntas); sua autosvalutazione (kenosis) nella persona del Figlio; negazione del principio di causalità (creatio continua); negazione del libero arbitrio (Ef 1, 4-5); negazione dell’alieni abstinentia (“ama et quod vis fac”); negazione del sapere oportet (“noli altum sapere”) (Rm 11, 20; 12,16).
Il Dio Trinitario
14. — Riepilogo Si conclude così, tragicamente, il processo di progressiva decadenza dell’impero romano che prende le mosse dalla fine delle guerre puniche, vale a dire, dal momento in cui esso cessa di avere nemici capaci di metterne in pericolo l’esistenza. Questo decadimento è indotto, a livello economico, dalla formazione del latifondo condotto con il lavoro degli schiavi, dalla progressiva estinzione della piccola proprietà terriera e della relativa classe sociale, dal conseguente scadimento del lavoro libero. Da un lato, gli oligarchi terrieri, dall’altro, la massa diseredata materialmente e spiritualmente. L’ideale dell’uomo kalos kai agqos, vale a dire, dell’uomo in cui l’armonia esteriore è il riflesso di quella interiore in quanto informata al primato della razionalità, non poteva più essere rappresentativo di una soggettività umana debosciata, affatto priva di un autonomo protagonismo economico e politico. L’antica aristocrazia che aveva fondato e guidato la grandezza etica e politica della città di Roma, era degenerata in una oligarchia, aveva perso irrimediabilmente il suo prestigio, la sua legittimazione politica, facendosi portatrice di un potere fine a se stesso senza altri meriti per i suoi rappresentanti che l’appartenenza ad essa per diritto di nascita. È questa stessa oligarchia che, con la sua dissolutezza, coinvolge la base sociale: “questa vita vissuta come ludus, non è propria della sola aristocrazia. I giovani aristocratici sono soltanto gli iniziatori; ma accanto ad essi troviamo una quantità di canagliume e di gente lubrica d'ogni classe sociale; le donne, poi, sono quasi tutte del demi-monde, delle infime classi. Ci sono tra il demimonde e l’aristocrazia quelle inevitabili interferenze, che si riscontrano, in tutti i tempi, ogniqualvolta l’aristocrazia si abbassi alla vita del demi-monde: il moechus o il pathicus aristocratico e lo scortillum libertino si equivalgono” (V.E. Alfieri); “Romolo è diventato cinedo e la Città sacra una grande maison malfamée [“casa malfamata”]” (V.E. Alfieri). L’idea di Dio inteso come summa Ratio, generatore, non creatore, di un universo inteso come cosmo, vale a dire, come un tutto ordinato ed armonico, l’idea, connessa, dell’esistenza di valori di giustizia universali ed invariabili capaci di ordinare la società umana al di là ed al di sopra delle divisioni regionali, locali e razziali, erano ormai
prive di una reale valenza culturale. Questo vuoto viene colmato da una nuova religione definita da Tacito exitialis superstitio, da Svetonio nova et malefica (Divus Claudius, 25, 3), promossa da un certo Chrestu impulsor (Cristo ribelle, sedizioso). L’idea della charitas, posta come valore supremo in quanto attributo dello stesso Dio trinitario (“Deus charitas est” - “Dio è carità”) (1 Gv 4, 16), in quanto valore ordinante il suo rapporto con l’umanità, in quanto valore preposto agli stessi rapporti umani (dilige et quod vis fac - “perdona e fa quello che vuoi”), si sostituisce ai valori della analogia (“proporzione”), della omonoia (“concordia”), ovvero, dell’armonia (“armonia”) e della sumpaqeia (“simpatia”), indotti nell’essere umano dalla perfetta razionalità divina. È su queste basi, in particolare ad opera di Eusebio di Cesarea, che avviene la saldatura tra il cristiano rifiuto del mondo e l’assunzione del ruolo politico di conservazione e legittimazione dell’iniqua strutturazione sociale. L’attribuzione all’impero romano della qualifica di katéchon, vale a dire, della funzione “di trattenere il dilagare del male nei tempi pre-escatologici”, l’affermazione della corrispondenza tra il monoteismo biblico e la monarchia imperiale, la considerazione di quest’ultima come eikòn, vale a dire, come immagine dell’impero celeste, fanno sì che “l’impero assume[a] una funzione escatologicamente positiva nel preparare l’instaurazione della monarchia divina universale con il Regno finale del Padre”. Riassuntivamente, dall’affermazione iniziale dell’esistenza di Dio, inteso come summa Ratio, che, in termini panteistici, permea di sé la dimensione noumenica della realtà ordinando di conseguenza la materia cosmica e la natura spirituale dell’essere umano, inducendo, così, in essa la preminenza delle virtù etiche e dianoetiche, si transita, in un primo momento, ad una visione in cui gli Dèi vengono intesi come affetti dalla atarassia, dalla indifferenza per le vicende cosmiche ed umane, donde l’etica umana ugualmente informata a questa stessa atarassia, al disimpegno per la cosa pubblica, al prudente distacco dalle suggestioni corporali; si transita, in un secondo momento, alla visione cristiana, vale a dire, alla divinizzazione del disordine, cosmico, politico ed etico, resa possibile dalla kenosis del Dio trinitario, mera transustanziazione della kenosis già maturata nell’ambito della mitologia decaduta e dello gnosticismo. Il cristianesimo diviene la sovrastruttura culturale capace di esprime la condizione di questa umanità degradata. L’essere umano non è più espressione di Dio inteso come somma bellezza, come somma armonia, di Dio che richiede l’esercizio delle virtù intellettuali e morali, ma del Dio trinitario che è somma volontà, la cui seconda persona dà luogo alla sua kenosis (Fil 2, 7-8), vale a dire, alla propria svalutazione assumendo la peccaminosa veste umana; del Dio che svaluta l’esistente e lo stesso essere umano creandoli dal nulla (ciò che proviene dal nulla è nulla); del Dio che legittima la gerarchia economica, quindi, politica (Rm 13, 1); del Dio che delegittima la facultas, vale a dire, l’essere umano che è “causa suiipsius” (“causa di se stesso”) e legittima i tre valori che ormai significano la società civile: ignoranza, povertà, sottomissione, sussunti nella doverosità della charitas.
prosegue nel prossimo numero
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Proseguiamo anche in questo numero il dibattito sul materialismo storico (e dialettico) “provocato” dalla pubblicazione, nei numeri di gennaio-febbraio e marzo-aprile scorsi, di due testi di Stalin sull’argomento. A quei due primi inserti aveva replicato il prof. Donati, nei successivi numeri di maggio-giugno e luglio-agosto, sostenendo la non continuità tra il pensiero filosofico di Marx (ed Engels) e l’applicazione politica, economica e, infine, anche morale, da parte dei partiti comunisti ispirati, invece, alla evoluzione leninista, poi stalinista, maoista, ecc. Agli articoli del prof. Donati aveva replicato l’editore, sia con argomentazioni proprie che con il richiamo a elaborati di maggiore spessore scientifico, asserendo, al contrario, la perfetta continuità tra pensiero marxista (“marxiano” con termine scientifico) e leninista (quindi non solo Lenin, ma anche tutti i successivi, incluso lo stesso Gramsci). Il prof. Donati ci ha inviato una nuova replica che pubblichiamo di seguito. Poiché nel suo brano il prof. Donati riconosche e afferma la perfetta continuità tra il pensiero di Lenin e l’attuale politica del Partito Comunista cinese, lasciamo al suo segretario, Xi Jinping, di replicare, pubblicando (per stralci tipografici) due suoi interventi in materia di materialismo storico e di etica del Partito Comunista. Il dibattito resta comunque aperto a chiunque voglia partecipare. (SR) Gentilissimo Avvocato, la Sua replica è pregevole ma non mi sembra condivisibile. Il Suo punto di vista, che, del resto riflette quello dominante nel contesto comunista, consente di sintetizzare il pensiero di Marx nei seguenti termini: “le vere forze motrici della storia non sono le idee, bensì le strutture economico-sociali”. Con ciò, non è indicata la legge che presiede al loro svolgimento, alla loro successione nel tempo. Si è, pertanto, in presenza dell’eracliteo παντα ρει (“tutto scorre”) che pone l’essere umano come oggetto di storia invece che come suo soggetto. La ricostruzione, da Lei accolta, del pensiero di Marx, lo priva di ogni istanza etica, di qualsivoglia teleologia: la causa initialis è la struttura economica, la causa finalis è il riproporsi, in infinitum, di questa stessa struttura quanto si voglia modificata. Non c’è altro.
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I rapporti di produzione, tuttavia, non germinano dalla terra ma sono il portato delle idee che l’essere umano si forma correlandosi con se stesso e con l’ambiente circostante. Nell’enunciare la c.d. concezione materialistica della storia, Marx non intende contraddire questo fatto, intende invece delegittimare quella filosofia, in particolare, quella hegeliana, che pone in un ente metafisico la spiegazione della vicenda umana, intende affermare che tale spiegazione deve essere ricercata nello studio dei rapporti di produzione, nelle idee, ad essi immanenti, che di quest’ultimi sono la causa. Il Capitale, l’opera più elevata di Marx - alla cui stregua deve essere interpreto il suo pensiero quale risulta dai suoi ulteriori lavori - è reso acefalo essendo privato della sua finalità primaria, vale a dire, della dimostrazione del carattere espropriativo del sistema capitalistico.
ancora su Marx e il materialismo L’appropriazione del prodotto del lavoro altrui è un fatto, la sua qualificazione come espropriazione è la conseguenza di un giudizio etico. Il Capitale, infatti, presuppone come valore di riferimento l’alieni abstinentia (“l’astenersi da ciò che è altrui”), intesa come canone attestato dal diritto naturale ed avente, pertanto, una valenza oggettiva, universale, invariante. E’ la sua correlazione tra le modalità produttive capitalistiche a rendere possibile la costituzione di una futura società senza classi, vale a dire, la formazione di una struttura economica priva del carattere espropriativo del prodotto del lavoro sociale. In altri termini, il pensiero di Marx, quale risulta dal Capitale, è nel senso che il primato spetta ai rapporti di produzione che, tuttavia, sono il prodotto del protagonismo umano. Quest’ultimo, considerato nella sua oggettività, non è fine a se stesso ma è diretto ad instaurare una società giusta, tale, in quanto in essa ha compiuta vigenza l’alieni abstinentia, il valore di giustizia attestato da tutta la tradizione intellettualistica. Senza questa finalità, quel divenire è cieco, è privo di una causa initialis e, quindi, di una causa finalis, conduce allo scetticismo, al παντα ρει, allo storicismo crociano, ovvero, a concepire la svolgimento sociologico come animato da meri rapporti di forza. Ciò che è quanto di più estraneo si possa immaginare al pensiero di Marx. Egli è un moralista e la sua peculiarità consiste nel legare l’istanza della giustizia ai rapporti di produzione dandole così la certezza di una realizzazione terrena e non alienata in una dimensione transmondana a tutto vantaggio delle lobbies dominanti. Privata della eticità, la teoria economica di Marx inevitabilmente si appiattisce sulle posizioni dell’“economia classica [che] considera il proletario soltanto come una macchina che produce plusvalore, [...] [e] anche il capitalista viene da essa trattato come una macchina che serve a trasformare questo plusvalore in pluscapitale” (Il capitale, edizione Newton Compton, 1974, I, 2, p. 784). Il determinismo, che indubbiamente caratterizza il pensiero di Marx, non è tuttavia tale da indurre nell’essere umano un atteggiamento passivo, semplice-
mente attendista. Quella di Marx è anche una filosofia della prassi (vd. il Manifesto del Partito Comunista), nel senso che il corso della storia, quantunque segnato dai rapporti di produzione, può, tuttavia, essere ritardato o accelerato, migliorato o peggiorato, a seconda del ruolo svolto dai suoi protagonisti nelle sedi politiche. La diversa teorizzazione del cd. materialismo storico operata da Stalin e da Mao sono inattendibili poiché, marxianamente, sono sovrastrutture di un sistema economico e politico che non è comunista, che nulla ha a che vedere con la società postcapitalistica delineata da Marx. Ciò che è noto a chiunque si sia cimentato con lo studio del Capitale, con chiunque abbia rilevato come Lenin, all’indomani della rivoluzione del 1917, acquisito saldamente il potere politico e dovendo industrializzare il paese, abbia riposto nel cassetto il Capitale, passando così alla NEP, vale a dire, ad una strategia (poi vanificata da Stalin) che demandava all’economia di mercato la realizzazione di tale compito. Questa, sia detto incidentalmente, è anche la linea adottata dalla attuale dirigenza cinese che ha in tal modo dimostrato di avere una ben più profonda conoscenza del pensiero di Lenin di quanto l’abbiano avuta i protagonisti della crisi sovietica. Per comprendere ed inquadrare l’economia pianificata (ma anche quella italiana corporativa), occorrono altre chiavi di lettura, conformi, per altro, al pensiero di Marx, in particolare, quella di Organsky A.F.K., Le forme dello sviluppo economico, trad. it., Laterza, 1965, secondo cui queste strutture economiche sono tipiche dei Paesi arretrati e costretti dalla storia a colmare rapidamente il gap esistente nei confronti di quelli capitalistici. Per una trattazione più approfondita, rinvio alla “Appendice III”, contenuta nel mio “Elementa juris naturalis”, ESI, 1990, pp. 507-732, in cui ricostruisco il pensiero economico di Marx (e di Lenin) sulla base di una lettura di prima mano del Capitale. Mi è gradita l’occasione per rinnovarLe i consueti sensi della mia stima unitamente ai cordiali saluti. Alberto Donati
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Studiare il sistema teorico del socialismo con le caratteristiche cinesi e padroneggiare la posizione, il punto di vista e i metodi marxisti I quadri dirigenti del Partito saranno in grado di incrementare sempre di più il proprio livello ideologico e teorico, saranno maggiormente in grado di distinguere il giusto dallo sbagliato e di capire e cambiare il mondo, e saranno in grado di rafforzare la propria fede nel socialismo con caratteristiche cinesi e negli ideali del comunismo solo studiando diligentemente e comprendendo a fondo la posizione, il punto di vista e il metodo marxisti. Mao Tse-Tung, in “Riformare il nostro studio”, scritto nel nel 1941 per affrontare il serio problema della teoria separata dalla realtà e del trattamento dogmatico del marxismo all’interno del Partito, ha messo in evidenza che nello studiare e nell’applicare il marxismoleninismo molti compagni “sono soltanto capaci di citare frasi e parole isolate dalle opere di Marx, Engels, Lenin e Stalin, ma non sanno adottare la posizione, il punto di vista e il metodo di questi maestri per studiare concretamente la situazione attuale e la storia della Cina, analizzare concretamente i problemi della rivoluzione cinese e risolverli.” Ciò richiede di contrastare risolutamente l’idea che “il marxismo è obsoleto” e tutte le altre erronee idee che rifiutano il marxismo, ed allo stesso tempo richiede di non farsi incatenare a certe conclusioni marxiste riguardo a determinate situazioni e condizioni. Marx ed Engels hanno messo in chiaro nel Manifesto [del Partito] Comunista che i comunisti devono sempre lavorare nell’interesse del proletariato e della stragrande maggioranza dei lavoratori. Lenin ha sottolineato che un partito comunista è l’avanguardia del proletariato e deve servire il popolo e rappresentarne gli interessi. Di fronte alla diversificazione degli interessi e dei valori nella società che si accompagna all’approfondirsi della politica di riforma e di apertura, alcuni quadri dirigenti stanno mostrando seri problemi che non sono conformi e sono anzi in contrasto con la posizione marxista. Alcuni si sono estraniati dal popolo e sono indifferenti rispetto ad esso. Alcuni persino ingannano il popolo per guadagni personali. Ciò ha indebolito gli stretti legami tra il Partito e il popolo. Il popolo è una fonte illimitata di saggezza e creatività. Dobbiamo umilmente imparare da esso per aumentare la nostra saggezza politica e le nostre competenze nel governo e nella direzione e dobbiamo costantemente assorbire da esso alimentazione e forza. Il popolo è la forza motrice della Storia. Noi comunisti non dobbiamo mai dimenticare questo principio fondamentale del materialismo storico. Applicando i principi materialisti alle questioni sociali e storiche, il marxismo mostra che lo sviluppo della società umana è un processo storico naturale e che il movimento delle contraddizioni sociali primarie significa
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che il socialismo sostituirà inevitabilmente il capitalismo. Questo ideale scientifico ha ispirato e incoraggiato generazioni dopo generazioni di comunisti a lottare, a dare il proprio sangue e a sacrificare la vita per la realizzazione di questo ideale. Alcuni membri del Partito ultimamente hanno avuto paura di procedere di fronte ai problemi, sono pessimisti e rattristati di fronte alle difficoltà e si sono dimostrati incapaci di mantenere la propria purezza, persino cedendo alla tentazione e diventando corrotti. Si riduce tutto a problemi negli ideali e nelle convinzioni. L’esperienza ha dimostrato che per fare in modo che i comunisti abbiano ideali e convinzioni incrollabili, essi devono con coscienza studiare e comprendere il potente strumento ideologico del materialismo dialettico e storico e costruire i propri ideali e convinzioni su una solida base di analisi scientifica. Dobbiamo comprendere correttamente gli attuali sviluppi economici e scientifici nei paesi capitalisti, ma è ancora più importante per noi comprendere correttamente la contraddizione primaria della società capitalista e la tendenza storica del suo inevitabile declino e della sua caduta. Dobbiamo comprendere in modo corretto le varie svolte e i vari salti nello sviluppo del socialismo, ma è ancora più importante comprendere correttamente che lo sviluppo del socialismo ha un futuro luminoso davanti a sé. Dobbiamo comprendere che il socialismo è un processo lungo, arduo e complesso, ma è ancora più importante essere consapevoli della potente vitalità e della immensa superiorità del sistema socialista. Il marxismo osserva sempre la società attraverso la sua produzione materiale, in particolare nei termini del movimento della contraddizione fra le forze produttive e i rapporti di produzione. Questo mostra che le forze produttive sono la forza più attiva e rivoluzionaria nel portare avanti il progresso sociale, determinando quindi il fatto che il compito fondamentale del socialismo è lo sviluppo delle forze produttive. La Cina si trova ancora nella fase primaria del socialismo, e ci rimarrà ancora per molto tempo; la contraddizione primaria nella società cinese è fra i sempre crescenti bisogni materiali e culturali del popolo e l’arretrato livello della produzione. Il più grande ideale marxista è la società comunista, in cui c’è un’abbondante ricchezza materiale, il popolo possiede elevati livelli culturali, intellettuali e ideologici, e ognuno è libero di perseguire uno sviluppo personale completo. La società socialista deve concentrarsi sullo sviluppo economico, e allo stesso tempo raggiungere uno sviluppo e un progresso generali.
Preservare la purezza del Partito La purezza del Partito si manifesta ideologicamente, politicamente, organizzativamente e nello stile di lavoro. La purezza ideologica richiede che tutte le organizzazioni, gli iscritti e i dirigenti del Partito continuino ad assumere come proprio principio guida il marxismo e i raggiungimenti [teorici] dell’adattamento del marxismo alle condizioni cinesi; che mantengano incrollabile la convinzione negli ideali del socialismo e del comunismo; che seguano la linea ideologica marxista del “ricercare la verità attraverso i fatti”; che resistano strenuamente alla penetrazione di idee anti-marxiste; e che assumano una posizione contro le idee erronee che vanno contro i principi del marxismo. La purezza nello stile di lavoro richiede che le organizzazioni, gli iscritti e i dirigenti continuino a fare proprie le positive tradizioni del Partito, quali unire la teoria alla pratica, mantenere stretti legami con le masse, praticare la critica e l’autocritica, ed essere modesti, prudenti e infaticabili; applicare pienamente l’approccio di lavoro “dalle masse, alle masse” e la pratica del condurre inchieste e studi fra le masse; l’opporsi inoltre fortemente a varie forme di comportamenti dannosi, come il soggettivismo, il formalismo, stili di lavoro burocratici, l’abuso di potere per guadagni personali, la disonestà, decisioni prese in modo arbitrario ed eccessi [vari]. Nel preservare la purezza ideologica, la cosa più importante è mantenere la nostra ferma convinzione nel comunismo e nel socialismo. Nel periodo della guerra rivoluzionaria, innumerevoli comunisti cinesi hanno marciato per tutto il paese per combattere, sacrificando le loro stesse vite perché la rivoluzione potesse vincere. Il potere della convinzione non ha limiti. La purezza della convinzione è la più fondamentale purezza che possa avere un comunista cinese. Attualmente ci sono alcuni membri e dirigenti del Partito che, con l’espandersi dell’economia di mercato, hanno perso la propria chiarezza di visione e la padronanza di sé, essendo così incapaci di giudicare in modo corretto le questioni riguardanti i valori o di affrontare correttamente gli affari che coinvolgono interessi personali. In conseguenza di ciò, il loro pilastro spirituale è crollato e hanno perso la strada nella vita. Alcuni hanno persino toccato il fondo, violando il codice disciplinare del Partito e la legge, diventando quindi corrotti e degenerati. Dev’essere mantenuto un severo controllo sulle ammissioni nel Partito; devono essere incrementati gli sforzi per educare gli iscritti e i quadri; il monitoraggio e la supervisione su di loro devono essere migliorati; e devono essere tenuti aperti i canali per la loro destituzione. Ci sono iscritti e quadri che hanno aderito al Partito non per la loro convinzione nel marxismo, o per la devozione di tutta una vita alla causa del socialismo con caratteristiche cinesi e al comunismo, ma perché credono di poter ottenere qualcosa dall’iscrizione al Partito. Lenin una volta disse che “non abbiamo bisogno di iscritti fittizi, neanche in regalo” Ciò è cruciale per fare in modo che i colori del Partito non cambino mai. [I quadri dirigenti] devono dimostrare la purezza del Partito
attraverso le proprie azioni esemplari. Nel Partito, la purezza rappresenta il totale opposto di ogni forma di corruzione. Per questo, la nostra lotta contro la corruzione è una lotta contro ogni forma di corruzione e uno sforzo per preservare la salute e la purezza del Partito. Fondamentalmente, quei quadri dirigenti che precipitano nell’illegalità, nella corruzione e nella degenerazione, lo fanno perché la propria visione del mondo e della vita è cambiata, e questo li rende incapaci di resistere alla corruzione. Tutti i quadri dirigenti, indipendentemente dal proprio grado o posizione, devono compiere sforzi consapevoli per fortificare e temprare lo spirito del Partito; esercitare il potere in maniera imparziale e dare prova di integrità nello svolgimento dei propri incarichi; […] vivere in modo sobrio e lavorare duramente; resistere con consapevolezza all’adorazione del denaro, all’edonismo e all’individualismo estremo. La Cina si trova attualmente nel mezzo di un grandioso processo di riforma, di apertura e di modernizzazione socialista. Questo è un periodo sia di opportunità che di sfide, un periodo in cui la speranza e la difficoltà vanno di pari passo. La strada che abbiamo di fronte sarà lunga e difficile. Nel mentre lavoriamo a promuovere lo sviluppo della nostra rappresentativa di quadri e di personale, dobbiamo fare degli sforzi per fortificare lo spirito dell’assunzione di responsabilità, e incoraggiare la cultura di nominare persone che abbiano il coraggio di assumersi la responsabilità. [Dobbiamo] promuovere in particolare i quadri che si sono formati nella pratica, con saldi principi, che si preoccupano del popolo, che hanno un forte senso di giustizia e il coraggio di affrontare i problemi, e che hanno dimostrato creatività, passione, dedizione e risultati concreti nel corso del loro lavoro. Rafforzare lo sviluppo del Partito e preservare la sua purezza costituiscono un fondamentale e persistente sforzo che richiederà azione continua e innovazione nel corso della pratica.
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Le lingue degli “altri” Rabindranath Tagore, LIPIKA - Biglietti dall'India La parola Lipika in Bengali significa “piccolo scritto”, “biglietto”: questo libro è infatti una raccolta di brevi racconti in cui si ritrova tutta la grazia delle poesie di Tagore ma anche il sereno, profondo e, a tratti, ironico stile della sua prosa. Una prosa semplice, libera da ogni retorica, pervasa da un grande senso poetico e che sa esprimere compiutamente la bellezza dei paesaggi naturali e dei caratteri umani, la favolosità dei temi, il realismo dei quadri di vita indiana, la profondità della riflessione filosofica e religiosa. Il Bengali, lingua ufficiale del Bangladesh e del Bengala Orientale indiano, è una delle lingue più parlate nel Mondo da oltre 250 milioni di “bengalesi”. L’emigrazione bengalese, proveniente essenzialmente dal Bangladesh, uno dei paesi più poveri dl Mondo, ha raggiunto in Europa numeri notevoli e in Italia è insediata la seconda comunità per numero di immigrati; sicchè oggi il Bengali può essere considerata una delle lingue più parlate anche nel nostro continente e nel nostro paese. Per questa vasta comunità e anche perché noi italiani cominciamo a conoscere la loro storia e cultura attraverso la loro lingua, pubblichiamo alcuni racconti del più grande scrittore bengalese Rabindranath Tagore, premio Nobel per la letteratura 1913. পায়ে চলার পথ এই তো পায়ে চলার পথ। এসেছে বনের মধ্যে দিয়ে মাঠে, মাঠের মধ্যে দিয়ে নদীর ধারে, খেয়া-ঘাটের পাশে বটগাছ-তলায়; তার পরে ও পারের ভাঙা ঘাট থেকে বেঁকে চলে গেছে গ্রামের মধ্যে; তার পরে তিসির খেতের ধার দিয়ে, আমবাগানের ছায়া দিয়ে, পদ্মদিঘির পাড় দিয়ে, রথতলার পাশ দিয়ে, কোন্ গাঁয়ে গিয়ে পৌঁচেছে জানি নে। এই পথে কত মানুষ কেউ বা আমার পাশ দিয়ে চলে গেছে, কেউ বা সঙ্গ নিয়েছে, কাউকে বা দূর থেকে দেখা গেল; কারো বা ঘোমটা আছে, কারো বা নেই; কেউ বা জল ভরতে চলেছে, কেউ বা জল নিয়ে ফিরে এল। ২ এখন দিন গিয়েছে, অন্ধকার হয়ে আসে। একদিন এই পথকে মনে হয়েছিল আমারই পথ, একান্তই আমার; এখন দেখছি, কেবল একটিবার মাত্র এই পথ দিয়ে চলার হুকুম নিয়ে এসেছি, আর নয়। নেবুতলা উজিয়ে সেই পুকুরপাড়, দ্বাদশ দেউলের ঘাট, নদীর চর, গোয়ালবাড়ি, ধানের গোলা পেরিয়ে-সেই চেনা চাউনি, চেনা কথা, চেনা মুখের মহলে আর একটিবারও ফিরে গিয়ে বলা হবে না, ‘এই-যে!’ এ পথ যে চলার পথ, ফেরার পথ নয়।
আজ ধূসর সন্ধ্যায় একবার পিছন ফিরে তাকালুম; দেখলুম, এই পথটি বহুবিস্মৃত পদচিহ্নের পদাবলী, ভৈরবীর সুরে বাঁধা। যত কাল যত পথিক চলে গেছে তাদের জীবনের সমস্ত কথাকেই এই পথ আপনার একটিমাত্র ধূলিরেখায় সংক্ষিপ্ত করে এঁকেছে; সেই একটি রেখা চলেছে সূরয ্ োদয়ের দিক থেকে সূর্যাস্তের দিকে, এক সোনার সিংহদ্বার থেকে আর-এক সোনার সিংহদ্বারে। ৩ ‘ওগো পায়ে চলার পথ, অনেক কালের অনেক কথাকে তোমার ধূলিবন্ধনে বেঁধে নীরব করে রেখো না। আমি তোমার ধুলোয় কান পেতে আছি, আমাকে কানে-কানে বলো।’ পথ নিশীথের কালো পর্দার তর্জনী বাড়িয়ে চুপ ক’রে থাকে। ‘ওগো পায়ে চলার পথ, এত পথিকের এত ভাবনা, এত ইচ্ছা, সে-সব গেল কোথায়!’ বোবা পথ কথা কয় না। কেবল সূর্যোদয়ের দিক থেকে সূর্যাস্ত অবধি ইশারা মেলে রাখে। ‘ওগো পায়ে চলার পথ, তোমার বুকের উপর যে-সমস্ত চরণপাত একদিন পুষ্পবৃষ্টির মতো পড়েছিল আজ তারা কি কোথাও নেই?’ পথ কি নিজের শেষকে জানে, যেখানে লুপ্ত ফুল আর স্তব্ধ গান পৌঁছল, যেখানে তারার আলোয় অনির্বাণ বেদনার দেয়ালি-উসব।
Il sentiero Ecco il sentiero che, dopo aver attraversato il bosco e auperato il prato, è giunto sino alla riva del fiume, per interrompersi vicino a quell'albero di Bot, che ombreggia il traghetto in rovina. Al di là del fiume ricomincia tortuoso verso un villaggio, costeggiando campi di lino, passando accanto allo stagno fiorito di loti, incrociando la strada principale, su cui si snoda la processione preceduta dal sacro carro, verso chissà quale destinazione sconosciuta. Molte persone ho incontrato lungo questo sentiero! Alcune mi hanno accompagnato, altre preceduto, altre le ho vedute solo da lontano; alcune le osservavo come da dietro un velo, altre distintamente; alcune erano lì solo per attingere acqua con le brocche. Con la sera è calato il buio. Un tempo pensavo che questo sentiero fosse a mia disposizione per sempre, e ora m'accorgo che mi è concesso percorrerlo una sola volta. Dopo aver attraversato il giardino dei limoni, la riva dello stagno, il traghetto, la piccola isola del fiume, la capanna del venditore di latte, e dopo aver oltrepassato il silos del grano, non posso più tornare indietro non
posso illudermi di far ritorno in quella casa dove pensieri, parole e visi mi sono noti. Il sentiero che percorro mi porta in avanti e ritornare sui propri passi è impossibile: quando oggi alla fine del giorno mi sono voltato per guardare il tratto che avevo percorso, mi è parso segnato da impronte perse nella polvere e dal canto del distacco dei viandanti-musicisti, che da sempre lo percorrono. Quell'intrico di tracce da oriente a occidente procede verso l'infinito, sia nell'una che nell'altra direzione. Curvo sulla polvere del sentiero per ascoltare le infinite storie lì imprigionate da tempo immemorabile, non sento nulla: il sentiero rimane silenzioso nelle ombre della sera. E anche se chiedo dove sono mai i tormenti e i desideri dei viandanti che passarono, il sentiero rimane silenzioso: solo lo vedo serpeggiare da oriente a occidente. E anche se domando dove si diressero i passi degli sconosciuti che lo percorsero, il sentiero resta muto: forse non conosce neppure la sua fine, e non sa dove si sono persi i fiori che caddero, i canti che morirono né dove, al di là delle strade, si celebra perennemente la festa del dolore incessante.
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মেঘলা দিনে রোজই থাকে সমস্ত দিন কাজ, আর চার দিকে লোকজন। রোজই মনে হয়, সেদিনকার কাজে সেদিনকার আলাপে সেদিনকার সব কথা দিনের শেষে বুঝি একেবারে শেষ করে দেওয়া হয়। ভিতরে কোন্ কথাটি যে বাকি রয়ে গেল তা বুঝে নেবার সময় পাওয়া যায় না। আজ সকাল বেলা মেঘের স্তবকে স্তবকে আকাশের বুক ভেরে উঠেছে। আজও সমস্ত দিনের কাজ আছে সামনে, আর লোক আছে চার দিকে। কিন্ত,ু আজ মনে হচ্ছে, ভিতরে যা-কিছু আছে বাইরে তা সমস্ত শেষ করে দেওয়া যায় না। মানুষ সমুদ্র পার হল, পর্বত ডিঙিয়ে গেল, পাতালপুরীতে সিঁধ কেটে মণি-মানিক চুরি করে আনলে, কিন্তু একজনের অন্তরের কথা আর-একজনকে চুকিয়ে দিয়ে ফেলা— এ কিছুতেই পারলে না। আজ মেঘলা দিনের সকালে সেই আমার বন্দী কথাটাই মনের
মধ্যে পাখা ঝাপটে মরছে। ভিতরের মানুষ বলছে, ‘আমার চিরদিনের সেই আর-একজনটি কোথায়, যে আমার হৃদয়ের শ্রাবণমেঘকে ফতুর করে তার সকল বৃষ্টি কেড়ে নেবে!’ আজ মেঘলা দিনের সকালে শুনতে পাচ্ছি, সেই ভিতরের কথাটা কেবলই বন্ধ দরজার শিকল নাড়ছে। ভাবছি, ‘কী করি! কে আছে যার ডাকে কাজের বেড়া ডিঙিয়ে এখনি আমার বাণী সুরের প্রদীপ হাতে বিশ্বের অভিসারে বেরিয়ে পড়বে! কে আছে যার চোখের একটি ইশারায় আমার সব ছড়ানো ব্যথা এক মুহর ূ ত ্ ে এক আনন্দে গাঁথা হবে, এক আলোতে জ্বলে উঠবে! আমার কাছে ঠিক সুরটি লাগিয়ে চাইতে পারে যে আমি তাকেই কেবল দিতে পারি। সেই আমার সর্বনেশে ভিখারি রাস্তার কোন্ মোড়ে!’ আমার ভিতর-মহলের ব্যথা আজ গেরুয়াবসন পরেছে। পথে বাহির হতে চায়, সকল কাজের বাহিরের পথে— যে পথ একটিমাত্র সরল তারের একতারার মতো, কোন্ মনের মানুষের চলায় চলায় বাজছে!
Un giorno di pioggia Durante il giorno lavoro intensamente e ho sempre intorno un gran numero di persone. Alla sera mi sembra che la mia esperienza si sia esaurita nell'attività e nei colloqui che ho avuto durante il giorno. Non ho mai il tempo per riflettere su cosa sia rimasto dentro di me. Stamane il cielo è ricoperto di nuvole; anche oggi mi attende un intenso lavoro e ci sarà tanta gente intorno a me, eppure sento che così non mi è possibile esprimere compiutamente tutto quello che sento. L'uomo ha percorso gli oceani, valicato le montagne, si è impadronito di tesori sommersi, ma non è ancora riuscito a manifestare compiutamente agli altri le proprie esperienze interiori. In questa mattina piovosa la mia interiorità, ancora imprigionata come un animale
in gabbia, mi parla dentro. L'io interiore mi incita a strappare tutta la pioggia dalle nuvole cariche del suo cielo. E' come scuotere la catena di una porta chiusa, e allora mi chiedo come potrò fare, a chi potrà mai interessare la mia esperienza interiore, chi sarà quell'amico che, al di là della comune cortesia, vorrà ascoltare insieme a me la mia musica, i miei dolori dispersi e la gioia; posso donare solo a chi sa chiedere, a chi ha una voce simile alla mia. A quale curva della strada incontrerò il mendicante che mi farà richiesta di tutto quello che possiedo? Questo mio dolore interiore ha il colore ocra della polvere della strada che voglio percorrere, superati tutti i doveri, quella strada su cui risuonano, con i miei, i passi del compagno ancora sconosciuto.
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বাণী ফোঁটা ফোঁটা বৃষট ্ ি হয়ে আকাশের মেঘ নামে— মাটির কাছে ধরা দেবে ব’লে। তেমনি কোথা থেকে মেয়েরা আসে পৃথিবীতে বাঁধা পড়তে। তাদের জন্য অল্প জায়গার জগ! অল্প মানুষের। ঐটুকর ু মধ্যে আপনার সবটাকে ধরানো চাই— আপনার সব কথা, সব ব্যথা, সব ভাবনা। তাই তাদের মাথায় কাপড়, হাতে কাঁকন, আঙিনায় বেড়া। মেয়েরা হল সীমাস্বর্গের ইন্দর ্ াণী। কিন্তু, কোন দেবতার কৌতুকহাস্যের মতো অপরিমিত চঞ্চলতা নিয়ে আমাদের পাড়ায় ঐ ছোটো মেয়েটির জন্ম। মা তাকে রেগে বলে ‘দস্যি’, বাপ তাকে হেসে বলে ‘পাগলি’। সে পলাতকা ঝর্নার জল, শাসনের পাথর ডিঙিয়ে চলে। তার মনটি যেন বেণুবনের উপর-ডালের পাতা, কেবলই ঝির্ ঝির্ করে কাঁপছে। ২ আজ দেখি, সেই দুরন্ত মেয়েটি বারান্দায় রেলিঙে ভর দিয়ে চুপ করে দাঁড়িয়ে— বাদলশেষের ইন্দ্রধনুটি বললেই হয়। তার বড়ো বড়ো দুটি কালো চোখ আজ অচঞ্চল, তমালের ডালে বৃষট ্ ির দিনে ডানা-ভেজা পাখির মতো। ওকে এমন স্তব্ধ কখনো দেখি নি। মনে হল, নদী যেন চলতে চলতে এক জায়গায় এসে থমকে সরোবর হয়েছে। ৩ কিছুদিন আগে রৌদ্রের শাসন ছিল প্রখর; দিগন্তের মুখ বিবর্ণ; গাছের পাতাগুলো শুকনো হলদে, হতাশ্বাস। এমন সময় হঠা! কালো আলুথালু পাগলা মেঘ আকাশের কোণে কোণে তাঁবু ফেললে। সূর্যাস্তের একটা রক্তরশ্মি খাপের ভিতর থেকে তলোয়ারের মতো বেরিয়ে এল।
অর্ধেক রাত্রে দেখি দরজাগুলো খড়্খড়্ শব্দে কাঁপছে। সমস্ত শহরের ঘুমটাকে ঝড়ের হাওয়া ঝুট ঁ ি ধরে ঝাঁকিয়ে দিলে। উঠে দেখি, গলির আলোটা ঘন বৃষট ্ ির মধ্যে মাতালের ঘোলা চোখের মতো দেখতে। আর গির্জের ঘড়ির শব্দ এল যেন ্ ির শব্দের চাদর মুড়ি দিয়ে। বৃষট সকালবেলায় জলের ধারা আরও ঘনিয়ে এল— রৌদ্র আর উঠল না। ৪ এই বাদলায় আমাদের পাড়ার মেয়েটি বারান্দায় রেলিঙ ধরে চুপ করে দাঁড়িয়ে। তার বোন এসে তাকে বললে, ‘মা ডাকছে।’ সে কেবল সবেগে মাথা নাড়ল, তার বেণী উঠল দুলে। কাগজের নৌকো নিয়ে তার ভাই তার হাত ধ’রে টানলে; সে হাত ছিনিয়ে নিলে। তবু তার ভাই খেলার জন্যে টানাটানি করতে লাগল; তাকে এক থাপড় বসিয়ে দিলে। ৫ বৃষ্টি পড়ছে। অন্ধকার আরও ঘন হয়ে এল। মেয়েটি স্থির দাঁড়িয়ে। আদিযুগে সৃষ্টির মুখে প্রথম কথা জেগেছিল জলের ভাষায়, হাওয়ার কণ্ঠে। লক্ষ কোটি বছর পার হয়ে সেই স্মরণবিস্মরণের অতীত কথা আজ বাদলার কলস্বরে ঐ মেয়েটিকে এসে ডাক দিলে। ও তাই সকল বেড়ার বাইরে চলে গিয়ে হারিয়ে গেল। কত বড়ো কাল, কত বড়ো জগ!, পৃথিবীতে কত যুগের কত জীবলীলা! সেই সুদর ূ — সেই বিরাট, আজ এই দুরন্ত মেয়েটির মুখের দিকে তাকালো মেঘের ছায়ায়, বৃষট ্ ির কলশব্দে। ও তাই বড়ো বড়ো চোখ মেলে নিস্তব্ধ দাঁড়িয়ে রইল, যেন অনন্তকালেরই প্রতিমা।
La voce L'acqua che cade dal cielo sotto forma di pioggia si unisce alla terra, ma non si sa da dove provenga. Anche con le donne è così: vengono da un luogo sconosciuto per essere prigioniere su questa terra. All'interno di questi limiti si consuma tutta la loro esistenza, le loro parole, i loro dolori e le loro inquietudini. Ed è per questo che si celano il volto con un velo, ai polsi hanno bracciali e le loro abitazioni sono ben custodite. Esse sono le regine del limite. Nel quartiere in cui abito è venuta a vivere una ragazza simile a un sorriso scherzoso, sempre preda dell'irrequietezza: sua madre, quando s'arrabbia, la chiama «birbante», suo padre scherzosamente le ha dato il nomignolo di «pazzerella». Lei è come l'acqua rapida di un ruscello: salta e si prende gioco di ogni dovere. La sua vitalità la fa simile alla foglia sulla cima di un albero di bambù: trema incessantemente al minimo soffio di vento. Oggi ho visto quella fanciulla indomabile appoggiata alla ringhiera della veranda, immobile, silenziosa, ferma come l'arcobaleno dopo la tempesta. Proprio come un uccello bagnato dalla pioggia, che si riposi su un ramo di tamàl. Non l'ho veduta mai così serena. Come un fiume che raffreni improvvisamente il suo corso e si trasformi in lago. Alcuni giorni fa il sole ardeva forte, l'orizzonte era luminoso, e le foglie degli alberi ingiallivano, ormai rinsecchite e spente. All'improvviso il cielo si coprì di nuvole nere, che si agitavano come la testa arruffata di un pazzo. Un fulmine scattò nel cielo del tramonto, come una spa-
da sguainata. A mezzanotte sentii cigolare e sbattere le porte a causa del vento. L'uragano aveva afferrato per i capelli la città che dormiva, scuotendola. Mi alzai e guardai fuori. Sotto la pioggia battente la luce della strada sembrava l'occhio torbido di un ubriaco. Dalla chiesa, attenuato dallo scroscio della pioggia, si udì il battere dell'orologio. Al mattino pioveva ancora a dirotto. Il sole non accennava a mostrarsi. Durante il temporale la fanciulla era sempre rimasta avvinghiata alla ringhiera della veranda, in silenzio. Era venuta sua sorella per dirle che la mamma la chiamava. Lei aveva solo scrollato la testa, facendo così muovere violentemente le trecce. Era venuto anche suo fratello con una barca di carta e aveva cercato di tirarla per una mano; lei si era liberata e quando il fratello aveva continuato a tirarla per gioco, lei gli aveva dato uno schiaffo. Continuava a piovere, anche dopo che era scesa la sera. La ragazza era sempre lì, immobile. All'inizio del mondo il primo linguaggio della creazione fu quello dell'acqua e del vento. Dopo milioni e milioni di anni quella stessa lingua richiamava con la musica della pioggia la fanciulla che, superando ogni limite, si era persa in una dimensione infinita. Il tempo è interminabile, il mondo è vasto, sulla terra per secoli e secoli si è consumato il dramma della vita. Attraverso l'ombra delle nuvole e la musica della pioggia, l'Essere Supremo, il Sempre-lontano, oggi contemplava il volto di quella fanciulla impetuosa. E così lei rimaneva immobile, come un'immagine ultraterrena, con i suoi grandi occhi sbarrati.
মেঘদূত
সেইটেই দেখি, যে আধখানায় বিরহ সে চোখে পড়ে না, তাই দূরের চিরতৃপ্তিহীন দেখাটা আর দেখা যায় না; কাছের পর্দা আড়াল করেছে। দুই মানুষের মাঝে যে অসীম আকাশ সেখানে সব চুপ, সেখানে কথা চলে না। সেই মস্ত চুপকে বাঁশির সুর দিয়ে ভরিয়ে দিতে হয়। অনন্ত আকাশের ফাঁক না পেলে বাঁশি বাজে না। সেই আমাদের মাঝের আকাশটি আঁধিতে ঢেকেছে, প্রতিদিনের কাজে কর্মে কথায় ভ’রে গিয়েছে, প্রতিদিনের ভয় ভাবনা কৃপণতায়। ২
মিলনের প্রথম দিনে বাঁশি কী বলেছিল? সে বলেছিল, ‘সেই মানুষ আমার কাছে এল যে মানুষ আমার দূরের।’ আর বাঁশি বলেছিল, ‘ধরলেও যাকে ধরা যায় না তাকে ধরেছি, পেলেও সকল পাওয়াকে যে ছাড়িয়ে যায় তাকে পাওয়া গেল।’ তার পরে রোজ বাঁশি বাজে না কেন? কেননা, আধখানা কথা ভুলেছি। শুধু মনে রইল, সে কাছে; কিন্তু সে যে দূরেও তা খেয়াল রইল না। প্রেমের সে আধখানায় মিলন
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এক-একদিন জ্যো!স্নারাত্রে হাওয়া দেয়, বিছানার ’পরে জেগে ব’সে বুক ব্যথিয়ে ওঠে, মনে পড়ে এই পাশের লোকটিকে তো হারিয়েছি। এই বিরহ মিটবে কেমন ক’রে, আমার অনন্তের সঙ্গে তার অনন্তের বিরহ? দিনের শেষে কাজের থেকে ফিরে এসে যার সঙ্গে কথা বলি সে কে? সে তো সংসারের হাজার লোকের মধ্যে একজন, তাকে তো জানা হয়েছে, চেনা হয়েছে, সে তো ফুরিয়ে গেছে। কিন্তু, ওর মধ্যে কোথায় সেই আমার অফুরান একজন, সেই আমার একটিমাত্র। ওকে আবার নূতন ক’রে খুঁজে পাই কোন্ কূলহারা কামনার ধারে? ওর সঙ্গে আবার একবার কথা বলি সময়ের কোন্ ফাঁকে, বনমল্লিকার গন্ধে নিবিড় কোন্ কর্মহীন সন্ধ্যার অন্ধকারে? ৩ এমন সময় নববর্ষা ছায়া-উত্তরীয় উড়িয়ে পূরব ্ দিগন্তে এসে উপস্থিত। উজ্জয়িনীর কবির কথা মনে প’ড়ে গেল। মনে হল, প্রিয়ার কাছে দূত পাঠাই। আমার গান চলুক উড়ে, পাশে থাকার সুন্দর দুর্গম নির্বাসন পার হয়ে যাক। কিন্ত,ু তা হলে তাকে যেতে হবে কালের উজান পথ বেয়ে বাঁশির ব্যথায় ভরা আমাদের প্রথম মিলনের দিনে, সেই আমাদের যে দিনটি বিশ্বের চিরবর্ষা ও চিরবসন্তের সকল গন্ধে সকল ক্রন্দনে জড়িয়ে রয়ে গেল, কেতকীবনের দীর্ঘশ্বাসে, আর শালমঞ্জরীর উতলা আত্মনিবেদনে। নির্জন দিঘির ধারে নারিকেল-বনের মর্মরমুখরিত বর্ষার আপন কথাটিকেই আমার কথা ক’রে নিয়ে প্রিয়ার কানে পৌঁছিয়ে দিক যেখানে সে তার এলোচুলে গ্রন্থি দিয়ে, আঁচল কোমরে বেঁধে সংসারের কাজে ব্যস্ত। ৪
বহুদূরের অসীম আকাশ আজ বনরাজিনীলা পৃথিবীর শিয়রের কাছে নত হয়ে পড়ল। কানে কানে বললে, ‘আমি তোমারই।’ পৃথিবী বললে, ‘সে কেমন করে হবে! তুমি যে অসীম, আমি যে ছোটো।’ আকাশ বললে, ‘আমি তো চার দিকে আমার মেঘের সীমা টেনে দিয়েছি।’ পৃথিবী বললে, ‘তোমার যে কত জ্যোতিষ্কের সম্পদ, আমার তো আলোর সম্পদ নেই।’ আকাশ বললে, ‘আজ আমি আমার চন্দ্র সূর্য তারা সব হারিয়ে ফেলে এসেছি, আজ আমার একমাত্র তুমি আছ।’ পৃথিবী বললে, ‘আমার অশ্রুভরা হৃদয় হাওয়ায় হাওয়ায় চঞ্চল হয়ে কাঁপে, তুমি যে অবিচলিত।’ আকাশ বললে, ‘আমার অশ্রও ু আজ চঞ্চল হয়েছে, দেখতে কি পাও নি? আমার বক্ষ আজ শ্যামল হল তোমার ঐ শ্যামল হৃদয়টির মতো!’ সে এই ব’লে আকাশ-পৃথিবীর মাঝখানকার চিরবিরহটাকে চোখের জলের গান দিয়ে ভরিয়ে দিলে। ৫ সেই আকাশ-পৃথিবীর বিবাহমন্ত্রগুঞ্জন নিয়ে নববর্ষা নামুক আমাদের বিচ্ছেদের ’পরে। প্রিয়ার মধ্যে যা অনির্বচনীয় তাই হঠা!-বেজে-ওঠা বীণার তারের মতো চকিত হয়ে উঠুক। সে আপন সিঁথির ’পরে তুলে দিক দূর বনান্তের রঙটির মতো তার নীলাঞ্চল। তার কালো চোখের চাহনিতে মেঘমল্লারের সব মিড়গুলি আর্ত হয়ে উঠুক। সার্থক হোক বকুলমালা তার বেণীর বাঁকে বাঁকে জড়িয়ে উঠে। যখন ঝিল্লীর ঝংকারে বেণুবনের অন্ধকার থর্ থর্ করছে, যখন বাদল-হাওয়ায় দীপশিখা কেঁপে কেঁপে নিবে গেল, তখন সে তার অতি কাছের ঐ সংসারটাকে ছেড়ে দিয়ে আসুক, ভিজে ঘাসের গন্ধে ভরা বনপথ দিয়ে, আমার নিভৃত হৃদয়ের নিশীথরাত্রে।
Il messaggio della nuvola Che cosa aveva detto il flauto nel primo giorno di matrimonio? Aveva detto: “Quella che era lontana, ora è al mio fianco”. E poi: “Sono riuscito a trattenere colei che sfugge anche quando la si possiede; ho trovato colei che, anche se conquistata, non si è mai certi di possedere”. Perché da allora il flauto non suona più ogni giorno? Forse perché ho perduto una parte della visione? Un tempo pensavo che mi fosse solo vicina e non mi rendevo conto che era anche lontana. Ho visto solo una metà dell'amore, l'unione con un'altra persona; ma non mi sono accorto dell'altra, la separazione: per questo non conosco la terribile esperienza del totale distacco, il volo della vicinanza la nasconde. Nel grande spazio che divide due anime tutto è silenzio, le parole non trovano posto. Questo profondo vuoto si può colmare soltanto con la musica del flauto, che risuona solo nello spazio infinito. Quello spazio tra noi è pieno di buio, popolato dalla stoltezza, dall'inquietudine e dalla viltà della vita quotidiana. A volte, quando soffia il vento nelle notti di luna, mi sveglio e mi siedo sul letto; il cuore pulsa dolorosamente ricordando che ho perduto colei che era al mio fianco. Come potrà colmarsi questo distacco tra la mia e la sua esistenza infinita? Chi è colei con cui parlo ancora, la sera, quando ritorno dal mio lavoro? E' solo una tra le infinite anime nel mondo, l'ho conosciuta, e... non c'è altro? Ma dov'è mai quella vita che mi apparteneva, che era solo mia? In quale oceano di passione potrò nuovamente trovarla? In quale attimo di ozio, in quale tramonto fermo e profumato di gelsomini potrò parlare ancora una volta con lei? Quando sono apparse a oriente le prime nuvole della stagione del monsone, stendendo un manto d'ombra, mi ricordai del poeta di Uggiaini e provai il desiderio di inviare un messaggio al mio amore. Potesse il mio messaggio volare, superando la distanza e il legame della vita in comune. Per far questo dovrebbe retrocedere fino al primo giorno
della nostra unione, quando il flauto aveva suonato la sua dolorosa melodia, dovrebbe mescolarsi al pianto, al profumo di tutte le stagioni di pioggia e delle primavere passate, dovrebbe conoscere i sospiri del bosco di ketaki e l'offerta dei boccioli di sàl. Questo messaggio sulla stagione delle piogge - che parla anche nel mormorio degli alberi di cocco sulla riva dello stagno solitario - possa la mia canzone portarlo fino alle orecchie della mia amata, dai lunghi capelli raccolti, sempre affaccendata nel suo lavoro domestico, con il lembo della veste fermato alla cintura. Il cielo infinito e lontano si china sulla distesa verdeggiante della terra e le sussurra piano: “Io sono tuo”. La terra risponde: “Com'è possibile? Tu sei infinito e io sono così piccola al tuo cospetto”. “Ma io ho voluto imporre dei limiti a me stesso valendomi delle nuvole”. “Quante luci brillano sulla tua tavola, mentre io sono priva di luce”. “Oggi ho voluto perdere la luna, il sole, le stelle, oggi tu soltanto esisti per me”. “Il mio cuore è colmo di lacrime e trema a ogni soffio di vento, tu invece sei immobile”. “Oggi posso piangere anch'io: non lo vedi? Divento grigio e convulsamente spargo lacrime, come il tuo tenero cuore”. Così dicendo, il cielo colmò la sua eterna distanza dalla terra con il canto della pioggia. Possa, il monsone che è ormai giunto, discendere sulla nostra separazione come la melodia tra il cielo e la terra. Possa ogni cosa sconosciuta nell'esistenza della mia amata vibrare come una corda di arpa. Possa lei appoggiare sui capelli l'orlo del suo abito azzurro come il lembo di una foresta lontana e i deboli suoni della stagione delle piogge possano risuonare nei suoi occhi scuri. Fortunata la ghirlanda di bakul, annodata alle sue trecce! Quando la notte parla con la voce della cicala nel boschetto di bambù, quando la fiamma della lampada ondeggia e poi si spegne nella tempesta, possa lei abbandonare la sua dimensione e venire nella profonda notte del mio cuore solitario, lungo il sentiero della foresta profumata dall'erba umida.
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I “giovani” italiani, quale futuro e dove?
(aspettative, esperienze e storie a confronto) di Giacomo Bertini
Chi parte
Una conferma alla regola: chi va fuori per trovare lavoro, lo trova più velocemente a condizioni migliori che in Italia. Leonardo, neo-laureato e con un grande forza di volontà ha tentato la fortuna in Irlanda. Il suo coraggio e la sua ottima preparazione accademica e personale gli hanno permesso di raggiungere traguardi professionali in breve tempo. Probabilmente è questo l’ennesimo caso di un’eccellenza italiana che vola via.
guardo quello che sarei andato a combinare lì). Dopo un iniziale periodo in un paese vicino Cork, mi sono trasferito a Dublino per avviare un tirocinio in MUZU, piattaforma di video streaming focalizzata su musica ed entertainment. Da lì è iniziato il corteggiamento di Dublino che finora si è rivelato efficace, sebbene la signora è di carattere difficile, “hormonal” come si dice da queste parti, perciò la relazione a volte è travagliata.
Leonardo descriviti per i lettori Questa la so. Leonardo Mercanti, giovane ambizioso dalla provincia di Perugia, appassionato di tecnologia e l’impatto che questa ha e avrà nei rapporti economici, sociali e politici. Ho conseguito la laurea magistrale in Relazioni Internazionali a fine 2013 dall’Università degli Studi di Perugia e poi ho deciso di toccare con mano la materia prima emigrando in Inghilterra, poi in Irlanda.
Cosa stai facendo ora? Lavoro come International Business Development Manager: il mio ruolo in pratica consiste nell’entrare in contatto con cosiddetti online publisher (giornali online, web magazine, portali web, blog ecc.), advertiser (ad network, trading desk, piattaforme di programmatic) e content owner (case discografiche, produttori e distributori di contenuti video legati all’entertainment) per poi triangolare i loro servizi e utilizzare la nostra piattaforma tecnologica per abilitarli alla monetizzazione del traffico. Sembra più complicato di quanto in realtà è, sicuramente è un lavoro che apre gli occhi rispetto le dinamiche economiche più o meno evidenti, più o meno legittime, più o meno sostenibili che muovono Internet.
Dove ti trovi ora? In questo momento mi trovo a Dublino. Perché hai scelto questa meta? Più che sceglierla credo che abbia scelto me, o almeno mi sento di aver colto un’occasione, un invito che non mi pareva il caso rifiutare. Appena conclusa la mia laurea magistrale in Relazioni Internazionali, ho partecipato a un programma di mobilità europeo, il vecchio Leonardo, che mi ha permesso di partire per l’Irlanda con tante speranze (ma zero certezze ri-
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Come è la tua vita a Dublino? Dublino è una città piuttosto vivibile perché il centro città è raccolto nel raggio di circa 1.5 chilometri e dunque si può girare tutta a piedi. Adoro il melting pot che c’è qui, la possibili-
tà di poter entrare in contatto con tanti retroterra culturali differenti, la dinamicità che ne deriva. Per quanto riguarda il piano economico, a parte gli affitti che picchiano forte, non ci si può lamentare del potere di acquisto considerati i prezzi dei beni di consumo principali. Ti posso invece confermare i luoghi comuni legati al consumo di alcool: passando la mattina lungo le vie del centro per andare in ufficio, la cosa che colpisce di più sono i tanti furgoni che scaricano ogni santo giorno decine e decine di barili di birra per ogni pub, e qui al centro ogni via è piena di pub, anche fuori la famosa Temple Bar. Città ideale per Guinness lover, qui veramente ha tutto un altro gusto. Per quanto riguarda il lavoro, come sono i ritmi della capitale irlandese? Credo che in generale Dublino non sia frenetica quanto Londra, che per esperienza diretta considero tanto affascinante quanto alienante; da quanto posso notare tra i miei colleghi irlandesi, c’è dedizione al lavoro ma anche la capacità di trovare momenti di svago, che per spezzare non fa mai male (abbiamo un tavolo da ping pong e una Xbox One con Fifa 2015 in ufficio). Il settore tech ha comunque dei ritmi piuttosto serrati dovuti ai sempre più corti cicli di innovazione tecnologica: se sfugge un trend in affermazione e questo si stabilisce come nuovo cardine, c’è forte probabilità di andare incontro al disordine.
Rifaresti questa scelta? Assolutamente sì. Come detto prima, credo di aver colto al volo un’occasione che si presentava in primo luogo a scatola chiusa, ma che poi con un po’ di intraprendenza mi ha condotto verso l’inizio di un percorso professionale interessante. L’Irlanda è stato uno dei Paesi colpiti dalla recente crisi, quale è stata secondo te una ricetta per la ripresa? L’Irlanda è piuttosto famosa per la sua corporation tax, che stabilisce un regime fiscale particolarmente favorevole per le grandi multinazionali; non a caso da queste parti ci sono i quartier generali europei di Google, Amazon, Microsoft, Facebook, Apple e tanti altri giganti tech. Ciò attira dunque volumi notevoli di investimenti esteri diretti e talenti che si traducono in buoni salari, aumento della domanda di abitazioni, beni e servizi, ma anche speculazione spietata soprattutto parlando di affitti. Insomma, la ripresa sembra ci sia, ma la tigre celtica sembra aver perso il pelo, ma non il vizio. Quali sono le principali differenze culturali tra i due Paesi? Molto raramente ho dovuto affrontare incomprensioni dovute a differenti retaggi culturali che non potessero essere superate con un pizzico di umorismo. Trovo il popolo irlandese particolarmente accogliente e amichevo-
le, soprattutto di fronte a una pinta. Ecco, forse proprio parlando di accoglienza e pinte posso indicare due lementi di diversità, uno a favore dell’Irlanda, uno dell’Italia: credo che l’Irlanda sia più aperta e pronta a ospitare e convivere con altre culture; la socialità può a volte imperniarsi troppo sulla bevuta ricreativa, il pub è senza dubbio considerato il tempio dell’intrattenimento. Cosa ti manca di più della vita in Italia? A rischio di essere scontato da fare schifo dico il sole, la pizza buona, la convivialità in spazi aperti. Sui primi due elementi non c’è molto da sviluppare: non pervenuti, punto. Riguardo il terzo punto, e qui permettimi di citare Marc Augè, credo che a Dublino ci sia una forte presenza di non luoghi, luoghi di puro transito e funzionalità arida che, al di fuori di quei pub di cui accennavo, non lasciano molto respiro a interazioni all’aperto. Per farla molto semplice, sento la mancanza della piazza, dei tavoli dei locali lungo le vie del centro, dei giardini estivi e chiaramente del clima che permette di stare piacevolmente all’aperto sette-otto mesi l’anno. Non parlo di famiglia e amici perché li considero comunque parte della mia sfera personale più che del contesto espanso chiamato Italia, ma è chiaro che sono i primi della lista.
Cosa non ti manca assolutamente? Mi mantengo sullo scontato: la politica italiana e la sua rappresentazione mediatica. Dico ciò da laureato in Scienze Politiche, appassionato di politica e impegnato attivamente quando ancora ero in Italia. Per questioni di sanità mentale, da quando ho lasciato l’Italia per Londra circa tre anni fa, non guardo più telegiornali italiani e seleziono accuratamente pochi articoli al giorno che trattano di politica italiana. Combinare questa disintossicazione con la consultazione di fonti di informazione internazionali è cosa che consiglio vivissimamente a tutti, il cambiamento di prospettiva pone tante dinamiche sotto una luce molto interessante. Hai mai pensato di riavvicinarti all’Italia? Il pensiero c’è, mancano le altre premesse purtroppo. Appena laureato ho avuto la possibilità di partire per l’estero; questa esperienza mi ha fatto conoscere in tempi relativamente brevi (brevissimi se comparati con la spesso sentita realtà italiana) cosa significa avere una dignità professionale. Mi è piaciuto, e non sono sicuro di poter, al giorno d’oggi, ottenere la stessa sudata gratificazione in Italia. Forse sì, probabilmente no. Dove ti vedi nel futuro? In Europa nei prossimi 2 o 3 anni, forse oltre oceano in seguito, devo però ancora decidere verso quale oceano proiettarmi.
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I “giovani” italiani Chi resta
C’ è un dato di fatto difficilmente contestabile: in Italia, soprattutto nel centro e nel sud continuano ad essere troppo poche le donne dotate di indipendenza economica e che lavorano. Sono ancora di più delle rarità le imprenditrici. In questa intervista incontriamo una vera e propria primula rossa. Valeria è una ragazza che ha soli 28 anni è già a capo di una propria piccola azienda, oggi ci racconta un po’ di se e del perché ha deciso di rimanere in Italia investendo nel proprio territorio. Raccontami liberamente di te Mi chiamo Valeria ed ho 28 anni e sono nata e cresciuta in un piccolo centro sulla costa molisana. Ho studiato presso il liceo Linguistico di Vasto, e poi mi sono trasferita a Pescara dove mi sono laureata in economia aziendale. Dopo aver lavorato qualche anno nel ramo commerciale di alcune aziende del territorio abruzzese, ho deciso di tornare in Molise ed avviare una mia attività. Di cosa ti occupi nello specifico? Gestisco a Montenero di Bisaccia l’agriturismo di famiglia “Fonte Fredda” e l’annessa azienda agricola. E’ un lavoro che richiede l’impiego di molto tempo, soprattutto in questi caldi mesi estivi, ma che dà anche grandi soddisfazioni. Secondo la mia esperienza, non ci sono molti giovani under-30 che gestiscono delle proprie aziende anche perché le responsabilità sono molte, ma penso sia importante che soprattutto i più giovani investano le proprie conoscenze nel territorio di origine. Hai vissuto o svolto qualche esperienza all’estero prima di buttarti nel mondo dell’imprenditoria?
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Si, già durante le scuole superiori ho svolte i cosiddetti scambi scolastici, andando in Germania e conseguentemente ospitando una ragazza tedesca. Durante l’Università ho poi partecipato al programma Erasmus per sei mesi in una cittadina nel nordovest della Germania. E’ stata questa per me un’esperienza molto importante non solo dal punto di vista umano, ma anche per le conoscenze didattiche che ho appreso. Infatti, durante quel periodo di studio ho notevolmente migliorato la mia conoscenza della lingua inglese ed anche un po’ del tedesco, inoltre ho acquisito l’importante capacità di lavorare in gruppo ed a contattato con persone di culture molto diverse dalla mia. Avresti voluto fare un’altra esperienza all’estero? Se avessi avuto il tempo assolutamente si, ma dopo la mia esperienza Erasmus ancor prima di terminare gli studi ho ricevuto una buona offerta dia lavoro a cui non ho potuto dire di no. Tuttavia non ho abbandonato la mia passione per la scoperta di nuovi posti, e così appena mi è possibile organizzo qualche breve viaggio per conoscere nuove mete. Perché hai deciso di restare in Italia? Ho deciso di restare non solo per motivi professionali, ma è stato sicuramente un fattore importante la buona qualità della vita che c’è in territori come quello molisano ed anche umbro, quest’ultima regione la conosco bene in quanto per diversi anni vi ha vissuto mia sorella. Per di più, il costo della vita relativamente basso, ti permette di vivere bene anche con stipendi normali.
Cosa offre il territorio in cui vivi? Pur non essendo un territorio ad alta densità abitativa o con grandi centri urbani, vi è un buon tessuto micro-industriale che offre buone opportunità di lavoro. Inoltre, il Molise anche dal punto di vista paesaggistico è veramente incantevole, dato che in pochi chilometri puoi raggiungere sia il mare che la montagna. Negli ultimi anni sono nate diverse associazioni che sicuramente hanno arricchito il territorio dal punto di vista culturale rendendolo ancor più interessante. Cosa miglioreresti del luogo in cui vivi? In base alla mia esperienza, in particolare quella professionale, penso che sia assolutamente importante aumentare la sinergia tra le varie componenti del territorio, al fine di dare un forte slancio a l’economia locale. Inoltre, sarebbe molto importante promuovere maggiormente questa regione, a troppi sconosciuta. Cosa prevedi per il tuo futuro? Momentaneamente sono molto impegnata nella gestione della mia azienda, inoltre ho già in cantiere nuovi progetti professionali da realizzare a breve. Cosa suggeriresti ai tuoi coetanei che come te vorrebbero avviare una propria attività? Sicuramente di armarsi di grande pazienze e coraggio, ma anche di studiare bene cosa il mercato richiede e come realizzare il proprio progetto. Dare vita ad una propria attività non è mai semplice, ma tutto è possibile se si hanno le giuste conoscenze culturali.
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Creature capovolte
Libero racconto sui demoni di Sara Mirti
La necessità di riempire un vuoto L’immenso spazio che separa il cielo e la terra non è mai stato disabitato, o, almeno, così narrano diverse storie, più o meno sacre. L’unione prolifica tra il cielo e la terra, complice l’assenza di una dimensione temporale misurabile, è stata tollerata soltanto per un umano battito di ciglia: essi sono stati divisi fin dall’inizio dei tempi e gli dèi hanno scelto come loro dimora il cielo. Ma in cielo non ci sono soltanto le divinità, c’è la loro forza, la loro effigie, tracciabile unendo con l’immaginazione i puntini luminosi delle stelle, la loro storia, la loro (e la nostra?) salvezza. Ed è proprio questo il punto: quando l’unità di cielo e terra si è spezzata in due opposte rive, dèi e semi-dèi buoni si sono messi in salvo, attenti a non cadere in basso, lungo spazi siderali. Come già detto nel precedente articolo, la distanza tra loro e gli esseri umani si è fatta abissale: angeli e creature alate di vario tipo hanno dovuto riempire quel vuoto e stabilizzare così, “strutturalmente”, l’architettura del creato, erano necessarie insomma per stabilirne la varietà e la completezza. Tuttavia, il mare invalicabile di atmosfera e di vento che separa la riva terrestre da quella celeste ha anche abitanti stanziali. Essi non sono messaggeri, come gli angeli, ma creature a un tempo immortali e limitate: non saliranno mai al cielo, perché da esso sono cadute troppo tempo fa, ma non potranno
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nemmeno partecipare del riscatto operato per gli esseri umani da fedi religiose e culti iniziatici. Sono creature capovolte: immortali nel corpo e dotate di uno spirito prigioniero, privo di prospettive future. In quest’ottica la morte è per loro un lusso temuto e invidiato, un passaggio verso un’altra dimensione dell’essere che a loro non appartiene. Vorrebbero essere dèi o creature di luce, ma sono solo creature tracotanti e tormentate: sono demoni. È il loro agitarsi senza tregua, nel tentativo di spezzare gli argini imposti all’aria, a riempire il vuoto lasciato dalla divisione, razionale e ordinata, tra creature perfette e imperfette.
La colpa dell’imperfezione I demoni, ce lo ricorda Sant’Agostino, sono più potenti degli uomini perché simili nel corpo, normalmente debole e deperibile, agli immortali, mentre sono inferiori agli angeli celesti perché nell’anima, sede della scintilla divina, sono più simili agli uomini. Nell’anima e solo nell’anima, comunque, sta la sede la loro principale imperfezione: essi posseggono anime limitate, solitarie, incapaci di creare sodalizi fra loro, di trovare una nuova casa, un nuovo scopo e ugualmente incapaci di redimersi, di tornare sui propri passi. D’altra parte, nessuno può essere salvato se non lo vuole, men che meno un essere perfetto scacciato e umiliato dalla propria pretesa di perfezione. Si può soltanto immaginare quale tormento affligga tali
creature che si trovano ad essere “contro-natura” in cielo e in terra: esse sono state create eterne e potenti, eppure tutta le loro potenzialità le hanno condannate ad essere infelici. La loro esistenza senza scopo e senza via d’uscita logora la sostanza buona con cui pure sono state plasmate. Esse sono discendenti delle tenebre e del caos. Mentre gli angeli presumibilmente (ma non esistono testi espliciti in merito) sono stati creati nel momento esatto in cui sono state create le stelle, e la luce (“cosa buona”) è stata separata dalle tenebre (cosa necessaria, ma priva di approvazione esplicita), i demoni hanno creato autonomamente il proprio regno incerto, rinunciando alle proprie radici divine, e finendo per nascondersi dalla luce che ha il potere di ferirli a morte. Essi abitano invece la notte; rabbia, dolore, superbia, invidia, e manie di ogni tipo li accecano, rendendoli creature senza pace. I loro nomi altisonanti non serviranno a cambiare la situazione: le loro azioni, le loro bramosie verranno spazzate via dalla potenza del soffio divino; a volte basta addirittura il soffio di un angelo o di un uomo. L’aria e i venti in cui dimorano un giorno si disperderanno, trascinandoli con sé. Presso alcuni popoli il nome proprio di un uomo non va pronunciato in momenti particolarmente critici (per esempio in presenza di nemici o degli spiriti che affollano i luoghi di caccia e di pesca) pena la disfatta, la scarsità di prede e il marcire di quelle già catturate.
Roberto Ferri, “Tristezze della luna”, dettaglio A volte però questo potenziale magico, quasi materiale, che concerne le parole ha i suoi lati positivi: per esempio, per correggere il carattere di un ladro basterebbe urlarne il nome all’interno di una caldaia di acqua medicinale bollente, chiudere velocemente il coperchio e lasciare quel nome a macerare per giorni e giorni; non serve nemmeno che il proprietario del nome sappia cosa stia accadendo: la sua rieducazione morale avverrà ugualmente. Ma i flutti della notte sono aridi e lasciano la gola secca a tutti coloro che li attraversano; invano i demoni vi urlano dentro i propri nomi: nessun incantesimo vi è disciolto dentro e il coperchio del cielo, si sa, non è ermetico. Per quanti siano gli uomini che li temono o li adorano, per quante volte sia pronunciato il loro nome, non è previsto riscatto per alcuno, soltanto perdizione: i loro nomi saranno spazzati via, privati della loro identità e del loro potere. Forse rimarrà la notte, forse
la sua irriducibile cecità e le sue molte imperfezioni verranno infine tollerate, ma essa sarà immobile, muta, sopraffatta da stelle e pianeti. Intorno alla Nuova Gerusalemme che scenderà dal cielo, così si dice, vi saranno soltanto mari ghiacciati: nessun vento, nessun flutto, ma solo un’eterna, estatica, immutabile eternità che farà mancare mortalmente il fiato a coloro che non vorranno fermare il proprio vagare e i propri pensieri.
I demoni della notte Le anime degli uomini si trovano relegate nell’inferno dantesco più a causa di una propria inguaribile “fissazione” che per un peccato: esse, nutritesi di illusioni fino a farne un’indigestione letale, proprio non saprebbero distinguere i propri desideri dalla realtà, non saprebbero nemmeno a chi indirizzare le loro preghiere: il conte Ugolino è con la terra che se la prende, rea di non essersi aperta per ingoiare le
crudeltà subite dalla sua famiglia; mentre Pier delle Vigne ancora sospira al ricordo del suo signore, Federico, che non ha avuto alcuna fiducia in lui, mandandolo a morte. Tali anime insomma, più che tormentate dalle pene dell’inferno, sembrano inchiodate da un tarlo da cui non riescono in alcun modo a distrarsi. Ugualmente avviene ai demoni: in essi si trovano mescolati bene e male, ma alla fine a decidere per il sopravvento dell’una o dell’altra inclinazione basterà l’aver ceduto a un pensiero insistente e malvagio, un pensiero che spinge uomini e demoni a chiudere gli occhi di fronte alla realtà, a comportarsi come se fosse sempre notte e loro fossero i protagonisti di un sogno infinito. La notte non è fatta di oscurità e di nulla come crede la mitologia cinese, ma ha un proprio peso, una massa, un’identità precisa. Certo, a volte le identità possono perdersi nei flutti del mare celeste che fanno parte della notte prima ancora che essa s’adorni di stelle.
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Ogni cosa è stata creata di notte, prima del sorgere dell’alba e ogni cosa ha poi abbandonato la notte per esistere al di fuori di essa. Dea egizia del cielo e della nascita, la notte cede sempre un pezzo di sé ogni sera, e in cambio chiede un’offerta ai passanti che l’attraversano tornando alle proprie case, o che la spiano da dietro le proprie finestre: un sogno, un respiro, uno sguardo. La notte un tempo aveva molti occhi; milioni di luci roteanti e libere. Tra le fitte ciglia di quegli stessi occhi rimangono impigliati ancora oggi palloncini e nuvole. Poi molte luci iniziarono a cadere giù dal Paradiso e dio accecò uno ad uno gli occhi della notte conficcandogli stelle e pianeti nelle orbite, chiudendo per sempre quelle vie da cui il caos era libero di entrare e uscire. Ogni notte è stata creata dal caos: è strano pensare come all’inizio di tutto ci sia sempre e soltanto il disordine e una furia cieca. Molti demoni continuano a muoversi dentro la notte facendola ribollire. I demoni si spostano molto velocemente da un luogo a un altro, per questo danno l’impressione di riuscire a prevedere il futuro, e per questo mescolano i sogni degli uomini, tentandoli, illudendoli di poter diventare potenti quasi come se potessero abitare anche loro i cieli. Invece gli uomini resteranno sulla terra anche dopo la fine dei tempi, gli dèi vivranno anch’essi in cieli rinnovati, mentre i corpi aeriformi dei demoni non avranno più spazio per esistere e il loro spirito verrà riconsegnato senza possibilità di ritorno. Prima o poi, così si racconta, la notte si chiuderà su se stessa, imprigionando il male e ogni sua creatura. La notte, al pari della morte, cova una fame pericolosa e molesta, impossibile da calmare. La morte però, alla fine, verrà placata...chissà se invece alla notte, che non tocca mai né terra né cielo, che tutto circonda e nulla possiede tranne inutili sogni, resterà in eredità lo stesso furore dei suoi demoni.
Satana/ Satanael /Diavolo/Lucifero Tutto inizia da lui, dal Diavolo che, stando alle tradizioni giudaica, cristiana, islamica e, prima ancora persiana, è nemico giurato di Dio e degli uomini, quelle creature così strane e fragili che, nella sua sconfinata bontà, Dio ha voluto creare per ultime rispetto all’intero creato. In realtà la distinzione tra angeli e
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demoni è abbastanza tarda, frutto, forse, d’influenze babilonesi ed ellenistiche. Satan in origine significa “avversario” e nel Nuovo Testamento è il nome proprio di un essere maligno; ma l’identificazione dei demoni con gli angeli caduti al momento della creazione, nonostante qualche accenno apocrifo, è ancora posteriore. Il serpente che inganna Adamo ed Eva è appunto il diavolo, l’ingannatore e non soltanto l’oppositore. Durante il Medioevo l’iconografia che li riguarda dà il meglio di sé: le loro figure terrificanti compaiono di tanto in tanto sui capitelli e i doccioni delle cattedrali. Uomo del peccato, figlio della perdizione secondo San Paolo, abominio della desolazione per Daniele. È universalmente riconosciuto come incarnazione del male, o meglio, suo principio scatenante, origine di perversioni e disperazione, assetato di la-
crime, accecato da un vizio assurdo, da una vita da capo supremo ormai per lui impossibile. Nell’angelologia ebraica, compare la figura di Satanael, un angelo che ha il particolare compito di verificare (ne sa qualcosa il povero Giobbe) il reale livello di dedizione e di amore degli uomini verso Dio e il cui silenzio viene invocato con una preghiera a Dio nella festa ebraica dello Yom Kippur. Nella tradizione ebraica compaiono inoltre molti demoni (a cui il compositore John Zorn ha dedicato la sua raccolta di cd “Books of Angels”): Astarte, Belfagor, Belzebù, Belial, Asmodeus, Azazél, Baal, Moloch, Mammona, Mefistofele, Samael, ecc... Essi derivano dalle diverse divinità adorate dai popoli che abitavano la Palestina e dagli ebrei “idolatri”. Ma da dove deriva la forza del principe dei demoni e delle sue schiere le cui battaglie appaiono così folli e inconcludenti?
Alexandre Cabanel, “Fallen Anggel”, dettaglio
Secondo la tradizione che identifica Il Diavolo con Lucifero, corrispondente alla divinità romana della luce e del mattino, e alla divinità greca della luce, il suo nome significa portatore di aurora (Eosforo) o di luce (Fosforo), Stella del mattino, figlio dell’Aurora e del Titano Astreo. Molte erano le divinità definite “lucifere”, portatrici di luce”, come per esempio Diana o Giunone, ed anche Apollo è “fosforos” o lucifer in latino. A quanto pare, in ambito goudaico, l’identità tra Satana e Lucifero risalirebbe a un secolo prima dell’era cristiana, quando alcuni scritti ebraici, come il “Secondo Libro di Enoch” e la “Vita Adam et Evae”, interpretarono un passo di Isaia e uno di Ezechiele allo stesso modo in cui lo faranno i Padri della Chiesa, vale a dire associandoli alla Caduta degli Angeli, capeggiati dall'arcangelo Samhazai (o Samyaza, "ladro del Cielo"),
che non sarebbe altro se non uno dei nomi di Sataniel. Nell’Antico Testamento invece Lucifero viene considerato il nome di Satana prima della cacciata dal cielo; mentre nel Nuovo Testamento è Cristo ad essere definito “Stella del mattino”. Non manca nemmeno la versione gnostica che vede in Lucifero un portatore di sapienza, quindi un liberatore dalla tirannide del Creatore... Insomma esistono tante versioni, ma tutte parlano di luce, di conoscenza e di perdizione. Difficile non andare con la mente all’immagine di una stella che esploda, emanando un bagliore potentissimo. In fondo cosa accade quando esplode una stella? L’universo per un po’ trema, si accende un’enorme luce, come un sorriso, o un ghigno, che poi si spegne, come se non fosse mai esistito. Difficile dire se agli uomini luce e tenebre servano in egual misura...di certo non solo gli uomini, ma nem-
meno gli angeli riuscirebbero a sostenere un potere come quello di donare la vita oppure la morte alle creature, di spargere salvezza o distruzione, senza uscirne cambiati. Quando aver emanato una luce così intensa ci si ritrova fin troppo facilmente neri di colpa. Ma gli uomini, la cui imperfezione non è né colpa né peccato, piuttosto preciso dono della Provvidenza, hanno il privilegio, guadagnato in cambio della caducità, di plasmare se stessi, per una manciata di anni, a immagine e somiglianza della propria mortalità e dei propri sentimenti: essi sono fatti di terra, forse non eterni, ma modellabili, durante tutta la loro vita. Soltanto all’interno di un corpo mutevole, fatto di terra, infatti, l’anima è davvero libera di esprimersi, di reinventarsi se necessario. Che sia proprio questa qualità ciò che ha mandato su tutte le furie Lucifero e un terzo delle schiere angeliche?
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IlstoriaTeatro sordo della Compagnia
Laboratorio Zero di Roma (parte terza)
di Dario Pasquarella Si ringrazia Elisa Conti per la traduzione dell’elaborato di tesi da cui sono tratte le diverse parti di questo articolo. Nel 2001 a Parma, il “Terzo festival Teatrale del Sordo”, Ginetta fece parte della giuria dove vi erano anche due udenti. “...Uno di loro mi chiese: ‘Come mai voi sordi non portate in scena delle commedie caratteriali incentrate sulla cultura e problemi sociali dei sordi?’ Risposi che il problema più grande era dovuto alla mancanza d’informazione e di conoscenza di autori teatrali da parte della comunità sorda. Personalmente non sono favorevole a questo tipo di commedie con problemi sociali e valenza didascalica...” (G. Rosato, “Laboratorio Zero”, Roma, Kappa, 2011, p. 103). Poi Ginetta continuò con altre proposte, nuove opere, come per esempio “Il Cilindro”, commedia italiana di Eduardo De Filippo, pensando che il pubblico potesse gradire. La Prima viene messa in scena il 28 novembre del 2002, a Roma, presso il Teatro In Portico. Sceno-tenica di Marcello Scandinare e Vittorio D’Aversa, scenografia di Francesceo Raffaelli, Serafino Flavi e Riccardo Ferracuti. Attori: Gabriella Alesi, Maurizio Scarpa, Massimiliano Cascitti e Angelo Santinelli. Nuovi Attori: Alessio Di Renzo, Stefano Subrani, Simona Vitaletti, Massimo Paletta e Antonio Di Marco. Repliche: il 30 maggio 2003 Foggia, Teatro Ariston; 1 e 2 Novembre 2003 a Firenze, organizzato dall’ENS, Sezione Provinciale di Firenze, durante il “Quarto Festival Teatrale Sordo” a Firenze, presso il Teatro Saschall. In tale occasione la Compagnia Laboratorio Zero conquistò la platea e la giuria vincendo il pri-
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mo premio, al secondo posto la Compagnia di Milano e al terzo Compagnia di Firenze. Con questa vincita ci fu un grande livello di autostima per gli attori e per la compagnia teatrale.Da qui a breve iniziò un grande diffondersi d’informazioni sulle compagnie teatrali sorde, inizialmente in un panorama italiano poi fino ad arrivare all’estero. Da questo momento in poi la compagnia si avvia verso un percorso di grande livello professionale. In questo stesso periodo il bravo Maurizio Scarpa, artista sordo, dopo tredici anni trascorsi nel Laboratorio Zero, si trasferisce al Nord per motivi familiari. “Ultimamente in Francia l’IVT (International Visuale Theatre), è diventato un evento famoso. Dieci anni fa sono andata a questo festival dove ho potuto vedere uno spettacolo completamente segnato, ne rimasi affascinata, fu veramente bello. In quell’occasione potei domandare a un sordo russo se aveva capito lo spettacolo, e lui mi rispose che lo aveva compreso bene. Allora gli chiesi se anche lui faceva teatro e lui mi ha risposto che era uno sceneggiatore e che traduceva i testi scritti in lingua dei segni. Allora gli chiesi come faceva e mi ha risposto che inizialmente trascriveva frase per frase poi si metteva di fronte la telecamera e segnava precisamente ogni frase che aveva scritto. Dopo gli attori guardavano il filmato e lo imparavano a memoria. Anziché leggere il testo potevano guardare direttamente la registrazione video.Ero stupita e gli chiesi se rispetto al testo originale attuava delle semplificazioni, una riduzione o delle frasi aggiuntive, mi rispose che il testo veniva rispettato fedelmente e che questo con i segni era possibile farlo senza problemi. Rimasi molto colpita da quest’esperienza: il risultato era soddisfa-
cente. Tornata in Italia dovevo assolutamente provare questo metodo, insistevo affinché si potesse seguire fedelmente il testo, ma nell’elaborazione trovavo sempre delle difficoltà” (intervista a Ginetta Rosato del 22 Maggio 2013; di questa intervista ho conservato il documento filmato). Nel 2005 con “Trappola per Topi” di Agatha Christie per la prima volta fu presentato un giallo, uno spettacolo dove il mistero e la suspense erano i veri protagonisti. Ginetta decise per la sola lingua dei Segni Italiana, senza interpreti per la voce, senza effetti sonori e senza musiche. Ci fu il ritorno di attori come Gabriella Alesi, Corrado e M. Beatrice D’Aversa. Nuovi attori: Francesco Bianca, Dario Pasquarella, Danilo Di Biase, Laura Giangreco Marotta e Francesco D’Amico. La scenografia fu ideata e progettata da Katiuscia Andò la quale mise tutto il suo impegno per realizzarla. Costumi a cura di Francesco Raffaelli e Teresa Giangirolami. Il 9 novembre 2005 “Trappola per Topi” di Agatha Christie, fu presentato a Roma, nel Teatro San Genesio e, come già detto, lo spettacolo non aveva voci fuori campo né interpreti vocali che traducevano simultaneamente. Lo spettacolo segnato ed il silenzio in scena furono percepiti dallo spettatore come un momento di grande emozione e riflessione. Pur mantenendo un silenzio totale, in assenza di voci, il coinvolgimento della platea fu di forte interazione e di fusione; grazie agli attori sordi che arricchivano con il linguaggio del corpo, i movimenti delle mani, le espressioni del volto e le azioni, tale spettacolo in lingua dei segni italiana poteva davvero delineare un livello di alto coinvolgimento. “Capii che la Lingua dei Segni italiana poteva tradurre tutti i contenuti di un copione.
“Trappola per topi”, 2005. Iniziai questo tipo di lavoro nel 2005, forse in ritardo, esattamente nello spettacolo ‘Trappola per topi’, utilizzando la LIS come canale che permise la traduzione e la fedeltà dell’intero copione. Per i sordi però il problema era memorizzarlo, successivamente abbiamo provato a segnare restringendo i tempi, finora siamo andati avanti così e il risultato è nettamente migliorato. Utilizzando la LIS, con il labiale, come quella che si usa quotidianamente si può fare!” (intervista a Ginetta Rosato del 22 Maggio 2013; di questa intervista ho conservato il documento filmato). Nel 2007, il laboratorio Zero festeggia presso un ristorante per i suoi 30 anni di attività; in questa occasione ci fu anche la presentazione da parte di Ginetta e di vari piccoli spettacoli improvvisati o preparati. Dal 1977 al 2007 dopo anni di spettacoli e di crescita teatrale lo stesso dramma portato per la prima volta rivedrà e ripercorrerà il palco. Le Attrici Emanuela Cameracanna, Paola Cirelli, Simona Vitaletti, Giuseppina, M. Beatrice D’Aversa, Laura Giangreco Marotta, Botto e Ginetta Rosato. Attori nuova: Manuela Mieli e Grace Giacubbo misero in scena “La casa di
Bernalda Alba”. Con grande emozione la stessa regista e Giuseppina Botto, le pioniere del 77, furono sul palco. Ci fu la descrizione vocale del primo secondo e terzo atto dell’attrice udente Giorgia Visani.La scenografia fu ideata e progettata da Katiuscia Andò. Musiche e rumori gestiti da Elisa Conti. Scenotecnici: Angelo Baiocco, Eutizio Taddei e Luigi De Negri. Dal 15 al 18 Marzo 2007, “La casa di Bernalda Alba” di Federico Garcia Lorca, fu presentato a Roma presso il Teatro In Portico. Ci fu la terza replica durante il Convegno LIS “Dall’Invisibile al Visibile” a Verona 9 – 11 Marzo 2007, organizza dall’ENS Sede Centrale, e si andò in scena presso il Teatro Nuovo. Nel 2008 Ginetta continuò la sua attività con un nuovo progetto, “Rumori fuori scena”, e, proprio presentando la commedia di Micheael Fryan, per la prima volta ci fu un’integrazione tra sordi e udenti. Attori Udenti: Diana Baiocco, Simona Zinna, Davide Baia e Carlo Wialletton. Attori sordi: Gabriella Alesi, Francesco Bianca, Grace Giacubbo, Massimo Paletta, Dario Pasquarella e Vivianna Rocchi. Scenotecnici: Angelo Baiocco, Luigi Rinaldi, Eutizio Taddei.
Musiche e rumori gestiti da Elisa Conti. “Tutti dicono che le mie scenografie sono bellissime. Per me è come un libro pop-up, lo immagino così, o come la casa di Barbie al cui interno si possono mettere i piccoli letti. Ecco, per me il teatro è così, e noi tra il pubblico siamo come dei bambini che osservano lo svolgersi di una storia. La scenografia per essere bella deve essere reale non deve apparire finta perché lascerebbe una sensazione di vuoto o di agitazione. La scenografia più complicata che ho fatto è quella di ‘Rumori fuori scena’. Di solito per fare una scenografia, per montarla e pitturarla, si impiegavano al massimo 20 giorni. Per ‘Rumori fuori scena? invece abbiamo impiegato 3 mesi. Abbiamo cominciato a Giugno, abbiamo proseguito fino a Luglio, poi ad Agosto ci siamo riposati per riprendere a Settembre e terminare ad Ottobre. Quindi in tutto abbiamo impiegato 4 mesi. Per il cambio di scena era necessario che la scenografia, quadrata, ruotasse, poi dovevano essere fatti dei controlli di sicurezza, doveva essere facile da manovrare, doveva essere stabile e servivano delle scale per poterci salire.
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“Rumori fuori scena”, 2008 Servirono anche delle modifiche del fabbro per far passare i fili. Durante i lavori per Rumori fuori scena ci furono anche dei feriti. Un sordo dovette mettere dei punti per una botta alla testa e un altro si fece male al dito. Ma ero contenta perché lo spettacolo riuscì bene. Ultimamente cerco di fare meno scenografie ma vedremo più avanti” (intervista a Ginetta Rosato del 22 Maggio 2013; di questa intervista ho conservato il documento filmato). Il teatro integrato con attori sordi e attori udenti è una tipologia complessa ma molto efficace. Gli attori sordi segnanti si occuperanno del proprio segnato e delle dinamiche con gli altri attori sordi ed udenti. Il ruolo dell’attore udente può essere di varie tipologie: • In veste d’interprete ufficiale, • Nel personaggio dell’interprete, • Personaggio o protagonista incompetente della Lingua dei Segni, anche se ne ha una. • Attore Intermediario segnante e parlante a seconda delle vicende. • Attore vocale interno o esterno. L’essenziale è che il lavoro alla base
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sia riferito a queste quattro variazioni di profilo. Una volta chiarito l’obiettivo, l’attore udente potrà, attraverso i consigli e le strategie del regista, trovare la modalità giusta per far emergere uno dei cinque livelli citati. Fondamentale è il lavoro di squadra, il livello di cooperazione è fondamentale affinché sia trasmesso alla platea un ottimo livello di armonia.
Esperienza di Diana Baiocco: L’ integrazione a teatro “La mia breve esperienza teatrale è stata singolare e in quanto ho recitato con una compagnia di attori sordi e udenti; devo dire che l’ambiente che si è venuto a creare è stato per me meraviglioso. Il contatto con persone sorde non era per me cosa nuova, essendo figlia di genitori sordi. La storia era quella di una compagnia teatrale di attori sordi guidati da un regista udente e il mio ruolo era quello dell’interprete un po’ goffa. Nella vita di tutti i giorni spesso mi trovo a ricoprire questo ruolo con i miei genitori perciò non è stato così difficile entrare e nella parte. Devo
dire che tante volte si sente parlare e di integrazione, ma purtroppo molto spesso non si tratta di vera integrazione ma di condivisione di uno spazio. Con questo spettacolo si è sicuramente dimostrato che l’integrazione tra sordi e udenti è possibile. Ci siamo divertiti nel prepararlo, è stato una viaggio lungo un anno, un bellissimo viaggio, che mia ha arricchito e che ha fatto emergere la parte sorda che è in me!” (intervista a Diana Baiocco; e-mail di risposta del 20 Giugno 2013).
La Compagnia CineTeatro Laboratorio Zero Il Laboratorio Zero pian piano cresceva a vista d’occhio: ci furono le prime assemblee, primi momenti che hanno visto partecipare appassionati di teatro e cinema, assemblee che avevano l’obiettivo di raccogliere i nostri pensieri perplessità, i nostri punti di vista ed il futuro statuto! Stabilendo questioni burocratiche dei soci e i rispettivi livelli, ci fu l’atto costitutivo e la raccolta firme, e infine l’ultimo passaggio all’agenzia delle entrate.
Nacque così il 30 marzo 2009, l’associazione la Compagnia CineTeatro Laboratorio Zero. Ginetta Rosato: Presidente; Roberto Porcu: Vicepresidente; Renzo Chierichini: Consigliere. “Questo fu il nostro slogan L’obiettivo è uno spettacolo di qualità. ‘La speranza è dura a morire’: la mia speranza è che, in futuro, non troppo lontano, questa compagnia sia riconosciuta dal mondo udente, come compagnia teatrale sorda per la sua storicità e per le sue esperienze. E le sue competenze professionali...” (G. Rosato, “Laboratorio Zero”, Roma, Kappa, 2011, p. 15). Nel 2011 prende il via un nuovo progetto, “Otto Donne e un Mistero”, commedia di tre atti di Robert Thomus. Nuove attrici udenti: Sara Franchi, Ombretta Zanecchia, Lucrezia Di Gregorio, Susanna Di Pietra, Marcella Marasca, Marina Paradisi, Federica Zanecchia e Silvia Del Vecchio. Voci fuori e in scena di Marianna Castrataro, Manuela De Perrua, Francesca Salvi e Francesca Scalabrelli.
Testimonianza di Marianna Castrataro, interprete vocale La mia esperienza come interprete teatrale è stata in occasione dello spettacolo “Otto donne e un mistero”, uscito sotto la regia di Ginetta Rosato nel 2011. E’ stata per me una esperienza molto intensa, che ha richiesto fatica, impegno e costanza, ma ha dato emozioni e stimoli nuovi alla mia professione di interprete, ampliandone gli orizzonti e le possibilità di sperimentarsi come personaggio teatrale in opera. Nella prima fase da quando si intraprende la preparazione al copione, non ci sono particolari differenze rispetto al normale lavoro di preparazione di un interprete, se non per il testo: rispetto ai materiali per un convegno, il copione è un Corpus Unico, un’opera in azione e non di soli contenuti, il lavoro di immaginazione nella lettura supera quello di comprensione perché tra le battute bisogna aggiungere inferenze di stati d’animo e sguardi, tensioni tra i personaggi al di là di cosa essi dicono bisogna rappresentarsi il COME lo dicono, ma per questo c’è il fondamentale contributo del regista. Studiare il copione nel caso di un interprete che dà la voce ad uno o più
personaggi non è un lavoro di memorizzazione, ma piuttosto di “assunzione” del punto di vista, dello stile, del carattere, dei pregi e difetti del personaggio per cominciare a individuare la “voce” più consona a lui (una voce pacata e flemmatica, o acuta e fastidiosa, o un modo provocatorio dai toni aggressivi, etc.) Ma oltre al copione, bisogna verificare che lo stile vocale assunto per quel personaggio si adatti anche al modo di segnare dell’attore (sordo o udente) del nostro personaggio. Quando, come è capitato a me, si deve dar voce a più di un personaggio la difficoltà maggiore è passare da un tono di voce all’altro senza confonderli, cosa che può capitare soprattutto se quei due personaggi fanno un dibattito veloce tra loro. Più avanti, quando sia le voci che gli attori segnanti cominciano a padroneggiare il senso del copione e ricordare le scene, la difficoltà è nei tempi della traduzione. Seguire il segnato dell’attore e dargli voce, anche quando sbaglia, o inverte le battute o le inventa mantenendo il senso generale, a me è successo di frequente, persino i giorni dello spettacolo in pubblico. Questo ha come conseguenza che non si può iniziare a parlare subito o stando troppo addosso alle battute dell’attore, mantenendo una minima latenza di pochissimi secondi. Dall’altra parte però, se la latenza si riscontra il risultato è veramente brutto: vedere qualcuno muovere le mani senza voce, e poi sentirla, non dà gusto perche non combacia con le espressioni, i gesti, ed i movimenti dell’attore sul palcoscenico. Per me la cosa più bella è stata il fatto che, nel dare la voce, sei costretto a ‘diventare’ quel personaggio, si entra necessariamente in lui/lei, viene fuori qualcosa di te che apparterrà a lui: il tuo modo di esclamare, di stupirti, di innervosirti, sarà il modo di quel personaggio. Proprio per questo, però, non tutti gli udenti hanno la voce adatta a tutti i personaggi. E’ importante che l’abbinamento sia fatto con attenzione. Su questo devo dire ho riscontrato un limite: l’abbinamento voce-attore, è stata una suddivisione casuale perché non abbiamo studiato le nostre voci, né la regista, sorda, poteva dire: tu, che hai una voce forte, è meglio che fai questo personaggio prepotente. È possibile che la voce che un interprete ha natura e non può cambiare, non è adatta a quel personaggio. Al-
tre difficoltà che posso raccontare e si sono verificate sono state: ad esempio se un altro collega-voce non ha finito la frase, costringe me ad aspettare per dire la battuta anche se il mio attore ha già cominciato a segnare la sua battuta. Cosa fare?Io penso che non sovrapporre le voci è importante, ma poiché nella vita reale succede e anche spesso, se la situazione lo richiede e se la battuta è breve, di poche parole, ci si può sovrapporre in parte di frase al collega, pur di non far parlare il nostro personaggio quando ha già finito di segnare, perché sarebbe, ripeto, troppo brutto. Ho anche parlato dell’imprevedibilità della traduzione: può capitare che l’attore a cui noi diamo voce salta una battuta e poco dopo, accorgendosene, la rimette dove non andava, e lì è rischioso perché non ce lo aspettiamo, credendo che ormai era persa. La difficoltà è seguire stando sempre attenti a cosa viene detto dagli attori, lasciando da parte il copione. Questo per noi nelle serate dello spettacolo è stato molto faticoso, perché eravamo in fondo al teatro, non rialzati, dietro tutto il pubblico e quindi vedevamo i personaggi sul palco, ben illuminato da lontano. Altro problema era stare in 4 in uno spazio piccolo e chiuso, al caldo, con i microfoni sempre accesi. Non potevamo neanche parlare sussurrando perché i microfoni non potevamo azionarli noi. Quindi per chiederci un bicchiere d’acqua o qualsiasi cosa lo facevamo a segni, non era un problema comunicare, ma se uno aveva un colpo di tosse o starnutiva si sentiva tutto in sala. Per fortuna non è successo. E’ fondamentale saper trasmettere non solo il verbale, ma soprattutto le pause, le esitazioni, le ansie i sospiri dei personaggi, la loro ironia. Questa parte, come dicevo, è quella che mi ha divertito di più di questa esperienza che spero in futuro di ripetere, nonostante la fatica. Infatti nel lavoro di interprete non capita mai tanta varietà di espressione nel registro,nel lessico, nei toni, nei linguaggi da usare e tanta emotività da trasmettere. E’ una soddisfazione immensa quando, ormai allenati e pronti, ti senti sintonizzata con l’attore e ormai una parte di quel personaggio” (ho interrogato Marianna Castrataro per email sulla sua esperienza come interprete vocale. Questa è la e-mail di risposta del 13 Giugno 2013).
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“Oltre gli Occhi” le interviste
a cura di Dario Pasquarella
“Oltre gli Occhi” è stato il mio primo spettacolo come regista e come autore. Devo tantissimo a tutti coloro che vi hanno collaborato e che in questo mio sogno hanno messo la propria anima, le proprie fatiche, le proprie, preziosissime, riflessioni. Ho studiato teatro e mi muovo nel mondo dello spettacolo sordo da molti anni, ma a un certo punto ho sentito l’esigenza di portare in scena uno spettacolo che includesse anche la cultura e la letteratura visiva LIS e non soltanto la cultura e la letteratura udenti. All'inizio di quest’avventura, quando ho finalmente trovato il coraggio di affrontare un lavoro di regia e, per la prima volta in Italia, la strutturazione di un soggetto e di una drammaturgia originali, nessuno degli attori aveva consapevolezza di quali sarebbero potute essere le scene selezionate. È il regista che, come già detto in altri articoli, detiene l’ago con cui cucire insieme le diverse parti dello spettacolo e farne un corpo unico. All’inizio le scene possono apparire tutte uguali e le persone si trovano a fare gli stessi esercizi perché non si sono ancora formati i personaggi: spetta al regista tirare fuori da ciascuno un personaggio diverso a seconda dell'individualità degli attori e poi cucirglielo addosso. Sulla scena, infatti, gesto, battuta e posizione di ogni personaggio vengono collegati fra loro soltanto alla fine, come si farebbe cucendo pezzo per pezzo un vestito su misura. La paura spesso imbriglia l'espressione e le impedisce di muoversi liberamente: muoversi in dei panni scenici che calzano alla perfezione, permette di non "scollarsi" dal proprio ruolo, di tenere a freno la paura, di non essere se stessi. Oltre a me, tutti, tecnici, curatrice del testo, attori hanno avuto voce in capitolo in tali processi e il "lavoro corale" risulta evidente: non viene mai trasmesso un solo messaggio, non viene mai descritto un solo sentimento alla volta, ma le emozioni viaggiano spesso mescolate. La mia è una ricerca visiva che porta dritta a un'altra ricerca, più etica e mai veramente conclusa, cioè a quella consapevolezza di sé e degli altri che ci è indispensabile per vivere. Proprio come accaduto con lo spettacolo, connettersi agli altri può sembrare un lavoro lunghissimo, potenzialmente infinito, eppure "Oltre gli occhi" è durato soltanto cinquanta minuti di perfetto equilibrio in cui, come ha scritto Maria Rosaria Pescitelli in un suo articolo entusiasta e generoso, sono state "le mani a cucire le parole".
Susanna Ricci Bitti (attrice sorda)
Ho iniziato a fare teatro nel 2011. A dire il vero mi ero già trovata in un contesto teatrale, grazie a un progetto del Teatro Quirino, condotto da Giuditta Cambrieri, dal titolo “Diversamente in scena”; vi partecipavano sia sordi che udenti. Quella è stata la mia prima esperienza; mi hanno insegnato come muovermi, a usare il linguaggio del corpo, e come stare sul palco. A giugno c’è stato lo spettacolo conclusivo del Quirino, poi all’incirca ad ottobre dello stesso anno ho iniziato a lavorare con Laboratorio Zero, partecipando al casting per lo spettacolo “Tredici a tavola”. Ero felicissima di essere stata scelta per lavorare con una compagnia come Laboratorio Zero. Fin da piccola ho imparato a conoscere il mondo dello spettacolo sordo; la mia famiglia infatti è formata tutta da sordi: loro si recavano agli
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eventi culturali e io li seguivo. Ho sempre voluto fare teatro, ma la città in cui sono nata, Faenza, provincia di Ravenna, è molto piccola e non c’erano esperienze di teatro sordo; inoltre io non avrei avuto nemmeno tempo: ero concentrata sullo sport, in particolare sul tennis. Quando poi mi sono trasferita a Roma per gli studi, finalmente, ho potuto seguire la mia passione per il teatro. Ero contenta di poter fare teatro, di lavorare con Laboratorio Zero…poi le cose sono andate avanti. Conclusasi l’esperienza di “Tredici a tavola” con la regista Ginetta Rosato, ho partecipato a “Oltre gli Occhi”, ma si è trattato di qualcosa di diverso. Nel primo caso ci cominciava da un copione già assegnato a seconda del personaggio e c’erano delle battute da imparare a memoria; nel secondo caso, invece, il lavoro è stato un altro. Abbiamo cominciato a lavorare ad
“Oltre gli Occhi” all’incirca all’inizio di novembre 2013. Dario Pasquarella (il regista) ha convocato degli attori per uno spettacolo collegato al periodo dell’Olocausto e ha dato a ciascuno il compito di produrre qualcosa di proprio, un pensiero, un’opinione, facendo riferimento ai documenti storici di quel periodo, registrandoci poi con una videocamera. Tutti gli attori, disposti in circolo, dovevano calarsi nei panni di chi ha vissuto quel determinato momento storico; per esempio io avevo immaginato cosa avrei fatto per aiutare un’amica ebrea in difficoltà, come avrei potuto salvarla. Noi segnavamo i nostri pezzi, poi, dopo aver concluso questa fase, Dario e Silvia Liberati (la curatrice del testo in italiano) hanno messo insieme e sistematizzato le diverse parti, prendendo tutte le nostre diverse storie e trasformandole in un copione vero e proprio.
Foto di Giovanna D’Agostino C’è stato un grande lavoro di gruppo in preparazione dello spettacolo e lavorare tutti insieme mi ha trasmesso una bella sensazione, diversa dal solito: ognuno di noi ha condiviso con gli altri il proprio pezzo e tutti ne siamo usciti arricchiti. Quando poi sono salita sul palco, come sempre, l’emozione è stata fortissima, il cuore mi batteva all’impazzata e mi sembrava di stare per svenire; ma una volta entrata in scena ho dimenticato tutte le paure, mi sono ritrovata nei panni del mio personaggio e non ci sono stati problemi. Il teatro mi piace proprio per questo: arriva il momento in cui Susanna non esiste più e ad essere presente in scena è il mio personaggio. Quello che mi piace del teatro è proprio potermi immedesimare in diversi personaggi: ciò mi dà l'opportunità di vivere esperienze differenti e di poter osservare la realtà da diversi punti di vista. A spettacolo concluso le persone che sono venute a vedermi mi hanno fatto i complimenti, raccontandomi che lo spettacolo gli era piaciuto, che aveva trasmesso loro molte emozioni, che si erano commossi, e alcuni avevano persino pianto... Era questo il risultato che volevamo raggiungere e ne sono stata felice: uno spettacolo che trasmette emozioni forti è uno spettacolo riuscito! Mi piacerebbe che in un futuro non troppo lontano gli attori sordi in Italia possano lavorare come professionisti, al pari degli attori udenti, che possano guadagnare e vivere di
tale lavoro e non soltanto farlo per hobby, per passione, in modo amatoriale...ed è proprio quello che stiamo cercando di fare col nostro lavoro. Insomma sarebbe un sogno che si propagassero sempre più spettacoli di questo genere, bilingui o tramite il linguaggio universale del corpo, quindi accessibili per tutti, sia a un pubblico sordo che ad uno udente, fino a diventare a un teatro sordo professionale come avviene già per le altre compagnie teatrali sorde all'estero (per esempio International Visual Theatre in Francia, Teater Manu in Norvegia).
Silvia Liberati (curatrice del testo e attrice udente)
Non so quando ho iniziato a fare teatro perché "fare teatro" non mi piace. A quattordici anni a scuola potevo scegliere un corso da frequentare il pomeriggio e ho scelto di recitare, così, per gioco. Nello stesso periodo sono stata catapultata dentro una compagnia esterna alla scuola, la compagnia "Ad hoc" . Con loro il mio tremolante debutto al teatro Valle. Quando ho finito il liceo classico ho iniziato l'Accademia e il teatro non mi ha più lasciata, forse da quel momento ho iniziato a sentirlo dentro come un organo riscoperto. Prima di incontrare Dario mi ero già avvicinata al tatto sordo andando a vedere spettacoli e frequentando un corso guidato da Giuditta Cambieri e Francesco
D'Amico. Poi, al secondo livello di lingua dei segni italiana ho conosciuto Dario, era un mio docente. Da subito mi sono innamorata della sua padronanza del corpo e volevo che mi educasse alle sue sfumature. Avevo così deciso di frequentare il suo corso "L'arte del corpo". Dopo un anno e mezzo di conoscenza un giorno mi propone di lavorare insieme ad un suo spettacolo. Credevo che lo spettacolo fosse pronto e che occorressero solo le mie competenze in lingua italiana dovendo trascrivere quello che lui segnava. Invece quello che c'era era uno scheletro, idee di regia e di scenografia. Mancavano le parole, i segni, c'era un'impronta delle storie e connotazioni dei vari personaggi, ma non c'erano incontri. Dario mi aveva proposto una sfida bellissima con me stessa. Non avevo mai scritto nulla di mio e scrivere per la prima volta qualcosa che doveva seguire uno schema e rispecchiare l'immaginario di un'altra persona mi faceva sentire un ibrido. Avrei fatto scelte diverse per questo lavoro, sia per la modalità in cui abbiamo lavorato sia per alcune scelte inerenti lo spettacolo ad esempio un altro titolo. L'ultima scena me l'ero immaginata diversa invece quella è stato frutto delle idee di ognuno di noi. Uno spettacolo figlio di molti genitori, come i bambini di oggi con le loro famiglie allargate siamo voluti stare artisticamente al passo con i tempi mettendo così in discussione un saggio proverbio:
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"troppi galli a canta' 'n se fa mai giorno". Noi invece abbiamo visto sorgere il sole sul nostro lavoro. Purtroppo i feedback di parenti amici e colleghi non sono stati sempre dei più favorevoli e credo che questo in parte sia dovuto all'evidente difficoltà di amalgamare attori eterogenei in una stessa compagnia. Progetti futuri? Tanti e disordinati ma per me questo spettacolo è stato l'inizio di un nuovo capitolo che continuo a scrivere io.
Cristina Maria Ciorgovean (attrice sorda)
Conosco Dario dal 2007, ma ho iniziato a fare teatro dal 2014, con “Oltre gli Occhi”. Non è stato semplice entrare nei panni del mio personaggio (il Mare Nero, metafora di una morte insaziabile), ma col tempo e con l’aiuto di Silvia Liberati sono riuscita a superare ogni perplessità. Una volta sul palco mi sono sentita come se dovessi essere travolta dalle emozioni, ma è importante riuscire a dominarsi, entrare nel proprio personaggio e superare ogni paura. Trovarmi nel ruolo di attrice è stata un’esperienza bellissima che mi ha dato molte soddisfazioni: amici, genitori, conoscenti, sordi o udenti, che sono venuti a vedermi sono rimasti colpiti dallo spettacolo, dalla sua impostazione e dall’organizzazione complessiva. Ora anch’io, come loro, aspetto con trepidazione le prossime repliche.
Laura Rubin (addetta agli effetti sonori)
Ho lavorato per 30 anni come tecnico del suono nel campo del doppiaggio televisivo e cinematografico e 4 anni fa ho messo in discussione la mia vita lavorativa decidendo di abbandonare quella professione. Avevo un sogno nel cassetto: lavorare come educatrice nella scuola dell’infanzia. Ho rispolverato i miei titoli di studio e ho iniziato un corso per imparare la LIS (lingua dei segni italiana), che consiglio a tutti. Il corso, della durata di 3 anni, prevede ore di tirocinio tra cui la partecipazione a seminari e la visione di spettacoli teatrali in LIS. E’ stata un’esperienza emozionante che mi ha dato la possibilità di avvicinarmi alla Cultura sorda, a me completamente sconosciuta. Tra le materie del corso c’è anche quella riguardante il teatro sordo. I miei insegnanti erano Dario Pasquarella ed Elisa Conti. Con Elisa ho avuto modo di stringere amicizia e proprio lei mi ha proposto di aiutarla nella realizzazione degli effetti speciali dello spettacolo teatrale “ Oltre gli occhi”. Il mio compito durante lo
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spettacolo è quello di tecnico del suono, quindi mi occupo della colonna sonora di musiche ed effetti speciali. Questo spettacolo teatrale imprime forti emozioni e alla fine di ogni rappresentazione mi commuovo sempre. Il messaggio arriva dritto al cuore! La cosa pazzesca è stata che durante le prove spesso ho temuto che non saremmo stati pronti per andare in scena, ma ogni volta lo spettacolo è stato un trionfo! Crediamo tutti profondamente in questo progetto ed è questo che determina il successo.
so passo la stesura, collaborare a scioglierne i nodi, seguire i movimenti in scena, interiorizzare le peculiarità di ogni personaggio. Ogni volta mi trovo a mantenere una prospettiva che è tanto interna quanto esterna: un punto di vista privilegiato per cogliere sfumature che all’interno difficilmente si noterebbero. Il primo vero exploit per quanto riguarda la scelta musicale è stato “Oltre gli Occhi”... sono molto legata a quella colonna sonora. Ma è sempre così: più volte viene ripetuto uno spettacolo, più ci si lega intimamente ad esso...
Elisa Conti (addetta agli effetti sonori)
Gabriella Alesi (attrice sorda)
Sono un’interprete di LIS, un’educatrice montessoriana, e una docente di teoria al secondo e terzo livello nei corsi di LIS e nei corsi assistente alla comunicazione. La musica è una delle mie più profonde passioni e proprio per questo non riesco ad immaginare uno spettacolo teatrale che sia privo di rumori e musiche... Da questi presupposti, nel 2007, nasce la mia collaborazione con Ginetta Rosato e Laboratorio Zero. Mi sono occupata di teatro per adulti e per bambini sordi, perché tutti possono vivere la musica sulla scena… Dal 2007 fino ad oggi non ho mai smesso di occuparmi di rumori e musiche per gli spettacoli teatrali. Mi sono formata con Giorgio Albertazzi, Luciano Mazzetti, e ho lavorato con registi del calibro di Duccio Forzano e Lorenzo De Feo. Sempre nel 2007 ho conosciuto Dario: tra me e lui ci sono da anni una grande intesa, fiducia, cooperazione e sinergia... La stessa fiducia che ha contraddistinto il mio lavoro con Ginetta Rosato ha caratterizzato anche il mio lavoro con Dario, a partire già dal 2008, quando abbiamo realizzato laboratori teatrali per bambini in via Nomentana, e allo Smaldone (si trattava di spettacoli ideati da Dario, mentre a me spettava la cura del testo scritto), fino ad arrivare agli spettacoli di oggi, rivolti invece a un pubblico adulto. Dario ha già delle idee precise in testa anche per quanto riguarda gli effetti che devono avere musiche e rumori sulle diverse scene; sta a me poi concretizzarle. Aggiungere la musica a uno spettacolo sordo significa, per un regista, delegare ogni aspetto del lavoro ai tecnici e riporre massima fiducia nella loro competenza, nella loro sensibilità; si tratta di condividere lo stesso obiettivo: trasmettere emozioni al pubblico. Per poter ottenere il risultato voluto chi si occupa degli effetti sonori deve gioco forza entrare nel copione, seguirne pas-
La prima volta in cui ho sperimentato un nuovo stile di teatro, basato su un copione originale, è stato l’anno scorso in “Oltre gli Occhi” di Dario e Silvia Liberati (curatrice del testo in italiano). Si tratta d uno stile di teatro completamente diverso rispetto a quello a cui ero abituata: con Ginetta si lavorava con un copione “classico” e personaggi già dati che bisognava “soltanto” studiare; con Dario invece si lavora molto sulla creazione del copione e del personaggio. Nel teatro sordo LIS sono necessari uno scambio e un confronto continuo per definire il testo. Quando ho partecipato a spettacoli basati su una drammaturgia originale, come “Oltre gli Occhi”, mi è stato chiesto d’immaginarmi nei panni del personaggio che avrei dovuto interpretare e che per la maggior parte del tempo e delle prove è ancora “in costruzione”. Quando Dario mi ha chiamata a partecipare al suo progetto mi trovavo in un momento buio della mia vita: mia madre era morta da poco e inizialmente non avevo alcuna volontà di partecipare allo spettacolo, poi però, piano piano, ho deciso di sforzarmi e di prendere parte a questo progetto per me del tutto nuovo. Conoscevo molto bene il tema dato e non è stato un problema produrre parole, contenuti...ma tra la teoria e la pratica, si sa, c’è sempre una grande differenza, e tradurre poi quei racconti personali in esempi, in movimenti del corpo e in emozioni è stata un’altra cosa... Durante il primo spettacolo per me è stato difficile farmi prendere totalmente dalle emozioni legate al mio ruolo: il lutto per mia madre era ancora troppo recente. Soltanto durante le repliche successive (a Caserta, Subiaco, Benevento) ho potuto cogliere appieno le diverse sfumature del mio personaggio. È stata un’esperienza diversa da quelle precedenti ma molto interessante.
Samia Clavinini (attrice udente)
Alle superiori la mia scuola offriva come attività extrascolastica un laboratorio teatrale e, un po’ per curiosità un po’ per superare le mie timidezze mi sono buttata. E' stata un'esperienza breve ma formativa e ancora ricordo le paure, i successi, le ansie... Anni dopo, durante il mio percorso formativo per diventare Assistente alla Comunicazione, ho incontrato Dario e ho ritrovato la voglia di buttarmi e sperimentarmi su un palco, grazie anche al suo corso di “arte del corpo”. Proprio in tale occasione abbiamo instaurato il rapporto di amicizia e collaborazione che ci lega tutt'ora.Conoscevo già il mondo dei sordi perché mia mamma è sorda; poi ho frequentato corsi LIS dove ho conosciuto Dario, appunto, e Gabriella (come docenti) e, tramite loro, il Laboratorio Zero, oltre ad aver assistito ad alcuni spettacoli dei Diversamente Comici e alle prime edizioni del Cinedeaf di Roma. Quando abbiamo iniziato a lavorare a “Oltre gli Occhi” non avevo idea di cosa stavamo costruendo: ci si incontrava, facevamo esercizi e giocavamo ad immaginare scene e
pezzo dopo pezzo è venuto fuori qualcosa di bello ed emozionante Una non-trama fatta di personaggi o pezzi di essi che poi Silvia e Dario, con pazienza, esperienza e bravura hanno messo insieme. Sono una persona timida e molto emotiva: non è stato facile per me superare queste emozioni e salire su un palco e farlo ancora, ancora e ancora... non credevo che ne sarei stata capace e invece... si, ci sono stati errori, momenti di panico, battute dimenticate, ma anche così è andato tutto come doveva andare: le lacrime di commozione degli spettatori alle prime file, gli applausi e naturalmente la cena tutti insieme dopo lo spettacolo...
Simone Atticciati (attore udente)
Ho iniziato a fare teatro all`età di 14 anni, grazie ad un laboratorio teatrale. La mia passione per il teatro mi ha spinto successivamente a trasferirmi a Roma e iniziare gli studi in accademia. Non conoscevo nulla né del mondo della sordità, né tantomeno del teatro sordo, semplicemente non ne avevo mai sentito parlare. L`unica occasione “d’incontro” con la LIS è avvenuta nel
2010, durante uno spettacolo al Teatro Argentina, in cui ho visto per la prima volta in azione degli interpreti; da lì è nata la mia decisione di avvicinarmi alla Lingua dei Segni. Dario è stato il mio insegnante del primo livello. Non ho partecipato dalla nascita del progetto di "Oltre gli Occhi", ma sono stato chiamato successivamente per sostituire un attore e ho accettato molto volentieri: volevo capire cosa significasse in un modo diverso e apparentemente lontano da quello a cui sono sempre stato abituato. Fino a poco tempo fa, se qualcuno mi avesse chiesto "Come fanno teatro i sordi?" io avrei risposto "perfettamente come gli udenti" e la mia risposta sarebbe stata corretta, ma ora, vivendolo dall’interno, dico che non è proprio così... il risultato è lo stesso, il testo è lo stesso, la preparazione è la stessa...ma pur essendo tutto uguale è tutto diverso: la lettura del copione, la traduzione, le prove, le ansie, le paure, lo spettacolo, il pubblico, il calore che ti trasmette, il lavoro di squadra; tutto molto bello ma diverso dal mondo da cui provenivo. Si tratta di vivere emozioni diverse... in entrambi i casi molto belle.
Foto di Giovanna D’Agostino
Venga a prendere il caffè da me Quando le energie iniziano a mancare, oppure il risveglio è stato traumatico, non c’è niente di meglio di un buon caffè energizzante. A volte però siamo così fiacchi che uno solo non basta, quindi bisogna raddoppiare le dosi e farsi un bel caffè doppio. Il caffè doppio è caratterizzato da due dosi di espresso da 25 cc per un totale di 50 cc di caffe'; ristretto è un espresso con meno di 25 cc di caffe in tazza; lungo, è un espresso con più di 25 cc in tazza; quello corretto è un espresso con un goccio di liquore in tazza; macchiato è un espresso con un goccio di latte freddo o caldo in tazza; con panna è con panna montata in tazza; freddo è un espresso con ghiaccio, zuccherato e poi shakerato in bicchiere; americano è espresso con aggiunta di acqua calda dopo l'erogazione max 80 cc in bicchiere; Il cappuccino è: latte schiumato 1/3, latte caldo max 70°C 1/3, espresso 25 cc, vol. tazza 120 cc.
Un amore (con)diviso di Catia Marani Nicola si definisce un uomo che non va in cerca di “problemi”: fa un lavoro che gli piace ed economicamente ben remunerato, vive nell’appartamento che gli hanno regalato i genitori, è fidanzato con una ragazza da sei anni ma è sicuro che non si sposerà mai, né con lei né con altre. Si sa, riguardo al matrimonio ci sono uomini che la pensano esattamente come diceva Alberto Sordi : “E che faccio mi metto un’estranea dentro casa?”. In una trasmissione televisiva di un sacco di anni fa, quando la TV trasmetteva ancora in bianco e nero, Sordi alla richiesta di Mina: -“Puoi dirci perché non ti sposato?”, rispose con leggerezza:-“Perché un giorno mentre abbracciavo una bellissima donna e pensavo... la amo..., ne vidi passare un’altra e subito pensai che era più bella di quella che stringevo fra le braccia.” Premesso che Nicola mi ha assicurato che da quando frequenta Elisa non ha mai provato per nessun’altra ciò che sente per lei... gli ho chiesto...
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C- Mi stavi raccontando che sei molto innamorato di Elisa ma, nonostante questo, non hai intenzione di sposarla. Stai pensando che è più conveniente una convivenza? Non di rado oggi le giovani coppie fanno due conti e decidono che convivere, sotto l’aspetto burocratico e fiscale, è molto più vantaggioso. N- Non è solo una questione di risparmiare sulle tasse o sui ticket farmaceutici. Vivo da solo da quando avevo diciannove anni e stò benissimo. Preferisco che tutto resti, almeno per il momento, così com’è. Non di rado però, capita che con la mia ragazza condividiamo tutto il fine settimana ma non è la regola. C- Allora cosa ti impedisce di viverci insieme? Siete entrambi indipendenti economicamente, avete tutte le credenziali per potervi sposare. N- Il matrimonio lo escludo categoricamente. Non è nei miei piani né presenti né futuri e questo Lisa lo ha sempre saputo. Per una convivenza stabile vedremo… ma ora non mi sento ancora pronto. C- E quando se non a trentacinque anni? N- Non sarò mai pronto per dividere il mio armadio con lei, a chiederle quando posso invitare a cena gli amici in casa mia. Non sarò mai pronto a sentirla sbuffare se trova le mie scarpe in giro per la casa. Non sarò mai pronto a dirle ogni volta che esco dove stò andando. Ti basta o continuo.
C- Lei lo sa che vorresti restare fidanzato a vita? Che il tuo motto è “Amarsi sempre e non sposarsi mai”? N- Io sento di amarla e mi basta, può darsi che lei sogni di arrivare all’altare in abito bianco, ma forse neanche più di tanto. Ne abbiamo parlato più volte e so che una famiglia la desidera. Ho notato come si intenerisce quando incontriamo i nostri amici che hanno i bambini appresso. Io invece di guardare i bambini, guardo le occhiaie dei loro papà, quando di notte il piccolo non dorme. Quando mi sentirò capace di fare il padre, le ho assicurato che vorrei fosse lei la madre dei miei figli, e a quel punto sarà inevitabile vivere insieme, ma senza sposarci. Il matrimonio proprio no. E’ un contratto economico di cui l’amore non ha bisogno. C- Non ti sembra di essere egoista? N- Può darsi. Ti dico solo che io ho due cugini. Sono entrambi separati in attesa di divorzio, con prole minorenne ed hanno dovuto lasciare le loro case alle mogli. Il maggiore dei due a quarant’anni è dovuto tornare dai suoi genitori o altrimenti avrebbe dovuto dormire in macchina. C- Hai paura quindi di doverti trovare un domani nelle stesse condizioni? N- Non sarei né il primo né l’ultimo. Oggi mi appare impossibile che l’Elisa che conosco possa buttarmi fuori di casa mia se il nostro rapporto dovesse finire. Ma non si sa mai. Molti dei femminicidi di cui le cronache sono piene si consumano proprio perché in caso di separazione noi uomini veniamo spogliati di qualsiasi diritto. C- Le generazioni passate sceglievano di sposarsi e trascorrevano tutta la vita insieme. Secondo te perché oggi è così difficile resistere?
N- Mia madre ha sempre fatto la casalinga. Non ci è mai mancato il suo affetto ed ha pensato sempre a tutto lei in casa. Mio padre ha lavorato per due per non farci mancare nulla. Ma quando tornava a casa trovava una moglie disponibile ad ascoltalo e ad accudirlo. C’era una divisione netta dei ruoli all’interno della famiglia. Oggi le donne vogliono troppo. Vogliono lavorare per non sentirsi tagliate fuori dalla società ma poi non ce la fanno a conciliare il lavoro e la famiglia. Sono stressate ed isteriche. Pretendono di dividere i lavori casalinghi in parti uguali. Una volta cucini tu e una volta cucino io, oggi i piatti a te, domani a me...peggio che vivere in caserma… Comunque ti ricordo che negli anni settanta è passato il referendum per la legge sul divorzio. Evidentemente già allora era un’istituzione che, tenuta insieme per forza, stava perdendo di significato. C- Io non trovo tanto ingiusto aiutare in casa. La società è cambiata. Spesso è opportuno che anche la donna lavori e contribuisca ad alimentare il budget famigliare. Le esigenze economiche di oggi non sono le stesse di trenta-quaranta anni fa e due stipendi sono indispensabili. Una donna non può fare tutto da sola quindi, non credi? N- Voi donne avete sicuramente la vostra parte di ragione, ma per noi è ancora antropologicamente troppo presto gettare la clava e trascurare la caccia, per aiutarvi ad accendere il fuoco ed arrostire le bistecche di mammut. Per addomesticarci vi servono ancora qualche migliaio di anni! C- Auguri, perché non so se la tua Elisa ti concederà tutto questo tempo. Prendiamo un caffè? N- Se non ti dispiace per me doppio.
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Espiazione
A proposito di Schmidt “Continuamente ogni notte mi ritrovo a farmi la stessa domanda: Chi è questa vecchia che vive a casa mia? Perché ogni cosa che lei fa mi irrita tanto? Come tira fuori le chiavi dalla borsetta molto prima di arrivare alla macchina, come sperpera i nostri soldi per le sue ridicole collezioni, come butta alimenti ancora in ottimo stato solo perché la data è scaduta. E la sua mania, la sua mania di provare nuovi ristoranti. E il modo in cui mi interrompe quando cerco di parlare. Detesto anche il mo-
do in cui si siede e anche l’odore che emana. Ha insistito per anni che io sedessi sul water quando urino!”. Warren Schmidt, funzionario di un'impresa assicurativa ad Omaha appena approda alla pensione si trova a fare i conti con un deludente passato diviso con quella vecchia che vive in casa sua (la moglie coetanea!), e che una mattina lo lascia improvvisamente vedovo ad affrontare da solo la senilità, ancora più angosciato pensando alla triste solitudine che lo aspetta. Il film – A proposito di
DEDICATA A LUI “In un caffè” di Gino Paoli in un caffe' coi camerieri maleducati per la prima volta noi ci siamo amati in un caffe' senza neppure il portacenere t'ho sentita tremare e fremere per me io non vedevo i tuoi occhi non li vedevo pero' piuttosto annoiato e non ti guardavo eppure la' sopra le tazze di caffe' fatto male e' nato tutto quel che conta per noi per te e per me io non vedevo i tuoi occhi non li vedevo pero' piuttosto annoiato e non ti guardavo eppure la' sopra le tazze di caffe' fatto male e' nato tutto quel che conta per noi per te e per me in un caffe' in un caffe
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Schmidt - del 2002, in cui un magistrale Jack Nicolsons si cala nei panni di Warren Schmidt, è un’eccellente riflessione sul perché ancora in molti decidiamo di sposarci e nonostante i fastidi della convivenza restiamo insieme anche tutta una vita. Una vita a volte difficile, fatta di protezione, sopportazione e di episodi odiosi e irritanti ma, che acquista un valore diverso di fronte alla solitudine di chi resta ad invecchiare solo. Insomma, della serie quanto si stava bene quando si stava peggio!
Facciamolo fare a loro Il Primo Passo La scorsa settimana tornavo in treno da Roma. Tornavo da una breve, ma piacevole, visita alla mia amica Valeria. Nello stesso scompartimento c’era una ragazza di circa trent’anni che si confrontava telefonicamente con la sorella su una questione di cuore. Anche avessi voluto evitare di origliare non avrei potuto, perché il tono di voce e la vicinanza non lo permettevano. Ammetto però che entrare nella vita degli altri è un ottimo passatempo per ingannare la noia. Diceva:– Ma io vorrei tanto rivederlo! Lo chiamo che dici. Siamo
usciti insieme solo due volte ma m’ha preso da matti! E’ salito da me dopo cena. Non lo so... innamorata proprio è una parola grossa...però lo penso parecchio. Solo che da allora non s’è più sentito. Io gli ho mandato un messaggio e non ha risposto. Eppure diceva di sentirsi attratto da me. Pensi che faccio bene a chiamarlo? Può darsi che non lo ha letto... Allora, che dici se lo chiamo? Faccio io il primo passo? – Io ero lì lì per dirgli: – No! Non umiliarti. Aspetta che sia lui a cercarti. In questi casi sarebbe utile sapere quanto avevo letto in una rivista di psicologia in merito alla “disconferma” delle relazioni. Cioè, lui non prende nessuna
decisione dato che non tiene in nessuna considerazione i sentimenti della donna, fino al punto di ritenere superflua qualsiasi spiegazione e trascurando completamente come ella agisce, cosa prova, denudando di ogni valore i suoi sentimenti. Insomma sia la donna che la relazione non esistono pertanto la “disconferma” corrisponde al concetto di indecidibilità trattato dallo psicoterapeuta Watzlawick. In parole povere se gli uomini non si fanno sentire è proprio finita o come in questo caso forse la storia non era neppure cominciata. (Paul Watzlawick è stato uno psicologo e filosofo austriaco naturalizzato statunitense).
Mode & Modi Un matrimonio da manuale
Ad una mia amica, piuttosto preoccupata per l’imminente matrimonio del figlio con una ragazza brava ma po’ troppo viziata e coccolata dai genitori, e pertanto a detta sua poco adatta al genere di vita matrimoniale, non essendo riuscita a sventare il misfatto, nonostante ce l’avesse messa tutta, è venuto in mente di regalare al figlio un libretto acquistato in un negozio per animali. E’ un manuale su come addestrare un cane. Sulle prime potrebbe sembrare sciocco e cinico accostare la figura della futura moglie con l'animale, ma sfogliandolo si potrebbe concretamente attuare qualche suggerimento come supporto non solo per futuri mariti, ma anche per future mogli al fine di migliorare il rapporto matrimoniale. Qualche esempio: chiamare sempre facendo sottintendere che se si risponde ci sarà un premio, fare sempre i complimenti, far credere di poter andare dove vuole per poi indirizzarlo nel luogo desiderato. Per chi non volesse acquistare libri per addestratori, soprattutto perchè sarebbe troppo imbarazzante spiegarne la lettura soprattutto se non si possiede un cane, consiglio di cercare su Google nei siti allestiti da addestratori professionisti o consultare il seguente URL: http://animalidalmondo.pianetadonna.it/come-addestrare-uncane-ad-obbedire-168237.html.
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Giochi e passatempi
La Campana Il gioco della campana è fra i più antichi e diffusi che si conoscano al mondo. Non sappiamo dove sia nato questo gioco che è praticato, con leggere varianti, in numerosi paesi: dall'Inghilterra alla Tunisia, dall'India alla Cina, dalla Russia al Perù. Le varianti non esistono solo tra i vari paesi, ma anche all'interno dello stesso paese o persino della stessa città! Uno dei disegni più antichi della campana è tracciato sulla pavimentazione del Foro Romano a Roma e sul lastricato di una casa di Pompei. Durante il periodo dell'Impero, le legioni romane costruirono grandi strade selciate per collegare i paesi del Nord Europa con quelli mediterranei e dell'Asia Minore. Le superfici lisce di queste grandi vie rappresentarono il posto ideale per questo gioco. Si dice che furono i soldati romani a far conoscere il gioco della Campana ai bambini dei paesi conquistati. Innumerevoli sono le varianti di questo gioco, giocato in tutto il mondo. Nella versione più semplice, si gioca gettando la piastrella nello spazio numerato e saltando con un solo piede, via via finchè arriva alla casella e recuperata la piastrella, senza mai posare i piedi contemporaneamente a terra, si salta fuori dal tracciato. Secondo gli storici potrebbe essere l’imitazione di an-
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tiche pratiche astrologiche sia nel numero degli scomparti disegnati per terra, sia nella piastrella che viene lanciata, simbolo del sole che entra ed esce dalle costellazioni. I segni di una campana vennero incisi. Possono esserci alcune varianti nel modo di giocare e di disegnare la campana, come si vede nella figura.
di Loretta Ottaviani Estate uguale vacanze, almeno per bambini e ragazzi e rappresenta il momento più bello dell’anno, perché fatto di giochi, divertimento, spensieratezza … c’è chi frequenta i centri ricreativi, chi i centri di vacanza diurni e chi rimane a casa a crogiolarsi tra ozio e divertimento. Ma come sono cambiati negli anni giochi e passatempi del tempo libero di bambini e ragazzi? Il gioco è da sempre l’espressione più autentica della cultura umana, è sempre “figlio del tempo” e si adatta al contesto sociale in cui si svolge. E in ognuno di noi il recupero dei giochi tradizionali rappresenta la riscoperta della propria storia, delle proprie origini e del senso di appartenenza. Ricordare giochi, divertimenti e passatempi ormai desueti, se non dimenticati, è un’operazione che obbliga ad attingere al passato, ad abbattere la barriera che separa il presente e il passato, a gettare un ponte tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti. Ricordare è richiamare in vita qualcosa di temporaneamente scomparso. La scomparsa dei giochi e divertimenti antichi della nostra tradizione deriva da molte cause. I passatempi, templi della fantasia ed espressione di una cultura che non c'è più, i diversi giochi dei bambini di un tempo sono stati cancellati dalla TV, dai giochi elettronici, dai mille altri interessi che occupano adulti e bambini, spazzati via negli elenchi delle cose perdute. La piazzetta, la strada e i vicoli non esistono più come luogo di ritrovo infantile e sono stati invasi dalle macchine. Eppure la piazza, la strada, i vicoli sono stati protagonisti dei nostri passatempi e dei nostri avi e ancora oggi, a ben guardare, ci tramandano qualcosa del “bel tempo che fu”. Fino a tre-quattro decenni fa i giochi praticati dai giovani quasi mai si identificavano con la necessità di mezzi finanziari: erano pochi i ragazzi fortunati possessori di una bicicletta, di un monopattino, di un paio di pattini a rotelle o di un vero pallone di cuoio e centinaia quelli che possedevano solo la voglia di giocare, che si divertivano semplicemente inventando giochi fatti di niente ma dove era necessario dimostrare bravura, forza e scaltrezza, giochi fatti non per stare chiusi in casa. I bambini d'altri tempi sfidavano anche il freddo per poter giocare fuori casa con gli amici. Bastavano pochi elementi per creare un gioco e divertirsi un pomeriggio intero: uno straccio, una palla, un gessetto, qualche biglia. Anche perché a quei tempi la villeggiatura era solo riservata ai ricchi o ai fortunati che avevano parenti in località marine o montane. C'erano le colonie... ma erano luoghi dove vigeva una disciplina che raramente andava d'accordo con la dimensione ludica dei giovani.
di un tempo che fu Biglie e noci I Greci giocavano alle biglie con ossicini, castagne e perfino olive; i Romani preferivano noci e nocciole, utilizzate per talmente tanti giochi da far associare le noci all’infanzia, uscire dall’infanzia si diceva appunto “nuces relinquere”, cioè lasciare le noci. Le noci erano conservate dai bambini e dalle bambine in cestini o in apposite borse o avvolte in un lembo della tunica. Fu solo a partire dal XVIII secolo che le biglie divennero perfettamente sferiche, di terra (meno costose), di pietra, di vetro e persino di agata e di marmo. Di solito i ragazzi tengono come materiale di gioco le più comuni e le più preziose come posta. Con le biglie si potevano fare molti giochi, il più conosciuto è quello della “tana” (la buca). Il gioco consiste nel colpire le biglie degli avversari diventandone proprietario. Prima di poterle colpire però bisogna far entrare la propria biglia in una buca (la tana) precedentemente preparata. Alla partenza, a turno, si tira la propria biglia, colpendola con il pollice o l’indice, e si cerca di entrare in buca. Altro gioco storico è “Cicca e spanna”, un giocatore tira una biglia né troppo distante né troppo vicino. L’altro per vincere deve colpirla con la propria, ma badando che si fermi entro la distanza di una spanna. Se rotola più avanti nessuno ha vinto, se la biglia si fer-
ma invece entro una spanna senza colpire è persa. Curiosità : sembra che l’imperatore Augusto portava sempre con sé alcune biglie e ogni qual volta incontrava bambini per strada che stavano giocando, si aggregava a loro.
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Mosca Cieca Anche questo è un gioco all’aperto, un giocatore scelto a sorte viene bendato, diventando quindi la mosca cieca, e deve riuscire a toccare gli altri, che possono muoversi liberamente all'intorno. Se la "mosca" tocca un giocatore, quest'ultimo prende il suo posto. Alcune varianti prevedono che la "mosca" debba riconoscere il giocatore catturato senza togliersi la benda. Il gioco risale almeno ai Greci, presso i quali era in uso bendare gli occhi ad un giocatore e fargli indovinare il nome di un compagno che fosse riuscito ad acchiappare. Il bambino doveva dire “andrò a caccia della mosca di
bronzo” mentre gli altri lo facevano ruotare per perdere l’orientamento e i compagni rispondevano “la cercherai ma non la prenderai” e lo colpivano con corregge di cuoio fino a quando non avesse preso uno di loro: questo gioco era quindi detto anche “mosca di bronzo”. Alcuni studiosi attribuiscono a questo gioco remote origini rituali, altri lo definiscono l’imitazione infantile di un dramma mistico raffigurante il diavolo che tenta le anime. Nel Medio Evo, nei paesi anglosassoni, i ragazzi lo giocavano coprendosi il viso con un cappuccio proprio come i condannati al patibolo e lo chiamavano “il gioco del cappuccio”.
Nascondino Noto anche come "Rimpiattino" è un gioco fatto di niente ma col quale ci si divertiva in un modo incredibile. Scelta la cosiddetta "tana" (un tronco d'albero, la porta di una casa, un'automobile, ecc.) si designava chi doveva "stare sotto" tramite la "conta", ossia una filastrocca che si concludeva per lo più con una frase del tipo "tocca a te!". Il prescelto doveva poi contare ad occhi chiusi fino ad un numero concordato tutti insieme mentre gli altri partecipanti al gioco andavano a nascondersi. Una volta concluso di contare, chi "stava sotto" iniziava a cercare i compagni di gioco. Avvistatone uno doveva gridarne il nome (a volte anche toccarlo) e correre fulmineamente verso la "tana" insieme al giocatore appena scoperto. Il primo dei due che raggiungeva la "tana" doveva toccarla e gridare a squarciagola "tana!". Di conseguenza il meno veloce dei due doveva "stare sotto" a sua volta e riprendere la caccia ai giocatori nascosti. Chi riusciva a raggiungere la "tana" con successo poteva così gustarsi il resto del gioco da puro spettatore. L'obiettivo dei giocatori nascosti era di cercare di lasciare i rifugi senza essere visti o toccati e di raggiungere il punto di tana gridando "tana" per liberare sé stessi, oppure il favo-
loso "tana liberi tutti". Ogni mano si concludeva quando tutti i giocatori erano stati scoperti e ne restava uno "sotto", non necessariamente quello che era stato designato inizialmente con la conta.
Trottola La trottola è un gioco per bambini conosciuto in tutto il mondo fin dai tempi antichi. Risale a più di 6000 anni fa, infatti alcune trottole perfettamente conservate, con le fruste utilizzate per metterle in moto, sono state ritrovate durante gli scavi di Ur in Mesopotania. Altri esemplari sono stati rinvenuti negli scavi dell'antica Troia, a Pompei, in alcune tombe etrusche, in Cina, in Giappone ed in Corea. Il gioco della trottola era famosissimo nell'antica Grecia e a Roma: Platone, Aristotele, Plinio, Virgilio e Ovidio tutti subivano il fascino ed il contagio della trottola, in latino chiamata "turbo". La trottola era di uso corrente in Inghilterra nel XIV secolo: ogni parrocchia possedeva la propria trottola e, nel martedì grasso, si svolgevano sulle strade gare di trottole accompagnate da stornelli. In Oriente si trovano trottole di tutte le forme e di tutte le misure. In alcune regioni rurali sono fatte di conchiglie. In Italia di sono artigiani che continuano la tradizione delle trottole: le costruiscono e le vendono per farle conoscere, insegnando l'arte di questo gioco, ai bambini di oggi. Nell’antichità per la sua costruzione si usavano materiali diversi, quali terracotta, bronzo, ferro e anche oro. Non sempre, anzi assai tardivamente la trottola assunse il ruolo di giocattolo profano, prima aveva funzioni rituali. Il materiale impiegato più comunemente era e resta il tronco di bosso, il cui legno è durissimo e non si spacca facil-
mente. La trottola consisteva in un oggetto di legno di forma biconica con un preciso profilo di rotazione ottenuto al tornio, che finiva in una punta di ferro; si faceva girare avvolgendola a uno spago e poi gettandola a terra e tirando a sé la mano alla quale era legato lo spago. L’impulso alla trottola era dato solo nel momento in cui si tirava la cordicella, dopodiché essa seguitava a ruotare per inerzia fino all’esaurimento e il migliore era colui che riusciva a farla girare più a lungo. L’uso della trottola è durato a lungo specie nelle campagne; oggi l’industria del giocattolo produce trottole meccaniche che non richiedono quella destrezza necessaria a far girare le vere trottole.
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Gioco del Pallone Già nell’Odissea si accenna al gioco della palla, nell’episodio di Nausicaa e delle sue ancelle, che giocando svegliarono Ulisse (700 a.C.); anche presso i Romani il gioco della palla veniva praticato abitualmente da bambini e persone adulte, per le strade o nello sferisterio delle Terme, dove serviva a riscaldare il corpo prima del bagno; la palla romana era piccola, ripiena di lana o crine, dipinta con colori vivaci. I nostri antenati hanno costruito un numero incredibile di modelli di palle, usando i materiali più disparati: cuoio, stracci, carta, rami di salice intrecciati, fino alla scoperta del caucciù e della plastica, con cui si ottengono oggetti perfetti. In un passato più recente quando ancora non c’erano campi o parchi attrezzati, il calcio si giocava dove c’era
un prato, uno spiazzo, un campo di erba medica appena tagliata. Berretti, maglioni, le cartelle di scuola o due bastoncini diventavo la porta. Qualcuno portava il pallone e il gioco aveva inizio. I palloni erano prevalentemente di plastica e si rompevano irrimediabilmente quando finivano su di un filo spinato. Era una grande festa quando qualcuno portava un pallone di cuoio marrone che però in breve tempo si rovinava e diventava biancastro e ruvido. Quando si prendeva di testa lasciava un bel livido, ma non contava nulla, era roba da grandi. Lo si gonfiava con la pompa della bicicletta. A volte capitava che si litigava o si rimproverava più del dovuto, per una brutta giocata, il proprietario del pallone ma ciò era molto rischioso perché spesso il bambino affermava: “...allora me ne vado e porto via il pallone”.
Figurine La passione per le figurine è stata molto profonda, e diffusa, negli anni precedenti il secondo dopoguerra, quando era rara la carta stampata a colori. Sicuramente la maggior diffusione di questo gioco è da mettere in relazione con l’album figurine dei calciatori messe sul mercato dalla Panini agli inizi degli anni sessanta, anche se figurine di altro tipo e di altre ditte c’erano anche prima (figurine Liebig diffuse dal 1872, figurine Buitoni –Perugina dal 1934) e hanno fatto divertire moltissimi ragazzi. Alcune figurine erano inserite nella confezione di prodotti vari (alimentari, detersivi ecc.); altre figurine confezionate in buste, sono in vendita alle edicole. Servono per completare un album il quale viene a costituire un libro illustrato. Approfittando della relativa rigidità della figurina (il supporto è in cartoncino, o carta robusta, pesante) e del fatto di poter sfruttare le facciate diverse si possono fare molti giochi, che richiedono abilità e fortuna mettendo in palio le proprie figurine, con l’intento di “alleggerire” il mazzo di figurine dell’avversario a favore del proprio. Il gioco consisteva in questo: le figurine venivano lan-
ciate dall’alto, da una sedia o da un muretto con un piccolo colpo delle dita. Se una di queste figurine finiva sopra ad un’altra, anche solo in parte, il vincitore aveva come premio le figurine che si trovavano per terra. Si poteva giocare sia al chiuso che all’aperto. I giocatori usavano ovviamente le figurine doppie con lo scopo, in caso di vincita, di poter completare il proprio album.
La Cavallina Era un gioco molto diffuso tra i bambini anche perché per poter giocare non serviva proprio nulla nel senso che un gruppo di ragazzi si trovava e bastava dire “giochiamo alla cavallina”. Un volontario allora si metteva inginocchiato con le mani per terra e a turno si faceva saltare dai compagni che lo sormontavano di corsa sulle spalle come fosse un quadrupede. Questo gioco veniva praticato generalmente sui prati, perché tanti erano i ruzzoloni sull’erba e spesso si tornava a casa con le ginocchia dei pantaloni colorate dal verde dell’erba per la gioia delle mamma. La TV dei ragazzi E per finire la televisione... .ma con i programmi di una volta! Tutto ebbe inizio alle ore 17 del 3 gennaio del 1954, sulle frequenze dell’unico canale che allora entrava nelle famiglie italiane. Il motto della trasmissione era “Educare divertendo”. Programmi educativi, dunque; ma anche di intrattenimento, per lo più di provenienza statunitense. Tra i telefilm più amati c’erano Rin Tin Tin, Lassie, Zorro, Penna di Falco, Furia. In quei tempi il televisore non era presente in tutte le case e allora i meno fortunati venivano ospitati dai compagni di gioco che ne possedevano uno, non esisteva nemmeno il registratore e allora non bisognava perdere nemmeno una
puntata. Finito il telefilm, soprattutto d’estate, tutti all’aria aperta a giocare. ed oggi... .... oggi i giochi sono prodotti dalle industrie. La Tv, il computer e i parchi divertimenti “superorganizzati” hanno ucciso la creatività dei ragazzi, eliminando i segni educativi del gioco: il movimento, la comunicazione, la fantasia, l’avventura, la costruzione, la socializzazione. Un tempo con poco si sopravviveva alla noia, oggi a causa dell’aumento del benessere e del traffico non si gioca più nelle strade e i giochi tradizionali continuano a vivere solo nella memoria dei più anziani.
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Visioni in una notte di mezza estate
(ovvero i peggiori film della mia vita, finora...) di Chiara Mancuso Premessa
Le parole che seguiranno, non vogliono essere una critica cinematografica vera e propria, piuttosto, delle considerazioni, quasi uno “sfogo” personale che voglio condividere con i miei amici lettori e fare un’ amara risata in merito ai peggiori film che a mio parere hanno girato negli ultimi anni e che puntualmente in estate, in prima o seconda serata, ci propongono e ripropongono, come se effettivamente ci fossero piaciuti a tal punto che non vediamo l’ora la sera di sederci e dire “Che bello! Mi ero perso l’anno scorso la replica di “Sissi”, ma, per fortuna posso rivederla perché mi era sfuggita la terza battuta del secondo tempo!” Mi direte che non mi obbliga nessuno la sera a guardare la televisione, che potrei uscire, visto che ancora non ho l’artrite alle ginocchia, ed è quello che faccio effettivamente, ma, visto che viviamo una delle più caldi estate del secolo, soffro d’insonnia e a mezzanotte, mi sembra inopportuno ri-uscire di casa, tanto più che iniziano a girare strane voci sulla mia pelle bianchissima e non vorrei che qualche vicino decidesse di scambiarmi per un vampiro... si, perché al momento opportuno, tutti sembrano avere un paletto di frassino sotto il cuscino...
Vampiri & co.
E non sarebbe la prima volta che qualcuno ci faccia un pensierino sul mio conto: quando ero piccola, ho portato come tanti il classico “Apparecchio” per i denti, ma a differenza dei miei coetanei che fuggono l’odiato momento in cui quelle piccole armature d’acciaio iniziano ad imbrigliare dolorosa-
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mente i denti, io non vedevo l’ora, anzi, supplicavo letteralmente il dentista per mettere al più presto quell’arnese infernale, per porre fine alla cantilena insopportabile dei miei “adorati” compagni di classe che mi chiamavano Dracula! Si, da piccola ero un vampiro, o meglio, a scanso d’equivoci, avevo i denti da vampiro, là, due bei canini lunghi e sporgenti, che si notavano anche a labbra chiuse... non vi dico quanto mi ci volle per tornare con un sorriso “normale” e che sofferenza! Avrei preferito un paletto nel cuore in alcuni momenti! Così, dopo ben cinque anni di tormenti, dissi addio alla mia carriera vampiresca, e nessuno mi chiamò più “ Dracula”, fino a che, qualche anno fa, una ragazzina a lezione iniziò a guardarmi con inquietudine e alla fine, dopo un’ora di bisbigli con le altre bambine, una di loro non si trattenne e si lasciò scappare un urletto “E’ vero!!” Vedendo che a quel punto avevo gli occhi addosso di dieci ragazzine piuttosto terrorizzate, decisi di chiedere spiegazioni e la più intraprendente mi chiese: “Maestra, ma sei un vampiro?” Rieccomi da capo! Istintivamente controllai i denti, come se per qualche scherzo della natura mi fossero tornati all’antica forma e con una risata nervosa risposi “No, non credo... perché?” “Perché i tuoi occhi cambiano colore, come Edward, il vampiro di Twilight!” A quel punto pensai che fare un trapianto di cornea sarebbe stato più complicato dell’apparecchio ai denti e, rassicurando, senza troppo successo, le bambine sul fatto che non fossi un vampiro, mi documentai sul, anzi, sui film in questione: Twilight, la saga di ben cinque film sui vampiri più sciatti della storia! E li ho visti tutti! Si, perché,
dopo che si vede il primo, si spera che, magari, non essendo venuto un granché, il regista si fosse impegnato di più... macché! Un crescendo rossiniano di trama stupida, attori inespressivi, che fanno di tutto per dare ancora meno carattere a personaggi del tutto privi di spessore, che la computer grafica appiattisce ancora di più! In due parole vi riassumo la trama: Isabella, per tutti Bella, (già notate qui lo sforzo di fantasia degli autori!), interpretata da una “esilerante” Kristen Stewart, volto rubato agli sponsor per le pompe funebri, si innamora di Edward, Robert Pattinson, che è il vampiro; ma, dimenticate il vampiro stile Dracula di Bram Stoker, quello che non può esporsi alla luce perché si ridurrebbe in cenere, dorme in una bara, si nutre di sangue umano, muore se colpito al cuore con un paletto di frassino e poi decapitato... no, i “nostri” vampiri di “Twilight” vivono in famiglia, con un papà e una mamma vampiro, in una lussuosa casa in mezzo al bosco piena di vetrate! Si spostano in auto sportive, lavorano e studiano in scuole normali e si nutrono di... animali nel bosco! Insomma, una versione umana migliorata! E cosa fa il sole a queste meravigliose creature? Li fa brillare! Non come una bomba, come un qualsiasi banale vampiro, no: la loro pelle si ricopre di “glitter” luminosi! Con queste premesse non potevano non farci ben cinque film! Non mancano i “colpi di scena” con licantropi, ovvero, ragazzi iper palestrati che girano a torso nudo sulla neve che si trasformano in lupi buoni e c’è spazio anche per vampiri veri, un po’ più birichini insomma, che non si accontentano di cacciare nel bosco, ma si nutrono, giustamente, di sangue umano...
Non vi annoierò sui particolari della trama, che, nel complesso è abbastanza banale: la storia gira tutta attorno all’amore dei due con le difficoltà che può comportare una relazione fra un vampiro e una ragazza , a movimentare un po’, ma non tanto, la trama si introduce un amico di Bella, un licantropo, che la corteggia per quattro film senza molti risultati, per poi innamorarsi al quinto episodio della figlia di lei! Si avete capito bene: non siamo in una soap, ma ci andiamo vicini! Al di là della trama, degli attori e di tutto quello che non funziona in questa saga, quello che veramente mi fa considerare questi film pessimi sono i messaggi del tutto sbagliati che lanciano vestiti da un alone di buonismo che li fa sembrare giusti: l’ossessione paranoica di Bella per Edward che nel secondo film sfocia nella psicosi, la mancanza totale di amor proprio della protagonista messa in evidenza dall’unica figura negativa dell’allegra famiglia di vampiri, Rosalie, che, di punto in bianco cambia completamente atteggiamento nell’ultimo film, sfiorando lo sdoppiamento di personalità, uno pseudo “imprinting” dell’amico mannaro che per quattro film ha dichiarato amore eterno a Bella e che in un istante si innamora di sua figlia appena nata!! Il tutto recitato in un modo così brutto che il gruppo estivo della parrocchia avrebbe saputo fare di meglio: un esempio fra tutti, ogni volta che Edward bacia Bella, sembra che stia per vomitare! In realtà doveva es-
sere un espressione simile all’irresistibile impulso di morderla, ma il “grande talento” di Pattinson fa pensare che la Stewart avrebbe fatto meglio ad evitare l’insalata acciughe e cipolle prima di andare in scena! Ecco perché sperai fino alla fine che morissero tutti! E invece no, nessun cacciatore, nessun Van Helsing a salvare la situazione! Van Helsing... il famoso esperto di vampiri che riuscì ad uccidere Dracula... non ricordate? Feci fatica anche io a riconoscere il personaggio nell’omonimo film di Stephen Sommers interpretato da Hugh Jackman: il film si apre con un improbabile inseguimento di Mr Hyde sui tetti della cattedrale di Notre Dame e la conseguente uccisione di questo da parte di Van Helsing. Potrei fermarmi qui. Non serve aggiungere altro per capire che questo film è il frutto di una fantasia contorta e sfrenata in preda alle allucinazioni che solo una brutta sbronza, e una dose di acidi possono creare. In mezzo il sig. Sommers ci ha messo di tutto, come se si fosse trovato a fare i conti con scene e personaggi scartati da altri film e avesse deciso di “frullare ” tutto insieme con l’aiuto di effetti speciali fatti in casa: troverete Vaticano, Frankestein, licantropi, l’eroina sexy e l’eroe in preda a crisi mistiche che non sa bene come sconfiggere il cattivo, Dracula, appunto, che, non si sa perché, in questo film cerca di riprodursi fecondando delle uova simili a quelle dei ragni... Credevo di essere ubriaca anche io a tratti, ma vi assicuro che è tutto vero!
In principio fu “Lo squalo”
Basta parlare di mostri e vampiri, e tuffiamoci nel film cult che ha terrorizzato le mie estati da bambina! Chi non sente un leggero brivido alle prime note di quella colonna sonora di Williams che preannunciava l’arrivo del temutissimo squalo bianco: dalla geniale inquadratura da sotto che faceva vedere il punto di vista dello squalo, alla pinna che lentamente sbucava fuori dall’acqua e poi...tack! Che genio quello Spielberg: ha trasformato la baia dei sogni nel lido degli incubi! Non per niente con questo film si portò a casa 3 Oscar! Peccato che poi abbiano deciso di farne altri tre... Il secondo, tutto sommato sembra il sequel riuscito del primo: stessa località balneare, stesso poliziotto diventato adesso capo della polizia, che comunque nessuno prende ancora sul serio...sparizioni fra i bagnanti, la giusta suspense, peccato che nel finale gli effetti speciali non sono proprio come li avrebbe fatti Spielberg e la carcassa dello squalo che brucia sia visibilmente di gomma... ma il tre e il quattro... a tratti risultano addirittura comici per le scene talmente paradossali da essere palesemente finte, fatte con effetti di bassa lega e una grafica ridicola, simile ai video -giochi del vecchio “Commodore 64” e montata male... la trama è sempre più sfilacciata e il galleggiare di braccia e teste mozzate non fa più nessun brivido!
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Ma questo è niente se si pensa che il capolavoro di Spielberg ha dato il via ad una produzione di film assurdi come “Mega Shark contro Mega Oktopus” o “SharkNado”, squali grandi come navi da crociera contro grandiose piovre, o che volano in mezzo ad un tornado e, piovendo a terra, divorano a caso tutto quello che incontrano... Guardando questi film, l’unica spiegazione logica che ho trovato è che sono fatti, magari, da un’associazione “salviamo gli attori disoccupati dei telefilm di vent’anni fa”, perché io sfido chiunque ad interpretare un film del genere, se non sei proprio disperato come gli ex protagonisti di serie come “Beverly Hills” finiti ormai in disgrazia, con qualche debito di troppo con le case di cura e il bar all’angolo: basti pensare che una delle scene più “belle” di “Sharknado” è quella in cui il protagonista salva la figlia inghiottita dallo squalo, facendosi mangiare a sua volta e aprendogli la pancia con una sega elettrica! Ed Entrambi ne usciranno illesi, senza nemmeno un graffietto!
I “meravigliosi film in costume”
Ma, in cima alla classifica di film che mi hanno lasciato veramente senza parole, troviamo sicuramente “I tre moschettieri”, film “fantasy” del 2011... ed effettivamente di fantasia il signor Anderson ne ha avuta tanta, tantissima, forse troppa! Quando lessi l’omonimo romanzo di Dumas, pensai che fosse una sceneggiatura già bella e pronta, con una
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bella trama avvincente, un ritmo incalzante, colpi di scena, insomma, un ipotetico regista non avrebbe dovuto far altro che prendere la storia così com’è e farci un film di sicuro successo! E invece no... tutti i film fatti sui tre moschettieri sono fedeli solo in parte alla storia, e le aggiunte non sono spesso delle migliori, ma tutto sommato, ci danno una idea abbastanza credibile sul periodo storico e sui personaggi. Ma stavolta si assiste al “trip fantasy” più sconcertante della storia: penso che Dumas si sia rivoltato almeno una decina di volte nella tomba! Secondo me Anderson scrisse la regia di questo film, dopo aver giocato per dodici ore filate ad Assassin’s Creed, bevendo qualcosa di forte, molto forte: il film inizia in un modo quasi credibile, con la voce fuori campo che fa il punto della situazione! Certo, definire la Francia un paese pacifico alla vigilia del XVII secolo mi sembrò subito un azzardo, ma, in confronto a quello che sarebbe seguito da lì a poco, è proprio una sottigliezza! La scena si apre a Venezia, e, come sempre nei film, c’è il carnevale, come se a Venezia non facessero altro: una guardia fa la ronda quando dalle acque emerge con una specie di muta e maschera d’ossigeno, un oscuro signore che sfodera due balestre a ripetizione...pensai subito che avevo sbagliato il dvd con quello di un film parodia, invece no! Morto il soldato, l’assassino si toglie la maschera, fermo immagine con photoshop e la scritta
“Athos”...stessa cosa poi per Milady, Milla Jovovich, molto più credibile come cacciatrice di zombie che come Lady de Winter! Un Luke Evans nei panni di Aramis, sembra, in realtà provare le scene del Dracula che avrebbe interpretato l’anno dopo, sfoggiando un lungo mantello nero, e salti di venti metri fra i canali, senza mai sfiorare l’acqua, mentre recita, in italiano, il rosario! E poi, il solito Porthos, grosso e ubriacone come sempre. E che ci facevano a Venezia: dovevano rubare, udite udite, i progetti della famosa Aeronave di Leonardo da Vinci! Giuro che mi sono documentata, ma, nonostante Leonardo abbia studiato il volo, costringendo anche il suo aiutante a schiantarsi ehm... a provare la macchina del volo dalla collina di Fiesole, e intuendo nei suoi studi la fisica che avrebbe poi portato alla costruzione della mongolfiera alla fine del 1700, e dell’elicottero nel ‘900, non c’è nulla di suo sull’aeronave, meglio conosciuta come dirigibile. Fu, piuttosto Francesco Lana che nel 1670 progettò un’aeronave, una nave appesa a quattro sfere metalliche vuote, che, secondo il principio d’Archimede, avrebbero ricevuto una spinta verso l’alto sufficiente a sollevare la navicella e il suo equipaggio; il progetto non fu mai realizzato...ma non secondo il signor Anderson che rese le sue spettacolari quanto evidentemente finte Aeronavi le vere protagoniste del film, nonostante il fatto che nel romanzo non ci fosse nulla di lontanamente simile.
Infatti, Milady cede i progetti al duca Buckingham, alias Orlando Bloom, che atterrerà con una di queste proprio nel giardino del Louvre davanti al più patetico re Luigi XIII della storia. Cos’altro dire? I moschettieri, al posto della casacca sfoggiano degli attillati vestiti di pelle nera, tanto stretti che il “piccolo” Logan Lerman, nei panni di un D’Artagnan in preda alle turbe adolescenziali, va in giro, anche a corte, con la giacchetta/chiodo completamente aperta...duelli rovinati da un rallenti stile Matrix e spade respinte a mani nude, riadattamenti ridicoli di attrezzature da Mission impossible che fanno calare la Jovovich dall’alto , per poi introdursi furtivamente nella camera della regina superando un allarme, lo so che non mi crederete, a sensori laser! Solo che il laser non c’era ancora nel 1600 e allora lo hanno sostituito con dei fili dorati... E il Capitano De Treville? Il capitano dei moschettieri che sullo stemma aveva la scritta “Fidelis et Fortis”, l’uomo tutto d’un pezzo che incarnava gli ideali del vero moschettiere? Non pervenuto...si è preferito dare spazio ai tentativi ben riusciti di distruggere un bel romanzo con un film talmente brutto che non merita nemmeno il titolo che porta! E altro che amor di patria trasuda dai valorosi moschettieri ,“Scegli l’amore, la Francia penserà a se stessa!” dirà Athos!
Orrori made in Italy
E noi? Credete che solo all’estero facciano dei film brutti? Eh, vi piacerebbe fare zapping la sera e avere l’imbarazzo della scelta fra una commedia brillante o un film impegnato che non ci porti al suicidio! E invece no! Siamo bravissimi a produrre delle autentiche baggianate, e a ripeterle pure! Basti pensare ai film dei Vanzina : appena leggete un titolo “Vacanze di /in” state pur certi che si tratta di loro! Io una volta mi forzai a vederne uno per inte-
ro e mi chiedevo man mano che lentamente il film andava avanti, perché non riuscissi a ridere! Eppure doveva essere una “esilarante commedia”, ma io li trovai patetici tentativi di voler far divertire a tutti costi, con i cliché più scontati del mondo : il marito che dice alla moglie di partire per affari e invece va con l’amante, sempre giovane e sexy, si ritrova poi nello stesso albergo della moglie che ricambia il favore con il migliore amico. A questo punto cambiate location, cambiate città, cambiate stagione e avete pronto il “Cine panettone” o il tormentone dell’estate! Perché? Perché devo sopportare le battute in toscanaccio di Pieraccioni uguali in tutti i film, perché devo sopportare le caricature di Panariello o le volgarità di de Sica? E qualcuno ha ancora il coraggio di dire che la cosiddetta “Commedia sexy all’italiana”, Lino Banfi & co per intenderci, è da considerarsi ormai un cult, un patrimonio del nostro cinema, film che hanno fatto l’Italia! Ma se vedere un patetico omuncolo di mezza età sbavare dietro alla gonna di una cameriera sexy è da considerarsi un film che ha fatto la storia, mi posso spiegare come siamo caduti in basso negli ultimi vent’anni noi italiani che ci strappiamo i capelli se viene annullata una partita o viene chiusa una discoteca e ce ne freghiamo se i teatri chiudono e vengono negati i finanziamenti alle orchestre e ai cori italiani! Per non parlare delle commedie mocciose, cioè di Moccia, l’autore che ancora legge l’adolescenza con uno sguardo viscido e morboso come se tutto girasse solo attorno alla smania della “prima volta” , facendo interpretare i suoi film da ragazzini presi dalla fermata dell’autobus e che recitano con la stessa intensità con cui masticano una gomma americana.
Conclusioni
Perché quando guardiamo un film che ci piace ci addormentiamo sem-
pre agli ultimi cinque minuti, durante la pubblicità e ci svegliamo poi arrabbiati come un’ape in macchina, proprio ai titoli di coda? E invece, quando di notte mi metto a guardare questi film per dormire, niente! Passano “mandrie di pecorelle” sotto i miei occhi, ma, il sonno non arriva!? E allora inizio a pensare, a quando eravamo veramente capaci di far ridere nel modo intelligente, cosa che i nostri comici sembrano aver dimenticato; dicono “la crisi”... l’alibi perfetto per i migliori fallimenti! Eppure nel dopo guerra abbiamo fatto film capolavoro con Totò come “Siamo uomini o caporali”, “Questa è la vita” “dov’è la libertà?”, senza scomodare il grande Charlie Chaplin, che con un sorriso garbato ci faceva anche riflettere... Invece, siamo passati dai “Soliti Ignoti” ai “Soliti Idioti” pretendendo che la demenzialità sia la chiave per far ridere... O quando facciamo un film impegnato... Dio mio, dovremmo poi andare in analisi per capirlo! Eppure gli autori bravi ce li abbiamo, ed anche i grandi attori non mancano... e allora perché devo vedere la genialità di Benigni alle 23.40, fra un tg notte e l’altro e sopportare le solite repliche ad oltranza? Forse, come per tutte le cose, siamo in quella fase in cui guardiamo le cose stupide o sbagliate e non ci ribelliamo, forse per pigrizia, o forse, ancora peggio, perché ci stiamo abituando allo squallore, alla bruttezza e non abbiamo più voglia di pretendere di più, di credere che chi si contenta alla fine “gode così così”, per citare Ligabue, perché “ci sono problemi più grandi” e, alla fine, non importa a nessuno se ci fanno credere che nel 1600 facevano le guerre con i dirigibili. E allora, tanto vale spegnere la tv: almeno questa con un telecomando la posso oscurare, ma il mondo che ci stanno distruggendo, quello ancora non ho capito come si fa a cambiarlo.
Uno zibaldone di ovvietà Potrà sembrare strano che una rivista improntata dall’editore al pensiero scientifico marxista-leninista si occupi frequentemente di temi religiosi delle più diverse fantasie. Abbiamo però precisato, in un precedente articolo dedicato all’Islam, che il nemico più pericoloso dell’umanità non è tanto la religione (vale ripeterlo: non la religiosità individuale, ma l’organizzazione strutturata delle innumerevoli “parole” delle altrettanto innumerevoli divinità), quanto l’ignoranza sulla quale si fonda, appunto, la pre-potenza delle religioni strutturate. Nessun problema quindi ad affrontare temi proposti dalle religioni strutturate per farne comprendere la pericolosità della loro funzione asservita alla conservazione dei rapporti di dominio umano nei quali Dio, qualunque Dio, non c’entra niente. Sollecitati da un articolo del prof. Donati, affrontiamo in questo numero l’analisi dell’ultima Enciclica del papa gesuita argentino. Pubblichiamo due articoli: il primo del prof. Donati diciamo di taglio filosofico e il secondo di un docente dell’Università Bocconi di taglio più economico. Le letture dell’Enciclica sono, ovviamente, innumerevoli e
diverse, anche fortemente conflittuali all’interno dello stesso clero cattolico, soprattutto nord americano (se volete cercatele in internet, a noi bastano le due che pubblichiamo). Per parte nostra, infatti, ci limitiamo a poche osservazioni che sono bene riassunte nel titolo sopra. Parlare del dramma ecologico del surriscaldamento del pianeta in un contesto mondiale di ancora diffusa incredibile povertà, violenza e ignoranza umana fa la pari per banalità (citiamo un articolo di Chicco Testa) con l’intervento di Occhetto sulla distruzione della foresta amazzonica pronunciato all’apertura del Congresso del PCI che portò alla sua dissoluzione di fronte al crollo dei sistemi del socialismo reale orientale. La terra con i suoi vulcani, terremoti, glaciazioni e diluvi universali è il magnifico “creato di Dio” che l’uomo (ma non era lui l’immagine e somiglianza di Dio?). provocandone il surriscaldamento sta mettendo a rischio. Ma di cosa? Non certo della sopravvivenza della terra per qualche grado in più o in meno, ma della esistenza dell’umanità che, dunque, dovrebbe torgliersi di mezzo per salvare il “creato di Dio”. Non andiamo oltre anche perché non ce ne importa più di tanto. (SR)
l’Enciclica “Laudato si’” ovvero, sinere mundum ire quomodo vadit* * Espressione tratta da Rossi P., La pena di morte. Scetticismo e dogmatica, Pan, Milano, 1978, p. 32: “lasciare che il mondo vada come sta andando”.
di Alberto Donati Sommario: Introduzione. I contenuti dell’enciclica: a) l’assolutismo religioso; b) il ricorso al Liber Scripturae; c) il demagogismo religioso; d) Il demagogismo politico; e) il ricorso al cambiamento degli stili di vita; f) segue: il “meno è di più”; g) l’alienazione, ovvero, il rifiuto dell’autoresponsabilità come soluzione della problematica ecologica e sociologica; h) valutazioni conclusive. Introduzione Il sé dicente vicario del Dio trinitario sulla Terra, Papa Francesco, depositario della verità in virtù di tale autoqualificazione, con l’enciclica “Laudato Si’” (Libreria Editrice Vaticana, 2015) ha esternato il suo pensiero sulla problematica ecologica. La trattazione, per altro, non riguarda strettamente il rapporto tra l’uomo e la natura, ma finisce per abbracciare il sistema politico nel suo complesso, vale a dire, la globalizzazione economica e la relativa sociologia. I termini della tematica sono stati, e continuano ad essere, ampiamente dibattuti in tutte le possibili sedi nazionali ed internazionali. Pressoché unanime è l’accorata segnalazione del pericolo di una tragedia ecologica planetaria. Ciò posto, ci si deve domandare quale possa essere l’apporto pontificio. Al riguardo, è opportuno tenere presente che il cattolicesimo non è una religione, ma una ideologia politica che si serve della religiosità per instaurare il proprio dominio, tramite la persona del pontefice, su tutta l’umanità. I suoi valori ordinanti, come attestato da una tradizione ormai bimillenaria, sono: l’assolutismo teologico e, quindi, l’intolleranza; la subordinazione dello Stato alle sue direttive; l’oscurantismo; la charitas, vale a dire, il rifiuto del Decalogo e della cultura degli inherent (natural) rights; la realizzazione della diade: povertà ed ubbidienza. Il pontificato romano, a spese degli ignari contribuenti, viene svolgendo
una potente azione politica internazionale allo scopo di porsi come il solo depositario dei valori che necessitano a far sì che l’essere umano risolva le proprie problematiche, quali, la pace, la fame, la corretta connessione con la natura, il giusto rapporto tra l’area industrializzata e quella in via di sviluppo.
I contenuti dell’enciclica: a) l’assolutismo religioso Il pontefice non parla come primus inter pares, ma come vicario del Dio trinitario sulla Terra, come unico depositario della verità e, in quanto tale, come il solo legittimato al governo di tutto e di tutti nei termini del diritto canonico. Ciò è più che sufficiente ad indurne la delegittimazione. Da questo punto divista, il suo messaggio, qualunque ne sia il contenuto, può solo essere strumentale rispetto alla legittimazione ed alla imposizione di un tale primato. b) Il ricorso al Liber Scripturae I testi religiosi sono molteplici e molteplici ne sono le relative interpretazioni. L’enciclica si basa sul testo biblico attestato dalla tradizione cattolica. Ciò ne importa una duplice limitazione. La prima, deriva da questa stessa scelta che priva della medesima autorità tutti gli altri testi sacri, anche di quelli riscontrabili nella stessa area cristiana, perpetuando così l’antagonismo religioso come sempre portatore di conflittualità politiche dagli esiti tragici.
La seconda, è data da ciò, che tutti i testi sacri, ivi compreso quello cattolico, sono meri containers, il cui riempimento è rimesso al libero apprezzamento delle generazioni presenti guidate dai religiosi (enciclica, cit., § 199). Non è il messaggio divino ad orientare gli uomini, sono quest’ultimi a determinarne i concreti contenuti. L’arbitrio, invece della certezza, diviene così la categoria ordinante l’approccio alle problematiche umane.
c) Il demagogismo religioso Il capitolo II dell’enciclica è dedicato al rapporto tra Dio e la natura, tra quest’ultima e l’uomo. Il quadro d’insieme che emerge è caratterizzato dalla bellezza e dall’armonia della natura, donde l’inammissibilità dell’attuale comportamento umano volto ad indurne il deterioramento. L’enciclica, per altro, si guarda bene dal dire che questo giudizio non ha alcun fondamento nel Nuovo Testamento. In esso, infatti, diversamente da quanto attestato dal testo veterotestamentario, l’universo è destinato alla distruzione ad opera dell’Apocalisse e ad essere sostituito dalla Nuova Gerusalemme, nuova perché informata, non al primato del Decalogo, ma a quello della charitas, vale a dire, del chaos. I cristiani, in particolare quelli cattolici, non ne sono che le avanguardie, i predispositori. Questa parte dell’enciclica, volta ad esaltare la bellezza del creato, donde il dovere di rispettarla, non è, pertanto, che demagogia teologica.
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d) Il demagogismo politico Secondo il documento pontificio, la responsabilità del grave decadimento ecologico in atto sarebbe da imputare all’“antropocentrismo” (§§ 115-116), vale a dire, a quella cultura, ancora dominante, che pone l’uomo come protagonista della propria vicenda storica. Questa visione antropocentrica si coniuga con la tecnoscienza e la correlata tecnocrazia entrambe sussunte nel sistema economico ormai globalizzato, donde la decadenza di pari dimensione in atto. “Ciò che sta accadendo ci pone di fronte all’urgenza di procedere in una coraggiosa rivoluzione culturale” (§ 114). Essa consiste nel transitare dalla centralità dell’uomo a quella del Dio trinitario e, quindi, a quella del Pontefice che assume di esserne il vicario. La denuncia ha, pertanto, anch’essa, carattere demagogico in quanto volta a sostituire l’antropocentrismo con il papato-centrismo. Più specificamente, i mali indotti dal sistema capitalistico della produzione sarebbero rimediabili mediante l’induzione di una società in cui il lavoro sia accessibile a tutti (§ 127), ciò che può avvenire tramite la promozione di “una economia che favorisca la diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale” (§ 129), mediante l’attuazione della dottrina sociale della Chiesa secondo quanto prescritto dall’enciclica Centesimus annus di Giovanni Paolo II. Per altro, si deve osservare che un tale programma dissesterebbe l’economia capitalistica con la conseguenza di indurre una crisi economica e politica devastante. Il rimedio è peggiore del male. L’idea del lavoro accessibile (?) a tutti ha, dunque, anch’essa natura demagogica in quanto volta a suscitare il consenso delle masse diseredate, del tutte ignare che la loro condizione sarebbe destinata a rimanere non tanto invariata, quanto piuttosto aggravata dalla presenza del dominato pontificio. e) Il ricorso al cambiamento degli stili di vita In attesa che l’essere umano realizzi questa conversione all’economia papista, l’enciclica dà delle indicazioni che dovrebbero condurre ad un adeguato contenimento della deriva ecologica. Per altro, esse, volutamente, sono tali da lasciarla invaria-
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ta. Il loro scopo rimane pur sempre quello di condurre l’uomo sotto l’egida pontificia inducendo l’illusione che le problematiche ecologiche e sociologiche stiano realmente a cuore alla Chiesa. I suggerimenti si sostanziano non nella indicazione di strumenti specificamente idonei a modificare il corso degli eventi, ma in proposte, per lo più, già avanzate in tutte le numerosissime sedi laiche in cui la tematica è stata affrontata: “Urgono accordi internazionali che si realizzino, considerata la scarsa capacità delle istanze locali di intervenire in modo efficace” (§ 173); “La previsione dell’impatto ambientale delle iniziative imprenditoriali e dei progetti richiede processi politici trasparenti e sottoposti al dialogo” (§ 182). A queste semplicistiche e, quindi, demagogiche, direttive si aggiunge l’invito a ricorrere al principio di sussidiarietà (§ 196), il cui significato risiede nella deresponsabilizzazione dei centri decisionali: “Non si può pensare a ricette uniformi, perché vi sono problemi e limiti specifici di ogni Paese e regione” (§ 180). Ciò sta a significare che viene demandato alla base il compito di provvedere alla problematica ecologica, vale a dire, al pluralismo indefinito e caotico delle iniziative locali, donde le inevitabili conseguenze devastanti, ma in linea con le aspettative dell’Apocalisse.
f) Segue: il “meno è di più” La soluzione della tematica viene, più specificamente, affidata alla realizzazione della “conversione ecologica”, vale a dire, alla prassi della “sobrietà”, in altri termini, al “cambiamento degli stili di vita”, alla riduzione individuale e, quindi, collettiva, dei consumi (§ 209). In questo senso, il “meno è di più” (§§ 222-225; vd. anche § 211). I consumatori, dunque, dovrebbero autoridurre i propri consumi, dando così luogo ad una sorta di sciopero della fame al fine di costringere le lobbies capitalistiche a modificare la produzione. Un tale mutamento, infatti, “potrebbe arrivare ad esercitare una sana pressione su coloro che detengono il potere politico, economico e sociale. [...] E’ un fatto che, quando le abitudini sociali intaccano i profitti delle imprese, queste si vedono spinte a
produrre in un altro modo” (§ 206). Questo itinerario verso la povertà è giustificato nell’enciclica anche nei termini dell’“amore sociale” (§ 231), dello sviluppo di “una nuova capacità di uscire da sé stessi verso l’altro” (§ 208). Il sacrificio individuale, in quanto strumentale rispetto alla realizzazione del bene comune, si traduce, infatti, in tale amore (§§ 233-237) che, a sua volta, rinviene la sua più compiuta espressione nella pratica dei sacramenti (§§ 233-237), vale a dire, nell’inserimento dell’essere umano nella struttura ecclesiale. Ciò significa mandare in crisi, senza la predisposizione di una modalità realisticamente alternativa, il sistema capitalistico della produzione in quanto basato sul consumismo. Ancora una volta, il rimedio è peggiore del male, per altro, a tutto vantaggio della Chiesa poiché, come attestato dall’esperienza storica, tanto maggiore la sofferenza sociale, tanto maggiore l’affluenza nei luoghi di culto. Grandezza della Chiesa e grandezza della povertà sono termini correlativi. Ancora una volta, si rende evidente la strumentalità della problematica ecologica rispetto all’assoggettamento della persona umana al primato pontificio.
g) L’alienazione, ovvero, il rifiuto dell’autoresponsabilità come soluzione della problematica ecologica e sociologica L’enciclica si avvia al termine con l’indicazione della panacea di tutti i mali dell’uomo, vale a dire, mediante il rinvio al protagonismo del Dio trinitario e di Maria, madre terrena della seconda persona della Trinità (§§ 238242). L’enciclica si conclude, infatti, con due preghiere, la prima delle quali demanda a tale Dio il compito di risolvere i problemi umani: “riversa in noi la forza del tuo amore affinché ci prendiamo cura della vita e della bellezza. Inondaci di pace, perché viviamo come fratelli e sorelle senza nuocere a nessuno. [...] Risana la nostra vita, affinché proteggiamo il mondo e non lo deprediamo, affinché seminiamo bellezza e non inquinamento e distruzione. Tocca i cuori di quanti cercano solo vantaggi a spese dei poveri e della terra” (p. 232; vd. anche § 207). Lo scopo di questa preghiera, comune del resto a tutte le religiosità, consiste nel deresponsabilizzare l’uomo demandando a Dio il compito di risolvere le problematiche da cui è afflitto. Per altro, i dissesti sociali sono, di regola, da imputare al fatto che l’essere umano non segue la ragione, non si attiene a questo strumento che Dio gli ha
dato per provvedere al meglio alla proprie necessità. L’uomo, dunque, da un lato, si allontana dalla ragionevolezza, dall’altro, pretende che sia Dio ad occuparsi delle conseguenze. La Chiesa cattolica suffraga questo comportamento empio ben conoscendo i vantaggi che ad essa ne conseguono poiché, come già si è detto, tanto maggiore la sofferenza sociale, tanto maggiore la superstizione religiosa, linfa vitale della Chiesa stessa. Per questa via, all’essere umano, ormai deresponsabilizzato, non resta che affidarsi al corso delle cose, talché, conclusivamente “Camminiamo cantando! Che le nostre lotte e la nostra preoccupazione per questo pianeta non ci tolgano la gioia della speranza” (§ 244). Altrimenti detto: “sinere mundum ire quomodo vadit” (“lasciare che le cose vadano come stanno andando”). Ciò sta ulteriormente a significare che la soluzione dei problemi terreni potrà avere luogo soltanto nella dimensione metaterrena: “Sì, stiamo viaggiando verso il sabato dell’eternità, verso la nuova Gerusalemme, verso la casa comune del cielo. Gesù ci dice: ‘Ec¬co, io faccio nuove tutte le cose’ (Ap 21, 5). La vita eterna sarà una meraviglia condivisa, dove ogni creatura, luminosamente trasformata, occuperà il suo posto e avrà qualcosa da offrire ai poveri de-
fi¬nitivamente liberati [dal primato del Decalogo e, quindi, della razionalità]” (§ 243). Il Dio dei cristiani è un Dio sofferente. Da un tale Dio non ci si può aspettare l’emancipazione terrena dalla sofferenza, al contrario, la sua esaltazione. La religiosità cristiana è, oggettivamente, un culto masochistico. Tanto maggiore la sofferenza, tanto maggiore la propensione verso l’Apocalisse, tanto maggiore la superstizione, tanto maggiore la disposizione verso l’alienazione transmondana, altrettanto maggiore l’invadenza politica della religiosità pontificia come attestato dalla quotidianità.
h) Valutazioni conclusive Svolgendo una valutazione conclusiva, i valori che emergono dall’enciclica sono i seguenti. Il primo, è costituito dall’oscurantismo. Quest’ultimo è denotato dal convincimento secondo cui la soluzione dei problemi umani debba essere rinvenuta nel testo biblico secondo i significati che esso assume sulla base del magistero pontificio. Segue l’assolutismo religioso e politico del pontefice in quanto vicario del Dio trinitario sulla Terra e, quindi, depositario della verità. E’ veramente incredibile che si possa dare, nel terzo millennio, tanto credito ad un essere umano che si autoqualifica come divino. Ciò, tuttavia, ha due motivazioni: da un lato, l’ignoranza teologica in cui viene tenuta la popolazione; dall’altro, il vantaggio che le lobbies politiche ed economiche ne traggono, consistente nell’assoggettamento ad esse delle masse sfruttate. L’assolutismo del pontefice è anche di tale natura da non assumere la responsabilità politica delle proprie affermazioni, nel senso che delle sue linee programmatiche non risponde di fronte alla società civile. Trattasi di un potere irresponsabile, in ciò il carattere necessariamente demagogico della sua azione. Infine, si deve considerare che dalla Chiesa non può derivare un miglioramento della condizione umana anche perché essa è parte integrante delle lobbies capitalistiche traendo dal capitale industriale e, soprattutto, da quello finanziario, quanto le necessita per lo svolgimento della sua azione imperiale, non diversamente da quanto accadde nel sistema d’Antico Regime, di famigerata memoria, di cui essa è stata parte fondante in virtù della predicazione dell’“amore sociale” (charitas) e della imposizione dell’itinerario sacramentale.
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Una “rivoluzione culturale”? Tratto da un articolo pubblicato on line di Fabrizio Pezzani, professore ordinario di Economia aziendale all’Università Bocconi di Milano A distanza di poco più di due anni dalla sua nomina a Pontefice, Papa Francesco con la nuova enciclica Laudato si’ rinnova in modo sempre più forte il messaggio affidato al suo pontificato. Il Papa con la scelta del nome aveva dato subito il senso di una missione volta a rendere l’attuale società rispettosa della dignità di persona di ogni uomo,oggi diventato oggetto – cosa o ancora puro strumento di finalità esterne assoggettate ad un potere di signoraggio esercitato con lo strumento della finanza. Le povertà, la disuguaglianza, l’emarginazione, la disoccupazione, il degrado morale, la sofferenza sono diventati non più problemi da affrontare nel rispetto dei diritti universali dell’uomo sottoscritti da tutte le nazioni nel 1947 alla fine della seconda guerra mondiale in occasione della costituzione dell’Onu, ma solo “danni collaterali” ad un disegno di realizzazione egemonica di pochi rispetto ai tanti. Siamo diventati una società “totalmente” asimmetrica a quella disegnata e sperata in quegli anni di rinascita del mondo al senso ed al valore della vita umana. L’asimmetria che si evidenzia nel collasso sociale è l’espressione di un modello socioculturale fallito e che la crisi che stiamo affrontando è di natura antropologica e culturale; in questo senso l’enciclica parla di “rivoluzione culturale” come necessità di cambio di un paradigma che non è più in grado di rispondere alle domande ed ai problemi che dobbiamo affrontare. Il paradigma “tecnico-razionale” del nostro tempo che ha trovato nella finanza la sua estrema espressione è fallito nei fatti e va cambiato. La necessità di rivederlo e ripensarlo è posta con drammaticità, come ammonisce Papa Francesco, dall’evidenza dei fatti: “vedere i fatti e gli eventi dell’economia ma specie
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del suo surrogato, la Finanza, che condizionano il divenire delle nostre società in modo diverso impone l’assunzione di “paradigmi” culturali differenti e coerenti con la mutata realtà. L’epistemologo Kuhn definiva questo cambiamento di abito mentale come”un processo rivoluzionario” – come dice il Papa – ma è un passaggio indispensabile per arrivare ad una più raffinata e dettagliata interpretazione dei fatti e del loro divenire in modo più costruttivo all’evoluzione delle società dell’uomo” (F. Pezzani, “È tutta un’altra storia. Ritornare all’uomo ed all’economia reale”, Aprile 2013, UBE). L’enciclica, pertanto, va al di là di una posizione solo religiosa, ma va vista per la ricerca di una totalità di pensiero che possa rispondere ai problemi in una lettura anche sociale, economica, politica e culturale. Il messaggio di Papa Francesco, peraltro, si è fatto sempre più alto, chiaro, forte e diretto senza inutili fraintendimenti, quest’enciclica volta a preparare il Giubileo della “Misericordia” a fine anno si pone come un richiamo alle coscienze di tutti con una denuncia alle distorsioni, anche criminali, di un modello socioculturale che ha fatto dell’interesse personale da raggiungere ad ogni costo lo scopo supremo della vita anche a costo di normalizzare comportamenti illeciti. In questo modo ha segnato il confine entro cui ogni singola persona, secondo il suo libero arbitrio, deve decidere dove stare: o per una società umana rispettosa delle singole individualità in un contesto di solidarietà oppure in un sistema giugulatorio di interessi personali a scapito degli altri. La linea è chiara e le reazioni di opposizione a livello internazionale legate al mondo anglosassone, quello della finanza, non hanno tardato a condannare
questa dichiarazione di degrado sociale minimizzando il senso della disuguaglianza o anche innalzandola, come ha fatto il sindaco di Londra, a elemento fondante dello sviluppo economico, quello sociale viene dopo; che la città di Londra sia considerata dagli stessi inglesi come la città con la peggiore qualità di vita del paese è un fatto che non lo sfiora per niente. Le reazioni nel paese sono state orientate ad una visione superficiale e banalizzante – il Papa verde – oppure opportunistiche e strumentali – la disuguaglianza non è un problema sociale come riportava in un editoriale il Corriere della Sera (la pensavano allo stesso modo Luigi XVI, la Corona Inglese, i Romanov, l’ultimo imperatore ed anche adesso gli Usa, terzo Paese al mondo per disuguaglianza). Il richiamo al rispetto della “casa comune” è la necessità di tornare a vedere la natura come “Madre” da cui il termine “naturale” che si usava per indicare la normalità dei comportamenti in linea con l’armonia della natura. La natura è diventata invece una miniera da cui trarre tutto il possibile per la soddisfazione di desideri illimitati la cui realizzazione si scontra con la limitatezza delle risorse e con la guerra reciproca per il personale uso anche a scapito della loro perdurabilità nel tempo. L’assalto indiscriminato alle risorse della terra dipende da un modello socioculturale che ha messo come fine massimo la realizzazione dell’interesse personale e non il bene comune; l’economia che una volta aveva un fine esterno ad essa, la società giusta, ora ha un fine interno ad essa, la massimizzazione dell’economia come tale. Abbiamo scambiato i fini con i mezzi e l’uomo è diventato oggetto e sacrificabile esattamente come un bene di consumo.
La massimizzazione della ricchezza eretta come verità sacrale, dice giustamente il Papa, ha giustificato i mezzi che consentivano la più rapida realizzazione del fine, così la finanza ha assunto il ruolo per produrre il più imponente travaso e concentrazione di ricchezza che la storia ricordi. Il potere della finanza ha assunto la dimensione di un senato virtuale sovranazionale, non democraticamente eletto, in grado di forzare i processi politici dei singoli stati alle finalità dello stesso che sono interne ad esso e non condivisibili con altri. La finanziarizzazione dell’economia reale è stata la conseguenza di un modello culturale privo di fondamenti scientifici ma legittimato dall’assegnazione di Nobel in economia che in realtà si occupano di finanza. L’economia, come tale, non viene più studiata come preminente ma subordinata alla finanza eppure le colonne della disciplina contabile si basano sull’evidenza che l’equilibrio finanziario dipende da quello economico e non viceversa. Eppure nel 1509 un grande italiano Fra’ Luca Pacioli, nella “De Divina Proportione” illustrata in parte da Leonardo da Vinci, aveva gettato le basi della ragioneria e della partita doppia in cui i valori di scambio venivano e vengono rilevati al fine di registrare le operazioni per determinare il reddito separatamente da quelle correlate ad movi-
menti finanziari che sono subordinati ai primi; le fondamenta della ragioneria sono state ignorate per portare la finanza sopra l’economia reale. La finanza altamente concentrata nel potere di pochi determina, così, le logiche sociali ed un dispotismo che avendo generato la spinta al debito oggi lo usa come”garrota”per perseguire i suoi interessi. Lo stesso Fondo Monetario Internazionale è diventato totalmente asimmetrico alle finalità di riequilibrio per le quali nel 1944 era stato costituito a Bretton Woods per il bene comune oggi dimenticato. Ma a chi risponde delle sue finalità il Fmi? La democrazia è altra cosa, dice Papa Francesco, ed una rivoluzione culturale che riporti l’uomo al ruolo di soggetto e non di cosa è nei fatti se non ci vogliamo davvero trovare di fronte al caos e la finanza va riportata al suo ruolo di esercizio del credito funzionale all’economia reale. Il sistema monetario ha sempre avuto un ruolo importante nei sistemi di potere ma fino ad oggi tale potere era controbilanciato da altri che oggi, invece, ne sono sottomessi; in questo modo lo squilibrio ha effetti negativi in una politica di sviluppo armonica sia sociale che economica. “Essere in possesso di un potere che non è definito da una responsabilità morale e non controllato da un profondo rispetto della persona signifi-
ca distruzione dell’umano in senso assoluto, Sempre più minacciosa diventa la perversione del potere e con essa la perversione della natura umana. Poiché non c’è azione che si esaurisca nel suo oggetto… ogni azione afferra anche colui che la compie... L’uomo diventa continuamente ciò che egli fa. Perciò se l’uso del potere continua a svilupparsi lungo le linee indicate non si può prevedere che cosa avverrà in chi usa del potere: distruzioni morali e rovine spirituali di natura sconosciuta” scriveva Romano Guardini nel 1954 in “La fine dell’epoca moderna. Il potere”; è stato tutto esattamente così! In questa chiave di lettura va interpretata l’enciclica, come un invito alla “misericordia” cioè alla solidarietà perché se”le società dell’uomo non hanno superato lo stadio in cui il soddisfare un certo numero di loro partecipi – la minoranza – ha come presupposto l’oppressione di altri suoi partecipi – la maggioranza – è comprensibile che gli oppressi sviluppino un’ intensa ostilità contro la civiltà, da essi consentita con il loro lavoro ma da cui ricevono una parte insufficiente. È inutile aggiungere che una civiltà che lascia insoddisfatti un così gran numero di suoi partecipanti e li spinge alla rivolta non ha prospettive – né merita – di durare a lungo”( Sigmund Freud,”L’avvenire di un’illusione” 1927 ).
Il 28 ottobre 1940 l’esercito italiano attacca la Grecia dal confine albanese con la parola d’ordine di Mussolini di “spezzare le reni alla Grecia”. In pochi mesi l’offensiva si trasforma in una rotta disastrosa e l’esercito greco respinge e insegue quello italiano sin quasi al mare. A salvare i resti disorganizzati dell’esercito italiano sarà la Germania che, rinviando l’invasione già programmata dell’Unione Sovietica, invade con le truppe corazzate la Serbia e in pochi giorni, quasi senza combattere, giunge sino a Salonicco ottenendo la resa incondizionata della Grecia. Seguiranno anni di occupazione militare della Grecia condivisa tra Italia e Germania, nel corso della quale i soldati italiani commetteranno atti di atrocità persino più gravi di quelli storicamente imputati ai nazisti. Su quei fatti è caduto il silenzio, ma non ne è stata cancellata la memoria. Quando quindi ci permettiamo di sfottere il lassismo attuale del popolo greco, cerchiamo di farlo sottovoce, perchè abbiamo una coscienza “sporca” e questa volta i tedeschi non saranno dalla nostra parte (per fortuna!).
Ο]ἰ µὲν ἰϖϖήων στρότον οἰ δὲ ϖέσδων οἰ δὲ νάων φαῖσ’ ἐϖ[ὶ] γᾶν µέλαι[ν]αν ἔµµεναι κάλλιστον, ἔγω δὲ κῆν ὄτ τω τις ἔραται ϖά]γχυ δ᾽εὔµαρες σύνετον ϖόησαι ϖάντι τ[ο]ῦτ᾽, ἀ γὰρ ϖόλυ ϖερσκόϖεισα κάλλος [ἀνθ]ρώϖων Ἐλένα [τὸ]ν ἄνδρα τόν [ϖανάρ]ιστον καλλ[ίϖοι]σ’έβα’ς ΤροQαν ϖλέοισα, κωὐδ[ὲ ϖα]ῖδος οὔδε φίλων το[κ]ήων ϖά[µϖαν] ἑµνάσθη, ἀλλὰ ϖαράγαγ᾽αὔταν [ϖῆλε φίλει]σαν Ὠρος. εὔκ]αµϖτον γὰρ [ἀεὶ τὸ θῆλυ] [αἴ κέ τις] κούφως τ[ὸ ϖάρον ν]οή[σῃ]ν. οὐδὲ νῦν, Ἀνακτορίας, ὀνέµναι σ’οὐ ϖαρειοῖσας. τᾶ]ς κε βολλοίµαν ἔρατόν τε βᾶµα κἀµάρυχµα λάµϖρον ἴδην ϖροσώϖω ἢ τὰ Λύδων ἄρµατα κἀνὄϖλοισι ϖεσδοµ]άχεντας [εὶ µεν ἴδαµεν οὔ δύνατον γένεσθαι λῷστ᾽ ὀν᾽ ἀνθρώϖοις, ϖεδέχην δ᾽ ἄραστηαι, τῶν ϖέδειχόν ἐστι βρότοισι λῷον λελάθεσθαι.]
Dicono che sopra la terra nera la cosa più bella sia una fila di cavalieri, o di ospiti, o di navi. Io dico: quello che s'ama. Chiunque può capirlo facilmente: colei che superava di molto tutti i mortali per bellezza, Elena, abbandonò lo sposo il più eccellente degli uomini e fuggì a Troia per mare. Dimenticò la figlia, dimenticò i cari genitori. Fu Afrodite a sviarla. Così ora mi torna alla mente Anattoria lontana. Oh, preferirei rivedere il suo amabile passo, il candore splendente del viso, piuttosto che i carri dei Lidi e battaglie di uomini in armi.
Σαπφώ (Saffo)
ην᾽ώς :έώ μναώίμ:δαώ ώ επι :νμ:νς.ώ ῴμνα ὸ ᾽ώ:,αώς ε ,αώς δώ:,αώΤἐγαωώην ῆοτώηῶ κψμπτώ χ:οτλώ μ σεώσᾶ κισαλώς δώ:οτώιρα ς πῆνςοτώ :οτώ ηῶώ κ ςκακινςοτλώ ς δώ : :πτ ιραώὸα ὰς ὲ τώς δώί νακ-ιὶαπτλώ:οτώηρώισ : ῆπ:νςοτώύσὰκιὶαπτώηνς ὲγτώ(κχώὰέεώς :έ μναώὸῆῆῶώὸ ῶώὸῆῆἶῆγαώίμ:ὲα)λώσχῆκὰ : : ινμσῖ: νώ ώ κῆκμ: :νς.ώηνέώ:᾽ώὸ ῶώ χ:κῦώ:κῦ ακιὲμι :κτώσὀα νώ:.αώς:ομναώς δώκχςώί ῶώὅ σε ί κεὲμθπωώισ: κῆοτώὰέεώίὰὶασ:κώ άεναλώὁ ηρώ:όςκτώ χ:᾽ώ κνσῖώ ῆὶκαώ(ὅθσαώς δώ:κψακι :κῦ:ῶώσᾶῆπ σαήώὅικν ώὰέεώ:έώ:νς:όισα ώ:κῖτ ὰσαα,μναώ χ:άώ ίμ:ναλώ ὁώ ηρώ :όςκτώ ὰὲασ: ν αόινμι ώίςώακιὲμι :κτ)ήώ μ:σώς δώιάῆνμ: εέώ μναώκὗ:κτώ:,αώ επι :νμι,αώίμ:ναω βενμ:κ:ὶῆπτλώἀέώ κῆν:νςέ Perciò è secondo natura per tutti l’attività economica che ha come oggetto i frutti della terra e gli animali. Essa, come dicemmo, ha due forme, l'attivita ̀commerciale e l'economia domestica: questa è necessaria e apprezzata, l'altra basata sullo scambio, giustamente riprovata (infatti non è secondo natura, ma praticata dagli uni a spese degli altri); perciò si ha pienissima ragione a detestare l'usura, per il fatto che in tal caso i guadagni provengono dal denaro stesso e non da ciò per cui il denaro è stato inventato. Perché fu introdotto in vista dello scambio, mentre l'interesse lo fa crescere sempre di più (e di qui ha pure tratto il nome: in realta ̀gli esseri generati sono simili ai genitori e l'interesse è moneta da moneta): sicché questa è tra le forme di guadagno la più contraria a natura. Aristotele, Politica