Poetica Comunista

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Poetica Comunista Raccolta I in collaborazione con

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Premessa In questa raccolta di poesie evocheremo la paura di aver sottovalutato il nostro umano vivere («La vita non è uno scherzo./Prendila sul serio/Ma sul serio a tal punto/Che [… ]/tu muoia affinché vivano gli uomini» - N. Hikmet, p. 13); descriveremo l’istinto di scrivere inevitabile come il nostro stesso esistere, nel bene e nel male, in mezzo ad altri uomini: «[…] prendi nota che prima di tutto/non odio nessuno e neppure rubo/ma quando mi affamano/mangio la carne del mio oppressore» (M. Darwish, pp. 17 - 18). Un uomo che non sappia tener conto delle esigenze, delle richieste d’aiuto, di un altro uomo che pure non conosce, rifiuta la propria identità, mentendo mortalmente a se stesso: «[…] semplicemente ci allontaniamo/da tutto, soli/con quello che resta di noi,/continuando ad essere esseri umani/senza essere umani/senza quella felicità» (J. Hirschman, p. 22). «Se mentiscono le antenne,/se le tipografie mentiscono, se mentiscono le insegne sui muri e gli avvisi del giornale,/[…]/se mentiscono le preghiere,/[…]/se mentiscono le nenie» (N. Hikmet, p. 14), le sensazioni evocate nelle poesie non possono invece mentire, perché non possono essere manipolate, scatenate ad arte. Così come non mente un bacio. Può mentire l’aspetto, può mentire l’educazione ricevuta, ma alla fine la pelle riconosce subito, appena sfiorata, le labbra che gli hanno dato il primo bacio ai tempi dell’infanzia; anche se molti dovessero essere i baci a seguire («Quanti sono i granelli di sabbia africana/che è sparsa in Cirene […]/[…]/questo è il numero dei baci» - Catullo, p. 33), quel bacio, più familiare di qualunque altro, ci perimetra, diventa dovere di vivere. Nell’invisibilità delle nostre sensazioni, nella loro apparente «[…] assenza che non desidera» (P. Eluard, p. 9), sono inscritti i nostri doveri: «[…]-qui/[…]/c’è da risollevarle, tutti insieme, cadute in questo fango,/nuovamente, certe antiche bandiere» (E. Sanguineti, pp. 5 - 6). Se qualcuno dirà che «[… ] c’è di che mangiare […]», e che quindi non dobbiamo preoccuparci né per noi stessi né per altri, forti delle nostre poesie, potremo rispondergli: «“Ma basta con queste idio-


zie/guarda la terra e il cielo sconvolti da cima a fondo!”» ( M. Tzedong, p. 26). Perché «se l’uomo rimane al suo posto, e il tuono al suo posto,/[…] se la terra non ode/come cade il sangue degli eroi/arrossati nell’immensa notte terrestre/[…] se ancora sopra l’albero sta il cielo» (P. Neruda, p. 37), tutto è solo apparentemente al proprio posto. «Ci sono lacrime/che non si possono tacere./Sono grumi di sale sul fondo del pozzo./[…]sono frasi spezzate sul tetto del mondo» (Saffo, p. 31); purtroppo «[…] il pianto è un angelo immenso,/il pianto è un violino immenso,/le lacrime imbavagliano il vento./E altro non s’ode che il pianto» (F. Garcia Lorca, p. 62). Lo scopo delle nostre esistenze, dei nostri baci, del nostro fare poesia, dovrebbe essere quello di «creare/risate sopra lo sfregio della tortura/[…]/fermezza nel rosso sangue del rischio/[…]/pace sopra il pianto dei bambini/[…]/pace sull’odio/creare pace con gli occhi asciutti/[…]/creare amore con occhi asciutti» (A. Neto, p. 30). Continuare a creare proprio in quei luoghi di confine della terra e dell’anima: «Sulle distese dove amore e pianto/marcirono e pietà, sotto la pioggia,/laggiù batteva un no dentro di noi,/un no alla morte» (S. Quasimodo, p. 45). E anche se «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi» (C. Pavese, p. 54), e forse avrà molte, troppe, bandiere in mano, «[…] i vinti di oggi sono i vincitori di domani/e il mai diventa: oggi!» (B. Brecht, p. 58). Marte sul grembo di Venere «s’abbandona vinto da eterna ferita d’amore» (Lucrezio Caro, p. 63). «Passeranno gli anni dei nostri tormenti» (V. V. Majakovskij, p. 49), senza rimpianti, senza il timore di dover dire un giorno «ho amato» (E. Guevara, p. 42). Questa è la nostra “Poetica Comunista”. Maria Sara Mirti


SANGUINETI

LA SOCIETÀ, PER CERTI “VERSI…” …CHE POI NON SI DICA CHE IL POETA È UNA PERSONA TRISTE… “In cinquant'anni molte cose sono profondamente cambiate, la poesia è cambiata, ma non è cambiato il compito dei poeti, quello di disegnare il profilo ideologico di un’epoca.” Edoardo Sanguineti (Genova1930-2010) Edoardo Sanguineti è stato un intellettuale eclettico; poeta, romanziere, critico e teorico letterario, autore teatrale, uomo politico di rigorosa moralità (sposò le ideologie del Pci e fu parlamentare dal 1979 al 1983), tenace fautore del progresso e della sperimentazione, soprattutto in ambito letterario, convinto che l’unità di un popolo, tra le altre cose, dovesse risiedere anche nella “socializzazione dei beni linguistici”. A tal proposito contribuì alla nascita del celebre Gruppo 63, movimento di Neoavanguardia a cui aderirono intellettuali quali Umberto Eco, Antonio Porta, Giorgio Manganelli, Luigi Malerba ed altri, che in letteratura rappresentò il fenomeno culturale più fruttuoso dell’Italia del dopoguerra. Le istanze del movimento si contrapponevano alla “conservazione culturale” della classe intellettuale uscita dalla guerra, che esercitava il controllo dell’industria letteraria, delle case editrici e delle università; i membri del Gruppo 63 proclamavano l’esigenza di un nuovo stile di vita e di pensiero in contrasto con quei conservatori di valori di un’Italia contadina e paesana. Non si metteva in dubbio il talento di certi autori (Calvino, Cassola, Moravia, Vittorini, Bassani), ma si imputava all’establishment letterario di non essersi accorto della nascita dei nuovi linguaggi del giornalismo, della pubblicità e della tv, del conseguente sviluppo della lingua italiana, della ra- pag. 3 pida crescita della piccola borghesia. Il Gruppo 63 assumeva posizioni sperimentali e di rottura rispetto all’italiano


medio, ricercando un linguaggio orientato allo scardinamento di ogni struttura sintattica e semantica. Sanguineti, il poeta novissimo e “difficile”, rappresentò l’anima di questo movimento. La parola era per lui materia viva da lavorare e giocava con il linguaggio quotidiano tanto da derivarne una parodia onirica del consumismo, dei rapporti uomodonna, di quelli tra individuo e istituzioni nella soffocante società liberale. (Laborintus del 1956, la sua prima raccolta poetica, è un testo fondamentale dello sperimentalismo degli anni ’60). La sua scrittura era qualcosa di nuovo e apriva soluzioni sconosciute alla poesia fino ad allora. L’avanguardia esprimeva “una verità generale di carattere sociale” e non solo “una verità particolare di carattere estetico”; cambiare il linguaggio, minarlo, farlo esplodere, poteva “mettere in causa i rapporti sociali” e, quindi, far saltare per aria la società neocapitalista. Non si può negare difatti che ogni parola implica una visione del mondo, una posizione di coscienza. E alla verità non s’arriva che per tramite d’un linguaggio autentico e vivo. Quando in un’intervista gli fu chiesto “Quale è il disordine da cui noi oggi dobbiamo uscire? Quali modelli da seguire?” rispose: “La poesia deve rifiutare i modelli. Si continua a tornare all’ordine quando invece bisogna tornare a quel disordine”. Uomo coraggioso, che cercò di cambiare il mondo a colpi d’acceleratore linguistico, uomo di certezze, che non smise mai di seminare dubbi, Edoardo Sanguineti ci lascia l’insostituibile eredità culturale di un pensiero che cercò di fare da ponte tra passato e futuro, nella speranza di valicare “l’impossibilità di comunicare nella società contemporanea dei consumi”. A quel disordine a cui ritornare per rifiutare i modelli imposti, a noi piace dare il nome di vita. Che è poesia.


Ballata delle donne Quando ci penso, che il tempo è passato, le vecchie madri che ci hanno portato, poi le ragazze, che furono amore, e poi le mogli e le figlie e le nuore, femmina penso, se penso una gioia: pensarci il maschio, ci penso la noia. Quando ci penso, che il tempo è venuto, la partigiana che qui ha combattuto, quella colpita, ferita una volta, e quella morta, che abbiamo sepolta, femmina penso, se penso la pace: pensarci il maschio, pensare non piace. Quando ci penso, che il tempo ritorna, che arriva il giorno che il giorno raggiorna, penso che è culla una pancia di donna, e casa è pancia che tiene una gonna, e pancia è cassa, che viene al finire, che arriva il giorno che si va a dormire. Perché la donna non è cielo, è terra carne di terra che non vuole guerra: è questa terra, che io fui seminato, vita ho vissuto che dentro ho piantato, qui cerco il caldo che il cuore ci sente, la lunga notte che divento niente. Femmina penso, se penso l'umano la mia compagna, ti prendo per mano.

Caro compagno proletario lo so che il Quarto Stato si è perduta, strada (facendo, quasi, la sua coscienza di classe, da un po' di tempo in qua (anche se non per sempre, (spero bene) – e il Terzo Stato no, perché il borghese è il borghese, con mente (fortemente consapevole, ancora: e il capitalismo è il capitalismo: (è il sovrano – il supremo): (e non ci sta una grande voglia di comunismo, così, adesso, in giro, (per forza): ma qui - qui c'è da votare, per incominciare, pag. 5 contro le libertà di lorsignori: contro le (nostre) servitù e catene:


c'è da risollevarle, tutti insieme, cadute in questo fango, nuovamente, certe antiche bandiere (e risvegliarci, intanto, al nostro sogno) Incidetele a lettere di scatola miei lettori testamentari (e parlo ai miei scolari, gli ipocriti miei figli, i filoproletari che tanto mi assomigliano, innumerevoli, ormai, come i grani di sabbia de vacuo mio deserto), queste parole mie, sopra (la tomba mia, con la saliva, intingendovi un dito della bocca: (come io lo intingo, adesso, tra gli eccessivi ascessi delle algide mie gengive): me la sono goduta, io, la mia (vita: Dobbiamo morire “(due giorni piĂš tardi) storditi ancora, quasi inerti: e pensare (dissi); che noi (quasi piangendo, dissi); e volevo dire, ma quasi mi soffocava, davvero, il pianto; volevo dire: con un amore come questo (noi): un giorno (noi); (e nella piazza strepitava la banda; e la stanza era in una strana penombra); (noi) dobbiamo morireâ€?


ELUARD

IL POETA È SEMPRE UN “RESISTENTE” LA RIVOLUZIONE LIBERATRICE DELLA POESIA

Paul Eluard nacque nel 1895 a Saint-Denis, vicino a Parigi. Durante la prima guerra mondiale fu infermiere militare e questa esperienza gli fece maturare una coscienza politica che lo avvicinò ai gruppi anarchici e pacifisti, gli stessi da cui nacque l'avanguardia dadaista di cui Eluard fece parte nell’immediato dopoguerra. Dal canto del cigno del dadaismo Eluard, insieme ad altri intellettuali, diede vita al surrealismo, altro movimento d’avanguardia, in cui andavano di pari passo lo sperimentalismo artistico e la lotta politica. Collaborò così con André Breton, Max Ernst, Giorgio De Chirico, Lev Trotsky, Louis Aragon. Fin dal 1925 il gruppo aderì al Partito Comunista. La guerra di Spagna creò nel poeta una profonda avversione nei confronti del franchismo. In seguito abbandonò quindi il surrealismo - anche se continuò a credere nell'ideale che ne era il substrato - poiché era consapevole del profondo divario fra libertà individuale e libertà collettiva, il cui connubio era stato il sogno del surrealismo. Partecipò alla Resistenza e nei suoi scritti ribadì con forza la libertà d'espressione contro gli occupanti nazisti, pag. 7 cosa che continuò a fare anche dopo la liberazione. (“La rivolta sta alla Rivoluzione come il sentimento iniziale sta a


quella “raison ardente” di cui parlò Apollinaire, che è la sola ragion ragionante e insieme la sola poesia. Il sentimento, come la rivolta, è un primo momento, assurdo e sublime. Bisogna ripeterlo a quanti, oggi, parlano di rivolta. Il sentimento da solo non si fa carne: e la poesia è rivoluzione, non rivolta; è logica. Essa ha per scopo la verità pratica.”). La poesia di cui vi ho accennato in apertura fa parte della raccolta “Poesia e verità”, scritta nel 1942, quando i tedeschi avevano occupato Parigi e il poeta aveva abbandonato la città entrando a far parte, come detto, del movimento clandestino della Resistenza. Si intitola “Libertà” ed è un esempio di quel tipo di poesia che Eluard stesso chiama “di circostanza”, che nasce cioè in un particolare momento ed interpreta un sentimento del poeta; un sentimento però che non è soltanto del poeta e del suo tempo, ma di tutta l'umanità e di tutti i tempi. Il suo valore è pertanto universale e non viene meno neppure quando le circostanze che l’hanno originata muteranno. Poesia come autocoscienza che discopre il vero sotto il velo dei soprusi a cui ogni uomo, in ogni società, in ogni epoca, è purtroppo sottoposto. Poesia come energia vitale contro ogni tipo di alienazione. Le memorie dell'infanzia, il paesaggio della sua terra, gli oggetti familiari, gli uomini che nonostante la sopraffazione credono nella giustizia, i sogni dispersi, tutto ricomincia a vivere nella certezza che l'idea della libertà è illimitata. E questa parola, secondo Eluard, dovrebbe essere scritta su ogni oggetto e su ogni sentimento, perché solo essa dà senso alla vita umana e deve pertanto rappresentare la vocazione suprema di ogni individuo.


LibertĂ Sui miei quaderni di scolaro Sui miei banchi e sugli alberi Sulla sabbia e sulla neve Io scrivo il tuo nome Su tutte le pagine lette Su tutte le pagine bianche Pietra sangue carta cenere Io scrivo il tuo nome Sui prodigi della notte Sul pane bianco dei giorni Sulle stagioni promesse Io scrivo il tuo nome Sulla schiuma delle nuvole Sui sudori dell'uragano Sulla pioggia fitta e smorta Io scrivo il tuo nome Sulle forme scintillanti Sulle campane dei colori Sulla veritĂ fisica Io scrivo il tuo nome Sui sentieri ridestati Sulle strade aperte Sulle piazze dilaganti Io scrivo il tuo nome Sul lume che s'accende Sul lume che si spegne Sulle mie case raccolte Io scrivo il tuo nome. Sul mio cane goloso e tenero Sulle sue orecchie ritte Sulla sua zampa maldestra Io scrivo il tuo nome Sul trampolino della mia porta Sugli oggetti di famiglia Sull'onda del fuoco benedetto Io scrivo il tuo nome Su ogni carne consentita Sulla fronte dei miei amici Su ogni mano che si tende Io scrivo il tuo nome Sui vetri degli stupori Sulle labbra intente Al di sopra del silenzio Io scrivo il tuo nome Su ogni mio infranto rifugio Su ogni mio crollato faro Sui muri della mia noia Io scrivo il tuo nome Sull'assenza che non desidera

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Sulla nuda solitudine Sui sentieri della morte Io scrivo il tuo nome Sul rinnovato vigore Sullo scomparso pericolo Sulla speranza senza ricordo Io scrivo il tuo nome E per la forza di una parola Io ricomincio la mia vita Sono nato per conoscerti Per nominarti Libertà. Ti guardo e il sole cresce Ti guardo e il sole cresce Presto ricoprirà la nostra giornata Svegliati cuore e colori in mente Per dissipare le pene della notte Ti guardo tutto è spoglio Fuori le barche hanno poca acqua Bisogna dire tutto con poche parole Il mare è freddo senza amore È l'inizio del mondo Le onde culleranno il cielo E tu vieni cullata dalle tue lenzuola Tiri il sonno verso di te Svegliati che io segua le tue tracce Ho un corpo per attenderti per seguirti Dalle porte dell'alba alle porte dell'ombra Un corpo per passare la mia vita ad amarti Un corpo per sognare al di fuori del tuo son

La curva dei tuoi occhi intorno al cuore La curva dei tuoi occhi intorno al cuore ruota un moto di danza e di dolcezza, aureola di tempo, arca notturna e sicura e se non so più quello che ho vissuto è perchè non sempre i tuoi occhi mi hanno visto. Foglie di luce e spuma di rugiada canne del vento, risa profumate, ali che coprono il mondo di luce, navi cariche di cielo e di mare, caccia di suoni e fonti di colori, profumi schiusi da una cova di aurore sempre posata sulla paglia degli astri, come il giorno vive di innocenza, così il mondo vive dei tuoi occhi puri e tutto il mio sangue va in quegli sguardi.


LA VITA NON È UNO SCHERZO

HIKMET

PAROLA DI UN EROE DELLA SINISTRA RIVOLUZIONARIA TURCA

Nazim Hikmet è un poeta comunista. Un rivoluzionario che per le sue idee marxiste si è autoesiliato a Mosca e ha condizionato tutta la sua vita. Nasce a Salonicco nel 1902, da una famiglia di artisti, quindi si accosta giovane alla poesia, frequentando scrittori, poeti e circoli letterari. Nel ‘21, attratto dalla grandiosa guerra d’indipendenza promossa da Kemal Atatürk, si reca in Anatolia insieme ai nazionalisti: lo colpisce il personaggio e il suo messaggio di rinnovamento del vecchio sistema ottomano, che tuttavia non si realizzerà. In Anatolia vive tra i contadini, parla con loro, conosce le arsure della steppa, la spaventosa miseria di un'umanità fuori della storia. In Anatolia conosce anche un gruppo di operai reduci dalla Germania, che gli descrivono entusiasti le ideologie di Marx. Nel marxismo Hikmet intravede la soluzione dei problemi che lo stato kemalista lascia insoluti. Atatürk intanto, profondamente antirusso e antisovietico, tiene le frontiere con l'URSS sbarrate e non costruisce strade in Anatolia per impedire ogni traffico e scambio tra i due paesi; non sente più il bisogno dell'appoggio del governo di Mosca, che l'aveva sostenuto nella sua lotta per l'indipendenza, e inizia una dura persecuzione contro l'esiguo partito comunista turco. Il suo estremo nazionalismo sfocia in una vera e propria dittatura, nonostante le apparenze di un regime costituzionale. Hikmet, affascinato dalla rivoluzione bolscevica e dalle sue promesse di pag. 11 giustizia sociale, nel ‘22 si iscrive all’Università a Mosca. Qui frequenta Lenin, Majakovskij, Esenin e si appassiona alle


avanguardie sovietiche e occidentali. Comincia a scrivere i suoi libri di ideali comunisti, libera la poesia dalle convenzioni letterarie ottomane ed introduce versi liberi ed uno stile colloquiale, con immagini ispirate alla civiltà industriale, alla tecnica e alla scienza. I suoi scritti sono considerati un incitamento alla rivolta e si abbatte la censura su ogni sua opera. I tribunali turchi lo condannano in tutto a 56 anni di prigione, di cui ne sconta 17. La situazione politica peggiora e la Turchia, pur senza entrare in guerra, appoggia la Germania hitleriana. Le condizioni della prigionia sono ora durissime per Hikmet, con mesi interi di segregazione, soprusi e la minaccia dell'impiccagione sospesa sulla testa; tuttavia Hikmet continua a scrivere e a tentare di far uscire i suoi versi dalla prigione. A volte gli negano anche di scrivere, allora elabora le poesie mentalmente e le fa imparare a memoria a chi lo va a visitare. Nel ‘49 un comitato internazionale composto, fra gli altri, da Picasso, Tzara e Sartre chiede la liberazione di Hikmet. Nel ’50 è rilasciato, abbandona la Turchia e ritorna a vivere a Mosca, ma il governo turco impedisce alla moglie e al figlio di raggiungerlo e lo priva anche della cittadinanza. Muore il 3 giugno ’63 a Mosca, folgorato da un infarto sulla soglia di casa. In occasione del centenario della sua nascita, il governo turco gli restituisce la cittadinanza. L’iniziativa fa seguito a una petizione di oltre mezzo milione di persone. Hikmet ha vissuto fino all’ultimo, scrivendo, viaggiando, discutendo, amando il mondo, fiducioso nell’avvenire, interessato a creare un legame con ciò che lo circondava, curioso dell'uomo come prodotto di una società. E poeta, sempre. La cronaca e la politica sono la sua materia poetica ed è personalmente impegnato nelle vicende che descrive: nella biografia individuale si inscrive una biografia universale. In una vita di lotte, di esili, di carceri e di poesie, coagulano le lotte, gli esilii, i carceri e le poesie di ognuno. La poesia diviene "servizio" e la natura profonda della sua ispirazione è proprio questa “coscienza dell'utile”.


Portatori di luce Questo, quell’altro, e questi e anche quegli altri. Tutti quelli che sono là, e la metà di questi qui: il fuochista, la figlia del fuochista, la moglie del fuochista, e quel macchinista di locomotiva e questo capotreno, e l’operaio specializzato, non quello che si è inchinato al padrone, ma un altro, e quei due marinai in blusotti ampi quanto il mare. Tutt’è due, questa e quella, le cui dita si sono conficcate come aghi nel cucito, e questo, che spinge il sole lungo le strade montane – da una all’altra empiendosi di sassi i sandali da bracciante, e lo scrittore, che pensa con pensieri di Marx e guarda con gli occhi di Lenin, infine, il poeta che scrive questa poesia, tutti loro. Questi, e questi altri, e quelli, e quelli là, e altri ancora, coronati dalla falce e dal martello, tutti loro nell’aurora sono i portatori di luce! Alla vita La vita non è uno scherzo. Prendila sul serio Come fa lo scoiattolo, ad esempio, senza aspettarti nulla dal di fuori o nell'al di là. Non avrai altro da fare che vivere. La vita non è uno scherzo. Prendila sul serio Ma sul serio a tal punto Che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate, o dentro un laboratorio col camice bianco e grandi occhiali, tu muoia affinché vivano gli uomini di cui non conoscerai la faccia, e morrai sapendo che nulla è più bello, più vero della vita. Prendila sul serio, ma sul serio a tal punto che a settant'anni, ad esempio, pianterai degli ulivi non perché restino ai tuoi figli ma perché non crederai alla morte pur temendola, e la vita sulla bilancia peserà di più.

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Le vostre mani e le loro menzogne Le vostre mani austere come pietre, meste come nenie intonate in prigione, massicce e enormi come animali strani, le vostre mani simili a volti crucciati di bimbi affamati. Le vostre mani rapide e solerti come api, pesanti come seni colmi di latte, valorose come la natura, le vostre mani che celano una familiare tristezza sotto la ruvida pelle. Il mondo non si regge sulle corna dei buoi, il mondo è retto dalle vostre mani. O uomini, uomini miei! Vi nutrono di menzogne, mentre affamati avete bisogno di pane e carne. E senza aver neppure una volta mangiato a sazietà Ad una tavola coperta di bianca tovaglia Abbandonate questo mondo E i suoi alberi carichi di frutta. O uomini, uomini miei! Soprattutto voi dell' Asia, del Medio e Prossimo Oriente, delle isole del Pacifico e della mia terra, che superate il settanta per cento del genere umano, antichi e riflessivi, siete, come le vostre mani e come le vostre mani giovani e curiosi ed entusiasti. O uomini, uomini miei! Voi dell' Europa, voi dell' America Siete audaci, siete vigilanti, indulgenti siete come le vostre mani, e come le vostre mani facili all' inganno, facili all' illusione… O uomini, uomini miei! Se mentiscono le antenne, se le tipografie mentiscono, se mentiscono le insegne sui muri e gli avvisi del giornale, e se mentiscono sul bianco schermo le nude gambe delle danzatrici, se mentiscono le preghiere, se i sogni mentiscono, se mentiscono le nenie, se mentisce il suonatore nella taverna, se dopo una giornata disperata mente il raggio di luna, se mentiscono le parole, se mentiscono i colori, se le voci mentiscono, se tutti coloro che sfruttano il lavoro delle vostre mani ed ogni cosa ed ognuno mentisce, eccetto che le vostre mani è solo per renderle pieghevoli come argilla bagnata, cieche come l' oscurità, stupide come cani da pastori, è per frenarle nella rivolta che prende ad abbattere il regno degli strozzini e la sua tirannia su questo meraviglioso e fugace mondo dove siamo per un soggiorno così breve


“A VEVA

DENTRO DI SÈ UN MILIONE D ' USIGNOLI PER CANTARE LA SUA CANZONE DI LOTTA

DARWISH

Il poeta palestinese Mahmoud Darwish è uno dei più grandi poeti contemporanei in lingua araba, con una produzione straordinaria segnata dai drammi dell'esilio e dell'occupazione vissuta dal popolo palestinese. Il suo poema "Identità", sul tema del formulario israeliano che i palestinesi erano obbligati a compilare, è diventato un inno per il mondo arabo. Darwish nasce nel 1941 in Galilea. Nel 1948 vive la tragedia del suo popolo, il suo villaggio è attaccato dai sionisti e la gente costretta all’esilio. La famiglia lascia la Galilea e si trasferisce in Libano, sfuggendo all’occupazione israeliana. Al rientro in Palestina trova il villaggio raso al suolo e al suo posto un insediamento ebraico. Il senso di smarrimento assale il poeta in tenera età e da allora si sentirà sempre un profugo nella sua patria. Nel 1960 pubblica la sua prima raccolta poetica,”Uccelli senza ali”. Per i suoi scritti e la sua attività patriottica è detenuto per lunghi periodi nelle carceri israeliane e spesso costretto agli arresti domiciliari. La lirica di Darwish è un canto impregnato di amore per la patria perduta e dolore per la prigionia, le privazioni, i tormenti. Inizia a scrivere su quotidiani e riviste, acquistando importanza nel movimento poetico palestinese, entra nella redazione giornalistica del partito comunista e si stabilisce ad Haifa, dove trascorre anni durissimi di povertà che lo costringono a dividere una sola camera con il poeta Samih al-Qasim. Entrambi subiscono la persecuzione dell’autorità israeliana e sono obbligati alla perma- pag. 15 nenza in casa dal tramonto all’alba, oltre che a recarsi a una postazione di polizia cinque volte al giorno per dimostrare la


loro presenza. In quegli anni Darwish aderisce al Partito comunista d'Israele e partecipa a missioni del partito nell’Europa dell’Est. Nel 1970 si reca in Libano e qui si unisce all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), mentre questa è in guerra con Israele. Durante l’invasione israeliana nel Sud del Libano e l’assedio alla capitale Beirut, il poeta rimane fra la sua gente per infonderle speranza e fiducia con le sue parole potenti. Raggiunto l’accordo fra le parti, lascia Beirut insieme ai combattenti e al comando superiore dell’OLP per un altro luogo d’esilio, la Tunisia. Darwish non accetta fin dall’inizio gli accordi di Oslo fra OLP e governo israeliano: secondo lui non avrebbero mai risolto la questione totalmente né dato una “pace giusta” ai palestinesi, avrebbero anzi messo fine al sogno stesso palestinese, per cui molti, lui compreso, avevano dedicato la vita. Quindi lascia Tunisi per trasferirsi a Parigi; qui scrive poesie che risvegliano i sentimenti del popolo arabo, lasciandovi una ferita aperta, come una finestra da cui poter volgere uno sguardo alla coscienza del mondo. Il poeta abbandona l’OLP nel 1993 e nel 1995 torna a Ramallah, in Cisgiordania, dopo l'avvento dell'Autorità palestinese. Nel 1996 viene autorizzato a entrare in Israele e in questi ultimi anni fa il pendolare tra Ramallah e Amman. La sua morte, 9 agosto 2008, è vissuta con sgomento nei territori e nei campi profughi palestinesi sparsi nei Paesi arabi. Il leader del movimento islamico, K.Mashaal, ha definito Darwish una delle «massime espressioni della cultura e della identità palestinesi». Molti e prestigiosi i riconoscimenti da lui ottenuti: dall'ex Urss è insignito del Premio Lenin, la Francia lo nomina Cavaliere delle Arti e delle Lettere, l’'Aja gli conferisce il prestigioso premio Prince Claus per la «sua opera impressionante». Ma lui, figlio di una rigogliosa terra, rimane giovane e bello nonostante il buio, le spine e i segni delle ferite che si imprimono sulla sua fronte.


Carta d’identità Prendi nota sono arabo carta di identità numero 50.000 bambini otto un altro nascerà l’estate prossima. Ti secca? Prendi nota sono arabo taglio pietre alla cava spacco pietre per i miei figli per il pane, i vestiti, i libri solo per loro non verrò mai a mendicare alla tua porta. Ti secca? Prendi nota sono arabo mi chiamo arabo non ho altro nome sto fermo dove ogni altra cosa trema di rabbia ho messo radici qui prima ancora degli ulivi e dei cedri discendo da quelli che spingevano l’aratro mio padre era povero contadino senza terra né titoli la mia casa una capanna di sterco. Ti fa invidia? Prendi nota sono arabo capelli neri occhi scuri segni particolari fame atavica il mio cibo olio e origano quando c’è ma ho imparato a cucinarmi anche i serpenti del deserto il mio indirizzo un villaggio non segnato sulla mappa con strade senza nome, senza luce ma gli uomini della cava amano il comunismo. Prendi nota sono arabo e comunista Ti dà fastidio? Hai rubato le mie vigne e la terra che avevo da dissodare non hai lasciato nulla per i miei figli soltanto i sassi e ho sentito che il tuo governo esproprierà anche i sassi ebbene allora prendi nota che prima di tutto non odio nessuno e neppure rubo

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ma quando mi affamano mangio la carne del mio oppressore attento alla mia fame, attento alla mia rabbia.

Quando ero giovane e bello la rosa era la mia dimora e il mio mare erano le sorgenti. Ma la rosa è diventata una ferita e le sorgenti un’arsura. Forse sei cambiato molto ? No, non sono cambiato molto Quando torneremo come il vento verso la nostra terra guarda bene la mia fronte vedrai le rose diventare palme e le sorgenti diventare sudore. Mi troverai come ero prima giovane e bello

Pensa agli altri Mentre prepari la tua colazione, pensa agli altri, non dimenticare il cibo delle colombe. Mentre fai le tue guerre, pensa agli altri, non dimenticare coloro che chiedono la pace. Mentre paghi la bolletta dell'acqua, pensa agli altri, coloro che mungono le nuvole. Mentre stai per tornare a casa, casa tua, pensa agli altri, non dimenticare i popoli delle tende. Mentre dormi contando i pianeti, pensa agli altri, coloro che non trovano un posto dove dormire. Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri, coloro che hanno perso il diritto di esprimersi. Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso, e di': magari fossi una candela in mezzo al buio.


IHRSHMAN

JACK HIRSCHMAN L’ULTIMO DINOSAURO La rivista Poet News lo ha definito “il più importante poeta vivente d’America”. Lui è un personaggio mitico della sinistra americana; soprattutto poeta, ma anche scrittore, pittore, traduttore, attivista politico profondamente impegnato a favore dei poveri e degli emarginati, ha pubblicato, tra poesia, saggi e traduzioni, più di 100 libri. La sua è poesia della gente. Non espressione individuale, esibizione di una voce interiore, ma poesia che nel raccontare la sofferenza e la resistenza di molti descrive l’essenza della vita attuale degli USA. Jack Hirschman è nato nel 1933 nel Bronx, a New York. Espulso per la sua attiva opposizione alla guerra del Vietnam dall’Università di Los Angeles dove insegnava (tra i suoi allievi anche Jim Morrison e Max Schwartz ),è diventato membro del CLP (Communist Labor Party) e poi delle sue successive trasformazioni. Ha frequentato i poeti della Beat Generation, collaborando con i beat tra cui Ginsberg, Kerouac e Ferlinghetti. Se ne discosterà in seguito definendo il movimento una rivoluzione borghese, basata sulle droghe e la cultura orientali, distante dal suo modo di intendere l’impegno politico, orientato invece verso dimensioni più radicali ed estremiste. Le poesie di Hirschman sono dedicate alla lotta politica, alla vita nella strada, alla fame, ai diseredati, ai disoccupati, ai giovani, ai neri, agli indiani, ai “dimenticati”. Ad una poesia di immaginazione oppone la sua poesia pag. 19 della realtà: “Mi considero un poeta e un comunista, un operaio della cultura, un agit-prop, per la trasformazione della


società a tutti i livelli”. Proprio ai dimenticati Hirschman fa riferimento per la costruzione di un nuovo soggetto rivoluzionario, una nuova classe, la classe dei non-operai. I veri proletari. E parla di una condizione in cui il bisogno di cibo, di casa, di sanità, di istruzione diventano oggettivamente un imperativo mondiale per ogni uomo, donna e bambino. In questo senso Hirschman si considera un agit-prop. Un dinosauro del futuro, un’anomalia in un mondo in cui il prodotto e la produzione artistica si sposano al business-arrangement che crea indifferenza e apatia nella cultura in mano al capitalismo. L’irruzione nel nuovo millennio è vista come il colpo di coda di una civiltà occidentale in agonia, senza controllo e in preda ad una frenesia autodistruttiva e Hirschman grida il suo sdegno e la sua rabbia per le persistenti ingiustizie del mondo, continuando però ad avere fiducia negli uomini e nella poesia. I testi più apertamente politici si affiancano a bellissime poesie d’amore (per le donne della sua vita, per la madre, per gli amici), conservando una singolare unità. Oltre l'ideologia, egli ci offre la semplice verità che ognuno già conosce: dobbiamo smetterla di odiarci l'un l'altro, di ucciderci, violentarci e cominciare ad amarci. La sua voce attraversa olocausti ed estasi, l’acciaio degli operai, come un sottile filo rosso che libera tutti i prigionieri, incespicando nelle piccole cose umane, in un volto, in una candela, per cadere tra le braccia quotidiane della gente comune. Per scoprire che “lo spazio è tuo semplicemente perché sei umano/ per vivere pienamente il tuo cuore/ nel modo in cui è destinato a battere”


La casa del tramonto Poggio la mia bocca sulla tua miseria, New Orleans, inondata e inzuppata di morte. Qui giace: enormi mucchi di bugie sulla guerra, questa prigione cimitero galleggiante grida di rabbia al respiro finale. Qui, all’ultimo delta, Desiderio disteso sul fianco, è derubato, e girato sottosopra dal suo stesso governo, e soffocato. L’estate è finita e la vita è morta, e round midnight tutte le speranze sono saccheggiate. Nessuno verrà fuori pulito da Katrina a New Orleans in questa Casa del Tramonto che sta affondando. Corpi così neri e così blu perché hanno amato chi non gli avrebbe sputato sulle scarpe se avessero avuto bisogno di una lucidata. Figuriamoci qualche spicciolo. O acqua. America, sei sempre stata terra bruciata nelle nostre bocche, sempre un battesimo di merda, sempre una pioggia di disastro che scorre lungo i vetri dei nostri occhi infranti. Ora i nostri stracci sono i più laceri, il nostro jazz il più triste, i nostri poveri i più poveri che si possano portare al mercato delle pulci dell’anima. Ora che tutto è perduto e c’è soltanto il nulla da perdere! Viva il coraggio e il dolore e l’innocenza dei poveri! La vera bandiera è a brandelli. Cominciamo a sventolarla. L’Israeliano dice: “Ora lo sanno” lui che è stato infestato dai geni di una siringa di male indimenticabile lunga dodici anni. Probabilmente siamo noi ora a sapere che cosa significhi essere totalmente detestati fino all’apocalisse. Ed è una difesa fascista contro un attacco fascista che il mondo sta preparando, perché non c’è altro che quel nulla di un pianeta scorpione che si mangia la coda; ed è la consapevolezza di questa verità che raddoppia il lutto e rende più profonda la paura della perdita dell’innocenza che già prima era una bugia. Questa volta siamo davvero intrappolati dalla verità e ci addolora

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noi che siamo stati così a nostro agio nella libertà della menzogna. Questa volta la mobilitazione totale della consapevolezza della guerra dice: anche se il pacifismo cresce, anche se esso impedirà attacchi in risposta, anche se la non violenza trionfa, il futuro sarà come un uomo di colore, o come l’erotismo, che pur non più linciato o censurato, comunque non si sentirà mai completamente a proprio agio in questa vita terrena. Il dominio del nulla è completo ora. Dio assassinato da un lato. Dio suicidato dall’altro. Il trionfo del fascismo. Siamo condannati a vivere le nostre vite non-violente comprando e vendendo e pregando la violenza nostro malgrado perché non c’è nient’altro, nulla è cambiato, è solo più chiaramente rivelato. La felicità C’è una felicità, una gioia nell’anima che è stata sepolta viva in ciascuno di noi e dimenticata. ... Sono i superstiti sopravvissuti a ciò che accadde quando la felicità fu sepolta viva, quando essa non guardò più dagli occhi di oggi, e non si manifesta neanche quando uno di noi muore – semplicemente ci allontaniamo da tutto, soli con quello che resta di noi, continuando ad essere esseri umani senza essere umani, senza quella felicità


MAO TSE-TUN G

“A PROPOSITO DI SCRIVERE POESIE” UNA MANO FRATERNA E MODERNA Della qualità poetica dei versi di Mao Tse-tung è quasi impossibile parlare: la nozione di poesia, il suo significato sociale, le sue consonanze tradizionali sono, in Cina, tanto diverse dalle nostre che alla impenetrabilità propria a tutte la lirica orientale si aggiunge qui la nostra incapacità ad intendere il rapporto, certo importantissimo e probabilmente decisivo, che l’autore deve avere teso tra l’atto cerimoniale di scrivere versi secondo canoni secolari e la volontà di innovazione che è ben sua, tanto come massimo capo di una delle maggiori rivoluzioni umane di tutti i tempi quanto come teorico dell’attività letteraria. Ma è necessario avvertire il lettore che egli vedrà nelle pagine seguenti non tanto una traduzione, quale potrebbe avere da una delle lingue occidentali, quanto piuttosto una trasposizione, apparentemente sospesa fuor della storia. È altrettanto necessario metterlo in guardia contro il facile scetticismo col quale potrebbe accogliere questi versi. Via, si dirà, che Mao Tse-tung sia un grande uomo politico e rivoluzionario, non se ne dubita: ma voler fare di lui un poeta somiglia troppo alle adulazioni, antiche e recentissime, che i potenti tanto facilmente subiscono e accettano... No, anzitutto perché in Cina non è mai esistita l’opposizione tipica del medioevo cristiano fra il letterato e l’uomo di azione, mentre servizio civile ed esercizio della letteratura si identificano nel ceto mandarino. Ora è ben vero che Mao Tse-tung vive pag. 23 in una dimensione di cultura e di azione che non potrebbe essere più lontana da quella dei funzionari imperiali; ma è anche


vero che egli conosce, e quanto, i classici del romanzo e della poesia cinese. Sa che l’esercizio delle tradizionali forme di poesia, cui egli si attiene, è una prova di eleganza e di forza, di quella aristocrazia dell’animo che non solo deve conciliarsi con la democrazia dell’azione ma che né è la ragione medesima... Si leggano questi versi, scritti da uno degli uomini più segreti e più pubblici, più severi e più interrogativi del nostro secolo, per quel tanto di diretto e di immediato che la loro veste italiana può conservare... Da diecimila e diecimila “li” di distanza, dipinte con l’antico inchiostro rituale da una mano fraterna e moderna, ci vengono così alcune parole dell’immenso discorso di lavoro e di gioia, di pena e di speranza che anche per noi, avviliti e distratti, pronunciano in quei versi i popoli della Cina comunista. Prefazione di Franco Fortini al volume delle Poesie di Mao Tsetung pubblicato nel 1959 dalle Edizioni Avanti!)


Neve E’ in questo il paesaggio delle terre del Nord: centinaia di leghe strette nella morsa del ghiaccio, migliaia di leghe sotto la neve roteante. Ai due lati della Grande Muraglia È tutto immenso quello che vedete. dalla sorgente alla foce del grande fiume gelida è l’impetuosa corrente, ghiacciata. Le montagne scivolano via come serpenti d’argento gli antipiani ondeggiano come bianchi elefanti di cera; sembra che col cielo vogliano gareggiare in altezza. Ma basta un giorno di sole, e un drappo purpureo gettato sopra il bianco susciterà nuovi, più dolci incanti. Son tanti gli eroi che si sono inchinati, in omaggio, davanti alla grande bellezza di questa natura; ma quali eroi, ahimé! – Chin Shin Huang e Wu Ti erano uomini di ben scarsa cultura; e molto mancavano di talento letterario i primi imperatori delle stirpi Tang e Sung. Genghis Kan, l’adorato Figlio del Cielo, sapeva solo tendere il suo arco contro le aquile dorate. Ora tutti sono passati, lontani nel tempo; per trovare uomini veramente grandi, di nobile cuore, noi dobbiamo cercare nel nostro tempo presente. (Di questa poesia fece una personale traduzione-interpretazione Bertolt Brecht) Sotto di me, come un quadro, il paesaggio del Nord dieci mila miglia di neve in fuga, immobile, da tale altezza il Fiume Giallo non appare più furioso. Tra il fiume e noi cumuli di nuvole lievi come un alito, di bianco e di porpora; pascoli e campi da entrambe le parti della Grande Muraglia. Quanti li bramarono inchinandosi davanti a loro! Tutti i meschini re delle dinastie Tsh’in ed Han nella loro ignoranza! E i Tang e i Sung così leggeri di carattere! Anche il superbo Gengis Khan più che tendere l’arco non sapeva fare. Tutti, tutti sono morti. Ma oggi ancora guardate quei grandi signori; come sempre sono pieni dell’antica crudele bramosia. Ritorno sui monti Chingkang Da tempo desideravo raggiungere le nubi salendo di nuovo sui Monti Chingkang. Un viaggio di mille li alla ricerca dei luoghi di un tempo l’antico scenario è mutato in nuovi colori. Ovunque canti di usignoli sfrecciare di rondini

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e ancora il sussultare dell’acqua che scorre. La via s’inerpica in alto fino ai grandi alberi che trafiggono le nuvole superato il valico Huangyang diventa pericoloso sporgersi e guardare il precipizio. Urlano scatenati il vento e il tuono fremono vessilli e bandiere questo è il mondo degli uomini si costruisce il paese. Trentotto anni sono passati come uno schioccare di dita. Si può salire al nono cielo per abbracciare la luna si può scendere ai cinque mari a pescare tartarughe si può tornare tra allegri sorrisi e canti trionfali. Al mondo niente è difficile se si è decisi a scalare la cima. Dialogo di uccelli Il "peng" dispiega le sue ali e s’innalza a novantamila li scatenando un ciclone vorticoso. Con la volta celeste alle spalle guarda in basso ovunque mura di cinta innalzate dagli uomini. Cannonate trafiggono il cielo la terra è seminata di buche di proiettili nel suo cespuglio il passero è atterrito. E’ la fine del mondo ahimè, voglio valarmene via!" "Posso chiederti dove?" E il passero risponde: "Al palazzo di giada, sui monti delle fate. Non sai? Due anni fa, al chiaro di luna d’autunno, hanno concluso un patto tripartito. E c’è di che mangiare patate ben cotte con carne di vitello". "Ma basta con queste idiozie guarda la terra e il cielo sconvolti da cima a fondo!"


NETO

AGOSTINO NETO, GUERRIGLIERO E POETA IL PADRE DELL’ANGOLA INDIPENDENTE Nel settembre 1975 in seguito al collasso del regime fascista del Portogallo di Salazar la colonia dell’Angola conquistò la propria indipendenza. La caduta del fascismo portoghese certamente agevolò l’indipendenza dell’Angola, ma la stessa fu soprattutto il frutto di una lunga e sanguinosa guerra di liberazione intrapresa dal Mpla, Movimento Politico per la Liberazione dell’Angola, fondato dal Partito Comunista Angolano nel 1956 con il braccio armato delle Fapla, Forze Armate per la Liberazione dell’Angola che, dopo la dichiarazione di indipendenza, costituirono l’esercito angolano. Di questo movimento popolare e del suo braccio armato Agostino Neto fu l’ispiratore e la guida e nel 1975 assunse la presidenza della Repubblica dell’Angola libera, carica che ricoprì sino alla morte per malattia avvenuta nel 1979 a Mosca. Agostino Neto, cresciuto a contatto con i quartieri più poveri di Luanda, durante gli studi universitari in Portogallo entrò nel Partito Comunista e venne più volte arrestato dal regime fascista portoghese provocando l’intervento di Amnesty International che nel 1957 lo dichiarò “prigioniero politico dell’anno”. Tornato nel suo paese alla guida del movimento politico e dell’esercito di liberazione riuscì a coniugare la lotta armata con la poesia alla quale si dedicò per tutta la vita nella ricerca della identità storica e culturale angolana soffocata dai pag. 27 secoli di dominazione portoghese. La conquista della indipendenza dal dominio portoghese non portò tuttavia la pa-


ce in Angola. Nuove potenze coloniali stesero le loro aspettative sulle risorse e ricchezze naturali dell’Angola scatenando e sostenendo, con denaro, armi e truppe mercenarie una guerra civile che durò ancora trenta anni sino alla disfatta della formazione controrivoluzionaria dell’Unita direttamente organizzata dal regime sudafricano dell’appartheid. Nella difesa della libera Repubblica angolana fu determinante il contributo dell’esercito cubano giunto in soccorso tecnico e militare al piccolo esercito guerrigliero ancora non strutturato del Fapla, per respingere il tentativo di invasione dell’Angola da parte dell’esercito sudafricano. Nell’Angola libera e pacificata, oggi governata con un ampio consenso elettorale dall’Mpla-Partito del Lavoro, resta forte l’insegnamento identitario di Agostino Neto: “Non stiamo ad aspettare gli eroi, se uniamo le nostre voci e le nostre braccia saremo nei stessi gli eroi. Difendiamo palmo a palmo la nostra terra, mandiamo via i nemici e cantiamo in una lotta viva ed eroica. Domani intoneremo inni alla libertà, quando commemoreremo la data dell’abolizione di questa schiavitù”


Noi dell'Africa immensa al di là del tradimento degli uomini attraverso foreste maestose invincibili attraverso il fluire della vita ansiosa veemente copiosa nei fiumi ruggenti per il suono armonioso di marimbe in sordina per gli sguardi gioventù delle folle folle di braccia di ansia di speranza dell'Africa immensa sotto l'artiglio sanguinanti di dolore e speranza di amarezza e di forza sanguinando sulla terra sventrata dal sangue delle zappe sanguinando nel sudore del lavoro forzato del cotone sanguinando fame ignoranza disperazione morte nelle ferite sul dorso nero del bambino della madre sanguinanti e germoglianti dell'Africa immensa nera e chiara come mattine di amicizia vogliosa e forte come i passi della libertà Le nostre grida sono tamburi araldi di desiderio nelle voci babeliche armonia di nazioni le nostre grida sono inni d'amore per i cuori fecondanti la terra come il sol le sementi grida d'Africa grida di mattine in cui nei mari crescono morti incatenati sanguinanti e germoglianti - Ecco le nostre mani ...aperte alla fratellanza del mondo per il futuro del mondo unite nella certezza per il diritto per la concordia per la pace Sulle nostre dita crescono rose .con i profumi dell'indomabile Zaire con la grandiosità dei tronchi del Maiombe Negli animi il camminar dell'amicizia per l'Africa, per il mondo i nostri occhi sangue e vita rivolti alle mani indicanti amore in tutto il mondo mani in futuro-sorriso ispiratrici di fede nella vitalità dell'Africa terra Africa umana dell'Africa immensa germoglianti sotto il sole della speranza stringenti vincoli fraterni nella libertà di amare dell'ansia di concordanza Sanguinanti e germoglianti Per il futuro ecco i nostri occhi per la Pace ecco le nostre voci per la Pace ecco le nostre mani dell'Africa unita nell'amore. Creare creare nella mente creare nel muscolo creare nel nervo creare nell'uomo creare nella massa

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creare con occhi asciutti Creare creare oltre la profanazione della foresta oltre il fortilizio impudico della sferza oltre il profumo dei tronchi segati creare con occhi asciutti Creare creare risate sopra lo sfregio della tortura coraggio dalla punta degli stivali del colono forza dentro i frantumi delle porte violate fermezza nel rosso sangue del rischio Creare creare stelle sulla mazza del soldato pace sopra il pianto dei bambini pace sul sudore pace sulla lacrima del "contrato" pace sull'odio creare pace con occhi asciutti Creare creare creare libertĂ lungo le strade schiave ceppi d'amore per i sentieri paganizzati dell'amore suoni di festa sul dondolare dei corpi da forche simulate creare amore con occhi asciutti. É successo quando l'atlantico restituiva i cadaveri avvolti nei fiori bianchi delle onde e nell'odio incontrollato delle fiere per il sangue rappreso della morte Le spiagge si riempivano di corvi e di scacalli voracemente affamati di carni a brandelli, sulla sabbia. Della terra bruciata dal terrore di secoli in catene il paese che si diceva verde. Quel paese che i bambini chiamano ancora verde speranza è successo quando i corpi i corpi s'imbevevano nel mare, di vergogna e di sale Nelle acque sanguinanti di desideri E di debolezza fu allora che, negli occhi infocati, ora il sangue, ora la vita, ora la morte. Abbiamo trionfalmente sepolto i nostri morti E sulle tombe Abbiamo reso onore al sacrificio degli uomini, per l'amore, per l'armonia, per la nostra liberta. Anche davanti alla morte ora per ora Nelle acque insanguinate Anche nelle piccole sconfitte subite per la vittoria per noi la verde terra di San Tome sara anche l'isola dell'amore


In fondo ai tuoi occhi Cosa c’è in fondo ai tuoi occhi dietro il cristallino oltre l’apparenza? Dove il tempo D’improvviso si ferma e la mia anima sulle tue labbra resta sospesa?

SAFFO

Tu... anima mia rapita nello specchio dei tuoi occhi respiro il tuo respiro e vivo

Guardami I sottili lacci di fumo che dipanano dalle tue pupille disegnano nell’aria azzurre spirali. Sfiorando la mia pelle mi avviluppano in un vortice di trame irregolari. Si spegne in un fiato il mio grido disperato sognante mi avvolgo nel tepore spento di un amore immaginario Ci sono lacrime che non si possono tacere. Sono grumi di sale sul fondo del pozzo. Sono schegge di vetro tra l’incubo e il sogno sono frasi spezzate sul tetto del mondo brandelli di ricordi al finire del giorno. Semplici gocce di fragili chimere Che si spengono in gola tra scintille ardenti di fumate nere Svanire in una nuvola di fumo abbandonarmi al calore di una morsa letale. Bruciare nella vampata di una danza d’amore Fino a perdermi in un vortice di dolore soave.

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Simile a un Dio Simile a un Dio mi sembra quell'uomo che siede davanti a te, e da vicino ti ascolta mentre tu parli con dolcezza e con incanto sorridi. E questo fa sobbalzare il mio cuore nel petto. Se appena ti vedo, sùbito non posso più parlare: la lingua si spezza: un fuoco leggero sotto la pelle mi corre: nulla vedo con gli occhi e le orecchie mi rombano: un sudore freddo mi pervade: un tremore tutta mi scuote: sono più verde dell'erba; e poco lontana mi sento dall'essere morta. Ma tutto si può sopportare... Avrei davvero voluto morire quando lei mi lasciò in affannoso pianto tra molte cose dicendomi ancora: "Come soffriamo atrocemente, Saffo, io ti lascio contro il mio volere." Ed io a lei rispondevo: "Và serena e di me serba il ricordo. Sai quanto ti ho amata. Se mai tu lo dimenticassi, sempre io ricorderò i bei momenti che vivemmo. Quando di corone di viole e di rose e di croco, accanto a me ti cingevi il capo gentile, e mettevi intorno al collo ghirlande intrecciate di fiori. E cosparsa di essenze profumate sul morbido letto ti saziavi, né mai vi furono danze nei sacri boschi a cui fossimo assenti..." Tramontata è la luna e le Pleiadi, la notte è a metà: il tempo passa e io dormo sola... Sulla tenera erba appena nata Piena splendeva la luna quando presso l’altare si fermarono: e le Cretési con armonia sui piedi leggeri cominciarono, spensierate, a girare intorno all’ara sulla tenera erba appena nata.


CATULLO

Dammi mille baci Godiamoci la vita, o Lesbia mia, e i piaceri d'amore; a tutti i rimproveri dei vecchi, moralisti anche troppo, non diamo il valore di una lira. Il sole sì che tramonta e risorge; noi, quando è tramontata la luce breve della vita, dobbiamo dormire una sola interminabile notte. Dammi mille baci e poi cento, poi altri mille e poi altri cento, e poi ininterrottamente ancora altri mille e altri cento ancora. Infine, quando ne avremo sommate le molte migliaia, altereremo i conti o per non tirare il bilancio o perché qualche maligno non ci possa lanciare il malocchio, quando sappia l'ammontare dei baci. Vita e amore a noi due Lesbia e ogni acida censura di vecchi come un soldo bucato gettiamo via. Il sole che muore rinascerà ma questa luce nostra fuggitiva una volta abbattuta, dormiremo una totale notte senza fine. Dammi baci cento baci mille baci e ancora baci cento baci e mille baci! Le miriadi dei nostri baci tante saranno che dovremo poi per non cadere nelle malie di un invidioso che sappia troppo, perderne il conto scordare tutto. Odio e amo Come sia non so dire. Ma tu mi vedi qui crocifisso al mio odio ed amore. Solo con te dice la donna mia solo con te io farei l'amore, direi di no anche a Giove. Dice così ma quel che donna dice a un amante pazzo di lei nel vento è scritto sull'acqua è scritto. Mi chiedi, Lesbia, quanti tuoi baci bastino per saziare la mia voglia di te. Quanti sono i granelli di sabbia africana che è sparsa in Cirene ricca di silfio, tra l'oracolo torrido di Giove e il sacro sepolcro dell'antico Batto; o quante stelle nella notte silente spiano gli amori furtivi degli uomini: questo è il numero di baci

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che vuole Catullo, pazzo di te. Che i curiosi non possono contarli né una lingua maligna maledirli. Viviamo mia Lesbia e amiamo, e ogni mormorio dei vecchi perfidi abbia per noi il peso della più vile moneta. I giorni possono morire e risorgere noi, tramonta la nostra breve luce. Dovremo dormire una notte infinita. Dammi mille baci, e quindi cento, poi dammene altri mille e altri cento ancora. E quando ne avremo a migliaia li confonderemo, per non sapere, perché nessuno getti il malocchio invidioso per un così alto numero di baci. Il passero delizia della mia ragazza, con cui suole giocare, e tenerlo in seno, ed a lui bramoso dare la punta del dito ed eccitare focosi morsi, quando alla mia splendida malinconia piace scherzare a non so che di caro e piccolo sollievo del suo dolore, credo perché allora s'acquieti il forte ardore: teco potessi come lei giocare ed alleviare le tristi pene del cuore! O vita mia mi prometti che questo amore fra noi sarà perpetuo e giocondo. O grandi dei, fate che lo possa promettere veramente, e che lo dica sinceramente e dal profondo del cuore, perché ci sia permesso di vivere per tutta la vita questo eterno patto di santa amicizia. Quegli mi appare esser proprio un dio anzi, se fosse lecito, egli è sopra un dio, perché seduto in fronte a te, lui se ne sta tranquillo a guardarti e ascoltarti, mentre sorridi dolce: e invece a me, infelice, svelli del tutto i sentimenti. Ché non appena ti vedo, Lesbia, non mi sopravvive un filo di voce. Ma s'intorpida la lingua, e una fiamma sottile mi scorre entro le membra, le orecchie dentro mi ronzano cupe, e la notte ricopre entrambi i miei lumi. Catullo, il tempo libero è la tua rovina, ché troppo ti esalta e ti eccita. L'ozio ha distrutto anche re e città un tempo felici


PABLO NERUDA, IL POETA COMUNISTA

NERUDA

CHE HA CANTATO LA SPERANZA DELLA LIBERTÀ

Pablo Neruda viene considerato una delle più importanti figure della letteratura latino americana contemporanea. Il suo vero nome era Neftalí Reyes Basoalto, usava l'appellativo d'arte Pablo Neruda (dallo scrittore e poeta ceco Jan Neruda) che in seguito gli fu riconosciuto anche a livello legale. Nel 1971 È stato insignito del Premio Nobel per la letteratura. L'abbraccio delle idee comuniste nacque durante la sua permanenza in Spagna dove visse il colpo di stato fascista di Franco. Divenne amico del poeta Federico Lorca, barbaramente assassinato dai fascisti, combattè per la Repubblica e, dopo la vittoria del fascismo, si occupò della evacuazione dalla Spagna di migliaia di oppositori. Tornato in Cile nel 1945 venne eletto senatore in seno al partito comunista. Nel 1948 nel corso di una seduta del Senato accusò il governo democristiano della violenta repressione di uno sciopero dei minatori del rame, pronunciando il discorso, chiamato in seguito "Yo acuso", in cui lesse all'assemblea l'elenco dei minatori tenuti prigionieri. La reazione dell’allora presidente Vileda fu l'emanazione di un ordine d'arresto contro Neruda, che fu costretto di nuovo all’esilio, mentre il partito comunista cileno veniva messo fuori legge e suoi iscritti dichiarati decaduti dal parlamento. Riuscì a fuggire grazie all’aiuto di Miguel Ángel Asturias, allora diplomatico del Guatemala, e di Pablo Picasso che gli consentì di raggiungere Parigi. Nel 1952, Neruda visse per un periodo in Italia nell’isola di Ca- pag. 35 pri e poi di Ischia (la vicenda è stata narrata nel film di Troisi “Il postino”). Neruda tornò in Cile nell’agosto del 1952,


dopo la caduta del presidente Vileda e il ripristino della legalità e lì riprese nel suo impegno politico, prendendo posizione contro gli Stati Uniti durante la crisi dei missili di Cuba e per la guerra del Vietnam. Nel 1970, Neruda fu indicato come uno dei candidati alla carica di presidente della repubblica cilena, ma si ritirò dalla competizione elettorale appoggiando Allende e aiutandolo a divenire il primo presidente socialista democraticamente eletto in Cile. Per circa due anni e mezzo riprese allora la carriera diplomatica presso la sede di Parigi, che dovette però lasciare per motivi di salute. Il 21 ottobre 1971, ottenne, terzo scrittore dell'America Latina dopo Gabriela Mistral nel 1945 e Miguel Ángel Asturias nel 1967, il Premio Nobel per la letteratura. Al suo primo ritorno in patria, l'anno successivo, venne trionfalmente accolto in una grande manifestazione presso lo stadio di Santiago. Prima di morire assistette al disfacimento del primo governo democratico cileno e al colpo di stato del generale Augusto Pinochet dell'11 settembre, nonché alla morte del presidente Allende, suo amico personale. Insediatasi la dittatura, i militari cominciarono a vessarlo con perquisizioni ordinate dal generale golpista; durante una di queste, Neruda avrebbe detto ai militari «Guardatevi in giro, c'è una sola forma di pericolo per voi qui: la poesia». Mentre attendeva di poter espatriare in Messico, il poeta morì il 23 settembre 1973, assassinato nella clinica santa Maria a Santiago.


Canto d’amore a Stalingrado Nella notte il contadino dorme, ma la mano sveglia, affonda nelle tenebre e chiede all’aurora: alba, sole del mattino, luce del giorno che viene, dimmi se ancora le mani più pure degli uomini difendono la rocca dell’onore, dimmi aurora, se l’acciaio sulla tua fronte rompe la sua forza, se l’uomo rimane al suo posto, e il tuono al suo posto, dimmi, chiede il contadino, se la terra non ode come cade il sangue degli eroi arrossati, nell’immensa notte terrestre, dimmi se ancora sopra l’albero sta il cielo, dimmi se ancora risuonano spari a Stalingrado. E il marinaio in mezzo al mare tremendo scruta le umide costellazioni, e una ne cerca, la rossa stella della città ardente, e scopre nel suo cuore quella stella che brucia, e quella stella d’orgoglio le sue mani vogliono toccare, quella stella di pianto creata dai suoi occhi. Città, stella rossa, dicono il mare e l’uomo, città, chiudi i tuoi raggi, chiudi le tue porte dure, chiudi, città, il tuo famoso lauro insanguinato, e che la notte tremi con lo splendore cupo dei tuoi occhi dietro un pianeta di spade. E lo spagnolo ricorda Madrid e dice: sorella, resisti, capitale della gloria, resisti: dal suolo si alza tutto il sangue sparso dalla Spagna, e per la Spagna si solleva nuovamente, e lo spagnolo chiede, già contro il muro delle fucilazioni, se Stalingrado vive; e c’è nel carcere una catena d’occhi neri che bucano le pareti col tuo nome, e la Spagna si scuote col tuo sangue e i tuoi morti, perché le offristi l’anima tua, Stalingrado, quando partoriva la Spagna eroi come i tuoi. Conosce la solitudine, la Spagna: come oggi conosci la tua, Stalingrado. La Spagna strappò la terra con le unghie quando Parigi era bella più che mai. La Spagna dissanguava il suo immenso albero di sangue quando Londra, come Pedro Garfias ci racconta, pettinava le sue aiuole, i suoi laghi di cigni. Oggi di più conosci questo, forte vergine, oggi, Russia, di più conosci la solitudine e il freddo. Mentre migliaia di obici squarciano il tuo cuore, mentre gli scorpioni con crimine e veleno, accorrono, Stalingrado, a mordere le tue viscere, New York balla, Londra medita, e io dico “merde”,

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perché il mio cuore non resiste più e i nostri cuori non resistono più, non resistono in un mondo che lascia morire soli i suoi eroi. Li lasciate soli? Ora verranno per voi. Li lasciate soli? Volete che la vita precipiti alla tomba, e il sorriso degli uomini sia cancellato dalla latrina e dal calvario? Perché non rispondono? Volete più morti sul fronte dell’Est finché riempiano tutto il vostro cielo? Ma allora non vi resta che l’inferno. Già si stanca di piccole prodezze il mondo, dove al Madagascar i generali, con eroismo, uccidono cinquantacinque scimmie. Il mondo è stanco di congressi autunnali, ancora con un ombrello a presidente. Città, Stalingrado, non possiamo giungere alle tue mura, siamo lontani. Siamo i messicani, siamo gli araucani, siamo i patagoni, siamo i guaranì, siamo gli uruguaiani, siamo i cileni, siamo milioni d’uomini. E abbiamo altra gente, per fortuna, nella famiglia, ma non siamo ancora venuti a difenderti, madre. Città, città di fuoco, resisti finché un giorno arriveremo, indiani naufraghi, a toccare le tue muraglie con un bacio di figli che sperano di tornare. Stalingrado, non c’è un Secondo Fronte, però non cadrai anche se il ferro e il fuoco ti mordono giorno e notte. Anche se muori non morirai, Perché gli uomini ora non hanno morte e continuano a lottare anche quando sono caduti, finché la vittoria non sarà nelle tue mani, anche se sono stanche, forate a morte, perché altre mani rosse, quando le vostre cadono, semineranno per il mondo le ossa dei tuoi eroi, perché il tuo seme colmi tutta la terra.


GUEVARA

FURIBONDO SERNA, ERNESTO ESSERE DURI SENZA DIMENTICARE LA TENEREZZA Circa 45 anni fa i sicari inviati dagli Stati Uniti d’America uccisero Ernesto Guevara de la Serna, il Comandante “Che”. Lo uccisero a sangue freddo dopo averlo catturato in combattimento ferito, gli amputarono le mani come a un toro ucciso nell’arena si tagliano le orecchie e seppellirono il corpo in una fossa comune dove venne ritrovato molti anni più tardi. Pensavano di avere ucciso la mente della guerriglia antiamericana e invece crearono il “mito”. Da decenni oramai, senza mai affievolirsi, il “guerrigliero eroico” è diventato il simbolo della lotta all’oppressione americana in ogni parte del mondo. Molti, dalla Costa d’Avorio al Nepal, forse neppure sanno chi è quel personaggio che appare sulle immagini incollate ai paraurti dei camion o impresse su fazzoletti rossi come veroniche di un eroe senza tempo. Pochi sanno chi era veramente, pochi conoscono a fondo la sua storia, la sua azione, il suo pensiero. Guevara è stato un personaggio straordinariamente poliedrico che ha sviluppato la teoria marxista leninista tentandone una applicazione pratica assolutamente innovativa e, purtroppo, avveniristica per il suo tempo. La drammaticità della sua uccisione ha enfatizzato il profilo dell’eroico guerrigliero, mettendo in secondo piano le sue non minori doti teoriche e politiche. A questo parziale “oscuramento” ha indubbiamente concorso la situazione geopolitica mondiale dell’epoca e di molti decenni a seguire. Il mistero del suo allontanamento da Cuba, della sua rinuncia a tutti le cariche e compiti politici, in verità non ha nulla di misterioso. Guevara detestava il pragmatismo pag. 39 dell’Unione Sovietica krusceviana e rifiutava la logica della immodificabilità della divisione del mondo tra le due grandi po-


tenze. Era un rivoluzionario ma, come profondo comunista, era tutt’altro che irragionevole e impulsivo. Comprendeva bene che la sopravvivenza di Cuba era legata al compromesso tra i due grandi della terra. Il “primo Stato libero d’America” era imprigionato nella gabbia del compromesso molti anni prima sancito negli accordi di Yalta. Guevara non poteva tollerarlo, ma comprendeva che non c’era alternativa. Quel compito toccava a Fidel, col senno dell’oggi indubbiamente uno dei più grandi statisti della storia moderna. La “crisi dei missili”, con l’accordo Kennedy-Kruscev raggiunto sopra la testa dei cubani, fu il sigillo di queste regole. A Fidel il compito, pesante e amaro, di governare il compromesso, a Guevara il sogno di accendere i mille focolai di rivolta capaci di rompere la gabbia della divisione del mondo. Fidel è riuscito nel suo compito salvando il suo paese anche dal crollo del sistema sovietico, “miracolosamente” aiutato dal crescere della rivolta antiamericana nel centro e nel sudamerica e dal prepotente ingresso sulla scena mondiale del colosso comunista cinese. Guevara invece non è riuscito nel suo sogno e ha visto soffocare uno dopo l’altro i focolai di rivolta che si erano accessi in particolare nell’Africa sia araba che nera. Guevara detestava l’Unione Sovietica krusceviana e aveva, forse per primo, scoperto le promesse del comunismo cinese. Sorprendenti sono nei suoi appunti le similitudini con l’insegnamento di Mao, che prefigurano persino l’evoluzione di Deng Xiaoping e la sua teoria del “colore del gatto”. In questo libretto dedicato alla poetica comunista vogliamo invece ricordare il lato più immediato, ma più profondo dell’uomo, anzi del ragazzo che a 18 anni parte alla scoperta delle ingiustizie del mondo e appena a 30 anni vive l’esperienza straordinaria di partecipare alla creazione di uno Stato libero e nuovo. Il padre di 5 figli, il figlio di due genitori non comuni, l’amico di “gitani”, di eroi del popolo, di geni della politica; il “mito” del XIX, del XX e dei tanti secoli a seguire.


La mia unica al mondo (dedicata alla moglie Aleida March) ho estratto di nascosto dalla dispensa di Hikmet questo unico verso innamorato, per lasciarti l’esatta dimensione del mio affetto. Ciò nonostante, nel labirinto più profondo della lumaca taciturna si stringono e combattono gli estremi del mio spirito: tu e TUTTI. Quei TUTTI che mi chiedono la consegna totale, che la mia sola ombra annerisca il cammino! Ma senza truccare codici d’amore sublimato ti porto di nascosto nel mio sacco di viaggio. (Nella mia borsa di viaggiatore insaziabile io ti porto come il pane nostro di ogni giorno). Esco ad innalzare primavere di sangue e di calcina e ti lascio, nell’incavo della mia assenza, questo bacio senza dimora conosciuta. Ma non mi è stata predetta la piazza riservata alla marcia trionfale della vittoria e il sentiero che porta al mio cammino è cosparso di ombre già funeste. Se sono destinato all’oscuro fosso delle fondamenta, mettilo da parte nell’archivio confuso del ricordo; usalo nelle notti di lacrime e di sogni… Addio, mia unica, non tremare davanti alla fame dei lupi né al freddo da steppa dell’assenza; cammini acanto a me, dalla parte del cuore, insieme andremo avanti fino a quando sfumerà la rotta … Partiamo, ardente profeta dell'aurora, per sentieri nascosti e abbandonati, per liberare il verde coccodrillo che ami tanto. Partiamo vincitori di coloro che ci umiliano, lo spirito pieno delle stelle ribelli di Martì, giuriamo di trionfare e di morire. Quando riecheggierà il primo colpo di fucile e si sveglierà in uno stupore virginale tutta la macchia, al tuo fianco noi combatteremo, noi ci saremo. Quando la tua voce spargerà ai quattro venti riforma agraria, giustizia, pane e libertà, al tuo fianco, con le stesse parole, noi ci saremo. E quando verrà alla fine del viaggio la salutare azione contro il tiranno, al tuo fianco, aspettando l'ultima battaglia, noi ci saremo. E se il ferro interromperà il nostro viaggio, chiediamo un sudario di lacrime cubane

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per coprire le ossa dei guerriglieri trasportate dalla corrente della storia americana. Quando saprai che sono morto non pronunciare il mio nome perché si fermerebbe la morte e il riposo. In piedi il ricordo caduto sulla strada, stanco di seguirmi senza storia, dimenticato in un albero del cammino. Andrò così lontano che il ricordo muoia disperso tra le pietre della strada, continuerò ad essere lo stesso pellegrino con dentro la pena e fuori il sorriso. Questo sguardo circolare e forte in una magica mossa di muleta schivò dalla mia ansia ogni meta convertendomi in vettor della tangente. E non volli guardare per non vederti, arrossito torero di mia sorte, che mi invitavi con gesto di disgusto. E seminata nel sangue della morte mia lontana con radici cangianti sotto un tempo di pietra, Solitudine! fiore nostalgico di pareti viventi, Solitudine del mio transito prigioniero sulla terra Quando saprai che sono morto non pronunciare il mio nome perché tratterrà la morte e il silenzio. Qundo saprai che sono morto di sillabe strane. Pronuncia fiore, ape, lagrima, pane, tempesta. Non lasciare che le tue labbra trovino le mie dieci lettere. Ho sonno, ho amato, ho raggiunto il silenzio. Cuando sepas que he muerto, no pronuncies mi nombre porque se detendrá la muerte y el reposo. Cuando sepas que he muerto di sílabas extrañas. Pronuncia flor, abeja, lágrima, pan, tormenta. No dejes que tus labios hallen mis once letras. Tengo sueño, he amado, he ganado el silencio.


QUASIMODO

IL POETA E IL POLITICO “UOMO DEL MIO TEMPO” Salvatore Quasimodo nasce a Modica (Ragusa) il 20 agosto del 1901 e trascorre gli anni dell'infanzia in piccoli paesi della Sicilia orientale seguendo il padre che era capostazione delle Ferrovie dello Stato. Subito dopo il catastrofico terremoto del 1908, si trasferisce a Messina. A Messina Quasimodo compie gli studi fino al conseguimento del diploma presso l'Istituto Tecnico "A. M. Jaci”. A quell'epoca risale l'inizio del sodalizio con Salvatore Pugliatti e Giorgio La Pira, durato tutta la vita. Negli anni messinesi Quasimodo comincia a scrivere versi, che pubblica su riviste simboliste locali. Nel 1919, appena diciottenne, Quasimodo lascia la Sicilia con cui avrebbe mantenuto un legame edipico, e si stabilisce a Roma. In questo periodo continua a comporre poesie che pubblica su riviste locali, trovando il modo di studiare il latino e il greco. Nel 1929 Quasimodo si reca a Firenze, dove il cognato Elio Vittorini lo introduce nell'ambiente di "Solaria", facendogli conoscere i suoi amici letterati, da Alessandro Bonsanti, ad Arturo Loira, a Gianna Manzini, a Eugenio Montale, che intuiscono subito le doti del giovane siciliano. E proprio per le edizioni di "Solaria" (che aveva già pubblicato alcune liriche di Quasimodo) esce nel 1930 Acque e terre, il primo libro della storia poetica di Quasimodo, accolto con entusiasmo dai critici dell'epoca, che salutano la nascita di un nuovo poeta. Durante la guerra, nonostante mille difficoltà, Quasimodo continua a lavorare alacremenpag. 43 te: scrive versi, traduce parecchi Carmina di Catullo, parti dell'Odissea, Il fiore delle Georgiche, il Vangelo secondo Giovanni, Epido re di Sofocle (tutti lavori che vedranno la luce


dopo la liberazione). Parallelamente svolge l’attività di traduttore, con risultati eccezionali, grazie alla raffinata esperienza di scrittore. Numerosissime le sue traduzioni: da Ruskin a Eschilo, Shakespeare, Molière, Ovidio; e ancora da Cummings, Neruda, Aiken, Euripide, Eluard (quest'ultima uscita postuma). Di fatto l'esperienza tragica e sconvolgente della seconda guerra mondiale, il profondo convincimento che l'imperativo categorico era quello di "rifare l’uomo" e che ai poeti spettava un ruolo importante in questa ricostruzione, fanno sì che Quasimodo senta inadeguata ai tempi una poesia troppo soggettiva. La poesia di Quasimodo supera quasi sempre lo scoglio della retorica e si pone su un piano più alto rispetto all'omologa poesia europea di quegli anni, rimanendo coerente con le proprie ragioni poetiche, il poeta, sensibile al tempo storico che vive, accoglie i temi sociali ed etici e di conseguenza varia il proprio stile. Nel 1945 Quasimodo si iscrive al Partito Comunista collaborando attivamente all’attività culturale del Partito e del movimento operaio. Dopo l’eccidio di Portella della Ginestra scrive: «Guardate il viso di queste madri e ricordate che la Sicilia è “anche” terra italiana, fate davvero che “a colpo omicida non si renda colpo omicida” (Sono antiche parole ricantate da Eschilo). A Portella delle Ginestre ricade ancora il silenzio. Ma i suoi morti continuano davvero ad abitare coi vivi, il dolore del distacco, il lamento del Primo Maggio vuole la sua quiete, perché quella frequenza sia dolce e rassegnata. Innocente è sempre in Sicilia chi cade da oscura violenza e un innocente non ha bisogno né di conforto né di elogio ma di giustizia». Dalle tematiche prebelliche e postbelliche passa a poco a poco a quelle del consumismo, della tecnologia, del neocapitalismo, tipiche di quella "civiltà dell'atomo" che il poeta denuncia. Il 10 dicembre 1959, a Stoccolma, Salvatore Quasimodo riceve il premio Nobel per la letteratura e legge il discorso Il poeta e il politico. L’opera di Salvatore Quasimodo è tradotta in quaranta lingue (compreso il Coreano), ed è conosciuta e studiata in tutto il mondo.


Auschwitz Laggiù, ad Auschwitz, lontano dalla Vistola, amore, lungo la pianura nordica, in un campo di morte: fredda, funebre, la pioggia sulla ruggine dei pali e i grovigli di ferro dei recinti: e non albero o uccelli nell’aria grigia o su dal nostro pensiero, ma inerzia e dolore che la memoria lascia al suo silenzio senza ironia o ira. Tu non vuoi elegie, idilli: solo ragioni della nostra sorte, qui, tu, tenera ai contrasti della mente, incerta a una presenza chiara della vita. E la vita è qui, in ogni no che pare una certezza: qui udremo piangere l’angelo il mostro le nostre ore future battere l’al di là, che è qui, in eterno e in movimento, non in un’immagine di sogni, di possibile pietà. E qui le metamorfosi, qui i miti. Senza nome di simboli o d’un dio, sono cronaca, luoghi della terra, sono Auschwitz, amore. Come subito si mutò in fumo d’ombra il caro corpo d’Alfeo e d’Aretusa! Da quell’inferno aperto da una scritta bianca: “Il lavoro vi renderà liberi” uscì continuo il fumo di migliaia di donne spinte fuori all’alba dai canili contro il muro del tiro a segno o soffocate urlando misericordia all’acqua con la bocca di scheletro sotto le docce a gas. Le troverai tu, soldato, nella tua storia in forme di fiumi, d’animali, o sei tu pure cenere d’Auschwitz, medaglia di silenzio? Restano lunghe trecce chiuse in urne di vetro ancora strette da amuleti e ombre infinite di piccole scarpe e di sciarpe d’ebrei: sono reliquie d’un tempo di saggezza, di sapienza dell’uomo che si fa misura d’armi, sono i miti, le nostre metamorfosi. Sulle distese dove amore e pianto marcirono e pietà, sotto la pioggia, laggiù, batteva un no dentro di noi, un no alla morte, morta ad Auschwitz, per non ripetere, da quella buca di cenere, la morte.

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Ai fratelli Cervi, alla loro Italia In tutta la terra ridono uomini vili, príncipi, poeti, che ripetono il mondo in sogni, saggi di malizia e ladri di sapienza. Anche nella mia patria ridono sulla pietà, sul cuore paziente, la solitaria malinconia dei poveri. E la mia terra è bella d’uomini, d’alberi, di martirio, di figure di pietra e di colore, d’antiche meditazioni. Gli stranieri vi battono con dita di mercanti il petto dei santi, le reliquie d’amore, bevono vino e incenso alla forte luna delle rive, su chitarre di re accordano canti di vulcani. Da anni e anni vi entrano in armi, scivolano dalle valli lungo le pianure con gli animali e i fiumi. Nella notte dolcissima Polifemo piange qui ancora il suo occhio spento dal navigante dell’isola lontana. E il ramo d’ulivo è sempre ardente. Anche qui dividono in sogni la natura, vestono la morte e ridono nemici familiari. Alcuni erano con me nel tempo dei versi d’amore e solitudine, nei confusi dolori di lente macine e di lacrime. Nel mio cuore finì la loro storia quando caddero gli alberi e le mura tra furie e lamenti fraterni nella città lombarda. Ma io scrivo ancora parole d’amore, e anche questa è una lettera d’amore alla mia terra. Scrivo ai fratelli Cervi non alle sette stelle dell’Orsa: ai sette emiliani dei campi. Avevano nel cuore pochi libri, morirono tirando dadi d’amore nel silenzio. Non sapevano soldati filosofi poeti di questo umanesimo di razza contadina. L’amore la morte in una fossa di nebbia appena fonda. Ogni terra vorrebbe i vostri nomi di forza, di pudore, non per memoria, ma per i giorni che strisciano tardi di storia, rapidi di macchine di sangue. Epigrafe per i Caduti di Marzabotto Questa è memoria di sangue di fuoco, di martirio, del più vile sterminio di popolo voluto dai nazisti di Von Kesselring e dai loro soldati di ventura dell’ultima servitù di Salò per ritorcere azioni di guerra partigiana. I milleottocentotrenta dell’altipiano fucilati e arsi da oscura cronaca contadina e operaia entrano nella storia del mondo col nome di Marzabotto.


MAJAKOVSKIJ

“NON CHIUDERTI, PARTITO, NETTE TUE STANZE, RESTA AMICO DEI RAGAZZI DI STRADA” Vladimir Vladimirovi Majakovskij nacque a Bagdadi (oggi Majakovskij) in Georgia nel 1893, figlio di un guardaboschi, orfano a soli sette anni, ebbe un'infanzia difficile e ribelle. A tredici anni si trasferì a Mosca con la madre e le sorelle. Studiò al ginnasio fino al 1908, quando si dedicò all'attività rivoluzionaria. Aderì al partito rivoluzionario clandestino e venne per tre volte arrestato e poi rilasciato dalla polizia zarista. Nel 1911 si iscrisse all'Accademia di Pittura, Scultura e Architettura di Mosca dove incontrò David Burljuk, che, entusiasmatosi per i suoi versi, gli propose 50 copechi al giorno per scrivere. Majakovskij aderì al cubofuturismo russo, firmando nel 1914 insieme ad altri artisti il manifesto «Schiaffo al gusto del pubblico». Nel 1914 Majakovskij lanciò la famosa equazione “futurismo=rivoluzione”. Iscritto sin da ragazzo al Partito Comunista mise la sua arte al servizio della rivoluzione bolscevica, sostenendo la necessità d'una propaganda che attraverso la poesia divenisse espressione immediata della rivoluzione in atto, in quanto capovolgimento dei valori sentimentali ed ideologici del passato. Fin dagli esordi della nuova avanguardia futurista, si batté contro il cosiddetto "vecchiume", ovvero l'arte e la letteratura del passato, proponendo al contrario testi letterari concepiti con un forte senso finalistico (la poesia non aveva senso pag. 47 per lui senza una finalità precisa ed un pubblico definito), e con rivoluzionarie scelte stilistiche, organizzando letture di


versi nelle fabbriche e nelle officine, al punto che alcuni quartieri operai formarono addirittura gruppi comunisti-futuristi. Nel maggio del 1925 parte alla volta dell'America, che raggiungerà nel luglio dello stesso anno per trattenersi circa tre mesi. Annotando versi e impressioni su un taccuino di volta in volta, tornato in URSS pubblicò 22 poesie del cosiddetto Ciclo Americano su alcune riviste e giornali nel periodo compreso tra il dicembre del 1925 e il gennaio 1926, mentre la prosa venne pubblicata sempre nel 1926 con il nome di “La Mia Scoperta Dell'America". Majakovskij è stato considerato per antonomasia il poeta della Rivoluzione: tra le tantissime voci poetiche che la Russia seppe regalare alla cultura mondiale nei primi decenni del Novecento, quella di Majakovskij è stata spesso vista come la più allineata, la più rispondente ai dettami della rivoluzione bolscevica. Majakovskij decise di interrompere violentemente la sua esistenza, con un colpo di pistola al cuore, si disse, a causa della passione non ricambiata per la giovane attrice Lilja Brik. La sua morte, avvenuta per supposto suicidio, è ancora un capitolo ambiguo della storia sovietica. Nella sua lettera di commiato scrive: «A tutti. Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi. Il defunto non li poteva sopportare. Mamma, sorelle, compagni, perdonatemi. Non è una soluzione (non la consiglio a nessuno), ma io non ho altra scelta. Lilja, amami. Compagno governo, la mia famiglia è Lilja Brik, la mamma, le mie sorelle e Veronika Vitol'dovna Polonskaja. Se farai in modo che abbiano un'esistenza decorosa, ti ringrazio.[...] Come si dice, l'incidente è chiuso. La barca dell'amore si è spezzata contro il quotidiano. La vita e io siamo pari. Inutile elencare offese, dolori, torti reciproci. Voi che restate siate felici».


Ottobre Aderire o non aderire? La questione non si pone per me. E’ la mia rivoluzione Il partito Il Partito è un uragano denso di voci flebili e sottili e alle sue raffiche crollano i fortilizi del nemico. La sciagura è sull'uomo solitario, la sciagura è nell'uomo quando è solo. L'uomo solo non è un invincibile guerriero. Di lui ha ragione il più forte anche da solo, hanno ragione i deboli se si mettono in due. Ma quando dentro il Partito si uniscono i deboli di tutta la terra arrenditi, nemico, muori e giaci. Il Partito è una mano che ha milioni di dita strette in un unico pugno. L'uomo ch'è solo è una facile preda, anche se vale non alzerà una semplice trave, ne tanto meno una casa a cinque piani. Ma il Partito è milioni di spalle, spalle vicine le une alle altre e queste portano al cielo le costruzioni del socialismo. Il Partito è la spina dorsale della classe operaia. Il Partito è l'immortalità del nostro lavoro. Il Partito è l'unica cosa che non tradisce Poema di Lenin E quando alle barricate si giunse, scegliendo un giorno nella serie dei giorni, Lenin stesso apparve a Pietrogrado: “Basta, compagni. Troppo a lungo soffrimmo. Il giogo del capitale, il mostro della fame, i banditi delle guerre, i ladri interventisti ci sembreranno più bianchi dei néi sul corpo rugoso di nonna storia antica. Basta”. E guardando di laggiù queste giornate, vedrai dapprima la testa di Lenin: il suo pensiero apre una strada di luce dall’éra degli schiavi ai secoli della Comune. Passeranno gli anni dei nostri tormenti

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e ancora all’estate della Comune, scalderemo la nostra vita e la felicità, con dolcezza di frutti giganti, maturerà sui fiori dell’ottobre. E chi leggerà le parole di Lenin, sfogliando le carte gialle dei decreti, sentirà il sangue battere alle tempie e salire le lacrime dal cuore. ... “Compagni, vi chiama il compagno Stalin. A destra, la terza stanza”. Egli è là: “Compagni, presto, sulle autoblinde! Occupate la Posta Centrale!” “Sì”, risponde un marinaio e scompare, e sotto la lampada, sul suo berretto, è brillato un nome, “Aurora” ... E in questa bufera di ferro agognata, Lenin, assorto, camminava, si fermava, aggrottava le ciglia, interveniva, con le mani dietro la schiena. Su qualche ragazzo arruffato, con fasce alle gambe, fissava l’occhio che batte senza sbagliare ed era come se il cuore si estenuasse di sotto alle parole, come se l’anima svelasse di sotto l’intrico delle frasi. Ed io sapevo che tutto era chiarito, era capito, sapevo che l’occhio di Lenin coglieva il grido del contadino e gli urli del fronte, la volontà delle officine Nobel, la volontà delle officine Pulitov. Egli girava nella memoria centinaia di province, abbracciava un miliardo e mezzo di uomini. Egli soppesava il mondo nel corso della notte. E la mattina: “A tutti, a tutti, a tutti. A tutti i fronti rossi di sangue, a tutti gli schiavi sotto il pugno dei ricchi. Il potere ai Soviet. La terra ai contadini. La pace ai popoli. Il pane agli affamati”. ... Ma i messaggi di Lenin conquistarono il fronte senza combattere. Campagne e città inondarono i decreti: anche gli analfabeti ne ebbero il cuore bruciato. ... Noi, anche ad ogni cuoca insegneremo a dirigere lo stato.


IL MESTIERE DI VIVERE TRA MITO E REALTÀ

PAVESE

Cesare Pavese nacque nel 1908 a Santo Stefano Belbo, nelle Langhe. Sono questi i luoghi e le esperienze infantili che vennero successivamente mitizzati dal Pavese scrittore. Nel 1914 morì il padre e questo gli causò un primo trauma. La madre infatti si sostituì al marito defunto nell'allevare il figlio in maniera quanto mai rigida. Pavese compì gli studi liceali a Torino con Augusto Monti, collaboratore di Gobetti, narratore, studioso di problemi della scuola. Fu il primo contatto con il mondo degli intellettuali e con personalità come Leone Ginzburg, Tullio Pinelli, Vittorio Foa e Norberto Bobbio. Durante gli anni dell'università Pavese maturò l'interesse per la letteratura americana; in quegli anni, intanto, alternava il lavoro di traduttore con l'insegnamento della lingua inglese. Nel 1935 venne inviato al confino per attività antifascista. Mentre era al confino pubblicò “Lavorare stanca” e, nello stesso periodo, iniziò la stesura de “Il mestiere di vivere”, diario letterario ed esistenziale che continuò a scrivere fino alla fine dei suoi giorni. Ritornato dal confino, Pavese scoprì che la donna da lui amata si era sposata (e questo gli causò un secondo trauma); da quel momento Pavese fu angosciato dal timore che quanto già accaduto potesse ripetersi. Richiamato alle armi, venne congedato a causa dell'asma che lo affliggeva. Dall'8 settembre 1943 fino alla Liberazione si rifugiò dapprima presso la sorella, poi in un collegio dei padri Somaschi a Casale Monpag. 51 ferrato, estraniato rispetto alle vicende del Paese, mentre molti suoi amici entravano nella Resistenza. Tale esperienza venne narrata ne “La casa in collina”. Nell'opera è espres-


sa la conflittualità tra la sua scelta e quella degli amici, molti dei quali morirono in seguito a tale risoluzione. A guerra finita, tuttavia, Pavese entrò stabilmente nel PCI. Nel 1950, vinse il Premio Strega con il trittico “La bella estate”. La delusione amorosa per la fine del rapporto sentimentale con l'attrice americana Constance Dowling - cui dedicò gli ultimi versi di “Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi” - ed il disagio esistenziale lo indussero al suicidio il 27 agosto del 1950, in una camera dell'albergo Roma, a Torino. Il suo amico scrittore Davide Lajolo bene descrisse in un libro intitolato non casualmente “Il vizio assurdo” il malessere esistenziale che sempre aveva avvolto la vita dell'intellettuale piemontese. Pavese esordisce come poeta nel 1936, con “Lavorare stanca”. L'esperienza narrativa produce un verso allungato e dalla cadenza ampia (decasillabo allungato a tredici sillabe). Nel saggio “Il mestiere di poeta” Pavese sostiene la necessità dell'aderenza delle parole alle cose e teorizza una poesia che si risolve in immagini. Poesia - racconto e poesia - immagine coesistono in “Lavorare stanca”, opera in cui sono già presenti gli elementi peculiari della poetica di Pavese: solitudine come condanna esistenziale, incapacità di dialogo, vagheggiamento della donna, campagna come mito, la figura dell'espatriato che torna al luogo d'origine nella ricerca della propria identità. Pavese è lontano da ogni rappresentazione realistica in quanto ha, come principio di poetica, la necessità di focalizzare il fondo mitico ed irrazionale che è patrimonio di ogni individuo e che ne determina la personalità ed il destino. Nell'ultimo decennio, dal '40 al '50, Pavese produce opere eterogenee per tematica e stile. Da un lato recupera il fondo mitico della propria personalità, distanziandosi dalla realtà e rifugiandosi nell'intellettualismo (Dialoghi con Leucò), per un altro verso indugia al neorealismo, all'osservazione dell'ambiente e degli uomini (Il compagno). I due testi esemplari sono “La casa in collina” e “La luna e i falò”.


Il ragazzo che era in me Va' a sapere perché fossi là quella sera nei prati. Forse mi ero lasciato cadere stremato di sole, e fingevo l'indiano ferito. Il ragazzo a queí tempi scollinava da solo cercando bisonti e tirava le frecce dipinte e vibrava la lancia. Quella sera ero tutto tatuato a colori di guerra. Ora, l'aria era fresca e la medica pure vellutata profonda, spruzzata dei fiori rossogrigi e le nuvole e il cielo s'accendevano in mezzo agli steli. Il ragazzo riverso che alla villa sentiva lodarlo, fissava quel cielo. Ma il tramonto stordiva. Era meglio socchiudere gli occhi e godere l'abbraccio dell'erba. Avvolgeva come acqua. Ad un tratto mi giunse una voce arrochita dal sole: il padrone del prato, un nemico di casa, che fermato a vedere la pozza dov'ero sommerso mi conobbe per quel della villa e mi disse irritato di guastar roba mia, che potevo, e lavarmi la faccia. Saltai mezzo dall'erba. E rimasi, poggiato le mani, a fissare tremando quel volto offuscato. Oh la bella occasione di dare una freccia nel petto di un uomo! Se il ragazzo non ebbe il coraggio, m'illudo a pensare che sia stato per l'aria di duro comando che aveva quell'uomo. lo che anche oggi mi illudo di agire impassibile e saldo me ne andai quella sera in silenzio e stringevo le frecce borbottando, gridando parole d'eroe moribondo. Forse fu avvilimento dinanzi allo sguardo pesante di chi avrebbe potuto picchiarmi. O piuttosto vergogna come quando si passa ridendo dinanzi a un facchino. Ma ho il terrore che fosse paura. Fuggire, fuggii. E, la notte, le lacrime e i morsi al guanciale mi lasciarono in bocca sapore di sangue. L'uomo è morto. La medica è stata diverta, erpicata ma mi vedo chiarissimo il prato dinanzi e, curioso, cammino e mi parlo, impassibile come l'uomo alto e cotto dal sole parlò quella sera. Lavorare stanca I due, stesi sull'erba, vestiti, si guardano in faccia tra gli steli sottili: la donna gli morde i capelli e poi morde nell'erba. Sorride scomposta, tra l'erba. L'uomo afferra la mano sottile e la morde e s'addossa col corpo. La donna gli rotola via. Mezza l'erba del prato è così scompigliata. La ragazza, seduta, s'aggiusta i capelli e non guarda il compagno, occhi aperti, disteso. Tutti e due, a un tavolino, si guardano in faccia nella sera, e i passanti non cessano mai. Ogni tanto un colore più gaio li distrae. Ogni tanto lui pensa all'inutile giorno di riposo, trascorso a inseguire costei,

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che è felice di stargli vicina e guardarlo negli occhi. Se le tocca col piede la gamba, sa bene che si danno a vicenda uno sguardo sorpreso e un sorriso, e la donna è felice. Altre donne che passano non lo guardano in faccia, ma almeno si spogliano con un uomo stanotte. O che forse ogni donna ama solo chi perde il suo tempo per nulla. Tutto il giorno si sono inseguiti e la donna è ancor rossa alle guance, dal sole. Nel cuore ha per lui gratitudine. Lei ricorda un baciozzo rabbioso scambiato in un bosco, interrotto a un rumore di passi, e che ancora la brucia. Stringe a sè il mazzo verde - raccolto sul sasso di una grotta - di bel capevenere e volge al compagno un'occhiata struggente. Lui fissa il groviglio degli steli nericci tra il verde tremante e ripensa alla voglia di un altro groviglio, presentito nel grembo dell'abito chiaro, che la donna gli ignora. Nemmeno la furia non gli vale, perché la ragazza, che lo ama, riduce ogni assalto in un bacio e gli prende le mani. Ma stanotte, lasciatala, sa dove andrà: tornerà a casa rotto di schiena e intontito, ma assaporerà almeno nel corpo saziato la dolcezza del sonno sul letto deserto. Solamente, e quest'è la vendetta, s'immaginerà che quel corpo di donna, che avrà come suo, sia, senza pudori, in libidine, quello di lei. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera, insonne, sorda, come un vecchio rimorso o un vizio assurdo. I tuoi occhi saranno una vana parola, un grido taciuto, un silenzio. Così li vedi ogni mattina quando su te sola ti pieghi nello specchio. O cara speranza, quel giorno sapremo anche noi che sei la vita e sei il nulla Per tutti la morte ha uno sguardo. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Sarà come smettere un vizio, come vedere nello specchio riemergere un viso morto, come ascoltare un labbro chiuso. Scenderemo nel gorgo muti.


BRECHT

“SVENTURATA LA TERRA CHE HA BISOGNO DI EROI” IL TEATRO COME STRUMENTO DI LOTTA POLITICA Bertolt Brecht nacque ad Augsburg il 10 febbraio 1898. Già al liceo mostrò un comportamento indipendente, anticonformista, polemico e tendente a primeggiare sui suoi compagni di classe. Insieme ad essi Brecht scriveva la musica per le sue poesie. Nel 1917 si iscrisse all'università dove frequentò in modo discontinuo le facoltà di scienze naturali, medicina e letteratura. In seguito Brecht dovette interrompere gli studi perché arruolato e distaccato al corpo sanitario, in un ospedale militare di Augusta. Nel 1919 scrisse critiche teatrali per il giornale socialista Augusburger Volkswille e si avvicinò al movimento spartachista. Nel 1922, anno in cui vinse il Premio Kleist per “Tamburi nella notte”, andò a Berlino. Nel 1923 scrisse il dramma “Vita di Edoardo secondo di Inghilterra” . Nel 1925 scrisse la commedia “Un uomo è un uomo”. Dal 1926 intrattenne stretti contatti con artisti di tendenza socialista e le sue opere furono influenzate dallo studio degli scritti di Hegel e Marx. Nel 1927 scrisse la tragedia “Mahagonny”. E’ del 1928 la commedia “L'Opera da tre soldi” su musica di Kurt Weill che divenne il maggior successo teatrale della Repubblica di Weimar. Nel 1930 scrisse il dramma didattico “La linea di condotta”, dove mise in scena tematiche marxiste e il dramma “Santa Giovanna dei Macelli”. Nel 1932 Brecht andò a Mosca per la rappresentazione di Kule Wampe e fre- pag. 55 quentò un ciclo di lezioni sul marxismo tenute dal filosofo Karl Korsch. All'inizio del 1933 la rappresentazione de “La


linea di condotta” venne interrotta da un'irruzione della polizia e il 28 febbraio, giorno successivo al rogo del Reichstag, Brecht abbandonò Berlino. Nel maggio dello stesso anno i suoi libri vennero messi al rogo. Nel 1934 pubblicò il “Romanzo da tre soldi”. Nel 1935 partecipò a Parigi al Congresso internazionale degli scrittori antifascisti, dove lesse un suo testo per la difesa della cultura e contro il nazismo. Nel 1939 scrisse la tragedia “Madre Coraggio e i suoi figli” e “Vita di Galileo”. Nel 1940 scrisse il dramma “La resistibile ascesa di Arturo Ui”. Nel 1941, passando per la Russia si trasferì in California, dove restò per cinque anni. Accusato di avere opinioni comuniste, il 30 ottobre 1947 fu interrogato dal Comitato per le attività antiamericane e il giorno successivo fuggì a Zurigo in attesa di poter rientrare in Germania Nel 1948 ritornò a Berlino Est, dove fondò il teatro Berliner Ensemble che diventò una delle più importanti compagnie teatrali europea e si dedicò soprattutto alla attività di regista e completò il dramma “I giorni della Comune”. Nel 1953 assistette all'insurrezione degli operai di Berlino e scrisse una lettera in cui difendeva il partito comunista. Gli anni successivi lo videro impegnarsi molto per il teatro. Morì il 14 agosto 1956 e, secondo la sua volontà, fu seppellito senza cerimonie nel cimitero di Dorotheenstädtischer Friedhof in Chausseestrasse, che si scorgeva dalle finestre della sua abitazione. Là giace in un angolo adiacente la strada, di fronte alle tombe di Hegel e di Fichte, sotto una pietra dai contorni irregolari, che porta incise soltanto le lettere del suo nome: Bertolt Brecht.


Il nemico Al momento di marciare molti non sanno che alla loro testa marcia il nemico. La voce che li comanda è la voce del loro nemico. E chi parla del nemico è lui stesso il nemico. Germania O Germania, pallida madre! come insozzata siedi fra i popoli! Fra i segnati d'infamia tu spicchi. Dai tuoi figli il più povero è ucciso. Quando la fame sua fu grande gli altri tuoi figli hanno levato la mano su lui. E la voce ne è corsa. Con le loro mani levate così, levate contro il proprio fratello arroganti ti sfilano innanzi e ti ridono in faccia. Tutti lo sanno. Nella tua casa si vocia forte la menzogna. Ma la verità deve tacere. È così? Perché ti pregiano gli oppressori, tutt'intorno, ma ti accusano gli oppressi? Gli sfruttati ti mostrano a dito, ma gli sfruttatori lodano il sistema che in casa tua è stato escogitato! E invece tutti ti vedono celare l'orlo della veste, insanguinato dal sangue del migliore dei tuoi figli. Udendo i discorsi che escono dalla tua casa, si ride. Ma chi ti vede va con la mano al coltello come alla vista d'un bandito. O Germania, pallida madre! Come t'hanno ridotta i tuoi figli, che tu in mezzo ai popoli sia o derisione o spavento!

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Lode della dialettica L'ingiustizia oggi cammina con passo sicuro. Gli oppressori si fondano su diecimila anni. La violenza garantisce: Com'è, così resterà. Nessuna voce risuona tranne la voce di chi comanda e sui mercati lo sfruttamento dice alto: solo ora io comincio. Ma fra gli oppressi molti dicono ora: quel che vogliamo, non verrà mai. Chi ancora è vivo non dica: mai! Quel che è sicuro non è sicuro. Com'è, così non resterà. Quando chi comanda avrà parlato, parleranno i comandati. Chi osa dire: mai? A chi si deve, se dura l'oppressione? A noi. A chi si deve, se sarà spezzata? Sempre a noi. Chi viene abbattuto, si alzi! Chi è perduto, combatta! Chi ha conosciuto la sua condizione, come lo si potrà fermare? Perché i vinti di oggi sono i vincitori di domani e il mai diventa: oggi! Breviario tedesco Quando chi sta in alto parla di pace La gente comune sa Che ci sarà la guerra. Quando chi sta in alto maledice la guerra Le cartoline precetto sono già compilate. Quelli che stanno in alto Si sono riuniti in una stanza Uomo che sei per la via Lascia ogni speranza. I governi Firmano patti di non aggressione. Piccolo uomo, firma il tuo testamento. Sul muro c’era scritto col gesso: vogliono la guerra. Chi l’ha scritto è già caduto. Il fumo La piccola casa sotto gli alberi sul lago. Dal tetto sale il fumo. Se mancasse Quanto sarebbero desolati La casa, gli alberi, il lago!


LO RC A

“DICE LA SERA: HO SETE D'OMBRA DICE LA LUNA: IO HO SETE DI STELLE!” García Lorca nasce il 5 giugno 1898 a Fuente Vaqueros, un paesino della vega granadina. È figlio di un ricco possidente che gli trasmette la passione per la musica. La madre gli trasmetterà la coscienza profonda della realtà degli indigenti e il rispetto che García Lorca riverserà all'interno della propria opera letteraria. A Granada frequenta il "Colegio del Sagrado Corazón" e nel 1914 si iscrive all'Università, frequentando dapprima la facoltà di giurisprudenza per poi passare a quella di lettere. Nel 1919 ottiene l'ingresso nella prestigiosa Residencia de Estudiantes di Madrid, che era considerata il luogo della nuova cultura e delle giovani promesse del '27, dove rimarrà nove anni, tranne alcuni viaggi a Barcellona e a Cadaqués ospite del pittore Salvador Dalí, a cui lo lega un rapporto di stima e amicizia che coinvolgerà presto anche la sfera sentimentale. È di questo periodo la pubblicazione del “Libro de poemas”, la preparazione delle raccolte “Canciones” e “Poema del Cante jondo”, al quale fa seguito il dramma teatrale “El maleficio de la maríposa” nel 1920 e nel 1927 il dramma storico “Mariana Pineda” per il quale Salvador Dalí disegna la scenografia. Seguiranno le prose d'impronta surrealista, atti teatrali, raccolte poetiche e un numero straordinario di articoli, composizioni, pubblicazioni varie. Nella primavera del 1929 lascia la Spagna e si reca negli Stati Uniti. L'esperienza statunitense sarà fondamentale per il poeta e darà come risultato una delle produ- pag. 59 zioni lorchiane più riuscite, “Poeta en Nueva York”, incentrata su quanto García Lorca osserva: una società di troppo


accesi contrasti tra poveri e ricchi, emarginati e classi dominanti, connotata da razzismo. Si rafforza in García Lorca il convincimento della necessità di un mondo nettamente più equo, non discriminante. Nel1930 rientra in Spagna che, dopo la caduta della dittatura di Primo de Rivera, sta vivendo una fase di intensa vita democratica e culturale. Con l'aiuto di Fernando de los Ríos, Ministro della Pubblica istruzione, García Lorca, con attori e interpreti selezionati dall'Istituto Escuela di Madrid con il suo progetto di Museo Pedagocico, realizza il progetto di un teatro popolare ambulante, chiamato La Barraca che, girando per i villaggi, rappresenta il repertorio classico spagnolo. Alla morte dell'amico torero Ignacio Sánchez Mejías avvenuta l'11 agosto del 1934, il poeta dedica il famoso” Llanto” (Compianto). Stanno intanto precipitando gli eventi politici ma García Lorca rifiuta la possibilità di asilo offertagli da Colombia e Messico, ed il 13 luglio decide di tornare a Granada, nella casa della Huerta de San Vicente, per trascorrervi l'estate. Rilascia un'ultima intervista, al “Sol” di Madrid, in cui c'è una eco delle motivazioni che l'avevano spinto a rifiutare quelle offerte di vita fuori dalla Spagna: "Io sono uno Spagnolo integrale e mi sarebbe impossibile vivere fuori dai miei limiti geografici; però odio chi è Spagnolo per essere Spagnolo e nient'altro, io sono fratello di tutti e trovo esecrando l'uomo che si sacrifica per una idea nazionalista, astratta, per il solo fatto di amare la propria Patria con la benda sugli occhi. Canto la Spagna e la sento fino al midollo, ma prima viene che sono uomo del Mondo e fratello di tutti. Per questo non credo alla frontiera politica.”. Pochi giorni dopo esplode in Marocco la ribellione franchista, che in breve tempo colpisce la città andalusa e instaura un clima di feroce repressione. Il 16 agosto Garcìa Lorca, che si era rifugiato in casa dell'amico poeta falangista Louis Rosales, viene arrestato e condotto a Víznar, presso Granada e, all'alba del 19 agosto del 1936, viene fucilato sulla strada vicino alla Fuente grande, lungo il cammino che va da Víznar a Alfacar. Il suo corpo non venne mai ritrovato.


La Luna Quando spunta la luna tacciono le campane e i sentieri sembrano impenetrabili. Quando spunta la luna il mare copre la terra e il cuore diventa isola nell'infinito. Notturno Ho tanta paura delle foglie morte, paura dei prati gonfi di rugiada. Vado a dormire; se non mi sveglierai lascerò al tuo fianco il mio freddo cuore. Che cosa suona così lontano? Amore. Il vento sulle vetrate, amor mio! Ti cinsi collane con gemme d'aurora. Perché mi abbandoni su questo cammino? Se vai tanto lontana il mio uccello piange e la vigna verde non darà vino. Che cosa suona così lontano? Amore. Il vento sulle vetrate, amor mio! Non saprai mai o mia sfinge di neve, quanto t'avrei amata quei mattini quando a lungo piove e sul ramo secco si disfa il nido. Che cosa suona così lontano? Amore. Il vento sulle vetrate, amore mio!

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Casida del pianto Ho chiuso la mia finestra perché non voglio udire il pianto, ma dietro i grigi muri altro non s'ode che il pianto. Vi sono pochissimi angeli che cantano, pochissimi cani che abbaiano; mille violini entrano nella palma della mia mano. Ma il pianto è un cane immenso, il pianto è un angelo immenso, il pianto è un violino immenso, le lacrime imbavagliano il vento. E altro non s'ode che il pianto. L'ombra dell'anima mia fugge in un tramonto di alfabeti, nebbia di libri e di parole. L'ombra dell'anima mia! Sono giunto alla linea dove cessa la nostalgia, e la goccia di pianto si trasforma in alabastro di spirito. L’ombra dell’anima mia Il fiocco del dolore finisce, ma resta la ragione e la sostanza del mio vecchio mezzogiorno di labbra, del mio vecchio mezzogiorno di sguardi. Un torbido labirinto di stelle affumicate imprigiona le mie illusioni quasi appassite. L'ombra dell'anima mia! E un'allucinazione munge gli sguardi. Vedo la parola amore sgretolarsi. Mio usignolo! Usignolo! Canti ancora?


Poiché tu sola governi la natura e senza di te niente sorge alle celesti plaghe della luce, niente si fa gioioso, niente amabile, te desidero compagna nello scrivere i versi ch’io tento di comporre sulla natura per il nostro Memmiade, che tu, o dea, in ogni tempo volesti eccellesse ornato di ogni dote. Tanto più dunque, o dea, da’ ai miei versi fascino eterno. Fa’ sì che frattanto i fieri travagli della guerra, per i mari e le terre tutte placati, restino quieti. Tu sola infatti puoi con tranquilla pace giovare ai mortali, poiché sui fieri travagli della guerra ha dominio Marte possente in armi, che spesso sul tuo grembo s’abbandona vinto da eterna ferita d’amore; e così, levando lo sguardo, col ben tornito collo arrovesciato, pasce d’amore gli avidi occhi anelando a te, o dea, e, mentre sta supino, il suo respiro pende dalle tue labbra. Quando egli sta adagiato sul tuo corpo santo, tu, o dea, avvolgendolo dall’alto, effondi dalla bocca soavi parole: chiedi, o gloriosa, per i Romani placida pace.

Quae quoniam rerum naturam sola gubernas nec sine te quicquam dias in luminis oras exoritur neque fit laetum neque amabile quicquam, te sociam studeo scribendis versibus esse, quos ego de rerum natura pangere conor Memmiadae nostro, quem tu, dea, tempore in omni omnibus ornatum voluisti excellere rebus. Quo magis aeternum da dictis, diva, leporem. Effice ut interea fera moenera militiai per maria ac terras omnis sopita quiescant. Nam tu sola potes tranquilla pace iuvare mortalis, quoniam belli fera moenera Mavors armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se reiicit aeterno devictus vulnere amoris; atque ita suspiciens tereti cervice reposta pascit amore avidos inhians in te, dea, visus eque tuo pendet resupini spiritus ore. Hunc tu, diva, tuo recubantem corpore sancto circum fusa super, suavis ex ore loquellas funde petens placidam Romanis, incluta, pacem.

LUCREZIO CARO

INNO A VENERE “UNA PLACIDA PACE”

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Supplemento del periodico Piazza del Grano Autorizzazione dei tribunale di Perugia n. 29/2009 via della Piazza del Grano n. 11 - Foligno e-mail redazionepiazzadelgrano@yahoo.it Stampato presso GPT Srl - CittĂ di Castello aprile 2012



La rosa s’apre, la rosa appassisce senza sapere quello che fa. Basta un profumo di rosa smarrito in un carcere perchÊ nel cuore del carcerato urlino tutte le ingiustizie del mondo Ho Chi Minh


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