supplemento al numero 3 - Anno II - marzo 2010 di Piazza del Grano
’68
“…anche se il nostro maggio ha fatto a meno del vostro coraggio…” (Fabrizio DeAndré) Parlare del ’68 da diversi anni ha il sapore di una retorica nostalgica di una gioventù ribelle consumata in una mezza età delusa e oramai rinunciataria; ha il sapore, insomma, del ricordo di un sogno troppo grande per potersi realizzare, che è stato bello vivere, ma che oggi è molto meglio dimenticare. Non è così. Il ’68 non ha vinto, ma non ha neppure fallito, i suoi sogni non si sono avverati così com’erano stati sognati, ma i suoi semi sono ancora sparsi e, qua e là, di quando in quando, ancora sono in grado di dare fiori. Parlare ancora oggi, nell’anno 2010, del ’68 significa non solo mantenere fede agli ideali di quegli anni “straordinari”, ma credere ancora nella possibilità di realizzarli, anche se non con quell’irruenza e immediatezza che si era allora immaginata, quasi fossero dietro la porta. Si tende a identificare ed esaurire il ’68 con il famoso “maggio” francese e poi con l’ “autunno caldo” italiano del 1969, e anche questo è sbagliato. Assai prima, alcuni decenni prima del movimento “no global”, il ’68 è stato un fenomeno davvero mondiale, non solo perché ha interessato quasi tutti i continenti della terra, ma soprattutto perché è sorto spontaneamente, in sorprendente simultaneità e senza apparenti collegamenti, nei più lontani “angoli” della terra e con le più diverse motivazioni e modalità. Il ’68, in verità, è nato nel ’66 ai due capi opposti del globo, in due realtà politiche, economiche e sociali totalmente differenti. E’ del ’66 la prima rivolta studentesca nell’Università di Berkley (San Francisco, California) nata dall’opposizione alla guerra del Vietnam e per l’affermazione dei diritti civili negli USA. E’ sempre del ’66 l’inizio della Rivoluzione Culturale voluta dal Presidente Mao in Cina in opposizione alla visione burocratica e sostanzialmente militarista del socialismo russo, con l’affermazione, per la prima volta
nella storia, della “disobbedienza” come pratica di lotta politica comunista. Ma c’è ancora un altro ’66, quello dell’ultimo discorso del Che sull’innesco rivoluzionario dei “due, tre, molti Vietnam”, prima di partire per la Bolivia dove, nel ’67, verrà ucciso dai sicari USA, ma farà in tempo spargere in quell’immenso sub continente il seme della rivolta e del riscatto, solo apparentemente consumato nelle esperienze guerrigliere dell’Argentina, del Perù, del Guatemala ed altre, o in quelle popolari del Messico e istituzionali del Cile di Allende, ma poi, proprio in questi ultimi anni, rigoglio-
no ben presto contaminati e il sud America del Che e la Cina di Mao sono entrate a pieno titolo e con forza trascinante, emotiva e culturale, nelle rivolte europee. “Un altro mondo è possibile” è stata la parola d’ordine del più recente movimento “no global”; “cambiare il mondo” è stata quella, tratta direttamente da Marx, del ’68 europeo. Ciò che ha caratterizzato il ’68, rispetto alle successive esperienze dei movimenti mondiali, è stata però la forte identità di classe, o meglio di classi. Accanto ad una nuova generazione giovanile cresciuta grazie alla apertura inter classista delle scuole pub-
craticismo di Stato, ma anche con l’incredulità, l’incapacità di comprensione e infine anche l’aperta ostilità dei “vecchi” partiti comunisti e delle loro organizzazioni sindacali, all’epoca strettamente legate ai partiti politici di riferimento secondo il principio della “cinghia di trasmissione” di origine sovietica. L’incapacità dei partiti comunisti occidentali di intercettare la grande spinta innovativa del ’68 li ha condannati ad una progressiva estinzione, rapidissima quella del partito comunista francese “fagocitato” dal partito socialista dell’allora emergente Mitterand, più lenta ma inesorabile quella
do a mantenerne fermi i principi ideologici. Tornando all’occidente europeo chi ha tratto il maggior beneficio dalla “rivoluzione” culturale e politica del ’68 sono stati i partiti socialisti o comunque socialdemocratici, maggiormente in Francia e in Germania, in più lungo tempo ma significativamente in Italia. In qualche misura si può datare, infatti, proprio dal ’68 la nascita dell’idea dello stato sociale che per alcuni decenni ha caratterizzato il progetto politico europeo in alternativa, o persino in antagonismo, sia con l’inadeguato socialismo reale dell’oriente europeo, che con lo
partito comunista italiano che pure aveva, più tardi ma molto pavidamente, tentato un mutamento genetico. Non migliore sorte è toccata ai partiti comunisti orientali schiacciati dalla sclerotizzazione brezneviana del comunismo sovietico. Del tutto diversa è stata la sorte del partito comunista cinese che, al costo di durissimi “strappi” e scontri interni, ha saputo invece fare tesoro dell’esperienza della rivoluzione culturale, intraprendendo un percorso che, con i tempi propri della tipica riflessività orientale, ha innovato completamente la pratica comunista riuscen-
sfrenato liberismo del modello anglosassone marcatamente americano. E’ difficile e presuntuoso volere qui elencare le tante conseguenze positive della spinta innovativa del ’68, anche per la lunghezza temporale della sua “coda” nei decenni seguenti. Basterà qui citarne alcuni dei più significativi nei diversi campi della politica, del costume, della cultura e dell’economia comunque capitalista. Lo Statuto dei Lavoratori del 1970, il sistema sanitario nazionale universale del 1978 e dello stesso anno la legge Basaglia sulla chiusura della segregazione mani-
Roma - 1968, carica della polizia a Valle Giulia, facoltà di Architettura
samente rifiorito nelle nuove democrazie popolari e socialiste del Venezuela, della Bolivia, del Salvador ed anche del Brasile. Il ’68 esploderà in Europa quasi simultaneamente all’ovest: in Francia, Germania, Olanda e Italia, e all’est: in Cecoslovacchia, Polonia e Yugoslavia, unico Stato quest’ultimo a recepire immediatamente le nuove istanze giovanili grazie alla straordinaria lungimiranza di Tito che legittimerà per primo la compatibilità tra Stato socialista e movimento spontaneo. Pur nati in realtà e con obiettivi immediati diversi, tutti questi movimenti si so-
bliche, soprattutto a livello universitario (è di quegli anni l’accesso a tutte le facoltà universitarie indiscriminatamente per ogni titolo medio superiore), c’era allora una solida, consapevole e organizzata classe operaia. Ciò che invece è mancata allora, e che avrebbe invece potuto (voluto) essere presente nel più recente movimento “no global” (solo che fosse ancora esistita), è stata la presenza e la guida del (dei) partito comunista. Il ’68 dunque, a differenza del movimento “no global”, si è dovuto scontrare non solo col “tipico” nemico di classe capitalismo e buro-
comiale, le diverse leggi sui diritti civili a partire da quella sul divorzio del 1970, l’affermazione del ruolo strategico dello Stato nel governo dell’economia con il potenziamento delle partecipazioni statali, della programmazione economica, della pubblicizzazione dei principali servizi pubblici ed infrastrutturali ed in genere dell’affermazione del ruolo di punta quantitativa e qualitativa anche internazionale dell’industria pubblica nella cantieristica, siderurgia, chimica, ecc. La stessa nascita delle Regioni, o meglio l’attuazione della previsione costituzionale sancita dall’Assemblea Costituente del 1947, con l’affermazione di una autonomia di governo della cosa pubblica fortemente decentrata e più vicina alla partecipazione diretta popolare, può in qualche modo essere ricondotta, come conseguenza politica, alla rivoluzione culturale del ’68. Il formidabile istinto di sopravvivenza del capitalismo, che non si è fatto scrupolo di ricorrere ai più feroci strumenti del terrorismo di Stato, negli anni ’80 ha sroncato quell’esperienza. La “brace” del ’68, tuttavia, non si è ancora spenta anche se molti dei “ribelli” di allora, per camaleontismo politico, opportunismo di classe o più semplice delusione depressiva, hanno rinnegato quel momento straordinario della loro vita. Spetterà alle nuove generazioni recuperare, non certamente le forme anche “teatrali” di quell’esperienza, ma i suoi stimoli ribelli e rivoluzionari che, purtroppo, stentano ancora a consolidarsi nelle ultime innumerevoli, ma ancora troppo effimere, esperienze dei movimenti spontanei orfani di una forte guida ideologica unificante. Affermava il Presidente Mao: “Per fare la rivoluzione occorre un partito rivoluzionario. Senza un partito rivoluzionario, senza un partito fondato sulla teoria rivoluzionaria marxista leninista e sullo stile rivoluzionario marxista leninista, è impossibile guidare la classe operaia e le grandi masse popolari alla vittoria.”
I
Dalla Cina... con furore
Dal sud America... con passione
Fuoco sul quartier generale (Mao)
Siamo realisti esigiamo l’impossibile (Che)
Ribellarsi è giusto!
L’immaginazione al potere!
Fu in un'università degli Stati Uniti, a Berkeley in California, che ebbe inizio la contestazione giovanile, una sorta di virus destinato presto a diffondersi in tutto il mondo. La protesta investì i valori di una società individualista e conformista, negando la presunta neutralità della scienza e delle istituzioni sociali; si rifiutò la repressione e l'autoritarismo delle vecchie generazioni in nome di un mondo più libero. In diversi fenomeni si manifestò la dimensione più politica della rivolta, specialmente nel Maggio francese e nel sogno di un'unione ideale con il movimento operaio di quel mezzo milione di studenti che sfilarono per le strade di Parigi. Gli studenti non si scagliavano solo contro l'industria del sapere, la loro era una contestazione globale che mise insieme classi, ceti, investì la morale e i rapporti umani, sovvertì un modello culturale, sconvolse un costume, rifiutando in toto uno stile di vita. Il loro era un "N0" senza compromessi ad una vita vista come ingessata e bigotta, ad un futuro disegnato su valori ben lontani dall'appagare le aspirazioni di un ventenne, un mondo, insomma, nel quale non si riconoscevano affatto. A far esplodere quel magma, tra le altre cose, contri-
II
buì un libro, “L'Uomo ha una dimensione” scritto da Herbert Marcuse, professore di filosofia all'Università di San Diego (California), che affermava “rifiuto nel modo più completo è il modo in cui questa società è organizzata, il modo in cui essa sperpera ed abusa delle proprie risorse, il modo in cui accresce la ricchezza di una parte della popolazione e allo stesso tempo non si preoccupa di fare praticamente niente contro la cruda povertà esistente in vaste aree del pianeta”. Anche il Libretto Rosso di Mao del 1964 ebbe un enorme successo: diffuso in milioni di copie il libretto fece il giro delle università occidentali; il “maoismo” fu per molti una provocazione radicale, il leader cinese invitava infatti a far “fuoco sul quartier generale”, cioè sul potere, ribadendo un concetto di fondo: “ribellarsi è giusto”. Gli studenti della Sorbona di Parigi innescarono una rivolta che coinvolse le grandi fabbriche della Renault e della Citroen, coniando lo slogan: “Ce n’est qu’un debut, continuons le combat” (Non è che l'inizio, la lotta continua). Il “fuoco” del maggio francese fu tanto violento, rispetto al resto dell’Europa, quanto di breve durata: sostanzialmente durò solo quel mese, ma giunse quasi a mettere in di-
scussione, o questo almeno fu per un attimo il timore delle gerarchie francesi, la stessa stabilità della Quinta Repubblica francese. Per 48 ore il “fiero” generale De Gaulle sembrò abbandonare il potere e fu Pompidou, futuro suo successore, a reggere lo scontro. Dopo quelle 48 ore di silenzio il “Generale” riassunse il controllo di se stesso e della situazione, sia sul piano della forza, inviando i carri armati a Parigi, sia su quello della politica, provocando una enorme manifestazione di sostegno al suo potere (in Italia più tardi la conosceremo con il nome di “maggioranza silenziosa”. L’ordine venne così ristabilito. Il potere riuscì a impedire la “fusione” tra il movimento degli studenti e quello degli operai, lavorando abilmente sulle incapacità di comprensione dei partiti della sinistra, primo tra tutti il partito comunista e il suo sindacato GCT confederazione generale del lavoro. La rivolta studentesca aveva però sparso il suo seme e, non molti anni più tardi, scomparsa la figura carismatica del generale De Gaulle, la Francia vedrà fiorire una nuova cultura sociale e socialista che, per certi aspetti, la porterà al primo piano della nuova idea di Europa sociale e solidale.
Una seconda componente importantissima della rivolta giovanile di quegli anni fu l’ “irriverenza” come arma di scontro politico. Erede di una generazione che aveva vissuto la seconda guerra mondiale e prima ancora le follie ideologiche e identitarie delle dittature centro europee che, va ricordato, attecchirono anche in altri paesi apparentemente estranei al terreno economico e sociale di coltura sia del fascismo che del nazismo (come nella Francia collaborazionista di Vichy, nella Spagna franchista, nel Belgio, nell’Ungheria, della Croazia, ecc.), la nuova generazione giovanile squarciò il velo di ipocrisia steso tra chi voleva dimenticare le proprie responsabilità, anche passive, e chi voleva istaurare un nuovo regime, meno “ostentato”, ma sostanzialmente non meno ingiusto, chiudendo con un passato “ambiguo” sfruttando l’ “evento mediatico” del Processo di Norimberga che aveva ben delineato la demarcazione tra i “buoni” (i vincitori) ed i “cattivi” (gli sconfitti). Pur non sminuendo i valori della resistenza antifascista ed antinazista, anzi facendone bandiera propria, la nuova generazione cercò di abbattere il “RE”, il potere (pre)costituito politico, religioso e culturale, mettendolo “a nudo”. Dal “guerrigliero eroico”, che con il suo assassi-
nio nel 1967 per mano dei sicari boliviani degli USA entrava allora nella leggenda, oltre all’incitazione battagliera dei “due, tre, molti Vietnam”, i giovani europei trassero quella emotiva del “realismo dell’impossibile”. L’ “immaginazione al potere” fu lo slogan della componente non violenta del movimento che caratterizzò maggiormente, rispetto alla più violenta rivolta francese, la vicenda italiana. Questa forma di lotta politica, in verità, era già comparsa in Europa alcuni anni prima con la vicenda dei “provos” (provocatori) olandesi. Nel 1965, in Olanda, da una singolare contaminazione tra elementi ideologici ambientalisti e anarchici, era nato il movimento delle “biciclette bianche”, dal mezzo di locomozione con il quale i giovani capelloni, vestiti di jeans bianchi, percorrevano la capitale olandese, mettendo in atto provocazioni tanto teatrali quanto “sovversive” rispetto all’ideologia bigotta allora imperante. Ogni giorno un “provo” volontario si lanciava in bicicletta in mezzo ai cordoni della polizia che proteggeva il palazzo reale per appendervi un cartello con scritto “affittasi”. Il volontario veniva ovviamente catturato, pesantemente bastonato dalla polizia che, spesso, lo rasava a zero, inorridita
dall’immagine inusuale dei capelli lunghi. Anche in Olanda i partiti della sinistra rimasero spiazzati della novità, criticandone la carenza di supporto ideologico, mentre molto violenta fu, al contrario, la reazione del potere costituito terrorizzato dalla novità. Il movimento provo si sciolse spontaneamente, così come era nato, prima ancora dell’esplosione del ’68, ma il suo seme è germogliato ed oggi l’Olanda, e Amsterdam in particolare, è uno dei luoghi più libertari ed anticonformisti d’Europa. In Italia la componente “irriverente” è sopravvissuta ancora a lungo, fino agli “indiani metropolitani” che nel 1977 derisero, in un comizio all’università di Roma, lo storico leader della CGIL, Luciano Lama, con slogan come: “Ti prego Lama non andare via, vogliamo ancora tanta polizia”. Nel movimento italiano, tuttavia, la linea pacifista e non violenta delle origini ben presto venne affiancata ed infine sopraffatta dalla scelta, forse anche obbligata, dello scontro di piazza che trova la data di nascita nella “battaglia di Valle Giulia” a Roma, quando gli studenti per la prima volta reagirono alle cariche della polizia uscendone vincitori e così immaginando la possibilità di una soluzione rivoluzionaria.
Dallo “scontro generale” all’informazione
Dalla “linea di massa” alla clandestinità
Lotta Continua
Potere Operaio
Fu una delle maggiori formazioni della sinistra extraparlamentare italiana, di orientamento comunista rivoluzionario, tra la fine degli anni sessanta e la prima metà degli anni settanta. Nacque nell'autunno del 1969 in seguito a una scissione in seno al Movimento operai-studenti di Torino che aveva infiammato l'estate delle lotte all'università e alla Fiat (l'altra parte costituì Potere operaio). Dalla nascita all'inizio del 1972 LC ebbe forte connotazione spontaneistica, trovando in Adriano Sofri un leader cari-
smatico. La sua dirigenza si compose nei vertici anche di Giorgio Pietrostefani, Mauro Rostagno, Guido Viale, Marco Boato. Dal 1974 al 1976 LC compì una parabola politica che la portò dalla scelta dello “scontro generale”, all’appoggio elettorale al PCI nel 1975 e poi a entrare lei stessa nella competizione elettorale del 1976 Lotta Continua quando presentò liste comuni con il PdUP, Avanguardia Operaia e Movimento Lavoratori per il Socialismo, eleggendo al Parlamento Mimmo Pinto leader dei “disoccupati organizzati” di Napoli. Le svolte verso il parlamentarismo, e l'allontanar-
si dall'area extraparlamentare non salvarono però l'organizzazione, che si dissolse senza alcuna dichiarazione ufficiale, sebbene il quotidiano, diretto da Enrico Deaglio, continuò a uscire fino al 1982. Alcuni leader resteranno in politica: Marco Boato e Mimmo Pinto nel Partito Radicale; Luigi Manconi prima ai Verdi e poi ai DS; altri resteranno nel mondo dell'informazione, in cui occupano oggi di fatto ruoli strategici, chi lavorando in televisione (Rai, Fininvest e La7) chi su varie testate giornalistiche, tra i più noti Gad Lerner e Paolo Liguori.
E’ stato un movimento della sinistra extraparlamentare italiana attivo fra il 1967 e il 1973. Il gruppo politico trasse origine dal nucleo redazionale della rivista “Classe Operaia”, nata da una scissione della redazione della rivista politica “Quaderni Rossi”. Potere Operaio si propose l'obiettivo di distinguersi per una analisi teorico-politica volta all'esplicitazione della cosiddetta "linea di massa" collegandosi alle lotte operaie in funzione della costruzione di una organizzazione auto-
noma dai partiti di sinistra della classe operaia. Nel settembre 1969, in seguito alla scissione in seno al Movimento operai e studenti di Torino, vi confluì il gruppo Potere operaio di Porto Marghera attivo nel nord-est e in Emilia sin dal 1967, le cui posizioni venivano espresse col periodico “La classe”. Potere Operaio disponeva di una struttura denominata "Lavoro illegale", segreta e armata, di cui era leader Valerio Morucci. Nel giugno 1973 in seguito a contrasti tra Toni Negri e Franco Piperno, due dei maggiori leader, l'area pado-
vana vicina a Negri si scisse da quella romana, dopo il cosiddetto “convegno di Rosolina”. Ciò decretò lo scioglimento di Potere Operaio. Una parte dei suoi aderenti soprattutto nell'area di Roma finirono per aderire alle Brigate Rosse. Altri aderenti, soprattutto nella zona di Padova, ad Autonomia Operaia. Segretario Nazionale di “Potere Operaio” fu Franco Piperno. Il gruppo dirigente era costituito da altri nomi che divennero noti durante gli Anni di piombo: Oreste Scalzone, Lanfranco Pace, ora giornalista per la carta stampata e La7.
Dalle fabbriche alle scuole, al governo
Dalle scuole alle fabbriche, al parlamento
Avanguardia Operaia
Movimento Studentesco
Fu un'organizzazione extraparlamentare di estrema sinistra. Nacque a Milano nel 1968, coagulando su una piattaforma politica operaista-leninista, Avanguardia operaia di Milano, il circolo Rosa Luxemburg di Venezia e quello Lenin di Mestre, i Comitati Unitari di Base (CUB), organismi di sindacalismo diretto molto forti nelle grandi fabbriche milanesi, i collettivi di studenti lavoratori di alcune facoltà scientifiche e di istituti tecnici, intellettuali legati ad esperienze operaie (Vittorio Rieser di Torino), nel 1970 si unirà anche Sinistra Leninista di Roma. Risale comunque al 1971 la sua estensione a livello nazionale,
con l'apertura di numerose sedi anche nel sud. Fondata su un filone ideologico tipicamente leninista-maoista, il movimento ebbe sempre un marcato carattere operaista: nell'ambiente scolastico e universitario l'azione di Avanguardia Operaia si pose spesso in aperto contrasto e in alternativa rispetto al Movimento Studentesco. Tuttavia solo nel 1974 nacquero i CUB studenteschi, che operavano nell'ambito scolastico con la finalità di dar vita ad una azione organicamente unitaria tra studenti e lavoratori. AO fu travolta, come tutte le organizzazioni della nuova sinistra, a metà anni settanta dalla crescente militarizzazione dello scontro sociale e politico, e scel-
se di percorrere la strada dell'ingresso nelle istituzioni, aderendo nel 1976 al cartello elettorale con Lotta Continua e il Partito di Unità Proletaria, facendo eleggere Gorla e Corvisieri alla Camera dei deputati. Quando Democrazia Proletaria si costituì in partito nel 1978 vi confluì la maggioranza guidata da Gorla, Corvisieri e Vinci (che divenne poi parlamentare europeo di Rifondazione Comunista), mentre la minoranza di Aurelio Campi entrò nel PdUP. Democrazia Proletaria si sciolse nel 1991, quando già il PdUP era confluito nel PCI. Edo Ronchi aveva già abbandonato Democrazia Proletaria per fondare i Verdi Arcobaleno e nel 1996 sarà nominato da Romano Prodi Ministro dell’Ambiente.
Fu il nome di un'organizzazione extraparlamentare studentesca di sinistra, forte particolarmente a Milano. La natura assembleare del Movimento Studentesco e il fatto di avere un elevato ricambio dei militanti in maggioranza studenti, resero sempre complessa la formazione delle attività e delle opinioni. Ebbe come principali leader Mario Capanna e Salvatore Toscano. L'attività politica iniziò all'inizio del 1968 e proseguì fino al 1976. La composizione iniziale era costituita da studenti della borghesia milanese di orientamento politico di sinistra e la sua impostazione ideologica
era influenzata dai concetti leninisti di lotta di classe e avanguardia rivoluzionaria. In genere le sue linee di azione si basarono sulle assemblee, tendendo a rifiutare le impostazioni verticistiche, ma richiedendo l’approvazione nelle assemblee studentesche. Concetti simili influenzarono anche la sua struttura organizzativa, anche se più organizzata delle altre strutture spontanee cresciute nel periodo. Nel marzo 1968 il Movimento decise di uscire dall'ambito studentesco per aprirsi ai problemi della società, in particolare del mondo del lavoro. Mantenne tuttavia un’autonomia rispetto agli operai, ritenendo il proprio ruolo vicino
ma esterno alla classe operaia. Nel 1971 nel Movimento Studentesco si formarono due correnti: la prima, prevalente, sostenuta da Capanna e Toscano, di tendenze riformiste ma legate al movimento operaio, e l’altra da Saracino, rappresentante dell’area liberal del movimento. Alla fine del 1974 un folto gruppo di quadri dirigenti (circa 300) si allontanò dal Movimento Studentesco. Dopo un periodo di crisi e di dibattiti, il 1º febbraio 1976 il Movimento Studentesco trasformò in Movimento Lavoratori per il Socialismo, di cui Toscano fu il primo segretario. L’abbandono della politica extraparlamentare si compirà con la fusione del 1981 con il PdUP.
III
Milano - Piazza Fontana 12 dicembre 1969
Brescia - Piazza della Loggia, 28 Maggio 1974
San Benedetto Val di Sangro - Italicus, 4 agosto 1974
“Operazione Chaos” Si ritiene che il ‘68 sia finito nel ‘78 con la morte di Aldo Moro, all’indomani della firma del “compromesso storico” ipotizzato da Berlinguer, ma le stragi sono continuate
IV
In Italia, al contrario di tutti gli altri paesi dove si sviluppò, il ‘68 non durò solo 1 o 2 anni, ma almeno 10. Si ritiene infatti che la sua spinta ribelle e rivoluzionaria sia effettivamente terminata nel 1978, e più precisamente con il ritrovamento del cadavere dell'On. Aldo Moro, assassinato dalle Brigate Rosse. Diversamente dagli altri Paesi europei, ma anche dell’Estremo Oriente e dell’America, a consentire la lunga durata del ’68 in Italia contribuì, verosimilmente, il diverso atteggiamento del Governo dovuto a un sostanziale stabilità del quadro istituzionale che non venne messa in pericolo dalla rivolta studentesca ed operaia. In Francia alla violenza quasi insurrezionale del maggio parigino, con barricate, incendi e scontri di piazza, la reazione del governo fu quella di inviare i carri armati nella capitale; in Messico il Governo arrivo persino a far mitragliare un corte studentesco provocando decine di morti; non meno dure, anche se non sanguinose, furono le reazioni delle istituzioni in Germania, Spagna, Giappone, ecc. Nel nostro paese la spinta alla ribellione nacque in una società che era in condizioni oggettivamente più arretrate, e per questa ragione essa ebbe una vita assai più duratura. Vi era, inoltre, la presenza di una forte opposizione, in parte anche governativa sebbene minoritaria, capace se non di comprendere e condividere a fondo le ragioni della rivolta, di recepirle tuttavia in parte e trarne forza per sostenere il processo di democratizzazione in corso dopo i primi anni post bellici fortemente influenzati dallo scontro ideologico anticomunista indotto dalla pesante influenza nord americana. La reazione, tuttavia, ci fu anche in Italia in forma violenta e sanguinaria, ma fu in qualche modo “striscian-
te”, sotterranea e programmata in un medio-lungo periodo. La risposta governativa al ’68 in Italia è stata la “strategia della tensione”, articolata in due diverse modalità “tecniche”, sostanzialmente convergenti: l’infiltrazione e il terrorismo. Risale già al 1967 l’avvio da parte della Cia della “Operazione Chaos” per contrastare il movimento non violento e pacifista americano che si batteva per i diritti civili e contro la guerra del Vietnam. La Cia aveva poi deciso di estendere l’“Operazione Chaos” su scala internazionale, in particolare in Europa, per contrastare anche il movimento studentesco-giovanile del vecchio continente, inquinandone gli assunti antiautoritari e non violenti. L'operazione consisteva nell'infiltrazione, a scopo di provocazione, nei gruppi di estrema sinistra extraparlamentare (anarchici, trotzkisti, marxisti-leninisti, operaisti, maoisti, castristi) in Italia, Francia, Germania Occidentale, con l'obbiettivo di accrescerne la pericolosità inducendo ad esasperare le tensioni politico-sociali con azioni aggressive, così da determinare un rifiuto dell'ideologia comunista e favorire spostamenti “a destra” (secondo la logica di “destabilizzare per stabilizzare”). La linea americana in Italia venne condivisa e applicata in particolare dai Carabinieri del generale Dalla Chiesa che infiltrò un grande numero di ufficiali e sottoufficiali nelle università, dove peraltro molti di loro giunsero anche alla laurea. La seconda linea, verosimilmente più indotta, organizzata e gestita direttamente dai servizi americani, fu quella del terrorismo finalizzato a creare un clima di paura anche, non va escluso, nei confronti dello stesso sistema istituzionale italiano, dagli Usa ritenuto troppo accondiscendente alle istanze so-
cialiste e comuniste. Non va infatti dimenticato che in Italia non solo c’era il più grande partito comunista dell’occidente, ma anche un’altra grande forza politica non comunista ma popolare, quella cattolica, che dopo il Concilio Vaticano II aveva aperto al dialogo con l’opposizione facendo cadere il “muro” ideologico alzato al tempo dei governi De Gasperi totalmente sottomesso al dominio americano. E’ già del 1969 la prima strage. All’agenzia della Banca dell’Agricoltura a Piazza Fontana in Milano il 12 dicembre 1969 venne fatta esplodere una bomba che fece una strage di così detti cittadini “comuni”, senza mai avere una rivendicazione ed una giustificazione politica o ideologica. Le stragi, innominate, ingiustificate, mai rivendicate, si susseguiranno a sca-
Roma - Via Caetani, ritrovamento di Aldo Moro 9 maggio 1978
rienza democratica socialista sorta nel mondo occidentale al di fuori degli schieramenti dei due “blocchi” che si contendevano il dominio della terra: Usa e Urss. In Cile i militari guidati dagli agenti Usa avevano ucciso il primo presidente socialista democraticamente eletto, Salvador Allende. L’evento, per la sua crudez-
Bologna - Stazione Centrale, 2 agosto 1980
denze ad “orologeria” e proseguiranno anche dopo la morte di Moro e la fine “ufficiosa” del ’68. E’ proprio la vicenda Moro che più d’ogni altra svela la provenienza e le finalità della strategia terroristica di Stato, italiano o estero soprattutto. Nel 1973 gli Stati Uniti avevano stroncato nel modo più sanguinoso possibile la prima grande espe-
za e “sfrontatezza” politica, aveva fortemente impressionato il partito comunista italiano, da tempo emancipatosi dal legame con l’Urss che, peraltro stava vedendo scemare rapidamente la sua capacità di influenza nel mondo, anche a seguito del distacco della Cina comunista.
Berlinguer, in qualche modo, aveva allora deciso di rallentare il progetto di un governo social-comunista, assumendo la consapevolezza della inevitabilità di una condivisione del potere con l’altra grande componente politica cattolica, trovando il proprio interlocutore in Aldo Moro. L’ipotesi di una intesa governativa cattolico-comu-
poi inevitabilmente alla uccisione del leader democristiano, sopraffacendo non solo ogni autonomia decisionale del governo italiano, ma anche stroncando il tentativo di intervento dello stesso Papa cattolico (per chi lo ricorda il famoso appello di Paolo VI agli “uomini delle brigate rosse”). Aldo Moro doveva, dun-
San Benedetto Val di Sangro - Rapido 904, 23 dicembre 1984
nista in Italia aveva sicuramente spaventato l’amministrazione Usa che, responsabile o meno del sequestro di Moro da parte delle Brigate Rosse (la verità verosimilmente non verrà mai accertata), fu sicuramente responsabile della opzione del rifiuto alla trattativa, che portò Ins e r t o a c ur a di Sa ndr o R idolf i
que, morire per uccidere con lui il progetto del “compromesso storico” ipotizzato da Berlinguer come la possibile “via italiana” al socialismo. A “suggellare” quell’avvertimento, il 2 agosto 1980, nella sala d’attesa di seconda classe della stazione di Bologna, esplose una bomba.