Giugno 2013

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Criminali di guerra Iraq, Falluja, 7 novembre - 24 dicembre 2004 http://www.youtube.com/watch?v=1RZl7nUw7h4

Mensile di informazione, politica e cultura dell’Associazione Luciana Fittaioli - Anno V, n. 6 - giugno 2013 - distribuzione gratuita

“Prima di giudicare (e per la storia in atto o politica il giudizio è l’azione) occorre conoscere e per conoscere occorre sapere tutto ciò che è possibile sapere” (Antonio Gramsci) “Faremo il possibile per esporre in forma semplice e popolare, senza presupporre la conoscenza nemmeno dei concetti più elementari. Vogliamo farci comprendere dagli operai.” (Karl Marx)


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otto per mille

L’otto per mille alla Chiesa Valdese Nei prossimi giorni scade il termine per la presentazione delle dichiarazioni dei redditi per l’anno 2012 e, quindi, per il versamento delle relative imposte (saldi). In quella occasione i cittadini avranno la possibilità di indicare la destinazione di una parte delle imposte dovute a soggetti diversi dallo Stato e precisamente: una quota pari all’8 per mille a organizzzioni religiose formalmente riconosciute dallo Stato italiano e una quota pari al 5 per mille a organizzazioni private di solidarietà, assistenza sociale, ricerca scientifica, ecc., non a scopo di lucro, registrate all’Agenzia delle Entrate. Riteniamo utile fornire alcune indicazioni (comunque reperibili sui siti governativi e dell’Agenzia delle Entrate) e dare alcuni suggerimenti. Cominciamo dell’8 per mille. 1) NON si tratta di donazione (vale anche per il 5 per mille), cioè non è un atto di generosità per il quale il così detto “donatore” si priva di qualche cosa di proprio, ma consistene nella sola indicazione allo Stato di versare una parte delle imposte già incassate a sostegno di organizzazioni religiose che hanno “patteggiato” con lo Stato una convenzione (un concordato). Non tutte le organizzazioni religiose hanno stipulato (sono state ammesse a stipulare) questo concordato, ad esempio non c’è l’Islam, il buddismo, ecc., ma solo alcune sette cristiane e l’ebraismo; non ci sono le organizzazioni che diffondono l’ateismo o agnostiche. 2) NON è una vera e propria scelta, nel senso che, comunque, tutto il montante dell’8 per mille viene ripartito tra le organizzazioni religiose convenzionate, indifferentemente dal fatto che vi sia stata l’indicazione dei cittadini o no. Questa precisazione è estremamente importante per quanto appresso si dirà come suggerimento di destinazione, considerando che solo il 42% degli italiani indica la destinazione e il residuo 58%, non destinato, viene comunque attribuito “d’ufficio” in proporzione alle scelte degli altri: cioè chi non sceglie (non indica) subisce la scelta degli altri. Così accade che la Chiesa cattolica che viene “scelta” da circa il 35% degli italiani percepisce una quota di finanziamento che supera l’80% del totale. I numeri sono impressionanti, si tratta di oltre 1 miliardo 200mila euro, dei quali oltre 1 miliardo lo incassa la Chiesa cattolica. Tra i beneficiari da poter indicare c’è anche lo Stato italiano, il peggiore in assoluto per quanto appresso si dirà. 4) NON viene rispettata (salvo l’eccezione che si dirà) la destinazione voluta dalla legge che ha istituito questo finanziamento religioso. Lo scopo era quello di sostenere le attività benefiche, in senso lato, erogate dalle organizzazioni religiose, quindi: carità, solidarietà, assistenza ai bisognosi, ecc. Accade invece che le organizzazioni religiose spendono la grandissima parte del finanziamento per il sostentamento della propria organizzazione e destinano poco o niente alla solidarietà (i dati sono reperibili in internet). La Chiesa cattolica ad esempio spende l’80% dell’incasso per il clero e solo 7,5% per la solidarietà internazionale (le missioni che vengono propagandate nella intensa campagna pubblicitaria per la quale la Chiesa cattolica spende oltre 22 milioni di euro!). Il peggiore utilizzatore è comunque lo Stato italiano che non destina nulla alla solidarietà nazionale o internazionale e che ha persino utilizzato i fondi dell’8 per mille per finanziare le missioni di guerra in Iraq e in Afganistan!). MAI perciò indicare lo Stato italiano! 5) Una sola organizzazione religiosa (secondo i rendiconti pubblicati) investe interamente la propria quota di finanziamento in attività di solidarietà: la Chiesa Valdese. Se dunque una scelta deve essere fatta, e va fatta altrimenti scelgono gli altri per noi, il suggerimento di questo giornale è: METTETE UNA CROCETTA SULLA CASELLA DELLA CHIESA VALDESE MAI SU QUELLA DELLO STATO ITALIANO! Quanto al 5 per mille, che invece viene attribuito solo se indicato, qualsiasi scelta è valida. Se non ne conoscete personalmente, cercatele nell’elenco dell’Agenzia delle Entrate che ne controlla la spesa sociale, ma ricodatevi sempre che NON si tratta di un atto di generosità, ma di una sola indicazione di destinazione di denaro comunque già dello Stato!


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Editoriale

Brevi note a margine della formazione del governo: un cognome, una garanzia DI

LUIGI NAPOLITANO

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o sempre pensato di non avere una grande capacità nel comprendere le tattiche della politica, convinzione questa ulteriormente radicatasi in me alla luce dello spettacolo al quale abbiamo assistito nei due mesi successivi all’ultima competizione elettorale nazionale. L’elettorato, a causa di una legge scellerata che nessuno voleva e, forse, vuole cambiare, non è stato in grado di dare una maggioranza ad alcuna delle parti che si contendevano il diritto di governare. Tuttavia penso che, se la forza che ha ottenuto la maggioranza relativa dei voti avesse voluto effettivamente coinvolgere la parte politica che ha raccolto il dissenso dell’elettorato e che ha inseguito facendo cadere nel ridicolo il suo allora segretario, forse avrebbe dovuto avere il coraggio di scegliere il candidato alla Presidenza della Repubblica che quest’ultima le aveva offerto. Tanto più che quella figura, di notevole spessore giuridico e istituzionale proveniva proprio dalle sue fila. Se la sinistra avesse voluto realmente avviare una nuova stagione, avrebbe dovuto avere il coraggio di scelte che uscissero dall’ambiguità che ne ha caratterizzato l’azione e scegliere di percorrere strade fin qui inesplorate con tutti i rischi connessi. Mi domando, eletto il Presidente proposto dal movimento 5 Stelle, avrebbe potuto quest’ultimo sottrarsi all’obbligo politico, prima ancora che morale di unirsi allo schieramento di centrosinistra per la formazione del governo? Scelta la cui naturale conseguenza sarebbe stata quella di sgombrare finalmente il campo da figure fino a qualche giorno prima ritenute giustamente impresentabili per i tanti problemi giudiziari e non del loro capo e che, improvvisamen-

te, sono divenute indispensabili per salvare il Paese. Penso che le ragioni siano da ricercare più che nella volontà dei politici di salvare il paese, da quella di salvare se stessi, coltivando l’illusione di poter procedere per un altro lasso di tempo, qualunque sia la sua lunghezza, nella speranza che il popolo dimentichi e consenta il perpetrarsi di una situazione di cui, proprio gli eletti, sono gli unici beneficiari. A tacere dalla considerazione che con un’operazione che ha del miracoloso la sinistra è riuscita a risuscitare, per l’ennesima volta, il suo avversario degli ultimi venti anni. Forse perché l’uscita di scena di quest’ultimo avrebbe messo a nudo la sua assoluta incapacità di darsi una linea politica propositiva e decretato la fine di un trasversalismo che ha caratterizzato un lungo periodo, arrogantemente definito come “Seconda Repubblica”, sicuramente peggiore di quello che lo ha preceduto. Tuttavia, auspico che il governo appena formato, il cui profilo non mi sembra altissimo, abbia la capacità e la forza di superare i mille ostacoli che verranno frapposti innanzitutto dalle forze che lo sostengono e cen-

tri almeno qualcuno degli obbiettivi di interesse generale e che dice di voler perseguire, oltre i tanti occulti che interessano pochissimi. E appare corretta l’etichetta datagli da coloro che lo hanno definito di matrice democristiana, oltre per la composizione personale, per l’iniziale dimostrazione di incapacità nelle scelte col metodo del rinvio. Prova ne siano le tante chiacchiere in tema di IMU e di Convenzione bicamerale. Una cosa mi sento di affermare con assoluta certezza: l’individuazione delle parti politiche che hanno dato vita a questo governo, con i termini destra e sinistra è assolutamente da non considerare più corretto, almeno nel suo significato originario. Si sa che le parole sono convenzioni, alle quali viene dato un significato che, nel tempo, entra a far parte dell’uso comune e che viene unanimemente riconosciuto. Tuttavia a me sembra molto azzardato, se non offensivo, oggi, pensare a questi termini quali metonimie del loro significato originario che racchiudeva valori, ideali ed un modo di concepire il sociale e l’economia e, dunque la politica, in maniera profondamente diverso.


4 Sommario del mese di giugno Il diritto alla Salute Difendere il sistema pubblico di Andrea Tofi Democrazia partecipativa La crisi del modello occidentale di Zhang Weiwei

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Iraq: massacro di un popolo Conoscere per capire e giudicare di Sandro Ridolfi

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L’altra metà del mondo BRICS e cooperazione win-win a cura di Sandro Ridolfi

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I sapori dell’Algeria Il lungo viaggio fino al Medina Bazar di Hadjer Giur e Sara Mirti

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Non volgio un F35 Lirica patrimonio dell’umanità di Gorilla Quadrumano

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20 Sigarette La strage dei pozzi di Nassyria a cura della Redazione

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Benvenuti al centro Una palermitana ad Assisi di Chiara Mancuso

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Muoversi con le nuvole Divagazioni sulle creature alate di Maria Sara Mirti

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Sbriciolate Le “Senzappetito” di Catia Marani

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Ogni donna è madre Il lungo percorso verso la maternità di Giovanna D’Auria

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Redazione: Corso Cavour n. 39 06034 Foligno redazionepiazzadelgrano@yahoo.it

Autorizzazione: tribunale di Perugia n. 29/2009 Editore: Sandro Ridolfi Direttore Responsabile: Maria Carolina Terzi Sito Internet:

Andrea Tofi Stampa: GPT Srl Città di Castello Chiuso: 26 maggio 2013 Tiratura: 3.000 copie Periodico dell’Associazione “Luciana Fittaioli”

qr code all’indirizzo www.piazzadelgrano.org Scaricate sul vostro telefono, tablet o computer il software gratuito per la lettura dei “qr code” e, inquadrando il simbolo sopra, potrete accedere direttamente al sito della rivista, nel quale troverete l’archivio di tutti i numeri editi e i libri digitalizzati pubblicati da questa rivista


Salute

Il diritto alla Salute una sola “stella”, la nostra “stella”

Articolo 32 della nostra Costituzione "La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana."

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Salute

Il nostro sistema sanitario necessita veramente di una riforma? Gli annumciati tagli per la spesa sanitaria sono nesessari? Miglioreranno il servizio ai cittadini o graveranno nuovamente sulle tasche degli italiani? Togliere alla sanità 14 miliardi mette a rischio circa 250 ospedali. DI ANDREA TOFI

Il nostro sistema sanitario compie quest’anno 35 anni! Era il 1978 quando la cosidetta “riforma sanitaria” instituì il servizio sanitario nazionale che garantiva a tutti i cittadini, facendo riferimento ai principi della nostra Costituzione, pari garanzie nella cura della propria salute assicurando ad ognuno la possibilità di curarsi in piena libertà, rivolgendosi a qualsiasi struttura ospedaliera presente nell’intero territorio nazionale. Un principio cardine della riforma fu il finanziamento della struttura sanitaria attraverso la fiscalità nazionale : l’IRPEF, asserendo così un’altro principio fondamentale della nostra Carta Costituente che stabilisce che tutti debbano contribuire al sostentamento dello Stato in base alle proprie capacità economiche, cioè chi più guadagna più paga affinchè anche l’ultimo possa usufruire dei servizi basilari per la sopravvivenza ed il sostentamento. Studi effettuati Organizzazione Mondiale della Sanità e risalenti al 2000, affermavano che il nostro sistema sanitario nazionale era secondo al mondo dietro ai francesi sia in termini di spesa che di accesso alle cure per i cittadini. Essere considerati a livello mondiale un esempio da imitare vorrà pur dire qualcosa. Perchè durante ogni campagna elettorale ed ogni nuovo governo che si insedia, si promette una riforma strutturale della sanità. Perchè si vuole modificare una delle poche cose che gli altri ci possono invidiare, sicuramente si deve puntare all’eliminazione degli sprechi, al miglioramento della qualità dei servizi, sopratutto nella tempistica di diagnosi, ma di qui a dire che abbiamo bisogno di una riforma c’è differenza. Il tentati-

vo subdolo della nostra social-democrazia è quello ancora una volta di smantellare lo “stato sociale”, i poteri forti, i ricchi, i benestanti in questo periodo di crisi economica sentono l’approsimarsi di un indebolimento del proprio stato di agiatezza, per cui non sono più disposti a contribuire al benessere della nostra nazione. Il ticket sanitario per le prestazioni di diagnostica o per le ricette dei medicinali, come la tassa sui rifiuti ed altre imposizioni fiscali simili, sono il segno inequivocabile che lo Stato non c’è più. In pochi anni si è passati dall’eccellenza alla mediocrità, siamo scesi in un solo decennio al 21° posto per qualità ed al 26° per prevenzione, ma sopratutto mi piace sottolineare per “equità”. Nell’ultimo periodo infatti sono aumentate le disparità e le divergenze fra i cittadini più o meno abbienti, non tutti si possono permettere di pagare il ticket per una visita specia-

listica, o un esame diagnostico (dove le liste di attesa sono interminabili). Si continua ad affermare che il nostro sistema sanitario ci costa troppo e non ce lo possiamo più permettere, ma è bene osservare che sempre in base a studi realizzati dall’OMS, in Italia si spende solo il 9,3% del PIL nel servizio sanitario nazionale, contro il 12% dell’Olanda, 11,6% di Francia e Germania, il 9,6% del Regno Unito. Considerando inoltre che nel nostro paese non si finanzia più la ricerca, si pagano i ticket, si riducono constantemente i numeri di posti letto a disposizione delle strutture ospedaliere, i “pochi” soldi che si spendono dove finisco? E’ li che i nostri amati politici dovrebbero cercare le risorse per risanare il sistema sanitario, che non investe molto ma dissipa attraverso un sistema di appalti corrotti e collusioni con le case farmaceutiche, quelle poche ricchezze che abbiamo.


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Salute

Difendere il sistema pubblico

Classifica della qualità dei servizi sanitari regionali

La nostra regione nella classifica nazionale della qualità nei servizi erogati risulta essere al vertice. L’indicatore Isq tiene conto degli esiti ospedalieri, ma vi affianca i dati Istat sulla soddisfazione dei cittadini per il servizio sanitario locale Sembra suggestivo, ma è così. La nostra regione secondo rilevazioni condotte e pubblicate su alcune testate giornalistiche nazionali, risulta essere la più virtuosa per la qualità dei servizi forniti, con un bilancio che vede una spesa media pro-capite perfettamente in linea con la media nazionale. E’ difficile da credere, viste le lunghe liste d’attesa che tutti noi dobbiamo rispettare per accedere ai servizi offerti dal sistema sanitario regionale, 6 mesi per un’ecografia ed altri esami che ha volte servono effettivamente per evidenziare patologie che se curate tempestivamente possono salvare la vita a molte persone. Malgrado ciò, abbiamo delle eccellenze che permettono alla nostra regione di primeggiare nello scenario nazionale, grazie anche alla sinergia con il polo universitario, affermando ancora una volta l’importanza degli investimenti nella scuola e nella ricerca. Attualmente le competenze in materia sanitaria spettano alle Regioni, ma in un quadro molto diverso da quello che si immagina per il prossimo futuro. Il problema sarà come garantire il principio di universalità delle prestazioni su cui si basa il nostro sistema sanitario nazionale

con la riduzione di spesa prevista dall’ultimo governo Monti e non solo.

E’ ora di scegliere: o pubblico o privato! Il ricorso continuo al privato, impoverisce sempre di più il sistema pubblico, non garantendo inoltre la qualità dei servizi e prestazioni offerte dalle società esterne, con riscontri economici sulla convenienza alquanto incerti. Affidarsi con constanza sempre maggiore ai privati porterà a garantirsi prestazioni in tempi accettabili solo a chi ha le possibilità economiche per farlo. Abbiamo realtà ospedaliere dotate delle più moderne macchine per la diagnostica, ma il più delle volte risultano inoperose o mal impiegate. In questi casi si addossa la colpa al fatto che c’è carenza di personale o che vi sono parametri di sicurezza troppo rigidi, io penso sinceramente che vi sia un piano strategico ben preciso che punta diritto allo sbriciolamento del servizio sanitario pubblico. E’ inspiega-

bile che un tecnico all’interno della struttura pubblica faccia 10 radiografie (dico un numero a caso) nell’arco di una giornata lavorativa e, poi vada in una struttura privata convenzionata e in due ore ne fa 20. E’ inoltre inconcepibile che un medico ospedaliero faccia attività privata (visite extra ospedaliere) ed utilizzi la struttura solo per intervenire sui pazienti intercettati durante l’attività di libera professione. O dentro o fuori, pubblico o privato, tutti hanno la facoltà di scegliere, ma nel momento in cui si è deciso si deve lavorare per il bene del servizio sanitario nazionale. Se non vogliamo fare la fine degli americani ai quali sul letto di morte gli viene chiesta la carta di credito, è bene aprire gli occhi, cercare di apprezzare l’enorme ricchezza che abbiamo ha disposizione. E’ giusto sottolineare le cose che non vanno per cercare di migliorarle, ma non dobbiamo lasciare spazio all’incertezza: “la sanità è pubblica e tale deve rimanere!”


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Salute

L’Austerity danneggia la Salute

La rivista medica inglese Lancet pubblica una indagine che mostra lo stretto collegamento tra le politiche depressive e la caduta del livello di assistenza sanitaria in Europa (tratto da un articolo di Pierluigi Mannitti del 28 marzo 2013) La salute degli europei corre il rischio di diventare vittima della crisi economica: la combinazione di politiche di risparmio e crescita della disoccupazione ha ridotto l’accesso dei cittadini ad aiuti sanitari adeguati. Un avvertimento chiaro e drammatico, lanciato dall’autorevole rivista medica britannica The Lancet: «Una condizione decisamente allarmante se confrontata con la sconfortante situazione del mercato del lavoro in Europa negli ultimi mesi: 26 milioni di senza lavoro in tutta l’Ue con un tasso medio che è salito al 10,8%». Le medie naturalmente non dicono tutto: ci sono Paesi, come quelli del Sud Europa, dove la situazione è precipitata in maniera più veloce e drammatica che altrove. La crisi e i piani di risparmio non colpiscono ovunque con la stessa forza, e in qualche angolo del continente non colpiscono affatto. In Grecia, Spagna, Italia, Portogallo e Cipro il peggioramento delle condizioni sanitarie è già realtà e, nei mesi scorsi, sono passate quasi sotto traccia le cronache da Atene sulla carenza di medicine negli ospedali: cose da terzo mondo che avvengono in uno degli Stati membri di quello che veniva considerato il club più esclusivo del pianeta. La tesi che è emersa è un atto di accusa nei confronti dei politici, una denuncia di fallimento della gestione della crisi: i programmi di austerità hanno innescato un circolo vizioso di depressione dell’economia e di indebolimento delle reti di sicurezza sociale e hanno lasciato che esplodesse la crisi della sanità. Uno dei casi concreti analizzati dalla rivista è stato il tentativo intrapreso per mantenere la Grecia nell’Unione Europea, nel quale la Troika, composta da Commissione europea, Fondo monetario internazionale e Banca centrale europea, ha giocato un ruolo fondamentale. Sebbene l’assistenza sanitaria sia considerata un affare interno di ogni singolo Stato, la Troika ha obbligato il governo greco a contenere le spese

nel settore entro il 6% della crescita economica. In questo modo, in soli due anni Atene ha dovuto ridurre del 25% i costi sostenuti per il personale medico e del 15% quelli per le strutture ospedaliere. Date le risorse disponibili, il sistema sanitario greco se l’è dovuta cavare con la metà del personale prima disponibile, l’altra metà si è ritrovata disoccupata. L’introduzione di questo meccanismo ha impedito di fatto al sistema sanitario greco di mantenere gli standard minimi di assistenza: con il passare delle settimane, molte medicine non sono più state disponibili, perché mancavano i soldi per pagarle e lo Stato si è ritrovato in debito con le farmacie per l’impossibilità di rimborsare i costi delle ricette. Il rischio del declino sanitario non riguarda però solo i Paesi in crisi. Anche laddove la situazione non ha assunto i tratti dell’emergenza i risparmi imposti ai governi per affrontare l’emergenza hanno prodotto danni notevoli. È il caso dell’Olanda, che ha tolto dal paniere dell’assistenza pubblica le prestazioni di fisioterapia e della fecondazione assistita in vitro o quelli di Francia, Finlandia e Danimarca, dove l’autocontenimento delle spese sanitarie è divenuta una prassi». Di fronte a questo quadro europeo generale, il ri-

schio concreto è che le politiche finora seguite non solo non aiutino le economie a risollevarsi ma precipitino irrimediabilmente un sistema sanitario pubblico che, pur con casi di dispersione di risorse, ha permesso agli europei di raggiungere negli ultimi 6 decenni standard di vita fra i più alti del mondo. The Lancet ha suggerito un modello alternativo, quello islandese: «Lì gli elettori hanno respinto con un referendum i tagli proposti dalle istituzioni finanziarie internazionali e hanno deciso di investire nuovamente nelle strutture pubbliche». Pressante è invece l’appello indirizzato all’Unione Europea. I politici sono apparsi finora ciechi di fronte alle conseguenze sociali delle politiche adottate e la Commissione dovrebbe immediatamente verificare le conseguenze delle sue misure sulla sanità. «I funzionari sono sempre stati solleciti a misurare le cifre dei prodotti interni lordi o quelli dei disoccupati, ma quando si tratta di valutare i numeri che riguardano la situazione sanitaria dei cittadini la trascuratezza la fa da padrone». Gli ultimi dati disponibili a livello continentale, infatti, sono fermi al 2010. Da allora la crisi ha fatto passi da gigante, coinvolto sempre nuovi Paesi e messo in difficoltà sempre più europei.


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Opinioni

Democrazia partecipativa La crisi del modello occidentale tratto da un articolo DI ZHANG WEIWEI

(E’ tra gli accademici cinesi che vantano maggiore conoscenza del mondo fuori dalla Cina, con oltre cento paesi visitati nel corso della sua vita. La sua carriera inizia negli anni Ottanta, come interprete di Deng Xiaoping e di altri leader cinesi. Avviato alla carriera accademica, scrive molti libri, redatti anche in inglese, dove tratta i diversi aspetti della contemporaneità cinese: le riforme e aperture, la politica estera, la questione taiwanese e il dibattuto “modello Cina”. E' anche editorialista per i principali quotidiani e portali di informazione cinesi.)

Un amico tedesco mi ha raccontato una barzelletta sulla politica: il cancelliere tedesco chiede a un esperto d’economia perché in Germania non ci sono economisti di fama mondiale; lui gli rispon-

de: «cancelliere, non deve assolutamente preoccuparsi, perché se la Germania avesse un economista di primo piano, l’economia mondiale andrebbe allo sfascio!» In altre parole, negli Stati Uniti e in Occidente, il sistema economico – consolidatosi in particolare dal secondo dopoguerra - ha generato grandi problemi. Innanzitutto la crisi finanziaria del 2008 non è stata prevenuta ed è ipotizzabile che questa sia una delle ragioni principali a monte della crisi attuale. Allo stesso modo, negli ultimi trent’anni, le previsioni di studiosi occidentali sul futuro della Cina continentale, incluse quelle di molti rinomati esperti, si sono rivelate ampiamente errate. Francamente, in parte ciò è dovuto a un pregiudizio ideologico: è sempre stata diffusa la convinzione che il sistema politico cinese non andasse bene e che il modello americano avrebbe rappresentato il futuro della Cina. Invece, temo che sia la stessa na-

tura delle teorie e delle metodologie occidentali a scontare enormi limiti, tanto in ambito politico, quanto nell’economia, nel giornalismo, nella sociologia e nella giurisprudenza. Per questo ho avviato una riflessione sulla necessità di un “cambio di paradigma” nella ricerca e nelle scienze sociali. Dopo aver vissuto per vent’anni in Europa, sento che il modello occidentale si trova di fronte a una grande sfida. Per i paesi e le società non occidentali che lo hanno adottato, essenzialmente ci sono due possibili ricadute: nel primo caso si passa dalla speranza alla delusione, nel secondo la speranza degenera nella disperazione. I delusi sono la maggioranza e comprendono gli Stati della cosiddetta terza ondata di democratizzazione, in gran parte degli “smidollati” che dipendono dal supporto dell’Occidente. A essere chiamati in causa sono alcuni presupposti teorici di base del sistema democratico


10 occidentale, quelli che io chiamo “limiti genetici”. Uno di questi presupposti è che gli esseri umani siano razionali; c’è la convinzione che le persone, attraverso una riflessione accurata, sappiano dare un voto razionale. Tuttavia, oggi, l’elettorato è sempre più populista. Un altro presupposto è che i diritti siano assoluti, mentre la cultura cinese ci insegna come solo nell’equilibrio tra diritti e doveri stia la verità. Per quale ragione esiste un’alta probabilità di sconfitta per quelle società che nel resto del mondo hanno adottato il modello democratico occidentale? La mia sintesi del sistema occidentale è racchiusa dalla formula “dalla divisione all’unità”, con cui intendo una società fondata da diversi gruppi di interesse, ognuno dei quali dotato di una propria rappresentanza. Attraverso la competizione all’interno di un sistema multipartitico e con l’espediente delle elezioni, la frammentazione e le divisioni iniziali tornano a essere unità. Una delle peculiarità che accomuna le società non-occidentali è che laddove sono divise non riescono più a ritrovare unità. È quello che accade a Taiwan, in

Opinioni Thailandia, in Mongolia, nelle Filippine e oggi persino in molti paesi occidentali; tra questi, gli stessi Stati Uniti sono sempre meno uniti. Fino a oggi, in Cina, il Partito comunista non è solo il partito di una minoranza o di parte della popolazione, ma è anche il soggetto politico che rappresenta la grande maggioranza delle persone. Questo è un punto cruciale. Per fare un’analogia, le cento persone più ricche in Cina non possono interferire sulle misure adottate dall’Ufficio politico del Partito comunista cinese, ma negli Stati Uniti le cinquanta persone più ricche possono influenzare la Casa Bianca. Una delle principali caratteristiche del modello cinese è nel principio della “nomina di uomini virtuosi e capaci”. Attualmente, i membri del Comitato permanente vantano in gran parte due o tre esperienze come Segretario generale a livello regionale. Se ci basiamo sul principio democratico del voto individuale, lo stato cinese è illegittimo. Ma se ci rifacciamo alla logica cinese della “nomina di uomini virtuosi e capaci”, secondo cui per amministrare un paese sono necessarie persone di talento, allora anche

il governo americano è illegittimo. A Taiwan l’educazione è sempre stata ispirata dalla cultura tradizionale cinese, la gente di base è di animo genuino e semplice. Però la politica e i media agiscono in modo estremista, provocatorio e anche violento. Ma allora, sulla base della cultura cinese, non potrebbe essere che Taiwan, invece di un modello democratico fondato sull’agire da ‘bastian contrario’, debba sperimentare una via democratica di natura consociativa? Oggi la Cina continentale sta seriamente testando la democrazia consociativa. Prendiamo l’esempio del piano quinquennale, che implica migliaia e migliaia di consultazioni a ogni livello; è un esempio di vera democrazia, che dà un orientamento a lungo termine al paese. Oppure guardiamo al distretto di Pudong a Shanghai: la strategia per lo sviluppo della zona è stata formulata nel 1990 e da allora è stata confermata con continuità, fino a generare l’odierno miracolo di Pudong. A mio giudizio Shanghai non ha paura di competere con New York e, ugualmente, neanche il modello Cina teme la competizione con quello occidentale.


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Iraq

Il massacro di un popolo

Non è costume di questa rivista (anzi è sempre stata una precisa scelta culturale) quello di pubblicare immagini d’effetto, tanto subdolamente accattivanti quanto all’opposto sgradevoli, per attrarre l’attenzione dei nostri lettori. Pensiamo che tanto il “bello”, quanto il “brutto”, possa e debba essere trattato senza limiti o remore ma pur sempre con il senso della così detta “misura”, termine che per noi si traduce nel concetto di “rispetto”. Rispetto da chi scrive, rispetto per chi legge, rispetto dell’argomento del quale si vuole parlare. Facciamo un’eccezione questa volta pubblicando un’immagine bruttissima, non solo per se stessa (il fotogramma dell’istante prima che la botola si apra e la corda spezzi il collo dell’impiccato), ma soprattutto per la falsità, l’ipocrisia e infine la rimozione di un fatto che resta nella vergogna anche del nostro paese. Un fatto che non dobbiamo dimenticare perché non si riproponga. Saddam Hussein era

sicuramente colpevole di fatti gravissimi, ma non spetta all’uomo, a meno che non si creda lui stesso dio, applicare la vendetta e uccidere un altro uomo. Come ci ha insegnato sin del 1700 il nostro Beccaria, anche quando a farlo è lo Stato, uccidere non è mai un atto di giustizia, ma di vendetta. Ma ciò che è ancora più grave, e che implica la coscienza colpevole di tutti noi (nessuno si senta estraneo o assolto), è che Saddam Hussein non è stata impiccato per le sue colpe, ma per giustificare le nostre. Per giustificare una guerra di petrolio, di quella risorsa energetica indispensabile per sostenere la nostra economia e quindi il nostro tenore di vita. L’Iraq ha pagato e sta pagando anche le luminarie dei nostri LunaPark. Non ci liberi la nostra coscienza l’averlo “liberato” da un tiranno, avendogli in cambio “regalato” il disordine e il degrado economico e sociale. A noi occidentali non interessava affatto la loro democrazia, ma il loro petro-

lio. E quello dell’Iran, del Veneziela, delle Nigeria? Quanti dittatori dovremo impiccare ancora per giustificare il nostro bisogno di petrolio? Ancora una nota. Avremmo voluto parlare di Falluja, di Abu Graib e dei tanti orribili eccessi commessi dalle forze di invasione occidentali ai danni non tanto dei capi, rais o dittatori, ma dell’intero popolo irakeno. L’obiettivo ideologico, politico e culturale, di questa rivista non è solo quello di suscitare i giusti sentimenti di disgusto e disprezzo contro le atrocità di questo nostro tempo e sistema economico capitalista, ma anzitutto quello di invitare al ragionamento perché sia appunto la ragione, informata e solida, a guidare l’azione. Raccontiamo un po’ di storia e lasciamo ai lettori di approfondire. Di materiale ce n’è tanto, occorre solo volerlo cercare. In copertina comunque l’indirizzo internet e il qr code di uno storico servizio di RAI 3 sulla strage di Falluja.


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Iraq

Conoscere per capire e giudicare DI SANDRO RIDOLFI

Dalla nascita dell’Iraq moderno alla presidenza di Saddam Hussein

Col consueto approccio modestamente divulgativo proviamo a ripercorrere brevemente le più recenti vicende della nazione irakena, per definire meglio i presupposti e il contesto nel quale si è consumata, e si sta ancora oggi consumando, la tragedia della guerra “infinita” innescata dalla seconda invasione USA che ha distrutto un paese oggi regredito a un medio evo che sembrava superato solo qualche decennio fa. Saltiamo ovviamente le pure importantissime radici storiche del califfato arabo, della dominazione turco mongola di Tamerlano e infine dell’inclusione nel vastissimo Impero turco ottomano, dissoltosi al termine della prima guerra mondiale. Dal 1919 la regione geografica irakena, da millenni identificata nella “mezzaluna fertile”, la “mesopotamia” tra i due fiumi Tigri ed Eufrate, dapprima sotto protettorato militare inglese e poi istituita con una delle tante monarchie inventate dalle potenze coloniali europee (gli USA, almeno sino alla seconda guerra mondiale, non avevano mostrato interesse a questa parte del Mondo, concentrati nel loro “giardino di casa” centro e sud America), ha assunto una identità statuale. Cessata la seconda guerra mondiale e con essa le occupazioni degli eserciti alleati, a partire dalla seconda metà degli anni ’50 l’Iraq vive l’esperienza di molte altre nuove nazioni arabe affrancate dalla soggezione alle oramai ex potenze coloniali europee e inizia un percorso di avvicinamento all’antagonista Unione Sovietica, mutuando da quest’ultima, in verità, non tanto i principi economici e sociali del socialismo reale (anche se richiamato nelle enunciazioni formali dei nuovi partiti governativi socialisti Baht), quanto, appunto, l’idea stessa della “nazione”, non disgiunta dalla ri-nascita del sentimento di identità storica dell’unica nazione pan-araba. In quegli anni, una dopo l’altra cadono, spesso sanguinosamente, molte delle monarchie fasulle inventate dagli europei (Ibis in Libia, Faruk in Egitto, Faysal in Iraq) e sotto la guida politico morale del Presidente della nuova Repubblica egiziana, Gamal Nasser, alcune

delle più importanti nazioni arabe mediterranee intraprendono percorsi di riforma politica, economica e sociale unitari. L’Iraq resterà fuori da quei percorsi, peraltro separata geograficamente dalla interposizione del regno filoccidentale di Giordania e in qualche modo interclusa dalla sopravvivenza delle medioevali monarchie assolutistiche della penisola araba e del vicino Iran dello Scià fasullo Reza Pahlavi, figlio di Reza Khan fondatore della nuova dinastia Palhavi, ex comandante della divisione cosacca creata dalla Russia zarista in funzione anti sovietica. Con tutte le altre nuove nazioni arabe l’Iraq condivide, tuttavia, un’impostazione di governo dello Stato sostanzialmente laica, seppure non essendo in discussione la assoluta preponderanza della religione musulmana. L’Iraq, anzi, sarà caratterizzato da una significativa pluralità di confessioni religiose, in parte dovuta anche alla forzosa inclusione (da parte delle ex potenze coloniali europee) nel nord del Paese di una parte della mai riconosciuta identità della nazione curda (che conta circa 50 milioni di componenti sparsi tra Turchia, Iraq e Iran), nonché dalla presenza di ambedue le principali scuole coraniche: sciita, prevalente, e sunnita, minoritaria. Varrà di ricordare al riguardo che mentre il “rais” Saddam Hussein era musulmano sunnita, di minoranza quindi, il suo numero due, Terek Aziz, era cristiano affiliato a una confessione facente capo alla Chiesa romana. Sarà infatti solo dopo la seconda invasione USA che anche in Iraq farà la sua comparsa il fondamentalismo religioso musulmano nelle sue versioni più sanguinose, fratricide e sacrificali, sino ad allora sconosciute in quel Paese.

Dal socialismo Baht al nazionalismo militare

All’esito di una serie di colpi di Stato, nel 1979 ad assumere la presidenza della Repubblica irakena sarà Saddam Hussein, politicamente cresciuto nell’ideologia socialista del partito Baht. La vocazione socialista del nuovo governo guidato da Saddam, in verità, non durerà a lungo e ben presto prevarrà la componente ideologica nazionalista, comunque caratterizzata da una forte discontinuità col passato coloniale, sia sul piano internazionale, con la ricerca di una posizione non schierata (l’Iraq aderirà al Movi-

mento dei Paesi non allineati fondato negli anni ’50 da Tito e Neru), sia su quello interno con l’avvio di vasti programmi di riforma e sviluppo economico, sociale e culturale. Sotto quest’ultimo profilo, nel contesto mediorientale non mediterraneo, l’esperienza di governo dell’Iraq costituirà una anomalia rispetto all’assolutismo dispotico dei regimi dittatoriali della penisola araba (ciò nonostante grande “amici” dell’occidente) e della teocrazia montante soprattutto nel vicino Iran (paese musulmano, ma non arabo) dopo il crollo della “amica” dittatura degli Scià e l’avvento del governo degli ayatollah. Nei primi dieci anni di governo di Saddam l’Iraq vive percorsi di evoluzione epocali: riforma agraria con vasta meccanizzazione; istruzione universale; sistema sanitario diffuso; legislazione di diritti civili sostanzialmente assimilabile a quelle occidentali europee; industrializzazione e creazione di una notevole rete di servizi pubblici. La leva economica a sostengo di queste iniziative poggiava sulla nazionalizzazione “morbida” dell’industria petrolifera attuata sin dal 1972. Il “morbida” sta a significare l’apprendimento della lezione che un ventennio prima le “Sette Sorelle” (le sette più grandi compagnie petrolifere occidentali contro cui aveva combattuto, e dalle quali era stato assassinato, il presidente dell’ENI Enrico Mattei) avevano impartito all’Iran del primo ministro Mossadeq il quale, dopo avere di fatto detronizzato il giovane Pahlavi, aveva


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espropriato pozzi e impianti delle multinazionali straniere, per essere poi, a sua volta, rovesciato da un colpo di Stato militare e religioso organizzato dalla Gran Bretagna e dagli USA, che avevano infine riportato al potere il fantoccio Palhavi. L’Iraq, oggi valutata la terza riserva mondiale di petrolio, gestiva dunque la sua risorsa naturale negoziando “accettabili” condizioni con tutte le compagnie straniere, tra le quali, in posizione di potenziale “eccellenza”, proprio l’ENI italiana assegnataria dei giacimenti di Nassiriya. La libertà, o quanto meno l’autonomia, tuttavia non fu senza prezzo (anche se spesso vale la pena di chiedersi quanto sia alto il consenso del venduto, così facilmente corruttibile dall’acquirente) e presto toccò a Saddam soddisfare una particolare “esigenza” di equilibrio geopolitico richiesta dai padroni del Mondo.

La carneficina della guerra con l’Iran

Lo stesso 1979, anno dell’ascesa al potere in Iraq di Saddam, nel confinante Iran si era verificata una rivoluzione radicale dagli esiti estremamente preoccupanti per i padroni del Mondo, come la storia degli anni seguenti ha poi avuto modo di confermare. Travolto dalla rivolta popolare fomentata dal clero religioso, lo Scià fantoccio era stato costretto ad abbandonare il paese e, dopo 14 anni di esilio, era tornato, con il plebiscitario sostengo popolare, l’ayatollah Ruhollah Khomeyni. All’epoca del rientro di Khomeyni l’Iran,

oltre a essere uno tra i più importanti e influenti paesi produttori di petrolio, vantava anche il terzo esercito del Mondo, dopo USA e URSS, in termini di modernità e quantità di armamenti. Ciò faceva dell’Iran una polveriera economica, militare e ideologica estremamente pericolosa per l’equilibrio dell’intera area geografica del golfo arabico e quindi del sistema di produzione della risorsa più importante per le economie occidentali: il petrolio. Nel settembre 1980, con l’esplicito consenso e, negli anni a seguire con il diretto supporto di mezzi e armamenti degli USA, prendendo a pretesto modeste questioni di rivendicazioni territoriali, l’Iraq di Saddam entra in guerra con l’Iran di Khomeyni. Saranno otto anni di una delle guerre più feroci dell’epoca moderna per l’impiego di mezzi, armi (anche chimiche) e di morti (se ne stimano nel complesso oltre un milione). Il conflitto finisce nell’agosto del 1988 con un sostanziale nulla di fatto sul piano dei vinti e vincitori, ma con la distruzione quasi completa di due economie nazionali. L’Iran subirà un fortissimo ridimensionamento delle sue capacità militari, l’Iraq si indebiterà spaventosamente nei confronti dei paesi occidentali che gli avevano fornito i mezzi e le armi necessarie. Saddam, cessata la guerra, rivendicò a lungo dai propri “mandanti” il risarcimento dei costi sostenuti per il conflitto con l’Iran, i “mandanti” lo rifiutarono e, il 2 agosto 1980, l’esercito irakeno invade il Kuwait per annetterlo al proprio territorio e così acquisirne le notevoli risorse petrolifere. “Non avrai altro se non ciò che io ti avrò dato” si dice il dio degli ebrei abbia ingiunto al suo popolo errante; il dio dell’occidente, che oggi parla una lingua vicina all’inglese, non aveva dato il consenso al suo servitore e dunque il Kuwait andava restituito.

La prima guerra del golfo

Il 17 gennaio 1991 una poderosa coalizione di eserciti occidentali, quella volta sotto l’egida dell’ONU, scatenò la “Tempesta nel deserto”, la prima guerra del golfo. La sproporzione tra le truppe messe in campo allora fu esponenziale: quasi un milione di effettivi per la coalizione, contro poco più di trecentomila irakeni. Precedute da quasi 15.000 incursioni aeree che avevano distrutto la gran parte delle difese irakene e incendiato quasi tutti i pozzi, le forze della coalizione ONU, in poco più di un mese, spazzarono via l’esercito di Saddam dal Kuwait

13 penetrando profondamente nel territorio dell’Iraq, che fu costretto a firmare la resa il 3 aprile. La lezione era stata impartita al servitore disobbediente, ma, allora, non c’era necessità di rimuovere il “rais” dal potere e “donare” al suo paese la democrazia occidentale che invece costituirà il “nobile” obiettivo della seconda guerra del golfo che gli USA, questa volta da soli (salvo i mercenari dell’Inghilterra di Blair), scateneranno dieci anni più tardi per porre fine al regime (e alla persona) di Saddam. Seppure indisciplinato e turbolento l’Iraq, con il suo regime laico, continuava a svolgere un ruolo strategico in un contesto sempre più incline a derive confessionali pericolosamente antioccidentali. Saddam ridimensionato costituiva, infatti, ancora una garanzia difensiva rispetto al rischio di un allargamento dell’area di influenza dell’Iran, certamente ridimensionato militarmente ed economicamente, ma del tutto fuori controllo occidentale. Ai danni della guerra con l’Iran, ulteriormente aggravati da quella seguita all’invasione del Kuwait (l’Iraq è stato condannato a pagare, con forniture di petrolio, l’intero costo della guerra), le potenze occidentali aggiunsero l’imposizione di un regime di embargo pesantissimo, limitando le possibilità di estrazione e vendita di petrolio irakeno alle sole necessità alimentari e sanitarie e, anzi, ben al di sotto di quelle esigenze minime essenziali per la sopravvivenza della popolazione irakena. Gli anni che seguirono furono dunque anni terribili per l’intero popolo irakeno, il cui ricordo tuttavia appare oggi, a distanza di ulteriori 10 anni dalla seconda invasione, persino idilliaco se si confrontano con le condizioni attuali. Grandi eventi si erano, però, verificati in quegli anni in diverse parti del Mondo e di quegli eventi Saddam ritenne di poter dare allora una lettura che, purtroppo, per lui e più ancora per il suo popolo, risulterà fatale. Era scomparsa l’Unione Sovietica; era iniziato un percorso di affrancamento di numerosi Stati del centro sud America “giardino di casa” degli USA; aveva conquistato il suo posto nella scena politica mondiale il gigante cinese; ma soprattutto era apparsa una nuova moneta, l’euro, potenzialmente capace di scalzare il ruolo del dollaro americano nelle contrattazioni del petrolio, risolrsa alla quale la moneta USA, dalla inflazione seguita alla guerra del Vietnam, aveva legato la sua potenza e con essa i presupposti del suo dominio mondiale.


14 Saddam aveva creduto di poter rompere il giogo del dominio USA, “infilandosi” nel dissesto del sistema occidentale che aveva fatto seguito alla caduta del Muro di Berlino e aveva iniziato a negoziare con Germania e Francia (anche con l’ENI), la compravendita del petrolio irakeno in euro, non casualmente spalleggiato dall’Iran, giungendo perfino a prefigurare una borsa del petrolio in euro. Questa volta il “pericolo” era molto diverso e assai più grave per gli USA.

La guerra preventiva e la farsa delle armi di distruzione di massa

Siamo al 2001, presunti terroristi islamici abbattono le torri gemelle di New York, gli USA rispondono invadendo l’Afghanistan, ma non si fermano e iniziano una campagna terroristica nei confronti dell’Iraq, che assunse dimensioni ed espressioni ridicole se non fosse per la gravità umana delle sue conseguenze. Invocando una seconda coalizione ONU per mesi e mesi gli USA cercarono di accreditare la tesi della disponibilità da parte del governo irakeno di fantasiose “armi di distruzione di massa”, mostrando fotomontaggi, rapporti taroccati e persino fialette con acqua distillata alla stessa Assemblea dell’ONU (Colin Powell). Unici a seguirli in quel percorso provocatorio furono gli inglesi del “laburista” Blair, che presentò al suo parlamento una relazione segreta sull’Iraq, rivelatasi poi una tesi fantapolitica di uno studente universitario. Gli USA non riuscirono a convincere l’ONU, incontrando l’opposizione non solo della Russia e della Cina, ma anche degli alleati Francia e Germania. Ciò nonostante il 19 marzo 2003 gli USA scatenano la seconda guerra del golfo: “Iraqi Freedom”. Questa volta la proporzione delle forze in campo è quasi rovesciata: 300.000 soldati USA, oltre i mercenari inglesi, contro quasi 400.000 soldati regolari irakeni. La vittoria della finta coalizione USA-GB fu tuttavia così rapida e schiacciante da lasciare già allora fortissimi sospetti sull’utilità stessa dell’invasione. Con una strategia giudicata all’epoca estremamente avventurosa, l’esercito USA penetrò infatti nel territorio irakeno, dirigendosi a grande velocità verso Baghdad, nonostante una tempesta di sabbia che lo privava della copertura satellitare e infilandosi tra due schieramenti difensivi dell’esercito irakeno che, clamorosamente, non reagirono. Tutto ciò lasciò (e lascia) il sospetto che gli USA avessero già corrotto l’esercito e l’opposizione interna irakena, con l’ulte-

Iraq riore dubbio che, forse, lo stesso Saddam, abbandonato dai suoi, stesse sul punto di accettare l’esilio senza la tragedia di una guerra. In verità la vera e propria seconda guerra del golfo non è stata quella combattuta tra le così dette forze regolari dal 19 marzo al 1 maggio 2003 (data dello spot pubblicitario del presidente Bush sulla portaerei Lincoln sotto lo striscione “Missione compiuta”), ma quella con la resistenza irregolare nei due anni successivi.

Resistenti e terroristi, un paese allo sbando e la fuga degli USA

Caduto Saddam (a dicembre scovato in una cantina e impiccato un anno dopo) gli USA stabilirono un loro protettorato, liquidando tutta la struttura, non solo militare e di sicurezza, ma anche amministrativa dello Stato irakeno e occupando militarmente il paese sconfitto. La violenza, la brutalità, l’arroganza, unita ai disastri dei bombardamenti e dell’occupazione militare, ovviamente interamente posta a carico economico degli occupati, scatenò una vera e propria rivolta popolare che ben poco, o nulla, aveva a che vedere con il regime abbattuto, ma che nasceva da un naturale sentimento di avversione alle forze occupanti e trovava un forte supporto nel sentimento religioso sotto la guida dell’iman Muqtada al-Sadr, capo del così detto ”Esercito del Mahdì”. In pochi mesi gli USA persero il controllo di buona parte di Baghdad e di importanti città, tra le quali Falluja, gli ucraini furono cacciati da Kut e gli italiani persero Nassiriya. Superata la sorpresa e la difficoltà di gestire una guerra di guerriglia, gli USA scatenarono una delle più violente vendette della storia moderna, riconquistando con incredibile ferocia le città perse. Esemplare fu il caso di Falluja, due volte persa e riconquistata, la seconda volta al prezzo della distruzione di circa l’80 per cento degli edifici e, soprattutto, col ricorso ai bombardamenti con il fosforo bianco, una sostanza chimica che “squaglia” (il termine è orribile ma rende l’idea) i corpi umani, oltre a creare un inquinamento ambientale i cui effetti si riprodurranno per anni (forse decenni) in forma di tumori, leucemie, aborti e malformazioni congenite. In verità questo tipo di ferocia estrema non è inusuale nelle condotte belliche degli USA, solo che si ricordino, tra i tanti, gli episodi dei bombardamenti al fosforo di Francoforte, le bombe incendiarie che carbonizzano con migliaia di gradi di temperatura i cittadini di Dresda, l’atomica sulle città indifese di

Hiroshima e Nagasaki, fino al napalm e alla diossina in Vietnam e in Cambogia. L’uso di armi di distruzione di massa, chimiche e atomiche, è, infatti, una prerogativa ricorrente dell’esercito USA. E’ comunque solo alla fine del 2004/2005 che può essere datato il consolidamento dell’occupazione militare USA dell’Iraq con l’arrivo all’ambasciata americana di Baghdad (circa 3.500 addetti, la più grande del mondo) di John Negroponte uno dei più noti organizzatori dei sistemi di repressione, soppressione e tortura dei regimi dittatoriali centro e sud americani sotto protettorato USA. La storia che segue è quella di un paese allo sbando, attraversato da violentissimi conflitti etnici e religiosi, caratterizzati dalla più violenta follia sacrificale che continua a mietere, giorno dopo giorno, migliaia di vittime, mentre lo Stato appare dissolto anche sotto il punto di vista della sicurezza di polizia, l’economia regredita a livelli di sussistenza medioevali, scuola, sanità, servizi pubblici quasi inesistenti. Gli USA, progressivamente rimasti da soli a occupare il paese, dopo avere messo in sicurezza i pozzi di petrolio, soprattutto ricorrendo all’ingaggio di un vero e proprio esercito di contractors (mercenari ufficialmente dipendenti da società private, ma in molti casi regolarmente inquadrati nelle “agenzie” USA), lo scorso anno 2012 hanno infine abbandonato il paese manifestamente temendo un nuovo Vietnam.

Numeri

Per concludere citiamo alcuni numeri che, per la loro chiarezza e crudezza, non richiedono commenti: - circa 1.200.000 morti irakeni tra diretti nel conflitto (ammessi dagli USA circa 180mila) e indiretti per i così detti “effetti collaterali” (fame e malattie non curate); - 40% di disoccupazione in totale assenza di tutele sociali; - 200 miliardi di dollari (!) di spesa miliare USA, ovviamente interamente addebitata all’Iraq, ai quali si stima l’aggiunta di ulteriori 300 miliardi per la ricostruzione dei danni causati dall’invasione; tutto ciò per trovare armi di distruzione di massa mai esistite e impiccare un dittatore soli pochi anni prima sostenuto, armato e finanziato dagli stessi USA. Nota per “casa nostra”: all’Italia la partecipazione alla guerra irakena, denominata “Operazione Antica Babilonia”, è costata non meno di 1,3 miliardi di euro ed è stata finanziata, anche, con l’8 per mille di falsa cooperazione allo sviluppo!


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L’altra metà del mondo

BRICS è l’acronimo dei cinque Stati, Brasile-Russia-India-Cina-Sud Africa, che a partire dal 2009 (prima sessione di Ekaterinburg) hanno costituito il coordinamento tra i principali Stati in via di sviluppo nei quattro continenti, in autonomia e sostanziale alternativa al G6 degli Stati più sviluppati dell’occidente, oltre al Giappone. Nella foto: Manmohan Singh, primo mini-

stro dell’India; Xi Jinping, presidente della Cina; Jacob Zuma, presidente del Sud Africa; Dilma Rousseff, presidente del Brasile; Vladimir Putin, presidente della Russia. 3 miliardi di abitanti (42% del mondo); 15 miliardi US di PIL; 4 miliardi US di riseve di valute estere; 100% di crescita del reddito pro capite in 10 anni; proiezione 2030 superamento del PIL G6 (Usa-EU-Giappone).


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Il Mondo è cambiato e noi ne siamo fuori

Più tecnologia, più mercato interno, più Stato nell’economia

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entre la “nostra” metà del Mondo si sta consumando in una crisi della quale continua a rifiutare di vedere (ammettere) le ragioni e come unica via d’uscita insiste nella strategia del “si salvi chi può”, che vuol dire tutti contro tutti: Germania contro il sud dell’Europa, USA contro l’Europa e oggi Inghilterra in fuga dall’Europa alla ricerca della salvezza sotto l’ombrello Usa, l’altra metà del Mondo si sta organizzando sempre più strutturalmente, immaginando una strada che non si pone neppure come conflittuale con l’altra metà del Mondo, ma segue una propria via autonoma e autosufficiente. Mentre noi parliamo ancora di G6, le sei più potenti economie del Mondo occidentale (Usa, Germania, Francia, Italia, Inghilterra, Canada), allargato stabilmente a un G7 con il Giappone, e ancora immaginiamo “generosamente”, da dominanti, un G8 allargato alla Russia e un G20 con le ulteriori nuove nazioni emergenti, i 5 del BRICS hanno già costituito il loro “G5” con i dati di popolazione, risorse energetiche e riserve valutarie che abbiamo indicato nella pagina precedente. A differenza del “nostro” G6/7 il “loro” 5 in verità è già un 100 perché a differenza del “nostro” G6/7 il BRICS non si pone come dominante nei confronti dei paesi minori, ma come guida e traino. Da un lato “noi” utilizziamo il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale come strumenti di dominio delle economie povere, centellinando aiuti che poi sono sempre strumenti di finanziamento funzionali alle specifiche esigenze dei dominanti (si da o si toglie ai paesi poveri a seconda dei bisogni di importazione e/o esportazione dei paesi ricchi); dall’altro oggi, proprio all’esito della quinta riunione del BRICS di Durban, i 5 hanno deciso la creazione di una nuova Banca Mondiale, autonoma e alternativa a quella storica occidentale, che avrà proprio il compito di intervenire dove è storicamente “mancante” la Banca Mondiale dell’occidente, finanziando direttamente lo sviluppo dei paesi più poveri. 50 miliardi di dollari il primo fondo di dotazione della nuova “BRICS Development Bank” e ulteriori 100 miliardi di fondo di così detta “riser-

va” per proteggere, incrociandole, le rispettive economie dai rischi delle aggressioni speculative. E’ solo l’inizio considerando, come detto nella pagina precedente, che i paesi del BRICS dispongono di oltre 4.000 miliardi di dollari di riserve in diverse valute occidentali (3.500, o forse oltre, la sola Cina).Ma non basta. In occasione della riunione di Durban, alcuni degli Stati del BRICS hanno deciso di eliminare il dollaro USA (e l’Euro) dai loro scambi commerciali, riconoscendosi la parità monetaria, evidentemente garantita dal fondo di protezione ora detto. E ancora, a partire da quest’ultima riunione il BRICS non sarà più una occasione di incontro, sostanzialmente simile al “nostro” G6/7, ma si doterà di una struttura organizzativa stabile: il “Consiglio degli affari del BRICS” (Business Council) che prefigura già un nuovo “ordine” economico alternativo a quello occidentale che, stando alle stime delle stesse società di rating nord americane, nel 2030 supererà il G6/7 inclusa l’intera Unione Europea. osa significa tutto questo? Significa che l’altra metà del Mondo, che è già sfuggita al controllo dell’occidente e sta marciando a ritmi di sviluppo impressionanti di fronte alla nostra recessione, sta per conquistare, trascinandolo nella sua sfera di influenza, tutto il resto del Mondo extra USA, Canada, Unione Europea e Giappone. Di nuovo, cosa vuol prefigurare tutto ciò? Prefigura che i “nostri” storici mercati, e ciò vale tanto per l’approvvigionamento delle materie prime, assolutamente carenti nell’occidente sviluppato, quanto per i mercati di destinazione delle nostre produzioni, scompariranno o comunque diverranno sempre meno accessibili o sempre meno a “buon prezzo”. Certamente in questo momento la crescita impetuosa dei mercati interni a quei paesi in forte sviluppo sta generando una domanda di beni e prodotti, soprattutto di alta tecnologia, che quegli stessi paesi non sono ancora in grado di produrre al loro interno e, dunque, sta generando un fenomeno di aumento delle importazioni dall’occidente che “illude” ancora alcuni Stati occidentali (vedi soprattutto la Germania) possessori di tecnologie pro-

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duttive più avanzate, di avere ancora margini di crescita basata sulla storica politica delle esportazioni. Ma questo inevitabilmente non sarà per molto tempo, poiché presto quei paesi saranno in grado di produrre al loro interno anche quei prodotti a più elevata tecnologia e, pertanto, a quel punto caleranno inevitabilmente le importazioni dall’estero o persino, al contrario, saranno loro a esportare e non più solo prodotti a bassa tecnologia ma molto più economici, bensì anche ad alta tecnologia magari più evoluta della nostra in evidente declino. utto ciò dovrebbe avvertirci per il futuro della nostra miracolosa e sempre più lontana ripresa. Non si può, e non si deve, puntare sempre e solo sulle esportazioni insistendo caparbiamente quanto stupidamente sull’abbassamento dei prezzi, che a monte vuol dire riduzione del costo del lavoro, dell’ambiente, delle protezioni, ecc., poiché si tratta di una competizione non solo di breve respiro, ma già persa in partenza. L’alternativa è quella sempre declamata in “politichese” (vale anche per le fanfare della Confindustria) dell’investimento nella ricerca e nella crescita qualitativa delle produzioni, ma mai praticata per la carenza culturale della nostra inesistente classe imprenditoriale e lo smantellamento della presenza pubblica nell’industria trainante. Ma c’è anche un’altra risposta, non alternativa ma concorrente, che è quella dello sviluppo del mercato interno che le politiche di austerità stanno uccidendo. Nel Mondo che è già cambiato (non è più tempo di dire “sta cambiando”) occorre un cambiamento radicale delle nostre politiche industriali ed economiche in genere: più tecnologia per le esportazioni di qualità e più mercato interno per le produzioni autoctone. Tutto ciò nel nostro sistema industriale privato terzocontista, arretrato e prevalentemente marginale, si traduce in una sola parola d’ordine: più Stato anche nell’economia e nella produzione. Gli altri lo fanno e hanno successo; sarà tempo di imparare qualcosa invece sempre e solo di “presumere” (presunzione sinonimo di ignoranza e stupidità). SR

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CinAfrica 60 anni di cooperazione paritaria La strategia della cooperazione internazionale “win-win” cinese fonda le sue origini nei primi rapporti tra la Cina e il Continente Africano che risalgono al 1955. Le due realtà si sono scambiate ufficialmente una solidarietà reciproca durante la conferenza afro-asiatica di Bandung in Indonesia nel 1955 che segnò l’inizio di un movimento dei paesi in via di sviluppo in contrapposizione ai blocchi USA e URSS. Nella dichiarazione finale della conferenza venne proclamata l’eguaglianza tra tutte le nazioni e i principi fondamentali di cooperazione politica internazionale fra i Paesi aderenti. È tuttavia il 1963 l’anno fondamentale nei rapporti tra Cina e Africa: risale ad allora il primo viaggio di Zhou Enlai nel Continente Africano, questo viaggio diede l’idea di una mutua cooperazione e assistenza economica tra nazioni povere. Fu con Mao-Tse Tung che la Repubblica popolare Cinese, con uno dei più bassi redditi pro-capite, si trasformò in dispensatrice di aiuti allo sviluppo del “terzo mondo”. Nello stesso tempo l’Africa andava incontro alla decolonizzazione e i nascenti Stati erano alla ricerca di punti di riferimento ideologici ed economici. L’alleanza auspicata da Mao ha lasciato una traccia concreta in Africa, la ferrovia TamZam (Tanzania-Zambia), chiamata “Freedom Railway”. Questo progetto è così importante perché segnò l’inizio della causa rivoluzionaria internazionale antimperialista cinese e permise di stipulare l’amicizia con i movimenti di liberazione africana. L’analisi cinese della situazione politica internazionale combaciò perfettamente con gli interessi della classe dirigente africana, questa situazione prefigurò la condizione ideale per l’affermazione di un nuovo modello di relazione politica “win-win cooperation”, ovvero un modello di cooperazione in cui entrambe le parti coinvolte dalla relazione possono trarre un profitto. Il 2006 è considerato l’anno della Cina in Africa poiché la presenza cinese è cresciuta in maniera esponenziale ed è diventata visibile a tutti. Nel 2006 infatti è stato pubblicato un documento programmatico, il “libro bianco”, che rappresenta l’articolazione di una politica specifica della Cina nei riguardi del Continente Africano. Il fattore decisivo che ha permesso alla Cina di entrare nei mercati africani è la de-

cisione di promuovere un approccio senza vincoli politici, caratterizzato da due principi fondamentali: 1) il “principio di non interferenza” negli affari dei singoli Stati, dà la percezione di un rispetto della sovranità nazionale di gran lunga superiore a quello osservato dai principali attori occidentali; 2) il “principio di uguaglianza in diritto” significa che gli Stati, grandi o piccoli, ricchi o poveri hanno tutti il diritto di intervenire liberamente su questioni internazionali e di gestire i propri affari interni senza subire l’ingerenza di altri. Il modello di sviluppo cinese d’esportazione è denominato “Beijing Consensus”. All'indomani del XVIII congresso del Partito comunista cinese del 2012 è interessante prestare attenzione alle riflessioni teoriche di Zheng Bijian, presidente dell'Istituto cinese di innovazione e strategia dello sviluppo e conosciuto come padre della teorizzazione dell' ”Ascesa pacifica” della Cina che tanto ha influenzato le politica internazionale della generazione di governo guidata dal presidente Hu Jintao e che verrà fedelmente portata avanti da quella di Xi Jinping (vedi articolo nella pagina seguente). In occasione di un dibattito sul dialogo tra Cina ed Europa Zheng Bijian ha proposto il concetto strategico dell'ampliamento e dell'approfondimento della “convergenza di interessi” e della co-

struzione di “comunità di interessi”. Ribadito il carattere pacifico della crescita cinese, anche alla luce delle opportunità di sviluppo e crescita che questa offre al mondo intero, lo studioso indica per il suo Paese la necessità di “allargare gradualmente la convergenza di interessi e di costruire comunità di interessi con i suoi vicini e le regioni circostanti, così come con tutti i Paesi e le regioni”. In un ambiente internazionale caratterizzato da crescente interdipendenza e di interessi profondamente intrecciati, nel suo percorso di crescita la Cina “può e deve formare con vari Paesi e le regioni delle comunità di interessi in diversi settori e a diversi livelli che non possano essere facilmente interrotte”. Siamo di fronte, quindi, a una “win-win strategy” flessibile, capace di individuare, volta per volta e a seconda degli interlocutori, gli ambiti e i settori strategici della cooperazione.

L’Esercito di Liberazione del Popolo (PLA) un impegno concreto per la pace nel mondo “La democrazia rappresenta l'andamento del mondo, ma non può essere imposta dall'esterno. Il popolo di un Paese dove decidere il proprio approccio ai diritti umani, alla democrazia e allo stato di diritto in conformità alle proprie condizioni nazionali”. Nell’adempiere i doveri e le responsabilità internazionali, finora il PLA ha partecipato a 23 missioni di peacekeeping con mandato dell’Onu, inviando 22.000 caschi blu cinesi. Tra i membri del Consiglio di Sicurezza, la Cina è il paese che ha inviato il maggior numero di militari per peacekeeping. Nei 115 paesi fornitori di caschi blu, la Cina è il paese da cui proviene il maggior numero di personale del genio militare, del trasporto e della sanità. Nei paesi in via di sviluppo, la Cina è il paese che ha la più elevata quota di contributo al bilancio dell’Onu. Le Forze Armate cinesi sono molto attive nel partecipare sia alle missioni umanitarie internazionali sia agli interventi di soccorso negli altri paesi colpiti da catastrofi. A partire dal 2002, il PLA cinese ha trasportato materiali umanitari per 1,25 miliardi di yuan cinesi in 27 paesi colpiti da calamità naturali; ha inviato ben 11 gruppi di soccorritori specializzati per il sisma, la salute e le epidemie nei paesi colpiti dai disastri. Inoltre, il personale del PLA ha fornito più volte aiuti per rimuovere le mine in diversi paesi ed ha partecipato agli scambi di esperienze a livello internazionale sulla riduzione delle calamità naturali ecc.


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Cooperazione

“Lavorare insieme verso un futuro migliore per l’Asia e per il Mondo” Discorso di Xi Jinping al Furum di Boao, Hainan, 7 Aprile 2013 Cari Amici, in questa mite stagione dal cielo limpido e dal clima temperato, dalla brezza profumata di cocco, sono molto felice di incontrare tutti quanti voi in occasione della conferenza annuale del Forum di Boao per l’ Asia 2013, in questa isola accogliente abbracciata dal mare. Il tema della attuale conferenza annuale, chiamata “Asia Seeking Development for All: Restructuring, Responsibility and Cooperation”, è di forte rilevanza. Spero vi possa coinvolgere in una discussione approfondita sul sostegno dello sviluppo asiatico e che possiate perciò contribuire attraverso il vostro impegno e la vostra visione, alla pace, alla stabilità e alla prosperità in Asia e in tutto il mondo. Il mondo sta oggi attraversando profondi e complessi cambiamenti. Le nazioni stanno divenendo sempre più interconnesse e interdipendenti. Diversi miliardi di persone, in un gran numero di nazioni in via di sviluppo, stanno accogliendo la modernizzazione. I bisogni del momento, ossia pace, sviluppo, cooperazione e vantaggio reciproco, stanno prendendo slancio. D’altra parte però, il nostro mondo è lontano dalla pace. Lo sviluppo rimane la battaglia più grande; l’economia globale è entrata in un periodo di profondo riadattamento e la sua ripresa rimane per ora ancora lontana. Il settore finanziario internazionale deve fronteggiare molti rischi, si stanno sviluppando varie forme di protezionismo, le nazioni stanno ancora affrontando molte difficoltà per stabilizzare la struttura economica, e l’amministrazione globale è chiamata a migliorare la stessa. Raggiungere uno sviluppo comune per tutte le nazioni è tutt’ora una faticosa battaglia. L’Asia è una delle zone più dinamiche e promettenti del mondo e il suo sviluppo è fortemente connesso allo sviluppo degli altri continenti. Lavorando spalla a spalla con il resto del mondo in tempi di difficoltà per contrastare la crisi finanziaria internazionale, l’Asia è apparsa come un’importante locomotiva in grado di guidare la ripresa e la crescita economica mondiale. Cari amici, Il genere umano possiede un’unica terra, che è la casa di tutte le nazioni. Lo sviluppo comune, che è il fondamento di uno sviluppo sostenibile, è a

servizio di tutti gli interessi principali e a lungo termine dell’intera popolazione mondiale. Come membri di uno stesso villaggio globale, dovremmo promuovere un senso di comunità riguardo a un destino condiviso, seguendo i bisogni del momento, mantenendoci sulla giusta direzione, rimanendo insieme nei momenti di difficoltà e promuovendo lo sviluppo asiatico e del resto del mondo fino a raggiungere nuove vette. Dobbiamo lavorare insieme per sostenere la pace così come per garantirne una sicura salvaguardia che sostenga lo sviluppo comune. La pace è l’eterno desiderio della nostra gente. La pace viene notata difficilmente dalle persone, quando ne sono beneficiate, proprio così come avviene con aria e sole; ma nessuno di noi può vivere senza essa. Senza pace, lo sviluppo è fuori questione. Le nazioni, che siano piccole o grandi, forti o deboli, ricche o povere, dovrebbero tutte contribuire con il loro apporto per mantenere e accrescere la pace. Piuttosto che minare l’un l’altra i propri sforzi, le nazioni dovrebbero completarsi reciprocamente e lavorare insieme per il progresso. La comunità internazionale, dovrebbe sostenere la visione di una sicurezza onnicomprensiva, una sicurezza comune e cooperativa così da trasformare il nostro villaggio globale in un grande palcoscenico per lo sviluppo comune, piuttosto che in un’arena dove i gladiatori si combattono reciprocamente. E a nessuno dovrebbe essere concesso di gettare un paese o persino l’intero mondo nel caos per guadagni individuali. Come spesso diciamo in Cina, un solo fiore non fa primavera, mentre cento fiori in piena fioritura portano la primavera nel giardino. Tutti gli Stati del mondo sono strettamente connessi e condividono interessi convergenti, perciò dovrebbero condividere la loro forze. Mentre persegue i suoi interessi, una nazione dovrebbe promuovere lo sviluppo collettivo di tutti ed espandere gli interessi comuni insieme ai propri. Dobbiamo promuovere una cooperazione Sud-Sud e un dialogo NordSud, portare avanti un’espansione bilanciata dello sviluppo e delle nazioni svilup-

pate e consolidare la base per uno stabile e sostenibile terreno per l’economia globale. Dobbiamo rispettare i diritti all’indipendenza di una nazione scegliendo il suo sistema sociale e il suo percorso di sviluppo, eliminando sfiducia e dubbi e trasformando le diversità e le differenze tra le nazioni in una forza dinamica e trainante per lo sviluppo. Cari amici, Lo scorso novembre, durante il Diciottesimo Congresso del Partito Comunista Cinese, è stato esposto il progetto di sviluppo del paese per i prossimi anni. I principali obiettivi che abbiamo stabilito sono i seguenti: entro il 2020, il PIL e le entrate pro capite dei residenti in campagna e città dovrà raddoppiare rispetto al 2010, e dovrà essere completato il processo di costruzione di una società del relativo benessere. Entro la metà del ventunesimo secolo, la Cina diventerà un paese socialista moderno prospero, forte, democratico, armonioso e avanzato a livello culturale, e verrà realizzato il sogno cinese di grande rinnovamento della nazione. Siamo molto fiduciosi del futuro della nazione. Ribadendo fermamente la propria sovranità, sicurezza e integrità territoriale, la Cina continuerà a mantenere la pace, la stabilità e un buon rapporto con gli Stati vicini, continuando a giocare un ruolo costruttivo nel risolvere problemi cruciali a livello regionale e globale, esortando al dialogo e lavorando infaticabilmente per risolvere adeguatamente le questioni importanti attraverso il dialogo e la negoziazione. Noi in Cina siamo pronti a stringere la mano agli amici di tutto il mondo, impegnandoci congiuntamente per creare un brillante futuro e per apportare benefici all’Asia e al mondo intero.


Algérie

I sapori dell’Algeria

Ho desiderato nella mia immaginazione una casa senza vicini un letto e uno specchio in una camera senza finestre io e quel giovane felicità e oblio (M. E. Hachlaf, "El Haoufi. Chants de femmes d’Algérie", éditions Alpha, Alger 2006)

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Algérie

L’Algeria di ieri e di oggi Il lungo viaggio fino al Medina Bazar DI HADJER GIUR E SARA MIRTI

La Repubblica Popolare di Algeria (Dzayer, in lingua berbera) è divisa in 48 wilāyāt (province) ed è situata nell'Africa del Nord (fa parte del Meghreb). Dopo la tragica scissione del Sudan è, per estensione, il più grande Stato del continente africano; comprende nel proprio entroterra parte dello sterminato Sahara. L’Algeria costeggia il Mediterraneo per 1.200 km offrendo spiagge e insenature meravigliose. Superate le fertili pianure e gli altipiani del centro, si apre la visione delle oasi del sud. Tassili e Ahaggar sono due musei naturali considerati Patrimonio universale dall’UNESCO. La natura di questa terra è infatti molto generosa: ci sono palme da datteri, agrumeti, vigneti, sugheri e pini dell’Alep; i suoi parchi proteggono specie rare come la gazzella del deserto e il fennec dalle larghe orecchie. Molti uccelli migratori (pernici, fenicotteri, cicogne, quaglie) trovano ospitalità in queste regioni. Membro della Lega Araba e dell'Unione Africana dal 1962 (anno della sua indipendenza dalla Francia), appartenente all'OPEC dal 1969, nel 1988 ha contribuito alla formazione dell'UMA (unione del Maghreb Arabo). Si tratta di un paese, per costituzione, "musulmano" (soprattutto di fede sunnita), "arabo e tamazight (berbero)". Naturalmente prende il nome dalla sua capitale, Algeri (El Djazaïr), costruita nel nord del paese dai berberi sulle rovine di un'antica città romana; nel mare di fronte a tale città erano visibili dei grandi scogli, chiamati in arabo "le isole", alJazāʾir, appunto. Negli anni '50 del '900 John Gunther si è trovato a scrivere: "Si sente dire spesso che la sua capitale, Algeri, […] somiglia come due gocce d'acqua a un porto qualsiasi della Francia metropolitana, Tolone o anche Marsiglia. […] E' borghese e rispettabile ed ha buoni negozi di librai ed ottimi ristoranti, secondo la massi-

ma francese che bisogna nutrire insieme la mente e il corpo. Resta il fatto che Algeri, sotto la vernice francese, è ancora un città araba". Ma gli arabi, "silenziosi, cauti, implacabili", secondo John Gunter, sono chiaramente, nonostante il paese non fosse ancora indipendente e quindi libero di esprimere in pieno la propria identità, "il substrato permanente, la carne sotto la pelle" (J. Gunther, "Africa", Garzanti, Milano 1959, p. 104). Certo, prima di essere conquistata dalla Francia di Carlo X, nel 1830, l'Algeria è stata una terra di molte storie ed altrettante influenze culturali e politiche e ne sono una prova le varie etnie che animano il paese: vi è una base etnica berbera, arricchita nei secoli da elementi fenici, romani, bizantini, turchi (la cui presenza com'è ovvio risale al periodo ottomano) e soprattutto arabi (molti degli algerini sono "berberi arabizzati"); sono inoltre presenti i discendenti dei rifugiati musulmani cacciati dalla Spagna agli inizi del XVI secolo. Guardando la storia che ci ha preceduti con gli occhi (e la coscienza) di oggi, sembra incredibile che qualcuno abbia potuto pensare all'Algeria, paese dotato di un territorio vasto quanto, più o meno, quattro volte quello della Francia (e di una storia altrettanto imponente), co-

me a una colonia di quest'ultima, anzi, come a un'estensione dei suoi dipartimenti, i cui abitanti potessero godere, ma molto spesso solo sulla carta, gli stessi diritti di tutti gli altri cittadini francesi. Sembra incredibile che si sia potuto considerare l'Algeria parte integrante della Francia: come hanno potuto gli occhi dei colonizzatori ignorare il mare (non solo fisico) che permetteva alla loro cultura e a quella araba di scontrarsi e incontrarsi seguendo le proprie, precise, correnti, quasi con rispetto, come fa appunto il mare, togliendo e apportando a ciascuna delle rive su cui s'infrange in uguale quantità? Come hanno potuto ignorare fino alla fine quello che John Gunther, famoso giornalista e autore americano, aveva capito subito, alla prima occhiata, e cioè che "se i francesi non saranno mai in grado di assorbire gli arabi […], neppure gli arabi potranno mai assorbire i francesi" (J. Gunther, "Africa", Garzanti, Milano 1959, p. 110)? Credo che per "francesi" si possa tranquillamente intendere "europei", o meglio "Pieds-noir" (in Algeria insieme ai francesi erano presenti in discreto numero anche spagnoli e italiani, còrsi, maltesi e una comunità ebraica - "arabizzata" - avente piena cittadinanza francese già dal 1870),


Algérie molti ricchi e sprezzanti, molti poveri proletari (in Algeria, a differenza di altre colonie, il partito comunista non era messo al bando), tutti ugualmente soggetti a un'influenza reciproca ed a una graduale assimilazione ai bei colori della terra che li nutriva: "Avendo tratto il nutrimento da questa terra ne hanno preso il colore indelebile. Si può quasi dire che il francese d'Algeria rappresenti un nuovo tipo di nazionalità mediterranea a sé stante" (J. Gunther, "Africa", Garzanti, Milano 1959, p. 104). Magari potesse essere così in ogni paese, magari si potesse arrivare nel tempo a costituire, pacificamente, un'unica, vera ma non certo nuova, nazionalità mediterranea a sé stante rispetto a tutte le altre tanto declamate nazionalità. Perché è solo pacificamente, ma con tanto coraggio, che si possono saltare i mari come fossero pozzanghere o ignorare gli ostacoli posti da deserti. Ne sanno qualcosa le vittime delle numerose guerre fratricide che hanno insanguinato la terra d'Algeria all'indomani dell'indipendenza (non è questo il luogo per ricordare i numerosi conflitti, o i più recenti fatti di cronaca, che hanno visto come protagonista e vittima il popolo algerino; ba-

sterà qui ricordare, proprio come abbiamo fatto nell'articolo dedicato al Mozambico, il contributo fondamentale dato alla pacificazione dalla Comunità di Sant'Egidio: infatti, per portare un esempio pratico, il 30 gennaio 1994 divenne Capo dello Stato il generale Liamine Zéroual, già ministro della difesa dal luglio 1993, che favorì la riconciliazione, ottenuta anche grazie alla mediazione della Comunità di Sant'Egidio, che il 14 gennaio 1995 fece approvare un accordo fra tutti i partiti di opposizione laici e islamici, a cui aderì anche il FIS e a cui il governo rispose con un atto politico: l'indizione delle prime elezioni presidenziali pluraliste). Purtroppo, o per fortuna, proprio ciò che di eterno si nasconde in ogni individuo - la coscienza - è anche la sua caratteristica più implacabile, è quell'aspetto indelebile che non potrà essere cancellato dalla violenza, non potrà essere comperato dall'ostentazione del potere, né potrà essere confinato al di là di alcun mare, deserto o massiccio montuoso. La lingua usata può mutare, persino la pelle può cambiare colore col trascorrere delle generazioni, tuttavia l'identità che ad esse soggiace troverà in una nuova lingua o in dei

21 nuovi panni dei mezzi diversi per esprimersi, senza mai piegarsi, senza stravolgersi profondamente. Non a caso, in Algeria l'arabo rappresenta la lingua ufficiale e la lingua berbera, in particolare la varietà "cabila", parlata da 1/3 o forse 1/4 della popolazione, è anch'essa lingua nazionale (art. 3 bis della Costituzione), ma non ufficiale, e il francese rimane una lingua dominante, quasi "un bottino di guerra" com'è stato definito: nonostante non sia stato riconosciuto in modo ufficiale, esso è usato ugualmente dall'amministrazione e dai media, costituendo di fatto una seconda lingua (se si considera "prima lingua" solo quella che s'impara presso la propria famiglia), una lingua, insomma, di uso corrente che non intacca ma contribuisce all'identità algerina. D'altra parte, sempre parlando di "bottini di guerra", un gran numero di francesi è di origine algerina: molti se ne sono andati dall'Algeria alla fine della guerra per l'indipendenza, attratti dalla prospettiva di un lavoro e di una nuova casa oltremare; essi hanno tutt'ora l'arduo compito d'insegnarci a vivere la nostra identità mediterranea. Chi tra noi si ricorda che Camus era algerino?


22 Forse i nuovi cittadini del nostro mediterraneo avranno - prendendo in prestito le parole usate dal P. P. Pasolini nel 1965 - lineamenti "appena sbozzati, in gioventù, / come i mussulmani o gli indù: / hanno i lineamenti corti degli animali, / gli zigomi duri, i nasetti schiacciati o all’insù, / le ciglia lunghe lunghe, i capelli riccetti"; e magari "il loro capo" si chiamerà Alì e avrà davvero gli occhi azzurri. O forse saranno simili a noi, ciascuno stretto nella propria integrità individuale, ma con lo sguardo già abituato ad apprezzare ogni più piccola differenza nello sguardo degli altri…chi lo sa? Intanto la realtà è che una ragazza col velo, qui da noi, può sentirsi ancora discriminata. Il suo velo ai nostri occhi non è più una scelta, un vezzo, un piacere, un'identità acquisita, un modo imprescindibile d'essere se stessi, ma una violenza. Sono sicura che spesso non ne notiamo nemmeno il colore o la fantasia, o il modo in cui è stato indossato: semplicemente ci sembrano tutti uguali, proprio come i protagonisti di un film di kung fu. E' solo un pezzo di stoffa colorato, eppure può sembrarci grande tanto quanto il Mar Mediterraneo. Ma forse in qualche modo è "normale": ancora non riusciamo a credere che, da un altrove neanche troppo lontane, possano arrivare persone simili a noi, con le stesse potenzialità, le stesse capacità, anzi, spesso con risorse maggiori delle nostre. Dopo una laurea in Scienze dell'Educazione, for-

Algérie se davvero l'unico modo che una ragazza col velo ha per lavorare qui è fare tutti i corsi necessari ed aprire un'attività: l'ha fatto Hadjer, e ci ha messo dentro tutta la sua abilità culinaria e tutta la comprensione necessaria per "stare al pubblico". "Gli stranieri" possono stare all'interno delle loro attività commerciali, ma appena fuori di lì ritornano ad essere "bizzarri"… Forse per questo molti "stranieri" ci tengono ad essere e a sembrare "italiani", a volte perdendoci nel cambio. Quando si entra al Medina Bazar, in via Mazzini, la sensazione è di essere accolti in mondo in cui c'è ancora tanto da imparare: il gusto delle salse, il nome dei piatti, l'abbinamento dei sapori, il calore del tè da solo o a fine pasto. Gli italiani però, si sa, almeno in fatto di cibo sanno come porsi, e la maggior parte delle persone che ho visto uscire canticchiando motivi arabi e scambiandosi opinioni sulle diverse salse appartenevano alla categoria dei "giovani", e forse non leggeranno mai in vita loro una poesia di Pasolini. Uno dei sogni di Hadjer era quello di aprire un giornale dedicato, tra le altre cose, allo scambio tra "stranieri" impegnati in diverse attività lavorative, ma sembra che nessuno sia ancora pronto a definirsi in maniera irrevocabile in un modo o nell'altro. Allora cominciamo dai nomi, fosse anche quello delle diverse pietanze, e cominciamo pian piano ad inventarci un domani da nuovi cittadini di una nuova nazionalità.

Tajine di osso buco, mele, mandorle e prugne

“Boqala” La parola invoca antiche tradizioni, figure di donne autorevoli e sagge, gesti e cerimonie di un passato lontano. Dopo aver sorseggiato the alla menta o caffè, la padrona di casa porta un boccale (la boqala) riempito con l’acqua di sette sorgenti o di sette fontane. Torna anche in questo rito la valenza magica del numero sette. Ogni donna vi deposita dentro un gioiello, sia esso un anello, una spilla, un bracciale, una collana o un orecchino. A questo punto la più anziana del gruppo, colei che sa molto perché molto ha vissuto e quindi molto ha visto, colei che attraverso la sua sapienza può veicolare le forze magiche nella conoscenza, prende il boccale e lo fa girare sette volte attorno ad un braciere, dove brucia dell’incenso, recitando formule d’incantamento. Quindi chiede ad ogni donna presente di pensare ad una persona amata o ad una situazione che la preoccupa. La più anziana recita una boqala (che oltre ad essere il nome della brocca, designa anche questo tipo di poesie), una breve poesia di quattro o cinque versi. Il versetto le può venire dalla memoria secolare degli avi o anche dalla semplice improvvisazione del momento. Dopo si pesca un gioiello dal boccale. La proprietaria, insieme a tutto il gruppo, deve trovare nei versi quegli elementi che possono essere illuminanti per la sua vita, o per i suoi amori, o che possono annunciarle un evento particolare; e siccome si tratta di una poesia spesso vaga e immaginifica, ciò rende possibile leggere in essa qualunque futuro. Ancora vitale, la boqala presenta mille variazioni. La boqala, poesia strettamente femminile e urbana, è anonima e raramente viene riportata se non oralmente.

L’amore è in casa nostra, l’amore ci alleva. L’acqua del pozzo dolce, l’amore solleva. Apre come il basilico, l’amore i suoi rami. Non asservito al sultano e neppure al qadi.


Patrimonio

Non voglio un F35

Oltrepassare il muro del suono? No, basterebbe riuscire a percepire il suono in questa Italia sorda di un Rinascimento impossibile. La lirica patrimonio immateriale dell’Umanità .

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Patrimonio

Quattro Anfiteatri con un solo F35 NOTIZIE E RIFLESSIONI DEL GORILLA QUADRUMANO

Qualche strano italiano, tra cui persino anche qualche ottimo cantante umbro associato nei “Cantori Professionisti d’Italia” (una libera associazioni di cantanti d’opera italiani, tutti affermati professionisti, e tra cui molti anche famosi a livello internazionale) ha pensato niente di meno che candidare presso l’Unesco l’opera lirica come patrimonio immateriale dell’Umanità! Quasi non sembra una notizia, sembra qualcosa di ovvio o qualcosa di già accaduto. Beh, direbbe il Signor Rossi: “L’opera è cosa italiana, in Italia c’è la Scala... è ovvio che è patrimonio dell’umanità...” No caro signore non è per niente ovvio, nessuno mai aveva avanzato questa proposta all’Unesco, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa della cultura. Ci mancherebbe altro. Quando mai un governo italico si sarebbe sognato di proteggere un bene culturale immateriale… Non si sono occupati di quelli materiali! (leggasi per esempio il crollo di Pompei). Sappia caro il mio Signor Rossi che se avesse letto bene i giornali e non fosse saltato ogni giorno dalla prima pagina direttamente al faldone delle notizie del calcio o avesse sentito con un po’ di attenzione qualche notiziario radiofonico o televisivo all’inizio di aprile, avrebbe appreso che alla luce dei dati Eurostat l’Italia è all'ultimo posto in Europa per percentuale di spesa pubblica destinata alla cultura (1,1% a fronte del 2,2% dell'Ue a 27 paesi) e al penultimo posto, seguita solo dalla Grecia, per percentuale di spesa in istruzione (l'8,5% a fronte del 10,9% dell'Ue a 27 paesi). È quanto emerge da uno studio pubblicato da Eurostat che compara la spesa pubblica nel 2011. Mentre invece, noi italiani famosi nella storia per le doti marziali spendiamo il 3% della spesa pubblica per la di-

fesa (in linea con l'Ue a 27 paesi) e il 4% per l'ordine pubblico (3,9% la media europea). Non sappiamo se sia questa la notizia e cioè quella che l’Italia è all’ultimo posto in Europa per la spesa culturale o quella della proposta avanzata dai Cantori Professionisti d’Italia. Beh mentre per la prima c’è solo da vergognarsi considerando soprattutto che mai più nell’immediato futuro l’Italia potrà competere sul mercato globale solo con la produzione manifatturiera per quanto di qualità, per la seconda auspichiamo che accada e ringraziamo per questo i promotori. La cultura (parola venuta alla luce per molti ignari del termine circa due anni fa grazie al Ministro Tremonti che affermò che “con la cultura non si mangia”) pensiamo che sia una grande risorsa per il nostro paese, per la nostra Regione. Pensiamo e lo pensano persino illustri economisti bocconiani (il Prof. Severino Salvemini per esempio) che l’investimento culturale è una risorsa economica reale, effettiva. Chi ha investito in cultura ne ha avuto un riscontro immediato. Un esempio in Italia, forse il più eclatante è Torino, ormai una vera capitale cultura-

le italiana. Chi mai 20 anni fa sarebbe andato in gita a Torino? Oggi ci si sposta per mostre e spettacoli anche in tempi di crisi. Ma l’Italia non è tutta cosi, è molto peggio e così peggio tanto da non andare neanche troppo lontano per constatarlo. Basta guardare a casa nostra,

in Umbria, a Spoleto. Il complesso dell’Anfiteatro sta cadendo a pezzi.


Patrimonio

E’ un’area che ha bisogno di interventi incisivi e restauri. Un’area di oltre 17000 mq con all’interno un intero anfiteatro romano, chiostri, chiese, spazi formidabili, un intero quartiere di una delle città più rinomate dell’Umbria proprio per la cultura. Un progetto organico stilato da uomini di cultura e di economia giace da tempo in attesa… di cultura. Occor-

rono circa 36 milioni di euro per il restauro secondo le stime ufficiali. Con il corrispettivo del costo di un solo caccia bombardiere F35 che l’Italia marziale ha deciso di acquistare verrebbe risistemato ben tre volte il complesso che potrebbe diventare in questo modo un luogo unico a livello internazionale per l’arte, il restauro, la musica, lo spettacolo secondo lo studio a suo tempo compilato da alcuni famosi e qualificati studiosi. L’Italia di super caccia F35 ne dovrebbe acquistare 90 per un costo iniziale di 12 miliardi di euro che dovrebbe salire sino a 40 miliardi (!) se si considerano i costi di manutenzione. Ma speriamo che torni utile l’apertura di una istruttoria da parte della Procura regionale del Lazio della Corte dei Conti per accertare presunti danni erariali. D’altra parte l’Italia è in linea con le spese per la Difesa, ben il 3% del PIL ma siamo ultimi in Europa per la cultura, perché perdere il primato? C’è chi corre per arrivare primo, chi per partecipare come nel nostro caso. Con spirito decubertiano partecipiamo anche perdendo. Ora pensando di cultura basta pensare solo ai ministri dei beni e delle attività culturali che hanno seduto la poltrona di Via del Collegio Romano: vi ricordate di Urbani, Bondi o Ornaghi? Noi no. Tutti distrattamente turisti-ministri per caso del patrimonio culturale italiano, il più importante al mondo. Speriamo che il neo, si fa

25 per dire, Presidente Napolitano, questa volta imponga qualche figura più incisiva. Anche se purtroppo la riconferma proprio del Presidente Napolitano non può proprio definirsi l’inizio un nuovo “rinascimento” per l’Italia, quel “rinascimento”, quello vero, quello artistico e culturale che è stato la linfa vitale di quello che è poi anche diventato il “made in Italy”. E allora l’opera, l’Unesco? No scusate, frasi a vanvera, ho dimenticato di entrare nel merito preso dai voli degli F35 e dagli anfiteatri romani. Vi suggerisco di leggere nei riquadri accanto e sostenere la campagna promossa dalla Associazione Cantori Professionisti d’Italia (http://www.cantoriproitalia.it/) Opera lirica patrimonio immateriale dell’umanità, aderendo alla campagna http://firmiamo.it/ unesco-opera-lirica-italiana-patrimonio-umanita (questo il link per firmare online). Ricordiamoci comunque che l’opera lirica nasce proprio in Italia all’inizio del 1600 e in oltre 400 anni si è diffusa in modo capillare e in tutto il mondo. Da Sidney a Toronto, da Città del Capo a Seul. In centinaia di teatri in tutto il mondo si canta in gran parte in italiano, il repertorio operistico italiano. Ricordiamocelo, ogni tanto, almeno nel 2013 in occasione del bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi. Ricordiamoci anche che il comparto dello spettacolo (opera, cinema, concertistica, danza, teatro di prosa, circo, ecc.) in Italia conta oltre 200.000 addetti: anche loro fanno parte del tessuto sociale della nazione, che lavorano o vorrebbero ancora continuare a lavorare, contribuendo all’economia e alla cultura nazionale nonostante lo Stato e i governi che si sono succeduti. Aderiamo alla campagna dei Cantori Professionisti d’Italia anche perché l’Umbria rappresenta una fucina di cantanti lirici tra cui alcuni che hanno raggiunto le vette più alte, tra cui il celebre soprano Antonietta Stella, perché l’Umbria in proporzione agli abitanti ha moltissimi teatri storici che sono nati proprio per accogliere, produrre opera lirica, aderiamo perché i teatri d’opera sono in gravissima crisi con tagli selvaggi delle risorse da parte dello Stato, perché è giusto proteggere una delle più emblematiche forme d’arte italiana.


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Patrimonio

CPI promuove l’inclusione dell’Opera Lirica italiana nel Patrimonio Immateriale dell’Umanità UNESCO entro il 2013, anno verdiano Il 17 Ottobre 2003 la Conferenza generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura (UNESCO) ha adottato la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale con lo scopo di salvaguardare il patrimonio culturale immateriale, assicurare il rispetto per il patrimonio culturale immateriale delle comunità, dei gruppi e degli individui interessati, suscitare la consapevolezza a livello locale, nazionale e internazionale dell’importanza del patrimonio culturale immateriale e assicurare che sia reciprocamente apprezzato e promuovere la cooperazione internazionale e il sostegno. La Convenzione ha specificato che “s’intende, per patrimonio culturale immateriale, l’insieme di pratiche, rappresentazioni, espressioni, conoscenze e i saperi – così come gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati ad essi – che le comunità, i gruppi e, in alcuni casi, gli individui riconoscono come facenti parte del loro patrimonio culturale. Tale patrimonio culturale intangibile, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi interessati in conformità al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia, e fornisce loro un senso d’identità e continuità, promuovendo così il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana”. L’Opera Lirica è invenzione italiana, è stata strumento di unificazione culturale attraverso la lingua, ancor prima che politica, ed è principale veicolo di diffusione e insegnamento della cultura italiana e della lingua italiana nel mondo. E’ inoltre fucina di conoscenze orali e manuali per tutte le professionalità che contribuiscono alla sua messa in scena e diffusione. Infine è costante laboratorio di tradizione e rinnovamento allo stesso tempo. A fronte di questa Convenzione, e ritenendo di rientrare a pieno titolo negli scopi che essa si prefigge, C.P.I. si è fatto promotore, a partire dal 2011, della candidatura dell’Opera Lirica Italiana a

patrimonio immateriale dell’Unesco ed ha avviato la verifica per la congruità del progetto con il dettato della Convenzione. In seguito ai primi contatti istituzionali con l’Unesco, sono stati compiuti i primi fondamentali passi di un iter protocollare particolarmente complesso. L’associazione ha verificato presso i referenti politici e istituzionali deputati (Mibac, commissione Unesco) la reale possibilità di proporre una candidatura tesa a collegare le numerose e diversificate componenti della comunità operistica italiana, tra di loro e con le comunità residenti all’estero. E’ stata poi avviata una campagna di adesione e di raccolta firme tra personalità del mondo della cultura italiana (registi, compositori, direttori d’orchestra, musicologi) e presso teatri, conservatori, scuole di musica, e circoli lirici, che ha trovato una sollecita partecipazione. Infine sono stati stabiliti collegamenti con istituzioni estere quali

l’Istituto taliano di Cultura di Vienna, il Teatro Wallonie a Liegi, Amigos de la Opera a Santiago (Cile), l’Associazione Sibitala, la Facoltà di Canto e l’Orchestra da Camera di Krasnoyarsk (Russia), il Gran Teatro del Liceu a Barcellona, l’Istituto Italiano di Cultura di Madrid, il Conservatorio della Svizzera italiana a Lugano, il Metropolitan Opera di New York, il National Center for Performing Arts di Mumbai. Le prossime tappe della candidatura prevedono la catalogazione del bene (affidata a un antropologo), l’individuazione di immagini (foto ed un breve film) rappresentative, la compilazione del documento di candidatura e una serie di iniziative volte alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica, del mondo scientifico e degli addetti ai lavori. Il 2013 è l’anno del duecentesimo anniversario verdiano: obiettivo del C.P.I, è l’essere pronta ad onorarlo con questa iniziativa.

C.P.I. Cantori Professionisti d’Italia - Chi siamo Siamo un’associazione di cantanti lirici professionisti italiani che si prefigge di difendere e diffondere il valore e la vitalità della musica e, più specificamente, del teatro d’opera quale eccellenza e patrimonio della cultura del nostro paese. C.P.I. è un’associazione non a scopo di lucro, apolitica, autonoma ed amministrativamente indipendente(*) che si prefigge lo scopo di difendere e diffondere il valore e la vitalità della musica e, più specificamente, del teatro d’opera quale eccellenza e patrimonio della cultura della Repubblica Italiana. Fondata nel 2011, in essa si riconoscono circa 200 cantanti lirici solisti italiani ai quali è data la possibilità di comunicare tra di loro tramite un forum privato, agevolando in questo modo la condivisione di istanze generali e di categoria. Consulenti esterni forniscono all’associazione ed ai singoli soci assistenza riguardo alle materie legali, contrattuali e previdenziali. Negli ultimi due anni C.P.I. è stata più volte ricevuta presso la Commissione Nazionale delle Regioni, il MIbac e la Commissione Nazionale Unesco. www.cantoriproitalia.it, indirizzo del sito per firmare la petizione


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Iraq, missione di guerra la strage dei pozzi di Nassirya

“Tutta l'operazione Antica Babilonia appare come una voragine, che inghiotte finanziamenti record distribuendo pochissimi aiuti. O meglio, i conti mettono a nudo la realtà che si vive a Nassiriya: non è una missione di pace, ma una spedizione in zona di guerra. Finora infatti sono

stati stanziati 1.534 milioni di euro, poco meno di 3 mila miliardi di vecchie lire, per consegnare alla popolazione della provincia di Dhi-Qar poco più 16 milioni di materiale finanziato dal governo: un rapporto di cento a uno tra il costo del dispositivo militare e i beni distribuiti”

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20 sigarette

“20 sigarette” un film di Aureliano Amadei Trama Il film è tratto dal romanzo autobiografico dello stesso Aureliano Amadei, scritto a quattro mani assieme a Francesco Trento, e concerne l’attacco terroristico contro il quartier generale italiano a Nassiriya avvenuto il 12 novembre 2003 e costato la vita a diciannove connazionali. Pur trattandosi di un fatto accaduto non molto tempo lontano da noi si tratta di un film storico perché dipinge un determinato avvenimento storico-politico di particolare importanza. Nell’attentato morirono dodici carabinieri, cinque militari dell’esercito e due civili nitaliano. Nell’attacco morirono anche nove iracheni e rimasero feriti altri venti carabinieri. Aureliano Amadei, civile italiano e aiutante del regista Stefano Rolla, fu l’unico a salvarsi delle persone presenti sullo spiazzo del quartier generale. La storia contenuta nel libro e trasposta nel film narra dunque l’attentato a Nassiriya dal suo punto di vista. Il film si apre nel 2010. Aureliano Amadei si trova in Italia, sta passeggiando da solo per una strada aiutandosi con un bastone perché è claudicante. Si appoggia ad un muretto e si fuma una sigaretta. Le sigarette sono un leitmotiv importante all’interno di tutto il

film, come richiama il titolo stesso. Un giorno si presenta l’occasione che Aureliano aspettava da tempo, quella di poter far l’aiuto regista in un film-documentario che verrà girato in Iraq. Aureliano è molto contento di poter far parte di questo progetto e di affiancare il regista Stefano Rolla anche se ha un po’ paura di recarsi in quel paese dilaniato da attacchi ribelli, kamikaze e conflitti armati. Nel suo viaggio è accompagnato da Stefano Rolla, il regista del film che gireranno lì. Per la sua sbadatezza dimentica addirittura di portare con se la macchina da presa. Quello che non dimentica di portare è il pacchetto di sigarette. Ogni volta che ne fuma una il protagonista ci dice che numero di sigaretta è e dunque ogni sigaretta fumata o offerta a qualcun altro viene a contrassegnare un momento della sua permanenza in Iraq. Il racconto della sua storia si snoda infatti lungo le venti sigarette fumate in Iraq. Una permanenza in Iraq durata quanto può durare un pacchetto di sigarette da venti. Un giorno il convoglio in cui viaggia assieme a Stefano Rolla e alla scorta perde la strada e cosi decide di recarsi al quartier generale italiano a Nassiriya dove ci sono i carabinieri. L’immagine che viene data di Nassiriya è quella di una città fan-

tasma, una terra desolata e dove si respira aria di morte: case rotte, macchine bruciate, bambini che giocano eludendo la povertà di quei luoghi e delle loro anime, calcinacci e polvere. È il 12 novembre 2003. Il convoglio giunge al quartier generale italiano a Nassiriya dove Aureliano conosce alcuni carabinieri, tra cui Massimiliano Bruno, soprannominato da tutti Max. Improvvisamente un camion rosso si avventa a tutta velocità contro l’ingresso al quartier generale ed esplode. L’esplosione provoca l’incendio dello stesso e lo scoppio delle munizioni delle armi poste nel loro deposito. Lo scoppio è particolarmente forte e provoca un gran numero di vittime sul colpo. Aureliano rimane gravemente ferito. Ci sono in questa parte del film scene forti, piene di sangue e cariche di dolore che evidenziano bene quanto l’attacco fu dilaniante e tragico. Alcuni abitanti locali aiutano i carabinieri feriti e Aureliano viene caricato su di una vettura e, completamente ricoperto di sangue, viene condotto all’ospedale americano. Quando si risveglia gli hanno piantato un tutore esterno alla gamba e gli comunicano che tutti i carabinieri con i quali stava parlando al momento dell’attacco sono morti. All’ospedale, assieme a una crocerossina, si concede l’ultima sigaretta. La fine del pacchetto significa la fine del suo viaggio in Iraq cosi come la prima aveva rappresentato l’esordio dello stesso. Il 25 novembre 2003 con un volo militare viene riportato a Roma e spostato all’ospedale militare del Celio dove viene visitato dai familiari, una folta schiera di militari, giornalisti, fotografi, religiosi e addirittura il presidente della repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Tra le varie visite c’è anche quella dei genitori di Massimiliano Bruno, morto nell’attacco kamikaze. L’ultima immagine che viene fornita nel film è quella di Aureliano che riprende Claudia, ora mamma, mentre sta dormendo e il loro figlio che piange. Aureliano lo prende in braccio e lo culla e il bambino richiama alla sua mente il bambino iracheno morto che durante il suo tragitto di spostamento verso l’ospedale aveva abbracciato invocando l’aiuto della gente e forse di Dio.


20 sigarette Critica Accettare che un ragazzo qualsiasi, dagli ideali ingenui e dallo sguardo scanzonato, sia coinvolto in un attacco terroristico, ci costringe a riflettere sul senso della missione italiana in Iraq. Non serve essere pacifisti per pensare che in quello strano mescolamento di disciplina militare dell'esercito e anarchia ideale di un aspirante artista sia accaduto qualcosa di indegno. La storia è vera; è talmente sentita che la regia risponde perfettamente alle esigenze di realismo dell'autore. Il tremolio delle riprese a camera a mano e l'immedesimazione costrittiva della soggettiva - scelta azzardata ma efficace - sono gli strumenti visivi adatti a restituire la tragicità del soggetto. Il risultato sorprende perchè la scelta rende corporee scene di rara crudeltà, evitando con intelligenza il rischio della retorica spettacolare tipica del piccolo schermo, così presente nei servizi giornalistici o nel finto cordoglio politico. Il legame emotivo tra spettatore e regista non si appoggia su banali trucchi di sceneggiatura ma è il risultato di un lavoro onesto che fa vibrare le corde dell'anima. E malgrado qualche chiarificazione di troppo, che si avvicina ad un'affettata didascalia da manuale (lo scontro con i militari in ospedale o la presentazione finale del libro), il film scorre sulla linea di un realismo ostinato che distrugge gli appigli di buonismo e propone l'annullamento della guerra in nome di una pace fatta, sì di contrasti, ma più vicina alla dignità delle persone. La colonna sonora di Louis Siciliano accompagna l'andamento narrativo con un'accurata sovrapposizione di forma e contenuto: musiche smaliziate per la vita in centro sociale e ritmi più serrati e angoscianti per quella al campo militare. Le venti sigarette del titolo, fumate con disinvoltura dal convincente Vinicio Marchioni, bruciano lo scorrere del tempo. E insieme al fumo, mozzicone dopo mozzicone, prende corpo una consapevolezza rara che dimostra l'inutilità di un militarismo sfrenato. Riflessione scontata? Forse. Ma drammaticamente indispensabile.

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Intervista al regista Aureliano Amadei "Venti Sigarette" è il frutto di una lunga elaborazione dell’esperienza più atroce della mia vita, nel tentativo di trarne qualcosa di costruttivo. Una tale elaborazione comprende tutti gli aspetti dell’esistenza e mi spinge a raccontare, oltre all’attentato in sé, la persona che ero prima, la persona che sono ora, l’umanità che ho incontrato in questa avventura, i sentimenti. Sì, perché si tratta di un film di sentimenti, più che di guerra. Sono arrivato in Iraq con tutti i pregiudizi di chi è arrivato all’aeroporto militare direttamente dal centro sociale. A 18 anni mi sono finto gay per evitare la naja. Nel novembre del 2003 partecipavo all’organizzazione delle numerose manifestazioni per la pace che, in quel periodo, portavano in piazza milioni di persone. Oggi non rinnego nulla né del mio pacifismo né della mia avversità alle missioni militari all’estero ma, dopo aver visto morire dei ragazzi di vent’anni, dopo aver fatto amicizia con il Ten. Massimo Ficuciello, dopo essere stato salvato da un gruppo di civili iracheni, ho sentito fortemente sulla mia pelle che non basta dichiararsi contrario. Non è possibile schierarsi da una o dall’altra parte perché non è possibile auspicare la morte né degli uni né degli altri. Ho trascorso solo poche ore in Iraq, giusto il tempo di fumare un pacchetto di sigarette. Ma dell’attentato e dei minuti di terrore che ne sono seguiti ricordo ogni singolo fotogramma

e ho scelto di non risparmiare nulla allo spettatore. Il tutto è girato in soggettiva, offrendo la possibilità di vivere quei minuti come li ho vissuti io: confusione, panico, ricerca di un nascondiglio, orrore per le ferite, per il sangue. E poi chiasso che sfonda i timpani, cadaveri, fiamme, colpi di mitra ed esplosioni. Il terrore che spezza il fiato, che si specchia negli occhi dei compagni di sventura, che ti spinge a scappare nonostante il piede a penzoloni e l’occhio dilaniato. La guerra in 20 sigarette è un concentrato di paura che dura pochi minuti ma non sembra finire mai. La guerra che ho vissuto io finisce con i civili che si accalcano, che strillano, che mi caricano su una macchina e buttano sul mio corpo insanguinato un bambino immobile, candido, freddo. La guerra finisce con la morte. Un’esperienza così non lascia solo l’umanità e l’amore. Lascia anche una buona dose di rabbia. L’ipocrisia di un paese in fibrillazione per gli eroi di Nassirya, il presenzialismo costante di politici, generali, preti e giornalisti. Il senso di colpa per essere sopravvissuto, il senso di responsabilità che si prova quando una storia che sembrava lontanissima arriva così vicina da ustionarti. Il misto di rabbia e tristezza che si prova quando non riesci a tenere in braccio la tua bambina senza rivedere nel suo volto quello di un bambino che ha avuto la sfortuna di essere nato e morto a Nassirya


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Giugno 2003 – Settembre 2006: cronistoria della missione italiana in Iraq

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utto inizia il 30 maggio 2003, dal porto di al-Manamah, in Bahrein, quando 3 navi della Marina militare italiana muovono verso l’Iraq. E’ l’inizio ufficiale della missione Antica Babilonia, forte di 3mila uomini. Il dislocamento operativo sul territorio della provincia di Dhi Qar, con base a Nassiriya, avviene a scaglioni differenziati per tutto il giugno successivo. Il contingente è composto da reparti dell’Esercito, della Marina e dell’Aviazione, affiancati da un reparto di Carabinieri con compiti di polizia. La missione, come sottolinea il Presidente della Repubblica Ciampi nel salutare i militari in partenza per l’Iraq, “è inquadrata nella risoluzione 1483 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e rappresenta un contingente al servizio della pace e dell’opera di soccorso a quelle popolazioni che hanno vissuto le dolorose esperienze della dittatura e della guerra, nonché al fine di creare le condizioni di sicurezza necessarie per le attività di carattere umanitario”. Non la pensano evidentemente così Paesi come la Francia e la Germania che, fin dal primo momento, rifiutano una missione che ritengono di occupazione, e valutano come tardiva ed estorta la copertura Onu che, prima dell’attacco della Coalizione del marzo 2003, non c’era. Né Berlino né Parigi partecipano all’operazione in Iraq. L’Italia sì, anche se in Parlamento le forze dell’opposizione di centrosinistra non votano l’approvazione alla missione. assiriya un centro di 400mila abitanti, a 375 chilometri da Baghdad, nei pressi sorge il sito archeologico dell’antica città di Ur, uno dei più ricchi e meglio preservati di tutto l’Iraq, dove si narra sia nato Abramo, il padre delle tre religioni monoteiste. Ma non pare la cultura il motivo d’interesse italiano per la zona. In un primo momento le critiche sono soft: secondo gli oppositori alla missione, l’Italia ha scelto la zona più tranquilla, quella saldamente nelle mani degli sciiti, che dovrebbero accoglierci come liberatori dal giogo di Saddam. Il governo Berlusconi, secondo i suoi detrattori, ha ottenuto il dislocamento delle

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truppe italiane nella zona più tranquilla, gratificando l’amico George W. Bush e allo stesso tempo riducendo al minimo i rischi della missione. ualcosa, tuttavia, in questo quadro idilliaco comincia a incrinarsi quando i militari italiani arrivano in città e, su tutti i muri, campeggiano scritte contro la Coalizione. Gli italiani, per presentarsi alla popolazione, trasmettono un videomessaggio dalla televisione locale. “Siamo qui per portare sicurezza e aiuti”. Il messaggio non viene capito da tutti; fatto sta che, l’8 settembre successivo, attorno allo stadio di Nassiriya, i militari italiani sono coinvolti nella prima sparatoria e rispondono al fuoco. Un scaramuccia, un’incomprensione forse. Oppure un segnale di pericolo?

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agli italiani ha scosso le coscienze. Il 5 marzo 2004, sulla rivista Orizzonti Nuovi, viene pubblicato un articolo a quattro mani di Elio Veltri e Paolo Sylos Labini. Il titolo è eloquente: “Il vero motivo della presenza italiana a Nassiriya”. I due autori scrivono che “La presenza italiana in Iraq, al di là dei presupposti ufficialmente dichiarati, è motivata dal desiderio di non essere assenti dal tavolo della ricostruzione e degli affari. Questi ultimi riguardano soprattutto lo sfruttamento dei ricchi campi petroliferi. Non a caso il nostro contingente si è attestato nella zona di Nassiriya dove agli italiani dell’Eni il governo iracheno, pensando alla fine dell’embargo, aveva concesso – fra il 1995 e il 2000 – lo sfruttamento di un giacimento petrolifero, con 2,5-3 miliardi di barili di riserve: quinto per importanza tra i nuovi giacimenti che l’Iraq di Saddam voleva avviare a produzione”. dicembre 2005 Rai 3 mette in onda un video girato nell’agosto del 2004 a Nassirya, durante la cosiddetta terza battaglia ‘dei ponti’: gli scontri sostenuti dai militari italiani con i guerriglieri iracheni che tentavano di prendere le infrastrutture di Nassriya, in cui furono impegnati i carabinieri paracadutisti del reggimento Tuscania, elementi della seconda brigata mobile e dei bersaglieri. E’un documento realizzato dall’interno di una postazione militare italiana impegnata nella battaglia contro gli insorti al di là del fiume. Il video mostra i ‘nostri ragazzi’, i dispensatori di caramelle, mentre sparano sui miliziani, s’incitano ad ‘annichilirli’ e si congratulano tra di loro quando ‘ne fanno fuori uno’. In realtà c’è poco da stupirsi: i soldati sono in guerra e combattono. Tutto diventa surreale nell’ottica della missione di pace. n Italia l’opinione pubblica ha aperto gli occhi. Si va alle urne e la maggioranza è battuta. Vince il centrosinistra di Prodi che, nel programma elettorale, ha fatto del ritiro dall’Iraq un punto fermo. Si chiede così la missione fallimentare, che è costata la vita a molti militari italiani e a circa 50mila vittime civili irachene.

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l 12 novembre 2003 un camioncinobomba guidato da un kamikaze fa saltare la base dei carabinieri a Nassirya, il giorno in cui l’ipocrisia della missione di pace è andata in frantumi, seppellendo per sempre 25 persone. Tra queste 16 militari italiani e 2 civili (un produttore cinematografico e un cooperante). L’attentato è uno choc per l’opinione pubblica italiana che, influenzata dai media filogovernativi, si era convinta di mandare ‘i nostri ragazzi’ a distribuire caramelle e a costruire scuole. Si è trattato anche di questo, ma non di una missione di pace. a missione va avanti comunque, tra versioni contrastanti e nell’impossibilità degli operatori dell’informazione di svolgere correttamente il loro lavoro. Ma il muro del silenzio si è crepato, l’attacco

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Benvenuti al Centro!

[…] Terra ca nun senti ca nun voi capiri ca nun dici nenti vidennumi muriri! Terra ca nun teni cu voli partiri e nenti cci duni pi falli turnari. E chianci chia… Ninna oh! […] (Rosa Balistreri, “Terra can un senti”)


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Una palermitana ad Assisi DI CHIARA MANCUSO

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mbria. La verde Umbria. La verde e accogliente Umbria. E’ così che appare la nostra ridente regione a chiunque arrivi per la prima volta, spinto da motivi religiosi, per ritrovare la “pace interiore” nella terra di S.Francesco, o per scoprire gli affascinanti borghi medievali, o per tuffarsi nel verde che ancora resiste al cemento che da un pezzo sta sommergendo il resto dell’Italia. La nostra Umbria… o, meglio, la vostra… erdonate il mio tono che potrebbe sembrare irriverente, ma, ahimè, questa non è la mia regione, sebbene l’abbia sempre desiderato, voluto con tutte le mie forze, fin da quando da bambina ho spento la mia prima candelina proprio qui, ad Assisi e poi di seguito tutte le altre, pretendendo che ogni anno, la mia famiglia prenotasse le sue vacanze ad Assisi; si facevano 1200km, attraversando la fatidica Salerno-Reggio Calabria, con i nonni al seguito e se qualcuno avanzava il desiderio di andare da qualche altra parte, era bene accetta qualsiasi proposta, purché il primo settembre potessimo essere ad Assisi: no Assisi, no party! Quello era l’unico desiderio che cercavo di realizzare durante tutto l’anno solare ed era l’unico che esprimevo quando soffiavo le candeline: poter rifesteggiare il mio compleanno ad Assisi anche l’anno successivo. Ad Assisi la prima comunione, nella Cappella privata della Cittadella Cristiana, un evento più unico che raro, dal momento che la Cappella era stata concessa ad una cerimonia privata niente meno che per celebrare il matrimonio di un certo De Chirico… E in quel solenne momento, giurai che avrei lasciato Palermo per trasferirmi in Umbria: lo scrivevo anche nei temi di scuola, lo ribadivo nelle litigate con i compagni e

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soprattutto ai parenti… mmaginate la scena di una ragazzina di nove-dieci anni che comunica alla Famiglia la sua decisione di lasciare la Sicilia: la Famiglia, si, quella con la F maiuscola, quella patriarcale, quella possessiva e onnipresente, che va dal nonno a tutti i componenti maschi che comandano, per poi passare alle matriarche. Fino ai quattordici anni, età che mi permise di mettere in atto il mio piano, fui appellata con uno dei termini più odiosi che si possa dare ad un siciliano: “sdisangata” che letteralmente vuol dire “senza sangue” “uno che tradisce il proprio sangue, la propria famiglia”; il “Sangue”, questo elemento sacro presente in tutte le espressioni violente o passionali, affettuose o rabbiose, comunque simbolo di appartenenza alla “tribù” familiare, alla terra che ti ha partorito nel bene e nel male, il Sangue, la vita…e se non si ha il sangue che ti trattiene legato a quella terra che brucia tutto, anche la speranza, beh, non sei più figlio. “Allo-

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ra vattinne!!!” vattene! E me ne andai. Il 15 giugno del 1996 presi il treno che mi portò via per sempre dalla mia Palermo. i ho annoiato con questa premessa, perché ho considerato d’obbligo chiarire che amo la terra in cui abito adesso e l’ho sempre amata, ma vi assicuro che nei primi anni, la cosa non è stata reciproca… Perché finché si va in vacanza in un posto, siamo capaci di fare le foto a dei piccioni che normalmente malediremmo per averci lasciato un “ricordo” sulla giacca, riusciamo a vedere il Danubio “blu”, mangiamo le cose più strane che una volta riportate a casa ci fanno vomitare e ridiamo con persone di cui ignoriamo il nome; ma quando la vacanza è vita quotidiana, beh, le cose cambiano e molto… “Fatta l’Italia, bisogna fare gli Italiani!” come aveva ragione il buon Massimo D’Azeglio! Si, perché con tutte le buone intenzioni, appena metti fuori il naso dalla tua regione, diventi uno straniero, o, come diceva mia nonna, “forestiero”!

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ro arrivata nel “Continente” ed ero “forestiera”, “la siciliana”…e quelli erano gli anni successivi alle grandi stragi di mafia, successive ad anni di film e fiction che avevano contribuito agli stereotipi più comuni che un accento siciliano suggerisce immediatamente: i miei vicini rimasero un po’ delusi da non vedere né baffi, né coppola né lupara sulle spalle…tanto più che avevamo una vecchia FIAT127, che non possiamo proprio associare ad una tipica macchina mafiosa. Tuttavia, i sospetti c’erano e non solo fra la gente comune (trascurando il fatto che i Carabinieri ci vennero a fare visita perfino in casa e ad ogni uscita ci fermavano automaticamente, così, giusto per sapere dove andavamo, perché eravamo qui ecc…); ricordo bene il primo giorno di scuola: il professore fece l’appello e si fermò un po’ pallido sul mio nome che pronunciò con enfasi e un po’ di paura. “Mancuso…Sicilia?” e poi, con una certa titubanza aggiunse una di quelle frasi che puoi accogliere solo in due modi: con sconcerto o con una risata. “Si può sapere come mai sei qui?” Io scelsi il secondo e ridendo risposi: “Le pare che se fossi figlia di un boss mafioso lo verrei a dire a lei!” Da quel giorno, ebbi il sette assicurato, anche senza essere interrogata…

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uando si va all’estero, si sa, c’è il problema della lingua, ma masticando un po’ di inglese, possiamo cavarcela senza problemi; ma quando arrivi a Palazzo d’Assisi, paesino non pervenuto ancora nel 1996 dalle mappe geografiche, che lingua si parla? “L’italiano, ovvio!” no, no…si parla il “Palazzano”… Le mie sorelle, trasferitesi prima di me, mi avevano messa in guardia su questo strano modo di parlare, che non può definirsi a tutti gli effetti un dialetto, ma un miscuglio fra italiano antico, romanesco, perugino e altro che tutt’ora non sono riuscita a qualificare: il dialetto siciliano è una lingua vera e propria, ma se si parla italiano, si parla italiano. A Palazzo no e con l’alibi di non avere un dialetto vero e proprio, puoi anche dimenticare l’italiano. Me ne accorsi subito, andando a comprare il pane: io e mia sorella minore ci somigliamo molto ed entrando nel panificio, la signora mi scambiò per lei. Chiarito l’equivoco, rimasi interdetta sulla risposta della signora. “Scusami stella, ma sei uguale a lia!” Lia? Da noi Lia è nome proprio, diminutivo di Rosalia. “Mi perdoni, ma mia sorella si chiama Marcella!” risposi. “Si, lia!” guardai la signora che continuava a sorridermi. “Marcella!” ribadii con più decisione. “Si, lia, lia!” solo dopo mi spie-

garono che “lia” voleva dire “lei”, come “Frego o frega” si traducevano in “Ragazzo o ragazza”, “potto” in bambino e così via… idete, ridete, ma vi assicuro che non fu facile trovarsi nell’autobus per la scuola e ascoltare conversazioni terribili e piene di equivoci “scabrosi”! “Che hai fatto questa estate!” “Niente: sono scappata con il frego!” Mio Dio! E con che leggerezza si scambiavano queste confidenze: in Sicilia, scappare con il ragazzo, equivale alla classica “fuitina”, una fuga che avrebbe compromesso a tal punto la ragazza, da rendere inevitabile il matrimonio! Dentro di me urlavo allo scandalo… Ma non finiva lì…collezionavo gaffe a non finire e simpaticamente, nessuno mi spiegava gli equivoci, ridendo davanti e dietro le mie spalle: tuttavia, me ne feci una ragione, abituata da anni agli scherni dei compagni e decisi di percorrere la strada dell’”Integrazione”… Iniziai con la “lingua” appunto, prendendo nota di tutte le parole “straniere” e cercando di farmele tradurre da qualche anima pia che he non ridesse di me; cominciai a frequentare corsi di dizione e teatro, per perdere l’accento siciliano e non essere subito “identificata” come la figlia del “padrino”.

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i infiltravo alle feste, per capire gli usi degli “indigeni” che erano veramente diversi dai nostri: devo dire che la cosa più difficile è stata proprio riuscire ad entrare nel “branco”, scusate, nel gruppo, sebbene, oggi credo proprio di non esserci mai riuscita, forse a causa dell’età infelice, piena di pregiudizi e giacche firmate, o forse, perché ero abituata all’invadente, ma simpatica consuetudine siciliana, che considera sacro l’ospite e ti butta nella mischia, anche se non ne hai voglia, ti presenta a tutti, si diverte se tu ti diverti e ride con te e non di te.Mi stupiva anche il fatto che nessuno mi forzasse a mangiare, cosa che è normale a Palermo: ingozzare l’ospite finché non si staccano tutti i bottoni della giacca, e non nego che la cosa mi facesse piacere, anche perché quello del rito del cibo fu l’ultimo e doloroso passo per la mia “integrazione”. Lasciamo perdere il terribile impatto con il pane “sciapo”: già la parola stessa ti scoraggia all’assaggio! Ma cos’è? Che cosa mi rappresenta il sapore di nulla? Il Pane nostro, croccante, con il sesamo, con la crosta mezza abbrustolita che ti suggerisce di mangiarlo così, senza contaminarlo con nessun altro cibo, godendoti quella sinfonia di profumi e di colori! Ah! Quello si che è il pane che puoi accomunare al complimento “buono come il pane!”, un Pane che si eleva alla sacralità mensale, un pane che ti fa rimandare la dieta al lunedì successivo, il pane che porti a casa a metà, perché l’hai spizzicato per strada… Quello è il Pane. assando oltre…arriviamo alla vera e propria prova d’iniziazione: la colazione di Pasqua! Mi invitarono degli amici a seguire la veglia e poi fare colazione tutti insieme: alle sei del mattino, stremata dalla veglia dei neocatecumeni, mi svegliai di botto di fronte alla famosa “colazione di Pasqua”… Ne avevo già sentito parlare, ma la parola “torta di Pasqua”, inconsciamente mi suggeriva qualcosa di dolce. “Non è possibile!” sussurrai fra me e me, mentre mi sforzavo di ripetermi che dovevo farlo, perché non potevo fare la figura della solita campanilista legata alle sue tradizioni: dovevo integrarmi, dovevo superare la “prova”. Mi

Giù al Centro sentivo come nel film “Indiana Jones e il Tempio Maledetto”, durante la scena del banchetto nel palazzo del principe, mentre passavano cervello di scimmia e serpenti vivi: è fuori da ogni logica mangiare cibi salati di prima mattina per un siciliano, specie per una con la nausea facile come me! “Integrazione!” mi ripetevo, mentre addentavo contro voglia la torta al formaggio con il capocollo, le uova sode e poi il salame, la torta, il prosciutto crudo, le uova, la torta ancora, le uova di cioccolata, ancora un’altra zaffata di formaggio e ancora salame, cioccolata, uova sode e…e… a mia integrazione finiva lì, vomitata alle 6.30 del mattino di Pasqua! Non potete dirmi che non ci abbia provato! Così decisi che quello era un segno: non potevo abbuffarmi di “Integrazione forzata” per farmi accettare e nemmeno potevo aspettarmi di piacere a tutti. Mi rassegnai ai “sei strana” “sei diversa”

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“tu non puoi capire” e tutto iniziò a scorrere, sebbene tutt’ora mi senta dire “tu non sei di qui!”; l’unica cosa che è cambiata, che nessuno riconosce più le mie origini, ma anche quando vado a Palermo, parlando con la gente, con sconcerto mi sento chiamare “forestiera” e in quel preciso istante, sento la solitudine di chi ha strappato le proprie radici, e vaga come quei cespugli nei deserti, in cerca di un po’ d’acqua da succhiare. adesso, che sono passati ben diciassette anni da quel grande passo, non ho nessun rimpianto, se non quello di non avere mai tempo e soldi sufficienti per andare a trovare mio nonno di quasi novantanove anni e i miei parenti. Tuttavia, quando nelle mattine di nebbia guardo la vallata da Assisi, mi sembra quasi di vedere oltre quelle nuvole dense e basse, il mio mare che trema e un po’ di nostalgia mi stringe il petto, lì, dove ancora scorre il Sangue.

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"Ai miei nonni, le mie vere radici, che, con la loro splendida storia d'amore durata settant'anni, mi hanno lasciato la speranza e la certezza che l'"amore per tutta la vita" esiste davvero!"


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Muoversi con le nuvole

Nessuno ci impasta pi첫 di terra e argilla, nessuno alita sulla nostra polvere. Nessuno. Lodato sii tu, Nessuno. Per amor tuo vogliamo fiorire. Incontro a te. Un nulla eravamo, siamo, rimarremo, fiorendo: la rosa di Nulla, di Nessuno. Con il pistillo animachiara, lo stame cielodiserto, la corona rossa

della parola purpurea che cantammo su, oh sulla spina. Zona di neve, inalberata, fino all'ultimo, nel vento ascendente, dinanzi alle baite defenestrate per sempre: sogni radenti spazzano sullo striato ghiaccio; sbozzare le ombre di parole, accatastarle attorno all'arpione nel tonfano. Paul Celan, "Salmo"


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Divagazioni sulle creature alate e sul simbolismo delle ali

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MARIA SARA MIRTI

Angeli, demoni, geni, semplici animali al servizio delle divinità…si sa, sono tutti dotati di ali. Ma come si guadagna il privilegio di volare? Certo streghe e stregoni, così come le nuvole, tanto per fare un esempio, non hanno bisogno di ali, ma noi sì: come potremmo fare altrimenti a vedere il cielo da vicino? Forse davvero aveva ragione San Paolo quando affermava che "questo mondo è un sistema di cose invisibili manifestate visibilmente" (Ebrei 11,3); e se davvero la nostra perenne, insaziabile aspirazione verso "l'alto" - verso il cielo, verso la Luna, o Marte, oppure verso la fede religiosa - discendesse da uno status perduto e disperatamente desiderato? Chi potrebbe dire con certezza se la nostra fissazione, spesso cocente, d'indossare delle ali ci derivi da una fervida fantasia, oppure da un bisogno, o da una nostalgia? E' inutile, nonostante tutti i nostri sforzi, non credo che riusciremmo mai ad avallare o a contraddire l'affermazione di Origene (altra personalità "forte", "passionaria" di un Cristianesimo ancora capace d'immaginazione, ancora in grado cioè di produrre miti, simboli, risposte efficaci, "feconde") secondo cui "Paolo ci dimostra", per l'appunto, "che questo mondo visibile ci fa conoscere il mondo invisibile e che questa nostra terra posta in basso contiene immagini di realtà celesti: così da ciò che è in basso possiamo salire a ciò

che sta in alto e da ciò che vediamo in terra possiamo avere conoscenza di ciò che sta nei cieli" (Origene, "Commento al Cantico dei Cantici", 3, 2, 9). Infatti chi potrebbe indicare con precisione anche soltanto quale sia il "sopra" e quale il "sotto"? E' tutta una questione di prospettive, di punti di vista, e naturalmente di rotazione terrestre. Deve essere stata l'evidente ambiguità della situazione a scatenare nei Galli la loro leggendaria paura che le nubi si squarcino e che il cielo cada sulla loro testa, sommergendoli letteralmente. Ma prima d'incontrare altri mondi abitati, prima di raggiungere le divinità o le semplici personificazioni degli elementi naturali, bisogna arrivare fino alle nuvole, cavalcare quelle onde impalpabili, eppure talmente concrete da rappresentare spesso, per gli uomini, una minaccia. "Secondo diverse leggende bretoni, un essere umano potrebbe avere accesso direttamente al paradiso da vivo oltrepassando tre strati di nuvole: il primo strato sarebbe nero, il secondo grigio, il terzo bianco come la neve" ("Il simbolismo delle nuvole. L'eternità fluttuante", cur. J. Kelen, ed. it. cur. G. de Turris, trad. dal francese A. Teodorani, Edizioni mediterranee, Roma 2008, p. 141). Ma il "mare di nuvole" ha sempre rappresentato, oltre che le brume magiche oltre le quali si nascondo gli dèi o quelle usate dai druidi per far sparire i nemici, il simbolo di un pericolo meteorologico: "Si sa che, ancora ai nostri giorni, quando un violento temporale minaccia i raccolti, in certe regioni (particolarmente in

montagna) si usa 'tirare' alle nuvole col cannone a salve, o lanciare un razzo preparato appositamente per allontanarle" ("Il simbolismo delle nuvole. L'eternità fluttuante", cur. J. Kelen, ivi, pp. 136 - 137). In teoria si tratterebbe di un metodo per sbriciolare fisicamente la nuvola ed annullarne gli effetti devastatori, ma nulla ha mai vietato all'immaginazione umana di scatenarsi; per esempio in alcuni paesi si credeva che sparare ai nuvoloni neri rischi di "far piovere" curati (a volte trasformati in corvi). Tuttavia, "se si ritiene che un prete sia 'conduttore di nuvole', è anche colui che può disperderle, e […] non era raro che i contadini facessero appello al curato della parrocchia per 'supplicarle'" ("Il simbolismo delle nuvole. L'eternità fluttuante", cur. J. Kelen, ivi, p. 137). Le forme misteriose delle nuvole alimentano paure e altrettante leggende. Quindi, se da una parte testimonianze come quelle raccolte da A. S. Morin nel 1866 narrano di preti chini su una nuvola mentre sono occupati a spargere la grandine nascosta nelle loro tasche ("gioco di prestigio" che gli frutterà quasi altrettante pallottole), dall'altra i marinai che attraversavano la Manica il secolo scorso "chiamavano 'castelli' le nuvole nere che precedevano un temporale, cioè un attacco in massa contro la terra" ("Il simbolismo delle nuvole. L'eternità fluttuante", cur. J. Kelen, ibidem). Naturalmente tali castelli erano popolati da feroci fuorilegge che si spartivano coi "tempestari" (o "immissores tempestatis", o "fuges perditrices", o "malefici":


In Alto uomini o donne che grazie ali propri legami coi semini avevano il potere di presiedere alle nuvole - sin dall'Alto Medioevo) i timori e gli immaginari collettivi. "Secondo una strano trattato di Abogardo, vescovo di Lione, che morì nel 840, i 'fabbricanti di tempeste' uscivano dalle nuvole per ammassare il grano sminuzzato dalla tempesta e, tramite la stessa via aerea, lo trasportavano alla favolosa città di Magonia" ("Il simbolismo delle nuvole. L'eternità fluttuante", cur. J. Kelen, ivi, p. 140). Chissà se davvero il "settimo giorno", quello del riposo di Dio, sia servito davvero per concedere all'uomo di completare a suo piacimento l'atto di creazione (aggiungendovi, verrebbe da pensare, tutti gli esseri sovrannaturali che la propria immaginazione ha potuto contemplare), o se piuttosto quel giorno non sia stato concesso a tutte le creature per abituarsi l'una all'altra? Insomma per trovare città e mondi sconosciuti pare proprio che siamo condannati a passare attraverso le nuvole, a superarle: per dirla con Baudlaire, "Inferno o Cielo, che importa? - in fondo all'ignoto per trovare il nuovo!". Una trasgressione alle "regole d'ingaggio originali" colta in pieno da Saint-Exupéry: "Nel suo Vol de nuit (219) di colui che chiama Fabien, perso nelle nuvole e nella tempesta, 'perso in un'ombra in cui tutto si mescolava, un'ombra che origina i mondi' […] 'In quel momento brillarono su di lui, in uno squarcio della tempesta, come un'esca mortale in fondo ad una massa, alcune stelle'. […] L'esitazione è d'obbligo, 'ma la sua fame di luce era tale che salì. L'aereo aveva raggiunto in un colpo solo, nell'attimo stesso in cui emerse, una calma che pareva straordinaria. Non c'era ondeggiamento a inclinarlo. Come una barca oltrepassa la diga, entrava in acque riservate'" ("Il simbolismo delle nuvole. L'eternità fluttuante", cur. J. Kelen, ivi, p. 141). Acque certo riservare agli esseri speciali che, dotati del dono del "volo nell'aria" (come Merlino-Lailoken, gli sciamani, o come i Santi) o di vere e proprie ali, riescono a raggiungerle. A dimostrazione del nostro desiderio atavico di "riveder le stelle" più da vicino, gli esseri alati si trovano ovunque: nei dipinti e nei testi scritti, scolpiti all'interno o all'esterno di templi e chiese. Mi piace pensare a lo-

ro come ai veri portatori del "simbolo" per antonomasia: nella specularità delle loro ali è insito il segreto di un'integrità spezzata nella notte dei tempi e destinata al ricongiungersi delle sue due metà (proprio come si faceva col "symbolon", e cioè con quei piccoli oggetti, anelli, impronte di sigilli, dadi, immaginette, costruiti in argilla, metallo o legno e divisi a metà tra creditori e debitori, amici, amanti, soci, come segno di riconoscimento). D'altra parte ovunque, da Oriente a Occidente, il Creatore del mondo viene rappresentato come un essere alato: in Persia l'uccello simbolo di Dio che aveva il proprio nido sull'albero della vita - veniva detto Simurgh. "Quell''uccello-dio', androgino, alludeva ad Ahura Mazda, il dio dell'antica religione mazdea, rappresentato nelle sembianze di un uomo alato". Spiega l'autore in nota che "in forma di uccelli si rappresentavano anche le fravashi, modelli trascendentali delle anime umane che secondo la tradizione mazdea vegliavano sul cielo e sul lago [Varkash - forse il lago d'Ara o il mar Caspio]". Poi continua: "In Occidente la tradizione orfica narrava che in principio vi erano Notte, Caos, Erebo Nero e tartaro. Nel seno infinito dell'Erebo, ovvero nell'Oscurità, la Notte dalle ali nere aveva generato dapprima un Uovo dal quale, col volgere delle stagioni, germogliò l'amabile Eros, detto anche Fanes, il Rivela-

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tore, sul cui dorso brillavano ali dorate. Simile a un turbine ventoso si unì al Caos alato nel Tartaro creando il cosmo e le sue divinità […]" (A. Cattabiani, "Volario. Simboli, miti e misteri degli esseri alati: uccelli, insetti, creature fantastiche", Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2000, p. 26). Nel "Libro dei Morti" egizio, così come nel mito orfico, è la Grande Madre alata l'origine; ed ugualmente provvisto d'ali il Tetramorfo di Ezechiele e Giovanni. Naturalmente anche l'anima è provvista di ali (e, come c'insegna Platone, è la bellezza a nutrirle): in Egitto l'anima del defunto "era rappresentata spesso da un uccello con la testa d'uomo che stava di fronte all'uccello Bennu , l'anima di Ra"; e ancora: "Nell'Odissea le anime dei nemici di Ulisse defunti, radunati da Ermes, cinguettavano come uccelli" ((A. Cattabiani, "Volario. Simboli, miti e misteri degli esseri alati: uccelli, insetti, creature fantastiche", ivi, p. 32). Le ali, così, strumenti indispensabili per riscattare l'uomo dal proprio status "frammentario", si trovano a rappresentare di volta in volta "la spiritualizzazione, il volo verso l'alto, la comunione divina; ma anche la protezione divina del creato. Per questo motivo gli angeli sono tradizionalmente rappresentati con le ali" ((A. Cattabiani, "Volario. Simboli, miti e misteri degli esseri alati: uccelli, insetti, creature fantastiche", ibidem).


38 Secondo Gregorio di Nissa, "se Dio, l'archetipo, è alato, l'anima creata a sua immagine non poteva non possedere in origine le ali: e se le ha perdute a causa della caduta, potrà riacquistarle grazie alla sua ascesi spirituale" (A. Cattabiani, "Volario. Simboli, miti e misteri degli esseri alati: uccelli, insetti, creature fantastiche", ivi, p. 33). Per questo, secondo Luis CharbonneauLaassay, l'anima del piccolo Pasifilo, nelle catacombe di Domitilla, somiglia straordinariamente alla statuetta di bronzo dell'Icaro precristiano di Smirne. "Nell'iconografia medievale l'anima si stacca dal corpo addirittura nelle sembianze di un uccello. […] L'anima, della stessa sostanza del vento, vola via dal corpo come un uccello prigioniero in una gabbia" (A. Cattabiani, "Volario. Simboli, miti e misteri degli esseri alati: uccelli, insetti, creature fantastiche", ibidem). Nello Upanisad dello yoga l'uccello migratore rappresenta l'anima che diventa luce, è ridestata dal soffio e risale attraverso il corpo sottile; il suo volo in questo caso è accompagnato da un suono simile alla risonanza nasale della sillaba AUM. Inoltre le ali, che secondo Gregorio Magno erano anche simbolo di contemplazione, assumono significati diversi a seconda della loro posizione: se sono poste come in un volo planante (aperte e orizzontali al terreno) sopra al mondo, esse rappresentano lo Spirito Santo che feconda la terra; se invece il volo planante non sorvola il mondo, questo è simbolo del Verbo di Dio. Osserva sempre Charbonneau-Lassay che i due iod in volo planante sopra al volto umano rappresentano, non a caso, le labbra, gli strumenti attraverso cui ci si esprime e si diffondono suoni. "Le due ali verticali, separate dal corpo ma quasi sempre unite alla base, sono invece dette 'volo sodante': simboleggiano le aspirazioni nobili e, da un punto di vista religioso, l'anima informata dagli ideali più alti. In araldica sono l'aquila, come nel simbolismo mistico; ma nella spiritualità medievale possono talvolta diventare ali di colomba. Infine le ali abbassate e saldate insieme alla base, sono dette 'volo abbassato' e simboleggiano il riposo meritato dopo l'azione cavalleresca, la pace, la quiete". Ma da un punto di vista strettamente religioso "simboleggiano l'anima che non ha saputo elevarsi e,

In Alto scoraggiata, ripiega verso terra, sottolineandone l'impotenza spirituale" (A. Cattabiani, "Volario. Simboli, miti e misteri degli esseri alati: uccelli, insetti, creature fantastiche", ivi, p. 35). In fondo, dove altro potrebbe ripiegare la nostra anima se non a terra? Visto che, come sta scritto nel "Verbo degli uccelli", fu la caduta inaspettata di una piuma nel centro della Cina a portare confusione e scompiglio in tutti i reami della terra, probabilmente anche le nostre ali, laddove ci sia permesso indossarle, sono fatte, proprio come noi, di terra, di fango. Tuttavia, guai a sottovalutare le ali di una persona quando se ne incontri una in grado di volare sopra gli altri, di andare e tornare

dalle nuvole: conoscete il modo di dire "lo scarabeo fa da levatrice all'aquila"? Secondo Esopo, infatti, lo scarabeo, per vendicarsi dell'aquila che aveva divorato sotto i suoi occhi una lepre, sua protetta, aveva preso l'abitudine di volare fino al nido dell'uccello per romperle le uova. Allora l'aquila si rivolse a Zeus che prese sul suo grembo le uova, affinché stessero al sicuro. Lo scarabeo, per nulla scoraggiato, lanciò delle palline di sterco sul padre degli dèi e questi, per togliersi di dosso quella sozzura, si alzò in piedi facendo fatalmente cadere le uova dell'aquila. "Nessuno", dice infatti Esopo, "è tanto debole che, offeso, non sia capace prima o poi di vendicarsi".


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S(briciola)te

“Non so bene se sia il nostro dentro a condizionare il nostro fuori o viceversa, ma molto probabilmente si tratta di un’influenza reciproca e continua” Da : Una vita sottile di Chiara Gamberale Ogni mese Piazza del Grano offre questo spazio a tutte le donne. Manda la tue mail a “parliamone” : pp.zzadelgranodonne@libero.it

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Parliamone... “Le Senzappetito” DI CATIA MARANI

Ero una quindicenne né magra né grassa, con curve e muscoli al posto giusto, ma desideravo essere come Federica: alta e magrissima. Ci incrociavamo mentre scendevamo dall’autobus a Porta Romana per andare a scuola e la guardavo con invidia. La sua magrezza bastava a renderla perfetta! Tanto vedevo perfetta lei, tanto mi sentivo imperfetta io. Da allora ho sperimentato centinaia di diete con scarsi risultati ed ho continuato a considerare la magrezza una delle doti migliori da apprezzare in una donna. Questo è un pensiero universale nel mondo femminile, soprattutto ora che l’estate è alle porte e, all’attrazione fatale che esercitano il sole ed il mare si accompagna la paura di scoprire i nostri corpi bianchi e imperfetti, causando profonde inquietudini. Nei talk-show televisivi, non si tratta altro che di diete. Si mettono a confronto pregi e difetti della dieta Dukan contro quelli della dieta a Zone. Della dieta del Minestrone contro quelli della dieta Dash, o quella a base di frutta esotica contro quella Detox. Sul posto di lavoro, mentre si sgranocchia una carota o un gambo di sedano, si parla dei tanti sacrifici per perdere qualche etto, ci si scambia banali regole di stile di vita e si sospira pronte al sacrificio: “ con la crononutrizione mi hanno detto che non mangi carboidrati dopo le cinque del pomeriggio ma puoi perdere mezzo chilo a

settimana senza tanti sacrifici” e “ io domani vado in farmacia a sentire se mi possono consigliare qualche prodotto che mi aiuti a dimagrire senza soffrire troppo la fame” e poi “ho scoperto che sono intollerante alla cipolla e alle graminacee, la mia dietologa mi ha assicurato che se elimino la cipolla quando cucino e non mangio più né pasta e né pane mi sgonfierò come un palloncino” e la più lapidaria “te lo dico io, per dimagrire bisogna andare tutti i giorni in palestra ma soprattutto bisogna mettere un tappo alla bocca senza dare ascolto allo stomaco anche se brontola!”. Quando mai potremo permetterci di essere felicemente noi stesse? Quando smetteremo di odiare ciò che siamo per rincorrere ciò che vorremmo essere? E’ difficile accettare di non essere simili alle donne che ci propongono le pubblicità e la moda come icone di eleganza e di bellezza. Occorrerebbe farsene una ragione del fatto che ingiustamente la natura distribuisce tanta fisicità ad alcune, castigandone altre all’eterna insoddisfazione. L’esercizio mentale più arduo per noi donne è quello di saper apprezzare le nostre caratteristiche, perché senza di quelle non saremmo le stesse. Probabilmente Barbra Streisand senza il suo naso non avrebbe avuto il viso giusto per lo schermo. La cantante Adele, è inequivocabilmente una “curvy woman”, ma anche la bellezza del suo viso e della sua voce sono innegabili, ed ha dichiarato di essere fiera delle sue forme abbondanti, nonostante la donna in carne ed ossa da tempo sia stata

messa al bando dalle case produttrici di moda, motivo in più per entrare in crisi ad ogni cambio di stagione. La stilista Cocò Chanel diceva che una donna non è mai troppo magra né troppo ricca. La taglia XXS è la vera realizzazione per tante donne e ragazze che arrivano a congelare parte della loro vita a causa di una terribile malattia: l’anoressia. Una parola che deriva dal latino, composta da an (particella di negazione) e òrexis (appetito). Il rifiuto del cibo, associato al bisogno eccessivo di fare esercizio, è essenziale per coloro che hanno una percezione distorta del valore attribuito all’aspetto fisico ed al peso corporeo . La perdita di quest’ultimo viene associata ad una straordinaria conquista ed un segno di ferrea disciplina, senza rendersi conto che si sta diventando l’assassina di sé stessa, perché di anoressia si può anche morire. L’ossessiva corsa verso la perfezione ci fa credere che sarebbe impossibile essere accettate nonostante un po’ di pancetta. Questa mentalità che si sta diffondendo fra noi donne, sta creando giustamente un forte allarme sociale, tanto che in alcuni stati come Israele si stanno prendendo seri provvedimenti in merito con una legge che proibisce alle modelle troppo magre di sfilare. Ha suscitato scandalo, la notizia della denuncia da parte della direttrice di una clinica svedese per la cura di questa temibile malattia: fuori della struttura si erano appostati alcuni addetti ai casting di una nota agenzia per modelle, con l’intento di individuare fra quelle ragazze, le più adatte a calcare le passerelle. Ancora più clamorosa per un paese dove, prima testimonial contro i disturbi alimentari, è la principessa Vittoria di Svezia, che ammise di essersi ammalata di anoressia e che oggi, dopo la guarigione, è impegnata in numerose campagne che la combattono. Quando si è cicciotelle è sicuramente gratificante perdere qualche chilo, bisogna stare attente però a non scivolare nel patologico. Una buona educazione alimentare associata ad una adeguata attività fisica, ci permettono di avere un corpo armonioso e longilineo e goderci la vita, senza rimanere sbriciolate dalla rinuncia al cibo, senza entrare a far parte della categoria delle “senzappetito” che si nutrono con foglie di insalata e briciole di pane.


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Le grandi donne della storia Santa Caterina da Siena La Santa anoressica Allattamento Caterina nasce nel 1347 da madre atea nella numerosa famiglia di un tintore, Jacopo Benincasa. La donna avrà sempre nei confronti della figlia un rapporto competitivo ed intrusivo. Pare che fosse l’unica dei numerosi figli ad essere stata allattata al seno. Carne A sette anni dopo la visione del Cristo decide di “togliere a questa carne ogni altra carne”. All’insistenza della madre per farla mangiare comincia a gettare di nascosto la carne sotto al tavolo. Digiuno Quando Caterina compie quindici anni, la sorella Bonaventura muore di parto. La giovinetta le era molto affezionata, e la madre pur vedendola molto addolorata, trama per farle sposare il cognato rimasto vedovo, che era un ricco e rozzo tintore, dato che avrebbe potuto assicurare il benessere di tutta la famiglia. Ancora una volta, col digiuno, si oppone alla madre perdendo la metà del peso.

Santa o pazza Il suo confessore le consiglia di mangiare almeno una volta al giorno, ma lei continua a rifiutare il cibo in nome della volontà di Dio. L’uomo non sa se dichiararla santa o pazza. Madre Nonostante la giovane età e, soprattutto, nonostante l’opposizione della madre, riesce ad entrare nell’ordine delle Mantellate, senza chiudersi in convento, ma restando in famiglia e con il compito di assistere i malati. Gocce Negli anni a seguire e fino alla morte (muore a 33 anni), implora che le venga concesso di caricarsi sulle spalle gli errori della Chiesa e di espiarli con il digiuno. Negli ultimi tre mesi di vita si nutre solo di qualche goccia d’acqua. Prima di spirare, la madre la raggiunge per esserle vicina fino alla fine. Santa Così Caterina verrà riconosciuta Santa e Patrona d’Italia e d’Europa, ma già nel XVI secolo la chiesa non tollererà più l’ascetismo e le anoressiche, che verranno etichettate come streghe e messe al rogo.

41 In Libreria Consigliati e Sconsigliati dalle donne La dieta del digiuno di Umberto Veronesi – Mondadori Ai suoi figli piccoli Umberto Veronesi diceva: “Alzatevi da tavola sempre con un po’ di fame”. Era il modo più semplice per educarli alla rinuncia degli effetti da cibo. Leggete questo libro pieno di consigli per uno stile alimentare corretto.>>>>>si Mettiamoci a cucinare di Benedetta Parodi – Rizzoli In questo libro la presentatrice di uno dei programmi televisivi di cucina più seguiti dal pubblico femminile, alterna ricette ad aneddoti di vita personale. Le ricette però sono elencate un po’ alla rinfusa, corredate da poche foto che non invogliano a realizzarle nonostante alcune siano adatte anche alle cuoche principianti.>>più no che ni Alla fine di un lungo inverno di Emma Wolf - Tea Un viaggio nella mente di una giovane malata di anoressia che aiuta a comprendere meglio a chi è estraneo alla malattia azioni e pensieri anoressici. Ma ciò che più prende leggendo questa storia è la capacità di comunicare, passo per passo, la felicità di potercela fare soprattutto se la malattia viene sconfitta dalla passione di qualcuno che ti obbliga ad accettare il suo aiuto. >>>>>si Io prima di te Jojo Moyes – Mondadori Commovente e sincero non è soltanto una storia d’amore di quelle che tutte ci auguriamo di vivere. E’ una storia che parla di vita, di morte e di scelte difficile come l’eutanasia, raccontati con grande delicatezza e sincerità. Assolutamente consigliato >>>>>si Segnalateci le letture che vi hanno coinvolto di più, oppure quelle che vi hanno deluso scrivendo al nostro indirizzo mail e noi le citeremo su “Consigliati e sconsigliati dalle donne”.


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Stanno lavorando per noi Centro per i disturbi del comportamento alimentare Residenza Palazzo Francisci di Todi

Centro DAI – Città della Pieve

La struttura si trova all’interno di un antico palazzo di Todi, circondato da un parco di alberi secolari, dove una equipe di personale specializzato svolge un programma integrato, che affronta in maniera intensiva la patologia. La durata della degenza è dai 3 ai 5 mesi. Accoglie pazienti di tutto il territorio italiano dove sia insufficiente o inefficace il trattamento ambulatoriale. Via Cesia, 65 TODI - Tel. 075-8942577 - Fax 0758943302

Primo centro in Italia interamente dedicato al trattamento del disturbo da alimentazione incontrollata. E’ un disturbo alimentare poco conosciuto ma molto ricorrente soprattutto fra le donne. E’ caratterizzato da episodi frequenti di abbuffate alimentari che portano ad aumentare di peso in modo spropositato. Il centro dispone di 17 posti letto per pazienti in trattamento da 5 a 8 settimane, per riuscire ad ottenere una perdita di peso ragionevole mirando al recupero di una propria autonomia personale. Centralino: 0578-290111

Benessere al Naturale

Mode & Modi Il Bikini

La Donna Gemelli 21 maggio - 20 giugno

Il ristagno dei liquidi è la principale causa degli accumuli di adipe nelle zone critiche ecco i cibi contro la famigerata pelle a materasso: ANANAS Mangiato a fine pasto, facilita la digestione e ha un effetto diuretico. Apporta solo 40 calorie per etto. CARCIOFO Contiene la cinarina, una sostanza che facilita il flusso di bile, dunque migliora l’efficienza del fegato stimolandone il metabolismo dei grassi. CILIEGIE Forniscono soltanto 38 calorie per 100 grammi e sono ricche di vitamine come la E, che contrastano l’invecchiamento cellulare. Contengono polifenoli, importanti antiossidanti, e pigmenti vegetali che combattono le infiammazioni a livello dei tessuti. ERBE AROMATICHE Aiutano a insaporire i cibi senza aggiungere sale o intingoli vari. Le calorie del piatto sono le stesse e nel medesimo tempo ci aiutano a combattere la ritenzione idrica causata da cibi troppo salati. KIWI Molto ricco di vitamina C, utile per proteggere i vasi capillari che sono più a rischio di rottura in caso di cellulite, a causa della pressione esercitata dai liquidi in eccesso.

L’uso di frequentare le spiagge d’estate nasce nel 1700, quando se ne scoprono le sue qualità terapeutiche. Gli uomini entravano in acqua nudi, le donne abbigliate con sottovesti di flanella a maniche lunghe. Nel XIX secolo si trasforma in una moda ed il costume si tramutò in un vero e proprio capo di abbigliamento: casacche con maniche a sbuffo, cuffiette di stoffa, calze nere e scarpette gommate. Le fantasie erano rigorosamente a righe rosse bianche e blu sia per lui che per lei. Nel 1906, una nuotatrice australiana si presentò ad una gara di nuoto negli USA in costume intero fatto a tutina che lasciava scoperte le cosce, fu arrestata, multata e immediatamente rimpatriata. Negli anni trenta nacquero gli antenati del due pezzi, ma il primo bikini risale al 1946 dal sarto francese Louis Reard. Per il 2013 la moda mare sarà all’insegna del retrò. Reggiseno a fascia, slip altissimi come negli anni 50. La fantasia di tendenza è quella floreale, ma anche il maculato non è tramontato. Il costume intero più fashion è quello in stile marinière (a righe) e un po’ vintage. Qual'è l'età giusta per smettere il bikini? Secondo un sondaggio condotto nel regno unito è 47 anni, ma io aggiungerei che se una donna è attraente, snella ed ha lo spirito giusto può superare tale limite senza aver paura di peccare di cattivo gusto.

La donna di questo segno a volte viene considerata poco femminile o estranea alle questioni che generalmente appassionano le signore. In realtà è la sua predisposizione di voler restare un po’ bambina per non doversi assumere le pesanti responsabilità che derivano dall’essere donna. Il matrimonio è raramente al centro dei suoi interessi. Preferisce coltivare le relazioni in modo leggero, quasi scherzoso, ma nulla toglie che può diventare una buona moglie o compagna a patto che il partner sappia stimolare la sua intelligenza. Generalmente è di aspetto piuttosto esile, i modi sono spigliati e liberi. Il colore che la rappresenta meglio è il giallo, colore che esprime bene il concetto di energia. Predilige un look decisamente semplice, pratico che le permetta di essere continuamente attiva. Donne Gemelli: Margherita Hack – Astrofisica italiana (12 giugno 1922) Marilyn Monroe – Attrice (1 giugno 1926) Raffaella Carrà – Cantante e presentatrice televisiva italiana (18 giugno 1943) Helen Hunt – Attrice (15 giugno 1963) Senza pretesa scientifica abbiamo riassunto le caratteristiche della donna acquario, abbiamo giocato con gli astri, perché è sempre divertente contrapporre il teorico all’empirico, il sogno alla realtà.


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Ogni donna è una madre

“Essere una donna è così affascinante. È un’avventura che richiede un tale coraggio, una sfida che non finisce mai” Oriana Fallaci

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Gioie e dolori nel lungo percorso verso la maternità DI

GIOVANNA D’AURIA

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gni anno puntualmente quando si avvicina la festa della mamma, mi sale l’angoscia e mi viene una morsa al cuore. Pur essendo felice di festeggiare la mia mamma che ancora ho la fortuna di avere e di gioire per chi mamma lo è o lo diventerà, non posso non pensare a tutte quelle donne, me compresa, che si sentono mamme nel cuore ma che purtroppo nella vita non riescono a diventarlo. L’immagine della famiglia perfetta, con una casa piena d’amore e di bambini che rompono il silenzio della monotonia e della solitudine, accompagna molte donne sin da piccole, ma purtroppo la stessa immagine a volte si trova ad essere sconvolta dalla realtà di corpi mal funzionanti, da percorsi di vita diversi, da portafogli vuoti. L’impossibilità di avere un figlio, e poi la ricerca di esso, ci porta ad affrontare un cammino che passa attraverso ogni sorta di dolore. Si crea un senso di vuoto, una crisi esistenziale individuale o di coppia che scatena sentimenti svariati, che sterminano i pensieri positivi e ne alimentano altri, tristi e malinconici. ’è chi non ha mai pensato ad avere un figlio, oppure ci sono persone a cui un figlio è arrivato, inaspettato o programmato, persone per cui tutto è andato come previsto e che forse nemmeno immaginano la delusione che invece si prova quando la speranza si spegne, lo stress gratuito che deve affrontare chi un figlio lo cerca dando fondo alle energie fisiche ed economiche. In ogni caso è un’esperienza di vita; ma non riuscire a diventare madre può diventare “il centro” dell’esistenza, e in alcuni casi estremi un’ “ossessione”. Percorrendo la strada che ti dovrebbe condurre alla meta, ti rendi conto che spesso ti perdi ciò che è davvero importante, soprattutto il bene che ti volevi all’inizio, prima che ti mettessi in viaggio. Ansia, sentimento di vergogna, di fallimento, una sofferenza enorme

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che può essere lacerante; si ha un senso di colpa, di sconforto alimentato dal tempo che passa, in alcuni casi dai soldi che mancano, e alla fine si amplifica il dolore. Ci si ritrova sconfortate dal pensiero di non lasciare qualcosa di sé al mondo. Si perde un po’ la fiducia in se stesse, perché un corpo che non risponde all’ordine naturale della vita ti disorienta. Ti rimane in bocca l’amaro di ciò che avevi, che hai dovuto cedere per assaporare ciò che non hai, vivendo nella speranza di arrivare a quello che desideri. iventare genitori dovrebbe essere nell’ordine naturale delle cose: due persone, nel momento in cui si scelgono per passare una vita insieme e costruire qualcosa di solido, di duraturo, completano il loro percorso facendo un figlio. Beh, questo è quello che tutti si aspettano, o meglio che sognano, ma, spesso e per un numero sempre maggiore di persone, la realtà è un’altra. Nei primi anni non si fa caso al tempo che passa, anche perché si

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è presi dall’organizzare la vita in due, ci si concentra sulla convivenza, sull’organizzazione della casa e, magari, si dà priorità in alcuni casi alla carriera e al lavoro Poi però, a un certo punto, quando tutto ha trovato un suo ordine, ti rendi conto che ti manca qualcosa, o meglio qualcuno, qualcuno in grado di riempire il silenzio, la solitudine, qualcuno che ti accoglie quando torni dal lavoro stanco e demoralizzato, che ti illumina la giornata con una carezza, con un bacio al mattino. Ti mancano le feste di compleanno, con tanti palloncini colorati, cantare, anche stonando, la canzone della buona notte; raccontare le favole, inventarne di nuove e guardare gli occhi sorpresi e attenti di tuo figlio mentre aspetta il lieto fine. Beh, è allora che inizi a programmare la tua intimità affinché la cicogna possa bussare alla tua porta per farti dono di quell’essere meraviglioso che ti riempirà la vita e ti farà scoppiare il cuore di gioia..


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Maternità

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assano i mesi, anche quell’atto che prima era spontaneo diventerà meccanico e ti creerà stress e ansia… intanto i mesi diventano anni, e nel contempo si va alla ricerca di chi ti può dare una mano, si cerca il medico migliore, si iniziano pellegrinaggi in tanti studi medici, ospedali in ogni dove, ci si sottopone ad ogni tipo di esame ed indagine clinica, che nel migliore dei casi scopre la causa dell’infertilità e quindi una possibile cura, ma in altri si passa attraverso una trafila di cose e persone che semplicemente speculano sulla voglia di un figlio. Tante coppie nella ricerca di un figlio spendono tutto ciò che hanno, impiegano in questa impresa ogni piccola forza sia fisica che economica, ogni speranza. Ti ferisce l’ignoranza della gente, di coloro che non conoscendo il dramma che a volte si vive in silenzio, non si accorgono di quanto pesanti a volte possono essere semplici parole o piccoli gesti: in realtà si rivelano macigni per chi ogni giorno cerchi di alleggerire il proprio carico di sofferenza distraendo la mente e pilotando i pensieri verso posti più sereni; guidati dall’amore, dalla pazienza e dalla fiducia trasmessa dalla famiglia, dall’ abbraccio di tuo marito o del tuo compagno, colui che condividendo le tue gioie e i tuoi dolori rende più sopportabile il tuo fardello. E’ difficile, ma la vita va vanti, va affrontata con quella forza interiore che è solo delle donne. Ogni donna infatti ha dentro di sé energie che sorprendono gli uomini e che la fa andare avanti anche quando ciò che la circonda le dice di arrendersi. er fortuna nonostante le più disperate avventure per molti c’è il lieto fine, ed allora di ogni sacrificio che si è sopportato ci si troverà ad avere soltanto un lontano ricordo. Per molti tutto si risolve in una vittoria, arrivando alla fine a concepire o ad adottare un figlio, ma per molti altri c’è solo una sconfitta che lascia dietro di sé macerie e brutte cicatrici, e nonostante il tempo rimargini ogni cosa, esse segnano per sempre l’animo delle donne e della coppia. Col trascorrere del tempo si sviluppa la paura di non farcela a sopportare l’ennesima sconfitta, ma soprattutto il timore di far star male chi si ama. In certi momenti vorresti soltanto vivere il tuo dolore: sia esso più grande o più piccolo di altri è il TUO, ed è purtroppo solo nel

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tuo cuore che senti la tristezza, l’angoscia che non ti lascia respirare. Te lo vorresti vivere senza dover dare sempre spiegazioni, senza doverti nascondere per piangere, o fare finta di avere un’allergia per giustificare gli occhi lucidi e rossi. Spesso però non hai il tempo di metabolizzare il tuo dolore perché la vita va avanti nonostante tutto, e allora ti rimetti in sesto, dai un po’ di colore al tuo viso e ti stampi sulla faccia un falso sorriso… Ti diranno “come stai bene oggi”, “sei sempre sorridente”…eh sì, intanto il tuo pianto quotidiano l’hai fatto nel silenzio della tua casa, o con la scusa di guardare un film romantico… E già, come ha scritto Saint De Exuperry ne “Il piccolo Principe”, “Le cose importanti sono invisibili agli occhi”. er fortuna però, come accade sempre per ogni dolore, per quanto incredibile sia, alla fine arriva anche la rassegnazione e la consapevolezza che persino le cose “brutte” hanno un senso…allora tutto è più sopportabile e torni ad apprezzare le piccole cose. “Quanto più a fondo scava il dolore, tanto più gioia può contenere”. Mi piace credere in quest’affermazione e incoraggiare chi, come me, si trova a percorrere un sentiero tortuoso, insidioso. Vorrei dirgli di andare avanti, di accettare l’ennesima sfida della vita senza sentirsi abbandonati/e, di non perdersi di vista se si è in coppia, anzi di attingere proprio dall’amore verso il proprio partner la forza e il coraggio per mettersi in cammino. Non bisogna mai lasciarsi risucchiare dalla spirale infernale nella quale spesso si entra quando ci si chiude in se stessi e nel proprio dolore, rischiando così di alimentare rancori e ulteriori problemi, che aumentano la sofferenza e deviano i sentimenti. e è vero che “La vita è una scatola di cioccolatini…”, e che non si sa mai cosa ci si può trovare dentro, allora, a maggior ragione, ci si deve caricare di ottimismo e canalizzare l’amore che si ha dentro verso ciò che ci sta intorno, accettare le cose per quelle che sono, senza colpa e senza farsi domande che forse non avranno mai una risposta. Certo sarà faticoso cercare di trovare un equilibrio interiore che alleggerisca l’anima, che apra le porte del cuore affinché possano asciugarsi le lacrime e gli occhi si possano illuminare di nuovo, affinché sia possibile addestrare le

braccia ad abbracciare cose più grandi, per tendere infine la mano ad un destino che, per quanto crudele possa apparire, può sempre sorprendere. mpariamo a godere di quello che abbiamo, non assassiniamoci l’esistenza pensando a ciò che invece non abbiamo, e se e quando ci sarà fatto il dono tanto desiderato, allora saremo pronti ad esplodere di gioia. Parafrasando Vasco, dovremo pur trovare un senso a questa vita...

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“Inno alla vita” La vita è dolore superalo La vita è una lotta,accettala, la vita è avventura,osala. La vita è un inno cantala. La vita è vita,difendila. La vita è felicità Raccontala… Madre Teresa di Calcutta


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Cinque per Mille

Vi proponiamo alcune Onlus per il vostro contributo CASA DEI POPOLI sede legale Via Oberdan 16 06034 Foligno tel. 3336317056 e-mail casadeipopoli1@mac.com Con il tuo cinque x mille puoi dare sostegno alle attività di integrazione e mediazione interculturale e linguistica che la Casa dei Popoli svolge per donne, uomini, bambine e bambini. Bastano la tua firma ed il nostro codice fiscale

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