Dicembre 2013

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L’inizio della fine

Mensile di informazione, politica e cultura dell’Associazione Luciana Fittaioli - Anno V, n. 12 - dicembre 2013 - distribuzione gratuita

“Prima di giudicare (e per la storia in atto o politica il giudizio è l’azione) occorre conoscere e per conoscere occorre sapere tutto ciò che è possibile sapere” (Antonio Gramsci) “Faremo il possibile per esporre in forma semplice e popolare, senza presupporre la conoscenza nemmeno dei concetti più elementari. Vogliamo farci comprendere dagli operai.” (Karl Marx)


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Avviso importante

per Foligno

Come molti sanno (ma per chiarezza cogliamo l’occasione per ripeterlo) la nostra rivista non riceve finanizamenti o contributi di alcun genere, né, come avrete notato, raccoglie pubblicità a pagamento. Ciò vuol dire che la rivista è interamente autofinanziata per i soli costi di tipografia in quanto, per il resto, è fondata sulla partecipazione e l’im‐ pegno volontario di tutti gli amici che hanno il piacere di scrivere, collaborano alla impostazione grafica e partecipano alla distribuzione. Quest’ultimo aspetto è, in certo senso, il più delicato per rispondere all’intenzione di diffondere il più capillarmente possibile la rivista, arrivando soprattutto a coloro che non hanno l’abitudine o la possibilità di rivol‐ gersi alle edicole che pure, non finiremo mai di ringraziare, tutte da anni si prestano con generosità a distribuirla gra‐ tuitamente. Abbiamo da tempo individuato diversi luoghi, ulteriori alle edicole, nei quali esporre la rivista, affinché chi vuole possa prelevarla senza problemi o remore di alcun genere. Vorremo essere più efficaci e soprattutto vorrem‐ mo arrivare il più possibile vicino alle case, ai luoghi di lavoro o di aggregazione dei nostri lettori. Invitiamo quindi tutti i nostri lettori ad aiutarci a individuare nuovi o migliori luoghi di distribuzione, soprattutto fuori del centro sto‐ rico, nei quartieri e nei Comuni circostanti. Ottimo sarebbe avere dei referenti nei diversi luoghi che siano disponibili ad aiutarci per una distribuzione più attenta, efficace e anche personalizzata. Attualmente distribuiamo le nostre 3.000 copie in circa 80 punti sparsi in oltre 10 Comuni (da Bastia alla Valnerina e da Montefalco a Nocera Umbra). Se vorrete indicarci i luoghi (esercizi commerciali o siti di aggregazione) e i nominativi delle persone disponibili a col‐ laborare, con i quantitativi che riterrete opportuni, provvederemo noi a recapitare le copie. Vi lasciamo i seguenti recapiti postali e telefonici ai quali fare arrivare le Vostre risposte, grazie. Posta: Sandro Ridolfi, via Cairoli 30 ‐ 06034 Foligno; Mail avv.ridolfi@piazzabarberini12.it; Tel. e Sms 335/6087335 Soprattutto aiutateci a scrivere la rivista: mandateci contributi, idee, osservazioni e suggerimenti, non fatevi proble‐ mi né di contenuti (non esiste l’idea stessa della “censura”), né di forma (vi aiutiamo noi a impostare gli articoli)


Editoriale

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Il Gioco e la Realtà DI

LUIGI NAPOLITANO

I

n una sorta di gioco mentale al quale talvolta mi dedico, mi domando quanti e quali potrebbero essere i Paesi nei quali le sorti del governo dipenda‐ no dalle vicende personali di un uomo solo, tanto più se legate ad eventi di ca‐ rattere penale. Il risultato è che non ne riesco ad individuare alcuno e l’unica cosa che mi viene da pensare è che for‐ se una situazione del genere potrebbe realizzarsi in un regime dittatoriale. Ma una dittatura consentirebbe l’as‐ soggettamento del suo capo alla giusti‐ zia? La risposta non può che essere ne‐ gativa, per cui la confusione in cui pre‐ cipito diventa tale da non consentirmi di continuare e lascio perdere. Tuttavia, finito il gioco, mi rendo con‐ to di quanto grave sia la situazione nel‐ la quale versa il nostro Paese e in che stato di crisi oltre che economica, an‐ che politica, versi l’Italia. Problemi che hanno radici profonde ma che per l’aspetto politico trovano, in questa le‐ gislatura, la loro causa in un risultato elettorale anomalo che, di fatto ha im‐ pedito la formazione di un governo nel quale le varie componenti potessero avere un minimo di omogeneità e pun‐ ti programmatici comuni. Credo che nessuno degli elettori che hanno espresso il loro voto in favore degli schieramenti che oggi sostengono il governo possa dirsi soddisfatto del suo operato. Non c’è provvedimento ad oggi adottato che non appaia dilatorio e non risolutivo e sul quale non siano piovute pesanti le critiche delle parti sociali, della commissione europea e perfino dei partiti che lo sostengono, se non addirittura di qualcuno dei suoi componenti. Sembra di assistere quasi ad una operazione di smarcamento nella quale ciascuna delle parti, dopo aver dato vita ad un qualcosa di inelut‐ tabile ne prenda le distanze per non veder contaminata la propria immagi‐ ne. Il tutto al solo fine di non pregiudi‐ care le proprie aspettative future. Ep‐ pure le uniche aspettative degne di at‐ tenzione dovrebbero essere quelle del‐ la gente che subisce gli effetti della cri‐ si e che, con il suo lavoro cerca di farvi

fronte. Mi sia consentito precipitare nel qualunquismo ma mi vien da dire che forse tutto nasce dalla circostanza che gli unici a non avvertire concreta‐ mente la gravità della situazione sono proprio i politici. Né mi sento di assol‐ vere quella nuova forza parlamentare che dopo aver saputo interpretare il malcontento di larga parte dell’eletto‐ rato non ha concretizzato la sua attivi‐ tà parlamentare in provvedimenti, o almeno proposte di provvedimenti ef‐ ficaci e, di contro, nei suoi vertici ha sostenuto tesi smentite all’indomani dando la sensazione di essere attrice di uno spettacolo di pessima qualità e per di più già visto. Credo che questo governo dovrebbe trovare la sua forza nella distanza che i partiti hanno posto nei suoi confronti e avere il coraggio di cimentarsi su grandi temi. Senza avere la pretesa di individuare tutte le priorità credo che si dovrebbe approvare innanzitutto una riforma costituzionale che riduca il numero dei parlamentari abolendo il bicameralismo perfetto nel quale i due rami del Parlamento hanno funzioni identiche. La scelta di questo sistema che ha avuto una sua logica all’indo‐ mani della fine di un’epoca, ha cessato nella sua ragion d’essere e, oggi, è di ostacolo alla promulgazione di leggi che richiedono tempi rapidi di attua‐ zione. La riforma della giustizia al fine di ridurre i lunghi tempi che spesso ne vanificano gli effetti e di risolvere una

volta per tutte il problema del sovra af‐ follamento delle carceri. La riforma del mondo del lavoro in maniera da dare concrete prospettive ai giovani ed assi‐ curare il corretto e certo pensiona‐ mento di chi ha prestato la sua opera. Il rilancio della scuola, degli studi uni‐ versitari, della ricerca, finalmente pre‐ miali verso i più meritevoli. La riforma degli apparati burocratici che più che svolgere un controllo sono spesso un inutile appesantimento nella gestione del lavoro, delle attività, dei rapporti contrattuali. La riforma del sistema fi‐ scale che impone un prelievo eccessi‐ vo, accertamenti casuali e non di siste‐ ma e richiede anche ai livelli di mini‐ me redditualità una troppo specifica competenza professionale. Ancora e non da ultimo, l’approvazione di una seria legge elettorale che consenta agli elettori di riappropriarsi del diritto di scegliere i propri rappresentanti. In un’epoca che vive un momento di grave crisi di valori e di ideali chiudo queste mie brevi note mutuando il pensiero di un illustre politologo che ha recentemente affermato che per reagire alla perdita di “fede” nella poli‐ tica e alla crisi dell’Italia repubblicana, delle Regioni e dei Comuni, è necessa‐ rio restituire autorità allo Stato, credi‐ bilità alla politica e autorità ai suoi ter‐ ritori, con buoni leader, buoni ammi‐ nistratori, buoni sindaci, capaci di te‐ stimoniare la buona politica ed il buon governo.


4 Sommario del mese di dicembre Nonostante ci fossero i comunisti Due testimonianze dall’ex Unione Sovietica a cura di Sara Mirti

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La fine dello Stato Sociale Il progetto di una “sussidiarietà invertita” di Sandro Ridolfi

pagina 13

Sinergie pubblico-privato Oltre l’assistenzialismo e solidarietà nazionale a cura di Ariel e Casa dei Popoli

pagina 15

Riformare la Costituzione? L’Italia non è un Paese democratco di Alberto Donati

pagina 19

Oltre il suono Musica linguaggio universale di Chiara Mancuso

pagina 23

Apparente brevità dell’immagine Gesti di tutti i giorni di Sara Mirti

pagina 27

Cinedeaf Festival Internazionale Cinema Sordo di Francesca Di Meo e Martina Lembo

pagina 31

Il melodramma nei film Opera Film occidentali e cinema russo di Jacopo Feliciani

pagina 35

Cinquant’anni Cosa si guadagna e cosa si perde di Catia Marani

pagina 39

L’Anima non esiste Libera dissertazione sull’eternità di Anonimo

pagina 43

Redazione: Corso Cavour n. 39 06034 Foligno redazionepiazzadelgrano@yahoo.it

Autorizzazione: tribunale di Perugia n. 29/2009 Editore: Sandro Ridolfi Direttore Responsabile: Maria Carolina Terzi Sito Internet:

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Andrea Tofi Stampa: GPT Srl Città di Castello Chiuso: 20 novembre 2013 Tiratura: 3.000 copie Periodico dell’Associazione “Luciana Fittaioli”

qr code all’indirizzo www.piazzadelgrano.org Scaricate sul vostro telefono, tablet o computer il software gratuito per la lettu‐ ra dei “qr code” e, in‐ quadrando il simbo‐ lo sopra, potrete ac‐ cedere direttamente al sito della rivista, nel quale troverete l’archivio di tutti i numeri editi e i libri digitalizzati pubbli‐ cati da questa rivista


Resistere

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Resistere senza mai perdere la speranza

“Bisogna avere il coraggio di un’Utopia che lavori sui tempi lunghi per raggiungere l’obiettivo di utilizzare sempre nuove scoperte scientifiche per migliorare la vita degli uomini e, nello stesso tempo, di guidare consapevolmente i processi economici e sociali. Che cos’è il socialismo se non questo? E’ la direzione consapevole, quindi non autoritaria, non represiva, dei processi economi‐ ci e sociali, con il fine di uno sviluppo equilibrato e della giustizia sociale. Noi vogliamo una so‐ cietà socialista che corrisponda alle condizioni del nostro paese, che rispetti tutte le libertà san‐ cite dalla Costituzione, che sia fondata su una pluralità di partiti, sul concorso di diverse forze sociali. Una società che rispetti tutte le libertà, meno una: quella di sfruttare il lavoro di altri es‐ seri umani, perché questa libertà tutte le altre distrugge e rende vane" (Enrico Berlinguer)


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Resistere

Il 9 novembre 1989 crolla il “Muro di Berlino” è il trionfo del capitalismo occidentale e l’inizio della sua crisi irreversibile DI

SANDRO RIDOLFI

Il Muro del capitalismo

25 anni fa, circa, è “caduto” il muro di Berlino. L’evento è stato salutato, motivatamente dai padroni del mondo e dai loro servi, stupidamente dalle loro vittime sbandate, pentite e orfane delle ideologie troppo spesso recitate e raramente capite, come l’annuncio della vittoria finale del capitalismo e del suo messaggio di libertà quale premessa, e promessa, di una crescita infinita e di un benessere diffuso. 25 anni dopo ne registriamo gli effetti reali e le verità realizzate. Da un lato del muro, il nostro lato per intenderci, siamo in piena crisi eco‐ nomica, ma anche morale e della stes‐ sa idea di democrazia; una crisi che sta uccidendo giorno dopo giorno le conquiste sociali e culturali dei 50 anni della ricostruzione post bellica. Dall’altro lato del muro, quello dei paesi liberati dalla “cortina di ferro” sovietica, registriamo un vero e pro‐ prio disastro economico, politico, sociale e culturale ancora difficilmen‐ te calcolabile. Cos’è stato, cosa ha rappresentato allora quell’enorme evento mediatico della caduta del muro di Berlino? Sostanzialmente l’apogeo della ascesa del capitalismo occidentale e, conseguentemente (è nella legge stessa del punto più alto), il momento dell’inizio della sua inevi‐ tabile e inarrestabile caduta. Il muro è caduto sui suoi demolitori, anche se ha lanciato schegge dannosissime anche sui pretesi liberati. Sia ben chiaro che non intendiamo affatto rivalutare e tanto meno difendere quel cosi detto “socialismo reale” che, di là di quel muro, da decenni, potremmo dire dalla morte di Stalin, aveva progressivamente perso la sua ossatura scientifica marxista leninista e si era involuto in un ideologismo puramente nominale; schiacciato da un lato da una competizione mondia‐ le con un capitalismo occidentale, ma diremmo soprattutto USA, sempre

più forte e sempre più prepotente e violento; dall’altro incapace di dare risposte di crescita non solo econo‐ mica, ma anche, attraverso questa, sociali e culturali alla propria popola‐ zione. Alla tigre americana si con‐ trapponeva un orso sempre più stan‐ co e sempre più sclerotizzato, nelle mani di classi dirigenti lontane dai sentimenti del popolo, preoccupate solamente della loro sopravvivenza e dunque non solo incapaci di proget‐ tare il futuro, ma spaventate da quel‐ lo stesso futuro che non erano più in grado di interpretare. Così a un gen‐ darme del mondo occidentale, che giorno dopo giorno stava mangiando i propri figli (come Crono, il Tempo della mitologia greca), revocando le libertà e i diritti sociali concessi nel‐ l’immediato dopoguerra, dall’altra parte del muro sopravviveva un altro gendarme che cercava in ogni modo di garantirsi la propria sopravvivenza impedendo le novità, comunque e in qualsiasi parte del mondo dovessero emergere. Il monolite sovietico è così imploso e il muro di Berlino si è sgre‐ tolato da solo. Un vaso di coccio è entrato in contatto con un vaso di acciaio e si è disintegrato.

Le false libertà

E’ a questo punto però che il vaso di acciaio, il capitalismo espansivo e trionfante, privato dal fantasma del suo nemico ideologico, che alimen‐ tando inesistenti pericoli aveva fon‐ dato sulla paura e sull’illusione la propria accettazione, ha rivelato la sua natura bestiale. La libertà capita‐ listica, quella che consente la libera circolazione delle persone e delle merci, si è rivelata essere in realtà la libertà dell’emigrazione, dalla disoc‐ cupazione, dalla miseria, dalle trage‐ die delle innumerevoli e infinite guerre che insanguinano il mondo alimentate dalla fame di risorse della bestia capitalista. La libertà capitali‐ stica, quella che consente di esprime‐ re le proprie opinioni e manifestarle nella pratica politica, si è rivelata il monopolio dell’informazione e della

compravendita di sempre più scarni ed esangui partiti padronali. La liber‐ tà capitalistica, quella che consente l’acquisizione e la difesa della ricchez‐ za privata, si è rivelata la concentra‐ zione esponenziale della ricchezza in pochissime mani e la inarrestabile progressione di una povertà sempre più diffusa. La libertà capitalistica, quella che consente la creazione delle classi sociali basate sull’impegno per‐ sonale e sul merito individuale, si è rivelata la progressiva scomparsa delle classi stesse, con una divisione della società, che tende a regredire a livelli medioevali, tra ricchissimi e i loro servi da un parte e la massa dei poveri e degli impoveriti dall’altra. Oggi non c’è più promessa per il futu‐ ro, ma solo timore, tutt’altro che infondato, di perdere il passato. Certamente noi ce ne accorgiamo ancora poco, o così ci fa comodo cre‐ dere, perché apparteniamo a quella parte del mondo che ancora vive della ricchezza sottratta all’altra parte; ma fino a quando? Fino a quando ce la faremo? Non c’è altra risposta che il capitalismo possa dare, non ha più risposte e non ha più illusioni da ven‐ dere. Cento anni fa circa Lenin aveva profetizzato questo momento scri‐ vendo il saggio “Imperialismo fase suprema del capitalismo”; forse aveva ecceduto nella speranza, ma il tempo non si misura ad anni e molti processi richiedono tempi più lunghi per la loro compiuta realizzazione. Oggi quello scritto di Lenin assume una assoluta attualità: oggi è evidente che il capitalismo, divenuto da produtto‐ re in puro finanziario, ha esaurito il suo ciclo e, come detto in apertura di questo articolo, il momento “topico”, caratteristico, è stato proprio quello della caduta del muro di Berlino. Anche in questo caso non sarà una morte rapida, sarà sicuramente un’agonia lunga e come tutte le ago‐ nie dolorosa e pericolosa. Che fare? Certamente non attendere passiva‐ mente e tanto meno rassegnarsi. Resistere e intanto progettare un nuovo futuro.


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Resistere Resistere

Oltre trenta anni fa Berlinguer, l’ulti‐ mo segretario marxista leninista del più grande Partito Comunista dell’oc‐ cidente, del partito di Gramsci e To‐ gliatti, di fronte all’allora apparente‐ mente inarrestabile crescita della po‐ tenza e della violenza dell’imperiali‐ smo USA, aveva lanciato la parola d’ordine della “resistenza”. L’aveva chiamata “alternanza democratica”, ma questo intendeva dire: unire le for‐ ze popolari consolidando una forte e coesa opposizione sociale per reggere lo scontro, difendere il più possibile le conquiste economiche, ma anche so‐ ciali e culturali, acquisite negli anni post bellici e della crescita economica, e prepararsi a tornare all’attacco se e quando le condizioni di contesto, na‐ zionale e internazionale, lo avessero nuovamente permesso. Consapevol‐ mente Berlinguer applicava il fonda‐ mentale insegnamento di Gramsci della conquista e della difesa delle “ca‐ sematte” del potere nelle società capi‐ taliste (sindacati, scuola, sociale, ecc.) e, forse inconsapevolmente (ma il pensiero scientifico, qual’è il marxi‐ smo leninismo, ha regole solide che si applicano da sole, quasi automatica‐ mente) ha fatto applicazione dell’altro insegnamento fondamentale di Mao, quello della “lunga marcia”, secondo il quale le battaglie che non si possono vincere non vanno combattute per non sacrificare inutilmente le risorse che debbono, invece, essere conserva‐ te il più intatte possibile per essere nuovamente messe in campo al mo‐ mento più opportuno. Berlinguer, va dato atto sicuramente a causa della sua morte improvvisa, allora ha perso

quella battaglia ed è prevalsa la linea della resa, propugnata da Craxi e ab‐ bracciata da Napolitano (il principale antagonista di Berlinguer nel PCI); l’uno è morto in esilio, l’altro è rin‐ chiuso nel castello del Quirinale a in‐ ventare giorno dopo giorno soluzioni impossibili al disastro della politica e della morale italiana. Il PCI, inseguen‐ do il sogno di un “rinnovamento” di simboli e linguaggi, si è stupidamente quanto inutilmente suicidato, lascian‐ do il nostro paese e intere classi e ge‐ nerazioni prive di una guida, non solo ideale e morale, la cui mancanza è di evidenza enorme, ma anche di compe‐ tenze tecniche, di esperienze, di solidi‐ tà scientifica, di una “mente” pensante insomma, di quell’ “intellettuale col‐ lettivo” organico alle classi lavoratrici che Gramsci aveva costruito proprio per guidare le stesse, attraverso la con‐ quista dell’egemonia, al governo in un sistema economico capitalista. L’eufo‐ ria dell’illusione capitalista della cre‐ scita infinita del mercato globale visto come fattore di liberazione, ha deva‐ stato non solo l’economia di quasi tutti i paesi dell’occidente europeo (non tragga in inganno la temporanea tenu‐ ta dell’economia tedesca che sopravvi‐ ve fagocitando il sud dell’Europa, fin‐ ché ci sarà qualcosa da scarnificare), ma ha devastato soprattutto le co‐ scienze, cancellando non solo il ruolo, ma l’idea stessa dei partiti come stru‐ menti a uno stesso tempo di aggrega‐ zione sociale, ma anche e soprattutto di produzione ideale e culturale. Non si tratta oggi di ricostruire aggregazio‐ ni politiche vagamente idealiste (uso il termine in significato neutro, dunque tanto ideologie etiche e di progresso,

quanto regressive e populiste), perché ogni giorno ne vediamo nascere e mo‐ rire senza sosta; si tratta di ricostruire l’idea stessa della politica intesa non come censura, condanna o accusa, ma come progetto; non come “disfare”, ma come “fare”.

L’Intellettuale Collettivo

La risposta la troviamo, com’è ovvio, nell’analisi scientifica della storia e delle politica, dunque proprio nel marxismo leninismo che ne è la più al‐ ta espressione. Occorre tornare a “pensare” e non urlare, insultare o, peggio ancora, voltarsi e ignorare. Oc‐ corre tornare ad analizzare critica‐ mente non solo l’oggi e lo ieri imme‐ diato, ma l’intero processo storico in corso, per poi trarre da questa analisi le idee del futuro da sottomettere alla verifica della pratica. Occorre, anzi‐ tutto, tornare a lavorare per ricreare il “soggetto pensante” in grado di ese‐ guire quell’analisi storica e quell’ela‐ borazione progettuale. Occorre rifon‐ dare il partito comunista, o comunque lo si voglia chiamare (ma i nomi non sono mai senza significato sia quando si conservano, sia quando si “ripudia‐ no”) un partito organico alla classi la‐ voratrici e popolari. Cominciamo da alcuni spunti di rifles‐ sione storica. Nella pagina seguente pubblichiamo la difesa pronunciata dal compagno Honecker dell’esperien‐ za del socialismo reale nella ex DDR – Germania Democratica; più oltre pub‐ blichiamo un inserto costruito sulla memoria di alcuni “sopravvissuti” alla devastazione provocata dal crollo del Muro di Berlino nei paesi dell’ex socia‐ lismo reale.


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Resistere

Erich Honecker, un comunista

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Presidente della Repubblica Democratica Tedesca Autodifesa (estratto) nel processo farsa per le uccisioni avvenute lungo il Muro di Berlino

ifendendomi dall'accusa manifesta‐ mente infondata di omicidio non in‐ tendo certo attribuire a questo Tribunale e a questo procedimento penale l'appa‐ renza della legalità. La difesa del resto non servirebbe a niente, anche perché non vivrò abbastanza per ascoltare la vo‐ stra sentenza. La condanna che eviden‐ temente mi volete infliggere non mi potrà più raggiungere. Ora tutti lo sanno. Ba‐ sterebbe questo a dimostrare che il pro‐ cesso è una farsa. E' una messa in scena politica. Nessuno nelle regioni occiden‐ tali della Germania, compresa la città di prima linea di Berlino Ovest, ha il diritto di portare sul banco degli accusati o ad‐ dirittura condannare i miei compagni coimputati, me o qualsiasi altro cittadi‐ no della RDT, per azioni compiute nel‐ l'adempimento dei doveri emananti dallo Stato RDT. Se parlo in questa sede, lo faccio solo per rendere testimonianza al‐ le idee del socialismo e per un giudizio moralmente e politicamente corretto di quella Repubblica Democratica Tedesca […] Non mi aspetto certo da questo pro‐ cesso e da questo Tribunale un giudizio politicamente e moralmente corretto della RDT, ma colgo l'occasione di questa messa in scena politica per far conoscere ai miei concittadini la mia posizione. La situazione in cui mi trovo con questo processo non è un fatto straordinario. Lo Stato di diritto tedesco ha già perseguita‐ to e condannato Karl Marx, August Be‐ bel, Karl Liebknecht e tanti altri socialisti e comunisti. Il terzo Reich, servendosi dei giudici ereditati dallo Stato di diritto di Weimar portò avanti quest'opera in mol‐ ti processi, uno dei quali io stesso ho vis‐ suto in qualità di imputato. Dopo la sconfitta del fascismo tedesco e dello Sta‐ to hitleriano, la RFT non ha avuto biso‐ gno di cercarsi nuovi procuratori della repubblica e nuovi giudici per riprendere a perseguitare penalmente in massa i co‐ munisti, togliendo loro il lavoro e il pane nei tribunali del lavoro, allontanandoli dagli impieghi pubblici tramite i tribunali amministrativi o perseguitandoli in altri modi. Ora capita a noi quello che ai no‐ stri compagni della Germania occidenta‐ le era già capitato negli anni '50. Da circa 190 anni è sempre lo stesso arbitrio che si ripete. Lo Stato di diritto della Repubbli‐ ca Federale Tedesca non è uno stato di di‐

ritto ma uno Stato delle destre. Per questo processo, come per al‐ tri in cui altri cittadini della RDT vengono perseguitati per la loro contiguità col sistema di fronte ai tribunali penali o del lavoro, so‐ ciali o amministrativi, c'é un ar‐ gomento principe che viene usa‐ to. Politici e giuristi sostengono: dobbiamo condannare i comuni‐ sti perché non lo abbiamo fatto con i nazisti. Questa volta dob‐ biamo fare i conti con il nostro passato. A molti sembra un ra‐ gionamento ovvio, ma in realtà è totalmente falso. La verità è che la giusti‐ zia tedesca occidentale non poteva puni‐ re i nazisti perché i giudici e i procuratori della repubblica non potevano punire se stessi. La verità è che questa giustizia della Germania Federale deve il suo at‐ tuale livello, comunque lo si voglia giudi‐ care, ai nazisti di cui ha assunto l'eredità. La verità è che i comunisti e i cittadini della RDT vengono perseguitati oggi per le stesse ragioni per cui sono sempre stati perseguitati in Germania. Solo nei 40 an‐ ni di esistenza della RDT le cose sono an‐ date in senso opposto. E’ con questo spia‐ cevole “inconveniente” che bisogna ora fare i conti […] Per me e, credo, per chiunque non sia prevenuto, è evidente che questo processo è politico come solo può esserlo un processo contro la diri‐ genza politica e militare della RDT. Chi lo nega non sbaglia, chi lo nega mente. Mente per ingannare ancora una volta il popolo. Con questo processo si fa proprio ciò di cui noi veniamo accusati: ci si sba‐ razza degli avversari politici con i mezzi del diritto penale. Ma naturalmente tutto avviene secondo la legge […] Rimane, co‐ me scopo politico di questo processo, la volontà di discreditare totalmente la RDT e con essa il socialismo in Germa‐ nia. Il crollo della RDT e del socialismo in Germania e in Europa evidentemente an‐ cora non gli basta. Devono eliminare tut‐ to ciò che può far apparire questo perio‐ do in cui gli operai e i contadini hanno governato in una luce diversa da quella della perversione e del delitto. La vittoria dell'economia di mercato (come chiama‐ no oggi eufemisticamente il capitalismo) deve essere assoluta, e così la sconfitta del socialismo. Si vuole fare in modo, co‐

me diceva Hitler prima di Stalingrado, che quel nemico non si rialzi mai più. [… ] Il capitalismo ha vinto economicamen‐ te scavandosi la fossa, cosi come aveva fatto Hitler vincendo militarmente. In tutto il mondo il capitalismo è entrato in una crisi priva di sbocchi. Non gli è rima‐ sta altra scelta che sprofondare in un ca‐ os ecologico e sociale oppure accettare la rinuncia alla proprietà privata dei mezzi di produzione e quindi il socialismo. Am‐ bedue le alternative significano la sua fi‐ ne. Ma per i potenti della Repubblica Fe‐ derale Tedesca il pericolo più grave è chiaramente il socialismo […] Non è in gioco dunque solamente la mia persona o quella degli altri imputati di questo pro‐ cesso. E’ in gioco molto di più. E’ in gioco il futuro della Germania e dell'Europa, anzi del mondo che, con la fine della guerra fredda e con la nuova mentalità, sembrava dovesse entrare in una fase tanto positiva. Qui non solo si prosegue la guerra fredda, ma si vogliono gettare le fondamenta di un'Europa dei ricchi [...] Non sono io la persona che possa fare un bilancio della storia della RDT. Il mo‐ mento di farlo non è ancora venuto. Il bi‐ lancio sarà tratto in futuro e da altri […] E tuttavia, giunto alla fine della mia vita, ho la certezza che la RDT non è stata co‐ stituita invano. Essa ha rappresentato un segno che il socialismo è possibile e che è migliore del capitalismo. Si è trat‐ tato di un esperimento che è fallito. Ma per un esperimento fallito l'umanità non ha mai abbandonato la ricerca di nuove conoscenze e nuove vie [...] e mie considerazioni terminano qui. Fate dunque quello che non potete fare a meno di fare.

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ex URSS

Nonostante ci fossero i comunisti

LUDA KUCHER E GULSANA SARNOGOEVA INTERVISTE DI SARA MIRTI

S

ono passati molti anni dalla politica di "ricostruzione" ("perestrojka", 1985), ma sarebbe meglio dire "ristrut‐ turazione", dell'URSS voluta da colui che ne sarebbe stato l'ultimo presiden‐ te, Michail Gorbačev, e dalla pubblicità ("glasnost'", 1986) che ne è derivata, così come molti anni sono passati dalla ca‐ duta del famigerato muro che divideva Berlino Est da Berlino Ovest (caduto nel 1989); tuttavia, se una forma di rovi‐ nosa ristrutturazione c'è stata, la rico‐ struzione promessa non è ancora arri‐ vata. Malgrado ciò, l'attitudine a pren‐

dere i due fatti quali esempi di libertà e di progresso, non si è ancora tacitata. Una volta scemati l'entusiasmo e le spe‐ ranze iniziali, si può affermare, proprio in virtù di questo tempo trascorso, che se vittoria ci fu, certamente non si trattò di una vittoria dei popoli, né dei singoli individui, né di una cultura su di un'al‐ tra, ma di un interesse, di una sindrome d'interessi, su un altro. Come ebbe a di‐ re Dubček, pur dall'interno del Partito Comunista Cecoslovacco, il comuni‐ smo di matrice russa andava salvato, lì, nella sua Praga come in qualsiasi altra città del quasi sterminato blocco sovie‐ tico, e andava salvato in quel particolare momento storico. Nonostante nell'U‐ nione Sovietica governassero i comuni‐ sti, alla fine, ben prima che cadesse

l'URSS, ha vinto il non‐comunismo, hanno vinto gli interessi legati al capita‐ lismo occidentale. Non a caso, in tutta l’ex‐Urss, si dice che adesso sia arrivato "il capitalismo dalla brutta faccia", quel‐ lo che forma divari incolmabili tra i ric‐ chi, sempre più ricchi, e i poveri, in pe‐ renne lotta per la sopravvivenza e per il riconoscimento di una qual si voglia di‐ gnità. La caduta del Muro sembra non aver portato conseguenze nei paesi del‐ l'ex "blocco comunista": mentre da un lato si abbatteva un muro, dall'altro la disgregazione dell'URSS stava portando alla creazione di altri muri più insidiosi. Nuove frontiere hanno finito per divi‐ dere quello che prima era un unico spa‐ zio geografico, culturale, indentitario, liberamente attraversabile.


10 A causa delle conseguenze economi‐ che di tale divisione, molto presto alla maggior parte delle persone i soldi non sono più bastati per ricon‐ giungersi con i parenti lontani, o con la propria cultura: ora davvero non si poteva più andare da nessuna parte. Il mondo invece che allargarsi è di‐ venuto più piccolo dalla prospettiva dell'Est, mentre a Ovest poco è fil‐ trato dei tormenti, delle battaglie economiche ed esistenziali interne all'ex blocco comunista. Le forma‐ zioni nazionaliste che, di volta in volta, di paese in paese, hanno fe‐ steggiato l'indipendenza delle neo‐ repubbliche formatesi, hanno gra‐ dualmente portato all'estremizza‐ zione di identità che, quando diven‐ tano rabbiose e paurose, semplice‐ mente non esistono già più. La di‐ sgregazione politica ha messo in gi‐ nocchio le economie nazionali del‐ l'Est, mentre la disgregazione cultu‐ rale ha fatto il resto. Per provare a conoscere più da vicino l'est della nostra, tanto benedetta e tanto ma‐ ledetta, Europa, luogo in cui spesso tutto il nostro mondo inizia e fini‐ sce, abbiamo chiesto a Lyudmyla Kucher e a Gulsana Sarnogoeva di unire i loro pensieri ai nostri, svelan‐ doci un po' della loro vita e dei loro ricordi, aiutandoci così a compren‐ dere almeno una parte della Storia che è comune e che troppe volte stentiamo a riconoscere come "no‐ stra"; loro hanno accettato con gene‐ rosità e con tutta la passione che sa esprimere verso il proprio paese chi ne rimane troppo a lungo lontano. ulsana (Giulia, per gli amici ita‐ liani), nata a Biškek in Kirghizi‐ stan è una giovane donna la cui figu‐ ra elegante e il cui portamento rive‐ lano sensibilità e familiarità con la macchina da presa. Gulsana infatti ha studiato all'Istituto Culturale di Regia a Mosca (dove s'incontrava un crogiolo di etnie ‐ c'erano persone provenienti da tutte e quindici le re‐ pubbliche, da Cuba, dall'Africa, dalla Polonia, dalla Bulgaria, dalla Roma‐ nia… ‐ e dove il mondo sembrava uno e indivisibile, a portata di mano) e ha lavorato nel film storico su Gen‐ gis Khan ("Cenghishan") diretto, do‐ po una sospensione dovuta al "putsch" di Mosca (1991), da Ken An‐ nakin, girato sul territorio del Kir‐ ghizistan e un po' in Cina ed Uzbe‐

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ex URSS kistan, e prodotto da Italia, USA e Canada. Gulsana conosce l'Italia fin da bambina: la mamma le diceva che i cantanti più bravi erano italia‐ ni (anche il Kir‐ ghizistan non scherza: il giovane ma talentuoso te‐ nore Jenishbek Ysmanov riesce a passare dal suo amato Luciano Pavarotti alle can‐ zoni napoletane come se nulla fos‐ se), il padre inve‐ ce preferiva i pit‐ tori italiani e il fratello, natural‐ Gulsana Sarnogoeva con suo padre, il famoso poeta mente, i calciato‐ popolare Baidulda Sarnogoev ri. Ed è stato pro‐ prio un viaggio "premio" di forma‐ lar", grande amico del poeta russo zione in Italia, a Roma, a portare Robert R. Rozhdestvensky conosciu‐ Gulsana qui da noi. Quando le chie‐ to all'Istituto di Letteratura, amava do cosa ricorda degli anni della pere‐ scrivere soprattutto versi dedicati strojka, mi dice che, nonostante il alla bellissima natura del proprio comunismo, non tutto andava per il paese, versi rivolti al suo popolo. verso giusto, ma che c'erano alcuni lati positivi mescolati a quelli negati‐ vi. Quando c'era l'URSS, per esem‐ pio, in Kirghizistan erano rari i lavo‐ ratori stranieri (c'erano ragazze pro‐ venienti dalla Mongolia che lavora‐ vano nel settore tessile); i cantanti più meritevoli, quindi solo pochissi‐ mi, potevano persino andare a stu‐ diare alla Scala, ora nessuno si occu‐ pa più in questo modo della loro istruzione; tuttavia, adesso che tutto dipende dalla fortuna e dalla solida‐ rietà delle persone, i giovani artisti, i cantanti come i poeti, hanno poten‐ zialmente più chance di farsi cono‐ scere e tanto la cultura quanto la lin‐ gua kirghiza hanno ottenuto una maggiore diffusione, grazie anche al‐ le numerose attività della comunità kirghiza residente all'estero. Già suo padre, Baidulda Sarnogoev, famoso poeta popolare kirghizo (a cui è inti‐ tolato un premio internazionale di poesia che si svolge ogni due anni), invitava con i suoi versi i kirghizi a non dimenticare la propria lingua e la propria cultura. Baidulda Sarnogo‐ ev, di cui ricordiamo il libro, "Ashuu‐ dan bergen otchetum: Yrlar, poema‐


ex URSS Il periodo in cui il poeta vosse è stato lo stesso in cui nell’ex URSS erano diffusi film comico‐satirici come "La prigioniera del Caucaso" (o "Le nuo‐ ve avventure di Šurik"), 1966, in cui veniva denunciata una corruzione di‐ lagante che, tuttavia, mai aveva rag‐ giunto i livelli odierni. Gulsana con‐ tinua a raccontare il suo punto di vi‐ sta e la sua storia in maniera asciutta e insieme immaginifica, da giornali‐ sta quale è (scrive infatti per il gior‐ nale in lingua kirghiza "Asaba"): al‐ l'inizio, dopo l'indipendenza, con le privatizzazioni, le cose sembrarono migliorare, poi stagnarono e poi ini‐ ziarono ad andare un po' peggio. Ma il Kirghizistan rimane un paese splendido, con davanti a sé, probabil‐ mente, uno splendido, sia pure fati‐ coso, futuro. Chiunque lo voglia visi‐ tare deve soltanto munirsi di un bi‐ glietto aereo: è possibile avere il visto sul posto, per pochi euro. Le monta‐ gne, i mercati, le case caratteristiche, ma anche la letteratura…tutto del Kirghizistan, che a noi sembra così lontano, aspetta di essere conosciuto o riscoperto. A guardarlo su una car‐ tina sembrerebbe soltanto un pezzo di mondo diviso, come accade a tanti

altri pezzi, da tutto il resto, eppure, sentendo parlare Luda e Gulsana in russo delle vecchie feste nazionali condivise, sembra ancora si tratti di un unico grande mondo. Un giovane poeta (nato negli anni '70) come Ro‐ styslav Melnykiv ha scritto che l'Ucraina è "la Grande Fabbrica degli Immigrati", e forse davvero lo è, al‐ meno adesso, ma, a giudicare dai rac‐ conti di Luda, nella sua vita prece‐ dente l'Ucraina deve essere stata piuttosto una grande fabbrica di umanità, di sogni e di progetti per il futuro. Il nostro occidente, prospero‐ so, a volte predatore, a volte sempli‐ cemente incapace, non ricorda più o non conosce per nulla gli sconvolgi‐ menti e le incertezze derivate da ca‐ taclismi politici, dalle guerre, dalla miseria. Il resto del mondo invece ha imparato a declinare quasi nella pro‐ pria quotidianità tutti i flagelli e le piaghe di un'Apocalisse tutt'altro che unica e irripetibile. uda è una dolcissima signora ucraina, ma di origine e di cultura russa; i suoi modi sono timidi, ma gli occhi svelano fin da subito un'intelli‐ genza non comune, una certa fierezza e una rara padronanza di sé e della

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11 propria vita. La sua storia, infatti, rap‐ presenta (purtroppo) un esempio em‐ blematico delle conseguenze econo‐ miche e sociali della caduta incon‐ trollata dell'Unione Sovietica. Si trat‐ ta di una storia che inizia da lontano, una storia che attraversa confini na‐ zionali e generazioni, incastrando uno ad uno i propri tasselli. Luda de‐ scrive la propria famiglia di origine come "internazionale", una famiglia in cui si erano mischiate le etnie più disparate. La famiglia di sua madre era numerosa (otto figli) e nel 1937 viene presa di mira: il padre e il fratel‐ lo vengono accusati di essere dei "ne‐ mici del popolo", arrestati e portati in Siberia. La madre però non si arren‐ de; in realtà nessuno in famiglia pen‐ sa che la colpa sia dello Stato, di un'ideologia crudele, ma soltanto che, evidentemente, qualcuno, uno o più individui specifici, avesse com‐ messo un errore. La madre di Luda, nel frattempo, diventa medico, si spo‐ sa e, appena ne ha la possibilità, si re‐ ca a Mosca, disposta a macinare a pie‐ di distanze interminabili pur essendo incinta. Il suo intento era quello di riuscire a parlare con qualcuno, forse un compaesano (il ramo materno del‐ la famiglia di Luda abitava vicino Sta‐ lingrado), disposto a prendere in esa‐ me la situazione di suo padre e di suo fratello. La donna, ormai anziana, parlando con la figlia, ricordava anco‐ ra i piedi gonfi e indolenziti alla fine di quella lunga giornata. Il marito, uf‐ ficiale dell'aviazione, spaventato dalle possibili conseguenze delle sue pero‐ razioni (come dice Luda, "gli uomini non sanno mai come reagire ai mo‐ menti di crisi"), le propose un divor‐ zio fittizio. Naturalmente la madre di Luda preferì optare per un divorzio vero ed effettivo. I suoi sforzi furono premiati: tutti i suoi cari vennero ria‐ bilitati e liberati prima della Seconda Guerra Mondiale. La sua famiglia non è mai stata "comunista", ma tutti par‐ tirono volontari per combattere con‐ tro i fascisti, tutti abbracciarono al‐ l'unisono la propria patria, ricono‐ scendovisi appieno. Uno dei fratelli, purtroppo, morì in guerra, gli altri tornarono e si sparpagliarono, chi in una città e chi in un'altra, con le pro‐ prie famiglie. Il figlio nato dal suo pri‐ mo matrimonio morì a pochi mesi per scarlattina, malattia difficilmente curabile in quel tempo di guerra.


12 La madre di Luda infine, nel '45, fu trasferita in Ucraina a causa della carenza di medici e qui si fece una nuova vita. Ed è proprio qui, da queste coraggiose radici, che ha ini‐ zio la storia di Luda. In Ucraina la famiglia di Luda, pur non essendo benestante, è stata felice. Si lavora‐ va, si studiava e si viveva tutti insie‐ me, russi, ucraini, polacchi, e qual‐ che sparuta pattuglia di altre etnie (la stessa Luda ha amici afgani), senza scontri e senza divisioni, ar‐ ricchendosi l'uno dell'altro, nella consapevolezza di un futuro comu‐ ne; le scuole russe c'erano è vero, ma erano pochissime rispetto a quelle ucraine (quando nascerà suo figlio, Luda a stento ne troverà una in cui farlo studiare). Ci si spostava a Mosca per studiare (Luda ricorda ancora con piacere le giornate di studio in biblioteca, con cui si pre‐ parava prima di vedere uno spetta‐ colo a teatro, o prima di visitare un museo) e a Leningrado (oggi S. Pie‐ troburgo) per andare a trovare i pa‐ renti; in queste grandi città si veni‐ va a contatto con l'architettura, la pittura, la scultura e la letteratura occidentale, soprattutto italiana. Mai avrebbe immaginato che, spo‐ sata e con un figlio, divenuta capo‐ sala nel reparto di fisioterapia di una clinica di Ivano‐Frankivs'k, la sua città, a 57 anni, dopo aver otte‐ nuto una misera pensione, si sareb‐ be trovata nelle condizioni di dover partire per l'Italia in cerca di fortu‐ na; mai avrebbe immaginato di non riuscire più a sopravvivere degna‐ mente nella propria, tanto amata, patria. Eppure, così come i suoi zii e come sua madre, neanche Luda si è tirata indietro. All'inizio della pe‐ restrojka, non cambiarono soltanto le feste nazionali, ma all'improvviso diventò difficile e costoso anche far visita ai parenti. In Ucraina, proba‐ bilmente, quasi nessuno si è accor‐ to della caduta del Muro, o nessuno ci ha badato per più di un attimo: come poteva incidere nella propria vita la caduta di un singolo muro si‐ tuato a tanti confini e dogane di di‐ stanza? Quando poi nel 2002 Luda è venuta in Italia, a Sorifa, in Ucrai‐ na era già diventata grande la prima generazione di giovani che non ave‐ vano mai potuto viaggiare, prende‐ re un treno, un aereo ("a stento pos‐

ex URSS

Luda Kucher insieme a Francesca Gianformaggio dell’Associazione Casa dei Popoli

sono prendere la corriera che passa intorno alle loro città o ai loro pae‐ sini"), andare a teatro, vedere un museo, curarsi tranquillamente. L'istruzione è difficile, ma ancora tendenzialmente gratuita (a patto che si rimanga a lavorare in Ucrai‐ na, in caso contrario bisogna rim‐ borsare lo stato), mentre si può ar‐ rivare ad attendere un'ambulanza per più di tre ore, perché non ci so‐ no i soldi per la benzina. Nei primi tempi la preoccupazione di Luda e delle sue colleghe è stata quella di aiutarsi l'una con l'altra (Luda face‐ va, gratuitamente, iniezioni ed elet‐ troforesi a domicilio) e di non per‐ dere il senso della bellezza della vi‐ ta: da caposala si è reinventata par‐ rucchiera, affinché, insieme alla bellezza, non si perdesse anche la forza di lottare. Piano piano, chi ha potuto, ha provato ad adattarsi, ma‐ gari andando a vendere i propri ve‐ stiti al mercato più vicino, ma per Luda la situazione si è fatta gradual‐ mente insopportabile. Ora il suo italiano è ricco e scorrevole, e i suoi amici qui a Foligno hanno trovato in lei una radice forte e lei qui si sente come in famiglia. Proprio gra‐ zie alla sua cultura e alle sue risorse interiori è riuscita a superare quei momenti difficili che invece hanno visto altre persone rifugiarsi nel be‐ re. Da poco ha regalato alla sua ni‐ potina, ottima studentessa e cam‐ pionessa di taekwondo, i biglietti per vedere "Lo Schiaccianoci" a tea‐

tro e lei ne è stata entusiasta…le sue attuali colleghe, invece, ne sono ri‐ maste stupefatte: come mai aveva speso tanti, sudatissimi, soldi per una cosa del genere? Le speranze di cambiamento per il suo paese non sono molte e passano tutte per un ritorno alla cultura intesa come so‐ stegno di ogni popolo, di ogni poli‐ tica, di ogni nazione; molte persone sono tornate in Ucraina giusto il tempo di festeggiare l'indipendenza e poi sono partite senza fare più ri‐ torno, e molte altre continuano a partire senza lasciare nulla alle pro‐ prie spalle: non si sta più bene in‐ sieme, gli animi si sono estremizza‐ ti. Quando le chiedo cosa voglia di‐ re per lei una divisione in "est" e "ovest", Luda mi risponde che an‐ che il suo amato paese è ormai divi‐ so in una parte est e una parte a ovest e che, se ci fossero stati i soldi, probabilmente l'Ucraina si sarebbe già divisa. l grande paese, noto anche come “la sesta parte del mondo”, in cui le etnie erano un dato come un al‐ tro, come il colore dei capelli o l'età, in cui i popoli avevano i mezzi per incontrarsi e raccontarsi, non esiste più, certo, ma prima o poi, se non vorremo dividerci all'infinito, do‐ vremo chiedercene il perché, e do‐ vremo interrogarci su quali siano le nostre reali priorità e i nostri reali sentimenti verso quel mondo che, non essendo poi così grande, è an‐ che il nostro.

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Sussidiarietà per Foligno

Dallo Stato liberale allo Stato sociale La crisi e il declino dello Stato sociale DI

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SANDRO RIDOLFI

l novecento ha visto il passaggio dalla concezione dello Stato “liberale” a quello “sociale” che, a sua volta, rag‐ giunto il massimo di espansione dopo la seconda guerra mondiale, ha iniziato il suo declino già alla fine del secolo scor‐ so. In termini molto semplici possiamo dire che lo Stato liberale era concepito come uno Stato “leggero”, che riservava alla propria competenza taluni ambiti strategici (es. la difesa, la politica estera, le finanze, ecc.), lasciando alla libera iniziativa privata tutti gli altri aspetti della vita sociale. Ovviamente questa li‐ bertà d’iniziativa (come d’altronde tutte le “libertà”) intanto veniva goduta in quanto chi vi poteva ricorrere aveva i mezzi per farlo. Da questa libertà, pura‐ mente nominale, era dunque esclusa la grandissima parte della popolazione che (parliamo dell’Italia ma il discorso potrebbe valere per tutti i Paesi euro‐ pei), viveva in condizioni di arretratezza economica, sociale e culturale spaven‐ tose. L’avvento dell’ideologia politica dello Stato sociale ha portato, con l’af‐ fermazione della universalità di taluni diritti così detti “naturali” della persona, all’ingresso dello Stato nella realizzazio‐ ne concreta delle condizioni sociali, economiche e culturali perché questi di‐ ritti/libertà potessero essere effettiva‐ mente goduti da chiunque. Lo Stato so‐ ciale si è dunque progressivamente fatto carico della creazione, organizzazione e gestione di un numero sempre più vasto di “servizi”: dalla istruzione pubblica, al‐ la sanità sempre più universale, alle tu‐ tele del lavoro e delle pensioni, sino alla erogazione dei quei “servizi pubblici” strumentali all’accesso effettivo ai diritti principali (dalle infrastrutture idriche, energetiche, stradali, ferroviarie, di co‐ municazione, ecc., sino alla tutela socia‐ le delle persone singole). Questo pro‐ gressivo ingresso dello Stato nella vita della popolazione ha avuto un’espansio‐

ne esponenziale nel secondo dopoguer‐ ra, dando luogo a un vero e proprio salto nel livello di un benessere diffuso, del quale ancora oggi è difficile prendere piena coscienza, avendo assorbito que‐ sto fenomeno, oggettivamente straordi‐ nario, quasi come la “normalità” di un fatto acquisito. Così non è stato e così non è, come stiamo vivendo in questo ventunesimo secolo del “declino”. o Stato sociale, all’apice della propria crescita, ha improvvisamente incon‐ trato due ordini di limiti, o meglio di “contro effetti” negativi, che ora lo stan‐ no progressivamente ma inesorabil‐ mente cancellando. Il primo limite è stato quello propriamente economico. Uno Stato sociale così esteso e diffuso, sia per universalità dei beneficiari che per ambiti di intervento, ha avuto sem‐ pre più bisogno di risorse che potevano provenire da un crescente prelievo fi‐ scale che, a sua volta, presupponeva una costante crescita dell’economia nazio‐ nale. E’ il tema, in termini molto sempli‐ ci, dell’indebitamento pubblico che: in‐ tanto si può sostenere, in quanto man‐ tiene una percentuale di prelievo (viene chiamato “deficit” o “peso”) compatibile con l’economia reale. Un rallentamento e ancor più una caduta dell’economia reale non solo non consente più il pre‐ lievo fiscale necessario per sostenere quella spesa pubblica, ma, di converso, quest’ultima sottrae risorse all’econo‐ mia reale con la conseguenza di ulte‐ riormente comprometterne non solo lo sviluppo, ma la stessa tenuta. Il così det‐ to rapporto “defit/Pil” altro non signifi‐ ca che questo: la sostenibilità da parte dell’economia reale, cioè della effettiva capacità produttiva del Paese, di un be‐ nessere sociale potenzialmente non più adeguato alla realtà economica nazio‐ nale. Il secondo limite, strumentalmen‐ te caricato, da parte dei “nemici” dello Stato sociale, di valenze “morali”, anzi “immorali”, è stato sicuramente quello di un abuso, se non generale, certamen‐ te esteso per una parte significativa della popolazione, delle garanzie sociali, in‐

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terpretate e vissute come privilegi. A detta dei detrattori dello Stato sociale questa perversa coniugazione tra inva‐ sività dell’intervento pubblico e passivi‐ tà “pretenziosa” dei beneficiati, si sareb‐ be risolta in una compressione delle li‐ bertà individuali e, dunque, in una spo‐ liazione sostanziale dei diritti di parte‐ cipazione democratica, degradata al pu‐ ro esercizio del diritto di delega. Da qui nasce la risposta apparentemente “tec‐ nica”, ma sostanzialmente “politica”, della “sussidiarietà”. osa si intende in concreto e in politi‐ ca con il concetto di sussidiarietà: lo Stato (ricomprendendo in questa defini‐ zione l’intera Pubblica Amministrazio‐ ne) deve recedere, fare un passo indietro, ridurre la propria azione e presenza nella erogazione dei servizi “vastamente” so‐ ciali (dalla istruzione, alla sanità, alla cul‐ tura, sino, ma in verità soprattutto, ai servizi pubblici di natura economica) e lasciare spazio all’iniziativa privata, limi‐ tandosi a dare “direttive” e mantenere solo quei servizi troppo onerosi e scarsa‐ mente appetibili all’iniziativa privata. Sussidiarietà NON è dunque l’espansio‐ ne delle libertà di partecipazione demo‐ cratica dei cittadini dall’invasività dello Stato, ma la “strategia” immorale ed eco‐ nomicistica (capitalista) per ridurre (si‐ no a cancellare?) la universalità concreta dei diritti sociali conquistata nella secon‐ da metà del secolo scorso, garantendo a una parte di popolazione, sempre più ri‐ stretta, il pieno godimento di tutte i di‐ ritti e i privilegi della ricchezza e facendo regredire l’altra parte, di gran lunga maggiore e in crescita costante, a livelli di sola emergenza e sostanziale “carità”. Il progetto, come detto è ignobile e im‐ morale, ma la crisi economica è un dato reale e con questa occorre confrontarsi per cercare risposte non ideologiche, co‐ me c’insegna il marxismo leninismo, ma concrete e realmente praticabili. Provia‐ mo ora a fare un ragionamento sui com‐ piti e sulle possibilità concrete della dife‐ sa di quella parte di Stato sociale affidato alla competenza delle autonomie locali.

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Sussidiarietà per Foligno

Sussidiarietà “invertita” Consulta del “Terzo Settore”

e autonomie locali (ci riferiamo ai Comuni) hanno innumerevoli fun‐ zioni amministrative proprie, come san‐ cito dalla Costituzione, altre per delega dello Stato o delle Regioni. L’importan‐ za e il ruolo degli enti locali, interpretati come primo livello del rapporto tra i cit‐ tadini e la Pubblica Amministrazione, sono riconosciuti e tutelati dai trattati europei (art. 3 del Trattato di Lisbona del 2006 entrato in vigore nel 2009), ove vengono qualificati come “cardini” del sistema di una “unione delle diversità” che caratterizza l’impostazione ideolo‐ gica dell’Unione Europea. In quanto tali i Comuni sono quindi destinati: non so‐ lo a sopravvivere, ma anzi ad acquisire sempre maggiore importanza nel per‐ corso di progressiva dissoluzione degli Stati nazionali. Una prescrizione fonda‐ mentale dettata dall’Unione Europea di‐ spone che gli enti locali siano dotati di adeguate risorse finanziarie per svolgere le loro funzioni. Il progetto di federali‐ smo fiscale che ha indotto la parziale modifica del Titolo V della Costituzione italiana, per quanto ambiguo e incom‐ piuto, non potrebbe comunque mai configgere con la predetta prescrizione dei Trattati dell’Unione Europea, in quanto normativa di livello superiore. Tuttavia, la crisi economica occidentale che sta “violentando” (il termine è forte ma indicativo) le stesse sovranità nazio‐ nali, imponendo drastiche misure di ri‐ duzione delle spese pubbliche (cioè del rapporto tra spesa pubblica e Pil), ha avuto e sta avendo, oramai mese dopo mese, una ricaduta pesantissima sulle finanze degli enti locali, al rischio più che concreto di metterne in discussione la reale capacità di fare fronte alle pro‐ prie competenze. Vincoli di bilancio, eufemisticamente chiamati “Patto di Stabilità”, forte e continua riduzione di trasferimenti dalla finanza statale, con‐ temporaneo incoerente aumento di competenze destinate a sgravare lo Sta‐ to centrale e finta autonomia impositiva in gran parte destinata sempre alle casse dello Stato centrale, stanno ponendo gli enti locali nella impossibilità di conti‐ nuare a erogare i servizi sino ad oggi as‐ sicurati ai propri cittadini. i fronte alla gravità della riduzione delle disponibilità finanziarie, per gli enti locali si impone indubbiamente

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per prima emergenza quella della razio‐ nalizzazione delle spese, eliminando e correggendo sprechi e disfunzioni. Ma ciò non sembra bastare e, dunque, si im‐ pone l’ulteriore necessità di selezionare i servizi erogabili in ordine di importan‐ za e priorità, per abbandonarne o co‐ munque fortemente ridurne molti che sembravano fino a ieri patrimonio ac‐ quisito alla qualità della vita nelle nostre migliori città. Se si considera poi che “fuori”, nella città/mondo reale, la crisi economica continua a mietere posti e occasioni di lavoro, la coniugazione dell’impoverimento della popolazione con la riduzione dei servizi pubblici e so‐ ciali assume conseguenze devastanti, a rischio non solo della qualità, ma della stessa dignità della vita. Si pone a questo punto per gli enti locali il problema, o meglio ancora l’ “imperativo” di reprire “altrove” quelle risorse, non necessaria‐ mente esclusivamente finanziarie (tra‐ scuriamo le frottole, già censurate da questo stesso giornale, sulle finte spon‐ sorizzazioni), necessarie a supplire alle dette carenze. Lo strumento messo a di‐ sposizione dalla normativa vigente è quello, anticipato nella pagina prece‐ dente, del ricorso alla sussidiarietà priva‐ ta, al concorso cioè di risorse ed energie private. Una soluzione indubbiamente ingiusta a e immorale, ma un passaggio forse inevitabile per fronteggiare il decli‐ no dello Stato sociale, chiamando in campo, in questa drammatica situazio‐ ne emergenziale, tutte le risorse possibili e disponibili. “Chiamare in campo”, pre‐ cisamente, e non “cedere il campo”. Il punto è dunque: quale sussidiarietà e in quale rapporto con la Pubblica Ammini‐ strazione. scludiamo senza esitazioe l’ambito dei servizi pubblici di rilevanza eco‐ nomica (acqua, gas, igiene, trasporti, ecc.) come dovrebbe averci chiaramente insegnato il disastro delle privatizzazio‐ ni che ha dimostrato come il “privato”, non solo non ha capacità imprenditoria‐ li migliori di quelle pubbliche, ma anzi esiste solo un quanto sfrutta e saccheg‐ gia il patrimonio comune. Può essere, invece, valutato l’ambito dei servizi non economici definito “terzo settore”, nei quali “certa” (non tutta ovviamente) presenza di iniziativa privata potrebbe essere meritevole di considerazione.

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L’ambito dei servizi sociali, intesi nel senso più vasto, è estremamente impor‐ tante e significativo proprio perché più vicino alle esigenze vitali della popola‐ zione e in grado quindi di dare risposte adeguate, anche supplendo ai limiti, non solo economici ma anche strutturali e operativi, di un apparato pubblico co‐ munque limitato. Si tratta allora di pro‐ gettare una sinergia organica tra l’ente locale che resta, per legge e per dovere morale, l’unico titolare delle competen‐ ze, e le organizzazioni del “terzo setto‐ re”, affinché ciascuna apporti il proprio contributo, ma dentro un quadro pro‐ grammatorio organico e disciplinato dell’ente locale. In sostanza non si tratta di lasciare spazio alla libertà di iniziativa privata in ambiti che dovrebbe essere di‐ ritto e obbligo esclusivo della Pubblica Amministrazione, ma di convogliare or‐ ganicamente le esistenti risorse private nelle esigenze, selezionate e dirette, dal‐ la Amministrazione. In questo senso po‐ tremmo allora parare di “sussidiarietà invertita”, laddove non è il “pubblico” a recedere, ma il “privato” a essere chia‐ mato a collaborare. roviamo a lanciare con questo arti‐ colo la proposta di una “consulta” delle associazioni del “terzo settore” che si ponga l’obiettivo, previa la verifica del‐ le risorse e competenze presenti, di co‐ struire un progetto organico di interven‐ to coordinato con le competenze pro‐ priamente pubbliche. L’importanza di un collegamento e coordinamento orga‐ nico tra la spontaneità del “terzo settore” e la disciplina programmatoria della Pubblica Amministrazione è di assoluta evidenza. Esponiamo una prima idea pubblicando di seguito un inserto tra‐ smessoci da una associazione che opera nel settore alimentare e biologico. Invi‐ tiamo ogni altra associazione a fare al‐ trettanto, la rivista è a disposizione.

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Quando l’iniziativa privata volontaria può aiutare le insuffi‐ cienze del Pubblico e il Pubblico valorizzare l’impegno dei propri cittadini

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ella Cooperativa Ariel Impresa Sociale questa rivista si era già occupata nel numero di ottobre 2010, pubbli‐ cando un articolo a firma di Andrea Tofi intitolato: “Proget‐ to ‘prendersi cura’: come oltrepassare le barriere dell’assi‐ stenzialismo”. In quell’articolo veniva sottolineata l’impor‐ tanza della coniugazione delle valide iniziative private nel‐ l’ambito sociale con le competenze dell’Amministrazione Pubblica locale, laddove talune funzioni assistenziali, inde‐ rogabilmente in capo legale e morale di quest’ultima, pote‐ vano tuttavia trovare una valida integrazione, sia quantita‐ tiva che qualitativa, nell’apertura alla collaborazione con il mondo del volontariato e dell’iniziativa imprenditoriale pri‐ vata non a scopo di lucro. In particolare veniva commentata l’esperienza dell’affidamento da parte del Comune di Foli‐ gno alla Cooperativa Ariel della manutenzione del Parco dei Canapè, ove l’applicazione guidata e qualificata delle “diver‐ se abilità” dei partecipanti alla Cooperativa aveva prodotto risultati di notevole qualità, sia per gli assistiti che per l’in‐ tera collettività. Quell’esperienza si era poi malamente in‐

terrotta senza una valida giustificazione e di ciò ne hanno risentito non solo gli addetti ma anche, a sentimento diffu‐ so, gli stessi cittadini fruitori del parco pubblico. Ciò non ha impedito alla Cooperativa Ariel di proseguire e anzi di avan‐ zare nel proprio progetto d’impresa sociale ricercando e percorrendo altre strade. Nelle pagine seguenti pubblichia‐ mo un aggiornamento del progetto sociale perseguito dalla Cooperativa che è andata oltre lo stesso nostro territorio co‐ munale per stabilire collegamenti sinergici, sia culturali che imprenditoriali sociali, con altre realtà analoghe nel nostro Paese. L’iniziativa della promozione della vendita delle arance di Rosarno, condivisa con una altra importante realtà associativa della nostra città, la Casa dei Popoli, ulte‐ riormente testimonia come e quanto una organizzazione organica tra il vasto mondo dell’associazionismo e la condi‐ visione con le competenze della Pubblica Amministrazione potrebbe aiutare, in questo straordinario momento di crisi, non solo economica, ma anche morale, culturale e sociale, a resistere, contrastare e progettare un futuro migliore.


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“Partecipare alla costruzione comune, riprendersi ciò che spetta di diritto” Il progetto dell’Impresa Sociale Ariel DI

FABRIZIO DIONIGI

La cooperativa sociale Ariel è nata 18 anni fa a Foligno, e la nostra attività prevalente è stata in questi anni la ma‐ nutenzione del verde, gli impianti d'ir‐ rigazione, la progettazione e la co‐ struzione giardini, l'attività vivaistica, l'orticoltura biologica e ora la gestione del Palasport di Foligno. Tutte le atti‐ vità che la cooperativa ha promosso in questi anni sono state finalizzate al‐ l'integrazione tra i lavoratori di perso‐ ne appartenenti alle “categorie svan‐ taggiate” che ora per noi rappresenta‐ no circa il 50% della forza lavoro. Quando abbiamo iniziato, ormai tan‐ to tempo fa, ci eravamo posti un co‐ raggioso obiettivo e cioè dimostrare che era possibile fare impresa, impre‐ sa di qualità, anche coinvolgendo al‐ l’interno, tra i lavoratori, persone ap‐ partenenti alle varie categorie “svan‐ taggiate” (fisicamente, psichicamente, socialmente, ecc.). A distanza di tem‐ po possiamo dire di esserci riusciti, e di essere diventati una realtà abba‐ stanza solida. Ci siamo confrontati con il mercato, ci siamo confrontati con i privati, con le altre imprese, con il pubblico; insomma, nei nostri setto‐ ri lavorativi più forti come la manu‐ tenzione del verde e l'orticoltura bio‐ logica, siamo leader del mercato loca‐ le e non solo: ormai lavoriamo stabil‐ mente anche nel perugino. Con orgo‐ glio possiamo dire di aver realizzato quello che all'inizio sembrava solo un sogno: siamo un'impresa “sociale”, co‐ me ci piace definirla, con all’interno tante persone svantaggiate. Ci siamo chiesti quali potevano essere i nostri punti di forza, e analizzando insieme i motivi abbiamo capito che con il sog‐ getto svantaggiato noi abbiamo un ap‐ proccio diverso, noi la persona la ac‐ cogliamo e la guardiamo non solo dal punto di vista della sua condizione, ma la guardiamo per le sue risorse e le sue possibili capacità. Ecco, questo ap‐ proccio così semplice, perché in realtà

non c’è niente di difficile in tutto ciò, è invece in qualche modo innovativo perché chi è in una qualsiasi condizio‐ ne di svantaggio è ormai abituato a confrontarsi con tutto un mondo esclusivamente assistenziale, con chi si occupa dei suoi problemi, della sua malattia, del suo disagio o della sua condizione, e quindi, quando final‐ mente entra in un contesto così diver‐ so, tira un sospiro di sollievo ed è ben felice di dimostrare quali siano le sue capacità. Sta a noi, poi, metterlo in condizione di esprimere tali capacità, non solo sotto l'aspetto lavorativo, ma anche relazionale. Da questo momen‐ to in poi, per noi non esiste più la per‐

sona svantaggiata ma una persona di‐ versamente abile che sarà accettata e rispettata dagli altri. Poter partecipare alla costruzione comune, riprendersi ciò che gli spetta di diritto, è, per qual‐ siasi persona “esiliata” dalla società, una liberazione. Ecco il segreto del perché noi riusciamo a fare impresa con le persone svantaggiate, anche se una cultura del welfare orientata quasi esclusivamente all'assistenza, rende questo sogno un po' più difficile. L'orto Bio Logico e il vivaio di Sterpete sono un grande esempio di integrazione so‐ ciale e lavorativa, ed è sempre più spesso preso come esempio di buona pratica, nell'economia futuribile.


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“Le arance di Rosarno” Casa dei Popoli e Ariel uniscono le loro compe‐ tenze a sostegno della campagna “s.o.s Rosarno” A CURA DELL’ASSOCIAZIONE CASA DI POPOLI

Quest’anno, dopo aver già parlato di colonialismo, di minori e della tratta delle donne, la quarta edizione dell’in‐ contro sulle "Schiavitù Finite?", even‐ to ideato e realizzato dalla Casa dei Popoli, è stata dedicata al LAVORO: purtroppo ci sono ancora sfruttamen‐ to e schiavismo, là dove ci sono lavora‐ tori invisibili, dove la loro dignità, di persone e di lavoratori, viene sistema‐ ticamente violata, il loro diritto ad es‐ sere parte attiva della società senza es‐ sere calpestati. Non si parla mai abba‐ stanza di sfruttamento e schiavitù: le nostre coscienze tendono piuttosto a rimuovere un problema del genere, a disconoscerlo, a minimizzarlo: si trat‐ ta invece del più grande crimine con‐ tro l’umanità, e oggi tale crimine con‐ tinua a perpetrarsi, pur essendo decli‐ nato in modo più diversificato. La Ca‐ sa Dei Popoli, tra la Memoria della Tratta dei Negri e le Schiavitù odierne, intende invitare la cittadinanza a ri‐ flettere e ad agire di conseguenza, cia‐ scuno secondo le proprie possibilità. L'Africa questo continente da sempre depredato, sfruttato, dai negrieri e poi dai coloni, Oggi cosa ha imparato a più di cinquant'anni delle prime indi‐ pendenze? E cosa abbiamo imparato noi? L’assistenzialismo è un’altra delle tante forme di schiavitù che affliggono il mondo del lavoro. La Casa dei Popo‐ li, in occasione della Giornata in Me‐ moria dell’abolizione della schiavitù, celebrata quest’anno il 28 settembre,

ha organizzato un incontro con due esponenti di Africalabria‐sos Rosarno, associazione di italiani e migranti ope‐ rante a Rosarno, tra i lavoratori agrico‐ li che arrivano in Calabria dall’Africa e dall’Europa dell’est, alla ricerca di un rifugio dopo l’espulsione dal lavoro produttivo, e trovano nel lavoro nero l’unica possibilità di sopravvivenza. Abbiamo proposto un intervento con‐ creto contro le schiavitù moderne, e cioè l’adesione alla campagna s.o.s. Rosarno per la commercializzazione degli agrumi, coltivati e raccolti secon‐ do pratiche alternative al supersfrutta‐ mento di persone e terra. Abbiamo pensato a un grande acquisto cittadino di ARANCE E CLEMENTINE, per il quale l’ORTO BIO LOGICO ARIEL (www.arielcoop.it) si è proposto come coordinatore. Con questa iniziativa vo‐ gliamo sostenere chi ha avuto il coraggio di emanciparsi da condizioni lavorati‐ ve al limite della schiavitù: il nostro acquisto sarà una forma di solidarietà, e anche un modo di ottenere un prodot‐ to di qualità, biolo‐ gico, ad un prezzo sostenibile, saltando i passaggi della grande distribuzio‐ ne. In accordo con l’orto Ariel, in colla‐ borazione con Emergency Foligno, proponiamo a tutti i nostri iscritti di mo‐ bilitarsi per creare un grande “gruppo d’acquisto solidale”, per cominciare la distribuzione, an‐ che a Foligno, delle arance di Rosarno. Invitiamo tutti a partecipare e a col‐

laborare nella raccolta degli ordini. Arance e clementine devono essere or‐ dinate e pagate entro il 4 dicembre presso associazione Casa dei Popoli (casadeipopli@mac.com ‐ 3336317056 ‐ casadeipopoli@me.com); Orto Bio Logico Ariel (orto@arielcoop.it ‐ Ma‐ nuel 3351297879); Emergency Foligno (emergencyfoligno@libero.it); attra‐ verso bonifico bancario IBAN IT71UO6315217703100000000484; op‐ pure in contanti presso le nostre sedi. Il 14 dicembre ci sarà la distribuzione delle arance presso Orto Ariel, punto vendita bio logica di Sterpete (mappa) e per l’occasione Orto Ariel organizze‐ rà una giornata di degustazione delle arance, vin brulé, bruschette e olio nuovo… come rinunciare a tutto ciò?


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Schiavitù

Schiavi oggi come allora Ognuno di noi sa, o crede di sapere, cosa si intende per schiavitù e quanto terribile possa essere soltanto pensare di applicare tutte le sfaccettature di questo termine a un minore, a una donna, a un lavoratore (ma potremmo estendere la categoria agli schiavi del‐ la droga, o ai carcerati), a un migrante troppo spesso considerato semplice‐ mente “straniero”. Il primo punto che è subito uscito chiaramente dai dibat‐ titi scatenati dalle diverse edizioni di “Schiavitù fini‐ te?” è stato il profondo, e ap‐ parentemente irrimediabi‐ le, “straniamento” che afflig‐ ge una società che ingloba tutti gli schiavi, consapevoli o inconsapevoli, di ogni tempo. Il loro viso “stranie‐ ro”, la loro storia a noi così poco usuale, fa sì che molte coscienze non riescano a ri‐ conoscerli come vittime di un sistema a volte illegale e a volte semplicemente inu‐ mano e che, di conseguenza, le reazioni in proposito pos‐ sano essere più flebili, più “paternalistiche”; il rischio è insomma che tali individui vengano fatti passare con troppa naturalezza da uno stato di estremo bisogno a quello di perenne di assi‐ stenza. Il rischio è che una volta entrati in questo mec‐ canismo i soggetti svantag‐ giati non riescano più ad avere i mezzi per affrancarsi e avviare una nuova esisten‐ za. Scrive H. Lévy‐Bruhl, di‐ stinguendo tra “società ba‐ sate sulla comunità” e società che in‐ vece conoscono “l’idea di umanità”, a proposito dell’origine della schiavitù nell’Antica Roma: “Oggi, nelle società del nostro tipo di civiltà, si può dire che esiste una comunanza morale tra tutti gli uomini: un uomo ha certi di‐ ritti, vede riconosciuta la sua persona‐ lità, per il solo fatto di appartenere alla specie umana. Ma questa concezione è relativamente recente, e numerose sono ancora le società in cui essa non è ancora penetrata; laddove essa non

esiste, lo straniero è necessariamente senza diritto, è una cosa” (da Lo schia‐ vo non ha diritto, in Schiavitù e società nel mondo antico, Gli uomini e le loro istituzioni. Antologie storiche mono‐ grafiche n. 18, cur. M. Trigari, consu‐ lenza scientifica P. Desideri, p. 83, Casa Editrice G. D’Anna, Messina‐Firenze, 1972). La salvezza o la disfatta, così co‐ me era già accaduto per la compraven‐ dita di schiavi nei mercati del passato,

dipende dalla disponibilità di “mone‐ ta”: è il denaro cioè che lega allo stesso piano prospettico vittime e carnefici. Ogni forma di schiavitù è figlia legitti‐ ma di un’economia di mercato divenu‐ ta monetaria in cui tutto ha un costo e offre un potenziale guadagno, e del grado più estremo di sfruttamento del lavoro, e della guerra, ovviamente; schiavitù inflitte per obbligo sociale e per sfortunata nascita dunque, figlie della paura della morte, del desiderio squisitamente umano di lasciare una

traccia indelebile su questo nostro mondo, della pulsione, dilettosa ma incontrollabile, a snaturare ciò che in‐ contriamo lungo il cammino: l’acqua, le pietre, gli esseri viventi animali o ve‐ getali, infine, l’umanità stessa. Per ren‐ dere possibile un fenomeno assurdo e complesso come quello della schiavitù servono molto più che delle motiva‐ zioni pratiche, servono delle giustifica‐ zioni altrettanto assurde e forti da sembrare, a occhi interes‐ sati, “plausibili”. Ma se fossimo così radicalmente lontani gli uni dagli altri, non proveremmo alcun sollievo dalla subalternità altrui e l’altrui schiavitù non ci farebbe sentire mi‐ gliori. Proprio per la sua sciagurata diffusione lun‐ go la storia, la schiavitù, a differenza dell’”uomo ne‐ ro” delle nostre fantasie, non ha un colore decisivo, basti ricordare (lo fa Si‐ mone Weil nel breve sag‐ gio Sul colonialismo. Ver‐ so un incontro tra Occi‐ dente e Oriente, cur. D. Canciani, Medusa, Mila‐ no, 2003) le pretese di Hi‐ tler sull’Europa centrale, quindi su popoli di razza bianca, vale a dire quelle di cancellare intere cultu‐ re per impiantarne una sola. Lo schiavo, dunque, deve essere necessaria‐ mente “straniero”, o deve essere reso tale attraverso un violento sradicamento dal proprio tessuto socia‐ le. E noi che paghiamo il prezzo neces‐ sario per mantenere il nostro status di “cittadino”, di membro effettivo della nostra comunità, noi che non voglia‐ mo sapere di che colore saranno i no‐ stri figli (probabilmente verdi come il denaro nei fumetti), non ci rendiamo nemmeno conto di quanto la nostra paura, la nostra impotenza, ci incateni e ci condizioni; noi moriremo senza neanche la consolazione di conoscere le fattezze della schiavitù dalla quale avremmo dovuto affrancarci.


Costituzione

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Una Costituzione da riformare?

Modificare la nostra Carta Costituzionale è un progetto che si sono poste diverse maggioranze di governo, che da tempo han‐ no completamente esautorato le funzioni del Parlamento, svi‐ lito a mera cassa di risonanza del potere esecutivo. Riformare è una parola d’ordine pronunciata molte volte come giustifica‐ zione di fronte a manifeste incapacità di attuarne i precetti. E’ vero che la nostra Costituzione è stata calata dall’alto in un Pae‐ se all’epoca ancora fortemente culturalmente arrettrato, disa‐ bituato, dopo venti anni di condiviso autoritarismo fascista, al‐ l’idea stessa della partecipazione democratica. Tale e tanta era la distanza tra il livello culturale, ma anche morale, dei costi‐ tuenti e la grande maggioranza della popolazione italiana che, ancora oggi, la conoscenza di quel documento è assai limitata in vasti strati della popolazione, includendo tra questi un gran‐ de numero dei rappresentanti eletti in un Parlamento del quale spesso non conoscono neppure funzioni e poteri. Proprio in questi giorni, difronte alla incapacità della politica di affrontare i problemi strutturali della crisi del sistema economico nazio‐ nale, il governo sta ponendo mano ad un ennesimo progetto di stravolgimento della Carta Costituzionale, avendo ben cura di deliberare con maggioranze tali da escludere il rischio di una

verifica popolare risultata finora sempre negativa. La nostra Costituzione, nella sostanza così poco attuata, ha davvero bi‐ sogno di essere riformata? E’ queste presunte riforme sono dav‐ vero utili a risolvere i problemi della crisi epocale del sistema capitalistico occidentale, o sono solo dei diversivi, o peggio an‐ cora vogliono costituire la sanzione del fallimento dell’idea stessa della creazione in Italia di uno Stato, almeno potenzial‐ mente, democratico, sociale e solidale? Vogliamo porci l’ambi‐ zione di aprire un dibattito sul tema, sollecitando le opinioni dei nostri lettori. Poiché però, come ci ha insegnato Gramsci, occorre prima conoscere per capire e per potere infine giudica‐ re, abbiamo pensato di fare un passo indietro, di cominciare an‐ zitutto dal conscere la nostra Carta Costituzionale. Abbiamo così chiesto a un eminente studioso della materia, il prof. Al‐ berto Donati, già docente all’Università di Perugia e autore di numerose pubblicazioni in materia, di introdurci al tema con un primo intervento decisamente “provocatorio”. Nel mentre attendiamo gli altri interventi promessi dal prof. Donati in chiusura di questo suo primo, sollecitiamo tutti coloro che in‐ tendo partecipare al dibattito ad inviarci le loro opinioni che pubblicheremo senza limiti e riserve di alcun genere. S.R.


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Costituzione

L’Italia non è uno Stato democratico

(Parte prima)

DI ALBERTO DONATI

1.‐ L’assenza della sovranità popo‐ lare Il popolo italiano non ha cultura costi‐ tuzionale, non conosce i reali contenu‐ ti della Carta costituzionale in vigore, della sua prima parte in cui sono depo‐ sitati i valori etici e politici ordinanti la società. Esso, nel corso della sua storia, ha avuto due Costituzioni, quella al‐ bertina del 1848 e quella attualmente in vigore, entrambe octroyées, vale a dire, concesse, entrambe, dunque, non provenienti, direttamente, dalla sua volontà. In questo articolo, e nei successivi, pur nella loro brevità, mi propongo lo sco‐ po di iniziare gli eventuali lettori alla sua comprensione al fine di offrire la chiave di lettura di una crisi che rischia di sprofondare il nostro Paese in un dissesto ingovernabile. Quella mancata conoscenza, di per sé sola, già sarebbe più che sufficiente a denotare il carattere antidemocratico di tale Carta. Tuttavia, la domanda è la seguente: quali sono questi valori alla cui realizzazione è deputato, in termini vincolanti, il Parlamento? Es‐ si sono, fondamentalmente, quattro: l’assenza di democraticità (artt. 1, 2, primo inciso, 49 e 67); l’incremento della povertà (artt. 2, secondo inciso, e 119, 3° comma); il pluralismo centri‐ fugo (art. 5); la confessionalità dello Stato (art. 7). Dedichiamoci al primo di essi. L’art. 1 esordisce dichiarando che “La sovra‐ nità politica appartiene al popolo” mentre il suo esercizio avviene “nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Ciò sta a significare che la sovranità non è esercitata dal popolo secondo le modalità che esso stesso si dà, ma se‐ condo norme costituzionali che trag‐ gono origine dall’operato di una As‐ semblea Costituente il cui operato non è stato mai approvato dal popolo italiano. L’Assemblea, infatti, si rifiutò di acco‐ gliere la richiesta di sottoporre il testo costituzionale alla approvazione dei cittadini presentata dall’On.le Lucife‐ ro (Blocco Nazionale della Libertà) e

da altri. La motivazione di questa grave deci‐ sione risiede nel fatto che esso con‐ traddice le indicazioni date dagli elet‐ tori alla Assemblea. Lo spirito del refe‐ rendum del 2 giugno 1946 è sintetizza‐ bile “in quattro principî generali: gli elettori repubblicani [...] volevano uno Stato unitario, volevano uno Stato de‐ mocratico, volevano uno Stato laico e volevano uno Stato sociale” (On.le Nenni). Nessuna di queste precise in‐ dicazioni è stata accolta. La sovranità, dunque, appartiene al popolo, ma il suo esercizio ha luogo secondo la ben diversa volontà dello Stato. Ciò risulta, inequivocabilmente, dall’art. 67 alla cui stregua: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni sen‐ za vincolo di mandato”. È, questa, la formula che consente con sicurezza di collocare la sovranità po‐ litica nello Stato, invece che nella base elettorale. Come osservato da uno dei massimi giuristi del secolo XX (H. Kel‐ sen), “La formula che il membro del parlamento non è il rappresentante dei suoi elettori ma di tutto il popolo, o, co‐ me taluno scrive, di tutto lo Stato, e che perciò non è vincolato da nessuna istruzione dei suoi elettori e non può venire revocato [...] è incompatibile con la rappresentanza giuridica”. La presenza di questa norma concorre significativamente a spiegare la frattu‐ ra tra l’elettorato e il Parlamento, la conseguente delegittimazione demo‐ cratica di quest’ultimo vistosamente in corso; concorre altrettanto significati‐ vamente a far comprendere come sia possibile che si parli continuamente di governi di centro destra o di centro si‐ nistra quando è pacifica la cancellazio‐ ne dall’arco parlamentare del partito di centro, vale a dire, della Democrazia Cristiana. La politica, dunque, conti‐ nua ad essere democristiana in aperto contrasto con le indicazioni elettorali. Ristabilire la corrispondenza tra l’elet‐ torato e il Parlamento è, dunque, il pri‐ mo degli imperativi categorici di natu‐ ra politica, ciò che richiede la modifi‐ cazione del testo costituzionale (nel ri‐ spetto della procedura di cui all’art. 138).

2.‐ La programmaticità Altro momento significativo della valen‐ za antidemocratica della vigente Costi‐ tuzione è costituito dal suo carattere programmatico. Essa, infatti, come ebbero ad esprimersi i costituenti che si opposero alla sua ap‐ provazione, si configura come "Costitu‐ zione ponte", come "Costituzione inter‐ locutoria", come "cambiale in bianco", come "l'Incompiuta", come "Costituzio‐ ne interventista", pertanto, appunto, co‐ me Costituzione programmatica, come Carta che disegna una società a venire compiutamente regolata dalla solidarie‐ tà, sui cui reali contenuti mi soffermerò in un successivo articolo. Le Carte costituzionali delineano l'archi‐ tettura effettivamente vigente delle rela‐ zioni sociali garantendone, così, la per‐ manenza nel tempo. La Costituzione italiana, invece, non riflette i valori di una rivoluzione politica e culturale che abbia effettivamente modificato i rap‐ porti umani, ma è espressione di una ri‐ voluzione operata, a tavolino, dalla mag‐ gioranza dell’Assemblea Costituente, la cui realizzazione progressiva è, pertanto, demandata alla legislazione ordinaria. In questa prospettiva, l’On.le La Pira po‐ teva osservare che gli articoli della Costi‐ tuzione "sono sempre partiti dalla pre‐ messa che essi debbano concorrere a far cambiare la struttura economico‐sociale del Paese", e l'On.le Ghidini (Gruppo So‐ cialista dei lavoratori italiani) poteva ag‐ giungere che "l'ordine nuovo [...] si at‐ tuerà battendo la strada ampia, diritta e solatia del diritto e della Legge [...] la libera e sovrana volontà popolare, pro‐ tesa verso l'ideale altissimo della giusti‐ zia sociale, foggerà il nuovo destino della nostra Italia repubblicana". La reale valenza di queste affermazioni programmatiche ciascuno può giudicare in base alla situazione attuale: aumento della miseria e della disoccupazione, sal‐ vaguardia delle oligarchie dominanti. Mentre, quindi, le Costituzioni sono successive alla rivoluzione politica e ri‐ specchiano i nuovi rapporti sociali cui quest'ultima ha dato luogo, la Costitu‐ zione italiana inverte questo rapporto, ideando, a tavolino, la rivoluzione e de‐ mandandone l'attuazione al corpo so‐ ciale, alle generazioni a venire (1598).


Costituzione Lelio Basso

Ciò contrasta profondamente con l'etica democratica che, se, da un lato, ricono‐ sce ai cittadini il diritto di modificare la Carta costituzionale, dall'altro, conside‐ ra immorale che le generazioni presenti statuiscano per quelle future in quanto, così facendo, le priverebbero del diritto alla loro libertà: "Un popolo ha sempre il diritto di rivedere, di riformare e di cam‐ biare la propria Costituzione. Una gene‐ razione non ha il diritto di assoggettare alle proprie leggi le generazioni future" (Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, 29 maggio 1793, art. 30). Il popolo italiano, pertanto, è costretto a condurre avanti, a realizzare, un pro‐ gramma politico che non conosce, che non ha votato, un programma che è espressione di un arco partitico, quello presente nell’Assemblea Costituente, non più esistente, delegittimato dal‐ l’elettorato attuale ed espressione di una Italia profondamente diversa da quella di oggi. Ristabilire la corrispondenza tra la vo‐ lontà dei cittadini e le finalità politiche attuate dal Parlamento è il secondo degli imperativi categorici, ciò che richiede la modifica del testo costituzionale (nel ri‐ spetto della procedura di cui all’art. 138). 3.‐ La partitocrazia. Un ulteriore momento significativo del carattere antidemocratico della vigente Costituzione è costituito dalla assunzio‐ ne della partitocrazia come metodo di governo, donde la conseguente delegit‐ timazione del Parlamento, della sua ri‐ duzione ad organo delle direttive parti‐ tiche, donde la prassi delle raccomanda‐

zioni. L’art. 49 dispone che “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Questa norma demanda ai partiti il compito, di rango costituzionale, di “de‐ terminare la politica nazionale”, talché, l’organo parlamentare si configura, di necessità, come sede ricettiva delle di‐ rettive partitiche: “tutto, è vero, passa traverso l’Assemblea, ma in realtà tutto è determinato dall’azione dei capi dei gran‐ di partiti” (On.le Nitti, Gruppo del‐ l’Unione Democratica Nazionale); “l’er‐ rore di fondo è questo: che oggi scom‐ pare il deputato, perché è sostituito dal gruppo [dal partito]; cioè c’è l’equivoco del gruppismo” (On.le Lucifero, Blocco Nazionale della Libertà); “Purtroppo qui [nell’Assemblea costituente] si consoli‐ da la partitocrazia che in varie circo‐ stanze io ho dovuto denunciare all’As‐ semblea [...] i partiti non debbono im‐ porre ai loro seguaci quella clericale di‐ sciplina che tolga ad essi la propria li‐ bertà” (On.le Labriola, Gruppo del‐ l’Unione Democratica Nazionale). Né il primato dei partiti sull’organo par‐ lamentare è contraddetto dall’art. 67 Cost. che libera i membri del Parlamen‐ to da qualsiasi vincolo di mandato nei confronti degli elettori, ma, si potrebbe ritenere, anche dal mandato ricevuto dal Partito. Una tale indipendenza importa, infatti, l’uscita del parlamentare dall’àm‐ bito partitico, con la conseguente uscita dal ciclo elettorale. Si tratta, dunque, di un diritto il cui esercizio è sanzionato e,

21 pertanto, di un non diritto: “Ha ancora una funzione il Parlamento? [...] la vita politica vera sfugge al Parlamento e si concentra nei partiti” (On.le Cevolotto, Gruppo Democratico del Lavoro). La scelta partitocratica operata dall’art. 49 della Carta costituzionale delegitti‐ ma, dunque, l’organo parlamentare, con la conseguenza di trasferire il potere po‐ litico nei partiti, e per questa via, nei lea‐ ders di quest’ultimi. Si afferma, così, il primato sul Parlamen‐ to del partito politico, in quanto que‐ st’ultimo, è l’organo “per filtrare e tradur‐ re” la volontà popolare, in volontà poli‐ tica (On.le Saragat, Gruppo Socialista dei Lavoratori Italiani), in quanto, quin‐ di, esso costituisce il momento di aggre‐ gazione e di espressione della volontà degli aderenti, per questa via, fittizia‐ mente, della base della società: “Noi sen‐ tiamo spesso criticare quello che oggi si chiama il Governo dei partiti, che qual‐ cuno chiama la dittatura dei partiti. Si dice che esso ha ucciso il Parlamento. Ed indubbiamente la vita dei partiti ha ucciso certi aspetti della vita parlamen‐ tare, ma noi crediamo che ciò sia stato un progresso [...] Non c’è dubbio che [...] l’esistenza dei grandi partiti rap‐ presenta un notevole progresso della democrazia, perché dà un maggior sen‐ so di responsabilità e quindi una mag‐ giore stabilità alla vita politica e tra‐ sforma conseguentemente l’istituto parlamentare”; “oggi non accade più che il cittadino, chiamato alle urne [...] compie la manifestazione della sua vo‐ lontà politica ogni quattro o cinque an‐ ni [...] e poi sia costretto a rimettersi a quel che faranno i suoi mandatari. Og‐ gi il cittadino [...] che vuole veramente partecipare all’esercizio della sovranità popolare, lo può fare ogni giorno, per‐ ché attraverso la vita del suo Partito [...] egli è in grado di controllare giorno per giorno, d’influire giorno per giorno sull’orientamento politico del suo par‐ tito e, attraverso questo, sull’orienta‐ mento politico del Parlamento e del Go‐ verno” (On.le Basso, Gruppo Socialista). Al riguardo, vale anche quanto ebbe ad affermare l’On.le Vittorio Emanuele Or‐ lando (Gruppo dell’Unione Democratica Nazionale): “Si governa attraverso accor‐ di personali fra i capi dei partiti formanti la maggioranza. Il sistema attuale. Ed al‐ lora come lo si qualifica? È un governo di‐ rettoriale; che suppone una pluralità di capi non fusi nell’unità direttiva, che deve essere propria dell’unità dello Stato”.


22 A questa impostazione partitocratica si correla, come conseguenza, la prassi delle crisi di governo in quanto espres‐ sioni della rottura degli accordi parti‐ tici da cui le maggioranze parlamenta‐ ri hanno tratto origine; si correla, al‐ tresì, la “privatizzazione del pubblico”, vale a dire, la “partitizzazione” della pubblica amministrazione, la dilata‐ zione del pubblico impiego in quanto strumentale rispetto all’esigenza di conservare ed estendere il controllo partitico sullo Stato. Ristabilire la corrispondenza tra l’elet‐ torato e l’organo parlamentare è il ter‐ zo degli imperativi categorici, ciò che richiede la modifica del testo costitu‐ zionale (nel rispetto della procedura di cui all’art. 138). 4.‐ La negazione degli Human Rights L’ordinamento politico si atteggia in maniera profondamente diversa a se‐ conda che esso si basi sui diritti imma‐ nenti alla persona umana (Inherent Rights, Natural Rights), ovvero, sulla loro negazione mediante il ricorso, mo‐ dernamente, alla categoria dei “diritti concessi” (Grudrechte). Nel primo caso, i cittadini sono titolari della sovranità religiosa e politica, lo Stato è necessa‐ riamente democratico e posto in una relazione funzionale rispetto ai cittadi‐ ni stessi. Lo Stato, quindi, è organo di questi ultimi. Nel secondo, essi sono or‐ gani dello Stato, sono una variabile di‐ pendente dalle sue esigenze. Si tratta, pertanto, di stabilire se i “di‐ ritti inviolabili” di cui all’art. 2, siano da considerare “diritti immanenti”, ovve‐ ro, “diritti concessi”. Da un punto di vista interpretativo si può sostenere tanto l’una che l’altra te‐ si. La soluzione di questa problemati‐ ca, al di là di ogni possibile dubbio, va, invece, rinvenuta nell’operato della maggioranza della Assemblea Costi‐ tuente. Nel corso dei lavori preparatori, fu, in‐ fatti, respinta la proposta di porre i di‐ ritti innati dell’uomo (Human Rights) come limite all’attività dello Stato. La proposta fu avanzata dall’On.le Lucife‐ ro (Blocco Nazionale della Libertà). Eccone il testo: “La legge costituziona‐ le dichiara con valore normativo asso‐ luto i diritti inalienabili e imprescritti‐ bili della persona umana come presup‐ posto e limite legale permanente al‐ l’esercizio di ogni pubblico potere”.

Costituzione Così, rispose, a nome dell’Assemblea, il suo presidente On.le Ruini (Gruppo Mi‐ sto): “Non possiamo accettare senz’al‐ tro la formula, sia pure elegante, del‐ l’onorevole Lucifero”. Una proposta analoga fu presentata an‐ che dall’On.le Nobili Tito Oro (Gruppo Socialista) e respinta, anch’essa, dall’As‐ semblea Costituente. Da ciò segue, inequivocabilmente, che la “dignità della persona umana” non è la Inherent Dignity, vale a dire, la di‐ gnità propria dell’uomo in quanto por‐ tatore degli Inherent Rights (diritti immanenti, innati); da ciò segue, al‐ trettanto inequivocabilmente, che lo Stato disegnato dalla Costituzione non è lo Stato garante di tali diritti; segue, infine, che non è lo Stato ad essere in funzione del cittadino, è quest’ultimo ad essere in funzione dello Stato. Questa inversione spiega il pericoloso aumento della pressione fiscale, la desti‐ nazione, dunque, del reddito disponibile alle esigenze dello Stato. Inoltre, nella previsione dell’art. 2 Cost. la solidarietà condiziona l’esercizio dei “diritti inviolabili”. In tanto si ha la fa‐ coltà di goderne, in quanto, contestual‐ mente, si soddisfino le ragioni della soli‐ darietà. Ma il “diritto inviolabile” che sia condizionato, cessa di essere tale: “leg‐ gendo il testo dell’art. 6 [art. 2 Cost.] si ha la sensazione precisa che tutta la so‐ stanza della dichiarazione dei diritti [dell’uomo e del cittadino] sia andata radicalmente perduta [...] Qual era la sostanza delle vecchie dichiarazioni dei diritti? Era che i diritti fondamentali dell’uomo [...] venivano proclamati co‐ me diritti originari della persona uma‐ na, non conferiti dallo Stato, indipen‐

denti dal diritto dello Stato, indipen‐ denti dallo Stato come fonte di diritti. Ecco perché allora furono chiamati di‐ ritti naturali. Di tutto questo, onorevoli colleghi, non c’è più traccia nell’art. 6 [art. 2 Cost.] [...] Anzi la storia dell’ar‐ ticolo dimostra che non si è voluto ac‐ cedere al riconoscimento dei diritti dell’uomo come diritti originari e indi‐ pendenti dai poteri dello Stato” (On.le Benvenuti, Gruppo Democratico Cri‐ stiano, in disaccordo con il suo partito); “Che la concezione dello Stato come or‐ ganismo etico abbia ispirato la formu‐ lazione dell’art. 6 [art. 2 Cost.], risulta evidente dal contesto dell’articolo stes‐ so. E risulta anche evidente dalle parole del relatore [On.le La Pira (Gruppo Democratico Cristiano)]. Prima di par‐ lare dei diritti di libertà, è detto nella re‐ lazione, è necessario un articolo nel quale si indichi l’orientamento della li‐ bertà. E allora si è voluto, prima di par‐ lare dei diritti di libertà dell’individuo, determinare l’orientamento della liber‐ tà; si è voluto, nientemeno, finalizzare la libertà stessa” (On.le De Vita, Grup‐ po Repubblicano). Concludendo, ristabilire il primato della persona umana, intesa come depositaria dei diritti innati (nherent Rights), porre lo Stato in funzione delle sue esigenze, è il quarto degli imperativi categorici, ciò che richiede la modifica del testo costi‐ tuzionale (nel rispetto della procedura di cui all’art. 138). A questo articolo farà seguito una secon‐ da parte dedicata all’idea di giustizia ac‐ colta dalla vigente Costituzione, vale a dire, alla “solidarietà politica, economi‐ ca e sociale”. Giuseppe Dossetti e Giorgio La Pira


Percezione

Oltre il suono

La musica è un linguaggio al di là delle parole, universale. È l’arte più bella che esista, riesce a far vibrare fisicamente il corpo umano. È difficile riconoscere la differenza tra la chitarra e il violino. Se venissi da un altro pianeta e incontrassi uomini che parlassero tutti in modo diverso, sono sicura che riuscirei a comprenderli percependone i sentimenti. Ma il campo della musica è vastissimo, immenso. Spesso, posso anche smarrirmici. È quanto accade al‐ l’interno del corpo. Sono note che si mettono a danzare. Come il fuoco di un camino. Il fuoco che ritma, piccolo, grande, piccolo, più veloce, più lento… vibrazione, emozione, colori dal magico ritmo. (Emmanuelle Laborit, con Marie‐Thérèse Cuny, “Il grido del gabbiano”, trad. Adriana Dell’Orto, SuperBur Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1997)

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Percezione

Quel sovrapporsi silenzioso di sentimenti e sensazioni DI CHIARA MANCUSO

Avevo dodici anni quando per la prima volta vidi in televisione una vecchia re‐ gistrazione di Maria Callas mentre cantava “Casta Diva” dalla Norma di Bellini, e, sebbene fosse solo una regi‐ strazione in bianco e nero in uno stu‐ dio, ricordo perfettamente i brividi di quel momento: non sapevo chi fosse Maria Callas, né sapevo cosa cantasse, tanto più che non mi piaceva l’opera fi‐ no ad allora, ma ebbi la sensazione di vedere il volto stesso della Musica. Non capivo le parole eppure sentivo dentro di me il loro significato più pro‐ fondo, non conoscevo le note, ma non ce ne era alcun bisogno: quelli non era‐ no suoni, non era sterile musica scritta ed eseguita come la suonerebbe un qualsiasi programma di un computer; Lei era la Musica, quella donna era Norma che accompagnava nel cielo la sua preghiera, con dei gesti sacri, mai eccessivi; nei suoi occhi lucidi si riflet‐ teva la Luna, si, anche se in quella stan‐ za non c’era nessuna finestra, eppure io riuscivo a vedere il cielo sul suo vol‐ to, sul suo petto si poteva vedere il bat‐ tito del suo cuore e, se mi fossi concen‐ trata un po’ di più, avrei potuto sentir‐ lo…mi trovai a piangere senza accor‐ germene… E ancora adesso, riguardan‐ do quel video o la registrazione fram‐ mentata della “Tosca” al Covent Gar‐ den con Tito Gobbi, se provo a togliere l’audio, riesco ad avere la stessa emo‐ zione che la voce della “divina” mi ha sempre dato! La scena della proposta di Scarpia, il successivo scontro violen‐ to con Tosca e poi la disperazione com‐ posta della preghiera “Vissi d’arte”, ar‐ riva dritta al cuore: le immagini in bianco e nero ci propongono lo studio di Scarpia, un camino sullo sfondo nel quale arde una fiamma violenta, quasi Infernale e lui, un demone tentatore che chiede il corpo di Tosca in cambio della vita di Mario. La reazione di To‐ sca è violentissima, e nell’interpreta‐ zione di Gobbi e della Callas, non riu‐ sciamo a star seduti nella sedia, senza far nulla, con la voglia di alzarci e dar forza ai deboli pugni della donna che percuotono il petto del suo persecuto‐ re. Poi di colpo la calma, il raccogli‐

mento, la preghiera sussurrata: Ma‐ ria/Tosca si appoggia alla sedia, stringe la spalliera, non ce la fa a stare in piedi, si siede, piange con rabbia contenuta “nell’ora del dolore perché Signore mi rinumeri così?”. La solitudine del dolo‐ re, la disperazione, la rabbia trattenuta, esploderanno subito dopo, proprio quando Scarpia era convinto di aver vinto, “Tosca finalmente mia!”, viene colpito dalla donna che fino ad un atti‐ mo prima ci sembrava distrutta e arre‐ sa, ma che adesso urla “Muori!”.Lo so che può sembrare un’assurdità, ma nessun artista può rendere meglio di Maria Callas l’idea che la musica non è fatta solo di note e che l’esperienza musicale non è trasmessa solo dal suo‐ no, ma da tutto il corpo, da ogni singo‐ la cellula! E di questa idea è anche Em‐ manuelle Laborit, famosa artista sorda, quando nel suo libro “Il grido del gab‐ biano” scrive : “Quanto alle voci spiega‐ te nel canto, sono un mistero. Una sola

volta il mistero si è squarciato. Non so dire quando, né quanti anni avessi. È ancora al presente. Vedo la Callas alla televisione. I miei genitori guardano e io sono seduta con loro davanti al tele‐ schermo. Vedo una donna di taglia for‐ te, che dà l’impressione di possedere un carattere altrettanto forte. Tutt’a un tratto, si profila un’immagine in primo piano, e a questo punto sento realmen‐ te la sua voce. Guardandola con inten‐ sità, comprendo che voce deve avere. Immagino una canzone non troppo al‐ legra, ma vedo chiaramente che la voce viene dal fondo, da lontano, che quella donna canta con il ventre, con le visce‐ re. Mi fa un effetto terribile. Ho davvero udito la sua voce? Non saprei proprio dirlo. Però ho realmente provato un’emozione. È l’unica volta che è acca‐ duto qualcosa del genere. Maria Callas mi ha commossa. È l’unica volta in vita mia che ho avvertito, immaginato, una voce dispiegata nel canto.”

Casta Diva che inargenti queste sacre antiche piante...


Percezione

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A noi volgi il bel sembiante senza nube e senza vel... Io, musicista con un udito molto sen‐ sibile, e lei, sorda, abbiamo avuto la stessa esperienza: forse perché per “sentire” la musica bisogna andare al di là di un singolo senso, usare tutto ciò che di fisico e spirituale ci è stato affidato, catturare ogni palpito, ogni singolo tremore che va al di là delle note scritte, ma che fa commuovere, nel senso stretto della parola, “muove‐ re con”, così come musicisti quali Ma‐ ria Callas riuscivano a fare, prendere il suono e renderlo sangue e carne, per far sì che ciò che prima era impalpabi‐ le, riuscisse finalmente a toccare la nostra pelle. Il nostro corpo è uno strumento musicale, il nostro cuore è un metronomo perfetto: lo si può sen‐ tire dare il battere e il levare, anche senza necessariamente ascoltarlo, ma poggiando una mano sul petto, e quando questo ritmo non c’è più, fini‐ sce la nostra stessa vita… le nostre ma‐ ni sono fatte per fare musica, altri‐ menti non sarebbero necessarie dieci dita, i nostri piedi per battere il tem‐ po, il respiro per scandire le pause (basti pensare che nella musica grego‐ riana le pause sono indicate solo con il simbolo del respiro). Riusciamo a renderci conto di essere un “corpo so‐ noro” se proviamo a tuffarci ad un pa‐

io di metri di profondità e, se la paura di annegare non è il nostro unico pen‐ siero, possiamo sentire il crepitio della pressione nelle orecchie, il sangue che scorre veloce come una sinfonia di glo‐ buli rossi che obbediscono al ritmo perfetto del nostro “direttore d’orche‐ stra”; il respiro del mare diventa il no‐ stro respiro, un soffio senz’aria e senza suoni apparenti. Quando ho iniziato a studiare musica, man mano che la tec‐ nica esecutiva cresceva, che le compe‐ tenze teoriche e pratiche diventavano importanti, sentivo dirmi: “Va bene! Brava, ma manca qualcosa…” sembra‐ va assurdo, ma era proprio l’opposto rispetto a quando strimpellavo solo spinta dalla passione e dall’istinto! In conservatorio, mi resi conto che tutta quella tecnica, tutta quella teoria, seb‐ bene fosse indispensabile da un lato, dall’altro, aveva tolto ogni sapore al‐ l’esecuzione: la musica era diventata un corpo da vivisezionare usando guanti sterili e mascherine, per non contaminarla con nulla di mio…e ste‐ rile divenne tutto ciò che passava at‐ traverso le mie dita, senza vita, senza respiro: una musica muta. E dai con gli esercizi, con gli studi, con tutto quello che pensavo necessario, ma solo dopo anni, guardando il modo di “giocare”

dei bambini con la chitarra, il modo in cui ascoltano il suono appoggiandosi sulla cassa, la violenza stessa con cui toccano le corde, mi ricordai cosa del‐ la musica mi piaceva davvero e capii che mi mancava il coinvolgimento fi‐ sico: si suona con tutto il corpo se si vuole trasmettere qualcosa a chi ti sta a “sentire”, se no, va bene anche la suoneria di un vecchio cellulare di die‐ ci anni fa… Ci deve essere il sudore, la vibrazione, il battito del tuo cuore, la mano che trema, la fatica, l’odore stes‐ so, tuo e del tuo strumento, altrimenti non ti “sente” nessuno. Ho usato di proposito il verbo “sentire” e non ascoltare, perché la musica, essendo un’esperienza fisica, non è qualcosa delegata ad un unico senso, come le emozioni non si sentono solo con il muscolo cardiaco, ma passano prima dalla pelle, dall’olfatto, a volte anche dagli occhi: da bambina passavo le ore ad ascoltare Beethoven distesa sul pa‐ vimento davanti allo stereo di casa, vi‐ cino alle casse, in modo tale da sentire le vibrazioni degli altoparlanti sulle mani, l’odore del disco di vinile, il freddo delle mattonelle; chiudevo gli occhi e potevo sentire le nove sinfonie, una ad una, o le sonate per pianofor‐ te… Beethoven,


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Percezione

il grande genio sordo…già dalla quinta sinfonia il suo orecchio ini‐ ziava a non percepire più i suoni, la nona la scrisse completamente sor‐ do e nessuno se ne accorse… C’è chi dice che riuscisse a riconoscere i suoni dalle vibrazioni del pianofor‐ te, ma la maggior parte dei critici sostiene che, non essendo nato sor‐ do, Beethoven conservasse il ricor‐ do delle note e sapesse esattamente cosa stesse scrivendo; che usasse o no l’immaginazione o il ricordo della musica, resta comunque un mistero come un capolavoro della portata della nona sinfonia possa essere nata da un uomo completa‐ mente sordo. Mi piace pensare che nella sua mente non regnasse mai il silenzio, quel silenzio di cui invece si circondò allontanando gli amici, per paura che qualcuno potesse scoprire la sua invalidità e toglier‐ gli il lavoro; il silenzio della solitu‐ dine e della disperazione che inve‐ ce viene spazzato via dalla potenza della sua musica. Molti anni dopo

un altro genio artistico ne ha fatto un capolavoro del cinema d’anima‐ zione: se qualcuno ha visto ”Fanta‐ sia 2000” di Walt Disney, può farsi un’idea della struttura, della com‐ plessità e della bellezza della quinta sinfonia di Beethoven, anche se non ha mai studiato musica o non può ascoltarla. Walt Disney prende il primo movimento della Sinfonia e ne coglie l’essenza con l’arte anima‐ ta: questo movimento è composto da due temi. Il primo tema si apre con la violenza di un accordo di do minore, raffigurato con dei lampi che squarciano le nuvole con dei raggi di luce; man mano che si svi‐ luppa il primo tema ostinato e oscuro, la luce si trasforma in una cascata nel cielo in tempesta, per poi toccare terra svegliando delle farfalle colorate; il risveglio di due farfalle, una più grande, arancione, e una più piccola, rosa, dà l’inizio al secondo tema, più dolce, più lento, improvvisando una danza fra le due farfalle; tuttavia, l’ansia del primo

tema è presente nei bassi suonati dall’orchestra e raffigurati nelle ombre che iniziano a crescere, fino a esplodere nuovamente sotto for‐ ma di vulcani che sputano farfalle nere: ritorna il buio, ritorna l’in‐ quietudine del primo tema, fino al crescendo finale che ripropone la prima scena della tempesta, ma per poi finire con un raggio di luce sul quale si staglia il volo della farfalla. Per quanto mi riguarda, adesso, l’esperienza musicale è un viaggio diverso ogni volta che ho il piacere di suonare: è il profumo del legno degli strumenti, è il dolore lieve delle corde sulle dita, è la pioggia sui miei occhi, il lampo che illumi‐ na ad oriente, il sole rosso della se‐ ra, è il mare che violento schiaffeg‐ gia gli scogli o copre piano la sabbia bianca, è il brivido che scuote i pra‐ ti di notte, la gonna che sensuale scopre la caviglia delle donne gita‐ ne, una barca che ondeggia piano e che mi conduce ogni volta ad un porto diverso.

Tempra, o Diva, tempra tu de' cori ardenti, tempra ancor lo zelo audace.


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L'apparente brevitĂ di un'immagine

"La campana del tempio tace, ma il suono continua ad uscire dai fiori" (Matsuo BashĂľ)

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Gesti di tutti i giorni e haiku DI SARA MIRTI

Da dove iniziare a descrivere una persona? Dai lineamenti? Dalla po‐ stura? Dalla sua professione, o dalla sua indole? Della maggior parte degli individui che incrociamo per caso sul nostro cammino ricordiamo solo po‐ chi dettagli sparsi, acquisiti per erro‐ re, attraverso uno sguardo indiscre‐ to. Ognuno di questi dettagli è ridu‐ cibile a un'immagine unica, breve, li‐ mitata, eppure in grado di inscrivere in sé il racconto di una vita intera. Non a caso V. Vitiello, ne "I tempi della poesia. Ieri/Oggi" (Mimesis, Milano 2007, p. 49), scrive: "[…] la più bella definizione che la filosofia ha dato dell'uomo ‐ e ne ha date mol‐ te ‐ è quella che si legge nel Cratilo, l'opera di Platone dedicata al lin‐ guaggio. Con immaginaria etimolo‐ gia, Platone deriva ánthropos dalla contrazione di anathrôn hà ópope: uomo è quegli che riflette sulle cose viste" (Platone, Cratilo, 399c). Il ri‐ flesso è una rappresentazione intelli‐ gibile della realtà che improvvisa‐ mente riesce a farsi piccola e ad en‐ trare in una singola immagine, quasi fosse una citazione del reale, proprio come accade ai nostri volti; infatti "[…] cos'è il nostro viso se non una ci‐ tazione?" (R. Barthes, "L'impero dei segni", Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1984, p. 107). "La riflessione implica uno sdoppiamento: tra il vi‐ sto e il riflesso. Questo sdoppiamen‐ to definisce […] caratterizza l'uomo come tale". L'uomo dunque, prima ancora di essere ciò che desidera, è ciò che vede, prima di essere frutto della propria coscienza, prima anco‐ ra che maturino i risultati delle sue azioni, è il frutto di un gioco di spec‐ chi, di milioni di immagini in peren‐ ne giustapposizione, condannate a un eterno ritorno e quindi a un eter‐ no reciproco scontro. "E il linguaggio sorge di qui, da questa alterità. Il lin‐ guaggio è il mezzo ‐ il medio ‐ che le‐ ga l'uomo al mondo, dopo che il le‐ game originario si è spezzato. […]

L'uomo nasce col linguaggio. Il che implica: l'origine del linguaggio è na‐ turale, sensibile, animale, ‐ non uma‐ na, culturale o storica" (V. Vitiello, ibidem). L'umanità, la cultura e la storia, infatti, nascono subito dopo, quali conseguenze della nascita di una forma di comunicazione. "Gli in‐ finiti modi, tutti diversi e tutti uguali, che gli esseri umani hanno per espri‐ mersi, per esprimere le passioni, ren‐ dono visibili significati spirituali, mo‐ rali, all'interno di una comunicazione corporea immediatamente compren‐ sibile. Percepire il dolore, il terrore attraverso i segnali corporei e lo sguardo altrui, significa rendersi con‐ to dell'altro e contemporaneamente sapere che il dolore dell'altro, anche se non si tratta di rappresentazione, non è il proprio, che non sarà mai da‐ to direttamente, che non è un dolore positivo, che non è il mio dolore, che

posso solo essere spettatore di quel dolore e parteciparvi simpatetica‐ mente". Non si possono certo afferra‐ re le emozioni, possono soltanto es‐ sere raccontate, evocate, riconosciu‐ te, rappresentate. Le emozioni altrui sono come "spiriti" familiari e pertur‐ banti, irrimediabilmente intrappolati tra il corpo di un attore e quello di uno spettatore. Alzando la voce, pro‐ lungando i silenzi, ampliando i gesti, enfatizzando la mimica, a volte, si può ottenere una debole vicinanza, qualcosa di simile a un'emozione davvero condivisa, ma è un illusione che dura il tempo di attimo. "Lo spet‐ tatore soffre lo stesso dolore dell'al‐ tro, la stessa collera, la stessa rabbia, la stessa paura, eppure tale dolore, collera, rabbia, paura non sono "gli stessi". Lo spettatore vive quelle pas‐ sioni unicamente con il suo sentire con intensità differenti.


Fotogramma Vive un'esperienza emotiva suscitata da una rappresentazione o dalla vita reale ‐ ciò è inessenziale ‐ attraverso la sintonia, il riconoscimento di un occhio che guarda e un occhio che è guardato, un corpo che sente e un corpo che si atteggia per essere sentito" (M. Mazzocut‐Mis, "Il sen‐ so del limite. Il dolore, l'eccesso, l'osceno", Le Monnier Università, Milano 2009, p. 51). Sembra impos‐ sibile che esista davvero "qualcosa di specificatamente umano" in questo grande amalgama universale in cui si scontrano senza mai mescolarsi ele‐ menti tra loro opposti: coscienze in‐ dividuali e mondi abbandonati, luci già lontane e ombre vivide. Tutte le nostre immagini sono immagini sen‐ sibili, che hanno una consistenza ai nostri occhi, che nascondono un do‐ lore sottile quasi quanto il piacere di piangere. "La relazione del vivente al mondo […] non declina […] né il ver‐ bo essere né il verbo fare". Piuttosto, quando può, cerca di declinare en‐ trambi i verbi contemporaneamente, in qualcosa che renda insieme un ge‐ sto e un essere a cui quel gesto non può che appartenere: quello che si potrebbe definire, un tratto, o più semplicemente un segno. "Il vivente umano non sta al mondo come la pietra esiste, né si limita ad avere con esso rapporti di azione e passio‐ ne diretti: in quanto vivente si rap‐

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“La Voce del Corpo”, Luca Vullo, Italia, 2012, presentato a Roma in occasione del “Cinedeaf 2013” - docu-fiction sulla gestualità siciliana, realizzata in collaborazione con la Regione Siciliana e la Sicilia Film Commission.

porta alle cose attraverso la mediali‐ tà, attraverso il sensibile che è capace di produrre. […] E' ai media e non certo ai corpi dei viventi, del resto, che gli storici e gli archeologi si rivol‐ go nel tentativo di afferrare lo spirito sopravvissuto dei viventi ormai se‐ polti dal passato" (E. Coccia, "La vita sensibile", il Mulino, Bologna 2011, pp. 97 ss). Ma non sempre le emozio‐ ni lasciano una traccia tangibile, la‐ sciano invece una "memoria gestua‐

“Culture Signes”, Carole Sionnet, Francia 2013 (“Cinedeaf 2013”). Da Kyoto a Osaka, , esplorando un paese di cui non parla la lingua, la film maker Carole Sionnet ci introduce alla cultura giapponese attraverso l'uso della Lingua dei Segni. Incontrando coloro che come lei, praticano questa lingua, i dettagli culturali diventano significativi. “Grazie alla lingua dei segni, si crea un legame universale che unisce le persone senza tener conto della geografia”.

le", tramandano una prossemica e una cinesica di cui spesso le genera‐ zioni non sono nemmeno consape‐ voli. E' incredibile pensare come uno stesso gesto possa afferrare per sé si‐ gnificati anche diametralmente dif‐ ferenti: "Il pollice e l'indice della stessa mano si uniscono a formare un cerchio. Si tratta di un gesto che fa appello alla precisione, al deside‐ rio di trovare l'argomento esatto che chiarirà la discussione. Chi lo com‐ pie lo fa seguire talvolta da una lieve rotazione del polso […]. Le dita unite e rivolte verso l'alto indicano a loro volta una ricerca di esattezza nella scelta delle parole." Tipico di chi "[… ] è giunto alla fase critica del suo di‐ scorso e intende sottolineare un aspetto particolare della questione […]"; Altri significati: "«Ok! Messag‐ gio ricevuto!» è il significato di que‐ sto gesto compreso in tutto il mon‐ do. Il sorriso della persona […] con‐ ferma il messaggio. Nei paesi anglo‐ sassoni questo gesto ha solo ed esclusivamente il senso che abbiamo menzionato. «Negativo al massimo!» mugugna [una] persona con aria in‐ soddisfatta. Il gesto è uguale […], ma cambia l'espressione del viso. Soltan‐ to i francesi attribuiscono a questo cenno un significato negativo" (Na‐ thalie Pacout, "Il linguaggio dei ge‐ sti. Come scoprire la personalità at‐ traverso il linguaggio del corpo", Ar‐ menia, Milano 1993, p. 61 e 15).


30 Troppo spesso si è creduto che "i ge‐ sti uccidessero la parola", che gra‐ vassero sulla fluidità di linguaggio e di pensiero, forse dimenticando che ciascuno ha il proprio ritmo che ogni linguaggio non può che assor‐ bire, volente o nolente, e che, per esempio, una poesia rimane tale pur avendo un ritmo simile a un "balbet‐ tio", o a un parlare "zoppo" (si pensi a Celan o a Ipponatte). Purtroppo il nostro occidente, "[…] inumidisce di senso ogni cosa, alla maniera di una religione autoritaria che imponga il battesimo all'intera popolazione; gli oggetti del linguaggio (fatti con la parola) sono evidentemente dei convertiti di diritto: il senso primo della lingua richiama, metonimica‐ mente, il senso secondo del discorso e questo richiamo ha valore di un vincolo universale" (R. Barthes, "L'impero dei segni", op. cit., p. 80). In Oriente invece viene praticata quella che Barthes ha definito l' "ef‐ frazione del senso", che si consuma interamente sul piano visivo: il sen‐ so "è dato da leggere, non da vede‐ re", le immagini vengono traslate: basta posare lo sguardo sul messag‐ gio per possederne il contenuto, ep‐ pure tale contenuto, una volta letto, scivola via leggero tanto da chi lo trasmette quanto da chi lo riceve. Un "tratto" appunto, né frase né se‐ gno, una strada alternativa tanto al‐ le parole (che spesso muoiono su volti dipinti tradizionalmente, privi di un'espressione soggettiva) quan‐ to ai gesti che accompagnano il lin‐ guaggio: immagini brevi come re‐ spiri regolari, inequivocabili, preci‐ si. I volti in Giappone sono altret‐ tante citazioni di antichi haiku. "La brevità dello haiku non è formale: lo haiku non è un pensiero ricco ridot‐ to ad una forma breve, ma un evento che trova tutt'a un tratto la sua for‐ ma esatta. […] L'esattezza dello hai‐ ku […] ha evidentemente qualcosa di musicale (musica di significati, non necessariamente di suoni): lo haiku ha la purezza, la sfericità e il vuoto stesso d'una nota musicale. Forse è per questo che ci si ripete due volte come un'eco": una sola volta "significherebbe attribuire un senso alla sorpresa, allo spunto, alla repentinità della perfezione", ripe‐ terla più di due volte sarebbe come volerne svelare il senso a tutti i co‐

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sti, "simulare la profondità", l'eco in‐ vece sottolinea la "nullità del senso" (R. Barthes, "L'impero dei segni", op. cit., p. 88). Prendiamo un esempio tra i più noti: "Soffia il vento d'inver‐ no/Mandano lampi/Gli occhi dei gatti" ("L'impero dei segni", op. cit., p. 97)… Non so perché, ma mi viene alla mente l'immagine di una donna seduta in una chiesa, le mani chiuse a pugno, una nell'altra, poste a sor‐ reggere il capo chino sotto il peso di un pensiero o di una preghiera. Sem‐ bra che, lì, tra le dita, vi sia stretto un segreto, tenuto gelosamente pri‐ gioniero, qualcosa di simile ad una moneta ormai fuori corso che non si può più scambiare con niente, nem‐ meno al più misero dei mercati. Quelle dita, nella mia immagine, de‐

scrivono un'assenza colta un mo‐ mento prima che si compia, l'estre‐ ma tensione che precede la disten‐ sione dei muscoli e la conseguente apertura delle mani e il loro scivola‐ re del senso lungo i fianchi. Intanto gli occhi rompono il silenzio con i loro lampi, ipnotizzati dalla loro vo‐ glia di ripete all'infinito il loro mes‐ saggio, simili a telegrafi impazziti. Se anche la nostra vita, come gli hai‐ ku e come i nostri gesti, potesse es‐ sere ripetuta almeno due volte, allo‐ ra si potrebbe descrivere una perso‐ na, chiunque essa sia e ovunque si trovi, con un'immagine breve, con appena tre strofe, iniziando e con‐ cludendo con la poesia che le sue espressioni, con o senza volontà e controllo, riflettono.


CINEDEAF

Roma

(29�30 Novembre, 1 Dicembre) Teatro Vascello, via G. Carini 78

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CINEDEAF

Concorso, eventi e protagonisti del Cinedeaf 2013 DI FRANCESCA DI MEO, MARTINA LEMBO E SARA MIRTI

Prende il via a Roma il secondo Festival internazionale dedicato al "Deaf Cine‐ ma", prodotto e realizzato dall'ISSR (Isti‐ tuto Statale per Sordi di Roma) e orga‐ nizzato da uno specifico Comitato inclu‐ sivo: vale a dire composto da sordi e udenti, da membri interni ed esterni al‐ l'ISSR; si tratta di un evento che sta ac‐ quisendo maggiore importanza e visibi‐ lità e in cui le persone sorde non si trova‐ no più ad essere l'oggetto indiretto, spes‐ so sbiadito o frainteso, ma i soggetti principali delle proprie narrazioni. In ge‐ nere quello del cinema, lo sappiamo be‐ ne ma è utile ripeterlo, è un mondo da cui le persone sorde si sentono facilmen‐ te esiliate; qui invece "accessibilità" (per il pubblico sordo e udente) è la parola d'ordine accanto, appunto, a "interna‐ zionalità": tutti i film saranno sottotito‐ lati in inglese e in italiano e sarà garanti‐ to il servizio d'interpretariato in (e da) LIS (Lingua dei Segni Italiana), IS (Inter‐ national Sign) e ASL (Lingua dei Segni Americana). L'intento dichiarato è quel‐ lo di promuovere una maggiore cono‐ scenza della lingua dei segni e delle te‐ matiche legate alla sordità, e di farlo at‐ traverso tre giorni di accoglienza, proie‐ zioni e workshop. Il Festival, che ha let‐ teralmente "conquistato" il quartiere di Monteverde, i suoi bar, gli hotel, i nego‐ zi, i punti di ritrovo, si era già lasciato alle spalle, nella passata edizione svoltasi in‐ vece nel quartiere Pigneto, 1400 parteci‐ panti, con la proiezione di 33 opere sele‐ zionate tra le 150 arrivate da tutto il mondo; e tutto lascia presagire per que‐ st'anno risultati persino migliori. Questa edizione, infatti, ha potuto contare su una macchina organizzativa in costante ampliamento e sul lavoro di registi, sordi e udenti, che hanno scelto il festival co‐ me luogo per le proiezioni in anteprime delle proprie opere (sono 5 infatti le pre‐ mière internazionali). La rete di Associa‐ zioni che hanno collaborato al "Cinede‐ af" è fitta e culturalmente ricca: si pensi al Teatro Vascello, ad Anios, alla Compa‐ gnia Cineteatro Laboratorio Zero, alla Piccola Missione per i Sordomuti, al Mo‐ vimento LIS subito!, a CulturAbile, a HMONLUS, a L'Arcobalena, oppure all' Asilo Nido il Girasole; ai media partner

IO SEGNO UN MONDO (Italia, 2013), docu-film che ha come protagonisti i ragazzi sordi del gruppo di ballo THE SILENT BEAT (première).

quali VLOG Sordi, Radio Kaos ItaLis; e ai partner culturali Japanese Federation of The Deaf, Festival Clin D'Oeil 2013, Far East Film Festival. Il "Cinedeaf" ha otte‐ nuto, oltre al patrocinio del MIBACT ‐ Ministero dei Beni e delle Attività Cultu‐ rali e del Turismo ‐, della Regione Lazio, della Provincia di Roma, dell'ENS ‐ Ente Nazionale Sordi ‐, anche il contributo, preziosissimo, dell'Istituto Giapponese di Cultura. Le opere proposte saranno 50 in totale di cui 40 selezionate in concorso dopo aver partecipato al bando aperto a “registi sordi”, “registi udenti” e “scuole”. La giuria delle prime due categorie sarà composta da due persone sorde (Rita Mazza, Angelo Quattrocchi) e una uden‐ te (Daniele Cini); mentre la giuria della categoria "scuole" gravita tutta intorno al mondo dell’educazione (con piacere se‐ gnaliamo la presenza dell'artista Ginetta Rosato, che nel ’93 ha portato la sua sto‐ rica compagnia di Teatro Sordo proprio al Teatro Vascello con lo spettacolo “L'‐ Hotel del Libero Scambio”, una comme‐ dia di George Feydeau). Per accogliere i registi, gli attori, gli spettatori, e gli staff nazionali e internazionali (si pensi che i film, in concorso e non, provengono da Gran Bretagna, Stati Uniti, Italia, Austra‐ lia, Giappone, Francia, Svezia, Islanda, Olanda, Spagna, Russia e Germania) ver‐ ranno messe a disposizione delle visite guidate accessibili: sarà lo scenario che la stessa città di Roma offre di sé ad unire gli intenti e ad appiattire fisicamente ogni distanza. Sarà inoltre possibile usufruire di un apposito servizio di "babysitting" e

richiedere, grazie a "Uber", una macchi‐ na con autista (per tutti i dettagli potrete consultare il blog del Cinedeaf: http://ci‐ nedeafroma.wordpress.com). Insomma, parafrasando R. Barthes (e i suoi scritti sulla cultura giapponese), "Il solo lessico" che conta davvero in questo mare creati‐ vo di lingue e di appartenenze "è quello dell'appuntamento": l'importante sarà esserci, poi potrete giudicare con i vostri occhi. Stando a L. R. Birdwhistell (1952), "cine" è "il più piccolo movimento corpo‐ reo individuabile nel film passato al ral‐ lentatore, sia che il movimento osservato rivesta una significazione desumibile o no", quasi un gesto involontario, mentre "cinema" è qualcosa di più completo

SEGNA CON ME (Italia, 2013) un viaggio nel quotidi una riflessione sull'importanza della comunicazione


CINEDEAF (qualcosa di probabilmente assimilabile al, per noi più usuale, concetto di "fone‐ ma"): "ovvero il più piccolo movimento avente una significazione"; quindi, se è vero com'è vero che il Cinema è una vera e propria forma d'arte, essa può rivelarsi un'arte in cui il "terzo senso" (il primo in epoca medievale, cioè l'udito) può persi‐ no essere inutile. I temi affrontati vanno dal mondo degli anziani fino a ritornare alla comunicazione e, non ultimo, al ri‐ conoscimento delle LS quali, appunto, lingue vere e proprie che poco hanno a che spartire con le dinamiche puramen‐ te gestuali. Una Lingua dei Segni non è una giustapposizione di gesti, analogici o iconici, che arranca per approdare ad una significazione (termine applicato più volte al Cinema e introdotto da Julia Kristeva), ma una vera propria lingua, dotata di regole grammaticali, sintassi, profondità, contrasti, ombreggiature, e soprattutto di una fiera comunità se‐ gnante. I gesti, invece, si limitano ad ac‐ compagnare l'uso di un linguaggio, a vol‐ te enfantizzandolo, a volte "inceppando‐ lo", a volte semplicemente nasconden‐ dolo attraverso un'evidenza soltanto ap‐ parente. Proprio questa differenza abbi‐ nata alle caratteristiche nazionali viene indagata da "See Here: LIS special" (Ca‐ roline O'Neill, UK, 2013), breve docu‐ mentario fuori concorso girato da una troupe della BBC (che da anni ha in pa‐ linsesto un programma pensato e pro‐ dotto da persone sorde) nel tentativo di capire se tutto ciò che viene detto e scrit‐ to circa l'esuberanza gestuale degli italia‐ ni, sia corretta o meno e se alla fine i gesti aiutino davvero a comunicare al di là del‐

ano di persone sorde e udenti segnanti e soprattutto (documentario in concorso).

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SEE HEAR è il programma della BBC per sordi nel Regno Unito. Dal 1981, viene trasmesso su BBC 1 e 2 e propone notiziari, giornalismo investigativo e teatro. Il programma è ora alla trentaquattresima stagione e riscuote ancora molto successo. In questa puntata speciale dedicata all’Italia, See Hear viaggia a Roma dove intervista persone sorde e udenti alla ricerca delle reciproche influenze tra l’inclinazione alla gestualità, tipica degli italiani, e la LIS (Lingua dei Segni Italiana) usata dalla comunità sorda.

le comunità linguistiche d'appartenenza. Mentre la comunità sorda intervistata racconta alle telecamere inglesi (il pro‐ gramma andrà in onda sulla BBC in pri‐ mavera) la confusione ‐ legislativa e cul‐ turale ‐ tutta italiana circa l'equiparazio‐ ne dei 'segni' ai ‘gesti’ e le proposte per il riconoscimento della LIS portate avanti dal Movimento LIS subito!, l'intervistato‐ re, invece, non può non testimoniare con tutto se stesso una sorta di "nostalgia" della gestualità che abita ormai da tempo la sua Inghilterra. Sulla stessa linea tema‐ tica si muove il docu‐film "Io segno un mondo" (Fabio Feliciani, Italia, 2013, 54') che è stato presentato in un'emozionante anteprima, in occasione della presenta‐ zione ufficiale del Festival Internazionale del Cinema Sordo “Cinedeaf“ presso l'Auditorium del Museo MAXXI il 21 No‐ vembre, alla presenza dell'intero gruppo di persone coinvolte nella realizzazione dell'opera e di Daniele Silvestri, ormai storico "supporter" della battaglia per il riconoscimento della LIS. All’evento è se‐ guita un'introduzione in LIS dell'archi‐ tettura ideata da Zaha Hadid. Grazie alla passione e all'impegno personale di Ste‐ fania Vannini, Responsabile del Diparti‐ mento Educazione del MAXXI, due uni‐ versi così affini come quello dell'arte con‐ temporanea e quello delle lingue visive, s'incontrano di nuovo. In fondo, "l'arte", a pari della LIS declinata in tutta la pro‐ pria complessità, "è la creazione di forme che simboleggiano i sentimenti umani" (Leger 1953, p. 40). Per concludere, non

ci resta che segnalare in programma, in‐ sieme a personalità del calibro di Alex Sambe ‐ presente nella sezione cortome‐ traggi fuori concorso all'ultima edizione del Festival di Cannes ‐, Ted Evans, Brian Duffy e Louis Neething, tutti premiati al "Clin D'Oeil" (il più importante Festival europeo dedicato all'Arte Sorda), la pre‐ senza di un’opera di Mirko Locatelli (in concorso col documentario "Sento l'aria", Italia, 2013), già tra i protagonisti del Fe‐ stival del Cinema di Roma 2013 col suo "I corpi estranei". Infine vi regaliamo due anticipazioni: "A life without words" (Adam Isemberg, USA, 2011), opera do‐ cumentaria in concorso che ritrae le con‐ seguenze di una vita vissuta senza parole dal punto di vista di tre fratelli sordi cre‐ sciuti in un villaggio rurale del Nicaragua (paese in cui, appena trent'anni fa, caso unico al mondo, il Lenguaje de Signos Nicaragüense ‐ LSN ‐, una lingua senza regole grammaticali complesse e quasi inintelligibile, si è trasformata, ad opera della stessa comunità sorda, in una lin‐ gua grammaticalmente completa, vale a dire l’Idioma de Señas de Nicaragua ‐ ISN); e l'anteprima internazionale della regista sorda Ayako Imamura (che sarà a Roma in occasione del Festival grazie al‐ l'interessamento dell'Istituto Giapponese di Cultura), autrice di “The connecting bridge 3/11 that wasn't heard” (Giappone, 2013), film che narra il Grande Terremoto del 2011 attraverso gli occhi dei sordi giap‐ ponesi sopravvissuti e a cui, almeno al‐ l'inizio, non è giunto alcun allarme.


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CINEDEAF

Cinedeaf scuole edizione 2013 DI ARIANNA ACCARDO E DARIO PASQUARELLA

Cinedeaf Scuole è una specifica se‐ zione, giunta alla sua seconda edi‐ zione, del Festival Internazionale del Cinema Sordo di Roma, che offre la possibilità di partecipare a un Con‐ corso per diffondere la partecipazio‐ ne responsabile alle attività organiz‐ zate dalla comunità scolastica, di cui i ragazzi devono sentirsi parte attiva e vitale. I giovani ‐ studenti delle scuole secondarie di I e II grado ‐ possono presentare cortometraggi o videoclip che rappresentino l'espe‐ rienza di integrazione in classe tra studenti sordi e udenti e diano testi‐ monianza della sordità dal punto di vista socioculturale, quale comunità portatrice di valori e di arricchimen‐ to per tutti. Tra le opere presentate, una giura ha il compito di seleziona‐ re quella considerata più significati‐ va e originale, a cui viene assegnato un riconoscimento. L'obiettivo del‐ l'iniziativa è di acquisire conoscenze rispetto al mondo del cinema, alla produzione creativa di gruppo e alla conoscenza del mondo sui temi so‐ ciali. Dal punto di vista comunicati‐ vo, la modalità naturale di espressio‐ ne delle persone sorde è quella visi‐ va. Per le persone sorde che utilizza‐ no la Lingua dei Segni Italiana (LIS), il video è di fondamentale importan‐ za perchè è il mezzo attraverso cui veicolare le informazioni in LIS. Ne‐ gli ultimi cinque anni l’Unione euro‐ pea ha più volte richiamato l’atten‐ zione sulla necessità di promuovere l’educazione ai media negli stati membri e di favorire attraverso spe‐ cifiche azioni a livello nazionale ed europeo lo scambio e la condivisione di buone pratiche (Celot e Tornero, 2008; Tornero et al., 2010). La com‐ petenza mediale, intesa come capa‐ cità di avvalersi dei media in modo critico, consapevole e creativo, viene infatti rappresentata nelle dichiara‐ zioni e comunicazioni dell’Unione Europea come un requisito indi‐ spensabile per l’esercizio di una cit‐ tadinanza attiva. I programmi ME‐

DIA 2007, SAFER INTERNET PLUS (2004‐2008) e il più recente “i2010 ‐ Partecipare alla Società dell’Informa‐ zione”, promossi recentemente dall’UE, contengono queste indica‐ zioni offrendo una base per la loro attuazione. In linea con questi prin‐ cipi, Cinedeaf è un'ottima oppurtu‐ nità di integrazione tra giovani sordi e udenti che, attraverso l'utilizzo, la produzione e la fruizione critica dei media favoriscono conoscenza del mondo della sordità e contribuisco‐ no all'abbattimento delle barriere comunicative. Questa iniziativa ser‐ ve da stimolo per sensibilizzare i gio‐ vani adolescenti all'uso degli stru‐ menti mediali per esprimere se stessi e la loro condizione di disagio. È im‐ portante evidenziare la capacità di produzione dei giovani che è finaliz‐ zata a diffondere il messeggio sociale attraverso la fiction per rappresenta‐ re situazioni di vita reali. C'è stata una grande soddisfazione per la viva partecipazione degli studenti che hanno dimostrato grande interesse per il concorso. Quest' anno sono state presentate opere da tutto il mondo. I professionisti che hanno collaborato alla selezione hanno ri‐ scontrato tra i giovani una grande

capacità creativa e conoscenze me‐ diali attraverso cui esprimere la cul‐ tura e l'identità sorda. I materiali presentati a partecipare al concorso sono opere realizzate, nella maggio‐ ranza dei casi, a scuola, non necessa‐ riamente con mezzi di qualità, ma con una grande volontà espressiva di comunicare un messaggio che testi‐ monia come l'integrazione tra stu‐ denti sordi e udenti sia possibile. Per continuare a mantenere viva la capa‐ cità mediale creativa dei giovani, i docenti hanno il compito professio‐ nale e morale di favorire queste pos‐ sibilità, propenendo laboratori di media education che si integrino con le quotidiane attività didattiche in classe. Per le prossime edizioni con‐ tinueremo ad accrescere e favorire lo scambio culturale, partendo dalle nuove generazioni attraverso un continuo percorso di sensibilizzazio‐ ne verso la presa di coscienza e la consapevolezza a livello sociale. Arianna Accardo (Coordinamento Cinedeaf Scuole – Istituto Statale Sordi di Roma www.issr.it) Dario Pasquarella (Esperto Sordo di Cinema – Compagnia Cineteatro La‐ boratorio Zero di Roma www.labora‐ toriozero.it)

Sono12 i cortometraggi in programma, realizzati da scuole medie e superiori provenienti da tutto il mondo: Francia, Giappone, Australia, Spagna e Italia.


Film Opera

Il Melodramma nei film tra l’Occidente e i Soviet

Ho sempre pensato che l'opera sia un pianeta dove le muse lavorano assieme, battono le mani e celebrano tutte le arti. (Franco Zeffirelli)

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Film Opera

Film Opera occidentale DI JACOPO FELICIANI

Per chi conosce bene il Melodramma, palare di Film Opera significa essere a contatto con la perfezione assoluta dell'Arte; un distillato prelibato, scrematura meticolosa della qualità di tutte le attività creatrici dell'uomo. I più attenti Melomani d'Occidente erano però ignari dell'altrettanto ec‐ cellente produzione che veniva pre‐ sentata oltre la Cortina di ferro, nella Russia Bolschevica. La 'chiusura' de‐ terminata dal Muro di Berlino avve‐ niva soprattutto per l'attività cultura‐ le ed artistica, e solo con l'abbatti‐ mento siamo riusciti, e con grande ri‐ tardo temporale, a scoprire molto, anche se non tutto. Il ritardo c'è stato anche per il Film opera. Inquadrare questo genere cinematografico per i neofiti non è semplice e a tale scopo dovremmo prima parlare della nasci‐ ta e dello sviluppo della Regia del‐ l'Opera lirica. La Regia dell'Opera li‐ rica riguarda l'allestimento della sce‐ na intesa come scenografia, special‐ mente per quanto riguarda il passato. Dalla metà del'900 se ne parla anche come movimento dei cantanti sul palcoscenico, come recitazione mi‐ mica e azione teatrale. Prima del 1950, i cantanti lirici erano immersi in una ricca scenografia, con prezio‐ sissimi costumi di scena, ma erano di sovente al centro del palcoscenico per cantare la loro parte disinteres‐ sandosi dell'azione. Una premessa molto importante per lo sviluppo della Regia lirica possiamo trovarla nel Gesamtkunstwerk (opera d'arte totale), termine usato per la prima volta nel 1827 dallo scrittore e filoso‐ fo tedesco K. F. E. Trahndorff e teo‐ rizzato e messo in atto nel 1849 dal compositore Richard Wagner. L'idea era quella della subordinazione delle singole arti, per la presentazione di uno spettacolo in un' unità inscindi‐ bile fra musica, scene e dramma. Sul‐ le speculazioni di Wagner, Adolphe François Appia (Ginevra 1862 – Nyon 1928) cerca di sviluppare un'attinente sua personale visione dell'allestimen‐

to scenico. I semi dello sviluppo Liri‐ co di tipo moderno partono dal Tea‐ tro di Prosa russo, con le avanguardie che rivoluzionano la regia, con il Tea‐ tro dell'Arte e l'immedesimazione nel personaggio ‐Stanislavskij (Mosca 1863–1938) e Dancenko (Mosca 1858– 1943)‐ contagiando gli altri settori. Si salta dunque agli anni '50 in cui i pri‐ mi ad intuire la necessità di rinnova‐ mento nel Melodramma ‐ci si inter‐ roga comunque sulla valenza della fi‐ lologia del racconto del compositore‐ sono i Registi italiani con la rivoluzio‐ ne scenica, con l’affermarsi del teatro di regia, fra i quali il celeberrimo esponente e fondatore è Luchino Vi‐ sconti, che aveva conosciuto la lezio‐ ne dei Francesi come Jean Cocteau "Tosca" (1941) e Renoir. I seguenti re‐ gisti inventano la Regia Lirica con‐ temporanea tutt'ora in auge: Luchino Visconti, appunto, (Milano, 2 novem‐ bre 1906 – Roma, 17 marzo 1976) au‐ tore neorealista, con uno spiccato senso lirico e teatrale sulla realtà tan‐ to che il filone da lui intrapreso verrà denominato “realismo lirico”; Giorgio Strehler (Trieste 1921 – Lugano 1997); Franco Zeffirelli (Firenze, 12 febbraio 1923), e Pier Luigi Pizzi, sebbene con leggero ritardo. Tutto il lavoro del re‐ gista è di confezionare uno spettacolo gradevole e al tempo stesso rispettare la musica e le condizioni del compo‐ sitore. Riprendere con la macchina da presa un allestimento operistico però è differente dal proporre un film opera. I Film Opera sono dei filmati in cui si va a sincronizzare l’audio di una particolare opera lirica di qual‐ che interesse audiofilo adattandola a immagini video predisposte apposi‐ tamente con tutte le scene e perso‐ naggi in costume come in un film. Si cerca questo connubio per dare la possibilità all’opera lirica di ottenere maggiore interesse da parte del pub‐ blico, attirato dalle bellissimi imma‐ gini, e per i più appassionati di fruire il meglio dell'edizione audio e delle immagini in circolazione. La diffusio‐ ne delle Arti è importantissima spe‐ cialmente per i giovani, e il cinema e la Tv è un imprescindibile veicolo perchè è molto seguito. In Italia il Ci‐

nema parte con il Centro Sperimen‐ tale di Cinematografia con la Scuola Nazionale di Cinema, la Cineteca Na‐ zionale e il Premio del Cinema di Ve‐ nezia create nel ventennio e che co‐ stituiscono un valido centro per la formazione degli artisti nel campo del Cinema. La Tv ha invece una dif‐ fusione più lenta per via delle condi‐ zioni socio‐economiche della Peniso‐ la partendo con URI (1924), EIAR (1927) passando per RAI (1954) e Me‐ diaset (che contribuisce la concor‐ renza e forma una Tv all'avanguardia internazionale). A schiudere allo spettatore la bellezza del Melodram‐ ma senza dubbio le prime registrazio‐ ni video senza sonoro per le quali oc‐ corre focalizzare il celebre Tenore ita‐ liano Caruso.


Film Opera L'introduzione del sonoro sincroniz‐ zato (1926) diviene una tappa fonda‐ mentale. Il filone cinematografico del Film opera va distinto in quattro tipo‐ logie fondamentali: film ispirati a sog‐ getti appartenenti al Teatro musicale, ove il canto risulta marginale come nei film biografici ‐"Il Trovatore" (1910) di Louis Gasnier ‐ "Carmen" (1915) di Cecil B. DeMille ‐ "La Bohè‐ me" (1917) di A.Palermi ‐ "Il barbiere di Siviglia" (1923) di Azeglio e Lamberto Pineschi; le opere parallele, in cui i protagonisti sono cantanti lirici che interpretano personaggi del melo‐ dramma ‐ "La Wally" (1931) di Guido Brignone ‐ "Madame Butterfly" (1915) di Sidney Olcott ‐ "Der Rosenkavalier" (1926) di Robert Wiene ‐ "E lucean le stelle" (1935) di Carmine Gallone ‐ "Amami, Alfredo" (1940) di Carmine Gallone ‐ "Ridi, pagliaccio" (1941) di Camillo Mastrocinque ‐ "Il re si diver‐ te" (1941) di Mario Bonnard ‐ "Tosca"

(1941) di Jean Cocteau ‐ "Il cavaliere del sogno" – Film su Gaetano Donizetti – 1947 ‐ "Addio, Mimì" (1949) di C.Gal‐ lone ‐ "Rigoletto e la sua tragedia" (1954) di Flavio Calzavara – "Figaro, il barbiere di Siviglia" (1955) di Mastro‐ cinque ‐ "Avanti a lui tremava tutta Roma" (1946) di C.Gallone; le riprese cinematografiche degli allestimenti operistici in cui si specializzano gli au‐ striaci e i tedeschi ‐ "The Robber's symphony" (1936) di Friedrich Feher ‐ "The Medium" (1951) di Gian Carlo Menotti ‐ "The Beggar's Opera" (1953) di Peter Brook ‐ "Giovanna d'Arco al rogo" (1954) di Roberto Rossellini; fil‐ mopera propriamente detti, trasposi‐ zioni filmiche di Opere liriche, in cui si fa ricorso a tutti i mezzi tecnico, sce‐ nici ed espressivi del cinema, e i cui protagonisti doppiano il sonoro dei cantanti lirici esasperando l'uso del playback‐ "Die Dreigroschenoper" (1931) di Georg Wilhelm Pabst ‒ "Die verkaufte Braut" (1932) di Max Ophuls ‐ "Rigoletto" (1947) di Carmine Gallo‐ ne ‐ "La signora delle camelie" (1947) di Carmine Gallone; "La leggenda di Faust" (1949) ‐ "Il trovatore" (1949) ‐ "La forza del destino" (1950) ‐ "Mada‐ ma Butterfly" (1954) ‐ "Tosca" (1956) ‐ "Il barbiere di Siviglia" (1946) di Mario Costa ‐ "L'elisir d'amore" (1947) – "Pa‐ gliacci" (1948) ‐ "Amore tragico" (1948) ‐ "Cenerentola" (1949) di F.Cerchio ‐ Don Giovanni (1954) di Furtwangler ‐ Trollflöjten (1975) di Ingmar Bergman ‐ Don Giovanni (1979) di Joseph Losey, Carmen (1984) di Francesco Rosi ‐ "La traviata" (1983) di Franco Zeffirelli – "Otello (1986) di Franco Zeffirelli ‐ Moses und Aaron (1975) di Jean‐Marie Straub ‐ Danièle Huillet (1982) di Hans Jürgen Syberberg ‐ Parsifal (1982) di Hans Jürgen Syberberg. Un discorso a parte meritano i film opera Usa che ri‐ prendono il genere Musical ‐ "Carmen Jones" (1954) di Otto Preminger ‐ "Por‐ gy and Bess" (1959) di Otto Preminger. L'avvento del colore ha prodotto un film come "Scarpette rosse". "The Red Shoes" (1948) Inghilterra, scritto da Emeric Pressburger per la regia di Mi‐ chael Powell e la musica di Brian Ea‐ sdale. Un film in cui per la prima volta in pellicola a colori si mostra un capo‐ lavoro assoluto in campo più pretta‐ mente d'Arte classica di Danza e com‐ posizione. Poi il film di Luchino Vi‐ sconti "Senso" (1954) all'apertura pro‐ pone una scena del "Rigoletto" di Ver‐

37 di, il quartetto "Bella figlia dell'amore" che è l'ottava meraviglia del mondo e il già ricordato "Don Giovanni" (1954) di W.Furtwangler; infine come non ci‐ tare Carmine Gallone Puccini "Tosca" (1956), RAI Roma Opera, e "Gayarre" (Spagna 1959), una sinfonia di colori sulla vita del celebre Tenore spagnolo Julian ,prodotto dalla Sintes, film per la regia di Domingo Viladomat e sce‐ neggiatura scritta da Ignacio Aldecoa, Enrique Fernández Sintes, Jose Luis Madrid e Domingo Viladomat. Esempi dei più significativi sono le produzioni ideate da registi come Ingmar Ber‐ gman per W.A.Mozart "Trollflöjten", "Il Flauto Magico", Svezia (1974); Mo‐ zart ‐ "Don Giovanni" (1979), di Joseph Losey, film diretto da Lorin Maazel ‐ Paris National Opera Orchestra No‐ tre‐Dame du Liban, Parigi ‐ negli am‐ bienti palladiani di Venezia e Vicenza; F.Zeffirelli ("Traviata", 1983; "Otello", 1986) e Francesco Rosi ("Carmen", 1984). Inoltre ci sono dei film in cui l’opera lirica, o l’arte, la fa da protago‐ nista, come negli stessi film di Magni, Monicelli; "Tosca" (2001) di Benoit Jac‐ quot, un film‐opera tedesco. Poi ci so‐ no i film biografici di compositori, cantanti e musicisti come: Luigi Ma‐ gni, “Tosca”, Titanus 1973, con Gigi Proietti, Monica Vitti, Aldo Fabrizi; "Ludwig" (1973), di Luchino Visconti in cui c'è il Wagner specialmente del Lohengrin; "Amadeus", film (Usa 1984) diretto da Miloš Forman su sog‐ getto e sceneggiatura di Peter Shaffer. Un'operazione commerciale molto riuscita, se non altro per l'avvincente storia di due compositori davvero ta‐ lentuosi che svecchiano il Barocco, ma che presenta diverse incongruenze storiche; " Tutte le mattine del mon‐ do" (Francia 1991) storia del composi‐ tore francese Marin Marais di Alain Corneau; il film "Rossini! Rossini!" di M.Monicelli ‐ Istituto luce 1991; "Le‐ zioni di piano ‐The Piano" ‐ (Nuova Zelanda, Australia 1993) soggetto, sce‐ neggiatura e regia di Jane Campion; in ambito europeo dobbiamo registrare grandi produzioni come per il film "Le Roi danse" (2000) del belga Gérard Corbiau. Una considerazione a parte meritano i registi Giorgio Strehler‐ Giorgio Strehler, Jean‐Pierre Ponnelle (Parigi 1932 – Monaco di Baviera, 1988), Jean‐Pierre Ponnelle (Parigi 1932 – Monaco di Baviera, 1988), An‐ drea Anderman.


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Film Opera

Cinema russo d'avanguardia e regia lirica Si tratta di un periodo della storia del ci‐ nema russo (1918‐1930) che si caratteriz‐ za per l'ispirazione al Cinema Futurista italiano da parte dei Maestri dell'arte ci‐ nematografica (muto, perché il sonoro non era ancora stato scoperto), come Sergej Ejzenštejn e Dziga Vertov. Il cine‐ ma d'avanguardia russo voleva diffonde‐ re l'ideale rivoluzionario di libertà, la modernità e il rinnovamento espressi dal Socialismo. Malevič, Mejerchol'd, Majakovskij, Chlebnikov, Tatlin porta‐ vano sulla scena delle proprie arti attori‐ macchina, nuovi linguaggi, lanciando un'estetica anti‐tradizionale fondata sul movimento, la velocità, la ripetizione. Viktor Šklovskij è il grande rinnovatore introducendo la Teoria dello strania‐ mento (che Brecht trasportò nel Teatro), per la quale si aveva un cambiamento improvviso del punto di vista nell'opera d'arte che forniva indiscussa originalità; il primato della forma nelle Arti spettava non al contenuto delle opere, ma alla lo‐ ro perfezione formale: si dava così inizio alla Scuola teorica del formalismo. Ku‐ lešov, Vertov, Eizenštein, Pudovkin, Dovženko, i nuovi cineasti russi, rifiuta‐ rono lo spettacolo tradizionale ‐il Cine‐ ma narrativo americano con tendenze troppo commerciali‐ per far partecipare lo spettatore con invenzioni e cambia‐ menti continui inaugurando il Cinema‐ festa. Nel 1925 il cineasta Dziga Vertov introdusse la teoria del "cine‐occhio" con la quale, per mezzo del montaggio video, riusciva a mostrare tutte le poten‐ zialità del Cinema (metafore, similitudi‐ ni, ossimori), rispetto all'immagini prese in semplice successione temporale. Poi c'è Lev Vladimirovič Kulešov: l'effetto Kulešov usava il montaggio in una ma‐ niera tale che il senso del filmato era for‐ nito dalla modalità in cui la sequenza ve‐ niva montata, mostrando tutte le poten‐ zialità del montaggio narrativo ‐ la men‐ te dello spettatore veniva stimolata dalla diversa sequenza in cui erano montate le singole inquadrature. Pudovkin invece avanzò la sua teoria sullo "specifico fil‐ mico", per la quale l'elemento più im‐ portante dell'arte cinematografica veni‐ va ad essere il montaggio, questa fase di‐ ventava la parte dell'intera lavorazione del film che più di ogni altra era capace

di fornire un senso, persino più della stessa ripresa. Fu Ejzenštejn il regista che esasperò al massimo le tecniche di mon‐ taggio, formulando la teoria delle attra‐ zioni (1923) per il Teatro e che adattò al Cinema "Montaggio delle attrazioni". Era un procedimento che aveva il com‐ pito di scuotere lo spettatore con delle violenze visive, per suscitare emozioni e associazioni di idee diverse dal racconto semplice della storia. Spesso le associa‐ zioni che potevano essere disordinate ma di contenuto violento, secondo la teoria degli stimoli, in cui lo spettatore è stimolato nell'immaginazione lavorando con l'intelletto, completando le inqua‐ drature parziali. Ejzenštein lavorava an‐ che con le sequenze mostrandole al con‐ trario rispetto alla linearità temporale. Il cine‐pugno era una tecnica usata per shockare lo spettatore, colpendolo con le immagini ravvicinate, improvvise, con azioni rapidissime. Nel 1929 escogitò il montaggio intellettuale, associando idee astratte. Con la "drammaturgia della for‐ ma" il film viene ad essere costruito sulla forma contrastando il contenuto ufficia‐ le. Il Manifesto dell'asincronismo (1928) di Ejzenstein e Pudovkin tendeva a il commento sonoro dalle immagini. "La Corazzata Potemkin", nella scena della scalinata di Odessa, dà un idea di queste concezioni e tecniche cinematografiche. Stalin, al potere dal 1929, arrestò le spe‐ rimentazioni dell'Avanguardia ristabi‐ lendo "Il realismo socialista" per la cele‐ brazione del regime. Una vena di novità fu assicurata solo da Boris Barnet ("Okraina", 1933) e Ejzenstein ("Ivan il Terribile", 1944, e "La congiura dei boiar‐ di"). Ejzenstein escogitò il "montaggio dentro l'inquadratura", l'uso della pro‐ fondità di campo, in controcampo, per esaltare al massimo i contrasti dentro una singola inquadratura (es. l'ombra dello Zar che oscura Stalin), e l'uso dei

colori come fosse "musica per gli occhi" per simboleggiare le passioni del crudele Ivan raffrontato a Stalin. Se in Occidente è Visconti l'uomo chiave della Regia liri‐ ca, nell'Est è Pokrovsky. Boris Alexan‐ drovich Pokrovsky (Mosca 1912 – 2009) ‐ regista russo, direttore di palcoscenico del Teatro Bolshoi tra il 1943 e il 1982‐ en‐ tra in scena negli anni '30 con la stretta chiusura internazionale a seguito del To‐ talitarismo e dura fino alla caduta del muro di Berlino nel 1989, il termine della Guerra fredda. Il basso russo Fedor Sal‐ japin, e i registi Stanislavskij e Vsevolod Mejerchol'd sono i suoi Maestri. Figlio di un professore di Lingua e Letteratura Russa e nipote di un Sacerdote ortodos‐ so, dopo i primi studi in Chimica si iscri‐ ve alla facoltà di Regia dell'Istituto Stata‐ le Teatrale. Inizia la sua carriera lirica mettendo in scena (1937) una Carmen al Teatro lirico di Gorkij con un incredibile successo, dovuto alla freschezza delle sue idee e alla meticolosità nel dirigere gli artisti in scena. Diventerà il domina‐ tore indiscusso del Bolschoi per decenni. Il suo metodo di messa in scena è quello di capire le intenzioni del compositore e trasmetterle a tutto il cast impegnato nell'allestimento operistico. Vive per l'al‐ lestimento inteso non soltanto come qualcosa di statico, ma come movimen‐ to degli interpreti. Crea e forma due ge‐ nerazioni storiche di Artisti lirici (G.Vi‐ snevskaya,V.Necipailo,V.Atlantov,E.Ne‐ sterenko) portando in scena anche com‐ positori contemporanei avversi al regime (Prokofief, Sostakovic, Scedrin, Snitke). Negli anni '70 si rese l'ideatore del Teatro da camera spostando i riflettori dai gros‐ si Teatri al centro di Mosca nella perife‐ ria, in sale da 200 posti più intime. Se‐ condo un'espressione di Dancenko, la regia lirica sarebbe stata ancora un "Con‐ certo in costume" se non ci fossero stati questi registi.


Eva

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Quando Bridget Jones compie cinquant’anni

La single più imbranata e famosa degli ultimi Vent’anni, ingrassava e guardava film sdol‐ cinati, indecisa se scegliere fra il fascinoso Hugh Grant o il premuroso Colin Firth; ora la ritroviamo 51enne di nuovo sola (rimasta vedova con due figli su cui vegliare),e con un equilibrio psichico pericolosamente legato ai messaggini di un distratto amante, che po‐ trebbe quasi essere suo figlio. Il successo dei primi due romanzi si fondava sull’ironico mi‐ scuglio di sentimenti di una trentenne attratta dalla vita indipendente e, al tempo stesso, incapace di rinunciare al sogno di convolare a nozze con un grande amore. Il terzo libro della saga è appena uscito in libreria, ma con quale promessa? Quella profetica di aiutare le cinquantenni a superare con leggerezza una delle fasi più difficili della propria vita, la mezz’età, oppure quella di aggravare, attraverso il racconto di una realtà a volte esaspera‐ ta, l’amarezza di chi sente di perdere la giovinezza? Ogni mese Piazza del Grano offre questo spazio a tutte le donne. Manda la tue mail a “parliamone” : pp.zzadelgranodonne@libero.it


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Parliamone... …cosa si guadagna e cosa si perde a cinquant’anni? DI CATIA MARANI

La scrittrice e filosofa francese Simone de Beauvoir, esamina in maniera lucida, de‐ dicando un intero capitolo del suo libro, “Il secondo sesso”, a ogni aspetto psico‐ logico della difficile crisi che colpisce le donne quando raggiungono la mezz’età. Evidenzia, quanto la perdita della giovi‐ nezza è più destabilizzante per le donne che per gli uomini, dato che sono impri‐ gionate nella funzione seduttiva di “fem‐ mina” e in quella di matrice del genere umano. Il passaggio da DONNA, a quel‐ lo di donna matura, è di una brutalità pe‐ ricolosa per ognuna di noi: bella, brutta, sposata, single, lavoratrice, casalinga o madre. E’ una sorta di conto alla rovescia, che anch’io, ahimè, dovrò cominciare a fare. Non vi è mai capitato di desiderare di fermare il tempo in un preciso mo‐ mento della vostra vita? Se guardo indie‐ tro penso che il meglio se non l’ho già vissuto lo sto vivendo ora ed il futuro non posso fare a meno di immaginarlo meno interessante. E allora vorrei dirgli ferma‐ ti, fermati ora! E’ di qualche mese fa la notizia che uno studio, presentato da un gruppo di psicoterapeuti, filosofi e medi‐ ci inglesi, ha accertato che l’età di mezzo si è dilatata di cinque anni. Ora entriamo nella mezz’età a 55 e non più a cinquan‐ t’anni. Ma cosa si guadagna e cosa si per‐ de quando si raggiunge la cinquantina? Doris Day raggirò la domanda rispon‐ dendo sorridente che avrebbe fatto in modo che quel periodo della sua vita re‐ stasse, il più a lungo possibile “la gioven‐ tù senza remore e la vecchiaia senza de‐ cadimento”. La saggezza dell’attrice an‐ drebbe presa a modello da ognuna di noi, in bilico fra l’entusiasmo di speri‐ mentare la vita e la paura di “stagionare”. Il suo può essere un invito a considerare nuove opportunità in quanto a cin‐ quant’anni la morsa delle responsabilità familiari si allenta e, lo specchio rimanda ancora un aspetto sufficientemente gra‐ devole. Per valorizzarci può bastare la magia di indossare un abito alla moda o un nuovo taglio di capelli. Un aiutino può arrivare anche dai cosmetici oppure dal ritocchino del chirurgo estetico, che non è più solo un’esigenza delle star Hol‐

lywoodiane. A segnare il passaggio fra la giovinezza e ‘età matura non c’è solo l’in‐ sorgere di qualche ruga in più, ma anche il crollo degli ormoni, la perdita irrime‐ diabile degli estrogeni. Orrore…si entra in me…me…menopausa, aiuto!!! Non riesco neppure a dirlo!!! Come ci si può rassegnare agli sbalzi d’umore e tutto il resto? Come si può superare un periodo così tumultuoso quasi quanto una ma‐ lattia? Sbagliato pensare che a soffrirne di più sia il tipo di donna narcisista. Ella nel corso degli anni ha cercato di dare spazio ai suoi desideri ed alle sue pulsioni e possiede un grado di autostima tale, che le fa credere di essere in grado di riu‐ scire a tenere lontani certi inconvenienti, molto più a lungo delle altre. Al contra‐ rio, sarà proprio colei che si è spesso di‐ menticata di sé stessa e sacrificata sem‐ pre per la famiglia, quella destinata a sof‐ frirne di più: i figli crescono e si allonta‐ nano lasciando vuoto quel nido che ave‐ va costruito per loro con tanta dedizione; il marito, se non se ne è già andato pure lui con un’altra più giovane, tende a trat‐ tarla al pari di un elettrodomestico. Allo‐ ra sente di essere stata ingannata dalla dualità del ruolo madre‐moglie, cui ave‐ va riposto ogni aspettativa, cominciando ad esaminare le possibilità che non ha sfruttato. Ripensa alle occasioni perdute

e si costruisce dei bei romanzi retrospet‐ tivi col rischio di cadere in depressione o di lacerarsi nel rancore verso il marito, ri‐ versando su di lui la colpa per ogni torto subito. Dunque, cosa si guadagna a com‐ piere cinquant’anni? Maurice Chevalier, (che non era certo un filosofo, uno psico‐ logo o un dottore, ma un famoso cantan‐ te francese di musical degli anni 30), di‐ ceva che invecchiare non è così terribile se consideriamo l’alternativa. Allora, gra‐ te per essere ancora in vita, non lasciamo che l’acqua ci bagni e il vento ci asciughi e impariamo a vivere: curarsi di più fuori, per piacersi di più dentro, ma anche (non ci sarebbe nulla di male) per piacere an‐ cora agli uomini, perché resta giovane chi sa amare; cercare la solidarietà di amiche o conoscenti; puntare sul lavoro (per coloro che ce l’hanno), o cercare un lavoro (per quelle che non ce l’hanno). Dipingere, scrivere, fare piccoli lavori creativi o frequentare un’associazione di volontariato possono essere fonte di pic‐ cole soddisfazioni personali. Tirare fuori tutta la grinta che si possiede per tornare a sorridere, al grido di “TOWANDAA!”, come Kathy Bates, che interpretava una triste signora di mezz’età in “Pomodori verdi fritti” decisa a riprendersi i suoi spazi, può servire a salvare quel che resta della vita dall’avvilimento.


Eva

Le grandi donne della storia La Contessa di Castiglione Nome e Cognome Virginia Elisabetta Luisa Carlotta An‐ tonietta Teresa Maria Oldoini Verasis Asinari Contessa di Castiglione. Per gli amici “Nicchia”, per le malelingue più intraprendenti “Vulva d’Oro”. Alleanza Irrequieta, bella ed ambiziosa, dopo aver sposato il Conte Giorgio Verasis Asinari, fu introdotta alla Corte di Sa‐ voia, dove intrecciò numerose relazio‐ ni amorose. Considerata la sua dispo‐ nibilità e le sue doti di fascino, il cugi‐ no Cavour, nel 1885 la inviò alla Corte Francese di Napoleone III per stringe‐ re un’alleanza Franco‐Piemontese. Patriottismo Riuscite, cara cugina – così benedisse l’operazione Napoleone III, il cugino Cavour – usate i mezzi che vi pare…ma riuscite, siate patriottica. Carriera Proseguì la sua carriera di “statua di carne”, così la definì la principessa Metternich, collezionando amanti – da Vittorio Emanuele II, al banchiere Ro‐ thschild a Costantino Nigro e molti al‐ tri ancora – rovinando economica‐ mente il marito, che non smise mai di amarla.

Numeri Confessò di avere avuto nella sua vita 43 amanti, 12 dei quali avuti contem‐ poraneamente e sempre all’insaputa l’uno dell’altro. Diario In un diario, si divertiva a tradurre le emozioni con un personale alfabeto amoroso ( es: fifty fifty, significava che si era concessa un po’ per passione un po’ per convenienza). Vestaglia Si ritirò ed invecchiò in solitudine nella villa di La Spezia, dove non esi‐ stevano specchi, ma ingombra di fo‐ to a testimonianza della sua bellezza passata. Conservava in una teca di cristallo la vestaglia verde, con la quale diceva di aver trascorso la not‐ te con Napoleone III e, con la quale avrebbe voluto essere sepolta. Vo‐ lontà che non fu rispettata dai suoi eredi. La colpa Possedeva occhi di un intenso verde azzurro. Aveva piedi bellissimi e per sedurre muoveva le mani affusolate. La Venere del Risorgimento ebbe un’unica colpa: sopravvivere alla pro‐ pria bellezza.

41 In Libreria Consigliati e Sconsigliati dalle donne Marigold Hotel di Deborah Moggach ‐ Eliot Lucia, una lettrice di Piazza del Gra‐ no, ha finito proprio ora di leggere questo delizioso libro, che racconta con garbo ed ironia delle occasioni inaspettate della vita, compreso l’amore che si può incontrare a qua‐ lunque età. Si<<<< Il mio collo mi fa impazzire Tormenti e beatitudini dell’esse‐ re donna di Nora Ephron – Feltrinelli Ammettiamolo, nessuna vorrebbe invecchiare, pertanto l’autrice sug‐ gerisce piccoli accorgimenti che fa‐ cilitino il passaggio fra la gionivezza e l’età di mezzo, quando per nascon‐ dere le prime rughe si cominciano ad indossare i colli alti. Invecchiare, purtroppo, ma con equilibrio, since‐ rità e sarcasmo. Corrrooo a comprar‐ lo!!! Il libro? NOOO, il collo alto!!! NI<< Donne che corrono coi lupi di Clarissa PinKola Estès–Frassinelli Attraverso l’analisi di storie e fiabe famosissime, mostra l’importanza di mantenere la nostra natura di “don‐ ne selvagge”. L’autrice, in modo più o meno palese, punta l’attenzione su tutte le volte che sacrifichiamo la nostra libertà di scegliere quello che è meglio per noi per fare “la cosa giu‐ sta”. Si<<<< Maschiology Rosario Alfano – Kowalski Descrive 12 profili maschili da stu‐ diare per capire quale è più compati‐ bile con il proprio carattere o le pro‐ prie esigenze, nel caso in cui si do‐ vesse scegliere un compagno. Non è per sfiducia verso l’altro sesso, ma trovo molto singolare che un altro uomo sappia esercitare un’autocriti‐ ca così accurata. No Segnalateci le letture che vi hanno coinvolto di più, oppure quelle che vi hanno deluso scrivendo al nostro indi‐ rizzo mail e noi le citeremo su “Consi‐ gliati e sconsigliati dalle donne”.


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Eva

Candele (di Konstantinos Kavafis) Stanno i giorni futuri innanzi a noi Come una fila di candele accese Dorate, calde e vivide. Restano indietro i giorni del pasato, Penosa riga di candele spente: Le più vicine danno fumo ancora

Benessere al Naturale Le Castagne Per esfoliare viso e corpo Per una pelle liscia e levigata sfutta l’azione di abrasione meccanica della farina di castagne con un automassag‐ gio. Per il viso mescolare 5 cuchiaini con altrettanti di olio di oliva, che idrata in profondità. Per il corpo, a seconda delle zone che vuoi trattare e a seconda della della quantità che ti serve, dosa sempre farina e olio in parti uguali. Amalgama e con lo scrub ottenuto, dopo aver inumi‐ dito la pelle con acqua tiepida, pratica una leggera frizione su tutto il corpo e il viso con il composto ottenuto, poi risciacqua accuratamente. Per idratare Far bollire una dozzina di castagne e dopo aver frullato la polpa insieme a tre cucchiaini di miele o latte e uno spicchio di arancia senza i semi, spal‐ marla sul viso e lasciarla in posa per venti minuti, poi sciacquare abbon‐ dantemente. Per pelli grasse Per ottenere un effetto astringente e sebo‐regolatore, segui lo stesso pro‐ cedimento della maschera idratatan‐ te, ma usa una ventina di castagne e uno spicchio di arancia in più. Per illuminare Stessa ricetta della maschera idratan‐ te, ma al posto del latte aggiungete tre cucchiaini di yogurt bianco, e se avete la pelle tendente al secco, togliete anche lo spicchio di arancia.

Fredde, disfatte e storte. Non le voglio vedere: m’accora il loro aspetto, la memoria m’accora del lor antico lume. E guardo avanti le candele accese. Ma non voglio vedere, ch’io non scorga in un brivido, Come s’allunga presto la tenebrosa riga, Come crescono presto le mie candele spente.

Mode & Modi L’eleganza femminile a cinquant’anni Partendo dal presupposto che l’eleganza è una dote innata, ogni donna può mi‐ gliorarsi tenendo sempre a mente che la moda è mutevole e può incantare, ma non va seguita acriticamente. ‐ Capelli: sono da evitare le tinte effetto parrucca. Se avete ancora bei capelli cor‐ posi via libera al lungo e alle code di ca‐ vallo. ‐ Abbigliamento: Non è più il caso di esagerare con le scollature né di mostra‐ re più epidermide del solito, gli abiti non devono essere né troppo stretti né trop‐ po larghi; I colori vanno scelti anche in base alla propria corporatura, ma il nero, cammello, kaki e blu vanno bene per tutte; ‐ Trucco: Il trucco deve essere mai trop‐ po marcato, ma non deve mai mancare, con l’età la pelle è più pallida e le guance cominciano a svuotarsi. Addolcite i li‐ neamenti con un fard color rosa pesca applicato sulle guance mentre simulate un sorriso, per individuare la giusta po‐ sizione. ‐ Chirurgo estetico: Se si ricorre alla chi‐ rurgia, mirate alla naturalezza. ‐ Accessori: Gli accessori ed i gioielli un po’ troppo vistosi abbinateli soltanto con tubini semplici o con abiti neri; le di‐ mensioni delle borse debbono essere proporzionate alla propria altezza. ‐ Sorriso: Non c’è vestito o gioiello in‐ dossato che può ringiovanire quanto un bel sorriso.

La Donna Sagittario 21 novembre ‐ 20 dicembre La donna del sagittario è una donna gio‐ viale. Risulta molto simpatica non può fare a meno di circondarsi della compa‐ gnia degli amici e dell’amore delle perso‐ ne più care. La sua leggerezza nell’af‐ frontare la vita la porta spesso a soffrire di ingenuità. Malgrado tenga molto con‐ to del giudizio degli altri, è fortissimo in lei il senso di libertà. Per questo è consi‐ derata la più infedele dello zodiaco. Non viene infatti menzionata come esempio di moglie e madre perfetta. Soffre la ne‐ cessità di trovare momenti solo per sé. Ama viaggiare, anche con la fantasia. Sa essere amica leale e divertente. Fisica‐ mente è in genere piuttosto alta con la tendenza ad accumulare peso perchè è molto golosa. Fra i suoi colori preferiti spicca il rosso porpora. Non è particolar‐ mente interessata al look, dato che ritie‐ ne di essere più seducente a livello intel‐ lettuale che fisico. Donne famose del segno del Sagittario: Maria Callas – 2 dicembre 1923 – can‐ tante lirica Susanna Tamaro – 12 dicembre 1957 – scrittrice italiana Fiona May – saltatrice di salto in lungo – italiana Senza pretesa scientifica abbiamo rias‐ sunto le caratteristiche della donna sagit‐ tario, perché è sempre divertente con‐ trapporre il teorico all’empirico, il sogno alla realtà.


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Anima

l’Anima non esiste (di Anonimo)

Animula vagula blandula… piccola anima smarrita e soave compagna e ospite del corpo ora t’appresti a scendere in luo‐ ghi incolori, ardui e spogli ove non avrai più gli svaghi consueti . un istante ancora guardiamo insieme le rive fami‐ liari le cose che certamente non ve‐ dremo mai più… cerchiamo d’entrare nella mor‐ te a occhi aperti… (Elio Adriano)

Premessa Da tempo immemorabile si sostiene una duplice natura del‐ l'animale uomo, composto di due differenti elementi: l'uno materiale e tangibile, il corpo fisico; l'altro immateriale ed in‐ visibile, l'anima o spirito. Alla base, più o meno celata ma pur sempre ‐alla fine‐ trasparente, di tutte le teorie che, in forma di fede o di pretesa argomentazione scientifica, hanno soste‐ nuto la teoria binaria della composizione dell'uomo, vi è un’unica sostanziale emozione umana generata dalla paura della morte. Di fronte alla evidenza della corruttibilità del cor‐ po fisico si è da sempre cercata la via di fuga dell'esistenza di una seconda componente dell'uomo non corruttibile e capa‐ ce, quindi, di sopravvivere alla morte fisica del corpo, garan‐ tendo all'uomo la speranza di una post‐esistenza, cioè della immortalità, almeno spirituale. A parte i più onesti approcci fideistici che hanno risolto alla base il problema della veridi‐ cità della teoria dell'esistenza dell'anima, assumendola come postulato e più semplicemente impegnandosi a confortare l'atto di fede con argomentazioni preordinate al loro risultato confermativo, diversamente i pretesi approcci razionali alla teoria in questione hanno tentato di dare supporto scientifico all'esistenza dell'anima facendo ricorso agli strumenti e ai processi del ragionamento e della logica. Nessuna delle peral‐ tro numerose elaborazioni così dette razionali è riuscita, tut‐ tavia, a fornire la prova scientifica per eccellenza del proprio assunto, prova consistente, come è noto, nella "esibizione"

concreta dell'oggetto della ricerca, cioè dell'anima, risolven‐ dosi conseguentemente tutte in sostanziali dichiarazioni di fede, ancorché enunciate al termine di percorsi argomentativi solo formalmente logici e razionali. E invero, mentre l'ap‐ proccio fideistico, muovendo da un postulato assunto espli‐ citamente senza necessità di prova, laddove si dedica ad espli‐ carlo si propone e persegue il fine di fornire argomenti volu‐ tamente confermativi del proprio assunto, l'approccio scien‐ tifico muove dal dubbio laico della veridicità della teoria e ne cerca quindi non solo conferme, ma anche eventuali negazio‐ ni probatorie. Laddove la ricerca scientifica non approda al‐ l'auspicato risultato positivo della prova confermativa del pro‐ prio assunto, non è affatto vero che la stessa abbia mancato il proprio risultato; al contrario ha acquisito esattamente la pro‐ va, negativa e contraria, quella della non veridicità dell'assun‐ to teorico. In altre parole, in termini scientifici e razionali, una teoria non provata, priva cioè della prova confermativa del proprio assunto, è una teoria errata o comunque infondata. Quanto, dunque, alla teoria dell'esistenza dell'anima può con‐ clusivamente affermarsi che, se è vero che ciò che non esiste non può essere provato, è parimenti vero che, almeno sino al‐ la nota "prova contraria", ciò che non si è potuto o che comun‐ que non si è in grado di provare, scientificamente non esiste. Razionalmente, logicamente e scientificamente, dunque, l'anima non esiste; ogni diversa affermazione è, comunque ve‐ stita e rappresentata, null'altro che un atto di fede.


44 I falsi misteri e le loro ragioni All'origine di ogni credenza o fede c'è un mistero che riguarda un fatto o una si‐ tuazione che la mente umana, relativa‐ mente al suo grado di conoscenza, non è in grado di comprendere e spiegare con compiutezza. Il ragionamento inteso co‐ me percorso di ricerca scientifica ha co‐ me propria missione quella di indagare i così detti misteri per trovarne la loro spiegazione logica. In tale percorso di ri‐ cerca il ragionamento, muovendo dal‐ l'esame dei dati oggettivi, libero da con‐ dizionamenti e postulati preconcetti, cerca di trovare il nesso logico e conse‐ quenziale che lega tra di loro i fatti og‐ gettivi, in tal modo risolvendo, o comun‐ que tentando di risolvere, allo stato delle sue conoscenze e possibilità anche tecni‐ che, il preteso mistero. Due ordini di li‐ miti o condizionamenti possono, tutta‐ via, ostacolare e impedire il corretto svol‐ gimento del percorso della ricerca e del ragionamento scientifico. Si è già osser‐ vato che laddove l'indagine scientifica muova da postulati predeterminati, cer‐ cando di dimostrarne con la logica for‐ male del ragionamento la loro fondatez‐ za, la stessa si risolve, in realtà, in una af‐ fermazione di fede, solo apparentemen‐ te fondata su basi razionali. Con maggio‐ re gravità, frequentemente accade inve‐ ce che il ragionamento (la logica della ri‐ cerca scientifica) venga strumentalizzato per dimostrare “a contrario”, con la veri‐ fica dei propri limiti sostanzialmente umani, l'esistenza dell' “indimostrabile”, cioè di quel “mistero” origine di tutte le credenze e fedi. In disparte dalle affer‐ mazioni del mistero come postulato del‐ la fede, le “indimostrazioni” della ricerca scientifica e razionale possono riferirsi a due categorie: alla mancanza, insuffi‐ cienza, inadeguatezza dei dati e/o degli strumenti tecnici e scientifici a disposi‐ zione del ricercatore, ed è questo un me‐ ro problema tecnico; molto più spesso alla incapacità, ed ancor più volte al rifiu‐ to, di prendere atto e coscienza della ba‐ nale ovvietà dell' “evidente”. Si realizza in tal caso una fuga, in sostanza, della sem‐ plicità della realtà verso la ricerca, o più correttamente verso la speranza, di una diversa realtà invisibile e, quindi, in veri‐ tà immaginata, auspicata, cioè fideistica‐ mente creduta. Ed è proprio dal rifiuto della presa d’atto della semplicità del‐ l'evidenza che nasce il così detto mistero della vita e della morte, con la fideistica ricerca dell'esistenza di una diversa, su‐ periore ragione incomprensibile alla lo‐

Anima gica lineare del ragionamento scientifico. In verità, come detto, è dalla paura della morte fisica che si genera il rifiuto di ac‐ cettazione della evidenza di un evento naturale, semplice e chiaro come la stessa vita, che da poi origine e pretesto alla ri‐ cerca di quella diversa ragione che è, nella sostanza, già postulata nella speranza della immortalità. Da qui il falso mistero, che si assume per postulato inintelleggi‐ bile alla logica del ragionamento umano, della esistenza di una seconda compo‐ nente “anima” che tuttavia, come si è già detto, scientificamente non esiste. L'animale uomo, mammifero ver‐ tebrato Salvo talune credenze che, in passato ma anche attualmente, affermano l'esistenza di un anima anche in animali di genere così detto inferiore e persino nei vegetali e nei minerali, fondamentalmente l'ele‐ mento‐componente immateriale chia‐ mato “anima” è stato riservato al solo ani‐ male di così detto genere superiore: l'ani‐ male uomo mammifero vertebrato. A parte che ad assumere tale affermazione non casualmente è lo stesso uomo, la convinzione della peculiarità del possesso dell'anima veniva e viene in genere moti‐ vata, o giustificata, dal riconoscimento al‐ l'animale uomo di specificità attitudinali esclusive rispetto agli altri organismi vi‐ venti, che hanno indotto a considerarlo (considerarsi) “superiore”, dotato quindi di “un di più” rispetto agli altri organismi viventi, cioè del/di un'anima. La scienza e la conoscenza hanno da tempo dimo‐ strato l'assoluta infondatezza dell'assunto della superiorità dell'animale uomo, met‐ tendone in discussione la stessa “diversi‐ tà”. Superfluo trattare del profilo fisico e corporeo nel quale l'animale uomo certa‐ mente non si differenzia, e tanto meno eccelle, rispetto alle altre innumerevoli specie animali viventi. Resta l'aspetto im‐ materiale, o comunque non immediata‐ mente tangibile e corporeo, della così detta “intelligenza” riassuntivamente rappresentando in tale denominazione aspetti di raziocinio e di sensibilità anche emotiva. Capacità‐attitudini di comuni‐ cazione, di organizzazione ed in genere di relazioni dialettiche con il contesto circo‐ stante non sono prerogativa esclusiva né eccellente dell'animale uomo. Anche la capacità di modificarsi e/o di modificare almeno in parte l'ambiente circostante è patrimonio condiviso da moltissime spe‐ cie animali. La stessa capacità di sognare, e quindi di astrarsi dalla realtà, è accertato che appartiene anche ad altre specie ani‐

mali così dette inferiori. Neppure la più “elevata” capacità di riflettere su se stesso (sulla propria vita, sui propri sogni e desi‐ deri) sembra appartenere solamente al‐ l'animale uomo, come provano le inclina‐ zioni al suicidio o sicuramente quanto meno alla depressione condivise da molte specie animali (e forse anche vegetali). Infine la straordinaria capacità di evolu‐ zione fisica e mentale che ha somma‐ mente caratterizzato la storia dell'anima‐ le uomo ha certamente interessato, an‐ che se forse in misura meno evidente, quasi tutte le specie vivente animali e ve‐ getali. Nulla di peculiare distingue dun‐ que l'animale uomo dai suoi simili viven‐ ti, mentre la ricerca scientifica ha chiara‐ mente rivelato la meccanica fisico‐chimi‐ ca del processo intellettivo in tutte le sue manifestazioni salienti, dalla logica al‐ l'emozione. Ciò prova che neppure nel così detto animale superiore “uomo” esi‐ ste quell'elemento immateriale ulteriore e differenziatore chiamato “anima”. L'evoluzione esclude la remini‐ scenza Concordi tutte le credenze sostenitrici dell'esistenza dell'anima in ordine alla sua sopravvivenza (post‐esistenza) dopo la morte del corpo fisico, talune teorie pseudoscientifiche, pretendendo di in‐ dividuare un fondamento razionale alla sopravvivenza post mortem dell'anima, ne hanno affermato la pre‐esistennza al corpo materiale considerato, quindi, co‐ me un involucro temporaneo. Si è affer‐ mata l'essenza di una anima che esiste da sempre e per sempre e che, di volta in volta, si incarna in un corpo fisico al quale trasferisce, seppure con un per‐ corso né lineare né automatico e sconta‐ to, il patrimonio delle sue conoscenze e con il quale, in qualche modo, com‐ batte per tutta la vita di quest'ultimo.


Anima

Il dato scientificamente accertato, in‐ controvertibile ed incontroverso, del‐ l'evoluzione biologica dell'animale uo‐ mo dalla sua prima comparsa documen‐ tata contraddice, per tabulas, ogni teoria di reincarnazione e quindi di remine‐ scenza, ed al contrario reca un risolutivo supporto razionale e di prova scientifica all'inesistenza dell'anima (di una anima) comunque pre‐esistente o post‐esisten‐ te alla nascita ed alla morte del corpo fi‐ sico. E' accertato (esibizione della prova scientifica) che l'essere (animale) uomo compare sulla terra in “forma” di vero e proprio animale primitivo, assoluta‐ mente non solo privo di conoscenze, ma forse persino di raziocinio, tutt'al più do‐ tato, al pari degli altri animali coevi, di un primordiale istinto di sopravvivenza. Da quella data (non importa il lasso di tempo “relativo” trascorso, quel che rile‐ va è l'accertamento scientifico della con‐ tinuità della discendenza genetica da quel primate all'uomo moderno) l'evo‐ luzione, sia fisica che cerebrale, dell'uo‐ mo è stata indiscutibilmente immensa, tanto da rendere del tutto incomparabi‐ le quel progenitore, ed i tanti suoi di‐ scendenti più remoti, all'uomo razioci‐ nante dell'era storica. E' tuttavia accer‐ tato che non si è verificata una mutazio‐ ne genetica (un saltus di discontinuità), ma si è certamente trattato di una lenta, ma continua e progressiva evoluzione biologica della stessa species di animale. Questo dato scientifico, come detto, po‐ ne nel nulla non solo tutte le credenze, ma anche tutte le teorie così dette scien‐ tifiche sostenitrici (assertrici) dell'esi‐ stenza (sia post che pre) dell'anima. Del tutto incredibili appaiono certamente le fedi e le teorie di una post‐esistenza di anime di diversa natura (qualità), in par‐ te più prossima all'animale in parte più

simile a quello che oggi chiamiamo uo‐ mo moderno, tutte mescolate tra di loro in un mondo diverso, quasi che il loro creatore abbia proceduto per esperi‐ menti evolutivi, mettendo solo progres‐ sivamente a punto l'essere creato a sua immagine e somiglianza, a dispetto del‐ l'assunto della sua perfezione. Assai me‐ no credibili, e più precisamente sul pia‐ no logico e razionale, appaiono poi le teorie pseudoscientifiche relative alla pre‐esistenza dell'anima e quindi alla sua funzione‐caratteristica reminiscen‐ te. Ipotizzare infatti un'anima remini‐ scente che dall'uomo‐animale primitivo si reincarna successivamente nell'uomo storico, via via trasferendo al suo ospite fisico la memoria di nozioni sempre di‐ verse e maggiori, significa ammettere l'evoluzione anche della stessa anima e ciò in inconciliabile contrasto con la det‐ ta teoria della pre‐esistenza di una ani‐ ma perfetta. Cade a questo punto ogni necessità e ogni logica della affermazio‐ ne di una distinzione e diversità tra un corpo fisico ed una anima che si evolve allo stesso modo e tempo del corpo ospi‐ tante, ammettendo così di esistere solo in ragione dell'esistenza di quest'ultimo, né pre né post esistente, ma indissolu‐ bilmente unita nella nascita e nella mor‐ te del corpo fisico. La documentata evo‐ luzione sia fisica che mentale dell'ani‐ male uomo è la prova, scientificamente provata, della inesistenza dell'anima, di un qualcosa cioè di diverso, immateriale, distinto e separato in vita e tanto più in morte dal suo involucro corporale natu‐ ralmente corruttibile e mortale. La conoscenza come unica fonte della intelligenza e della inventiva Nella irripetibile diversità dei cristalli di neve, tutti gli uomini nascono perfetta‐ mente uguali, potenzialmente aperti, dunque, ai medesimi percorsi e risultati di sviluppo e di crescita. La mente del‐ l'uomo “nuovo” è una pagina bianca, immacolata, tutt'al più appena tracciata da segni di eredità genetiche suscettivi, tuttavia, di radicali reiscrizioni, né più né meno di un supporto magnetico ver‐ gine già “formattato” ma affatto rimani‐ polabile prima della incisione dei nuovi dati della conoscenza. Diversamente però dal luogo comune, la mente uma‐ na non è un “vaso” vuoto da riempire; più esattamente essa è invece assimila‐ bile ad un “buco nero” che calamita ed attrae a sé, con forza irresistibile, tutto l'universo dei fatti, dati, nozioni e cono‐ scenze con le quali viene via via in con‐

45 tatto. Come nella fisica dei “buchi neri”, la capacità di attrazione (acquisizione) delle conoscenze da parte della mente umana aumenta in misura geometrica con l'aumentare della sua “massa”, cioè del suo patrimonio di esperienze e di conoscenze. Il processo di acquisizione delle conoscenze da parte della mente umana è, di fatto, incontrollabile ed in‐ determinabile nelle sue infinite origini ed occasioni che muovono dagli innu‐ merevoli “terminali sensoriali” del pro‐ prio corpo. La mente apprende da tutti i sensi del proprio corpo utilizzandolo e dominandolo anche indipendentemen‐ te dalla volontà e/o partecipazione co‐ sciente e consapevole di quest’ultimo. La mente apprende anche i “metodi” che moltiplicano e razionalizzano le proprie capacità di apprendimento e quindi di sviluppo, a tal fine istintiva‐ mente stabilendo rapporti dialettici al‐ l'interno delle proprie risorse, ma anche e soprattutto con il mondo esterno. L'ambiente, il contesto nel quale e con il quale la mente umana si rapporta e dialetticamente reagisce costituisce il reale motivo delle diversità che il tempo evidenzia tra uomini nati tutti uguali. Esclusa l'esistenza di una mente remi‐ niscente, ne consegue che anche l'intui‐ to, la sensibilità, la fantasia, la così detta genialità in genere, nascono tutte dal processo di apprendimento seguito dal‐ la mente umana, nata vergine. Se si po‐ ne una persona davanti ad un foglio bianco e le si chiede di comporre un di‐ segno, cioè di realizzare una opera di li‐ bera fantasia ed immaginazione, questa ricorrerà automaticamente, quasi istin‐ tivamente, al proprio patrimonio acqui‐ sito di conoscenze ed esperienze in ma‐ teria grafica, pittorica, artistica, o co‐ munque in genere al proprio vissuto, con ciò confermando che anche la fan‐ tasia, l'immaginazione, la creazione so‐ no frutto della conoscenza. Non esiste né una intelligenza né una genialità astratta frutto di dono divino o di remi‐ niscenza; esiste solo la conoscenza at‐ tuale, frutto della accumulazione del vissuto, comunque soggetta ad una cre‐ scita continua, ad uno sviluppo poten‐ zialmente illimitato almeno sino a che il “buco nero” della mente non implo‐ derà naturalmente con la morte fisica del proprio corpo. Ciò dimostra e con‐ ferma che non esiste una anima sapien‐ te ed intelligente né pre‐esistete né post‐esistente alla nascita ed alla morte del corpo fisico.


46 Il mistero svelato della paura della morte Spazio e tempo sono dimensioni asso‐ lute, di definizione impossibile, che l'uomo ha disperatamente cercato di circoscrivere all'interno dei limiti della propria capacità di conoscenza e di comprensione. Consapevole della pro‐ pria incapacità di abbracciare e com‐ prendere tali dimensioni assolute, l'uomo ha quindi stabilito dei limiti relativi, ponendo oltre questi ultimi il mistero dello “sconosciuto”, o più cor‐ rettamente dell'incompreso ed in‐ comprensibile. Vittima della propria presunzione di dominio dell'universo e di omniscienza, incapace quindi di vivere e convivere con i propri limiti assoluti e relativi, l'uomo ha interpre‐ tato il “buio” del suo soggettivo “in‐ comprensibile” in termini di trascen‐ denza e lo ha quindi tradotto nel mi‐ stero in fede. All'incomprensibile è stata così data una "ragione", ancorché assunta per postulato indimostrato e indimostrabile, come l'incomprensio‐ ne alla quale si riferisce. All'infinito dello spazio è stata data la ragione del‐ l'esistenza di una volontà superiore, il divino della creazione; all'infinito del tempo è stata data la ragione dell'im‐ mortalità (almeno) dell'anima. In re‐ altà, tuttavia, non è stata la incom‐ prensione dell'infinito che ha indotto l'uomo ad inventare le ragioni della fe‐ de, bensì è stata l'evidenza, questa sì concreta e tangibile, della sua sogget‐ tiva comprensione della limitazione dello spazio e soprattutto del tempo. L'incapacità di comprendere e quindi di accettare questi limiti soggettivi ha generato l'emozione, umana e corpo‐ rale, della “paura”. E' così la paura che in realtà ha generato la necessità della fede, tradotta, in questo caso con un procedimento affatto logico e raziona‐ le, nella teoria dell'esistenza di un'ani‐ ma eterna (illimitata) capace di scon‐ figgere la tangibile evidenza della morte corporale e fisica. Ma l'anima, come detto, non esiste, così come non esiste la morte. L'anima, la vita, la morte L'invenzione dell'anima, come detto, è la resa dell'intelligenza dell'uomo al‐ la paura della morte. La morte, tutta‐ via, non esiste. Come il punto nell'in‐ finito dello spazio fisico in cui sono destinate ad incontrarsi le due rette parallele, così il punto d'incontro tra la vita e la morte si colloca nell'infinito

Anima dello spazio temporale. Ambedue i punti d'incontro sono, tuttavia, ideali, immaginari, irreali. Nella realtà la vita e la morte non si succedono tra di loro, corrono invece parallele su due di‐ mensioni differenti ed incomunicabili, se non, come detto, in quel punto im‐ maginario dell'infinito temporale. Nel‐ la dimensione reale della vita la morte non esiste, nessun vivente muore mai, né per se stesso, né per gli altri con i quali si rapporta e relaziona. Sino a che c'é vita non c'é spazio per la morte, si‐ no all'ultimo istante la vita è piena, completa, è per sempre. Quando non c'è più la vita non può neanche esiste‐ re la morte che non è il suo termine o contrario, ma appartiene ad un'altra, diversa dimensione. Si vive infatti sino all'ultimo istante, all'ultimo pensiero, all'ultimo respiro della vita; finché si vive, quindi, non si può morire, sem‐ plicemente perché si è vivi. Ma non si muore mai neppure per gli altri, per‐ ché chi è vissuto è vissuto per sempre e continua a vivere negli altri e con gli altri per sempre. Vivere è un fenome‐ no straordinariamente complesso che genera e moltiplica infinite interrela‐ zioni che vanno ben oltre la sola fisici‐ tà corporea, superandola e distaccan‐ dosene nel tempo e nello spazio. La vi‐ ta è un “contagio” che si riceve subito dopo la nascita e si ritrasmette e si moltiplica nelle infinite relazioni dia‐ lettiche per tutta la vita del corpo fisi‐ co; al termine di quest'ultima gli so‐ pravvive e continua all'infinito il pro‐ prio processo contagioso. Nessuna morte può interrompere questo feno‐ meno se non in quell'immaginario punto dell'infinito temporale nel quale le due dimensioni della vita e della morte si incontrano e la seconda è de‐ stinata ad assorbire in un “nulla” defi‐ nitivo la vita. Ma questa, come detto, è solo una ipotesi immaginaria, nella re‐ altà della vita la morte non esiste e quindi non esiste un'anima inventata solamente per sconfiggere la paura di un evento inesistente. La teoria dell'eternità Afferma la legge fondamentale della fi‐ sica che in natura nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma costan‐ temente ed incessantemente, transi‐ tando da uno stato fisico ad uno o più altri stati fisici, destinati poi a ricom‐ porsi in nuove aggregazioni fisiche in tal modo realizzando un ciclo vitale eterno, ancorché sempre nuovo e di‐

verso. La vita dell'uomo é parte di que‐ sto ciclo vitale naturale: nasce da una aggregazione di innumerevoli compo‐ nenti che originano il fenomeno della comparsa dell'uomo nuovo ed al ter‐ mine del ciclo temporale di quest'ulti‐ mo si decompone in altrettanti innu‐ merevoli stati che rientrano nella di‐ namica del ciclo vitale per dare origi‐ ne, seppure diversamente ricomposti, ad un nuovo fenomeno di nascita in forme, modi e tempi indeterminati ed indeterminabili ma, comunque, certi nell'esito. Quel che non si consuma è per logica d'evidenza “eterno”; quel che è eterno è per logica consequen‐ ziale “immortale”. La natura è eterna ed immortale e quindi l'uomo, che del‐ la natura è parte inscindibile, è egli stesso eterno ed immortale. Non può esistere nessuna anima che renda im‐ mortale ciò che, per evidente e scienti‐ ficamente provata legge fisica, lo è già. S'è detto che l'uomo non muore mai, né per se stesso, né per gli altri con i quali ha avuto e continuerà ad avere rapporti anche dopo la dissoluzione del proprio corpo fisico. Fisicamente nascendo l'uomo eredita, fa proprio ed in ogni modo entra a far parte della vi‐ cenda tutta dell'umanità; fisicamente morendo l'uomo continua a farne par‐ te nelle successive vite di coloro che lo seguiranno nel tempo, essi stessi a loro volta ereditando il medesimo patrimo‐ nio di conoscenze arricchito dal pas‐ saggio dell'ultimo loro predecessore. Immortale ed eterno non è, dunque, il singolo soggetto fisico, ma la specie umana nella sua complessità, specie della quale il singolo uomo è parte in‐ scindibile ed essenziale, così come l'umanità è, a sua volta, parte inscindi‐ bile ed essenziale della natura nel suo insieme. Immortalità ed eternità sono concetti assoluti e collettivi, così come collettiva è quell'anima distinta e di‐ versa dal corpo postulata dalle fedi e dalle teorie psudoscientifiche che tut‐ te, in ultima analisi, riconducono le anime individuali a frammenti di un'anima unitaria superiore, quella del così detto “creatore”. Ma se l'immagi‐ nato astratto creatore altri non è che la concreta e tangibile natura, allora l'anima collettiva altro non è che la forza vitale del ciclo eterno ed immor‐ tale delle infinite mutazioni della na‐ tura. L'anima, dunque, non esiste, ma esiste la continuità immortale ed eter‐ na del ciclo della natura.


per Foligno

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