Giugno 2010

Page 1

ECONOMY Mensile di informazione, politica e cultura dell’Associazione Luciana Fittaioli - Anno II, n. 6 - Foligno, giugno 2010

4 pagine di inserto

L’evasione e l’ambulanza Socialismo o barbarie a lungo tempo, si potrebbe dire da sempre, sentiamo dire (e alla fine tutti facciamo il coro) che un male endemico, quasi epidemico, dell’Italia è l’evasione fiscale (una volta si diceva anche il lavoro “sommerso”, ma questo “indice” economico è da un po’ di tempo scomparso dal lessico politico-economico, chissà perché). In Italia si pagano tasse (imposte!) esageratamente elevate che penalizzano lo sviluppo economico e la gestione della “macchina” pubblica, colpa dell’evasione che se fosse efficacemente combattuta porterebbe nelle casse dello Stato più risorse. Più risorse, certo, ma da destinare come e a cosa? Non all’aumento dei servizi pubblici in senso lato, non alla sanità, non alla scuola (pubblica), non alla ricerca (pubblica), non alle pensioni o allo stato sociale in genere, voci tutte da “tagliare” drasticamente per abbattere il così detto “disavanzo pubblico”. E allora a cosa? Ad abbattere il carico fiscale alle imprese, a finanziare le imprese, a finanziare e sostenere l’economia privata. Ma in cosa si sostanzia in verità l’evasione fiscale? Esattamente nella stessa cosa, denaro delle imprese (grandi, medie e piccole, anche piccolissime artigianali e commerciali) che, evadendo le imposte, di fatto, almeno in parte, reinvestono il “prodotto” dell’evasione nel sostegno alle proprie attività. Vero questo, cosa c’entra la lotta all’evasione fiscale con lo sviluppo economico? Nulla! La lotta all’evasione fiscale assolve a un principio etico, di equità e onestà e, sostanzialmente, è diretta a sostenere i fabbisogni della “macchina” pubblica (è almeno dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino della rivoluzione francese del 1700 che il concetto di imposte è legato alla sostegno della spesa

D

pubblica). Un problema etico, dunque, e non economico. Perché confondere i due termini, perché imputare alla immoralità fiscale (sia chiaro: un crimine gravissimo) ciò che invece è legato a un altro fenomeno? Perché imputare alla cattiva morale di tutti i cittadini quello che invece è il prodotto di una, a voler giudicare bene, incapacità di una classe imprenditoriale cialtrona e contoterzista, a volerla giudicare “meglio”, a una distrazione a fini personali da parte dei signori di quella classe degli utili prodotti dalle proprie imprese industriali e commerciali? Serve a confondere le idee, a depistare l’attenzione e l’intelligenza dei lavoratori dal vero “male endemico” della nostra economia capitalista fatta da capitalisti senza capitali, da speculatori senza imprese, da cialtroni che vivono di sovvenzioni pubbliche (delle tasse pagate dagli altri, appunto) per farne ricchezza personale sempre più grande, sempre più concentrata. La confusione è divenuta tanto grande che persino quei politici che dovrebbero combatterla l’hanno assorbita fino a farne bandiera dei loro progetti di riforma devastatrice dei principi stessi dello stato moderno, etico e sociale. “Non gli mandiamo l’ambulanza” (a chi non paga le “tasse”) ha detto un “certo” leader della opposizione! Ma sì, togliamo i diritti fondamentali della persona umana, quelli chiamati diritti “naturali”. E intanto smantelliamo lo stato sociale, smantelliamo i servizi pubblici, smantelliamo l’industria pubblica, quella a cui si deve “realmente” il “miracolo” economico dell’Italia del dopoguerra. Aveva ragione Rosa Luxemburg quando diceva “socialismo o barbarie”, il socialismo è stato abiurato, stiamo andando verso la barbarie.

all’interno Fondazioni bancarie

a pagina 2

Il notaio: società, mercato, regole

a pagina 3

Come uccidere la scuola pubblica

a pagina 5

Pomiglano: il NO della FIOM

a pagina 7

La tessera del tifoso

a pagina 8

Società e Obesità

a pagina 9

Festival Canti e Discanti

a pagina 11

Il giornale è “on line” al sito www.piazzadelgrano.org

Il borgo di San Giovanni La “porta” del Subasio: dal recupero della storia e della memoria ai nuovi “patti di amicizia” MORENO LANDRINI

San Giovanni di Spello, la cui configurazione urbanistica evoca l’origine dell’incasellamento di epoca alto medioevale con edifici a schiera serrati a corte, ha una collocazione ad una quota di 636 s.l.m. ai confini del parco del Monte Subasio. E’ un piccolo borgo, quasi invisibile al mondo, arroccato e compatto nel suo silenzio che sa di mistero tanto che chiunque ci arrivi, anche di passaggio, finisce per fermarsi. E’ un luogo di pace, tradizione e amicizia, un “paradiso di pietra rosa”, simbolo e crocevia di un turismo paesaggistico, ambientale e spirituale al quale mostra quel caratteristico colore rosa delle pietre del Subasio, quel monte che protegge o che è protetto da San Giovanni rendendolo ancora più unico. E’ un borgo che dopo i gravi danni subiti dal terremoto del 1997, l’anno scorso è tornato a nuova vita in seguito ad una grande opera di recupero architettonico che ha consentito la riapertura del paese e della Chiesa dedicata a San Giovanni Battista. Il programma integrato di recupero “San Giovanni” è stato finanziato con Deliberazione di Giunta Regionale n°2030 del 2003 che ha riconosciuto alla frazione di San Giovanni particolare valenza dal punto di vista storico, ambientale e architettonico in quanto ubicata in prossimità di parchi naturali e ricompresa in progetti turistico-recettivi attuati da enti istituzionali presenti nel territorio con utilizzo di risorse regionali, nazionali e dell’Unione Europea. Ma la motivazione più forte e importante che ha permesso la ristrutturazione di questo “paradiso di pietra rosa”, è stata la decisa volontà dei pro-

prietari delle abitazioni di recuperare le residenze lasciate in eredità dai loro padri, perché fare memoria significa andare alla ricerca delle proprie radici oltre che dare dignità a un passato che segna il nostro futuro. Gli interventi hanno visto il recupero degli edifici nel rispetto dei contenuti formali originari e delle regole insediative preesistenti, oltre che degli equilibri e dei rapporti funzionali storicamente consolidatesi. San Giovanni conserva quindi tutte le caratteristiche di un vero castello medioevale e, proprio in quel periodo storico, fu varie volte teatro di contese per la sua vicinanza con il Comune di Assisi. La prima devastazione avvenne a causa della Rocca Paida, luogo ambìto sia dal comune di Spello che da quello di Assisi. Era il 24 novembre 1227, quando il conte Egidio Beccario di Spello, vendette la rocca agli Assisiati; ne nacque una lunga vertenza che fu chiusa solo nel 1295, quando il Cardinale di Santa Maria in Trastevere, rettore del Ducato di Spoleto, sentenziò a favore di Assisi e ordinò la riparazione del Castello ad un impresario di Perugia. Nel 1376 il Castello di San Giovanni subì una seconda devastazione: il motivo si ignora, ma quasi sicuramente è da attribuirsi sempre alla Rocca Paida che in quell’anno tornò di proprietà del comune di Spello. E poiché non esistevano le mura castellane, il Comune fece costruire una torre di vedetta ed esentò dalle tasse, per dieci anni, quei cittadini che. a proprie spese avessero riparato le loro case. Rocca Paida si trova vicino a San Giovanni ed è costruita sopra una roccia in località detta appunto “Macchia Paida”. Il nome Paida,dal greco Pai-

deia (fanciulla) fa pensare che la rocca sia stata fatta costruire da qualche famiglia proveniente dal Sud Italia, ma di origini greche, che si era insediata in zona per sfuggire alle invasioni da parte dell’impero romano. Di questa rocca ora sono visibili soltanto le fondamenta. I Signori di questa Rocca, che nei secoli XII e XIII dominavano tutta la zona, erano molto amici di San Francesco che spesso saliva alla Rocca restandovi come ospite. Durante una sua visita a San Giovanni, nel 1213, si narra che diede la vista a una ragazza, sorella del guardiano del castello, cieca dalla nascita. Come ringraziamento la giovane si fece suora nel monastero di Vallegloria. Religiosamente i fedeli di San Giovanni erano assistiti dai monaci camaldolesi di San Silvestro i quali nel sec XI vi edificarono una chiesetta dedicandola a San Giovanni evangelista e apostolo dal quale anche il paese prese il nome. Precedentemente si chiamava Villa di Margiano, sotto la signoria degli Offreducci Targarini Olorini. Nel 1610, il vescovo di Spoleto, durante una visita pastorale, eresse San Giovanni parrocchia autonoma, dietro richiesta dei fedeli e per la lontananza da Collepino. La festa principale del paese era quella di San Giovanni Evangelista ma, ricorrendo il 27 dicembre periodo poco favorevole per lemanifestazione popolare, un parroco dei primi del ‘900 la sostituì con quella di San Giovanni Battista che ricorre il 24 giugno. Nel circondario di questo paesino, presso la confluenza dei torrenti Ranno e Anna, è ancora in funzione un vecchio mulino costruito negli ultimi anni dello Stato Pontificio; gli attuali proprietari fanno ancora pane cotto nel forno a legna. Il borgo di San Giovanni, da

molti anni, vede al suo interno anche la presenza di due comunità parrocchiali Resana (TV) e Camposanpietro (PD) che agli inizi degli anni ’80 hanno acquistato degli immobili per poter offrire a gruppi di persone, sia giovani che adulte, la possibilità di vivere esperienze di fraterna condivisione in un ambiente di pura semplicità in cui il silenzio riesce a esprimere la sua profonda dimensione. L’acquisto, da parte di queste due parrocchie venete, è stato il frutto di una serie di esperienze che molti giovani avevano fatto negli anni precedenti nei vari eremi del Subasio sotto la guida spirituale di Fratel Carlo Carretto che amava chiamare queste zone “le colline della speranza”. In particolare la comunità di Camposampiero, proprietaria di due immobili: “eremo della speranza” ed “eremo della pace”, dopo un rapido restauro ha potuto garantire ai suoi parrocchiani un importante punto di riferimento e formazione. La continua e costante presenza ha favorito il consolidamento di rapporti di amicizia con gli abitanti del borgo creando sempre più numerose occasioni di condivisione e scambi culturali e turistici che si sono ampliati tanto da coinvolgere anche i Comuni di Spello e Camposampiero con la sottoscrizione del Patto d’Amicizia, ufficializzato il 2 dicembre 2007 alla presenza dei due sindaci Sandro Vitali e Marcello Volpato. Il Patto sottoscritto costituisce uno strumento di azione interculturale fra regioni diverse, favorendo lo sviluppo dei rapporti di amicizia, di collaborazione e di scambi di progetti al fine di promuovere e incentivare l’attivazione di forme culturali e socio-economiche tra le comunità locali per una maggiore integrazione a livello nazionale.


21 www.piazzadelgrano.org

Leggi e diritti

La natura delle Fondazioni bancarie

FOLIGNO GIUGNO 2010

Manovra “anticrisi”

Istituzioni di utilità sociale, non riconducibili I lagunari sbarcano a Venezia alle attività di pubblico interesse disciplinate dal stificare i provvedimenti, che diritto nazionale e comunitario SALVATORE ZAITI il lavoratore pubblico ha conMARCO MARIANI Il rapporto tra la politica e le Fondazioni è tornato alla ribalta negli ultimi mesi con una serie di interventi da parte di autorevoli esponenti della Lega che hanno annunciato una sorta di scalata alle risorse gestite dalle Fondazioni bancarie. Ultima in ordine di tempo la dichiarazione del neo governatore del Piemonte Roberto Cota: “Abbiamo di fronte scelte importanti, anzitutto il rilancio del lavoro, per questo ed altro siamo pronti a battere cassa alle fondazioni bancarie”. Di fronte ad una discussione che è destinata sicuramente a svilupparsi, anche in considerazione delle diverse prese di posizioni contrarie manifestate in ambiti politici e bancari, proviamo a dare al lettore una serie di notizie utili, in considerazione del fatto che anche nella nostra città opera la Fondazione Cassa di Risparmio di Foligno la quale svolge un ruolo di primaria importanza nel rapporto con la società civile e nel sostegno allo sviluppo del territorio. Le Fondazioni bancarie hanno origine dalle antiche Casse di risparmio, associazioni private nate intorno al XIX secolo, quando si manifestò il bisogno di sostenere lo sviluppo produttivo dei ceti medio-piccoli. L’attività delle Casse di risparmio era diversa dall’attività bancaria vera e propria in quanto raccoglievano capitali con una sottoscrizione iniziale e poi con successivi depositi, mentre le banche nascevano su iniziativa di gruppi ristretti ed hanno fini commerciali e speculativi. Le Casse svolgevano attività di assistenza e beneficenza per poi diventare, negli anni, un sistema articolato e diffuso in ambito locale a sostegno dello sviluppo della piccola e media impresa e del risparmio. A partire dagli anni ottanta, la Comunità Europea (oggi U.E.) ha innescato un forte processo di liberalizzazione e privatizzazione dell’economia, facendo dei principi della libera concorrenza, della libera circolazione delle merci e delle persone i valori fondanti del nuovo processo di unificazione degli Stati europei. In recepimento di tali principi (direttive comunitarie) il legislatore interno ha varato una serie di norme anche per il settore bancario, procedendo sostanzialmente alla privatizzazione delle Casse di risparmio. La soluzione fu individuata nel separare in due diverse entità le funzioni di diritto pubblico da quelle imprenditoriali, cioè scorporare le fondazioni dalle banche ex pubbliche (s.p.a.) Con la legge delega n. 218/1990 veniva disposto che gli enti bancari diventassero società per azioni, sotto il controllo delle Fondazioni, le quali successiva-

Sede della Cassa di Risparmio di Foligno

mente avrebbero dovuto collocare le proprie azioni sul mercato. Tale processo ha interessato anche la locale Fondazione che ha venduto a un gruppo bancario privato (Banca Intesa / S.Paolo) il pacchetto di maggioranza della Cassa di Risparmio di Foligno, rimanendo in posizione di socio di minoranza. In tale posizione la Fondazione investe gli utili che gli derivano dalla partecipazione al capitale della banca. I settori istituzionali ove opera la Fondazione sono, in sintesi: famiglia, formazione giovanile, volontariato, sviluppo locale, salute pubblica, sport, ricerca ambiente, arte, cultura etc. Si realizza in tal modo una netta divisione tra la Banca ( imprenditore privato) e la Fondazione (ente no- profit) che svolge una funzione di utilità sociale. Se questa è la storia passata e recente, molto ancora si discute sul ruolo e la funzione delle Fonazioni bancarie e soprattutto sulla loro natura. A tal proposito varrà segnalare una recente pronuncia del Consiglio di Stato, sez. VI, n. 1255 del 3 maggio 2010 che ha affrontato il tema dell’accesso agli atti ai sensi della legge sul procedimento amministrativo (L. 241/90). In tale decisone il massimo organo di giustizia amministrativa sembra sovvertire i consolidati orientamenti circa la natura delle Fondazioni. In particolare, in riforma della sentenza del TAR Emilia Romagna che aveva riconosciuto il diritto di accesso agli atti ad un socio ad ottenere copia alla delibera che disponeva la cessione della banca, il Giudice di appello ha escluso la qualificazione delle Fondazioni quali organismi di diritto pubblico. Secondo i Giudici di Palazzo Spada, la qualificazione di organismo di diritto pubblico che farebbe ricadere le Fondazioni nel novero dei soggetti privati operanti normalmente secondo moduli riconducibili all’alveo pubblicistico, sarebbe positivamente smentita dal disposto normativo di cui all’art. 1, comma 10 ter, del DL n. 162 del 23 ott. 2008 (comma inserito dalla legge

di conversione n. 201 del 22 dic. 2008), a mente del quale “ai fini dell’applicazione della disciplina di cui al D.lgs. n. 163/2006, non rientrano negli elenchi degli organismi e delle categorie di organismi di diritto pubblico gli enti di cui al D.lgs. n. 153 del 17 maggio 1999 e gli enti trasformati in associazioni o in fondazioni, sotto la condizione di non usufruire di finanziamenti pubblici o altri ausili pubblici……”. Peraltro osservano gli stessi giudici, anche in assenza della norma di diritto positivo sopra citata, in ogni caso la Fondazione non avrebbe potuto essere qualificata organismo di diritto pubblico, ciò sulla base dell’assenza dei tre presupposti cumulativi che sono richiesti ( a livello di normativa comunitaria) per l’individuazione della figura dell’organismo di diritto pubblico. Infatti, nella fattispecie esaminata in sentenza, la Fondazione in questione (ma il ragionamento può essere parimenti esteso alla locale Fondazione Cassa di Risparmio di Foligno) non risulta fruire di alcun finanziamento pubblico, né lo Stato, né altri enti di diritto pubblico esercitano sulla stessa alcun controllo sulla gestione, né risulta infine che gli organi di amministrazione, direzione o vigilanza debbano essere costituiti da soggetti designati dalla mano pubblica in misura pari ad almeno la metà dei componenti; Infine, aggiunge il Consiglio di Stato, la Fondazione rientra tra i soggetti dell’organizzazione delle libertà sociale e non svolge funzioni pubbliche (C. Cost. n. 3000 del 29 settembre 2003). Invero per il Consiglio di Stato alla Fondazione va riconosciuto carattere di utilità sociale, ma tale carattere non può essere confuso con le attività di pubblico interesse disciplinate dal diritto nazionale e comunitario. Si tratta sicuramente di una ricostruzione destinata a provocare notevoli conseguenze sul piano politico e pratico visto il numero e la rilevanza delle Fondazioni bancarie nel nostro paese.

Il Decreto Legge 31 maggio 2010, n. 78, meglio conosciuto come decreto anticrisi, giunge a conclusione di un percorso che ha visto quale protagonista in un ruolo, questa volta sì, passivo il lavoratore pubblico. Nei suoi confronti si erano avviate ormai da tempo campagne generalizzate e denigratorie fondate sull'assioma, forse più correttamente, sul dogma secondo il quale il dipendente pubblico è un lavoratore che vive sulle spalle di chi lavoratore lo è davvero. Non meraviglia, quindi, più di tanto se poi il Governo, sull'onda di una contingenza (non prevedibile?) finanziaria internazionale, abbia deciso di intervenire con una manovra basata in gran parte sul trattamento economico e previdenziale dei pubblici dipendenti. Certo, la necessità di ridurre la spesa pubblica doveva pur abbattersi su una delle sue componenti (la retribuzione del pubblico impiego), ma con motivazioni e secondo modalità più avvedute e corrette. Affermare, nell'intento di giu-

seguito un incremento di reddito maggiore di quello del privato e che, a differenza di quest'ultimo, gode del privilegio di non essere licenziato o posto in cassa integrazione, significa proprio collocarsi in una ottica diametralmente opposta a quella tesa, invece, a risolvere i problemi reali del Paese. E poi, delle due l'una: o i rinnovi contrattuali sono stati riconosciuti perché congrui oppure hanno rappresentato una benevola concessione da parte di chi oggi li nega. E ancora: o la funzione pubblica può subire interruzioni o cessazioni oppure è e resta contraddistinta da quei caratteri di continuità e preminenza che ne rappresentano il fondamento stesso. Sarebbe stato, allora, più opportuno rivolgere maggiore attenzione su come si impiegano le risorse pubbliche sia sul versante del personale che su quello c.d. produttivo. Quanto al primo è indubbio che una Amministrazione Pubblica proiettata verso il risultato e la performance sia organizzativa che individuale possa migliorare di gran lunga i servizi resi al cittadino, assicurando nel contem-

po i benefici economici indiretti che tutte le categorie, soprattutto imprenditoriali, auspicano. Quanto alle risorse finanziarie vere e proprie, sia in fase di entrata che di spesa, queste non possono prescindere da una sana ed integra visione politica che deve caratterizzare l'azione amministrativa. Per favorire lo sviluppo e la correzione dell'andamento dei conti pubblici occorre operare scelte, sì coraggiose, ma pure coerenti ed eque nel loro insieme, soprattutto se rivolte alla Pubblica Amministrazione. Viene allora da chiedersi quale sia la logica che presiede al conferimento, in favore del Ministro per la pubblica amministrazione e l'innovazione, delle funzioni... in materia di salvaguardia di Venezia e della sua laguna. Per chi voglia approfondire l'argomento, il riferimento è il DPCM 14 maggio 2010 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n.132 del 9 giugno 2010.

Antiriciclaggio e lotta all’evasione fiscale Nuove limitazioni all' uso del contante e dei titoli al portatore ROBERTO FRANCESCHI Era mia intenzione, dopo aver concluso l’argomento del mutuo, dedicarmi ad una serie di articoli riguardanti i titoli di credito ed in particolare l’assegno. Ho ritenuto opportuno rimandare “l’assegno” a numeri successivi per dare qualche immediata indicazione in merito alla normativa entrata in vigore D.L. 78/2010, di cui si riassumono gli articoli più rilevanti. Art. 1 - E’ vietato il trasferimento di denaro contante o di libretti di deposito al portatore o di titoli al portatore effettuato a qualsiasi titolo tra soggetti diversi quando il valore è pari o superiore ad euro 5.000. Il trasferimento è vietato anche se effettuato con più pagamenti inferiori alla soglia che appaiano artificiosamente frazionati. Il trasferimento può tuttavia essere eseguito per il tramite di banche, istituti di moneta elettronica e Poste Italiane spa. Art. 5 - Tutti gli assegni per importi pari o superiori ad euro 5.000 devono recare l’indicazione del beneficiario o della ragione sociale e la clausola di non trasferibilità. (nota, attenzione: l’assegno con clausola non trasferibile deve riportare una e una sola girata. L’apposizione di più girate, divieto già previsto dalla normativa sull’assegno, rientra nella elusione della normativa con le relative sanzioni).

Art. 8 - Può essere richiesto per iscritto il rilascio di assegni senza la clausola di non trasferibilità per assegni emessi per importo inferiore ai 5.000 euro. Art. 12 - Il saldo dei libretti di deposito al portatore non può essere pari o superiore ad euro 5.000. Entro il 30 giugno 2011 tutti i libretti eccedenti il predetto importo dovranno essere estinti e/o ridotti alla soglia di euro 4.999,99. La modifica sostanziale dell’attuale decreto legge, che modifica l' art.58 D.Lgs 231/2007, verte sull’importo che precedentemente era fissato in euro 12.499,99 e sull’inasprimento delle sanzioni amministrative pecuniarie che brevemente riassumiamo: - la sanzione non può comunque essere inferiore ad euro 3.000 - violazione dei commi 1, 5, 6 (assegni a me medesimo), che riguardano importi superiori ad euro 50.000 la sanzione minima è di euro 15.000. - le violazioni dei commi 14

(trasferimento libretti al portatore) 18 (trasferimento a mezzo money transfer) che riguardano importi superiori ad euro 50.000 la sanzione minima e di euro 15.000. Ho dato ovviamente rilievo ai punti più significativi e di doverosa immediata conoscenza con particolare riferimento a tutte quelle operazioni di maggiore correntezza. L’applicazione del decreto legge è stata emanata con decorrenza immediata e rimarrà in vigore fino alla eventuale definitiva conversione in legge. Occorrerà fare la massima attenzione per non incorrere nelle sanzioni previste, salvo ovviamente che i comportamenti siano di ancora maggiore gravità con implicazioni di carattere penale. Alla minima perplessità rivolgetevi alla vostra banca di riferimento o ad ogni ufficio postale o se lo credete opportuno potete come sempre inviare le vostre domande alla e-mail della redazione del giornale. associazionefittaioli@yahoo.it


FOLIGNO GIUGNO 2010

Politica ed Etica

www.piazzadelgrano.org

Il notaio, la società, il mercato, le regole La globalizzazione dei mercati alla luce del nuovo millennio La cultura della legalità garanzia di sviluppo e pace sociale LUIGI NAPOLITANO Un appuntamento a cui sono particolarmente affezionato nell’esercizio della mia attività professionale è quello che ogni anno, grazie ai dirigenti del liceo classico “Frezzi” di Foligno, ho con un gruppo di studenti del penultimo anno i quali, forse per loro curiosità, forse per-chè spinti dai genitori e/o dai professori o, forse per chiudere l’anno scolastico con qualche giorno d’anticipo, frequentano per due settimane il mio studio. Lo scopo è quello di far loro conoscere il mondo del lavoro e nel mio caso la professione notarile. Devo preliminarmente un ringraziamento agli studenti che ho avuto il piacere di incontrare in quanto il loro modo di fare e di essere ha costituito per me l’occasione per dare uno sguardo diretto al loro mondo e mi ha consentito di comprendere, almeno un pò, il loro modo di essere e di vedere le cose, le loro aspettative, le loro speranze. Devo, poi, riconoscere a tutti un’eccellente preparazione e una viva curiosità che spesso mi è stata di stimolo nell’approfondimento di argomenti che, forse un pò affrettatamente avevo dato per scontati, ma che tali non sono, come dimostra una certa superficialità nell’uso del termine “notarile” anche da parte di qualificati rappresentanti del mondo giornalistico e la circostanza che il ruolo e l’attività del notaio sono spesso oggetto di luoghi comuni lon-

tani dalla realtà di una professione che negli ultimi anni si è notevolmente evoluta adattandosi alle mutate esigenze della società. Le domande che, sistematicamente, mi sono state poste sono nell’ordine: a cosa serva il notaio, quale sia la sua collocazione nel mondo delle professioni e come si diventa notai. Cercherò in queste brevi note di riassumere, nel modo più semplice possibile, le risposte che, spero, possano rendere comprensibile l’attività notarile. Il notaio, istituito per ricevere gli atti tra vivi (compravendite, permute, donazioni, costituzioni e modifiche societarie ecc.) e di ultima volontà (testamenti) attribuendovi pubblica fede, è un pubblico ufficiale che, con organizzazione privatistica, garantisce sicurezza al si-stema giuridico, tributario e al mercato, senza costi per lo Stato. La pubblica fede è una particolare forza probatoria che rende l’atto notarile inconfutabile, fino a querela di falso, e la qualifica di pubblico ufficiale si caratterizza nello svolgimento di funzioni che potrebbero essere svolte alternativamente solo da magistrati. Il notaio è al tempo stesso consulente le-gale e giudice precontenzioso, garantisce al livello del cliente la legalità, la legittimità e la stabilità della transazione conclusa tra le parti ed al livello del sistema economico-giuridico l’affidabilità dei dati inseriti nei Pubblici Registri (Immobiliari, Societari, dello Stato Civile). Tali funzioni presuppongono

la sua terzietà e imparzialità verso i contraenti e l’assoluta lealtà all’ordinamento che garantisce, al pari del giudice, la tutela del contraente più debole, dell’interesse pubblico e della collettività. Tutti questi aspetti hanno fatto individuare, già negli anni 50, da parte del famoso giurista Francesco Carnelutti la funzione del notaio nella famosa frase “Tanto più notaio, tanto meno giudice”. In tutti gli stati ove opera il notariato – definito latino – si riscontra un carico di contenzioso nelle materie riservata a questa attività di gran lunga inferiore a quello esistente nei paesi di cultura an-

glosassone che non cono-scono questo tipo di professionista al punto che recentemente anche la Cina e lo Stato della Florida negli Stati Uniti d’America si stanno convertendo al notariato di tipo latino del quale studiano ed apprezzano i pregi. Valga per tutti il dato nell’ambito delle transazioni immobiliari che il contenzioso, laddove interviene il notaio, riguarda annualmente circa 50 casi su oltre 1.700.000 pari a circa lo 0,003% delle transazioni. L’accesso alla professione richiede la laurea in giurisprudenza, il compimento di diciotto mesi di pratica presso uno

studio notarile ma, soprattutto una solida cultura giuridica e tributaria. Il concorso si svolge in tre giorni di prove scritte, ognuno dei quali articolati in tre sotto prove ed una prova orale alla quale accedono solo coloro che hanno superato le scritte. Mi preme rilevare un dato che in sè, forse, non è fortemente indicativo, ma che se rap-portato ad altre professioni dimostra una forte valenza di interscambio nella professione: solo il 17% dei notai in attività sono figli di notai. Da tutte le cose dette per conoscenza diretta e che, sicuramente, con diverse prospettive hanno valenza anche per le altre attività professionali, a me appare quanto meno miope l’atteggiamento di quei politici che vedono in una liberalizzazione selvaggia del mercato la panacea dei mali che affliggono l’economia mondiale. Pur essendo il nuovo millennio caratterizzato dalla globalizzazione dei mercati che ha contribuito ad abbattere barriere e a ridurre distanze, non credo possano esistere mercati senza regole il cui fine è la tutela dell’equilibrio complessivo della società e l’interesse generale dei cittadini. Un’ampia letteratura economica dimostra, infatti, che la deregolamentazione dei servizi professionali non comporta necessariamente effetti positivi per la collettività. Né appare condivisibile la proposta di legge che vorrebbe introdurre nel nostro ordinamento la possibilità di costituire società professionali

31

interdisciplinari che, snaturando la personalità della prestazione, consentirebbero l’ingresso nella compagine sociale di soci di capitali. Tale evento potrebbe costituire, in determinate condizioni, l’asservimento delle attività professionali, interpreti del rapporto tra regole, mercato e società, al capitale che, con la sua forza, avrebbe gioco facile nel piegarne l’indipendenza. Né sembra accettabile l’imposizione di una sorta di pensiero unico che sottende un’egemonia economica e giuridica nella quale l’unico parametro di legittimità è l’esigenza del profitto. Tuttavia al fine di sgombrare il campo da equivoci mi piace riportare le parole del premio Nobel per l’economia Amartya Kumar Sen che ha affermato ”Sarebbe sciocco dire: fermiamo la crescita economica o aboliamo l’economia di mercato. Ben vengano tutte le misure che aiutano l’espansione economica, purché si capisca che sarebbe un errore immenso dimenticare l’educazione, l’istruzione, lo sviluppo sociale, le capacità individuali. Il denaro non è la principale misura della ricchezza. I più ricchi sono quelli che vivono più a lungo e nelle migliori condizioni. La povertà non dipende solo da quanto si guadagna. L’individuo è più ricco quando è più libero, quando può realizzare tutte le sue capacità.” Parole che riecheggiano l’insoddisfazione per una unità di misura come il PIL, che dovrebbe poter contenere oltre ad elementi puramente economici, anche rilievi di felicità e di giustizia e che lascia ben sperare in una cultura della legalità quale condizione per garantire il buon funzionamento dei servizi pubblici e competitività al sistema sociale ed economico del Paese in un contesto di pace sociale.

Una questione etica da non dimenticare La rappresentanza di interessi di classe e di casta ha origini lontane, così come l’avversione alla democrazia parlamentare e l’inclinazione al presidenzialismo SANDRO RIDOLFI

Con i pochi deputati eletti alla Camera Mussolini non avrebbe mai potuto formare un proprio governo. Fu solo grazie alla connivenza dei maggiori esponenti dei partiti liberale e popolare, inseriti con incarichi di sottosegretari nella futura compagine governativa, che il 19 novembre del 1922 la Camera votò con larga maggioranza la fiducia al primo governo Mussolini. Fra coloro che votarono a favore, figuravano nomi di spicco della politica liberale e popolare quali: Giolitti, Salandra, Facta, Bonomi, Orlando, e anche due personaggi destinati a divenire molto importanti nel futuro del Paese: Gronchi, futuro presidente della Repubblica Italiana, e Alcide De Gasperi, futuro Presidente del Consiglio. La fiducia venne accordata no-

nostante Mussolini, in occasione della presentazione alla Camera del nuovo esecutivo, avesse minacciato i deputati affermando che, se solo avesse voluto, avrebbe potuto facilmente ottenere con la forza la fiducia del Parlamento. Tutto ciò avvenne senza che l’allora Presidente della Camera, Enrico De Nicola, che diverrà in seguito il Capo provvisorio dello Stato della neonata Repubblica Italiana, intervenisse, anzi egli diede il proprio voto al nuovo Governo. Mussolini, non ancora soddisfatto, il 24 novembre chiese e ottenne da quello stesso Parlamento i pieni poteri per un anno. Le ragioni della connivenza delle forze politiche liberali e popolari con l’emergente Capo manipolo del fascismo appare chiaramente dal contenuto dei primi decreti del nuovo governo, sfacciatamente piegati agli interessi di coloro che ne avevano sostenuto l’ascesa al po-

tere: gli industriali e i ricchi possidenti terrieri. Venne infatti subito abolita la nominatività dei titoli azionari, alla quale fecero seguito le privatizzazioni e la soppressione della tassa di successione familiare. Vennero quindi ridotte l’imposta sugli immobili, e sulla ricchezza mobile. I possidenti terrieri vennero premiati con lo sblocco dei fitti e con l’abbandono di ogni progetto di riforma agraria. Lo stesso Vaticano ottenne il salvataggio della sua banca, il Banco di Roma, il cui disavanzo venne assunto a carico dello Stato e di conseguenza degli italiani. Per ingraziarsi ulteriormente le gerarchie vaticane, venne resa obbligatoria la presenza del crocifisso in tutti gli edifici e uffici statali, e vennero concessi aumenti di rendite ai parroci e ai vescovi. Inoltre seminaristi e sacerdoti vennero esentati dagli obblighi militari. Nel 1924 Mussolini ottenne an-

cora di più da quello stesso Parlamento nel quale erano fortemente maggioritarie le forze liberali e popolari: fece approvare la nuova legge elettorale che prevedeva che alla lista che avesse ottenuto più del 25% dei voti, sarebbero stati assegnati i 2/3 dei seggi, il terzo restante sarebbe stato distribuito proporzionalmente agli altri partiti. Mussolini vinse a sorpresa (di coloro che avevano voluto e votato quella legge esageratamente maggioritaria) le successive elezioni e solo allora i partiti liberale e popolare reagirono abbandonando il Parlamento, dando vita alla secessione dell’Aventino, sperando nell’intervento del re. Ma era oramai troppo tardi. Il “boia” che la casa reale e la borghesia industriale e agraria avevano ingaggiato per porre fine alle rivendicazioni popolari nate con i Consigli di fabbrica di Torino ed estese ad ampie aree anche dell’impiego

pubblico (primi i ferrovieri che pagarono pesantemente la loro opposizione) aveva preso il sopravvento sui suoi padroni (o almeno sui “fattori” dei veri padroni). Nel 1925 venne soppressa la libertà di stampa con il controllo delle testate, venne eliminata la separazione dei poteri tramite l’approvazione della legge sulle prerogative del Capo del Governo con cui il Parlamento smise di esercitare ogni potere effettivo in quanto nessun argomento poteva essere discusso dalle camere senza l’autorizzazione del Capo del Governo, responsabile solo davanti al re. Di lì a poco gli unici veri oppositori al fascismo emergente, i socialisti e i comunisti, vennero progressivamente eliminati: Giacomo Matteotti fu ucciso, Antonio Gramsci fu incarcerato a vita, nonostante fossero ambedue coperti dalla immunità parlamentare.

Alcide De Gasperi

Infine con la firma dei Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929 Mussolini si assicurò l’appoggio definitivo della Chiesa proclamando il cattolicesimo religione ufficiale. Liberali, democratici, popolari, a quel punto, non servivano più.


41www.piazzadelgrano.org

Corrispondenze dal Mondo

L’ “imbroglio” dell’8 (e del 5) per mille “False” donazioni di imposte dello Stato per finanziare “false” iniziative di solidarietà ALESSANDRO RICORDI

A ridosso della scadenza per la compilazione della dichiarazione dei redditi s’intensifica il martellamento per sollecitare le “donazioni” dell’8 per mille. Volantinaggi, e-mail, costosissimi spot televisivi “reclamizzano” (purtroppo è il caso di usare questo termine) le opportunità, le necessità e gli effetti delle donazioni richieste. Con la “brutalità” che solo la “verità” richiede e giustifica, bisogna denunciare l’ “imbroglio” che sostiene il progetto e la retorica dell’8 per mille: un “imbroglio” anzitutto morale e molto spesso, purtroppo, anche sostanziale. Iniziamo da quello “morale”. Va detto con estrema, ma semplice, chiarezza che la destinazione dell’8 per mille non costituisce una donazione, ma una “distrazione” di denaro pubblico. L’importo dell’8 per mille, infatti, non è più nella disponibilità di colui che ne indica la destinazione, ma è già patrimonio dello Stato in quanto si tratta di imposte dovute (già pagate con ritenute o acconti o da pagare a saldo). Chi “dona” l’8 per mille del-

le proprie imposte non dona dunque nulla, ma impone una destinazione personale e discrezionale a una parte dei fondi dello Stato. Paradossalmente, e questa è la gravità “morale” dell’ “imbroglio”, la possibilità concessa al singolo cittadino di destinare le proprie imposte a un soggetto diverso dallo Stato viola un principio costituzionale assoluto e pluricentenario: quello di concorrere alle spese dello Stato in misura proporzionale alle proprie capacità, affinché quest’ultimo possa provvedere ad assicurare a tutti, indifferentemente dalle loro capacità e potenzialità, la soddisfazione dei diritti fondamentali della persona umana: istruzione, sanità, giustizia, servizi, casa e lavoro. Indirizzare la destinazione del proprio obbligo costituzionale in percentuale ai propri redditi dichiarati, e quindi con maggiore rilevanza/efficacia da parte di chi ha redditi maggiori, significa sottrarre agli altri, a quelli con minori disponibilità e maggiori bisogni, la dignità di diritti sociali per ricondurli nella carità. Carità è infatti quella che viene consentita e sollecitata con la “donazione” dell’8 per mille, che nulla ha che vedere né con la solidarietà,

che compete allo Stato, né con il volontariato, che comporta la donazione del vero e unico bene che può essere “donato”: se stessi, il proprio tempo, le proprie energie fisiche o mentali, il proprio impegno personale e diretto e non il denaro (tanto più se dello Stato). Il piano sostanziale, spesso, è ancora più grave. Se si fa eccezione di piccole realtà di volontariato diretto, le grandi organizzazioni, tutte quelle “ufficiali” e mol-

te anche di quelle non istituzionali, consumano quote percentuali impressionanti dei fondi che riescono a raccogliere per sostenere la loro organizzazione e funzionamento. Sappiamo (chi ha visto una recente trasmissione di “Report” ha conosciuto anche i precisi dati numerici) che la Chiesa Cattolica trattiene per sé ben l’80% dei fondi raccolti con l’8 per mille; lo Stato, addirittura, li utilizza per finanziare missioni mili-

FOLIGNO GIUGNO 2010

tari sfrontatamente vestite da operazioni umanitarie (!). Si potrebbe dire ancora molto sulla “filosofia” delle Onlus, Ong, organizzazioni di utilità sociale, fondazioni benefiche, ecc. che, di fatto, svolgono funzioni di sostituzione delle incombenze proprie dello Stato “pescando” le risorse (o almeno una parte rilevante delle stesse) da sgravi e agevolazioni fiscale, quindi, sempre dalle casse dello Stato. L’argomento è di grande importanza e merita approfondimenti con il contributo critico di quanti realmente “donano” le proprie energie e risorse alla solidarietà. Appare importante chiudere questo articolo con una avvertenza: qualunque sia la vostra scelta, compilate sempre la sezione della dichiarazione dei redditi relativa alla destinazione dell’8 per mille, infatti, per un perverso meccanismo normativo (non crediamo affatto “inconsapevole”), le quote non destinate, che superano il 60% del totale delle dichiarazioni, vengono automaticamente ripartite tra i soggetti indicati da coloro che hanno sottoscritto la destinazione, sicché questi soggetti si trovano a ricevere oltre il doppio di quanto effettivamente loro spetterebbe per espresse scelte dei propri “donanti”. Ciò è estremamente grave perché in questo modo è lo Stato a destinare somme importanti delle proprie entrate fiscali (come detto più del doppio del “dovuto”) a soggetti che i cittadini non hanno affatto indicato.

La distribuzione del gettito Le ultime comunicazioni ufficiali e definitive si riferiscono incredibilmente alle dichiarazioni dei redditi del 2004 (redditi 2003). Questa la distribuzione: 89,81% Chiesa Cattolica 7,74% Stato 1,43% Valdesi 0,37% Comunità Ebraiche 0,26% Luterani 0,20%Avventistidelsettimogiorno 0,19% Assemblee di Dio in Italia Su oltre trenta milioni di contribuenti solamente il 39,52% ha espresso un’opzione.. la Conferenza Episcopale ha disposto nel 2007 di contributi per 991 milioni di euro. Come vengono spesi CHIESA CATTOLICA!l’80% al sostentamento del clero e alle “esigenze di culto” e solo il 20% alle missioni umanitarie STATO!E’ l’unico che non fa pubblicità. Gli ultimi contributi sono stati utilizzati anche per finanziare la missione di guerra in Afganistan. CHIESA VALDESE!Rifiuta di destinare i fondi ottenuti al sostentamento del clero. LUTERANI!Una parte dei fondi viene utilizzata per il sostentamento dei pastori. COMUNITÀ EBRAICHE!I fondi sono utilizzati per «solidarietà sociale, attività culturali, restauro patrimonio storico, sostegno ad attività giovanili, strutture ospedaliere per la cittadinanza, cultura della memoria, lotta a razzismo e pregiudizio». CHIESE AVVENTISTE!Rifiutano di destinare i fondi ottenuti al sostentamento del clero. ASSEMBLEE DI DIO!I fondi sono destinati esclusivamente alle missioni e alla beneficienza.

Caraibi. Sopratutto per i contrabbandieri e per chi ha soldi neri da nascondere. Cosa che sembra abbastanza comune, anche dalle nostre parti. Venezuela merita un discorso separato per la complessità del personaggio che lì governa, il costo del petrolio che gli permette di fare politiche populiste/demagogiche, i metodi che usa per sbarazzasi dei oppositori, gli interessi e la mentalità di questi e tante altre cose. Non si può scrivere due righe su questo paese senza cadere in analisi superficiali. Sarebbe un tema da discutere in altre sedi più approfonditamente. Colombia è in mano alle vecchie oligarchie, ai paramilitari di destra e ai narco/terroristi della FARC travestiti da rivoluzionari. Molti settori in

quel paese campano del narcotraffico e le lotte interne sono semplicemente per il controllo di questo. Il giorno che si metteranno d’accordo le diverse frazioni e si divideranno il controllo, sarà un paese dove regnerà la pace. Il resto dei problemi sociali non se ne parla adesso e meno se ne parlerà dopo. Neanche Garcìa Màrquez apre bocca su questi temi. In Ecuador c’è un governo di sinistra che sembra non tanto estremista. Fa accordi con gli Americani e riceve soldi da Chavez. Pragmatismo puro. Il resto delle cose, compreso la situazione sociale devastante e il problema indigeno, le tengono a “bagnomaria”, almeno per il momento.

America Latina Uno sguardo ad un immenso e variegato subcontinente tanto reclamizzato ma così poco conosciuto e studiato OSVALDO GUALTIERI

America Latina, dopo anni di dittature, rivoluzioni, morti, torturati, scomparsi e via dicendo, sta vivendo una situazione politica molto ricca e varia da paese a paese. Parlerò di alcuni, senza che ciò significhi che quelli di cui non parlo, per ragioni di spazio, siano meno importanti e interessanti. Il Messico, dopo oltre 60 anni di governo del PRI (Partito Rivoluzionario Istituzionale) che si rifaceva alla rivoluzione zapatista per far finta che era popolare, ha un governo di destra nato da una gigantesca frode elettorale che all’inizio stava per provocare una guerra civile, ma che poi è stata accettata anche da tutti i Partiti d’opposizione. A cambio di cosa? E’ facile immaginarlo dato che i “santi” soldi in quel paese sono alla base di tutto. Da sempre. In Guatemala hanno smes so ufficialmente di fare massacri di indigeni e non indigeni. Nella realtà questi massacri continuano sotto forma di miseria estrema. ingiustizia, segregazione,

razzismo, ecc. ecc. Nessuno dei militari assassini è finito in galera. Neanche quelli che hanno ammazzato suore e preti. Su El Salvador ho scritto un articolo mesi fa e mi sembra che è l’unica realtà veramente positiva che fa sognare (per il momento solo sognare) che ci potrebbe essere una via alternativa a tutte quelle finora sperimentate che potrebbe, ripeto “potrebbe”, creare le condizioni per un futuro molto migliore per quel paese. Se lo per-

mettono le difficoltà esterne e soprattutto interne provenienti dai settori di destra, ma anche da una sedicente sinistra, che non sono altro che dei vecchi fossili stalinisti che non hanno imparato niente della storia recente. In Honduras, dopo la “buffonata” di Zelaya che, contro il parere del Congresso, la Corte Suprema e il suo stesso Partito, voleva realizzare un falso referendum per perpetuarsi al potere con l’appoggio del suo mentore Hugo Chavez, c’è

un governo nato da elezioni nelle quali hanno avuto una stragrande maggioranza. Il presidente è Porfirio Lobos il quale, nella non lontana gioventù, era del partito Comunista ed era andato a studiare nell’URSS. Quando è tornato ha scelto di diventare milionario e di destra. In Nicaragua c’è come Presidente Daniel Ortega e, cosa molto importante, la sua ambiziosa insaziabile moglie, anche su questo paese ho scritto un articolo mesi fa. Nei ultimi mesi nessuna novità, oltre che le “squadracce” sulle quali si appoggia il governo che sono ogni giorno più agguerrite. Della spinta rivoluzionaria dei anni 80 sembra tutto finito. Costa Rica ha una democrazia che fa chiamare questo paese “la Svizzera d’America”. E da oltre 50 anni che lì non succede niente di spettacolare. Nel bene e nel male, tanto che è in quel paese che vanno molti pensionati nordamericani a passare gli ultimi anni della loro vita. Perché il sole del Costa Rica costa di meno. Panamà è stato, lo è adesso e sembra che lo sarà per molti anni, il “supermercato” del centroamerica e dei

segue nel prossimo numero


FOLIGNO GIUGNO 2010

Cultura/e

www.piazzadelgrano.org

51

Come uccidere la scuola pubblica: finanziare quella privata, eppure... Costituzione, art. 33: “Enti e privati hanno diritto di istituire scuole ed istituti di educazione senza onere per lo Stato” PIERO CALAMANDREI

Quando la scuola pubblica è cosa forte e sicura, allora, ma allora soltanto, la scuola privata non è pericolosa. Allora, ma allora soltanto, la scuola privata può essere un bene. Può essere un bene che forze private, iniziative pedagogiche di classi, di gruppi religiosi, di gruppi politici, di filosofie, di correnti culturali, cooperino con lo Stato ad allargare, a stimolare, e a rinnovare con varietà di tentativi la cultura. Ma rendiamoci ben conto che mentre la scuola pubblica è espressione di unità, di coesione, di uguaglianza civica, la scuola privata è espressione di varietà, che può voler dire eterogeneità di correnti decentratrici, che lo Stato deve impedire che divengano correnti disgregatrici. La scuola privata, in altre parole, non è creata per questo. La scuola della Repubblica, la scuola dello Stato, non è la scuola di una filosofia, di una religione, di un partito, di una setta. Quindi, perché le scuole private sorgendo possano essere un bene e non un pericolo, occorre:! - che lo Stato le sorvegli e le controlli e che sia neutrale, imparziale tra esse. Che non favorisca un gruppo di scuole private a danno di altre, - che le scuole private corrispondano a certi requisiti minimi di serietà di organizza-

zione. Ci siano pure scuole di partito o scuole di chiesa. Ma lo Stato le deve sorvegliare, le deve regolare; le deve tenere nei loro limiti e deve riuscire a far meglio di loro. La scuola di Stato, insomma, deve essere una garanzia, perché non si scivoli in quella che sarebbe la fine della scuola e forse la fine della democrazia e della libertà, cioè nella scuola di partito. Come si fa a istituire in un paese la scuola di partito? Si può fare in due modi. Uno è quello del totalitarismo aperto, confessato. Lo abbiamo esperimentato, ahimè. Credo che tutti qui ve ne ricordiate, quantunque molta gente non se ne ricordi più. Lo abbiamo sperimentato sotto il fascismo. Tutte le scuole diventano scuole di Stato: la scuola privata non è più permessa, ma lo Stato diventa un partito e quindi tutte le scuole sono scuole di Stato, ma per questo sono anche scuole di partito. Ma c’è un’altra forma per arrivare a trasformare la scuola di Stato in scuola di partito o di setta. Facciamo l’ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere,

una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C’è una certa resistenza; in quelle scuole c’è sempre, perfino sotto il fascismo c’è stata. Allora, il partito dominante segue un’altra strada (è tutta un’ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A “quelle” scuole private gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per

dare la prevalenza alle sue scuole private. Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d’occhio i cuochi di questa bassa cucina. L’operazione si fa in tre modi: ve l’ho già detto:! - rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni.! - attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette.! - dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico!!Quest’ultimo è il metodo più pericoloso. Questo dunque è il punto, è il punto più pericoloso del metodo. Denaro di tutti i cittadini, di tutti i contribuenti, di tutti i credenti nelle diverse religioni, di tutti gli appartenenti ai diversi partiti, che invece viene destinato ad alimentare le scuole di una sola religione, di una sola setta, di un solo partito […]. Per prevedere questo pericolo, non ci voleva molta furberia. Durante la Costituente, a prevenirlo nell’art. 33 della Costituzione fu messa questa disposizione: “Enti e privati hanno diritto di istituire scuole ed istituti di educazione senza onere per lo Stato”.

Prendimi adesso baby qui come sono Stringimi forte, prova a capire Il desiderio è forte è il fuoco che respiro L'amore è un banchetto sul quale ci sfamiamo Avanti ora prova a capire Come mi sento quando sono nelle tue mani Prendi la mia mano, vieni al riparo Loro non possono ferirti ora Non possono ferirti ora non possono ferirti ora Perché la notte appartiene agli amanti Perché la notte appartiene al desiderio Perché la notte appartiene agli amanti Perché la notte appartiene a noi Ho dubbi quando sono sola L'amore è uno squillo, il telefono L'amore è un angelo travestito come desiderio Qui nel nostro letto finché mattino arriva Avanti adesso prova a capire Come mi sento sotto il tuo comando Prendi la mia mano mentre il sole tramonta Loro non possono toccarti ora non possono toccarti ora, non possono toccarti ora perché la notte appartiene agli amanti Con l'amore dormiamo Con dubbio il circolo vizioso Gira e brucia Senza di te non posso vivere Perdona, questo desiderio acceso Io credo che sia ora, troppo vero di sentire Cosi toccami ora, toccami ora, toccami ora Perché la notte appartiene agli amanti Perché stanotte ci sono due amanti Se crediamo nella notte, ci fidiamo Perché stanotte ci sono due amanti……

Largo a noi! L’esame di maturità e la nuova vita ancora tutta da costruire ARIANNA BOASSO

Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza. La cultura è organizzazione, disciplina del proprio io interiore; è presa di possesso della propria personalità, e conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti, i propri doveri. (Antonio Gramsci) Impegnatevi, a vostra volta, a lavorare sempre più e meglio, per accrescere le vostre file, per portare dappertutto la parola nostra liberatrice, per diffondere con slancio sempre nuovo la grande speranza e la certezza del socialismo. (Palmiro Togliatti) Non dovete avere paura di discutere, di battervi, di dire la vostra opinione di fronte a chiunque; dovete avere paura di una cosa soltanto di non essere davvero dei combattenti comunisti. (Giancarlo Pajetta) Fate che, grazie al vostro lavoro e ai vostri sacrifici, grazie alla lotta solidale di tutti, già da adesso la vita dei giovani sia meno dura, più gaia, più promettente. (Luigi Longo) Se i giovani si organizzano, si impadroniscono di ogni ramo del sapere e lottano con i lavoratori e gli oppressi, non c'è scampo per un vecchio ordine fondato sul privilegio e sull'ingiustizia. (Enrico Berlinguer)

L’esame di maturità è il primo vero traguardo, esperienza comune per la quale tutti passano, i nostri genitori prima di noi e molti altri dopo, ma in fondo che cosa significano quei giorni di maturità, prima gli scritti e poi il fatidico orale così trepidamente atteso? I giorni precedenti sono massacranti, un tour de force estenuante, giornate chiusi a casa a studiare con l’estate che intanto avanza, imperterrita, indifferente agli infelici maturandi che la vedono arrivare da dentro casa, sovrastati da libri, vocabolari e appunti. La maturità è il primo punto fermo, la fine delle scuole superiori e l’inizio di qualcos’altro. Ma cosa? Esperienze nuove, università che aspettano con i loro test d’ingresso? O la prima esperienza di lavoro? O la vita di sempre? All’ultimo anno di superiori si sogna, come non mai, ci

si immagina come sarà la nostra vita fuori da lì, si pensa a cosa si vorrebbe essere, si sogna di partire, andarsene lontano, in altre città e stare a vedere cosa la vita ci riserva. In questo groviglio di emozioni, ce ne è una che a volte si fa sentire, ovvero la paura, il senso di vertigine che si prova prima di saltare nell’ignoto, la paura di scoprire che forse era meglio prima, quando si era piccoli alle prese con vocabolari troppo pesanti. Ri-

cordo con tenerezza una frase della mia amata professoressa di latino e greco, che un giorno, vedendoci alle prese con scelte universitarie vacillanti, ci disse : “ Mi fate tenerezza, ormai siete consegnati alla vita”; in quel momento non era chiaro cosa volesse dire, pensavamo che in fondo non sarebbe cambiato nulla, ma quelle parole le scrissi ugualmente sul diario, convinta che mi sarebbero tornate utili in futuro, un po’ come tutte le sue perle

di saggezza sanno fare, con la loro potente carica chiarificatrice nei momenti più confusi. Ora mi rendo conto di quanto siano vere quelle parole. Se è vero che “Homo faber fortunae suae”, che si è artefici del proprio destino, si deve iniziare a costruire da soli la propria vita, accumulando esperienze su esperienze e cogliere al volo le occasioni che si presentano. Ora tocca a noi affrontare la vita. Sta a noi districarci nelle quotidiane difficoltà, affrontare esperienze universitarie o scontrarsi con gli scogli del mondo del lavoro senza rassicuranti professori che ci sostengano, catapultati in una nuova dimensione spazio- temporale a volte troppo stretta o spesso troppo larga per andare bene, con la vaga impressione di essere cresciuti e di non essere ancora pronti per essere già grandi. L’esame di maturità è questo, una linea di demarcazione. La vita ci sta solo aspettando.


61

www.piazzadelgrano.org

Lavoro

FOLIGNO GIUGNO 2010

I numeri della crisi 170 i tavoli di crisi aperti al ministero dello Sviluppo economico. A rischio 200-250mila posti Sono 170 i tavoli di crisi aperti al ministero dello Sviluppo economico. A rischio 200-250mila posti I numeri della crisi La mappa della crisi vede alcuni settori particolarmente in sofferenza, come quello dei call center, con circa 20mila posti a rischio. A quota 15mila i lavori in bilico nella ceramica, soffre il distretto del mobile imbottito fra Puglia e Basilicata, che rischia un ridimensionamento nell'ordine di 5mila posti su un totale di 15mila. Fra le situazioni di maggior rilievo, il gruppo Merloni, con 4mila posti a rischio in Umbria, Marche ed Emilia e con il recente annuncio della volontà di chiudere due stabilimenti Indesit, nelle province di Bergamo e Treviso. I 170 tavoli aperti riguardano aziende che hanno in torale 400mila dipendenti. È pari a uno su quattro il numero di coloro che rischiano di perdere il posto, per un totale di circa 109mila persone. Ma da questo monitoraggio sono escluse le piccole e medie aziende (i tavoli aperti riguardano imprese coon almeno 150200 addetti). Fra l'altro, non ci sono neanche le vertenze relative ai grandi gruppi, seguite dall'insieme del ministero, come Fiat, Telecom, Eni, e

le aziende in amministrazione straordinaria. Per cui, secondo i calcoli di Giampiero Castano, il responsabile dell'unità di crisi, si arriva a 200250mila posti a rischio. Geograficamente, la Regione più esposta è la Lombardia, con 3.777 posti a rischio, seguita dal Piemonte, a quota 3370, e dalla Puglia, a 3120. Con un numero di posti fra i 2mila e i 3mila, Veneto, Lazio, Toscana e

Campania. Intorno a quota mille Sardegna, Abruzzo, Basilicata ed Emilia Romagna. Quanto ai settori, non si salva nemmeno il Made in Italy, per esempio con le crisi di Mariella Burani, in amministrazione controllata, che riguarda mille e cinquecento persone, o di Ittierre, l'azienda di It Holding che sarà in vendita entro l'estate, con una vertenza che riguarda 1500 lavoratori, ma an-

che del Gruppo Miroglio o di Golden Lady. Per non parlare dell'information technology, che fra ex Eutelia, Omnia Network, Phonemedia e altri vede circa 20mila persone rischiare di perdere il lavoro. Circa 4500 i posti a rischio nella chimica di base, con vertenze come quella della Vinylis di Porto Torres, i cui operai nei mesi scorsi hanno occupato l'Asinara ribattezzandola Isola dei

disoccupati. Altri 4mila lavori in bilico nella farmaceutica, Oltre tremila nella componentistica auto, con le crisi di Ergom, dove 500 persone rischiano di perdere il posto in Piemonte, Campania e Lombardia, Oerlikon, 1200 posti, o della Grimeca di Rovigo. ( Fonte: ManagerOnline Barbara Weisz) l ricorso alla cassa integrazione a maggio segna, ancora una volta, il dato

più alto di sempre con circa 117 milioni di ore richieste mentre irrompe con tutto il suo peso la Cassa integrazione in deroga - lo strumento che estende gli ammortizzatori sociali ai lavoratori che finora non erano tutelati - segnando, da inizio anno a maggio, un aumento del 629,68% sui primi cinque mesi del 2009, per un totale di 120.759.864 ore di Cigd. E' quanto si apprende da una nota diffusa oggi (21 giugno) da Corso Italia. Ad aggravare la situazione c’è sicuramente la mancanza del ministro di riferimento, dato che il dicastero per lo Sviluppo Economico risulta ancora vagante, provocando un vuoto incolmabile per quelle aziende che si sono affidate al governo ed alle istituzioni per concordare il percorso per superare la fase di crisi nel modo più indolore.. L’interim del presidente del Consiglio doveva durare pochi giorni e, invece, dal 4 maggio, giorno delle dimissioni di Claudio Scajola, è passato un mese e mezzo. Speriamo che finalmente venga individuato una figura di riferimento, fondamentale per poter portare a termine vertenze così importanti per la nostra economia e per le miglliaia di famiglie coinvolte.

25 mila scrutini bloccati La Gelmini grida al complotto dei mass-media, ma dopo lo straordinario successo la lotta proseguirà anche durante gli esami di maturità I dati dello sciopero degli scrutini, indetto dai COBAS, sono sbalorditivi, a testimonianza dell’enorme malcontento per il massacro della scuola pubblica: abbiamo raggiunto i 25 mila scrutini bloccati, con decine di migliaia di scioperanti “diretti” e decine di migliaia di docenti ed Ata che hanno contribuito alle Casse di Resistenza. Lo sciopero ha dilagato soprattutto nel Lazio con (cifre arrotondate al centinaio più vicino) 2700 scrutini bloccati (1600 a Roma), in Sicilia con 2400, 1600 in Emilia-Romagna, 1500 in Campania e Lombardia, 1300 in Piemonte e Sardegna, 1200 in Toscana, 1100 in Veneto. Lo sciopero delle attività si è diffuso in tutti gli ordini di scuola, quello degli scrutini ha straripato nelle superiori, dove sono stati fermati quasi 19 mila scrutini. Le classi da scrutinare erano 93 mila e in media gli scrutini erano “spalmati” su 6 giorni: dunque, nei due giorni di

sciopero si tenevano circa 31 mila scrutini, da cui vanno tolte le classi “terminali” non coinvolte: cosicchè, abbiamo bloccato circa 19 mila classi su circa 27 mila, con una percentuale del 70%. Il movimento di lotta, promosso dai COBAS e dai precari organizzati, chiede che si cancellino i 41 mila tagli di posti di lavoro e la Finanziariamassacro, il blocco degli scatti “di anzianità” e dei contratti, il furto delle liquidazioni e l’allungamento dell’età pensionabile; e reclama l’assunzione dei precari/e, massicci investimenti nella scuola pubblica, l’annullamento della “riforma” delle superiori, la restituzione a tutti/e del diritto di assemblea. Solo la ministra dormiente Gelmini non si è accorta di niente, e risvegliatasi d’improvviso, ha delirato su “iniziative isolatissime” accusando – Berlusconi, suo mentore e protettore, docet – centinaia di agenzie di stampa, giornali, TV e

radio, che hanno registrato il successo straordinario dello sciopero, di “complotto” contro il governo. Molti docenti volevano proseguire ma, purtroppo, gran parte del diritto di

sciopero ci è stato sottratto venti anni fa con la anticostituzionale legge 146 del ’90, chiamata anti-COBAS, scritta o approvata da quei sindacati monopolisti, in primis la Cgil, che per de-

cenni denunziarono ogni limitazione al diritto di sciopero come “fascista” ma che, di fronte ai nascenti COBAS, che mettevano in discussione il sindacalismo di mestiere, preferirono

cancellare la “materia prima” per la lotta. La lotta continuerà nei prossimi giorni, durante gli esami di maturità. Piero Bernocchi portavoce nazionale COBAS


FOLIGNO GIUGNO 2010

Lavoro

www.piazzadelgrano.org

71

Diritti dei lavoratori, libertà d’impresa, sviluppo economico “Bisogna riformare l'articolo 41 della Costituzione. Quando la libertà di impresa sarà riconosciuta ci saremo liberati di lacci e laccioli che sono stati pensati da democristiani e comunisti. Sono passati 62 anni dall'entrata in vigore della Carta Costituzionale e le cose sono cambiate.” (Berlusconi)

Assalto ai principi costituzionali dell’economia etica e sociale Repubblica Italiana Art. 42. La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. Art. 41 L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.

Crescita PIL 2010: “0”

Repubblica Popolare Cinese Art. 15 Lo stato attua un'economia pianificata, sulla base della proprietà pubblica socialista. Lo stato, mediante l'equilibrio complessivo della pianificazione economica e la funzione ausiliare regolante del mercato, garantisce uno sviluppo proporzionato e coordinato dell'economia nazionale. Art. 11 L'economia individuale dei lavoratori urbani e rurali, entro l'ambito delle norme di legge, è un complemento dell'economia di proprietà pubblica socialista. Lo stato protegge i diritti e gli interessi legittimi dell'economia individuale. Lo stato dirige, aiuta e sorveglia l'economia individuale attraverso misure amministrative.

Crescita PIL 2010: “+10”

Assalto ai diritti costituzionali dei lavoratori Marchionne: “Lunedì scorso lo stabilimento di Termini Imerese è andato in sciopero e l'unica ragione era che stava giocando la nazionale italiana. Cerchiamo di smetterla di prenderci per i fondelli: come lo fanno a Termini, l'hanno fatto a Pomigliano e lo fanno in tutti gli stabilimenti italiani. O facciamo il nostro lavoro seriamente o la Fiat non è interessata. L'Italia non avrà un futuro manifatturiero, l'industria non esisterà più. Se la vogliamo ammazzare me lo dite, lo facciamo, sono disposto a fare quello che vogliono gli altri". Marcegaglia: “Il no della Fiom all'accordo con Fiat sullo stabilimento è inaccettabile. Non si può dire di no per difendere alcuni lavoratori grandi assenteisti che si mettono in falsa malattia. Chiediamo alla Fiat di ripensare la sua posizione e di cogliere questa sfida". Brunetta: “L’intesa tra Fiat e sindacati è un accordo straordinario mentre poco straordi-

nario è il contrasto di una parte sindacale minoritaria, che di fatto difende fannulloni e opportunisti. I fannulloni sono gli assenteisti finti per malattia, e tutti sanno che l’assenteismo in quell’area, per doppio o triplo lavoro, è non solo storicamente rilevante ma poco contrastato anche dagli stessi sindacati, che sono stati messi in minoranza dagli assenteisti. C’è poi l’opportunismo di proclamare scioperi più o meno individuali per non fare i turni. A coprire tutto questo la Fiom invocando la Costituzione, lo Statuto dei lavoratori, il diritto di sciopero, ma chi attacca il diritto di sciopero sono gli opportunisti: quelli che usano in maniera opportunistica, per altri fini, un diritto fondamentale dei lavoratori. In realtà questa è la sostanza del contendere. E perché c’è qualche decina o centinaia di opportunisti o fannulloni, un’intera area deve rinunciare a 15mila posti di lavoro e 700 milioni di euro di investimenti? Suvvia, siamo seri. È ora di finirla con gli opportunisti e i fannulloni, ovunque essi si collochino, un po’ come è successo negli anni 80 con la marcia dei 40mila”.

Produzione Fiat maggio 2009/2010: “-22,7%” Dividendo Fiat 2009 “250 milioni” Stipendio Marchione “+40%) “7 milioni annui”

Il no della FIOM per il Lavoro, per i Diritti e per la Dignità “Lavoratrici e lavoratori di Pomigliano, sulle vostre spalle pesa in questi giorni un terribile ricatto. Da un lato la minaccia di chiusura dello stabilimento, dall’altro i diritti fondamentali garantiti dal Contratto nazionale, dallo Statuto dei lavoratori, dalla Costituzione. L’accordo che la Fiom non ha sottoscritto porta indietro di più di 50 anni le condizioni e i diritti del lavoro. Cambiano i turni, le pause, l’organizzazione del lavoro. Con un aggravio pesantissimo per la salute delle lavoratrici e dei lavoratori. Ma, oltre a questo, per la prima volta in Italia si scrive che per le lavoratrici e i lavoratori di Pomigliano non varrà più il Contratto nazionale sugli orari di lavoro, sul trattamento di malattia, sulle qualifiche. Per le lavoratrici e i lavoratori di Pomigliano non ci saranno più le regole e i diritti scritti sul contratto e validi finora per tutti. Ma in più, oltre a questo, si toglie ai lavoratori e al sindacato il diritto alla difesa contro i soprusi dell’azienda. Questo è un punto di una gravità senza precedenti, mai sottoscritto in nessun accordo. Infatti al punto 15 dell’accordo separato la

Fiat scrive che tutte le parti contenute nell’accordo diventano una sorta di nuovo contratto individuale di lavoro e che il lavoratore che viola questo nuovo contratto è passibile di provvedimenti disciplinari fino al licenziamento. In questo modo i lavoratori di Pomigliano dovrebbero perdere la tutela dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e della stessa Costituzione. La Fiom ha detto di no a un accordo che non solo peggiora le condizioni di lavoro, ma che se applicato impedisce qualsiasi possibilità di migliorarle. La Fiom ha dato la disponibilità a trattare e discutere sulle pesanti condizioni di lavoro chieste dalla Fiat, ma non a rinunciare ai diritti personali e indisponibili delle lavoratrici e dei lavoratori. Ora a Pomigliano si dovrebbe scegliere tra il posto di lavoro e i diritti sacrosanti garantiti dalla Costituzione. È una scelta vergognosa che la Fiom respinge. La Fiom non accetta e non accetterà mai di cancellare i diritti fondamentali delle lavoratrici e dei lavoratori. Per questo, comunque vada un referendum che è assolutamente immorale e illegittimo, la Fiom continuerà a dire NO all’accordo e a tutelare in tutte le sedi i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori di Pomigliano”

Disoccupazione Italia maggio 2010 “10,2%” Stipendi operai Fiat: 300 euro Serbia, 500 euro Polonia, 1.100 euro Italia


81

www.piazzadelgrano.org

Enti locali e servizi

FOLIGNO GIUGNO 2010

La tessera del tifoso

Il danno da vacanza rovinata

Altre vie per consumare il calcio

La responsabilità del tour operator nella giurisprudenza

LORENZO BATTISTI

ELISA BEDORI

Il tifo organizzato si è dichiarato contrario e nei social network la parola chiave è “no alla tessera del tifoso!”. Ma in realtà, di cosa si tratta? Secondo la definizione resa dagli organi del Governo, la Tessera del tifoso è “una card dedicata a tutti i tifosi di calcio e rappresenta il segno della appartenenza; fornisce servizi e vantaggi per coloro che vanno allo stadio; vuole essere uno strumento di fidelizzazione fra i tifosi e le squadre. La tessera è rilasciata, su richiesta, dalla società sportiva dopo il 'nulla osta' della questura competente”. Apparentemente, dunque, sembra offrire molteplici vantaggi per gli utenti/tifosi, come accedere allo stadio anche nei casi di partite soggette a restrizioni o attraverso varchi dedicati (una sorta di corsia preferenziale). Procedure snellite sono previste anche per l’acquisto dei biglietti, ove sostituirà il documento di identità. Chi ha la carta usufruirà delle eventuali ulteriori promozioni e opportunità offerte dalle società calcistiche in esclusiva (diritto di prelazione per l’acquisto di biglietti, accumulo di punti, convenzioni con altre società private come Ferrovie dello Stato, Autogrill e altri partner e sponsor). L’attività degli organi di polizia si limita all’esclusivo accertamento di eventuali motivi ostativi e solo per il

Da diversi anni a questa parte si sente parlare sempre più spesso di “danno da vacanza rovinata”. Tale voce di danno consiste sostanzialmente nel pregiudizio di tipo psicologico subito dal vacanziere per il mancato o non completo godimento del viaggio organizzato, considerato dal medesimo come meritata occasione di riposo, piacere e svago. La Corte di Cassazione, in una recentissima sentenza (n. 5189/2010 del 04.03.2010) fissando il principio secondo cui “il depliant illustrativo costituisce parte integrante dell’offerta contrattuale”, ha ribadito che “con il contratto avente ad oggetto un pacchetto turistico all inclusive, sottoscritto dall’utente sulla base di un’articolata proposta contrattuale, spesso basata su un depliant illustrativo, l’organizzatore o il venditore assumono specifici obblighi, soprattutto di tipo qualitativo, riguardo a modalità di viaggio, sistemazione alberghiera, livello dei servizi, etc.., che vanno esattamente adempiuti; pertanto, ove la prestazione non sia esattamente realizzata, sulla base di un criterio medio di diligenza ex art. 1176, comma1, c.c. (da valutarsi in sede di fase di merito), si configura responsabilità contrattuale, tranne nel caso in cui, organizzatore o venditore non forniscano adeguata prova di un inadempimento ad essi non imputabile”. Già il D. Lgs. 11/1995, che dava attuazione nel nostro Paese alla direttiva n.

tempo necessario. Infatti, per ottenere il nulla osta della Questura che autorizza le società a rilasciare la carta, è necessario non essere sottoposti a D.A.SPO. (cioè al Divieto di Accedere ai luoghi ove sono in corso manifestazioni SPOrtive) e condanne per “reati da stadio” negli ultimi 5 anni. Dopo le verifiche, i dati personali dei tifosi saranno conservati dalle società sportive e non dalla Questura. Ora, tralasciando ogni riflessione su eventuali restrizioni a diritti fondamentali come le libertà costituzionalmente garantite, la parola chiave, in ogni caso, rimane “Fidelity Card”, strumento che nel ramo del retail ai consumatori pare

piaccia moltissimo. Del resto è lo stesso sito ufficiale della Lega Calcio (Serie C) che già la descrive anche come “una carta di pagamento ricaricabile”. In altre parole, la vera anima della tessera del tifoso sembra essere quella commerciale, che si maschera – ma non troppo – dietro presunte necessità di pubblica sicurezza. E allora, se il “microcip” identificativo applicato alla grande distribuzione è una scelta tecnologica per velocizzare i servizi dedicati agli utenti finali, perché nel calcio è vista con tanto sospetto? La sensazione è che al tifoso interessi essere tifoso e, almeno per una volta, smettere di apparire consumatore.

Cortesia, una questione di cultura Il quotidiano viaggio nel mondo dei servizi e della burocrazia: basterebbe, talvolta, un sorriso per rendere qualsiasi ufficio pubblico più efficiente e a misura d’uomo. CRISTIANO DELLA VEDOVA

Nell’antichità la cortesia era chiamata in vari modi: Urbanitas perché si contrapponeva alla rozzezza e alla ruvidezza del «villano», di colui che abitava nella villa; civilitas per sottolineare che l’affabilità era tipica del «civis» consapevole della sua dignità di cittadino romano; e infine humanitas, forse il termine latino più felice per definire quell’intreccio di amabilità, benevolenza, educazione e cultura. Nell’affrontare una tematica come questa, il rischio di sforare nella retorica o di diventare protagonisti di un inutile moralismo è certamente molto elevato. Ritengo, tuttavia, senza alcuna presunzione, che molto spesso lo scopo di una parola scritta o sentita sia sem-

plicemente quello di stimolare un pensiero, un esame con noi stessi. Se mi chiedessero di colorare il concetto di cortesia, lo farei utilizzando il rosso: un rosso “condivisione” acceso, arguto e sapiente. Associo la nozione di cortesia ad un’ idea di passione per ciò e per chi ci sta intorno, ed in sostanza ad un’ idea di tensione verso la vita di cui il nostro contorno fa parte. Nell’insegnamento delle lingue straniere, in primis l’inglese, le espressioni di saluto, ringraziamento ecc. sono regolarmente presentate all’interno di brevi dialoghi fin delle primissime unità didattiche: testimonianza che la cortesia è ritenuta una condizione fondamentale della convivenza civile e un aspetto rilevante dello studio linguistico, sicché non desta meraviglia l’ampia fioritura di lavori scientifici sull’argomento e la

particolare attenzione rivolta, nell’ultimo trentennio e soprattutto in area anglosassone, al fenomeno della politeness. Cortesia, una questione di cultura. Talvolta mi risulta veramente difficile capire: qual è la differenza tra il proporsi con una “faccia negativa” e il proporsi, invece, con una “faccia positiva”? Nessuna. Assolutamente nessuna. E il tutto è totalmente gratuito. Mi capita spesso di frequentare uffici pubblici, e quasi sempre il funzionario o l’impiegato che sta al di là del vetro, esegue l’operazione richiesta senza nemmeno conoscere il viso di chi ha appena “servito”. Testa bassa, sguardo fisso, e … avanti il prossimo. Non un saluto, non un sorriso, nessun cenno. Mi rattrista pensare che l’uomo da secoli si impegna e lotta in tutte le forme per arginare e distruggere le iniquità, ma ancora, in tantissi-

mi casi, non è in grado di compiere il più semplice e innato gesto di cortesia. Ripeto, completamente gratuito. La distanza che si avverte nel salutare e non ricevere alcuna risposta è frustrante. Ma certamente è più frustrato chi non lo fa. E non esistono giustificazioni di alcun tipo per negare perfino lo sguardo a chi ti sta di fronte. Scortesia, una questione di ignoranza. Chi non potrebbe condividere che una disposizione positiva verso l’utente o il cliente, un approccio benevolo nei confronti di chi ti chiede delucidazioni su questo o su quell’argomento, porterebbe a risultati di gran lunga migliori anche in termini di efficienza. Senza voler assolutizzare il concetto, siamo di fronte ad un aumento di efficienza che non costa assolutamente nulla. Potremmo risparmiare semplicemente con un “buongiorno”, con un sorriso o con una briciola in più di pazienza?! E non esiste avviso a caratteri cubitali che possa sostituire la cordialità anche di una sola parola. Cortesia, un questione di umiltà. Ritengo che questo atteggiamento positivo sia molto più importante della chiarezza perché, mentre la vio-

90/314/CEE, disciplinava il contratto di vendita dei “pacchetti turistici”. L’art. 5 di tale direttiva CEE è stato oggetto di una pronuncia interpretativa della Corte di Giustizia CE del 12.03.2002 (C-168/00), la quale ha affermato che il consumatore ha diritto al risarcimento del danno morale derivante dall’inadempimento o dalla cattiva esecuzione delle prestazioni fornite in occasione di un viaggio “tutto compreso”. Tale sentenza ha finito per condizionare la giurisprudenza italiana ed anche la legislazione di settore confluita nell’art. 93 del Codice del Consumo. Dunque, in caso di inadempimento contrattuale da parte dell’organizzatore del viaggio possono derivare al viaggiatore un danno patri(essenzialmente moniale danno emergente per inadempimento contrattuale e eventuali spese necessarie per l’utilizzo di servizi alternativi a quelli non fruiti) e un danno non patrimoniale, os-

sia il c.d. “danno da vacanza rovinata” da alcuni ricondotto al c.d. “danno esistenziale”, determinato da nervosismo, ansia e frustrazione sopportato a causa dell’inesatta esecuzione della prestazione promessa. Il turista, per vedersi riconosciuto il danno, deve contestare tempestivamente sul luogo di villeggiatura i disagi e le difformità riscontrate nell’esecuzione del contratto, al fine di mettere l’operatore turistico nella condizione di porre rimedio ai disguidi creati. In ogni caso, entro 10 giorni dal ritorno dalla vacanza, il turista dovrà inviare all’operatore turistico una formale contestazione, contenente un preciso elenco dei disguidi subiti, provvedendo ad allegare tutta la documentazione comprovante tali disagi. Entro e non oltre un anno dal rientro nel luogo di partenza, il turista dovrà esperire l’azione risarcitoria contro il tour operator considerato responsabile

lazione della chiarezza può compromettere la comprensione, se violiamo le “regole” della cortesia compromettiamo il rapporto con l’interlocutore. In questa eclissi quotidiana della cortesia, mi sorgono alcuni interrogativi: perché mai un sorriso rivolto a uno sconosciuto in un negozio, in un bar, o un “buongiorno” caloroso oppure l’impegno a mettere a suo agio uno straniero capitato nel tuo stesso ufficio dev’essere segno di servilismo o di ipocrisia? Predi-

sporre l’animo altrui alla benevolenza e al buon umore è invece un atto di suprema civiltà e cultura. Cortesia come collante e cooperazione, cortesia come modalità sociale d’azione. Tanti input, tante considerazioni, tanta semplicità; non occorre citare un filosofo come Schopenhauer che ha trattato anche del concetto in parola: mi piace citare Corrado, uno di noi: “Chi dà per cortesia dà con allegria. Non costa nulla a chi la usa, procura piacere a chi la riceve”.


FOLIGNO GIUGNO 2010

Salute

www.piazzadelgrano.org

Il conflitto tra Società ed Obesità La grande ipocrisia dello slogan “grasso è bello!” L’obesità ha una correlazione sociale ed economica LEONARDO MERCURI

Questo slogan che è stato molto in voga, soprattutto negli Stati Uniti, diversi anni fa è forse oggi poco attuale, o meglio lo è alle nostre latitudini. Ancora oggi infatti in alcune popolazioni o ceti sociali o addirittura in alcune razze permane una valutazione del soggetto ricco di grasso diametralmente opposta a quella della nostra società. Tutti sanno come negli stessi Stati Uniti le persone obese siano molte e assolutamente inserite nel contesto sociale, ma pochi sanno forse che la razza nera presenta nelle donne una percentuale di sovrappeso maggiore che nella razza bianca e che nell'uomo ciò è vero solo nell'età tra 35 e 50 anni. In una popolazione di Indiani d'America, chiamati Pimas, esiste un'altissima percentuale di persone in sovrappeso ( 33.7 % per i maschi e 40.3% per le donne ) e questo riveste un titolo di grande prestigio nell'ambito della loro comunità. Già nell'infanzia l'obesità in tutte le popolazioni si manifesta con chiarezza anche in relazione al contesto familiare. Bambini obesi vengono spesso da genitori obesi e saranno adulti obesi sulla base di consuetudini legate al tipo di alimentazione e di abitudini di vita della famiglia stessa. Addirittura l'obesità mostra una correlazione con la situazione sociale ed economica del soggetto. E' stato infatti dimostrato in uno studio su larga scala come questi fattori siano strettamente connessi con risultati opposti addirittura nei due sessi: negli uomini di fascia sociale elevata è maggiore infatti la presenza dell'obesità contrariamente a quanto succede per la donna dove nelle fasce sociali elevate l'obesità viene

vista come uno spauracchio da evitare ad ogni costo ed impera lo status della donna alta, bella e magra con l'imperversare di ogni tipo di trattamento per il mantenimento della forma fisica. Nei Paesi a sviluppo industriale più recente, per esempio, l'obesità va gradualmente aumentando di frequenza. Anche il tipo di vita legato alla sede di residenza e all'attività lavorativa sono importanti. Nelle zone di campagna per esempio l'obesità è più diffusa nelle donne che negli uomini anche se la sempre crescente meccanizzazione dell'attività agricola sta portando gli uomini verso un'attività più sedentaria e quindi ad un aumento dell'obesità. Sul piano strettamente sociale, le persone obese, che lo si voglia o no, difficilmente ottengono un impatto positivo nei rapporti umani. E' luogo comune che l'obeso sia meno attivo, meno volenteroso, meno efficace sul piano lavorativo, una persona nel complesso carente sotto il profilo caratteriale. E' tipico che l'obeso debba essere necessariamente "simpatico" per ottenere l'attenzione altrui ed evitarne il distacco. Le persone in questione sono di parere assolutamente contrario e si descrivono tutt'altro che poco attive ma da una recente indagine è emerso che solo una piccola parte dei loro medici curanti si sentono di confermare questa tesi. Sul piano lavorativo è innegabile inoltre che esista nella nostra società una vera e propria discriminazione nei confronti di questi soggetti: si va dalla quasi impossibilità di essere assunti per esempio come commesse per il sesso femminile, in particolare nel campo dell'abbigliamento, all'assegnazione di territori di vendita meno competitivi per il sesso maschile. Addirittura in alcuni con-

91

Zanzara tigre Con l’estate torna il pericolo; controllo e soppressione PARIDE TRAMPETTI

corsi pubblici può essere considerato criterio di esclusione l'essere obeso o a volte anche semplicemente in sovrappeso. L'immagine femminile in particolare, proposta in tutti i campi, allo stato attuale risponde a canoni opposti alle caratteristiche delle donne in sovrappeso o peggio ancora obese. Questo fa sì che esista in queste persone un'aspettativa legata al dimagramento assolutamente discordante rispetto alla classe medica. Questa infatti punta a ridurre i problemi di salute derivanti da tale condizione, mentre l'aspettativa femminile è senz'altro più di tipo estetico a prescindere dalla salute di cui a volte poco ci si rende conto. Come accennato, malgrado in Italia la legge non ammetta discriminazioni di sorta nel campo del lavoro, l'esperienza di tutti i giorni ci dice l'esatto contrario. Contrariamente ai portatori di handicap per esempio, ritenuti dalla società non colpevoli della loro condizione

e quindi ovviamente giustificati ed aiutati, la persona obesa viene ritenuta responsabile e si ritiene essa stessa responsabile della propria condizione e dell'impossibilità a modificarla e come tale viene penalizzata e si auto-penalizza. Molti obesi, infatti, vivono in una condizione di perenne frustrazione e di scarsa considerazione di se stessa che li porta spesso ad una situazione personale sempre più compromessa. Ciò si ripercuote naturalmente su tutti i campi di interesse della vita e spesso anche su quello sentimentale in cui questa persona si sente quasi "non competitiva", incapace di suscitare interesse e di poter incontrare l'attenzione del sesso opposto, tendendo a chiudersi sempre più in se stessa fino a condurre una vita ritirata al di fuori di sguardi indiscreti e quindi, in definitiva, di possibili ulteriori rifiuti e penalizzazioni da parte di una società che si definisce in piena evoluzione.

È una zanzara diffusasi in Europa dagli anni 90, probabilmente giunta dall’Asia al seguito di pneumatici usati (Genova). È lunga dai 2 ai 10 mm, è tigrata bianco e nero. A differenza delle altre zanzare la tigre è attiva anche di giorno, non solo al tramonto e all’alba. La zanzara tigre punge rapidamente, riuscendo cosi a fuggire facilmente. Depone le uova in contenitori con piccole quantità di acqua (vasi, sottovasi, fognature otturate, grondaie). Le uova resistono alla siccità, per cui possono sopravivere fino alla ricomparsa dell’acqua. Hanno un raggio d’azione di circa 200 metri. Pur provenendo da regioni tropicali, si sta adattando anche a climi più freddi; mentre ai tropici è attiva tutto l’anno, da noi solo nei mesi caldi. La femmina di zanzara tigre ha bisogno di sangue per la produzione delle uova. Essa oltre a pungere l’uomo punge anche gli animali, per cui è un importante vettore di malattie tra diverse specie.

lari, eruzione cutanea pruriginosa, ecc) nell’isola francese di Riunione (266.000 persone contagiate, 248 morti). In Europa una sola epidemia nel 2007, in provincia di Ravenna con il contagio di circa 200 persone, una persona anziana deceduta. La zanzara tigre è importante anche nella medicina veterinaria. Per esempio, le zanzare tigre sono vettori di dirofilaria immitis, un verme parassitario che causa la la dirofilariosi cardiovascolare in cani e gatti.

Pericoli per la salute La principale caratteristica della zanzara tigre è la sua aggressività, il fatto di essere in attività sia di giorno che di notte, inoltre una forte resistenza ai veleni comuni, oltre ad una eccezionale capacità di adattamento ambientale. Essa trasmette patogeni e virus come il virus della febbre del Nilo, la febbre gialla, l’encefalite di S. Louis, del dengue ecc.. Nel 2005-2007 fu responsabile di una epidemia di virus chikungunya (febbre, mal di testa, dolori artico-

Controllo e soppressione Per evitare la diffusione e l’insediamento della specie e necessario un monitoraggio e sorveglianza soprattutto di negozi con piante importate, carichi di copertoni, punti di rinfresco sulle autostrade e stazioni ferroviarie. Importante è la distruzione dell’abitat dove depongono le uova (pozzanghere, grondaie, copertoni vecchi, sifoni per fogne, sottovasi). Per evitare che le zanzare depongano le uova è consigliabile riempire di sabbia o ghiaia vasi, sottovasi, buchi di alberi. Molto importante è scoprire la presenza della zanzara tigre. Questo può essere realizzato con una specie di trappola (OVITRAP) dove le zanzare depositano le uova che possono essere riconosciute. Più difficile è l’uso di trappole per zanzare adulte.

conseguenza i vestiti, 2) l'acido undecilenico, questo medicamento è attivo solo su infezioni da dermatofiti. 3) antimicotici azolici: (clotrimazolo, econazolo, miconazolo, ketoconazolo, bifazolo, terbinafina, fenticonazolo) questa classe di farmaci ha un’azione sovrapponibile e funzionano be-

nissimo su tutte le infezioni micotiche. Posologia e durata del trattamento Gli antimicotici usualmente si applicano due volte al giorno sulla pelle infetta con un margine di 2 cm sulla pelle sana. Il trattamento deve durare almeno una settimana dopo la guarigione delle lesioni.

CONSIGLI DAL TUO FARMACISTA

Micosi superficiali MARIO ANTONIO ZOCCO

I funghi nell'uomo si comportano come “saprofiti” (insieme a batteri e ad altri microrganismi provvedono alla importantissima funzione di degradazione delle sostanze organiche), “opportunisti” (normalmente si comportano come saprofiti, ma in presenza di particolari condizioni, possono provocare la comparsa di malattia), “patogeni” (arrivati sull'uomo determinano la malattia). Le infezioni micotiche non sono malattie pericolose ma sono fastidiose e non belle

da vedersi. Le infezioni micotiche più comuni sono: “dermatofizie” o “tigne” (Tinea Corporis, colpisce la cute priva di peli; Tinea Pedis, o piede d'atleta, si manifesta con maggiore frequenza negli spazi interdigitali del piede; Tinea cruris, inizia tipicamente da una plica inguinale; Tinea ungulum è un onicomicosi che si manifesta soprattutto alle unghie dei piedi); “pitiriasi versicolor” che colonizza la cute del tronco e del capello; le “candidosi” sono provocate soprattutto dalla Candida Albicans, che è un fungo opportunista per eccellenza, presente come sa-

profita a livello della mucosa o della cute, è sempre pronto a trasformarsi in patogeno non appena le condizioni locali o sistemiche lo permettono. I fattori che influenzano le infezioni funginee sono: “microtraumi” che alterano la flora resistente, le secrezioni, o il mantello idratante-acido; “terapie” che riducono le difese immunitarie; “macerazione cutanea” indotta da frequentazione di ambienti caldo-umidi, calzature inadeguate, indumenti sintetici; “squilibrio della flora resistente” in seguito a trattamento antibiotico. Prevenzione Particolare attenzione deve essere riservata a elementari norme igieniche: 1) lavarsi le mani con sapo-

ni acidi (Saugella, Balta, Soagen), 2) asciugarsi accuratamente dopo essersi lavati per eliminare l'umidità residua, 3) evitare indumenti che impediscono una regolare evaporazione del sudore, facilitando la macerazione della cute (abiti attillati, scarpe chiuse con suola di gomma), 4) non camminare a piedi nudi sui bordi delle vasche, negli spogliatoi, nelle docce delle piscine. Trattamento Per il trattamento delle micosi i farmaci a disposizione sono: 1) preparati magistrali (tintura rubra di Castellani, violetto di genziana, blu di metilene, eosina) hanno una buona azione antimicotica, però hanno l'inconveniente che macchiano la cute e di


101

www.piazzadelgrano.org

IL POLLO NEL PIATTO: UNA QUESTIONE ETICA?

IN RICORDO DI PEPPINO IMPASTATO ROBERTO MATERAZZI Qualche mese fa è apparsa una notizia secondo cui in un piccolo comune bergamasco, un sindaco leghista ha “eliminato” una targa celebrativa in onore di Peppe Impastato per sostituirla con una targa in memoria di un sacerdote locale. Chi era in realtà Peppe Impastato? Impastato nasce a Cinisi (Palermo) nel 1948 da una famiglia di origine mafiosa; tutti i suoi parenti, compreso il padre erano mafiosi. Peppino cresce in una realtà che non considera giusta e già all’età di 17 anni comincia ad avere i primi problemi con il padre che lo caccia di casa. A partire da quella data si impegna attivamente nella lotta di sinistra; diventa attivista dei gruppi di nuova sinistra e conduce le lotte dei contadini sfrattati, degli edili, degli operai e dei disoccupati. In seguito costituisce il gruppo musica e cultura, ma raggiunge l’apice con le sue iniziative nel 1976 quando fonda radio “AUT”. Radio “AUT” era una radio libera, autofinanziata, che aveva come scopo quello di denunciare pubblicamente i mafiosi di Cinisi e Terrasini. Storico fu il programma “onda pazza a mafiopoli” dove insieme a due compagni sbeffeggiava mafiosi e politici ma soprattutto Tano Badalamenti capo della mafia locale. Questi comportamenti molto coraggiosi e al tempo stesso

giusti gli costarono la vita. Peppe Impastato “si uccise” la notte tra l'8 e 9 maggio 78. Inizialmente infatti, secondo la stampa e le forze dell’ordine si fece saltare in aria volontariamente. Solo alcuni anni dopo “si scopri” che la causa era di origine mafiosa, e solo nel 2002 venne riconosciuto Tano Badalamenti colpevole come mandante dell’omicidio, ben 24 anni dopo. Questa è la storia di Peppe Impastato riassunta in qualche riga. Di lui infatti si conosce ben poco perché quella notte l'Italia venne scossa da un delitto molto più “grande”, quella stessa notte venne ritrovato il corpo di Aldo Moro, brutalmente ucciso, forse, dalle Brigare Rosse. Ovviamente la stampa non nominò quasi minimamente il povero Peppino. La sua colpa è stata ovviamente quella di cercare di cambiare le cose, e nel Bel Paese certe cose non si possono dire, tanto meno provare a fare. Il problema però è che tuttora quasi nessuno conosce chi era Peppe Impastato, perché quella notte il martire fu solo Aldo Moro? Perché oggi nelle scuole si insegnano solo i versi di D'Annunzio e nessuno nomina minimamente Impastato? La risposta è semplicissima: forse è giusto così, forse è giusto che un sindaco tolga un ricordo o meglio un riconoscimento ad un uomo, anzi un ragazzo, che ha peccato di in-

IOLANDA TARZIA

solenza cercando di far conosce e cambiare le cose. Forse è questo quello che ci meritiamo veramente, quello che ci siamo meritati ieri, oggi e anche domani. Questa è una poesia scritta da Peppino, e credo che valga più di mille parole sul nostro attuale e futuro interesse su questi argomenti, che forse ci piacciono cosi. E venne da noi un adolescente dagli occhi trasparenti e dalle labbra carnose, alla nostra giovinezza consunta nel paese e nei bordelli. Non disse una sola parola né fece gesto alcuno: questo suo silenzio e questa sua immobilità hanno aperto una ferita mortale nella nostra consunta giovinezza. Nessuno ci vendicherà la nostra pena non ha testimoni.

LO DARESTE IL VOSTRO TFR AUNAIMPRESADECOTTA? In una recente trasmissione di Ballarò, è stato affrontato l’argomento del possibile “migliore” utilizzo, del TFR dei lavori dipendenti del settore privato. Tra un intervento e l’altro di politici da tribuna televisiva è stata trasmessa un breve “inchiesta” sul tema: cosa sa, cosa ha fatto e cosa farebbe del suo TFR? L’inchiesta è stata articolata in due interviste: la prima a una così detta “persona della strada” e l’altra a un “onesto e laborioso” piccolo imprenditore in evidenti difficoltà. Dopo avere descritto “al volo” le varie possibili destinazioni da parte dell’INPS dei TFR incassati dalle imprese private, l’intervistatore chiede alla “signora della strada”: se lei sapesse che il suo TFR viene utilizzato per pagare gli stipendi ai così detti Lavoratori Socialmente Utili, lo lascerebbe all’INPS?

La domanda letta così potrebbe persino sembrare “encomiabile” per il senso di solidarietà che dovrebbe discendere proprio dalla denominazione dei beneficiari: i Lavoratori Socialmente Utili, se non fosse che il tono della domanda presupponeva esattamente una lettura opposta: disoccupati assistiti socialmente inutili! Ora sulla categoria dei LSU si può di tutto, ma non certamente sulle sue ragioni e finalità, quanto sull’uso deviato che ne è stato fatto: prevalentemente a parcheggio di disoccupati, utile a creare delle riserve di voti elettorali. E’ però chiaro che una cosa è dire che il “progetto” è stato deviato a uno scopo immorale, altro è dire che non aveva e non ha uno scopo altamente morale, solidale e di utilità sociale. Quello che a prima vista potrebbe apparire uno “scivolo-

FOLIGNO GIUGNO 2010

Pensieri e Parole

ne” culturale si svela nella sua reale immoralità al momento della seconda intervista al “bravo” imprenditore il quale, dopo avere candidamente dichiarato di essere in difficoltà di liquidità per le restrizioni del credito bancario, ipotizza di poter “mettere le mani” sul TFR dei propri dipendenti per finanziare senza costi la propria azienda. “Rewind”. Immaginiamo di poter riavvolgere indietro il “nastro” della trasmissione e torniamo alla “signora della strada” ponendole ora la domanda in questi termini: lei darebbe il suo TFR, senza garanzie e senza redditività, a un imprenditore in difficoltà al quale il gigantesco sistema degli Istituti di Credito multinazionali, che oggi dichiarano di produrre utili da capogiro, ha chiuso il proprio credito? Serve una risposta?

La lettura dell’articolo “La questione morale di chi ha ancora il coraggio di mangiare un “pollo””, mi ha suscitato qualche perplessità. Premetto, onde fugare qualsivoglia dubbio in merito alle ragioni che mi hanno determinato a scrivere questo breve commento al citato articolo, che chi scrive ha “scelto” di non mangiare un pollo da oltre 10 anni. La scelta è avvenuta il giorno in cui ho percepito la sofferenza degli animali che finivano nel mio piatto. Credo che questa sofferenza sia nota ai più, eppure non tutti sono in grado di

percepirla. Non per insensibilità né, ritengo, per superficialità. La percezione da parte del singolo di ciò che è estraneo al proprio io è sempre mutevole e irripetibile. Certo ci sono dei dogmi e dei precetti morali, religiosi, di giustizia ecc., che inducono ciascuno di noi a distinguere ciò che è “bene” da ciò che è “male”, così guidando i nostri singoli comportamenti. Il mancato rispetto di detti dogmi e precetti può comportare la condanna – morale, civile ecc. – del soggetto che non vi si attiene. Ma si può condannare, sic et simpliciter, chi ha una percezione diversa dalla nostra del dolore altrui?

Certamente è lodevole il comportamento di chi, come l’autore dell’articolo cui si sta replicando, cerca di sollecitare l’attenzione verso temi che spesso attraversano lo sguardo o l’udito delle persone senza, però, lasciare in essi alcun minimo segno dell’avvenuta percezione mentale o emotiva della realtà sottostante. Ma questo lodevole comportamento deve essere lungi dal sottacere una qualsivoglia implicita condanna di chi, nonostante l’attenzione mostrata a dette tematiche, non riesce a percepire il dolore dell’animale cui apparteneva il “pezzo” di carne che si trova nel piatto.

L!ESERCITO DEL SURF SAMANTHA PASSERI Rimanendo in tema di acqua, una sera, surfando in internet, e più precisamente navigando in uno di quei siti in cui si possono vedere centinaia di film gratis, mi sono scontrata un po' titanicamente con l'iceberg “L'onda” (Die Welle, nello slang originale) di Dennis Gansel, durata 101 minuti. Subito il titolo mi ha rimandato, ammetto con una goccia di nostalgia, ai giorni di svariati mesi fa in cui migliaia di studenti universitari, come me, sono scesi nelle piazze dietro a uno striscione di colore blu o agitando sacchetti di plastica azzurri. Gli squali non c'avranno mai. Così canta Piotta. I motivi di questa inondazione studentesca non trovano spazio né nelle cifre dei tagli inferti alla pubblica istruzione, né nella serie di cambiamenti che una riforma porterà. I motivi che spinsero una massa di giovani a tornare nelle strade senza utilizzare la demagogia politica tanto cara alle vecchie generazioni, sono riassunti in questa frase che ho letto su uno dei tanti cartelli persi tra la fiumana di gente: “anche l'operaio vuole il figlio dottore”. Queste parole non mi hanno colpito perché sono il ricordo di una canzone ascoltata, o perché hanno a che fare con un non so che di sinistra. Semplicemente sono anche io figlia di un operaio. Semplicemente so cosa significa per mio padre avere una figlia laureata. Semplicemente so quanti sacrifici costa quel “dottore” posto davanti al nome.

Per la prima volta la mia generazione, in quelle piazze bagnate dalla folla universitaria, ha capito tutto ciò che ho sopra esposto. Ma non l'hanno capito solo i figli degli operai. E' stata un'intera microumanità, nata dall'inizio degli anni '80 in poi, a comprenderlo. Per le strade non c'erano slogan politici o vecchi ideai sbiaditi, incompresi, distanti, vuoti. Per le strade c'erano i ragazzi e i loro sogni. C'erano i figli di Prévert. C'erano quelli che a 18 o 19 anni lasciano sperduti paesini del Sud Italia, lasciano la loro vita di adolescenti, gli amori, le famiglie, e corrono via per inseguire un futuro tutto in salita. C'erano quelli che tutti i giorni si alzano alle 5 di mattina per prendere treni o autobus, i pendolari coraggiosi, che a casa ci rientrano a sera inoltrata. C'erano quelli che abitano le topaie affittate per 300, 400 euro a stanza, spesso in nero, senza aiuti se non i soldi di famiglia, catapecchie dove non alloggerebbe un animale e dove a volte si muore un po' per poter vivere. Questi i ragazzi dell'Onda ita-

lica. Die Welle come avrete notato è invece un film made in Germany. Girato nel 2008, poco c'entra con le proteste nostrane, ma pone al centro del suo sviluppo narrativo una domanda importante, quasi fondamentale nell'indagine della nostra società moderna: oggi è ancora possibile che rinasca una dittatura in Germania? Il quesito non è posto a qualche noioso convegno tra luminari delle scienze politiche o sociologiche ma a una classe di liceali bavaresi, durante il corso di “autocrazia” che si svolge in una settimana a tema organizzata dalla scuola. Durante questa ora e mezza abbondante, lo spettatore è pregato di mettersi scomodo, slacciarsi le cinture e accendere possibilmente il contenuto della scatola cranica. Se pensate ancora che dittatura faccia rima con Hitler, Mussolini, Stalin etc. etc., preparatevi a essere sconvolti e a subire una potente shakerata della vostra limitatezza mentale. Magari non starete guardando un capolavoro cinematografico. Ma attenti. Vi abbaglierà lo

LA RICETTA DEL MESE - ASPIC DI PROSCIUTTO E CREPES Redazione: Via della Piazza del Grano 11 06034 Foligno (PG) tel. 0742510520 Mail: redazionepiazzadelgrano@alice.it Autorizzazione tribunale di Perugia n° 29/2009 Editore: Sandro Ridolfi Direttore Editoriale: Sandro Ridolfi Direttore Responsabile: Giorgio Aurizi Direttore Sito Internet: Andrea Tofi Stampa:Grupo Poligrafico Tiberino srl, Città di Castello Chiuso in redazione il 22/06/2010 Tiratura: 3.000 copie Periodico dell’Associazione ”Luciana Fittaioli”

ANTONIETTA STADERINI

Aspic di prosciutto e verdure Ingredienti gr 400 prosciutto cotto, n 2 dadi gelatina salata, verdure miste bollite q.b., l 1/2 salsa besciamella. Procedimento Scogliere i dadi di gelatina in acqua e a piacere aromatizzare con limone, aceto, vino Porto ecc. Frullare il prosciutto, incorporarlo alla besciamella e aggiungere

1/4 della gelatina. In uno stampino versare un primo strato di gelatina e lasciare rapprendere, aggiungere le verdure disposte e tagliate come si desidera, alternan-

do i colori, dando la forma di un petalo di fiore ecc. e ancora gelatina, far rapprendere, aggiungere la crema di prosciutto, lasciare sempre rapprendere ed in fine chiudere con uno strato di gelatina. Mettere in frigo per alcune ore. Per sformare i piccoli aspic immergere la base degli stampini per pochi istanti in acqua calda e poi rovesciarli sul piatto di portata. Le dosi di questa ricetta sono per la preparazione di circa 10 stampini. Gli aspic

non sono difficili da preparare ma richiedono solo un po’ di pazienza per la realizzazione; sono indicati oltre che come antipasto freddo anche inseriti nel menù di un buffet Apparecchio per crèpes Ingredienti 4 uova, gr 200 farina, sale fino q.b. gr 50 burro, latte mezzo litro. Procedimento In un contenitore, montare la uova, aggiungere il sale, il burro fuso e chiarificato, la

farina setacciata e poco alla volta il latte mescolando con una frusta. Passare il composto allo chinois. Per la cottura utilizzare un padellino antiaderente appena unto di burro. Questa preparazione può essere utilizzata sia in cucina che in pasticceria; possiamo farcire le crèpes con formaggi, funghi, asparagi uniti ad una salsa besciamella e a del parmigiano oppure con crema pasticcera, crema al cioccolato, marmellata e frutta fresca.


FOLIGNO GIUGNO 2010

Spettacoli ed eventi a cura di Piter Foglietta

111

Canti e Discanti Foligno World Festival 8 - 28 Luglio “Onde mediterranee” tra musica, fotografia, cinema, scienza ed enogastronomia.

Dall’8 al 28 luglio torna la nona edizione di “Canti e Discanti”, il world festival di Foligno che anche quest’anno punta a diffondere e ad approfondire i linguaggi artistici della tradizione e delle culture del mondo.Tra mostre internazionali, concerti in esclusiva, suggestive proiezioni ed incontri con i sapori, uno sguardo particolare sarà rivolto alla Turchia e al Salento. Margherita Hack, Ginevra Di Marco, Alessandro Mannarino, Malicanti, Vanessa Winship, George Georgiu, Massimo Liberatori, i Cantori del Miserere di Colfiorito, la Banda di Annifo e Paolo Capodacqua alcuni degli ospiti dell’edizione 2010. Quest’anno saranno le

Music

Margherita Hack e Ginevra di Marco con L'anima della Terra (vista dalle stelle) uno spettacolo in esclusiva regionale. In collaborazione con il Laboratorio di Scienze Sperimentali Musica e /Scienza si incontrano giovedì 22 Luglio a Palazzo Trinci, alle Ore 21.30 Nuovi Eventi Musicali in collaborazione con Stazioni Lunari - No Music presentano lo spettacolo “L’anima

“onde mediterranee” a trasportare un mare di emozioni tra musica, fotografia, scienza, cinema e cibi di terre vicine e lontane. Le onde di suoni, di immagini e di sapori del “mare nostrum”, come elemento che unisce gli spettacoli della nona edizione, saranno infatti al centro di “Canti e Discanti - Foligno World Festival”, che per il 2010 offrirà uno sguardo particolare sulla Turchia e sul Salento. Grazie ad un’alternanza straordinaria di musica - soprattutto quella legata alle tradizioni popolari - e arti figurative, un filo rosso si dipanerà tra i luoghi più suggestivi della città di Foligno e non solo (Largo Carducci di Piazza della Repubblica, Palazzo

della terra (vista dalle stelle)”, un progetto originale di parole e musica con la grande scienziata Margherita Hack, la cantante Ginevra di Marco (appena insignita della Targa Tenco 2009) e lo scrittore Marco Vichi. Questa nuovissima produzione, che ha la direzione artistica di Francesco Magnelli, indaga alcune tematiche sociali scottanti quali immigrazione/emigrazione, nuove energie, lavoro, corruzione (per citarne solo alcune) e lo fa secondo il punto di vista delle “due stelle”, Ginevra e Margherita appunto, impegnate in un percorso di rinascita spirituale e di speranza contro i soprusi e le debolezze umane. Sul palco, alcuni orologi scandiranno un tempo musicale ed un tempo umano, sentimentale, figurativo: un orologio simboleggerà il tempo che avanza mettendo in luce i problemi che l'uomo ha creato; un altro rappresenterà il suono della terra, la sua pancia la sua anima; un altro la tradizione, le parole dei nostri avi, il susseguirsi della vi-

Trinci, Piazza del Grano, Fiamenga, Basilica di Plestia a Colfiorito) alla scoperta di tradizioni culturali di altri luoghi e Paesi. Infatti, diffondere e approfondire i linguaggi artistici della tradizione e delle diverse culture del mondo continua ad essere l’obiettivo di “Canti e Discanti Foligno World Festival”, che prosegue il suo processo di multiculturalità attraverso la contaminazione delle diverse forme di espressione artistica. Al centro della scena, dall’8 al 28 luglio 2010, non sarà quindi rappresentato solo l’universo della musica, ma anche quello della fotografia, quello cinematografico e quello scientifico, passando inoltre attraverso un percorso enogastronomico teso a valorizzare i sapori della terra. “Music”, “Photo”, “Film”, “Science”, “Kids – Nati per la musica” e “Food” sono le sezioni che sviluppano il cartellone della nona edizione della rassegna folignate, che sarà pertanto attenta a dare ascolto e voce alle sonorità e alle arti che sanno in qualche modo raccontare, emozionare e far sognare.

ta umana, e sarà quest’ultimo a scandire i passaggi tra le tematiche (la scenografia è dello scultore Alessandro Marzetti). Ginevra interpreterà alcune tra le melodie tradizionali più belle su queste tematiche: brani densi di significati, valori e storia; Margherita alternerà alle canzoni i suoi testi di approfondimento, puntualizzando ed espandendo i concetti con la forza della sua immensa esperienza ed il suo carisma; Marco Vichi sarà l’anello di congiunzione, la voce itinerante tra Ginevra e Margherita, in contraltare poetico con le due stelle. Ingresso 10! Info www.cantiedsicanti.net – info@cantiediscanti.it

Alessandro Mannarino L’autore rivelazione artistica dell’anno si esibirà a Largo Carducci il 26 luglio e presenterà il suo Bar della Rabbia Da stornellatore moderno e cantautore metropolitano Mannarino compone musiche di confine, eclettiche e contaminate, ispirate ai suoni ed ai volti di una via Casilina globalizzata dove Gabriel-

la Ferri passeggia con Manu Chao e Domenico Modugno va a braccetto con Cesaria Evora. Nei suoi testi, macchiati dai forti toni del surrealismo, si vivono storie oniriche e tragicomiche di pagliacci, ubriachi e zingari innamorati. Partendo dalle sonorità e dai ritmi della musica popolare italiana Mannarino con-

disce il proprio mondo con elmenti di musica balcanica e gitana, citazioni felliniane e evoluzioni circensi. Ingresso Libero

Photo Due Oscar della fotografia a Luglio a Foligno, la sezione in Photo di CantieDiscanti, curata da Daniele Mattioli, ospita le personali di due importanti fotografi internazionali. Al Ciac Centro Italiano Arte Contemporanea Mostra fotografica personale di Vanessa Winship Sweet Nothings,al Trinci Gorge Georgiou con Fault Lines : Turkey East West La mostra Sweet Nothing : Rural Schoolgirls from the borderlands of Eastern Anatolia è stata insignita dei più importanti premi internazionali tra cui Godfrey Argent Prize, Sweet Nothings, National Portrait Gallery 2008, Nominated for Deutsche Borse, with Sweet Nothings 2008, World Press Photo, First Prize, Portrait Stories 2008, Sony World Photography Awards, Iris D’or, Overall Winner, Sweet Nothings 2008. La mostra verrà inaugurata giovedì 8 Luglio ore 21.30. al Ciac. Vanessa Winship propone

una serie di ritratti di giovani scolarette fatte nei loro banchi di scuola e nelle prossimità dei loro villaggi. Ritratti spesso in coppia che ci danno una visione romantica ed antica di un paese in cui coabitano mentalità moderne e tradizionali . Il progetto a cui Vanessa ha lavorato per riscopre diverso tempo quella solennità e fragilità della adolescenza in Turchia. Nelle zone rurali infatti è ancora bassa l’affluenza scolastica per bambine e ragazze. Motivi legati a diversi fattori tra cui quello di essere legati a valori tradizionali che im-

pediscono alla donna di avere responsabilità oltre alle classiche mansioni domestiche. La mostra sarà aperta al pubblico nei giorni venerdì , sabato e domenica dal 9 luglio al 9 settembre. Ingresso mostra 5€. George Georgiou con Fault Lines: Turkey East West esplora il tema dell’ambiguità dell’identità Turca, spesso ricchezza culturale ma spesso dualismo ideologico. Le foto riflettono graficamente queste linee di demarcazione che esistono tra le due culture che risiedono nello stesso Paese. Le foto ritraggono passaggi visivi ove si possono scorgere le traccie di questo dualismo attraverso segni grafici. La foto di un caseggiato con molte parabole satellitari che puntano in diverse direzioni forse è il riassunto culturale della voglia di modernità ed attaccamento ai valori tradizionali che il paese offre. La mostra verrà inaugurata sabato 10 luglio nella Corte di Palazzo Trinci. Ingresso libero.

te del concerto, intervallati dai canti alla stisa e dai canti a tre o quattro voci, quel-

li che anticamente si facevano in campagna. Ingresso libero

Malicanti Tarantelle e Canti Tradizionali delle Puglie il 14 luglio Largo Carducci Ore 21.30 Malicanti suona e canta le musiche dei modi contadini, soprattutto di due aree della Puglia: il Salento e il Gargano. Esegue repertori tradizionali del mondo contadino del Centro e Sud Italia - in particolare della Puglia -, appresi in anni di convivenza e apprendistato con alcuni anziani cantatori e suonatori. Il repertorio è composto soprattutto da tarantelle e pezzi che invogliano al ballo per larga par-

Film Nella sezione Film, in occasione delle celebrazioni di Istanbul come capitale europea della cultura, Roberto Lazzerini (curatore della sezione) propone un omaggio al regista turco Fatih Akin . Soul Kitchen 12 luglio Piazza del Grano Ore 21.30 Leone d’argento all’ultimo Festival del Cinema di Venezia, Soul Kitchen è la prima commedia di Fatih Akin, il regista tedesco di origine turca che ha fatto del multiculturalismo il suo marchio di fabbrica cinematografico. Questa volta, però, Akin abbandona i toni drammatici di La sposa turca (2004) e Ai confini del paradiso (2007) per confezionare una pellicola divertente, piena di ritmo e buona cucina. Il film narra la storia di Zinos, proprietario di un ristorante ad Amburgo, il Soul Kitchen, non rinomato ma con una clientela fedele e soddisfatta, proprio come lo è il protagonista: fedele a Nadine, la ragazza che ama, e soddisfatto del suo locale. Ma il panorama muta quando lei lo lascia per andare a lavorare in Cina e un fortissimo mal di schiena gli impedisce di seguire il ristorante. Unica

soluzione? Chiamare il fratello, ex galeotto, a gestire il Soul Kitchen e volare in Oriente per riportare indietro l’amata. Tra medicina alternativa, menu speziati (talmente allettanti che alcuni blog italiani di cucina ne hanno ricreato le ricette) e una colonna sonora che spazia dall’R’n’B alla musica elettronica made in Germany, Fatih Akin mette in scena il suo mondo “alternativo”, dove delle diversità (e della diversità, con la D maiuscola) si può ridere – è proprio il caso di dirlo – di gusto! Crossing the bridge. The Sound of Istanbul (Germania-Turchia 2005., col. 90’) 19 luglio Piazza del Grano ore 21.30 Fatih Akin, regista rivelazione con il suo folgorante La sposa turca, Orso d'oro a Berlino, torna sui suoi passi accompagnando la ricerca del musicista Alexander Hacke in un viscerale, vibrante, libero viaggio che conduce al cuore di una città pulsante come Istanbul. Sulla via di Confucio, un viaggio che, partendo dalla musica come espressione di integrazione, ci prende passione di integrazione, ci prende per mano conducendoci a un futuro senza pregiudizi razziali. Ingresso libero

Kids In Collaborazione con L’Assessorato all’infanzia e La Locomotiva il 9 luglio Palazzo Paolo Capodacqua presenta Il Cantalibro Concerto – Laboratorio per bambini Dall’esperienza della lettura possono nascere passioni, idee e…canzoni. Paolo Capodacqua ha scritto molte canzoni per bambini(e non solo) tratte proprio da storie, racconti, poesie e filastrocche impresse sulla carta stampata. Il titolo di questa presentazione potrebbe anche essere “I libri cantati”. In questo incontro, infatti, Paolo parla dei libri, li maneggia, li mostra, li apre, legge qualche rigo, poi prende la chitarra e “li canta”... E non solo i bambini lo seguono, possiamo garantirvi che abbiamo visto anche gli adulti, i genitori, gli insegnanti emozionarsi e lasciarsi coinvolgere con il piacere di condividere una bella esperienza insieme ai propri bambini. Palazzo Trinci alle ore18.30 prenotazione: www.cantiediscanti.net)


12

FOLIGNO GIUGNIO 2010

www.piazzadelgrano.org

Nostalgia di Luciana Lo scorso sabato 19 giugno si è svolta una serata dedicata a Luciana Fittaioli, prima donna umbra nel Parlamento italiano (nel secondo dopoguerra), militante politica e grande combattente per i diritti e le libertà delle donne e di tutti i lavoratori. A tre anni dalla sua scomparsa, le sue “amiche” di sempre, hanno voluto ricordarla e ricordare i valori che ha sempre difeso, attraverso una serata di musica e parole con la partecipazione del “Canzoniere delle Donne” ricostituitosi per l’occasione dopo trent’anni MAURA DONATI Nel giugno di tre anni fa se ne andava per sempre Luciana Fittaioli e con lei le passioni, le emozioni e la tenacia di chi vive in prima linea combattendo con onestà, rispetto e responsabilità per quei valori veri che sorreggono stabilmente una società. Se ne andava lei ma non il suo sguardo attento sulla vita, la rielaborazione attenta della realtà, la conoscenza profonda del vivere. Tutto questo è rimasto nella mente e nelle parole di chi l’ha conosciuta e amata. Per lei, per gli sforzi compiuti quotidianamente nella difesa equilibrata dei diritti e delle libertà delle donne ma anche dei lavoratori e delle categorie cosiddette svantaggiate, si è mosso con entusiasmo un gruppo di donne, “amiche di Luciana”, per ricordarla e ricordare, anche attraverso una foto che la ritrae in età avanzata sempre sorridente e fiera, quel tempo passato ma sempre presente, al di fuori e al di là delle lancette dell’orologio, nel rammentarci il senso profondo del vivere. Per lei, sabato 19 giugno, le sue “amiche” hanno organizzato una serata di musica dai toni nostalgici e riflessivi ma anche vitali ed energici: sentori di fragilità e determinazione come anche di sensibilità e forza si sono mescolati e ritrovati come solo in un “corpo” femminile può accadere. Per lei, dunque, quattro donne, “amiche vicine e lontane”, si sono incontrate dopo circa trent’anni per ricostituire il gruppo di canzoni popolari “Il Canzoniere delle Donne” che ha aperto il concerto con il Canto degli italiani, meglio conosciuto come Fratelli d’Italia o Inno di Mameli, l’inno nazionale della Repubblica italiana adottato il 12 ottobre del 1946. Ad accogliere questo ricongiungimento con il passato è stata la sala dedicata a Luciana Fittaioli all’interno della sede di questo mensile in via di Piazza del Grano 13 e, ad ascoltare con attenzione e sincera partecipazione, erano presenti tante delle persone che hanno avuto il piacere di conoscerla, di parlare con lei e vivere insieme e accanto a lei. Alcuni, invece, proprio come me che mi trovo qui a

raccontare quest’evento nella sua ricchezza di particolari, non l’hanno conosciuta, né l’hanno ascoltata mai in vita. Eppure, le parole e i sentimenti espressi da chi le ha vissuto accanto e ha parlato di lei, del suo carattere, del suo modo di essere, dei suoi pensieri, hanno reso chiaramente il senso profondo della sua persona. Una ragazza, in modo particolare, si è presa la responsabilità di farcela conoscere non tanto descrivendola nelle sue peculiarità

to sentimento” degli “ideali” di libertà, uguaglianza e rispetto che valgono sempre e comunque e che ancora oggi ricercano una aderenza storica. Questa giovane ragazza “sensibile e vera” si chiama Maria Sara Mirti ed è stata un’allieva di Luciana. A differenza di quanto spesso accade tra un alunno di Liceo classico e un’insegnate di matematica, il loro rapporto formale e rigoroso si è andato trasformando in una sincera e reciproca amicizia cresciuta

i lineamenti caratteriali con più accuratezza. “Agnes Heller, usando il treno e i suoi passeggeri come metafora, ha scritto: “[…] mi è passato davanti e sono tante volte salita consapevole e cosciente che la storia non esige degli svogliati e sonnolenti passeggeri, ma degli uomini attenti ai mutamenti e alle esigenze del proprio tempo, individui consapevoli che l’orologio del mondo non punta la sua lancetta sulle ore, ma sui tempi, sui tempi della vita” (da Per-

non, che oggi imperversano nonostante la loro generale miopia. Lei, invece, sapeva dove guardare per vedere le cose, sapeva quando non distogliere lo sguardo, quando tornare indietro per riparare ad un errore o quando a quell’errore era meglio riparare guardando avanti. Sapeva come voleva vedersi di fronte a se stessa, quindi sapeva chi voleva essere». Un’immagine di donna sapiente e forte. Non quella che non sbaglia mai, al contrario, quella che si

Il “Canzoniere delle Donne”: (da sinistra) Paola Ceccarelli, Graziella Piermatti, Michela Fratta, Giovanna Ceccarelli

Maria Sara Mirti di donna, quanto piuttosto delineando gli ambiti politici, sociali, culturali entro cui si muoveva con energia e determinazione portando avanti con “responsabilità e accora-

nel tempo, negli anni, fino a diventare, oggi, per Sara, una luce ispiratrice. «Siamo qui ancora una volta, e per molte volte ancora ci saremo, non per ricordare Luciana, lei non amava le commemorazioni, così come non le piacevano i ricordi sterili, ma per ritrovarci e insieme ritrovare, ancora una volta insieme a Luciana, i tesori più preziosi che abbiamo come singoli e come comunità: la memoria e la pratica dei nostri ideali più belli, del coraggio ereditato da chi ci ha preceduto». Sono queste le parole con cui Sara ha aperto la serata dedicata a Luciana dalle sue “amiche di sempre” e continuando a parlare di lei ha esordito con una citazione per poi tratteggiarne

ché Hannah Arendt ora, in Dove siamo a casa, Franco Angeli, Milano, 1999). In realtà, mentre il treno che fa sempre le stesse tratte sembra quasi andare da solo, i passeggeri che conoscono la destinazione sono pochissimi: appartengono alla ristretta cerchia degli individui capaci di leggere la confusione della realtà, e a coloro che quei viaggi li pianificano e li guidano, in buona e in mala fede. Luciana aveva qualche problema di vista e ne parlava con una certa noncuranza, quasi con compiacenza: forse sapeva di riuscire a vedere più lontano e in profondità, dentro i cuori e le attitudini degli individui, lei di tutti i parolieri e gli affaristi, politici e

sofferma a riflettere, che sa mettersi in discussione e sa ricominciare e rinascere anche quando tutto sembra perduto. Un esempio di vita che diventa punto di partenza per andare a conoscere e ascoltare più da vicino il tenero e ruvido mondo femminile che, negli anni e con fatica e sudore della fronte e dell’anima, ha lottato per conquistare una propria posizione in questa società. Una posizione intesa come sinonimo di identità, coscienza e consapevolezza. Questo mondo femminile è stato cantato con passione e sentimento dalle quattro donne amiche di Luciana che hanno riportato in vita il Canzoniere: Giovanna “Gianna” Ceccarelli, Paola

Ceccarelli, Michela Fratta, Graziella Piermatti. Le loro voci, il sentimento trasmesso attraverso le parole e i silenzi, le musiche e i ritmi coinvolgenti, hanno raccontato storie di donne, fanciulle, ragazze, bambine. Vite spezzate da morti improvvise, malattie, fame, dolore ma anche gioie, speranze, conquiste di libertà, amore. «Abbiamo scelto di ritornare a sentire il Canzoniere delle Donne – ha precisato Sara Mirti - affinché le loro parole, la loro musica, la spontaneità del loro essere restituisca alle nostre coscienze un po’ annebbiate lo spirito critico, “la giusta prospettiva” che gli serve per non perdersi. Regazzine vi prego ascoltate (titolo di una canzone simbolo del gruppo ma anche frase di presentazione dell’evento) è infatti un tentativo di riscoprire la storia della donna attraverso le canzoni popolari, attraverso le storie, private e sociali, e i sentimenti in esse contenuti». La volontà di ripercorrere le storie di un mondo femminile come simbolo di forza, coraggio e passione per la vita a partire dalla storia di Luciana Fittaioli acquista un valore aggiunto nella società di oggi in cui i valori del vivere sembrano perdersi nel marasma di parole, immagini, suoni che imperversano distorcendo il senso profondo del nostro essere, dello stare insieme e del condividere. Canti popolari nati in un passato che non ci appartiene più (temporalmente parlando) ma che ha molto da insegnare a una società che non si sofferma più a pensare, che scorre veloce senza osservare, senza immergersi nella vita vera. Una società che guarda l’insieme e poco il dettaglio, che corre lungo un filo sottile senza osservare il mondo sotto di sé che, invece, lo sorregge. Una società troppo spesso superficiale che rischia così di cadere improvvisamente nei problemi della vita vera da lei stessa generati ma da cui, con difficoltà, riesce a rialzarsi perché non ne conosce l’esistenza. In questo senso, la consapevolezza del vivere, la forza di ricominciare e la capacità rigeneratrice di quelle donne cantate con passione, diventano stimolo e monito per un nuovo approccio alla vita.


New Economy supplemento al numero 6 - Anno II - giugno 2010 di Piazza del Grano - www.piazzadelgrano.org

Il termine “new economy” è stato coniato nel 1998 dal saggista statunitense Kevin Kelly col best-seller “New Rules for a New Economy” nel quale ha elencato le regole per affrontare i nuovi mercati: cogliere la corrente, massimizzare i profitti, cercare l'abbondanza, scegliere la libertà, niente armonia tutto flusso, l'opportunità prima dell'efficienza. “La new economy”, disse il Gatto, “offre la possibilità di operare in un mercato globale, abbattendo i costi di gestione e consentendo alle imprese di non essere vincolate a uno spazio definito e così creare uno stato di permanente crescita costante, bassa disoccupazione, e stabilità”. Ma come funziona? "Te lo spiego subito", disse la Volpe. "Bisogna sapere che nel paese dei Barbagianni c'è un campo benedetto, chiamato da tutti il Campo dei miracoli. Tu fai in questo campo una piccola buca e ci metti dentro per esempio uno zecchino d'oro. Poi ricopri la buca con un po' di terra: l'annaffi con due secchie d'acqua di fontana, ci getti sopra una presa di sale, e la sera te ne vai tranquillamente a letto. Intanto, durante la notte, lo zecchino germoglia e fiorisce, e la mattina dopo, di levata, ritornando nel campo, che cosa trovi? Trovi un bell'albero carico di tanti zecchini d'oro, quanti chicchi di grano può avere una bella spiga nel mese di giugno." “Che brave persone!"pensò dentro di sé Pinocchio.

Inserto a cura di Sandro Ridolfi

La Cuoca di Lenin Si attribuisce a Lenin l’affermazione secondo la quale anche una cuoca potrebbe assumere la carica di Capo dello Stato. Il padre del primo Stato democratico popolare della storia dell’umanità intendeva dire, non che “chiunque” poteva aspirare a ricoprire una carica tanto importante solo per essere nato e vivere in uno Stato liberato dalla segregazione sociale imposta da ristrette classi dominati, ma proprio per l’essere nato e vivere in un simile Stato di uguali “chiunque” (anche una “semplice” cuoca) sarebbe stato posto nelle condizioni di accedere ad un percorso di conoscenza, preparazione ed esperienza che lo avrebbe potenzialmente reso in grado di svolgere egregiamente anche quella alta funzione. Due millenni e mezzo prima, un greco illuminato affermava che, benché pochi fossero in grado di “fare politica”, cioè di essere preparati e capaci anche di assumere la carica di Capo dello Stato, tutti tuttavia erano in grado di giudicare l’operato degli esperti della politica. La fine dell’ultimo secolo sembra avere disperso sia l’insegnamento ateniese, che il progetto leninista. Oggi pochi, molto pochi,

sanno “fare politica” e quasi nessuno è più in grado di giudicarla (il che consente a quei pochi di continuare a fare ciò che non sono assolutamente capaci di fare). La perversa coniugazione della mancanza di controllo e di giudizio critico con l’ottusità dell’ignoranza fa sì che quei “pochi” siano persino convinti di essere bravissimi, anzi “geniali”. In queste condizioni versa oggi il governo dell’economia mondiale. Pochi cialtroni, auto incensati e pluridecorati di “master” e titoli accademici strepitosi scambiati tra loro stessi come i famosi “panettoni d’oro massiccio e diamanti” degli amministratori della multinazionale datrice di lavoro di Fantozzi (il personaggio inventato da Paolo Villaggio, non il “becchino” dell’Alitalia di Stato), che si scambiavano tra di loro regali di natale esageratamente costosi ma assolutamente identici rimanendo, alla fine, nelle stesse condizioni di partenza, hanno oggi l’arroganza e la presunzione di governare un’economia mondiale che, invece, se ne va per la sua strada come un tornado incontrollato e imprevedibile. Tanti, quasi tutti, restano a bocca aperta a bere non ca-

lici, ma intere damigiane di geniali cialtronerie rese apparentemente “intelligenti” dall’uso (abuso) di termini inglesi, anglicizzati o persino anglo-inventati (il termine “neologismo” è troppo scientifico per essere utilizzato in questo caso). Futures, swap, rating, mibtel, dow jones, derivati (per usare almeno una parola in lingua italiana) riempiono persino le cronache rosa (oltre a quelle “nere” da codice penale fiscale e valutario) e, allora, ecco sopraggiungere altri termini: disavanzo, pil, deficit e infine manovra fiscale da “mille” miliardi. I mercati (finanziari ovviamente, di quelli “reali” ci sono rimasti solo quelli “dell’antiquariato”), gli investitori, o meglio la fiducia degli investitori, sono i totem sacri della new economy globalizzata. Gli investitori, soprattutto. Ma chi sono gli investitori? La cuoca di Lenin avrebbe sicuramente un’idea e una risposta tanto semplice quanto chiara. “Investitore” è qualcuno che, dovendo o volendo dare fiducia a un bene o anche a una persona, o a un progetto o a un’idea, la studia, la vigila, la segue nel suo apparire ed evolversi per af-

fidarla e/o esserne reciprocamente affidato. “Investitore” è qualcuno che ragiona e valuta nel tempo medio o persino lungo. Nell’attuale mercato finanziario i “nuovi investitori” entrano ed escono spesso in frazioni di secondo, affidano e abbandonano beni e progetti che non hanno (non possono avere) neppure sommariamente valutato. Nella loro irrazionalità, paradossalmente, i “nuovi investitori” finiscono per essere loro stessi i creatori della “fiducia” (di una falsa fiducia). Non s’immagina neppure quante sono le società quotate alla borsa che hanno un valore di scambio azionario, cioè una sommatoria aritmetica del prezzo dei loro titoli, anche notevolmente superiore al valore reale delle consistenze del loro patrimonio aziendale, incluse le pure astratte potenzialità di crescita e di sviluppo. Cosa direbbe a questo punto la cuoca di Lenin se vedesse gli odierni geni della finanza investire (o meglio fare investire agli altri) in beni fittiziamente valutati molto al di sopra del loro valore reale? Cosa direbbe la cuoca di Lenin se vedesse, ad esempio,

scambiare quote percentuali ideali di un appartamento che, sommate tutte assieme, risultano raggiungere un valore anche di molto superiore a quello reale (di acquisto o vendita) dell’immobile intero? Probabilmente direbbe che si tratta di investitori incompetenti o pazzi, o ambedue le cose assieme. Ma subito dopo, con la forza “granitica” del semplice buon senso, direbbe che non si tratta di “investitori”, ma di “speculatori”, di “sciacalli”. E allora cosa sono i “mercati” dove questi speculatori scorrazzano saltando da un titolo all’altro, da uno Stato all’altro, senza eseguire nessuna seria valutazione, studio, approfondimento su ciò che comprano o vendono, affidano o distruggono? Cosa sono questi “mercati” dove un giorno si guadagno cifre da capogiro e un altro si “bruciano” (altro termine “demenziale”) ricchezze puramente immaginarie, del tutto indipendenti dalla realtà materiale alla quale fingono di riferirsi? Sono le “piazze virtuali” dove si consumano alcuni dei più grandi crimini contro l’umanità, dove un ordine di acquisto o di vendita può distruggere, e questo “real-

mente”, un intero raccolto di soia, di mais, di zucchero, o un intero anno di lavoro di minatori di rame, di carbone, di petrolio, condannando alla povertà, alla fame, alla carestia interi popoli. Ma torniamo alla cuoca di Lenin. Di fronte agli schizzofrenici “sobbalzi” di un titolo azionario, ad esempio, di un’industria automobilistica che sempre la stessa è e resta, con i suoi stabilimenti, macchinari, progetti e prodotti, la cuoca di Lenin si porrebbe la più semplice e più ovvia delle domande: ma questa industria è in grado realmente di produrre qualcosa di buono, di valido, di funzionante, di appetibile, o no? E se la risposta è no; che cosa si fa, che cosa si deve fare “realmente” (“maglioncino girocollo” a parte) per risanarla e rilanciarla? “Lanciare” un futures? Uno swap? No! Bisognerebbe (bisogna, subito!) lavorare a un nuovo progetto, un nuovo prodotto, un nuovo macchinario o un intero nuovo sistema produttivo. Così si esce dalla crisi, da qualsiasi crisi: con l’uso delle “mani” e non con gli “anglicismi”. E la cuoca di Lenin è diventata “manager”.

I


Dal Piano Marshall alle 35 ore di Jospin Spesa pubblica e distribuzione dei redditi sostengono lo sviluppo economico Nell’immaginario collettivo, e meglio potremmo dire nella retorica di regime, il Piano Marshall viene legato alle immagini dei soldati americani che lanciano dai carri armati sigarette e cioccolate ad una popolazione affamata di cibo e di pace e alle navi granarie che scaricano nei porti italiani casse piene di ogni “ben di Dio”. Il Piano Marshall è stato in verità molto di più e anche molto di diverso. Passata l’euforia (o la soggezione) filo americana, oggi del Piano Marshall si danno due letture, una politica e una economica, molto più serie e veritiere. Quanto alla lettura politica, in questa sede dedicata all’economia, ci limiteremo a ricordarne la funzione strategica per la sottomissione dell’intero continente europeo al nuovo gigante economico e militare d’oltre ocea-

no, abilmente sostenuta anche dalla minaccia, totalmente inventata dagli USA, della “guerra fredda” con l’antagonista “bolscevico”. Sotto il profilo politico-militare il Piano ha perfettamente funzionato e ancora funziona non solo con la presenza delle basi militari USA sparse nel continente europeo, ma anche con l’evidente sottomissione dell’Unione Europea alle politiche imperialiste del (pre)potente alleato d’oltre oceano nell’aggressione alla Yugoslavia, nell’invasione dell’Iraq e oggi nell’occupazione dell’Afganistan. Ben altra, e sotto un certo punto di vista persino “istruttiva” per i tempi correnti, è invece la lettura del profilo economico di quella enorme operazione di sussidio alle economie europee distrutte nei cinque anni della guerra mondiale. Se per un verso, infatti, il Pia-

no Marshall (negli USA denominato “Foreing Assistance Act”) rappresentò realmente un enorme aiuto alla ricostruzione delle economie dei Paesi dell’Europa occidentale, per altro verso rappresentò la più coraggiosa e intelligente operazione di rilancio dell’economia americana, anch’essa fortemente provata dall’enorme dispendio di risorse richiesto dalla guerra mondiale. Il Piano Marshall ha realizzato, forse, la più lucida applicazione del principio di base dell’economica capitalista: quello del mercato. Perché un sistema economico produca, dia occupazione, realizzi ricchezza (iniquamente ripartita è il secondo principio del capitalismo!) occorre che esista un mercato in grado di assorbire (comprare e consumare) i prodotti tanto dell’agricoltura che dell’industria. Il sistema economico americano alla fine della guerra era entrato in una gravissima crisi e nel 1946 si contavano negli USA circa 10 milioni di disoccupati; finita la guerra occorreva riconvertire l’industria bellica e nello stesso tempo trovare i mercati dove collocare le nuove produzioni civili. L’Europa, l’unico grande potenziale mercato, era distrutta, occorreva finanziarne la rinascita per renderla capace di assorbire le nuove produzioni americane. Il governo americano finanziò dunque la nascita dei nuovi mercati dove collocare i propri prodotti ricorrendo a un procedimento estre-

mamente semplice: gli USA tenevano e gestivano i “cordoni della borsa”, sicché ogni erogazione economica nasceva già destinata all’acquisto di prodotti americani. In sostanza l’intero finanziamento americano alla ricostruzione dell’Europa tornava negli Stati Uniti sotto forma di esportazioni. In soli tre anni, tanto durò il Piano Marshall, i disoccupati negli USA scesero da 10 a 2 milioni! La spesa pubblica, l’indebitamento pubblico si era trasformato in consumo creando il mercato essenziale per lo sviluppo dell’economia dello stesso Stato “donatore”. Cinquanta anni più tardi in Francia, in un contesto politico-economico formalmente del tutto diverso, ma sostanzialmente affatto uguale, è stato ipotizzato e tentato, ma in questo secondo caso non portato a termine, un progetto similare. I mercati, o l’unico grande mercato globalizzato del mondo si stava saturando in modi e per ragioni diverse, e persino opposte, ma sostanzialmente convergenti quanto agli effetti pratici. Da un lato la smisurata aggressività del capitalismo occidentale stava uccidendo ogni potenzialità di sviluppo del mercato del terzo mondo, da altro lato la vertiginosa crescita dei sistemi produttivi degli Stati emergenti dell’estremo oriente stava invadendo non solo i mercati del terzo mondo ma anche quelli dello stesso primo mondo occidentale, da ulti-

Lionel Jospin, primo ministro francese, e Martine Aubry, ministro del lavoro, autori della legge delle “35 ore

mo l’enorme concentrazione delle ricchezze all’interno degli stessi Paesi dell’occidente capitalista stava impoverendo la propria popolazione e quindi deprimendo i mercati interni. La chiusura, o quanto meno la contrazione dei mercati avrebbe a breve avuto l’inevitabile conseguenza di colpire la produzione. La risposta social-comunista francese, ben diversa da quella imperialista nord americana, fu quella di immaginare una vasta ridistribuzione del reddito, sottraendo (almeno in parte) la ricchezza alle parassitarie accumulazioni delle rendite capitalistiche per rimetterla nel ciclo della produzione. Lo strumento prefigurato dal primo ministro Lionel Jospin e dalla sua ministro del lavoro Martine Aubry fu quello della riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore che, a parità di stipendio, avrebbe prodotto una maggiore occupazione, trasferendo ai lavoratori quota parte dei redditi delle imprese. Non c’era nulla di “sovversivo” in quella proposta che alla fine mirava a sostenere la sopravvivenza del sistema economico capitalista.

Si narra del commerciante ebreo che pur di fare l’ultimo affare della sua vita vende la pistola al suo assassino. Questo stanno facendo i capitalisti di tutto l’occidente che, pur di non perdere anche le sole briciole delle loro sempre più grandi e superflue ricchezze, tremano alla sola idea di dover dividere almeno una parte del mal tolto con le proprie vittime e così, facendo morire queste ultime, finiranno per morire anche loro. Si narra ancora di un signore col maglione giro collo che chiude uno stabilimento italiano licenziando tutti i dipendenti per spostare la produzione in un paese dove la manodopera costa molto meno e così fabbricare i propri prodotti ad un prezzo più basso. Bravo. Ora però si tratta di venderli, meno costosi ma comunque da pagare, venderli a chi? Non ai nuovi dipendenti troppo sottopagati per permetterseli, non ai vecchi dipendenti disoccupati, non in altri mercati poveri o invasi da una concorrenza ancora più competitiva. Che ne farà dei propri prodotti meno costosi ma che nessuno può comprare? “Bang”

La NEP, da Mosca a Pechino, da Lenin a Deng Gli strumenti del capitalismo al servizio del comunismo

Deng Xiaoping

II

Al momento della rivoluzione d’ottobre l’Impero Russo era nel pieno della prima guerra mondiale con circa dieci milioni di soldati al fronte. Il primo atto del nuovo governo bolscevico fu la firma del trattato di pace di BrestLitosvk che, al costo di vaste perdite territoriali e di una notevole parte delle risorse minerarie, pose comunque termine alla guerra. La fine della guerra mondiale non fece però cessare gli attacchi da parte delle forze controrivoluzionarie che costituirono l’Armata Bianca, sostenuta da alcuni governi occidentali (Francia e Inghil-

terra), composta anche da effettivi polacchi, ungheresi e cecoslovacchi. L’Armata Rossa, creata e guidata da Trotski, riuscì a tenere testa e infine a sconfiggere, dopo circa quattro anni di guerra, le forze controrivoluzionarie. La situazione economica del Paese era però scesa ai minimi termini, con le campagne devastate dagli attraversamenti degli eserciti e le città in crisi di approvvigionamenti alimentari. Anche l’industria era appena agli albori, totalmente convertita alle produzioni belliche. Fu in quel disastroso contesto che Lenin decise quella che allora, lui stesso, definì una “ritirata”. La “ritirata” era la NEP, Nuova Politica Economica, che aprì il sistema economico sovietico, statalizzato e centralizzato, a margini di iniziativa privata, e ciò sia all’interno del Paese che con scambi commerciali e tecnologici con i Paesi capitalisti. La svolta economica più rilevante interessò l’agricoltura, con la concessione ai proprietari terrieri della libertà di coltivazione alla condizione

del conferimento allo Stato di quota parte dei raccolti necessari ad alimentare le città e la nascita della piccola imprenditoria urbana, restando nelle mani dello Stato l’industria pesante e l’energia. Il risultato fu sorprendentemente positivo e nacquero in breve tempo due nuove classi abbienti: i contadini ricchi detti “kulaki” e i piccoli imprenditori urbani detti “nepmany” che, con il loro crescente potere economico, iniziarono a mettere in discussione i principi dello Stato socialista. Morto Lenin ancora nel pieno dell’esperimento della NEP sarà Stalin a porre fine alla stessa, riconducendo tutta l’economica, agricola e industriale, sotto il controllo dello Stato socialista. Era il 1929, in Germania la Repubblica di Weimar stava vivendo gli ultimi giorni e di lì a poco sarebbe salito al potere Hitler, in Italia era già stabilmente al potere il fascismo, in tutti gli Stati europei e nell’estremo oriente montava un nuovo clima di guerra che individuava nell’Unione Sovietica il primo dei nemici da distruggere. Tramontata l’ipotesi trotkista

della espansione della rivoluzione comunista in Europa, prevalse l’opzione stalinista della difesa della “roccaforte assediata” che non poteva permettersi elementi di squilibrio interni, per prepararsi al più presto alla inevitabile aggressione da parte dei nuovi nazionalismi europei. Un insegnamento tuttavia restò dell’esperimento della NEP, quello della consapevolezza che la costruzione di una società socialista aveva la necessità di sviluppare un’economia in grado di soddisfare i bisogni popolari anche al costo di ricorrere agli strumenti dell’avversario di classe. Sessanta anni più tardi questo insegnamento sarà ripreso dal più grande Stato comunista: la Cina. Fallito il progetto del “balzo in avanti” (dall’agricoltura collettivizzata all’industria pesante) prefigurato da Mao, il primo successore di Mao alla guida del Partito e del Paese, Deng Xiaoping, lanciò l’esperimento della NEP cinese con lo storico slogan “non importa il colore del gatto, l’importante è che prenda il topo”.

Stalin, Lenin, Kalinin

Muovendo dal principio che gli strumenti di gestione dell’economia sono solo strumenti e non hanno “colore” e che quello che conta è l’uso che ne viene fatto, Deng osò quello stesso esperimento pensato da Lenin aprendo alla libertà d’iniziativa privata sia nelle campagne che soprattutto nelle realtà urbane più ricche, tenendo fermamente nelle mani dello Stato l’industria pesante, quella strategica, il credito e le risorse energetiche. Ciò che differiva tra le due situazioni era il contesto internazionale: la Cina non era sotto minaccia di attacco militare, il crollo dell’Unione Sovietica aveva attenuato l’aggressività dei Paesi imperialisti, distratti anche da molte altre situazioni di conflitto in diverse parti del Mondo. Il pericolo era tuttavia molto grande e questo spiega, al di fuori di ogni retorica

falso libertaria, la durezza della reazione proprio da parte dell’ “innovatore” Deng alla rivolta di Piazza Tienanmen che rischiava di far fallire un progetto che puntava a fare emergere dalla miseria e dalla fame millenaria centinaia di milioni di cinesi. Il risultato della NEP cinese è sotto gli occhi di tutti ed è in progresso. L’economia cresce vertiginosamente, ma dietro l’irruenza dell’arricchimento individuale, si consolida e vigila un potente Stato centralizzato che non solo contiene gli eccessi della deriva consumista, ma giorno dopo giorno e anno dopo anno sempre più drena la nuova ricchezza verso il progetto comunista della creazione di una società giusta, equa e solidale, dove il benessere è patrimonio comune e naturale della persona umana.


L’esperienza cubana L’economia sociale che resiste alla crisi Per le cosiddette persone di “sinistra” Cuba è stata e resta ancora un faro di libertà e di speranza di cambiamento del mondo. Per le persone di “destra”, asservite al pensiero dominante dell’Impero nord americano, Cuba è la spina nel fianco che 50 anni di embargo non hanno strappato e che ora guida il riscatto dei popoli del centro e del sud America che si stanno affrancando dal giogo nord americano. Sconfitti sul piano militare e su quello dello strangolamento economico, gli imperialisti e i loro gregari oggi ingiuriano Cuba con l’accusa di mancanza di democrazia e di repressione del dissenso. Se c’è un fondo di verità in queste accuse è, semmai, proprio quello della possibilità a Cuba del formarsi di un dissenso che ha un presupposto essenziale: l’emancipazione della fame e dall’ignoranza. Solo chi mangia e studia può esprimere consenso o dissenso; lo schiavo (di diritto o di fatto) analfabeta non ha neppure gli strumenti per pensare, può al più ribellarsi come una tigre in catene ma non è in grado di progettare il proprio futuro. Di questo sono ben consapevoli le classi dominati che, in tutta la storia dell’umanità, hanno sempre tenuto rigorosamente escluso il popolo dall’accesso al sapere, gestendo ignoranza e povertà come potenti strumenti di governo. Se dunque oggi a Cuba c’è, o almeno ci può essere, dissenso è perché nei 50 anni di “tremendo” regime comunista sono state create le condizioni economiche, sociali e culturali perché la popolazione fosse in grado di pensare, magari anche dissen-

“feroce” governo comunista hanno sviluppato e fatto crescere nella popolazione cubana. Sotto la guida del Partito Comunista la popolazione ha saputo non solo dividere e condividere l’improvvisa povertà, ma ha anche saputo scegliere a cosa rinunciare e cosa invece difendere a tutti i costi per sperare nel futuro. La crisi economica non ha colpito la sanità e la salute in genere, non ha colpito l’istruzione e la scienza in genere, ha colpito non certo il “lusso”, che non era mai arrivato a Cuba, ma almeno il “di più”. Gli alberghi e tutte le strutture ricettive, costruite appositamente per i cubani negli “anni d’oro”, sono state interamente ed esclusivamente dedicate alla principale risorsa del turismo, così come (è solo un esempio, ma indicativo) le aragoste che i cubani hanno smesso di mangiare per esportarle e così scambiare un’aragosta, sufficiente a sfamare al massimo 4 persone, con 10 polli, in grado di sfamare 40 persone. Di questi esempi se ne potrebbero fare mille, ma quelli ora esposti possono dare già un’idea sufficiente per comprendere come è stato possibile che un “microbo” di Paese sotto attacco della più grande potenza militare della storia, è riuscito a sopravvivere al tifone che ha invece polverizzato le assai più ricche economie dai Paesi dell’est europeo. Lo stato sociale, la difesa ostinata e irrinunciabile dello stato sociale ha salvato quel Paese e oggi, grazie anche al crescente numero degli Stati del centro e sub America emancipati dal giogo USA, Cuba ha più che ragionevoli aspettative di ripresa e di rilancio della propria economia, senza avere mai dubitato dell’ideale e del progetto di una nuova società comunista.

un’altra merce (più precisamente un ulteriore componente necessario per la produzione della merce-prodotto finale) che viene acquistata a un valore inferiore a quello della sua produzione. Questa merce, la sola che può essere scambiata al di sotto del suo costo è la merce “forza lavoro”. La merce (o meglio il prodotto finale che diviene il bene da scambiare o vendere) si compone di due parti: la prima sono i mezzi e i materiali di base che hanno un loro valore “costante”, nel senso di “uguale” a quello di acquisto (escludendo sempre la truffa, la violenza o l’usura); la seconda è il lavoro umano che, utilizzando quei mezzi e materiali, li trasforma in un prodotto finale nuovo. Questa seconda componente del processo di produzione non ha un valore “costante”, perché è inesauribile e sempre abbondante. Questa componente della prodotto finale è l’unica che può essere acquistata, e poi rivenduta incorporata nel prodotto finale, a prezzi differenti. Facciamo un esempio: per produrre un certo “bene” oc-

corre un determinato quantitativo di materia prima, grezza o semilavorata, questa componente ha un valore “costante” in quanto sempre “pari” alle altre merci scambiate; occorre l’uso (usura) di macchinari, anche questi a valore “costante” cioè “pari” nello scambio delle merci; occorrono ancora risorse energetiche, servizi, uso di infrastrutture, ecc., sempre a valore “costante” e “pari”; infine occorre l’ultima risorsa che ha il compito di coniugare tutte le altre componenti e di trasformarle nel prodotto finale: queste risorsa è la “forza lavoro”. Quest’ultima risorsa, che poi è essa stessa “merce” da comprare e vendere, è l’unica a non avere un valore “costante” perché dipendente dalle condizioni del contesto nel quale viene acquistata e venduta; può valere di più o di meno a seconda del luogo di “acquisto”, dei rapporti di forza politici e sociali, dei bisogni dello stesso venditore della “forza lavoro”. “Economizzando” su questa componente del prodotto finale il proprietario dei mezzi di produzione, che è poi il proprietario del denaro neces-

sario ad acquistare tali mezzi e materiali, realizza una “differenza”, che costituisce il “plusvalore”. Il “plusvalore” sottratto al costo reale della “forza lavoro” è la sostanza del “capitale”. Non è dunque né la quantità, né la qualità, né la velocità di circolazione delle merci o del denaro che genera il “capitale” (o se vogliamo chiamarla: la ricchezza). Il “capitale” nasce bensì in occasione del percorso della produzione e circolazione delle merci-denaro, ma è “dentro” lo sfruttamento che in tale percorso di produzione e di scambio viene fatto della componente “merce forza lavoro”. Il capitalismo non nasce, non si fonda, non si sviluppa dalla capacità di redditività del “capitale-denaro”, che di per sé non produce “frutti” (vedi in prima pagina gli “zecchini” di Pinocchio), ma dallo sfruttamento del lavoro umano. Il capitalismo è lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. (*) Il termine “marxiano” identifica l’opera di Marx; “marxista” è l’ideologia che poggia le sue fondamenta e sviluppa il pensiero di Marx.

Los tres Presidentes: Ugo, Fodel, Evo

tendo dal potere costituito. Per analizzare, comprendere e, infine, giudicare l’economia cubana bisogna però fare prima uno sforzo d’immaginazione che oggi, dopo i recenti eventi del terremoto di Haiti e la maggiore visibilità delle condizioni degli Stati liberati del centro e sud America, non è difficile. Cuba non è Europa né nord America (Usa-Canada), Cuba è nel cuore del profondo e tragico terzo mondo centrosud americano. Cinquanta anni fa Cuba era nelle stesse condizioni economiche e sociali in cui si trovano, ancora oggi, Haiti, Santo Domingo, le borgate di Caracas o di Rio; oggi è imparagonabile (!) Un dato molto semplice e d’immediata comprensione può aiutare a comprendere l’abisso che oggi separa Cuba dal resto degli altri Paesi centro-sud americani: l’acqua, e precisamente la potabilità dell’acqua. L’acqua è il veicolo dal quale passa oltre l’80% delle malattie del mondo, in altri termini la potabilizzazione dell’acqua potrebbe, da sola, far

scomparire l’80% delle malattie nel mondo, ovviamente nel terzo mondo. Chiunque abbia avuto occasione di fare qualche viaggio anche nei più vicini Stati mediterranei (medio oriente, nord Africa) ha sicuramente avuto le istruzioni, e se le ha violate ne ha personalmente subito le conseguenze, sulla massima attenzione da prestare all’acqua da bere. Ebbene a Cuba, in qualsiasi parte dell’isola, tutta l’acqua è potabile. Gli indici di mortalità, infantile e senile, di salute fisica e longevità, di esposizione a malattie in genere della popolazione di Cuba sono notevolmente inferiori a quelli del più ricco Paese del mondo, degli Stati Uniti. Ma Cuba batte ampiamente l’Impero nord americano anche sul piano della istruzione di massa, con indici di diffusione e di eccellenza, percentualmente alla propria popolazione, imparagonabili con quelli USA. Questo è il frutto di 50 anni di politica economica e sociale comunista. E’ esportando medicine e

La teoria marxiana(*) del “plusvalore” Come e da dove nasce il capitalismo

Il “capitale” non nasce né dalla circolazione delle merci, né dalla sua varianteevoluzione circolazione del denaro. La circolazione delle merci è solo il punto di partenza del capitale, ma è nel momento in cui le merci mutano il loro valore da “consumo” a “scambio” e che il denaro da mezzo di “intermediazione” diventa merce di “scambio”, che inizia il percorso di formazione del capitale. La circolazione delle merci, di per sé e per la natura propria

medici, tecnologia di base e tecnici, dal Sud Africa di Mandela al Venezuela di Chavez, che Cuba oggi soddisfa i propri fabbisogni di petrolio e in genere di tutti quei beni che la scarsa produttività della sua terra, estremamente lussureggiante ma poverissima di proteine e di minerali nobili, non è in grado di produrre. Varrà di ricordare che oltre 50 anni fa Avana, che all’epoca era la Miami degli Stati Uniti, veniva alimentata direttamente dalla Florida, non essendo l’intera isola di Cuba in grado di sostenere quella che allora era una vera e propria metropoli nord americana, sede “prediletta” della mafia ebrea e USA. Premesso questo quadro storico e di contesto anche attuale, si può procedere all’esame e al giudizio sulle condizioni attuali dell’economia cubana. Cuba non è certamente ricca, anzi è sicuramente povera nonostante i 50 anni di ottimo governo comunista, ma è viva ancora oggi a distanza di 20 anni dal crollo dell’U-

nione Sovietica alla cui economia, o forse è meglio dire: “dalla” cui economia era dipendente. Nei trenta anni di adesione al sistema economico del cosiddetto “socialismo reale” Cuba ha ricevuto aiuti, proporzionalmente, impressionanti: si parla di circa il doppio del proprio PIL annuo (usiamo un termine capitalista). Come ha investito questi enormi aiuti è già detto nelle righe precedenti: emergendo da una condizione di sottosviluppo, arretratezza economica e culturale spaventosa (all’inizio della rivoluzione comunista, nel 1960, la popolazione cubana era pressoché tutta analfabeta e nell’oriente “nero” vigevano ancora forme di sostanziale schiavitù). Oggi, come detto, l’acqua è potabile e i laureati cubani “invadono” i paesi emergenti dall’oppressione degli imperi occidentali. Alla dissoluzione dell’Unione Sovietica Cuba si è trovata improvvisamente senza quegli enormi aiuti che, oltre a consentirle di realizzare le strutture di base di uno stato moderno (ospedali, scuole, abitazioni, infrastrutture, ecc.), le garantivano anche la stessa alimentazione della popolazione. Se proviamo a paragonare l’odierna, indubbiamente gravissima, crisi economica che ha colpito la Grecia al trauma economico subito da Cuba 20 anni fa siamo lontani, come si dice, “anni luce”. Eppure Cuba non solo è sopravvissuta, ma ha anche continuato orgogliosamente a tenere testa al nemico nord americano, proseguendo nel suo ruolo di faro di libertà per i popoli oppressi di tutto il (terzo) mondo (non solo nel sud e centro America, ma anche nell’estremo oriente, dal Nepal all’India, Cuba è conosciuta e ammirata). Questo è stato possibile grazie alla forte cultura sociale e solidale che i 50 anni di

delle merci, non produce aumento di valore (salvo la truffa) in quanto è destinata al consumo e si scambia con altra merce parimenti destinata al consumo, e dunque il valore (di consumo) complessivo pareggia e torna a “zero”, sino alla creazione di nuove merci da scambiare. Anche la circolazione del denaro, che da mezzo di intermediazione (la merce si vende per denaro ed il denaro ricavato serve a comprare merce) può divenire il punto di partenza e di arrivo della sua

stessa circolazione (denaro per acquistare merce che viene venduta per altro denaro), non muta la sua “quantità” alla fine del ciclo perché equivarrà sempre al valore della merce comprata e venduta che, come sopra detto, sarà sempre “pari”. Perché alla fine della “circolazione” (sia che si tratti di merce-denaro-merce o denaromerce-denaro) il denaro si accresca ed ecceda il valore della merce scambiata, così diventando “capitale”, occorre che in questo percorso intervenga

III


Inserto speciale di Piazza del Grano - Anno II - numero 6 - giugno 2010

I comunisti sdegnano di nascondere le loro opinioni e le loro intenzioni. Dichiarano apertamente che i loro fini possono essere raggiunti soltanto col rovesciamento violento di tutto l'ordinamento sociale finora esistente. Le classi dominanti tremino al pensiero d'una rivoluzione comunista. I proletari non hanno da perdere che le loro catene. Hanno un mondo da guadagnare.

PROLETARI DI TUTTI I PAESI, UNITEVI! IV


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.