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L’inverno è finito un racconto di Katia Marani
L ’ i n v e r n o è fi n i t o Kati a Mara ni
L'amore è la capacità di avvertire il simile nel dissimile. T.W. Adorno
Ci sono, per te ci sarò sempre; anche quando non mi sopporti. Anche quando non mi vuoi vicino. A mia figlia Veronica.
Questa non è una storia per superstiziosi. Questa è una storia come piace a me: con la vita che attinge nuovo vigore nell'aiutare gli altri, e la speranza che da scacco matto alla disperazione. Una delle due protagoniste non vive per se stessa, ma per donarsi; l'altra, scoprirà che non c'è modo migliore di questo per vivere l'attesa.
Ca pitol o Prim o N INA
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Era nata per caso di venerdì diciassette dicembre. Un giorno come tanti se non ci si fa abbindolare dalle credenze, fondate su presupposti magici ed emotivi. Un giorno qualsiasi per chi non cade nella trappola spesso convincente che può diventare l'irrazionale. Era nata nel monolocale cucina-salotto-camera da letto, al piano terra di una vecchia e laida palazzina alla periferia più povera di Minsk. La stanza, appena illuminata, era impregnata dall'afrore pungente dell'aglio ed aveva pareti grigiastre macerate dall'umidità ed incrostate dal fumo della stufa accesa, quando c'erano qualche ciocco o quant'altro potesse ardere. Il vetro diaccio dell'unica finestra era schermato dai tendaggi aleatori formatisi dal vapore che esalava la conca dell'acqua calda, che Jajalona aveva preparato per accoglierla appena fosse uscita dal ventre grave e dolorante della madre. Ormai dalla vulva enfiata e paonazza sporgeva la capelluta testina della creatura. Voleva, con l'energia e la fretta di tutti i neonati, precipitarsi per uscire fuori, ma a differenza della maggior parte di loro che quasi subito, come se d'improvviso diventassero consapevoli d'aver interrotto il periodo più felice della vita, pentiti si stizziscono e piangono. Lei non lo fece, nonostante avesse già preso da Jajalona la sua bella dose di sculacciate. Lei no, nonostante Iddio sapesse quanto più di altri quell'innocente ne avesse tutte le ragioni. Per lei la vita non sarebbe stata un'occasione persa da rimpiangere. Neppure la madre aveva pianto quando Jajalona, la vicina di casa- mammana le aveva rivelato che la bambina era già morta prima ancora di affacciarsi da quel buco, ma che tutto sommato era stata una fortuna per entrambe, visto che il faccino era inguardabile tanto era sgraziato, che le sue piccole dita dei piedi non erano cinque bensì quattro, perché due di esse risultavano fuse assieme, e come se non bastava, all'inguine, aveva una antiestetica voglia nera, più pelosa pag. 7 di una pantegana. Per questo, sveltamente la donna dopo averla affardellata in un asciugamano strappo e insanguina-
to, la condusse al piccolo cimitero di quartiere, di lì a due passi, e la consegnò a chi se ne sarebbe occupato senza bisogno di tante cerimonie. Quella casa sporca, povera, disprezzata, anche da coloro che la abitavano - pensò - era già abbastanza tribolata e non c'era posto per un'altra disgrazia. A Minsk bastava una bella sbronza con la vodka per riaccendere i sogni degli infelici. Anche Maria sapeva bene, tanto che nelle sue vene ne scorreva più del sangue stesso. Quella sera, dopo aver avuto le doglie e poi sgravato l'inanimato mostriciattolo, cercò di aggiustare la sua anima semplicemente come si fa per le cose rotte, con l'unico collante che sapeva. Trangugiò sfiancata una gran quantità di sorsi, tanto in gola non bruciavano neanche più. Il suo stomaco però era troppo vuoto per sopportare quel mezzo litro di vodka. La nausea le balzò presto in gola, e dai conati sgorgava il liquido gastrico verdognolo e puzzolente che le andava imbrattando la veste sbiadita dall'usura. Fu allora che iniziarono a battere ripetutamente sul portoncino mezzo squassato. Chiunque fosse pensò che doveva avere molta fretta per cui si tamponò la bocca con una mano e, con l'altra, afferrata la maniglia si spicciò ad aprire. Era Sergiej Dulciov, il becchino-giardiniere del cimitero. Bianco come un cencio appena sciacquato e con la fronte brinata di sudore. Con un balzo entrò in quel disadorno e cupo stambugio. Adagiato fra le braccia, come per paura di stropicciarlo ancor più, recava lo stesso fagotto insanguinato che le era stato affidato qualche ora prima. Le raccontò tutto d'un fiato, di come stava battendo l'ultimo chiodo sulla cassettina di faggio stagionato che aveva attrezzato per la sepoltura, che ad un tratto un urlo, gli aveva fatto raggelare il sangue arrestando i battiti del suo cuore e per lo spavento si era sentito mancare. Poi aveva ripreso coraggio e si era adoperato per liberare quel corpicino pieno di fiato, che non cessava più di strillare. Per questo si era precipitato a riportargliela. Naturalmente, aveva tralasciato di raccontare alla madre che un altro spa-
vento se lo era preso quando, cercando di riordinare quel groviglio di stracci, ne aveva scorto il piccolo viso animalesco. E fu in questo modo, poco convenzionale ed ancor meno tenero, ma a dir poco incredibile, che la bambina arrivò tra le braccia scivolose e maleodoranti di vomito della madre. Il padre addirittura lo conobbe una settimana più tardi. Proprio la vigilia di Natale. La più fredda di quegli ultimi dieci anni che gli abitanti di Minsk ricordassero. Era solito bazzicare i bordelli più miserabili della città, dove trascorreva la maggior parte del tempo a bere più che a fottere, fin quando di quei miseri quattrini, che riusciva a racimolare da sobrio, ne rimanevano soltanto quelli che si nascondevano fra la stoffa e la fodera sbrindellata delle tasche, dell'unica giacca di lana infeltrita che possedeva, pesante e rigida come, l'armatura di un crociato. Pietro Sadkova, s'avviò verso casa, alle prime luci dell'alba, col freddo pungente che gli friggeva le guance scavate. Dai tetti, ben conservate dal freddo, pencolavano le stalattiti di ghiaccio, incombenti sui rari passati aggranchiti, come tante affilatissime spade. Entrò schivo e silenzioso. Si tolse le scarpe sporche di fango, appena sorpassato l'uscio, per evitare che scricchiolassero sul pavimento di linoleum poco, adatto ad attutire i rumori. Se la moglie continuava a dormire, tanto di guadagnato; non aveva voglia di litigare con lei. La stanza era quella affumicata, squallida e grigia di sempre. Era una brutta stanza, simile a quella dove abitavano la maggior parte delle famiglie di Minsk. Uguale a quella che abitavano tutti gli inquilini di quel palazzaccio. Quasi subito, appartata, notò la vecchia zana di vimini intrecciati, che aveva accolto i suoi due precedenti figli, così intuì, nonostante la moglie non fosse ancora di tempo, di essere diventato nuovamente padre, senza peraltro provare pag. 9 particolari emozioni. Pian piano, con le mani ben salde ai bordi, sollevò la culla e la piazzò vicino alla finestra, affinché la luce piatta del cre-
puscolo mattutino illuminasse le fattezze dell'ignoto esserino. Curioso guardò sotto le fasce per conoscerne il sesso - una femmina! - pensò - meglio, è meno arrogante d'un maschio.Quindi fin qui non rimase deluso. Dopo, scrutò il visino privo di proporzioni armoniche, e dai tratti primitivi. Il panico, come l'arsura gli seccò la gola, la soddisfazione di riconoscersi in quei lineamenti minuti affogò in un profondo disincanto. Gli zigomi erano alti, la faccia schiacciata, le fessure palpebrali erano più strette ed oblique del normale. Alla fronte alta s'attacava quasi subito il naso piccolo e appiattito alla radice. La boccuccia era disegnata da una linea ricurva verso il basso, in cui le labbra erano soltanto abbozzate. Un'accozzaglia di lineamenti incorniciati da una piccola criniera di capelli ispidi e scuri, poco delimitati che degradavano lungo la schiena cicciotella ed anche sulle guance svuotate in una fitta peluria. Passò in rassegna tutti i suoi avi ma non ricordava di aver mai sentito accennare ad una tale bruttura nella sua famiglia. E neppure Maria...In quell'istante, lampeggiò nella sua memoria il tempo remoto in cui, appena ventenne e ben fatto, aveva incontrato Maria sua coetanea, in una casa di piacere, dove faceva "quel mestiere" già da due anni. Era famosa tra gli uomini del quartiere dov'egli alloggiava, nei pressi del porto di Vladivostok, non tanto per il piacere che era in grado di procurare, ma soprattutto per la bellezza lunare del volto, per le braccia e le gambe affusolate ed il culo alto e sodo. Quella pelle lattea come il globo di una perla, era seta su cui far scivolare le mani callose. Era migrato da Minsk pieno di progetti, per ritrovarsi a fare l'operaio sottopagato in una grande fabbrica, in cui si trattava il merluzzo, che dopo essere stato sviscerato e pressato, veniva messo sotto sale, per permetterne una conservazione più lunga. Il lavoro era faticoso e alienante, perché bisognava immergere quei pesci nel sale con le mani nude che inevitabilmente venivano corrose e macerate dal cloruro di sodio. La cute si infiammava e fra le pieghe delle dita si apri-
vano dei tagli che sanguinavano e dolevano. L'odore forte e sgradevole del baccalà, penetrava sotto ai grembiali, sotto agli abiti, e di conseguenza anche la pelle, attraverso i pori, assorbiva lo stesso lezzo. Non era sufficiente per sbarazzarsene restare a bagno nella conca d'acqua saponata per l'intera mattinata di ogni domenica, unica giornata dedicata al riposo e alle donne. Trascorreva quel pomeriggio in fila, davanti alla porta della camera di Maria, con tutti gli altri che la bramavano. Lui più di tutti ci aveva perso la testa, tanto che la sposò e se la portò a Minsk, lontano dal bordello, sicuro che gli sarebbe stato sufficiente essere giovani, belli e pieni di fantasticherie ed illusioni, per dimenticare il passato e realizzare il loro sogno di felicità futura. Avevano preso in affitto una brutta casa, senza spazio e senza luce con la certezza di migliorare presto la loro condizione; nel frattempo, pane e amore sarebbero stati sufficienti. Ma quasi sempre, a chi nasce disgraziato la vita non fa mai regali. Così, erano trascorsi trent'anni, la brutta casa in affitto era sempre la stessa, le illusioni avevano ceduto il posto all'annichilimento, nel frattempo il pane e l'amore erano sempre più scarsi. Non tanto l'annosa difficoltà di Pietro nel reperire un lavoro stabile e le conseguenti privazioni avevano osteggiato la loro felicità, quanto la loro predisposizione ad accettare il peggio come normalità. Maria era poco incline ai lavori domestici e non perdeva occasione per dargli del fallito. Lui di rammentarle in quale merda di posto l'aveva raccattata. Continuarono tutti quegli anni ad accusarsi rancorosi di reciproca inettitudine senza però cercare un modo pratico per combattere quella miseria. A nulla era valsa la nascita di Nicola e Katiuscia, i loro due primi figli, per creare un po' di serenità familiare; anzi più che mai Maria si era dimostrata sempre meno desiderosa di fare la moglie, e neppure aveva saputo essere una mapag. 11 dre tenera e premurosa. Di lì a poco la sua vera grande passione era diventata la vodka. Lì affogava tutte le sue amarezze e tutte le sue frustra-
zioni. All'inizio Pietro l'aveva contrastata, persino picchiata con il pretesto di toglierle il vizio, ma l'acqua con le mani non la si ferma; finché, egli stesso, un goccio ogni tanto un goccio alla volta.. .si era convinto che tracannare litri di vodka e fottere le puttane dei bordelli fosse un binomio perfetto, indispensabile per rigenerarsi nel corpo e nella mente. Spesso accadeva che si ubriacassero insieme, lui e la moglie, che poi discutessero e finissero col picchiarsi ed insultarsi. Alle volte lui contro la volontà della donna, acchiappandola per i lunghi capelli ancora segosi, strascicandola come una sgangherata sedia di legno, la buttava sul tavolo a pancia in sotto immobilizzandola e, dopo averle alzato la veste sopra le testa la prendeva. Seppure in stato di semincoscienza sentiva crescere l'irrefrenabile eccitazione di compiere quell'atto e neppure le urla e i pianti della consorte, la quale cercava in ogni modo di sottrarsi a quella penetrazione resa ancor più dolorosa dall'assenza di umori, potevano fermarlo. Per lei era soltanto umiliazione, per lui era una rivincita. Inoltre l'uomo era addirittura del parere che ad ogni età ed in qualunque condizione, egli doveva immergersi nella donna, senza alcun ritegno o scrupolo, per essere felice e dimenticare che lo aspettava la morte. E fu così, tramite la brutalità di uno stupro, consumatosi all'interno delle mura domestiche, che la genesi della piccina s'era compiuta, nonostante la donna stesse per cavalcare la cinquantina. L'assenza del menarca le aveva fatto immaginare di essere entrata nella menopausa. Fu poi troppo tardi per intervenire con un aborto, quando fra il sesto ed il settimo mese di amenorrea, intuì che di lì a qualche tempo avrebbe sgravato. Anche a guardarla, Nina, non poteva che apparire come il frutto di una bassezza umana, un piccolo mostriciattolo del quale disfarsi senza spargimenti di lacrime, ma la bimba s'era dimostrata più tenace di quello che sua madre avrebbe sperato. In lei la vita era così insistente che se l'avessero tagliata in due, come una lucertola i pezzi avrebbero continuato a vibrare e a muoversi. L'unico momento di tenerezza ebbe luogo alla spicciolata,
quando il padre la prese in braccio, la benedisse baciandola in fronte, biascicando col fiato vinoso il primo nome che gli affiorò alle labbra. Ed era stato tutto quanto, avesse commemorato quella nascita derelitta.
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C a pi t o lo Se c on d o GIULIA
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Almeno per quella volta Giulia avrebbe fatto di tutto per non arrivare come al solito affannata. Sì, perché, la maggior parte degli eventi più importanti della sua vita erano stati condizionati da un unico movente: il ritardo. Non era solo un'ubbia montata dalla madre Laura, la quale raccontava di frequente con palese rimprovero, prima che l'alzheimer la cancellasse la memoria, quanto si fosse fatta aspettare anche per venire al mondo. Dopo aver oltrepassato di molti giorni i limiti previsti dall'ostetrica. Le aveva fatto pure patire lunghe e dolorosissime ore di travaglio, costringendo in ultimo l'equipe medica, ad eseguire un imprevisto taglio cesareo, che le aveva procurato un'orribile stigma sull'addome. Da allora, la madre di Giulia, che era sempre stata una donna elegante e dall'indiscusso buon gusto, non aveva più voluto mostrarsi al mare in bikini, facendola sentire un po' a parole, un po' coi fatti, responsabile per un suo disagio. Il suo umore alquanto altalenante era un susseguirsi di giornate buone e di giornate cattive, senza alcuna ragione. Probabilmente quella sua suscettibilità all'imprevisto era stata un po' la rovina del suo rapporto con la figlia, se non addirittura col mondo intero. Il professor Moretti, lo psicologo che teneva in cura Giulia in quegli ultimi due anni, aveva cercato di farle comprendere come fra quello che, di innato c'è in ognuno, e le pressioni che si possono subire sin da piccoli, da chi più si ama ed in cui si ripone una fiducia illimitata, potrebbero essere la causa di ansie e di insicurezze; fino a far insorgere veri e propri malesseri fisici, a volte talmente gravi da far agognare la morte. C'era voluto tutto quel tempo, affinché tiepidamente accettasse ciò che si rifletteva nel suo animo, e ad imparare che non si poteva piacere necessariamente a tutti. Il camaleonte si nasconde cambiando i colori della pelle per sfuggire a pericoli e nemici. Ella ora stava imparando ad affrontarli e ad pag. 17 apparire per quello che era e non quella che gli altri si aspettavano che fosse. Il trasformismo nella sua famiglia era sta-
to uno stato di necessità assoluto, una regola di vita. Erano come una bella mela, rossa e lucida, ma dal gusto scipito. Il suo psicologo le aveva consigliato di curarne di più il sapore: una vita brillante, circondati soltanto di cose belle, può risultare più deludente di una banale normalità: Sono i sentimenti appassionati - le diceva - a renderla oltre che lucida e bella anche gustosa. Le ripeteva di continuo di provare a vivere serenamente, di guardarsi dentro attimo per attimo, senza andare alla ricerca continua di ciò che non poteva avere o rimpiangere ciò che aveva avuto. Tutti vorremmo l'approvazione e l'amore degli altri ma quante volte anche noi siamo stati parsimoniosi nell'elargire cose, tempo libero, parole, o solo qualche sorriso.- Giulia aveva sempre cercato di prendere restiuendo troppo poco. Anche Brando era stato un uomo meschino, ma perché lei glielo aveva permesso. Quando il matrimonio era naufragato di fronte alla loro incapacità di comunicare, invece di riprendersi le rispettive vite, giorno dopo giorno, avevano continuato a tormentarsi della presenza dell'altro, appiccicati addosso come una camicia bagnata. Ella soprattutto si era molto preoccupata di salvaguardare le apparenze, ed in questo prima di lei sua madre, che come tutte le madri, per tranquillizzare i figli, aveva cercato di far apparire le cose diverse da come erano. Giulia sapeva di essere stata la coautrice di una serie di eventi drammatici dei quali, in tutta onestà non poteva più accusare il marito di esserne stato l'unico regista. Aveva cercato di occultare la distruzione psicologica, della quale insieme alla figlia, erano state vittime. A lei sola, doveva il rammarico per essere stata una pessima madre. Giulia aveva vissuto con i suoi genitori fini al giorno in cui il padre l'aveva accompagnata fiero e composto all'altare come consegnasse un dono preziosissimo. Appoggiò le gelide ed esili mani della figlia fra quelle forti e robuste di Brando, il genero, verso il quale nutriva ancora qualche perplessità. Mai glielo aveva rivelato, per paura di allontanarla da sé, no-
nostante comunicassero con apparente confidenza. Quell'uomo dal carattere duro ed intransigente con tutti, non lo faceva sentire tranquillo, non s'accordava con la dolcezza e la leggerezza di quello della figlia. Lei ne era innamorata ma soprattutto sapeva quanto fosse orgogliosa, non avrebbe mai ascoltato i suoi consigli. Dei suoi dubbi, una volta soltanto, ne aveva accennato alla "sua signora". Con la sua ironia fantozziana, era solito agghindare la moglie. Si era immediatamente sentito rimproverare il suo innato senso di disfattismo e di debolezza, che ella tanto odiava. In ogni ambito, sia familiare che lavorativo gli aveva impedito, a giudizio di lei, di fare le scelte più giuste e più coraggiose. - Sandro ma è possibile che tu veda sempre tutto nero? Non vorrai che anche lei diventi come te! Non ti sarai messo in testa di rovinare anche la vita di nostra figlia! - Perché sarebbe così terribile se mi somigliasse? Come puoi pensare che io, io che l'amo più della mia stessa vita la voglia portare alla rovina. Nonostante la rabbia, nella sua voce non si notava nessun tipo di vibrazione mentre le rispondeva. - E me lo chiedi? Avresti potuto diventare un bravo dirigente se non ti fossi sempre fatto lo scrupolo di bussare a certe porte. Il tuo disinteresse alla politica, l'orgoglio di non voler chiedere mai niente a nessuno, ma soprattutto la paura di dover incassare un rifiuto, ti hanno fatto perdere delle ottime occasioni. Certi treni come hai potuto vedere poi non passano più; o monti subito o resti per sempre attaccato al predellino a chiederti come sarebbe stato se, e poi se, e ancora se. - Pensavo di non avervi fatto mai mancare nulla, tu non hai mai avuto bisogno di cercarti un lavoro ed hai un sacco di tempo per limarti le unghie. Avrebbe voluto continuare, ma sentiva che i toni delle loro voci si stavano distorcendo sotto la pressione del torace sul cuore. Sapeva già dove tanta asprezza li avrebbe portati: magari ad un passo dalla tragedia. Proprio come tanti anni pag. 19 prima quando a trattenerlo dal commetterla era stato soltanto il pensiero di perdere la figlia.
Lo spaventò constatare che il desiderio di prendere la moglie per il collo debole e stringere, stringere forte fino a quando non l'avesse sentita annullata sotto di lui era quello forte e prorompente di allora. Ma non era il corpo, era l'anima della moglie che avrebbe voluto soggiogare, cui avrebbe voluto far sentire la propria superiorità: Che dopo averla veduta piangere e gemere in ginocchio, l'avrebbe voluta sentir dire "Hai ragione tu!" Naturalmente non diceva niente; si limitava a starsene in piedi con la faccia scura. Ma Laura non intendeva dargli tregua anzi, temerariamente continuava ad attaccarlo e ad umiliarlo. - Accantona per una volta le tue remore. Cosa ti dico sempre? Noi donne abbiamo un sesto senso, come gli animali percepiamo da lontano l'odore del temporale in arrivo, e non mi sembra che in questo caso ci siano i presupposti per essere preoccupati. Giulia è innamoratissima di Brando, e lui, di rimando l'adora. Sembra proprio un gentiluomo di altri tempi, è altero ma anche dolce e protettivo. E' un bell'uomo, che ha alle spalle una famiglia importante, e davanti una brillante carriera, non potevamo sperare di meglio. Te lo concedo, ha un piglio un po' autoritario e qualche anno in più, ma lei è talmente giovane che forse è un bene. Le occorre la guida di un uomo maturo. Mi spiace un po' ammetterlo, ma non sono riuscita a trasmetterle la mia forza e visto che non vivremo in eterno, prima o poi dovrà avviarsi da sola e Brando mi sembra il sostegno giusto per quelle gambe così deboli. Laura, intanto che parlava, giocherellava con gli anelli che le ornavano le dita e guardava il marito che le volgeva le spalle, sempre un po' curve come se sorreggessero il mondo. Non poteva scrutarlo in volto, però l'immaginava turbato, non poteva leggergli nell'animo, ma l'intuiva arrugginito da tutto l'astio che vi si era conficcato dentro. Ora si era un po' pentita di averlo fatto innervosire. Non é che ci provasse proprio gusto a fare a pezzi quell'uomo, e lei stessa non ne capiva il motivo, dato che poi cercava sempre una scappatoia per riappacificarcisi. Tentò quindi di
rasserenarlo. D'altro canto doveva ammetterlo suo marito era proprio una brava persona. - Guarda noi due, nonostante fossimo così diversi, sono trent'anni che stiamo insieme. A quel punto lui si voltò per guardarla negli occhi, curioso di osservare la faccia di un'ipocrita. Stavolta deciso a non lasciar perdere, nonostante la lingua secca. Ma la voce lo tradì, alitò poche sillabe. Un soffio di dolore. - Si ma come. Il risentimento. no in quel momento era come odio, che sentiva scendere come un formicolio, fino ad assurgere a dolore fisico, gli impedì di continuare. - Che cosa vorresti dire... santo iddio per una volta metti da parte la tua faccia sconfortata! Ma se ne uscì spazientita ed offesa in giardino passando dalla porta finestra, lasciandolo come al solito solo. Quella faccia Giulia la conosceva bene e già da bambina la faceva star male perché intuiva la sofferenza del padre. Rientrando appena lo vide gli andò incontro e lo baciò sulle guance ancora infuocate dal bollore dell'ira. - Sei qui solo? La mamma dov'è.. .avete litigato? - Ma no che dici, lo sai come siamo fatti.mi ha strapazzato un po' perché dice che sono disordinato! Penso che sia uscita fuori in giardino, lì tira un'aria migliore... Si scambiarono un'occhiata d'intesa, tutti e due sapevano quanto quella donna sapeva essere violenta, anche se lui tentava scherzando di mitigare la tensione accumulata durante quella sgradevole conversazione. Il suo caro papà, che avrebbe voluto abbracciare forte forte perché nonostante tutto, quasi mai lo vedeva reagire. Lui manteneva sempre lo stesso tono pacato di voce o taceva, perché temeva di scatenare la moglie di fronte a lei. Nonostante un fiume di parole fuori controllo lo investivano, si ritraeva silenzioso, inforcava gli occhiali da lettura e si lasciava scivolare sulla poltrona dello studio con il "Corriere della sera" che meto- pag. 21 dicamente aveva appena comprato. Con cura lo sfogliava per non stropicciarlo e vi si nascondeva per il resto della
giornata. Tranne una volta, una volta soltanto Sandro urlava e Laura se ne stava zitta zitta, immobile e misteriosa come una sfinge. A quell'epoca Giulia aveva sette anni. Anzi li aveva compiuti proprio quel giorno, e non li aveva festeggiati con le compagne di gioco come era consueto fare perché Laura quel giorno aveva avuto una forte emicrania e non se l'era sentita di mettersi ad armeggiare in cucina. Ma per la bambina era stata lo stesso una serata bellissima, perché il padre era rincasato con una torta ed un regalo. Aveva festosamente soffiato sulle sette candeline allacciata al collo di entrambi. Era felice. Molto felice e non percepiva l'atmosfera strana e l'espressione tirata dei suoi cari. Le era sembrato particolare invece che il padre l'avesse mandata a letto prima del solito, senza averle fatto vedere Carosello, come faceva invece quando faceva i capricci. Da allora si era chiesta se effettivamente lo avesse sentito urlare oppure, per anni era stata ingannata da un dejavù. Qualcosa che si crede di aver vissuto, ma che è solo il frutto di una fertile immaginazione. Ma quale poteva mai essere quel tipo di sogno che aveva la capacità di annidarsi nella memoria per così tanti anni? Per ben due volte all'urlo smorzato di "puttana" si era svegliata di soprassalto. Era troppo piccola per capirne il significato, ma doveva essere una cosa brutta, perché lui aveva la voce che strideva come il motore di una automobile quando non ha la marcia giusta ingranata. Sua madre singhiozzava senza riuscire più a smettere per tutta la notte. Al mattino seguente anche se qualche spiraglio di sole penetrato dalle fessure delle serrande le stava augurando il buongiorno, non avrebbe voluto alzarsi. Sentiva che il malumore l'avrebbe accompagnata in quell'inizio di giornata insieme al mal di testa, perché aveva dormito poco e male. Ma il bisogno di capire la costrinse ad alzarsi per correre nella camera dei genitori. Il letto era rassettato proprio come se nessuno dei due vi avesse riposato. Trovò il padre. Stava armeggiando intorno alla valigia. Non era quella di cuoio nero,
quella piccola che preparava sempre quando partiva per lavoro. Due giorni, al massimo tre. Era quella grande che le piaceva riempire insieme alla mamma quando andavano in vacanza. - Cosa fai papà? L'uomo aveva il passo stanco, gli occhi cerchiati e arrossati dell'insonne e la barba incolta dal giorno precedente. Evitava di risponderle fingendosi indaffarato. Teneva come sempre la testa china. Andava avanti e indietro, lentamente, dall'armadio alla valigia da riempire. - Papà rispondi, che fai parti? - Si. - Perché dove devi andare? - Perché c'è un congresso molto importante ed io non posso far mancare la mia presenza. Adesso vai in cucina a fare colazione, io appena ho finito ti vengo a salutare. Su, su, che ho fretta; non farmi perdere il treno. La indirizzò verso la porta invitandola a lasciarlo solo, mentre organizzava la partenza. Temeva che vedersela girare intorno le facesse venire meno il coraggio, ma soprattutto lei non doveva capire. - Perché non prendi quella nera? Questa la prepara la mamma quando andiamo al mare. - Dovrò stare via parecchi giorni, avrò bisogno di prendere questa più grande. - No papà ti prego, non andare.. .io la scorsa volta, quando sei andato a Roma, ho pianto. Poi era fuggita via piagnucolando, per cercare la madre con la quale stringere un'alleanza. - Mamma, mamma, diglielo tu che ho pianto tanto, diglielo che non ci deve andare! Laura ti prego. La chiamava sempre per nome quando le montava la collera e si stizziva per qualche capriccio. L'aveva trovata seduta in soggiorno, sul divano color crema, perennemente nascosto da una coperta della stessa tonalità, che aveva la funzione pag. 23 di mantenere l'originale immacolato. Era un'ottima casalinga, dedita alla casa fino al limite del disturbo mentale, non
sopportava di vederla sporca o in disordine, capace di fare delle orrende scenate di isteria, se ogni cosa non fosse stata messa al suo posto. Ma non quella mattina, quando Laura la trovò sprofondata nel sofà, che sfogliava con finta indifferenza, l'ultimo numero della sua rivista preferita. Come al solito ben pettinata, con il trucco acceso, forse un po' troppo per essere soltanto le otto di mattina. Col busto eretto e lo sguardo torbido rimuginava in un mutismo che non le era usuale ignorando le urla della figlioletta. Sandro fece schioccare le serrature della valigia. Non avrebbe voluto abbandonare Giulia, ma sentiva che il suo senso di autostima glielo imponeva. Soltanto per il suo sangue avrebbe potuto restare, perché della moglie non era più innamorato. Ora che la piccola piangeva sarebbe stato molto più difficile andarsene lontano da quella spregevole donna. Anch'egli gonfio di dolore sbottò a piangere, e pianse, pianse senza più alcun pudore davanti alla bambina. Seduto sul letto con il viso lavato di lacrime. Laura apparve inaspettatamente nella stanza. Giulia era avvinghiata alle ginocchia del padre e lo baciava ovunque riuscisse ad arrivare. Sandro evitava di guardare la moglie. Si limitava soltanto a ripetere - non posso, non posso - . - Resta! Gli disse, senza neppure guardarlo, rigida e altera come sempre. Come un generale che impartisce gli ordini. Ma in verità barcollava, si sgretolava dentro. Gli tese una mano, e con l'altra carezzò la figlia sui capelli. In privato di più non avrebbe saputo fare. Lui lo sapeva. Lui la conosceva bene, lei non agiva mai semplicemente, mai per la cosa in sé per sé, ma sempre per dare agli altri una precisa impressione. La valigia grande troneggiava commemorativa, priva di polvere sopra all'armadio della camera matrimoniale. Di quanto fosse successo, un giorno di tanti anni prima, nessuno ne aveva più voluto parlare. Da quella che in apparenza poteva sembrare una garbata e rispettosa convivenza ciascuno aveva tratto il suo guadagno: di fatto ognuno aveva difeso i propri sogni e ancor prima quelli di chi con invidia o con ammirazione li osservava dall'esterno; vivevano in
un lindo villino, erano belli, erano in salute, erano benestanti; rappresentavano la famiglia ideale, "quelli a cui non manca niente" per vivere felici. Peccato che nella realtà non v'era menzogna più grande. Frequentavano sempre ottime amicizie, solo quelle con le quali avevano affinità ben precise di livello culturale ed economico, in modo tale da creare meno imbarazzo sociale possibile. Fra coloro Sandro s'era chiesto più volte se si mascherasse l'autore della lettera d'amore che aveva portato scompiglio nella sua famiglia dal giorno che l'aveva trovata, fra le pagine di un libro che apparteneva a Laura, forse proprio per questo il suo preferito: "Tenera è la notte" di Scott Fitzgerarld. Da sempre condividevano le uscite per la spesa e si recavano, ogni domenica mattina in chiesa, e dopo aver preso la comunione dalle mani del parroco, tornavano a casa elargendo sorrisi e saluti a tutti camminando uno di fianco all'altro. Ogni estate riaprivano la casa al mare, ed ospitavano generosamente amici e parenti. Era sempre lei a decidere gli inviti. Spesso era gente di cui non gli importava. Passeggiando lungo la spiaggia, Laura pretendeva il braccio del marito, anche se le era dato senza amore, pur di dimostrare a tutti il contrario. Accudivano insieme il giardino, che dalla primavera fino all'autunno era un'esplosione di colori e di profumi. Ogni finestra della casa era adornata di cascatelle fiorite. Lo facevano con perizia e con complicità. Era la sola cosa che avevano sottratto all'ipocrisia. Parlavano poco e del più e del meno, in casa c'era sempre tanto silenzio; al massimo si occupavano di qualche pettegolezzo sui vicini o sugli amici, e non parlavano mai di loro e della lettera. Continuavano a dividere lo stesso letto, ma non facevano più l'amore né si sussurravano "ti amo" o "ti voglio bene" o "ti desidero"...; come una nube che pian piano pag. 25 offusca il cielo, il tempo, ma soprattutto l'incomprensione avevano limato ogni sentimento, lasciando in piedi solo lo
scheletro di un matrimonio scavato da un grande vuoto interore. Giulia naturalmente non sapeva, cresceva nelle sue convinzioni che prendevano ispirazione dal teatrino di quella enorme finzione che si ripeteva ogni giorno, ogni momento. Inorgoglita ammirava i suoi genitori come un capolavoro di perfezione e sin da piccola si augurava da grande di vivere l'amore con lo stesso incanto. Era romantica e le capitava di scivolare nelle sue fantasie anche quando era ad occhi aperti, in antitesi con la razionalità della madre, che mal sopportava tutta la passione che la figlia metteva per le cose futili. - Sei proprio come tuo padre! Vi occupate soltanto dei vostri interessi e delle vostre passioni e siete bravissimi ad allontanare le responsabilità. Due inconcludenti. Io sono stanca di accollarmi tutto, anche le vostre cose. Cominciavano sempre così i loro battibecchi. Ma ad avere l'ultima parola e a ferire era sempre lei: la madre. Giulia era stata una adolescente che non aveva avuto particolari conflitti generazionali con i genitori, era serena e si sentiva amata, soprattutto dal papà perché avvicinarsi alla madre per ricevere tenerezze le restava assai difficile. Non che non si volessero bene, anzi sapeva quanto gliene volesse con i suoi sacrifici la madre, ma due venti avversi le rendevano distanti: Laura era dura ed impassibile, come una spranga di ferro, Giulia era delicata ed evanescente, come un pensiero carico di ottimismo. Mai infatti il suo ottimismo le aveva fatto sospettare che non tutto ciò che brilla al sole non è necessariamente oro. Mai fin quando suo padre morì e tutto quell'illusorio mondo le crollò addosso. Sandro lo ribadiva spesso che avrebbe voluto andarsene nel sonno, nella più completa grazia di Dio. Avrebbe barattato volentieri una lunga vecchiaia solitaria e caratterizzata da un inesorabile decadimento fisico con una morte precoce ma beata. Tanto che a Laura l'argomento era venuto proprio a noia per cui, ogni qual volta Sandro si lamentava che stava invecchiando, lei sbadigliava e diceva di scusarla ma aveva
molte faccende da sbrigare, e lo lasciava a ragionare con la figlia, che sapeva metterci più pazienza di lei. - Non dovremmo avere tanta paura della morte, magari il paradiso esiste davvero. Perché no, sfido a trovare qualcuno che può assicurarmi del contrario. Sali su e ti mettono seduto affianco al sole. Sarebbe veramente come toccare il cielo con un dito, cioè essere all'apice della felicità! Ma per essere così perfetto tutto questo dovrebbe avvenire in fretta, senza darci il tempo di rendersene conto e quindi di avere paura per quello che ci stà realmente accadendo.che non abbracceremo più i nostri figli, che non sentiremo più il profumo dei fiori, che non vedremo ancora il colore del mare quando il cielo è sereno.phuffff.e sei nel regno dei cieli. - Forse avrai ragione tu papà, ma io ho paura della morte. - E' la sofferenza che devi temere tesoro mio. Avere una lunga vita non è ciò a cui aspiro, anche se ancora non avrei nessuna intenzione di lasciare il mondo e soprattutto te. - E la mamma. - Mmm. e la mamma. Se ci pensi è proprio quando siamo nel ventre materno il periodo più felice della nostra esistenza. - Ma anche quando nasciamo e siamo molto piccoli. Io sono stata una bambina felice. - Dimmi che cosa ricordi di quel periodo. - Sinceramente molto poco.però penso.anzi sono sicura di esserlo stata. - Bè, una cattiva memoria può aiutare molto ad essere felici. Io so solo che in questo momento mi considero abbastanza sereno, felice è una parola grossa.!! Proprio perché inevitabilmente il pensiero si incupisce se penso che presto cominceranno i primi acciacchi e mi accorgerò che il declino fisico e mentale è dietro l'angolo. Io preferirei viverla la vita e non subirla, tanto meglio ritirarmi prima di diventare una patetica macchietta, con la dentiera che sfugge al controllo delle gengive e senza aspettare che mia figlia mi ripeta troppo spesso “papà oramai hai l'arteriosclerosi, non capisci più pag. 27 niente”. - Ma che dici, io non te lo direi mai!
- Tu può darsi, ma tua madre. Sandro e Laura erano cattolici per consuetudine più che per fede e, probabilmente , lui non doveva essersela presa troppo se a sessantacinque anni, inaspettatamente, aveva chiuso gli occhi senza aver raccomandato l'anima al prete. Era una giornata di fine maggio. Era una giornata che s'era fatta improvvisamente afosa, con il cielo pieno di nubi che facevano da tappo. Sandro indossava i soliti pantaloni blu di tela di lino, quelli più freschi e più adatti per lavorare in giardino. Già dalle prime ore del mattino aveva provveduto a concimare ogni virgulto affinché crescesse più velocemente e a potare i rami vecchi e legnosi del lauro che bordava la recinzione di ferro battuto. Era un lavoro abbastanza pesante, perché nonostante possedesse un pratico tagliasiepe elettrico, egli preferiva usare i forbicioni per il loro recidere preciso e che facevano meno diavolio. Tac. tac. gli ricordavano il rumore dei passi della figlia quando con i tacchi alti zoccolava per corrergli incontro di ritorno daH'ufficio... tac... tac "ben tornato papà". Ogni volta che la pensava, i tumultuosi e acri sentimenti che sorgevano dalla mente e ribollivano nel suo animo si calmavano. Giulia si era sposata da appena una settimana. Ora i due giovani si godevano la luna di miele e poi al ritorno avrebbero abitato la loro nuova casa. Brando non riscuoteva la sua completa stima, ma doveva riconoscere che era un affermato architetto, e per lei aveva progettato una bellissima villa. Avrebbe dovuto essere più che felice, ma era certo che le sarebbe mancata troppo, avrebbe dovuto per il resto della sua esisteza aggrapparsi a nuovi equilibri, forse era per questo che nonostante la calura sentiva il freddo passargli vicino. Era giunta quasi l'ora di pranzo, a momenti la moglie lo avrebbe chiamato per sedersi a tavola con lui. Sandro cominciava a sentire la stanchezza per cui, nonostante il disagio ricorrente di dividere il pasto in compagnia della sua nemica, non l'avrebbe fatta attendere. Aveva riposto gli attrezzi da lavoro e si era adagiato sulla sua poltrona di vimini sotto al prunus in fiore. La poltrona
scricchiolava pericolosamente accogliendolo, il giunco rinsecchito dal sole soffriva come il suo cuore. Sandro nell'attesa osservava una bellissima rosa. La pianta l'aveva interrata ventidue anni prima, l'anno in cui Giulia era nata. L'ultima cosa che sentì fu una inesorabile stanchezza ed il profumo intenso che proveniva da quella rosa. L'ultima cosa che pensò fu che gli sarebbe piaciuto piantarne presto un'altra, magari appena sarebbe divenuto nonno. Poi, in un leggero sorriso di dolcezza si irrigidì il suo volto. La casa era muta e all'apparenza vuota quando Giulia impaziente di riabbracciare i suoi era entrata dalla porta finestra della cucina che era socchiusa. Dato che erano tornati con alcune ore di anticipo, senza farsi sentire li attendeva lì, per godersi l'euforia di quella sorpresa. Si portava appresso la gioia dei giorni passati e voleva dividerla con loro. L'odore del detergente per pavimenti seccava le nadici e spazzava via quello delle rose che abbellivano il vaso di cristallo di rocca. Brando aveva preferito non accompagnarla affinché si ritrovassero loro due soltanto. Peraltro non era capace di accollarsi neanche un po' del dolore altrui. L'aveva baciata intensamente sulla bocca dicendo che l'aspettava a casa e che nel frattempo avrebbe preparato per lei una cena speciale. Giulia subito avvertì dietro di sé la presenza familiare della madre, si volse allargando le braccia sentendo inaspettatamente un irrefrenabile bisogno di stringerla a sé. Quella era la prima volta che sentiva veramente il desiderio di farlo. Ma l'imbarazzo e la tristezza che lesse in lei smorzarono il suo bel sorriso luminoso. Giulia cercò fuori dalla finestra, il giardino era deserto; intuì che qualche cosa di terribile era lì lì per accaderle. - Che c'è? Papà? - Puoi credermi, non deve essersene sicuramente accorto, il suo cuore ha cessato di battere e basta. Era lì. Le indicò attraverso la vetrata linda la vecchia poltrona di pag. 29 vimini scolorita dalle piogge autunnali e dalla solina primaverile.
- Sotto al prunus. sono andata vicino per scuoterlo.pensavo si fosse addormentato proprio all'ora di pranzo. Non volevo che si freddasse la pasta, sembrava proprio che dormisse. Continuava a raccontare con dovizia di particolari, con voce atona e sottile, come se temesse di svegliare qualcuno. Non staccavano gli occhi dalla sedia, come se aspettavano che Sandro apparisse da un momento all'altro e le salutasse con un cenno della mano. - Sorrideva, in fin dei conti tutto è accaduto come aveva sempre sperato. Quando seppe Giulia si disperò, pianse e le sembrò impossibile che nel momento in cui tutto era accaduto ella non avesse avvertito neppure il minimo malessere, neppure un insignificante capogiro, eppure il suo cuore aveva sempre battuto all'unisono con quello del padre. Ancor più incredibile le risultò, anche in quella circostanza, la durezza della madre, che non l'aveva subito messa al corrente. Si erano sentite al telefono ogni giorno, e ricordava bene che nella sua voce non aveva avvertito nessun cedimento anche negli ultimi giorni quando non aveva più potuto parlare anche con il padre, perché lei aveva sempre una scusa pronta. Diceva sempre che lei ed il padre stavano bene, e non mancava di raccomandarle di divertirsi. Brando era stato messo al corrente, lui lo sapeva ed insieme alla madre avevano complottato per non dirle nulla fino a quel momento. - E' terribile mamma, come avete potuto pensare che per me potesse essere più importante terminare il viaggio di nozze invece di essere con lui, con te! Non averlo potuto vedere per un'ultima volta, baciargli ancora i capelli brizzolati come facevo sempre, tenergli la mano. - Tu eri partita da pochi giorni quando lui è morto, eri troppo lontana per poterci raggiungere. Eri in crociera, eri in mezzo al mare, sicuramente non avresti potuto tornare. Era appena cominciata la tua felicità, non volevo turbarti e anche Brando non ha potuto che darmi ragione. Nessuno dei due voleva tradirti, volevamo soltanto proteggerti, come si fa con chi si
ama. - Laura smettila di trattarmi come una bambina! Se mi vuoi bene veramente lasciami vivere anche il dolore. Non mozzarmi il fiato come hai sempre fatto con lui. Smettila, smettila . Fra i singhiozzi finalmente l'aveva detto. Era in preda all'isteria ma pensava fino in fondo al cuore ciò che le aveva urlato. Se ne pentì appena vide la madre diventare grigia, rimpicciolire e afflosciarsi sotto le sue accuse; sembrava un mucchietto di cenere. Ora la vedeva. Anche lei doveva aver sofferto molto. Quel viso appuntito e pallido. Gli abiti che le erano rimasti troppo morbidi sul petto e sui fianchi; era dimagrita parecchio. Stava per avvicinarla ma Laura non era capace di non dire. Anche ora che aveva solo un filo di voce. - Non era un santo neppure lui. Tu non puoi sapere. Era un ottimo padre. - Non farlo, lascialo riposare in pace, almeno ora non dire, non andare avanti o uscirò da quella porta e non mi vedrai mai più. - Lui voleva andarsene. - Tu sei pazza.papà non mi avrebbe mai lasciato e neppure a te nonostante sei quella che sei! - Già, io in questa casa sono sempre stata considerata il boia dei vostri sogni, il carnefice della serenità familiare. Ma sapessi quanto ho lottato contro la sua indifferenza; io chiedevo soltanto di essere amata, di essere aiutata nella realizzazione dei nostri sogni. Ma ho dovuto fare tutto da sola. Questa mia freddezza è stato un regalo che ho fatto a te, affinché tu potessi crescere in una famiglia e potessi diventare quello che sei oggi: una splendida donna con un marito che ti ama. Cercò di zittirla dandole ragione. In genere era l'unico modo. - Certo mamma, basta non parliamone più. Lo so l'hai fatto per proteggermi. Si tappò le orecchie con le mani ed indietreggiò verso la porpag. 31 ta per non continuare a soffrire. Era mancata soltanto due settimane, ed era stato un tempo sufficiente per stravolgerle la vita. Oltre ad aver affrontato
i primi giorni di matrimonio, che erano stati giĂ un bel cambiamento, al ritorno suo padre non c'era piĂš. Avrebbe voluto raccontargli di quante emozioni aveva vissuto in quei giorni, di quanto avrebbe avuto bisogno dei suoi consigli in quelli a venire. Di quanto aveva patito la nostalgia di casa nonostante la felicitĂ che aveva vissuto in quel periodo. Di quanto la gettasse nella disperazione il suo imperdonabile ritardo. Suo padre era morto e lei non aveva potuto esserle vicino. Brando l'attendeva a casa con la faccia giusta per farle le condoglianze, pronto a consolarla e non aveva previsto che lei era piĂš arrabbiata che sconsolata. Gilulia era andata a letto quasi subito accusando un forte mal di testa e quando Brando l'aveva raggiunta lei aveva finto di dormire. Gli occhi sotto le palpebre erano rimasti svegli tutta la notte insieme al risentimento e ai pensieri infelici. Il dolore era forte, quanto l'urlo nel silenzio che avrebbe voluto lanciare.
C ap i t ol o t e r z o N INA
pag. 33
Nina, che appena nata non aveva saputo piangere, soggiogata da una letargia quasi mortale, trascorse i primi cinque anni di infanzia da bimbetta con problemi fisici ai limiti dell'handicap; in solitudine, fra le mura povere e silenti della sua casa, andava elemosinando qualche distratta carezza della madre beona sempre più avvinta dall'inerzia. Il padre meno latitante di un tempo, pian piano cominciò a provare per lei un barlume di sentimento, qualcosa che s'avvicinava un po' all'amore paterno. Quando non era né depresso né ubriaco, la prendeva sotto le ascelle e issandola in alto fin sopra la sua testa, contemporaneamente la faceva girare e girare, poi la dondolava a destra e a sinistra, di nuovo a destra e ancora a sinistra; la scendeva giù, la issava di nuovo, la lanciava in aria e la riprendeva, come in una divertentissima giostra. Osservando i Sadkova in quei rari momenti veniva da pensare che pure la perfetta infelicità era difficile da raggiungere, difficile proprio quanto la felicità. Anche in quel deserto di sentimenti esistevano, seppur brevi come un batter d'occhi, sporadici ma intensi attimi capaci di dare un senso alla vita. Quando accadevano, Nina si comportava proprio come fosse stata un cactus durante le rare occasioni in cui dal cielo miracolosamente scende la pioggia, si disseta e con pazienza attende passivamente fino al prossimo scroscio. Bastava sapersi accontentare e lei sapeva farlo. Jajalona, la loro vicina di casa, che aveva aiutato Nina a venire al mondo, forse perché di figli suoi non ne aveva mai avuti, le dimostrava un sincero attaccamento. Era soltanto lei ad occuparsi della bambina quando i postumi delle sbornie di Maria si prolungavano anche di giorni. Dipendeva dalla qualità della vodka, quella scadente più che ubriacare annullava completamente ogni volontà. Jajalona non era né giovane né vecchia e nessuno sapeva di preciso quanti anni avesse. Era una donna disposta ad aiutare gli altri, senza chiedere in cambio altro che un pò di compagnia. Non era di Minsck, era nata a Ko- pag. 35 stikovici. Era figlia di contadini per cui sapeva mungere le mucche e le sapeva far partorire, per questo da quando abi-
tava in quel quartiere, ormai più di vent'anni, aveva fatto venire alla luce un sacco di bambini. Nina sapeva che non era una gran cuoca, a casa sua mangiava sempre il borsc. Indossava immancabilmente un grosso grembiulone di lana cotta grigio, logoro all'altezza della pancia, coperto di patacche untuose, ricavato da un vecchio cappotto del marito che era morto da qualche tempo. Era una donna sciatta dalla sagoma bottolona, coi capelli che acconciava sempre raccolti in una lunga coda di cavallo; i fili bianchi spettinati che le ricadevano sulla fronte bombata e spaziosa se li scostava in continuazione con entrambe le mani, proprio come se aprisse due tendine. Col faccione rubicondo, infestato dalla couperose, roso dal freddo, concentrata sulla pentola, teneva d'occhio le barbabietole allorché non scuotessero fino a smaterializzarsi in quella brodaglia, ottenuta da un unico tocco di carne ribollita, che durante la settimana veniva riutilizzata più volte, poi finalmente il sabato se la mangiava accompagnata dalla vinaigrette, una sorta di inalata di verdure conservate in salamoia. La compagnia della bambina la rendeva particolarmente ciarliera. Nonostante Nina non la capisse perfettamente, sia perché troppo piccola, sia per via del suo ritardo mentale, l'anziana non perdeva comunque occasione per raccontarle con rimpianto, intercalando spesso "pace all'anima sua" qualche aneddoto divertente su quel sempliciotto del marito. Una volta le raccontò di quell'omone di suo fratello che prestava servizio nella milizia, Anton, di passaggio da Mosca, che s'era fermato per una notte ospite in casa loro. Di quello sciocco del marito che non ci aveva dormito la notte assaporando l'ebrezza che avrebbe provato indossando la divisa militare del cognato. Così al mattino seguente, Victor zitto zitto, l'aveva infilata per fare un giro, su e giù per la via, pensando di suscitare l'invidia e l'ammirazione del vicinato. Purtroppo per lui, quel marcantonio che al suo risveglio s'era ritrovato seminudo, l'aveva aspettato senza fretta, acquattato dietro la porta. Al suo rientro l'aveva acciuffato sollevandolo con i piedi da terra, e fra l'infuriato e il goliar-
dico, dopo averlo completamente spogliato, impietosamente, nonostante la neve e la temperatura bassissima, l'aveva ributtato in strada. Quel mingherlino del marito nudo come un fagiolo fuori dal carpello, che saltellava e piagnucolava mentre cercava di proteggersi con le mani i genitali ciondolanti, era la cosa più ridicola e divertente che avesse mai veduto. Jajalona un attimo dopo si fece triste, un velo liquido le inumidì gli occhi, consapevole del fatto che da quel giorno il povero Victor aveva preso ad ammalarsi sempre più spesso ai polmoni già piuttosto compromessi dalla sierosi che aveva contratto durante il duro lavoro in miniera. Qualche mese dopo era morto. Dato che da tempo viveva sola, alla donna anche la compagnia di Nina faceva piacere. Ella si fermava spesso di buon grado anche a dormire, con la recondita speranza che il prodigio a cui aveva incredibilmente assistito una notte, potesse nuovamente ripetersi, per capirci qualcosa di più. Tutto era accaduto una sera quando la madre non era in grado di badare alla bambina e Jajalona si era offerta di farlo al posto suo. Avevano cenato insieme e subito dopo, mentre la donna rassettava, Nina s'era addormentata con la testina riversa sul tavolo. Con cautela Jajalona l'aveva infilata nel suo letto. La piccola, nonostante percepisse benissimo ogni manovra, continuò a simulare di essere immersa in un sonno profondissimo, compiaciuta per tutte quelle attenzioni. Con un occhio aperto e uno chiuso si accoccolò in quel caldo rifugio. Poco dopo anch'ella decise di coricarsi. Tolse gli abiti sfilandoseli dalla testa, mostrando i seni flosci ed invadenti che s'appoggiavano allo stomaco e che con la grossa pancia prominente formavano un enorme lardoso orcio, tale da non consentirle più di scorgere dall'alto il pube incanutito. Indossò velocemente una camiciona lunga bianca di lana leggera e dopo aver armeggiato ancora qualche secondo nella dispensa, finalmente si coricò. Al buio nel più completo silenzio, Nina riusciva a captare anche solo il battito d'ali di pag. 37 una falena. Non le sfuggì quindi che la donna dopo aver spalancato le gambe aveva preso a muoversi sotto le coltri; su
e giù, su e giù, senza perdere il ritmo. Il respiro era sempre più affannoso, fino a tramutarsi in un rantolo animalesco, che cercava di soffocare mettendosi una mano sulla bocca. Ansimava e ansimava, e più ella ansimava più Nina si sentiva paralizzata dalla paura al pensiero che la donna stesse male o fosse addirittura agonizzante. Ma la rigidità che la imprigionava non le permetteva di emettere alcun suono per chiedere aiuto e ancor meno per soccorrerla, avrebbe voluto pregare ma nessuno glielo aveva insegnato. Ad un tratto la donna intensificò i gemiti ed emise quasi un urlo, poi il silenzio aveva di nuovo ingoiato la stanza. Forse era morta, e Nina terrorizzata pensava di giacere vicino ad un cadavere. Fin quando il ronfare della presunta moribonda aveva interrotti quei terrificanti pensieri. Quel rumore fastidioso ma rassicurante cullò la bambina fino al mattino seguente. Il sole era alto quando si svegliarono ed esplodeva liberamente in ogni angolo della stanza dalle finestre prive di scuri. Entrambe sentivano l'esigenza di alzarsi per svuotare la vescica; dovettero farlo nello stesso orinale, che sostituiva il gabinetto di cui quelle case erano sprovviste. Un'unica latrina condominiale era sistemata sul lato posteriore dell'edificio. Quattro bandoni di latta ed una porticina di legno tatuata di scritte oscene, celavano un buco lurido che trasportava ogni genere di escrementi in un terreno poco più avanti, dopo che ciascuno aveva provveduto a scaricare con il secchio d'acqua che si era portato appresso Mentre Jajalona aveva iniziato a rassettare il letto e Nina mangiava un pezzo di pane inzuppato nel latte, tra le lenzuola apparve misteriosamente una grossa carota. La donna la prese, la portò prima al naso per annusarla e poi alla bocca e se la mangiò. Nina era incantata. Aveva provato a ricollegare i lamenti di Jajalona con la carota che stava nel letto, ma sentiva la testa più confusa del solito. Tornata a casa, prima di tutto, raccontò quegli strani fatti ansiosa di capire e per l'unica spiegazione che era riuscita a darsi cercava conferme dalla madre, la quale insofferente ai come e ai
perché della figlia rispose seccata " quella vecchia porca è sempre piena di risorse, ma se io sono arrivata a partorire una come te, forse hai ragione tu, quella può partorire una carota, almeno se l'è potuta mangiare!" La pochezza di cose materiali e morali tanto diffusa in quella collettività non ammettevano vie di fuga: per la maggior parte di coloro che avevano tentato di spezzare le catene della passività nella speranza di conquistarsi, anche in maniera spregiudicata, prosperità e felicità, per lo più avevano versato un prezzo inimmaginabile. Qualche anno prima che Nina nascesse Nicola e Katiuscia, un po' come le rondini settembrine ancora presenti ma già radunate stridenti sugli alberi, erano pronti a partire, insofferenti a quella miseria. Convinti che lontano da quella lurida periferia, lontano da quel brutto casamento dalla facciata triste e da genitori indifferenti, sarebbero riusciti a riscattare un'infanzia più vuota delle loro pance. Prima uno, poi l'altra, se ne erano andati senza comprendere che, quel languore insopportabile alla bocca dello stomaco non era determinato dalla fame, ma bensì dalla mancanza di amore di cui i loro genitori, non per altri motivi, ma soltanto per una sorta di malformazione genetica, non erano stati capaci di dar loro. Maria in questo era stata, tra i due, la più parsimoniosa, maggiormente nei confronti della figlia. Verso Nicola si era dimostrata un po' più affettuosa forse perché quest'ultimo era lo specchio della madre, data la straordinaria rassomiglianza fisica e caratteriale. Era un bel ragazzone, con gli occhi azzurro torbido spruzzati di infinite pagliuzze dorate, con lo sguardo agghiacciante rafforzato da un guizzo di malvagità che glielo rendevano insostenibile. Il naso leggermente aquilino e la mascella quadrata gli imponevano un'aria arrogante, che combaciava perfettamente con la personalità introversa che avepag. 39 va dimostrato di possedere fin da bambino. Chiuso nel suo altezzoso isolamento gli riusciva naturale non assaporare alcun tipo di affezione per luoghi, animali
o persone. Senza radici, come una liana che penzola nel vuoto, guardava tutti dall'alto in basso. Non aveva cercato di allacciare nessuna amicizia, neppure da ragazzino, con i coetanei che numerosi scorazzavano per il quartiere organizzati in tante piccole bande. Aveva preferito starsene solo e adombrato, accucciato davanti alla porta di casa, stringendo in mano la sua inseparabile fionda, pronto a misurare la sua abilità puntandola verso qualsiasi cosa, verso bersagli sempre più difficili. Cani e gatti nelle vicinanze non se ne vedevano più. Ma le sue prede preferite restavano le pantegane, dal muso appuntito, emblema di quell'incredibile degrado. Camminavano appiattite lungo i muri grigi, come il fitto pelo che le ricopriva. Scagliava pietre contro di loro ed anche dopo averle colpite a morte, continuava impietoso ad infierirvi fin quando non le aveva ridotte ad una disgustosa poltiglia. I ratti con le code più lunghe li faceva dondolare da un bastone fornito di spago, dando forma ad una piccola forca. Durante la metamorfosi da adolescente ad una età più matura, il suo carattere ermetico non aveva subito alcun indebolimento. Anzi, s'era accentuato, incrementato da una spiccata misoginia che si manifestava soprattutto a scapito della sorella, per la quale nutriva sentimenti contrastanti determinati da un desiderio di incestuosa carnalità. Katiuscia era pienamente consapevole di suscitare nel fratello quella confusione, e di esserne la musa ispiratrice in ogni atto sessuale che egli praticava dalla pubertà. Godeva infatti nel farsi sorprendere da lui seminuda, in atteggiamenti di donna esperta. Una volta, conscia della prova cui lo sottoponeva, approfittando dell'assenza dei genitori, s'era portata a casa un ragazzetto foruncoloso smanioso di concludere qualcosa con lei, uno che gli faceva pure schifo. Gli aveva infilato con spregiudicatezza una mano nella patta dei pantaloni e, mentre lo masturbava, teneva d'occhio la finestra, certa che di lì il fratello li stesse spiando tormentato dal desiderio e dalla gelosia. Per Nicola crescendo, la convivenza con i genitori era diven-
tata sempre più insopportabile. Per le loro ubriacature seguite da liti, insulti e botte, per la vita sconquassata che gli avevano procurato e per le sempre maggiori incomprensioni con quel padre che ai suoi occhi risultava tutto ciò che non avrebbe mai voluto diventare: un perdente. Così appena ventenne lasciò Minsk. Un anno dopo si era rifatto vivo soltanto con Katiuscia. Ella si era alquanto meravigliata di quelle quattro parole che aveva ricevuto per posta da Mosca, proprio il giorno che compiva diciotto anni. Quel messaggio fu l'unico regalo che ricevette, assieme ad una manciata di rubli sufficienti per prendere il treno e raggiungerlo. Nella missiva la lusingava e le assicurava il suo appoggio e tutto l'aiuto possibile affinché potesse, approfittando delle sue inclinazioni, guadagnare un bel po' di soldi. Neppure un giorno in più restò, partì entusiasta spronata da quelle promesse ma senza aver saputo leggere fra le righe il vero scopo di tanta fraterna disponibilità. Da quel momento entrambi si eclissarono inghiottiti dall'indifferenza e dall'anonimato della grande città. Nina accarezzava con le mani le foto sbiadite dei suoi fratelli lontani che non aveva mai conosciuto ed ai quali sentiva in ogni caso di volere un gran bene. Fantasticava pensando che all'improvviso un giorno affacciandosi dalla porta, sarebbe sopraggiunta una grande e lussuosa automobile e, che ne sarebbero scesi Katiuscia e Nicola, sorridenti e con tanti regali per tutti, anche per Jajalona. Finalmente qualcuno l'avrebbe abbracciata, magari talmente da impedirle quasi di respirare. Quando chiudeva gli occhi e se li immaginava, le sembrava addirittura di percepire il profumo delicato della sorella e di ascoltare la voce profonda di Nicola che la incitava a saltargli in collo."corri Nina, corri da me! Che aspetti, vieni ad abbracciarmi!" In quella idilliaca rappresentazione di famiglia felice, anche il padre e la madre apparivano raggianti e commossi, per cui non comprendeva come nella realtà, mà e pà non parlas- pag. 41 sero mai volentieri di quei loro lontanissimi figli e se Nina provava a pronunziare i loro nomi Maria li malediva facen-
doli sprofondare all'inferno. Per sette mesi, eterni come la miseria, il paesaggio rimaneva immutato mentre, per tutto l'anno, quel gelo ibernava il cuore dei Sardkova. Tutto intorno era ovattato e silenzioso. Ricoperto da candidi e pesanti strati di neve che, più di una volta, avevano fatto crollare il tetto di lamiera del cesso, provocando ai condomini, durante l'espletamento dei loro bisogni, anche qualche ferimento. Poi man mano che si compiva il disgelo, alla purezza di quel bianchissimo manto, che era caduto pietoso, andava sostituendosi un palmo abbondante di belletta, nella quale per intero affondavano le scarpe dalle suole bucate e le tomaie sfrangiate. Per evitare che gli schizzi raggiungessero il malleolo bisognava saltellare di qua e di là e camminare zigzagando, scansando così le pozze più profonde. Davanti alla casa di Nina quell'incuria era ancora più evidente, in quanto essendo una delle ultime costruzioni della periferia la strada antistante non era asfaltata. L'urbanizzazione si era fermata qualche caseggiato prima, come se da lì in poi vi si estendesse una terra indeterminata e misteriosa. Era un palazzaccio che confinava immediatamente con aree incolte, d'estate rigogliose di erbe infestanti, irrigate dalle acque maleodoranti di una fitta rete di canali e canaletti che supplivano ad un idoneo sistema fognario. La puzza dei carburanti per scaldare le case e quella degli scoli si mescolavano insieme e preferivano stagnare in quella zona in quanto era la più in basso rispetto al piano stradale. In estate comunque quei fossi si animavano dei gracidii delle rane che vi sguazzavano in quantità esagerata. In luglio l'escursione termica stagionale raggiungeva il picco più alto e le temperature si portavano vicine ai trenta gradi, rendendole insopportabili anche di notte. Pietro e Nina andavano a rilassarsi nei pressi di quella frescura. A sera, mentre aspettavano che si smorzasse un po' quella calura, s'appostavano, muniti di un'ampia gabbia di rete metallica e di tanta pazienza, necessarie a catturare da dieci a venti rane alla volta. Accovacciati
vicino a quel fosso avevano scoperto che in ognuno dei due c'era un po' dell'altro. La luna sospesa sopra di loro, inondata dall'ultima luce del giorno, appariva in tutta la sua spettrale bellezza anche in quel desolante contesto. Nina e Pietro rimanevano vicini distesi sull'erba fresca schiacciata dai loro corpi caldi e in cerca di tregua, celati dai fusti alti e flessibili delle canne. Affianco la gabbia piena di rane da gozzi palpitanti, ammutolite dal terrore, quasi avessero intuito l'imminente tragica fine. Una fine di cui Nina sembrava preoccuparsene molto. - Soffriranno quando le ammazzerai pa? Una volta ho visto un vecchio che veniva schiacciato dalle ruote di un camion; è morto ma prima ha urlato così forte che mi sembra ancora di sentirlo ogni volta che ci ripenso. Il padre che per tutta la sera non aveva ancora detto una sola parola, preso solo dai suoi pensieri, con gli occhi lucidi puntati al cielo scintillante, come parlasse a sé stesso, rispose prendendosi molto sul serio, alla domanda più stravagante che gli avessero mai rivolto. - Non credo proprio che soffriranno, gli animali sono fortunati perché non hanno l'anima. E' quella che ci toglie la serenità e fa soffrire gli uomini! - Dove stà l'anima? - chiedeva con gli occhi impiccioliti dal sonno ormai trattenuto a stento che faticosamente mettevano a fuoco i corpi verdastri delle rane, cercando di verificare concretamente l'assenza di quell'oscuro soffio vitale. - Bè io non è che me ne intenda molto, non sono un dottore, ma penso che si trovi proprio vicino al cuore, quando questo cessa di battere l'anima esce dal nostro corpo. Ecco in quell'attimo sentiamo un gran dolore, anche se dopo morti non serve più, staccarcene ci fa troppo male. Certi discorsi l'avevano talmente attratta che ormai gli occhi si erano spalancati come le fauci di un leone affamato, in quel momento sarebbe restata lì delle ore ad ascoltarlo, anpag. 43 che l'intera notte. - Ma di colore è rossa come il sangue? - Può essere bianca e pura come la neve che d'inverno rico-
pre Minsk, oppure nera come le notte senza luna. Dipende... Disse, mentre scivolando verso la figlia cercava a tentoni con le mani l'inseparabile scaccia pensieri, la sua bottiglia di vodka. Qualche sorsata l'avrebbe aiutato a spiegarsi meglio. - Da cosa dipende? - Da dove nasci ad esempio: qui a Minsk con questa sporcizia, mi giocherei la testa che ci abbiamo tutti l'anima nera. E' soprattutto una questione di povertà, più sei povero.più sei disgraziato. E quelli disgraziati di un'anima bella bianca che se ne fanno se non sanno neppure cosa mangeranno il giorno appresso? Che ce ne frega a noi di possedere un'anima pura se ci abbiamo tutti i denti grigi e fradici e il cervello innaffiato di vodka? E' questa la vita che ti aspetta! Nina a quelle spaventose parole si sentì percorrere da un brivido. Il pensiero che la sua anima potesse essere contaminata dalla povertà e dal lerciume di quel microcosmo le provocò uno smarrimento che fino ad allora non aveva mai conosciuto. Per un po' tacque riflessiva, poi racimolando un filo di voce ebbe ancora il coraggio di chiedere. - Siamo come queste povere ruske noi Sadkova pà? - Peggio! Molto peggio, noi siamo già morti! Nina s'era troppo spaventata. S'alzo e senza ascoltare altro corse via, fuggì come un uccellino appollaiato su un ramo. Il padre cercò di trattenerla afferrandole una gambetta, ma l'alcool gli rallentava i riflessi e un'ingiustificata ridarella gli aveva fatto salire il catarro dai polmoni alla gola. Raschiò e sputò, prese la gabbia con le rane e tornò a casa senza sentire alcun rimorso per aver spaventato con le sue orribili argomentazioni una bambina. A sette anni appena compiuti, Nina era già capace di cucinare le rane e, inoltre accudiva quotidianamente la capra di una loro vicina, dalla quale ne riceveva come compenso una parte del latte e dei formaggi prodotti. Svolgeva anche gli unici lavori domestici che distinguevano quel tugurio di stanzone da una stalla di ovini. Il pavimento di linoleum era
martoriato dalle bruciacchiature dei tizzoni che, di tanto in tanto, rotolavano dalla bocca della stufa di ghisa. Le pareti non erano state pittate da secoli, e le uniche decorazioni erano gli schizzi di vomito di Maria e di Pietro. Gli arredi erano pochissimi, giusto l'indispensabile. L'umidità saliva dal pavimento e l'odore di muffa impregnava gli abiti e il resto della biancheria. Nessuno in casa si era mai preoccupato ad insegnarle a leggere e a scrivere, né l'avevano avviata alla scuola. Ritenevano che fosse tempo perso. Non conosceva neppure la differenza fra una banconota da dieci rubli ed una da cento. Nina pensava che tutte le cose avessero lo stesso valore. Tutte le persone avessero la stessa importanza. Non portava rancore al mondo che l'aveva ripudiata e disprezzata per il suo aspetto fisico, un mondo in cui spesso si faceva più attenzione a difendere i diritti degli animali che quelli di una bambina con la faccia da scimmia. Un mondo in cui la semplicità d'animo era considerata idiozia e, ad eccezione del padre e di Jajalona tutti si divertivano a deriderla. La madre stessa ripeteva a tutti che i figli della vecchiaia erano figli del peccato, per cui nascevano brutti come il diavolo. Con rabbiosa rassegnazione, si rammaricava con chiunque delle condizioni di Nina. La considerava una malattia cronica, dalla quale sarebbe stato impossibile guarire. Sarebbe vissuta alle sue spalle, perché sarebbe stata troppo scema per lavorare e troppo brutta da sposare. Nessuno apprezzava il suo cuore adamantino. Come uno scrigno racchiudeva in sé le doti più preziose: il candore e l'ingenuità dei fanciulli, valorizzate dalla lungimiranza e dalla saggezza di chi, come i vecchi, hanno a lungo visto ed udito. Forse la sua serenità era sostenuta da un fondamentale principio: l'assenza dei termini di paragone, perché nell'immediato circondario non vivevano bambini all'infuori di lei e in casa non possedevano nessun apparecchio televisivo, rimaneva ignara sul bello e il brutto della natura umana. pag. 45 L'unica cattiveria che conoscesse era quella della madre, ma non sapeva riconoscergliela.
Intanto che i giorni passavano, un losco personaggio, un certo Jajavascha, si era stabilito al piano superiore, in un modesto appartamento che aveva lasciato il vecchio Ivan dopo essere morto di fame dato che il suo unico nutrimento era l'acquavite. A Minsk Jajavascha ci si era stabilito da solo e nei confronti di Maria e di Pietro si era dimostrato subito molto amichevole. Si era vantato di possedere un grosso televisore a colori, insistendo nel dire che sarebbe stato molto contento di ospitarli di tanto in tanto per guardare qualche spettacolo in loro compagnia. Pietro, sentendo di dovergli riconoscenza per quegli inviti, a volte tirava fuori dalla credenza di formica scorzata e scolorita dall'incuria, una bottiglia di vodka da donare all'ospite. Nina tutta trepidante saliva accompagnata da una mescolanza di sensazioni contraddittorie, nutrite sia dalla gioia provocata da quell'intrattenimento, sia dal timore di venire risucchiata all'interno del televisore, come sospettava fosse accaduto a tutte quelle persone che parlavano e la guardavano da dentro il teleschermo. Ci volle poco tempo a Nina per capire che quel Jajavascha aveva un modo di fare untuoso e poco schietto. Ma per il principio che i poli opposti si attraggono, Pietro che era un tipo taciturno, al contrario di sua figlia, sembrava apprezzarne molto la personalitĂ allegra e la disponibilitĂ . Inoltre, grazie a lui, il suo bicchiere era sempre pieno. Ogni volta che Nina rimaneva sola con lui sentiva il suo sguardo avido addosso, sentiva il suo disprezzo e le venivano i brividi. Al contrario se la incontrava in compagnia dei genitori era gentile e complimentoso nei suoi confronti, e non la guardava piĂš con la stessa repulsione che si prova nel vedere un escremento. Jajavascha, doveva avere pressappoco una sessantina d'anni e nessuno sapeva con precisione di dove provenisse e tanto meno cosa facesse per tirare a campare. Di fatto, esclusi i Sadkova, non aveva concesso la sua confidenza a nessun altro. Figurava quindi che, per sincera simpatia nei loro confronti, li invitasse a salire per vedere la televisione ogni sera. Ognuno occupava sempre lo stesso posto; Nina
immancabilmente sedeva vicina al padre e, quando il sonno la coglieva, chinava la testa sulle sue ginocchia. Combatteva fino a che poteva per rimanere sveglia, ma quando appaiava le manine per appoggiare le guance era conscia che non poteva esistere giaciglio migliore per generare i suoi sogni. Pietro a sua volta era solito perdere i sensi ancor prima quando era ubriaco. Le palpebre scese nascondevano la vacuità del suo sguardo; dal naso adunco una goccia di secrezione rimaneva in bilico senza mai cadere e la bocca piccola e arricciata sopra la baraggia sfiatava, emettendo un sibilo regolare e breve. La moglie e l'amico, senza svegliarlo, lo riaccompagnavano a casa molto tardi sorreggendolo come fossero due stampelle. Una sera, Nina inaspettatamente aveva aperto gli occhi. Le intenzioni dei due non le furono subito nitide, ma scorgeva la madre in piedi appoggiata all'unica finestra della stanza aggrappata a Jajavascha, con la testa buttata all'indietro mentre mostrava la gola bianca. Inoltre con le mani massaggiava le reni e le natiche coperte di peli dell'uomo, simile ad un caprone fermo sulla porta dell'ovile, il quale piegato in due affondava il viso fra i seni belli floridi della donna che esplodevano fuori dalla veste sbottonata e scesa fino alla vita. Lui con il membro ingrossato chiuso nella mano destra tentava di entrare nella donna. Stretti, silenziosi e sudati desideravano urgentemente soddisfare quegli istinti. Nessuna figlia avrebbe potuto credere che la madre fosse accondiscendente. Pertanto si slanciò contro l'uomo spaventandoli sul più bello, costringendoli a sciogliersi dal lubrico abbraccio.Mentre cercavano alla bell'emmeglio di ricomporsi, Nina batteva alla cieca i suoi piccoli pugni contro l'uomo urlando come un'isterica. - Lasciala. lasciala, papà, papà! Egli, appena ebbe le mani libere la trattenne abbrancandola per i capelli ispidi, poi dopo essersela staccata di dosso le sferrò una tale sberla da provocarle la caduta prematura di un dentino. La madre la prese per le spalle squassandola pag. 47 forte senza neppure darle il tempo di tamponarsi la bocca sanguinante, perché ella stessa con il palmo gliela sigillò per
impedirle di urlare ancora. La guardava idrofoba dritta negli occhi sibilando fra i denti parole dure come pietre. - Stammi bene a sentire piccola deficiente, se ti fai uscire una sola parola su ciò che hai visto ti ammazzerò io stessa. Le circondò il collo debole e tanto per far capire che non scherzava glielo serrò per un attimo. - Hai capito brutta ritardata? Brutalmente neutralizzata, non poteva più sussurrare neppure una sillaba, si voltò speranzosa verso il padre, ma nonostante tutto quel trambusto era rimasto con gli occhi a mezz'asta, messo fuori gioco dalla sbornia. Nina si convinse che non le restava niente altro da fare: assentì con la testa e ricacciò indietro le lacrime. Dopo aver trascorso una nottata di veglia fra i singhiozzi, il mattino successivo non era riuscita a guardare in faccia né la madre né il padre: le dispiaceva aver scatenato la rabbia di sua madre anche se pensava che non era colpa sua se qualcosa l'aveva svegliata e al contempo sentiva una gran pena nel cuore per aver tradito la fiducia del suo papà. Il suo unico fidato amico l'aveva tradito due volte: mentre s'era sfilato i pantaloni per fare all'amore con sua moglie e, ancor peggio, per averglielo fatto sotto gli occhi, seppure li teneva chiusi. Nina incapace di poter rimediare a quella brutta situazione ora desiderava almeno dimenticare e riuscire a farsi perdonare da entrambi, per cui si convinse che una prudente omertà era la strada migliore da percorrere. Maria si comportava come se nulla fosse accaduto, con la stessa naturale insofferenza nei confronti della figlia e del marito. Pietro soltanto un paio di giorni dopo si era accorto del visino tumefatto della figlia che era caduta dalle scale, perché quella fu la mendace motivazione addotta dalla moglie. Nina di andare da Jajavascha non ne aveva più voluto sapere, mentre lui e la moglie, continuarono a salire quasi ogni sera per vedere la televisione. Ogni anno, l'inverno era lento e tedioso come un vecchio e, a piccoli passi si accingeva a lasciare che la primavera so-
praggiungesse annunciata da venti meno impetuosi e piÚ miti. Con il suo algore aveva archiviato per mesi le loro vite, ma a Nina la rincuorava un poco illudersi che presto sarebbe tornata ad irretire le rane del fossato. Purtroppo, sia la primavera che gli inizi di quella estate, erano state caratterizzate da una immemorabile siccità la quale non aveva permesso che il fossato si riempisse neppure di un palmo d'acqua, espletando soltanto la sua funzione di putrida fogna. Di conseguenza anche le rane che ogni anno arrivavano numerose con i loro gracidii per riprodurvisi, erano andate a depositare i loro girini altrove. Tutte le aspettative di Nina furono amaramente deluse ed anche Pietro appariva alquanto depresso. In quella stagione le giornate erano lunghissime e di sera la gente si riuniva fuori, nei cortili di quei brutti palazzi, a chiacchierare, a fumare e le donne piÚ numerose degli uomini. Era ora di cena e Pietro era seduto strategicamente fra la porta e la finestra spalancate, proprio dove facevano corrente, tanto in quella stanza svuotata dalla miseria l'aria non incontrava ostacoli. Sbocconcellava svogliatamente il solito pezzo di pane con sopra spalmata una fetta di lardo di maiale orlata di rancido. Era solo, la moglie era andata a spettegolare da Jajalona portandosi appresso la figlia e sicuramente si sarebbero trattenute a lungo. Jajavascha gli era piombato all'improvviso in mezzo alla stanza: pareva essere particolarmente allegro e, con fare mefistofelico, confidò all'amico di avere finalmente ricevuto il pagamento per un lavoretto che aveva svolto tempo indietro. Si trattava di una cifra abbastanza consistente della quale voleva in gran parte disporne per svagarcisi. Chiese contento a Pietro di accompagnarlo in una delle sue scorrerie nei migliori bordelli di Mosca. - Non dirmi di no, so benissimo che abbiamo le stesse passioni. Naturalmente offro io, tu dovrai preoccuparti soltanto di pag. 49 far funzionare l'attrezzatura. Il beneficiario di tanta generosità non si fece scappare l'occasione e fu subito felice di accettare.
- L'ho subito capito che saresti stato un vero amico, io nel giudicare gli uomini non sbaglio mai, ma mi riesce ancora meglio scegliere la gallinella migliore del pollaio! E dopo una sguaiatissima risata proseguì - Mi basta una tastatina al petto, una lisciatine alla coscia... e le più tenere me le sbatto tutte io! - Staremo a vedere amico mio, staremo a vedere... Rispose Jajavascha sedendoglisi di fianco e, mentre la sedia malconcia cricchiolava pericolosamente, iniziarono a progettare l'imminente partenza. Quel giorno a Pietro non rimaneva che buttare poche cose in quella stessa valigia di cartone, assicurata da uno spago di nylon, con la quale trent'anni prima aveva fatto ritorno a Minsk portando con sé Maria e i suoi sogni. Nina lo aveva a lungo pregato di non andare. - Ma domani se piove andremo a pesca di rane! - Appena torno, appena torno. Soltanto per te. Tu non sei complicata e rompicoglioni come tutte le donne. Tu... sei semplice, è facile volerti bene... non come quella megera di tua madre, fosse per lei.mi farei tagliare anche l'uccello! Ma non tornò e a Nina restò impresso per sempre il ricordo di quell'addio del quale non aveva appreso in pieno il significato. Come non avrebbe mai dimenticato il dolore che provò mentre vegliava la bara d'abete nella quale suo padre aveva fatto ritorno. L'altra bara sarebbe arrivata due giorni dopo a causa dell'autopsia che l'autorità giudiziaria doveva eseguire per cercare di far chiarezza in quei fatti così drammatici. A mosca li aveva accolti un cielo opprimente, che prometteva dopo lunghi mesi di arsura, di scaricare tutta la pioggia necessaria a ripulire la città dall'aria inquinata e stagnante per l'afa e lo smog. I due uomini scesero dal treno nel tardo pomeriggio, raggiunsero immediatamente la metropolitana, tanto non avevano tempo per guardarsi intorno. Non erano lì per fare i turisti, ma per perdersi nel piacere. Jajavascha propose subito di andare ad affittare la stanza che avrebbe-
ro cameratescamente condiviso. Dopo essersi ben ripuliti, presero a consultare alcuni indirizzi appuntati su un bisunto foglietto. - Li visiteremo uno ad uno. Forza amico mio, sei l'ospite quindi tocca a te scegliere per primo! Ti assicuro che non avrai modo di pentirti di esserti unito a me! Sentirai come canteranno i nostri uccelli stasera! Come è vero che al proprio destino ci si consegna, Pietro fece la sua scelta. Da quel momento in poi non avrebbe più potuto tornare indietro. Tutto era scritto in quelle poche righe. - Qui si, andiamo qui. Nuovo Quartiere di Ceremuski... largo Ceremuskjnskje... questo, questo con l'indirizzo che sembra uno scioglilingua. Dai non perdiamo altro tempo! - Ottima scelta! La migliore direi. Tra i due Jajavascha sembrava muoversi con più sicurezza nella città, come se per lui non avesse segreti, così Pietro si lasciò condurre fiducioso, ignorando che nella vita ognuno ha tre tipi di amici: quelli che ci vogliono bene, quelli che non si preoccupano di noi e quelli che ci odiano. Le strade erano quasi deserte, la gente era rientrata nelle case; le luci accese proiettavano sagome in movimento dalle finestre ancora chiuse per impedire all'afa di entrare. Giunsero davanti all'ingresso chiassoso di un locale. I due compari si fecero un gesto di intesa e senza parlare si incrociarono sotto braccio ed entrarono. All'interno luci sgargianti, ragazze allegre dalle dubbie intenzioni e vestite in modo molto vistoso, nuvole di fumo e musica da night. Pietro si voltò interrogando con lo sguardo l'amico, pensando che forse avevano sbagliato indirizzo, ma quest'ultimo lo rassicurò subito con un sorrisetto furbo ed in fretta, senza neppure passare per il bar, Jajavascha gli accennò con il capo di seguirlo fra la folla sguaiata del locale. Si trovarono di fronte ad una porta secretata da un invadente tela ad olio che camuffava la porta e i muri in un unico grande dipinto. pag. 51 Vi era riprodotto il nudo di una butirrosa dama dallo sguardo sfavillante e la boccuccia a forma di cuore pittata di ros-
so. I capelli dorati come quelli degli angeli gli circondavano il viso rotondo. I peli più intimi, della stessa nuance, facevano risaltare il sesso che spavaldamente si imponeva sotto le pieghe del ventre, cullato dalle cosce tonde, chiuse e accavallate; Per assicurare la natura del proprio mestiere, la donna, con il dito indice laccato della mano proponeva di bussare proprio lì. La porta si aprì crepitando e una signora, più che stagionata ma ancora procace d'aspetto, gli si fece incontro. Sotto gli occhi nocciola, a testimonianza del fatto che possedeva ancora molti affezionati frequentatori, mostrava delle vistose ombre scure di stanchezza. La stanchezza che le procurava la generosità con cui si prodigava con ogni parte del corpo, per adeguarsi ai gusti e alle inclinazioni più diverse, della sua sceltissima clientela. Madam Lilik fu subito molto cordiale. - Venite carini, mettetevi pure a vostro agio. La donna aveva notato con la coda dell'occhio che Jajavascha, dalla tasca dei pantaloni aveva estratto un voluminoso rotolo di banconote, ma il sorriso le morì in bocca appena quest'ultimo, con un movimento lesto le ritrasse lasciandola con la mano a mezz'aria, senza darle il tempo di afferrare nulla. - Quel quadro fuori, non le rende giustizia Madam Lilik. Lei è più bella vista di persona, proprio come mi aveva riferito il nostro comune amico: Niko. - Ooohhh, capisco, Niko, ma certo! Per quanto riguarda questo signore sapremo di sicuro come sorprenderlo. Venite, venite con me. Niko, è stato qui ieri sera, me lo ha detto che sareste passati! Fece strada, intanto s'aggiustava il decolleté e con voce cinguettante ripetè l'invito. - Venite, di divertimento ce ne sarà per tutti e due con le mie ragazze migliori. Intanto senza neppure voltarsi con un gesto molto esplicito del pollice e dell'indice che sfregava insieme, si fece consegnare dal generoso Jajavascha quanto dovuto.
Nella piccola stanza poco illuminata, Pietro in principio, credette di essere solo. Si era chiuso la porta alle spalle, era rimasto lì granitico, senza avanzare neppure di un passo. Come uno scoglio a strapiombo sul mare, in attesa che i gabbiani lo raggiungessero per liberarlo da quella infinita solitudine. Con la mente libera dai sentimenti e con la voglia di accoppiarsi, nell'attesa lasciò gli occhi vagare qua e là. Il letto gli sembrava troppo grande per una stanza così piccola, neppure lo avessero posto prima di innalzare le pareti tutte intorno; un enorme specchio ellissoide era posizionato astutamente, per permettere all'occhio vojeristico del cliente di osservare ogni pertugio. Concluse che non era particolarmente differente dalle altre stanze di donnine che aveva già frequentato, tranne forse per il paravento, piazzato in un angolo della stanza, per lasciare alla ragazza un minimo di intimità, almeno mentre dava sollievo alle parti intime, fra un servizio e l'altro. Certo, pensò, quello era un posto di un livello più alto. Quello era un posto pulito, non uno di quelli in cui ti becchi subito lo scolo. Ad un tratto il silenzio si incrinò: dalla cannella di un lavabo dietro al paravento si udì scorrere un grosso getto d'acqua. Pietro capì che doveva ancora aspettare. Si accese una cicca per disimpegno. Poche boccate, ancora qualche secondo, finchè lo raggiunse, proveniente dalla medesima direzione, una voce di donna, resa rauca dal fumo di mille sigarette. - Mettiti pure comodo, sarò subito da te. Ti piacciono cose particolari? Preferisci quelle con il pelo biondo.o.Non essere timido, sono brava sai. Madam Lilik è molto contenta di me. Intanto che aspetti spogliati. Preferisci che lo faccia io? Non sarai mica uno di quegli sbarbatelli che non l'hanno vista mai... ho indovinato? E' la prima volta? Eppure quella voce.quella voce, anche arrochita, gli ricordava qualcuno e si convinse che seppur incredibile quella puttana l'aveva incontrata in qualche altro casino. Ma dove se pag. 53 non a Minsk. E tutti quei chilometri per sbattersi una di Minsk. Quel sospetto lo fece sorridere. Segnali di fumo si in-
nalzavano dal paravento ed andavano ad infittire l'aria pesante della piccola stanza. La ragazza sbucò fuori continuando ad espirare folate bianche che faceva uscire dal naso e dalla bocca. Quella densità e la scarsa illuminazione, acconsentita soltanto da una abat-jour in stile liberty, non permisero a Pietro di soddisfare subito la sua curiosità. Appena la vide bene, prima ancora che riuscisse ad articolare qualsiasi parola, colto alla sprovvista dallo stupore, senti il torace stritolato da una morsa di dolore. La donna non sembrò essere troppo sorpresa. Lo aveva riconosciuto subito. Appena l'aveva visto. Senza provare alcun imbarazzo. Gli puntò addosso gli occhi carichi di trucco, scintillanti come fari accesi nella notte. Lo sbeffeggiò, dimenticando il rispetto che una figlia dovrebbe al proprio genitore. - Ma chi se lo sarebbe mai immaginato di vedere qui il mio signor padre! Guarda guarda, dove ti ha portato il tuo solito vizio; ma ce li hai i soldi per pagare? Io non faccio sconti a nessuno, neppure a te. Neppure a Nicola che qui ci viene spesso, dice che sono la più puttana di tutte! Un tuono sprigionò un enorme boato che fece tremare le sottili pareti di carton-gesso. Un attimo prima il fulmine aveva illuminato a giorno la stanza rivelando il volto sconvolto di Pietro, mentre sbriciolava il mozzicone fumante di sigaretta nel pugno della mano. E lo ridusse in polvere. In gola sentì salire la bile ed il disgusto andava aumentando man mano che la figlia gli muoveva incontro qualche passo. Le mani delicate di Katiuscia poggiavano sui fianchi, disegnandone le fattezze perfette. Fiera e impudica con quel poco che la celava allo sguardo inorridito del padre, continuava il suo incedere. Un sorriso beffardo le alterava i lineamenti del viso, magro e prematuramente solcato da qualche piccola ruga vicina alla bocca e sulla fronte alta. Un altro tuono, ma il suo rimbombo non fu sufficiente a soverchiare l'urlo angustiato di quell'uomo che nella vita aveva centellinato ogni parola, ogni sillaba. Che sempre aveva provato verecondia nel-
l'esprimere i propri sentimenti e quando lo aveva fatto, convinto che la sua Nina neppure lo avesse compreso, si era sentito sollevato e salvaguardato, come un peccatore che bisbiglia dietro una grata nel segreto della cristiana confessione. La figlia lo derideva mentre narrava le infami intenzioni di Nicola. Il fratello spesso le diceva ridendo, prima di andarsene, che un bel giorno l'avrebbe fatta sbattere da quell'alcolizzato del loro padre. - Vedrai mi diceva, vedrai quel porco del nostro vecchio quando avrà smaltito la sbornia, potrebbe anche avere la forza di saltarti addosso di nuovo. Io non ci volevo credere, che bastardi che siete tutti e due. Aaaaahhhhh. Quella risata esagerata, esasperata dell'emotività fu bruscamente interrotta. Katiuscia aveva cessato di ridere, di sognare una vita migliore, di vendersi ad ogni genere di uomo. Bello, brutto, giovane, vecchio, normale o storpio che fosse.o al proprio fratello. A venticinque anni, la sua linfa vitale s'era mischiata al sangue, che fluiva dalla profonda ferita alla tempia. Era rimasta fatalmente inerte, con gli occhi increduli e fissi verso il padre, senza aver avuto il tempo di pentirsi dei suoi numerosi peccati. Senza aver potuto perdonare tutti quelli che l'avevano martoriata nell'animo. Primo ed ultimo fra tutti Pietro, che dopo averle dato quello schifo di vita gliela aveva tolta. Lui non avrebbe voluto, e neppure lei avrebbe voluto ridere. Lei che non rideva quasi mai, perché nella sua breve esistenza, era stato più facile dar sfogo alle lacrime. L'orgoglio di un figlio nasconde amore. L'orgoglio di un genitore nasconde indifferenza. Quella era la colpa maggiore di Pietro. Ma non lo avrebbe ammesso, neppure di fronte alla morte che lo guardava negli occhi. Non era nelle sue intenzioni usare tutta quella violenza. Quante volte da bambina l'aveva picchiata per molto meno. Cento, mille volte? La colpa, pensò, non era sua, era di Dio che aveva permesso pag. 55 a quell'orrore di accadere. Si di Dio che non aveva misericordia per i poveracci come loro.
- Che cosa ti abbiamo fatto. Perché hai scagliato ogni disgrazia? Urlava forte. Aveva cercato di sollevare il corpo di Katiuscia ed aveva perso le speranze di trovarvi ancora un alito di vita. Entrambe le pupille le erano scomparse dietro le palpebre, i suoi arti erano completamente persi e la nuca flaccida. Allora delicatamente l'aveva sfiorata sulla fronte insanguinata,con la stessa perfida mano che l'aveva colpita, e la depose mortalmente pesante sul letto. Aprì la finestra e si lanciò nel vuoto. Cadde con un tonfo sul selciato bagnato e scivoloso. Rimase a bocca aperta, gli occhi come specchi riflettevano il cielo tempestoso, intanto si sorprendeva che la morte poteva essere meno dolorosa della vita. La pioggia aveva continuato a scrosciare sul corpo agonizzante, scomposto da quel volo che non gli avrebbe lasciato ancora molto tempo. Ci voleva questa pioggia - fu il suo ultimo pensiero, e non urlò. Le due bare giacevano appaiate su un camion, ce le aveva caricate il becchino. Su ognuna invece dei fiori c'era bollettato un foglio con i nomi per distinguere una salma dall'altra. Quando il camion si avviò, soltanto Nina, finchè potè lo inseguì, sotto gli occhi indifferenti dei vicini. Maria per l'occasione si era ubriacata ed era rimasta tramortita sul tavolo al posto dei feretri. I primi mesi di lutto Nina li visse sentendosi pervasa da una profonda tristezza. A volte si ritrovava a piangere senza un apparente motivo. La scomparsa improvvisa dell'amato padre, le aveva tolto l'illusione che anche per lei poteva esistere l'amore. La morte della sorella le aveva ucciso i sogni. Nessuno l'aveva portata a visitare le tombe di quei cari. Le era stato impossibile depositare un solo fiore sopra la terra ancora soffice. Più i giorni trascorrevano, più i ricordi si affievolivano. Della sorella, le rimaneva soltanto una foto, che teneva ben nascosta in una intercapedine del muro, dietro la stufa di ghisa. Aveva il timore che la madre gliela potesse strappare o profanare dato che l'aveva veduta diverse volte mentre vi sputava sopra. Quella solitudine sarebbe stata
troppo per chiunque da sopportare. L'inverno che si stava affacciando di nuovo, prometteva temperature piuttosto rigide. Di legna da ardere in casa loro non ce ne era quasi mai. A corredare il tavolo c'erano rimaste solo due sedie. Le altre Maria le aveva inesorabilmente incenerite nella stufa in cambio di un po' di calore e per cucinare qualche zuppa d'aglio. Capitava che madre e figlia restassero per giorni e giorni con i cappotti indossati, e senza lavarsi neppure il viso, perché l'acqua gelava nelle tubature. Senza denaro non era possibile neanche acquistare la vodka. L'astinenza da alcool era per Maria sempre più spesso causa di terribili crisi, durante le quali vedeva e sentiva cose, che in realtà non esistevano. Forse erano gli spettri di un passato senza futuro ad affollare i suoi incubi, che ad occhi spalancati la facevano urlare, imprecare e chiedere aiuto. Nina piangeva ed aveva paura quando la vedeva irriconoscibile, madida di sudore, con gli occhi iniettati di sangue, martellare con i pugni il muro fino a spellarsi le mani. Fino quasi a fracassarsi la falangi. Più volte le era corsa in aiuto Jajalona che di stazza robusta riusciva ad immobilizzare Maria fin quando si placava, e cadeva vittima della catalessi. La cose per Nina e la madre, sembravano cominciare ad andare un po' meglio dopo che gli fu concesso il sussidio di povertà. Quel giorno, dalle contentezze, Maria aveva afferrato Nina per i polsi, e l'aveva coinvolta in un goffo girotondo, canticchiando una grottesca tiritera che un po' aveva inventato ed un po' faceva parte dei suoi ricordi di fanciulla: "Su-su bambina bella! Su-su mia colombella! La vecchia strega ci hà rovinato, vecchia strega serpente spietato. Essa t'ha tolto il padre adorato, si vostro padre - e fece un inchino - il mio caro marito - rise di gusto a "caro" e continuò sghignazzando - io nel ruscello l'ho affogata e con la vodka mi sono ubriacata." pag. 57 Le ci volle del tempo per riprendere fiato, molto più di quello che impiegò per sperperare quella miseria. Ogni fine del
mese, Maria indossava l'unico abito degno di essere chiamato tale, sulla pelle escoriata dalla scabbia, senza lavarsi via nĂŠ lo sporco nĂŠ il prurito. Quasi di corsa raggiungeva l'ufficio postale di zona. Si faceva consegnare dall'impiegato i pochi rubli per precipitarsi in drogheria. Comprava parecchi litri di vodka ed in mancanza di questa, il meno economico tzinandali, un vino bianco e secco ricavato dalle uve raccolte sui costoni raccolti in pieno sole. Neppure un leggero senso di colpa le affiorava, al pensiero che a casa c'era Nina, che a sette anni pesava venti chili scarsi, e soffriva di ansie e attacchi di panico, a causa del suo vizio. Neppure un briciolo di compassione, si annidava in quel cuore di madre snaturata, che consumava ogni rublo lasciando la figlia languire. Per Nina non era quella l'angustia peggiore, ma era quel grido improvviso e rauco, che contrassegnava l'inizio di una crisi piĂš brutale della precedente. Maria cadeva a terra con violenza per l'irrigidimento di tutta la muscolatura del suo corpo, che poteva durare anche alcuni minuti. In quella fase la poveretta serrava la lingua fra i denti, la respirazione si arrestava, tanto da renderle il viso cianotico. Un attimo prima del soffocamento, i polmoni riprendevano vigore, ma a causa dell'apnea prolungata, accadeva convulsamente, squassandole il torace. La bocca schiumava e a terra fluivano le urine. A tanto male subentrava un completo rilassamento, un sonno ristoratore, che si intuiva dall'abbandono del volto pallido e madido di sudore. Per una o piĂš ore, ella restava a terra, distesa sul piancito lurido, e al risveglio di solito non ricordava nulla. Non era mai stata consapevole del terrore che frustava Nina, che la schiacciava contro la porta. Sua madre pensava solo a restare nel suo mondo, un mondo in cui la figlia era di troppo. Eppure mentre dormiva sfinita sul pavimento, soltanto lei c'era. Le aggiustava i capelli scarruffati con devozione, e le ripuliva scrupolosamente la bocca, chiusa e incrostata come un bocciolo di rosa, infestato dall'oidio. Le accostava le vesti umide e disordinate. Dopo averla asciugata tutta intorno, la ammantava con una vecchia coperta rossa. Mai avrebbe sa-
puto che le restava accanto tutto il tempo in piedi a sorvegliarla, vigile guardiana del suo respiro; ad ammirarla, perché la sua mamma col viso rilassato, circondato dalla coperta rossa le sembrava ancora bella; il rosso vicino al volto incolore le donava molto. Jajavascha non era più ricomparso dal giorno in cui, Nina con eterno tormento, aveva veduto il suo papà e lui farsi piccoli piccoli fino a scomparire all'orizzonte, con le loro valigie di cartone, con gli spigoli rinforzati corrosi dal tempo lontano delle illusioni. Ella oramai non lo temeva più, non perché si sentisse in grado di contrastarlo, al contrario, perché mai come allora la vita l'aveva indebolita e spaventata. Persino rivedere il viso terrigno di quell'uomo, in quel difficile momento, gli appariva più rassicurante dell'ignoto. Fin quando un giorno, Nina stessa aveva assistito di nascosto all'ispezione di due poliziotti, che erano venuti nel condominio per interrogare la gente, ed avere notizie recenti su di lui. Ma ognuno giurava di non averlo più veduto da diversi mesi. Ne avevano perquisito l'appartamento che sembrava proprio disabitato da tempo. Era turbata. Con le sue orecchie li aveva sentiti parlare di un misterioso cadavere che era stato ripescato nella Moscova. Sembrava a tutti gli effetti corrispondere all'identikit di un certo Jaska Feliks, meglio conosciuto nell'ambiente malavitoso come Jajavascha. -Ci risulterebbe... essere stato questo il suo ultimo recapito. Guardi la fotografia signora. Cioè, la guardi ma non è un bello spettacolo. Le diceva uno dei poliziotti. Un'omone enorme, che faticava a entrare nella divisa. Con la cicca in bocca, che masticava a bocca aperta. pag. 59 - Allora, me la fate vedere o no questa foto? I due agenti colsero l'occasione. Quello più anziano, con i baffoni grigi come i capelli, estrasse dalla tasca dell'eschimo
verde pistacchio una cartolina sfocata. - Le dicevamo che fa impressione, perché il cadavere è stato in acqua molti giorni, quasi un mese per l'esattezza, fin quando non è andato ad incagliarsi alla prua di un barcone per gite turistiche sulla Moscova. - Cazzo! Disse la donna, mettendosi una mano davanti alla bocca per trattenere altre imprecazioni. - Se lei ci dice che può essere lui, noi chiudiamo qui il caso e non ci stiamo a perdere altro tempo. - Dio Santissimo del cielo! E' talmente mal ridotto! Cosa volete che le dica.era alto e ben piantato, questo non è rimasto che una poltiglia. - Hanno tentato di scioglierlo nell'acido, ma se guarda il braccio destro c'e un grosso tatuaggio ancora ben visibile, un drago. - Sentite per me potrebbe essere lui, ma se volete qualche certezza in più, chiedete a Maria Sadkova, lei si che lo conosceva bene, mi sono spiegata? - disse ammiccando - Il fatto è che la troverete sicuramente ubriaca. La figlia è troppo piccola e poi è un po' così - e si picchiettò la testa con il dito indice per far capire meglio. I poliziotti, stavano per girare i tacchi, quando la donna li trattenne un attimo. - Adesso che ci penso, non so se vi può essere utile, ma se ne andò a Mosca con il marito di lei, e da allora non si è più fatto vivo. Anzi nessuno dei due è tornato perché l'altro, Pietro Sadkova dopo aver ammazzato la figlia s'è buttato da una finestra. - Molto strana questa coincidenza. Vero Jan? - Vero Micael. Grazie Signora per noi il caso è chiuso. - Giusto Jan. I due le strinsero la mano riconoscenti, quasi stritolandogliela. Jajalona li vide mentre salivano sulla loro auto di servizio. Sembrava proprio avessero una gran fretta di allontanarsi dato che sgommarono via e in un attimo li perse di vista. Non volevano perdere altro tempo dietro a quel balordo
di Jasca Felix, alias Jajavascha. Ladro, sfruttatore di donne, ricettatore, mercenario del malaffare, sempre al servizio di qualche boss della malavita. Qualcuno aveva voluto chiudergli la bocca per sempre, infatti quando l'avevano ripescato l'aveva ancora tappata con uno straccio. Nina era rimasta tutto il tempo dietro la porta socchiusa, col fiato interrotto, il cuore in gola le gambe tremolanti. Era rimasta ad orecchiare per la paura che la milizia era giunta fin lÏ, avvisata dai vicini, per portarle via la madre sempre piÚ forsennata. Invece non tardò ad arrivare il giorno in cui una giovane assistente sociale, accompagnata da due donne poliziotto, andarono per portare via lei. Qualche sera si e qualche sera no, la stufa veniva accesa ma la canna fumaria era occlusa dalla fuliggine. Il fumo inondava la stanza, ma almeno un po' di zuppa calda aggiustava lo stomaco. Qualche cucchiaiata appena, e una lingua di fuoco uscÏ dai giunti d'acciaio della canna fumaria che aveva preso fuoco. La fuliggine aveva fatto da combustibile e la coperta di lana rossa, stesa nelle vicinanze, aveva propagato le fiamme al resto della stanza. Nina e sua madre erano rimaste prigioniere di un doppio inferno. Giusto in tempo erano state salvate da quella morte orribile quando ormai i loro polmoni erano saturi del fumo intenso e nero, che impenetrabile come una notte senza luna, le aveva avviluppate mentre cercavano una via di scampo. Il quartiere e tutto l'angolo di mondo che vi gravitava intorno, seguiva gli sviluppi dell'incendio che stava bruciando la palazzina come un fiammifero. Spaesati e annichiliti non erano stati in gradi di gettare sulle fiamme neppure una brocca d'acqua. I vetri dilatati dall'intenso calore erano scoppiati reboanti. Il rumore breve e forte fu accompagnato dal grido degli astanti impauriti. Come la deflagrazione di una bomba, l'esplosione aveva messo in scena uno spettacolo tale da ripagare il pubblico. Quando l'incendio fu domato, del condominio di via Majakovskj c'era rimasto ben poco. In aria, per tutto il giorno successivo, avevano conti- pag. 61 nuato a volteggiare pennacchi di cenere. L'edificio era ancora fumido quando i vigili del fuoco entrarono ed accertaro-
no che la miccia si era accesa nell'appartamento a pian terreno. La folla era indignata. Ognuno si sentiva in diritto di poter accusare, bestemmiare, ed inveire contro la donna e sua figlia. Qualcuno diceva - dall'appartamento del pian terreno, quello di sinistra.-Quello dove ci abitano la vecchia con la figlia mentecatta? - quella vedova che il marito s'è ammazzato?- e qualcun altro precisava - s'è buttato dalla finestra, prima però aveva massacrato la figlia - e ancora - quella che se era andata a Mosca e poi s'era messa a fare la puttana - i più informati aggiunsero - ha anche un altro figlio, gira voce che se ne stà a Mosca, pure lui è un poco di buono, si è arricchito ma .certamente non è uno stinco di santo.un assassino, un capo clan - forse ha cercato di uccidersi anche la vecchia e poi. - In tanti chiedevano giustizia - che Dio le ripaghi con la stessa moneta per tutto il male che hanno fatto! E lei, al manicomio la dovrebbero mettere, lei e quella scema della figlia. Nina non era mai entrata in un ospedale. A sua memoria non aveva mai incontrato un medico. Tutto intorno era pulito, tutto era bianco. I camici del personale sanitario, le coperte sui letti di ferro, le piastrelle dei pavimenti, i muri delle lunghe camerate, i volti diafani e tribolati dei malati. Non aveva riportato ferite. Per l'intera giornata era rimasta al capezzale della madre, che invece dalle mucose infiammate buttava fuori continuamente catarro. Come la lava di un vulcano colava scivoloso e giallognolo dal naso, oppure le esplodeva dalla bocca in milioni di goccioline trasparenti. Quella sera Nina si era sentita, dopo tanto tempo, protetta accudita e sfamata. Le sembrava insolito che nessuno la facesse sentire strana. Tutti erano gentili e le parlavano a bassa voce. Da quella sera la sua vita sarebbe cambiata radicalmente. I medici l'avevano visitata, e lei nonostante avesse la timidezza di un riccio, li aveva lasciati fare fiduciosa. Non arrivarono a formulare una diagnosi certa e comune, si accontentarono di constatare un importante ritardo mentale congenito, aggravato dalle degradanti condizioni familiari. Poi visitarono Maria, denutrita e alcolizzata sull'orlo della
schizofrenia, completamente incapace di provvedere a sé stessa, ancor meno alla figlia. Appena le condizioni della donna l'avrebbero permesso sarebbe stata ricoverata in una clinica psichiatrica. Tre donne avevano trascinato via Nina e a nulla le era valso sputare, scalciare e tirare pugni in ogni direzione, con una forza che neppure lei credeva di possedere. Come in un blitz militare, l'avevano caricata in automobile, senza spiegarle nulla di quello che ai suoi occhi appariva un incomprensibile rapimento. Proprio ora che aveva provato a fidarsi di qualcuno. L'edificio, costruito durante il regime stalinista, era grande, squadrato, austero e silenzioso. Un'enorme colata di cemento che rendeva quella campagna ancora più grigia e desolata. Sembrava più un carcere atro e gelido che un luogo per ospitare adeguatamente bambini di ogni età. I faggi che lo circondavano da ogni lato, in primavera gli regalavano un aspetto più bonario, ora erano nudi e rinsecchiti, invalicabili e temibili, come un trafiggitore filo spinato. Un grande cancello di ferro rugginoso ed un alto muro di mattoncini rossi, costringevano i piccoli ospiti a riporre ogni speranza di fuga. Era quasi buio quando Nina e le sue aguzzine lo varcarono, pochi attimi ed anche il portone dell'istituto pesante come un macigno si sarebbe chiuso alle loro spalle. Stretta fra quelle donne, impaurita e sconfortata s'aggrappava al ricordo del padre, come faceva a casa davanti alle prove emotive più difficile per infondersi coraggio. Povera Nina che si raccomandava al suo papà, e che appena le avrebbero tolto i suoi straccetti per infilarle il pigiama, l'avrebbero spogliata anche dei suoi ricordi. Poche gocce di valium l'avrebbero cullata meglio di qualsiasi carezza. Anche lei come voleva "umanamente" la prassi, avrebbe trascorso i primi giorni in istituto in una artificiosa tranquillità. Senza riuscire a provare odio per il mondo. Il mondo che l'aveva derisa, disprezzata, ripudiata cominciando ad infliggerle quel castigo, un pag. 63 corpo sgraziato che la rendeva inamabile agli occhi di tutti. E mentre le sue palpebre si sarebbero fatte troppo pesanti,
non avrebbe desiderato più né la mamma né il papà, né la fotografia della sorella, ma avrebbe desiderato più di tutto succhiarsi la lingua che sapeva di arancio, di caramello di pace. In istituto ci si alzava perentoriamente alle sette. Le lunghe giornate di dodici ore erano scandite oltre che dal pranzo e dalla cena, da tediose ore di studio, concentrate al mattino. Generalmente, il pomeriggio era dedicato alle attività pratiche, a quelle sportive e allo svago per i più piccolini. Ci si alzava tutti insieme, si mangiava tutti insieme e si andava a dormire tutti insieme. La dura disciplina era alla base dell'educazione che veniva impartita negli istituti, che ve ne erano diversi sparsi nel paese. Di famiglie sfasciate ce ne erano molte, di madri e di padri disoccupati ed ubriaconi anche. A soffrirne erano i figli che spesso venivano abbandonati a se stessi fin quando lo stato si faceva carico della loro educazione e del loro mantenimento. Nessuno si preoccupava di dar loro affetto e protezione. Allevare bambini in un contesto tanto burocratico, era come allevare animali nelle stalle. Tutti i bambini, piccoli angeli senza cielo, che come Nina, non si sapeva neppure da dove provenissero non potevano essere adottati. Erano costretti a restare in quel luogo fino alla maggiore età. L'istituto si prefiggeva di prepararli al duro lavoro, senza fargli conoscere la vita che li avrebbe attesi dopo, che li aveva disarcionati e che non li avrebbe serviti bene neppure dopo. Non c'era solidarietà nei confronti dei compagni di sventura. I più forti si accanivano sui più deboli, proprio come nelle più impietose leggi della natura. Nina lo avrebbe imparato presto a sue spese, perché fu subito travolta dall'aggressività fisica e verbale di questi ragazzini, che a detta della direttrice, erano nati storti. Uno di loro, uno dei più esuberanti, appena la scorse attraversare la sala mensa per raggiungere il posto che le era stato assegnato, la additò immediatamente. Tutti si voltarono verso di lei. Silenzio. Quindi s'alzò da tavola per attirare l'attenzione affinché i più lo stessero a sentire. Aveva un visetto a dirne bene dispettoso, sotto al casco di capelli ricci e rossi, il naso largo come una pannocchia di granoturco e gli
occhi marroni come due castagne. Provò ad arricciare la bocca un paio di volte, grattandosi contemporaneamente la testa con una mano e sotto l'ascella con l'altra. - Ragazzi, ringraziamo la nostra signora direttrice Ludmilla per averci regalato questa bella scimmia! Avanti scimmia, balla per noi! La sala si riempì di risate scalmanate, i bicchieri tremavano sui tavoli tanto era il fragore. Qualcuno tentò di colpirla lanciandole addosso pezzi di pane. Nina scappò via, andandosi a nascondere in infermeria, giurando che non ne sarebbe più uscita. Le sorveglianti con fatica riuscirono a riportare un po' di ordine nella mensa. Nina saltò sia il pranzo che la cena. Il tempo passava ma lei non riusciva ad abituarsi a quel posto. Le faceva paura, le creava ansia, panico, infelicità, insicurezza, pianto. Bambini nemici di altri bambini, impegnati a combattere per la sopravvivenza. Per una tazza di latte in più, per una punizione in meno. Le insegnanti lavoravano sui loro piccoli allievi senza passione. Come l'operaio che avvita i bulloni nella catena di montaggio. Tutti i bambini avevano un soprannome. Nina era "la scimmia". Ormai non la faceva più piangere. La sua vicina di letto la chiamavano tutti "la pisciona" perché a quasi undici anni di notte bagnava regolarmente il letto. Alyosa era detto "lo sciancato" perché il padre a forza di picchiarlo gli aveva sbriciolato un femore rendendolo zoppo. Poi anche se erano difficili da incontrare c'erano Vladimir "il lupo" e Giorgij "il pazzo". I due bambini avevano perso l'uso della parola, a causa delle terribili violenze che avevano subito. Vladimir , trascorreva la maggior parte della giornata rintanato sotto al suo lettino. Come fosse una cuccia dormiva acciambellato a contatto del pavimento, mangiava e beveva direttamente con la bocca dal piatto. Chiunque si trovava a passare vicino alla sua camera ringhiava ed abbaiava, per difendere il territorio. Innaffiava tutto intorno imitando pag. 65 l'istinto che accomuna tutti i cani. Tutti i cani come lui. L'avevano carcerato in istituto da poco e la direttrice lo ave-
va definito una caso disperato. Aveva alle spalle una assurda storia di abbandono. Ne avevano parlato anche alcune trasmissioni televisive. Di notte, la madre stanca della dura ed erma vita di montagna, se ne era andata quando lui aveva si e no due anni. Il padre, deciso a ritrovare la moglie per romperle l'osso del collo, aveva atteso che si facesse giorno aveva preso due stracci e dopo aver picchiato il cane era partito senza voltarsi mai indietro, lasciando Vladimir in balia di se stesso, nella casupola isolata fra le montagne aspre del Caucaso. Unico essere vivente a prendersi cura di quella creaturina era rimasto il cane, che non aveva voluto andare con il padrone. Da lui il piccolino aveva imparato a correre a quattro zampe, ad abbaiare per comunicare, a sopravvivere nel bosco come un animale selvaggio. La bestia, in contrasto con la sua natura, gli aveva dimostrato amore e umanità. Il posto era talmente romito che ci vollero anni prima che qualcuno passando da quelle parti notasse la strana coppia. Le autorità stentarono a credere nell'esistenza di un bambino che correva gattoni affiancato e protetto da un grosso cane ringhioso. Quando l'accalappiacani li aveva catturati, Vladimir aveva sette anni e la bestia dieci. Da troppo tempo vivevano l'uno per l'altro, ma erano stati divisi, con una crudeltà che avrebbe dovuto appartenere più agli animali che agli uomini. Dopo aver incontrato Nina, Vladimir aveva cominciato a ricongiungersi al genere umano, e con lui anch'ella si era sentita meno triste. Successe un giorno, uno dei tanti, perché l'ha era difficile distinguere il martedì dalla domenica. Nina gironzolava per i corridoi e si trovò davanti alla porta aperta di una piccolissima stanza, di uno sgabuzzino, di un vagone letto di un treno. Incuriosita, timidamente provò ad entrare, ma una mano fredda le afferrò la caviglia per bloccarla. Il dolore di un morso le rese le gambe molli. Tutta la stanza cominciò a girare vorticosamente, un forte ronzio alle orecchie contribuì a farle perdere coscienza. A quello svenimento fece seguito il risveglio più piacevole
che avesse mai ricordato. Una carezza morbida e umida che lambiva il viso e le mani, poi di nuovo correva sul viso e sulle mani. Adagio, destata da quel godimento Nina riprendeva conoscenza e riapriva gli occhi, nonostante le palpebre fossero ancora pigre. Fra le ciglia folte intravedeva il viso docile di Vladimir. Aveva la lingua fuori fino a metà mento e lo sentiva alitare sulla fronte. Continuava a lisciarla e faceva la spola dalla mano alla fronte. Per l'uno e per l'altra fu l'inizio di un legame forte, di grande amicizia, di simbiosi. Al contrario quel rapporto cosÏ profondo fece preoccupare la direttrice, che in anni di esperienza era stata testimone della nascita indesiderata di bambini da parte di altri bambini. Il ripetersi di una simile situazione non avrebbe giovato al buon nome dell'istituto, ma soprattutto al suo incarico di istitutrice. Pensò bene di scoraggiare quel sentimento allontanando Nina dall'istituto. Tutti gli adulti cui aveva consegnato la sua ingenuità l'avevano tradita. La direttrice, omettendo di chiedere alla bambina se volesse partire, glielo impose e basta.
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Capitol o Q uart o GIULIA
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Sul tavolo del soggiorno era tutto pronto: le chiavi della mercedes, gli occhiale da sole di Gucci e tutti i documenti per la bambina. Non ultimo un grande mazzo di rose color vermiglio. Giulia raccolse tutto e saltò in macchina lasciando dietro di sé una nube bianca di polvere che stentava a dissolversi. In quel primo giorno di giugno, il caldo era esploso e lei era contenta di poter offrire alla sua ospite appena giunta uno spirito sereno. La ghiaia del viale cricchiava sotto ai suoi passi sicuri, fin quando non era giunta davanti al sorriso rassicurante stampato sul ritratto del padre. La terra traspirava tutta la serenità di cui s'era nutrita, dal giorno in cui era stato sepolto all'ombra di un grande cipresso, nel pieno rispetto delle sue volontà. - Ciao papà, è arrivato il gran giorno. Però posso trattenermi poco, lanciami un bell'imbocca al lupo. Mai come oggi ne avrò bisogno. Spero di piacerle, perché ho una gran fifa, ho lo stomaco annodato, proprio come quel giorno. in cima al ponte. La mente ed il corpo, i cui muscoli erano tirati come le corde di uno stradivari, rivissero in un baleno, lo smarrimento di quella sera, quando ormai vittima della depressione aveva deciso di farla finita. Avrebbe concluso la sua esistenza con un viaggio senza ritorno; Allora aveva raggiunto Spoleto in macchina ad una velocità assurda, fino al ponte delle Torri e dei suicidi. Era indegno quel nome paragonato alla suggestione che esercitava sul panorama, ma glielo avevano impresso per il disprezzo assoluto alla vita umana che aveva dimostrato sin dai tempi antichissimi in cui Lucrezia Borgia, che aveva governato sulla città, lo usava per sbarazzarsi di coloro che non gli erano amici. Perché da quel tuffo nessuno si era mai rialzato, neppure per miracolo. Anche se da quell'altitudine si poteva scorgere un paesaggio naturale impressionante ed unico. I poveri corpi, recuperati in fondo a quello sbalzo, oltre a dan- pag. 71 narsi in eterno, risultavano straziati in maniera disumana, come se una belva feroce avesse tentato di nutrirsene.
Il suo istinto di sopravvivenza aveva avuto la meglio sulla sua necessità di pacificarsi. Non le era riuscito di aleggiare nel vuoto e all'ultimo momento la paura aveva vinto sulla forza di gravità costringendola ad aggrapparsi con le unghie alle pietre centenarie del parapetto, restando vigliaccamente allacciata al ciglio del muro e alla vita. In quell'eremo, come una forza della natura, aveva dato sfogo al suo sconvolgimento mentale: aveva urlato, aveva pianto, aveva imprecato.aveva chiesto la forza per un nuovo tentativo, persuasa che il mondo intero glielo chiedeva, glielo gridava: ucciditi, ucciditi. Poi tutto sarebbe stato migliore. Fra le dita esili e sudate serrava brandelli di pelle e ciocche di capelli. Era inverno e faceva notte presto. Nel buio, dopo la furia, cadde nella calma naturale che sorprende la natura dopo l'uragano. Come un sacco svuotato scivolò a terra. Era troppo debole. Due carabinieri in servizio, durante una perlustrazione avevano avvistato Giulia svenuta e rannicchiata troppo vicino al precipizio. Sospettosi la accompagnarono al pronto soccorso. Lì le avevano consigliato di rivolgersi ad uno psicanalista. Intanto il medico che la medicava tentava di persuaderla a colloquiare con Don Gaetano, un prete energico che visitava gli ammalati dell'ospedale. Non per indottrinarli, ma per aiutarli a superare il dolore della malattia a coloro che non potevano sperare nella guarigione. Un piccolo altare adornava la cappella dell'ospedale impregnata dalle esalazioni dei disinfettanti. Una delle pareti era tappezzata di ex voto. Con gli occhi inchiodati sulla disperazione che era appesa al muro, non si era accorta subito dell'uomo piccolo di statura, magrolino col corpo di un banbino, che le si era seduto accanto. Possedeva un viso sereno ed un tono di voce gentile. Le aveva stretto fra le sue la mano sinistra procurandole un po' di imbarazzo. Quell'uomo le ricordava molto suo padre. Occhi grandi e neri, pieni di comprensione per la donna sconosciuta seduta nella casa del Signore, piegata dal suo dolore, fissavano il crocifisso. Non la guardarono mai, non volevano recarle imbarazzo. Lei prese a raccontare e lui non osò in-
terromperla. Lei pianse e lui le asciugò le lacrime. - La tua storia è unica e straziante come tante altre che ho ascoltato e per le quali le vene dei miei polsi hanno tremato. Quante volte con Lui, di fronte a tante cose terribili ci ho litigato! Mi hai posto molte domande, ma sapendo di deluderti io, un prete, non so darti le risposte. Mi hai chiesto se potrai ricongiungerti alla tua figliola. Grazie alla sua innocenza è fra le braccia di Dio. Io vorrei rassicurarti, dirti che tutti saremo accolti e ricongiunti ai nostri cari. No, non so se tutto questo è vero. Posso dirti quello che penso. Penso che vivere onestamente, ci eleva verso la vita extraterrena, pentirci dei nostri peccati è fondamentale. Il fatto che tu stia qui è il segno che stai imboccando la strada giusta. - La strada giusta avrei dovuto percorrerla tanti anni fa, quando ma figlia aveva bisogno dove ero? Tutti possono sbagliare ma non io che dovevo essere il suo rifugio sicuro. - Non sentirti una madre fallita. Nulla come sopravvivere ad un figlio è straziante. Anche prove così terribili si possono superare. E non è il prete ora a dirtelo, ma un uomo che ha sofferto ed ha creduto in Dio, dare noi stessi agli altri è l'unico modo per mantenere vivo chi non c'è più. Giulia lo guardò, non era sicura di aver capito perfettamente. - Ho conosciuto genitori che hanno dato il consenso per far espiantare gli organi del figlio per salvare altre vite. Coppie senza figli che invece di chiudersi nel loro egoismo hanno adottato quelli di altri. Se siamo qui deve esserci un motivo, quale miglior movente se non l'amore. Ora le tue ferite sono troppo fresche, l'angoscia profonda ti paralizza il cuore. Non perdere te stessa chiudendoti al mondo. Quando ti sentirai un po' meglio sarai tu a cercare qualcuno da amare, perché non si può vivere senza amore! Che sarà un cagnolino, una pianta, un malato, un anziano.addirittura un altro bambino! Sorella cara, tanto più la palla cade in basso, tanto più rimpag. 73 balzerà verso l'alto! Sii fiduciosa. Uscirono dalla cappella abbracciati da una sintonia che li costrinse a panificare altri incontri.
Giulia sfilò dall'involucro alcune rose, le depose nel vaso di alabastro, conversando con il morto con la stessa naturalezza di quando era vivo. - La mamma sta abbastanza bene, ma ho dovuto avvisare la responsabile della clinica che per qualche giorno non potrò andarci. Non sono preoccupata, mi terrò informata telefonicamente sulle sue condizioni. Mi consola che tu non possa vederla così. Non è rimasto più nulla della prepotente che era. Non mi fa più arrabbiare, anche perché molte volte non riconosce più neanche me. Da qualche tempo si è messa in testa che qualcuno le ha rubato tutti i suoi gioielli. Quelli che teneva nella bella scatola d'argento cesellata, sopra al comodino. Sono scomparsi da un sacco di tempo. Non ho trovato più neppure la scatola. All'inizio della malattia ha perso un sacco di cose. Controllò l'ora. Salutò e andò. Si voltò un'ultima volta e fece volare un bacio. Doveva deporre le altre rose, le più belle, quelle dal bocciolo intatto che come "lei" non avrebbero avuto il tempo di schiudersi; quelle che resistono nel vaso non più di due giorni. Appena ti riempi gli occhi della loro beltà, le ritrovi con il bocciolo piegato su se stesso e non sai dartene spiegazione tanto pensavi di averle ben accudite. Ah, se avesse potuto ricominciare da capo la propria vita, pensava amareggiata risalendo il marciapiede. Se avesse potuto avere un'altra faccia! Sapeva di aver perso la metà del tempo. Quello che le restava lo avrebbe dedicato ad essere come avrebbe voluto essere. Riprese fino in fondo il viale ben curato ed abbellito di foglie di acanto ed altri cespugli in fiore. L'ultima era la tomba di famiglia del marito, solenne come un monumento. Il tempietto era occupato dai suoceri e dalla zia Clara che non si era mai sposata ed era morta centenaria. Fra quelle sfioriture, giaceva lì da due anni, nove mesi, dodici giorni il suo bocciolo, la sua amatissima Amanda. La morte è la fine della vita ma non la fine di un rapporto d'amore. Il sentimento che ella continuava a provare per il marito e la figlia era indissolubile. Senza tempo e senza spazio.
Sistemò con gesti amorevoli i fiori, poi scostandosi qualche passo indietro li rimirò, gli sembravano perfetti. Di nuovo riaffioravano i ricordi a pungerle il cuore come spine. Erano gli ultimi giorni di vacanza al mare. Alle due del pomeriggio, la tavola era ancora apparecchiata. Le pietanze intatte all'ombra del pergolato di glicine, che tentava, ignaro del susseguirsi delle stagioni, una seconda fioritura. Giulia era molto seccata, ancora qualche minuto e avrebbe permesso ad Amalia di sparecchiare. La stava aspettando a pranzo da più di un'ora, ma Amanda come al solito, dopo aver cercato la lite, si era allontanata. Per tutta l'estate, l'era del pranzo immancabilmente coincideva con il momento delle rivendicazioni della figlia quindicenne, scorbutica e ribelle. Secondo Amalia, sola e fragile. Amanda aveva imparato ad usare le parole come coltelli, coltelli male affilati, che strappano la carne mentre lasciano ferite profonde. Giulia aveva cercato di non raccogliere le sue provocazioni, perché con la rabbia che le nasceva dentro non avrebbe fatto altro che peggiorare i loro rapporti. Tentava al contrario di smorzare quei fuocherelli che si accendevano continuamente nell'arco della giornata. Le si era avvicinata tentando di posarle un bacio fra i capelli aurei, ma la figlia non si era perduta di nuovo l'occasione per mortificarla. - Smettila di fare la mammina premurosa, tu non profumi di mamma, non profumi di niente.anzi no.puzzi di fumo di sigaretta. Questa casa sa di fumo da cima a fondo! Avrebbe voluto schiaffeggiarla, ma si era ritirata senza replicare. Quella era l'età in cui i giovani sono più vuoti di cervello, e sua figlia non le sembrava altro che uno sciocco mulino a vento. Dimostrandole la massima indifferenza aveva chiesto che le venisse servito il pranzo, mentre Amanda con sfrontatezza le comunicava, insensibile alle richieste della madre, che prima di tutto sarebbe andata a farsi una nuotapag. 75 ta. Godeva nel pensare che i suoi modi avrebbero ferito la madre, sempre con la mente altrove. Il mare le appariva placido ed invitante, entrò fra le onde
calde, come l'abbraccio di qualcuno che la faceva sentire amata. Più invitante dei piatti sciapiti dalla dieta, che le aveva fatto perdere il piacere di assaporare qualsiasi cibo. Ma più di tutto non sopportava la compagnia della madre e le sue moine senza slanci. Da poco più di un mese, Amanda, aveva iniziato a praticare con dedizione il nuoto. Le era diventato più vitale che svuotare il frigorifero. Ora nuotare le procurava un'eccitazione che la percorreva sotto pelle dalla testa ai piedi, l'acqua contribuiva a modellare il suo corpo acerbo. Brando era il più soddisfatto del suo impegno. Glielo aveva quasi urlato che se fin quando non fosse dimagrita non sarebbe tornato a trovarla. Che non voleva più vedere i suoi rotoli di grasso ballonzolare sulla spiaggia. Amanda sin da piccola era stata di corporatura robusta e durante l'adolescenza aveva accumulato parecchi chili. Gli aveva imposto una dieta dimagrante. Pensando al suo bene aveva detto, ma sotto sotto per ragioni sue particolari. In principio Amanda non ne voleva sapere. Discutevano continuamente per qualche grammo di pasta o un cucchiaio di gelato. Quello non era stato l'unico tentativo di imporle una regola alimentare. Ma a nulla erano valsi, perché in preda ad una fame nervosa incontenibile. Trascorreva tante ore davanti al televisore in compagnia di qualcosa da sgranocchiare, soprattutto si gratificava con i dolci. Poi a tavola con i genitori presenti mangiava pochissimo. Non se lo spiegavano come accadesse, ma di fatto l'ago della bilancia si spostava sempre più avanti, ed ogni volta Brando spezzava i piatti con i pugni, arrivando al punto di impartirle severissime punizioni. La costringeva a frequentare la palestra. Ma i suoi genitori non la accompagnavano mai, c'era sempre Amalia con lei. Appena tornavano a casa sentiva crescerle dentro una gran fame. Trafugava dalle credenze biscotti, panini ripieni di salumi, e ogni altro genere di leccornie. Giulia, dopo i primi scontri con il marito, nel tentativo di fargli comprendere che la loro figlia era troppo giovane per apprezzare le fattezze di un corpo longilineo, si era schierata
con lui. Amanda già non gli perdonava un sacco di cose. Non le perdonava di essere costretta a vivere più con la tata che con lei. Non le perdonava di non essere al primo posto nel suo cuore, dove c'era sempre lui, Brando. Anche lei lo avrebbe voluto tutto per sé, nonostante la considerasse una specie di deludente mostriciattolo. Brando era un uomo soggiogato da un forte senso estetico. Amava circondarsi di cose belle. Il suo senso predominante era la vista, l'unico capace di emozionarlo. Era quasi sempre via, in giro per il mondo, intento a creare ciò che credeva lo rendesse ricco e famoso. Non era certo un delinquente, un depravato, un ladro, un assassino...non c'era nulla di grave in lui, se non il peccato per cui la natura lo avrebbe condannato fino alla morte: l'insensibilità. Aveva costruito una villa meravigliosa sulle colline di Perugina. Aveva sposato Giulia, bella e giovane da cui pretendeva di essere venerato, senza rinunciare alle altre. Si era regalato una figlia dalla quale era giusto pretendere ogni possibile sforzo per far parte della sua idea di perfezione, in cui i sentimenti lambivano la vita, ma non la riempivano. Era giusto pretendere che Giulia si tuffasse dal loro motoscafo per nuotare fino a riva quando era ancora molto lontana. Un bel dispendio di energia per Amanda. Un po' di ciccia in meno, un po' di affetto in più. Quell'estate aveva imposto alla moglie di stare vicino alla figlia per controllarne la dieta. - Tu sei la madre, devi restare qui a controllare cosa mangia. Antonia aveva precise istruzioni sia per il pranzo che per la cena. Ma neanche a parlarne, l'altro giorno ho dovuto farle una scenata. Ca-nne-llo-ni, si canelloni al ragù, robe da matti. Io in questa casa non conto proprio nulla. - Sai quanto ci tenessi a venire con te a Londra! Non puoi chiedermelo! Tutta l'estate qui da sola. - Non sei sola, c'è tua figlia - Ma è anche tua figlia! pag. 77 - Sei tu la madre! - Giurami che non c'è nessun'altra... - Non ricominciare a dire sciocchezze, dai che poi diventi no-
iosa. Lei lo sapeva. Sapeva quanto gli piacessero le altre donne. Non era noiosa, era impaurita, era certa che prima o poi l'avrebbe perso. Sapeva anche che non era il tipo che mandava per le lunghe le discussioni, se prendeva una decisione nulla poteva farlo tornare sui suoi passi. Il controllo che pretendeva di esercitare su entrambe era completo o quasi, dato che lo stomaco della figlia era l'unico in grado di contrastarlo. Giulia invece ne era completamente soggiogata. Era convinta di amarlo perché senza di lui non era in grado di pensare e di fare nulla. Per lei erano pelle nella pelle, un corpo solo. Senza di lui le sarebbe venuta a mancare la terra sotto ai piedi. Non era capace di opporglisi anche quando il suo comportamento era ai limiti della violenza, dell'inconcepibile. Giulia, come tutte le donne che avevano incontrato Brando erano soggiogate dalla sua sensualità. Sia che fossero giovanissime, vecchie belle o brutte, non avevano scampo. Lei se ne accorgeva ma faceva finta di non sapere. Solo così il loro matrimonio avrebbe potuto sopravvivere, e con esso lei. Dopo i primi screzi sembrava che la ragazza si fosse convinta a dimagrire, talmente convinta che nel giro di un mese e mezzo aveva perduto tredici chili. Il padre ne era molto fiero, il suo grassoccio e tozzo bruco si stava trasformando in una bellissima farfalla. Giulia aveva sospettato che sotto quel cambiamento ardeva qualche piccola passione. Come tutte le ragazze della stessa età, forse anche Amanda, era innamorata. L'idea che invece si stesse ammalando di anoressia non li aveva lontanamente sfiorati. L'unica presenza costante nella vita di Amanda era stata la sua amorevole Antonia, la tata. Più materna della madre, più comprensiva del padre, più vicina fisicamente di quanto lo fossero stati entrambi. Amanda la chiamava zia Atonia. Era lei che nel vederla con gli occhi pieni di lacrime per qualche dolcetto negato, gliene passava di nascosto, contrariamente a quanto le avevano chiesto di fare. Che moriva di pena quando, le sentiva fare certi discorsi contro i genitori. - Non gliene frega niente di me, sono solo degli stronzi egoi-
sti. - Tesoro, lo sai che non voglio sentirti parlare così della tua mamma e del tuo papà.che è sempre al lavoro e lei cerca di essergli utile, lo segue nei suoi viaggi.cerca di farlo sentire meno solo.sai quanto sono uniti. Dovresti esserne felice. Tu non immagini quante famiglie sfasciate ci sono, inoltre, hai il vantaggio non secondario di vivere in un benessere smisurato. Ai miei tempi da bambini giocavamo con le bambole fatte con le forcine di legno e... e non avevi tutti gli abiti che io posso permettermi di comperare ecc, ecc. Antonia, ti prego non fare l'avvocato delle cause perse. Sei veramente convinta che io sono felice perché mio padre costruisce case, compera gioielli alla mamma, tutti gli abiti che vogliamo, tutto, tutto quello che mi passa per la mente.ma un po' di tempo per stare con me, quanto mi costa quello? Quanto mi costa accontentarmi dell'abbraccio della mia cameriera? Antonia mortificata le aveva risposto rimanendo padrona di tutta la gentilezza che le apparteneva, senza il timore di guardarla dritta negli occhi. - Anche le cameriere hanno dei sentimenti, e potrebbero offendersi. Credevo che il mio abbraccio ti rendesse felice almeno quanto quello di una zia che ti vuole un mondo di bene. Ma quando si ama non si può fare a meno di perdonare. Vieni qui piccolina, vieni dalla tua Antonia. - Scusami - piagnucolò Amanda - hai ragione, vedi sfogo tutte le mie frustrazioni su di te che potrei considerare il mio unico e sincero parente. Sei stata la madre che avrei voluto per me. Non difenderli però, mi fai arrabbiare. Come mi fa arrabbiare lei, quando si dà da fare per spiegarmi di quale amore è capace di darci. Di quanto è stanco, di quanto è nervoso, di quanto soffre lontano da me. Te lo dico io chi è mio padre, è un nevrotico che gode nel torturare le donne che gli vivono affianco, anche con te, sono quindici anni che vivi qui, eppure ti tratta con un distacco! Che stronzo! pag. 79 - Smettila, ti fa male arrabbiarti così. - Mi fa male la loro indifferenza. Non gliene frega niente di me, li odio, li odio. Perché mi hanno messa in questo guaio,
che si chiama vita, se non mi desideravano! Solo per abbellire la loro, ma sono contenta di averli delusi. Ah morissi ora diglielo, diglielo che per colpa loro sono morta infelice! - Che bestemmi! La vita è la cosa più preziosa che ti hanno dato, amali solo per questo! - Li odio, e lei più di tutti e due! Scappava piena di rabbia in camera sua, attaccava la sua chiassosissima musica e piangeva, piangeva, poi si addormentava con il pollice in bocca. Antonia l'aveva cresciuta. Una piccola e insignificante donna sterile, l'aveva amata come fosse stata il frutto del suo seno e quando l'udiva esecrare contro ed inveire in quel modo lo prendeva come un suo personale fallimento, seppure segretamente era d'accordo con la sua figlioccia. Ora che si era messa in testa di dimagrire era più introversa e insoddisfatta che mai e fin troppo pallida. Amanda era dimagrita troppo e in così poco tempo. Temeva che si sarebbe ammalata se avesse continuato a nutrirsi di briciole. Le tornavano in mente i pezzi di cibo che aveva visto galleggiare nell'acqua del water, come minuscoli pesci nell'acquario. Mentre rassettava, nella solitudine della sua cucina, parlava spesso ad alta voce. Borbottava, rifletteva o preparava accuratamente ciò che doveva dire. - Vuole sapere che quella sciagurata quel poco che mangia lo vomita pure? Ah ma io alla madre glielo dico : " Signora ci deve stare più dietro a questa figliola!" e anche all'architetto: " Basta di dirle che è grassa, sua figlia era un'opera d'arte, così la fate ammalare. La lasci mangiare in pace, e invece di star sempre a costruire case la coccoli un po' di più. Come padre è una negazione e adesso se vuole mi licenzi pure!" Quando torneranno stasera, io cascasse il mondo non starò più zitta! Quella sera il maresciallo dei carabinieri e due dei suoi collaboratori entravano e uscivano dalla villa, il telefono squillava continuamente. Brando e Giulia da diverse ore avevano smesso di domandarsi perché Amanda non faceva ritorno ed alternavano i momenti di collera a quelli di preoccupa-
zione. Lontanissima sul mare, sola, Amanda non s'era resa conto che il capriccio di quel giorno avrebbe potuto diventare un gioco molto, molto, pericoloso. Sua madre, che non voleva credere che a casa loro poteva succedere una disgrazia, scrutava il mare da ore, consumando una sigaretta dietro l'altra, ansiosa di veder riaffiorare la figlia. Guardava fissamente l'orizzonte come si sfida un nemico. Ora si rendeva conto di quanto poco sapesse della figlia, se avesse avuto un fidanzatino, un luogo speciale dove appartarsi. Non sapeva neppure che avesse un diario. Smise di fumare e sentì il bisogno di pregare. Chiuse la testa fra le mani. "Dio ti prego, fa che non le accada nulla. Riportala qui da me, fammela abbracciare. Senza di lei non potrei vivere. Una madre non può sopravvivere alla propria figlia, sarebbe una punizione troppo grossa. Dammi la possibilità di rimediare ai miei sbagli." - Giulia.Giuliaaaa.. Fu interrotta dalla voce concitata di Brando che la esortava a raggiungerlo a riva. "l'avranno trovata, si l'avranno trovata, grazie!" Volava nel buio fitto incontro alla speranza di prenderla in braccio. Un sacco di coccole le avrebbe fatto. L'avrebbe rassicurata, ma questa volta non l'avrebbe rimproverata. Doveva dirlo anche a Brando che dovevano soltanto rassicurarla e abbracciarla. E basta! Affondava nella sabbia, ma correva veloce col cuore che sfondava la cassa toracica. L'acqua di quel pozzo buio era calda, il gommone accostava piano, silenzioso con le luci basse. Nessuno aveva il coraggio di parlare. Certi silenzi sono fin troppo eloquenti. I disperati singhiozzi di Giulia fecero rallentare ancora di più il gommone. Nessuno di quegli uomini avrebbe voluto riportare a riva quel corpo. Brando non sentiva ancora nulla. Perché non soffriva? Finalmente, con un gesto melodrammatico che gli venne spontaneo, anch'egli si lasciò cadere il capo fra le mani. Giulia da quel mo- pag. 81 mento non ricordava più. Un malore l'aveva soccorsa, così per parecchi giorni l'incubo aveva cessato di vivere. L'infar-
to, la febbre altissima, la voglia di morire ed altre complicanze, non le avevano permesso di abbracciarla, di vegliarla e neppure di seppellirla. Amanda se ne era andata per sempre e lei non l'aveva salutata. Si avvicinò al sepolcro, col cuore pesante come una pietra, per accarezzare il nome e la dedica che aveva voluto far incidere sulla lapide, seguita da una delicata poesia di Emily Dickinson, la sua poetessa preferita. AMANDA GORI 1990 - 2005 Amore mio Aspettami seduta affianco al sole La tua mamma "Alla loro intima stanza Nessuna oscenità osi accostarsi Inaccessibile questa dimora Ad alcuna persona fuorché Dio" Assolse lentamente al nome del padre. Lasciare quel posto le restava sempre difficile. Una volta, rannicchiata lì di fianco ci aveva trascorso l'intera notte.
C ap i t ol o Q u in t o NIN A E GIULIA
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Un gruppo di persone accaldate e coi visi sorridenti si scambiavano strette di mano solidali e sudate. Erano emozionati, stavano per diventare genitori. Per qualcuno era la prima volta. Gli altri, quelli esperti, propinavano consigli anche non richiesti, sulla base del loro vissuto. Giulia sentiva una grossa mano che gli attanagliava la gola. Era terrore. Pochi mesi prima don Gaetano le aveva parlato dei bambini bielorussi. Di quanto fossero bisognosi di essere accolti in Italia per respirare aria non contaminata. - Sai Giulia, era da un po' di tempo che ci pensavo. Volevo conoscerti meglio, essere certo che fosse arrivato il momento giusto, prima di proportelo. Prima di decidere riflettici bene qualche giorno. Spesso sono bambini intrattabili. Hanno sofferto angherie inimmaginabili, sono arrabbiati col mondo. Potrebbe essere un'opportunità meravigliosa per entrambi. Ora era lì ed il suo compito di madre adottiva si stava per compiere, ma la sua forza sembrava vacillare. La paura di trovarsi completamente sola di fronte a quella responsabilità stava sostituendo l'eccitazione. Glielo aveva detto il prete. - Non bisogna essere soltanto disposti a donare come dei ricchi e fortunati benefattori. Non hanno bisogno di ceste di giocattoli ed armadi straripanti di abiti. Sarebbe facile se così fosse. Lasciati condurre dal tuo istinto di madre. Solo così non passerai dall'euforia al "chi me lo ha fatto fare!". - Signora, la stanno chiamando. Se non sbaglio è lei la signora Gori, Giulia Gori? - Oh non sbaglia. Ero distratta. Grazie vado subito. Vorranno consultare i documenti di affido. Ci rivediamo più tardi. Entrando nel piccolo ufficio con lo sguardo cercò Don Gaetano, ma non le sembrava di vederlo. Chiese di lui e la volontaria dell'associazione la mise al corrente del leggero malore che l'aveva costretto a prendersi un paio di giorni di riposo. pag. 85 - I documenti non sono in regola? - No, no sono tutti in ordine. C'è di là la psicologa che le dovrebbe comunicare una cosa importante. Venga pure, la sta
aspettando nell'altra stanza. Giulia riempì i polmoni di aria, poi la spinse fuori con un unico lungo ansito, cercando di dominare l'irrequietezza. Si salutarono e la donna la pregò di accomodarsi sulla sedia davanti alla scrivania. Si presentarono, si strinsero la mano cercando di stabilire l'empatia giusta, per concedere ad ognuna la certezza di potersi fidare dell'altra. Ma la psicologa sembrava non arrivare mai al nocciolo della questione, fin quando Giulia glielo chiese apertamente. - Si, ma non mi ha ancora detto quale è il problema. - I documenti sanitari arrivano insieme ai bambini. Questa è la prassi. Noi dell'associazione, a chi è alla prima esperienza, affidiamo soltanto bambini sani. Questa bambina che è arrivata per essere affidata a lei è ritardata mentalmente o forse è affetta da sindrome di dawn. Il pullman che li sta portando dall'ereoporto sarà qui a minuti. L'ha detto l'interprete bielorussa. Ci dispiace, non lo sapevamo... se crede di non poterla accettare... noi lo capiremmo. La custodirà l'accompagnatrice che al più presto provvederà a rimandarla indietro. Nessuno gliene potrà fare un torto. - Come dawn. io non so... Disse più sbalordita che delusa. - Non si preoccupi, la rimandiamo in dietro con il prossimo volo disponibile, e gliene faciamo rimandare un'altra con i prossimi arrivi. " Rimandare indietro... prossimi arrivi..." Giulia rimase esterrefatta dal tipo di linguaggio della psicologa che stava parlando di una bambina non di un pacco. Sembrava la presentatrice di una televendita. La sfidò con lo sguardo, e con una sicurezza che la stupì per prima, le rispose che nulla le avrebbe fatto più piacere che accogliere quella bambina come fosse figlia sua. - Sarà la benvenuta, non vedo l'ora di abbracciarla. Uscì di corsa inciampando sulla zampa della sedia. Doveva rimanere qualche minuto da sola e riprendere fiato. Gli attacchi di panico erano sempre in agguato. Uscì nel piazzale gremito. I bambini erano arrivati. Qualcuno di loro piangeva, qualcun'altro si aggrappava alle gambe
dell'interprete. Altri correvano contenti incontro ai loro cari. Giulia non avrebbe mai dimenticato quegli occhi piccoli e marroni, cerchiati di stanchezza. Con le lagrime tremolanti che luccicavano sulle ciglia rade e corte. La scrutavano timorosi e attenti. Nina sapeva ben riconoscere nel volto di chi la guardava la repulsione, l'imbarazzo, la derisione o l'indiscrezione morbosa. Ma in quelli di Giulia non vi aveva letto nulla di tutto questo. Gli occhi di quella donna alta, bionda e molto carina avevano lo stesso colore azzurro di quelli di sua madre. Le due donne possedevano la stessa espressione dolorosa di chi fatica a vivere. Erano occhi che non avevano più sogni da guardare, perché quelli i Maria erano affogati nella vodka e quelli di Giulia nel mare profondo davanti a Sperlonca. Ci sono occhi che sono fatti per guardarsi, e quando si entra negli occhi dell'altro con amore è difficile resistergli. Senza parlarsi, si presero le mani, unite da un invisibile cordone ombelicale, come madre e figlia. Giulia nel buio assoluto della sua camera si girava e si rivoltava un po' a disagio, mentre divideva il suo letto con la bambina, che dormiva raggomitolata come un gattino. In un batter di ciglia, un sonnno profondo e affollato di fantasie, l'aveva sottratta alla stanchezza. Lei invece resisteva, desiderosa di prolungare l'emozione di quella lunga giornata. Da tempo aveva perduto l'abitudine di condividere qualsiasi intimità. Era molto tardi. Si alzò e si sporse un attimo fuori, sulla notte ricca di stelle, ad osservare la luna attaccata alla finestra. - Luna calante gobba a levante, luna crescente...gobba a ponente. Ti ricordi amore, ti piacevano così tanto le filastrocche di Antonia. Restami accanto, ti prego, non lasciarmi. Si sfregò le braccia nude, esposte all'aria umida. - Angelo mio, ho un sacco di novità. Non sarà facile. Nina, non è una bambina comune sai? Mi sono presa una grande responsabilità. So cosa stai pensando, tu che mi dicevi sempre che io i bambini non ero capace neppure di tenerli in pag. 87 braccio! I documenti dichiarano che ha otto anni. A guardarla non ne dimostra più di cinque. Sembra un animaletto sel-
vaggio, è denutrita, sporca. Povera bimba. Comunichiamo solo a gesti, ma sto cercando in ogni modo di capirla e di farmi capire. Mi fa tornare in mente una di quelle storie buffe che mi raccontava tuo nonno Sandro. Parlava di un poveraccio che al suo paese tutti lo chiamavano "Cincino". Aveva combattuto durante la seconda guerra mondiale ed era tornato sciancato e istupidito dalla paura e dall'orrore. Ma da allora non si era più tolto la divisa ormai lacera. Trascorreva le giornate bighellonando per le vie del paese e come ogni macchietta era soggetto allo scherno dei paesani, soprattutto per quella frase che non smetteva mai di ripetere: " l'hai fatto il soldato tu?". Lo chiedeva a chiunque, donne comprese. Per la sua pedanteria molti lo mandavano al diavolo. Il poverino era quasi sempre solo, finchè passò per caso davanti alla casa di un vecchio sordo, tenuto quasi sempre in disparte dalla famiglia. Cincino appena lo vide gli rivolse la solita domanda: " L'hai fatto il soldato tu?". Il vecchio tutto contento che qualcuno finalmente gli rivolgesse la parola, convinto di avere capito bene rispose: " No fiolo caro, io non vendo il podere". Per Ore stettero lì a parlare come se si capissero alla perfezione. Divennero ottimi amici senza che l'uno comprendesse i discorsi dell'altro. Sono certa che anche fra noi nascerà la stessa simpatia. Amanda, noi ci rincontreremo altrove ed io sarò per te la mamma che desideravi. Decise che era il momento di andare a dormire. A volte le sembrava di non sapersi occupare neppure delle sue cose, si chiedeva come avrebbe fatto l'indomani ad occuparsi anche di lei. La giornata sarebbe stata piena con Nina. Non c'era la cara Antonia ad occuparsi di loro. Se ne era andata subito dopo la morte di Amanda. Se ne era andata, perché di restare in quella casa piena di ricordi le faceva troppo male. Perché a lei e a Brando non li avrebbe mai perdonati per quella terribile disgrazia. - Debri degn' - Buongiorno! Nina la osservava, appoggiata allo stipite della porta, mentre si stropicciava con energia gli occhi appannati. Giulia
provò ad andarle incontro sorridente, ma la bambina all'inizio si ritrasse. Allora, facendo finta di non sentirsi preoccupata, andò in cucina a prendere il bricco del latte caldo e lo versò nelle tazze per fare colazione insieme. Al centro della tavola c'era un piattino di biscotti che profumavano di vaniglia e diversi quadretti di cioccolato alla gianduia. Senza staccare lo sguardo sorridente da Nina, le fece segno di sedersi vicino a lei. Desiderava davvero dimostrarle che poteva fidarsi di lei. Che lì non avrebbe trovato solo una casa per dormire e mangiare, ma anche qualcuno che avesse spento il televisore per ascoltare ciò che aveva da dire, qualcuno che l'avesse abbracciata nel caso ne avesse sentito il bisogno, che la tenesse per mano mentre attraversava la strada o solo per sentirne il calore. Nina mangiò con gusto e Giulia ne fu molto contenta e cominciò gia a pensare cosa avrebbe potuto prepararle per pranzo. Per lei che non sapeva cucinare non sarebbe stato facile irrobustire quel corpicino. Conveniva che acquistasse con urgenza un libro di cucina. Dopo colazione presero a disfare lo zaino con le poche cose che la bambina si era portata appresso. Il pezzo migliore era un terribile abituccio di poliestere rosa. Benissimo, rifornire il guardaroba di biancheria intima e quant'altro, sarebbe stato il modo migliore per trascorrere la mattina spensieratamente e per cominciare a conoscere i gusti di Nina. Poi nel pomeriggio sarebbero andate a sistemare il taglio dei capelli dal parrucchiere. Pranzarono in un bar del centro, pizza e coca. Mentre mangiavano Giulia pensò che sentirsi tutti gli occhi addosso era una delle sensazioni più spiacevoli che avesse mai provato. Alla prima uscita fu la prima cosa che dovette imparare suo malgrado. Nina l'aveva seguita senza mai protestare, né aveva mai chiesto di fare pipì, di mangiare, di bere, di sedersi. Era seduta, taciturna e stanca. Sembrava ancora più piccola e indifesa, ma era solo apparenza, perché quella mattina aveva dimostrato di essere più salda di un muro di cemento pag. 89 armato. Ovunque fossero andate Nina aveva calamitato gli sguardi dei passanti. Qualcuno era stato talmente insistente
che Giulia stessa ne aveva sentito il peso. Avrebbe voluto piangere. Si era sentita prima stupida, poi si era vergognata di aver provato troppe volte la tentazione di dire: "Non è mia figlia!". Nina invece aveva cercato la sua mano, e non si era lamentata della maleducazione della gente. Non le interessava di ciò che pensavano gli altri di lei, le interessava soltanto che Giulia fosse disposta a trattarla con gentilezza, perché le sue carezze e i suoi sorrisi la facevano stare bene. Giulia non aveva il vizio di bere, per questo era buona. La sua mamma non era cattiva, era ubriaca. In pochi giorni Nina aveva fatto un sacco di progressi. Capiva abbastanza bene l'italiano, anche se lo parlava male, mentre Giulia continuava a non sapere una parola di russo. Giulia aveva scoperto che a Nina piacevano moltissimo i libri di fiabe. Le piacevano più delle bambole e della televisione. Giulia si divertiva molto a leggergliele, poi Nina aveva chiesto di giocare con i colori e le matite. Le aveva chiesto di scrivere insieme e di leggere l'alfabeto. Nina era diventata molto brava. Era meticolosa quando ricopiava le parole che Giulia le scriveva sui fogli a quadretti. Era contenta e Giulia si sentiva orgogliosa, come un pioniere che scopriva una terra inesplorata. Quella bambina ogni giorno imparava con una passione ed una velocità che la commuovevano. Ora ne aveva la prova. Nina non era dawn, bensì era affetta da una malformazione che colpiva non di rado i figli di alcolisti cronici, la sindrome alcolico fetale. Il suo avrebbe potuto essere un deficit mentale minimo, ma nelle condizioni in cui era cresciuta si era aggravato. Purtroppo nei bambini come lei i lineamenti si presentavano sformati, al punto da sembrare partoriti da una scimmia. Erano già trascorsi un paio di mesi, era la sera di San Lorenzo, quando Giulia le raccomandava di guardare il cielo senza nuvole e imporporato di stelle, e di esprimere un desiderio appena avesse veduto cadere una stella. Erano sdraiate sul prato, immerse in un buio fitto e rassicurante. Poi Nina si lasciò uscire un'esclamazione di giubilo. - Eccola! E' bella.
- Dai, esprimi un desiderio! Ma rimase zitta, chiusa in un suo personale imbarazzo. - Allora? Che c'è, dai dopo non vale più! - Cos'è un desidio? - Non si dice desidio, ma desiderio. - Cos'è un desiderio? - Una cosa bella che tieni nel cuore e che vorresti diventasse vera. Ci sarà qualcosa che ti piacerebbe fare! Ma lei era ancora silenziosa. - Non posso crederlo, non c'è nulla che ti possa far felice? - Si, io volio vedere il mare, ma volio chiamarti come mamma, ma volio tornare da mia mamma russa Maria. Ora era Giulia ad essere rimasta senza parole. Era lei ad essere imbarazzata. Per la prima volta non sapeva cosa rispondere. - Io non posso scegli. Mi piace tutto. - Ma, per le bambine brave questa sera le stelle faranno un'eccezione. Tutti i tuoi desideri saranno avverati. - Perché, io sto brava? - Tu sei la bambina più brava che abbia conosciuto. - Alla io chiamo te mamma Giulia! - E, domani prepariamo le valigie che ce ne andiamo alla casa al mare! - Mamma, ti volio bene! Il giorno dopo, non le era sembrata più una buona idea quella di riaprire la casa di Sperlonca. Era chiusa da due anni. Da quel giorno non aveva più potuto entrarvi. Ma non se la sentiva di deludere Nina, che non faceva altro che chiederle quanto era grande il mare. Sembrava che dalla vita non si aspettasse altro che fare quel viaggio verso il mare. Quel momento sarebbe stato un bel ricordo, che sarebbe bastato anche per dopo, quando sarebbero state lontane. Il giardino della casa e la spiaggia erano praticamente una terra sola. Una volta, una mareggiata s'era portata via il cancello. Ricordava che suo padre e sua madre riuscivano a far pag. 91 fiorire di tutto in quel giardino, e il profumo dei fiori si mescolava a quello della salsedine creando un'essenza irripe-
tibile che le impregnava i capelli. Parcheggiarono sul retro e si precipitarono subito sulla spiaggia. - Ecco! Poi non parlarono più. La donna e la bambina erano uguali, provavano le stesse emozioni, e i loro occhi brillavano di una luce che non avevano mai visto nell'altra. Si abbracciarono con una intensità che attendevano da troppo tempo. Giulia si accucciò, raccolse una conchiglia, un regalo lasciato dalla marea a Nina. - Senti dentro c'è il rumore delle onde del mare. Prendila, la porterai in Russia. Immaginerai di avere i piedi sulla sabbia lambiti dall'acqua, il sole sul viso e il vento caldo fra i capelli. Potrai poggiarla sull'orecchio di mamma Maria e vedrà ciò che abbiamo visto noi oggi. - Mamma Maria è sola in ospetale. - Tu hai espresso un altro desiderio alla stella cadente. Forse lei ti ascolterà. - Speriamo mamma. La luce squarciò il buio. Le stanze ripresero a vivere. Suoni, aria, luce, fecero risorgere in Giulia l'amore per quella casa. Ogni giorno, rinascevano ricordi di ogni natura. A volte dolorosi, a volte sereni a riprova che malgrado tutto la vita chiedeva di continuare a sconvolgere la mente e il cuore. Il duro lavoro fisico di pulizia e di riordino della casa era stato un grande supporto psicologico, Nina che la inseguiva come un'ombra e la chiamava mamma da una stanza all'altra aveva fatto il resto. Mentre Giulia rastrellava il giardino formando mucchietti di foglie qua e là, Nina giocava e si divertiva con poco, proprio come era abituata a fare. La recinzione era costruita di friabile tufo, che nel tempo in alcuni punti si era sgretolata formando piccole grotte. Erano il nascondiglio preferito per lucertole e lumache. Nonostante le fosse stato vietato di infilarci le mani, Giulia si era accorta che Nina con le dita stava cercando di allargare il buco per estraree qualcosa. -Haa haa bambina disobbediente!
-Mamma Giulia guarda, c'è una cosa. - Fammi vedere.hai ragione.ora lo apriamo un pò di più per vedere.ohooo signore! Ma è la scatola dei gioielli di mamma! La sfregò con le mani per ripulirla dalla polvere e dalla muffa che ne avevano protetto il segreto. La aprì con cautela e nel fondo trovò una busta mucida. Dentro un foglio ripiegato in quattro, ancora ben leggibile. Era una lettera indirizzata a lei. “Giulia mia, lui non c'è più, ora sono qui, sola, chiusa nel suo studio, in preda a una serie di pensieri che di solito non mi appartengono. Le disgrazie, le malattie, la morte, le avevo sentite sempre lontane. Sapevo che potevano accadere, ma nelle vite degli altri. Io pensavo di avere già avuto la mia parte di infelicità, che bastasse quella a tenerci lontani da qualsiasi altra pena. La mia vita è stata come un film drammatico, che purtroppo so già come andrà a finire. Forse è questo cielo cupo che stona con una giornata di inizio estate a rendermi così vulnerabile. Ero certa che la solitudine non mi avrebbe pesato. Sono nata ed ho vissuto per lo più sola. Anche tu, quando leggerai questo foglio sarai un po' più sola, perché non ci sarò più. Perché tutto questo non avrei mai avuto il coraggio di dirtelo guardandoti negli occhi. A volte le storie che non riusciamo a raccontare sono proprio le nostre. Tu non sai che non ho mai conosciuto i miei genitori. Né i loro nomi, né le loro facce. Mi dissero le suore che durante la guerra mia madre mi lasciò in quel ricovero per orfani e non venne più a riprendermi. Quando appena maggiorenne fui libera di scegliere come vivere, non cercai mai di sapere chi fosse. Per me s'era macchiata di un crimine troppo grande. Avevo il terrore di somigliarle, di essere lo stesso mostro. All'orfanotrofio non ti insegnano la solidarietà, l'amore per gli altri, la fratellanza. L'orfanotrofio non è una famiglia. E' una camerata lunga dove la sera se hai paura del buio non c'è nessuno ad accarezzarti i capelli. Dove quando ti svegli al mattino la vo- pag. 93 ce della suora è stridula e isterica. E tu continui a sognare ad occhi aperti, il giorno in cui verrà la mamma a prenderti. E
giorno dopo giorno, anno dopo anno, il tuo cuore diventa solo un muscolo che serve a tenerti in vita. Ma il giorno più brutto e più temuto è l'ultimo. Quando ti ritrovi fuori, nella vita, e tu non sai da dove cominciare. Poco dopo ho conosciuto tuo padre. Avevo trovato lavoro in un negozio di scarpe. Lui veniva, mi guardava dalla vetrina, ma non trovava il coraggio di dirmi nulla. Io ero più timida di lui. Ci vollero mesi di corteggiamento prima che si decidesse a prendere l'iniziativa. Io l'ho amato ancora prima di incontrarlo. Mi spiego: volevo essere amata, ero un cane randagio al quale bastava guardarlo negli occhi, per diventarne il padrone. Anch'io volevo la mia parte di felicità e per un po' di tempo credetti di averla trovata. Sarei stata la moglie perfetta. Ma lui più che un bravo marito era un bravo figlio. Il matrimonio arrivò presto, ed andammo a vivere in casa con il padre che era vedovo e Sandro non se l'era sentita di lasciarlo solo. Io lo chiamavo con rispetto l'avvocato. Non si era mai laureato ma quando parlava tutti stavano a sentirlo. Tu lo sai, tuo padre era un bravo uomo ma di carattere debole. Aveva accettato il lavoro in banca che gli aveva trovato il padre, ma lui non era un pragmatico contabile e non ci si trovava. Era un sognatore. Amante del cinema, del teatro. Passava ore ad ascoltare ogni genere di musica. Aveva una bella voce, era intonato e gli piaceva cantare. Fra lui e il padre non c'era dialogo, tanto erano diversi, ma gli portava un gran rispetto. L'avvocato mi aveva preso subito a ben volere. C'era una grande intesa tra noi due. Ci capivamo al primo sguardo. Avevo una grande ammirazione per lui. I suoi occhi fulgidi e la sua voce grossa ed imperiosa rendevano vivace qualsiasi argomento di cui si discutesse. La sua intelligenza mi aveva conquistata. Era il padre che avrei voluto aver conosciuto. Lui ad un certo punto smise di chiamarmi figlia mia e tentò una mattina, dopo che Sandro se ne era andato al lavoro, di rubarmi un bacio. Lo misi al posto suo sena dire nulla a Sandro pensando che per un attimo di solitudine e di debolezza, non avevo il diritto di metterli uno contro l'altro. Ma l'avvocato non demordeva. Ogni volta che non rimane-
vamo in casa da soli non perdeva occasione per tentare un approccio. Non ne potevo più, mi faceva schifo e nonostante l'aveva minacciato di raccontare tutto al figlio, continuava a molestarmi. Sentivo che avrebbe rovinato le nostre vite per questo volevo costringere Sandro ad andarcene a vivere per conto nostro. Tentai anche di accennare che fra me e il padre non c'era più armonia, ma la vergogna mi impedì di raccontare anche tutto il resto. Ma lui non volle prendere in considerazione la mia proposta, temeva la reazione del padre. Fino a quel giorno, che in tanti anni ho tentato in ogni modo di cancellare dalla mia mente, quando mi assalì ed i non ebbi la forza fisica per contrastarlo. Il suo impeto sovrumano e quello sguardo animalesco mi paralizzarono e dalla paura svenni. Quando ripresi i sensi avevo capito che non aveva avuto rispetto per me. Non piansi. In orfanotrofio avevo imparato che non serviva poi molto. Avevo deciso che se lo avessi trovato gli avrei piantato un coltello nella pancia. Ma era già freddo, lungo bocconi sul pavimento della cucina. Era crepato senza che potessi avere soddisfazione. Tu sei nata nove mesi dopo. Non saprei dirti quale dei due è il tuo padre biologico, ma Sandro ha dimostrato di essere il miglior padre possibile per te. E' lui che ti ha cresciuto ed amato. E' stato terribile, io ho vissuto fino ad oggi con questo grande peso, che non ho potuto condividere con nessuno. Un segreto tanto terribile a cui nessun marito avrebbe creduto. Io ricominciai ad essere la Laura dell'orfanotrofio, quella impenetrabile ed infelice. Sandro a torto, si convinse, dopo aver trovato una lettera d'amore che io avessi un amante. L'aveva scritta a macchina e non l'aveva firmata suo padre e l'aveva infilata in uno dei miei libri. La violenza, il silenzio, i rancori ci allontanarono sempre di più. Il nostro matrimoni era finito per le ragioni giuste e quelle sbagliate. Ma entrambi eravamo d'accordo nel proteggere la tua serenità. Ma ora volevo che sapessi che io non sono una donna dura e a volte spiacevole. Sei fuggita dalla tua casa accusandomi di averti protetto pag. 95 troppo. Perdonami per tutte le incomprensioni che ci sono state fra di noi. Questa volta non voglio tacere. Ci tengo trop-
po a te, più della mia reputazione, più della mia vita. Perdonami se ti ho amato con troppa intensità senza aver saputo dimostrare quanto fossi importante. Al punto da accettarti dentro di me nonostante temessi che fossi il frutto del seme di un demonio. Perdonami perché ora sai, ma non potevo ignorare la tua ansia. Ti amo e ti amerò sempre, ben oltre questa vita. Mamma.” Quando ci rivelano qualcosa di terribile, la prima reazione è l'incredulità. Per questo subito dopo riusciamo ancora a vivere la quotidianità. Proprio come si vede nei film, un uomo viene crivellato di colpi, ma continua sbalordito e invincibile a camminare; passa un po' di tempo e all'improvviso stramazza a terra morto. Giulia piegò il foglio ammuffito e se lo infilò in tasca. Guardò su e il cielo si era chiuso sopra di lei. Cominciarono a cadere le prime gocce, rade e pesanti. Mise al riparo le sedie sotto al portico, prese Nina per mano ed entrarono in casa. Appena in tempo perché il temporale scaricò tutta la sua violenza, facendo urlare e biancheggiare il mare. Nina godeva addormentata fra le sue braccia mentre lei con gli occhi instillati di lacrime fissava al di là del vetro il giardino innaffiato.
C ap i t ol o Se st o NIN A E GIULIA
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L'ora del crepuscolo falsa i colori. E' l'ora che Giulia predilige. Le su gambe sono stanche, ma ha ancora tanta voglia di fare. I suoi pensieri in quel momento sono il sunto di ogni lunga giornata. Si era trasferita definitivamente da Perugia a Sperlonca. Da quando aveva chiesto il divorzio da Brando e lui glielo aveva concesso subito. Già prima della morte della figlia s'era compiuto il loro divorzio dell'anima, pur vivendo insieme. Così che, subito dopo, ognuno aveva preso strade diverse. Brando si era trasferito a New York. Aveva detto che era la città giusta per ricominciare. Lei non aveva voluto seguirlo, c'era ancora sua madre, il dovere, ma soprattutto c'erano suo padre e Amanda, la tenerezza per il padre e l'amore per la figlia. Era da un po' di tempo che non lo sentiva più neppure al telefono, ma sapeva che era impegnato sempre nelle stesse cose: costruire belle case e corteggiare belle donne. Un giorno, aveva preso un foglio di carta e aveva cominciato a scrivere; il mattino seguente si era recata all'ufficio postale e aveva consegnato la busta allo sportello delle raccomandate. Non pensava che le sarebbe stato così facile dirgli addio. Aveva vissuto un sentimento bellissimo, un amore che le aveva dato tanta gioia, quando l'aveva conosciuto e si erano sposati. Le sembrava di essere nata per appartenergli ed ancora allora quando ricordava ringraziava Dio per averli uniti. Se avevano mancato quell'occasione per invecchiare insieme amandosi come allora, bisognava prenderne atto con remissione. Forse erano ancora in tempo. Forse loro non sarebbero diventati una coppia di vecchi coniugi che non sanno più guardarsi con indulgenza. Non dovevano diventare come Laura e Sandro, ma continuare a vivere in amicizia, perché sarebbe stata la nascita di un sentimento ancora più bello. Avrebbero potuto continuare a camminare e a vivere insieme pur percorrendo strade diverse, pur essendo distanti, come loro due, con l'oceano a dividerli. Giulia aveva riallacciato i legami anche con la signora Anto- pag. 99 nia, che era tornata a vivere, sola e triste, nel suo paese di origine. Ora le distanze fra loro si erano accorciate molto.
Non si davano più del lei, e vivevano insieme nella grande casa di fronte al mare. Insieme, anche con Laura, che non vegetava più nella clinica per malati di alzaimer. Le cure delle due donne le avevano giovato molto. A volte c'era ed altre era lontanissima, ma negli occhi le si leggeva una luce nuova che la figlia non vi aveva mai veduto, le piaceva credere che fosse serenità. Al mattino si alzava presto. Guardare il mare quando ancora non c'erano arrivati neppure i gabbiani a sfiorarlo la commuoveva. Camminare sulla sabbia umida a piedi nudi anche d'inverno, era un lusso per pochi, diceva ad Antonia. La donna la guardava di sbieco e le rispondeva un po' burbera, che quando avrebbe avuto la sua età, con l'artrosi alle ginocchia e le patate grosse come meloni agli alluci dei piedi, di certi "lussi"se ne poteva fare tranquillamente a meno. Di Antonia, l'aspetto burbero era la parte che preferiva. Sapeva benissimo quanto somigliasse ad un pezzo di pane appena uscito dal forno, una sottile crosta dura che nascondeva al suo interno la mollica morbida, buona per tutti, anche per quelle come lei. Quelle madri che purtroppo o per fortuna andavano ancora avanti senza figli.perché i figli avevano avuto il coraggio di lasciarli, e loro non aveva avuto il coraggio di seguirli. Per questo aveva scelto di vivere così vicino al mare. Per esserle più vicina, perché se le aveva restituito il corpo, per lui stesso s'era tenuto l'anima. A volte la vita ti mette sottosopra per impararti a vivere! Per rimettere le cose al posto giusto, per aggiustare quelle rotte. Suo padre che era un competente giardiniere, appassionato di rose antiche, tanto tempo prima, quando era ancora bambina, le fece una preziosa lezione di botanica. - Vedi Giulia, non puoi piantare ovunque le rose. I fiori sono molto sensibili all'amore di chi li accudisce. Questa ad esempio, è la mia preferita. E' di una qualità molto rara, l'ho interrata il giorno che sei nata. Si chiama "scabrosa" perché non possiede spine. E' l'unica che conosco con questa particolarità. E' molto delicata ed ha bisogno di cure particolari. Non nascerebbero mai fiori così belli se non l'avessi interrata
in pieno sole e al riparo dal vento. Proprio qui e non altrove. Le era spiaciuto molto restare di nuovo sola quando a settembre dell'anno prima Nina era dovuta tornare in Bielorussia. Le era dispiaciuto di più vederla piangere perchè non voleva tornare nell'istituto per bambini abbandonati. Chiedeva di restare con la sua mamma italiana. Ma le leggi sull'adozione erano molto severe. Le leggi sono per gli adulti che le possono capire, spesso aggirare, non per i bambini che le debbono soltanto subire. Lei però glielo aveva promesso. Avrebbe fatto di tutto per ridarle ciò che altri le avevano tolto. La casa, sua madre e Jajalona. Aveva acquistato per loro un piccolo appartamentino a Minsk, dove c'era anche il bagno, il calore di una stufa sempre accesa e la strada davanti era asfaltata. Nelle vicinanze c'era una scuola che Nina frequentava a volte contenta a volte meno, ma dove le avevano imparato a leggere e a scrivere. Maria era uscita sotto tutela dal manicomio disintossicata dall'alcool. Non che si potesse definire ancora una buona madre per Nina, ma non era certo lei che poteva giudicarla. Jajalona abitava con loro ed aveva preso di nuovo a cuore la situazione della bambina. L'interprete oltre che mantenere i contatti fra Giulia e la bambina si era resa disponibile a dichiararsene tutrice. Si scrivevano spesso. Le lettere di Nina erano quasi tutte uguali. Ma riceverle era sempre una grande gioia. "Cara mamma Giulia ti volio bene. Cara mamma la casa mi piace mollto. Cara mamma come va tua mamma. Cara mamma e Antonia? Cara mamma io non piango più. Cara mamma mamma Maria salutare te Cara mamma anche Jajalona Cara mamma quando vieni a trovare me in Bielorusia? Cara mamma qui è bello, quando vieni pulisco tuta casa Cara pag. 101 mamma quando è estate vengo io a te Cara mamma mamma Maria dice che tu sei buona Cara mamma io qui sto al
caldo l'inverno è finito Ti volio bene Nina Ciao mamma Giulia Grazie
Ringrazio la mia amica Mariella che mi ha fatto conoscere la storia di Nina; ringrazio mio marito Roberto uno dei pochi uomini che sanno parlare e capire le donne; ringrazio Iddio, lui sa perchÊ! ringrazio Piazza del Grano per aver organizzato il Concorso Inediti, che ritengo una piacevole esperienza. Nina oggi ha ventiquattro anni. Vive a Kostikovici in un monolocale. Puntualmente ogni anno è venuta in Italia accolta da una famiglia di Foligno. La storia di Nina non ha un lieto fine. Nina ha avuto due bambini sani da due padri diversi. E' stata abbandonata da entrambi, ma crede ancora nell'amore e vorrebbe sposarsi. Vive con il sussidio statale e pag. 103 con l'aiuto economico della sua famiglia italiana. I bambini sono stati divisi ed affidati a due diverse case famiglia. Supplemento del periodico Piazza del Grano
Autorizzazione dei tribunale di Perugia n. 29/2009 via della Piazza del Grano n. 11 - Foligno e-mail redazionepiazzadelgrano@yahoo.it Stampato presso GPT Srl - CittĂ di Castello maggio 2012
L'amore è la capacità di avvertire il simile nel dissimile. T.W. Adorno
Collana INEDITI di Piazza del Grano