Inserto "New economy" - Giugno 2010

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New Economy supplemento al numero 6 - Anno II - giugno 2010 di Piazza del Grano - www.piazzadelgrano.org

Il termine “new economy” è stato coniato nel 1998 dal saggista statunitense Kevin Kelly col best-seller “New Rules for a New Economy” nel quale ha elencato le regole per affrontare i nuovi mercati: cogliere la corrente, massimizzare i profitti, cercare l'abbondanza, scegliere la libertà, niente armonia tutto flusso, l'opportunità prima dell'efficienza. “La new economy”, disse il Gatto, “offre la possibilità di operare in un mercato globale, abbattendo i costi di gestione e consentendo alle imprese di non essere vincolate a uno spazio definito e così creare uno stato di permanente crescita costante, bassa disoccupazione, e stabilità”. Ma come funziona? "Te lo spiego subito", disse la Volpe. "Bisogna sapere che nel paese dei Barbagianni c'è un campo benedetto, chiamato da tutti il Campo dei miracoli. Tu fai in questo campo una piccola buca e ci metti dentro per esempio uno zecchino d'oro. Poi ricopri la buca con un po' di terra: l'annaffi con due secchie d'acqua di fontana, ci getti sopra una presa di sale, e la sera te ne vai tranquillamente a letto. Intanto, durante la notte, lo zecchino germoglia e fiorisce, e la mattina dopo, di levata, ritornando nel campo, che cosa trovi? Trovi un bell'albero carico di tanti zecchini d'oro, quanti chicchi di grano può avere una bella spiga nel mese di giugno." “Che brave persone!"pensò dentro di sé Pinocchio.

Inserto a cura di Sandro Ridolfi

La Cuoca di Lenin Si attribuisce a Lenin l’affermazione secondo la quale anche una cuoca potrebbe assumere la carica di Capo dello Stato. Il padre del primo Stato democratico popolare della storia dell’umanità intendeva dire, non che “chiunque” poteva aspirare a ricoprire una carica tanto importante solo per essere nato e vivere in uno Stato liberato dalla segregazione sociale imposta da ristrette classi dominati, ma proprio per l’essere nato e vivere in un simile Stato di uguali “chiunque” (anche una “semplice” cuoca) sarebbe stato posto nelle condizioni di accedere ad un percorso di conoscenza, preparazione ed esperienza che lo avrebbe potenzialmente reso in grado di svolgere egregiamente anche quella alta funzione. Due millenni e mezzo prima, un greco illuminato affermava che, benché pochi fossero in grado di “fare politica”, cioè di essere preparati e capaci anche di assumere la carica di Capo dello Stato, tutti tuttavia erano in grado di giudicare l’operato degli esperti della politica. La fine dell’ultimo secolo sembra avere disperso sia l’insegnamento ateniese, che il progetto leninista. Oggi pochi, molto pochi,

sanno “fare politica” e quasi nessuno è più in grado di giudicarla (il che consente a quei pochi di continuare a fare ciò che non sono assolutamente capaci di fare). La perversa coniugazione della mancanza di controllo e di giudizio critico con l’ottusità dell’ignoranza fa sì che quei “pochi” siano persino convinti di essere bravissimi, anzi “geniali”. In queste condizioni versa oggi il governo dell’economia mondiale. Pochi cialtroni, auto incensati e pluridecorati di “master” e titoli accademici strepitosi scambiati tra loro stessi come i famosi “panettoni d’oro massiccio e diamanti” degli amministratori della multinazionale datrice di lavoro di Fantozzi (il personaggio inventato da Paolo Villaggio, non il “becchino” dell’Alitalia di Stato), che si scambiavano tra di loro regali di natale esageratamente costosi ma assolutamente identici rimanendo, alla fine, nelle stesse condizioni di partenza, hanno oggi l’arroganza e la presunzione di governare un’economia mondiale che, invece, se ne va per la sua strada come un tornado incontrollato e imprevedibile. Tanti, quasi tutti, restano a bocca aperta a bere non ca-

lici, ma intere damigiane di geniali cialtronerie rese apparentemente “intelligenti” dall’uso (abuso) di termini inglesi, anglicizzati o persino anglo-inventati (il termine “neologismo” è troppo scientifico per essere utilizzato in questo caso). Futures, swap, rating, mibtel, dow jones, derivati (per usare almeno una parola in lingua italiana) riempiono persino le cronache rosa (oltre a quelle “nere” da codice penale fiscale e valutario) e, allora, ecco sopraggiungere altri termini: disavanzo, pil, deficit e infine manovra fiscale da “mille” miliardi. I mercati (finanziari ovviamente, di quelli “reali” ci sono rimasti solo quelli “dell’antiquariato”), gli investitori, o meglio la fiducia degli investitori, sono i totem sacri della new economy globalizzata. Gli investitori, soprattutto. Ma chi sono gli investitori? La cuoca di Lenin avrebbe sicuramente un’idea e una risposta tanto semplice quanto chiara. “Investitore” è qualcuno che, dovendo o volendo dare fiducia a un bene o anche a una persona, o a un progetto o a un’idea, la studia, la vigila, la segue nel suo apparire ed evolversi per af-

fidarla e/o esserne reciprocamente affidato. “Investitore” è qualcuno che ragiona e valuta nel tempo medio o persino lungo. Nell’attuale mercato finanziario i “nuovi investitori” entrano ed escono spesso in frazioni di secondo, affidano e abbandonano beni e progetti che non hanno (non possono avere) neppure sommariamente valutato. Nella loro irrazionalità, paradossalmente, i “nuovi investitori” finiscono per essere loro stessi i creatori della “fiducia” (di una falsa fiducia). Non s’immagina neppure quante sono le società quotate alla borsa che hanno un valore di scambio azionario, cioè una sommatoria aritmetica del prezzo dei loro titoli, anche notevolmente superiore al valore reale delle consistenze del loro patrimonio aziendale, incluse le pure astratte potenzialità di crescita e di sviluppo. Cosa direbbe a questo punto la cuoca di Lenin se vedesse gli odierni geni della finanza investire (o meglio fare investire agli altri) in beni fittiziamente valutati molto al di sopra del loro valore reale? Cosa direbbe la cuoca di Lenin se vedesse, ad esempio,

scambiare quote percentuali ideali di un appartamento che, sommate tutte assieme, risultano raggiungere un valore anche di molto superiore a quello reale (di acquisto o vendita) dell’immobile intero? Probabilmente direbbe che si tratta di investitori incompetenti o pazzi, o ambedue le cose assieme. Ma subito dopo, con la forza “granitica” del semplice buon senso, direbbe che non si tratta di “investitori”, ma di “speculatori”, di “sciacalli”. E allora cosa sono i “mercati” dove questi speculatori scorrazzano saltando da un titolo all’altro, da uno Stato all’altro, senza eseguire nessuna seria valutazione, studio, approfondimento su ciò che comprano o vendono, affidano o distruggono? Cosa sono questi “mercati” dove un giorno si guadagno cifre da capogiro e un altro si “bruciano” (altro termine “demenziale”) ricchezze puramente immaginarie, del tutto indipendenti dalla realtà materiale alla quale fingono di riferirsi? Sono le “piazze virtuali” dove si consumano alcuni dei più grandi crimini contro l’umanità, dove un ordine di acquisto o di vendita può distruggere, e questo “real-

mente”, un intero raccolto di soia, di mais, di zucchero, o un intero anno di lavoro di minatori di rame, di carbone, di petrolio, condannando alla povertà, alla fame, alla carestia interi popoli. Ma torniamo alla cuoca di Lenin. Di fronte agli schizzofrenici “sobbalzi” di un titolo azionario, ad esempio, di un’industria automobilistica che sempre la stessa è e resta, con i suoi stabilimenti, macchinari, progetti e prodotti, la cuoca di Lenin si porrebbe la più semplice e più ovvia delle domande: ma questa industria è in grado realmente di produrre qualcosa di buono, di valido, di funzionante, di appetibile, o no? E se la risposta è no; che cosa si fa, che cosa si deve fare “realmente” (“maglioncino girocollo” a parte) per risanarla e rilanciarla? “Lanciare” un futures? Uno swap? No! Bisognerebbe (bisogna, subito!) lavorare a un nuovo progetto, un nuovo prodotto, un nuovo macchinario o un intero nuovo sistema produttivo. Così si esce dalla crisi, da qualsiasi crisi: con l’uso delle “mani” e non con gli “anglicismi”. E la cuoca di Lenin è diventata “manager”.

I


Dal Piano Marshall alle 35 ore di Jospin Spesa pubblica e distribuzione dei redditi sostengono lo sviluppo economico Nell’immaginario collettivo, e meglio potremmo dire nella retorica di regime, il Piano Marshall viene legato alle immagini dei soldati americani che lanciano dai carri armati sigarette e cioccolate ad una popolazione affamata di cibo e di pace e alle navi granarie che scaricano nei porti italiani casse piene di ogni “ben di Dio”. Il Piano Marshall è stato in verità molto di più e anche molto di diverso. Passata l’euforia (o la soggezione) filo americana, oggi del Piano Marshall si danno due letture, una politica e una economica, molto più serie e veritiere. Quanto alla lettura politica, in questa sede dedicata all’economia, ci limiteremo a ricordarne la funzione strategica per la sottomissione dell’intero continente europeo al nuovo gigante economico e militare d’oltre ocea-

no, abilmente sostenuta anche dalla minaccia, totalmente inventata dagli USA, della “guerra fredda” con l’antagonista “bolscevico”. Sotto il profilo politico-militare il Piano ha perfettamente funzionato e ancora funziona non solo con la presenza delle basi militari USA sparse nel continente europeo, ma anche con l’evidente sottomissione dell’Unione Europea alle politiche imperialiste del (pre)potente alleato d’oltre oceano nell’aggressione alla Yugoslavia, nell’invasione dell’Iraq e oggi nell’occupazione dell’Afganistan. Ben altra, e sotto un certo punto di vista persino “istruttiva” per i tempi correnti, è invece la lettura del profilo economico di quella enorme operazione di sussidio alle economie europee distrutte nei cinque anni della guerra mondiale. Se per un verso, infatti, il Pia-

no Marshall (negli USA denominato “Foreing Assistance Act”) rappresentò realmente un enorme aiuto alla ricostruzione delle economie dei Paesi dell’Europa occidentale, per altro verso rappresentò la più coraggiosa e intelligente operazione di rilancio dell’economia americana, anch’essa fortemente provata dall’enorme dispendio di risorse richiesto dalla guerra mondiale. Il Piano Marshall ha realizzato, forse, la più lucida applicazione del principio di base dell’economica capitalista: quello del mercato. Perché un sistema economico produca, dia occupazione, realizzi ricchezza (iniquamente ripartita è il secondo principio del capitalismo!) occorre che esista un mercato in grado di assorbire (comprare e consumare) i prodotti tanto dell’agricoltura che dell’industria. Il sistema economico americano alla fine della guerra era entrato in una gravissima crisi e nel 1946 si contavano negli USA circa 10 milioni di disoccupati; finita la guerra occorreva riconvertire l’industria bellica e nello stesso tempo trovare i mercati dove collocare le nuove produzioni civili. L’Europa, l’unico grande potenziale mercato, era distrutta, occorreva finanziarne la rinascita per renderla capace di assorbire le nuove produzioni americane. Il governo americano finanziò dunque la nascita dei nuovi mercati dove collocare i propri prodotti ricorrendo a un procedimento estre-

mamente semplice: gli USA tenevano e gestivano i “cordoni della borsa”, sicché ogni erogazione economica nasceva già destinata all’acquisto di prodotti americani. In sostanza l’intero finanziamento americano alla ricostruzione dell’Europa tornava negli Stati Uniti sotto forma di esportazioni. In soli tre anni, tanto durò il Piano Marshall, i disoccupati negli USA scesero da 10 a 2 milioni! La spesa pubblica, l’indebitamento pubblico si era trasformato in consumo creando il mercato essenziale per lo sviluppo dell’economia dello stesso Stato “donatore”. Cinquanta anni più tardi in Francia, in un contesto politico-economico formalmente del tutto diverso, ma sostanzialmente affatto uguale, è stato ipotizzato e tentato, ma in questo secondo caso non portato a termine, un progetto similare. I mercati, o l’unico grande mercato globalizzato del mondo si stava saturando in modi e per ragioni diverse, e persino opposte, ma sostanzialmente convergenti quanto agli effetti pratici. Da un lato la smisurata aggressività del capitalismo occidentale stava uccidendo ogni potenzialità di sviluppo del mercato del terzo mondo, da altro lato la vertiginosa crescita dei sistemi produttivi degli Stati emergenti dell’estremo oriente stava invadendo non solo i mercati del terzo mondo ma anche quelli dello stesso primo mondo occidentale, da ulti-

Lionel Jospin, primo ministro francese, e Martine Aubry, ministro del lavoro, autori della legge delle “35 ore

mo l’enorme concentrazione delle ricchezze all’interno degli stessi Paesi dell’occidente capitalista stava impoverendo la propria popolazione e quindi deprimendo i mercati interni. La chiusura, o quanto meno la contrazione dei mercati avrebbe a breve avuto l’inevitabile conseguenza di colpire la produzione. La risposta social-comunista francese, ben diversa da quella imperialista nord americana, fu quella di immaginare una vasta ridistribuzione del reddito, sottraendo (almeno in parte) la ricchezza alle parassitarie accumulazioni delle rendite capitalistiche per rimetterla nel ciclo della produzione. Lo strumento prefigurato dal primo ministro Lionel Jospin e dalla sua ministro del lavoro Martine Aubry fu quello della riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore che, a parità di stipendio, avrebbe prodotto una maggiore occupazione, trasferendo ai lavoratori quota parte dei redditi delle imprese. Non c’era nulla di “sovversivo” in quella proposta che alla fine mirava a sostenere la sopravvivenza del sistema economico capitalista.

Si narra del commerciante ebreo che pur di fare l’ultimo affare della sua vita vende la pistola al suo assassino. Questo stanno facendo i capitalisti di tutto l’occidente che, pur di non perdere anche le sole briciole delle loro sempre più grandi e superflue ricchezze, tremano alla sola idea di dover dividere almeno una parte del mal tolto con le proprie vittime e così, facendo morire queste ultime, finiranno per morire anche loro. Si narra ancora di un signore col maglione giro collo che chiude uno stabilimento italiano licenziando tutti i dipendenti per spostare la produzione in un paese dove la manodopera costa molto meno e così fabbricare i propri prodotti ad un prezzo più basso. Bravo. Ora però si tratta di venderli, meno costosi ma comunque da pagare, venderli a chi? Non ai nuovi dipendenti troppo sottopagati per permetterseli, non ai vecchi dipendenti disoccupati, non in altri mercati poveri o invasi da una concorrenza ancora più competitiva. Che ne farà dei propri prodotti meno costosi ma che nessuno può comprare? “Bang”

La NEP, da Mosca a Pechino, da Lenin a Deng Gli strumenti del capitalismo al servizio del comunismo

Deng Xiaoping

II

Al momento della rivoluzione d’ottobre l’Impero Russo era nel pieno della prima guerra mondiale con circa dieci milioni di soldati al fronte. Il primo atto del nuovo governo bolscevico fu la firma del trattato di pace di BrestLitosvk che, al costo di vaste perdite territoriali e di una notevole parte delle risorse minerarie, pose comunque termine alla guerra. La fine della guerra mondiale non fece però cessare gli attacchi da parte delle forze controrivoluzionarie che costituirono l’Armata Bianca, sostenuta da alcuni governi occidentali (Francia e Inghil-

terra), composta anche da effettivi polacchi, ungheresi e cecoslovacchi. L’Armata Rossa, creata e guidata da Trotski, riuscì a tenere testa e infine a sconfiggere, dopo circa quattro anni di guerra, le forze controrivoluzionarie. La situazione economica del Paese era però scesa ai minimi termini, con le campagne devastate dagli attraversamenti degli eserciti e le città in crisi di approvvigionamenti alimentari. Anche l’industria era appena agli albori, totalmente convertita alle produzioni belliche. Fu in quel disastroso contesto che Lenin decise quella che allora, lui stesso, definì una “ritirata”. La “ritirata” era la NEP, Nuova Politica Economica, che aprì il sistema economico sovietico, statalizzato e centralizzato, a margini di iniziativa privata, e ciò sia all’interno del Paese che con scambi commerciali e tecnologici con i Paesi capitalisti. La svolta economica più rilevante interessò l’agricoltura, con la concessione ai proprietari terrieri della libertà di coltivazione alla condizione

del conferimento allo Stato di quota parte dei raccolti necessari ad alimentare le città e la nascita della piccola imprenditoria urbana, restando nelle mani dello Stato l’industria pesante e l’energia. Il risultato fu sorprendentemente positivo e nacquero in breve tempo due nuove classi abbienti: i contadini ricchi detti “kulaki” e i piccoli imprenditori urbani detti “nepmany” che, con il loro crescente potere economico, iniziarono a mettere in discussione i principi dello Stato socialista. Morto Lenin ancora nel pieno dell’esperimento della NEP sarà Stalin a porre fine alla stessa, riconducendo tutta l’economica, agricola e industriale, sotto il controllo dello Stato socialista. Era il 1929, in Germania la Repubblica di Weimar stava vivendo gli ultimi giorni e di lì a poco sarebbe salito al potere Hitler, in Italia era già stabilmente al potere il fascismo, in tutti gli Stati europei e nell’estremo oriente montava un nuovo clima di guerra che individuava nell’Unione Sovietica il primo dei nemici da distruggere. Tramontata l’ipotesi trotkista

della espansione della rivoluzione comunista in Europa, prevalse l’opzione stalinista della difesa della “roccaforte assediata” che non poteva permettersi elementi di squilibrio interni, per prepararsi al più presto alla inevitabile aggressione da parte dei nuovi nazionalismi europei. Un insegnamento tuttavia restò dell’esperimento della NEP, quello della consapevolezza che la costruzione di una società socialista aveva la necessità di sviluppare un’economia in grado di soddisfare i bisogni popolari anche al costo di ricorrere agli strumenti dell’avversario di classe. Sessanta anni più tardi questo insegnamento sarà ripreso dal più grande Stato comunista: la Cina. Fallito il progetto del “balzo in avanti” (dall’agricoltura collettivizzata all’industria pesante) prefigurato da Mao, il primo successore di Mao alla guida del Partito e del Paese, Deng Xiaoping, lanciò l’esperimento della NEP cinese con lo storico slogan “non importa il colore del gatto, l’importante è che prenda il topo”.

Stalin, Lenin, Kalinin

Muovendo dal principio che gli strumenti di gestione dell’economia sono solo strumenti e non hanno “colore” e che quello che conta è l’uso che ne viene fatto, Deng osò quello stesso esperimento pensato da Lenin aprendo alla libertà d’iniziativa privata sia nelle campagne che soprattutto nelle realtà urbane più ricche, tenendo fermamente nelle mani dello Stato l’industria pesante, quella strategica, il credito e le risorse energetiche. Ciò che differiva tra le due situazioni era il contesto internazionale: la Cina non era sotto minaccia di attacco militare, il crollo dell’Unione Sovietica aveva attenuato l’aggressività dei Paesi imperialisti, distratti anche da molte altre situazioni di conflitto in diverse parti del Mondo. Il pericolo era tuttavia molto grande e questo spiega, al di fuori di ogni retorica

falso libertaria, la durezza della reazione proprio da parte dell’ “innovatore” Deng alla rivolta di Piazza Tienanmen che rischiava di far fallire un progetto che puntava a fare emergere dalla miseria e dalla fame millenaria centinaia di milioni di cinesi. Il risultato della NEP cinese è sotto gli occhi di tutti ed è in progresso. L’economia cresce vertiginosamente, ma dietro l’irruenza dell’arricchimento individuale, si consolida e vigila un potente Stato centralizzato che non solo contiene gli eccessi della deriva consumista, ma giorno dopo giorno e anno dopo anno sempre più drena la nuova ricchezza verso il progetto comunista della creazione di una società giusta, equa e solidale, dove il benessere è patrimonio comune e naturale della persona umana.


L’esperienza cubana L’economia sociale che resiste alla crisi Per le cosiddette persone di “sinistra” Cuba è stata e resta ancora un faro di libertà e di speranza di cambiamento del mondo. Per le persone di “destra”, asservite al pensiero dominante dell’Impero nord americano, Cuba è la spina nel fianco che 50 anni di embargo non hanno strappato e che ora guida il riscatto dei popoli del centro e del sud America che si stanno affrancando dal giogo nord americano. Sconfitti sul piano militare e su quello dello strangolamento economico, gli imperialisti e i loro gregari oggi ingiuriano Cuba con l’accusa di mancanza di democrazia e di repressione del dissenso. Se c’è un fondo di verità in queste accuse è, semmai, proprio quello della possibilità a Cuba del formarsi di un dissenso che ha un presupposto essenziale: l’emancipazione della fame e dall’ignoranza. Solo chi mangia e studia può esprimere consenso o dissenso; lo schiavo (di diritto o di fatto) analfabeta non ha neppure gli strumenti per pensare, può al più ribellarsi come una tigre in catene ma non è in grado di progettare il proprio futuro. Di questo sono ben consapevoli le classi dominati che, in tutta la storia dell’umanità, hanno sempre tenuto rigorosamente escluso il popolo dall’accesso al sapere, gestendo ignoranza e povertà come potenti strumenti di governo. Se dunque oggi a Cuba c’è, o almeno ci può essere, dissenso è perché nei 50 anni di “tremendo” regime comunista sono state create le condizioni economiche, sociali e culturali perché la popolazione fosse in grado di pensare, magari anche dissen-

“feroce” governo comunista hanno sviluppato e fatto crescere nella popolazione cubana. Sotto la guida del Partito Comunista la popolazione ha saputo non solo dividere e condividere l’improvvisa povertà, ma ha anche saputo scegliere a cosa rinunciare e cosa invece difendere a tutti i costi per sperare nel futuro. La crisi economica non ha colpito la sanità e la salute in genere, non ha colpito l’istruzione e la scienza in genere, ha colpito non certo il “lusso”, che non era mai arrivato a Cuba, ma almeno il “di più”. Gli alberghi e tutte le strutture ricettive, costruite appositamente per i cubani negli “anni d’oro”, sono state interamente ed esclusivamente dedicate alla principale risorsa del turismo, così come (è solo un esempio, ma indicativo) le aragoste che i cubani hanno smesso di mangiare per esportarle e così scambiare un’aragosta, sufficiente a sfamare al massimo 4 persone, con 10 polli, in grado di sfamare 40 persone. Di questi esempi se ne potrebbero fare mille, ma quelli ora esposti possono dare già un’idea sufficiente per comprendere come è stato possibile che un “microbo” di Paese sotto attacco della più grande potenza militare della storia, è riuscito a sopravvivere al tifone che ha invece polverizzato le assai più ricche economie dai Paesi dell’est europeo. Lo stato sociale, la difesa ostinata e irrinunciabile dello stato sociale ha salvato quel Paese e oggi, grazie anche al crescente numero degli Stati del centro e sub America emancipati dal giogo USA, Cuba ha più che ragionevoli aspettative di ripresa e di rilancio della propria economia, senza avere mai dubitato dell’ideale e del progetto di una nuova società comunista.

un’altra merce (più precisamente un ulteriore componente necessario per la produzione della merce-prodotto finale) che viene acquistata a un valore inferiore a quello della sua produzione. Questa merce, la sola che può essere scambiata al di sotto del suo costo è la merce “forza lavoro”. La merce (o meglio il prodotto finale che diviene il bene da scambiare o vendere) si compone di due parti: la prima sono i mezzi e i materiali di base che hanno un loro valore “costante”, nel senso di “uguale” a quello di acquisto (escludendo sempre la truffa, la violenza o l’usura); la seconda è il lavoro umano che, utilizzando quei mezzi e materiali, li trasforma in un prodotto finale nuovo. Questa seconda componente del processo di produzione non ha un valore “costante”, perché è inesauribile e sempre abbondante. Questa componente della prodotto finale è l’unica che può essere acquistata, e poi rivenduta incorporata nel prodotto finale, a prezzi differenti. Facciamo un esempio: per produrre un certo “bene” oc-

corre un determinato quantitativo di materia prima, grezza o semilavorata, questa componente ha un valore “costante” in quanto sempre “pari” alle altre merci scambiate; occorre l’uso (usura) di macchinari, anche questi a valore “costante” cioè “pari” nello scambio delle merci; occorrono ancora risorse energetiche, servizi, uso di infrastrutture, ecc., sempre a valore “costante” e “pari”; infine occorre l’ultima risorsa che ha il compito di coniugare tutte le altre componenti e di trasformarle nel prodotto finale: queste risorsa è la “forza lavoro”. Quest’ultima risorsa, che poi è essa stessa “merce” da comprare e vendere, è l’unica a non avere un valore “costante” perché dipendente dalle condizioni del contesto nel quale viene acquistata e venduta; può valere di più o di meno a seconda del luogo di “acquisto”, dei rapporti di forza politici e sociali, dei bisogni dello stesso venditore della “forza lavoro”. “Economizzando” su questa componente del prodotto finale il proprietario dei mezzi di produzione, che è poi il proprietario del denaro neces-

sario ad acquistare tali mezzi e materiali, realizza una “differenza”, che costituisce il “plusvalore”. Il “plusvalore” sottratto al costo reale della “forza lavoro” è la sostanza del “capitale”. Non è dunque né la quantità, né la qualità, né la velocità di circolazione delle merci o del denaro che genera il “capitale” (o se vogliamo chiamarla: la ricchezza). Il “capitale” nasce bensì in occasione del percorso della produzione e circolazione delle merci-denaro, ma è “dentro” lo sfruttamento che in tale percorso di produzione e di scambio viene fatto della componente “merce forza lavoro”. Il capitalismo non nasce, non si fonda, non si sviluppa dalla capacità di redditività del “capitale-denaro”, che di per sé non produce “frutti” (vedi in prima pagina gli “zecchini” di Pinocchio), ma dallo sfruttamento del lavoro umano. Il capitalismo è lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. (*) Il termine “marxiano” identifica l’opera di Marx; “marxista” è l’ideologia che poggia le sue fondamenta e sviluppa il pensiero di Marx.

Los tres Presidentes: Ugo, Fodel, Evo

tendo dal potere costituito. Per analizzare, comprendere e, infine, giudicare l’economia cubana bisogna però fare prima uno sforzo d’immaginazione che oggi, dopo i recenti eventi del terremoto di Haiti e la maggiore visibilità delle condizioni degli Stati liberati del centro e sud America, non è difficile. Cuba non è Europa né nord America (Usa-Canada), Cuba è nel cuore del profondo e tragico terzo mondo centrosud americano. Cinquanta anni fa Cuba era nelle stesse condizioni economiche e sociali in cui si trovano, ancora oggi, Haiti, Santo Domingo, le borgate di Caracas o di Rio; oggi è imparagonabile (!) Un dato molto semplice e d’immediata comprensione può aiutare a comprendere l’abisso che oggi separa Cuba dal resto degli altri Paesi centro-sud americani: l’acqua, e precisamente la potabilità dell’acqua. L’acqua è il veicolo dal quale passa oltre l’80% delle malattie del mondo, in altri termini la potabilizzazione dell’acqua potrebbe, da sola, far

scomparire l’80% delle malattie nel mondo, ovviamente nel terzo mondo. Chiunque abbia avuto occasione di fare qualche viaggio anche nei più vicini Stati mediterranei (medio oriente, nord Africa) ha sicuramente avuto le istruzioni, e se le ha violate ne ha personalmente subito le conseguenze, sulla massima attenzione da prestare all’acqua da bere. Ebbene a Cuba, in qualsiasi parte dell’isola, tutta l’acqua è potabile. Gli indici di mortalità, infantile e senile, di salute fisica e longevità, di esposizione a malattie in genere della popolazione di Cuba sono notevolmente inferiori a quelli del più ricco Paese del mondo, degli Stati Uniti. Ma Cuba batte ampiamente l’Impero nord americano anche sul piano della istruzione di massa, con indici di diffusione e di eccellenza, percentualmente alla propria popolazione, imparagonabili con quelli USA. Questo è il frutto di 50 anni di politica economica e sociale comunista. E’ esportando medicine e

La teoria marxiana(*) del “plusvalore” Come e da dove nasce il capitalismo

Il “capitale” non nasce né dalla circolazione delle merci, né dalla sua varianteevoluzione circolazione del denaro. La circolazione delle merci è solo il punto di partenza del capitale, ma è nel momento in cui le merci mutano il loro valore da “consumo” a “scambio” e che il denaro da mezzo di “intermediazione” diventa merce di “scambio”, che inizia il percorso di formazione del capitale. La circolazione delle merci, di per sé e per la natura propria

medici, tecnologia di base e tecnici, dal Sud Africa di Mandela al Venezuela di Chavez, che Cuba oggi soddisfa i propri fabbisogni di petrolio e in genere di tutti quei beni che la scarsa produttività della sua terra, estremamente lussureggiante ma poverissima di proteine e di minerali nobili, non è in grado di produrre. Varrà di ricordare che oltre 50 anni fa Avana, che all’epoca era la Miami degli Stati Uniti, veniva alimentata direttamente dalla Florida, non essendo l’intera isola di Cuba in grado di sostenere quella che allora era una vera e propria metropoli nord americana, sede “prediletta” della mafia ebrea e USA. Premesso questo quadro storico e di contesto anche attuale, si può procedere all’esame e al giudizio sulle condizioni attuali dell’economia cubana. Cuba non è certamente ricca, anzi è sicuramente povera nonostante i 50 anni di ottimo governo comunista, ma è viva ancora oggi a distanza di 20 anni dal crollo dell’U-

nione Sovietica alla cui economia, o forse è meglio dire: “dalla” cui economia era dipendente. Nei trenta anni di adesione al sistema economico del cosiddetto “socialismo reale” Cuba ha ricevuto aiuti, proporzionalmente, impressionanti: si parla di circa il doppio del proprio PIL annuo (usiamo un termine capitalista). Come ha investito questi enormi aiuti è già detto nelle righe precedenti: emergendo da una condizione di sottosviluppo, arretratezza economica e culturale spaventosa (all’inizio della rivoluzione comunista, nel 1960, la popolazione cubana era pressoché tutta analfabeta e nell’oriente “nero” vigevano ancora forme di sostanziale schiavitù). Oggi, come detto, l’acqua è potabile e i laureati cubani “invadono” i paesi emergenti dall’oppressione degli imperi occidentali. Alla dissoluzione dell’Unione Sovietica Cuba si è trovata improvvisamente senza quegli enormi aiuti che, oltre a consentirle di realizzare le strutture di base di uno stato moderno (ospedali, scuole, abitazioni, infrastrutture, ecc.), le garantivano anche la stessa alimentazione della popolazione. Se proviamo a paragonare l’odierna, indubbiamente gravissima, crisi economica che ha colpito la Grecia al trauma economico subito da Cuba 20 anni fa siamo lontani, come si dice, “anni luce”. Eppure Cuba non solo è sopravvissuta, ma ha anche continuato orgogliosamente a tenere testa al nemico nord americano, proseguendo nel suo ruolo di faro di libertà per i popoli oppressi di tutto il (terzo) mondo (non solo nel sud e centro America, ma anche nell’estremo oriente, dal Nepal all’India, Cuba è conosciuta e ammirata). Questo è stato possibile grazie alla forte cultura sociale e solidale che i 50 anni di

delle merci, non produce aumento di valore (salvo la truffa) in quanto è destinata al consumo e si scambia con altra merce parimenti destinata al consumo, e dunque il valore (di consumo) complessivo pareggia e torna a “zero”, sino alla creazione di nuove merci da scambiare. Anche la circolazione del denaro, che da mezzo di intermediazione (la merce si vende per denaro ed il denaro ricavato serve a comprare merce) può divenire il punto di partenza e di arrivo della sua

stessa circolazione (denaro per acquistare merce che viene venduta per altro denaro), non muta la sua “quantità” alla fine del ciclo perché equivarrà sempre al valore della merce comprata e venduta che, come sopra detto, sarà sempre “pari”. Perché alla fine della “circolazione” (sia che si tratti di merce-denaro-merce o denaromerce-denaro) il denaro si accresca ed ecceda il valore della merce scambiata, così diventando “capitale”, occorre che in questo percorso intervenga

III


Inserto speciale di Piazza del Grano - Anno II - numero 6 - giugno 2010

I comunisti sdegnano di nascondere le loro opinioni e le loro intenzioni. Dichiarano apertamente che i loro fini possono essere raggiunti soltanto col rovesciamento violento di tutto l'ordinamento sociale finora esistente. Le classi dominanti tremino al pensiero d'una rivoluzione comunista. I proletari non hanno da perdere che le loro catene. Hanno un mondo da guadagnare.

PROLETARI DI TUTTI I PAESI, UNITEVI! IV


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