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Comunista!
Numer o “diver so” - Estate 2011
Mensile di informazione, politica e cultura dell’Associazione Luciana Fittaioli - Anno III, n. 8 - agosto 2011
L’Etat c’est moi! SANDRO RIDOLFI
“Lo Stato sono io”. Con questa espressione attribuita a Luigi XIV (il “Re Sole”), nella scienza della politica si è inteso individuare il potere “assoluto”; un potere che non è solamente al di sopra della legge, ma che è lui stesso “la legge”. Il monarca assoluto infatti non è solamente sottratto al rispetto delle leggi che vincolano tutti gli altri “mortali”, perché in tal caso si tratterebbe di un privilegio, di una situazione speciale; il monarca assoluto va “oltre”, lui le leggi le fa, lui è la legge. Questo potere assoluto nella storia ha avuto sempre la necessità di trovare un’origine ancora più alta, se possibile, l’origine divina. Il monarca assoluto era l’ “unto” del Signore (“Re per grazia di Dio”), il suo delegato in terra al governo dei mortali. Non è stato mai difficile, in tutti i tempi e in tutti i luoghi, agli “unti” del Signore trovare dei chierici disponibili a “certificare” la volontà del Dio. Qualcuno è andato persino più “su”, come il piccolo francese con il cappello di traverso che al momento della certificazione della volontà divina ha tolto la corona dalle mani del chierico di turno e l’è messa in testa da solo, così stabilendo un legame diretto con il suo “creatore”. Si narra che in quel momento egli abbia esclamato: “Dio me l’ha data e guai a chi me la tocca”. Gliela hanno “toccata”. Ma erano altri tempi e altri paesi, molto più civili. Oggi un altro piccoletto di casa nostra, che ha sostituito il cappello di traverso prima con una bandana e poi con un parrucchino, si è immaginato di avere in testa una corona e ha provato a fare il monarca assoluto, a fare/essere la legge. Questo articolo potrà sembrare ironico (spero non comico), ma non vuole esserlo. Forse lo sarà nel linguaggio, ma non lo è nel contenuto, perché quello di cui vuole parlare è di una gravità che non ha precedenti, almeno negli ultimi duecento anni che sono trascorsi dalla Rivoluzione francese e dalla decapitazione del cittadino
Luigi Capeto (Luigi XVI, il nipote del “Re Sole”). E’ accaduto un fatto che va molto oltre la prostituzione minorile, la compravendita di parlamentari rappresentanti del popolo, la corruzione dei magistrati e così via. Questo fatto colpisce il “cuore dello Stato”, dello Stato di diritto, e ci ricaccia ai tempi del potere assoluto. Da diversi anni e per innumerevoli volte il piccoletto col parrucchino ha tentato (e spesso ci è riuscito) di sottrarsi alle leggi, di munirsi di privilegi speciali, di deroghe, di eccezioni, indubbiamente personali (“ad personam”), ma pur sempre eccezioni. Questa volta ha “saltato il fosso”, ha cambiato la legge. “Lo Stato sono io. Io faccio le leggi. Quindi da ora decido che le sentenze di condanna oltre una certa somma (quella che mi riguarda personalmente) non sono più esecutive”. Né deroga, né eccezione, né privilegio personale, semplicemente non c’è più o viene cambiata la legge. Si tratta di un principio assoluto, come assoluto è il potere che stabilisce quel principio. Una “drittata” è stato detto; “c’ha provato” e per fortuna che qualcuno se ne è accorto ed è anche arrivato il quotidiano “severo monito” dal Quirinale. Eppure nessuno che abbia detto (correggo, molti lo hanno detto ma non hanno avuto risonanza) che siamo alla follia o all’abisso della democrazia. Perché, vedete, comprare un parlamentare è un reato, così come corrompere un giudice o “relazionarsi” con una minorenne. Si può restare impuniti per abilità difensiva o mal funzionamento della macchina giudiziaria, ma quei fatti restano pur sempre dei reati, se non puniti penalmente, quanto meno riprovevoli al senso comune. Cambiare la legge, apparentemente, è legittimo e a sua volta rende legittimo l’abuso. Non c’è difesa. E oggi non c’è più nemmeno la ghigliottina. Riflessione conclusiva (che, lo so, farà arrabbiare molti) hanno davvero torto i giudici brasiliani a non estradare un criminale (non c’è dubbio!) in un paese dove non c’è più certezza del diritto (delle leggi)?
Piazza del Grano è ora anche sul portale nazionale di commercio elettronico di libri
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“Vai e Vivrai” “Va’, vivi e diventa…”. Le tue parole hanno nutrito il mio dolore e le mie speranze. “Va’, vivi e diventa!”. Ho rispettato il tuo desiderio: non ho mai smesso di cercare di essere qualcuno, di vivere quell’insegnamento in ogni istante dell’esistenza, passo dopo passo, per te. Non so se ce l’ho fatta, mamma, ma sono diventato un uomo di questo mondo. Sono andato, ho vissuto. Che la grazia non ti abbandoni mai. Ogni notte leggevo il tuo sguardo sulla pelle della luna, il tuo viso, la forma dei tuoi occhi. Sono partito nella paura e nel dolore, ma ho vissuto. Sono qualcuno. (Mihaileanu Radu - Feltrinelli, 2005). Avevamo pensato di aprire la pagina con lo stesso titolo utilizzato nel manifesto di questo mese: “Tutti a(l) mare”. Un gioco di parole che, coniugato con l’immagine del gommone sovraccarico di immigrati immerso in un mare azzurro, voleva ricordarci che anche quando per alcuni il mare d’estate è sinonimo di giusto e legittimo riposo, per altri, magari proprio quello stesso braccio di mare e di costa, può essere sinonimo di salvezza e di speranza per un futuro. Abbiamo però pensato che il “gioco” non fosse poi così divertente, né per chi vive quella angosciata
speranza, né per chi ha il legittimo diritto di godere del proprio riposo e difendere e valorizzare la qualità della propria vita. Abbiamo quindi optato per un titolo più rispettoso dell’intensità dell’immagine, utilizzando le parole di un libro e di un film che, in verità molto lontano dal mare e nel profondo del deserto centro africano, narra tuttavia un’identica storia di lotta per la sopravvivenza e di speranza nel futuro. “Vai e vivrai” dice una madre al proprio figlio che affida alle mani di sconosciuti perché lo portino via dalla miseria assoluta di un campo profughi, nella speranza che altrove, in un altro luogo, per lei in un “altro mondo”, possa avere la possibilità di sopravvivere, anzitutto, e poi magari di conquistare il futuro di una vita degna di essere chiamata tale. Il bambino, poi ragazzo, poi uomo ci riuscirà e riuscirà anche a tornare nella sua terra per cercare di portare aiuto alla sua gente che non è potuta “andare”. Vengono per vivere le migliaia di immigrati che, molto spesso al prezzo della vita, attraversano come possono il mare che nel loro immaginario (esattamente corrispondente alla realtà) separa il benessere dalla miseria estrema.
Vengono per vivere, forse anche con la speranza di tornare, certamente con l’impegno di aiutare quelli che non ce l’hanno fatta a venire e sono rimasti ad aspettare, sperando intanto di riuscire a sopravvivere. Li chiamiamo ipocritamente “clandestini”, ma sono visibilissimi, con il loro colore, con i loro bisogni, con la loro necessità di accettare qualsiasi ingiustizia e violenza fisica e morale, dai padroni delle terre, ma anche delle fabbriche, delle organizzazioni criminali illegali o legalizzate. Mentre ci interroghiamo sul “dramma” che ha colpito uno degli uomini più ricchi del mondo, condannato a pagare una somma che potrebbe sfamare per anni tutti gli immigrati, clandestini, del Mediterraneo, ricordiamoci per un attimo anche di questi ultimi. Questa tuttavia non vuole essere una “lamentazione” ipocrita da atto di contrizione buono per la vigilia di Natale. Al contrario vuole essere l’affermazione di un diritto, che è tale solo se è uguale per tutti, il diritto alla qualità della vita, alla serenità, al benessere e anche alla felicità, ma a quella di tutti (“bonheur de tous” della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino francese). Il mare, il sole, la
spiaggia, il nuoto, l’ombrellone, la birra fredda, il pesce fritto, sono un diritto di tutti; non sono un privilegio e tanto meno una colpa. Quindi chi vuole e può permetterselo ha il diritto di goderne e se non può permetterselo ha il diritto di pretenderlo. Nel nostro piccolo abbiamo deciso di contribuire alla soddisfazione di questo diritto. Senza rinunciare minimamente al progetto di provocazione culturale e politica perseguito da questo periodico, ma anzi nella convinzione di contribuire anche in questo modo “diverso”, abbiamo pensato di pubblicare per il mese di agosto un numero, appunto, “diverso”. 20 pagine tutte da leggere e da leggere da parte di tutti. Abbiamo chiesto ai nostri amici “scrittori” di mettere a patrimonio comune il bello e il meglio dello loro esperienze, conoscenze, emozioni. Dai viaggi alla narrativa, dalla musica alla poesia, dal teatro al cinema, all’oroscopo. Un giornale da sfogliare e godere sotto un ombrellone, o un pergolato o sul balcone di casa, zanzare permettendo. Ci auguriamo che l’idea Vi piaccia e che il prodotto lo meriti. A noi è piaciuto pensarlo e farlo. la Redazione di Piazza del Grano
Periodico mensile dell’Associazione Luciana Fittaioli. Autorizzazione del tribunale di Perugia n.29/2009 Editore: Sandro Ridolfi. Direttore Responsabile Maura Donati. Direttore sito internet Andrea Tofi Foligno, via della Piazza del Grano n. 11 - e.mail redazionepiazzadelgrano@yahoo.it Tipografia Del Gallo Editori Srl, loc. S. Chiodo, Spoleto - Tiratura 3.500 copie
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Cina
NUMERO “DIVERSO” AGOSTO 2011
La Cina, un mondo, che racchiude varietà di panorami con una storia che si estende nell'arco di più di cinquemila anni V
iaggiare! Quale il senso di questa meravigliosa esperienza? Un viaggio può avere molti significati. Dipende da come lo si prende, da come lo si considera, dallo stato d’animo con il quale si vive. Fuggire dal quotidiano, riconciliarsi con sensazioni che la routine giornaliera ci nega, vivere una pausa, riposare, meditare o forse il desiderio di soddisfare un bisogno emotivo di conoscenza? Personalmente lo ignoro ed ho più volte tentato di giustificarlo con l’esigenza di conoscere non dai libri, rubando le esperienze altrui, ma allargando i miei orizzonti sopratutto attraverso la conoscenza di persone che vivono in modo ed in luoghi diversi dai miei, attraverso un approccio diretto, non permeato dagli stereotipi che ci condizionano giornalmente; l’occasione per vivere emozioni destinate a rimanere impresse nella memoria in modo indelebile nella loro specificità ed a creare legami emotivamente collegati a quel breve lasso di tempo che ricordiamo, assimilandoli al luogo visitato. el 1985, nella scia della diplomazia detta del ping-pong (per l’incontro organizzato tra le rispettive squadre) che costituì un momento di distensione nelle relazioni tra Cina e Stati Uniti d'America e che aprì la via alla visita del Presidente Nixon prima, ed al turismo dopo, quando già da un anno risiedevamo a Foligno e prima della nascita di nostro figlio, mia moglie ed io, cedendo ad un momento di giovanile incoscienza, decidemmo di vivere l’esperienza del viaggio in Cina. Non per conoscerla, perchè come affermato da Confucio ci vorrebbero cento vite per conoscere la Cina. Ammesso che qualcuno possa affermare con assoluta certezza di conoscere non dico la nazione, ma la regione e talvolta la città dove vive. Semplicemente per avere l’occasione, avendone allora il tempo, di percorrere i tragitti delle leggende, dei sogni, dei miraggi e delle illusioni alimentate per secoli da poeti e conquistatori ai quali il Milione di Marco Polo ha dato la prima vera im-magine, scoprendo e rivelando un mondo pressoché ignoto. Per visitare i luoghi dove si era sviluppato ed aveva avuto attuazione, secondo una propaganda molto diffusa all’epoca della mia frequentazione universitaria, il pensiero marxista leninista attraverso la politica del suo leader Mao Zedong che aveva condizionato anche in Italia, le idee di intere generazioni. Ho poi scoperto di aver seguito, senza saperlo, il dettato di una sentenza popolare cinese secondo
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cui è meglio vedere una volta che sentire cento. Non ho mai considerato il libretto rosso come la Verità, pur avendolo letto in gioventù, spinto da un compagno di classe all’epoca del liceo segretario non so di quale formazione di ispirazione marxista-leninista, oggi seguace della politica governativa. Per cui ho intrapreso il viaggio verso la Cina non considerandolo un pellegrinaggio nel mito, ma attratto da una sorta di mistero.
che si può ammirare dal Victoria Peak. Il nostro ingresso nella Cina vera, per intenderci quella della rivoluzione culturale, avvenne due giorni dopo. In treno arrivammo a Guangzhou, a noi nota come Canton. Qui fummo presi in consegna dalla nostra guida Cinese, che aveva il compito di accompagnarci in tutto il giro della Cina. Subito individuato da alcuni componenti del gruppo, che ritenevano esser giunti nel regno del male, come una
antipaticissima signora bergamasca che pretendeva di fornirgli il testo della canzone “noi di Bergamo alta, la forchetta la chiamiamo el pirù”. Rimase molto impressionato della mia ammirazione per il vecchio porto di Shanghai fatto tutto di costruzioni tipiche in legno che, mi confidò come un segreto ma con un certo trionfalismo, a breve sarebbero state abbattute per lasciare spazio a strutture moderne realizzate tutte in cemento ed acciaio. l passaggio da Hong Kong a Canton, seppur percorso in poco più di un’ora, sembrò più un viaggio nel tempo che il trasferimento da una città all’altra. Quest’ultima pur essendo posizionata sul Fiume delle Perle e costituendo un ricco centro economico, piazzato nel cuore di una delle più ricche regioni cinesi grazie al commercio ed alle industrie manifatturiere, appariva come una città d’altri tempi. Nessuna automobile, di sera poca luce per le strade, persone che stazionavano in prossimità di panchine e piccoli chioschi dove venivano venduti dolcetti particolarissimi e graziosi oggetti o dipinti fatti a mano. Ancora conservo dei cerini, uno diverso dall’altro, custoditi in una piccola scatola di legno. Nel frattempo il viaggio consumava i suoi giorni e, come naturale, avevamo conosciuto due coppie, una romana, l’altra milanese, profondamente diverse tra loro e sicuramente molto da noi ma con le quali, per una strana alchimia, si era creato un filo che univa i nostri interessi rispetto al viaggio. E’ con loro che abbiamo visitato la pittoresca Guilin il cui nome significa Foresta di Cassia per il largo numero di queste piante e le cui montagne ed i fiumi sono, per i Cinesi, i migliori sotto il cielo. E’ sempre con loro che abbiamo vissuto un giorno e una
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l nostro accesso alla CiIKong. na passa per Hong E’ qui, infatti che at-
terriamo, in un aeroporto posizionato nel cuore della città, con una manovra che dà l’impressione di consentire di parlare con le persone che abitano i palazzi vicinissimi e che l’aereo sembra sfiorare. Viviamo così il nostro primo approccio con l’Oriente. All’epoca questa città, protettorato inglese, formata dall’isola omonima e da due territori attaccati alla terra ferma apparve ai nostri occhi quasi come una New York brulicante di orientali, fermamente determinati a venderti di tutto. Caratterizzata dall’odore del Balsamo di Tigre, unguento a base di canfora, panacea, secondo i locali, di qualsiasi malanno fisico e da un panorama mozzafiato
spia della polizia segreta, pronto a denunciarci alla minima infrazione. In realtà Huang, questo il suo nome, era un ragazzo alto e magro, molto cortese, quasi timido e bisognoso, forse lui, della nostra protezione. Come la grande maggioranza dei suoi connazionali non indossava più il vestito di Zhongshan, studiava l’italiano ed era molto curioso circa il nostro sistema di vita. La sua ossessione era sapere se rispondeva al vero che in Italia quasi ogni famiglia possedeva un’automobile e dove mai venissero parcheggiate. Mi chiese dopo alcuni giorni, con mia grande sorpresa, di scrivergli il testo della canzone O sole mio, che ovviamente non conoscevo nella sua interezza, provocando la reazione irritata di una
notte in una carrozza di un treno a carbone che sembrava uscito da un film dell’ottocento fino a Luoyang dove si possono ammirare le splendide Grotte della Porta del Drago, caratterizzate da Buddha di tutte le dimensioni scolpiti nella roccia. Che dire di Shanghai, capitale economica e dell’architettura delle sue colonie. Xian con le sue pagode e l’esercito di terracotta. La Grande Muraglia, unica opera umana visibile dallo spazio e inserita nel 2007 fra le sette meraviglie del mondo moderno, Pechino e la Città Proibita sulla cui porta campeggiava, come ancora oggi, una enorme foto del Grande Timoniere. Piazza Tienanmen, vicino al centro di Pechino, chiamata così per la Porta della pace celeste posta al suo nord, considerata il cuore simbolico della nazione cinese. a cucina, legata alla filosofia e alla medicina, che armonizza i gusti in piatti condivisi tra i commensali, trovando un equilibrio tra il freddo ed il caldo su una tavola che si caratterizza per il suo aspetto sociale, rotonda, sormontata da un piatto girevole dove sono depositati le pietanze, senza coltelli. Tutti gli alimenti tagliati in cucina, piatti privi di successione cronologica, tipicamente italiana, sostituita da una ricerca di equilibrio tra i cinque sapori di base: dolce, salato, acido, amaro, piccante, accompagnati dal riso cotto a vapore senza condimento, con il tè come bevanda. Vestigia e segni di una civiltà antica che testimoniano profonde differenze culturali dalle nostre.
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ppure ciò che più mi E ha colpito durante quel viaggio è stato l’incontro con i cinesi dei quali era palpabile il grande balzo in avanti, fatto scrollandosi di dosso una atavica miseria, la cui ulteriore proiezione nel futuro era facilmente pronosticabile. Lo sciamare di frotte di persone in bicicletta alla chiusura delle fabbriche, il rito della ginnastica mattutina nei
giardini, il brulichio di persone nei mercati e nelle strade, la capacità di mercanteggiare per la vendita di un oggetto. Tutto nel rispetto della regola che nulla urge e che ogni circostanza ha bisogno del suo tempo. La curiosità di un nostro secondo accompagnatore, figura che cambiava di città in città, di conoscere le nostre abitudini ed usanze, in particolare di cosa ci nutri-vamo, con quali bevande ci dissetavamo, come avvicinavamo una ragazza che ci potesse interessare e se fosse vero che nei film prodotti in occidente fossero presenti scene d’amore con veri baci. A conferma dell’affermazione di Confucio che tre sono gli istinti dell’uomo:mangiare, bere e spassarsela a letto. Altrettanto particolare l’incontro con i compagni di viaggio. La pretesa della solita ed antipatica signora bergamasca di sottrarre tempo alla visita di piazza Tienanmen per avere più tempo nei magazzini del Popolo, sacrificando se del caso anche la visita al mausoleo di Mao che ricorda molto quello dedicato a Vladimir Ilic Ulianov. Il sostegno, al nostro desiderio di vedere quanto più possibile, del Direttore Megagalattico dell’Azienda dove lavorava l’antipatica Bergamasca, le lacrime della Lei Romana che in piazza Tienanmen sentiva realizzato il sogno politico della sua gioventù, presa affettuosamente in giro dal suo Lui che pure quel sogno aveva condiviso. ue anni fa, nuovamente in Cina, stavolta per un breve soggiorno, di fronte a luoghi e
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paesaggi, che stentavo a riconoscere per il visibile cammino percorso verso il benessere e a una frenesia dei passanti assolutamente sconosciuta nell’intero periodo del primo soggiorno, la prima cosa che mi è venuta in mente è stata la frase scritta nel libro Un indovino mi disse di Tiziano Terzani: “la globalizzazione ha scolorito l’arcobaleno”. Luigi Napolitano
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Teatro
NUMERO”DIVERSO” AGOSTO 2011
Giulietta e Romeo ROMEO Si ride delle cicatrici altrui chi non ebbe a soffrir giammai ferita… (Giulietta appare a una finestra) Oh, quale luce vedo sprigionarsi lassù, dal vano di quella finestra? È l’oriente, lassù, e Giulietta è il sole! Sorgi, bel sole, e l’invidiosa luna già pallida di rabbia ed ammalata uccidi, perché tu, che sei sua ancella, sei di gran lunga di lei più splendente. Non restare sua ancella, se invidiosa essa è di te; la verginal sua veste s’è fatta ormai d’un color verde scialbo e non l’indossano altre che le sciocche. Gettala via!… Oh, sì, è la mia donna, l’amore mio. Ah, s’ella lo sapesse! Ella mi parla, senza dir parola. Come mai?… È il suo occhio che mi discorre, ed io risponderò. Oh, ma che sto dicendo… Presuntuoso ch’io sono! Non è a me, ch’ella discorre. Due luminose stelle,tra le più fulgide del firmamento avendo da sbrigar qualcosa altrove, si son partite dalle loro sfere e han pregato i suoi occhi di brillarvi fino al loro ritorno… E se quegli occhi fossero invece al posto delle stelle, e quelle stelle infisse alla sua fronte? Allora sì, la luce del suo viso farebbe impallidire quelle stelle, come il sole la luce d’una lampada; e tanto brillerebbero i suoi occhi su pei campi del cielo, che gli uccelli si metterebbero tutti a cantare credendo fosse finita la notte. Guarda com’ella poggia la sua gota a quella mano… Un guanto vorrei essere, su quella mano, e toccar quella guancia! GIULIETTA (Come avesse sentito un rumore, o forse assorta in tristi pensieri, sospirando) Ahimè!… ROMEO (Tra sé) Dice qualcosa… Parla ancora, angelo luminoso, sei sì bella, e da lassù tu spandi sul mio capo tanta luce stanotte quanta più non potrebbe riversare sulle pupille volte verso il cielo degli sguardi stupiti di mortali un alato celeste messaggero che, cavalcando sopra pigre nuvole, veleggiasse per l’infinito azzurro! GIULIETTA Romeo, Romeo! Perché sei tu Romeo? Ah, rinnega tuo padre!… Ricusa il tuo casato!… O, se proprio non vuoi, giurami amore, ed io non sarò più una Capuleti! ROMEO (Sempre tra sé) Che faccio, resto zitto ad ascoltarla, oppure le rispondo?… GIULIETTA Il tuo nome soltanto m’è nemico; ma tu saresti tu, sempre Romeo per me, quand’anche non fosti un Montecchi. Che è infatti Montecchi?… Non è una mano, né un piede, né un braccio, né una fac-
cia, né nessun’altra parte che possa dirsi appartenere a un uomo. Ah, perché tu non porti un altro nome! Ma poi, che cos’è un nome?… Forse che quella che chiamiamo rosa cesserebbe d’avere il suo profumo se la chiamassimo con altro nome? Così s’anche Romeo non si dovesse più chiamar Romeo, chi può dire che non conserverebbe la cara perfezione ch’è la sua? Rinuncia dunque, Romeo, al tuo nome, che non è parte della tua persona, e in cambio prenditi tutta la mia. ROMEO (Forte) Io ti prendo in parola! D’ora in avanti tu chiamami “Amore”, ed io sarò per te non più Romeo, perché m’avrai così ribattezzato. GIULIETTA Oh, qual uomo sei tu, che protetto dal buio della notte, vieni a inciampar così sui miei pensieri? ROMEO Dirtelo con un nome, non saprei; il mio nome, cara santa, è odioso a me perché è nemico a te. Lo straccerei, se lo portassi scritto. GIULIETTA L’orecchio mio non ha bevuto ancora cento parole dalla voce tua, che ne conosco il suono: non sei Romeo tu, ed un Montecchi? ROMEO No, nessuno dei due, bella fanciulla, se nessuno dei due è a te gradito. GIULIETTA Ma come hai fatto a penetrar qui dentro? Dimmi come, e perché. Erti e scoscesi sono i muri dell’orto da scalare, e se alcuno dei miei ti sorprendesse, sapendo chi sei, t’ucciderebbe. ROMEO Ho scavalcato il muro sovra l’ali leggere dell’amore; amor non teme ostacoli di pietra, e tutto quello che amore può fare trova sempre l’ardire di tentare. Perciò i parenti tuoi non rappresentano per me un ostacolo. GIULIETTA Ma se ti trovan qui, ti uccideranno! ROMEO Ahimè, c’è più pericolo per me negli occhi tuoi che in cento loro spade: basta che tu mi guardi con dolcezza, perch’io mi senta come corazzato contro l’odio di tutti i tuoi parenti. GIULIETTA Io non vorrei però per nulla al mondo che alcun di loro ti trovasse qui. ROMEO La notte mi nasconde col suo manto alla lor vista; ma se tu non m’ami, che mi trovino pure e che mi prendano: assai meglio è per me finir la vita desiderando invano l’amor tuo. GIULIETTA Come hai fatto a venire fino qui? Chi t’ha guidato? ROMEO -
Amore per il primo ha guidato i miei passi. È stato lui a prestarmi consiglio nel trovarlo; io gli ho prestato in cambio solo gli occhi. Io non sono un nocchiero, ma se tu fossi lontana da qui quanto la più deserta delle spiagge bagnata dall’oceano più remoto, io correrei qualsiasi avventura per cercar sì preziosa mercanzia. GIULIETTA Sai che la notte copre la mia faccia della sua nera maschera, l’avresti vista arrossare, se no, per ciò che m’hai sentito dir poc’anzi. Ah, vorrei tanto mantener la forma, rinnegar quel che ho detto!… Ma addio ormai inutili riguardi! Tu m’ami?… So che mi rispondi “Sì”, ed io ti prenderò sulla parola; ma non giurare, no, perché se giuri, potresti poi dimostrarti spergiuro. Agli spergiuri degli amanti dicono - ride anche Giove. O gentile Romeo, se m’ami, dimmelo con lealtà; se credi ch’io mi sia lasciata vincere troppo presto, farò lo sguardo truce e, incattivita, ti respingerò, perché tu sia costretto a supplicarmi… Ma no, non lo farei, per nulla al mondo!… In verità, leggiadro mio Montecchi, io di te sono tanto innamorata, da farti pur giudicar leggerezza il mio comportamento; però credimi, mio gentil cavaliere, che, alla prova, io saprò dimostrarmi più fedele di quelle che di me sono più esperte nell’arte di apparire più ritrose. E più ritrosa - devo confessarlo - sarei stata, se tu, subitamente, prima ch’io stessa me ne fossi accorta, non m’avessi sorpresa a confessar l’ardente mia passione a me stessa. Perdonami perciò, e non voler chiamare leggerezza la mia condiscendenza, come t’avrà potuto suggerire il buio della notte. ROMEO Mia signora, per questa sacra luna che inargenta le cime di questi alberi, ti giuro… GIULIETTA Ah, Romeo, non giurare sulla luna, questa incostante che muta di faccia ogni mese nel suo rotondo andare, ché l’amor
tuo potrebbe al par di lei dimostrarsi volubile e mutevole. ROMEO Su che vuoi tu ch’io giuri? GIULIETTA Non giurare; o, se ti piace, giura su te stesso, su codesta graziosa tua persona, l’idolo della mia venerazione, e tanto basterà perch’io ti creda. ROMEO Se l’amor del mio cuore… GIULIETTA Non giurare, ho detto: benché tu sia la mia gioia, gioia non mi riesce di trovare nell’impegno scambiatoci stanotte: troppo improvviso, troppo irriflessivo, rapido, come il fulmine, che passa prima che uno possa dir “Lampeggia!”. Buona notte, dolcezza. Questo bocciolo d’amore, schiudendosi all’alito fecondo dell’estate, potrà, al nostro prossimo incontrarci, dimostrarsi un bel fiore profumato. Buona notte. La pace ed il riposo discendano soavi sul tuo cuore, come soave è tutto nel mio petto. ROMEO Oh, vuoi lasciarmi così insoddisfatto? GIULIETTA Insoddisfatto? E qual soddisfazione pensavi tu d’aver da me stasera? ROMEO Sentirmi ricambiar dalla tua bocca il mio voto d’amore. GIULIETTA Te l’ho dato, ancor prima che tu me lo chiedessi; se pur vorrei che fosse ancor da dare. ROMEO Vorresti ritirarlo? E perché, amore? GIULIETTA Per potermi mostrare generosa, e dartelo di nuovo, a piene mani. Io non desidero che quel che ho. La mia voglia di dare è come il mare, sconfinata, e profondo come il mare è l’amor mio: più ne concedo a te, più ne possiedo io stessa, perché infiniti sono l’una e l’altro. (La voce della Nutrice dall’interno, che chiama: “Giulietta!”) Sento voci da dentro casa… Addio, addio, mio caro amore!… Vengo, balia!… Dolce Montecchi, restami fedele. Aspetta ancora un po’, ritorno subito.
(Si ritira) ROMEO O notte, notte di benedizioni! Un sogno, temo, nient’altro che un sogno è questo: troppo dolce e lusinghiero per essere realtà! (Giulietta riappare improvvisamente in alto) GIULIETTA Ancora tre parole, Romeo caro, e poi la buonanotte, per davvero. Se onesto è l’amoroso tuo proposito e l’intenzione tua è di sposarmi, mandami a dir domani, per qualcuno ch’io manderò da te, il luogo e l’ora in cui vuoi celebrare il sacro rito ed io son pronta a mettere ai tuoi piedi, tutti i miei beni, ed a seguire te sempre e dovunque, come mio signore… NUTRICE (Da dentro) Madamigella! GIULIETTA Vengo, vengo subito! (A Romeo) … ma se diversa è l’intenzione tua, ti scongiuro… NUTRICE (Da dentro) Giulietta! GIULIETTA Sto venendo! … smetti di corteggiarmi ed abbandonami al mio dolore. Manderò domani… ROMEO Così possa salvarsi la mia anima… GIULIETTA Ancora buona notte, mille volte! (Si ritira) ROMEO Mala notte, puoi dire, mille volte, se mi viene a mancare la tua luce! L’amore corre ad incontrar l’amore con la gioia con cui gli scolaretti fuggon dai loro libri; ma l’amore che deve separarsi dall’amore ha il volto triste degli scolaretti quando tornano a scuola… (Si trae indietro lentamente. GiuliettA appare di nuovo alla finestra) GIULIETTA Pssst! Romeo!… Oh, avere il sibilo d’un falconiere per poter richiamar questo terzuolo! Ma la clausura è roca, ha voce fioca e non può parlar alto; altrimenti vorrei gridar sì forte da squarciar l’antro ove riposa Eco e soverchiare l’aerea sua voce, sì da farla più fioca della mia, a forza di chiamar: “Romeo! Romeo!”
ROMEO (Tornando indietro) È la stessa mia anima che invoca così il nome mio. Come soavi suonan nella notte le voci degli amanti: sommessa musicalità d’argento dolcissima all’orecchio che l’ascolta… GIULIETTA Romeo! ROMEO Cara… GIULIETTA A che ora domattina posso mandar da te? ROMEO Verso le nove. GIULIETTA Non mancherò. Mi parranno vent’anni fino allora… Perché t’ho richiamato?… Che sciocca! Non me lo ricordo più! ROMEO Lascia allora ch’io resti qui con te fino a tanto che ti ritorni in mente. GIULIETTA E così io, per farti rimanere ancora un poco, tornerò a scordarmelo, ricordandomi solo di una cosa: quanto m’è dolce la tua compagnia. ROMEO E io ci resterò, perché dimentica tu resti ancora, dimentico io stesso d’aver altra dimora fuor che questa. GIULIETTA Ormai è quasi l’alba; vorrei che tu già fossi via da qui, non più lungi però dell’uccellino che la bimbetta lascia saltellare lontan dalla sua mano, ma lo tiene legato alla catena come suo prigioniero, e, in una stratta, d’un fil di seta lo riporta a sé, simile ad una amante gelosa di quel po’ di libertà. ROMEO Quel prigioniero vorrei esser io. GIULIETTA E così vorrei io, dolcezza mia, anche se finirei col soffocarti per le troppe carezze… Buona notte! Separarci è un dolore così dolce che non mi stancherei, amore mio, di dirti “buona notte” fino a giorno. (Si ritira) ROMEO Siano dimora al sonno gli occhi tuoi, alla pace il tuo cuore. Sonno e pace vorrei essere io, pel tuo riposo. Ora da qui raggiungerò la cella del mio fidato padre confessore a domandargli la sua assistenza e confidargli questa mia fortuna.
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Bolivia
NUMERO “DIVERSO” AGOSTO 2011
Appunti dalla Bolivia a Bolivia è un paese L del centro del Sudamerica senza sbocco sul
mare, motivo di eterno conflitto con il Chile e il Perù. La superficie è tre volte quella dell’Italia, divisa in 9 “departamentos” e la popolazione è all’incirca 10 milioni di abitanti, dei quali la maggior parte è di origine indigena, soprattutto Quechua, Aymarà e Inca. La sua topografia varia da zone desertiche, l’altipiano Occidentale e Orientale e la foresta amazzonica. Una gran parte del territorio è tra 3.800 a 5.000 m sul livello del mare, comprese grandi città come la capitale La Paz, Oruro, Potosì, ecc. La temperatura in alcune zone può arrivare a –25° in inverno e anche in estate si possono vedere negli altipiani grandi estensioni di pianura e montagne innevate. Anche se adesso è considerato tra i paesi più poveri del con-
tinente Americano, prima era un paese ricco grazie allo sfruttamento delle grosse miniere di rame, stagno e argento, ovviamente senza che ciò significhi che queste ricchezze fossero state distribuite tra la popolazione. Di questi minerali (che hanno fatto la fortuna di Simòn Patiño, un meticcio di origini umili che nella prima metà del 1900 è arrivato ad essere uno dei cinque uomini più ricchi del mondo) rimane ben poco. L’attuale economia è soprattutto sulla base dell’agricoltura; l’estrazione di minerali, idrocarburi e gas (che esporta principalmente al Brasile e Argentina); il turismo e soprattutto le “remesas” degli immigrati boliviani all’estero, principale indicatore del PIL. Un importante aiuto all’economia proviene dei finanziamenti che manda Hugo Chavez dal Venezuela. Il quasi libero contrabbando, in uscita ed entrata, è molto presente in diverse regioni, comprese alcune città come Oruro che stranamente non sono vicine alle frontiere. Un’altra
importante fonte dell’economia è la coltivazione di piante di Coca, però su questo non ci sono indicatori. Si dice che nei ultimi anni, da quando è salito al governo Evo Morales, l’incremento di questa coltivazione è stato all’incirca del 150%. Lui stesso è da molti anni un combattivo Segretario del Sindacato dei “cocaleros”. Recentemente, sia lo stesso Presidente che alcuni Ministri, hanno portato avanti una campagna internazionale per convincere al mondo che la coltivazione della Coca era a fini di consumo umano per diminuire l’effetto del mal di montagna (chiamato “Soroche”) e la stanchezza. Non hanno convinto nessuno perché è calcolato che per questo mercato (tutto interno) si consuma sì e no il 10% della raccolta.
olivia è un paese belB lissimo, con dei posti mozzafiato, pieno di ar-
chitettura e paesini dell’epoca coloniale e, soprattutto, con una fortissima presenza indigena dappertutto. Questi, chiamati “Cholos” (grossi e sacrificati lavoratori) con i loro vestiti, cappelletti, gonne, ecc. pieni di colori, ti fanno sentire in mezzo al passato. Credo che sia uno dei paesi dell’America Latina dove la presenza delle tradizioni indigene è più marcata. Per questo motivo, e anche perché il costo della vita è molto basso, c’è un certo turismo internazionale proveniente dai paesi confinanti, dall’Europa e soprattutto moltissimi giovani israeliani. Sì, come lo leggete: israeliani. Il motivo è che lo Stato d’Israele, dopo che questi giovani si sono beccati 4 anni di servizio di leva gli uomini e 2 le donne, gli paga 3 mesi di vacanze all’estero. Il perché scelgono la Bolivia e Perù credo sia per il basso costo dei servizi per il turismo in questi paesi e credo anche perché da quelle parti non c’è peri-
colo di aggressione verso di loro. Te li trovi dappertutto, a livello che i cartelli fuori dei negozi, bar, ristoranti, ecc., sono scritti in lingua ebraica, oltre che in spagnolo. Io prima non avevo nessun pregiudizio contro il popolo israeliano. Dopo questa esperienza devo dire che, guardando i giovani, sono cambiato un po’… Sono di una arroganza, prepotenza, maleducazione, scontrosi e razzisti a livello incredibile! I locali li disprezzano e li sopportano solo per i soldi che lasciano. Per quello che ho visto, posso immaginare il loro brutale comportamento con il popolo palestinese nei territori occupati… l governo di Evo Morales (anche lui indigeno Aymarà) ha dichiarato la Bolivia “Stato Plurinazionale”, ossia composto da molte culture, dando
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un forte spazio di decisioni a ognuna di queste. Ha anche riconosciuto l’applicazione della Giustizia Comunitaria di ogni etnia. Questo è un tema interessantissimo e complesso perché va a urtare le leggi che sono il fondamento dello Stato centrale, provocando una situazione ancora non ben definita della quale io non ho capito quasi niente per la sua complessità. Queste leggi comunitarie, a secondo della gravità dei fatti, in caso di condanna della Comunità vanno dall’imporre il lavoro comunitario forzato, un po’ di botte, fino a certi casi considerati gravi, si arriva al linciaggio. Potete immaginare come è difficile stabilire la linea del rispetto delle tradizioni, il rispetto dei diritti umani e il rispetto dello Stato e delle sue leggi. Curiosità: anche l’infedeltà maschile viene condannata con pene molto severe. Figuriamoci quella femminile! Un’altra curiosità riguardo a questo tema: per strada si vedono tantissimi pupazzi impiccati
ai lampioni. Si tratta di un messaggio della popolazione locale indirizzata ai ladri e delinquenti. Questo messaggio si traduce in “sappiamo chi siete e state attenti che farete questa fine”. Più chiaro di così! Per risparmiarsi il lavoro, ci sono dappertutto negozi che vendono questi pupazzi già confezionati. L’attuale situazione politica è molto complessa. La destra, localizzata soprattutto nella regione di Santa Cruz, non ha nessuna possibilità di ribaltare il governo di sinistra del MAS (Movimiento al Socialismo). Il problema proviene dagli stessi ex alleati di Evo Morales: sindacati, organizzazione comunitarie e grossi settori del suo stesso Partito.La storica combattività del popolo boliviano si manifesta attualmente criticando le politiche del governo facendo sì che la popolarità di Evo Morales precipiti. Le continue manifestazioni (molte volte violente), i blocchi stradali e i diversi modi di ribellioni, sono all’ordine del giorno e in crescendo. Come andrà a finire, è un’incognita, però sarebbe molto dannoso per il popolo boliviano se si perdesse questa opportunità di cambiare la situazione politica, storicamente in mano a settori della borghesia oligarchica. ecentemente ho fatto una missione di valutazione di progetti di Cooperazione per conto del CISS (Cooperazione Internazionale Sud-Sud). Ho anche percorso la chiamata “strada della morte”, che unisce La Paz con la regione del Yungas, considerata la strada più pericolosa del mondo. E’ lunga 65 km e per percorrerla, tra altissime montagne, ci si mette minimo 4 ore con fuoristrada (se non si trovano frane, perché in questo caso si può rimanere bloccati al bordo di burroni spaventosi per
ore e giorni). Come curiosità: c’è un turismo internazionale macabro per andare solo a vedere questi posti dove quasi tutti i giorni ci sono dei morti. Comunque, togliendo il drammatico pericolo, è una delle zone più belle e particolare da me conosciute. E di zone belle ho avuto la fortuna di conoscerne un bel po’… Consiglio a chi vuole conoscere dei posti e culture ancora “incontaminati” di visitare quel bellissimo ed esotico paese. Prima garantitevi che non vi faccia male l’altura e il conseguente “Soroche”. Nel mio caso, anche masticando fogli di coca, ne ho sofferto parecchio. Comunque, ne è valsa molto la pena… lcune curiosità In Bolivia il costo della benzina è bassissimo (circa 0,20 al litro) e in gran parte sussidiato dallo Stato, cosa che favorisce un enorme contrabbando di benzina verso i paesi limitrofi. Per questo motivo è un paese pieno di macchine (in gran parte scassate) quasi tutte entrate di contrabbando e quasi tutte rubate nei paesi di origine. A dicembre dello scorso anno, il governo ha provato ad aumentare il costo della benzina dell’83% e c’è
ga e - secondo quanto riferito - meno ancora con qualsiasi tipo di documento in regola. In Bolivia quasi non esiste l’assicurazione auto. Quando si acquista una macchina, usata o nuova, la si fa benedire e questo rimpiazza l’assicurazione. Le parrocchie (previo appuntamento e pagamento) sono attrezzate per fare queste benedizioni e tutto intorno a queste parrocchie è pieno di negozietti per strada che vendono fiori, palloncini e coloratissimi ornamenti per le macchine da benedire. Il giorno della benedizione, davanti le parrocchie, si vedono in fila queste macchine con sopra il proprietario e tutta la famiglia vestiti come per andare a un battessimo e la macchina che sembra un negozio di fiori. Dopo la benedizione, si fanno un sacco di foto e vanno tutti a mangiare, come in una festa di matrimonio. Uno spettacolo! In caso di incidenti stradali, è meglio non pensarci come andrà a finire. Ci pensa la benedizione… E’ tradizione che, quando si inizia la costruzione di una nuova casa o edificio, nelle fondamenta si sotterra un animale disseccato che, secondo la leggenda,
stata una rivolta così violenta che lo ha obbligato a fare rapidamente una clamorosa marcia indietro. In questi giorni il governo ha fatto un decreto che permette la libera entrata nel paese di macchine usate, rubate o no. Ci sono intere regioni dove non vedi una macchina con la tar-
porta fortuna. A La Paz si vedono un sacco di negozi per strada che vendono macabri feti disseccati di questi animali. Secondo quanto mi hanno riferito persone locali, molte volte sotterrano animali ancora vivi. Più macabro ancora Osvaldo Gualtieri!
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Cinema
...io ne ho viste di cose... Io ne ho viste di cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. Ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia E' tempo... di morire.
I've seen things you people wouldn't believe. Attack ships on fire off the shoulder of Orion. I watched c-beams glitter in the dark near the Tannhäuser Gate. All those… moments will be lost in time, like tears… in rain. Time to die. Blade Runner, 1982 Ridley Scott
non lo pago. M- I vestiti? R- Un amico per esempio che va a Londra gli dico di portarmi delle cose, degli abiti. M- Il mangiare? R- Mi ospitano molto spesso. M- Queste sigarette qui? R- Ho incontrato un amico stamattina e mi ha dato due pacchetti di queste...
Ecce Bombo 1978 Monologo di Moretti al telefono con un amico No veramente non mi va, ho anche un mezzo appuntamento al bar con gli altri. Senti, ma che tipo di festa è? Non è che alle dieci state tutti a ballare il girotondo, io sto buttato in un angolo, no...ah no: se si balla non vengo. No, no...allora non vengo. Che dici vengo? Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? Vengo. Vengo e mi metto così, vicino alla finestra di profilo in controluce, voi mi fate: Michele vieni con noi dai...ed io: Andate, andate vi raggiungo dopo... vengo! Ci vediamo là. No, non mi và, non vengo, no. Ciao, arrivederci Nicola.
Dialogo fra Moretti e una Ragazza M- Senti che lavoro, me ne ero dimenticato, che lavoro fai? R- Beh, mi interesso di molte cose. Cinema, teatro, fotografia, musica, leggo... M- Concretamente? R- Non so, cosa vuoi dire? M- Cioè che lavoro fai? R- ...nulla di preciso. M- Come campi? R- Ma… te l'ho detto, giro, vedo gente, mi muovo, conosco, faccio delle cose. M- E l'affitto? R- Vivo con mio fratello e
C’eravamo tanto amati 1974, Ettore Scola Luciana (Sandrelli): Hai visto? E' nato un maschietto. Gianni (Gassman): Non t'intenerire troppo: è un futuro padrone. Romolo (Fabrizi): Quel maschietto so' io. Ogni compleanno faccio attacca' il nastro azzurro sulla punta più alta del cancello. E' un'usanza che m'aiuta a mantenemme vivo e vegetale, ecco. Di' un po': tu saresti... diciamo... il giovane di bottega del grande avvocatone La Rosa? G- Avvocato Gianni Perego. R- E venite proprio il giorno della festa mia a pugnalamme dietro la schina. Il grande patrocinatore in cassazione è stato eletto deputato e per non dare andito a critiche mi ha scaricato con la banale scusa che avrei commesso i seguenti reati: corruzione di pubblichi sottufficiali, frodi svariate, costruzioni illecite... diciamo... di mio arbitro, raggiro dell'altrui credulità, false licenze comunali, peculato (che io non so manco che vor di'), bancarotta fraudolenta, sette appropriazioni indebite e... che altro? ah: undici appro-
fitti di regime, cinque atti in falso pubblico... G- Quindici rimozioni di segnali di pubblico pericolo, due operai morti nei suoi cantieri per mancata applicazione delle norme di sicurezza... R- Embe'? G- Certo, a uno come lei può sembrare incredibile che esista chi rifiuta di difenderla, che ci sia qualche sprovveduto capace di rinunciare al guadagno! Be', esiste. R- E mo' che fai, te ne vai? Ah Perego! Sei democratico? Oh, dico: sei democratico? Sei democratico? E allora m'hai da fa' parla', fijo, eh! Giovane avvocato, tu ti puoi rifiutare di difendere a me, ma io no di difende' a me stesso. Una domanda: chi è secondo te l'essere più solo al mondo? Il povero? G- Sì. R- E invece no. E' il ricco, capisci? Il ricco è più solo perché è più raro. I poveri so' tanti, tutti amici, sempre assieme 'sti lazzaroni, che nun te fanno più campa'. Come disse Nostro Signore Gesù? Egli disse "Beati i poveri,
Caro Diario 1993 Monologo di Moretti con un automobilista al semaforo Sa cosa stavo pensando? Io stavo pensando una cosa molto triste: cioè che io, anche in una società più decente di questa, mi troverò sempre con una minoranza di persone. Ma non nel senso di quei film dove c'è un uomo e una donna che si odiano, si sbranano in un'isola deserta perché il regista non crede alle persone. Io credo alle... nelle persone, però non credo nella maggioranza delle persone: mi sa che mi troverò sempre a mio agio e d'accordo con una minoranza…
che si metteranno a sede' alla mia destra". Mo': se non ci fossero li ricchi che fregano li poveri, li poveri non esisterebbero, e Gesù finirebbe a rimanere a sede' da solo... diciamo... come un povero cristo. E adesso "a noi", come si diceva ai bei tempi. Tu te la sentiresti? G- Ma di fare cosa? Io non la capisco. R- Be', sali in macchina che ti racconto tutto in quattro e quattr'occhi... G- Ma no, m'aspettano, ho da fare! R- Ma chi è che oggi non ci ha da fa': io non ci ho da fa', fijo mio? Dai, monta, che è una cosa importante, poi ti faccio riaccompagna' dalla mac-
Un Americano a Roma 1954 - Steno Maccaroni, questa è roba da carettieri! Io non mangio i maccaroni, perché sono ammericano! Gli ammericani mangiano jougurt, mostarda... ecco perché l'ammericani vincono le guerre. Vino rosso, io non bevo vino rosso, perché sono ammericano! Gli ammericani bevono il latte, apposta non se imbriacano. Gli ammericani magnano mammelata... Maccarone, io ti distruggo! Che mi guardi con quella faccia? Mi sembri un verme, maccarone Questa è roba da americà: jougurt, mostarda, un po de latte, questa è roba che magnano l'ammericani, roba sana, sostanziosa... Mazza che zozzeria l’ammericani aoh… Maccarone, mai provocato e io ti distruggo! Questo ‘o diamo ar gatto, questo ar sorcio, con questo c'ammazzo e cimice... Verme, io me te magno! Nell’anno del Signore 1969 - Steno Popolo, ma che te se i messo in testa? Ma che vuoi?
china, dai! G- Allora commendatore, questa cosa importante che mi deve dire? R- Prima di tutto non so' commendatore, casomai "marchese", fatto con regio decreto vaticano da Mussolini. Modestamente, vero! G- Commendatore... marchese... quello che è: vogliamo venire al dunque? R- Dammi la mano! G- Perché? R- Dammi la mano! Eh, senti qua! G- Ma no, abbia pazienza! R- Essi bono! G- Ma... R- Senti come batte? G- Sì, lo sento. R- Io lo faccio senti' solo a chi se lo merita.
Vuoi comannà te? E chi sei? Sei papa? Sei cardinale? O sei barone? Ma se non sei manco barone chi sei? Sei tutti l'altri! E tutti l'altri chi so'? Rispondi! Rispondi a me, invece di assaltà i castelli! So' li avanzi de li papi, de li cardinali, de li baroni, e l'avanzi che so'? So' monnezza! Popolo, sei 'na monnezza! E vuoi mette' bocca? Ma se non c'è nessuno che ti dice, quando t'alzi la mattina, quello che devi fa', dove sbatti la testa? Che ne sai? Sei andato a scuola? Sai distingue' il pro e il contro? Tu non sai manco qual è la fortuna tua, perché sei 'na monnezza
Il Marchese del Grillo 1981- Monicelli Commisario: Signor Marchese? E che ce fate in mezzo a tutta questa canaglia? Marchese: Che ce faccio? Me c’ha messo ‘sto cojone qua. C- Ma davvero, ma che te si ‘mbriacato? Te metti arrestà il marchese del Grillo? E tu non sai distinguere un nobile da un plebeo? Per questo te farai due mesi di galera così t’impari. M- E che impara è uno scemo non lo vedi, glielo avevo pure detto chi ero. C- Ah, te l’aveva detto, allora quattro mesi! Lo perdoni eccellenza. Tutti quanti gli altri in galera. M- No, meno quello, quello è il servitore mio, mi viene sempre appresso. Andiamo Ricciò C- Naturalmente M- Ah, mi dispiace ma... io so io... e voi non siete un cazzo!
G- Tante grazie, molto riconoscente! R- Lo vogliamo salva' 'sto core romano da tutte le accuse avvelenate che gli hanno fatto? Avvocato, se te lo affido a te, lo difenderai in tribunale al posto del grande avvocatone che ti paga poco e io ti do di più? G- Io? R- E chi, se no? G- Oh guardi... R- T'ho fatto monta' apposta: tu cacci la carta bollata io caccio la carta filigranata e
mannamo in galera tutti fino a che giustizia la trionferà! G- Eh io l'avevo capito che era questa la proposta che mi voleva fare. E adesso stia lei a sentire me... R- No no, ma cos'ho da sta' a senti'? Non mi diresti la verità. Perché, vedi, tu mo' stai lottando con la coscienza. Lotta ma non t'arrende'! Da' retta a me, ricordati che "chi vince la battaglia con la coscienza ha vinto la guerra dell'esistenza". E adesso fermamoce che semo arrivati.
I Soliti Ignoti 1958 Mario Monicelli. Capannelle cerca Mario C- Dimmi un po’ ragassolo, tu conosci un certo Mario che abita qui intorno? R- Qui di Mario ce ne so’ cento. C- Si va bene, ma questo l'è uno che ruba... R- Sempre cento so’... Dante Cruciani (Totò) Rubare è un mestiere impegnativo, ci vuole gente seria, mica come voi! Voi, al massimo... potete andare a lavorare.
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Afghanistan
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I GUARDIANI DELLA FIAMMA
Beniamino Natale e Tiziano Terzani, Kabul 2001
di Beniamino Natale dal volume “L’uomo che parlava con i corvi”, edizioni Memori, 2007 Sulla strada di montagna che da Kabul porta a Bamiyan ad un certo punto si costeggia un fiume. Scorre in basso, al centro di una spianata dove si comincia a vedere un po’ di verde. Poco più avanti, subito dopo una curva, la Valle dei Buddha si apre davanti agli occhi del viaggiatore. È lì che si sente che qualcosa è cambiato. Che c’è qualcosa di diverso nell’aria. Che si è arrivati in un posto magico. A nord, la scena è dominata da un enorme blocco di roccia marrone. Non so come definirlo altrimenti, non è un altipiano, non è una collina, non è neanche una montagna, anche se si trova all’estremità meridionale della catena dell’Hindu Kush: è un gigantesco ammasso di rocce. Grosso e compatto, sorge inaspettato nella valle verdeggiante. […] Come molte altre cose nel corso del viaggio, la partenza da Kabul per Bamiyan è stata sorprendente e traumatica. La notizia che finalmente dopo un’attesa di una decina di giorni che ci è sembrata di un paio d’anni - abbiamo ottenuto l’autorizzazione ad andare a Bamiyan ci è arrivata la sera prima. L’abbiamo festeggiata cucinando degli spaghetti che avevamo trovato in uno dei negozietti di Chicken Street inopinatamente sopravvissuti ai tempi lontani, lontanissimi, nei quali Kabul era frequentata da turisti e da hippies. La mattina seguente ci precipitiamo al ministero a prenderla. È una lettera di poche righe, scritta di suo pugno dal ministro degli esteri dei Taliban, Ahmed Wakil Muttawakil. La prendiamo trionfanti e l’affidiamo a Nafees, senza neanche leggerla. Il ministero è un vecchio palazzone cadente, all’interno di un grande giardino e lì, con l’autorizzazione, ci aspetta la sorpresa: invece della guida che ci ha accompagnati fino a quel momento, sarà Issah a venire con noi a Bamiyan. Proviamo ad insistere ma non c’è nulla da fare. Issah è un bravo ragazzo, molto ignorante e molto ingenuo. Parla un inglese elementare ma sufficiente a comunicare. È emozionato, perché quello di accompagnare in un viaggio un gruppo di giornalisti stranieri è il primo incarico importante che gli viene affidato da Muttawakil. È un pashtun alto e robusto e ha poco più di vent’anni. Prima di partire per l’Afghanistan eravamo andati a Lahore ad intervistare Ahmed Rashid, l’autore de “L’Afghanistan dei Taliban’’, che è diventato un bestseller
dopo l’11 settembre ma che a quei tempi (la primavera del 2000) pochi conoscevano. I Taliban “sono un movimento molto afghano, molto autoctono -ci aveva detto- ma allo stesso tempo sono un movimento molto pakistano. La maggior parte dei loro membri sono giovani afghani cresciuti nei campi profughi in Pakistan e hanno forti legami con i gruppi integralisti pakistani, che li hanno educati nelle loro madrasas’’. Una descrizione che calza a pennello ad Issah, nato a Kabul, vissuto in Pakistan, educato in una famosa scuola coranica e rientrato da poco nel suo paese di origine, con la speranza di rendersi in qualche modo utile. […]Nei posti dove ci fermiamo la gente ci guarda con curiosità. Sono anni, da quando se ne sono andati i russi, che di stranieri se ne vedono pochi. Tutti sono gentili e il cibo è nettamente migliore che a Kabul. Ci sono tavoli bassi, tappeti scoloriti e pentoloni neri che devono essere stati usati per un paio di secoli. Uscendo dalla capitale si attraversa la pianura dello Shomali; una volta, era la zona delle vigne che ora sono state distrutte dai Taliban e dalla guerra civile. Giriamo verso ovest, lasciando la strada asfaltata, prima di arrivare a
ve. Gli hazara afghani sono i discendenti di quei soldati mongoli. Il confine con l’Iran non è lontano e non è sorprendente che abbiano abbracciato l’Islam sciita. I Taliban e il loro patron Osama bin Laden non glielo hanno perdonato: sono apostati e devono essere sterminati. Gli hazara hanno resistito e la guerra è stata feroce. Bamiyan ha più volte cambiato di mano e le zone circostanti sono ancora contese quando il nostro gruppo arriva nel bazaar. La città è chiaramente sotto occupazione. I Taliban sono pashtun, presenti nella regione ma stranieri nella città, tradizionalmente una sorta di capitale degli hazara. Issah è disorientato e tocca nervosamente il suo kalashnikov. Mangiamo un boccone in un ristorantino sulla via principale del bazaar. Ci servono ma la freddezza con la quale ci trattano è evidente. Siamo stranieri, però siamo venuti con Nafees - che comunque si maschera bene perché è vestito all’occidentale e parla dari, la lingua più diffusa tra le minoranze etniche afghane - e con Issah, che sono pashtun, cioè nemici coi quali si sta combattendo una guerra spietata. Decidiamo di chiedere ospitalità al comandante locale dei Taliban. Il comandante è un mujaheddin di mez-
comandante e sistemato alla meglio i giacigli per la notte, finalmente possiamo uscire a fumarci una sigaretta, e restiamo folgorati. Siamo a due passi dal grande blocco di roccia e il più piccolo dei due Buddha è così vicino da poterlo toccare. La luna è alta, la valle silenziosa e restiamo per qualche minuto ad ammirare la maestosa statua intagliata nell’enorme parete di roccia che ci sovrasta. Quando mi sveglio, dopo poche ore di un sonno agitato, non sono ancora le sei. Chiamo gli altri. Corriamo sul tetto piatto della caserma, piazziamo i cavalletti e cominciamo a fotografare. Il Buddha è di un rosa pastello nella luce del mattino. Man mano che il sole si alza, i colori cambiano e le rocce di Bamiyan assumono diverse gradazioni di ocra. Nella sua mitica guida dell’Afghanistan, Nancy Hatch Dupree ha scritto che i Buddha avrebbero dovuto essere guardati “pensando alla favolosa era nella quale furono creati. Roma, ricca ed in espansione, sorgeva ad ovest. La Cina, retta dal-
Beniamino Natale, Sergio Trippolo e Paolo Grassini, Peshawar 2000
Bagram, dove migliaia di Taliban sono ancora nelle trincee a scambiarsi cannonate con i tagiki di Ahmad Shah Massud. Si comincia a salire. Improvvise macchie di verde interrompono di tanto in tanto il profondo color ocra del paesaggio. Le case dei villaggi sono fatte di fango e paglia e si confondono con le pietre delle montagne. Poi, si arriva nell’Hazarajat, la terra degli Ha-zara. ‘’Hazara’’ in urdu vuol dire “migliaio’’: si dice che Genghis Khan, passando con il suo esercito di conquistatori, lasciasse mille uomini a presidiare le zone chia-
za età, robusto,non molto alto, con una lunga barba grigia. È un pashtun e viene da Shibergan, nel nord. Ha l’aria di chi ha combattuto a lungo e ascolta la BBC con la sua radiolina portatile. Ha un atteggiamento amichevole: acconsente a farci dormire nella “caserma” dei Taliban e dopo una lunga chiacchierata accetta di farsi fotografare. La “caserma” è una stanzetta di pochi metri quadrati che condividiamo con cinque o sei Taliban. Appoggiate ai muri ci sono delle granate e delle scatole di munizioni. Dopo aver parlato col
la brillante dinastia degli Han, era ad est. L’India, la fonte delle spezie e dei gioielli dei quali tutti desideravano impadronirsi, si stendeva al sud. La Via della Seta collegava queste diverse capitali del lusso e, a mezza strada, Re Kanishka dei Kushan si era guadagnato ricchezza e potere; l’aerea afghana prosperava. Carovane cariche di beni di lusso si muovevano lungo quella strada, attraversando e riattraversando le grandi pianure del nord dopo essersi rifornite nei grandi centri commerciali di Balkh e di Tashkurghan, da dove
poi puntavano a sud per attraversare la catena dell’Hindu Kush. A metà strada di questo difficile percorso di montagna, si fermavano a riposare nella valle di Bamiyan dove un affollato, rumoroso caravanserai segnava l’ingresso alla valle di Foladi...’’. Ora, nei primi mesi del terzo millennio, non c’è nulla di tutto questo. Per terra, non si può fare a meno di notare i bossoli delle granate di cannone e quelli, più piccoli, dei proiettili degli AK 47. Intorno, si percepiscono solo gli sguardi ostili degli ha-zara e quelli sospettosi dei Taliban. Le piccole nicchie scavate nella montagna dai monaci che ci vivevano ora sono postazioni per i miliziani. Sono in alto, ben protette. Sono in una posizione favorevole per cannoneggiare il nemico. I costruttori delle statue fecero, scavandoli con estrema fatica, usando lance e sassi appuntiti, dei buchi nei quali ficcarono dei pali di legno destinati a sostenere l’impasto di fango, paglia e tintura vegetale con il quale avevano fatto i vestiti delle statue: il piccolo Buddha (alto 38 metri) aveva un vestito blu, quello grande (53 metri) lo aveva rosso. I volti e la braccia di entrambi erano dipinti d’oro. Ora vicino a quei buchi ce ne sono tanti altri più piccoli, quelli prodotti dalle pallottole. Prima della creazione dei Buddha di Bamiyan il Buddha non era mai stato rappresentato con sembianze umane, in una forma estrema di rispetto verso il fondatore della religione che i primi buddhisti condividevano con altre fedi tra cui quella islamica. I monaci di Bamiyan ruppero quel tabù. I musulmani non l’hanno mai fatto e gli invasori che negli anni successivi vennero da ovest a conquistare l’Asia meridionale distrussero i volti di quelli che ritenevano essere idoli. Le statue più piccole sono sparite, porta-
te via da qualche signore della guerra o da qualche ufficiale dei numerosi eserciti che sono passati da queste parti. Il volto del piccolo Buddha è rovinato da colpi di scalpello. Quello del grande Buddha è annerito, probabilmente bruciato dopo essere stato demolito dagli invasori musulmani. Nel suo libro, la Dupree descrive diversi gruppi di affreschi, dipinti con diversi stili nel corso dei secoli da ignoti artisti sulle pareti delle nicchie scavate nella montagna. Non li vedremo mai. Le nicchie piccole, alte e ben protette, sono ora occupate dai giovani Taliban e non si possono visitare, ci spiega il barbuto comandante. Facciamo buon viso a cattiva sorte e ci avviamo verso il grande Buddha, che dista due o trecento metri. Un’esplosione di urla mi riporta alla realtà. Sono sei o sette Taliban, che corrono verso di noi agitando i loro fucili. Con i volti arrossati per la corsa e per la rabbia ci agitano le loro armi sotto al naso. Cerchiamo di spiegargli che abbiamo una lettera di Muttawakil e loro rispondono che non sanno leggere. Cerchiamo di dirgli che siamo stati autorizzati dal comandante e loro dicono che hanno un altro comandante. In qualche modo strappiamo ai giovani guerrieri l’autorizzazione a continuare il nostro lavoro, ma per non più di dieci minuti. […]Sono le nove di mattina e il nostro tempo è scaduto. Veniamo letteralmente sbattuti sulle nostre jeep dai Taliban e ripartiamo verso Kabul. Ci fermiano dopo un chilometro, per dare un ultimo sguardo alla valle dei Buddha. Ci hanno raccontato che le statue cambiano colore continuamente e che la sera, quando il cielo è limpido, assumono per qualche minuto un colore bluastro. Se sia vero o no, non lo sapremo mai.
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Favole
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Perle e fuliggine L’estate è il periodo dell’anno in cui casa propria, vuoi per il caldo, vuoi per l’esodo di massa che ha allontanato parenti e visitatori, sembra l’unico rifugio possibile, l’unica base sicura a cui tornare tra un viaggio in montagna e un folle pellegrinaggio verso il mare. Inoltre, mentre i più sognano mete estive esotiche o fuori dal comune, i pochi che restano, presto o tardi, finiscono per scoprire che anche casa propria può essere piena di sorprese, di posti segreti e di tesori nascosti dal valore incommensurabile. Per esempio, a me è capitato di ritrovare tra gli scaffali una copia, sopravvissuta al tempo, al terremoto e ai vari traslochi che si sono poi succeduti, di un libro di poesie scritto da mia madre. È dedicato “alla sua piccola e deliziosa Maria Sara che ha dipinto di rosa i suoi orizzonti grigi”... È già visibile da qui la romantica indole poetica (in questo mia madre non è mai cambiata): fermandomi a guardare le mensole e i muri di casa gremiti di fotografie, ho incrociato più volte le immagini di quando avevo pochi mesi e di certo, se è vero che il buongiorno si vede dal mattino, quella che ho conosciuto io non era una faccia deliziosa, e nemmeno particolarmente intelligente, era solo piccola e piena più di capelli che di espressioni rivelatrici di qual si voglia natura. Il libro invece sì che è “delizioso“, nonostante l’umidità che in qualche modo deve averlo raggiunto e segnato nella sua parte finale, è un libro davvero ben curato nell’impaginazione, nei commenti e nel susseguirsi di disegni e di ritratti familiari: mia madre vi appare in tutta la sua sfolgorante dolcezza. Ci sono anche mia nonna (bellissima, di una bellezza senza tempo simile a quella di Greta Garbo), mio padre, un gatto nero della dinastia domestica a discendenza maschile dei “Pallini” (sarà stato un Pallino III o IV), esauritasi una decina d’anni fa con l’arrivo della mia gatta grigia e bianca, e poi naturalmente ci sono io, armata di soli due minacciosissimi denti inferiori. Le immagini servono a sottolineare e a distinguere fra di loro le poesie, quasi tutte scritte per un amore senza un nome preciso e “senza posa“, distribuito in egual misura tra terra, cielo e persone. Da bambina, forte delle mie conoscenze di lettrice precoce indotte da mia nonna, leggevo spesso le poesie di mia madre. Erano parole nuove e affascinanti, armoniose, per lo più ignote e appunto per questo capaci di evocare immagini fantastiche. Così finivo per impararle a memoria, e poi le riscrivevo ai mar-
gini dei quaderni delle materie per me più noiose e incomprensibili. Riuscite a immaginare l’espressione che può aver fatto il giovane maestro d’inglese (all’epoca l’inglese era una novità introdotta, se non mi sbaglio, in prima o in seconda elementare, per mezzo di lezioni pomeridiane facoltative) quando, al posto degli appunti della faticosa lezione, si è ritrovato scritto sul quaderno, con un pastello rigorosamente rosso acceso, una poesia del tipo: “Trepido come una carezza/dolce come un sorriso/puro come uno zampillo/di acqua fresca…/Cuore di mamma:/lacrime... rinunce/ battiti accorati/melodie d’Amore.” (M. P. Mazzanti, “A mia madre - Cuore di mamma“, in “Gocce di cristallo“, p. 103, Magalini Editrice - Brescia Rezzato, gennaio 1984)? Oppure tipo: “Ho creduto/di vedere/una pietra/rara./Ed era un pezzo/di vetro/dipinto di luce./Ho creduto/di toccare una moneta/ d‘oro./Ed era un pezzo di latta/impregnato/di porpora./Ho creduto/di bagnarmi/in un oceano/d‘azzurro./Ed era
tava iniziava con un cielo blu notte e tante stelle d’oro e d’argento che al primo alito di vento tintinnavano, sospese com’erano, ma ben ancorate per i piedi, al cielo.] ho visto una bianca stellina «Tra tutte le stelline, una, la più piccola e la più dispettosa [la stellina era bianca perché bianca è la luce pura e semplice che viene direttamente dal cielo], tanto si agitò da riuscire a sfilarsi dal suo posto… Voleva andare a vedere cosa c’era giù sulla Terra, voleva correre tra i tetti e i comignoli delle case e giocare con i bambini.» che con il visetto imbrattato «Inoltre la stellina era certa che, una volta giunta sulla Terra, tutti sarebbero rimasti stupiti, e l’avrebbero ammirata, per la sua lucentezza.» piangeva… Oh come piangeva! [Non c’è niente di più straziante di veder piangere i più piccoli…c’è una certa dose di dolore e di paura nel pianto sempre disperato di un bimbo. Spesso poi quei caldi lacrimoni finiscono per infilarsi tra le ciglia come fossero delle perle
uno stagno/sporco di blu.“ (M. P. Mazzanti, “Chimera“, in “Gocce di cristallo“, p. 17, Magalini Editrice - Brescia - Rezzato, gennaio 1984)? Accanto a poesie come queste ce ne sono anche due dedicate, di nuovo, a me. Una, la mia preferita, me la ricordo soprattutto sotto forma di “favola della buonanotte” (non so perché, ma ho sempre associato la voce di mia madre a dei lunghi racconti, divertenti o poetici che fossero, ed è stata una vera sorpresa ritrovare le stesse pause, gli stessi ritmi, anche nelle sue poesie): “La Stellina Curiosa (per i più piccini) Stanotte nel cielo stellato [La storia che mi raccon-
in una collana, per poi volare letteralmente via al primo chiudersi rapido degli occhi. E io da bambina ero davvero una gran piagnucolona.] S’era tutta sporcata di fumo [Cos’è la notte che scende per una bambina se non uno strano vapore d’inchiostro che tutto copre e tutto cancella? Nella notte, poi, tutti gli incubi sono fatti di fumo denso e soffocante che sembra voglia ingoiare tutto e tutti.] guardando in un nero camino «Arrivata nei pressi delle case, la stellina impertinente non poté fare a mano di guardare all’interno di un grande camino in mattoncini rossi che si trovava proprio
sotto di lei: chissà chi o che cosa c’era al di là di strana quella apertura? La stellina si sporse e non vide nulla, allora si sporse un po’ di più e… Paf! Cadde a capofitto in un mucchio di cenere spenta!» ed ora più non vedeva… «Che spavento! E che dolore…ohi, ohi… Quando la stellina si riprese, si accorse che tutto era buio: il camino, la stanza, e persino il cielo! Com’erano lontane le altre stelle! E perché tutte le sue punte non brillavano più? E cos’erano quelle ombre minacciose che vedeva ovunque si voltasse?» Maria Paola Mazzanti con suo padre Nazzareno Mazzanti il mondo che tutto luceva. «Come le appariva ridi- con un cencio la spolve- sero da dove mai fossero cola la fioca luce dei lam- rai giunte. Erano infatti due pioni di fronte a lei… Le [Una parola, un gesto, lacrime abbandonate lì lampadine sembravano una semplice distrazio- per la fretta.» tante stelle ancora più ne, insomma l’equivalen- [Da piccola, mentre mia lontane di quelle del cie- te di uno strofinaccio madre mi raccontava lo. La stellina di colpo qualsiasi, ecco l’arma se- con parole sempre nuoscoprì [proprio come greta per scacciare gli ve questa storia, pensame] di avere paura del incubi…la stessa che si vo: «Perfetto sono due! buio.» usa d’estate contro le Una per me e una per [Il resto, che è la storia di mosche.] te!»] un ordinario salvataggio, e… come d’incanto, Basta poco, meno di indifferentemente di una [In fondo senza un pizzi- quanto si pensi, per canstella o di una bimba, da co di magia non esiste- cellare anche le paure parte di una mamma col rebbero al mondo né le più profonde, per curare dono della poesia, an- stelle né i bambini a cui le ferite peggiori, come drebbe letto tutto d’un raccontare le loro avven- quella che si è aperta in fiato.] mia madre dopo la perture.] Allora m’arrampicai divenne tutta splenden- dita prematura di suo [Che si capiscano o me- te padre, anni fa. Il libro di no il linguaggio e le pau- [In realtà lo era sempre poesie mi ha fatto venire re dei propri figli, al mo- stata, solo che era la stel- in mente una fotografia, mento della necessità, lina stessa a non vedersi anch’essa ritrovata da non c’è mamma che non più come tale.] poco: mia madre è giovariesca, magari inconscia- e sul palmo della mia nissima, anche se semmente, ad arrampicarsi mano bra più grande della sua fin dentro all’universo [Proprio lì dove ogni età, e mio nonno se la ridei sogni dei suoi bambi- mamma vorrebbe tenere de, forse a causa di una ni per carpirne il segre- racchiuso il destino dei battuta delle sue (io non to.] l’ho conosciuto, ma in fapropri figli…] su nuvola e nuvola lasciò <<due piccole miglia era famoso per [Anche le nuvole hanno perle».” questo), orgoglioso, mouna propria tangibile (M. P. Mazzanti, “La stel- strando all’obbiettivo il consistenza. Non sono lina curiosa“, in “Gocce suo dente d’oro quasi soltanto nebbia e vapore, di cristallo“, p. 139, Ma- fosse un raggio di luce luce e acqua mescolate e galini Editrice - Brescia - nascosto nel suo sorriso, tenute insieme dai venti, Rezzato, gennaio 1984) rivelatore del suo caratessenze dall’anima leg- «La stellina triste si mise tere (tale e quale quello gera, inclini al mutamen- a piangere, perché si ver- di mia madre, vale a dire to. Esse sono fatte so- gognava di tornare in solare, generoso, e notoprattutto di panna, di cielo tra le altre stelle riamente amico del suo zucchero filato, di ovatta sporca in quel modo. E prossimo). profumata e di desideri tanto pianse lacrime sin- Le stelle che si mimein attesa di avverarsi… cere che, proprio le sue tizzano tra gli affetti e Chi mai potrebbe dire il lacrime, scivolandole ad- le poesie, a volte possocontrario? Chi ha tocca- dosso, finirono per lava- no fare capolino dai to, di recente, un nuvola re via lo sporco e la cene- dettagli, dai posti più con mano per verificare re. La stellina era ancora impensati, anche dagli di persona? Le nuvole intenta a singhiozzare oggetti che la casa nasono senz’altro solide. quando si accorse che la sconde e che poi restiTant’è vero che, all’oc- stanza si era illuminata tuisce distrattamente in correnza, una mamma di nuovo… Tutto d’un estate: una vecchia fotopuò persino arrampicar- colpo era tornata bella grafia o un libro dimenvisi agevolmente !] come prima e anche le ticato, o le lacrime stese giunsi accanto ombre dalle forme orri- se, che d’estate sembra[Anche quando sembra bili e minacciose, frutto no scorrere al contrario, che un bambino sia la- dei granelli di polvere fi- seguendo il proprio resciato solo, c’è sempre niti nei suoi occhi, erano spiro, e che a volte posqualcuno o qualcosa che scomparse. La stellina sono fermarsi a metà, veglia su di lui.] non volle aspettare un tra i volti e l’immaginaalla triste stellina, secondo di più prima di zione, e proprio per [Le stelle non brillano ritornare, felice, a casa questo mutarsi infine in mai con la stessa inten- sua. L’indomani mattina altrettante perle, destisità tutte le notti…che i padroni della casa in nate a volte a perdersi davvero anche loro ab- cui si era svolta l’avven- e a volte ad essere ribiano degli sbalzi tura trovarono vicino al trovate. d’umore simili alla tri- camino due meravigliose Maria Sara Mirti stezza?] perle azzurrine e si chie-
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Corsica
NUMERO “DIVERSO” AGOSTO 2011
Reportage dalla Corsica terra selvaggia, aspra, in continuo movimento na mattina in terra U selvaggia. Acqua e terra, verde e azzurro,
sintesi solare, aspra e luccicante. Ogni rumore definisce l’essenza animale di questa terra, così “desertamente” popolata. La Corsica: popolata e silenziosa. Ogni profumo traghettato da un vento cortese e sicuro di sé condisce la magia di immagini fresche e pure. Scaglie di montagne, dune arrotondate, rocce sontuose e sinuosi sentieri. E’ qui che la cura del tempo si rifonde in un silenzio sporco e rilassante. La Corsica: terra penetrante e brulla, terra in movimento. Un movimento così attecchito e costante da diventare quasi statico. Lo leggi nei visi di chi la abita quest’isola, di chi la vive. Lo ascolti nelle loro parole. Lo avverti dalle loro rughe. In questa notte, insieme a queste stelle così grandi e vicine che sembrano sfrecciarti addosso, ho raccolto i miei sogni nell’urna di un cielo brillantemente scuro. Assorto sulla sabbia, concentrato in cima a una roccia, galleggiante sul turchese smeraldo, sconcertato da ogni tramonto… in tutti questi momenti la Corsica che hai sotto i piedi sembra tremare, sembra ricordarti costantemente che lei c’è, con tutto il suo fuoco, la sua naturale passione e la sua ricchezza.
uesti i brevi appunti Q che ho ritrovato nello zaino insabbiato, e
che, in realtà, ho accuratamente conservato anche e soprattutto per il profumo vivo che emana questa carta. Per due estati consecutive (2009 e 2010) abbiamo avuto la fortuna di godere delle grazie di questa bellissima isola. Due vacanze e altrettante avventure. In campeggio ovviamente. Sì, perché la Corsica va vissuta in movimento, va assaporata in ogni suo angolo e sfaccettatura. E solo un sacco a pelo e pochi bagagli ti consentono un apprezzamento totale: ogni strada, ogni curva, ogni sentiero ha qualcosa da raccontare… e qualcosa da farti raccontare. Abbiamo scelto il
campeggio, ovviamente per l’economicità, ma anche perché inconsciamente forse lo sapevamo che questa terra voleva che le dormissimo addosso… per farci innamorare! In Corsica i campeggi sono meravigliosi in quanto creati all’interno di boschi di eucalipti, uliveti centenari o ai piedi delle montagne, in piccole valli di bellissimi oleandri. I gestori di questi camping adorabilmente spartani, o sono molto rigidi e controllano meticolosamente i documenti di ogni “ospitando”, oppure sono molto più che elastici e ti lasciano entrare senza fare molte domande, semplicemente felici di ospitarti. I corsi sono in generale delle persone veramente particolari. Si avverte, innanzitutto il legame inscindibile che hanno con la loro terra. Così fortemente legati ai loro dialetti e alle loro abitudini, alcuni di loro mentre rispondono a una tua domanda abbassano subito lo sguardo, quasi per non farti entrare nella loro essenza. Un’essenza fatta di lotte, di continuo fermento, di costante spirito indipendentista nei confronti di una Francia che oramai non odiano nemmeno più, ma per la quale danno la sensazione di provare sempre più indifferenza. Ci metti un po’ per
capire questa situazione e d è proprio nel momento in cui da turista inizi a diventare semplicemente “una persona che sta in Corsica”, i loro indigeni abitanti danno il meglio di sé, ti danno il meglio di sé! E così si passa dopo qualche giorno da una freddezza scostante e disinteressata ad un affetto quasi immediato e talvolta imbarazzante. Una volta compreso questo sottile e inspiegabile meccanismo, le loro risate sincere, le loro espressioni genuine e il loro spirito battagliero ti accompagneranno per tutta la tua permanenza… e ne avrai nostalgia una volta tornato. Ci siamo abbracciati, abbiamo fatto tanti brindisi con dell’ottimo mirto, abbiamo
cantato insieme e alla fine ci siamo confrontati e… confortati. Ci siamo salutati con dei sorrisi commossi. Ed in ogni località è stato così! Una volta sbarcato a Bastia, nella parte settentrionale del paese, alla base del famoso “dito”, non hai la sensazione immediata di quello che troverai di lì a qualche chilometro. aint Florent, Desert des Agriates (deserto degli Agriati),Ile Rousse e Calvi. Partendo da Bastia in direzione costa occidentale, “tagliamo il dito”, ed arriviamo a Saint Florent, che segna l’inizio del c.d. Desert des Agriates. Si tratta di una regione semidesertica, e si sviluppa lungo la costa da Saint Florent a qualche chilometro prima di Ile Rousse. E’ caratterizzato da alcune basse montagne coperte da vegetazione bassa ed arbusti secchi. Per lunghissimi tratti questa è un a zona senza una strada costiera. Le baie e i golfi del deserto possono essere raggiunti solamente via mare o tramite lunghe strade sterrate. E’ una zona ostile e misteriosa, con orizzonti lunari: macchia a perdita d´occhio e montagne desertiche; niente che possa offendere la vista poiché le case sono davvero poche. Da Saint Florent, in barca, si può raggiungere la meravigliosa spiaggia di Saleccia: sabbia fine e bianchissima, acqua così limpida e turchese da farti provare imbarazzo. Niente chioschi né stabilimenti balneari per fortuna: portare acqua, tanta e fresca!? Su questa spiaggia non è per niente difficile incontrare delle mucche selvatiche, che pascolano a qualche metro dal mare. Proseguendo da Saint Florent verso l’Ile Rousse la strada si snoda tra le montagne e il mare, su cui si stagliano delle rocce bronzee, tendenti al rosso. Poco prima dell’isola Rossa in direzione Calvi, incontriamo la spiaggia degli Ostriconi. Selvaggia e quasi irraggiungibile. Per arrivarci bisogna camminare alcuni minuti giù per un sentiero stretto e ripido. Anche qui acqua azzurrissima e sabbia bianca. Proprio dietro la spiaggia scorre l’omonimo fiume contornato da dune di sabbia e popolato da animali e pesci lacustri. Una passeggiata nella macchia mediterranea vicina alla spiaggia è un’esperienza particolare. La
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stessa sabbia della spiaggia ti accompagna per tutta l’escursione. La brezza che si incanala tra la montagna e il mare trasporta l’odore intensissimo del rosmarino selvatico. Il nostro Arbre Magique per tutta la vacanza. Proseguiamo ancora verso sud, sino ad Algajola, vicino Calvi. La spiaggia adiacente al nostro campeggio è bellissima e l’acqua così pulita da essere utilizzata per cuocere un’”italianissima” pasta con il pesce. Da Calvi risalendo fino all’Isola Rossa c’è un trenino (non troppo economico) che ferma in ogni spiaggia e che ti permette di visitare altre calette costeggiando il mare. Tutte queste spiagge sono isolate e non c’è mai troppa confusione. orto, les Calanches, Piana, Plage d’Arone. Corte. La tappa centrale del viaggio. Proseguiamo verso ancora verso sud direzione Bonifacio. Arriviamo a Porto dopo molti chilometri senza vedere il mare. Il nostro obiettivo è Piana e la Plage d’Arone. Tra Porto e Piana per qualche chilometro la strada è strettissima... a doppio senso e da un lato è a picco sul mare!? Questo sentiero d’asfalto si snoda tra “Les Calanches”, una bizzarra formazione geologica formata da rocce di granito rosso che si elevano per circa 400 metri sul livello del mare direttamente sulla costa. Una meraviglia che solo chi non giuda può godersi!? E poi finalmente Piana: l’ombelico del mondo! Un piccolo paese di montagna, caratteristico e totalmente vivo. Pieno di ristoranti tipici, ma non “turistici” a parte alcuni. Qui parlano un dialetto (anche in altre parti della Corsica) che è molto vicino, laddove non identico, al nostro “folignate”. “Stamatina suppela macchia emo ammazzato lu cinghiale!” Questa la frase che mi sono sentito dire da un cacciatore-barista-casinista di Piana, mentre chiedevo una birra (“Pietra” è la più famosa birra corsa, è fatta con le castagne ed è buonissima!) Non credo si possa continuare relativamente all’emozione che da sentir parlare foli-
gnate dai corsi, dall’altra parte del Tirreno e in un posto veramente incantato. A dodici chilometri da Piana, scendendo verso il mare troviamo il nostro terzo campeggio su la Plage d’Arone. La strada ha una pendenza davvero elevata e scendendo si possono vedere dei tramonti unici… oltre a capre, maiali e mucche, tutti rigorosamente selvatici, che pascolano ai lati della strada o addirittura in mezzo!? Da questa po-
è a Pianottoli, un paesino sul mare a pochi chilometri da Bonifacio. Bunifaziu è costruita attorno ad una profonda insenatura simile ad un piccolo fiordo circondato da pareti in calcare bianchissimo. Completamente a picco sul mare! Dopo qualche centinaia di metri, a largo, direzione Sardegna, siamo nel pieno delle Bocche di Bonifacio. Il vento è caldo e forte, umido, per gli schizzi d’acqua; anziché acca-
stazione si possono raggiungere facendo qualche minuto di automobile delle calette davvero stupende come Fiacajola e Bussaglia. Così come merita un’escursione a Corte e sulle sue altissime montagne, proprio nel cuore montuoso della Corsica. Da Piana sono circa quattro ore di strada piena di curve in mezzo ai boschi e a piccoli paesi. Poco male! Ogni angolo ha qualcosa da dirci, ogni bosco sembra nascondere un segreto da scoprire. Sulle montagne di Corte, ci sono tre stupendi e freddissimi laghi di montagna, raggiungibili a piedi. I corsi di Corte sono uomini di montagna, arrabbiati, giganteschi e dall’odore forte. Il loro “dialetto folignate” è strano: granitico e lento, quasi facessero difficoltà a parlare la loro stessa lingua. Eppure la solita e interminabile simpatia. ianottoli e Bonifacio (Bunifaziu). Ancora verso sud, direzione Bonifacio, definita da un amico, in un momento di euforia, la città più bella del mondo! Il nostro ultimo campeggio
rezzarti, ti schiaffeggia delicatamente. Ti senti pieno e libero. Le zone limitrofe a Bonifacio, anche risalendo per la costa orientale sono piene di spiagge bellissime e meritevoli. Insomma, un’autentica “montagna in mezzo al mare”. Un terzo del territorio corso è protetto come parco naturale, e non è un caso se i “vecchi cari” Greci la chiamarono Kallistès (la più bella)! E poi, come possiamo non amare una terra che ha dato i natali al patriota corso Pasquale Paoli che nel periodo di autonomia degli isolani compreso tra il 1755 e 1769, fece dell'isola il primo Stato Europeo dotato di una Costituzione democratica e moderna. Ancora oggi la situazione politica è caratterizzata da una lotta tra autonomisti ed indipendentisti e uomini politici corsi aderenti ai partiti nazionali francesi. Instabilità e fermento sono comunque sinonimo di movimento, e questo non è poco! Un ringraziamento dovuto e voluto ai miei compagni di viaggio dalla “bocca asfaltata”? Cristiano Della Vedova
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Giallo
NUMERO “DIVERSO” AGOSTO 2011
Adumas, un cinghiale e un piede Tratto da Malastagione di Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli Edizioni Mondadori, 2011 Stirò le gambe, che cominciavano a formicolare alle giunture. Era seduto su un cuscino naturale di soffice muschio in un avvallamento del terreno, la schiena appoggiata a un tronco di castagno. Non sapeva di preciso quanavrebbe dovuto to aspettare. Anni prima non avrebbe scelto quella posizione,ma si sarebbe seduto su un ramo a forcella. Portò alla bocca una fiaschetta d'argento piena di grappa (dono di scambio di un grato ristoratore locale) e bevve un sorso. La posò e la mano sinistra gli corse istintivamente al taschino per cercare la sigaretta. Dopo un sorso di grappa, una sigaretta ci voleva proprio, però non in quel momento. Era controvento,ma per non correre rischi... La mano destra era appoggiata mollemente sul fucile, un Beretta calibro 12 a doppia canna parallela, caricato con munizione spezzata, vale a dire cartucce con nove pallettoni. Pensava di sparare a distanza ravvicinata, ma preferiva andare sul sicuro e non aveva caricato con cartucce a palla. Vestiva una tuta mimetica che aveva un certo numero di anni, comprata al mercato del sabato, in un banco di oggetti di surplus militare. Ai piedi un paio di anfibi, sladinati da un pezzo. In testa, a coprire un'ampia calvizie, un berrettuccio a visiera, sempre di tela mimetica. Si chiamava Adùmas. Doveva quel nome curioso al padre, lui con un nome molto comune, Giuseppe, morto quando Adùmas era un bambino. L'aveva sorpreso, in pieno invero e all'aperto, una bufera di neve mentre cercava di superare il passo per raggiungere casa. Si portava dietro un carico non proprio lecito per i tempi e quel passo lo aveva attraversato chissà quante volte, con vento, pioggia o neve. L'avevano trovato un paio di giorni dopo, finita la bufera. Era raggomitolato in posizione fetale, sepolto dalla neve. L'Appennino non sarà come le Alpi, o le Rocky Mountains, ma ogni tanto, come tutte le montagne, richiede le sue vittime sacrificali, la vita di chi, in un momento d'orgoglio o d'incoscienza, si ritiene più forte di loro, e l'uomo, più forte dei monti, non lo è quasi mai. Era stato minatore di galleria, in giro per l'Italia, a scavar tunnel. Nella sacca della sua roba c'erano sempre un paio di camicie, un paio di maglie, calze e mutande. C'era anche una copia de I TRE MO-
SCHETTIERI che si portava dietro e leggeva e rileggeva. Non era uomo di grandi letture, ma le storie di quegli spadaccini lo avevano sempre affascinato. Così, quando gli nacque il figlio, aveva pensato di chiamarlo come uno dei suoi eroi. Nella scelta lo aveva bloccato l'indecisione: d'Artagnan o Aramis? Athos o Porthos? Aveva deciso per il nome dell'autore. Sulla copertina c'era scritto A. Dumas. E Adùmas fu, senza far caso a quel puntolino che per lui non voleva dire niente. Adùmas aspettava il cinghiale; non lo aveva mai visto ma dalle varie tracce lasciate dalla bestia sapeva che era un maschio giovane. Ventitrenta chili, aveva calco-
l'omonima trattoria, per una cena a base di polenta e umido di cinghiale, commissionata da gente di città. In freezer non ne aveva quasi più. Per la verità, luglio non era proprio la stagione di polenta, ma sai, quelli di città... Conosco una trattoria su in montagna, dove ti danno un cinghiale in umido... - Avevano ragione: Benito ci sapeva fare con la carne di cinghiale. Tagliata a pezzi piccoli, la teneva una notte a mollo, metà d'acqua e metà vino rosso, con gli odori-carota, sedano, rosmarino e dell'altro che lui non voleva dire - e poi via, a cuocere a fuoco lento aggiungendo pian piano il passato di odori. - E la polenta? Devi sen-
lato. Ce l'avrebbe fatta da solo a mettrelo in un sacco e caricarselo sulle spalle per portarlo, a buio, al ristorante, passando da dietro mentre Poiana se ne stava seduto dentro a mangiare la solita fiorentina: - Di chianina, mi raccomando Benito! - diceva ogni volta che la ordinava. Sì, di chianina. Lo sapevano tutti da dove veniva la chianina di Benito, che comunque si sentiva di rassicurare: - Di chianina, di chianina, ci mancherebbe altro, Poiana – e c'era da scommettere che, almeno per il nominato Poiana, di chianina lo era. O almeno Benito faceva i miracoli perché lo fosse. Se no, lui sene sarebbe accorto alla prima bocconata. E mentre Poiana si mangiava la sua chianina, Adùmas gli avrebbe fatto passare la bestia a due dita dal culo. Era già capitato. Il cinghiale glielo aveva chiesto proprio Benito, titolare del-
tire che roba! - Dài che una sera ci andiamo! Così Adùmas era alla posta. Non era cacciatore di frodo di professione: quasi nessuno lo era più in quella zona e chi ancora lo era aveva cambiato abitudini e scopi. Ogni tanto, per sé o per un un'innata atavica passione per la caccia o per il sottile inconscio piacere di infrangere la legge e gabbare le forestale, prendeva la doppietta e andava nel bosco. Già, il bosco. Si guardò attorno. Gli venne un vago senso di rimpianto per quello che il castagneto era stato e non era più. Pulito, levigato,mantenuto come fosse un giardino. Lo scopavano addirittura, con scope di biancospino tenute all'inverno sotto a grandi sassi perché i cespugli prendessero la forma voluta. Ora vedeva i boschi abbandonati, i castagni malati del cancro del castagno o del male del-
l'inchiostro, e di una nuova malattia che faceva seccare le foglie e poi tutta la pianta; i rami spezzati e i tronchi caduti l'inverno abbandonati sul terreno; le foglie e i ricci di un autunno che venivano ricoperti dai ricci e dalle foglie dell'autunno successivo. Una desolazione, in boschi che per secoli, nel bene o nel male, avevano sfamato tante famiglie. - D'altra parte, allora i cinghiali non c'erano più o non li avevano ancora messi – pensò Adùmas. E nemmeno i cervi, i daini, i caprioli. Animali che si riproducevano in fretta e che senza nessun timore,arrivavano fino al paese a devastare gli orti; nei boschi tutti gli alberi giovani pelati nella corteccia fino a uno-due metri dal suolo e i cinghiali che, a forza di rumare col grifo per cercare radici e larve, avevano arato il sottobosco, lasciando crateri come se ci avessero bombardato; e gli animali domestici, gatti e cani e a volte anche gli uomini, che tornavano a casa pieni delle zecche delle altre bestie. C'erano sì le squadre di cacciatori autorizzati, in certi periodi dell'anno, alla decimazione, ma il numero degli animali cacciati era sempre inferiore a quello dei capi rimasti. Era arrivato anche l'istrice che, scavando, passava sotto alle recinzioni e distruggeva interi campi di patate. Adùmas aveva visto anche tracce di lupo, nel suo girare nei boschi, ma erano ancora troppo pochi per contrastare l'invasione degli ungulati. Poi, se cresciuti di numero, non sarebbero diventati un pericolo per gli umani? Pensieri rapidi, oziosi, nati dall'attesa. Si stiracchiò e tirò un altro sorso dalla fiaschetta. Non per il freddo, era sera e la giornata, anche se ormai verso il bruzzico - a dire crepuscolo - era ancora tiepida. Era per farsi compagnia aspettando il cinghiale. Aveva studiato le sue abitudini, andando di mattino così la giornata avrebbe cancellato per terra le sue tracce d'uomo, e i cinghiali, sapeva, vedono soprattutto col muso. Sapeva dove il cinghiale aveva la sua rimessa, nel folto della macchia, nel fitto di ginestre, felci e raggiai. Sapeva quale pista percorreva per sfamarsi o andare a bere o a svol-
“Malastagione” ultima fatica di Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli, binomio creatore della figura del maresciallo Santovito, è ambientato nei boschi degli Appennini, tra l'Emilia e la Toscana. Adùmas è un vecchio montanaro che ogni tanto decide di imbracciare la doppietta e di andare a cacciare il cinghiale per rifornire di selvaggina i ristoranti della zona. Come di consueto si avventura nel bosco di castagni che sovrasta il piccolo paesetto di Casedisopra, alla ricerca di prede. È ormai il crepuscolo e Adùmas, nella snervante attesa, decide di bere un goccio di grappa. Tutto d'un tratto dalla boscaglia spunta un animale, ma qualcosa non quadra, il cacciatore rimane pietrificato alla sua vista. Ciò che appare ai suoi occhi è un cinghiale con un piede umano tra le fauci. Lo sgomento gli rende impossibile l'azione, e l’anziano bracconiere non riesce a premere il grilletto. La bestia scappa via e svanisce istantaneamente, come è venuta. Quando Adùmas torna al paese e racconta la vicenda, nessuno vuole credergli. Tutti lo prendono in giro sostenendo che la grappa gli abbia annebbiato la vista. Solo l'ispettore della forestale Marco Gherardini, detto Poiana, gli dà credito. Il giovane ispettore infatti conosce bene i boschi della zona e sa quanti segreti possono nascondere. Gherardini inizia quindi ad indagare, per risolvere il mistero, perché al piede che aveva il cinghiale tra le fauci, deve per forza corrispondere un cadavere. In paese però nessuno sembra scomparso, tutti rispondono all’appello di Poiana. Il mistero si infittisce sempre di più e ben presto l'ispettore scopre che tra alcuni appartenenti alla piccola comunità ci sono affari loschi. Malastagione, di Guccini e Macchiavelli, è un giallo incalzante, impreziosito dalla splendida cornice dell'Appennino tosco-emiliano. Paolo Azzarelli tolarsi nel fango, giù nel Fosso del Cinghio, oppure in una pozza, l'insoglio, una decina di metri più sotto. Aveva visto il grattatoio, l'albero contro il quale la bestia si grattava dopo essersi bagnata. Sapeva tutto e l'aspettava. Aspettava il cinghiale e lo sentì arrivare perché, si dice, il cinghiale si deve vedere prima con le orecchie. Si sistemò nella posizione, rilassato, coperto da un paio di frasche del castagno, la sinistra a impugnare l'arma, la destra sul grilletto. Lo sentiva arrivare tranquillo, trotterellando, ignaro dell'imboscata. Sbucò qualche metro sopra di lui, uscendo da un cesto di ginestre e fiancheggiando un grande castagno ricoperto da una cascata d'edera. Dopo qualche passo era sotto tiro. Lo inquadrò, mirò e stava per sparare, ma si bloccò. La bestia aveva qualcosa di strano in bocca, qualcosa che non
riuscì a percepire subito ma che, messo a fuoco bene, lo fece rabbrividire e lo costrinse a una mossa sbagliata: si appoggiò troppo sul gomito puntato sul terreno, provocando una piccola frana di terra e minuscoli sassi. La bestia si voltò di scatto verso l'appena percettibile rumore e con un grugnito spiccò una corsa e sparì nel fitto del bosco. L'imboscata era fallita, tutto era da rifare, ma non era tanto quello. Era l'impressione di quanto aveva visto tra le fauci del cinghiale che gli era rimasta nello stomaco. Cercò di sistemarlo con una boccata dalla fiaschetta e la gettò a terra, imprecando. Si alzò e, uscito dalla postazione, scese verso la pista, preoccupato di sapere se il cinghiale avesse lasciato traccia di ciò che lui aveva intravisto. Si chinò, cerco attorno... Niente, ma era pronto a scommettere: non si era sbagliato.
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Argentina
NUMERO “DIVERSO” AGOSTO 2011
Fuga claudicante a ritmo di tango oma, 25 febbraio R 2011. E’ freddo, è grigio, si lavora. Un inverno
come tanti altri, un venerdì come tanti altri… ma non per me e le mie due compagne di avventura. Nonostante la caduta da cavallo; nonostante tre giorni di assoluta immobilità a letto; nonostante il tutore per preservare il ginocchio (che, ormai, è sempre più simile a un piccolo mappamondo); nonostante sia da folli accingersi a fare un viaggio così lungo in queste precarie condizioni di salute; nonostante questo e tanto altro, si parte! Destinazio-
farmi un’idea della realtà che mi accingevo a scoprire. Ma ciò che l’immaginazione e i libri mi avevano rappresentato non rende giustizia a ciò che già solo il viaggio in taxi dall’aeroporto all’albergo rivela. Precisiamo, innanzitutto, che il tassista ha origini italiane (sarà il primo ma non l’unico: cinque su sei hanno parenti in Italia). A Buenos Aires rimarremo solo tre giorni e, quindi, dopo una breve sosta in albergo, usciamo alla scoperta della città. Recoleta e il suo monumentale cimitero che custodisce la tomba di Eva (“Evita”)
ne Argentina e Uruguay. Volo Roma - Madrid; scalo di due ore e si riparte per Buenos Aires. Il viaggio sarà lungo, ma è notte e si dormirà. Almeno si spera! Al risveglio siamo già sul cielo argentino. Il mio ginocchio sta per scoppiare. I maglioni e i piumini sono riposti nelle borse e sulla pelle grigio/giallognola fanno bella mostra quei vestitini che avevamo riposto nell’armadio qualche mese fa e le coloratissime havaianas.
Duarte de Peron: ecco la nostra prima tappa. Le ore e i giorni successivi sono un susseguirsi di: ballerini di tango che si esibiscono sulle piazze o sui marciapiedi – un po’ d’ombra e una bibita fresca; Plaza de Mayo, dove il giovedì pomeriggio non s’incontrano più le madri che rivendicano la scomparsa – o i corpi dei loro figli, e la casa Rosada – un po’ d’ombra e una bibita fresca; San Telmo e il suo mercatino – un po’ d’ombra e una
iamo a Buenos Aires. L’avevo immaginata in S tante occasioni; l’avevo
scoperta e indirettamente vissuta attraverso i racconti di Bruce Chatwin (In Patagonia; Ed. Gli Adelphi) e le avventure di Pepe Carvallho (Manuel Vasquez Montalban – Quintetto di Buenos Aires; Universale Economica Feltrinelli); una lettura veloce della mia Lonely Planet mi aveva aiutato a
bibita fresca; la Boca e il suo Caminito – un po’ d’ombra e una bibita fresca; Puerto Madero, i suoi locali e il ponte di Calatrava – un po’ d’ombra e una bibita fresca; il Caffè Tortoni, il suo legno e la sua storia – un po’ d’aria condizionata e una bibita fresca insieme al caffè, ovviamente! Già, perché fa caldo, molto caldo. La nostra pelle incomincia ad avere sfu-
mature diverse dal giallo e dal grigio. Intanto il ginocchio fa male, molto male. Il tutore si appiccica alla pelle. Ma non ci si può arrendere così! Allora si gira in taxi. E ai tassisti chiedo se sia vero che sotto l’asfalto di Avenida 9 de Julio sono seppelliti i corpi di centinaia di desaparecidos. “Non so”. “No”. “Forse”. “Veramente sono seppelliti sotto l’asfalto dell’autostrada non qui”. Ma sono tempi lontani quelli, oggi c’è la democrazia, c’è Cristina. Oggi le strade sono piene di vita di giorno e di sera, si può parlare. Non si dorme qui a Buenos Aires. Non più per paura, ma per divertimento. Buenos Aires è bella, affascinante, contraddittoria, caotica, (la italiana pasta e la pizza, però, hanno perso un po’ della loro italianità). Sarebbe bello poterci rimanere ancora qualche giorno, ma la Terra del Fuoco ci attende. ismessi i vestitini estivi, indossiamo jeans, scarponi e piumino e ci imbarchiamo per Ushuaia. Lì dove il mondo finisce è tutto grigio! Grigio il cielo, grigio il mare, grigie le montagne, grigia la gente. Ma nell’aria si avverte qualcosa di magico. La stanza della nostra camera di albergo si affaccia sul Canale di Beagle. Lo sguardo cerca di andare oltre quel canale alla ricerca di un mondo che non ci appartiene. Ma è solo la fantasia che ci consente di “vedere” oltre. Ushuaia è una cittadina come tante. E’ ubicata sulla costa meridionale dell’Isola Grande della Terra del Fuoco chiusa fra le montagne e il mare. Dei suoi oltre 60.000 abitanti non si ha la percezione. Forse si avverte molto di più la presenza dei criminali pericolosi che per tanti anni hanno trovato dimora nella prigione della città. Tutto a Ushuaia ancora ruota intorno a quella prigione. Oggi, lì dove hanno dimorato per anni i criminali, i prigionieri politici, oggi c’è un museo che certamente vale la pena visitare. La presenza di quei detenuti si avverte ed è fonte di attrazione turistica anche oltre le mura del
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carcere. C’è il Tren del Fin del Mundo, trainato da una locomotiva a vapore e con carrozze, ab origine arredate in modo elegante, che ripercorre il tragitto che il treno del presidio faceva giornalmente agli inizi del XX secolo per trasportare i carcerati a tagliare gli alberi per il rifornimento di legna. I resti di quegli alberi sono ancora lì a testimoniare la presenza e il lavoro di quei detenuti. Ma Ushuaia oltre la prigione è altro. Qui il sole va a dormire molto tardi e il giorno sembra non finire mai. La navigazione nel canale di Beagle rivela un mondo popolato di pinguini e leoni marini; degli scorci panoramici che dimoreranno nei ricordi per molto tempo. Quello che, però, rimarrà dentro andando via da Ushuaia è una sensazione “… Quella che deriva dal trovarsi alla fine del mondo. In qualunque altro posto della terra ci si trovi si ha la sensazione che la strada, il mare, il fiume che stai percorrendo ti porterà in un altro luogo, in una realtà che conosci o che assomiglierà in qualche modo alle altre realtà a te note. A Ushuaia no. Oltre quella città non ce n’è un’altra. Non c’è l’uomo con le sue colonizzazioni e le sue contraddizioni. C’è una realtà irreale rispetto al conosciuto quotidiano. Una realtà che i più possono solo provare a immaginare, magari richiamando qualche fotogramma che la mente ha registrato carpendolo da un documentario, nella speranza di poterla un giorno conoscere. Ed è forse proprio la consapevolezza di aver raggiunto nel tuo viaggio il luogo dove finisce l’assoggettamento della natura ai bisogni dell’uomo e inizia un mondo in cui la natura è ancora padrona e sovrana di se stessa. Ushuaia e il mondo noto e ignoto che la circondano ti entrano dentro e li rimangono anche quando ormai migliaia di chilometri ti separano da “la fin del mundo” (il riferimento è a un mio scritto già apparso su questo giornale nel mese di aprile 2011). Intanto il mio ginocchio è sempre gonfio e fa sempre male, ma non sopporto più il tutore e incomincio a usarlo part-time. Per fortuna qui a Ushuaia si può mangiare del buon pesce e, soprattutto, degli ottimi granchi. Già, perché
l’Argentina non è il posto ideale per chi non mangia carne (e per chi non gradisce lo spiacevole spettacolo che offrono i corpi di tanti animali privi di vita esposti nelle vetrine di ristoranti). Ushuaia offre anche degli ottimi ristoranti dove, oltre a servire squisiti piatti di pesce, hanno interessanti liste di vini argentini. Malbec e cabernet sauvignon di alto livello. Non so decidere se sono più buoni i rossi o i bianchi che ho assaggiato. Certamente sono meritevoli di elogi tutti. Anche perché, oltre all’ottima qualità del vino, i prezzi sono fantastici.
co, negozi che espongono le più rinomate griffe mondiali, ristoranti dove la prenotazione è obbligatoria e il conto europeo. Per fortuna a pochi chilometri dal cemento c’è ancora un po’ di natura incontaminata (o quasi): La Barra, Faro Josè Ignacio e Isla Gorriti. Per fortuna ci sono i leoni marini che dimorano nel porto dove si esibiscono per i turisti in attesa che i pescatori diano loro il pesce non venduto. Per fortuna che c’è Casa Pueblo, la villa-galleria d’arte allestita da Carlos Paez Vilarò. Lasciamo Punta del Est un giorno prima del previsto (va bene
asciamo, con un po’ di L alcol in più nelle vene, Ushuaia e la Terra del
così!) per fermarci, sulla via del ritorno, a Colonia Del Sacramento. Questa cittadina è una sorpresa. Il Suo Barrio Historico di epoca coloniale, dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco, è splendido. Qui il Rio de la Plata regala un tramonto che difficilmente potrà essere dimenticato. Peccato che il soggiorno debba essere così breve. Il nostro viaggio è finito. Bisogna ritornate a Buenos Aires perché domattina, 14 marzo, l’aereo ci aspetta per riportarci in Italia. Dall’Uruguay e dall’Argentina torniamo, abbronzate, riposate. Ci portiamo dietro qualche bottiglia di vino da bere in compagnia degli amici nelle lunghe serate invernali che, purtroppo, ancora ci aspettano, e un po’ di malinconia. Io mi riporto in Italia anche un ginocchio che ha ancora la forma di un piccolo mappamondo. Iolanda Tarzia
Fuoco per raggiungere l’Uruguay, Punta del Este. Mare, sole e riposo prima di ritornare al gelo invernale che abbiamo lasciato in Italia. Peccato che quello che troviamo a Punta del Este, dopo qualche ora di viaggio prima in traghetto e poi in autobus -, non è esattamente quello che la nostra fantasia aveva elaborato. Tanto, tanto cemento che fa da cornice a delle interminabili e bellissime distese di sabbia ma anche a un mare che diventa “pallido” davanti al nostro bellissimo azzurro mare italiano. Quasi quasi era meglio il grigio del Canale di Beagle! E poi c’è vento. E tutto è carissimo. Punta del Este è una località turistica nata per soddisfare le esigenze di ricchi vacanzieri argentini, americani e brasiliani. Ville, lussuosi condomini, porto turisti-
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Oroscopo
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Oroscopo di Agosto di Sara Donati Sarà un mese altalenante quello che vi aspetta. Anche se l’energia non manca, non è il caso di strafare: in generale, non dovrete chiedere troppo né a voi stessi né agli altri… né al destino! In amore per le coppie si profila un periodo in cui puntare soprattutto sul dialogo e sulla tenerezza; per chi è solo invece meglio puntare sulle amicizie, magari affettuose, da cui forse potrebbe nascere qualcosa. Le vacanze sarebbe meglio sceglierle tranquille, in cui godere il meritato riposo insieme al giusto divertimento. Considerando però che Saturno è ancora opposto, è probabile che vi stanchiate più del solito, perciò va bene fare sport ma chi non è allenato non si improvvisi atleta!
Con Giove nel segno il periodo si presenta favorevole sia per rilassarvi, ricaricando le energie fisiche e psichiche, sia per divertirvi, in vista del periodo autunnale in cui inizierete a vivere a passo di corsa; soprattutto i nati in aprile sono quelli che avvertiranno meglio i favori del pianeta della fortuna. Però, tra i mesi estivi, agosto sarà proprio il mese meno favorevole ai rapporti: se siete in coppia la gelosia potrebbe fare capolino e indurvi ad una certa polemica, se invece siete single il vostro atteggiamento non sarà dei più favorevoli alla nascita di nuove amicizie. Invece, per ciò che riguarda la salute: attenzione a non mangiare troppo e a non usare prodotti cosmetici che non conoscete.
Potrete sfoggiare il vostro bel sorriso: agosto proseguirà sulla scia positiva dei mesi precedenti… sarete spumeggianti e riuscirete a far emergere tutta la vostra vivacità e simpatia! Grazie a Saturno in trigono, potrete divertirvi e fare incontri interessanti che potrebbero rappresentare una svolta nella vita, e questo vale per tutto il periodo estivo. In amore potrete essere una bella sorpresa anche nella coppia e far rifiorire anche un rapporto con qualche increspatura; chi è solo sarà l’anima di ogni festa e avrà l’occasione di fare nuove conquiste, destinate a durare oltre il periodo estivo. Il mese è ideale per ogni tipo di vacanza, da quella per la salute e lo spirito a quella più avventurosa. Se ancora non l’avete fatto, questo sarà il momento
adatto per riposarvi e per ricaricarvi, in vista di un periodo autunnale che si preannuncia intenso. Con Giove a favore l’atmosfera si va pian piano rasserenando e ad agosto sarà un crescendo a livello di umore. In amore sarete estrosi e brillanti e con un pizzico di sana “follia” che vi renderà ancora più fascinosi, più interessanti! Se siete in coppia potrete ridare smalto al vostro rapporto, se invece siete liberi potrebbe partire la storia giusta. Per quanto riguarda le vacanze, siete in grado di organizzarle di qualsiasi tipo ma attenzione: dal 4 Marte è nel segno e ciò significa che sarete iperdinamici, quindi… dosate bene le energie! Solo Giove è disarmonico in questo cielo estivo e quindi, con un po’ di attenzione alle spese, sarà un
mese pieno di opportunità favorevoli. Anche questo mese, così come i precedenti, sprizzerete fascino e simpatia da tutti i pori, e la prima cosa che si noterà sarà l’aspetto radioso che avrete! E ciò avrà risvolti positivi sia nel rapporto di sempre sia per chi è libero, per cui le conquiste diventeranno un gioco da ragazzi, visto che intorno a voi ronzeranno molte persone... Chi deve andare in vacanza, sappia che ci sono gli aspetti per organizzare qualsiasi tipo di viaggio, da quello più tranquillo a quello più avventuroso, in cui si prospettano incontri interessanti, molti destinati a durare. Finalmente Giove, il pianeta del benessere e della fortuna, è in trigono, quindi, considerando che l’autun-
no vi vedrà occupatissimi e dinamicissimi, cercate di sfruttare al meglio questo mese, soprattutto se ancora non l’avete fatto, per rilassarvi e recuperare le energie sia fisicamente che psicologicamente. E, a differenza dei mesi estivi passati, agosto si prospetta positivo per i sentimenti… ci sarà la possibilità di fare incontri interessanti per chi è solo o di migliorare il rapporto se si è in coppia. E finalmente anche il settore viaggi ha il via libera! Potrete organizzare qualsiasi tipo di vacanza e andare dove vi pare e piace rilassandovi e divertendovi e, magari, fare il viaggio che avete sempre sognato. Come per l’intera stagione estiva, anche questo mese ci sarà per voi una situazione astrale di alti e bassi, perciò, per potervi riposare e divertire, sarà me-
Considerando che da poco Giove è entrato in opposizione al vostro segno, questo sarà un periodo da vivere con
molta calma: dovrete fare attenzione a come spendete… sia le finanze sia le energie! L’obiettivo per questo mese quindi, così come per l’intero periodo estivo, è: riposo, per ritemprare sia il fisico che la mente. Nei rapporti affettivi l’erotismo potrebbe schizzare alle stelle, a danno però del dialogo e della tenerezza; perciò autocontrollo e… evitate le polemiche! Non va meglio per chi è single: non è il momento adatto per le conquiste… meglio un hobby rilassante. Le vacanze organizzatele nei minimi dettagli, altrimenti tra distrazione e disorganizzazione non saranno certo delle migliori. Il cielo del periodo estivo prevede per voi solo Saturno abbastanza favorevole, perciò è bene che agosto, molto più positivo dei mesi precedenti, lo de-
dichiate al recupero delle energie, in vista di una buona ripresa in autunno. Infatti questo mese sarà una boccata di ossigeno! Nel rapporto di coppia grazie al dialogo e alla tenerezza riuscirete a superare i malumori; chi è single invece avrà l’opportunità di divertirsi e di fare nuove amicizie… alcune potrebbero diventare anche affettuose. Per quanto riguarda le vacanze invece, teoricamente potete fare ciò che volete e andare dove vi pare! Potete rilassarvi, divertirvi o anche scegliere come meta il viaggio che sognate da tempo. Finalmente è arrivato Giove favorevole e il suo effetto va ad attenuare un cielo non molto generoso in questo periodo; ma visto che la ripresa autunnale si prospetta molto più positiva sarà bene che cogliate
le occasioni che vi si presenteranno, per rilassare il corpo e la mente. Agosto dovrete viverlo in maniera molto “zen”, cercando soprattutto il benessere della mente e dello spirito evitando le discussioni, che potrebbero incrinare il rapporto di coppia; se siete single invece fate attenzione ai colpi di fulmine, ché potrebbero essere micidiali. Con Marte negativo pensate alla salute e curate la bellezza, evitando gli sport estremi. Le vacanze organizzatele nella maniera più tranquilla possibile. Quest’estate il cielo per voi è ambivalente: Giove è disarmonico ma è controllato da Saturno, il pianeta dispensatore di saggezza, che è favorevole e vi sostiene. Nei rapporti affettivi, chi vive un rapporto di cop-
pia dovrà coltivare il proprio orticello, sfruttando soprattutto l’intelligenza e la razionalità poiché il dialogo e la tenerezza sono un po’ carenti; chi invece è single potrebbe dedicarsi a qualche hobby rilassante visto che nelle conquiste la scelta potrebbe cadere sulla persona sbagliata. Le vacanze dovrete organizzarle tranquille e facendo attenzione anche ai minimi dettagli, poiché in prima persona siete distratti e disorganizzati, quindi poi inutile polemizzare mettendo in crisi ogni tipo di rapporto! Da poco Giove è per voi favorevole e va a controbilanciare tutta una serie di passaggi astrali non troppo positivi. In questo mese estivo dovrete cercare di recuperare al massimo le energie sia fisiche
che psicologiche arrivando in autunno nella forma migliore possibile, visto che poi vi aspetta un periodo impegnativo. Sulla scia del mese precedente agosto è discreto nei rapporti affettivi. Chi è in coppia è bene che si lasci guidare dal sentimento, mentre chi è single dovrà fare attenzione ai colpi di fulmine… ma dal 21 la situazione cambia, perciò calma e prudenza! Qualsiasi tipo di vacanza va bene, soprattutto nella prima quindicina; potrete riposarvi, divertirvi o magari fare un viaggio importante.
glio scegliere con attenzione i tempi e le modalità di azione. Per quanto riguarda i sentimenti, nei rapporti di coppia prevarrà il dialogo e la tenerezza; chi è libero invece dovrebbe puntare a coltivare le amicizie da cui potrebbe anche nascere l’amore ma, attenzione… ci sono in agguato colpi di fulmine! Per le vacanze organizzatevi in maniera tranquilla, favorendo il riposo e il relax, poiché vi stancate più del solito e la ripresa è più lenta; farete incontri divertenti e potrete allacciare nuove amicizie.
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Yunnan
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Yùnnàn: alla scoperta dei luoghi più affascinanti della Cina aggiungere una meR ta un po’ insolita, in particolare per i viag-
giatori italiani, fuori dalle piste “battute” dai tours operator, non vuol dire rinunciare alla scoperta delle tradizioni della Cina, ma soltanto osservarle da un diverso punto di vista. E allora ci si addentra nelle antiche zone rurali del sud, nei villaggi dove i carretti trainati dagli asini e le biciclette ancora la fanno da padroni, dove lungo il ruscello si possono scorgere le donne che lavano i panni mentre i bambini giocano in strada. Scenari ormai scomparsi nel nostro “moderno” occidente, ma che ancora emozionano e fanno riflettere su quale sia la vera modernità. La Cina, però,
presenti importanti siti storici, da cui sono emerse testimonianze di sofisticate culture dell’Età del Bronzo che costituiscono i più antichi resti umani finora rinvenuti in Cina. Non va poi sottovalutata la straordinaria varietà ambientale, costituita dalla fittissima giungla attraversata dal fiume Mekong, dalle risaie a terrazza nella regione centrale e sudorientale, e al confine con il Tibet le pendici dell’Himalaya. La provincia ospita anche il maggior numero di specie animali e vegetali presenti in Cina, tra cui 2500 varietà di fiori e piante selvatiche. Lo Yùnnàn ha una conformazione del territorio assai varia cui si accompagnano notevoli
bani più tranquilli della Cina ed è un luogo piacevole in cui trascorrere qualche giorno. Naturalmente, come altre città, anche Kunmìng ha demolito gran parte dei suoi quartieri storici, ma vi sono luoghi in cui non solo è ancora possibile vedere anziani che si aggirano con indosso il cappello di Mao e carretti trainati da asini fermi davanti ai templi, ma è possibile apprezzare uno spaccato tipico della quotidianità locale con la gente che si raduna per bere tè, farsi tagliare i capelli o giocare interminabili partite a mah jong. Da Kunmìng si vola su Shangri-la (3200 m di altitudine), ultima tappa nella provincia per chi intende poi affrontare gli aspri itinerari ti-
di scarso valore e gli abili artigiani intenti a lavorare la giada. Da Lìjiang si possono effettuare brevi escursioni nei villaggi limitrofi, tra cui si distingue Bàisha, un piccolo villaggio situato nella pianura, nei pressi di diversi antichi templi, raggiungibile in bicicletta in 30 minuti. Qui il tempo scorre lentamente, gli animali girano indisturbati per le strade e, con un po’ di curiosità, è possibile visitare la clinica del dottor Ho, il più famoso medico taoista, reso celebre dalla citazione dello scrittore Bruce Chatwin che in un suo libro lo definisce come “il medico taoista del Monte di neve del Drago di Giada”: la stessa scritta campeggia sulla porta d’ingresso. All’occorrenza il dottore può anche preparare qualche “intruglio” di erbe e quant’altro da prendere tipo infuso. ltro giro altra corsa: in aereo rapido volo verso il Xischuangbannà, regione all’estremo sud dello Yunnan, proprio al confine con il Myanmar e il Laos, noto come Bannà. Il cambiamento di clima e altitudine si fanno sentire, e data la stretta vicinanza
tà cinesi, senza tuttavia dimenticare le proprie origini di tranquilla cittadina dove il caldo soffocante di fine giornata rallenta notevolmente i ritmi quotidiani. La principale attrattiva è rappresentata dal trekking e dalle visite ai numerosi villaggi della zona, abitati da gruppi etnici minoritari. È sorprendente notare come anche all’interno della giungla il Governo cinese abbia sostituito le malmesse capanne con caratteristiche strutture in legno, dotandole di pannelli solari, nel chiaro intento di invitare la popolazione locale a non abbandonare la terra di origine per cercare fortuna in città. Una menzione speciale meritano le escursioni all’interno della foresta, dove il canto delle cicale è assordante a tal punto da essere scambiato per il rumore di un gruppo di taglialegna dotati di motosega! L’incredibile varietà di specie animali e la particolarità degli insetti incontrati è unica, come la discesa all’interno dei ruscelli saltellando tra i massi resi umidi dall’improvvisa pioggia pluviale. Si entra nella giungla asciutti, ma subito l’umidità ti perva-
glie di etnia Dai, costruite su palafitte (sotto le quali allevano galline e maiali) che consentono di proteggere i pavimenti dall’umidità del terreno. L’itinerario si conclude qui, non senza una precisazione: al di là delle escursioni, del trekking e delle esperienze socio-culturali, assai interessante può essere trascorre qualche ora nei tanti chioschetti disseminati, sorseggiando una birra e lasciandosi avvolgere dalla calura, mirando il mondo che ti scorre davanti. In questi posti si recuperano ritmi di vita umani, magari solo perché si è in vacanza, ma tanta è la varietà di persone e cose che stando fermi è possibile godersi lo “spettacolo”. l viaggio è anche questo, usare capacità cognitive inespresse, risvegliare una zona del cervello accantonata, mettendo invece per un istante da parte quel linguaggio cognitivo che la quotidianità ci porta a sfruttare. Interrompere il nostro filo conduttore, che sia del lavoro o degli affetti, spegnere il cellulare per giorni, modificare il modo di ragionare, fanno sì che anche la men-
con la folta giungla l’afa condiziona attività e spostamenti. Jinghong è il capoluogo della Prefettura del Bannà, sorge lungo il Fiume Mekong ed è in rapida espansione e costante sviluppo, un po’ come tutte le cit-
de e si esce completamente bagnati. I molti parchi protetti della zona richiamano numerosi turisti, soprattutto per i templi classici e per la possibilità di alloggiare presso le case tradizionali delle fami-
te si riposi veramente, in attesa del ritorno agli accadimenti quotidiani. Lorenzo Battisti
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ormai non è più neanche questo, è un immenso cantiere, fatto di autostrade e aeroporti super efficienti, di metropolitane e gallerie; anche nei villaggi più remoti puoi scorgere pannelli solari e connessioni wi-fi e tutto è in rapida evoluzione mentre la popolazione ha un’età media bassissima. Ebbene, lo Yùnnàn – sesta provincia della Cina in ordine di grandezza – un tempo terra d’esilio in cui erano relegati i funzionari caduti in disgrazia, è oggi al secondo posto fra le “mete da sogno” dei cinesi. Da quando quest’area ha aperto le porte al turismo, gli stranieri ne sono stati conquistati, in particolare i viaggiatori zaino in spalla. o Yùnnàn è come una perla nell’immensa Repubblica Popolare, una fetta di territorio che parte dai piedi dell’altopiano tibetano sino ai confini del sud con Birmania, Laos e Vietnam. Nella regione risiede più del 50% delle minoranze etniche presenti in Cina che formano una straordinaria mescolanza di popoli. Sono anche
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differenze climatiche interne, che ne fanno uno degli elementi distintivi, rendendo il viaggio ancora più affascinante. Basti pensare che al confine con il Vietnam l’altitudine non supera i 70 metri sul livello del mare, con un clima subtropicale dove nei mesi estivi si registrano massime di 33° C. Al contrario, sull’altopiano tibetano si sale fino a 6700 metri, con un altitudine media di 2000 metri, dove nella stagione invernale le temperature si abbassano fino a -12° C e d’estate non superano i 19° C. Nel mezzo, invece, si incontrano vere e proprie “isole” temperate, dove il clima è piacevole tutto l’anno, con la colonnina di mercurio che non scende mai sotto i 4° nei mesi invernali e nella stagione estiva non supera i 25°C. l viaggio inizia da Roma, scalo a Bangkok, poi volo fino a Kunmìng, capoluogo della provincia, al momento impegnata nella realizzazione del quarto aeroporto più grande della Cina. Kunmìng, detta anche “Città Primavera” per la mitezza del clima, è uno dei centri ur-
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betani. A circa un’ora di cammino dalla città si erge uno dei monasteri tibetani più affascinanti dello Yunnan, immerso in un luogo di pace e silenzio ospita circa 600 monaci. Lasciando Shangri-la per raggiungere Lìjiang, si passa attraverso la “Gola del Salto della Tigre”, tra le più profonde del mondo tanto da raggiungere la vertiginosa altezza di 3900 m, dove il trekking rappresenta un’esperienza indimenticabile non senza aver preso le dovute accortezze: basti ricordare che non sono rari gli incidenti lungo il sentiero, dove negli ultimi anni hanno perso la vita diversi escursionisti. Dalla Gola si riprende il bus fino a Lìjiang, splendida cittadina dalle case in legno immerse in un labirinto di vicoli acciottolati e corsi d’acqua, inserita dall’UNESCO nella lista dei siti considerati Patrimonio mondiale dell’Umanità. Perdersi tra le viuzze del villaggio è il passatempo ideale dei sempre numerosi visitatori, soprattutto cinesi, in cerca dell’affare giusto tra le mille bancarelle piene di souvenir
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Mantova
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Un itinerario letterario, artistico e storico di fine Estate: Mantova uello che vi racconto e Q vi propongo è un itinerario fuori catalogo, che
nessun tour operator promuove per ovvie ragioni: è in Italia, è raggiungibile in poche ore di auto o di treno, ha una durata breve, al massimo cinque giorni, è economico e sconosciuto a molti. Sto parlando di Mantova. Fino a qualche anno fa non la conoscevo e non immaginavo che fosse così bella, in tutti gli aspetti, senza alcuna eccezione: da un punto di vista artistico, storico, paesaggistico e persino letterario, tanto da essere considerata la capitale italiana della letteratura. Mantova è bella da visitare in qualsiasi periodo dell’anno ma ancor più lo è nella seconda settimana di settembre, momento in cui si svolge “Festivaletteratura”, una manifestazione letteraria in cui si intrecciano storia, arte e letteratura e Mantova, per l’occasione, apre ai visitatori le porte di palazzi monumentali, di giardini privati e di luoghi nascosti, ignorati dal turismo di massa. Il paesaggio di Mantova ti attrae a prima vista solo ad una sua visione d’assieme: in lontananza sembra una isola sospesa tra cielo e acqua, perché è circondata dal fiume Mincio, che in questo punto del percorso è talmente grande che da vita a tre laghi intercomunicanti: Lago Superiore, Lago di Mezzo, Lago inferiore. Percorrendo il ponte principale, Ponte San Giorgio (accesso a nord della città), la visione che si ha del centro storico è a dir poco magnifica e da questo momento comprendi che ti rimarrà nel cuore. ’ una città antichissima che affonda le sue origini nell’età etrusca, ma raggiunse il suo splendore in età comunale e soprattutto durante la lunga dominazione della signoria dei Gonzaga il cui simbolo è il Palazzo Ducale, una delle più estese ed elaborate regge d’Italia che racchiude circa 500 tra sale e stanze con numerose piazze, cortili e giardini interni. Da segnalare, dal punto di vista architettonico, il Castello e dal punto di vista pittorico, la Camera degli Sposi (di Andrea Mantegna). L’altro grande simbolo della Mantova dei Gonzaga è Palazzo Te, realizzato sia nella parte architettonica che in quella pittorica da Giulio Romano: all’interno meritano una menzione la Sala dei Giganti, quella di Amore e Psiche e quella dei Cavalli. Altro importante palazzo monumentale è la Casa del Mantegna, con il caratteristico cortile circolare. Dopo gli splendori dell'età dei Gonzaga Mantova conosce un altro periodo di fervore artistico nel Settecento: le testimonianze più importanti sono il Palazzo Vescovile, il Palazzo d'Arco e soprattutto il
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Teatro Accademico, opera del Bibiena. Tutti questi palazzi, monumenti ed anche le piazze (la stupenda Piazza Erbe e piazza Sordello), a Settembre, come dicevo, diventano lo scenario di “Festivaletteratura”, un Festival che porta la letteratura in piazza per uscire dagli spazi più tradizionali in cui i libri e gli autori si trovano confinati. una festa di libri, una festa che chi ama leggere, aggiunge, ormai da molti anni, sul calendario a quelle tradizionali: cinque giorni colorati, uno di seguito all’altro, che porta in città scrittori da tutto il mondo, musicisti, attori, registi, comici, critici, artisti, scienziati e lettori, offrendo un fitto cartellone di incontri tra pubblico e autori, letture, performances teatrali e musicali ambientate in luoghi insoliti e di forte valenza storicoartistica. Un'occasione per scoprire anche la città che, per il Festival, offre le proprie strade come location per gli spettacoli, offrendo uno straordinario valore aggiunto a tutta la manifestazione che dura cinque giorni, dal mercoledì alla domenica della seconda settimana di settembre. In quei giorni a Mantova si respira una tranquilla aria di festa e quello che più colpisce è proprio il rapporto diretto che si viene a instaurare tra scrittori e pubblico, attraverso una modalità di confronto, di scambio, di ricerca del tutto nuove rispetto agli incontri “tradizionali”, lontana dai consueti dibattiti o presentazioni e senza compromessi con i clichè cari al piccolo schermo. Così accanto agli incontri tradizionali troviamo percorsi guidati al patrimonio storico culturale della città, momenti teatrali con testi firmati da importanti autori, reading di poesia, eventi in lingua originale, comizi sulla pubblica piazza, incontri di breve durata in cui gli scrittori svelano idee ancora abbozzate o interessi sconosciuti, incursioni nella letteratura del passato, confronti tra autori e intervistatori scelti tra i volontari del Festival (i ragazzi di Blurandevù) e molto altro ancora. Festivaletteratura non guarda, a dispetto del nome, solo alla letteratura ma a tutto quello che fa “movimento culturale” nel nostro Paese e all’estero. Credo che la nota più innovativa rispetto a quelli che una volta erano gli incontri letterari è la sezione “Scintille – 30 minuti di improvvisa energia”: una formula che prevede 30 minuti netti, non un secondo in più, di faccia a faccia tra l’autore e i suoi lettori senza la mediazione di un presentatore, gli autori si vengono a trovare di fronte ad un pubblico che in totale libertà pone al centro del dialogo ciò che interessa loro.
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n altro esempio di un U particolare modo di conoscere un autore è
questo: un giorno uno degli organizzatori di Festivaletteratura ha chiesto allo scrittore israeliano David Grossman: "Che cosa ti piacerebbe venire a fare a Mantova?", lui ha risposto "Vorrei passeggiare con i miei lettori nella natura". Detto fatto. Mantova ha organizzato per l’occasione al Bosco della Fontana un evento con Grossman accompagnato "a passo d'uomo" dai suoi lettori ed è stata un’esperienza molto suggestiva ascoltarlo, conversare con lui di tutto, durante una passeggiata di circa un’ora nella riserva naturale di Bosco Fontana. Al termine della passeggiata tra le secolari querce, Grossman ha letto alcune pagine tratte da un suo libro. Oppure può capitare di assistere a “momenti di inedita energia” dove gli intrattenitori di turno raccontano o leggono inediti di grandi autori, tra i tanti “Le donne guidano” di Anna Banti, di cui propongo un brano. “…trent’anni o giù di lì sono trascorsi dal tempo che le donne han principiato con una certa regolarità a guidare una macchina: ché, prima del ’30, le poche che lo facevano, rappresentavano unaeccezione stravagante. Ai corsi di istruzione – che erano, oltreché di pratica, folti di cognizione meccaniche così da fornire al candidato la possibilità di riparazioni di fortuna – la donna si accostava con peritanza: in genere non ce n’era più di una per ogni corso ed era guardata dai condiscepoli, meccanici di professione e giovinotti sportivi, con discreta, indulgente curiosità. All’esame, l’ingegnere la interrogava con cortesia ostentata e raramente la bocciava, anche perché di solito era molto preparata. Va da sé che il questionario riguardante il traffico, oggi così meticoloso e ricco di
trabocchetti, era, in quegli anni, estremamente semplice, riducendosi all’interpretazione di pochi segnai e a regole di precedenza elementari. Venuta in possesso della patente, non sempre la signora (ché soltanto le signore a quel tempo possedevano automobili) se ne serviva. Un po’ per pigrizia, un po’ per la vanità di far mostra di uno “chauffeur” in livrea, essa preferiva farsi scorrazzare, annidata sul sedile posteriore, fra cuscini, plaids e l’immancabile vasetto di cristallo guarnito di fiori freschi. I problemi delle “commissioni” mattutine non erano affannosi come adesso, alle distanze non eccessive – i quartieri residenziali lontanissimi dal centro, erano di là da venire – bastavano d’altronde gli autobus, gli eleganti, comodi, non affollati autobus dei “quartieri alti”. In fondo, le donne che quotidianamente conducevano la macchina passavano ancora per originali e, magari, posatrici…Una giovane donna, rammento, che usava portare grossa americana si sentì dire un giorno dal carrettiere che le veniva incontro per una strada strettissima: “figlia mia, e come fai a guidare questo tranvai?” Lei rispose che faceva conto di avere dei fianchi molto larghi: e tutti e due si misero a ridere di gusto… Insomma la pagina scritta si trasforma in spettacolo dal vivo nella splendida cornice di una città d'arte, facilmente percorribile a piedi su suoi ciottoli, tra vicoli e portici, dove ogni strada, ogni piazza valgono da sole una passeggiata, durante la quale non sarà difficile incontrare il proprio autore preferito. Ci sono anche momenti per i bambini e gli adolescenti, ai quali è dedicata un'attenzione particolare: ogni giorno animazioni, giochi e letture condotte dagli autori della letteratura per ragazzi e da scrittori per adulti, che si con-
frontano con i più piccoli per avvicinarli in modo divertente a diverse forme di espressione, letteratura, poesia, scrittura creativa, teatro, illustrazione. uello che affascina Mantova durante Festivaletteratura è che la città non si fa travolgere dall’evento, la sua tranquillità rimane intatta, vivere alcuni giorni in mezzo a migliaia di persone (la gente è veramente molta) non è fastidioso, non è caotico, anzi il contrario, tutto è pacato, tranquillo: spostarsi da un luogo ad un altro per assistere agli eventi non è un problema, si fa passeggiando, senza fretta; la gente non urla o schiamazza ma parla, semplicemente e sei pervaso da un piacevole brusio; si rispettano le file d’ingresso agli eventi con molta pazienza e in modo ordinato. Insomma in quei giorni la vita viene vissuta con una pacatezza estrema, quasi surreale ma terribilmente reale e ti viene da chiederti: ma allora si può vivere anche così! Il merito del successo di questa manifestazione va soprattutto alla perfetta organizzazione del Festival, di cui i volontari costituiscono l’anima: sono centinaia di persone, in gran parte giovani e giovanissimi, che vengono da tutta Italia per dar vita al festival e partecipare da protagonisti alla cinque giorni letteraria, che si rendono disponibili al lavoro che verrà richiesto in rapporto alle necessità che si presenteranno. E con loro tutto funziona a regola d’arte, nessun disservizio e questo ti fa sentir bene. La prima volta che si va a Mantova per il Festivaletteratura, ti prende la frenesia di non riuscire a vedere, a catturare a tutto quello che vorresti e in effetti non ci riesci, principalmente perché si è attratti e distratti, allo stesso tempo, dalla bellezza della città e dalla voglia di scoprirla, in secondo luo-
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go perché gli eventi sono tanti ed è difficile scegliere e orientarsi se non si è forti di almeno un’esperienza e allora bisogna lasciarsi guidare dal “fiuto”, magari approfittando dei numerosi eventi gratuiti. Ma la seconda volta che si va, vi posso assicurare che è tutto diverso perché ritorni in un luogo familiare dove ti orienti alla perfezione tra luoghi ed eventi. E che quando il Festival finisce ci si sente felicemente inappagati. È come se Festivaletteratura facesse venire l’appetito: si torna a casa con un libro che si vuole leggere, un autore da conoscere meglio, un argomento da esplorare e quindi ti prende la voglia di tornare. Quest’anno Festivaletteratura è alla XV edizione e si svolge dal 7 all’11 di settembre e dalla fine di agosto sarà possibile prenotare on line gli eventi a pagamento, per poi ritirare il biglietto nei box office una volta arrivati a Mantova; i prezzi dei biglietti sono molto economici si va da 2 euro a un massimo di 10 euro; se si programma la vacanza abbastanza in anticipo è possibile alloggiare in uno dei numerosi bed & breakfast o in agriturismo a prezzi davvero economici. Spesso per gli ospiti delle strutture ricettive sono disponibili anche le biciclette per raggiungere il centro città; Mantova è una città a misura di pedone e di ciclista e sono presenti sul perimetro esterno percorsi ciclabili. Un consiglio per preparare la valigia: scarpe e indumenti comodi e… lasciate rigorosamente a casa la fretta, a Mantova non serve. Mantova è una città da conoscere, una città che si fa amare e poi si ama, una città raccolta e serena che ha sempre qualcosa da offrire, e in cui si torna sempre volentieri per beneficiare di quel buon sapore che lascia al ritorno a casa. Loretta Ottaviani
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Valle d’Aosta
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Quel giorno d’agosto in Valle d’Aosta Breve racconto di un’indimenticabile escursione Quattro lunghe e intense ore di camminata per arrivare sul punto più alto della montagna e scorgere l’immenso davanti ai nostri occhi sbalorditi e illuminati dal sole in una giornata calda e luminosa d’agosto. E’ accaduto qualche anno fa, ero in vacanza in Valle d’Aosta in compagnia di amici, siamo partiti per un’escursione ma in leggero ritardo rispetto alle tempistiche che si rispettano in montagna per evitare il caldo soffocante che arriva puntuale durante le ore centrali delle giornate assolate dell’estate. La frescura del bosco e la festa dell’acqua che zampilla fra le rocce del torrente ci hanno fatto compagnia nel primo tratto lasciandoci poi a camminare sulle pietre arroventate dal sole d’agosto su una salita che si fa sempre più dura passo dopo passo. Il caldo sulla testa, sul corpo e nella mente. Ti entra dentro e ti pervade ma è più forte la voglia di andare avanti, di superare anche l’ultimo ostacolo e raggiungere con gli occhi, con le mani e con il cuore quell’obiettivo che ti sei posto prima di partire. Non è una sfida, è un’avventura, un’emozione, un senso di libertà. La salita è stata lunga, intensa, massacrante. Dopodiché, giunti a 2 mila e 500 metri dopo 3 ore e mezzo di camminata, la natura si è dimostrata come sempre generosa regalandoci all’improvviso il primo scorcio di meraviglia: inaspettatamente, dopo un ultimo gradino naturale della montagna, si è aperta una conca di terra verde dove è comparsa la superficie del lago di Liconi, uno dei più grandi laghi naturali della piccola regione. Un enorme diamante incastonato in un solitario angolo della terra. Uno spettacolo indimenticabile, un premio incommensurabile dopo tanta fatica fisica. L’acqua era cangiante tra il verde e il blu scuro, si muoveva leggermente creando delle piccolissime onde che, colpite dal sole, si dipingevano d’argento e sembravano ipnotizzarci regalandoci una sensazione di meraviglia, di serenità interiore e di incanto. Saremmo rimasti a osservarle per ore
ma, chi frequenta la montagna, sa bene che questo non è possibile perché già ad agosto il sole tramonta abbastanza presto dietro le enormi montagne della Valle d’Aosta. Se si è arrivati in cima a una vetta bisogna anche avere il tempo utile di tornare indietro con il sole che illumina il cammino, altrimenti il rischio di perdersi o farsi male è molto alto. Se, poi, come nel nostro caso, si vuole raggiungere anche un’ulteriore meta, l’incanto delle onde va lasciato soltanto alla memoria della mente e della macchina fotografica: amica indiscussa di chi ama la natura. Cosi, abbiamo iniziato a percorrere in salita l’anfiteatro verde che abbraccia il lago, proseguendo lungo un comodo sentiero che passa attraverso un alpeggio dove pascolavano tranquillamente e beatamente delle mucche incuriosite della nostra presenza. Una di queste ci ha seguiti e si è messa anche in posa per delle foto scenografiche con il lago visto dall’alto sullo sfondo. Noi, intanto, abbiamo proseguito sapendo che ci aspettava il momento più bello e così è stato. Immaginate, dopo circa mezz’ora di camminata, dietro di noi lasciavamo una discesa d’erba che concludeva con l’enorme e maestoso lago di Liconi e il fondovalle di Morgex vicino Courmayeur; davanti a noi si apriva invece l’infinito: nell’ultimo tratto di salita muovevamo ogni passo con la velocità di un bradipo tanta era l’emozione del panorama che si stava aprendo davanti ai nostri occhi. Incredibile ma vero: davanti a noi uno dei più bei panorami dell'intero massiccio del Monte Bianco, della Val Ferret e della sottostante città di Courmayeur. Eravamo a 2 mila e 700 metri e un passo in più non potevamo farlo perché a un metro da noi la montagna era completamente tagliata lasciando spazio a un precipizio vertiginoso ma allungando un braccio avevamo la sensazione di toccare la punta più alta del monte più alto d’Europa, il monte Bianco, innevato e coperto dai suoi ghiacci perenni brillanti e argentei sotto il sole d’ago-
sto. In compagnia della mucca che si era fermata a una distanza di sicurezza di una decina di metri da noi, siamo rimasti per qualche minuto ad ammirare il panorama che si apriva tutto intorno. In questi momenti accade qualcosa di unico: la mente si svuota completamente dei problemi e dello stress accumulato a lavoro e nella vita di tutti i giorni, ma al contempo si riempie di immagini, ricordi, sensazioni che per svariati motivi fanno parte della tua vita e tornano davanti ai tuoi occhi con un’energia nuova, più forte, vivace e positiva. L’unicità di questi momenti non sta solo o soltanto nella strepitosa bellezza del contesto naturalistico che ti circonda, ma anche nel fatto che lì insieme a te ci sono soltanto persone che, come te, si sono fatte quattro ore di dura salita con lo zaino sulle spalle e, come te, apprezzano incondizionatamente quello che hanno raggiunto e lo rispettano come difficilmente accade nella società di oggi durante il nostro vivere quotidia-
no, che sia in città, al mare o in campagna. Lassù, tra il vallone scosceso e roccioso che conduce al lago di Liconi e la conclusione della salita che si apre come un palcoscenico sull’intero massiccio del monte Bianco, ci si arriva soltanto a piedi, con le proprie forze, con l’energia positiva di chi ama e rispetta la natura, con l’equilibrio interiore di
chi sa compiere uno sforzo fisico e mentale nella convinzione che la meta da raggiungere merita un tale impegno perché è prima di tutto un regalo e un insegnamento per la vita. Nelle sue infinite sfaccettature, la montagna ti insegna a osservare la tempistica della natura riportandoti con i piedi per terra ad affrontare ostacoli, pericoli e salite con saggezza, lu-
l’acqua e la voglia di camminare in mezzo alla natura. Parcheggiata la macchina a Planaval che si raggiunge dopo una serie di tornanti in salita subito dopo La Salle poco prima di Courmayeur (la principale porta valdostana per la Francia attraversando il traforo del monte Bianco), abbiamo iniziato un percorso facile e intuibile lungo una strada interpodera-
cidità e determinazione. Quando sei in montagna e vivi la natura a pieno, apprezzi come non mai quei “vecchi” e comodi scarponi che ti accompagnano fedeli da anni, quel semplice panino fatto prima di partire per l’escursione e che al momento di mangiarlo si trasforma in prelibatezza, quell’acqua della borraccia o, ancora meglio, del torrente che casualmente incontri lungo il percorso ed è sempre una gioia. Tutto, anche le cose più semplici, come per magia, si trasformano in meraviglia e la vita si riappropria del valore che merita. Quella mattina di qualche anno fa siamo partiti per caso per questa escursione perché eravamo indecisi su come trascorrere la giornata. Qualcuno di noi era stanco e preferiva rimanere in albergo o andare con la macchina a visitare qualche città, qualcun altro, tra cui io, si è lasciato prendere dall’idea di una nuova ed emozionante avventura. Così è iniziata l’escursione: scarponi ben allacciati, zaino in spalla, un panino,
le che si immette in un lungo traverso per poi arrivare a un punto in cui si strozza e impenna improvvisamente. Tra salite e discese, stradine più comode e sicure nel sottobosco e percorsi larghi mezzo metro che tagliano la montagna e si affacciano sul nulla, abbiamo camminato per quasi due ore. Tra cambi di pendenze, attraversamenti di torrenti, restringimenti di sentiero e improvvisi tornanti, abbiamo superato ben due valloni, poi il sentiero si riaggancia a una seconda strada interpoderale che, finalmente, permette di raggiungere la località Liconi a oltre 1.800 metri, la base del vallone che conduce al lago e, per la cronaca, il vero inizio dell’escursione. Fino a questo punto abbiamo assaggiato solo l’antipasto, da questo momento in poi abbiamo fatto sul serio. Durante questa prima parte di escursione avevamo avuto l’energia e la forza per camminare e chiacchierare, dopodiché, siamo entrati in perfetta sinergia e concentrazione con la
natura e abbiamo iniziato la salita, quella vera, dura, impegnativa che ci ha portato fino a scoprire lo spettacolo mozzafiato del lago di Liconi che si apre come un terrazzo panoramico sulla catena del monte Bianco. Un’emozione indescrivibile che ripaga oltremodo dello sforzo e dell’impegno fisico e mentale necessari al raggiungimento della meta. Tale emozione e le sensazioni provate a questo punto dell’escursione le ho volute descrivere in apertura di questo racconto quasi a voler proporre fin da subito al lettore la pietanza più appetitosa, gustosa e inebriante. A questo punto rimane soltanto la conclusione di questa giornata avventurosa, il ritorno alla macchina, avvenuto non appena il sole iniziava la sua progressiva discesa dietro le alte guglie e iniziava a segnare il vallone di grandi aree ombreggiate che richiamano all’attenzione e al rispetto perché in poco tempo oscurano completamente il cammino verso casa e l’unico bagliore di luce, se si è fortunati e il cielo è sereno, rimane la luna. Un ultimo sguardo indietro verso il monte Bianco e il luccichio del lago, giusto il tempo di imprimerne nella mente le immagini e le forti sensazioni trasmesse, poi abbiamo iniziato la discesa lungo lo stesso percorso dell’andata. Sulle spalle lo stesso zaino, alleggerito dell’acqua e del panino che avevamo già mangiato ma stracolmo di ricordi, immagini e suggestioni. Una discesa rapida, silenziosa e rasserenante ci ha permesso di consolidare per sempre le sensazioni e le esperienze appena vissute. Dedico questo breve ma piacevole racconto di fine estate ai miei genitori che, per primi mi hanno fatto scoprire questo splendido luogo rafforzando in me l’amore per la montagna e la natura. Estendo questa dedica al mio compagno di vita Gianni che ha voluto vivere insieme a me quest’esperienza pur inconsapevole della difficoltà del percorso ma sempre fiducioso in me. Maura Donati
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Per una società diversa
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La lotta di Classe... «La teoria non trova mai la sua realizzazione nel popolo, se non quando essa realizza i bisogni di questo popolo [...] L'umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose da vicino, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione [...] La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressi ed oppressori sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese: una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la so-
cietà o con la rovina comune delle classi in lotta [...] Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cossiché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che l'espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l'espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del
suo dominio. Il proletariato si servirà del suo dominio politico per togradualmente gliere dalle mani della borghesia tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, cioè del proletariato organizzato come classe dominante e per accrescere con la piú grande celerità possibile la massa delle forze produttive [...] Se il prodotto del lavoro non appartiene all’operaio, e un potere estraneo gli sta di fronte, ciò è possibile soltanto per il fatto che esso appartiene ad un altro estraneo all’operaio. Se la sua attività è per lui un tormento, deve essere per un altro un godimento, deve essere la gioia della vita altrui. Non già gli dèi, non la natura, ma soltanto l’uomo stesso può essere questo potere estraneo al di sopra dell’uomo [...]
La “liberazione” è un atto storico, non un atto ideale, ed è attuata da condizioni storiche, dallo stato dell’industria, del commercio, dell’agricoltura, delle relazioni. [...] e in realtà per il materialista pratico, cioè per il comunista, si tratta di rivoluzionare il mondo esistente, di metter mano allo stato di cose incontrato e di trasformarlo [...] L'ordinamento comunistico della società farà del rapporto fra i due sessi un semplice rapporto privato che riguarderà solo le persone che vi partecipano, e nel quale la società non ha da ingerirsi. Potrà farlo perchè elimina la proprietà privata ed educa in comune i bambini, distruggendo così le due fondamenta del matrimonio come si è avuto finora; la dipendenza della donna dall'uomo e dei figli dai genitori
dovuta alla proprietà privata. Qui sta anche la risposta alle strida dei filistei moralisti contro la comunanza comunista delle donne. La comunanza delle donne è una situazione legata totalmente alla società borghese e che oggigiorno esiste in pieno nella prostituzione. Ma la prostituzione
poggia sulla proprietà privata e cade con essa. Dunque, l'organizzazione comunista, anzichè introdurre la comunanza delle donne, la abolisce invece [...] Ogni qualvolta viene posta in discussione una determinata libertà, è la libertà stessa in discussione...» Karl Marx
Il sogno rivoluzionario...
«Se tremi per l'indignazione davanti alle ingiustizie, allora sei mio fratello [...] Quando si sogna da soli è un sogno, quando si sogna in due comincia la realtà [...] Se
io muoio non piangere per me, fai quello che facevo io e continuerò vivendo in te [...] Non serve a niente lo sforzo isolato, lo sforzo individuale, la purezza degli
ideali, l’anelito a sacrificare tutta una vita al più nobile degli ideali, se tale sforzo lo si compie da soli [...] La vera rivoluzione deve cominciare dentro di noi [...] Credo nella lotta armata come unica soluzione per i popoli che lottano per liberarsi, e sono coerente con quello che credo. Molti mi diranno avventuriero, e lo sono; soltanto che lo sono di un tipo differente: di quelli che rischiano la pellaccia per dimostrare le loro verità. Può darsi che questa sia l’ultima volta, la definitiva. Non la cerco, ma rientra nel calcolo delle probabilità [...] Che importano i pericoli o i sacrifici di un uomo o di un popolo, quando è in gioco il
destino dell’umanità? Ogni nostra azione è un grido di guerra contro l’imperialismo, è un appello vibrante all’unità dei popoli contro il grande nemico del genere umano: gli Stati Uniti d’America [...] In qualunque luogo si sorprenda la morte, che sia benvenuta, purché il nostro grido di guerra giunga a un orecchio ricettivo, e purché un’altra mano si tenda per impugnare le nostre armi e altri uomini si apprestino a intonare canti luttuosi con il crepitio delle mitragliatrici e nuove grida di guerra e di vittoria [...] Chi è moralmente impressionato dal potere non ha mai umor critico e non sarà mai un carattere rivolu-
zionario. Il carattere rivoluzionario è capace di dire di no. O, per dirla in altri termini, il carattere rivoluzionario è un individuo capace di disobbedienza. E’ qualcuno per cui la disobbedienza non può essere una virtù [...] Il socialismo non può esistere se nelle coscienze non si opera una trasformazione che determini un nuovo atteggiamento di fratellanza nei confronti dell’umanità [...] Chi ha detto che il Marxismo sia la rinuncia ai sentimenti umani, al cameratismo, all’amore per il compagno, al rispetto per il compagno? Chi ha detto che il marxismo sia non avere anima, non avere sentimenti? Fu precisamente
l’amore per l’uomo quello che generò il marxismo, fu l’amore per l’uomo, per l’umanità, il desiderio di combattere l’infelicità del proletariato, il desiderio di combattere la miseria, l’ingiustizia, il calvario e lo sfruttamento [...] Il dovere di un rivoluzionario è quello di fare la rivoluzione [...] però non è da rivoluzionari sedersi davanti alla porta di casa aspettando che passi il cadavere dell’imperialismo. Il ruolo di Giobbe si concilia male con il ruolo di rivoluzionario [...] Chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso [...] preferisco morire in piedi piuttosto che vivere in ginocchio» Che Guevara
L’odio per l’indifferenza... “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli
uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era
stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di
non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”. 11 febbraio 1917 Antonio Gramsci
Pagina a cura di Andrea Tofi
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Odissea
NUMERO “DIVERSO” AGOSTO 2011
La preghiera di Odisseo a Nausicaa Omero, Odissea VI Omero è il massimo rappresentante della "Ragione poetica" che caratterizzò l'epoca barbara, l'epoca della fantasia, del mito, della magia della favola, non riducibile al mondo della ragione (come Dante lo è della "barbaria ritornata"che è il Medioevo). Nel suo lungo e tormentoso viaggio iniziatico Ulisse ha amato quattro donne: Circe la maga amante, Calipso la ninfa innamorata, figlia di Atlante nell'isola di Ogigia, Nausicaa la vergine palpitante. Nel libro VI Odisseo, partito dall'isola di Calipso, dopo venti giorni di navigazione (di cui gli ultimi due di tempesta, a causa dell'ira di Poseidone), giunge naufrago a Scheria, terra dei Feaci: qui incontra la bella figlia di Alcinoo, Nausicaa, con la complicità della dea Atena; la fanciulla, infatti, ammonita in sogno dalla dea perché le sue nozze sono vicine, si reca con le sue ancelle al fiume a lavare le vesti e poi si diverte a giocare a palla; gli schiamazzi delle giovani destano Odisseo, che si era addormentato, sfinito e nudo, sotto un cespuglio: al suo ap-
parire, le ancelle fuggono spaventate, mentre Nausicaa resta, ispirata da Atena, ad ascoltare le parole che Odisseo le rivolge quasi in religiosa preghiera. E’ L'unico caso in cui [in Omero] si trova rappresentato il nascere e il crescere del sentimento amoroso è quello di Nausicaa, che gode naturalmente le simpatie di tutta la critica moderna. Nel suo caso Omero non solo parla dell'evolversi di un sentimento privato dominante ed esclusivo, ma lo mette al centro del racconto, rinnovando risolutamente per questo la tecnica della narrazione epica: l'episodio del libro VI dell'Odissea è retto da un pensiero che si era già visto nascere e crescere nella mente della fanciulla prima dell'incontro, il quale è raccontato e osservato dalla parte di lei. Nella vicenda del ritorno di Odisseo Nausicaa è
soltanto una figura strutturale episodica che poi scompare, è un personaggio di raccordo. Basterebbe dunque un cenno alla sua funzione positiva nei piani del reduce. Invece il poeta fa dei suoi vagheggiamenti amorosi il motivo dominante di tutto l'episodio. All'inizio del canto si capisce subito che Nausicaa è il personaggio assolutamente centrale. Il racconto comincia da lei: c'è una lunga panoramica, come si direbbe oggi, che accompagna il viaggio di Atena,
che abbraccia tutta la città e finisce col fissarsi sul letto di Nausicaa. Ma sulpiano sentimentale non c'è alcuna comunicazione fra i due: Odisseo non corrisponde, né finge di corrispondere, né lusinga, né tradisce la fanciulla: non mostra neppure di comprenderla, non si sa neppure cosa pensi di lei. Eppure egli è civile e cortese, per naturale cortesia rivolge a lei il primo discorso; ma non fa nulla che possa fornire lo spunto per uno scioglimento patetico.
E sùbito le disse soavi, accorte parole: "Ti supplico, o potente, in ginocchio. Sei tu forse dea o mortale? Se alcuna delle dee tu sei del vasto cielo, per la bellezza del volto, e l'alta statura, e l'armonia delle forme, tu mi sembri Artémide, figlia del sommo Zeus: tanto le somigli. Ma se mortale tu sei che vive in terra, tre volte beato il padre e la nobile madre, e beati tre volte i fratelli. Certo il loro cuore è tenero di gioia per te, freschissimo stelo, – www.loescher.it/mediaclassica – quando muovi alla danza. Ma più di ogni altro, felice nel cuore chi supera i rivali coi doni di nozze e ti conduce con sé nella casa, poi che i miei occhi non videro mai creatura mortale, né uomo né donna, simile a te, e stupore mi vince a guardarti. Un giorno, in Delo, presso l'ara d'Apollo così, come te, io vidi un giovane stelo di palma levarsi in alto. Io fui anche là, con molta gente, nel viaggio da cui mi vennero cupe sventure. E come allora a vedere la palma rimasi stupito a lungo nel cuore, perché mai albero uguale venne sulla terra, così ora ti ammiro, o donna, e stupisco, e non oso sfiorarti le ginocchia, anche se grave è il mio tormento. Ieri, dopo venti giorni, scampai dal livido mare: per tutto quel tempo, senza tregua, le onde e l'impeto delle procelle mi trascinarono dall'isola di Ogigia; e qui mi gettò un nume, perché anche su queste rive mi colga sventura. Non credo finite le mie pene: altre ne pensano gli dèi. Ma tu, o potente, abbi pietà: dopo tanti dolori, tu sei la prima che incontro e non conosco alcuno di quelli che abitano il luogo e la sua terra. Indicami la città e dammi qualcosa per coprirmi, se mai, venendo qui, avevi una tela da involgere i panni. E ti concedano gli dèi quanto desidera il tuo cuore: uno sposo e una casa e leale concordia, perché non c'è bene più forte e più valido quando con armonia d'intenti l'uomo e la donna reggono una casa. Ne hanno invidia i malvagi, e gioia chi li ama; ma più loro sono felici". E a lui così rispose Nausicaa dalle braccia splendenti: "O straniero, tu non sembri un uomo malvagio o privo di senno: tu sai che Zeus Olimpio dà, quando vuole, felicità agli uomini, ai buoni e ai malvagi; a te diede dolori, – www.loescher.it/mediaclassica – e dolori devi soffrire. Ora sei nella mia terra, giungi alla mia città; e avrai certo una veste! e ogni cosa che ti occorre; come ogni povero che viene implorando qui da noi. E ti indicherò la città e il nome del suo popolo. Là, e in tutta questa terra, vivono i Feaci, e io sono la figlia del magnanimo Alcinoo che regge il potere e la forza dei Feaci".
Giovanni Pascoli L’ultimo viaggio di Ulisse Giovanni Pascoli dedicò al mito di Ulisse un intero poema, incluso nella raccolta Poemi conviviali (1904). Omero immagina per Ulisse, a conclusione di una vita tormentata ed errabonda, una serena vecchiaia. L'eroe di Pascoli, invece, dopo aver compiuto il viaggio alla ricerca degli uomini che non conoscono il mare, per nove anni rimane ad Itaca. La sua non è però la «splendente vecchiezza» di cui parla il testo omerico, perché Ulisse, assorto nella rievocazione del proprio passato, nel rimpianto dei tempi eroici, è nello stesso tempo colto da un dubbio sempre più tormentoso: gli episodi che egli va ricordando appartengono alla realtà o all'immaginazione? E questo dubbio che, nel decimo anno, lo spinge a riprendere la navigazione, con quei compagni che fedelmente lo hanno atteso. Il viaggio è un navigare a ritroso, alla ricerca dei luoghi e delle figure che più fortemente hanno segnato l'esperienza dell'eroe: Circe, il Ciclope, le Sirene, Calipso. Ma nulla di ciò che Ulisse ha conservato nel ricordo corrisponde a verità: Circe non esiste, la sua canzone, che l'eroe si illude di risentire, non è che lo sciacquio del mare mosso dal vento; nella grotta di Polifemo abita un innocuo pastore, che a stento ricorda di aver udito raccontare che da quel monte piovevano pietre in mare. Il mito si dissolve, l'avventura di Ulisse si rivela sogno, non realtà. Ogni certezza sembra dunque crollare: a chi chiedere il «vero», dove cercare risposta al dubbio sempre più inquietante circa l'illusorietà di ogni esperienza umana? Nell'Odissea, le Sirene
avevano invitato Ulisse a fermarsi ad ascoltare il loro canto, giacché gli avrebbero rivelato ogni cosa. Alle Sirene si rivolge l’Ulisse pascoliano deciso ad affrontare il rischio di restare ammaliato dal dolce canto e di non far più ritorno in patria. Dalle Sirene Ulisse vuole udire la verità, anche solo una piccola verità che gli darebbe la sensazione di non essere vissuto invano. Non è l'eroe padrone di sé, artefice del proprio destino, a scegliere di incontrare le Sirene, ma è piuttosto una forza a lui superiore che ad esse lo trascina. Davvero più moderno, questo Ulisse del Pascoli, non più segnato da quella determinazione a varcare il «limite», a conoscere terre ignote, che caratterizzava gli eroi di Dante e di Tennyson; o meglio, fornito anch’egli di uguale determinazione, ma diversamente orientata: il suo viaggio non è più volto all'esterno, alla ricerca di nuovi lidi, ma all’interno, alla scoperta dell'ambiguo confine tra sogno e realtà; mentre il «limite» non è costituito dalle mitiche Colonne d'Ercole, bensì connaturato nella condizione umana, irrevocabilmente volta alla morte. L'unica risposta all'affannoso interrogare di un Ulisse ormai giunto oltre l'illusione, è il concretizzarsi della sola certezza che l'uomo può avere: la morte. L’Ulisse di Pascoli è un antieroe nell'assenza di sicurezze, nel dubbio che investe ogni momento della vita passata e presente, è in realtà anch’egli «eroe»: nel voler indagare nel mistero dell’animo umano, nell'affrontare il crollo delle illusioni, nell'accettare la realtà della morte.
Calypso E il mare azzurro che l’amò, più oltre spinse Odisseo, per nove giorni e notti, e lo sospinse all’isola lontana, alla spelonca, cui fioriva all’orlo carica d’uve la pampinea vite. ... In odio hanno gli dei la solitaria Nasconditrice. E ben lo so, da quando l’uomo che amavo, rimandai sul mare al suo dolore. O che vedete, o gufi dagli occhi tondi, e garrule cornacchie? Ed ecco usciva con la spola in mano, d’oro, e guardò. Giaceva in terra, fuori del mare, al piè della spelonca, un uomo, sommosso ancor dall’ultima onda: e il bianco capo accennava di saper quell’antro, tremando un poco; e sopra l’uomo un tralcio pendea con lunghi grappoli dell’uve. Era Odisseo: lo riportava il mare alla sua dea: lo riportava morto alla Nasconditrice solitaria, all’isola deserta che frondeggia nell’ombelico dell’eterno mare. Nudo tornava chi rigò di pianto le vesti eterne che la dea gli dava; bianco e tremante nella morte ancora, chi l’immortale gioventù non volle. Ed ella avvolse l’uomo nella nube dei suoi capelli; ed ululò sul flutto sterile, dove non l’udia nessuno: - Non esser mai! non esser mai! più nulla, ma meno morte, che non esser più!-
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Pittura
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La profondità della superficie Pur seguendo da molti anni il lavoro di Luciano Ventrone non è mai venuto meno, in me, lo stupore che normalmente coglie l’osservatore al primo sguardo. Ogni volta che ci si accinge a guardare un quadro di Ventrone, l’occhio compie un’esperienza primordiale che ossessivamente si ripete, quasi che il nostro livello di conoscenza dell’oggetto percepito restasse sempre in superficie e nello steso tempo ci imponesse un approfondimento che al contrario rimane frustrato. Più guardiamo meno sappiamo – sembra – di un’opera che si risolve proprio nell’immediatezza e che però ci induce a guardare ancora e ancora. Ciò, appunto, non significa che non serva speculare, nel senso proprio del termine, anzi la superficialità è il moto primo della speculazione, proprio perché ci si interroga su cosa nasconda quel primo livello all’apparenza così tanto comprensibile. Di fatto, l’occhio viene ingannato dalla perfezione della riproduzione, e questo inganno genera stupore ma poi esigenza di conoscenza. E qui, la prima chiosa. I quadri di Ventrone generano stupore innanzitutto per merito dell’inimitabile tecnica che permette al pittore addirittura di superare la realtà, uscendo dal campo della pura mimesi, cioè della pura imitazione del reale, per approdare nel campo della iper-realtà. E’ scontato il richiamo alla fotografia, ma nel caso specifico, i dipinti di Ventrone generano un effetto di straniamento che non è proprio neppure del mezzo fotografico, in quanto l’oggettività tipica della fotografia è subordinata al meccanismo dello stupore, l’inganno si protrae, il risultato è quello di una sur-realtà, paradossalmente più vicina al surrealismo che all’iperrealismo. La seconda chiosa è naturale. A ben ragionare e seguendo l’interpretazione originale dello stesso pittore, il genere frequentato da Ventrone sarebbe quello dell’astrattismo, poiché in verità il lavoro più certosino è sul colore e non sulla forma, pur impressionante, che del colore ne è risultato secondario. L’ossessione di Ventrone non proviene infatti dall’oggetto raffigurato, bensì promana dal colore e dalla luce che ne è generatrice. Il segreto di Ventrone sta appunto nella gestione della luce, luce che s’irradia magicamen-
da sinistra Luigi Titta vice sindaco di Montefalco, Costantino Romanelli Ass. Montefalco InArte, Luciano Baratta Presidente Associazione Montefalco InArte, Massimiliano Ventrone, Miranda Gibilisco, seduti il Maestro Luciano Ventrone e Rita Rocconi
te dalla frutta e dai fiori rappresentati, luce che algidamente immortala e rende definitivi gli oggetti, li sottrae alla realtà, li situa in un mondo nuovo e superiore. Proprio per questo, Luciano Ventrone è ritenuto dalla critica internazionale il più grande “iperrealista” vivente, anche se a mio parere –
come anticipavo – sfonda il genere per rappresentare, anche nella ripetitività del gesto, qualcosa di unico e fuori dal comune, proprio di un maestro. La precisione del soggetto dipinto è la naturale conseguenza di un’inesauribile necessità di sfidare la realtà sul piano della percezione visiva. La tecnica impareg-
giabile lo pone in competizione con la fotografia e il video, ma li supera grazie al sapiente uso del colore e della luce. Una tecnica che ha messo d’accordo negli anni i sostenitori del classicismo puro della rappresentazione pittorica, come ad esempio Vittorio Sgarbi (“La frutta di Ventrone è fatta per promettere sapori che non può soddisfare, per attirare i nostri sensi e condurli all’estasiante percezione dell’ipernaturale”) o Federi-
co Zeri, maestro della storia dell’arte novecenstesca, che lo ha scoperto e sostenuto, o ancora Antonello Trombadori e Giorgio Soavi. Di fatto, in Ventrone la pittura diventa strumento di conoscenza, possibilità che schiude in un istante di consapevolezza la relazione tra il senso del compiuto e il suo contrario, esperienza sensibile che fa spalancare gli occhi di fronte alla contraddizione dell’eternità, del senso di smarrimento per l’immensità che si rende visibile di fronte ad un’opera dipinta da un uomo e non riprodotta da una macchina. Ed ecco che con l’occhio di Ventrone si legge l’innovazione continua e mutevole della realtà nel caleidoscopio formale della realtà stessa, con la mano di Ventrone si accompagna il disegno che esprime l’intuizione armonica del reale, con la poetica di Ventrone si vive un realismo di grado superiore che spinge l’analisi dal piano della pittura a quello della filosofia. I suoi quadri svelano l’inganno del senso e ciò nonostante tutti i limiti sensibili vengono infranti, l’universo intero diventa il campo nel quale l’arte è chiamata ad essere la concentrazione fisica del pensiero, e la pittura apre il confronto tra le forme della conoscenza. L’artista sembra filtrare le esperienze della vita per fare in modo che le sue opere trasmettano la magia della vita stessa, inizia un processo minuzioso e analitico di studio sulla plasticità che, nella ricerca quasi ossessiva della perfezione e della bellezza, si collega all’ordine immutabile della natura come fosse ogni volta un miracolo. Cinzia Chiari
Luciano Ventrone Mostra in occasione della II edizione di “Le Stanze dell’Arte” dal 7 luglio al 31 agosto 2011 Montefalco, Museo civico di San Francesco “I quadri sono per me come figli” esordisce Luciano Ventrone, il più celebre artista iperrealista al mondo in mostra al museo di San Francesco a Montefalco fino alla fine di agosto. A luglio l’apertura all’interno del museo alla presenza del maestro e delle autorità intervenute per l’occasione. Durante un breve colloquio con alcuni giornalisti il Maestro ha spiegato la sua straordinaria tecnica. E’ un artista che dipinge con l’olio con una perfezione disumana. “La mia pittura è improntata sulla luce, come Caravaggio”. Ed infatti Federico Zeri che lo scoprì, l’ha definito proprio il Caravaggio del XX secolo. Per realizzare le sue opere Luciano Ventrone si avvale di tecniche artistiche raffinate e ricercate, con metodi e procedimenti prestati da pittori del passato, quali la gessatura della tela e l'uso del colore ad olio steso per velature. Il risultato che Ventrone concretizza nelle sue opere si discosta tuttavia da quelli ottenuti dai suoi predecessori seicenteschi. La luce di Ventrone infatti è fredda, quasi distante ed impersonale, molto più simile a quella di una moderna illuminazione elettrica, lontana dal calore e dagli effetti creati
dalle candele usate dagli antichi. Ma in questo modo “le sue nature morte vengono fissate per sempre, sottraendosi all’inflessibile scorrere del tempo. I soggetti prediletti sono frutti o foglie, disposti spesso all'interno di ceste o tazze dal sapore orientale, contro uno sfondo che è sempre neutro, nell’immobile fissità del nero o del grigio, così da escludere qualunque tipo di suggestione spaziale, e costringendo quasi lo sguardo del pubblico a concentrarsi solo sul centro della composizione, occupata da elementi di mirabile perfezione, che sfidano per la loro bellezza la loro stessa natura”. La mostra è inserita tra gli eventi della seconda edizione di “ Le Stanze dell’Arte” – progetto promosso e organizzato dall’Associazione Montefalco InArte con il patrocinio del Comune di Montefalco e della Provincia di Perugia. Anche quest’anno è curato da Rita Rocconi dello Studio Artemis e propone una serie di eventi oltre la mostra monografica di Luciano Ventrone. In mostra si possono ammirare 35 dipinti provenienti da varie collezioni private. Il percorso della mostra, curato da Cinzia Chiari si snoderà in ma-
niera cronologica dal 1963 fino ai giorni nostri illustrando l’iter artistico del Maestro. La mostra rimarrà aperta fino al 31 agosto all’interno degli spazi del Museo Civico di San Francesco con il seguente orario 10.3013/ 15 -19 Creare scenari capaci di emozionare... E’ con questo obiettivo che nasce il progetto Le Stanze dell’Arte, giunto alla sua seconda edizione. Ed anche questa volta si rinnova la sottile magia, l’incanto dei sensi che tutto conquista, affascina, sorprende, rinnovandosi e proponendosi ogni volta in maniera diversa. Il profumo è emozione. Il profumo è ricordo. Il profumo è incontro. Ma il profumo è anche e soprattutto arte, che nasce dall’ispirazione di un momento e pian piano cresce fino a diventare emozione per chi lo indossa. Quest’anno, le porte delle Stanze dell’Arte si sono aperte anche alla degustazione olfattiva di profumi, unitamente al piacere della musica, alle tentazioni della gastronomia e della degustazione di vini. Tutto finalizzato alla valorizzazione delle eccellenze del nostro territorio, dall’arte, alla gastronomia, dalla musica alla degustazione del buon vino.
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Poesia
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Estate Italiana Non c’è miglior momento dell’anno, se non le tanto attese vacanze estive, per dedicarsi alla lettura. E allora, tra i libri che ognuno di voi porterà appresso sotto l’ombrellone o in mezzo ai prati di montagna, consiglio di aggiungere questa piccola raccolta di poesie, scelte esclusivamente tra la miglior produzione lirica italiana dello scorso secolo. Qualche nome vi risulterà familiare. Qualcun altro sarà certamente una felice scoperta. Popolo di santi,navigatori e poeti…: ecco i tesori della nostra Terra! Sylvia Pallaracci Natura (Mario Luzi) La terra e a lei concorde il mare e sopra ovunque un mare più giocondo per la veloce fiamma dei passeri e la via della riposante luna e del sonno dei dolci corpi socchiusi alla vita e alla morte su un campo; e per quelle voci che scendono sfuggendo a misteriose porte e balzano sopra noi come uccelli folli di tornare sopra le isole originali cantando: qui si prepara un giaciglio di porpora e un canto che culla per chi non ha potuto dormire sì dura era la pietra, sì acuminato l'amore.
In me il tuo ricordo (Vittorio Sereni) In me il tuo ricordo è un fruscìo solo di velocipedi che vanno quietamente là dove l'altezza del meriggio discende al più fiammante vespero tra cancelli e case e sospirosi declivi di finestre riaperte sull'estate. Solo, di me, distante dura un lamento di treni, d'anime che se ne vanno. E là leggera te ne vai sul vento, ti perdi nella sera. Seme (Salvatore Quasimodo) Alberi d'ombre, isole naufragano in vasti acquari, inferma notte, sulla terra che nasce: Un suono d'ali di nuvola che s'apre sul mio cuore: Nessuna cosa muore, che in me non viva. Tu mi vedi: così lieve son fatto, così dentro alle cose che cammino coi cieli; che quando Tu voglia in seme mi getti già stanco del peso che dorme.
29 ottobre 1945 da “La terra e la morte” (Cesare Pavese) Tu sei come una terra che nessuno ha mai detto. Tu non attendi nulla se non la parola che sgorgherà dal fondo come un frutto tra i rami. C'è un vento che ti giunge. Cose secche e rimorte t'ingombrano e vanno nel vento. Membra e parole antiche. Tu tremi nell'estate.
Vento (Attilio Bertolucci) Come un lupo è il vento che cala dai monti al piano, corica nei campi il grano ovunque passa è sgomento. Fischia nei mattini chiari illuminando case e orizzonti, sconvolge l’acqua nelle fonti caccia gli uomini ai ripari. Poi, stanco s’addormenta e uno stupore prende le cose, come dopo l’amore.
Spiaggia di sera (Giorgio Caproni) Così sbiadito a quest'ora lo sguardo del mare, che pare negli occhi (macchie d'indaco appena celesti) del bagnino che tira in secco le barche. Come una randa cade l'ultimo lembo di sole. Di tante risa di donne, un pigro schiumare bianco sull'alghe, e un fresco vento che sala il viso rimane.
All'alba (Alfonso Gatto) Come la donna affonda e dice vieni dentro più dentro dov'è largo il mare Come la donna è calda e dice vieni dentro più dentro dov'è caldo il pane e dirla noi vorremmo mare pane la donna sfatta che ci prese all'alba dentro il suo petto e ci nutrì di sonno. Ora che sei venuta (Camillo Sbarbaro) Ora che sei venuta, che con passo di danza sei entrata nella mia vita quasi folata in una stanza chiusa – a festeggiarti, bene tanto atteso, le parole mi mancano e la voce e tacerti vicino già mi basta. Il pigolìo così che assorda il bosco al nascere dell'alba, ammutolisce quando sull'orizzonte balza il sole. Ma te la mia inqietitudine cercava quando ragazzo nella notte d'estate mi facevo alla finestra come soffocato: che non sapevo, m'affannava il cuore. E tutte tue sono le parole che, come l'acqua all'orlo che trabocca, alla bocca venivano da sole, l'ore deserte, quando s'avanzavan puerilmente le mie labbra d'uomo da sé, per desiderio di baciare....
(Cristina Campo)
O mio fiato (Amelia Rosselli) O mio fiato che corri lungo le sponde dove l'infinito mare congiunge braccio di terra a concava marina, guarda la triste penisola anelare: guarda il moto del cuore farsi tufo, e le pietre spuntare sfinirsi al flutto. IV da “La sabbia e l’angelo” (Margherita Guidacci) Ora il nostro amore si spanderà nella vigna e nel grano, Il nostro veleno nei cactus e negli spini crudeli. Si curveranno i vivi alle sorgenti, diranno: "Chi spinse verso di noi l'acqua da occulte vene del mondo?" E molto prima che il freddo li colga e la notte sul loro cuore s'adagi, Anche in un meriggio d'api e di succhi ardenti, Conosceranno l'angoscia, perché potenti noi siamo e vicini, E non vi è fuga dal cerchio in cui già li stringiamo Con ogni stelo da noi sorto e ogni frutto Che colmo e grave alla nostra terra s'inchina.
È rimasta laggiù, calda, la vita, l’aria colore dei miei occhi, il tempo che bruciavano in fondo ad ogni vento mani vive, cercandomi… Rimasta è la carezza che non trovo più se non tra due sonni, l’infinita mia sapienza in frantumi. E tu, parola che tramutavi il sangue in lacrime. Nemmeno porto un viso con me, già trapassato in altro viso come spera nel vino e consumato negli accesi silenzi… Torno sola tra due sonni laggiù, vedo l’ulivo roseo sugli orci colmi d’acqua e luna del lungo inverno. Torno a te che geli nella mia lieve tunica di fuoco.
Sono tanto brava (Sibilla Aleramo) Sono tanto brava lungo il giorno. Comprendo, accetto, non piango. Quasi imparo ad avere orgoglio quasi fossi un uomo. Ma al primo brivido di viola in cielo ogni diurno sostegno dispare. Tu mi sospiri lontano; <Sera, sera dolce e mia!> Sembrami d'aver tra le dita la stanchezza di tutta la terra. Non son più che sguardo, sguardo sperduto, e vene. Morte di una stagione (Antonia Pozzi)
Sinfonia azzurra (Ada Negri) Venne in cerca di te nella calda notte, lungo le strade dai fanali azzurri. Tutte le strade, allora, la notte erano azzurre come le vie dei cieli, e il volto amato non si vedeva: si sentiva in cuore E ti trovò, o dolcezza, nell'ombra casta, velata d'un vapor di stelle. Fra quel tremolìo d'astri discesi in terra, in quell'azzurro di due firmamenti l'uno a specchio dell'altro, ella ella pure rispecchiò in te l'anima sua notturna. E ti seguì con passo di bambina senza sapere, senza vedere, tacita e fluida. E allor che il giorno apparve con fresco riso roseo su l'immenso turchino, non trovò più se stessa per ritornare. O il veleggiare del tuo caldo pensiero (Alda Merini) O il veleggiare del tuo caldo pensiero sopra la mia parola e il tuo dormire selvaggio accanto al mio seno vivo; o l'adombrarsi della primavera quando cade il suono del seme sulla terra feconda di parola. Così tu sei l'esempio del sole mio. da “La tigre assenza”
Piovve tutta la notte sulle memorie dell’estate. Al buio uscimmo entro un tuonare lugubre di pietre, fermi sull’argine reggemmo lanterne a esplorare il pericolo dei ponti. All’alba pallidi vedemmo le rondini sui fili fradice immote spiare cenni arcani di partenza e le specchiavano sulla terra le fontane dai volti disfatti.
* (Amalia Guglielminetti) Amo la mia squisita sensibilità di malata d’anima, che dilata con l’ansia del sogno la vita. Amo l’irrequieta ansietà che sempre mi tenne, la mia attesa perenne, la curiosità che m’ asseta. Io non voglio guardar la giovinezza de’ chiari cieli. Io non voglio bere a quell’onda di luce. A plaghe nere l’anima mia naviga. Un’ebrezza folle mi assale di lanciare all’alto il mio singulto stridulo e superbo come una sfida. Ma tu, o ciel, l’acerbo mio grido non udire, ciel di cobalto, che m’appari velato da sottile trama di ramoscelli esuli e spogli.
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Musica
Musica, tecnologia e cuore el linguaggio di tutti N i giorni, anche chi non è del “mestiere”, ri-
ferendosi a fatti o avvenimenti non ben riusciti, dice a volte “…è una nota stonata…”, usando un termine prettamente dedicato alla musica per argomenti che con la musica non c’entrano nulla, dando così per assunto che questa faccia parte della vita di tutti in maniera imprescindibile. Anche quando, in ogni istante della giornata, sentiamo un telefonino che squilla, il clacson di una macchina, il tintinnare di due bicchieri che sbattendo fra di loro “festeggiano” un anni-
zioni e tecniche sempre più elaborate e raffinate in tutti i campi, e anche per la musica, tutto ciò, ha permesso di ottenere risultati stupefacenti, sia per quanto riguarda l’esecuzione di brani che per la loro registrazione e riproduzione. Tutto è andato avanti di pari passo con la creazione fisica degli strumenti musicali, che hanno subito mutazioni e ristrutturazioni col passare del tempo: dal clavicembalo si è arrivati al pianoforte, dalla chitarra barocca alla chitarra classica moderna, dalla buccina alla tromba e così andando avanti. Mentre gli strumenti mu-
versario felice e, naturalmente, uno degli ormai storici concerti di Vasco Rossi che ha di recente dichiarato l’addio alle esibizioni dal vivo, stiamo ascoltando gradevoli effetti sonori, quindi musica! econdo alcuni la musica è nata insieme all’uomo migliaia di anni fa. Tamburellando sui tronchi cavi degli alberi, gli antichi per esempio, si muovevano e danzavano oppure comunicavano a distanza come con una sorta di “walkie talkie” con le popolazioni vicine, insomma dal passato ad oggi e sicuramente fino a che gli uomini nutriranno interesse per qualcosa, la musica sarà il “pallino” o la voglia di esprimersi per qualcuno. E pensare che fino a poco dopo la metà del 1800, quando Edison inventò il fonografo, uno strumento che permetteva di registrare e riprodurre il suono utilizzando fogli di stagnola fissati su un rullo di ottone, l’unico modo per far diffondere e ricordare la musica era prima quello di tramandarla da persona a persona facendola ascoltare, poi fissandola su carta scrivendo le partiture degli strumenti che l’avrebbero eseguita.
sicali veri e propri sono arrivati alla conformazione e all’utilizzo che tutti noi conosciamo attualmente, la tecnologia ne ha permesso la produzione e fabbricazione con tecniche sempre più raffinate e, oggi, con poche centinaia di euro siamo addirittura in grado, con il computer di casa, una tastiera musicale e una buona scheda audio, di avere l’effetto sonoro di strumenti acustici costosissimi e professionali sotto le nostre dita e quindi nelle orecchie. Chi è abituato a sentire la musica può facilmente fare il raffronto tra le registrazioni di produzioni musicali di qualche decennio fa con quelle moderne, voglio dire, ascoltare i brani dei Beatles o le storiche canzoni italiane degli anni ‘60 porta sempre emozioni forti e risveglia l’anima, ma bisogna ammettere che la qualità sonora che si riusciva ad ottenere anche pochi decenni fa, non ha nulla a che vedere con gli ottimi risultati che si riescono ad ottenere oggi anche in relazione alla grandezza dei dispositivi che riproducono la musica stessa. Immaginate di stare a fare una bella corsetta durante un bel pomeriggio d’estate,
ell’ultimo secolo, poi, come risaputo da tutN ti, la tecnologia è letteral-
verso le sette di sera, lungo la riva di un fiume, e di volervi far caricare dalla grinta della musica dei
S
mente esplosa in inven-
“Dream theater” con un pesante grammofono sulle spalle! n momento fondamentale che ha caratterizzato un’ulteriore rivoluzione nella rivoluzione tecnologica stessa, è stato il passaggio dall’era analogica a quella digitale. Nel secolo scorso in analogico, si riuscivano ad effettuare registrazioni, seppur costosissime, dell’insieme dei suoni, senza la possibilità di modificare nulla in post-produzione delle singole parti che componevano una canzone, quindi durante la registrazione stessa se uno solo dei componenti del gruppo faceva un errore, si doveva ripetere tutto da capo, successivamente poi, sempre nel dominio analogico, sono stati introdotti registratori multitraccia che affievolivano un po’ il problema potendo suddividere la registrazione finale in più parti, per cui, al verificarsi del problema, eventualmente si poteva ripetere la registrazione della sola porzione errata, ed inoltre si aveva la possibilità di modificare volumi ed effetti sonori delle singole tracce per migliorarne il risultato. Con l’avvento dell’era digitale, tutto è così evoluto e perfezionato che è quasi impossibile oggi
utilizzate anche in altri ambiti come i video, le foto, i testi ecc. e per tutti vale sempre lo stesso concetto, quando si parla di analogico ci riferiamo a grandezze di informazioni che possono assumere infiniti valori in un intervallo, il digitale invece è una rappresentazione composta da un insieme di numeri di uno stato analogico. In pratica, per capire un po’ meglio, mettiamo il caso di avere fra le mani l’originale su carta di un bellissimo disegno fatto da un artista, possiamo parlare di rappresentazione analogica del disegno stesso, tutto ciò che fa parte di quel disegno, le sfumature, i colori, i tratti e la
scansione fatta perché non sono altro che una serie lunghissima di zeri e di uno. Ritornando al dilemma, digitale è meglio di analogico? …Dipende! In generale si dice che tutto ciò che è analogico sia più “caldo”, proprio perché vengono conservate tante informazioni delle sfumature che fanno parte della rappresentazione stessa, però la conservazione e la manipolazione comportano rischi maggiori di degrado; il digitale invece risulta più “freddo” perché quando il computer scrive l’informazione dei numeri relativi ad un colore o a un suono ha a disposizione sempre una gamma di numeri prefissata,
ascoltare musica registrata male, in fase di post-produzione e missaggio, quando cioè la registrazione vera e propria è stata effettuata dagli esecutori, tutto o quasi tutto può essere rimaneggiato e rielaborato, per cui anche nell’eventualità di uno sbaglio o stonatura gli esperti riescono in genere a raddrizzare le cose e far risultare anche un pessimo cantante o strumentista perfetto all’ascoltatore finale. Digitale quindi, è meglio di analogico? Innanzi tutto sappiamo bene la differenza tra questi due termini? In questo momento stiamo parlando di conservazione e manipolazione di informazioni di tipo sonoro, ma le definizioni di digitale e analogico vengono
stessa pressione della punta delle matite sul foglio sono unici e rappresentati esclusivamente da loro stessi. Per poter riprodurre il disegno potremmo decidere di fare ad esempio una fotocopia (rappresentazione analogica) o fare una scansione registrando l’immagine nel computer (rappresentazione digitale). In maniera semplicistica possiamo dire che tutte le fotocopie successive fatte dalla prima copia saranno sicuramente degradate rispetto all’originale perché ogni fotocopia potrà essere fatta con una carta diversa, una fotocopiatrice diversa ecc., mentre tutte le copie dell’immagine digitale trasportate su un altro computer saranno identiche alla prima
nelle produzioni professionali si investe maggiormente per poter aumentare questa gamma. In ogni caso una volta completato il procedimento le informazioni sono comunque tutte ben definite e conservabili anche in diverse copie sempre tutte uguali. Per dare l’illusione del movimento all’occhio umano, molti sanno, che sono necessari almeno 30 fotogrammi al secondo (30 Hz), per ciò che riguarda il suono invece l’uomo riesce a percepire frequenze da 20 Hz a 20.000 Hz, quindi da 20 vibrazioni che si propagano nell’aria al secondo (un suono basso come ad esempio la sirena di una nave) fino a 20.000 vibrazioni al secondo (un suono alto tipo il cinguettio
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degli uccelli) e secondo il teorema di Nyquist-Shannon, che afferma che è possibile registrare un suono a patto che lo si faccia al doppio della sua frequenza, gli studiosi hanno pensato che lo standard di 44.100 Hz alla risoluzione di 16 bit, fosse stato più che sufficiente per rappresentare tutte le frequenze udibili dall’uomo. er chiarire, ad esempio, ogni CD che ascoltiamo contiene informazioni digitali calcolate in base a 2 (valori possibili del bit, l’elemento base delle informazioni digitali, cioè 0 e 1) elevato a 16 (numero delle informazioni relative ad ogni singola registrazione) e cioè 65.536 moltiplicato 44.100 volte ogni secondo della durata delle canzoni ancora il tutto moltiplicato per 2 perché ascoltiamo in stereofonia. La mole di dati è veramente notevole e quindi 74 minuti di musica di un CD occupano all’incirca 5.452.595.200 successioni di zeri e di uno. Per rendere l’ascolto della musica ancora più pratico nel 1993 è stato inventato un altro standard di scrittura digitale dei dati musicali, l’ormai famosissimo Mp3, che permette di registrare la musica in un formato digitale e compresso, arrivando a poter contenere nello stesso spazio del CD appena descritto, un quantitativo di musica anche dieci volte maggiore, l’ascolto però è possibile soltanto con quei dispositivi che “conoscono” il formato Mp3 in quanto il contenuto archiviato nel dispositivo deve essere “tradotto” in musica. Oramai troviamo la tecnologia più avanzata nella vita di tutti i giorni, e trovo questo veramente stimolante e affascinante, ma seppur grande estimatore di ciò, resto dell’idea che non bisogna mai affidare in toto la nostra anima analogica alle tecnologie e perdere così la creatività che ci caratterizza, andiamo a passeggio con un lettore di musica nelle orecchie, ma continuiamo a frequentare teatri e concerti con persone che suonano uno strumento con le loro dita e con la propria anima.
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NUMERO “DIVERSO” SETTEMBRE 2011
Antonio Gramsci lettere dal carcere stupido). Tu non diventerai mica «la moglie del beduino»? Cara, ti abbraccio con grande tenerezza. Antonio
(Julca/Giulia è Julca Schucht la moglie di Gramsci, di nazionalità russa, conosciuta nel 1922; Delio è il primogenito nato nel 1924; Julik/Giuliano è il secondogenito nato nel 1926) 20 novembre 1926 Mia carissima Julca, ricordi una della tue ultime lettere? (era almeno l'ultima lettera che io ho ricevuto e letto). Mi scrivevi che noi due siamo ancora abbastanza giovani per poter sperare di vedere insieme crescere i nostri bambini. Occorre che tu ora ricordi fortemente questo, che tu ci pensi fortemente ogni volta che pensi a me e mi associ ai bambini. Io sono sicuro che tu sarai forte e coraggiosa, come sempre sei stata. Dovrai esserlo ancora di più che nel passato, perché i bambini crescano bene e siano in tutto degni di te. Ho pensato molto, molto, in questi giorni. Ho cercato di immaginare come si svolgerà tutta la vostra vita avvenire, perché rimarrò certamente a lungo senza vostre notizie; e ho ripensato al passato, traendone ragione di forza e di fiducia infinita. Io sono e sarò forte; ti voglio tanto bene e voglio rivedere e vedere i nostri piccoli bambini. Mi preoccupa un po' la questione materiale: potrà il tuo lavoro bastare a tutto? Penso che non sarebbe né meno degno di noi né troppo, domandare un po' di aiuti. Vorrei convincerti di ciò, perché tu mi dia retta e ti rivolga ai miei amici. Sarei più tranquillo e più forte, sapendoti al riparo da ogni brutta evenienza. Le mie responsabilità di genitore serio mi tormentano ancora, come vedi. Carissima mia, non vorrei in modo alcuno turbarti: sono un po' stanco, perché dormo pochissimo, e non riesco perciò a scrivere tutto ciò che vorrei e come vorrei. Voglio farti sentire forte forte tutto il mio amore e la mia fiducia. Abbraccia tutti di casa tua; ti stringo con la più grande tenerezza insieme coi bambini. Antonio 21 novembre 1927 Carissima Giulia, nel cortile, dove con altri due detenuti vado a fare il pas-
seggio regolamentare, è stata tenuta una esposizione di fotografie dei bambini rispettivi. Delio ha avuto un grande successo di ammirazione. Da qualche giorno non sono più isolato, ma sto in una cella comune con un altro detenuto politico, che ha una graziosa e gentile bimbetta, di tre anni, che si chiama Maria Luisa. Secondo un costume sardo, abbiamo deciso che Delio sposerà Maria Luisa appena i due siano giunti all'età matrimoniale; che te ne pare? Naturalmente attendiamo il consenso delle due mamme, per dare al contratto un valore più impegnativo, sebbene ciò costituisca una grave deroga ai costumi e ai principi del mio paese. Immagino che tu sorrida e ciò mi rende felice; non riesco che con grande difficoltà a immaginarti sorridente. Ti abbraccio teneramente, cara. Antonio 9 febbraio 1931 Carissima Giulia, penso che la nostra più grande disgrazia è stata quella di essere stati insieme troppo poco, e sempre in condizioni generali anormali, staccate dalla vita reale e concreta di tutti i giorni. Dobbiamo ora, nelle condizioni di forza maggiore in cui ci troviamo, rimediare a queste manchevolezze del passato, in modo da mantenere alla nostra unione tutta la sua saldezza morale e salvare dalla crisi ciò che di bello c'è pure stato nel nostro passato e che vive nei bambini nostri. Ti pare? Io voglio aiutarti, nelle mie condizioni, a superare la tua attuale depressione, ma bisogna anche che tu un po' mi aiuti e mi insegni il modo migliore di aiutarti efficacemente, indirizzando la tua volontà, strappando tutte le ragnatele di false rappresentazioni del passato che possono incepparla, aiutandomi a conoscere sempre meglio i due bambini e a partecipare alla loro vita, alla loro formazione, alla affermazione della loro personalità, in modo che la mia "paternità" diventi più concreta e sia sempre attuale e così diventi una paternità vivente e non solo un fatto del passato sempre più lontano. Aiutandomi così
anche a conoscere meglio la Julca di oggi che è Julca + Delio + Giuliano, somma in cui il più non indica solo un fatto quantitativo, ma soprattutto una nuova persona qualitativa. Cara, ti abbraccio stretta stretta e aspetto che mi scriva a lungo. Antonio 25 gennaio 1936 Cara Julca, [...] Da dieci anni sono tagliato dal mondo (che impressione terribile ho provato in treno, dopo sei anni che non vedevo che gli stessi tetti, le stesse muraglie, le stesse facce torve, nel vedere che durante questo tempo il vasto mondo aveva continuato ad esistere coi suoi prati, i suoi boschi, la gente comune, le frotte di ragazzi, certi alberi, certi orti, ma specialmente che impressione ho avuto nel vedermi allo specchio dopo tanto tempo: sono ritornato subito vicino ai carabinieri). Non pensare che voglia commuoverti: voglio dire che dopo tanto tempo, dopo tanti avvenimenti, che in gran parte mi sono sfuggiti forse nello loro significato più reale, dopo tanti anni di vita compressa, meschina, fasciata di buio e di miserie grette, poter parlare con te da amico ad amico, mi sarebbe molto utile. [...] Dicembre 1936 Cara Julca, [...] Sono molto contento dei figli e delle loro due ultime lettere. Julik è laconico, epigrafico. Non un aggettivo né un riempitivo: stile quasi telegrafico. Delio è molto diverso. E tu, cara, come sei? Non riesco più a immaginarti bene, sebbene pensi sempre al passato. Mandami delle fotografie; sono poca cosa, ma aiutano. Quando ero a Ustica confinato, un beduino mi si era affezionato molto: era confinato anche lui; veniva a trovarmi, si sedeva, prendeva il caffè, mi raccontava novelle del deserto e poi stava zitto per delle ore a guardarmi leggere o scrivere; invidiava le fotografie che io avevo e diceva che sua moglie era così stupida che mai avrebbe pensato a mandargli la fotografia del figlio (non sapeva neanche che i mussulmani non possono ritrarre la sembianza umana e non era
Studiare è difficile Carissimo Giuliano, ti faccio tanti auguri per l'andamento del tuo anno scolastico. Sarei molto contento se tu mi spiegassi in che consistono le difficoltà che trovi nello studiare. Mi pare che se tu stesso riconosci di avere delle difficoltà, queste non devono essere molto grandi e potrai superarle con lo studio: questo non è sufficiente per te? Forse sei un po' disordinato, ti distrai, la memoria non funziona e tu non sai farla funzionare? Dormi bene? Quando giochi pensi a ciò che hai studiato o quando studi pensi al gioco? Ormai sei un ragazzo già formato e puoi rispondere alle mie domande con esattezza. Alla tua età io ero molto disordinato, andavo molte ore a scorrazzare nei campi, però studiavo anche molto bene perché avevo una memoria molto forte e pronta e non mi sfuggiva nulla di ciò che era necessario per la scuola: per dirti tutta la verità debbo aggiungere che ero furbo e sapevo cavarmela anche nelle difficoltà pur avendo studiato poco. Ma il sistema di scuola che io ho seguito era molto arretrato; inoltre la quasi totalità dei condiscepoli non sapeva parlare l’italiano che molto male e stentatamente e ciò mi metteva in condizioni di superiorità perché il maestro doveva tener conto della media degli allievi e il saper parlare l’italiano era già una circostanza che facilitava molte cose (la scuola era in un paese rurale e la grande maggioranza degli allievi era di origine contadina). Carissimo, sono certo che mi scriverai senza interruzione e mi terrai al corrente della tua vita. Ti abbraccio. Antonio Il regalo del babbo Caro Giuliano, così ti sei liberato dal collettivo e vai al campo. Tornerai a scuola. Perché scrivere proprio all’ultimo momento, in attesa della macchina? Ti abbraccio tanto per la tua festa e ti mando un orologino, sperando che ti faccia riflettere al tempo e quindi ... scrivere non all’ultimo momento. Ti bacio. Antonio Studiar bene Caro Giuliano, come va il tuo cervellino? La tua lettera mi è piaciuta molto. Il tuo modo di scrivere è più fermo di prima, ciò che mostra che tu stai diventando una persona grande. Mi domandi, ciò che mi interessa di più. Devo rispondere che non esiste niente che «mi interessi di più», cioè che molte cose mi interessano molto nello stesso tempo. Per esempio, per ciò che ti riguarda,
mi interessa che tu studi bene e con profitto, ma anche che tu sia forte e robusto e moralmente pieno di coraggio e di risolutezza; ecco quindi che m’interessa che tu riposi bene, mangi con appetito ecc...: tutto è collegato e intessuto strettamente; se un elemento del tutto viene a mancare o fa difetto, l'intiero si spappola. Per ciò mi è dispiaciuto che tu abbia scritto di non poter rispondere alla quistione se vai con risolutezza verso la tua meta, che in questo caso significa studiar bene, esser forte ecc. Perché non puoi rispondere, se dipende da te il disciplinarti, il resistere agli impulsi negativi ecc.? Ti scrivo seriamente, perché ormai vedo che non sei più un ragazzino, e anche perché tu stesso una volta mi hai scritto che vuoi essere trattato con serietà. A me pare che tu abbia molte forze latenti nel cervello; la tua stessa espressione che non puoi rispondere alla domanda, significa che rifletti e sei responsabile di ciò che fai e scrivi. Eppoi, si vede anche dalla fotografia che ho ricevuto che c’è molta energia in te. Evviva Giuliano! Ti voglio molto bene. Antonio Impara a star seduto Caro Delio, i tuoi bigliettini diventano sempre più corti e stereotipati. Io credo che tu abbia abbastanza tempo per scrivere più a lungo e in modo più interessante; non c’è nessun bisogno di scrivere all’ultimo momento, in fretta in fretta, prima di andare a spasso. Ti pare? Non credo neppure che ti possa far piacere che il tuo babbo ti giudichi dai tuoi bigliettini come uno stupidello che si interessa solo della sorte del suo pappagalluccio, e fa sapere che sta leggendo un libro qualsiasi. Io credo che una delle cose più difficili alla tua età è quella di star seduto dinanzi a un tavolino per mettere in ordine i pensieri (e per pensare addirittura) e per scriverli con un certo garbo; questo è un «apprendissaggio» talvolta più difficile di quello di un operaio che vuole acquistare una qualifica professionale, e deve incominciare proprio alla tua età. Ti abbraccio forte. Antonio Mantenere le promesse Caro Giuliano, ho ricevuto tue notizie dalle lettere della mamma e di nonna. Ma perché tu non scrivi qualche parola? Io sono molto contento quando ricevo una tua lettera, e chi sa quante cose tu potresti scrivermi sulla scuola, sui tuoi compagni, suoi tuoi insegnanti, sugli alberi che vedi, sui tuoi giochi ecc. E poi ... tu avevi promesso di scrivermi qualche cosa ogni giorno di vacanza. Bisogna sempre mantenere le promesse, anche se costa qualche sacrifizio e im-
magino che per te non deve essere un grande sacrifizio scrivere qualche cosa ... Caro, ti abbraccio. Antonio Impara a essere ordinato Caro Giuliano, questa volta non ho ricevuto nessuna tua lettera. Mi dispiace. Sarei contento se tu mi scrivessi molto, anzi avevi promesso (mi pare) di scrivere qualche cosa ogni giorno di vacanza e poi mandarmi lo scritto insieme alla lettera di Delio. Si vede che sei un po' disordinato e che dimentichi ciò che era per te un impegno. Puoi scrivermi di tutto, e io ti risponderò seriamente. Ormai sei un ragazzo già grandetto e devi avere un certo senso di responsabilità. Che ne pensi? Scrivimi ciò che fai nella scuola, se impari con facilità, ciò che ti interessa. Ma se una cosa non ti interessa e tuttavia devi impararla, come fai? E quali giochi preferisci? Caro Giuliano, ogni momento della tua vita interessa me. Ti abbraccio. Antonio Ogni cosa è seria Carissimo Giuliano, tu vuoi che ti scriva di cose serie. Molto bene. Ma cosa sono le «cose serie» che vuoi leggere nelle mie lettere? Tu sei un ragazzo, e per un ragazzo anche le cose per i ragazzi sono molto serie, perché sono in rapporto con la sua età, con le sue esperienze, con le capacità che le esperienze e la riflessione su di esse gli hanno procurato. Del resto prometti di scrivermi qualche cosa ogni cinque giorni: sono molto contento se lo farai, dimostrandomi di aver così molta forza di volontà. Io ti risponderò sempre (se potrò) e molto seriamente. Caro, io ti conosco solo per le tue lettere e per le notizie che mi mandano di te i grandi: so che sei un bravo ragazzo, ma perché non mi hai scritto nulla del tuo viaggio al mare? Credi che non sia una cosa seria? Tutto ciò che ti riguarda è per me molto serio e mi interessa molto; anche i tuoi giochi. Ti abbraccio. Antonio I cinque minuti del babbo Caro Delio, aspetto che tu risponda alla questione su Puskìn, senza fretta; tu devi ferrarti bene e fare del tuo meglio. Come va la scuola per te e per Giuliano? Adesso che avete le annotazioni ogni mese, sarà più facile il controllo sull'andamento dei corsi. Ti ringrazio di avere abbracciato forte forte la mamma per parte mia: penso che devi farlo ogni giorno, ogni mattino. Io penso sempre a voi; così immaginerò ogni mattino: ecco i miei figli e Giulia pensano a me in questo momento. Tu sei il fratello maggiore, ma devi dirlo anche a Giuliano, così ogni giorno avrete i «cinque minuti del babbo». Cosa ne