Mensile di informazione, politica e cultura dell’Associazione Luciana Fittaioli - Anno V, n. 9 - settembre 2013 - distribuzione gratuita
“Prima di giudicare (e per la storia in atto o politica il giudizio è l’azione) occorre conoscere e per conoscere occorre sapere tutto ciò che è possibile sapere” (Antonio Gramsci) “Faremo il possibile per esporre in forma semplice e popolare, senza presupporre la conoscenza nemmeno dei concetti più elementari. Vogliamo farci comprendere dagli operai.” (Karl Marx)
Timeo Danaos et dona ferentes
(non mi fido dei greci, soprattutto quando portano doni)
Festival
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L'Istituto Statale per Sordi di Roma presenta la seconda edizione di CINEDEAF - Festival Internazionale d el Cinema Sordo di Roma , nato per promuovere e dare visibilitĂ a opere cinematografiche realizzate da registi sordi di tutto il mondo e a tutte quelle produzioni che abbiano affrontato le tematiche della sorditĂ , delle lingue dei segni e della cultura sorda.
Blog: cinedeafroma.wordpress.com Info: cinedeaf@issr.it
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Editoriale
Riflessioni d’agosto! Sarà il caldo il responsabile? DI
LUIGI NAPOLITANO
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on mi sono sentito particolarmen‐ te interessato alle vicende giudi‐ ziarie che hanno coinvolto (e in qual‐ siasi altro paese del mondo democrati‐ co avrebbero travolto) il leader del po‐ polo delle libertà. Ho sempre pensato che una persona, giudicata colpevole da una sentenza definitiva della magistra‐ tura, sia da ritenere tale, avendo avuto tre gradi di giudizio per dimostrare il contrario e che tale condizione atten‐ ga, prevalentemente se non esclusiva‐ mente, alla sua sfera personale. Nel ca‐ so specifico, volendo allargare l’ambito d’influenza dell’evento, credo che possa riguardare il partito a cui appartiene, anche se è più corretto pensare, dalle scomposte reazioni degli altri rappre‐ sentanti di quella parte politica, che sia vero il contrario e che sia il partito ad appartenere a lui. Certo ritenere possi‐ bile che, dopo una condanna per frode fiscale, il reo possa rivestire ruoli che gli attribuiscano la rappresentanza delle istituzioni dello Stato, un notevole im‐ barazzo me lo crea e mi domando: il principio dell’art. 3 della Carta Costitu‐ zionale secondo cui “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni perso‐ nali e sociali” è stato abrogato? Ed è suf‐ ficiente il voto popolare, espresso peral‐ tro prima delle condanna definitiva, a renderlo non applicabile? Appartengo ad una generazione che poco ha da chiedere al futuro e, dopo aver assistito a episodi che, neanche le più fervide menti degli autori dell’avanspettacolo avrebbero potuto immaginare, spero solo, nell’interesse delle giovani gene‐ razioni, che i nostri politici sappiano of‐ frire un’immagine più dignitosa del no‐ stro paese. E’ per questo che trovo of‐ fensivo, questo sì, paventare una guerra civile dagli esiti imprevedibili qualora non si renda possibile l'agibilità politica del leader condannato. Veramente esi‐ ste qualcuno che, disinteressatamente, in nome di non si sa bene quali ideali, sarebbe disponibile per questo signore
a fare una rivoluzione per restituirgli l’onore perduto e per dargli la possibili‐ tà di continuare ad imperversare sulla scena politica? Probabilmente sba‐ gliando, io non lo credo. Ed allora si preoccupino i politici dei problemi eco‐ nomici della gente e della crescita della percentuale delle famiglie indigenti, fe‐ nomeno questo che, invece, ben po‐ trebbe scatenare l’ira del popolo. Una nota mi è d’obbligo alla luce delle dichiarazioni rese dal Presidente del Collegio che ha emesso la sentenza de‐ finitiva del processo in questione. Ri‐ tengo inopportune le dichiarazioni rese da un giudice in merito ad un suo pro‐ cesso. E’ senz’altro una caduta di stile che, tuttavia, non inficia in alcun modo una sentenza definitiva emessa da cin‐ que giudici in Cassazione, dopo che del processo si sono occupati tre giudici in primo grado e tre in appello. Una vicenda nella quale, invece, mi so‐ no sentito coinvolto e profondamente, è stata quella degli insulti al ministro Kyenge. Possibile che mi sia dovuto ver‐ gognare per le dichiarazioni di espo‐ nenti della Lega, che ancora non hanno maturato gli anticorpi giusti per difen‐ dersi dal pregiudizio verso chi arriva da terre lontane ed è portatore di culture diverse dalla nostra? E che mi sia dovu‐ to sentire altrettanto a disagio alle ri‐ sposte pacate e piene di buon senso, quando non di humor dell’Offesa, la quale ha messo in risalto l’incapacità argomentativa di uomini che occupano
posti di grande rilevanza quale la vice‐ presidenza del Senato della Repubbli‐ ca! Essendo l’istigazione all’odio razzia‐ le un reato, è arrivato il momento che anche in Italia, come in tutti i paesi Eu‐ ropei, degli insulti razzisti se ne occupi‐ no le forze dell’ordine e la magistratu‐ ra. Possibile ancora che, di fronte all’estra‐ dizione non legittima, come affermato dal Presidente del Consiglio dei Mini‐ stri, dal nostro Paese di una donna e di sua figlia, la cui unica responsabilità era quella di appartenere alla famiglia di un dissidente di un paese straniero, non si siano individuate responsabilità di sor‐ ta, se non quelle ipotetiche e tutte da dimostrare di alcuni funzionari del Cor‐ po di Polizia? Che i Ministri dell’Inter‐ no e degli Esteri rimangano al loro po‐ sto come se nulla fosse accaduto? Riservandomi in un prossimo editoriale di dare le mie risposte a chi avrà la com‐ piacenza di leggere queste note mi do‐ mando: in questo momento sono così centrali nella vita del Paese gli argo‐ menti circa l’asserita necessaria identità del segretario del Partito Democratico con il candidato capo del Governo e le modalità di votazione del primo? So di essere un romantico ma spero, in un prossimo futuro, di sentire appro‐ fondimenti su argomenti quali l’egua‐ glianza, il lavoro, la solidarietà e la di‐ gnità, e mi scuso per l’ardire, vedere fi‐ nalmente approvata una nuova, decen‐ te legge elettorale!
4 Sommario del mese di settembre Libertà La persona umana nel comunismo di Concetto Marchesi
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Il “Cavallo di Troia” Sponsorizzazioni e privatizzazioni nascoste di Sandro Ridolfi
pagina 11
Girlfriend in a coma Un atto d’amore per l’Italia che muore di Loretta Ottaviani
pagina 15
Comunismo marxista Scienza economica e non ideologia di Sandro Ridolfi
pagina 19
Brasile il “Mamulengo” Maschere e burattini di Teka De Oliveira Lima e Sara Mirti
pagina 23
Fragola e cioccolato Da Cuba sulla tolleranza a cura della Redazione
pagina 27
Il disegno della cicogna Tecniche di narrazione muta di Maria Sara Mirti
pagina 31
La rivincita degli ultimi La favolosa arte di Pino Lamia di Chiara Mancuso
pagina 35
Baci di Dama Dolci Chimere del Barocco di Catia Marani
pagina 39
Il robot cantastorie Il limite della creatività di di Fei Dao
pagina 43
Redazione: Corso Cavour n. 39 06034 Foligno redazionepiazzadelgrano@yahoo.it
Autorizzazione: tribunale di Perugia n. 29/2009 Editore: Sandro Ridolfi Direttore Responsabile: Maria Carolina Terzi Sito Internet:
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Andrea Tofi Stampa: GPT Srl Città di Castello Chiuso: 25 agosto 2013 Tiratura: 3.000 copie Periodico dell’Associazione “Luciana Fittaioli”
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Merloni
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Il Governo risponde alle interpellanze presentate dalla portavoce del M5S Ciprini e conferma la denuncia del Comitato: l’aggiudicataria della vendita degli stabilimenti Merloni ha chiesto e ottenuto la riduzione del 50% del piano industriale che aveva presentato per l’aggiudicazione e nessuna altra significativa inizativa di reinserimento delle maestranze non riassunte dalla JP Industries sembra essere stata atti‐ vata né in Umbria né nelle Marche; eppure i sindacati, i politici e i governi regionali continuano a tecere e mentire sull’argomento. Pubblichiamo di seguito il comunicato emesso sull’argomento dal Comitato dei Lavoratori A. Merloni e nella pagina successiva la risposta del Sottosegretario allo Sviluppo Econo‐ mico alle interpellanze con la nota di commento della portavoce del M5S In questo ultimo periodo, come non mai, sindacalisti e politici (gli stessi che hanno gestito e stanno gestendo la vertenza Merloni) nel cercare la propria visibilità parlano della Mer‐ loni fingendosi anche preoccupati per i lavoratori, ma nello stesso tempo non hanno il coraggio di dire la verità. A seguito del tavolo regio‐ nale sulla vertenza Merloni svoltosi metà luglio le istituzioni di Umbria e Marche e sindacati confederali hanno avuto un incontro al ministe‐ ro dello sviluppo economico, che ha avuto come risultato (secondo loro) una ulteriore rimodulazione dell'ac‐ cordo di programma "già modificato da loro stessi e firmato a novembre 2012" e il benestare del Ministro allo Sviluppo Economico alla richiesta presentata dalla JP Industries di ri‐ durre del 50% il proprio piano indu‐ striale. Quel piano industriale che, né sindacati né Istituzioni hanno mai presentato ai lavoratori prima della vendita alla JP. Ed è per questo che a distanza di quasi due anni gli inesistenti volumi di produzione dalla JP ci danno ragione, perché il Comitato dei Lavoratori sin dall'ini‐
zio ha sostenuto che l'interesse del‐ la JP non era il mantenimento dei si‐ ti industriali e la prosecuzione della produzione di elettrodomestici, ma la capitalizzazione degli impianti e degli immobili degli stabilimenti Merloni di Nocera Umbra e di Fa‐ briano. Ed i fatti lo dimostrano: la JP, con il benestare di sindacati e delle Istituzioni, ha già avviato il processo di smantellamento dello stabilimento di Nocera Umbra, ha già venduto e sta tuttora vendendo interi reparti di macchinari per lo stampaggio della plastica ad una so‐ cietà che produce elettrodomestici in Turchia con marchio "Indesit". Ora quello che ci chiediamo è quan‐ do i sindacati e le Istituzioni fini‐ ranno di raccontare menzogne ai la‐ voratori, per poi illuderli con le so‐ lite promesse pre elettorali o con‐ gressi di partito. In merito a quanto detto e all'imminente scadenza del‐ la Cigs, è già stata presentata un’in‐ terrogazione parlamentare con ri‐ sposta scritta dalla portavoce del M5S alla Camera dei Deputati Tizia‐ na Ciprini, ma essendo scaduti i ter‐ mini per mancanza di risposta, in
data 07 agosto 2013 la portavoce Ci‐ prini ha presentato un ulteriore in‐ terrogazione al question time. Pur‐ troppo le risposte fornite dal Sotto‐ segretario allo Sviluppo Economico ha confermato la riduzione del 50% del piano industriale della JP indu‐ stries ed ha anche riferito che l'uni‐ co progetto per quando riguarda la Regione Umbria, è quello elaborato dal Comune di Gualdo Tadino: un progetto L.S.U che prevede la rias‐ sunzione di soli 10 lavoratori della Merloni in Cgis. Questa è la confer‐ ma dell'incapacità politica, sia na‐ zionale che regionale, nel gestire vertenze come quella della Merloni che, purtroppo, non è certo l'unica in Umbria ma, a differenza di tante altre, ha a disposizione milioni di euro previsti dall'accordo di pro‐ gramma, che se però gestiti con il solito sistema politico‐sindacale non stanno dando alcuna risposta occupazionale e servono solo per voti di scambio con finanziamenti a pioggia agli amici degli amici. Il Comitato dei Lavoratori A. Merloni il portavoce Gianluca Tofi
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Merloni
Passo ad illustrare l'interrogazione dell'onorevole Ciprini concernente la situazione aziendale e occupazionale della Antonio Merloni Spa. Il 27 di‐ cembre 2011 la Antonio Merloni Spa in amministrazione straordinaria ha ce‐ duto con effetto dal 1o gennaio 2012, alla J.P. Industries il ramo di azienda destinato allo svolgimento dell'attività di design, produzione e commercializ‐ zazione di elettrodomestici. Conse‐ guentemente dal 1o gennaio 2012 la J.P. Industries è subentrata nei contratti di lavoro con 700 dipendenti in forza presso la società cedente, ha avviato gli investimenti previsti ed ha ottenu‐ to, dai competenti uffici del Ministero che rappresento, la concessione del trattamento di CIGS per ristruttura‐ zione aziendale per il periodo dal 1o gennaio 2012 al 31 dicembre 2013 per tutti i predetti 700 lavoratori. Nell'ot‐ tobre del 2012, il Tribunale di Ancona ha dichiarato la cessazione dell'eserci‐ zio di impresa relativa alla procedura di amministrazione straordinaria del‐ la Antonio Merloni Spa. Il successivo 22 novembre 2012 la società Merloni e le organizzazioni sindacali hanno sot‐ toscritto, presso i competenti uffici del Ministero che rappresento, un accordo per il ricorso alla CIGS – ai sensi del‐ l'articolo 3 comma 1 della legge n. 223 del 1991 – per il periodo dal 13 novem‐ bre 2012 al 12 novembre 2013 per un nu‐ mero massimo di 1479 lavoratori delle sedi di Fabriano (AN) e Nocera Umbra (PG). Lo scorso 8 luglio la società ces‐
sionaria J.P. Industries e le organizza‐ zioni sindacali hanno sottoscritto, presso i competenti uffici del Ministero del lavoro, un accordo per la definizio‐ ne di un nuovo programma di ristrut‐ turazione. In particolare la società ha confermato l'intento di perseguire il proprio progetto industriale e mante‐ nere gli impegni assunti operando tut‐ tavia un ridimensionamento del pro‐ gramma in funzione del contenimento dei volumi di attività causato del venir meno delle risorse esterne cui aveva fatto affidamento. Faccio presente, inoltre, che la Direzione Territoriale del lavoro di Perugia ha fatto sapere che il comune di Gualdo Tadino (PG) con una delibera del maggio scorso ha elaborato un progetto di L.S.U. attra‐ verso il quale intende utilizzare 10 la‐ voratori della Antonio Merloni attual‐ mente in CIGS. Faccio presente, inol‐ tre, che il Ministero dello sviluppo eco‐ nomico – interessato della questione – ha reso noto che, insieme ad Invitalia, sono in corso le operazioni di attuazio‐ ne e monitoraggio dell'Accordo di Pro‐ gramma Merloni. In particolare, il pre‐ detto dicastero ha fatto sapere che, al‐ la data del 5 luglio scorso, risultano re‐ gistrati dal Presidio Territoriale della regione Marche 15 proposte di investi‐ mento, di queste 6 sono attualmente in fase di precantierabilità ed 1 è stata già presentata. Tali proposte prevedono complessivamente circa 55 milioni di investimenti e l'utilizzo di 193 dipen‐ denti di cui 120 appartenenti alla socie‐
tà Antonio Merloni. Da ultimo faccio presente che la regione Umbria – an‐ ch'essa interessata della questione – ha fatto sapere di aver programmato, in accordo con la regione Marche, un in‐ tervento mirato alla ricollocazione dei lavoratori in CIGS provenienti dalla Merloni SpA. Tale intervento è stato attivato nell'ambito del progetto FEG Merloni – elaborato dalle Regioni Mar‐ che e Umbria e presentato alla Com‐ missione Europea – a valere sul Fondo Europeo di adeguamento alla Globaliz‐ zazione per misure di politica attiva strettamente finalizzate al reimpiego dei lavoratori in CIGS provenienti dalla Merloni. A tal riguardo, con Decisione dello scorso 6 giugno, la Commissione Europea ha concesso il contributo fi‐ nanziario del FEG per un importo com‐ plessivo di circa 5 milioni di euro. La regione Umbria per l'attuazione delle azioni FEG ha dato avvio ad attività di orientamento professionale, assisten‐ za alla ricerca attiva ed assistenza al‐ l'auto‐imprenditorialità. La predetta regione ha pubblicato, inoltre, il bando per le imprese recante «Interventi a so‐ stegno dell'occupazione» attraverso l'erogazione di bonus assunzionali per lavoratori in Cigs della Merloni. Da ul‐ timo, la regione Umbria ha fatto sape‐ re di aver pubblicato, lo scorso 31 lu‐ glio, l'avviso per l'Erogazione di Vou‐ cher formativi a favore dei lavoratori in Cigs della società in parola. Il Sottosegretario allo Svoluppo Economico
Replica della portavoce Ciprimi (M5S), Nel replicare, rileva la totale assenza di una politica industriale da parte del Governo, che sia in grado di tutelare i livelli occupazionali delle imprese e di salvaguardare le produzioni. Constata con rammarico che gli obiettivi dell'accordo di programma sottoscritto dai soggetti istituzionali competenti, al fine di risolvere la crisi aziendale, risultano sfumati, mancando sia un'iniziativa forte di contrasto all'opera di smantellamento degli stabili-
menti in questione sia una presa di posizione netta circa le modalità della citata cessione aziendale, sulla quale, peraltro, fa notare che pende un contenzioso giudiziario. Rileva quindi un'assoluta mancanza di certezze per il futuro dell'azienda e per i destini degli stessi lavoratori, anche in relazione alle forme di sostegno al reddito, giudicando un mero palliativo il fatto che siano state assunte iniziative a livello locale tese a favorire il reinserimento di tali lavoratori nonché l'avvio di attivi-
tà autonome attraverso il ricorso allo strumento del *voucher*. Fa notare che tali misure appaiono gravemente insufficienti, considerato che nessuna misura strutturale è stata presa per impedire la delocalizzazione dell'azienda e per salvaguardare i livelli occupazionali e produttivi di tale realtà economica. Si riserva, in conclusione, di intraprendere ulteriori iniziative al fine di tenere alta l'attenzione sul tema e spingere il Governo ad affrontare con decisione tale problematica.
Libertà
Individuo e Collettività una sola “stella”, la nostra “stella”
“Questo solo importa nella vita: avere una fede e improntarla del proprio spirito, e cercare quel che possa giovare al con‐ forto della comune esistenza; e non essere passati invano su questa terra. Sappiamo che la ragione non basta a risolvere tutti i problemi dell’essere e della conoscenza; sappiamo che la speculazione ad un certo punto si arresta e la scienza non attinge
le cause prime. Non ignoriamo i limiti del‐ la ragione, i limiti della scienza e lo spa‐ zio smisurato del mistero. Non abbiamo dogmi da enunciare e da imporre: ma pro‐ poniamo un dovere per tutti: aiutare l’op‐ presso a rialzarsi, l’armato a disarmare, l’ignorante a intendere, oltre che a subire, le necessità della vita”. Concetto Marchesi
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Libertà
La persona umana nel comunismo
’è un’altra dottrina detta non sem‐ pre a ragione senza Dio, la quale chiede di spingere innanzi la massa de‐ gli uomini: e si dice che essa voglia sommergere e annullare nella folla, nel numero, il tesoro della persona umana. Dirò subito che per noi comunisti por‐ re il problema dell’individuo è porre il problema della libertà umana: dico di quella libertà che non può non esserci data né tolta da nessun pubblico pote‐ re ed è il massimo dono che l’individuo possa fare a se medesimo: approdo for‐ tunato di un personale destino a cui si giunge attraverso un’intima e spesso travagliata esperienza. Ma a questa li‐ bertà non si deve assegnare una zona socialmente riservata; essa non può es‐ sere il frutto di un hortus conclusus; non può e non deve essere soggetta ad altre limitazioni che non siano quelle imposte dalla natura. […] La moltitudi‐ ne non è il gorgo che inghiotte i valori individuali: è l’immensa e inesauribile fonte da cui i valori individuali scaturi‐ scono. […] Noi vogliamo che la folla non sia numero: vogliamo ridurre la quantità in qualità: cioè vogliamo che ciascuno porti la propria coscienza a quel punto a cui la natura gli consente di arrivare. Il volgo ci sarà sempre; il volgo da cui può convenire talora ap‐
partarsi; ma non sarà più costituito da quel plebeo pezzente e pro‐ letario di 25 secoli ad‐ dietro, che oggi appari‐ sce come protagonista dell’immenso dramma sociale e il costruttore di un nuovo mondo morale. Noi vogliamo che l’individuo sia vera‐ mente il fabbro della propria fortuna, non sollevandosi sugli altri, ma sollevandosi in mezzo agli altri, libera‐ mente, con tutte le na‐ turali ricchezze che egli possiede. Vogliamo che ognuno abbia modo di fecondare questi germi del proprio destino; noi respingiamo come stol‐ ta e infame la pretesa che assegna alla classe operaia l’ufficio di lavo‐ rare e non pensare. Noi non vogliamo che continuino ad esistere una classe operaia alla quale la servitù economica tenga chiusa la ianua vitae, quella por‐ ta della conoscenza che è veramente la porta della vita. Noi vogliamo, come di‐ ceva Engels, che l’ “umanità esca dal re‐ gno della necessità per entrare in quel‐ lo della libertà”. […] Quando noi ripe‐ tiamo e confermiamo la notissima sen‐
tenza di Marx che non la coscienza de‐ gli uomini determina la loro esistenza sociale, ma al contrario che la loro esi‐ stenza sociale determina la loro co‐ scienza, non intendiamo imprigionare in questa frase lo spirito dell’uomo, né violare o negare il mistero dell’indivi‐ duo; ma intendiamo solo trovare il filo conduttore che possa condurci attra‐ verso il labirinto della storia umana.
Concetto Marchesi è stato uno dei più grandi latinisti della nostra storia. Socialista all’età di 15 anni, partecipò alla fondazione del Partito Comunista d’Italia nel 1921 e ne face parte prima in clandestinità e poi, dopo la caduta del fascismo, come membro della Assemblea Costituente e del Parlamento. Fece parte del Comitato Centrale del PCI fino alla morte. Infiltrato dal Partito durante il fascismo nel sistema scolastico universitario, fu Magnifico Rettore dell’Università di Padova già durante la Repubblica di Salò e, nel frattempo, tra i fondatori del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia. Venne accusato di essere il mandante morale dell’esecuzione del filosofo Giovanni Gentile, accusa che il PCI respinse
sempre, senza tuttavia condannare gli autori della esecuzione di una delle figure più nefaste della pseudo cultura fascista. E’ sua l’ultima stesura nella migliore lingua italiana del testo della Costituzione repubblicana prima della approvazione. Concetto Marchesi fu comunista coerentemente ateo e anticlericale, ma non negò mai il confronto con il mondo cattolico e la stessa apertura del Partito comunista a credenti, ponendo tuttavia la discriminante della netta separazione tra Stato italiano e Chiesa cattolica romana. Nei lavori dell’assemblea Costituente si oppose all’inclusione nel testo della Costituzione del richiamo ai Patti Lateranensi, giungendo a uscire dall’aula al momento del voto favorevole
voluto da Togliatti. Quello che segue è un brano del suo intervento nel dibattito sull’art. 5 (poi divenuto art. 7) della Costituzione che prevedeva il richiamo formale dei Patti stipulati tra la Chiesa e il fascismo. “Di fronte alla Chiesa stava il Governo fascista, l’unico governo con il quale la Santa Sede potesse trattare; e i Patti furono sottoscritti e la pace religiosa fu conclusa. […] Il Capo del Governo allora affermò: “Lo stato fascista rivendica in pieno il suo carattere di eticità. E’ cattolico, ma è sostanzialmente fascista, anzi soprattutto, esclusivamente, essenzialmente fascista. Il cattolicesimo lo integra, ma nessuno pensi, sotto la specie filosofica o metafisica, di cambiarci le carte in tavola”.
DI CONCETTO MARCHESI
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Libertà Noi intendiamo con questo spiegare i fatti sociali non quelli individuali, l’arte di governo non quella di creare; la poli‐ tica e l’economia, non la poesia; il proce‐ dimento per cui si giunge dal feudalesi‐ mo alla borghesia, all’industrialismo moderno, al socialismo: non quello ine‐ splicabile, per cui passa da Omero a Gu‐ glielmo Shakespeare e a Leono Tolstoi. Noi intendiamo spiegare la psicologia dell’epoca non quella dell’individuo, su cui il luogo, le circostanze storiche, il complesso delle idee e dei fatto sociali agiscono certamente, ma come fattori esteriori e controllabili, della incontrol‐ labile creazione individuale. Noi comu‐ nisti non possediamo una bibbia e non abbiamo una verità rivelata iniziale e im‐ mutabile: la verità sentiamo quale assi‐ dua ricerca del pensiero, quale esigenza insaziata dello spirito e quale dono con‐ tinuamente operativo dell’arte. Il marxi‐ smo non è una dogmatica; è una scienza che progredisce mediante una continua elaborazione di esperienze e una conti‐ nua indagine dei fatti; è la scienza del movimento proletario, per la costruzio‐ ne della società socialista: e perciò, ap‐ punto, perché scienza fondata sulla in‐ dagine e sulla esperienza, va soggetta senza tregua ad arricchimenti, a perfe‐ zionamenti ed a correzioni; è la teoria che meglio congiunge l’insieme indisso‐ lubilmente dei tre presenti del tempo; di ciò che fu, è e sarà. E così pure si correg‐ ge, si sviluppa, progredisce il movimen‐ to stesso proletario, secondo la capacità degli uomini che lo dirigono. […] i affermava e si afferma con infinite bocche che l’utile personale è stimolo al miglioramento della produzione e a un più nobile impiego delle singole atti‐
vità. Menzogna. […] Da vari pulpiti con‐ tinua a giungere l’ammonimento che senza libertà economica, non c’è libertà personale né stimolo di progresso. E uo‐ mini di fede, di autorità di cultura hanno congiunto la loro voce alla voce di quelli che hanno convertito l’amore si sé in una guerra agli altri e non hanno riconosciu‐ to la verità, la quale indica nel bene che procuriamo agli altri la sorgente del no‐ stro bene e del nostro guadagno. Utile? Accettiamo questa parla; ma prima vo‐ gliamo sapere se esso è quel tanto di ca‐ pitale, di reddito, di denaro che l’uomo ripone nella borsa dell’avarizia e della preda, o se è in ciò che da sollievo, eleva‐ zione, soddisfazione al nostro animo, in ciò che ci fa lieti del patimento sofferto, dell’avversità superata, della fatica com‐ piuta; in tutto ciò, dunque, che traduce il valore individuale in utilità sociale.
Di fronte al fascismo violatore di ogni coscienza e di ogni libertà, la Chiesa cattolica affermava la propria supremazia morale e sopra i deliri della scomposta tirannia, poneva la stabilità e l’altezza del suo insegnamento religioso. Ma, onorevoli colleghi, io mi domando: oggi è la stessa cosa? Interpretando il primo articolo del Trattato, per il quale la religione cattolica apostolica e romana è la sola religione di Stato, voi, onorevoli colleghi della democrazia cristiana, giungereste alle medesime conclusioni di allora, del 1929? […] Ma cosa vogliamo noi comunisti? La revoca dei Patti Lateranensi? Sarebbe una stoltezza e una colpa. Vogliamo la loro modificazione? Nemmeno. A modificarli penseranno, quando sarà opportuno (e cre-
do che l’ora non debba tardare), le due parti interessate. Noi vogliamo che questi Patti Lateranensi non entrino nell’ossatura e non divengano parte organica del nuovo Stato; vogliamo che essi abbiano vigore come gli altri trattati, con quel senso di speciale osservanza che devono avere per noi italiani. Con quei Patti, certamente una nuova storia è incominciata nei rapporti fra la Chiesa e lo Stato italiano. Noi vogliamo che quella storia non si arresti; noi vogliamo che quei Patti siano mantenuti, anzi, siano resi validi in un’aria più limpida di libertà e di sincerità. Di sincerità, colleghi democristiani. Credeteci: sarà meglio per tutti. Da questi banchi nessuna offesa potrà venire alle anime religiose ed ai principi della solidarietà umana, nessuna of-
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quanti annunciavano ed annun‐ ciano minacciate dal progredire delle forse proletarie le più delicate e squisite esigenze dello spirito, abbia‐ mo ripetuto e ripetiamo ancora che nessuna dottrina sociale, che nessun ordinamento di governo può, senza stoltezza, presumere di risolvere o di proclamare risoluti i problemi eterni dell’essere e della conoscenza: e che ogni tempio di religione può sorgere indisturbato ed inviolato sulla terra quando esso corrisponda a quell’altro tempio che il saggio ed il santo voleva‐ no elevato prima nel cuore dell’uomo. La vittoria della classe, dirò meglio, dell’umanità lavoratrice, farà più am‐ pia la via del bene e della solidarietà sociale: di un bene che non sarà mai assoluto, di una solidarietà che non sa‐ rà mai perfetta. […]
fesa. Io comprendo un liberalismo anticomunista; non comprendo un cristianesimo anticomunista. Capisco il liberale, il quale afferma che la libertà economica è il fattore indispensabile del progresso sociale e individuale; non comprendo il cristiano e il cattolico, il quale affermi che senza la professione di quella determinata religione positiva, non si possa vivere onestamente, e generosamente. […] Ha ragione l’onorevole Togliatti quando propone di scrivere nel primo articolo della nostra Costituzione quelle due semplici e grandi parole, che non sono comuniste, che dovrebbero essere piene di sentimento cattolico: Repubblica i lavoratori; sarà questo il nuovo grande titolo di nobiltà che noi potremo dare al popolo italiano.”
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oi non promettiamo – come qual‐ cuno ingenuamente sospetta – l’età favolosa della innocenza e della bontà universale; ci basta che l’umani‐ tà sia messa in condizione di operare il minor danno contro se medesima; ci basta che il mondo degli uomini non sia più una foresta di lupi che si am‐ mazzano fra loro dentro l’incantato miraggio di una splendida civiltà; ci basta che il denaro finisca di conse‐ gnare periodicamente agli eserciti le armi della distruzione e che la povertà non sia più da considerare come una maledizione e una vergogna. Noi non pensiamo né desideriamo si possa eli‐ minare la lotta dei contrari, che è la condizione del progresso, che è il mo‐ to eterno delle cose, che è la legge stessa della vita per cui da uno stato qualitativo si passa a un altro in una continua ascensione vitale. Dirò di più: con un nuovo ordinamento della gestione economica, non presumiamo di potere eliminare ciò che si dice co‐ munemente e propriamente il male: quella fonte di dolore che è nella natu‐
Libertà ra delle cose, che è nell’uomo, che è la forza che disgrega perché un’altra ne risorga: che è la condizione del flusso eterno per cui nascita e morte sono in‐ dissolubilmente congiunte. […] La storia è un continuo e sempre rinno‐ vato spettacolo del bene che non cessa di lottare e del male che non cessa di risorgere; in questa continuità di lotta è la ragione della vita, in questa in‐ compiuta e perciò perenne speranza di bene è la gioia della vita. Non vi è al‐ tra solida ragione né altra solida gioia nell’esistenza dell’uomo. uando noi comunisti neghiamo l’immutabilità del regime capita‐ listico, quando affermiamo che non esistono principi eterni che sottomet‐ tano il contadino al padrone della ter‐ ra e l’operaio all’industriale, quando diciamo che lo sfruttamento econo‐ mico del capitale sul lavoro dovrà ces‐ sare, non perciò pensiamo che cesserà l’urto dell’uno contro i molti, dell’uno contro i pochi, dell’uno contro se stesso. Non per questo cesseranno di esserci nella lotta della vita i vincitori
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Lʼappello agli studenti - 1° dicembre 1943 Studenti dellʼUniversità di Padova! Sono rimasto a capo della vostra Università finché speravo di mantenerla immune dall'offesa fascista e dalla minaccia germanica; fino a che speravo di difendervi da servitù politiche e militari e di proteggere con la mia fede pubblicamente professata la vostra fede costretta al silenzio e al segreto. Tale proposito mi ha fatto resistere, contro il malessere che sempre più mi invadeva nel restare a un posto che ai lontani e agli estranei poteva apparire di pacifica convivenza mentre era un posto di ininterrotto combattimento. Oggi il dovere mi chiama altrove. Oggi non è più possibile sperare che l'Università resti asilo indisturbato di libere coscienze operose, mentre lo straniero preme alle porte dei nostri istituti e l'ordine di un governo che - per la defezione di un vecchio complice - ardisce chiamarsi repubblicano vorrebbe convertire la gioventù universitaria in una milizia di mercenari e di sgherri massacratori. Nel giorno inaugurale dell'anno accademico avete veduto un manipolo di questi sciagurati, violatori dell'Aula Magna, travolti sotto la immensa ondata del vostro irrefrenabile sdegno. Ed io, o giovani studenti, ho atteso questo giorno in cui avreste riconsacrato il vostro tempio per più di vent'anni profanato; e benedico il destino di avermi dato la gioia di una così solenne comunione con l'anima vostra. Ma quelli, che per un ventennio hanno vilipeso ogni onorevole cosa e mentito e calunniato, hanno tramutato in vanteria la disfatta e nei loro annunci mendaci hanno soffocato il vostro grido e si sono appropriata la vostra parola. Studenti: non posso lasciare l'ufficio del Rettore dell'Università di Padova senza rivolgervi un ultimo appello. Una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra patria Traditi dalla frode, dalla violenza, dall'ignavia, dalla servilità criminosa, voi insieme con la gioventù operaia e contadina, dovete rifare la storia dell'Italia e costituire il popolo italiano. Non frugate nelle
e i vinti. Noi vogliamo dare all’indivi‐ duo le armi per sostenere questa lotta contro i molti, contro i pochi, contro se stesso. Non vogliamo che egli sia un vinto sin dalla nascita; non voglia‐ mo che nel mondo degli uomini ci siano le moltitudini condannate ad ignorare le battaglie dell’anima e a conservare soltanto quelle per il pane. Le mostruose degenerazioni del na‐ zionalismo capitalistico che si chia‐ marono fascismo e nazismo furono per certo la più infame e rovinosa cro‐ ciata contro i valori dello spirito e del‐ la persona umana; furono la guerra senza tregua e senza pietà alla co‐ scienza e alla intelligenza, in una in‐ calzante tensione di tutte le forza sta‐ tali per il trionfo della bestia. Noi non abbiamo la sola necessità di fare ri‐ sorgere le nostre case distrutte, le of‐ ficine e le fabbriche e le vie dei prov‐ vidi traffici: ma anche e soprattutto quella di risuscitare la persona uma‐ na. Che si sappia attendere e confida‐ re. Il comunismo darà maestranze scelte per tale costruzione.
memorie o nei nascondigli del passato i soli responsabili di episodi delittuosi; dietro ai sicari c'è tutta una moltitudine che quei delitti ha voluto e ha coperto con il silenzio e la codarda rassegnazione; c'è tutta la classe dirigente italiana sospinta dalla inettitudine e dalla colpa verso la sua totale rovina. Studenti: mi allontano da voi con la speranza di ritornare a voi maestro e compagno, dopo la fraternità di una lotta assieme combattuta. Per la fede che vi illumina, per lo sdegno che vi accende, non lasciate che l'oppressore disponga della vostra vita, fate risorgere i vostri battaglioni, liberate l'Italia dalla schiavitù e dall'ignominia, aggiungete al labaro della vostra Università la gloria di una nuova più grande decorazione in questa battaglia suprema per la giustizia e per la pace nel mondo. Il Rettore: Concetto Marchesi
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Il “cavallo” delle sponsorizzazioni Aut haec in nostros fabricata est machina muros Inspectura domos venturaque desuper urbi, Aut aliquis latet error: equo ne credite, Teucri. Quidquid id est, timeo Danaos et dona ferentes. Questa è macchina contro le nostre mura innalzata, e spierà le case, e sulla città graverà: un inganno v'è certo. Non vi fidate, Troiani. Sia ciò che vuole, temo i Dànai, soprattutto quand'offrono doni. Publio Virgilio Marone, Eneide, libro II, versi 46-49
DI SANDRO RIDOLFI
Dopo dieci anni di assedio infruttuoso e inutili battaglie e duelli i greci (i “da‐ nai”) decidono di cambiare strategia. Consigliati da Ulisse, abbandonano il progetto di espugnare la città di Troia dall’esterno e concepiscono uno stra‐ tagemma per superare le inespugnabi‐ li difese murarie aprendole dall’inter‐ no. Simulando di rinunciare alla guer‐ ra, fanno partire la flotta dalla spiaggia di fronte alla città nascondendola in un golfo vicino; quindi costruiscono una enorme cavallo di legno in segno di offerta a Poseidone, il dio del mare, come auspicio per il buon ritorno in Grecia della flotta. All’interno del ca‐ vallo nascondono, però, un certo nu‐ mero di guerrieri. I troiani, felici per la creduta ritirata dei nemici e la fine del‐ la guerra, decidono di trasportare il ca‐
vallo all’interno delle mura della città per appropriarsi del dono agli dei la‐ sciato dai greci in ritirata. Nella notte, tuttavia, i guerrieri nascosti nel cavallo escono e aprono dall’interno le porte della città all’esercito greco che, nel frattempo, era tornato e sbarcato sulla spiaggia di Troia. La città è presa con il tranello e sarà distrutta dal fuoco. Ma non tutti i troiani hanno da subito cre‐ duto al tranello teso dai greci, tra que‐ sti Laocoonte, sacerdote e vate, avver‐ te i troiani del pericolo; dal mare, tut‐ tavia, escono all’improvviso dei mo‐ struosi serpenti marini che divorano Laoconte e i suoi figli, facendo tacere la voce di allarme. Da circa 3.000 anni lo stratagemma del “Cavallo di Troia” è diventato il sinonimo di una tecnica di aggiramento di un ostacolo basata sul‐ la conquista della fiducia del difensore che viene così indotto ad abbassare le difese a aprire la porta al nemico che lo
ucciderà dall’interno. Lo stratagemma del Cavallo di Troia non è stato inven‐ tato da Omero poiché è estremamente diffuso in natura e tanto nel mondo animale che vegetale. L’universo mi‐ croscopico dei batteri e dei virus è un campo di battaglia permanente tra ag‐ gressori e difensori (anticorpi) che fre‐ quentemente vengono aggirati e so‐ praffatti dalle capacità di mutazione dei primi. Ciò che stupisce che anche nel mondo degli animali superiori, complessi ed evoluti, lo stesso strata‐ gemma continua ad essere usato e su‐ pinamente, o stupidamente, creduto dalle vittime designate. Vogliamo qui parlare di una casistica che sta avendo negli ultimi tempi grande diffusione e successo, quella delle sponsorizzazio‐ ni; precisiamo subito sponsorizzazioni e non mecenatismo e diciamo perché i due termini sono radicalmente diffe‐ renti.
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Le privatizzazioni occulte DI SANDRO RIDOLFI
Lo scorso 31 luglio 2013, con la sentenza di rigetto emessa dal Consiglio di Stato sul ricorso presentato dal Codacons, si è conclusa la procedura giudiziaria e quin‐ di, a breve, potrà essere sottoscritto il contratto di sponsorizzazione tra il Mi‐ nistero dei Beni Culturali e “Mister Tod’s” (Diego Della Valle) per il finanziamento dei lavori di restauro del Colosseo che potranno quindi essere appaltati. La sen‐ tenza del Consiglio di Stato non ha esa‐ minato il così detto merito del ricorso proposto dal Codacons, limitandosi a ri‐ gettarlo per difetto di legittimazione (cioè del titolo giuridico ad agire) dell’As‐ sociazione di consumatori. Il Consiglio di Stato ha tuttavia esaminato i vari passag‐ gi della lunga trattativa negoziale tra la Pubblica Amministrazione e lo sponsor privato, nonché gli aspetti salienti dello “scambio” del finanziamento con i diritti di sfruttamento in esclusiva dell’immagi‐ ne del monumento, non ravvisandovi elementi di irregolarità o irragionevolez‐ za. La sentenza, nei limiti della compe‐ tenza riservata al Giudice dell’Ammini‐ strazione, è sostanzialmente corretta e, in effetti, il punto che si vuole trattare in questo inserto non concerne aspetti eco‐ nomici (equilibrio tra finanziamento e sfruttamento dell’immagine), né giuridi‐ co concorsuali (regole dell’appalto), ma aspetti decisamente “superiori”: il ruolo dello Stato e i limiti “travalicati” dell’in‐ gerenza del “Privato” in materie di com‐ petenza pubblica. Perché però la que‐ stione non venga posta solo su di un pia‐ no ideologico astratto, occorre prima svi‐ luppare una premessa critica circa l’ap‐ proccio marxista alla conservazione del patrimonio culturale.
L’approccio marxista alla que‐ stione della manutenzione del patrimonio culturale
La tutela (conservazione, manutenzione, gestione, ecc.) dei beni culturali è com‐ petenza esclusiva dello Stato e non solo quando tali beni sono di proprietà e pos‐ sesso diretto della Pubblica Amministra‐ zione, ma anche quando sono, nei limiti e secondo le disposizioni di legge, nella proprietà e disponibilità dei privati, i quali non ne possono comunque dispor‐ re liberamente. Conservare, manuten‐
zionare e gestire il patrimonio culturale, tanto più con le dimensioni enormi di quello italiano rispetto all’intero resto del mondo, ha indubbiamente un costo e ri‐ chiede un impegno notevole. Per quanto sia a prima vista ridicolo sostenere che la sesta o la settima potenza economica del mondo non sia in grado di proteggere il patrimonio culturale che la “fortunata” storia le ha assegnato in premio (che dire allora, ad esempio, di un paese povero e sovrappopolato come l’Egitto che do‐ vrebbe manutenzionare un patrimonio archeologico immenso e difficilissimo?), non v’è dubbio che in ogni realtà e tempo si ponga sempre un problema di priorità nella spesa pubblica. Senza considerare la gravità dell’attuale crisi economica che colpisce l’intero occidente capitalista, una nazione che vede una parte conside‐ revole della propria popolazione avvici‐ narsi pericolosamente alla soglia di po‐ vertà e deperire giorno dopo giorno ser‐ vizi sociali anche primari ed essenziali per la qualità minima della vita, dei pro‐ blemi di ottimizzazione o almeno di se‐ lezione della spesa pubblica non può non porseli. E’ giusto salvare il Colosseo o au‐ mentare le pensioni sociali oggi al limite vergognoso al di sotto della soglia di so‐ pravvivenza? E’ giusto migliorare i musei o finanziare gli strumenti per le sale ope‐ ratorie sempre più sguarnite? La selezio‐ ne delle scelte della spesa pubblica è in‐ dubbiamente frutto della cultura domi‐ nante che, a sua volta, è frutto dei rappor‐ ti di dominio. Una società basata sul ca‐ pitalismo e dominata dalle classi ricche propone indubbiamente scelte che con‐ servino la qualità della vita dei ricchi e quindi, per quanto qui ci interessa, la bel‐ lezza del proprio patrimonio culturale (n.b. quando si dice culturale, si intende in via generale: artistico, archeologico, scientifico, storico, ecc.). Una diversa so‐ cietà basata su rapporti di dominio quan‐ to meno più equi produrrebbe una cul‐ tura politica che dovrebbe dare priorità alla difesa almeno dei diritti essenziali e primari della propria popolazione. Prio‐ rità alle pensioni sociali, alle sale opera‐ torie rispetto al patrimonio culturale? La risposta positiva istintiva al quesito è ov‐ via, quasi banale, ma priva di una analisi dialettica complessiva potrebbe risultare puramente ideologica e populista e quin‐ di sbagliata. Il marxismo ci insegna che ogni problema va esaminato alla luce
della sua evoluzione storica materiale, e non ideologica, e in rapporto dialettico, anch’esso materiale e non ideologico, con la realtà di contesto. Cos’è allora il patrimonio culturale? Il frutto dell’accu‐ mulazione del lavoro, dell’ingegno, della fatica e dei sacrifici delle innumerevoli generazioni che ci hanno preceduto, un patrimonio comune di tutti; il fatto che oggi, in questa società ingiusta, non pos‐ sano goderne tutti allo stesso modo, non vuol dire che allora debba essere distrut‐ to (o mandato in deperimento), il pro‐ blema (progetto politico) è che tutti ven‐ gano messi in condizioni di accedervi e di fruirne e dunque, solo per ciò, occorre in‐ tanto conservarlo. Ma ancora, che ruolo può svolgere un patrimonio culturale immenso come quello italiano nel pre‐ sente e per il futuro? A parte l’incalcola‐ bile valenza per la crescita culturale e scientifica, indubbiamente tale patrimo‐ nio può avere una valenza economica, può essere cioè in grado di produrre red‐ dito, ricchezza. L’Italia è un paese “mira‐ colosamente” vocato per il turismo, cioè per un’industria che crea molta più occu‐ pazione e provoca molti meno danni ambientali e costi sociali in genere di qualsiasi altra iniziativa produttiva. L’in‐ dustria crea ricchezza ed è con la ricchez‐ za, se ovviamente equamente posseduta e distribuita, che si possono aumentare le pensioni sociali, acquistare gli stru‐ menti per le sale operatorie, e così via.
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Ecco allora l’approccio marxista al pro‐ blema della spesa pubblica per la manu‐ tenzione del patrimonio culturale: la priorità è data dalla “gallina” e non dall’ “uovo”; uccidere o far deperire la gallina significa pregiudicare le uova, i pulcini, le altre galline del domani; se il patrimonio culturale può essere fonte di reddito, al‐ lora deve essere indiscutibilmente pro‐ tetto e conservato indipendentemente dal suo valore storico, ma anzitutto per il suo potenziale economico (sia detto per inciso, il Colosseo di Roma, che non è l’unico, né il più grande, né quello meglio conservato dei tanti sparsi nel mondo al‐ lora conosciuto, in fondo non era altro che uno stadio, un circo per giochi più o meno cruenti; il suo particolare valore, che lo rende unico, è di essere collocato nel cuore della città più bella e più ricca di produzioni culturali del mondo). Il Colosseo va dunque protetto, curato, re‐ staurato e ottimizzato quale strumento di produzione di ricchezza. Vediamo ora da chi e come.
Il parternariato pubblico‐ privato nella conservazione del patrimonio culturale
La conservazione, così come la gestione del patrimonio culturale nazionale è compito dello Stato sancito dalla nostra Costituzione repubblicana. A tale onere lo Stato vi provvede con le proprie risor‐ se fiscali, cioè con il prelievo dalle ric‐
chezze (redditi, rendite, scambi com‐ merciali e di valore, ecc.) private, secon‐ do il principio dell’obbligo di concorso di tutti i cittadini in ragione proporzionale ai propri mezzi. Il prelievo fiscale e la conseguente spesa pubblica sono tipiche manifestazioni della potestà statale, cioè di diritto pubblico. Ma lo Stato (e gli altri soggetti che compongono la Pubblica Amministrazione) è anche soggetto di diritto privato, cioè è anche una così det‐ ta persona giuridica che può operare nel mondo dei rapporti economici come qualsiasi altro soggetto, persona fisica o giuridica, privato. Lo Stato cioè può svol‐ gere attività e quindi approvvigionare ri‐ sorse anche operando nel campo dei rapporti economici retti dal diritto pri‐ vato. Proprio per sostenere i grandi costi della manutenzione dell’immenso patri‐ monio culturale, negli ultimi anni in par‐ ticolare, sono state sviluppate “tecniche” di reperimento di fondi extra prelievo fi‐ scale. La modalità “tecnica” che ha avuto più successo (il caso Colosseo/Tod’s ne è oggi l’esempio massimo) è stata quella delle sponsorizzazioni (termine generi‐ co che più avanti articoleremo meglio) che in concreto consiste nel reperire fon‐ di dedicati ad una singola specifica opera (iniziativa) da finanziatori privati. In so‐ stanza il bene (archeologico, storico, ar‐ tistico, ecc.) si autofinanzia i costi per la sua manutenzione, conservazione, re‐ stauro, ecc., cedendo in cambio al finan‐ ziatore il diritto del suo “sfruttamento” (il termine in questo caso non ha alcuna valenza etica, è squisitamente tecnico e vuol dire correttamente: raccogliere i frutti). Definiamo meglio il concetto di sponsorizzazione ricorrendo ai termini utilizzati dal legislatore dell’ultimo de‐ creto ministeriale del 12 dicembre 2012: “La sponsorizzazione di beni culturali quale rapporto di partenariato pubblico‐ privato [che] si caratterizza per l’associa‐ zione del nome, del marchio, dell’imma‐ gine o del prodotto di un’impresa a un be‐ ne o a un’iniziativa culturale”. L’impresa (imprenditore) dunque investe proprie risorse economiche per finanziare il re‐ cupero, restauro, ecc. di un determinato bene culturale al fine di promuovere la vendita dei propri prodotti. La logica e, anzi, l’esperienza stessa dalla quale deri‐ va l’idea della sponsorizzazione dei beni culturali è quella, ad esempio, della so‐ cietà sportive, che riportano sulle ma‐ gliette dei propri atleti il marchio dello sponsor. Chi ricorda il mondo della pal‐ lacanestro ove le squadre sono da sem‐
13 pre state identificate con il nome dello sponsor completamente “oscurando” quello della città di provenienza, o anco‐ ra nel mondo della Formula Uno ove al‐ cune scuderie hanno direttamente as‐ sunto il nome dello sponsor “dimenti‐ cando” quello del produttore dei motori, dei telai, ecc. Tutto questo avviene però nell’ambito della legittima autonomia dell’attività privata; un problema invece potrebbe porsi quando il nome dello sponsor dovesse rischiare di sovrapporsi a quello del bene culturale, tale da indur‐ re una “confusione” tra il naturale pro‐ prietario del bene, cioè la collettività na‐ zionale o persino quella dell’intero mon‐ do quando a certi beni culturali vengono riconosciuti i requisiti di “patrimonio dell’umanità”, e il finanziatore delle ope‐ re di conservazione e restauro del bene stesso. Tale rischio diventa tanto più ele‐ vato e grave quando allo sponsor viene concesso non solo il diritto di abbina‐ mento del nome del bene sponsorizzato ai propri prodotti, ma anche la gestione del bene in termini di utilizzo dello stes‐ so per propri eventi, biglietteria, ecc. In quest’ultimo caso lo sponsor non si limi‐ ta alla sola operazione commerciale dei propri prodotti, ma si sostituisce alla Pubblica Amministrazione nella gestio‐ ne del bene “come fosse suo”. Que‐ st’evento si traduce in concreto in una forma di sostanziale privatizzazione di un patrimonio che, “per legge di natura”, è invece di tutti. Sulla privatizzazione del patrimonio culturale torneremo più avanti, vediamo ora le diverse forme del‐ la possibile partecipazione dei privati al‐ la manutenzione del patrimonio cultu‐ rale pubblico e sveliamo il trucco della detraibilità fiscale.
La detraibilità fiscale. Gli sponsor siamo noi
La legge (Codice dei beni culturali) e il decreto attuativo sopra ricordato indi‐ viduano quattro diverse modalità della partecipazione dei privati ai costi di manutenzione dei beni culturali pub‐ blici: 1) il mecenatismo vero e proprio, cioè l’erogazione liberale priva di fina‐ lità commerciali; 2) l’adozione di un monumento, anch’essa caratterizzata da modesti ritorni economici e preva‐ lentemente morali; 3) la compravendi‐ ta di spazi pubblicitari sui tralicci uti‐ lizzati nel corso dell’esecuzione degli interventi di manutenzione; 4) infine la vera e propria sponsorizzazione in due modalità: “tecnica” o “finanziaria”.
14 La prima modalità “tecnica” consiste nel coinvolgimento dell’impresa privata sponsor nell’esecuzione diretta dei lavo‐ ri; l’istituto è simile a quello del projet fi‐ nancing utilizzato per la realizzazione di opere pubbliche (vedi ad esempio i par‐ cheggi, le autostrade e simili), dove l’im‐ presa realizzatrice dell’opera ne anticipa i costi, che poi recupera mediante la concessione della gestione economica dell’impianto realizzato per un certo numero di anni successivi, alla scadenza dei quali l’opera tornerà nella proprietà piena pubblica. Nella seconda modalità (per quanto qui interessa è il caso del Colosseo/Tod’s) il finanziatore non in‐ terviene nella realizzazione dei lavori, che vengono appaltati e gestiti dalla Pubblica Amministrazione, ma si limita a fornire i mezzi economici, che poi re‐ cupererà sfruttando l’abbinamento commerciale del bene finanziato con i propri prodotti industriali. Questa for‐ ma di finanziamento dei beni culturali non ha nulla a che vedere con il “mece‐ natismo”, cioè con le erogazioni liberali; in termini semplici, non ha nulla a che vedere con la “generosità” del ricco im‐ prenditore; si tratta di una operazione commerciale pura e semplice, né più né meno di un spot pubblicitario televisivo, di affissioni di manifesti, distribuzione di volantini, ecc. Dov’è il trucco? Nel gioco del recupero fiscale. Sino a un paio di anni fa le sponsorizzazioni, in quanto non direttamente collegate con la pro‐ mozione del prodotto specifico del fi‐ nanziatore (quale collegamento diretto c’è tra la maglietta di un calciatore e, ad esempio, un conto corrente bancario o un telefonino?), venivano considerate spese di “rappresentanza”, cioè di pro‐ mozione dell’immagine dell’azienda (ti‐ po: pranzi, viaggi, strenne natalizie e si‐ mili), e quindi erano fiscalmente detrai‐ bili in misura percentuale proporziona‐ le al fatturato dell’azienda e secondo lo‐ gica di “inerenza” (ad esempio una im‐ presa che vende i propri prodotti in Afri‐ ca non poteva detrarre spese di viaggi di America, ecc.). Con un “improvviso” cambio di orientamento dell’Agenzia delle Entrate del 2009 i finanziamenti per le sponsorizzazioni sono stati passa‐ ti a spese di pubblicità, in quanto tali in‐ teramente detraibili (dal decreto 12 di‐ cembre 2012 citato: “Dovrebbe, pertanto, logicamente addivenirsi alla qualificazio‐ ne delle spese per sponsorizzazione come spese di pubblicità o di propaganda, de‐ ducibili integralmente e non entro i limiti
Sponsor di inerenza e congruità” ). In sostanza oggi lo sponsor (ad esempio Tod’s) recu‐ pera interamente a carico del fisco, cioè dell’intera collettività nazionale, tutte le somme erogate per le sponsorizzazioni che, quindi, non gli costano nulla in quanto, in virtù del meccanismo del re‐ cupero fiscale, glie rimborsa interamen‐ te lo Stato. Attenzione però, perché in‐ tanto l’imprenditore guadagna con la pubblicità dei propri prodotti abbinati alla notorietà del bene culturale sponso‐ rizzato. In conclusione quanto costa a “Mister Tod’s” il restauro del Colosseo? Nulla perché per i prossimi numerosi anni non pagherà imposte sui suoi red‐ diti aziendali. Intanto però, in tutti gli anni dei lavori e per diversi ancora a se‐ guire (15 anni prorogabili!) sfrutterà la notorietà universale del Colosseo per promuovere in tutto il mondo la vendita delle proprie “ciabatte italian style”, di grande classe e design indubbiamente, ma pur sempre ciabatte. E bravo Mister Tod’s! E noi? Ciascuno si dia la risposta che merita.
La penetrazione del “Priva‐ to” nella sfera pubblica. Il Cavallo di Troia delle false donazioni che aprono le porte della città agli specu‐ latori Svelato il trucco fiscale s’impone ora un ultimo ragionamento sul tema che ha dato il titolo a questo inserto: l’illiceità della penetrazione del “privato” in am‐ biti di competenza esclusiva del “pubbli‐ co”. Privatizzazioni è stata la parola d’or‐ dine che ha caratterizzato le politiche economiche di tutto l’occidente capita‐ lista nell’ultimo ventennio. Privato è ef‐ ficiente, economico, produttivo; libero mercato è la soluzione di tutti i proble‐ mi della crescita; mobilità, flessibilità, li‐ bera circolazione delle merci e delle per‐ sone (che in fondo, considerate nel ciclo produttivo, sono merci anch’esse) è la chiave della promessa della crescita in‐ finita. Dove siamo finiti oggi lo sappia‐ mo molto bene. Il libero mercato si av‐ vitato su se stesso, la libera concorrenza si è tradotta in monopolio, la libera cir‐ colazione c’è stata sì, ma dei capitali spe‐ culativi che si spostano da Stato a Stato, da continente a continente, saccheg‐ giando e distruggendo le economie an‐ che delle nazioni più forti. Lo Stato (gli Stati) hanno perso il controllo non solo della finanza e della stessa moneta, ma anche dei sistemi produttivi fondamen‐
tali, delle reti infrastrutturali, delle fonti energetiche, della ricerca e della innova‐ zione. Il privato ha mangiato il pubbli‐ co, magari inefficiente, dispendioso, in parte anche corrotto, ma non vi ha sosti‐ tuito efficienza e competitività, al con‐ trario ha affossato e sta distruggendo tutto quello che ha toccato (si pensi solo alla siderurgia, settore nel quale l’Italia era il primo e il più avanzato produttore del mondo e oggi grandi aziende nazio‐ nali, come Fincantieri, debbono impor‐ tare acciaio dall’estero). Eppure ancora si parla di privatizzazioni, anzi si fa di più ed ecco che, con il caso Colosseo/To‐ d’s, il privato cerca di mangiarsi anche il patrimonio culturale nazionale e uni‐ versale e lo fa, sia ben chiaro, intera‐ mente con denaro pubblico. Ora, e qui torna l’approccio marxista, materialista e concreto e non vuotamente ideologi‐ co, nulla vieta al “Privato” non solo di ar‐ ricchirsi, ma anche di crescere, investire, spendere; anzi, ben venga un “Privato” in grado di far crescere la propria azien‐ da perché così crescerà l’intera econo‐ mia nazionale e dunque quella ricchez‐ za che, meglio e più equamente riparti‐ ta, potrà dare risposte concrete, mate‐ riali e non ideologiche, ai bisogni della popolazione. Ben vengano i Della Valle, i Cucinelli (sponsor del restauro dell’Ar‐ co Etrusco di Perugia) e i tanti altri im‐ prenditori capaci di creare ricchezza senza affondare le mani nelle tasche del‐ lo Stato (come fa l’ “Amerikano” Mar‐ chionne ad esempio), ma che stiano al loro posto, nel loro settore, nelle loro scarpe viene da dire parlando di Mister Tod’s. Il privato nel privato, il pubblico nel pubblico. Restaurare il Colosseo (o l’Arco Etrusco, o qualsiasi altro monu‐ mento o bene culturale) è compito dello Stato che deve provvedervi con le pro‐ prie risorse fiscali; se queste non basta‐ no, si vendano gli spazi pubblicitari sui tralicci, si vendano “spazi contro prez‐ zo”, nessuna generosità tanto più quan‐ do manifestamente fasulla. Il “Privato” ha già distrutto le aziende pubbliche della quali si è impossessato gratis e a volte anche guadagnandoci sopra (vedi il caso Telecom di Tronchetti Provera), finirà sicuramente con il compromette‐ re anche il patrimonio culturale, come dire, “è nella sua natura di scorpione”. Attenzione al “Cavallo di Troia” che en‐ tra, trascinato dal popolo in festa, den‐ tro le mura della città pubblica e poi la brucia dall’interno. Non mi fido dei pri‐ vati soprattutto quando portano doni!
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“Girlfriend in a coma”
Una disperata lettera d’amore all’Italia
E’ un film documentario realizzato nel 2012 da Bill Emmott (ex direttore della rivista britannica The Econo‐ mist) e da regista Annalisa Piras. Il film è stato proiettato per la prima volta a Londra, il 26 novembre 2012, presso l'Institute of Contemporary Arts. Del pubblico facevano parte ci‐ neasti inglesi, politici, diplomatici, opinionisti e molti italiani residenti all'estero, compresi alcuni imprendi‐
tori come il presidente della FIAT John Elkann e l'amministratore dele‐ gato di Vodafone, Vittorio Colao. Il ti‐ tolo del film prende spunto da un suc‐ cesso musicale del gruppo rock ingle‐ se Smiths, tratto dall'album del 1987 Strangeways, Here We Come. Em‐ mott lo ha scelto come titolo riferen‐ dosi al suo coinvolgimento emotivo con l'Italia, vista come una fidanzata che versa in uno stato comatoso.
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G.I.A.C. (La Fidanzata) DI LORETTA OTTAVIANI
La fidanzata in coma è l’Italia. La dina‐ mica dell’incidente che ha portato il Bel Paese in questo stato vegetativo viene ricostruita con perizia e passione in un film realizzato da due giornalisti, il britannico Bill Emmott (ex direttore dell’Economista) e l’italiana Annalisa Piras (Espresso da Londra e via dicen‐ do). “Girlfriend in a Coma” è un attento collage di storie, animazioni e intervi‐ ste a protagonisti della vita come la si vive lungo la penisola, un viaggio in un mondo pensante solo apparentemente disomogeneo che va da Saviano a Mar‐ chionne, da Servillo a Eco, da Amato a Elkann, passando per Monti, Moretti, Ferrero e Calabresi, per poi tuffarsi tra i tanti eroi per lo più sconosciuti che popolano le schiere degli italiani al‐ l’estero, le armate della nuova diaspo‐ ra. Racconta il Bel Paese in piena liber‐ tà, in tutti i suoi aspetti negativi (mafia, corruzione, burocrazia, inefficienza) e positivi (cultura, innovazione). E' una fotografia impietosa, per certi versi in‐ digeribile, un pugno nello stomaco che solo alla fine lascia intravedere una speranza di riscossa e di resurrezione, ma assai utile e illuminante, soprattut‐ to perché ci mostra così come l'Italia è vista e immaginata dall'estero eviden‐ ziando le manifeste opportunità per‐ dute e le rivoluzioni mancate. E’ l'au‐ topsia del talento sprecato. Un Paese che può fare, ma ci riesce solo in parte. Ricco di meraviglie e di difetti, di in‐ canti ed orrori, che rifiuta il cambia‐ mento come ricetta collettiva. Il docu‐ mentario si interroga sulla situazione politica italiana e sul processo di decli‐ no economico e sociale subito dal Pae‐ se nel precedente ventennio. La tesi del documentario è che questo processo è il frutto di una situazione peculiare al‐ l'Italia, un collasso morale che ha col‐ pito il paese e che non trova riscontro in nessun'altra nazione del mondo oc‐ cidentale. L'arretramento dell'Italia nelle varie classifiche mondiali viene il‐ lustrato con l'immagine della caduta della sua Personificazione nazionale, una giovane Italia turrita, nel Pozzo di San Patrizio di Orvieto. Il film è diviso
in tre parti, La mala Italia, La buona Italia e L’ ignavia, una tripartizione che corrisponde a quella Inferno‐Paradiso‐ Purgatorio della Divina Commedia dantesca. Non è questo l'unico richia‐ mo all'opera, dal momento che diversi momenti del film sono inframezzati e sottolineati da frammenti di Dante Ali‐ ghieri: lo spirito del Poeta esce dalla sua statua per andare a consolare quel‐ lo dell'Italia. Ma ecco che arriva lo spi‐
rito di Pulcinella, che comincia a riem‐ pirla di mazzate, mandandola in coma. E' così che Bill Emmott vede “la sua amata”. Inizia quindi il suo viaggio: co‐ me novello Dante scende negli inferi del Bel Paese per poi uscire «a riveder le stelle». Si parte quindi analizzando tutte le principali infamie italiane del‐ l'ultimo ventennio, che sono maggior‐ mente indicative del declino ancora oggi in atto.
Bill Emmont-Autore Bill Emmott, nato a Londra è stato direttore di The Economist dal 1993 al 2006. Eʼ oggi il presidente della London Library e editorialista per The Times, La Stampa e LʼEspresso. Nel 2003, è stato il primo giornalista straniero insignito del premio “Eʼ Giornalismo”, per gli articoli de The Economist su Berlusconi. Autore di 12 libri, soprattutto sullʼAsia e il Giappone. Il suo ultimo libro sullʼItalia “Good Italy, Bad Italy” è da poco uscito per la Yale University Press. Annalisa Piras- Regista Annalisa Piras è una regista e giornalista italiana, residente a Londra dal 1997. Ha studiato Scienze Politiche e Cinematografia a Roma. Ha 20 anni di esperienza nel giornalismo tv e di carta stampata, ed ha realizzato numerosi documentari sullʼattualità internazionale. Ha lavorato alla Rai e ad Euronews, ed è stata per molti anni corrispondente da Londra de La7 e dellʼEspresso. Per la BBC commenta gli affari esteri da un decennio. Annalisa ha lasciato lʼItalia nel 1993.
Girlfriend Dai crimini del G8 all'uso del corpo delle donne in Tv; dalla predominan‐ za delle organizzazioni criminali nei gangli del potere al berlusconismo; dal vile Schettino al Ruby gate. Em‐ mott non è certo un bolscevico, con buona pace di Berlusconi, che tale lo aveva definito, salvo poi rimangiarsi pavidamente tutto quando incontra il giornalista inglese di persona, in occasione dell'insediamento di Ma‐ rio Monti al governo. Che lo spirito di chi ha realizzato questa pellicola sia neanche tanto velatamente libe‐ rale e liberista lo si capisce anche nel vedere, dalla parte della buona Italia personaggi come Marchionne e lo stesso Monti. Ma hanno partecipato anche diversi intellettuali italiani co‐ me Umberto Eco, Roberto Saviano, Nanni Moretti e Marco Travaglio. Tra i politici, Berlusconi è stato invitato a rilasciare un'intervista, ma ha rifiu‐ tato, nonostante lo avesse promesso personalmente a Emmott (e questa promessa è riprodotta nel film); in compenso c'è Beppe Grillo. Ma la li‐ sta non finisce qui. In ogni secondo di questo documentario traspaiono l'amore ed il rispetto di Emmott per l'Italia, che è stata molto importante per la sua formazione, fin da giova‐ nissimo, fin da quando trovò i primi soldi per fare un viaggio in Italia, per andare incontro al sogno Italiano. Nella parte buona l’autore inserisce le multinazionali della Fiat e della Nutella, ma vediamo anche gli stu‐ denti che occupano i teatri, i laureati che emigrano all'estero e gli impavidi che lottano ogni giorno contro la mafia. Il giornalista britannico ci in‐ vita comunque a riflettere sul fatto che l'Italia non è una anomalia euro‐ pea, essa è indicativa di quanto sta cominciando a succedere anche nel resto del Continente. Così si arriva al capitolo finale dedicato all'ignavia, un’analisi molto coraggiosa che pone l'influenza della Chiesa al centro del problema; si ricorda quindi come già Garibaldi, Mazzini e Cavour lamen‐ tassero la presenza capillare e in‐ fluente di questa organizzazione. Gli italiani visti con gli occhi di Emmott sono un popolo assuefatto da mes‐ saggi esteticamente forti ma etica‐ mente deboli. Il messaggio di Girlfiriend in a Coma e della sua campagna è “act now and wape up Italy” ovvero risvegliare la
coscienza collettiva riguardo alla ve‐ ra natura e alla gravità della sua ma‐ lattia politica, economica e morale che ha colpito l’Italia nel corso degli ultimi 20 anni, per mettere in guar‐ dia gli altri paesi su un destino che potrebbe attendere anche loro e di servire come un invito all’azione, per tutti i livelli della società civile, di mettere in contatto gli italiani in giro per il mondo con quelli rimasti in Italia con la finalità di agire per pre‐ tendere il cambiamento, curando le malattie che hanno ridotto l’Italia in coma: il continuo declino del ruolo dello Stato, gli ostacoli alla merito‐ crazia e alla competitività, la man‐ canza di libertà di informazione, le disuguaglianze sociali per le donne, gli ostacoli all’innovazione, all’im‐ presa e alla creazione di posti di lavo‐ ro, l’ignavia o la mancanza di corag‐ gio morale. A tre mesi dalla prima di Londra, alla presenza di pochi eletti e nel silenzio più totale da parte dei media italici, l'anteprima di "Girfriend in a coma" in Italia era stata programmata per mercoledì 13 febbraio 2013, giorno in cui il MAXXI (Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo) aveva messo a disposizione una sala. Pochi giorni dopo, però, era arrivato l'improvviso "no" per via di un provvedimento di Giovanna Melandri, presidente del MAXXI (e ministro dei Beni Cultura‐ li durante il Governo Prodi) motiva‐ to dalla campagna elettorale in cor‐
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so, dalle leggi sulla par condicio e dall'inopportunità di mostrare un impietoso film‐documentario sul‐ l'Italia di oggi che contiene, tra l'al‐ tro, anche una lunga intervista a Ma‐ rio Monti. Ma l'Espresso ha deciso di fare ciò che il ministero dei Beni cul‐ turali e i suoi funzionari non si erano sentiti di approvare: proiettarlo, nel‐ lo stesso giorno in cui l'avrebbe do‐ vuto fare il MAXXI. Quindi il primo appuntamento è stato mercoledì 13 febbraio alle 21 al Teatro Eliseo di Ro‐ ma. Dopo la proiezione Bruno Man‐ fellotto ha discusso del film in un di‐ battito in sala insieme allo stesso Emmott e alla regista Annalisa Piras. E lo stesso giorno L’Espresso ha mes‐ so anche a disposizione il download del film. Giovedì 14 febbraio, il film è stato proiettato anche a L'Aquila, cit‐ tà dove l'ex direttore dell'Economist è tornato dopo averla visitata nei giorni del terremoto. La BBC ha ac‐ quistato i diritti del film e lo ha tra‐ smesso proprio durante le elezioni italiane. In Italia lo ha trasmesso solo Sky e La7....Eppure se ne sente parla‐ re troppo poco. Del resto è emblema‐ tico che in Inghilterra il documenta‐ rio è stato trasmesso dalla Tv pubbli‐ ca, mentre in Italia lo hanno fatto so‐ lo due reti private. Un'altra occasio‐ ne persa dalla RAI, in un paese dove il mezzo televisivo è ancora il princi‐ pale veicolo di informazione; non basta dunque dire “tanto su internet si vede”... … ignavia, appunto.
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Girlfriend
Dieci buoni motivi per vedere il film‐documentario 1) Perché non è un film italiano Talvolta scoprire come ci vedono gli altri (in questo caso la stampa estera, e nello specifico un giornalista che si occupa di Italia da molti anni) può aiutarci ad avere un’idea più chiara di noi stessi. Impressiona il riscontro del delta tra il livello dello stupore italia‐ no rispetto a quello molto più alto di un cittadino straniero: per l’Italiano lo scenario rappresentato risulta quasi ordinario, non colpisce più di altri documentari nazionali. 2) Perché è un film molto italiano Emmott decide di analizzare la situa‐ zione italiana con la voce degli Italiani stessi e non Italiani a caso, bensì illustri Italiani. I politici sono ridotti al minimo, come anche i gior‐ nalisti, parlano invece molto gli indu‐ striali e gli intellet‐ tuali, categorie in via d’estinzione, che non portano analisi scon‐ tate, ma lucide e semplici. 3) Perché non giu‐ dica, ma espone i fatti Gli autori dividono il loro viaggio in aspetti negativi ed aspetti positivi, ma non viene raccontata una “favoletta”, bensì si tratta di uno dei più accurati affreschi che qualcuno sia mai riu‐ scito a realizzare di un determinato momento storico del nostro Paese, con una freddezza chirurgica e un’in‐ vidiabile precisione giornalistica. 4) Per ripassare I dati che vengono citati (rapporti sulla libertà di stampa, sulla situazio‐ ne delle donne, sulla criminalità orga‐ nizzata, ma anche ciò che è successo a Genova nel 2001) sono agghiaccian‐ ti. Dovremmo tutti ripassarli, snoc‐ ciolarli come un mantra giorno per giorno per poter cambiare la situazio‐ ne. Così come sono utili da ripassare i versi di Dante, fil rouge dell’intero film. 5) Per capire che non è un film contro Berlusconi Il MAXXI (o meglio, il Ministero per i
Beni Culturali) ha fatto un errore nel rifiutarsi di proiettarlo, a dire della Melandri, per il suo carattere politico in un periodo pre‐elettorale. Chi lo definisce un “film contro Berlusconi” fa una semplificazione stupida: Berlusconi è presente come uno dei grandi protagonisti del film, poiché è stato (ed è ancora) al centro della scena politica Italiana. Non solo a lui, nell’ambito della classe politica, Piras e Emmott muovono delle critiche. La critica più grossa è sottesa e punta a chi ha permesso che gli scandali acca‐ dessero, non a chi li ha perpetrati. 6) Per non perdere la speranza Il lavoro della film‐maker italiana ci mostra spunti che non ci possono lasciare indifferenti. Sono esempi di attività e cambiamento culturale,
sociale, economico in Italia: il pozzo di San Patrizio di Orvieto, le terme di Orbetello, il Teatro Valle di Roma, il Museo del Cinema di Torino, Santa Maria del Fiore, persino l’interno dei Palazzi romani del potere, così come le imprese nate sul territorio di mafia, il Progetto Sud di Lamezia Terme, la 500, la Nutella, Slow Food, gli Italiani che vogliono tornare. 7) Per l’importanza dell’inglese Per sentire gli Italiani che usano l’in‐ glese e quelli che invece non sanno o non vogliono parlarlo.Il fatto che due professori (Umberto Eco e Mario Monti) conoscano l’Inglese, non ci stupisce. Lo stesso si può dire degli industriali delle multinazionali (John Elkann o Sergio Marchionne, Vittorio
Colao o Giovanni Ferrero). Invece altri o lo parlano caratteristicamente (Emma Bonino e Matteo Renzi) o preferiscono non usarlo. 8) Per il seguito Dal film è nato un sito (http://gir‐ lfriendinacoma.eu/). Visitato da migliaia di persone, ha un difficile proposito: coinvolgere. Si può man‐ dare un video YouTube in cui dare il proprio consiglio su come si possa migliorare la situazione italiana, si può vedere il film (opzione aperta solo a chi risiede fuori dall’Italia) e contarne l’elevatissimo numero di proiezioni. 9) Per il Seguito (2). Il finale rimane aperto, perché ognu‐ no lo possa immaginare a proprio pia‐ cimento. 10) Perché l’Italia è una metafora Lo dice chiara‐ mente l’autore nella scena suc‐ cessiva al seg‐ mento sull’Ilva: l’Italia è la dimo‐ strazione di un sistema in gene‐ rale non funzio‐ nante, con “ban‐ chieri cattivi” e “capitalisti catti‐ vi”, esasperati, e con la necessità di cambiare alla luce della storia economica e sociale di quest’ultimo periodo. In conclusione…. Nel caso non possiate o non vogliate vederlo, sappiate che per conoscerne il contenuto è sufficiente, vivendo in Italia, darsi un’occhiata intorno, leg‐ gere, rimanere informati. L’unica realtà descritta infatti dal documen‐ tario è quella in cui oggi viviamo e che solo conoscendo possiamo volere e riuscire a cambiare. Certo il film non può illuminare chi già è ben consape‐ vole della situazione italiana, ma può essere utile a comprenderne i mecca‐ nismi di funzionamento, nei suoi aspetti negativi come in quelli positi‐ vi. E tramite questi ultimi sa dare un esempio della nostra rara operosità.
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Comunismo
Comunismo marxista Chiamiamo comunismo il movimento reale che cambia lo stato di cose presente (Marx)
DI SANDRO RIDOLFI
Il termine “comunismo” ha un’origi‐ ne assai remota e significati differen‐ ti, potendo essere letto sia come “co‐ mune/comunione”, che come “indif‐ ferenza/neutralità”. A partire dall’ 800 il termine comunismo è stato in‐ trodotto, accanto al termine “sociali‐ smo”, nel vocabolario della politica come forma progettuale di governo della società degli uomini. A usare per la prima volta il termine “comu‐ nista” in netta contrapposizione con “socialista” è stato Marx che, com’è noto, nel 1848 scrisse insieme a En‐ gels il “Manifesto del Partito Comu‐
nista”. Da quel momento il termine comunismo è stato indissolubilmen‐ te legato a quello di “marxismo”. Tut‐ tavia è restata, e resta ancora viva, l’utilizzazione del termine comuni‐ smo per identificare un’idea, o me‐ glio un ideale di vita individuale e di società civile genericamente basato su principi, se non di vera e propria eguaglianza, quanto meno di sociali‐ tà, solidarietà o di carità. Si sono così diffusi termini come “catto‐comuni‐ sta”, per indicare una condivisione di principi religiosi cristiani e di gover‐ no sociale, o anche “comunista de‐ mocratico” per indicare una versione del comunismo rispettosa delle indi‐ vidualità soggettive in contrapposi‐
zione con l’asserito totalitarismo di governo e di pensiero tipico dei paesi orientali europei. In verità questa commistione fideistica, idealista e so‐ ciale ha un riferimento più pertinen‐ te con il termine socialista che tutta‐ via, già dall’800, veniva sovente so‐ vrapposto o utilizzato indifferente‐ mente con quello comunista. Ritenia‐ mo opportuno un chiarimento che sciolga equivoci potenzialmente peri‐ colosi o quanto meno fuorvianti. Questa rivista, e in particolare chi scrive, quando parla di comunismo intende riferirsi rigorosamente ed esclusivamente alla definizione scien‐ tifica di “comunismo marxista”, o più compiutamente “marxista‐leninista”
20 La precisazione non è affatto identita‐ ria, nel senso cioè che non vuole indi‐ viduare una “certa” fazione del pensie‐ ro o movimento comunista rispetto al‐ le tante altre versioni, o simil‐versioni, “comunisteggianti”. La precisazione è essenziale per dare il senso concreto e univoco a ogni ragionamento che è sta‐ to fatto o che si farà su qualsiasi argo‐ mento della vita non solo sociale e col‐ lettiva, ma anche individuale e perso‐ nale. Ebbene la precisazione fonda‐ mentale è la seguente: il comunismo marxista NON E’ un ideale, o un’ideo‐ logia, o una filosofia morale; il comuni‐ smo marxista E’ una scienza, un pen‐ siero scientifico che studia e analizzata il passato per interpretare il presente e costruire il futuro. Il comunismo mar‐ xista è la scienza del “materialismo sto‐ rico”, che interpreta la storia attraverso lo studio della sua realtà fattuale, cioè dei “fatti” concreti, e del “materialismo dialettico” che rielabora nel presente la realtà fattuale per modificarla, verso una nuova realtà diversa. Ciò non vuol dire che il comunismo marxista non condivida ideali etici; anzi proprio il progetto della società comunista è quello di una società “giusta” ed “egua‐ litaria”, ma a questo obiettivo ideale il comunismo marxista perviene (perver‐ rà) attraverso una “filosofia della pras‐ si”, attraverso, cioè, l’intervento nella realtà fattuale, perché solo modifican‐ do la realtà materiale può essere modi‐
Comunismo ficata la società presente e avviata la costruzione di quella futura. Torniamo ancora a Marx, alla frase la‐ pidaria, semplice, essenziale e perciò chiarissima, trascritta nel titolo di questo inserto: “Chiamiamo comuni‐ smo il movimento reale che cambia lo stato di cose presente”. Dunque il co‐ munismo marxista è un “movimen‐ to”, un agire dinamico e corale, che “cambia” ‐ non giudica, non idealizza, non moralizza ‐ ma interviene con‐ cretamente nella realtà, cioè nello “stato di cose presente”, per cambiar‐ lo; cambiando lo “stato di cose pre‐ sente”, cioè la realtà fattuale, il comu‐ nismo crea, o almeno va verso, la nuo‐ va realtà, verso la costruzione della nuova società reale e non solo ideale o idealizzata. La realtà è un dato og‐ gettivo che viene tuttavia sempre e da tutti interpretato soggettivamente (“teoria del riflesso”, ci torneremo); occorre quindi che la realtà venga analizzata e interpretata oggettiva‐ mente, spersonalizzando l’angolo di visuale soggettivo, studiandone il suo sviluppo storico materiale e non idea‐ le e, quindi, le sue dinamiche dialetti‐ che con l’attualità concreta. La realtà è piena di contraddizioni, ma le con‐ traddizioni sono il motore della storia e della crescita (ne abbiamo parlato in un altro articolo pubblicato nel nu‐ mero di novembre 2012), il comuni‐ smo marxista studia e si confronta
(tratto dagli scritti di Mao Tze Dong) Noi siamo marxisti e il marxismo ci insegna che, per affrontare un problema, occorre partire non da definizioni astratte, bensì dai fatti oggettivi e determinare per mezzo dell'analisi di questi fatti il nostro orientamento, la nostra politica, i nostri metodi. La filosofia marxista - il materialismo dialettico - presenta due evidenti particolarità: la prima è il suo carattere di classe: essa afferma apertamente che il materialismo dialettico serve il proletariato; la seconda è il suo carattere pratico: essa pone l'accento sul fatto che la teoria dipende dalla pratica, che la teoria si fonda sulla pratica e, a sua volta, serve la pratica. La filosofia marxista considera che l'essenziale non è tanto di capire le leggi del mondo oggettivo per essere in grado di spiegarlo, ma di utilizzare la conoscenza di queste leggi per trasformare attivamente il mondo. Impegnati in lotte varie, nel corso della loro pratica sociale, gli uomini acquistano una ricca esperienza, che traggono dai loro successi come dalle loro sconfitte. Innumerevoli fenomeni del mondo oggettivo si riflettono nel cervello attraverso il canale dei cinque organi di senso - la vista, l'udito, l'olfatto, il gusto e il tatto; così si costituisce, inizialmente, la conoscenza sensibile. Quando è avvenuta una suf-
con queste contraddizioni e, affron‐ tandole nella realtà materiale, cerca di orientarle verso il cambiamento della realtà stessa. Quanto ora detto può sembrare una “elucubrazione” fi‐ losofica, ma in verità il ragionamento è semplicissimo, sostanzialmente in‐ tuitivo come tutto il pensiero scienti‐ fico comunista marxista. Facciamo degli esempi.
ficiente accumulazione di questi dati sensibili, avviene un salto in virtù del quale essi si trasformano in conoscenze razionali, cioè in idee. E', questo, il primo grado del processo generale della conoscenza, il grado del passaggio dalla materia, che è oggettiva, alla mente, che è soggettiva, dall'essere al pensiero. A questo grado, non è ancora dimostrato che la mente o il pensiero (e quindi le teorie, la politica, i progetti, i mezzi scelti per l'azione) riflettano correttamente le leggi del mondo oggettivo; non è ancora lecito stabilire se sono giuste o no. Interviene allora il secondo grado del processo conoscitivo, il grado del passaggio dallo spirito alla materia, dal pensiero all'essere: si tratta allora di applicare nella pratica sociale la conoscenza acquisita nel corso del primo grado, per verificare se le teorie, la politica, i progetti, i mezzi d'azione, ecc. producono i risultati previsti. La storia dell'umanità è un costante movimento dal regno della necessità verso il regno della libertà. Il processo è senza fine. Negli ambiti della lotta per la produzione e della sperimentazione scientifica, l'umanità non smetterà mai di progredire e la natura di evolvere; esse non si fermeranno mai a un certo livello. Così, l'uomo deve fare costantemente il bilancio della propria esperienza, scoprire, inventare, creare e progredire. Gli uomini si servono delle scienze della natura come di un'arma nella lotta per la libertà.
Comunismo Togliatti e Berlinguer alzano lo stendardo del PCUS
Il comunismo marxista afferma il dirit‐ to naturale dell’essere umano alla sa‐ lute, ma sa che per realizzare questo diritto occorrono strutture sanitarie, personale professionale e fabbriche di medicinali e di apparecchi medicali in genere. Per assicurare il diritto alla sa‐ lute occorre dunque creare i mezzi e gli strumenti ora descritti; per fare ciò occorrono però risorse economiche,
occorre produrre ricchezza perché da questa possano essere prelevate le ri‐ sorse necessarie alla creazione di un si‐ stema sanitario universale ed efficien‐ te. I comunisti marxisti non si soffer‐ mano quindi sull’affermazione mora‐ le/ideale del diritto alla salute che, la‐ sciata da sola, sarebbe una pura enun‐ ciazione retorica, ma operano per la produzione della ricchezza che costi‐
Al fine di conquistare la loro libertà sul piano sociale, si servono delle scienze sociali per comprendere la società, per trasformarla e por mano alla rivoluzione sociale. Al fine di conquistarsi la libertà nella natura, si servono delle scienze della natura per studiarla, per domarla e trasformarla, e così otterranno la libertà dalla stessa natura. Tale è la teoria marxista della conoscenza, la teoria materialistico-dialettica della conoscenza. Chiunque voglia conoscere un fenomeno non vi riuscirà senza mettersi in contatto con esso, cioè senza vivere (dedicandosi alla pratica) nel centro stesso di questo fenomeno. Se si vogliono acquistare conoscenze, occorre partecipare alla pratica che trasforma la realtà. Tutte le conoscenze autentiche derivano dall'esperienza immediata. La conoscenza comincia con la pratica; quando, attraverso la pratica, si sono acquistate conoscenze teoriche, occorre tornare alla pratica. Il ruolo attivo della conoscenza non si esprime soltanto nel salto attivo dalla conoscenza sensibile alla conoscenza razionale, ma, cosa ancora più importante, deve anche esprimersi nel salto dalla conoscenza razionale alla pratica rivoluzionaria. Nessuno ignora che, a qualunque cosa ci si accinga, è impossibile conoscere le leggi che la governano, sapere come realizzarla e condurla in porto senza comprenderne le condizioni, il carattere e i rapporti con le altre cose. Se si vogliono conseguire
21 tuisce il primo passaggio presupposto alla successiva ripartizione della ric‐ chezza prodotta in misura da ricavare le risorse necessarie alla creazione del‐ le strutture sanitarie (ospedali, scuole e università, fabbriche, ecc.). Allora, e solo allora, sarà “materialmente”, cioè concretamente, realmente, possibile soddisfare il diritto naturale e univer‐ sale alla salute. Ancora un esempio, più semplice e apparentemente (alme‐ no apparentemente) di più facile rea‐ lizzazione. Se vogliamo che i nostri bambini (e noi stessi, perché no!) viva‐ no in un ambiente più sano e vivibile, occorre difendere, ma anche curare e incrementare il “verde” (inteso nel senso più ampio, dai giardini delle scuole e delle città, ai boschi naturali, ai corsi d’acqua, alle spiagge, all’aria, ecc.). Proteggere, curare, incrementa‐ re il verde ha un costo, spesso notevo‐ le, richiede competenze, mezzi, spazi, ecc. Per rendere reale questo diritto occorre trovare le risorse economiche, altrimenti sarebbe come enunciare una immensa sciocchezza come “Foli‐ gno città denuclearizzata” (perché in questa città l’atomo non c’è mai stato, né ci sono i minimi presupposti perché un’attività atomica si sviluppi in que‐ sto contesto, nel mentre, e lo abbiamo vissuto, un atomo impazzito in Bielo‐ russia può arrivare tranquillamente si‐ no alla nostra bella città, a quel punto, “ex” denuclearizzata).
successi nel proprio lavoro, se si vogliono cioè ottenere i risultati previsti, bisogna fare in modo che le proprie idee corrispondano alle leggi del mondo oggettivo; se ciò non avviene, nella pratica si fallisce. Il metodo di lavoro fondamentale, che dev'essere ben chiaro alla mente di tutti i comunisti, consiste nel determinare la linea da seguire in base alle condizioni reali. Non c'è al mondo nulla di più comodo che l'atteggiamento idealistico e metafisico, poiché esso permette di asserire qualunque cosa, senza tener conto della realtà oggettiva e senza sottoporsi alla verifica da parte della stessa. Al contrario, il materialismo e la dialettica esigono sforzi; esigono che si parta dalla realtà oggettiva, che ci si sottoponga al suo controllo. Se non si compiono sforzi, si rischia di scivolare nell'idealismo e nella metafisica. Ogni cosa, dobbiamo coglierla nella sua sostanza e dobbiamo considerarne le manifestazioni esterne soltanto come la strada che conduce alla porta di cui occorre oltrepassare la soglia per penetrare veramente la sostanza della cosa. E' questo l'unico metodo di analisi che sia sicuro e scientifico. La causa fondamentale dell'evoluzione delle cose e dei fenomeni non è esterna, bensì interna; essa sta nelle contraddizioni interne delle cose e dei fenomeni stessi. Ogni cosa, ogni fenomeno implica certe contraddizioni, da cui procedono il suo movimento e la sua evoluzione.
22 Per difendere il “verde” bisogna pro‐ durre la ricchezza sufficiente a liberare le risorse economiche necessarie da in‐ vestire, appunto, nel verde. Questa at‐ tività produttiva di ricchezza può en‐ trare in conflitto con la difesa del verde e generare una contraddizione (vedi l’articolo sopra citato), ma non affron‐ tare e non confrontarsi in concreto, cioè nella realtà fattuale, con questo problema, quando non è pura ipocrisia di chi sa le sciocchezze che dice ma le dice lo stesso perché con quelle “ci campa”, significa rinunciare a monte al progetto della difesa del verde per la vi‐ ta. Essere comunista marxista significa dunque affrontare la realtà materiale senza dogmi, preconcetti, o inutili e re‐ toriche (spesso, come detto, sfacciata‐ mente ipocrite) enunciazioni idealisti‐ che. Denunciare un problema, qualun‐ que tipo di problema per dimensione o gravità, se non viene seguito dalla pro‐ posta concreta per la sua eliminazione, o almeno per il percorso (per quanto lungo esso sia comunque da avviare) per il suo superamento, non serve a nulla, e meglio: non è politica, perché la “politica” è la scienza che governa i processi sociali per rendere la società sempre più giusta in concreto, nella re‐ altà materiale. Con quali metodi agire il marxismo non ne da un “catalogo” chiuso e perfetto, al contrario, proprio perché il marxismo è una scienza, per sua natura è in costan‐
Comunismo te evoluzione nel tempo e nello spazio, come ci ha insegnato Stalin quando ha affermato: “Nel suo sviluppo il marxi‐ smo non può non arricchirsi di nuove esperienze, di nuove conoscenze, e per‐ tanto le sue singole formule e conclusio‐ ni non possono non mutare nel corso del tempo, non possono non essere sostitui‐ te da nuove formule e conclusioni, corri‐ spondenti ai nuovi compiti storici.”. Le risposte, gli approcci e le soluzioni deb‐ bono essere dunque trovate, elaborate e sperimentate caso per caso, luogo per luogo, tempo per tempo. Una premes‐ sa, forse un po’ lunga e prolissa, voluta‐ mente “elementare”, ma essenziale per spiegare il senso scientifico e culturale dell’approccio comunista marxista al‐ l’azione politica, che potremmo così concludere: quando si trova ad affron‐ tare una questione (qualsiasi: piccola o grande, sociale o personale) un comu‐ nista marxista non si pone il problema se sia “bella o brutta”, “giusta o ingiu‐ sta”, “migliore o peggiore” e via dicen‐ do, queste sono valutazioni come dire presupposte che appartengono alla mo‐ rale intrinseca dell’essere comunista, il problema che il comunista marxista si pone è come risolvere, gestire, control‐ lare, cambiare, ecc. la questione che si è posta, in concreto, nella vita reale, ma‐ terialmente, senza pregiudizi, schemi o dogmi. Questo atteggiamento politico può apparire e spesso è stato accusato di eccesso di pragmatismo, ovvero di
Queste contraddizioni, che ineriscono alle cose e ai fenomeni, sono la causa fondamentale della loro evoluzione, mentre il loro reciproco legame e la loro azione reciproca ne sono soltanto le cause seconde. La dialettica materialista ritiene che le cause esterne costituiscono la condizione delle trasformazioni, che le cause interne ne sono la base, e che le cause esterne operano tramite le cause interne. La filosofia marxista ritiene che la legge dell'unità dei contrari è la legge fondamentale dell'universo. Questa legge agisce universalmente, nella natura come nella società umana e nel pensiero umano. Tra i termini opposti della contraddizione c'è insieme unità e lotta; anzi è proprio questo che spinge le cose e i fenomeni a muoversi e a trasformarsi. Il metodo analitico è il metodo dialettico. Per analisi s'intende l'analisi delle contraddizioni che ineriscono alle cose e ai fenomeni. Se non si conosce bene la realtà della vita, se non si comprendono veramente le contraddizioni in causa, è impossibile eseguire un'analisi ragionevole. L'analisi concreta di una situazione concreta, ha detto Lenin, "è la sostanza stessa, l'anima vivente del marxismo." Dobbiamo esaminare un problema da diversi punti di vista, non da uno solo. Essere superficiali significa non tenere conto delle particolarità della contraddizione nel suo insieme, né delle particolarità di
opportunismo compromissorio e, a vol‐ te, di ambedue i difetti in relazione allo stesso argomento visto da differenti punti di vista. La concretezza non è un difetto e il compromesso, se non impli‐ ca rinuncia ai principi, spesso è neces‐ sario. Se l’obiettivo è prendere il topo, occorre un gatto e allora “non importa il colore del gatto, l’importante è che pren‐ da il topo” (Deng Xiaoping). Se c’è da af‐ frontare un problema bisogna trovare i mezzi, tutti i mezzi, per risolverlo. Se manca il lavoro, occorre creare lavoro, poi ci saranno case, ospedali, scuole e anche campi sportivi, cinema, discote‐ che, e tutto quello che si ha diritto di desiderare per vivere al meglio la pro‐ pria vita, ora, in questa terra e vita.
ciascuno dei suoi aspetti, negare la necessità di andare in fondo alle cose e di studiare minuziosamente le particolarità della contraddizione, accontentarsi di guardare da lontano e, dopo un'osservazione approssimativa di qualche aspetto superficiale della contraddizione, tentare immediatamente di risolverla. Un simile modo di procedere comporta sempre conseguenze dannose. Pur riconoscendo che nel corso generale dello sviluppo storico ciò che è materiale determina lo spirituale, l'essere sociale determina la coscienza sociale, riconosciamo anche e dobbiamo riconoscere l'azione di ritorno dello spirituale sul materiale, della coscienza sociale sull'essere sociale, della sovrastruttura sulla base economica. Facendo questo, non contraddiciamo il materiale, bensì, evitando di cadere nel materialismo meccanicistico, ci atteniamo fermamente al materialismo dialettico. Non basta fissare i compiti, bisogna anche risolvere il problema dei metodi che permettono di realizzarli. Supponiamo che il nostro compito sia di attraversare un fiume; non lo realizzeremo senza ponti né barche; fino a quando la questione del ponte o delle barche non sia risolta, a cosa serve parlare di attraversare il fiume? Fino a quando la questione dei metodi non sia risolta, discorrere sui compiti non è che un chiacchierare inutile.
Brasile
Quel diavolo (gabbato) di un Burattinaio
Antigamente, em maio, eu virava anjo. A mãe me punha o vestido, as asas, me encalcava a coroa na cabeça e encomendava: "Canta, espevita as palavras bem." Eu levantava vôo rua acima. (Adélia Prado, "Verossímil")
Un tempo, a maggio, io diventavo angelo. La mamma mi metteva il vestito, le ali, mi infilava la corona sulla testa e raccomandava: "Canta, spiccica bene le parole." Io mi alzavo in volo strada facendo. ((Adélia Prado, "Verosimili")
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Brasile
Il gioco inarrestabile di maschere e burattini: il “Mamulengo” DI TÉKA DE OLIVEIRA LIMA E SARA MIRTI
Un detto napoletano definisce la vita nulla più che "un affacciarsi alla fine‐ stra", un evento breve e quasi casuale, mediato nel proprio svolgersi dalla fi‐ nestra stessa, e cioè da un oggetto che consente contemporaneamente tanto di osservare quanto di essere osservati. In realtà non esiste una sola finestra nella vita di ogni essere umano, così come non esiste un solo modo di guar‐ darci attraverso, o un solo modo di es‐ sere; così come non esiste una sola vi‐ ta. Se esiste più di una vita, natural‐ mente, non possono che esistere mol‐ teplici maschere per ciascuna di esse. "La presenza della maschera […] è ap‐ parsa sempre, comunque, sotto qua‐ lunque latitudine, connaturata all'uo‐ mo: un uomo che, nella non facile ten‐ sione bipolare fra 'natura' ed 'esisten‐ za', più che portatore di una maschera […] si è rivelato facitore di se stesso co‐ me maschera; intermediario fedele, attraverso il proprio corpo‐maschera,
del percorso non agile che conduce al‐ l'Alter‐Ego, consentendo all'altro il passaggio fondativo alla relazione dua‐ le". Per essere compresa, ogni masche‐ ra ha bisogno di essere contestualizza‐ ta in uno "scenario narrativo", declina‐ ta in un lessico comune, magari quello "dell'estasi o del dolore, dell'alienazio‐ ne psicotica o della possessione"; poi‐ ché il “lessico comune del dolore” è proprio il “lessico entro cui la masche‐ ra rappresenta il primo gradino per passare dal corpo all'idea, per rendere transitivo e socializzabile il pathos in‐ dividuale" che la ragione, spesso, non riesce a calmare. Attraverso l’uso delle maschere, insomma, anche il corpo più sofferente, il più emarginato, il più mal ridotto, il più delirante e fuori con‐ trollo può liberarsi, uscire dalla propria ristretta, sia pure essenziale, condizio‐ ne somatica e, una volta oggettivata ogni singola pena e universalizzata la "fatica rituale" di ciascuno, "tornare ad essere corpo vissuto e mondanizzato", riassorbito nel tessuto narrativo collet‐ tivo, minacciato fin dalle sue origini da una "follia sempre tragica e sempre re‐
citata". Ora, a causa del nostro tanto discusso quanto impotente "monotei‐ smo della coscienza", la maschera è stata "desacralizzata, sottratta al 'fasci‐ no discreto' del suo farsi narrativo, lai‐ cizzata nella pratica simulatoria del ge‐ sto quotidiano", frantumata "nelle molteplici ansie mondane" di noi tutti uomini e donne dell'Era contempora‐ nea. "Rimane che l'illusione di aver li‐ berato la nostra cultura dalla tutela della maschera, dalle sue ipoteche e dalle sue ipostasi, non riesce ad elude‐ re il problema, tutto antropologico, della persona in homine" (B. Callieri; L. Faranda, "Medusa allo specchio. Ma‐ schere fra antropologia e psicopatolo‐ gia, Edizioni Universitarie Romane, Roma 2001, pp. 9 ss). La maschera è dunque una creazione universale, vo‐ luta da uomini e dèi e dovuta alla co‐ mune esigenza di trovare un'interme‐ diazione materica tra il mondo reale e quello soprannaturale, un oggetto esemplare di memoria assoluta, un fe‐ ticcio, vale a dire "un oggetto mediato‐ re, come lo hanno definito i teorici, in quanto attesta con la sua materialità
Brasile incontrovertibile l’effettività di un evento" (M. Fusillo, "Feticci. Lettera‐ tura, cinema, arti visive", il Mulino, Bologna 2012, p. 78), un proprio dop‐ pio dal volto figé, così come figé è il tempo della maschera (analogo al tempo figé degli schizofrenici descrit‐ to da C. Le Guen). La maschera, al pari di uno specchio, non lusinga, e se si trova a dissimulare il volto che vi si ri‐ flette è solo per svelarlo meglio, per chiarirne gli enigmi più nascosti. A differenza del "trucco" che gradual‐ mente, ingannando lo sguardo, finisce per esiliare il volto lontano da se stes‐ so, rettificandone le caratteristiche fi‐ siche fino a cancellarne la presenza peculiare, la maschera sa farsi "carne", non solo pietra, legno, stoffa o pittura, non solo, cioè, materiale apparente‐ mente inerte e finito, ma corpo vero e proprio, un corpo "segnato" che tutta‐ via non ha perduto la propria integri‐ tà. Ma, ugualmente, se tutto si esau‐ risse nell'integrità di un oggetto‐cor‐ po, allora il gioco delle maschere sa‐ rebbe soltanto uno sforzo inutile, qualcosa di assimilabile, secondo le categorie divulgate da Pietro Ubaldi, al suicidio tentato dallo spirito che si getta nell’abisso della materia. Ogni segno è una vittoria della vita e del sé: esiste un segno per ogni vittoria con‐
seguita dai corpi‐maschera sull'oblio e sulla morte, e se s’indossa una masche‐ ra è sempre per festeggare tale vittoria, propria o altrui. "La maschera è la fic‐ tion più vera del vero, è ‐ nel vasto ven‐ taglio delle sue forme ‐ un immenso museo dell'immaginario. Con essa io rompo la continuità, la coerenza, la raison, che scandiscono e convoglia‐ no la vita umana" (B. Callieri; L. Faran‐ da, "Medusa allo specchio. Maschere fra antropologia e psicopatologia", cit., p. 13). Ogni maschera rischia però di sciogliersi nell'agonia di un trucco, di mostrare il doppio volto della verità e dell’inganno. Quanto detto per una nozione generale di maschera può senz'altro essere applicato alle bocche ampie, sproporzionate, mobili, colora‐ te con tonalità accese oppure cadave‐ riche dei burattini e ai loro gesti, rigi‐ damente meccanici oppure dinoccola‐ ti. Gli sguardi fissi, a volte vuoti di que‐ sti esemplari di umanità in miniatura sembrano volerci riproporre il proble‐ ma dell'esistenza di uno sguardo puro, "staccato dall'occhio". "Prima che cia‐ scuno di noi si ponga di fronte al mon‐ do per osservarlo, ipotizza Lacan, vi è un gioco di sguardi nel quale noi siamo già da sempre catturati. Capovolgendo l'usuale punto di vista, secondo cui lo sguardo del soggetto ordina il mondo
25 ridotto ad oggetto della visione, Lacan identifica nello sguardo dell'altro il punto di sutura dell'identità soggetti‐ va: abbeverandosi a quella fonte, spes‐ so oscura ed inquietante, il soggetto infatti riceve ciò che gli manca per es‐ sere tale […]. Ma è chiaro che in tale processo è implicata anche una perdi‐ ta, poiché nell'essere attratti da questo sguardo, o meglio dal fascino che da esso promana, sperimentiamo una mancanza di fondo, l'impossibilità di una completa padronanza di noi stes‐ si" (G. Leghissa, Introduzione, in R. Caillois, "L'occhio di Medusa. L'uomo, l'animale, la maschera", Raffaello Cor‐ tina Editore, Milano 1998, p. XIX). Ma perché ci stupiamo di non avere la completa padronanza di noi stessi? Come recitava una poesia, persino il vento sul viso è solo un sogno ("[…] pai, / o vento no rosto / é sonho, sa‐ bia?" ‐ Ferreira Gullar, "Internação"; "[…] babbo, / il vento sul viso / è sogno, lo sapevi? ‐ Ferreira Gullar, "Ricove‐ ro"). Il Mamulengo (la "mão molenga" è la mano di stoffa, "morbida", con cui si manovrano i burattini), parola dal suono definito "africano", incarna alla perfezione tanto l'esigenza dei burat‐ tini di sentirsi vivi, quanto il bisogno dei burattinai di superare i limiti della propria identità per abbracciarne di
26 volta in volta una diversa. Si tratta infatti di una forma di teatro popolare tipico del Nordeste brasiliano, e in particolare di Pernambuco, ma esiste con nomi di‐ versi anche a Paraiba (João Redondo), Rio Grande do Norte e Cearà (Casimiro Côco). I burattinai sono "os bricantes" (i giocatori) e lo spettacolo è "uma brica‐ deira" (un gioco). Bianchi, neri, amerin‐ di, meticci, gialli, uomini, donne, ricchi proprietari terrieri o poveri vaccari, sol‐ dati o banditi, vedove o ragazze da ma‐ rito, ubriachi o dottori, esseri reali o im‐ maginari: sono tutti parte di un insieme indivisibile, nonostante le reciproche differenze etniche e sociali, tutti ugual‐ mente indispensabili. Scompaiono sulla scena che, sola, definisce uno spettaco‐ lo, e poi riappaiono: sono tutti eterna‐ mente "di passaggio", poiché hanno ac‐ cesso a una dimensione mitica interdet‐ ta agli esseri umani. La soggettività, umana ma potente, del burattinaio per‐ mette attraverso un'assenza apparente, che sembra presa in prestito dal Dio giu‐ daico dell'Antico Testamento, l'espres‐ sione dei singoli personaggi, l'esaltazio‐ ne delle loro caratteristiche individuali che passano sostanzialmente inalterate da un mamulengueiro a un altro, quasi che ogni "mestre" si lasciasse possedere dai suoi “figli” di legno e stoffa in peren‐ ne movimento. Pur avendo avuto una probabile origine, tra VII e VIII secolo, dai cicli della Natività, portati nel Nuovo Mondo dai Gesuiti, la struttura dram‐ matica del Mamulengo ha anche molti punti di contatto con la Commedia del‐ l'Arte. E, oltre quella italiana, non man‐ cano derivazioni spagnole: pare che molti spettacoli, feste e liturgie venisse‐ ro organizzati su navi simili a caravelle, e che, quindi, non potendo liberare un toro vero tra la folla, i marinai fossero soliti costruirne uno di paglia che, pro‐ prio come un toro vero, inseguiva gli uo‐ mini sul ponte per poi venire ucciso. Non a caso, nella struttura narrativa del Bumba‐meu‐boi nordestino vi è la mor‐ te (il sacrificio del bue), la comunione (della carne e del sangue del bue), e la resurrezione dell'animale: tutto come si trattasse di una liturgia cristiana. Inoltre i gruppi di burattini vengono rappresen‐ tati mentre cantano e lavorano, e nean‐ che questo può essere un caso: una stes‐ sa influenza, derivante dal teatro dei bu‐ rattini africano, accomuna il Mamulen‐ go e il teatro dei burattini napoletano. Si pensi a Pulcinella e alle sue caratteristi‐ che di "spicopompo". D'altra parte, Pul‐
Brasile cinella, quasi fosse con‐ sapevole di questa sua universalità, "non si vuol sollevare mai al di sopra […] del suo prossimo a cui vuol mantenersi si‐ mile facendosi imitazio‐ ne dell'uomo vivente, oscillante per incertezze e dubbiosità, nella con‐ sapevolezza che ogni re‐ altà, anche la propria, ha sempre due facce […]. Su di un solo punto Pulci‐ nella è irremovibile, in‐ tollerante e settario, quando si schiera decisa‐ mente da una parte sol‐ tanto: sempre e comun‐ que dalla parte della vita contro la morte, l'unica realtà che non ha dop‐ piezza, che non consente possibilità, che non esi‐ ste come doppio […]" (F. C. Greco, a cura di, "Pul‐ cinella. Una maschera tra gli specchi", Edizioni Scientifiche italiane, Napoli‐ Roma 1990, p. 253). Tornando al Mamu‐ lengo, ogni "mestre" può possedere più di cento marionette e sono molti i perso‐ naggi che potrebbero presentarsi da soli: c'è Benedito, un bandito, sbruffone e donnaiolo, Maria Bonita ("Acorda Maria Bonita. Levanta vai fazer o café. O dia já vem raiando e a menina já está em pé"; "Svegliati Maria Bonita, alzati e vai a pre‐ parare il caffè, perché già inizia a fare chiaro e la ragazza si è già alzata"), “o Diabo", il Diavolo (spesso vittima del protagonista, il povero vaccaro, che rie‐ sce a tirare colpi bassi tanto alla polizia, quanto ai ricchi proprietari terrieri che al Diavolo stesso): "Io sono José Luzbel Tu‐ fa Sono nato là nel fondo , più in fondo di quel che pensi. Io nacqui dentro di voi, Capisci? Io sono il vostro specchio, io vivo proprio dentro di voi. Mi piace uscire dal fondo delle persone così tutti si possono vedere. Devono guardare lo specchio e trovarmici dentro, che io sto lì, al fondo. Quando sono nella valigia io sto quieto, sto fermo. E' quando esco e mi metto sulla mano che divento Diavo‐ lo. E' stato Solon a farmi, Solon era un uomo dannato, dan‐na‐to! Un uomo che non aveva paura di nulla, aveva più pau‐ ra dei vivi che dei morti […]" (G. Cossu; D. Celina, "Mamulengo. Teatro popolare di burattini in Brasile. Con DVD", Titivil‐ lus, Corazzano, Pisa, 2008 p.121). Poi c'è
"o Bebedo", l'ubriaco che forse spiega meglio di tutti gli altri quello che per i brasiliani, a prescindere dall'apparte‐ nenza etnica o sociale, è una certezza: l'esistenza di un unico, lunghissimo, in‐ finito spettacolo, l'esistenza di più vite parallele al proprio presente, costante‐ mente in evoluzione. L'ubriaco, proprio come le baccanti greche vuole inebriarsi, vuole dimenticare tutto fuorché la pro‐ pria ubriachezza: egli ha perso il proprio certificato di nascita e ormai risponde ad ogni nome (Zé, Antonio…), non ha casa, non ha radici, non ha nulla da perdere, ma può vagabondare in qualsiasi vita e magari approdare dove nemmeno il più eroico tra i poveri vaccari o il più pingue dei possidenti bianchi riuscirebbe ad ar‐ rivare. L'ubriaco sa fare quello che poi dovremmo imparare a fare: oltrepassare i limiti del nostro "io", cambiare prospet‐ tiva, accettare di essere di passaggio at‐ traverso le nostre scene. Le anime non cessano di esistere dopo la morte e an‐ che le maschere, una volta riposte, pos‐ sono essere riportate a nuova vita. La prospettiva si ribalta: le anime continua‐ no ad operare, a sperimentare, a parlare a relazionarsi, cercando di continuo nuovi burattinai che le presentino al pubblico, senza mai mescolarsi ad esso, ma continuando a “passare”, a transitare tra la realtà e l’immaginario, tra l’univer‐ so corporeo e quello emozionale, inca‐ paci di fermarsi in alcun luogo.
Tolleranza
Fragola e Cioccolato
“Ci siamo conosciuti proprio qui, da Coppelia, in una di quelle gior‐ nate in cui uno non ha la più pallida idea di che fare dopo la meren‐ da, se bighellonare in su o bighellonare in giù per la strada. Si è av‐ vicinato al mio tavolo, e mormorando: <Posso?> si è seduto di fron‐ te con le sue borse, le sue cartelle, l’ombrello, i rotoli di carta e la coppa di gelato. Gli ho gettato un’occhiata: non c’era bisogno di es‐ sere un’aquila per capire che razza di tipo era; e comunque, c’era il gelato di cioccolato e lui aveva preso quello di fragola”
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Tolleranza
Un film sulla tolleranza, l’amicizia e l’accettazione della diversità L'Avana 1979, trent'anni dopo il trionfo della rivoluzione castrista. David, militante dell'Unione dei Giovani Comunisti, si imbatte in Diego, un omo‐ sessuale che ostenta la propria scandalosa diversità e lo accomuna alle opere d'arte e alle manifestazioni culturali avversate dalle autorità. Tra pregiudizi pubblici e pregiudizi privati, non ci si aspetterebbe granché da questo in‐ contro. E invece quella che si sviluppa tra David e Diego è una brillante sto‐ ria di amicizia e di tolleranza: una storia che non a caso, nelle diverse forme che ha già assunto (prima il racconto, poi le numerose riduzioni teatrali, in‐ fine il film), è diventata una vera e propria bandiera della resistenza a tutte le intolleranze. Orso d'argento a Berlino, candidato all’Oscar per il miglior filma straniero, tratto da un racconto di Senel Paz, è il primo film cubano che trova distribuzione sul mercato italiano con la Bim di De Paolis.
Trama David, uno studente cubano militan‐ te castrista, che identifica gli omoses‐ suali come "spie del capitalismo", re‐ duce da una recente delusione amo‐ rosa con la disinibita Vivian ‐ a caccia unicamente di sesso e denaro ‐ viene avvicinato, mentre si trova sconvolto e amareggiato in un bar, da Diego, un intellettuale in procinto di allestire una mostra d'arte, che cerca di ade‐ scarlo con smaccati atteggiamenti omosessuali. David rifiuta infastidito.
Poi, attratto dalla possibilità di legge‐ re opere d'autore, proibite dal regime, e ascoltare musiche altrettanto intro‐ vabili, comincia a frequentare Diego e a restare affascinato, non certo dalla sua realtà di gay, quanto dalla sua cul‐ tura di "libero pensatore" nei con‐ fronti del castrismo, costrittivo e acri‐ tico, in cui è cresciuto. Per non com‐ promettersi di fronte alla cultura chiusa e discriminatoria dell'isola, David esige da Diego di ritenerlo in pubblico uno sconosciuto, di non ri‐ volgergli il saluto e di non infastidirlo,
neppure in privato, con vezzeggiativi effeminati. Per il resto lo tratta da pa‐ ri, seppur con crescente ammirazione per la varietà e l'anticonformismo dei suoi interessi culturali, l'ospitalità, l'assenza di avidità di denaro, la cor‐ dialità disinteressata nei confronti di Nancy, una vicina di casa, ufficial‐ mente "vigilante" per conto del regi‐ me, in realtà delusa dall'ideologia e in preda a momenti depressivi che la portano a tentativi di suicidio. Da uno di questi tentativi viene salvata pro‐ prio da Diego e David, che si fa dona‐ tore di sangue al Pronto Soccorso per richiamarla in vita. Indotta dallo stes‐ so Diego, Nancy ‐ che si è affezionata a David ‐ gli offre la prima esperienza sessuale, che lo libererà dalla cocente delusione procuratagli da Vivian, ma anche dalle limitazioni imposte in pubblico a Diego, fino a testimoniar‐ gli con un virile abbraccio la propria amicizia, quando questi decide di la‐ sciare Cuba, per sottrarsi alla persecu‐ zione politica per la propria condizio‐ ne di "diverso".
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Tolleranza Critica
Uno sguardo sincero, complesso, com‐ passionevole, privo di patetismi o peg‐ gio ancora di semplicistica propagan‐ da anticomunista sulla Cuba degli an‐ ni '70, attraverso gli occhi di due giova‐ ni. Ma soprattutto la storia di un'ami‐ cizia tra due uomini, intrisa di conflitti e di pregiudizi, di un rapporto spigolo‐ so che riesce a limarsi a poco a poco solo al calore delle buone letture (John Donne, Dostoevskij, Vargas Llosa) e a sciogliersi alla dolcezza infinita del bel canto (la voce della Callas e le musiche di Cervantes). Infine una storia di for‐ mazione che segue il percorso altale‐ nante e tortuoso della seduzione. Pa‐ cato, sentimentale, introspettivo, lon‐ tano dalla vena tumultuosamente me‐ taforica di certa cinematografia suda‐ mericana, spesso debordante e fracas‐ sona, Fragola e cioccolato di Tomás Gutiérrez Alea e Juan Carlos Tabio è un film di denuncia, senza tuttavia portare il paraocchi al contrario, che non va quindi pedantemente a senso unico, che non sputa sentenze senza aver prima messo sul piatto della bi‐ lancia non tanto i pregi e i difetti di una società nata con il desiderio di im‐ piantare un'impossibile felicità terre‐ na, quanto le illusioni e il conseguente disincanto di tale aspirazione e di tale sogno collettivo. Dell'ubriacatura del comunismo Fragola e cioccolato da un ritratto dialettico e sfaccettato, che si struttura narrativamente grazie all'in‐ contro dei due protagonisti, il gay Die‐ go, vera e propria checca disi‐ nibita e senza più illusioni, e l'universitario David, rivolu‐ zionario goffo, innamorato impacciato, iscritto al movi‐ mento giovanile, senza rinun‐ ciare a mettere in ridicolo sia le vuote convenzioni formali sia gli stupidi preconcetti ses‐ suali che ancora vergognosa‐ mente persistono in una so‐ cietà nata nel segno del‐ l'uguaglianza e del rispetto della giustizia umana come a priori fondativi. Il gelato alla fragola che lo sfrontato Diego preferisce al cioccolato, sim‐ bolo della virilità, è allora un modo curioso per aprire una riflessione sull'arte (indicati‐ ve le statue di carattere reli‐ gioso rifiutate dal Governo) tuttora vista come potenziale
sovvertitrice di un mondo rigidamente saldato attorno a principi indiscutibili e sull'eros, entrambi vettori di "diver‐ sità" ostacolata dal regime. Il cioccola‐ to invece rappresenta non tanto ciò che è, l'esistente, in sé irrappresenta‐ bile da un unico punto di vista, ma co‐ me quest'ultimo viene visto e sofferto da un ragazzo pieno di illusioni e di speranze che ancora crede nel sogno di un mondo perfetto. L'abbraccio fi‐ nale tra i due giovani, oltre a sancire un'amicizia diventata adulta, scopre le paure, le debolezze e le difficoltà insite anche nella diversità più convinta e ostentata. Saltando a pié pari la Cuba in "esterni", che altro non sono che luoghi deputati di un'isola formato Al‐ pitour, Alea e Tabio piombano all'in‐ terno del salotto popolare e colorato di Diego, introducendoci così nel tempio sgangherato (animato non a caso di sculture religiose) profumato e colto di un frocio fiero di esserlo. Ninnoli, cianfrusaglie, fotografie scolorite, ri‐ cordi sbiaditi dal tempo, ritratti, po‐ ster di Marilyn dietro la porta: tutto l'armamentario kitsch, specchio della diversità più sbandierata, compresa un'amica del cuore ciclotimica (che non mancherà di aprire le porte del sesso all'inesperto David) sono presen‐ ti all'appello in questa polverosa tana cubana. Un film così vero e così verista nel suo essere leziosamente ironico, non può che godere del nostro rispetto e della nostra stima. Libertario. (Elena Martinelli)
Regista
Tomas Gutierrez Alea, figlio di un ma‐ gistrato, da giovane si iscrive al Partito Socialista Popolare (PSP) per il quale realizza dei filmati in 8mm a carattere umoristico e propagandistico. Dopo essersi laureato in giurisprudenza, si trasferisce a Roma dove, insieme a Ju‐ lio Garcia Espinoza, frequenta il Cen‐ tro Sperimentale di Cinematografia. Tornato in Patria nel 1954, diventa uno degli elementi di spicco del gruppo di intellettuali 'Nuestro Tiempo' che si oppone alla dittatura di Batista. Dopo che il suo corto 'El megano' ('La duna', 1956) incappa nella censura, passa at‐ tivamente nelle file castriste per le quali gira brevi reportages per il cine‐ giornale dell'opposizione 'Cine Revi‐ sta'. Dopo aver fondato la sezione ci‐ nematografica della Direzione cultu‐ rale dell'esercito ribelle ed aver girato diversi documentari, nel 1960 firma il suo primo lungometraggio, 'Storia del‐ la rivoluzione'. Dopo 'La morte di un burocrate' (1966), nel 1968 realizza 'Memorie del sottosviluppo' che vince diversi premi in festival di tutto il mondo. Nel 1975 dedica 'L'ultima cena' alla resistenza degli schiavi negli nella Cuba del secolo scorso. Il suo film più importante resta 'Fragola e cioccolato' che vince l'Orso d'Oro al Festival di Berlino e viene candidato al premio Oscar come miglior film straniero nel 1995. Il suo ultimo film, 'Guantamera', viene presentato in concorso alla Mo‐ stra del Cinema di Venezia del 1995.
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Cinema Cubano
Una scuola di cinema di livello mondiale che affonda le sue radici nel neorealimo italiano
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l primo gennaio del 1959 l'esercito di guerriglieri comandato da Fidel Castro entrò all'Havana. L'America Latina aveva così assistito alla sua prima rivoluzione dopo la seconda guerra mondiale. In poco tempo Ca‐ stro nazionalizzò l'economia. Cuba si dette un ordinamento socialista, allineandosi all'URSS, politica che si consolidò in seguito all'embargo de‐ gli Stati Uniti, dopo il fallimento, nel 1961, dell'invasione della Baia dei Porci appoggiata da John F. Kenne‐ dy, e dopo la crisi provocata dai mis‐ sili sovietici nel 1962. Per buona par‐ te del Terzo Mondo Cuba divenne il simbolo della rivoluzione antimpe‐ rialista. Il cinema contribuì a creare un nuovo stile di vita cubano. In campo artistico, la prima mossa fu la creazione, nel 1959, dell'Instituto Cubano del Arte y Industria Cine‐ matograficos (ICAIC). Guidata da Alfredo Guevara, l'ICAIC divenne il fulcro della nuova cultura cinemato‐ grafica cubana. Nel 1960 fondò una cineteca e un giornale di cinema, "Cine Cubano". Nel 1965 gestiva completamente la produzione, la di‐ stribuzione e la gestione delle sale dell'intero Paese, preparava tutto il personale e controllava le importa‐ zioni e le esportazioni. Sostituendo le vecchie pubblicità con manifesti più dinamici e coinvolgenti ideati e realizzati da artisti dell'istituto, l'ICAIC influenzò il disegno grafico di tutto il mondo. Con un'iniziativa che ricordava le unità di proiezione mobili sovietiche e cinesi, l'ICAIC creò i cine moviles, camion che si re‐ cavano nelle aree più remote per proiettare film. Con i governi precedenti il cinema era stato un'attività a basso costo e su piccola scala, che consisteva quasi interamente di tipici film di genere o pornografici. L'ICAIC dovette creare una base produttiva. Grazie all'aiuto del governo, ai registi e alle troupe che avevano prodotto film prima della rivoluzione, nonché al massic‐ cio sostegno da parte di artisti stra‐ nieri, nel 1960 nacque un'industria
cinematografica su grande scala. I giovani registi dell'ICAIC divennero l'equivalente cubano delle nouvelles vagues europee o del Cinema Nôvo brasiliano. All'inizio degli anni ‘60, l'ICAIC si concentrò sui brevi corto‐ metraggi documentaristici, che non solo erano una buona scuola per i nuovi registi, ma rispondevano an‐ che al bisogno di promuovere le po‐ litiche di governo. Nonostante l'alli‐ neamento di Cuba a Mosca, gli arti‐ sti non abbracciarono il realismo so‐ cialista. membri dell’ICAIC dibattevano sulla natura dell'arte rivoluziona‐ ria e i registi erano aperti a diverse influenze. I film di questi primi anni spesso portavano il marchio del neo‐ realismo. García Espinosa e Gutiér‐ rez Alea avevano studiato al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e "Storie della rivoluzione" (Historias de la revolucion, 1960) di Gutiérrez Alea attingeva la sua strut‐ tura episodica da "Paisà" di Rosselli‐ ni. Lo sceneggiatore Cesare Zavatti‐ ni contribuì alla sceneggiatura di "Il giovane ribelle" (El joven rebelde, 1961) di Garcia Espinosa. Le princi‐ pali opere del cinema rivoluzionario cubano nacquero nel periodo cru‐ ciale compreso fra il 1966 e il 1971. I registi cominciarono a seguire il mo‐ dello neorealista e ad adottare le tecniche del cinema moderno. I ci‐ neasti cubani conoscevano le opere di Antonioni, Bergman, Resnais e la Nouvelle Vague; citavano altri film con un tono ora affettivo, ora critico; attingevano anche al cinema d'arte; flashback e flashforward improvvisi, sequenze fantastiche, uso della mac‐ china a mano, montaggio ellittico, collage di riprese di opere teatrali, documentario e animazione. Ma essi non si limitarono alla semplice imi‐ tazione. 'ICAIC accolse la sperimentazio‐ ne che demistificava il processo cinematografico. Alfredo Guevara spinse i registi a "rivelare tutti i truc‐ chi, tutte le risorse del linguaggio, a smantellare tutti i meccanismi di ip‐
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nosi cinematografica". "La morte di un burocrate" (La muerte de un bu‐ rócrate, di Gutiérrez Alea, 1966), per esempio, attualizza un ricorrente genere socialista, la satira della bu‐ rocrazia. Animazione, cinegiornali e anche foto interrompono l'azione con spezzoni di commedia grotte‐ sca. Il film corre attraverso affezio‐ nati omaggi a Fellini e Buñuel. An‐ che l'arte dell'ICAIC viene parodiata quando si vede un pittore usare un polpo vivo come modello per un ma‐ nifesto sull'imperialismo americano. Altri film, soprattutto "Memorie del sottosviluppo" e "Lucía", offrono esempi più seri dell'assimilazione critica di altri modelli. Un altro im‐ portante tentativo per creare un ci‐ nema politico accessibile fu "La pri‐ ma carica al machete" (La primera carga al machete, di Manuel Octavio Gómez, 1969), uno dei molti film storici che, nella celebrazione dei cent'anni di lotta, ricostruisce una rivolta del 1869, quando il machete divenne l'arma dei tagliatori di can‐ na da zucchero oppressi. Gómez fe‐ ce in modo che il film sembrasse un cinegiornale del 1969, completo di interviste a personaggi che si rivol‐ gono alla macchina da presa, suono in presa diretta, riprese a mano e im‐ magini di repertorio. Lo stile docu‐ mentaristico e il commento fuori campo aiutavano il pubblico a com‐ prendere le tecniche visive più auda‐ ci. ra il 1972 e il 1975, tuttavia, i regi‐ sti cubani abbandonarono la spe‐ rimentazione. I problemi economici del Paese portarono a una diminu‐ zione nella produzione cinemato‐ grafica. Verso la metà degli anni ‘70, il cinema cubano era rispettato in tutto il mondo. Mentre i film del Ci‐ nema Nôvo ebbero successo princi‐ palmente presso un pubblico d'elite, i cubani dimostrarono che il cinema del Terzo Mondo poteva mettere in‐ sieme le convenzioni del cinema moderno con quelle forme narrative alle quali gli spettatori di massa era‐ no stati abituati.
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Narrazioni
“Il disegno della cicogna”
Studio Azzurro
"Karen Blixen racconta una storia che le raccontavano da bambina. Un uomo, che vi‐ veva presso uno stagno, una notte fu svegliato da un gran rumore. Uscì allora nel buio e si diresse verso lo stagno ma, nell'oscurità, correndo in su e in giù, a destra e a man‐ ca, […] cadde e si rialzò più volte. Finché trovò una falla sull'argine da cui uscivano ac‐ qua e pesci: si mise subito al lavoro per tapparla e, solo quando ebbe finito, se ne tornò a letto. La mattina dopo affacciandosi alla finestra, vide con sorpresa che le or‐ me dei suoi passi avevano disegnato sul terreno la figura di una cicogna. […] Con tutta evidenza non si tratta di un disegno previsto, progettato, controllato. […] Il significato del racconto sta infatti proprio in questo semplice risultare che non consegue ad al‐ cun progetto, e nell'unità figurale del disegno. Detto altrimenti, il disegno ‐ non dei tratti confusi, ma l'unità di una figura ‐ non è ciò che guida fin dall'inizio il percorso di una vita, bensì ciò che tale vita si lascia dietro, senza poterlo mai prevedere e nean‐ che immaginare. La cicogna si vede solo alla fine, quando chi l'ha tracciata con la sua vita o altri spettatori, guardando dall'alto, vedono le orme lasciate sul terreno" (A. Cavarero, "Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione", Feltri‐ nelli, Milano I edizione 1997, VIII edizione 2009, pp. 7 ‐ 8 ).
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Narrazioni
Tracce antiche e moderne di una medesima storia DI SARA MIRTI
Pare che un giorno di tanti, tanti anni fa, gli Egizi, per mezzo di un loro faraone, Psammetico I (664 ‐ 610 a. C.), decisero finalmente di verificare l'opinione co‐ mune secondo cui sarebbe stato proprio il popolo egizio il più antico della Terra. Naturalmente, sia pure a modo loro, scoprirono che non era vero: erano i Fri‐ gi piuttosto a meritare quel titolo. Come ne ebbero la certezza? Semplice: il fa‐ raone affidò due neonati "qualsiasi" a un pastore affinché li allevasse nel mutismo più assoluto, senza rivolgere loro mai una sola parola. Tenuti lontani da ogni condizionamento, così pensava il farao‐ ne, i bambini, raggiunta l'età giusta, avrebbero svelato attraverso le loro pri‐ me parole la lingua più antica, antenata di tutte le altre, e avrebbero in tal modo svelato anche l'identità del popolo più antico. La prima parola rivolta dai bam‐ bini al pastore che gli portava da man‐ giare fu "bekos", parola frigia per "pane" (A. Ferrari, "Dizionario del luoghi del mito. Geografia reale e immaginaria del mondo classico, BUR Rizzoli, Milano 2011, p. 450): la lingua originaria dell'uo‐ mo era dunque il frigio e frigio era anche il popolo più antico. In realtà, tra '700 e '800, molti studiosi (soprattutto filosofi) hanno descritto una lingua umana ori‐ ginaria non basata su termini arcaici ma fondata sull'azione e sul gesto; finché tra il 1866 (rifiuto di ulteriori comunicazio‐ ni sul tema da parte della Société de Lin‐ guistique di Parigi) e il 1872 (rifiuto da parte della Philological Society di Lon‐ dra) gli studi e le relazioni sull'origine gestuale di una protolingua comune, di‐ venuti troppo numerosi, finirono per perdere d'interesse, e soltanto nel 1970 (simposio all'American Anthropological Association) studiosi di antropologia, linguistica, paleontologia, neuroscien‐ ze, primatologia apportarono a tale teo‐ ria prove e dati scientifici inediti. Tra questi studiosi William Stokoe non pas‐ sò certo inosservato: dopo aver descritto la lingua dei segni americana (ASL) per circa una decina d'anni, ora erano pro‐ prio le sue ricerche a rendere più che plausibile un'origine gestuale del lin‐ guaggio. Infatti l'ipotesi sostenuta da molti (tra cui Gordon Hewes ‐ 1973) era
La poetessa e attrice sorda Lucia Daniele ne “Il mio segno libero” Fotogramma da http://www.youtube.com/watch?v=u4ReQ9km27k che i progenitori di Homo sapiens pa‐ droneggiassero una forma di comunica‐ zione gestuale piuttosto complessa, pur non avendo ancora sviluppato organi fo‐ noarticolatori adatti a una lingua parla‐ ta. "In qualche modo le ricerche di Sto‐ koe sulla ASL, che dimostravano l'esi‐ stenza di una lingua a tutti gli effetti pro‐ dotta nelle modalità visivo‐gestuale in‐ vece che acustico‐vocale, sembravano fornire la soluzione del puzzle: diventa‐ va plausibile pensare che questi nostri progenitori avessero sviluppato un lin‐ guaggio gestuale dotato di una gramma‐ tica e di una sintassi". Inoltre, "secondo Corballis, la prima forma di comunica‐ zione, il protolinguaggio, era sostanzial‐ mente costituita da componenti manua‐ li accompagnati da espressioni facciali. Nel corso del tempo si sono aggiunti progressivamente i suoni e l'articolazio‐ ne vocale è stata usata per rinforzare i gesti manuali, non per sostituirli”. In‐ somma, i gesti servono, oggi come allo‐ ra, ad aiutare colui che parla a inseguire, trovare ed esprimere i propri concetti; "il gesto non è stato semplicemente sosti‐ tuito dal parlato, ma piuttosto gesto e parola sono co‐evoluti in una interrela‐ zione filogeneticamente lunga e com‐ plessa" (T. Russo Cardona, V. Volterra, "Le lingue dei segni. Storia e semiotica", Carocci editore, Roma I edizione 2007, VI ristampa 2012, pp. 118 ‐ 119). Dunque,
a differenza degli antichi egizi, noi oggi possiamo tranquillamente affermare che le prime parole dei nostri antenati non furono "parole" in senso stretto, bensì gesti. Non siamo certo in grado di stabilire se questi gesti indicassero del ci‐ bo, oppure dei pericoli, se dessero consi‐ gli, se stabilissero regole, gerarchie, o strategie, ma possiamo ragionevolmen‐ te credere che, oggi come allora, veico‐ lassero più di un contenuto e di un'in‐ tenzione alla volta, sfruttando le simili‐ tudini tra significanti e significati, la si‐ multaneità rappresentativa della realtà visibile e l'iconicità del gesto. Ma perché è così importante risalire a un modello di protolingua? Perché per ogni essere umano è fondamentale risalire all'origi‐ ne della propria narrazione. Il bisogno di raccontare se stessi usando immagini, suoni, gesti, parole, metafore, corpi, ar‐ chitetture e chi più ne ha più ne metta, accompagna tanto i singoli individui quanto i popoli interi, e questo sia per‐ ché il racconto salva la nostra individua‐ lità, non necessariamente eroica, dal‐ l'oblio, sia perché senza tanti piccoli rac‐ conti l'umanità non avrebbe mai avuto nessuna grande Storia. E se un racconto non è nulla di più di una messa in scena, di una finzione, tuttavia tale messa in scena nasconde qualcosa di più di un ar‐ tificio puro e semplice: nasconde tracce preziose di una "scena originaria", resti
Narrazioni di un’umanità vicina e dispersa. Se Ro‐ land Barthes ha potuto dichiarare che "come istituzione l'autore è morto", che la sua "persona civile, passionale, bio‐ grafica, è scomparsa" (R. Barthes, "Il pia‐ cere del testo", Einaudi, Torino 1975, p. 26) è stato in virtù di una moderna cen‐ tralità del testo, portatore di morte da un lato e di moltiplicazione di vita dal‐ l'altro. "Si tratta, secondo Foucault, di un rapporto produttivo che dilata il la‐ voro del testo. Sulla linea della morte, per fermare ciò che lo fermerà, il lin‐ guaggio riflette se stesso come in uno specchio, e reagisce al decreto della sua estinzione moltiplicando se stesso al‐ l'infinito mediante questo gioco specu‐ lare". Proprio come accade a Ulisse nella famosa scena alla corte dei Feaci: l'aedo chiamato a intrattenere i partecipanti al banchetto canta le gesta di Ulisse prima ancora che lo faccia l'eroe stesso (che di lì a poco, commosso da quelle parole che gli hanno restituito senso e identità nella comunità degli uomini, comincerà a narrare di sé in prima persona): egli si trova ad essere dentro e fuori quelle pa‐ role, protagonista e spettatore di quelle storie, a al contempo si trova ad essere potenziale narratore di altre storie de‐ stinate a intrecciarsi fra loro. "Insomma, in una danza d'intrattenimento con la morte, il racconto torna circolarmente a raccontarsi, si autoproduce in una narrazione potenzialmente infinita sul‐ la soglia di quella fine che attira e genera la narrazione stessa" (A. Cavarero, "Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filo‐
sofia della narrazione", cit., pp. 153 ‐ 154). Infatti, a partire dai grandi racconti epici in poi, lo storyteller (il primo storico), sia esso Omero, Ulisse, Edipo, Sheheraza‐ de, o Gertrude Stein (che ha scritto l'au‐ tobiografia di un'altra), o noi stessi nel momento in cui riempiamo di foto e commenti i nostri profili Facebook, tan‐ to per fare qualche esempio, imitando con i propri discorsi protagonisti e sem‐ plici narratori, cerca la "storia origina‐ ria", una sorta di storia che racchiuda in sé tutte le storie: "ipotizzabile come ori‐ ginaria, ossia più antica dello storyteller di mestiere e capace di generarne il ruo‐ lo, tale pratica della narrazione a intrec‐ cio è la vera ispirazione dell'opera", di qualsiasi opera, a mio parere, dal testo scritto alla performance teatrale, al do‐ cumentario cinematografico. "Si tratta, ovviamente, di un'imitazione complessa e meravigliosa che ha i suoi canoni, i suoi sviluppi e le sue invenzioni. Come Platone notava indispettito, essa seduce allo slancio imitativo della sua arte il contesto stesso che la ingenera. L'opera ha del resto una sua propria storia, ossia appartiene a una storia della letteratura che l'articola in generi e ne racconta la vicenda”. L'imitazione è un concetto che si avvale di definizioni diverse a seconda della disciplina presa in considerazione: per esempio in psicologia l'imitazione è l'atto di replicare un movimento noto subito dopo averlo visto compiere da un altro, mentre in etologia è la capacità di replicare in modo fedele un movimento non conosciuto prima, sempre dopo
33 averlo visto compiere da un altro. Stan‐ do alle teorie di Plessner, gli esseri uma‐ ni, data la propria condizione di eccen‐ tricità, sono costretti a un'unica prospet‐ tiva che li costringe a guardare se stessi soltanto da dietro le proprie spalle. Pos‐ siamo quindi immaginare quanto siano importanti l'imitazione e l’osservazione degli altri per esseri come noi che non possono mai guardare in faccia se stessi, ma che possono osservare solo ciò che si sono già lasciati alle spalle. La scienza, a partire dagli anni '90, ha potuto stabilire che sono i cosiddetti "neuroni specchio" a veicolare la relazione che intercorre tra movimento e sensazione, o potremmo dire, sulla falsa linea di Eraclito, tra la vi‐ ta stessa e i sensi con cui essa si manife‐ sta. Prima di stabilirne la funzione di "specchio", sarà meglio stabilire una de‐ finizione di neurone: "Un neurone è una 'macchina' che genera delle tensioni, dei voltaggi. L'unica cosa che un neurone verosimilmente conosce del mondo esterno, è una manciata di ioni come po‐ tassio, sodio, calcio, cloro, ecc., che in‐ cessantemente escono ed entrano dai canali che ne attraversano la membrana. Non c'è nulla di intrinsecamente inten‐ zionale nel funzionamento di un neuro‐ ne. Ma questo neurone non è contenuto in una scatola magica, è contenuto in un organo ‐ il cervello ‐ che è legato, vinco‐ lato, cresce e si sviluppa in parallelo ad un corpo, attraverso il quale ha accesso al mondo esterno [...] che agisce, che si muove, che patisce nel suo continuo in‐ terscambio con il mondo" (V. Gallese, Opera di Studio Azzurro: frammento. In occasione della prima partecipazione alla Biennale di Venezia da parte della Santa Sede, il gruppo Studio Azzurro ha realizzato “IN PRINCIPIO (E POI). videoistallazione interattiva in quattro parti”, opera ispirata ai primi capitoli del Libro della Genesi e incentrata sulle origini dell’uomo e sul suo rapporto con lo spazio-tempo. Lo spettatore, attraverso l’esperienza diretta, è stato così chiamato a riconoscere l’origine di ogni rappresentazione oltre le rappresentazioni stesse, oltre le forme, i suoni, i gesti, oltre le parole e la lingua dei segni usata dai protagonisti della videoistallazione.
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Narrazioni
La poetessa sorda Lucia Daniele ne “Il mio segno libero”. Fotogrammi da http://www.youtube.com/watch?v=u4 ReQ9km27k
neuroscienze dell'Università di Parma, "Dai neuroni specchio alla consonanza intenzionale. Meccanismi neurofisiologi‐ ci dell'intersoggettività", in Rivista di Psi‐ coanalisi 2007, LIII, 1, 197 ‐ 208). I neuroni specchio ci permettono di riconoscere i gesti e le intenzioni di chi abbiamo di fronte; hanno cioè la capacità di trasfor‐ mare un'azione descritta in un'immagine istantanea, in un "formato visivo", ren‐ dendone così possibile la fruizione im‐ mediata. In realtà il loro effetto si è rive‐ lato cruciale per ogni tipo di processo re‐ lazionale e non solo per ciò che riguarda la sfera motoria. Essi "incarnano" (in op‐ posizione a un'idea di linguaggio "disin‐ carnato", esterno e strettamente logico) il nostro senso di empatia. "Una via condu‐ ce dall'identificazione, attraverso l’imita‐ zione, all'empatia, cioè alla comprensio‐ ne dei meccanismi mediante i quali ci è consentito assumere un qualsivoglia at‐ teggiamento nei confronti della vita mentale altrui” (S. Freud, 1921). Per dirla in altri termini, l'empatia ci permette di colmare il vuoto di azioni e reazioni che non riusciamo a capire. L'imitazione è parte integrante del nostro primigenio bisogno di vivere e di esprimerci, del rac‐ conto di noi stessi, volontario e immagi‐ nifico fin dall'inizio dei tempi. "Ad un cer‐ to punto, sicuramente, dovremo accetta‐ re che la realtà materiale esiste davvero,
che essa urta contro di noi continuamen‐ te, che i testi non sono la sola cosa" (L. Stanley, "The Auto/biographical I", Man‐ chester University Press, Manchester and New York 1992, p. 246). Ed è innegabile che la realtà sia fatta principalmente di persone e soltanto in una fase successiva i loro gesti, le loro parole, i loro racconti e i loro testi entrano a farne parte. Secondo Hannah Arendt ("Lettera a Mary McCar‐ thy"), non si può dire come sia la vita, e con lei la gente e il caso che su di essa si muove, senza raccontarne la storia, per‐ ché è la vita stessa che è fatta di storie; ne è piena al punto che se non potessimo raccontarci l'un l'altro gli eventi a cui ab‐ biamo assistito o di cui siamo stati prota‐ gonisti non saremmo più in grado di vive‐ re, la vita ci sarebbe di colpo indifferente e non saremmo più nemmeno capaci di contare i giorni che passano. Sarebbe co‐ me accostare l'occhio a un buco della ser‐ ratura e vedervi in prospettiva milioni di giorni e di persone completamente scol‐ legate tra loro, inutili e sconosciute l'una all'altra, capaci sì di muoversi, cammina‐ re, esprimersi, eppure inerti come rocce. Quando il nostro sguardo si posa su un moto umano o animale che sappiamo ri‐ conoscere, ecco che l'essere che l'ha pro‐ dotto e il pezzetto di mondo in cui quel‐ l'essere vive divengono immediatamente di nostra pertinenza. In qualche modo
ogni accenno di benessere o di malattia, di riso o di pianto "ci compete" nel mo‐ mento in cui riusciamo a distinguerlo dal caos di fondo che accompagna ogni esi‐ stenza. Due dita di mani diverse si fron‐ teggiano da lontano, poi si uniscono, fon‐ dendosi in una medesima prospettiva, di‐ ventando infine dita di una stessa mano. Rientriamo tutti nella competenza di un'unica grande mano, che motivo abbia‐ mo allora di ostinarci a non voler comu‐ nicare in maniera più flessibile ed effica‐ ce? Deve essere anche per questo abbia‐ mo inventato le storie: per tessere ponti intorno al nostro sguardo limitato attra‐ verso cui raggiungere gli altri da noi. Gli uomini, che durante la propria vita non riescono a distinguere se stessi dal perso‐ naggio dei propri racconti, per mutare i propri "Sé" in altrettante narrazioni han‐ no bisogno di trasformarsi in qualcosa di "eccedente" i confini conosciuti. La vita esiste solo nel momento in cui entra in un racconto, grande o piccolo che sia, e sol‐ tanto se alla stesura di quel racconto par‐ tecipa un certo numero d’individui. L'uni‐ ca storia che conta è quella che sa farsi "modello narrativo" comune, senza tradi‐ re se stessa immergendosi in una singola‐ rità inaccessibile. L’unica individualità che conta è quella che riusciamo a narrare a noi stessi e agli altri e che, come una sto‐ ria, purtroppo, ha sempre una fine.
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Storie
La rivincita degli “ultimi”
Pino Lamia. Mostra a Villa Niscemi
“A maggiuri età” Quann’ero picciriddu, nenti puteva diri, nenti puteva fari, picchì c’era me patri ch’aveva a cumannari Figghiu chistu nun ti spetta,sta cosa nun l’hai A fari Chist’avutra nun si fa Aspetta quannu si granni, e hai a maggiuri età. E iu aspittava…aspittava, guardannu ccà e ddà, nenti puteva dire, nenti puteva fari picchì nun aveva ancora a maggiuri età. Diceva a me matruzza: “Mamà sta pasta Nun mi piaci, stu pani nun mi và” “Nun ti la mintari figghiu,taci! Ancora tu si nicu Nun hai a maggiuri età. Ora ca sugnu granni e sugnu maritatu Mi trovu cu na mugghieri e cu du figghi o latu. Però…mi pari a mia ca u munnu Sia canciatu e nun poi chiù cumannari I figghi c’hai criatu: “Papà stu vistitu nun mi piaci, papà sta cravatta Nun ti stà… Ma ‘nzomma, camurria, quannu arriva Pi mia a maggiuri età?
“La maggiore età” Quand’ero bambino, non potevo dire nulla, non potevo fare nulla, perché comandava mio padre “Figlio, questo non ti spetta, questo non lo puoi fare, quest’altro non si fa. Aspetta quando sarai grande e avrai la maggiore età Ed io aspettavo…aspettavo guardandomi intorno, senza potere dire nulla, senza poter far nulla, perché non avevo la maggiore età Dicevo a mia madre: ”Mamma, questa pasta non mi piace, questo pane non mi va’.” “Non ti lamentare figlio, taci! Ancora sei piccolo Non hai la maggiore età. Ora che sono grande e sposato, mi ritrovo con una moglie e due figlie accanto. Però…mi sembra che il mondo sia cambiato e non puoi più comandare Ai figli che hai creato: “Papà questo vestito non mi piace, questa cravatta non ti sta…” Ma insomma, accidenti, quando arriva per me La Maggiore età? (Pino Lamia)
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Storie
La favolosa Arte di Pino Lamia DI CHIARA MANCUSO
Se è vero che “il lavoro nobilita l’uo‐ mo”, molti di coloro che nobili si sentono pur non avendo mai faticato quelle ore di lavoro che sole avreb‐ bero potuto conferirgli una certa no‐ biltà, con i vestiti firmati, le scarpe lucide, le unghie ben curate, con quale diritto continuano a sentirsi tali? In una Palermo che ricorda la sua antica nobiltà sulle facciate dei vecchi palazzi annerite dallo smog e dal guano dei piccioni, negli androni fatiscenti, abbandonati agli affittuari in nero che sputano sopra quel che rimane della nostra storia, i nuovi “nobili” ostentano quel che è ormai rimasto di un elegante ricordo: arro‐ ganza e prepotenza; due abiti sfog‐ giati per la messa della domenica, nelle pellicce inutili per l’inverno pa‐ lermitano che sfiora di rado tempe‐ rature al di sotto dei dieci gradi. E poi, ci sono gli altri, gli umili, quel‐ li che con il lavoro faticoso si sono guadagnati la loro “Nobiltà”, quelli che non hanno avuto altra scelta che andare a lavorare da ragazzini, senza poter continuare a studiare, figli del‐ le grandi guerre inutili, si sono spor‐ cati le mani al punto che non c’è sa‐ pone che le possa pulire, perché il la‐ voro gli è entrato sotto la pelle, per‐ meando nel sangue, nella carne, nel‐ le ossa, fino ad arrivare ad essere un tutt’uno e a non riuscire nemmeno a smettere, quasi per non morire: e in quel preciso istante, accade qualcosa di inaspettato e grande, un miracolo che nessuno può spiegarsi! Il lavoro diventa arte e l’artigiano artista. Questa che sto per raccontarvi non è una favola, sebbene ne abbia tutte le caratteristiche e so che potreste pen‐ sare che sono di parte, perché ho il privilegio di essere parente dell’uo‐ mo che sto per presentarvi, ma vi as‐ sicuro che le mie parole sono solo poca cosa. Palermo 1928: il fascismo, la povertà di una vecchia famiglia nobile deca‐ duta, tanti figli e un mestiere tra‐
mandato di padre in figlio: il calzola‐ io, detto da tanti, con un filo di di‐ sprezzo, “Scarparo” in palermitano. Pino, per tutti “U Zu Pino”, lo zio, fratello di mio nonno, non può ribel‐ larsi alla volontà di quello che defini‐ sce “Padre padrone” e impara il me‐ stiere da vero artigiano, nasconden‐ do dentro di sé la sua vera natura ar‐ tistica, per necessità, perché in quei tempi non potevi fare altrimenti; già mio nonno aveva rinunciato al me‐ stiere andando a lavorare nei cantieri navali, sfidando dapprima il padre, poi il regime, presentandosi tutti i giorni con il giornale de “L’Unità”
sotto braccio, segnando per sempre una carriera che non gli renderà giu‐ stizia. Ma Pino no, lui continua a fare il cal‐ zolaio, anche quando avrebbe potuto smettere: ricordo da bambina, quan‐ do mio nonno mi portava alla sua bottega, gli odori forti delle colle e del cuoio, il fascino delle scarpe che prendevano forma, quando ancora si potevano e si volevano riparare le scarpe, non come quelle che si fanno adesso, che una volta rotte le devi buttare via. E lì, in quella bottega, la livella in‐ visibile della società metteva sullo
Storie
lo stesso scaffale, l’una accanto al‐ l’altra, le scarpe da sera, con il tacco a spillo e lo stivale rotto dell’uomo comune, le scarpette con il sopratac‐ co rotto e le scarpe vecchie, consu‐ mate fino alla tomaia, ancora lì per l’ennesima riparazione. Poi c’era l’angolo delle scarpe di‐ menticate, di chi le lasciava a ripara‐ re e non le riprendeva più: sembra‐ vano vecchi fantasmi sbiaditi dalla polvere, intristiti dalle pieghe stesse della pelle, come solitari cani abban‐ donati, sonnolenti negli angoli dei marciapiedi, senza più voglia di sgranchirsi al sole. Sul tavolo gli attrezzi di cent’ anni fa, che si vedono solo nei musei, an‐ che quelli ereditati con il mestiere: lo zio Pino, barba lunga, ma non tra‐ scurata, occhi blu appena malinco‐ nici, parlava, raccontava, con l’espe‐ rienza di chi ha visto il mondo pas‐ sare fra le sue mani, con passi svelti, distratti o troppo decisi; lui parlava, la voce ferma, mentre armeggiava con il suo martello sulle scarpe ed io
mi chiedevo come facesse a non sba‐ gliarsi, a non schiacciarsi le dita e ad ogni colpo chiudevo gli occhi…pen‐ sieri, immagini, odori, raccolti da una bambina taciturna… Poi la bambina è cresciuta, è andata via, ma ogni volta che tornava a Pa‐ lermo, andava a trovare “u zu Pino” e, con sgomento, si accorgeva volta dopo volta che “tutto era rimasto co‐ m’era, eppure tutto stava cambian‐ do”, per citare Giuseppe Tomasi di Lampedusa: proprio il mese scorso, ho bussato ancora una volta alla bot‐ tega dello zio e già sulla porta mezza sgangherata, mi sono accorta che or‐ mai del vecchio mestiere è rimasta solo la facciata; fra le scarpe da ripa‐ rare, intravidi il plastico perfetto del‐ la Cattedrale di Palermo e non nego che la sorpresa fu notevole. Ricordavo le piccole gondole vene‐ ziane che anni fa intagliava sul le‐ gno, ma questa era tutta un’altra sto‐ ria! Mia madre mi aveva già accenna‐ to qualcosa, ma si pensa sempre che nei racconti dei parenti stretti ci sia
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un’immancabile carica emotiva che esagera i complimenti, ma stavolta no e fra gli articoli dei giornali che già da un po’ avevano pubblicato la sua storia e i suoi racconti, scoprii con stupore e meraviglia come un ar‐ tigiano fosse diventato artista. Un po’ per passatempo, un po’ per passione, già dal 1999, lo zio Pino aveva iniziato a intagliare la Chiesa della Madonna della Lettera del quartiere Acquasanta, dov’è nato e continua a lavorare, e poi si è “fatto prendere la mano”, iniziando un la‐ voro di ricerca in vecchi libri, foto in bianco e nero, litografie, per ripro‐ durre fedelmente tutta la vecchia piazza antistante la chiesa; ma non solo: iniziò a riprodurre in scala, la Cattedrale di Palermo, come già vi dicevo, Il Teatro Massimo, il Castel del Monte di Andria, la Torre di Pisa, il Colosseo… “Vieni: ti faccio vedere… ” ‐ la bottega si trasforma in un tour dell’Italia in miniatura, dalla Sicilia alle Alpi, passando per Roma, Ra‐ venna, Firenze, Pisa… plastici in
38 scala fedelissimi ai monumenti ori‐ ginali nei minimi particolari, le fine‐ strelle, i merli, i mattoni…tutto! Gli occhi blu si illuminano mentre mi mostra le vecchie stampe da dove ha preso spunto per riprodurre mo‐ numenti che non ci sono più, ma che rivivono ancora belli e incorrotti dal tempo nella sua memoria e poi sci‐ volano sulle mani, segnate dal lavoro e dall’orgoglio, di chi a più di set‐ tant’anni ha visto i propri “lavoretti” esposti prima nella chiesa della bor‐ gata, fino ad arrivare alla Fiera del Mediterraneo, a Villa Niscemi pro‐ prio la scorsa primavera, fotografati dai giornalisti dei giornali “impor‐ tanti”…e ancora adesso, che gli ot‐ tant’anni sono stati superati, non c’è un accenno di fatica, né di rimpianto nelle parole di questo “ragazzo” che
Storie ha ancora la voglia di progettare, di lavorare, di creare nuovi piccoli grandi capolavori: l’ultimo progetto in fase di realizzazione sarà la vec‐ chia piazza dell’Acquasanta, prima che il cemento del porto delle barche dei “ricchi” inghiottisse la spiaggia con lo stabilimento balneare che tut‐ ti chiamavano lo “chalet”. Sorridono gli occhi blu, in fondo ai quali ancora puoi rivedere i ragazzi che si tuffavano di fronte a Villa Igea, sorridono gli occhi di chi non ha per‐ so né la fede né la speranza, ed il pensiero torna spontaneamente a quel passato che ha segnato la mag‐ gior parte della vita di un uomo sen‐ za però soffocarne la natura: chissà se quel padre gli avesse permesso di studiare, chissà se quei tempi tanto amari e poveri non lo avessero co‐
stretto a lavorare, chissà se non fosse stato costretto ad imparare tutto da solo, senza maestri o professori acca‐ demici…domande che si perdono co‐ me i trucioli del sughero per terra e come essi, non troveranno nessuna realizzazione. Un giorno il mio professore d’arte aveva definito l’artista colui che de‐ dica tutta la sua vita all’arte, dal suo nascere al suo morire: in un certo senso possiamo allora dire, senza esagerazioni né remore, che Pino La‐ mia è un artista che per un periodo della sua vita ha vissuto grazie all’ar‐ te di aggiustare le scarpe e che ades‐ so vive per l’arte che nutre il suo spi‐ rito e quello di chi lo incontra. Pino Lamia, artista incisore, poeta, spirito libero, ultimo artigiano cal‐ zolaio.
Chiesa della Madonna della Lettera
“Conversione”
Mio Signore, mi hai chiamato sempre Ed io non ti ascoltavo. Eri vicino a me, e non me ne sono accorto Camminavo per la “mia strada” e non era La Tua Credevo di sapere e non sapevo Niente Ma ecco che improvvisamente Tu Mi hai sturato le orecchie per sentire La Tua parola Aperto gli occhi per vedere le Tue Meraviglie Indicato le vie che conducono a Te Ora posso dirti “Eccomi Signore Ti sarò sempre fedele e ti seguirò Ovunque vorrai per tutta la vita.
di Pino Lamia
Eva
Baci di Dama
Ingredienti per 6 prss: 150 gr. di nocciole sgusciate e tostate; 150 gr. di farina; 150 gr. di burro ammorbidito a temperatura ambiente; 150 gr. di zucchero; 2 cucchiai di latte; 50 gr. di cioccolato fondente. Tritare le nocciole tostate e metterle in una terrina, unire la farina satacciata e lo zucchero, quindi aggiungere il burro. Lavorare tutti gli ingredienti fino ad ottenere un composto sodo ed omogeneo che raccolto a forma di palla deve riposare in frigo avvolto in un canovaccio, per un’ora circa. Trascorso questo tempo con le mani leg‐ germente infarinate si preparano delle palline da disporre in una teglia imburrata e, quando il forno è già caldo, vanno cotte a 180° per 15 minn. In ultimo si scioglie il cioccolato fondente con il latte e si usa il composto per incollare le palline fra di lo‐ ro, a due a due. Ora i vostri baci possono essere serviti! Ogni mese Piazza del Grano offre questo spazio a tutte le donne. Manda la tue mail a “parliamone” : pp.zzadelgranodonne@libero.it
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Eva
Parliamone... “Dolci Chimere” DI CATIA MARANI
Vestite di abiti dalle gonne gonfie co‐ me mongolfiere, riccamente ricamati. Al collo e ai polsi gioielli di grandi di‐ mensioni impreziositi di perle rare e con le chiome boccolose fissate sopra la nuca da spilloni o diademi. Quasi tutte le adolescenti di Foligno hanno sognato di indossare gli abiti sontuosi delle dame. Dato che si celebra da più di sessant’anni, due volte l’anno, la Giostra della quintana, a giugno e a settembre. La grande festa di Foligno, per la quale hanno sfilato le più belle della città. Ma come vivevano le don‐ ne di alto rango 400 anni fa?. La gio‐ stra si fa risalire ad un evento accaduto il 10 febbraio del 1613, anno in cui cin‐ que giovani nobili si sfidarono in Piaz‐ za Grande per dimostrare al priore e alle gentilissime dame il loro valore. Non è stato facile reperire notizie sulla condizione femminile di quell’epoca. Le testimonianze lasciate dalle con‐ temporanee erano una vera rarità, da‐ to che l’istruzione ed il privilegio di scrivere la storia erano ancora ad esclusivo appannaggio degli uomini. Uomini la cui unica preoccupazione era quella di metterle in una condizio‐ ne svantaggiata. Di certo sarebbe stata diversa se a scriverla fossero state le donne, che da sempre hanno avuto molto più a cuore i rapporti che il po‐ tere. Proprio fra il 1600 ed il 1700, ci fu una profonda riforma del pensiero femminile nonostante che fossero so‐ lo gli uomini a possedere l’autorità e le conoscenze e, le donne vivessero chiu‐ se nei palazzi o nei monasteri. Al mas‐ simo usavano la loro bellezza per se‐ durre uomini potenti ed ordire con es‐ si intrighi che rendevano la vita del tempo ancora più travagliata di quello che era. Il matrimonio, invece di na‐ scere dall’amore, era il frutto di accor‐ di fra famiglie che intendevano strin‐ gere un patto. Quello d’amore poteva avvenire, ma per puro caso. A nozze celebrate dovevano accettare di essere completamente sottomesse al marito, ragion per cui alcune di loro, potendo‐ lo, scelsero di rimanere nubili ( Cristi‐
na di Svezia dotata di straordinario tempera‐ mento, ebbe sempre un forte rifiuto del matri‐ monio non rassegnan‐ dosi all’idea di passare in seconda linea rispetto a chi sposandola, sarebbe diventato re del “suo” re‐ gno ). Coloro che si rifiu‐ tavano di sottostare a quel destino già segnato, venivano rinchiuse in convento senza vocazio‐ ne, facendo sì che questi brulicassero di Gertrudi manzoniane. Il lavoro femminile si svolgeva solo all’interno delle mura domestiche, in quanto diversamente avrebbe diminuito il prestigio del marito. Ogni anno sfornavano un figlio e molte mori‐ vano di parto (la madre di Molliere ebbe sei maternità in sei anni, morì al sesto parto, il padre si ri‐ sposò dopo un anno di vedovanza, ed in tre anni ebbe tre bambini dalla nuo‐ va sposa, che morì al terzo parto). An‐ che la chiesa indicava perentoriamen‐ te il ruolo che spettava loro: la casa e la custodia dei figli. Ma fra gli inizi e la metà del XVII sec., periodo in cui l’ege‐ monia ecclesiale comincia a perdere parte del suo indiscutibile potere mi‐ nato da una maggiore articolazione della società, la vita si fa meno austera anche per le nobildonne, che possono finalmente dedicarsi alle raffinatezze dello spirito e al rituale degli incontri. Nel 1641 venne pubblicato un editto che rese loro definitivamente frequen‐ tabili i teatri, le sale da ballo ed i salot‐ ti. Essi non furono più solo luoghi di diletto e di sfoggio del proprio ceto so‐ ciale, ma diverranno l’espressione di una società in via di rinnovamento do‐ ve primeggeranno il piacere della con‐ versazione e dell’intesa culturale, in grado di dare, ad una piccolissima mi‐ noranza di donne, la possibilità di esercitare la loro intelligenza. Il divul‐ garsi degli ideali del “Preziosismo”, mettono a soqquadro tutto quello che le donne avevano accettato nella vita
per abitudine, ribilanciando i rapporti sociali fra loro e gli uomini, influen‐ zando indirettamente in modo positi‐ vo anche la vita politica. Un primo se‐ gno di apertura al mondo grazie a Da‐ me famose che presero a scrivere libri, portatori di un pensiero autonomo ed innovativo, con lo scopo di imporre un diverso patto di convivenza tra i due sessi. Coloro che ne fecero parte ven‐ nero chiamate le ”Preziose”. Esse so‐ stenevano che un rapporto d’amore aveva bisogno di essere alimentato an‐ che da una forte intesa intellettuale tanto che, nei pensieri più radicali, si arrivò a sostenere che un tale genere di amore doveva bandire ogni tipo di rap‐ porto carnale. Altre sostenevano che il matrimonio era una istituzione inuti‐ le. Le più “avanti” chiedevano che fos‐ se introdotto, come soluzione ad un rapporto matrimoniale deteriorato, l’istituto del divorzio. Le donne del 600 non sono da conside‐ rarsi come manichini per splendidi abiti, sono donne che fra le prime hanno mol‐ to combattuto contro l’oppressione dei padri, dei fratelli e dei mariti che le spo‐ gliavano di ogni diritto civile. Donne che già 400 anni fa sognavano di indossare i pantaloni e la minigonna!
Eva
Le grandi donne della storia Cristina di Svezia Astri Unica figlia sopravvissuta di Re Gusta‐ vo II di Svezia (1626), all’età di sei anni succedette al defunto genitore. Sulla nascita della “Regina bambina”, gli astrologi notarono una rara congiun‐ zione di astri destinata a fare della fan‐ ciulla una delle regnanti più influenti d’Europa. Maschio Quando nacque la piccola principessa venne scambiata per un maschio in quanto si presentava con molti capelli e urlava con una voce forte e squillante. Il re diede disposizione che ricevesse la migliore educazione concessa solita‐ mente ai principi maschi. Di lei si disse sempre “cammina come un uomo e può mangiare e bere come il più rozzo degli stallieri”. L’Atene del Nord Durante il periodo del regno di Cristi‐ na, la Svezia divenne uno dei regni più raffinati ed acculturati d’Europa, al punto che Stoccolma venne sopranno‐
minata “l’Atene del Nord”. Matrimonio Pur provando slancio verso l’amore ri‐ fiutò sempre di sposarsi. Disse:” Il ma‐ trimonio implica delle soggezioni alle quali io non mi sento in grado di sotto‐ stare.” L’unico amore duraturo della sua vita fu la contessa Ebba Sparre, una no‐ bile svedese. Abdicazione Dopo la conversione al cattolicesimo, annunciò la sua irrevocabile abdicazio‐ ne. Lasciato il paese si insediò definiti‐ vamente a Roma – Palazzo Farnese – e decise di fondare l’Accademia dell’Ar‐ cadia. Tutti i venerdì apriva il palazzo ai visitatori più abbienti e li intratteneva con discussioni intellettuali. Intestini reali Nonostante avesse chiesto di essere de‐ posta in una tomba semplice, venne dapprima imbalsamata e poi fu traspor‐ tata fino alla Basilica di S. Pietro e se‐ polta nelle Grotte Vaticane. Furono sol‐ tanto tre le donne ad aver avuto tale privilegio. I suoi intestini vennero posti in un’urna a parte.
41 In Libreria Consigliati alle Dame del ‘600
Non era data alle donne istruzione. Quelle poche che provavano a scri‐ vere e a consultare testi di filosofia, erano costrette a mimetizzarsi die‐ tro qualche soprannome o ad usare pseudonimi maschili, in quanto con‐ siderato sconveniente dagli uomini. Alcune di loro furono considerate le capostipiti dei moderni romanzi d’analisi e di psicologia “La Principessa di Cleves” Madame de La Favette Delle numerose opere di Madame de la Favette – spesso firmate con pseu‐ donimi – l’opera più importante è certamente La principessa di Cleves, dato alle stampe nel 1678. Il roman‐ zo fu accompagnato da una grande risonanza su le “Mercure galant” aprendo un dibattito con i lettori ri‐ guardo l’opportunità della confes‐ sione, da parte della protagonista, al marito del suo amore per il Duca di Nemours. In seguito la protagonista rimasta vedova, rifiuta il matrimonio con Nemours e sceglie di vivere “chez elle”. Il romanzo ottenne un discreto successo e negli anni se‐ guenti furono scritte le “Memorie de la Cour de France pour les annèes 1688 e 1689” pubblicate dopo la mor‐ te della scrittrice. “Artamène ou le Grand Cyrus “ Madeleine de Scudery L’autrice, soprannominata “Saffo” si firmava con il nome del fratello Ge‐ orges de Scudery che non esitò a prendersi la paternità di numerosi suoi scritti. Tale romanzo restò il più lungo della letteratura francese (10 volumi), ed era pieno di impietosi giudizi contro il matrimonio, defi‐ nendolo un’istituzione tirannica (Madame de Scudery rimase sempre nubile). Le conversazioni contenute erano piene di sentimento e di spiri‐ to e diverranno una sorta di manuale della società galante.
Le immagini utilizzate in questo inserto sono particolari di pitture di Antoon van Dyck in prima pagina e di Diego Velazquez sopra e a lato
Segnalateci le letture che vi hanno coinvolto di più, oppure quelle che vi hanno deluso scrivendo al nostro indi‐ rizzo mail e noi le citeremo su “Consi‐ gliati e sconsigliati dalle donne”.
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Eva
SEGNI BAROCCHI ‐ FOLIGNO FESTIVAL 2013 La manifestazione è stata istituita nel 1981 e comprende spettacoli mu‐ sicali, teatrali, cinematografici e mostre in qualche modo improntate al Barocco. 31 agosto – 21 settembre ‐ A Palazzo Trinci verrà esposto il capolavoro ri‐ trovato del Guercino “Giuseppe e la Moglie di Putiffare” ‐ dipinto per Francesco D’Este. Sabato 7 settembre – per le vie del centro “Notte Barocca” – fino alle ore 2,00 della notte resteranno aperti negozi, ristoranti e musei. La serata sarà allietata dalle musiche e dai canti di gruppi musicali itine‐ ranti.
4 settembre – 21 settembre –“BA‐ ROCCO IN LIBRERIA” mostra mer‐ cato nelle librerie di Foligno. 4 settembre – 15 settembre – “BA‐ ROCCO E NEO BAROCCO IN VE‐ TRINA” – in collaborazione con As‐ sociazione del Commercio e Artigia‐ nato. 5 settembre – ore 21,15 – Auditorium San Domenico – “VIVALDI E LE SUE MUSE” – arie e duetti da opere di Vi‐ valdi (Ingresso Libero). Per informazioni rivolgersi alla Se‐ greteria Organizzativa – c/o Biblio‐ teca Comunale – Piazza del Grano, 40 – Tel. 0742/330611
Benessere Barocco al Naturale
Mode & Modi nel periodo Barocco
La Donna Vergine 21 agosto ‐ 20 settembre
L’igiene e la sanità dell’epoca non erano molto avanzate. La legge sulla galanteria raccomandava di fare il bagno almeno occasionalmente e di lavarsi il viso e le mani ogni giorno. Per coprire il lezzo usavano dei sacchetti di lino o seta con all’interno spezie o peta‐ li di fiori profumati, che venivano attaccati alla cintura. Le dame non rinunciavano ad essere belle e impe‐ gnavano molto del loro tempo ad acconciarsi, al punto che possedevano una stanza per la preparazione di creme e lozioni cosmetiche. Colorito 1 Le donne che desideravano un colorito roseo richiamavano sangue in superfi‐ cie con una lozione preparata facendo bollire la gomma di benzoino in spiri‐ to di vino oppure si lavavano il viso con acqua bollente e successivamente con del vino. Colorito 2 L’ossido di ferro e talvolta il solfuro di mercurio erano usati per truccarsi di rosso. Fondotinta Per conferire uniformità e coprire le imperfezioni della pelle del viso si spal‐ mavano una crema a base di carbonato di piombo. Tale preparato poteva cau‐ sare brutte reazioni allergiche. Mani Per sbiancare le mani si usava un pre‐ parato di latte, limone e miele.
Agli inizi del ‘600 vestirsi non è più solo la necessità di coprirsi o di dimostrare il proprio rango, è soprattutto un modo di stupire e meravigliare. Spariscono le trasparenze rinascimentali per lasciare il posto a costrittivi corsetti in legno che abbassano la vita fin sotto ai fian‐ chi stravolgendo le naturali proporzio‐ ni. Per confezionare gli abiti necessita‐ no anche dei mesi. Si usano stoffe pe‐ santi, spesso scure che vengono poi ric‐ camente ricamate sul busto e le spalle degli abiti verranno imbottiti. L’ampia gonna è sostenuta da una sottogonna in lino rigida a tronco di cono detto “verdugato” (immaginate la difficoltà nel movimento, mettersi sedute per chi li indossava o entrare in una carroz‐ za era una vera impresa), indossato so‐ lo da dame di altissimo rango. La ten‐ denza spagnola, cui si ispirano anche i costumi della nostra Quintana, preve‐ deva che donne e uomini applicassero allo scollo la gorgiera che costringeva‐ no la dama a tenere sempre il collo ri‐ gido e lo sguardo fieramente ieratico. I capelli non sono mai sciolti ma ador‐ nati di piume o fermagli di perle, cuffie rigide o piccoli cappellini. Le calzature femminili si dotano di scomode zeppe in legno, sempre nascoste sotto gli enormi gonnoni, per preservare i piedi dal fango e altre sporcizie cui le strade dell’epoca traboccavano. Bello… solo per una sera!
Già il nome del segno ci racconta un’importante caratteristica di questa donna. L’incapacità di darsi completa‐ mente, la difficoltà ad aprirsi con il prossimo. Il suo compleanno cade du‐ rante la fine dell’estate, quando ci si deve preparare al rigore invenale. Non dobbiamo però definire la donna ver‐ gine fredda o anaffettiva, diciamo che è parsimoniosa nel concedersi, ma se ama lo fa in modo passionale e posses‐ sivo. Sa essere comunque un’ottima compagna di vita. Dimostra a livello pratico di avere un carattere pignolo, meticoloso ed organizzativo. Sa pren‐ dersi cura di sé stessa. Non ama le fri‐ volezze e non dà troppa importanza al loock. Solitamente è’ di struttura fisica sottile e asciutta, arti lunghi, occhi molto accesi ed estremamente attenti. Preferisce un abbigliamento sobrio e rigoroso, un’eleganza mai eccessiva. Donne Famose del segno della Vergine: Elisabetta I – 7 settembre 1533 – Regina d’Inghilterra Madre Teresa di Calcutta – 26 agosto 1910 – religiosa albanese Greta Garbo – 18 sette 1905 – attrice svedese Senza pretesa scientifica abbiamo rias‐ sunto le caratteristiche della donna vergi‐ ne, abbiamo giocato con gli astri, perché è sempre divertente contrapporre il teorico all’empirico, il sogno alla realtà.
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Inediti
Il robot cantastorie ( di Fei Dao (
)
l racconto “il robot cantastorie” è stato pubblicato nel 2005 sulla rivista “Il mondo Idelle della fantascienza” ( ). La storia è una metafora del processo di creazione storie. Spesso nei racconti di Fei Dao passato e futuro si mescolano: "Il robot
cantastorie" si svolge infatti in uno scenario che ricorda le ambientazioni del passato, a cui fa da contrasto la presenza di scienziati ultratecnologici che si adoperano per costruire un robot in grado di raccontare delle storie, una sorta di menestrello del fu‐ turo con tanto di microchip impiantato nel cervello che lo rende più funzionale di un essere umano, data la sua grande capacità di memoria. Tuttavia il fatto di essere una macchina, ad un certo punto della storia si rivelerà un ostacolo nella riuscita dei suoi racconti poichè mancherà di una delle capacità fondamentali che deve avere un bravo cantastorie: la creatività.
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Inediti
C
’era una volta un re che non si curava né degli negli affari di stato né delle belle donne. L’unico suo interesse era ascoltare storie e per questo motivo aveva accolto un cantastorie nel suo palazzo. Ma ogni essere umano può inventare solo un numero di storie limitato. E così, do‐ po qualche tempo, non appena il cantastorie iniziava il suo racconto, il re capiva l’intera trama. Così man‐ dò il cantastorie in esilio in un luogo lontano e da allora nessuno osò più raccontargli una storia. Data la si‐ tuazione il re decise di convocare gli scienziati più intelligenti del pianeta per costruire un robot cantastorie. In un primo momento, questo robot raccontava delle storie molto banali, ma, grazie alle sue straordinarie ca‐ pacità di apprendimento e sotto la guida esperta degli scienziati, piano piano migliorò le sue caratteristiche diventando sempre più abile. Nella sua memoria erano stati installati i racconti più interessanti del mondo. Ogni giorno, stanco degli affari di stato, il re si faceva raccontare una storia per rilassarsi. Anche prima di dormire aveva bisogno di ascoltare due o tre piccole storielle, altrimenti non riusciva ad addormentarsi. Un giorno il re, sdraiato nel suo comodo letto, chiuse gli occhi pronto ad ascoltare un'altra meravigliosa sto‐ ria. Il robot iniziò a raccontare: In una città molto molto lontana, vive‐ va un ladro molto famoso, la gente lo chiamava Kerk. Il re aggrottò le sopracciglia, spalancò gli occhi e in‐ terruppe il robot: “Questa storia l’ho già ascoltata, raccontane un’altra!”. Il robot ricominciò: C’era una volta un re che aveva scambiato una testa di maiale per suo figlio... La sua vo‐ ce divenne improvvisamente comi‐ ca, ma il re aggrottò nuovamente le sopracciglia: “Forse non sono stato chiaro, devi raccontare una storia che non ho mai ascoltato!!”. Finito di parlare chiuse di nuovo gli occhi con un’espressione di malcontento sul viso. Il robot si ammutolì e si mi‐ se a controllare minuziosamente nel database della sua memoria. Alla fi‐ ne riuscì a trovare una storia che non aveva mai raccontato. “Chi me lo dice che non mi prenderai in giro ancora una volta?” chiese il re con aria corrucciata. Pensò ancora un po’ e poi continuò: “Sei in grado di in‐
ventare una storia?” Gli scienziati si misero immediatamente al lavoro. Aumentarono la capacità di memo‐ ria del robot, che divenne in grado di eseguire operazioni complicate. In questo modo lo istruirono a quella che chiamarono “fantasia”. Il robot comprese perché era possibile creare cose che non esistevano, effettuando una svolta che segnò il passaggio dal racconto descrittivo al racconto fan‐ tastico. Sebbene il suo primo raccon‐ to fu un disastro completo, tutti fu‐ rono felicissimi per questa innova‐ zione straordinaria. Le capacità di apprendimento del robot erano im‐ pressionanti, sotto la guida degli scienziati aveva analizzato una ad una tutte le storie migliori del mon‐ do e poi aveva creato un modello ma‐ tematico che in seguito sarebbe stato conosciuto come “la teoria delle sto‐ rie”. Purtroppo questa equazione era troppo complicata e solo il robot era in grado di risolverla. Seguendo tale teoria e grazie ad una pratica costan‐ te, il robot riuscì ad inventare la pri‐ ma storia interessante, tanto che do‐ po averla ascoltata, il re dichiarò con
tono soddisfatto: “Ricorda: devi rac‐ contarmi solo le storie più belle!”. Di solito quando il re era di buon umo‐ re, il robot gli raccontava delle storie sentimentali usando un tono di voce smielato. Una volta terminato il rac‐ conto, il re iniziava a sospirare rattri‐ standosi per le disavventure dei per‐ sonaggi della storia, si immedesima‐ va talmente tanto nella loro situazio‐ ne che talvolta arrivava ad emanare delle leggi provvisorie per alleviare le sofferenze del suo popolo. Quando invece egli era di cattivo umore, il ro‐ bot gli raccontava delle storie diver‐ tenti con un tono di voce vivace, e come risultato, il re si metteva spes‐ so a piangere dalle risate. Grazie a questo tipo di racconti la rabbia pian piano lasciava posto alla quiete, per‐ mettendo ai funzionari di governo di tirare un sospiro di sollievo e garan‐ tendo la pace nel Regno. La qualità delle storie create dal robot migliora‐ va di giorno in giorno, fino a quando i suoi racconti non arrivarono persi‐ no a superare gli scrittori più bravi del mondo.zione vi era un'intelligen‐ za artificiale.
Inediti Data la precisione delle operazioni, le sue storie avevano una forma mol‐ to coincisa, non sembravano mai es‐ sere inventate sul momento, inoltre la complessità della teoria delle sto‐ rie, garantiva una certa umanità, evi‐ tando che si capisse che dietro alla loro creaAlcune storie arrivarono ad essere considerate dei classici e per‐ sino al re piaceva riascoltarle. Il ro‐ bot sembrava conservare uno stile classico solo per quanto riguarda la forma, infatti, tutte le storie iniziava‐ no con “C’era una volta” e terminava‐ no con “e vissero tutti felici e conten‐ ti”. Quindi, non appena il re si libera‐ va dai suoi doveri e pronunciava la parola“inizia!” , il robot con una voce pacata cominciava “C’era una vol‐ ta..”. A quel punto l’intero palazzo si fermava, tutti quanti smettevano di colpo di fare quello che stavano fa‐ cendo e trattenevano il respiro, non osavano emettere alcun suono per evitare di disturbare il re. Quando il robot pronunciava la frase “e vissero tutti felici e contenti”, allora i servi‐ tori tiravano lungo respiro di sollievo e con molta prudenza ricordavano al re che era arrivata l’ora di risposare. Giorno dopo giorno, il robot conti‐ nuava ad inventare nuove storie. Tuttavia il re era un uomo intelligen‐ te, e sebbene i racconti fossero diffe‐ renti l’uno dall’altro, era possibile ancora percepire che c’erano delle cose che non cambiavano, fu così che un giorno, mentre era di cattivissimo umore ordinò: “Raccontami la storia più bella della terra”. Tutto improv‐ visamente si fermò. Questa volta, in‐ vece di iniziare subito con “C’era una volta”, il robot rimase in silenzio. Il re con grande sforzo pazientò e l’in‐ tero palazzo iniziò ad agitarsi, le concubine e i servitori si misero a pregare, nella speranza che il robot riuscisse a raccontare la storia più unica al mondo, altrimenti il re si sa‐ rebbe arrabbiato. Alla fine fortunata‐ mente le loro preghiere furono esau‐ dite e udita la frase “C’era una volta” si tranquillizzarono tutti quanti. C’era una volta un re talentuoso che utilizzo le tecnologie più sofisticate per costruire un esercito indistrutti‐ bile per il proprio regno... La storia procedeva piano piano e gli abitanti del palazzo rimasero affascinati, an‐ che il re rapito dal racconto, si mise ad ascoltare con attenzione perden‐
do la cognizione dello spazio e del tempo. I soldati superarono mille ostacoli, eliminarono uno ad uno mostri e nemici potenti, incontraro‐ no personaggi bizzarri, e conquista‐ rono numerose città fino ad arrivare all’ultimo regno rimasto. Il re di que‐ sto posto era di uguale ingegno, e an‐ che lui aveva utilizzato le tecnologie più sofisticate per erigere delle mura indistruttibili intorno alla città. Alla resa dei conti, entrambi i re dei due regni chinarono la testa per compli‐ mentarsi a vicenda e i soldati corag‐ giosi alzarono le lance in direzione delle mura... Il robot smise di parlare. Il re ritornò improvvisamente alla realtà e, impa‐ ziente di continuare ad ascoltare la storia ordinò con fermezza: “ Conti‐ nua a parlare!” Gli occhi del robot emisero una scintilla, e continuò a non emettere suoni. Il re alzò la voce e disse: “Perché ti sei fermato?” A quel punto l’intero regno iniziò a tremare mentre il robot con il suo
45 solito tono pacato rispose: “Maestà, questa storia può avere due finali, non ho ancora calcolato quale dei due sia il finale migliore”. “Sono entrambi dei bei finali?” disse il re dispiaciuto. “Lo sono, il valore del grado di concordan‐ za previsto dalla teoria delle storie coincide in entrambi i finali. E’ la pri‐ ma volta che si verifica una cosa del ge‐ nere”. “Allora racconta entrambi i fina‐ li!” ordinò il re. “Non è possibile, vostra Maestà, per agire in conformità con le vostre istruzioni, è necessario che io trovi il finale perfetto da raccontare, questo è un mio dovere”. Rispose il ro‐ bot mantenendo un tono calmo. “No! Ecco il nuovo ordine: continua a rac‐ contare la storia, non importa quale sia il finale”. Il tono del re divenne rude. Gli occhi del robot continuarono ad es‐ sere scuri. Quella stessa notte nel re‐ gno non si sentì pronunciare la frase di chiusura “e vissero tutti felici e conten‐ ti”. Come risultato gli abitanti del pa‐ lazzo rimasero in ansia per tutta la not‐ te e il re non riuscì a dormire.
46 Il giorno dopo, gli scienziati ripararo‐ no il robot, e con molta cautela sugge‐ rirono al re: “La prossima volta sarebbe meglio non dare degli ordini così con‐ traddittori al robot”. Il re stupito chie‐ se: “Mi state dicendo che non c’è solu‐ zione?” “Vostra maestà”, disse uno scienziato: “le sue abilità nell’inventare storie di fantasia mostrano chiaramen‐ te che egli possiede lo stesso schema mentale degli esseri umani, pertanto anche i suoi ricordi si sono intrecciati tra di loro, se eseguiamo una semplice cancellazione del comando preceden‐ te, temo che anche le storie già imma‐ gazzinate nella sua memoria andran‐ no perdute.” “In verità: spiegò un altro, “abbiamo localizzato quella parte della sua memoria e abbiamo provato ad utilizzare un dispositivo di conversio‐ ne esterno per ripristinare la storia, ma sfortunatamente abbiamo ottenuto solo un codice indecifrabile”. “Inoltre”, intervenne il terzo “sembra che abbia ricevuto un ordine preciso dal mondo esterno e pare che questo ordine abbia provocato la formazione di una grande quantità di elettricità, tuttavia non ab‐ biamo capito chiaramente di cosa si tratti, ma è meglio che non lo forziate ad infrangere questo ordine”. “In bre‐ ve” continuò l’ultimo con tono lusin‐ ghiero “grazie agli insegnamenti e alla pratica con vostra maestà, si è evoluto fino a superare i limiti che noi siamo in grado di interpretare”. “Buoni a nul‐ la!”, rispose il re lasciando la stanza. Il re diffuse pubblicamente la storia in‐ completa, dichiarando che chiunque fosse stato in grado di offrire un finale stupefacente, avrebbe ottenuto una
Inediti generosa ricompensa. Il popolo rimase affascinato da questa storia, e molti scrittori di talento si presentarono per raccontare il proprio finale. Tuttavia, nonostante lo stesso re ritenesse che i finali proposti fossero tutti molto buo‐ ni, purtroppo nessuno di essi poteva essere definito incomparabile, e co‐ munque egli voleva conoscere a tutti i costi il finale nascosto nella memoria del robot. Fu così che utilizzò tutto il denaro della ricompensa per mandare via le persone. Il robot intanto conti‐ nuava a compiere il suo dovere, ogni giorno raccontava delle storie meravi‐ gliose che il re ascoltava con passione, commuovendosi oppure ridendo. Tut‐ tavia il suo entusiasmo non era lo stes‐ so di prima, perché nel profondo del suo cuore continuava a pensare a quel‐ la storia senza finale. Purtroppo però il robot non aveva ancora deciso quale scegliere. In questo modo trascorsero i giorni e il robot divenne sempre più si‐ mile ad un essere umano. Con il passa‐ re degli anni, il re divenne sempre me‐ no irritabile, a volte mostrava addirit‐ tura affetto nei confronti del robot, quando era triste si confidava con lui, e in generale entrambi si trattavano con reciproco rispetto. Dopo tutto il re non aveva amici all’interno del palazzo. Un giorno, verso il crepuscolo, il re con to‐ no stanco disse: “non hai ancora deciso come dovrebbe continuare quella sto‐ ria?” Il robot rimase in silenzio e poi con tono calmo rispose: “No, vostra Maestà, forse non ci crederete ma an‐ che io ne soffro. Ogni volta che mi vie‐ ne in mente che a causa del vostro or‐ dine non posso eliminare un finale, la
mia testa viene attraversata da una sca‐ rica elettrica. Non so quale dei due rac‐ contare. E’ una situazione che non rie‐ sco a risolvere”. “Quando ci riuscirai potrai dire di essere un artista”. Disse il re sorridendo, poi si sdraiò sul letto e da lì non si rialzò più. La malattia del re peggiorava giorno dopo giorno, le me‐ dicine non avevano alcun effetto e la gente iniziava a mormorare. Ogni sera dopo che il servitore personale aveva lasciato la stanza e tutti erano andati via, rimaneva solo il robot che non si muoveva dalla sua postazione accanto al letto del re. Durante la notte, da una parte pensava profondamente al finale di quella storia, dall’altra parte aspetta‐ va che il re si svegliasse per raccontargli una piccola storia. Un giorno, prima dell’alba, il re aprì gli occhi e fissò il ro‐ bot, poi con un filo di voce disse: “quel‐ la storia…” “Vostra Maestà forse posso avere un terzo finale…”. La voce del ro‐ bot era particolarmente gentile, ma il re scuotendo la testa lo interruppe: “No, forse non serve un finale”. Nel te‐ stamento del re era dichiarato tutto in modo molto chiaro, ma non vi era al‐ cun riferimento al robot cantastorie. Il nuovo re, si occupava degli affari di sta‐ to e amava il popolo, amava lo sport ma non gli piaceva ascoltare le storie, quindi prese una decisione: per rispet‐ to al re precedente, nessuno avrebbe avuto il diritto di conoscere il finale di quella storia. Pertanto dopo aver subi‐ to il lavaggio del cervello, il robot ven‐ ne esposto nel museo del governo im‐ periale, e mai nessuno seppe il finale della storia. E vissero tutti felici e con‐ tenti.
Un po’ d’ironia... non guasta mai...
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Il Senatore Razzi scalza Obama e si fa ambasciatore di pace tra le due Coree
“La Corea del Nord assomiglia molto alla mia Svizzera, per questo l’apprezzo. Le persone so‐ no precise quando si danno gli appuntamenti. E poi c’è una pulizia per le strade, molto molto pulite“. Sono le parole del senatore Pdl Anto‐ nio Razzi, intervistato da Paolo Argentini per il TgLa7. Il parlamentare, come già ha dichia‐ rato alla trasmissione radiofonica “La Zanza‐ ra”, su Radio24, esalta le bellezze della Corea del Nord e si proclama mediatore per la pace. “Io sono entrato in politica e sono venuto dalla Svizzera” – afferma – “per portare alcune inno‐ vazioni di come ho imparato nella Federazio‐ ne Elvetica. E credo che ci sto riuscendo. An‐ che il dialogo con le due Coree…”‐ continua – “mi sto preoccupando per la pace. E questo l’‐ ho imparato dopo 41 anni di esperienza sviz‐ zera”. Non mancano le lodi per il giovane lea‐ der Kim Jong Un. “Lo conosco” – rivela – “ho parlato con lui in questo ultimo mio viaggio in Guardate il video, è più divertente, ma può essere anche un po’ istruttivo per provare a superare pre‐ concetti e presunzioni stupide e soprattutto disin‐ formate, come dire... se c’é riuscito Razzi... http://www.youtube.com/watch?v=Vin1ROu1IIU
Corea. L’ho ringraziato per l’invito e per quello che sta facendo per i ragazzi coreani” – spiega – “perché a partire dal mese di settembre do‐ vrebbero arrivare 20 nuovi calciatori “giovani‐ li” presso Perugia, dovrebbero andare anche al Milan e 10 anche al Barcellona”. E aggiunge: “Il nuovo leader maresciallo è amante dello sport, della pallacanestro, del calcio italiano. Vuole che imparino la tecnica del calcio italia‐ no e questa è una cosa bella anche per la di‐ stensione e per la pace“. Razzi ribadisce: “Io non credo che nella Corea del Nord non ci sia‐ no i diritti umani, io ho visto che si può tran‐ quillamente uscire e andare dove uno vuole apprezzare“. E sulla capitale Pyongyang affer‐ ma: “E’ una città che veramente merita, è una città di “tre milioni e tre”. E’ tutto nuovo, pa‐ lazzi nuovi, alberghi che stanno costruendo nuovi, appunto, perché loro aspettano che vengano i turisti”.
La p roc essione del Cavallo di Troi a opera di Giovanni Domenico Tiepolo