Mensile di informazione, politica e cultura dell’Associazione Luciana Fittaioli - Anno V, n. 10 - ottobre 2013 - distribuzione gratuita
“Prima di giudicare (e per la storia in atto o politica il giudizio è l’azione) occorre conoscere e per conoscere occorre sapere tutto ciò che è possibile sapere” (Antonio Gramsci) “Faremo il possibile per esporre in forma semplice e popolare, senza presupporre la conoscenza nemmeno dei concetti più elementari. Vogliamo farci comprendere dagli operai.” (Karl Marx)
bestias son los norte americanos
2 Sommario del mese di ottobre “A. Merloni” annullata la vendita Riaprire i bandi di gara a cura della Redazione
pagina 5
Il “Partito Nuovo” di Togliatti La conquista delle “casematte” del potere di Sandro Ridolfi
pagina 7
Critica e Autocritica Una lezione di marxismo di Stalin a cura di Sandro Ridolfi
pagina 11
Tessitrici di ponti Il viaggio dei ricami dello Zimbabwe di Sara Mirti e Laura Toro
pagina 15
Riordinare le idee altrui Un mestiere non ancora perduto di Chiara Mancuso e Sara Mirti
pagina 19
Parola e luce Le vibrazioni dell’Universo di Jacopo Feliciani
pagina 23
Il rullo e l’acqua Due film per ragionare a cura della Redazione
pagina 27
Aspettando che lo spettacolo ricominci II edizione del festival Cinedeaf di Sara Mirti
pagina 31
Oscure presenze Racconto di Chiara Mancuso
pagina 35
Eva contro Eva Gli uomini sparlano di noi di Catia Marani
pagina 39
Pablo Neruda Il poeta comunista che ha cantato la libertà a cura della Redazione pagina 43
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Redazione: Corso Cavour n. 39 06034 Foligno redazionepiazzadel‐ grano@yahoo.it Autorizzazione: tribunale di Perugia n. 29/2009 Editore: Sandro Ridolfi Direttore Respon‐ sabile: Maria Carolina Ter‐ zi Sito Internet: Andrea Tofi Stampa: GPT Srl Città di Ca‐ stello Chiuso: 22 settembre 2013 Tiratura: 3.000 copie Periodico dell’Asso‐ ciazione “Luciana Fittaioli”
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Editoriale
Il diritto internazionale secondo “NOI” ovvero: il diritto internazionale siamo “NOI” DI SANDRO RIDOLFI
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on sappiamo se, quando verrà di‐ stribuito questo numero della ri‐ vista, gli Usa avranno bombardato o meno la Siria. L’augurio ovviamente è che la resistenza (esplicita o “silenzio‐ sa”, molto più vasta della prima) degli altri Stati abbia fatto desistere l’Impe‐ ro americano; comunque quanto di se‐ guito si osserverà manterrà ugualmen‐ te la sua attualità. l gendarme del Mondo ha deciso di mettere ordine (?) nella polveriera medio orientale e quindi si appresta a dare alla Siria di Assad figlio una puni‐ zione esemplare. Motivazione: l’uso di armi chimiche ai danni della popolazio‐ ne civile; e di armi chimiche di distru‐ zione di massa di popolazioni civili gli Usa se intendono bene, avendone da oltre 60 anni fatto un uso vastissimo e incessante. In diritto internazionale vieta l’uso di tali armi e pratiche e dun‐ que, siccome il diritto internazionale sono loro ad applicarlo (ovviamente agli altri!), è tempo di punire il crimina‐ le Assad e ristabilire (o almeno stabiliz‐ zare) l’ordine nel disastrato medio oriente arabo. Cominciamo col dire che, naturalmente, non vogliamo assu‐ mere alcuna difesa del governo siriano. Prima ancora che non condividere quel sistema tra il populista e il nazionalista ereditario, non abbiamo sufficienti ele‐ menti di conoscenza per formulare un giudizio “serio” e non banalmente e quindi stupidamente ideologico: liber‐ tà di pensiero, pluripartitismo, elezioni democratiche, alternanza e mille simili vuote affermazioni se svincolate dalla conoscenza e dall’analisi del contesto. Si veda per tutte l’esempio della ritrova‐ ta democrazia egiziana: abbattuto il “regime” del fido Mubarak, visto l’esito delle libere elezioni democratiche, op‐ portuno colpo di Stato militare, ma “democratico” ovviamente. Tralascia‐ mo questo argomento che richiedereb‐ be assai più vasti approfondimenti, e
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torniamo al diritto internazionale “mi‐ nacciato” degli Usa nel nostro bacino mediterraneo (che, si sa, bagna le coste degli Stati Uniti). Perché l’alzata di tono degli Usa e perché la inattesa (ma era ora!) resistenza sostanzialmente di tut‐ to il resto del Mondo, non solo così det‐ to orientale, ma anche occidentale o, persino, “ecumenico” (nel significato etimologico di “universale”). Le consi‐ derazioni, ipotesi, teorie, ecc., che se‐ guono sono opinioni di chi scrive e, dunque, non solo sono suscettive di es‐ sere contrastate da diverse od opposte opinioni, ma anche, e diremmo soprat‐ tutto, di essere integrate da ragiona‐ menti, informazioni, argomentazioni più ampie, documentate e approfondi‐ te. Dunque degli spunti di ragionamen‐ to e discussione aperti, com’è caratteri‐ stica di questa rivista, a repliche, inte‐ grazioni e confronti che saranno benve‐ nuti e pubblicati. ominciamo dal “gendarme”: dal perché di questa riviviscenza di bi‐ sogno di dominio degli Usa, che negli ultimi anni sono fuggiti dall’Iraq inca‐ paci di “bonificarlo”, stanno facendo lo stesso dall’Afganistan e, ancora più di recente, si sono defilati dalla parodia grottesca del rovesciamento del perfido regime libico di Gheddafi, operazione bellica finita in un flop clamoroso sia per la Francia che per l’Inghilterra che
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vi hanno letteralmente affondato enor‐ mi risorse militari senza riuscire a sfila‐ re una goccia di petrolio all’Eni e agli al‐ tri operatori già fidelizzati dal prece‐ dente regime. Perché tornare così pre‐ potentemente e con tanta dimostrazio‐ ne di muscoli (militari) nello scacchiere mediterraneo a quasi venti anni della devastazione dell’ex Jugoslavia. Il gi‐ gante americano, il più grande, potente e violento impero della storia dell’uma‐ nità sta traballando; e questo è un dato di fatto. A parte il gossip della ripresa produttiva della Chrysler di Marchion‐ ne, l’economia degli Usa, che al proprio interno hanno vastissime sacche di vero e proprio terzo mondo, è interamente fondata sull’inflazione della loro mone‐ ta. Il debito estero Usa ha dimensioni così grandi che non potrebbe essere ri‐ pagato neppure vendendo l’intera enorme flotta di mare e di cielo. Per so‐ stenere la propria economia interna gli Usa debbono sostenere la credibilità esterna della propria moneta, che con‐ tinuano a stampare senza alcuna rela‐ zione con il proprio prodotto nazionale (cioè con la capacità, almeno teorica, di rimborso). L’unica vera merce di scam‐ bio che gli Usa hanno da offrire al resto del mondo, infondo, è la forza dei propri eserciti; la funzione, appunto, di gendarme del mondo, che poi vuol dire: il “pizzo” della protezione.
4 Stabilizzare un medio oriente sempre più a rischio di esplosione (Tunisia, Li‐ bia, Egitto, ora Siria e poi?) è un com‐ pito vitale per gli Usa (non ultimo an‐ che per tutelare il loro avamposto in terra araba d’Israele, sempre più a ri‐ schio di un ennesimo accerchiamen‐ to). In sostanza sembrerebbe trattarsi d’una ripetizione della lezione dei Bal‐ cani, quando davanti a una Europa in‐ capace di governare il processo di dis‐ soluzione della Federazione Jugoslava, gli Usa intervennero dettando a tutti i così detti alleati (sudditi) le loro rego‐ le. Qualcosa però è cambiato: non solo l’ONU, nonostante il segretario addo‐ mesticato, non ha nessuna intenzione di sottomettersi al dictat americano, ma gli stessi alleati della Nato sembra‐ no più o meno “silenziosamente” defi‐ larsi. In verità fa eccezione la Francia socialista (?), ma non bisogna dimen‐ ticare la natura violentemente impe‐ rialista della Francia all’esterno del proprio democratico e libertario terri‐ torio metropolitano. Comprensibile la condotta “evasiva” dell’Italia, in questo momento almeno in parte tornata alla sua storica politica trasversale demo‐ cristiana. Stupefacente invece l’Inghil‐ terra, mercenario fidato del cugino maggiore in Iraq e in Afganistan, vero‐ similmente delusa dai ripetuti flop del‐ l’Iraq e della Libia, sembrerebbe non credere più alle promesse di bottino del gigante d’oltre oceano e tirare i re‐ mi in barca in una situazione econo‐ mica anche per lei pesantissima. oprattutto però si sta imponendo sulla scena mondiale un altro gigan‐ te che sembrava morto e invece è sor‐ prendentemente resuscitato. Non par‐ liamo della Cina, che conferma e prose‐ gue la sua strada del “soft power” di Shangai, cioè della non interferenza negli affari interni degli altri Stati, par‐
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Editoriale liamo della ri‐nata potenza russa. E questa volta il grande antagonista del‐ l’Impero Usa non rappresenta un siste‐ ma diverso, ma gioca sullo stesso piano economico degli Usa, forte non solo di una economia fondata sulla enorme di‐ sponibilità di risorse energetiche e ri‐ serve valutarie (anche Usa, tante), ma anche di un sistema di governo estre‐ mamente solido e padrone pressoché assoluto delle risorse nazionali, non‐ ché, infine, legata al nuovo blocco eco‐ nomico dei cinque paesi emergenti (il Brics). Il Mediterraneo non è più il “ma‐ re nostrum” degli Usa attraverso l’ege‐ monia sul Patto Atlantico che, peraltro, non ha più ragione d’essere non esi‐ stendo più il contrapposto Patto di Var‐ savia. La sfida lanciata dalla Russia agli Usa è stata sorprendente per gli stessi termini usati, che hanno ben poco a ve‐ dere con la diplomazia “sottile”: “in ca‐ so di attacco Usa, aiuteremo Damasco, anzi lo stiamo già facendo”. Come dire: giù le mani dal medio oriente, non è co‐ sa vostra e nessuno vi autorizza a dire chi deve fare cosa. a c’è un’altra potenza che è scesa inaspettatamente in campo a contrastare la prepotenza Usa; una po‐ tenza senza eserciti ma davvero poten‐ te (e non ci riferiamo alla protezione dall’ “Alto”). La chiesa romana, sotto la guida del nuovo papa gesuita è tornata a sfidare a faccia aperta lo storico av‐ versario protestante (e giudaico). Dieci anni fa, sotto la guida di un altro papa polacco, la chiesa romana aveva tenta‐ to di opporsi all’aggressione anglo americana all’Iraq, ma aveva dovuto fa‐ re i conti con i propri scheletri negli ar‐ madi, pagando un prezzo salatissimo: la “bolla” della pedofilia della sua chie‐ sa americana. Dieci anni di “purgato‐ rio”, forse depurata (ma sia consentito dubitarne) delle sue peggiori debolez‐
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ze attuali, la chiesa romana nelle nuove mani, a un stesso tempo della sua sto‐ rica “anima nera” gesuita e della rinno‐ vata chiesa sudamericana genetica‐ mente anti nordamericana, rialza la te‐ sta e lo fa, anche in questo caso, davve‐ ro a viso aperto con una entrata inu‐ suale “a gamba tessa” nella politica in‐ ternazionale (un papa che scrive a un capo di Stato in aperto conflitto con al‐ tro capo di Stato, è un fatto davvero nuovo e sorprendente). Ora, non che il papa argentino goda di uno specchiato curriculum di difensore della democra‐ zia, avendo convissuto per decenni con i regimi dittatoriali del suo paese, cer‐ tamente non coinvolgendosi diretta‐ mente ma, parimenti, non scendendo in “piazza di maggio” con le madri dei “desapparecidos”. Ma si sa, la chiesa cattolica (in verità tutte le chiese e le funzioni religiose in genere) è tipica‐ mente governativa, per non dire che è lei stessa il governo e, dunque, il distac‐ co delle rinate nazioni sudamericane dagli Usa viene bene intercettato an‐ che dalla chiesa cattolica che, appunto, in Usa (nel mondo anglosassone in ge‐ nere) ha sempre trovato durissime op‐ posizioni governative. n sostanza e conclusione, sembra prospettarsi una strana “miscela” di antiamericanismo: alleati che si defila‐ no, avversari che rinascono più forti sullo stesso terreno proprio del nemi‐ co e, infine, convergenze religiose inattese. Come anticipato sono solo al‐ cune riflessioni in uno scenario geopo‐ litico, economico e culturale estrema‐ mente complesso e soprattutto in co‐ stante evoluzione, nel quale, onesta‐ mente, è difficile dire se è maggiore la “soddisfazione” di assistere all’inizio del crollo dell’Impero nordamericano o la più ragionata (ragionevole) paura dei colpi di coda della tigre morente.
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annullata la vendita del complesso aziendale alla J.P. Industries Ora il complesso aziendale dovrà tornare nella gestione dei Commissari della Amministrazione Stra‐ ordinaria che dovranno gestire la continuità dell’attività produttiva di tutti gli stabilimenti, dopo averne ricostituito l’integrità e l’operatività. Dovrà poi essere nuovamente bandita la gara per la ricerca di un imprenditore internazionale veramen‐ te in grado di rilanciare l’azienda e garantire la massima occupazione possibile dei dipendenti tornati tutti alle dipendenze della società in amministrazione straordinaria La seconda sezione civile del Tribu‐ nale di Ancona ha annullato la ces‐ sione del complesso aziendale del‐ l'A.Merloni alla J. P. Industries spa‐ Qs Group, accogliendo il ricorso presentato da un gruppo di banche creditrici. Secondo i giudici, il prez‐ zo di vendita, 12 milioni, era di 5 vol‐ te inferiore al valore reale (54 milio‐ ni). La cessione del complesso indu‐ striale del minore dei fratelli Merlo‐ ni, Antonio, era avvenuta il 27 di‐ cembre 2011, dopo anni di ammini‐ strazione straordinaria e una com‐
plessa trattativa gestita da tre com‐ missari nominati dal ministero del‐ lo Sviluppo economico. Contro la vendita dei tre stabilimenti A. Mer‐ loni di Santa Maria e Maragone a Fabriano e quello di Gaifana (Noce‐ ra Umbra), e dei marchi Ardo e Sep‐ pelfricke, ritenuta di fatto una 'li‐ quidazione' di uno dei colossi del contoterzismo del bianco, il 20 feb‐ braio 2012 avevano presentato ricor‐ so la Mps Gestione Crediti Banca spa, Unicredit Management Bank, Banca delle Marche, Banca Popolare
di Ancona, Cassa di risparmio di Fa‐ briano e Cupramontana, Banca Cr di Firenze, Banca dell'Adriatico. Il Tribunale, presieduto da Edi Raga‐ glia, ha dato sostanzialmente ragio‐ ne alle banche, sostenendo che l'operazione di cessione, avvenuta sotto l'egida del Ministero dello Svi‐ luppo Economico ha “violato …nor‐ me imperative relative al criterio di determinazione del valore'' del com‐ plesso industriale, tali da ''inficiare l'intera operazione di vendita per il‐ liceità'''.
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La rilevata violazione di norme imperative relative al cri‐ terio di determinazione dei valore è atta ad inficiare l'in‐ tera operazione di vendita per illiceità, ed è dunque ido‐ nea a far dichiarare la nullità sia del contratto preliminare, sia dell'atto definitivo di trasferimento intercorso tra A. Merloni, da un lato, e la JP Industries Spa‐QS Group Spa con ogni conseguenza di legge. Le conclusioni cui si è per‐ venuti assorbono ogni altra questione ed eccezione solle‐ vate dalle parti. La riscontrata illegittimità del contratto per violazioni di norme imperative, travolge altresì l'auto‐ rizzazione rilasciata dal Ministero alla stipula dell'atto di cessione in favore della JP Industries Spa‐QS Group Spa, che va in questa sede disapplicata. In tale situazione si deve procedere alla disapplicazione dell'atto amministrativo ai sensi dell'art. 5 L n 2248 del 1865 allegato E; nel caso di specie il giudice è tenuto, in re‐ lazione al contenuto della domanda formulata dalla Ban‐ che ricorrenti, creditrici ipotecarie, ad indagare, con sin‐ dacato da effettuare in via incidentale, se il comportamen‐ to lesivo del diritto soggettivo, vantato dalle Banche sum‐ menzionate, trovi una qualche valida giustificazione nelle autorizzazioni rilasciate dal Ministero, come preteso dalle parti. Risultando accertato, per tutto quanto detto, che le norme che disciplinano le modalità di vendita e che danno rilievo agli interessi che devono essere salvaguardati sono norme di carattere inderogabile, di fronte alle quali si ar‐ resta il potere discrezionale della P.A. La pubblica amministrazione non poteva autorizzare la vendita di un complesso aziendale in ragione di un prezzo determinato applicando un badwill calcolato su dì un pe‐ riodo temporale di quattro anni, in violazione ad una pre‐ cisa disposizione di legge che lo delimita al biennio suc‐ cessivo, con il conseguente effetto di determinare il prez‐ zo di cessione ad un valore rappresentativo un quinto di quello corrente ove fosse stata correttamente applicata la percentuale di sconto, con evidente danno per i creditori che hanno visto azzerata la garanzia patrimoniale del de‐ bitore e preclusa ogni possibilità di vedere soddisfatto il credito. L'atto autorizzativo rilasciato è a sua volta viziato sia per violazione di legge, in quanto la P.A. ha travalicato i limiti del proprio potere discrezionale, nonché altresì per ecces‐ so di potere nel travisamento dei fatti perché basato sul presupposto della congruità dell'offerta di acquisto. Va infatti rilevato come l’autorizzazione del Ministero dello Sviluppo Economico del 18 ottobre 2011 n. 0195023 fondi la propria decisione sulla base “delle considerazioni svolte in ordine alla congruità dell'offerta vincolante di OS Group Spa che prevedendo un corrispettivo "a corpo" di euro 10.000. 000, 00 si discosta di circa il 20% dalla sommatoria dei va‐ lori indicati nelle perizie del Prof. Enrico Laghi (effettuate in data 19 settembre 2011 per i complessi aziendali di Maragone, Santa Maria e Gaifana, e per il marchio ARDIO ed in data 18
aprile 2011 per il marchio Seppelfricke) e dei valori economici indicati nel parere del Prof Enrico Laghi relativo alle parte‐ cipazioni detenute in Meccano S.p.A. ed in Carifac (in data 26 settembre 2011)”, prendendo atto, poco dopo, “di quanto precisato in ordine al fatto che non risulta opportuno un nuovo tentativo di gara e considerato d'altro canto che lo precaria continuazione della gestione dell'impresa deter‐ minerebbe una perdita del suo valore espresso dal mercato e che quindi lo scostamento del prezzo rispetto ai valori di perizia di circa il 20% appare tutto sommato accettabile anche nella considerazione dell’assunzione dell’impegno occupazionale)”. Rileva indiscutibilmente il fatto che il prezzo offerto non si è discostato del 20% del valore dì stima, bensì come già detto, è cinque volte inferiore al corretto valore dì stima dell’azienda. Va di conseguenza ordinata al Direttore dell’Agenzia del‐ l'Entrate competente di procedere alle rettifiche ed inte‐ grazioni conseguenti alla presente decisione. In ragione della complessità delle questioni trattate, della rilevanza dei profili interpretativi, nonché della partico‐ larità delle tematiche in assenza di precedenti giurispru‐ denziali specifichi, vanno compensate tra le parti le spese di lite; le spese di CTU, come liquidate in separato decre‐ to, vanno poste a carico dei resistenti principali soccom‐ benti: Antonio Merloni S.p.A. in Amministrazione Straor‐ dinaria; Ministero dello Sviluppo Economico; QS Group S.p.A. c J. P. Industries S.p.A. Visti gli artt. 62 e ss. d.lgs. n. 270/1999; P.Q.M. Il Tribunale definitivamente pronunciandosi sui ricorsi promossi rispettivamente da MPS Gestione Crediti Banca S.p.A., depositato in data 19 novembre 2011, nonché da Unicredit Credit Management Bank S.p.A., Banca delle Marche S.p.A., Banca Popolare di Ancona S.p.A., Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana S.p.A., Banca CR di Firenze S.p.A. c Banca dell'Adriatico S.p.A., depositato in data 15 febbraio 2012, DICHIARA La nullità ai sensi dell’art. 1418 c.c. della cessione del com‐ plesso aziendale effettuata con atto del 27/12/2011 a rogito notaio Mariconda, intercorso tra i Commissari straordi‐ nari della Antonio Merloni S.p.A., da un lato, e J. P. lndu‐ stries S.p.A.‐QS Group S.p.A., dall'altro, nonché la nullità del precedente contratto preliminare stipulato tra le stes‐ se parti, di ogni eventuale ulteriore atto conseguente e successivo, con conseguente disapplicazione ai sensi del‐ l'art. 5 della legge n. 2248 del 1865, all. E, delle autorizza‐ zioni amministrative rilasciate, su richiesta dei Commis‐ sari straordinari medesimi, dal Ministero per lo Sviluppo Economico. Compensa tra le partì le spese di lite; pone definitivamen‐ te le spese della CTU, come liquidate da separato decreto, a carico di Antonio Merloni S.p.A. in Amministrazione Straordinaria; Ministero dello Sviluppo Economico; QS Group S.p.A. e J. P. Industries S.p.A. Ordina al Direttore dell’Agenzia dell’Entrate competente di procedere alle rettifiche ed integrazioni conseguenti al‐ la presente decisione. Cosi deciso in Ancona nella camera di consiglio del 25.7.2013
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Palmiro Togliatti il “Partito Nuovo”
Noi abbiamo effettivamente creato in Italia un organismo nuovo. Il Partito comunista italiano, come esso è ora, è molto diverso da quello che era il partito socialista anche nei suoi tempi migliori, ed è diverso per quasi tutte le sue caratteristiche. In pari tempo però il nostro partito è molto diverso da quello che esso stesso è stato nel passato. E’ un partito di massa, ma in pari tempo è una forza dirigente. E’ un partito che si interes‐ sa di tutte le questioni che stanno a cuore a
tutti gli strati di masse lavoratrici, ma se ne interessa non solo per criticare, bensì per ri‐ solvere concretamente e rapidamente que‐ ste questioni. E’ un partito che lotta e co‐ struisce nello stesso tempo; che conquista le masse non solo attraverso la propaganda e l’agitazione, ma attraverso un’attività co‐ struttiva che si esplica in tutti i campi: go‐ vernativo, municipale, sindacale, coopera‐ tivo, in tutti i rami dell’attività sociale. Palmiro Togliatti
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Verso la conquista delle “casematte” del potere DI SANDRO RIDOLFI
“Mentre si attiene alla politica basata sui principi, il partito del proletariato deve anche agire con una certa elasticità. Nel‐ la lotta rivoluzionaria è sbagliato negare la necessità di agire secondo le circostan‐ ze o respingere vie indirette di avanzata. La differenza tra i marxisti‐leninisti da una parte e gli opportunisti e i revisionisti dall’altra è questa: i marxisti‐leninisti so‐ no per l’elasticità nel realizzare una poli‐ tica basata sui principi, mentre gli oppor‐ tunisti e i revisionisti praticano un’elasti‐ cità che è in realtà l’abbandono dei prin‐ cipi politici. L’elasticità basata sui princi‐ pi non è opportunismo. Al contrario si ri‐ schierà di cadere nell’errore di opportuni‐ smo se non si sa esercitare la necessaria elasticità e agire secondo l’opportunità del momento, alla luce delle condizioni specifiche e sulla base della perseveranza nei principi e si arrecheranno così perdite ingiustificabili alla lotta rivoluzionaria. Il compromesso è una questione importan‐ te nell’esercizio dell’elasticità. I marxisti‐ leninisti l’affrontano nel modo seguente: essi non respingono mai alcun necessario compromesso che serva gli interessi della rivoluzione, vale a dire compromesso ba‐ sato sui principi, ma essi non tollereran‐ no mai un compromesso che equivalga a un tradimento, vale a dire un compro‐ messo senza principi.” Potrà sembrare paradossale introdurre un articolo sulla natura e sulla continui‐ tà marxista leninista del Partito Nuovo voluto da Togliatti nel 1944 con una cita‐ zione da un articolo pubblicato nel 1963 dall’organo ufficiale del Partito Comuni‐ sta cinese intitolato “Sulle divergenze tra il compagno Togliatti e noi”; ma il “para‐ dosso” altro non è che la “contraddizio‐ ne” che, motore dello sviluppo universa‐ le, è l’anima stessa del pensiero scientifi‐ co marxista leninista. Il marxismo leni‐ nismo, lo abbiamo ricordato più volte e con voci ben più autorevoli, non è una fede dogmatica, ma una scienza e come tale esso si evolve e si modifica e adatta alle singole realtà contestuali culturali e temporali. Nel 1963 il Partito Nuovo di Togliatti stava sviluppando la strategia gramsciana della conquista del potere attraverso la conquista dell’egemonia
nel primo paese capitalista etero gover‐ nato da un partito comunista; l’Unione Sovietica post stalinista stava scivolando nell’ideologismo non più marxista e solo nominalmente comunista; la Cina, alla vigilia della Grande Rivoluzione Cultu‐ rale, si stava staccando dalla involuzione sovietica e di lì a poco avrebbe posto le basi per il ritorno al marxismo scientifi‐ co e dunque della elaborazione della “via cinese al socialismo”. In qualche modo, in quel momento storico il Partito Co‐ munista italiano rappresentava, forte della sua potente elaborazione gram‐ sciana, la punta più avanzata dell’appli‐ cazione concreta del pensiero scientifico marxista leninista. Non fu dunque senza ragione che l’organo ufficiale del Partito Comunista della più popolosa nazione del Mondo dedicò ben due lunghi edito‐ riali, sicuramente scritti da Mao, al se‐ gretario del Partito Comunista italiano, uno dei più grandi e influenti leader del movimento comunista mondiale. Fon‐ datore con Gramsci del Partito Comuni‐ sta d’Italia, cresciuto alla scuola di Lenin e poi a fianco di Stalin per tutto il perio‐ do dell’esilio fascista, Togliatti era infine rientrato in Italia, all’epoca ancora divisa dal fronte di guerra, per rilanciare nel‐ l’occidente europeo post nazi‐fascista, ma inderogabilmente anglo‐americano in virtù degli accordi di Yalta, il movi‐ mento rivoluzionario marxista leninista, facendo tesoro della grande elaborazio‐ ne scientifica, culturale e politica svilup‐ pata da Gramsci nei Quaderni dal Car‐ cere che erano già da tempo arrivati in Unione Sovietica. Il Partito Nuovo altro non era che il Partito Comunista di Gramsci, di Lenin e di Stalin rielaborato nel contesto storico dei vincoli interna‐ zionali degli accordi di Yalta, bensì di fronte alla fine dell’antico imperialismo colonialista europeo ma anche della na‐ scente pre‐potenza mondiale USA. To‐ gliatti lanciò quindi la via nazionale ita‐ liana al socialismo, abbandonando le perdenti strategie imitative della irripe‐ tibile vicenda dell’ottobre russo e facen‐ do precisa applicazione dell’insegna‐ mento gramsciamo della conquista dell’egemonia. Il Partito di quadri, il par‐ tito pronto a una insurrezione impossi‐ bile, si trasformò in un partito di massa proiettato a penetrare e conquistare le “casematte” del potere capitalista: la
scuola e la cultura, i sindacati, le associa‐ zioni, le amministrazioni locali; un par‐ tito in grado di proporre il futuro, ma anche di realizzare il presente, senza mai perdere la prerogativa comunista della solidarietà internazionale tra i popoli e i partiti comunisti. Un partito bolscevico, come chiariva bene lo stesso Togliatti, nel quale la tessera d’iscrizione poteva essere acquisita da chiunque, da chiun‐ que fosse pronto a condividere l’impe‐ gno del cambiamento della ingiusta e iniqua società capitalista in una società diversa sociale e solidale, ma non dietro il versamento di una quota d’iscrizione, ma a fronte di un impegno militante. Un partito di massa, di massa di militanti e non di elettori. Il successo del Partito Comunista italiano fu straordinario e pur operando in una enclave dell’impero americano e in un contesto storico cat‐ tolico e fascista, sotto la guida di Togliat‐ ti, e poi del suo principale allievo Berlin‐ guer, conquistò, almeno in parte, quel‐ l’egemonia prefigurata da Gramsci, for‐ temente incidendo sulla crescita politica e culturale del nostro Paese. La via italia‐ na al socialismo, intrapresa da Togliatti e poi seguita fedelmente da Berlinguer, portò il Partito Comunista italiano alle soglie del governo di un paese capitali‐ sta; alle soglie, più oltre non si poteva e non fu consentito di andare. L’assassinio di Moro, le stragi di Stato, l’avvertimento del colpo di Stato in Cile, posero fine al‐ l’ascesa del Partito Comunista italiano; la morte improvvisa di Berlinguer segnò anche la morte del Partito e dell’espe‐ rienza marxista leninista italiana. Del partito di Gramsci restava solo il nome ma non la preparazione e la cultura scientifica marxista leninista e così il più grande Partito Comunista dell’occidente si dissolse in pochissimo tempo perden‐ do l’egemonia conquistata negli anni della resistenza al fascismo e poi in quelli della così detta guerra fredda dell’impe‐ rialismo USA. L’Italia sembra oggi avere definitivamente perso il grande patri‐ monio culturale e politico di Gramsci, di Togliatti e di Berlinguer, ma la loro espe‐ rienza si è diffusa nel Mondo e altrove, dall’Asia, in India e Nepal, all’America del sud, in Venezuela e Messico, l’inse‐ gnamento della conquista dell’egemonia gramsciana ha trovato e trova sempre più seguito e successo.
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Un Partito nazionale, di massa e popolare, in grado di partecipare al governo dello Stato democratico Editoriale di Palmiro Togliatti pubblicato nel numero 4 di Rinascita, ann0 I, ottobre 1944 Tra le posizioni assunte dal nostro partito in questo nuovo periodo della storia nazionale, l’affermazione di voler essere e di essere un partito nuovo è quella che finora ha ricevuto, nelle discussioni e nelle polemiche, minore rilievo. Esse è invece quella che ha un significato più profondo e avrà, nello sviluppo della nostra atti‐ vità politica, le manifestazioni e le conseguenze più ampie. Si è pensato e si è anche detto che vorremmo libe‐ rarci da un passato che ci sarebbe di peso. Niente di più falso. Non soltan‐ to un partito, al pari di un uomo, non si libera del passato di cui è figlio e senza il quale non esisterebbe nem‐ meno il suo presente, ma nel passato del nostro partito non vi è nulla che ci possa essere d’imbarazzo o d’osta‐ colo nella nostra azione presente. Gli errori da noi commessi in particolari situazioni passate, e che non permi‐ sero all’azione nostra di essere così efficace come sarebbe stato non solo necessario, ma anche possibile, li ab‐ biamo indicati e criticati da tempo. […] Ma oggi non si tratta di questo. Non si tratta, cioè, di scrivere la storia del movimento operaio, delle sue de‐ bolezze e deviazioni passate. Anche
questo faremo per trarne insegnamento e arricchire l’esperienza comune; oggi però si tratta, essenzial‐ mente, di aprire al movi‐ mento operaio nuove strade, o, per meglio dire, di guidare gli operai e i la‐ voratori a battere con si‐ curezza quelle strade nuo‐ ve che la storia stessa ha aperto davanti a loro. […] Gli strati più avanzati del proletariato, gli operai che hanno vissuto l’esperienza del fascismo, le centinaia e migliaia di quadri che sono passati attraverso le prove dure ed eroiche del lavoro clandestino, del tri‐ bunale speciale, dei carce‐ ri, delle isole di confino, dell’esilio, della guerra di Spagna, dei campi di con‐ centramento nazisti e del‐ la guerra di liberazione, sentono oggi prima di tutto la necessità di esser li‐ berati dal nichilismo politico dello pseudo comunismo astensionista di venticinque anni or sono, di essere li‐ berati dall’estremismo parolaiolo e
Rinascita è stato il mensile politico-culturale del Partito Comunista Italiano fondato da Palmiro Togliatti nel 1944. Rinascita venne concepita da Togliatti come lo strumento per aprire la strada italiana al comunismo. Le linee del disegno appaiono subito chiare dal "Programma" che esce sul primo numero e che riportiamo per stralci di seguito. Rinascita ha rappresentato dal 1944, con la sua presenza costante nel dibattito politico-culturale italiano, lo strumento di elaborazione e diffusione della politica culturale del PCI. Fin dal primo numero apparve sulle pagine della rivista la pubblicazione delle Lettere dal carcere di Gramsci che continuò negli anni seguenti. Uno dei meriti di Rinascita è stato quello di saper esprimere la posizione del PCI pur ospitando articoli e interventi anche di intellettuali di formazione non marxista. La rivista ebbe da subito un successo notevole con una tiratura e distribuzione integrale(!) di oltre 30.000 copie in un contesto di guerra ancora in corso, di scarsa disponibilità di carta e di assenza di qualsiasi rete di distribuzione. Programma (stralci) "Il nostro scopo principale è di fornire una guida ideologica a quel movimento comunista parte integrante ed elemento dirigente del moto di rinnovamento profondo che sempre più tende oggi a manifestarsi e affermarsi in tutti i campi della vita del nostro paese (...)
dall’impotenza del massimalismo, di esser liberati dalla mancanza di prin‐ cipi, dall’opportunismo, dal farisei‐ smo altrettanto impotente dei rifor‐ misti. Essi sentono il bisogno, istinti‐ vamente, di avere un partito nuovo.
Le dottrine di Marx e di Engels, di Lenin e di Stalin, devono diventare nel nostro paese patrimonio sicuro dell'avanguardia proletaria e delle avanguardie intellettuali (...) Non siamo capaci di elevare barriere artificiose od ipocrite tra le sfere diverse dell'attività - economica, politica, intellettuale - di una nazione. Non separiamo e non possiamo separare le idee dai fatti, il corso del pensiero dallo sviluppo dei rapporti di forza reali, la politica dall'economia, la cultura dalla politica, i singoli dalla società, l'arte dalla vita reale (...) E come la rinascita del movimento operaio è inizio e sarà nei suoi sviluppi fonte sicura di rinnovamento di tutto il paese, così la ripresa di un movimento di pensiero marxista non può non significare inizio di rinnovamento in tutti i campi dell'attività nostra intellettuale e culturale".
10 Guida ideologica di questo partito non può essere altro che la dottrina marxista e leninista, la sola che con‐ senta l’analisi completa di tutti gli elementi della realtà, del loro intrec‐ cio e del loro sviluppo, e quindi la sola che consenta di adeguare esattamen‐ te alla realtà l’azione politica della classe operaia e d’un grande partito. E’ l’analisi marxista dell’evoluzione del mondo moderno che fa compren‐ dere a noi come, di fronte a quel pau‐ roso fallimento di una civiltà che è l’attuale guerra mondiale, alla classe operaia e alle altre classi di lavoratori si presentino compiti di natura co‐ struttiva che esse non si sono poste nel passato e che esse sole sono in grado di adempiere. L’esistenza di uno Stato socialista trionfatore, che ha dato il contributo decisivo per portare alla vittoria le forze della ci‐ viltà e del progresso su quelle della reazione fascista e della barbarie hi‐ tleriana,che oggi collabora nel modo più stretto con i grandi paesi demo‐ cratici nei compiti della guerra e do‐ mani collaborerà in quelli della ne‐ cessaria riedificazione, è un fatto che certamente non modifica le leggi fon‐ damentali dello sviluppo sociale, ma crea condizioni nuove per l’azione progressiva degli operai, dei lavorato‐ ri, delle avanguardie intellettuali. E’ storicamente inevitabile che questa azione progressiva si svolga nell’am‐
Migliore bito dei singoli stati nazionali, e che la classe operaia si muova in questo ambito come forza di avanguardia. Sarebbe strano che noi, educati alla scuola dell’internazionalismo prole‐ tario, non comprendessimo le esigen‐ ze, non solo di reciproco rispetto e di fraterna collaborazione tra tutti i po‐ poli liberi d’Europa, ma anche quelle più concrete, che oggi cominciano ad affiorare, di una organizzazione in‐ ternazionale che sia garanzia di pace e di libero sviluppo di tutte le nazio‐ ni. Ma l’attacco brutale che fu diretto dai barbari hitleriani contro l’esisten‐ za nazionale di tutti i popoli europei, e la capitolazione e il tradimento del‐ le classi e dei gruppi politici che si erano allora proclamati dirigenti e di‐ fensori della nazione, ha investito la classe operaia di una funzione nuova. […] La classe operaia fa proprio tutto ciò che nella formazione nazionale vi è stato di progressivo, respinge e lotta per distruggere degenerazioni nazio‐ naliste, strumento di quell’imperiali‐ smo che ha avuto nel fascismo e nell’hitlerismo le sue manifestazioni conseguenti. […] La classe operaia vuole partecipare con le proprie forze organizzate alla creazione di un regi‐ me democratico che non ponga sullo stesso piano le forze popolari che nel‐ la libertà voglio gettare le fondamen‐ ta di un mondo nuovo e i gruppi di privilegiati e di parassiti che della li‐
bertà vogliono servirsi, come se ne servirono nel passato, per ingannare il popolo, per disorganizzare la vita della nazione, per organizzare l’av‐ vento della loro tirannide reaziona‐ ria. Noi volgiamo una democrazia combattiva, che difenda la libertà di‐ struggendo le base oggettive della ti‐ rannide fascista e quindi rendono im‐ possibile ogni rinascita reazionaria, una democrazia che sia attivamente antifascista e antiperialistica e perciò veramente nazionale, popolare, pro‐ gressiva. Le forze della classe operaia, se vorranno poter efficacemente con‐ tribuire alla costruzione di questo nuovo regime democratico non po‐ tranno essere a lungo ulteriormente divise. Il partito nuovo che noi voglia‐ mo creare tende inevitabilmente a es‐ sere e dovrà dunque essere il partito unico della classe operaia e dei lavo‐ ratori italiani […] Creare un partito i quale sia capace di guidare gli operai sulla nuova strada che si apre davanti a loro e, attraverso la necessaria unità delle forze democratiche, di esercita‐ re una funzione decisiva sulla costru‐ zione di un regime di democrazia che tenda al soddisfacimento di tutte le aspirazioni popolari, oppure rinun‐ ciare ad avere una funzione di dire‐ zione nella vita del paese. Ma questa seconda alternativa non abbiamo bi‐ sogno di ragionare a lungo per re‐ spingerla.
Autocritica
Autocritica
Il Partito comunista non teme la critica, perché noi siamo marxisti e la verità è dalla nostra parte, e le masse fondamen‐ tali ‐ gli operai e i contadini ‐ stanno dalla nostra parte. Abbiamo in mano l'arma marxista‐lenini‐ sta della critica e dell'autocritica. Siamo capaci di disfarci di un erroneo stile di la‐ voro e di conservare quello buono.
Siamo al servizio del popolo, perciò non abbiamo mai paura quando gli altri nota‐ no e criticano le nostre manchevolezze. Siamo pronti ad accettare la critica dei nostri difetti da chiunque. Se hanno ra‐ gione loro, ci correggeremo. Ogni propo‐ sta diretta a migliorare il benessere del popolo sarà da noi accettata. Mao Tze Dong
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Autocritica
“L’autocritica ci è necessaria come l’aria, come l’acqua” DI JOSIF STALIN
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enso, compagni, che senza di es‐ sa, senza l’autocritica, il nostro partito non potrebbe progredire, non potrebbe mettere a nudo le nostre piaghe, non potrebbe liquidare le no‐ stre deficienze. E le nostre deficienze sono numerose. Questo si deve rico‐ noscere apertamente e onestamen‐ te. La parola d’ordine dell’autocritica non può essere considerata come una parola d’ordine nuova. Essa costitui‐ sce il fondamento stesso del partito bolscevico. Essa costituisce il fonda‐ mento del regime della dittatura del proletariato. Se il nostro Paese è il paese della dittatura del proletariato, e questa dittatura è diretta da un solo partito, il partito dei comunisti, che non divide e non può dividere il pote‐ re con altri partiti, non è forse chiaro che noi stessi dobbiamo scoprire e correggere i nostri errori, se vogliamo progredire? Non è forse chiaro che non vi è nessun altro che possa met‐ tere a nudo e correggere questi erro‐ ri? Non è chiaro, compagni, che l’au‐ tocritica deve essere una delle forze più importanti che danno impulso al nostro sviluppo? La parola d’ordine dell’autocritica ha avuto uno svilup‐ po particolarmente vigoroso dopo il XV congresso del nostro partito. Per‐ ché? Perché, dopo il XV congresso, che ha liquidato l’opposizione, si è creata nel partito una nuova situazio‐ ne di cui non possiamo non tener conto. In che consiste la novità di questa situazione? Nel fatto che da noi non esiste più o quasi più opposi‐ zione, nel fatto che, data la facile vit‐ toria sull’opposizione, vittoria che rappresenta di per sé un importantis‐ simo vantaggio per il partito, si può creare nel partito il pericolo di dor‐ mire sugli allori, di darsi al quieto vi‐ vere e di chiudere gli occhi sulle defi‐ cienze del nostro lavoro. La facile vit‐ toria sull’opposizione è un gradissi‐ mo vantaggio per il nostro partito. Ma essa nasconde in sé particolari la‐
ti negativi, consistenti nel fatto che il partito può permearsi di un senso di sufficienza, di auto‐ammirazione e dormire sugli allori. Ma che cosa si‐ gnifica dormire sugli allori? Significa mettere una croce sul nostro movi‐ mento in avanti. E perché questo non accada ci è necessaria l’autocritica, non la critica astiosa e sostanzial‐ mente controrivoluzionaria svolta dall’opposizione, ma la critica one‐ sta, aperta, l’autocritica bolscevica. Il XV congresso del nostro partito ha tenuto conto di questa circostanza, lanciando la parola d’ordine dell’au‐ tocritica. Da allora ha incominciato a salire la marea dell’autocritica, dando la sua impronta anche ai lavori della Sessione plenaria di aprile del Comi‐ tato centrale e della Commissione centrale di controllo. Sarebbe strano temere che i nostri nemici, i nemici interni, così come i nemici esterni, sfruttino la critica delle nostre defi‐ cienze, levando grande strepito: “Ah, a loro, ai bolscevichi, non va tutto be‐ ne”. Sarebbe strano che noi, bolscevi‐ chi, temessimo tutto questo. La forza del bolscevismo consiste precisa‐ mente nel non temere di riconoscere i propri errori. Il partito, i bolscevi‐ chi, tutti gli operai e i lavoratori one‐ sti del nostro Paese pongano in luce le deficienze del nostro lavoro, le de‐ ficienze della nostra edificazione, in‐ dichino le vie per liquidare queste deficienze affinché nel nostro lavoro e nella nostra edificazione non esista stagnazione, pantano, putridume, af‐ finché tutto il nostro lavoro, tutta la nostra edificazione migliori di giorno in giorno e passi di successo in suc‐ cesso. Questa è oggi la cosa essenzia‐ le. E là i nostri nemici chiacchierino pure delle nostre deficienze: queste bagatelle non possono, non devono turbare i bolscevichi. ’è ancora un’altra circostanza che ci spinge all’autocritica. Mi riferi‐ sco alla questione delle masse e dei capi. Negli ultimi tempi si sono inco‐ minciati a creare da noi alcuni rap‐ porti originali fra i capi e le masse. Da un lato, è emerso nel nostro Paese, si
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è formato storicamente, un gruppo di dirigenti, la cui autorità si accresce sempre più, e che diviene quasi inac‐ cessibile alle masse. Dall’altro lato, le masse della classe operaia prima di tutto, le masse dei lavoratori in gene‐ re, si elevano con straordinaria len‐ tezza, incominciano a guardare ai ca‐ pi dal basso in alto, aguzzando gli oc‐ chi, e non di rado hanno timore di criticare i loro capi. Naturalmente il fatto che da noi si è formato un grup‐ po di dirigenti che hanno raggiunto un altissimo livello e che hanno una grande autorità, questo fatto è di per sé una grande conquista del nostro partito. È chiaro che se non esistesse questo gruppo autorevole di dirigenti sarebbe inconcepibile dirigere un grande paese. Ma il fatto che i capi, salendo, si allontanano dalle masse, e le masse incominciano a guardare ad essi dal basso in alto, non osando cri‐ ticarli, questo fatto non può non creare un certo pericolo di distacco dei capi dalle masse e di allontana‐ mento delle masse dai capi. Questo pericolo può avere come conseguen‐ za che i capi possono divenire pre‐ suntuosi e ritenersi infallibili. E che cosa ci può essere di buono nel fatto che gli alti dirigenti divengono pre‐ suntuosi e incominciano a guardare le masse dall’alto in basso? È chiaro che da questo non può uscire altro che la rovina del partito. Ma noi vo‐ gliamo andare avanti e migliorare il nostro lavoro, e non causare la rovina del partito. E precisamente per anda‐ re avanti e migliorare i rapporti fra le masse e i capi, si deve tenere peren‐ nemente aperta la valvola dell’auto‐ critica, si deve dare agli uomini sovie‐ tici la possibilità di “lavare la testa” ai loro capi, di criticare i loro errori, af‐ finché i capi non diventino presun‐ tuosi e le masse non si allontanino dai capi. Talvolta si confonde la que‐ stione delle masse e dei capi con la questione dell’avanzamento dei qua‐ dri. Questo è sbagliato compagni. Non si tratta dell’avanzamento di nuovi capi, sebbene questo meriti l’attenzione più seria del partito.
Autocritica Stalin e Gorky
Si tratta di salvaguardare i capi più au‐ torevoli e che occupano già un posto elevato, organizzando un contatto permanente e indistruttibile fra questi capi e le masse. Si tratta di organizza‐ re, attraverso l’autocritica e la critica delle nostre deficienze, una larga opi‐ nione pubblica del partito, una larga opinione pubblica della classe operaia, come controllo morale, vivo e vigilan‐ te, la cui voce deve essere attentamen‐ te ascoltata dai capi più autorevoli, se vogliono conservare la fiducia del par‐ tito, la fiducia della classe operaia. In questo senso l’importanza della stam‐ pa, della nostra stampa sovietica e di partito è veramente inestimabile. In questo senso non si può non salutare l’iniziativa della Pravda di organizzare la pubblicazione del foglio dell’ispe‐ zione operaia e contadina, che svolge una critica sistematica delle deficienze del nostro lavoro. È solo necessario sforzarsi di svolgere una critica che sia
seria e approfondita e non si limiti alla superficie. In questo senso si deve an‐ che valutare l’iniziativa della Komso‐ molskaia Pravda che attacca con slan‐ cio impetuoso le deficienze del nostro lavoro. alvolta si rimprovera ai critici l’im‐ perfezione delle loro critiche, per‐ ché le critiche talvolta non sono giuste al cento per cento. Non di rado si esige che la critica sia giusta in tutti i suoi punti e, se non lo è, si incomincia a de‐ nigrarla. Questo non è giusto compa‐ gni. È un errore pericoloso. Provate so‐ lo a esigere questo e chiuderete la boc‐ ca a centinaia e migliaia di operai, di corrispondenti operai e corrispondenti rurali che desiderano correggere le no‐ stre deficienze, ma talvolta non sanno formulare giustamente il loro pensie‐ ro. Sarebbe una tomba, e non autocri‐ tica. Voi dovete sapere che gli operai talvolta non osano dire la verità sulle deficienze del nostro lavoro. Non osa‐
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13 no far questo non solo perché possono riceverne “una lavata di capo”, ma an‐ che perché possono essere messi a “in ridicolo” per le loro critiche imperfet‐ te. Un semplice operaio o un semplice contadino che sente ricadere sulle pro‐ prie spalle le deficienze del nostro la‐ voro e della nostra pianificazione, do‐ ve può trovare gli argomenti per moti‐ vare secondo tutte le regole dell’arte la sua critica? Se esigerete da loro una critica giusta al cento per cento, elimi‐ nate in questo modo la possibilità di qualsiasi critica dal basso, la possibilità di qualsiasi autocritica. Ecco perché penso che anche se la critica contiene solo il cinque‐dieci per cento di verità, si deve salutare ugualmente, ascoltare con attenzione e si deve tenere conto del suo nucleo sano. In caso contrario, ripeto, vi accadrebbe di chiudere la bocca a tutte quelle centinaia di mi‐ gliaia di uomini devoti alla causa dei Soviet, che non sono ancora abbastan‐ za esperti nella loro attività di critica, ma sulle cui labbra parla la verità stes‐ sa. E precisamente per non soffocare l’autocritica, ma svilupparla, precisa‐ mente per questo, è necessario ascol‐ tare con attenzione qualsiasi critica, anche se talvolta essa non è giusta completamente e in tutte le sue parti. Solo a questa condizione le masse pos‐ sono avere sicurezza di non ricevere una “lavata di capo” per aver svolto una critica imperfetta e di non essere messe “in ridicolo” per alcuni errori delle loro critiche. Solo a queste condi‐ zioni l’autocritica può assumere un ve‐ ro carattere di massa e avere un’eco ve‐ ramente profonda fra le masse. È ovvio che qui non si tratta di “qualsiasi” cri‐ tica. Anche la critica del controrivolu‐ zionario è critica. Ma essa si pone lo scopo di denigrare il potere sovietico, di minare la nostra industria, di di‐ sgregare il nostro lavoro di partito. È chiaro che non si tratta di questa criti‐ ca. Io non parlo di questa critica, ma della critica che proviene dagli uomini sovietici, della critica che si propone lo scopo di migliorare gli organi del pote‐ re sovietico, di migliorare la nostra in‐ dustria, di migliorare il nostro lavoro di partito e sindacale. La critica ci è ne‐ cessaria per consolidare il potere so‐ vietico e non per indebolirlo. E preci‐ samente per consolidare e migliorare la nostra opera, precisamente per que‐ sto, il partito lancia la parola d’ordine della critica e dell’autocritica.
14 Che cosa attendiamo noi, pri‐ ma di tutto, dalla parola d’or‐ dine dell’autocritica, quali ri‐ sultati essa ci può dare se verrà giustamente e onestamente attuata? Essa ci deve dare al‐ meno due risultati. Deve, in primo luogo, aumentare la vi‐ gilanza della classe operaia, acuire la sua attenzione verso le nostre deficienze, facilitare la correzione di queste defi‐ cienze e rendere impossibili gli “imprevisti” di qualsiasi ge‐ nere nel nostro lavoro di edifi‐ cazione. Deve, in secondo luo‐ go, elevare la preparazione po‐ litica della classe operaia, svi‐ luppare in essa il sentimento di essere padrona del paese e facilitare alla classe operaia lo studio dei modi di direzione del paese … nfine, la questione dell’asce‐ sa delle forze culturali della classe operaia, dell’acquisto, da parte della classe operaia, dell’esperienza di amministrazione del paese in le‐ game con l’attuazione della parola d’ordine dell’autocritica. Lenin ha detto: “L’elemento essenziale che non abbiamo in misura sufficiente è la preparazione culturale, la capacità di amministrare... Economicamente e politicamente la NEP ci garantisce pienamente la possibilità di edificare le fondamenta dell’economia sociali‐ sta. Il problema riguarda “soltanto” le forze culturali del proletariato e della sua avanguardia”. Che cosa significa questo? Significa che uno dei compi‐ ti fondamentali della nostra edifica‐ zione è l’acquisto, da parte della clas‐ se operaia, della esperienza e della capacità di amministrare il paese, di amministrare l’economia, di ammi‐ nistrare l’industria. È possibile far acquistare alla classe operaia questa esperienza e questa capacità, senza dare libero sfogo alle forze e alle ca‐ pacità della classe operaia, alle forze e alle capacità degli uomini migliori della classe operaia di criticare i no‐ stri errori, di rilevare le nostre defi‐ cienze e far progredire il nostro lavo‐ ro? Evidentemente non è possi‐ bile. Ma che cosa occorre per dare li‐ bero sfogo alle forze e alle capacità della classe operaia, e in generale dei lavoratori, e per dare loro la possibi‐ lità di acquistare l’esperienza di am‐
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Autocritica
ministrazione del paese? Per questo occorre, prima di tutto, l’attuazione onesta e bolscevica della parola d’or‐ dine dell’autocritica, l’attuazione onesta e bolscevica della parola d’or‐ dine della critica dal basso delle defi‐ cienze e degli errori del nostro lavo‐ ro. Se gli operai si servono della pos‐ sibilità di criticare apertamente e di‐ rettamente le deficienze del lavoro, di migliorare il nostro lavoro e farlo progredire, che cosa significa que‐ sto? Significa che gli operai diventa‐ no attivi, partecipi della direzione del paese, dell’economia, dell’indu‐ stria. E questo non può non rafforza‐ re negli operai la consapevolezza di essere i padroni del paese, la loro at‐ tività, la loro vigilanza, la loro prepa‐ razione culturale. a questione delle forze culturali della classe operaia è una delle questioni decisive. Perché? Perché, di tutte le classi dominanti esistite fi‐ nora, la classe operaia, come classe dominante, occupa nella storia una posizione piuttosto particolare e non del tutto favorevole. Tutte le classi dominanti finora esistite — proprie‐ tari di schiavi, grandi proprietari fondiari, capitalisti — erano nel me‐ desimo tempo classi ricche. Esse ave‐ vano la possibilità di far acquistare ai propri figli l’esperienza e le cognizio‐ ni indispensabili per amministrare. La classe operaia si distingue da esse,
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fra l’altro, perché non è una classe ricca, non ha avuto in passato la pos‐ sibilità di far acquistare ai propri figli le cognizioni e l’esperienza necessa‐ rie per amministrare e ha avuto que‐ sta possibilità solo oggi, dopo essere giunta al potere. Precisamente per questo, fra l’altro, è urgente la que‐ stione della rivoluzione culturale nel nostro Paese. È vero che in dieci anni di dominio la classe operaia dell’U.R.S.S. è riuscita in questo cam‐ po a fare molto di più dei grandi pro‐ prietari fondiari e dei capitalisti in centinaia di anni. Ma la situazione internazionale e interna è tale che i risultati ottenuti sono ancora del tut‐ to insufficienti. Perciò qualsiasi mez‐ zo che possa elevare il livello di svi‐ luppo delle forze culturali della clas‐ se operaia, qualsiasi mezzo che possa agevolare alla classe operaia l’acqui‐ sto dell’esperienza e della capacità di amministrare il paese e l’industria, qualsiasi mezzo di questo genere de‐ ve essere utilizzato da noi fino in fondo. Ma da quanto si è detto risul‐ ta che la parola d’ordine dell’autocri‐ tica è uno dei mezzi più importanti per sviluppare le forze culturali del proletariato e far acquistare alla clas‐ se operaia la esperienza dell’ammini‐ strazione. Di qui scaturisce un altro motivo che dimostra che l’attuazione della parola d’ordine dell’autocritica è il nostro compito vitale.
Casa dei Popoli
Tessitrici di ponti
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il lungo viaggio dei ricami dello Zimbabwe
La vita è come una stoffa ricamata della quale ciascuno nella propria metà dell'esistenza può osservare il diritto, nella seconda invece il rovescio: quest'ultimo non è così bello, ma più istruttivo, perché ci fa vedere l'intreccio dei fili. (Arthur Schopenhauer)
16 DI MARIA SARA MIRTI E LAURA TORO
Origine e mito dell’arte del‐ la comunicazione e della tessitura La tessitura è una pratica antica quasi quanto l'uomo: la sua nascita si colloca sulla linea temporale che va dal Paleoliti‐ co al primo Neolitico, e poco importa se la filatura l'abbia preceduta o se l'abbia, più probabilmente, seguita. Scrive infatti Paola Mura: "Se la tessitura è la produzio‐ ne di un manufatto, ottenuto incrocian‐ do elementi più piccoli (dell'esito finale), cioè di una lunghezza data e di uno spes‐ sore molto minore, è chiaro che la filatu‐ ra può benissimo essere posteriore, e l'in‐ crocio essere avvenuto con elementi pu‐ ramente vegetali o vegetali 'ripuliti', o…, che non richiedevano cioè altra tecnica […]. Contemporaneamente, perché fila‐ re, se con il filo non si costituisce un ma‐ nufatto utile? Per legare, forse […]" (P. Mura, "Vindum, vindum", in M. Meli, P Mura, cur., "La macina e il telaio. Due carmi mitologici norreni", Carocci, Roma 2012, p. 123). Forse, per legare a sé la pro‐ pria "pelle culturale", strumento indi‐ spensabile per muoversi tra i propri simi‐ li e utile supporto per i propri racconti, per il proprio intero orizzonte simbolico. Il tessere e il narrare infatti sono attività che si affiancano e si sovrappongono in modo mai casuale: magici sono i segni impenetrabili delle singole lettere che, unite, designano parole o formule, e ma‐ gici sono quei fili che contemporanea‐ mente, come farebbe un componimento poetico, "velano e svelano", nascondono e descrivono. Un'incisione su un antico sostegno ligneo di telaio, rinvenuto nel cimitero alemannico di Neudingen/Baar, invoca "gioia per quelli che vanno sul filo annodato" (trad. M. Meli); la frase d'au‐ gurio, risalente al VI sec. d. C., è opera di una donna. Tra i nomi delle tessitrici più famose si trova senz'altro quello di Pene‐ lope che per quattro lunghi anni tesse in‐ stancabilmente di giorno per poi scio‐ gliere la propria bellissima tela di notte. Il suo tessere riesce a incatenare il tempo in un movimento ciclico e ripetitivo; quando poi la tela si compie, sia pure contro la volontà della sua stessa autrice, l'inganno viene svelato, il tempo riprende a scorrere e a causare mutamenti nella vi‐ ta degli uomini; infine gli eventi precipi‐ tano. La tela di Penelope è diventata così, già a partire da Platone (v. "Fedone"),
Casa dei Popoli metafora di un lavoro che non porta ad alcun risultato; eppure, come si è trovata efficacemente a scrivere Maria Grazia Anglano a proposito della storia dell'araz‐ zo, in "Fondazione Terre d'Otranto" (v. "Dall'antica Grecia al Salento. Appunti per una storia della tessitura"), "L’arte del tessere, col suo lento divenire, dilata uno spazio atto anche al pensare, recuperan‐ do un tempo del lavoro più a misura d’uomo. Dove la manualità segue ed ese‐ gue, da una precedente progettazione, messa appunto su una carta tecnica, detta propriamente ‐cartone‐. Qui ogni piccolo quadratino sulla carta tecnica, corrispon‐ de a quell’unico fiocco (termine tecnico, che indica un filo lungo pochi centimetri, che si annoda a quelli verticali dell’ordito) che insieme agli altri costruisce il vello dell’arazzo. E dall’uno (fiocco) diviene il tutto (opera‐arazzo, con la sua caratteri‐ stica iconografica)". Perché dunque non dovrebbe essere stato così anche per Pe‐ nelope? Le sue trame non sono state inu‐ tili, ma hanno saputo irretire e guadagna‐ re per sé il tempo necessario al ritorno di Ulisse; hanno reso i destini dei singoli parte di un unico disegno più grande, ti‐ rando a sé e annodando sapientemente tra loro le fila dei pensieri e delle intenzio‐ ni di ciascun protagonista della vicenda. Un'altra famosa tessitrice è la valchiria Brunilde, lavoratrice di arazzi o, più pro‐ priamente, di fregi raffiguranti eroi e bat‐ taglie delle saghe nordiche, e autrice a volte anche di ricami. Attività questa strettamente femminile, riservata co‐ munque a donne di alto rango, o magari a donne che abbiano molte cose da rac‐ contare e da insegnare al mondo. Natu‐ ralmente fondamentale è stata l’inven‐
zione (e l'evoluzione) dei diversi tipi di telaio. Scrive Lucia Morpurgo: "L'origine del telaio si fonde con quella della stoffa tessuta, perfezionamento della stoffa in‐ trecciata, o stuoia, per cui non occorre uno strumento apposito. [...] Il telaio fu certo conosciuto non solo dalle popola‐ zioni mediterranee da cui sorsero le pri‐ me grandi civiltà del mondo antico, tra cui la micenea e la minoica, e dalle so‐ praggiunte stirpi arie, ma anche dal nu‐ cleo primitivo di tali stirpi, giacché la co‐ mune lingua indoeuropea aveva già radi‐ ci distinte a significare tessuto e intreccio" (L. Morpurgo, "TESSITURA", XXXIII, p. 674, in "Enciclopedia Italiana Treccani", I Appendice, 1938).
I ricami dello Zimbabwe alla XV Mostra del Ricamo e del Tessuto di Valtopina Abbiamo visto come nei carmi mitologici norreni, ma si può dire lo stesso per qua‐ lunque tessitrice di qual si voglia epoca, emerga, "comunque, una solidarietà cul‐ turale tra figure femminili di alto rango, tessitura, conoscenza delle rune e, per si‐ militudine con l'attività artigianale, arte retorica e composizione poetica, preroga‐ tiva, quest'ultima, non solo maschile ma anche, e in maniera non trascurabile, femminile (Straubhaar, 2011)" (M. Meli, P Mura, cur., "La macina e il telaio. Due car‐ mi mitologici norreni", cit., p. 101). Tutta‐ via, se i miti, così come le fiabe, fanno ri‐ ferimento a personaggi paradigmatici, spesso di rango elevato (eroi, principi o principesse, guerrieri, re, regine, fate buo‐ ne o cattive…), arte, artigianato, poesia, rapporti sociali e familiari hanno per
Casa dei Popoli protagonisti uomini o, più spesso, don‐ ne "vere", dispensatrici di una saggezza che non sempre viene insegnata nelle scuole, portatrici di un coraggio e di una tenacia che non hanno nulla da in‐ vidiare ai combattenti più valorosi. Per questo è così importante dare voce alle donne, mostrare al mondo i loro ma‐ nufatti, lasciare che nelle loro mani tes‐ suti e ricami diventino "storie di pezza", fregi splendenti e sottili come lamine
d'oro, linguaggi universali, briciole per il sostentamento di individui nei villag‐ gi più poveri del mondo, eppure, nello stesso tempo, ricchezze uniche. Con questo spirito e con alle spalle anni di esperienza e di consapevolezza già ac‐ quisiti, il 6 settembre scorso si è aperta a Valtopina la tre giorni della XV Mo‐ stra del Ricamo e del Tessuto; tra i tanti ospiti di rilevo, è stata ospite graditissi‐ ma di quest'anno Sua Eccellenza Mary
17 Sibusisiwe Mubi, Ambasciatrice dello Zimbabwe. La presenza dell'Ambascia‐ trice e della giovane Dorcas Shumba, ri‐ camatrice e talentuosa modista per passione, ha permesso, insieme ai rica‐ mi e alla "storia di pezza" portati dal‐ l'Ambasciata, di arricchire la Mostra, che vanta già partecipazioni (90 esposi‐ tori e 60 artisti del ricamo provenienti dall'Italia così come da Portogallo, Regno Unito e, appunto, Zimbawe)
Intervista con l’Ambasciatrice dello Zimbabwe, S.E. Mary S. Mubi D. ‐ Quanto contano oggi l’artigianato e l’arte nella cultura del paese? R.‐ Penso che l'artigianato sia una parte molto importante della vita nel mio paese, perché una gran parte dei prodotti artigianali è stata creata o per uso comune o per motivi reli‐ giosi, per le cerimonie ecc., e per questo riflettono la vita cul‐ turale; per questo la vista di un ricamo fornisce veramente lo strumento per entrare nella vita delle persone, perché sono veramente coinvolte nel discorso artistico. I ricami riflettono anche quello che c'è in una società, per questo penso che quando le persone organizzano questo genere di mostre, cioè quando mostrano i prodotti dell'artigianato nelle diver‐ se parti del mondo, mostrano anche la loro vita e ciò in cui credono, anche il coraggio e le sfide che fronteggiano. Un'al‐ tra cosa da dire è che l'importanza dell'artigianato in molti paesi dove le donne si riuniscono e producono è che unisce le generazioni; nel mondo moderno è anche un campo d'in‐ teresse in cui le donne che hanno bisogno di entrate econo‐ miche per le famiglie trovano risorse; anche lo sviluppo di in‐ ternet e di altri mezzi di comunicazione che permettono alle donne di mettersi in contatto tra loro e scambiarsi le idee so‐ no importanti, perché ogni forma di arte deve svilupparsi in accordo col materiale con cui si entra in contatto, e anche per tale motivo è importante organizzare incontri come questo. D. ‐ Tra il tessere e il raccontare esiste un legame strettissi‐ mo. Cosa raccontano oggi i ricami nello Zimbabwe? E cosa le sembra che raccontino gli altri ricami in mostra? R. ‐ L'artigianato può parlarci della creatività delle persone, delle loro credenze, proprio perché le persone sanno essere molto creative e molto artistiche, e ci parla anche di quello che è disponibile in termini di materiale. Ovviamente se ci si sposta da un paese all'altro l'artigianato si differenzierà secondo quello che c'è a disposizione, e sfortunatamente in molte nazioni africane il materiale esistente non è a nostra disposizione, e per questo le persone devono diventare creative nel cercare di usare quello che c'è. D. – Quando la capitale Salisbury divenne Harare, la Jame‐ son Avenue prese il nome del presidente mozambicano Sa‐ mora Machel: il rapporto che lega Mozambico e Zimbabwe è ancora forte come allora? R. ‐ Come sapete, noi condividiamo il confine e la gente da tutte e due le parti del confine parla “shona”. Noi abbiamo una storia comune di battaglie; in un momento molto critico della storia del Mozambico lo Zimbabwe ha fornito supporti
e proprio in questi momenti critici, quando cominciò il pro‐ cesso di pace, lo Zimbabwe fu uno strumento molto forte in tale processo, per cui le nostre vite e i nostri paesi sono ine‐ stricabilmente uniti. Noi abbiamo sfide comuni, le nostre re‐ lazioni sono estremamente strette e continueranno ad esser‐ lo anche nel futuro, perché noi condividiamo un destino co‐ mune, a cominciare dal fatto che siamo entrambi membri della Southern Africa Development Comunity. D. – Per concludere, quale è stata la sua impressione genera‐ le su questa mostra? R. ‐ E' incredibile, io conosco donne che fanno artigianato e ricamo nello Zimbabwe quindi so che dal loro lavoro, così co‐ me dai lavori esposti nella mostra, si può intuire il tempo che le ricamatrici spendono e l'amore che mettono in quello che fanno; sono stata veramente ispirata perché io stessa facevo un po' di ricamo e ho deciso che al mio ritorno riprenderò in mano l'ago e ricomincerò a ricamare; per questo una mostra di questo tipo è ispiratrice… Mi è dispiaciuto di non aver por‐ tato ricamatrici dallo Zimbabwe: sarebbero rimaste estasiate, perché quello che ho visto è veramente incredibile. Se potrò essere ancora qui l'anno prossimo, sicuramente ci tornerò.
18 e interesse internazionali (come non ri‐ cordare la presenza congiunta, non più di due anni fa, di ricami israeliani ‐ e quindi anche etiopi ‐ e palestinesi, attra‐ verso la partecipazione, mediata dalla Casa dei Popoli, di Molly Malekar e Ki‐ tham Yousef?), non solo di colori, di nuovi tessuti o di nuovi disegni, ma so‐ prattutto di quello sguardo diretto sul‐ l'Africa (meridionale, in questo caso) che troppo spesso giunge fino a noi per via indiretta. Grazie all'impegno e alla disponibilità offerta a vario titolo dalla Casa dei Popoli di Foligno, da tutti i vo‐ lontari e le volontarie, dall'organizzazio‐ ne della Mostra, da Maria Mancini, Pre‐ sidente della Pro Loco e della Scuola di Ricamo di Valtopina, da tutte le Istitu‐ zioni e, non ultimo, dal Comune di Foli‐ gno, nella persona dell'assessore per le Politiche di Genere e le Pari Opportuni‐ tà Rita Zampolini, anche quest'anno, dunque, istituzioni, associazioni e sin‐ goli individui hanno dimostrato come sia possibile costruire un dialogo tra le persone, le culture e tra le stesse istitu‐ zioni che le rappresentano. In questo lungo processo (che mai va dato per scontato), il ricamo è valso da ponte ef‐ ficace, da linguaggio trans‐culturale, co‐ mune a tutte le donne che hanno fatto di questo lavoro una passione e una for‐ ma di riscatto. Sono state le scuole mis‐ sionarie e i vari circoli femminili gestiti dalla Chiesa a insegnare l'arte del rica‐ mo alle donne dello Zimbabwe, ma è so‐ lo grazie alle capaità di quese donne che i ricami dello Zimbabwe sono divenuti famosi. Il popolo Shona era solito rica‐ vare la stoffa da tessere dalle fibre della corteccia di un albero chiamato gudza, e ancora oggi questo materiale viene uti‐ lizzato nella fabbricazione di abiti e co‐ perte.
Conversazione con Dorcas Shumba e conclusioni Dorcas è una giovane donna divisa tra la passione per la moda, la sua famiglia (in particolare il suo bimbo di 4 anni) e lo studio in Nuova Zelanda (si occupa di sociologia e dell'impatto che povertà e cambiamenti climatici hanno sulle don‐ ne), ed è perfettamente a proprio agio tra i vestiti e i ricami in mostra. La prima guida di Dorcas è stata sua madre (inse‐ gnante di economia domestica): la os‐ servava sempre mentre lavorava a casa e adesso tutti gli strumenti che sua mam‐ ma non usa più (come la macchina da
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cucire) sono passati a lei. Dorcas ha sem‐ pre avuto la moda in testa ed è stata sem‐ pre pronta a creare qualcosa, se non per gli altri, almeno per se stessa: i vestiti da donna sono la sua passione, insieme alle stampe per vestiti di ogni tipo, in parti‐ colare quelle vintage. Il suo motto si po‐ trebbe riassumere così: "mai indossare una tinta unita, ma cercare sempre di mescolare i colori". E' un esercizio di stile che dovremmo fare più spesso anche noi con i colori delle persone e con il nostro carattere, ampliando il più possibile l'orizzonte dei nostri interessi e delle no‐ stre conoscenze… Dorcas inoltre, rispon‐ dendo alle nostre molte domande, ci rac‐ conta che in Zimbabwe ormai esiste una separazione netta tra gli abiti dei vecchi e quelli dei giovani, e infatti i suoi abiti hanno una fattura moderna, e la sua ma‐ niera di fare i vestiti si ispira al modello occidentale. Per intenderci, sarebbe im‐ pensabile vedere una persona di una cer‐ ta età indossare degli shorts…le donne più conservatrici non indosserebbero nemmeno dei normali pantaloni. Tutta‐ via a volte i giovani vengono condiziona‐ ti dalla famiglia (se si sposano e la nuova famiglia ha delle regole più rigide, fini‐ scono per adeguarsi): per esempio non è permesso stare senza maniche, soprat‐ tutto in presenza di uomini. La moda tradizionale si trova comunque a fare da filtro alle tendenze più moderne, dipen‐ de dalle situazioni: se si riceve una visita improvvisa e si indossano i pantaloni li si può sempre coprire con un sarong. Inve‐ ce durante un funerale è importante portare gli elementi più tradizionali del vestiario: il sarong, appunto, e una sorta di turbante. Una volta dovevano neces‐
sariamente essere neri, ma ora il colore non è mai davvero un problema, l'impor‐ tante è che si abbia il capo coperto e il sa‐ rong ben allacciato. Nonostante le cose cambino, dunque, nei momenti più im‐ portanti (e rituali) per ciascun individuo ritorna ancora, la tradizione, e non solo nel vestiario: se ci si sposa si sa che esiste un "prezzo" specifico da corrispondere, per esempio, a padre e madre della spo‐ sa; se si muore si viene seppelliti vicino al luogo in cui si è nati ‐ se non lo si facesse il capo‐comunità avrebbe da ridire, e co‐ munque non lo permetterebbe. Insom‐ ma, la tradizione, cacciata apparente‐ mente dalla porta principale, si ripresen‐ ta ad ogni finestra aperta. Il racconto cir‐ ca il dovere di essere seppelliti nel luogo in cui si è nati ci ricorda il racconto di un'altra nostra amica, stavolta di origine filippina: sua nonna materna aveva sep‐ pellito la placenta sua e di una delle sue sorelle sotto un albero vicino casa, in modo tale che, se anche le nipoti sareb‐ bero andare a vivere lontano, sarebbero comunque tornate a casa in tempo per morirvi e per ricongiungersi infine a quella piccola parte di sé da cui si erano separate alla nascita. Come non pensare alle doppie tombe dei nostri migranti (una vuota, a casa, e una "vera" oltre oceano), desiderosi di un ricongiungi‐ mento almeno culturale? In Zimbabwe, ci dice Dorcas, quando nasce un bambi‐ no si usa invece seppellire una parte del cordone ombelicale vicino alla casa ma‐ terna, in un luogo che solo i più anziani conoscono. Insomma, sotto le mode che cambiano, il fuoco della tradizione che unisce tra loro le vite dei singoli individui gode ancora di ottima salute.
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L’arte (e la pazienza) di saper riordinare le idee altrui
Il vero poeta crea, poi comprende... (Henri Michaux, 1956)
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Storia e sapienza di un mestiere non ancora perduto DI CHIARA MANCUSO E SARA MIRTI
Quando il frastuono delle macchine non copriva la voce umana e non si aveva bisogno delle cuffie per non ri‐ schiare di rimanere sordi, il rumore di‐ veniva suono e la fatica delle braccia era alleviata dai canti mai scritti da nessuna mano, nati per caso da una voce che lavorava, al ritmo delle falci o dei telai. Una musica di nessuno e per questo di tutti, nata dalle mani spor‐ che di lavoro e presa in prestito dai grandi musicisti che la elevavano alla sacralità della “musica colta”: dai cam‐ pi, le canzoni dei “Cafoni” diventava‐ no la melodia della “messa” o il tema delle grandi sinfonie (un esempio è il tema della sesta sinfonia di Beethoven preso proprio da un canto di campa‐ gna). La musica nasceva da lì, dal fan‐ go e dalla polvere, dai ricordi delle ninna‐nanne ritmate dal cigolio delle culle vecchie, e finiva nei grandi palaz‐ zi, nelle cattedrali austere. Gli stru‐ menti stessi del lavoro divenivano strumenti musicali: un esempio per tutti è il “Trovatore” di Verdi, dove vie‐ ne messa in scena la fine di una gior‐ nata lavorativa dei Gitani che intona‐ no il loro canto al ritmo dell’incudine e del martello. Più avanti il ritmo scandito dal “rumore” dei passi degli schiavi neri in America diede vita al “cakewalk” e successivamente al “rag‐ time”, letteralmente “ritmo straccia‐ to”, una musica nata nei bassi fondi dell’emarginazione, si diffuse dappri‐ ma nei bordelli malfamati per poi var‐ care nuovamente l’oceano grazie a musicisti come Dvorak e Debussy, Ravel che lo trasformò nel primo ab‐ bozzo di jazz, fino alla sua consacra‐ zione con Scott Joplin e la sua “Enter‐ teiner”che vide il successo solo negli anni settanta , riaccendendo i riflettori su una musica disprezzata da molti, ma che inevitabilmente ha segnato in modo significativo tutta la musica del novecento. Sporca di sangue degli schiavi neri è anche la musica che tutt’ora riempie le inconsapevoli orec‐ chie dei nostri ragazzi: il blues, padre del rock, deve il suo nome al colore blu dei lividi degli schiavi delle pianta‐
gioni di cotone, il blu del dolore, il blu della tristezza, “un pantalone con le tasche bucate” come lo definì Bob Dy‐ lan. Le parole delle canzoni blues, ac‐ compagnate da strumenti a corda, chi‐ tarra, banjo, vecchi contrabbassi e per‐ cussioni di fortuna, raccontavano le sventure degli uomini che stanchi si raccoglievano nelle loro baracche alla fine della giornata: una musica sempli‐ ce, fatta da tre accordi e una nota sto‐ nata, la nota blue appunto, un ritmo ripetitivo che invitava a ballare e a di‐ menticare la fatica e che qualche anno più tardi un ragazzo di nome Elvis, con la chitarra e con la brillantina nei capelli, avrebbe trasformato in Rock and Roll. E adesso che non c’è più il la‐ voro che unisce gli uomini nella fatica,
ma soprattutto nella passione del pro‐ prio mestiere, adesso che le macchine fanno troppo rumore per riuscire a sentire perfino la tua stessa voce, non c’è più nessun canto che si alza dai no‐ stri “campi di lavoro”, non c’è più quel‐ la melodia semplice e familiare che al‐ leggerisce i nostri attrezzi e fa scorrere veloci le nostre ore. Qualcosa però è ri‐ masto: una nostalgia sottile che la folle corsa della modernità non ha saputo lasciarsi alle spalle, qualcosa di simile a un fotogramma rubato, un sentore, un'ombra di dubbio rimasta inscritta in tutti quei macchinari che il cui ru‐ more più sopportabile, meno ossessivo e irruento, non ha ancora perso il gu‐ sto e l'abitudine di duettare con i ritmi, i fischiettii e i respiri degli uomini che
Legatoria li utilizzano. Si tratta di macchinari in‐ ventati per essere propaggini umane, strumenti di lavoro e non trappole fred‐ de e soffocanti; piuttosto macchine pen‐ sate per essere azionate da una sola per‐ sona con cui instaurare, nel tempo, un dialogo alla pari. Quando si entra nella legatoria di Marcello Raponi, la prima sensazione che si prova è di trovarsi in un luogo familiare, già visto prima (chis‐ sà quando e chissà perché). Subito dopo, osservando le cucitrici, i torchi e i torco‐ letti, le macchine per tagliare carte e car‐ toni di diverso spessore, quella per im‐ primere i caratteri, i cliché, le rotelle per le decorazioni, gli antichi cassetti che custodiscono i caratteri in bronzo, le te‐ le, le pelli, le carte più disparate, e, non ultimi, telai, aghi, fili, martelli, seghe, coltelli, taglierini (tra cui ne spicca uno, un semplice tubo con una lama da un la‐ to e un punteruolo dall'altro, tra i primi modelli usciti in commercio, apparte‐ nuto al padre del nostro legatore), colla, matita, ritagli, pergamene, e pile intere di libri (alcuni abbandonati sugli scaffa‐ li, altri in paziente attesa delle mani che ve li hanno portati), vengono subito alla mente milioni di domande sull'utilizzo
di ogni cosa, sul ruolo di ogni strumento e sull'ordine con cui va usato. Marcello Raponi si muove con la massima natu‐ ralezza tra tutti quegli oggetti meravi‐ gliosi e tra sé e sé, dall'alto della sua im‐ ponente statura, sorride della nostra meraviglia. Quando lui ha cominciato a rilegare libri, nella sua prima bottega in centro erano visibili le vestigia di una sa‐ poneria che era già stata incalzata dalla modernità...e, quindi, dovrebbe essere nel cosiddetto "ordine delle cose" (defi‐ nizione assolutamente impropria) che prima o poi la stessa sorte capiti anche alla sua legatoria; ma io mi auguro che non capiti mai, o almeno che non capiti troppo presto. Marcello ha iniziato a la‐ vorare da adolescente col padre che si occupava tanto rilegatura che di cartole‐ ria, e il rilegare quegli oggetti affascinan‐ ti e misteriosi che sono i libri nelle loro differenti fatture che attraversano i seco‐ li è sempre stata la sua vocazione. Taglia‐ re e riordinare i fascicoli, cucirli insieme, arrotondarne il profilo, incollarli alle garze, ai fogli "di guardia" (dall'augurio "che Dio ci guardi"), rinforzare la vecchia copertina (spesso fonte di veri e propri tesori, come i papiri utilizzati fino a non
21 molto tempo fa quali supporti struttura‐ li) o costruirne una nuova, scegliere e ap‐ plicare le scritte…questo fa Marcello Ra‐ poni e lo fa con la sapienza di chi è nato per fare un simile mestiere: difficilmente le sue grandi mani potranno essere uguagliate in agilità e precisione da qual‐ cun altro. Immaginate un mondo diviso in ottavi, dodicesimi, sedicesimi, venti‐ quattresimi, trentaduesimi: non sarebbe più semplice dividerlo per argomenti e riordinarlo? I suoi diversi contenuti non sarebbero più facilmente accessibili alla nostra coscienza limitata? Come si fa a dialogare con un libro chiuso e bisogno‐ so di cure? In che modo è possibile in‐ tuirne e maneggiarne l'essenza senza di‐ sperderne nemmeno una briciola? In‐ nanzi tutto, come in ogni arte e artigia‐ nato, è necessario conoscere e saper ma‐ nipolare il materiale che si ha a disposi‐ zione. I libri in particolare, nella loro ap‐ parente compattezza, ne offrono una ricca varietà: filigrane, carte di diversa fattura, pelli, pergamene, "cartone del‐ l’antichità" (cioè carta pressata foglio su foglio), inchiostro, lamine d'oro (vero o falso ‐ quello falso sulla pelle tende col tempo a diventare verde, mentre quello
22 vero non perde mai il colore) il cui uso è stato importato, tramite i legatori fio‐ rentini, dall'Oriente (fine XIV sec.), fili di refe (fino di cotone, lino, canapa, sin‐ tetico, o misto), ecc., senza contare tut‐ to ciò che viene posto nei libri a mo' di segnalibro: pezzetti di legno, di cuoio, santini, articoli di giornali, e, perché no, appunti e fotografie... Poi bisogna sop‐ pesare l'anima, insomma i contenuti, per potergli dare una veste adeguata, e per fare questo, naturalmente, servono strumenti che di anima ne abbiano a propria volta una. Credo che sia anche per questo che Marcello Raponi adora i suoi strumenti di lavoro, perché ne rie‐ sce a percepire distintamente l'anima che gli è stata trasmessa "per contatto" (come nelle migliori tradizioni magi‐ che) da chi li ha costruiti e da chi, Mar‐ cello compreso, li ha maneggiati. Come una delle sue rotelle per applicare le la‐ mine d'oro in piano, appartenuta a suo tempo a un legatore novantenne e rica‐ vata da una moneta dell'Impero Asbur‐ gico, anno 1837 (esattamente lo stesso anno di nascita, secolo più, secolo me‐ no, del nostro Marcello); per dirla con Kierkegaard, un altro anno "del grande buco" ‐ oltre a quello del 1813 ‐ ma in quel caso si trattava di un buco econo‐ mico ed esistenziale, effettivamente molto più grande di quello che si può fare a una moneta. E poi c'è la macchina per la doratura, ma anche per l’impron‐ tatura (attraverso lastre di rame che ab‐ biano impresso in rilievo il carattere o il disegno da eseguire) o, come a volte vie‐ ne (impropriamente) detta, “doratura a freddo”, prodotta dalla Salvati (siamo a cavallo tra '800 e '900): gli spazi atti ad accogliere dei tubi di attacco sono dota‐ ti di piccolissimi forellini, collegati alla diramazione del gas, in modo tale che le fiamme vive scaldino le piastre (una fissa e una mobile); solo successiva‐ mente è stata aggiunta una resistenza elettrica. Se all'inizio del mondo Dio ‐ così narrano molte leggende ‐ deve es‐ sere stato un fabbro (per via della pa‐ dronanza col fuoco e del suono, quasi una voce creatrice, che si sprigiona dal‐ l'incudine percossa dal martello), tutti i suoi angeli, o i demiurghi, inviati a ri‐ mettere ordine, a dare una forma com‐ piuta e a imprimere un nome segreto e un ruolo alla materia vivente, dovevano essere piuttosto artigiani bravi con ago, filo e cliché da imprimere a caldo. In questa legatoria, tra i macchinari e gli scaffali, la materia si fronteggia e mette
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alla prova le proprie capacità e la pro‐ pria diversa resistenza: il legno, il bron‐ zo, il ferro, l'ottone, il cuoio, la cellulosa, l'oro vero o finto, la colla sintetica dilui‐ ta in acqua (che mai ha fatto rimpiange‐ re a chi l'ha usata il vecchio e scomodo “chiaro d’uovo” incapace di asciugare in modo uniforme, cosicché alcune parti degli ornamenti dorati si staccavano e altri no), le lame affilate, i fili dal diverso spessore, tutto si giustappone in manie‐ ra armonica. Le macchine per cucire i fascicoli somigliano molto a dei telai (bisogna allentare i fili prima di comin‐ ciare, e poi dividere le parti già lavorate con dei supporti in legno; e, natural‐ mente, la fase successiva prende il no‐ me di “indossatura”, alla francese, o al‐ l’inglese, vale a dire arrotondata dalla parte della testa e del dorso per egualiz‐ zarne i quinterni), e quelle di Marcello non fanno certo eccezione, piuttosto hanno una propria storia; infatti su quella più grande, personalizzata dal‐ l'uso, si trova una targa che recita: "D. G.
Viviani & C. ‐ Milano. Via Solferino n. 18. Casa fondata nel 1880. Rappresen‐ tanti generali per Italia ‐ Colonie". Men‐ tre sui pennelli in legno che sorreggono le bobine di filo è stato posto un santino della Madonna delle Scuffiole il cui san‐ tuario non si trova molto lontano dalla legatoria. Invece, utilizzando la macchi‐ na più piccola (sempre di fattura tede‐ sca), per dividere un libro lavorato dal‐ l'altro non è necessario usare supporti di legno, ma basta dargli "un colpo a vuoto". E poi ci sono le storie di chi ha portato i propri libri e giornali, o i propri ricordi a rilegare, a volte persino a ripa‐ rare; sono storie in continuo mutamen‐ to, che si sovrappongono l'una a l'altra, cancellandosi a vicenda e inscrivendosi in una storia più grande di saperi e tra‐ dizioni. Infine ritornano i suoni, diversi a seconda del macchinario e del mate‐ riale usato, brevi o prolungati, ripetitivi o inaspettati, a seconda dell'ispirazione dell'artista intento, ancora una volta, a creare magia e musica.
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Parola e luce
[...] Tu sei un figlio dell'universo, non meno degli alberi e delle stelle; tu hai diritto ad essere qui. E che ti sia chiaro o no, senza dubbio l'universo va schiudendosi come dovrebbe. (da Desiderata, poesia in prosa di Max Ehrmann)
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Le Sacre vibrazioni dell'Universo DI JACOPO FELICIANI
Il mistero dell'esistenza umana è un problema ampiamente dibattuto e se‐ guito. L'indagine è portata avanti da diverse Discipline dalle scientifiche ‐ Cosmologia, Fisica, Astrofisica, Filoso‐ fia, Teologia, Storia ‐ alle più empiri‐ che. Il campo di indagine non sfugge neppure al mondo artistico, tanto che gli Artisti più recettivi e illuminati per‐ seguono una ricerca costante e intui‐ zioni che toccano confini posizionati in un contesto d'avanguardia anche ri‐ spetto alle Discipline scientifiche. La interdisciplinarietà in questo contesto potrebbe dare enormi risultati ‐ molte della scoperte rivoluzionarie avvengo‐ no fuori dalla ricerca sperimentale‐ ma la Scienza tradizionale tende a non dare molto credito alle intuizioni fuori dalla propria sfera conoscitiva. Farei una premessa essenzialmente storico‐ teologico e una prettamente scientifi‐ ca. Richiamerei innanzi tutto la Caba‐ la intesa come scienza ricevuta per l'interpretazione dei Testi sacri. I Ca‐ balisti ufficiali (36 in tutto) assomma‐ no al grande intelletto e cultura, doti di grandi matematici e scienziati. Essi esponendo la teoria cosmologia che viene dall'interpretazione cabalistica dogmatica (scientifica e sacra) tratta‐ no un argomento molto interessante, anche se a un primo ascolto potrebbe sembrare superficiale. Trascurerei dunque tutta la parte iniziale in cui Dio si ritrae in se stesso per lasciare spazio per la creazione dell'universo distruggendo poi 30 mondi prima di confermare quello attuale, l'uomo ce‐ leste, poi quello primordiale, Adamo nell'Eden e tutta la stirpe di David... L'elemento che colpisce è il fenomeno della Parola e la vibrazione che produ‐ ce. Il senso primordiale dell'uomo è la vista, non c'è alcun dubbio; l'uomo si muoveva in base alla vista, ciò che ve‐ deva, il gesto, prima che conoscesse il linguaggio. E' dunque Dio ‐ in princi‐ pio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio ‐ a trasmettere la parola all'uomo (Mosè, secondo ca‐ balista dopo Abramo). E il Verbo do‐ veva avere le forme delle lettere ebrai‐
che, in tutto 22, e la combinazione del‐ le 22 a coppie di due tra loro ossia 231 in totale per le quali restano coperte la totalità delle parole che si possono for‐ mare nella Lingua Sacra, e più che al‐ tro un'intonazione precisa (che è an‐ data perduta). Le 231 combinazioni so‐ no chiamate anche porte, e servono per accedere a una dimensione diversa da quella base 'animale' dell'uomo, il Malkuth, il primo livello dell'Albero della Vita. L'Alfabeto ebraico non è una semplice raccolta di lettere ma un complesso ordine di simboli e grafi al‐ fanumerici; ad ogni lettera e parola corrisponde un numero. Di salto in salto nel 'racconto' la vibrazione di‐ venta elemento essenziale quando Dio alla sola pronuncia di una parola di‐ strusse le 2 città di Sodoma e Gomorra; e quando gli Israeliti cinsero d'assedio Gerico dopo i rituali 7 giri della città con l'Arca dell'Alleanza lanciarono il grido di guerra e le mura furono abbat‐ tute. Sembra proprio che il suono della parola, ossia le vibrazioni che genera, abbia degli effetti davvero importanti per la vita degli individui. Anche i Sufi avevano intuito una relazione del ge‐ nere e nell'esclusiva attività alla ricerca costante di Dio, aiutata dalla pronun‐ cia dei suoi nomi e dalle attività del‐ l'iniziato, si distraggono dal resto del mondo e mirano alla ricerca esclusiva
della divinità. La ricerca Scientifica è posizionata uf‐ ficialmente sulla Teoria del Big Bang, un'esplosione primordiale di 10 miliar‐ di di anni fa, e nel campo micro scopre gli elementi più piccoli della materia composti prevalentemente da relazio‐ ni quasi esclusivamente energetiche. Il principio di indeterminazione di Hei‐ semberg (l'osservatore di un fenome‐ no a livello subatomico ha influenza rilevante sullo studio degli elementi) conferma l'influenza che le vibrazioni possono causare sulla materia e sul‐ l'energia. Gli studi scientifici teorizza‐ no anche una risonanza di Schumann, una frequenza a cui pulsa la terra pari a 7,8 Hz ossia un sottomultiplo della nota La 432. Infine la Teoria delle Stringhe prevede la vibrazione come fondamentale elemento della materia. I risultati di tutte le speculazioni disci‐ plinari sono allineati, e questo è con‐ fermato anche dal raffronto con altre Civiltà. Per il confronto vorrei intro‐ durre la Pittrice Colombiana Diana Maria Perez conosciuta in occasione della collettiva “Arte in Movimento” Esposizione organizzata in collabora‐ zione con la prestigiosa Associazione Spoleto International Art Fair 2013 di Filipponi‐Puntelli, in Palazzo Leti‐ Sansi Spoleto 10‐28 agosto 2013 dalla Baronessa Maria Lucia Soares.
Vita Diana Maria Perez La Pittrice colombiana Diana Maria Pe‐ rez, si è posta in evidenza come assisten‐ te della Baronessa coordinando una squadra con grande polso e maestria. L'elemento che mi ha colpito, utile aquesta ricerca, è che per le sue opere adotta un'ingegnoso sistema creativo. La difficoltà più grande per un artista è quella di pensare un'opera, di muovere tutti gli elementi della scena, inserendoli secondo una progettazione program‐ mata. Poi con la tecnica si porta a termi‐ ne il lavoro in poco tempo; la fase esecu‐ tiva vera e propria è spesso la parte che desta meno problematiche. Diana elimi‐ na il processo creativo della coscienza cercando di estraniarsi dal pensiero e la‐ sciare operare il solo subconscio, senza che ci sia una volontà operante. L'irra‐ zionale che diventa creatore e che si sot‐ tomette alla coscienza, senza avvertire il bisogno della razionalità. Il risultato è un complesso molto ordinato di tratti che sembrano ramificazioni di inestricabili labirinti. Il disegno è fondamentale ed è l'elemento che Diana andrà ad interpre‐ tare per comprendere il tema, il soggetto dell'opera d'arte. Quindi nascono dei te‐ mi ricorrenti, che spesso riempie con ca‐ scate di colori molto accesi che richia‐ mano le pitture dei nativi d'America. Sembra quindi emerge il suo volto occi‐ dentale, la razionalità sconfitta ‐ il labi‐ rinto greco rappresenta la razionalità del pensiero occidentale ‐ nel segno, nella semiotica e il volto nativo nei colori, quando presenti, che dominano e vinco‐ no in un contrappunto cromatico di ge‐ niali accostamenti. Biografia Diana Maria Perez, nata a Cali (995m s.l.m‐ Colombia) ‐una realtà metropoli‐ tana di 2.milioni di abitanti e una super‐ ficie di 542 km2‐ il 9 febbrario 1980. Do‐ po la rinuncia agli studi di ingegneria, nel 1998 arriva in Italia, impara presto la lingua (competenza certificata dall'Uni‐ versità per Stranieri di Siena); visita, am‐ mira e scopre l’Italia accrescendo cono‐ scenza e passione per l’Arte. All'età di 24 anni si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Brera, frequenta il corso di Pittura al dipartimento di ricerca sul contempora‐ neo. Nel 2005 partecipa alla formazione del gruppo SOS, Società Occupazione Spazi, intervenendo artisticamente nella occupazione temporanea di spazi inter‐ ni ed esterni con indagini sui diversi luo‐ ghi. Nell'estate 2006 si trasferisce a Lon‐ dra per seguire i Corsi alla Saint Martins
School. Nell'inverno torna a Milano per continuare gli studi a Brera e partecipare a diverse mostre. Frequenta il corso spe‐ cialistico in Terapeutica Artistica e con‐ temporaneamente diventa assistente del Prof.Pier Luigi Buglione alla Cattedra di Anatomia Artistica, docente con oltre 40 anni di esperienza nel mondo dell'arte. Nel 2008 si laurea all'Accademia di Belle Arti in Arti visive con indirizzo Pittura. Segue poi il Corso di Perfezionamento in Terapeutica Artistica, una ricerca sine‐ stetica nella musica, facendo attenzione alle vibrazioni di suoni musicali e parole, e il colore percepito attraverso la visione. Nel tentativo di sperimentare contrasti culturali, visita il Giappone nella prima‐ vera del 2009. Si nutre delle percezioni che hanno i luoghi, forme, colori e suoni della Lingua giapponese. Le sue opere artistiche più impostanti sono state ac‐ quisite da collezioni private a Londra, New York, Miami, Roma e Milano.
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Diana Maria Perez lavora con installa‐ zionI, scultura, pittura e disegno in cui cerca la sfida, il confine tra l’arte e i fram‐ menti dell’oggi, rendendo nel suo lavoro riflessioni e pensieri smarriti nella nor‐ malità e nella quotidianità; capacità in‐ ventiva, poesia, ironia, energia e l’attra‐ zione che si prova di fronte alle sue crea‐ zioni artistiche ne fanno un personaggio di primo piano tra gli artisti della sua ge‐ nerazione. Diana esplora l’incertezza del tempo estraendone il cuore dell’espres‐ sione umana: l’amore, la vita, la morte, la nudità, la lealtà, il tradimento, attra‐ verso mezzi espressivi inaspettati e mai convenzionali. Diana Maria Perez è stata presente con al‐ cune sue opere artistiche dal 27 al 30 set‐ tembre 2013 per l'Expo Spoleto Festival Art 2013 al Chiostro di San Nicolò di Spoleto e sul catalogo. E' in preparazione anche una personale presso l'Hotel Spoleto In orga‐ nizzata da “Duca Cultura”.
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Vita
Intervista all’Artista Diana Perez Diana, ho letto la sua biografia (la ricer‐ ca interiore intrapresa nel viaggio in Co‐ lombia alla riscoperta di luoghi come la Laguna di Guatavita) e conosciuto le sue personali che si incentrano sulle vibra‐ zioni di suoni musicali e parole, e il colo‐ re percepito attraverso la visione; cosa può dirci riguardo ai contributi che Civil‐ tà diverse dalle più Occidentali a quelle più Orientale, o quella Nativa america‐ na pre‐Colombiana? Che influenza han‐ no e hanno avuto nell'uomo? ‐ La mia ricerca si è incentrata sullo stu‐ dio di varie Civiltà tra le quali possiamo ricordare i testi sacri dei popoli che in‐ vasero l'India settentrionale (2.000 a.C.): parlavano della sillaba sacra OM o Aum, suono primordiale che ha dato origine alla creazione di tre suoni più un quarto rappresentato dal silenzio. A è la creazione rappresentata da Brahmā, U è la conservazione rappresentata da Vi‐ snu, M dissoluzione rappresentata da Śiva. Questa lettera è ripetuta in manie‐ ra ciclica nei Mantra, le preghiere rivol‐ te da un Deva alla divinità a colui che emana luce.La Teoria cosmologica in Cina prende avvio da uno stato chiama‐ to Wu Chi, ossia “assenza di differenzia‐ zioni”, che viene alterato con la creazio‐ ne di due “polarità” di segno opposto che interagiscono dando origine alla T’ai Chi ossia la Suprema Polarità. L'Universo è regolato da due principi fondamentali: Yang ‐ principio positivo, maschile, colore bianco ‐ e Yin ‐ princi‐ pio negativo, femminile, colore nero. Restando nell'estremo Oriente, il Giap‐ pone, che ho conosciuto in una mia ap‐ profondita visita, è interessante la ricer‐ ca degli Scienziati giapponesi che stan‐ no studiando al microscopio l'effetto della scrittura associata al congelamen‐ to dell'acqua. I risultati mostrano im‐ portanti differenze nella cristallizzazio‐ ne del ghiaccio ‐ a parole benedette so‐ no associati cristalli perfetti e viceversa. E il corpo umano è formato dell'80% da acqua... Quindi esiste una evidente con‐ nessione, che nella Teoria è nota come sinestesia, tra parola, suono, segno, rap‐ presentazione grafica, in una parola la “vibrazione” che influisce in maniera determinante sulle persone. Nello stu‐ dio e nella ricerca delle Civiltà pre‐co‐ lombiane ci si imbatte in popolazioni che sono tra le più antiche presenti sulla Terra. El Abra è un sito archeologico che
è stato datato intorno al 12.400 a.C.. La catena montuosa della Sierra Ne‐ vada, con Santa Marta, Pi‐ co Colon e Pico Bolivar (5.775 metri), nasconde Teyuna, la città perduta dei Tayrona in cui si stanziaro‐ no intorno all'anno zero anche se erano già abitate in epoca più remota. In un’area che si affaccia sulla Laguna di Guatavita, 60 chilometri da Bogotá, sono presenti i resti dell’insedia‐ mento dei Muisca, anti‐ chissima popolazione na‐ tiva della Colombia. I Mui‐ sca migrarono dall'altopiano Cundibo‐ yacense tra il 5500 a.C. e il 1000 a.C. e praticavano dei riti religiosi connessi al culto del Sole. Lo Zipa di Guatavita (so‐ vrano‐sacerdote) si cospargeva la pelle di resina (verniz de pasto) e polvere d'oro, raggiungeva il centro del lago con una zattera per immergersi nell'acqua con il sole allo zenit e spogliarsi dall'oro di dosso, dando avvio alle offerte rituali in preziosi dei fedeli. Furono i Conqui‐ stadores come Hernán Perez de Quesa‐ da, a partire da 1545, a dare avvio al Mito dell'El Dorado, e quindi a spogliare gli 'indigeni' di tutte le loro ricchezze, della loro cultura e tradizione e soprattutto a portarli alla quasi estinzione. Nella mia ricerca esistenziale personale ho tra‐ scorso un lungo periodo con questa straordinaria gente, nel loro habitat, re‐ spirando e riscoprendo le loro dimen‐ sioni, la Cultura degli antenati, molto più vicina alla Sapienza rispetto alla Cultura occidentale fatta di esteriorità ed indagini scientifiche sul mondo esterno, piuttosto che allo studio del mondo interiore. A livello artistico si esprimevano in modo speciale con il materiale più prezioso e sicuramente non avrebbero da invidiare nulla alla sterile società dei numeri. ‐ Che relazioni intravede tra parola, scrittura e rappresentazione visuale? ‐ Posso affermare che ci sia stato sempre una propensione da parte di Poeti ed Ar‐ tisti a nascondere conoscenze nei propri lavori e dipinti, celare antiche conoscen‐ ze; e Pittori illuminati e affermati musi‐ cisti come Vasilij Kandinskij, Paul Klee e Aleksandr Skrjabin ricercavano una ma‐
trice unica che accomunasse suono e immagine, segno e colore, e che si speri‐ menta come esperienza‐sinestesia per rispondere agli interrogativi umani più misteriosi. Tali quesiti e conoscenze do‐ vevano essere state svelai dallo stesso Dio, ma l'uomo non è riuscito a trasmet‐ terli, o forse li custodisce in segreto. Non ci dimentichiamo anche che "Arte", Omanut, "Fede", Emunà, provengono dalla stessa radice ebraica MN (Men Nun) presente anche in Amen; Fede è capacità di raffigurare una realtà supe‐ riore e quindi anche rappresentarla su dei supporti per metterla a disposizione di tutti. Personalmente perseguo una ri‐ cerca sulla combinazione delle parole in una contrapposizione semiotica, per la quale Amor, Amore e Love sono in rela‐ zione inversa alle banconote. Un esperi‐ mento sotto gli occhi di tutti, che da lon‐ tano produce effetti diametralmente opposti rispetto a quando ti avvicini e scopri la vera dimensione della realtà. Nella più recente ricerca cerco di lasciar parlare direttamente l'io senza la media‐ zione della ragione. Quindi, mettere di‐ rettamente il fruitore dell'opera d'arte in relazione con l'essere. Il risultato mi pa‐ re interessante da scoprire e spero che vogliate apprenderlo direttamente ve‐ nendo a vedere le mie opere nel mio Atelier a Milano, Arte Perez, sul mio sito http://artedia.net/, oppure in questa meravigliosa verde Umbria che ho sco‐ perto con enorme sorpresa da poco tempo, ma da cui sono davvero affasci‐ nata, ricca di Cultura, tradizioni ed anti‐ chissime Civiltà come Umbri ed Etru‐ schi.
Rullo
Il Rullo compressore e il violino
La cinematografia sovietica, nata all’indomani stesso della nascita del primo stato li‐ bero della storia dell’umanità, forte di una scuola di Stato e del sostegno del governo, ha prodotto una grande quantità di veri e propri maestri nelle diverse applicazioni tecniche e artistiche legate alla produzione di film. Tar‐ kovskij è stato indicutibilmente uno dei grandi maestri della regia mondiale, grazie anche di una vasta cultura umanistica europea; pe‐ raltro molto legato all’Italia dove ha girato un capolavoro come No‐ stalghia. Nel qr code a fianco rinviamo all’indirizzo di un filmato pro‐ mozionale realizzato da Francesco De Gregori per il lancio della sua canzone “Piccola mela”, che utilizza un brano del film di Tarkovskij
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Rullo
Una prova d’esame che è già un capolavoro maturo Nel 1960, il ventottenne Andrej Arsene‐ vic Tarkovskij realizza "Il rullo com‐ pressore e il violino", pellicola con la quale lo stesso consegue il diploma nel corso di regia, presieduto da Mikhail Romm, presso il VGIK, la più importan‐ te, nonché la più antica scuola di cine‐ ma del mondo, essendo stata fondata a Mosca nel 1919 da Vladimir Rostislavo‐ vic Gardin. Sceneggiato da Tarkovskij e da Andrej Sergeevic Michalkov‐Konca‐ lovskij (anch’egli frequentatore del me‐ desimo corso di regia), il film ha come protagonisti un bambino di sette anni, Saša, che prende lezioni di violino al conservatorio, e un operaio, Sergej, che lavora su un rullo compressore per la pavimentazione stradale. A causa della sua passione per la musica, Saša viene ripetutamente deriso dai suoi coetanei, che si divertono a chiamarlo “Il Musici‐ sta”, sottraendogli per gioco con la for‐ za del violino. Alla scena assiste Sergej, che pone fine alla prepotenza dei ragaz‐ zini. Ritornato in possesso dello stru‐ mento, Saša si reca al conservatorio per sostenere la tanto temuta prova d’esa‐ me di violino: la sua esibizione è un di‐ sastro e la maestra lo riprende più volte. Tornando verso casa Sasa incontra di nuovo Sergej, che lo invita a provare a guidare il rullo compressore. Mentre gli altri ragazzini osservano invidiosi, tra Saša e Sergej si stabilisce un bellissimo rapporto di amicizia. Una storia sempli‐ ce ma tutt’altro che banale, che ci inse‐ gna come l’amicizia possa superare le profonde differenze che contraddistin‐ guono le persone, proprio come capita ai protagonisti di questo film. In poco meno di un’ora, il regista imbastisce una vicenda in cui contrappone, con un lirismo delicato, la fantasia di un bam‐ bino che sogna di diventare un musici‐ sta, con il realismo di un operaio alle prese con il duro lavoro quotidiano. Questi due estremi si rincorrono conti‐ nuamente per tutta la pellicola, senza annullarsi l’uno coll'altro, ma anzi an‐ dando armoniosamente di pari passo. Se è vero che questo mediometraggio sconta alcuni difetti (sia nella regia che nel montaggio, curato da Lyubov Butu‐ zova), oltre che certuni personaggi non perfettamente delineati (soprattutto i bambini cattivi e l’operaio: i primi ap‐ paiono malvagi oltre misura, il secondo
al contrario pecca di eccessiva bontà), è altrettanto vero che possiede molti pre‐ gi. Non sono pochi, infatti, i momenti in cui Tarkovskij sembra fare le prove generali per i successivi capolavori, in particolare per il modo in cui muove la cinepresa (splendidi i carrelli laterali), e anche per come dissemina il film di simboli (soprattutto quello dell'acqua, presente in varie forme: da quella pio‐ vana a quella di una fontanella, passan‐ do per quella contenuta nei bicchieri) che in futuro non mancheranno mai nei suoi lavori. In alcune sequenze poi si vola decisamente alto, come quella in cui Saša costruisce un aeroplano di car‐ ta con il foglio dello spartito per comu‐ nicare al suo amico che, per colpa di sua madre che non gli ha concesso il per‐ messo di uscire, non può andare con lui al cinema a vedere “Capaev” di Sergej e Georgij Vasil’ev o il poetico finale oniri‐ co (che anticipa quello, stupendo, de “L’infanzia di Ivan”), o ancora quella in cui il bambino suona davanti all'opera‐ io. E’ difficile trovare le parole adatte per descrivere la bellezza di questa sce‐ na, specialmente a chi non l’ha mai vi‐ sta: se per caso siete tra questi ultimi, vi basti sapere che, vedere Saša che si pro‐ duce in un’esibizione con la quale ten‐ ta, a dispetto della sua acerba tecnica che non gli permette di esprimersi ap‐
pieno, di effondere i propri sentimenti mediante le corde del suo amato violi‐ no, trattasi di un momento di grande cinema, magico e commovente a un tempo, che gonfia di emozione il cuore dello spettatore. Poesia pura, insomma, grazie anche al fondamentale contribu‐ to della bellissima colonna sonora di Viaceslav Ovcinnikov, che si unisce magistralmente alla musica generata dal violino creando così una melodia ricca di fascino che farebbe venire la pelle d’oca anche ai sassi, e alla notevole fotografia di Vadim Jusov, che si esalta particolarmente nel filmare i riflessi della luce del sole che inondano l’am‐ biente nel quale si svolge l’improvvisato concerto. Tale meravigliosa scena di‐ mostra chiaramente che ci troviamo di fronte ad un autore dal talento immen‐ so. A riprova di ciò, soltanto due anni dopo, nel ‘62, uscirà il primo straordi‐ nario capolavoro del maestro russo: "L'infanzia di Ivan" (anch’esso scritto con la collaborazione di Andrej Konca‐ lovskij). Opera fenomenale alla quale seguiranno altri sei lungometraggi (quattro dei quali, però, autentiche pie‐ tre miliari: “Andrej Rublëv”, “Solaris”, “Stalker” e, infine, “Nostalghia” girato in Toscana), che consacreranno Andrej Tarkovskij come uno dei più grandi ci‐ neasti della Storia del Cinema.
Acqua
Camminando sull’acqua
Nella pagina seguente pubblichiamo una recensione molto articolata sulla vicenda del film che ne narra e analizza il contesto culturale e politico dell’odierno Israele, sempre più lontano dalla memoria dell’olocausto nazi‐fascista e invece profondamente im‐ merso nell’attualità del dramma di una difficilissima, ma inevitabile, convivenza con la comunità arabo palestinese. Il film, seppure da un angolo di visuale necessariamente ebraico, tratta però anche un altro tema che ci riguarda assai più da vicino: la mancata resa dei conti con il nostro passato nazista e, per quanto riguarda noi italiani, fascista. “Noi prima di Dio” è il messaggio della vendetta propria della cultura religiosa del “po‐ polo eletto”; ma “noi e il nostro passato” è il tema sul quale sul quale dovrebbe stimolarci a riflettere questo film. La “cultura” nazista e fa‐ scista è morta con i “comodi” e fin troppo “facili” dittatori ai quali abbiamo addossato tutte le colpe liberando la responsabilità delle condivisioni o almeno delle vaste connivenze popolari, o è solo so‐ pita in attesa di riemergere con la crisi che mette a richio il nostro benessere? A lato il qr code che indirizza alla scena della soppressio‐ ne del vecchio criminale nazista, nella pagina seguente il qr code della scena del lago di Tiberiade.
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Occorre imparare a camminare sulle acque per risolvere i conflitti? di Sara Troilo
Eytan Fox, nato a New York e cresciu‐ to in Israele è una persona intelligen‐ te. Mirko Tremaglia, all’epoca del‐ l’uscita del film Ministro per gli italia‐ ni nel mondo, lo è molto meno, tanto che stava per impedire agli italiani di vedere distribuito questo Camminan‐ do sull'acqua. Quando la commissio‐ ne dell'europarlamento ha rimandato a casa l'impreparato Buttiglione, Tre‐ maglia si era democraticamente espresso in questo termini: "Povera Europa: i culattoni sono in maggio‐ ranza". A seguito di questa elegante affermazione Eytan Fox aveva deciso di non distribuire il proprio film in Italia, ma da persona intelligente è tornato sulla sua decisione. Un rin‐ graziamento al regista. Dopo Yossi & Jagger, storia di due sol‐ dati che si innamorano in una base ai confini con il Libano, altri temi forti sono quelli che l'autore propone in Camminando sull'acqua. Eyal è un agente speciale del Mossad, è uno molto cattivo e apre il film con la spietata uccisione di un esponente di Hamas davanti agli occhi di suo fi‐ glio. In seguito a un trauma, il suici‐ dio della moglie, gli vengono affidati incarichi meno impegnativi come, appunto, la ricerca di un criminale di guerra nazista scampato alla giusti‐ zia. Eyal si ritrova quindi a seguire i due nipoti del nazista, Pia e Axel. La sceneggiatura scritta da Gal Uchov‐ sky, personaggio di spicco e molto in‐ fluente in Israele, è la punta di dia‐ mante di questo film che ha il raro dono di non appesantirsi mai nono‐ stante il soggetto metta in gioco mol‐ tissimi punti caldi della storia con‐ temporanea, della società, del vivere politico delle donne e degli uomini. Contenuta a stento in una cornice leggera c'è l'interazione tra Eyal, che non esita a uccidere e che non na‐ sconde il proprio odio verso i palesti‐ nesi e i tedeschi, e le proprie difficol‐ tà con i gay. Pia, nipote del criminale nazista che ripudia i genitori e sceglie di vivere in un kibbutz e suo fratello Axel, omosessuale, che tenta di con‐
vincerla a tornare a Berlino per fe‐ steggiare il compleanno del padre. Il titolo del film è già abbastanza denso, quella camminata sull'acqua, accen‐ nata da Axel e poi sognata da Eyal, non può non ricordarne una molto più famosa e qui diventa emblema di un equilibrio precario che si può rag‐ giungere, ma soltanto insieme (come nel sogno di Eyal). Gerusalemme co‐ me culla di civiltà che si incontrano e si scontrano, simbolo anch'essa di un conflitto che sembra insanabile. Tut‐ to intorno, sempre evocate, ma mai rappresentate, le esplosioni a opera di kamikaze palestinesi in tutta la cit‐ tà. A dispetto degli ingredienti densi, il film scorre seguendo la linea della semplicità, la regia è essenziale, spes‐ so invisibile a volte ingenua, comun‐ que poco incisiva. Il meccanismo che fa ruotare i personaggi è ridotto al‐ l'osso, non ci sono mai sovrapposi‐ zioni, salti temporali, la narrazione è sempre lineare e comprensibilissima. Il finale purtroppo è esageratamente banale, piatto, probabilmente pro‐ grammaticamente rassicurante. Fox ha costruito un mezzo di locomozio‐ ne comodo, invitante ed estrema‐ mente accessibile per un messaggio importante, puntando molto sulla
scrittura e provocando un "effetto prolungato". Difficile che una volta terminato Camminando sull'acqua non si ripensi alle stratificazioni delle questioni socio‐politiche messe in campo. Altrettanto difficile dev'esse‐ re stato per il regista eliminare tutto ciò che ha il potere di respingere lo spettatore davanti a temi come quelli trattati qui, puntando sulla diffusio‐ ne. Quello che passa è una condanna della violenza che scaturisce innanzi‐ tutto dalla scelta di non aggredire lo spettatore, né di tediarlo con dida‐ scalie inutili o cadute retoriche. Quando si fa una scelta del genere si contempla il rischio che qualcuno si limiti a una lettura superficiale, que‐ sto è inevitabile. Il discrimine è l'in‐ tenzione del regista, o meglio, il li‐ vello di ruffianeria piuttosto che di avvicinamento empatico a un pubbli‐ co più ampio di quello dei festival. La traduzione italiana ha pe‐ nalizzato il film che in ori‐ ginale è stato girato in lin‐ gue diverse.
Cinedeaf
Aspettando che lo spettacolo ricominci
In qualche luogo i sogni diventeranno realtà. [...] Là ci nasconderemo e svaniremo, tutti vanamente al confine della luna, sentendo che ciò di cui siamo fatti è stato qualche volta musicale. (Ferdinando Pessoa, da “Licantropia”)
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Cinedeaf
Si apre a Roma la II edizione del festival Cinedeaf DI SARA MIRTI
Ci siamo quasi, ogni cosa viene organiz‐ zata pazientemente e con una certa te‐ nacia. Sono stati presi i contatti necessa‐ ri, i film sono stati già ideati e girati da tempo, gli interpreti, udenti e segnanti, sono stati richiamati alle armi, il passa‐ parola ha già superato i confini degli esperti del settore e degli appassionati per diffondersi anche tra la gente comu‐ ne che mai, fino a non molti anni fa, avrebbe immaginato, in Italia, un cine‐ ma accessibile contemporaneamente a persone sorde e udenti; la location è lì che aspetta tutti: artisti, registi ed attori, tecnici, curiosi, giornalisti e soprattutto il suo numeroso pubblico, di varia prove‐ nienza ed età. Durante la scorsa edizione sono state registrate circa 1500 presenze (tra biglietti ed abbonamenti) con parte‐ cipazioni nazionali (letteralmente da ogni parte d'Italia) e internazionali (Eu‐ ropa ‐ soprattutto Francia e Inghilterra ‐ e Stati Uniti, ma anche Giappone); e que‐ st'anno ci si aspetta di migliorare quello che già l'anno passato appariva come un "record", una scommessa vinta con suc‐ cesso. "Ho finito, adesso bisogna saper ri‐ cominciare"; con queste parole, il 27 di‐ cembre 1962, Pier Paolo Pasolini presen‐ tava una nuova poesia ai lettori della sua rubrica tenuta su "Vie Nuove" (giornale del Partito Comunista), quasi scusandosi per "essersi permesso" di concludere un ciclo della propria vita lavorativa nono‐ stante ci fossero ancora così tante lettere rimaste senza risposta sul proprio tavolo. Un periodo bello della vita finiva, diceva, ora era necessario ricominciare: comun‐ que nessuna di quelle lettere sarebbe ri‐ masta chiusa. Lo stessa cosa potrebbe dirsi della seconda edizione del festival Cinedeaf di Roma: ora bisogna ricomin‐ ciare, nessun messaggio, nessuna fatica andrà perduta! Il concorso per registi sordi e udenti si è chiuso (per la sezione scuole invece c'è ancora tempo fino al 15 ottobre), le selezioni sono iniziate e il programma è ancora in via di definizio‐ ne, ma il pubblico che affluirà allo storico Teatro Vascello (via G. Carini 78, Roma, quartiere Monteverde) dal 29 Novembre al 1 Dicembre può star certo fin d'ora che, attraverso la collaborazione tra l'organiz‐ zazione del festival e quasi l'intero quar‐
tiere ospitante, sarà accolto al meglio, e che, se lo vorrà, potrà essere protagonista di ogni passaggio, di ogni evento, di ogni workshop. Quando si parla di Cinedeaf s'intende un cinema che racconta la sor‐ dità (direttamente, per mezzo della lin‐ gua ‐ la LIS ‐ e dei contenuti, o indiretta‐ mente, per esempio grazie all'identità dei protagonisti) attraverso gli stessi occhi di chi è sordo (o di chi, pur essendo udente, si è posto il problema di cambiare il pro‐ prio punto di vista). Registi sordi e uden‐ ti, pur usando a volte "escamotage" diver‐ si, condividono qui obbiettivi identici: far conoscere e condividere la cultura sorda, la LIS, e soprattutto sensibilizzare la co‐ munità all'utilizzo dell'arte cinematogra‐ fica; non è vero che il cinema debba esse‐ re forzatamente un capitolo chiuso per la maggioranza delle persona sorde, anzi, ora che i circuiti indipendenti si sono moltiplicati e che la tecnologia (strumen‐ to indispensabile) ha avuto una maggio‐ re diffusione a fronte di un ribasso dei co‐ sti, è possibile anche raggiungere livelli di professionalità molto alti ‐ a volte baste‐ rebbe investire di più nella formazione di aspiranti attori e registi, ma per questo c'è ancora della strada da fare. Intanto però un risultato c’è stato: rispetto alla prece‐ dente edizione sono molto più numerosi i film “nuovi”, girati tra il 2012 e il 2013. Il festival nasce da lontano: da anni l'ISSR (Istituto Statale per Sordi di Roma) offre, attraverso il centro di documentazione Mediavisuale, un servizio di catalogazio‐ ne, organizzazione, studio e conservazio‐
ne di documenti accessibili (a vari livelli) ai sordi e a chi, sordo o udente che sia, vo‐ glia approfondire la cultura e le temati‐ che "deaf"; grazie all'ISSR, alla passione e alla competenza di tutte le persone che hanno lavorato e lavorano in Mediavi‐ suale, all'aiuto dei ragazzi del Servizio Ci‐ vile e dei tanti volontari (sordi e udenti), all'appoggio delle istituzioni (il festival è stato realizzato con il contributo della Provincia di Roma e col patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Cultura‐ li, dalla Regione Lazio ‐ Assessorato alla Cultura, Arte e Sport, dall'ENS ‐ Ente Na‐ zionale Sordi, e dalla Rai ‐ Segretariato Sociale) e alla quantità di materiale repe‐ rito, è stato possibile avvicinarsi, gradual‐ mente, a un'avventura complessa come quella del cinema, arte per sua stessa na‐ tura comunque mediata, e quindi di più difficile fruibilità rispetto al suo diretto "concorrente", almeno tra le persone sor‐ de, e cioè il teatro. Le impressioni dirette, direi quasi il feedback compositivo (co‐ me si è trovata a dire l'artista statuniten‐ se, di origine coreana, Christine Sun Kim, sorda dalla nascita, "il feedback è il suono che preferisco"), insomma tutto quel co‐ ro di sensazioni che durante una pièce teatrale imperversa tra gli attori e il loro pubblico, nel cinema invece viene lascia‐ to in sospeso, come se fosse il frutto di una fervida immaginazione, dell'illusio‐ ne personale di ciascuno e, proprio in quanto tale, mai davvero condivisibile. Tuttavia, in un cinema reso accessibile a tutti, nessuna sensazione, nessun
Cinedeaf gioco di luce, nessun rumore e nessun messaggio rimane senza una pur par‐ ziale risposta. La varietà di film presenti dentro e fuori il concorso, gli incontri con gli autori, i workshop, il materiale documentario a disposizione, la media‐ zione costante di operatori, interpreti e volontari facilita quel processo inclusi‐ vo che è la base di qualsiasi fruizione culturale. Insomma, non sarà immedia‐ to e avvolgente come il teatro, però an‐ che il cinema, visto dall'interno e dal‐ l'esterno, ha dimostrato in questo festi‐ val le proprie potenzialità comunicative e, all'occorrenza, didattiche. Tutto ciò che accade sul grande palcoscenico del mondo, e che viene reso fruibile ai no‐ stri occhi, è un'occasione di crescita per tutti, nessuno escluso, dai registi agli spettatori, udenti (poco avvezzi in Italia all'uso dei sottotitoli) o sordi, indipen‐ dentemente dal proprio grado econo‐ mico o d'istruzione. Al Cinedeaf di Ro‐ ma si parla e si segna in diverse lingue (per esempio la BSL ‐ lingua dei segni britannica, la ASL ‐ lingua dei segni americana, la LSF ‐ lingua dei segni francese, o la JSL ‐ lingua dei segni giap‐ ponese); senza dimenticare l'Internatio‐ nal Sign, o International Signs (il termi‐ ne Gestuno è ormai caduto in disuso) ‐ IS o ISL (International Sign Language), o IG (International Gesture) ‐, codice internazionale per cui non esiste una formazione specifica, ma che è comun‐ que utilizzato dal WFD, Word Federa‐ tion of the Deaf, nelle occasioni ufficiali o nelle università aperte a un'utenza in‐ ternazionale. Ma per poter comprende‐ re e ancor più per farsi comprendere serve tutta la nostra collaborazione, la volontà di mettere in discussione le no‐ stre certezze e le abitudini più inconsce. In poche parole, serve che ci venga of‐ ferta un'occasione d'incontro, che qual‐ cuno ci mostri quante e quali varietà di vite, di lingue e linguaggi esistano al mondo e ci spieghi come fare ad orien‐ tarci attraverso esse. Ma se le forme e i formati appaiono diversi, come abbia‐ mo già detto, le intenzioni sono invece comuni, e quindi comuni (pur trattati in maniera tutt'altro che comune) sono anche le tematiche proposte, come per esempio quella dell'omosessualità (rap‐ presentata l'anno scorso in "Mondo de‐ af ‐ visioni Queer", di Eliza Greenwood e Sel Staley, USA 2007), dell'adolescen‐ za o della vecchiaia (delle persone sorde o non). In questo clima a un tempo con‐ fidenziale e internazionale s'inserisce
anche la ricerca artistica di Christine Sun Kim, rivolta a un'appropriazione del suono da parte chi non lo percepisce nella propria interezza, o di chi ne av‐ verte soltanto le vibrazioni; sono pro‐ prio quest'ultime a mediare il suono at‐ traverso gli oggetti e i colori che sussul‐ tano sui "piatti" degli strumenti usati da Christine, restituendo infine un'identità materica, completamente non conven‐ zionale, a suoni e rumori che sono il sot‐ tofondo di ogni vita e di ogni luogo (Christine spesso si trova a registrare i rumori, le voci e le diverse sonorità di strade e piazze, per poi trasformarle in performance e opere d'arte). Diventa così possibile, anche per le persone sor‐ de, vedere una dimensione dei luoghi fi‐ no a quel momento ignorata; l'effetto è lo stesso che avrebbe una scala musicale ascendente inaspettata: la stessa posses‐ sione, lo stesso sussultare delle emozio‐ ni. La sfera sensoriale di ciascuno di noi sarà pure selettiva e terribilmente anali‐ tica, ma la nostra sfera emozionale, per fortuna, non è costretta ad esserlo e, a patto di essere “accompagnata” in ogni nuova esperienza, può riuscire a vedere nitidamente i suoni che la vista gli offre e persino mescolarli tra loro (in fondo “croma” rappresenta sia una scala di se‐ mitoni sia, genericamente, il colore). Conoscete la storia di "52‐Hz"? E' tal‐ mente particolare che pare ci faranno un film… Si tratta di una balena, scoper‐ ta dai ricercatori della Woods Hole Oceanographic Institution nel 1989, che emette un canto diverso da quello di qualsiasi altra balena, un canto troppo
33 forte (arriva, appunto, a 52‐Hz, contro una media di 15 o 20‐Hz), talmente di‐ verso da aver fatto pensare che si trattas‐ se di una specie sconosciuta. Questo gi‐ gante (o questa gigantessa?) di 30 metri e di 180 tonnellate è solita muoversi tra la California e le isole Aleutine (Alaska), percorre dai 31 ai 69 km al giorno e pre‐ ferisce spostarsi nei mesi tra agosto e di‐ cembre; poi, per alcune settimane, a gennaio e a febbraio, se ne perdono le tracce. Nessuno mai, almeno fino a ora, ha mai risposto al richiamo di 52‐Hz; e proprio un canto così particolare ha reso possibile ai biologi marini monitoriz‐ zarne gli spostamenti senza troppe dif‐ ficoltà. Gli scienziati sono giunti alla conclusione che 52‐Hz non sia un'indi‐ viduo di una nuova specie, o l'ultimo esemplare di una specie estinta, piutto‐ sto credono che la balena abbia un qual‐ che "difetto di pronuncia" che le impe‐ disce di comunicare con i suoi simili e che la costringe a un'esistenza solitaria. Nonostante sia impossibilitata a comu‐ nicare con gli altri, 52‐Hz sembra non avere altre difficoltà di rilievo, visto che è tutt'ora viva e vegeta, continua a mi‐ grare su e giù per la propria zona e con‐ tinua a cantare senza tregua, pur non ri‐ cevendo mai alcuna risposta. Rispon‐ dendo a un articolo del New York Times su 52‐Hz, un'associazione ha proposto l'idea che la balena possa essere sorda, e io preferisco credere che, se è davvero così, la balena si ostini a cantare perché non ha rinunciato ad avere in qualche modo restituita la propria voce attraver‐ so l’acqua dell’oceano.
Christine Sun Kim
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Cinedeaf
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Spiriti
Queste oscure presenze
Un Racconto di Chiara Mancuso (Dedico questo racconto al‐ la mia amata Alcesti, che da tre anni, con la sua oscura presenza, ha dato un tocco di luce e tenerezza in più al‐ la mia vita)
Sono un professore di matematica. Ci tengo a precisarlo perché la mia non è una professione, ma una scelta di vita, un modo di essere: ho fatto della razio‐ nalità la mia fede, non ho mai ammes‐ so nessuna spiegazione che non fosse chiara e logica, né mai avrei pensato di comportarmi diversamente. Almeno fi‐ no ad oggi, sebbene sia ancora riluttan‐ te ad ammetterlo, ma di fronte agli ul‐ timi avvenimenti che hanno sconvolto la mia tranquilla e lineare vita, ho do‐ vuto considerare delle risposte che non fossero squisitamente razionali. Forse per questo sto scrivendo questo “reso‐ conto”, per mettere nero su bianco e cercare di riassumere quanto ho vissu‐ to e convincermi che non è stato nulla di straordinario, ma una storia comu‐
ne, che può capitare a chiunque. Tutto ebbe inizio quando io e mia moglie ci trasferimmo in una vecchia casa in campagna, a venti chilometri di curve dalla vita e ad un’ora di strada dal liceo dove ero appena stato trasferito…ma, del resto, mia moglie, un’artista, una pittrice, nell’appartamento di fronte al‐ la “mia” scuola, non trovava più “l’ispi‐ razione” e, quindi, come tutte le belle donne, ha saputo trovare gli argomenti giusti per convincermi che l’aria pura, il paesaggio dolce, il silenzio della cam‐ pagna avrebbe fatto bene a tutti, con buona pace della mia comoda sistema‐ zione, agognata da dieci anni di preca‐ riato in giro per la regione! “Del resto hai sempre fatto un po’ di strada per andare a lavoro!” E già! Perché perdere
certe abitudini! Del resto io amo mia moglie, me lo ripeto tutte le mattine al‐ le 6, dietro i trattori che non mi fanno sorpassare… Dopo tutto la casa era bel‐ la… con un po’ di immaginazione, spi‐ rito di adattamento e la giusta dose di preparazione atletica che ci vuole per affrontare un trasloco, le scale da ripa‐ rare, il tetto rotto, convincere la fami‐ glia di piccioni a trasferirsi lontano dal terrazzo, da riparare anche quello, ov‐ viamente, e rassegnazione: i nostri pi‐ gri scatoloni non si sarebbero svuotati da soli! In compenso che pace! Tanta pace! Anche troppa: la pace del nulla… Tanto silenzio interrotto di tanto in tanto da qualche allegro cinguettio o dallo starnazzare delle galline, di gran lunga più loquaci dei nostri vicini.
36 Il silenzio di chi è fuori dal mondo: ne ebbi conferma quando accesi il mio “super dolby surround”, costosissimo impianto stereo regalo di nozze, e mi resi conto che la radio prendeva si e no due stazioni, una delle quali trasmette‐ va solo il “rosario” ventiquattro ore al giorno, e l’altra forse un collegamento con una “stazione aliena”; e pensare che quando ero in città riuscivo a sen‐ tire anche le stazioni radio delle regioni vicine! Non parliamo della tv! Un 40 pollici ostinato a trasmettermi solo li‐ nee orizzontali nere e grigie …”Per‐ ché?” piagnucolavo fra me e me, senza farmi vedere da mia moglie che era tut‐ ta presa da una strana allegria, cantic‐ chiava in giro per casa e dipingeva dalla mattina alla sera… “Faremo l’abbona‐ mento alla tv satellitare quando finire‐ mo di pagare il mutuo!” avrò sessan‐ t’anni per quella data!!! Per chi non cre‐ de al matrimonio, dico: ”Questo è amo‐ re!” E ve lo dico con più convinzione, perché, ovviamente, non c’era nemme‐ no uno straccio di collegamento inter‐ net!!! Avrei fatto anche vita sociale, se ci fosse stato qualcuno con cui chiacchie‐ rare al di sotto dei settant’anni. L’unico centro di aggregazione era un vecchio bar, dove potevi trovare quattro vecchi che sonnecchiavano al sole, come fan‐ tocci immobili dalla mattina alla sera, nella stessa identica posizione! La cosa buffa era che ogni volta che ordinavo qualcosa al barista, era appena finita! Però aveva un televisore! “Posso?” chie‐ si eccitato come un bambino appre‐ standomi ad accenderlo. “Si, certo!” ri‐ spose il baffuto barista. “Tanto non funziona!!!” e lì tutti a ridere, comprese le “statue di gesso” ferme ai tavolini. Ditemi voi se in una situazione simile non si potrebbe impazzire! Ma, per fortuna, avevo il mio lavoro che mi portava via da lì per mezza giornata e io mi offrivo di fare dei recuperi inuti‐ li, dei corsi di aggiornamento, mi inven‐ tavo la necessità di fare una riunione per parlare della qualità del caffè del di‐ stributore automatico… del resto, suo‐ nava così “presto” la campanella della fine della lezione! Un pomeriggio, di ri‐ torno dal “mondo reale”, cioè dalla scuola, trovai mia moglie in compagnia di una grassottella signora; ci aveva por‐ tato un cesto pieno di pomodori del suo orto e una gran voglia di chiacchierare. Era simpatica, sebbene un po’ invaden‐ te, ma non mi dispiaceva che mia mo‐ glie parlasse con qualcuno durante la
Spiriti mia assenza, qualcuno che non fosse in “doppia” dimensione come i suoi qua‐ dri, che da un po’ di tempo a questa par‐ te, avevano iniziato ad essere diversi dal suo solito stile: erano ritratti di persone mai viste, uomini e donne che “le appa‐ rivano in sogno”, ma la cosa più strana era la presenza di un gatto nero dietro ognuno di questi personaggi, come una oscura ombra stagliata sullo sfondo. Non le chiesi spiegazioni sul significato di quella inquietante figura, perché se lo avessi fatto, lei non avrebbe perso l’oc‐ casione per farmi sentire un idiota. Tut‐ tavia, quando decise di appendere quei quadri nel salotto, iniziai a sentire come una strana presenza in quella stanza: mi sentivo osservato da quegli occhi ver‐ de/oro di quel gatto che sfacciato sem‐ brava prendere tutto il campo visivo del quadro, sebbene fosse solo in un angolo apparentemente insignificante. “Ma perché non mettere in salotto un pae‐ saggio?” Mi fece contento: un giorno, trovai un bel paesaggio notturno sulla parete grande! Il quadro raffigurava la nostra collina illuminata dalla luna pie‐ na, il cielo stellato sgombro da nubi e… oh mio Dio! Non era possibile! In cima al tetto della nostra casa c’era distinta la sagoma del gatto nero!!! Avevo bisogno di prendere aria: andai al bar e bevvi d’un fiato quella brodaglia color paglierino che il barista chiamava whisky; ebbi la sensazione di aver bevu‐ to fuoco liquido! Che cosa terribile! Adesso, oltre all’emicrania avevo anche un terribile bruciore di stomaco! Quan‐ do tornai a casa, mi girava la testa al
punto che faticai a centrare la porta! E una volta dentro casa, lì, in bella vista, quegli occhiacci gialli mi fissavano dalla tela: mi seguivano con espressione di‐ staccata e riprovevole, come se stessero giudicando la mia sbronza! “Non dirmi che hai bevuto?!” mi chiese mia moglie vedendomi barcollare sulle scale. Aveva la stessa faccia delusa e piena di vergo‐ gna di quel gatto. Voi pensate che essere sposati con un’artista sia uno spasso? Chissà quali avventure…macché! Avevo sposato l’unica pittrice astemia e che di‐ sprezzava qualsiasi tipo di droga, per di più non nascondeva il suo essere asocia‐ le che a tratti sfiorava la misantropia! Le feste in accademia, a base di assenzio e marjuana, l’avevano trasformata in una paladina del buon costume, una segua‐ ce del proibizionismo, un’ intollerante dell’ebbrezza alcolica… Mi tirò il cusci‐ no e la coperta e mi batté fuori dalla ca‐ mera, costringendomi a dormire sul di‐ vano; non riuscivo a chiudere occhio, osservato da quegli sconosciuti ritratti sulle mie pareti e soprattutto da lui, quel malefico felino che sembrava sorridere con malizia compiaciuta! Accesi la tele‐ visione: le righe nere e grigie non mi ip‐ notizzavano, come avrei sperato! Allora mi feci una camomilla e la sorseggiai al‐ la finestra; fu allora che vidi uscire di ca‐ sa la signora Maria, avvolta da uno scial‐ le, scalza, come se stesse fuggendo da qualcuno o qualcosa. Istintivamente uscii e le andai incontro chiedendole co‐ sa fosse successo: ricordo bene l’espres‐ sione di terrore sul suo viso, mentre bal‐ bettava frasi sconnesse e senza senso.
Spiriti La invitai ad entrare in casa mia e a be‐ re la camomilla con me. Arrivò anche mia moglie: non appena la vide, scop‐ piò a piangere sulle sue braccia. Appe‐ na si fu calmata un po’, riuscì a parlare senza singhiozzare e fra i segni di croce e le invocazioni varie a Santi protettori, confessò l’accaduto. “In casa mia ci so‐ no i fantasmi, gli spiriti maligni!” bal‐ bettò. Io, che non avevo ancora smalti‐ to il whisky, non riuscii proprio a trat‐ tenermi e scoppiai a ridere! “Non sono pazza!” continuò l’anziana don‐ na risentita. “Vi dico che davve‐ ro ci sono gli spiriti maligni in casa mia!” “E perché proprio ‘maligni’?” continuai con sarca‐ smo. “Diteci tutto signora!” mia moglie si sforzava di ignorarmi, ma mi dava più fastidio il fatto che sembrava credere alle storie di quella vecchia! Secondo il suo delirante racconto, le porte si aprivano da sole e sparivano gli oggetti, i vestiti, il cibo! Trovava gli armadi aperti e tutti i panni sparsi per la stanza; inoltre, quella sera, aveva sentito distin‐ tamente come un respiro sul suo viso e subito dopo qualcuno che le toccava i piedi! La signora Maria non aveva alcun dubbio: erano spiriti, spiriti maligni! “Ri‐ manga pure qui per la notte!” Non gliel’avesse mai detto: la donna si trasferì da noi e non so‐ lo per la notte! Tutto il giorno in casa risuona‐ vano le sue cenciose chiacchie‐ re, la sua tossetta stizzosa e i suoi passi lenti e pesanti! In più, era arrivata l’estate purtroppo, la scuola era finita ed io ero in vacanza! Non si poteva partire del resto: “voglia‐ mo lasciare la poverina da sola, con i nervi a pezzi?!”C’erano davvero gli “spiriti maligni”, ma in casa mia, con le sembianze bonarie di una simpatica vecchietta e avevano trasformato la mia vita in un inferno! Così, dopo gior‐ ni di meditazione sul portico di casa, unico posto dove potevo fuggire dalla vecchia e dal gattaccio dei quadri, tro‐ vai una soluzione. “Voglio andare a tro‐ vare i fantasmi della sua casa!” dissi e nonostante le proteste delle due don‐ ne, riuscii nel mio intento. Non appena aprii la porta, mi investì una puzza ter‐ ribile, di muffa e di stantio: qualsiasi essere che avesse cercato di infestare quella casa doveva avere uno stomaco
forte! Era un tormento stare lì dentro, eppure riuscii a passarci una notte in‐ tera! Feci un giro per le stanze, prima che facesse buio: tutto pareva in ordi‐ ne, a parte qualche vestito sparso per terra. Le pareti erano piene di macchie di muffa e qua e là si staccava la carta da parati, così vecchia da non riuscire nemmeno a capire la fantasia originale. Il pavimento tremava ad ogni passo, dandomi la sensazione che dovessi sprofondare da un momento all’altro:
era tutto uno scricchiolio! Si fece buio. Mi misi su un divanetto nella camera da letto, di fronte all’armadio “del fan‐ tasma”, dopo averlo coperto con cura con un lenzuolo portato da casa. Cercai di addentare il panino che avevo nello zaino, ma la puzza di quel posto mi aveva fatto passare l’appetito: così mi distesi per quanto possibile e cercai di dormire… Perché nelle vecchie case c’è sempre una finestra che sbatte? Le chiudi tutte, e tanto, ce n’è una che d’improvviso si apre e sbam! E dopo il primo forte col‐ po, ne seguono altri, piccoli piccoli, in‐ sistenti, come la goccia del rubinetto del lavandino rotto! Mi alzai e andai a ricontrollare ogni apertura: dopo mezz’ora trovai la piccola finestra della
37 soffitta, che aveva il gancio rotto…in qualche modo cercai di chiuderla e tor‐ nai al divano. Mi era tornato un po’ di appetito e cercai nello zaino il mio pa‐ nino, ma, che Dio mi fulmini, non c’era più! Questa era bella! Cercai dappertut‐ to, ma niente! La cosa assurda era che non vedevo nemmeno le briciole! Forse l’avevo mangiato e non me ne ricorda‐ vo, o forse mi era caduto in soffitta…ma no! Ero sicuro di averlo lasciato lì den‐ tro allo zaino, dopo avergli dato un morso! La faccenda si faceva stra‐ na… “Basta! Manteniamo la calma e cerchiamo di dormire!” mi dissi. Spensi la luce e…niente! Non riu‐ scivo a dormire! I rami del salice sbattevano contro la casa, sentivo perfino i tarli che scavavano le loro gallerie…chiunque fra quelle om‐ bre avrebbe potuto immaginare un fantasma, specie se l’anta del‐ l’armadio si fosse aperta da sola! Un momento! L’anta dell’armadio si era aperta da sola! Lentamente, cigolando appena, si era scostata di dieci centimetri circa! Non era possibile! Riaccesi la luce, mi presi coraggio convincendomi che nulla di spaventoso o di paranormale fosse accaduto e spalancai di botto l’armadio: una terribile puzza di naftalina mi investì, ma fu l’unica cosa che notai, a parte i vestiti vec‐ chi. “Sono stanco, sarà stato solo un riflesso della luce!” così mi con‐ vinsi e aspettai l’alba con gli occhi chiusi, fingendo con me stesso di dormire. Verso le cinque del mattino, una strana sensazione mi fece rabbri‐ vidire: mi sentivo osservato…era‐ no cessati tutti i rumori, il vento, la fi‐ nestra, i tarli, come se tutto avesse trat‐ tenuto il respiro, compreso me, che cercavo di mantenere i nervi saldi e mi ripetevo che, per logica, non poteva es‐ serci nessuno lì con me, era tutto frut‐ to del mio “stress” che aveva una fervi‐ da immaginazione. E pensare che c’è gente che va in campagna per ritrovare la pace! Io non ero mai stato così stres‐ sato in città, nemmeno all’ora di pun‐ ta, né mai avrei pensato di ritrovarmi un giorno a dare la caccia “ai fantasmi” in una vecchia casa ammuffita! Io, la logica fatta persona, la razionalità… mah! Che ci facevo lì? Ma per fortuna era quasi l’alba e sarei tornato a casa, con buona pace della vecchietta che avrebbe tolto finalmente il disturbo!
38 Pensavo queste cose, mentre lenta‐ mente, per evitare di cadere dal diva‐ no, mi giravo dall’altra parte: stava sorgendo il sole e già si intravedeva una luce rosata che piano piano inva‐ deva la stanza. Una sensazione di sol‐ lievo mi pervase guardando la finestra, ma mentre piano abbassavo lo sguar‐ do, vidi nitidamente due occhi dorati che mi fissavano: trasalii mentre la sa‐ goma scura spariva nel buio! Mi alzai di scatto e cercai per tutta la casa, fino al mattino, ma nulla! Come inghiotti‐ to dal buio stesso! Uscii di corsa e mi precipitai a casa mia. “E’ un gatto! Un grosso gatto nero! Altro che spiriti ma‐ ligni!” urlai con tutta l’adrenalina che avevo ancora in corpo. Mia moglie mi guardò con sconcerto e poi, stancamente mi rimandò: “Un gatto? Un gatto nero? Ti prego!” “Mi fissava! L’ho visto bene: era quasi giorno!” “Aspetta: tu che sei tanto lo‐ gico e razionale, ti pare che se in quella casa ci fosse veramente un gat‐ to, quella donna non se ne sarebbe accorta?” continuò con sufficienza “E’ anziana, mica cieca!” “Ma si na‐ sconde, probabilmente dentro gli ar‐ madi o Dio sa dove!” insistetti “Sei mai stata in quella casa? Si potrebbe nascondere un’intera colonia di gatti fra le cianfrusaglie e i mobili vecchi di quella topaia senza che nessuno se ne accorga!” “La mia casa una topa‐ ia!” non mi ero accorto della signora Maria che stava ascoltando tutto. “Mi perdoni: mi sono espresso male!” cer‐ cai di rimediare “Ma, comunque, so‐ no felice di comunicarle che il suo fantasma, il suo spirito maligno non è altro che un gatto nero!” “Un gatto? Se volevate che togliessi il disturbo, non c’era bisogno di dirmi che sono pazza!” rispose ancor più risentita. “Vi dico che si nasconde, è come un’ombra è…è…” quelle due donne non mi stavano nemmeno a sentire. “E’ come il gatto dei quadri di mia moglie!” A quel punto si girarono an‐ cor più perplesse. “Ma di quale gatto stai parlando?” mi chiese mia moglie con un filo di preoccupazione. “Que‐ sto gatto!” urlai indicando quel male‐ fico felino che sbucava fuori negli an‐ goli dei quadri. “Ed io sarei la matta! Vi ci vuole un medico, ma uno bra‐ vo!” rispose la vecchia prendendo le sue cose “E comunque, se volevate mandarmi via, bastava dirlo e non che vi inventaste questa sceneggia‐
Spiriti
ta!” e sbattendo la porta se ne andò. Mia moglie mi fissava con preoccu‐ pazione e adesso, anche con disprez‐ zo. “Ha ragione!” sentenziò poi. “Da te non me lo sarei mai aspettato!” “Ma il gatto c’è!” Non capivo. “Dim‐ mi la verità: ti droghi o bevi?” non avevo mai visto mia moglie così seve‐ ra e seria. “Ma perché? Lo vedi anche tu…lo hai dipinto tu quel maledetto gatto in tutti i tuoi quadri!” “Non c’è nessun gatto nero.” Se non me lo avesse detto con quella faccia preoc‐ cupata, adirata, e sconcertata, avrei pensato che mi stesse prendendo in giro. “Non c’è nessun gatto nero!” ma io lo vedevo, chiaro distinto, da mesi ormai, l’avrei potuto ritrarre io perfi‐ no, se ne fossi stato capace…e lui con‐ tinuava a guardarmi col suo fare bef‐ fardo! Trascorsi l’estate in una strut‐ tura che preferisco chiamare “centro vacanze”, dove mi dissero che avevo un forte esaurimento nervoso e dove‐ vo sottopormi ad una terapia , per il bene mio e delle persone che mi sta‐ vano vicine. Dopo tre mesi, in tempo per l’inizio della scuola, ritornai a casa, comple‐ tamente rilassato e “guarito”, almeno così scrissero nella lettera che mi ri‐ spediva nel mondo dei “normali”: che brutto scherzo che mi aveva fatto lo stress del trasloco, il paese, cambiare abitudini, stavo diventando…no, non
lo voglio dire! Il mio inconscio mi aveva fatto vedere cose che non esi‐ stevano! Quella stessa mattina, appe‐ na arrivai in paese, passando davanti alla casa della signora Maria, vidi due infermieri che la portavano via, in una casa di riposo, così dicevano in paese: mi fermai per salutarla e lei mi guardò stralunata e pallida. “Aveva ragione professore! Un demonio ne‐ ro…”farfugliò mentre entrava nel fur‐ goncino bianco. Alzai lo sguardo sul‐ la casa e dietro una finestra vidi chia‐ ramente il gatto nero che si godeva la scena con aria soddisfatta! Non dissi nulla, ma sussultai con violenza, al punto che agli occhi di mia moglie dovetti inventarmi un singhiozzo im‐ provviso. Mia moglie aveva venduto i suoi quadri e aveva deciso di non ap‐ pendere più nulla alle pareti, se non il mio nuovo televisore al plasma, collegato alla parabola! Decisi di di‐ menticare quella faccenda spiacevole della mia vita e non ne parlammo più. Eppure, ancora adesso che sono trascorsi due anni, passando davanti alla vecchia casa abbandonata della signora Maria, non riesco a fare a me‐ no di gettare un occhio alle finestre dove sventolano le tende stracciate simili a fantasmi, e talvolta, mi sem‐ bra ancora di vedere quella oscura presenza che mi guarda con sfida e soddisfazione.
Eva
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Eva contro Eva
Nel parco giocavano tranquille. Le loro risate attiravano sguardi di simpatia. Laura era esile, col visetto dall’ovale allungato, Gli occhi celesti che spiccavano sull’incarnato roseo incorni‐ ciato di riccioli crespi, impossibili da penetrare con le dita e con il pettine. Li odiava, per que‐ sto cercava di domarli tenendoli con una fascia rossa. Rincorreva una palla, la lanciava lon‐ tano, Lontano da Paola. Paola col viso paffuto e buffo, che restava sempre indietro. Qualche chilo in più rallentava la sua corsa. Capelli lunghi e lisci, sciolti lungo le spalle, intrisi di su‐ dore. La palla arrivò ai pedi di una anziana signora, che si chinò, la prese e la porse alle due bambine con un sorriso. – Ciao! Come vi chiamate? – Io Paola e lei Laura. Siamo amiche e stiamo sempre insieme! – Siete compagne di scuola? – chiese la donna. Paola, che delle due era la più spigliata, rispondeva a nome di tutte e due. Si dondolava compiaciuta, sicura di aver attirato l’attenzione della donna – No, abitiamo vicine, Lei ha un anno meno di me, Io faccio la terza elementare e lei la seconda, però veniamo a giocare qui al parco quando finia‐ mo di fare i compiti ‐ L’anziana signora le guarda nostalgica mentre riprendono la palla e corrono via. Ora è’ di nuovo Laura che conduce il gioco, dribla a destra, poi a sinistra, scat‐ tante come una gazzella. Paola comincia a spazientirsi e allora le grida col poco fiato rima‐ sto – Smettila, passala a me adesso…ricciolona! – Laura si gira, le fa la linguaccia e risponde offesa – Tieni, prendila se ce la fai…panciona! Ogni mese Piazza del Grano offre questo spazio a tutte le donne. Manda la tue mail a “parliamone” : pp.zzadelgranodonne@libero.it
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Eva
Parliamone... Gli uomini sparlano di noi DI CATIA MARANI
Eva contro Eva, memorabile film del 1950, diretto da Joseph L. Mankiewicz con Bette Davis e Anne Baxter, tratto dal racconto di Mary Orr del 1946, “The wisdom of Eve”. Per chi non lo rammentasse, la giovane ed attrente Eva Harrington (Anne Baxter) si presenta a Margo Channing (una eccezio‐ nale Bette Davis), famosa diva di Brodway, esprimendole la sua più fervida ammirazione. Convinta della sua buona fe‐ de, Margò l’assume come segretaria. Eva si intromette nella sua vita fino a mettere in crisi il rapporto dell’attrice con il compagno e, riuscendo addirittura a scalsare Margò dal palcoscenico diventando essa stessa la stella dello spetta‐ colo, fino a strappare alla sua maestra un premio teatrale molto prestigioso. Il film, oltre a mettere in evidenza le fal‐ sità di un mondo effimero come quello dello star‐system americano, attraverso una impietosa sceneggiatura di Man‐ kiewicz, calca la mano, sulle astuzie cui le donne possono ricorrere per distruggere la loro avversaria, una cattiveria che allora meritò di essere premiata con l’oscar per la mi‐ glio pellicola. La forte competizione che si insinua in ma‐ niera meschina e sottile nei rapporti fra donne è reale o è uno stereotipo, creato dagli uomini per indebolire la nostra capacità di aggregazione, che è di gran lunga superiore alla loro? Ogni verità contiene in sé la sua imperfezione, soprat‐ tutto se a raccontarcela sono gli uomini, che sono stati la prima causa di antagonismo femminile.Hanno dimenticato quando ai tempi dei tempi relegavano la donna in casa che, Scopri se sei una donna invidiosa
1) Una collega riceve una promozione ed un aumento di stipendio…cosa ne pensi: a) è andata a letto con il capo - 1 punto b) è un tipo in gamba e potrei imparare da lei - 3 punti c) nella vita non c’è giustizia - 2 punti 2) Dopo una competizione hai diritto a salire sul podio. Qual’è la posizione che ti infastidisce di più aver conquistato? a) prima - 2 punti b) seconda - 3 punti c) terza - 1 punto 3) Un’amica non perde occasione per dire che il suo stipendio è migliore del tuo? a) mai - 2 punti b) raramente - 3 punti c) spesso - 1 punto 4) Nella lingua inglese il termine “invidia” e gelosia vengono spesso usati come sinonimi. Pensi veramente che abbiano lo stesso significato? a) mai - 1 punto b) raramente - 3 punti c) spesso - 2 punti 5) Ti capita di sentirti invidiosa? a) mai - 3 punti b) raramente - 2 punti c) spesso - 1 punto
per potersi assicurare un ruolo sociale ed una illusione di li‐ bertà, era costretta ad accaparrarsi un marito, per sfuggire la tirannia paterna o lo spettro del Convento di Clausura? Non nego che nella competizione ci siamo servite di mezzi poco leali e questo non ci fa onore, ed è vero che l’amicizia fra donne è una cosa strana: non si può stabilire da che cosa nasce e, con la stessa inspiegabile dinamica, perchè può fi‐ nire. Affermo comunque, con convinzione, che ognuna di noi, almeno una volta nella vita, abbia incontrato un’altra con cui si è sentita subito intima e vicina. Un’altra lei, capa‐ ce di conquistare la nostra fiducia, con la quale sarà stato facile instaurare un legame indissolubile. Una Thelma per ogni Louise! Il tuo profilo è quello corrispondente alla lettera nel quale hai raggiunto un punteggio maggiore: A) Quando l’invidia è sofferenza… Non vuoi ammettere di essere una donna invidiosa, ed infatti questo sentimento ti assale spesso contro la tua volontà, provocandoti disagio. Provi verso chi è più fortunata di te un’ostilità rancorosa, covando un incoffessabile desiderio di vendetta. Prova a credere di più nelle tue capacità e a recuperare fiducia in te stessa indipendentemente da ciò che succede alle altre. B) Quando l’invidia è stimolo… La tua è un’invidia “buona”, che corrisponde all’emulazione: cerchi di arrivare allo stesso livello dell’altra, anziché usare la maldicenza e la denigrazione per abbattere colei che ha più di te. Può essere la strada giusta per riempire le tue lacune e valorizzare i tuoi punti di forza, ma attenzione a non annullare la tua personalità. C) Quando l’invidia è apatia… Sei poco interessata a competere con le altre, verso cui hai un atteggiamento distaccato e superiore. Non ti fai coinvolgere dalle amicizie, che frequenti a tempo perso, né ti curi di ciò che possono pensare di te. Rifletti, evitare il confronto con le altre può alimentare un atteggiamento poco positivo nei confronti di se stesse, porta al pessimismo.
Eva
Le grandi donne della storia Susan B. Anthony Istruzione Nacque nel 1820 da famiglia americana quacchera ma di mentalità aperta e progressista. A sei anni fu iscritta in una scuola locale di quartiere a Battenville, dove però essendo femmina, le veniva impartita un’istruzione di livello infe‐ riore a quello dei maschi, per questo il padre la trasferì quasi subito in una scuola “domestica di gruppo” dove in‐ segnava egli stesso. Insicurezza Da giovane la Anhony era molto insicu‐ ra del suo aspetto fisico e delle sue ca‐ pacità oratorie, tanto che evitò a lungo di parlare in pubblico. Malgrado queste insicurezze, divenne una celebre pre‐ senza pubblica, riuscendo infine ad as‐ sumere la guida del movimento femmi‐ nista. Motto Scriveva sul settimanale “Revolution” occupandosi dei vari temi legati ai dirit‐ ti sia degli afroamericani che delle don‐ ne. Il suo motto era “La vera Repubbli‐ ca: gli uomini, i loro diritti e niente di
più; le donne, i loro diritti e niente di meno”. Vegetariana Dopo che venne votato nel 1869 il Quindicesimo Emendamento alla Co‐ stituzione che concedeva il diritto di voto ai neri e non alle donne, delusa, decise di dedicarsi quasi esclusivamen‐ te alla lotta in favore di queste ultime. Come molte altre femministe dell’epo‐ ca era vegetariana. Moneta Quattordici anni dopo la sua morte, fu votato il Diciannovesimo Emendamen‐ to che concedeva il diritto di voto alle donne. Per il suo attivismo fu onorata come la prima americana ad avere la sua effige su moneta circolante, del va‐ lore di circa un quarto di dollaro. La moneta fu coniata per quattro anni, nel 1979, 1980, 1981 e 1999. Amicizia Nel 1851, conobbe l’altra famosa attivi‐ sta Elizabeth Cady Stanton, insieme al‐ la quale organizzò la prima Società Femminile Statale per la temperanza femminile in America. Sebbene la Stan‐ ton rivendicasse
41 In Libreria Consigliati e Sconsigliati dalle donne Un covo di vipere di Andrea Camilleri – Sellerio Non tanto perché è l’ultimo libro dell’avvincente collana del Commis‐ sario Montalbano, non tanto perché è attualmente il primo in classifica nella narrativa italiana, quanto per il titolo così intrigante visto l’argo‐ mento trattato in questo numero di Eva. L’omicidio però non si consuma in una riunione fra amiche, ma nel‐ l’ambito del più rassicurante tessuto familiare. Per Camilleri due si>>>>> Noi che ci vogliamo così bene di Marcela Serrano – Feltrinelli Da più di dieci anni sono amiche e ora si ritrovano alla casa sul lago più grandi, più ferite, più sagge, più ami‐ che. La brava scrittrice cilena sa scri‐ vere molto bene delle donne. Ho pe‐ scato questa frase del libro e penso che valga la pena di leggerlo: “ Le persone che mi sono intorno sanno che le loro confidenze non mi feri‐ scono, e che la mia reazione, a sua volta, non le ferirà”. Si>>>>> A che gioco giochiamo di Kinsella – Mondadori In questa fiera delle vanità e oppor‐ tunismo si nascondono tante piccole miserie e in nome dei soldi sembra lecito sacrificare tutto, persino l’ami‐ cizia. Ho già letto della stessa scrit‐ trice “ La signora dei funerali” e an‐ cora me ne pento.No< Credevo fosse un’amica e invece era una stronza di Vella Irene – Laurana Editore Questo libro è dedicato a tutte le donne. Prima o poi ci capiterà di in‐ contrare qualcuna tutte moine, ma dietro pronta a rovinarci la vita. Il li‐ bro attinge dalla realtà sdrammatiz‐ zandola, un manualetto per impara‐ re a riconoscere e a difenderci dalle amiche‐stronze.
Le immagini utilizzate in questo inserto sono particolari di pitture di Sandro Botticelli
Segnalateci le letture che vi hanno coinvolto di più, oppure quelle che vi hanno deluso scrivendo al nostro indi‐ rizzo mail e noi le citeremo su “Consi‐ gliati e sconsigliati dalle donne”.
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Eva
Per amicizia... fra noi Passeggiando Rilassiamoci passeggiando per le strade di Orvieto il 26 o il 27 ottobre, al Mercatino dell’Artigianato in cui si espongono e si vendono oggetti lavo‐ rati a mano in ceramica, vetro e cuo‐ io. Si possono trovare anche tessuti di pregio. Il mercato è allestito dalle 8 del mattino alle 8 di sera. Guardando Antonio Canova in mostra ad Assisi fino al 6.01.2014. La mostra è allestita a Palazzo Monte Frumentario, nella centralissima via di San Francesco. Comprende 60 opere fra dipinti e sculture. Inoltre al suo interno è pos‐ sibile visitare un laboratorio didatti‐
co che illustra il mo‐ do di operare che fu dello scultore e pit‐ tore ritenuto il mas‐ simo esponente del neoclassicismo. Ascoltando A Perugia il 5 otto‐ bre presso Palazzo Vignola, Johannes Brahms, il trio per pianoforte violino e violoncello, in SI maggiore opera 8 (versione 1889). Il concerto è a con‐ clusione di una rassegna musicale di il capolavori del repertorio classico cameristico. Un’introduzione mette‐
Benessere al Naturale
Mode & Modi Galateo dell’amicizia femminile
Antistress Se avete avuto uno scambio di idee un po’animato con un’amica e, vi sentite stressate, fate un bagno caldo con olio essenziale alla lavanda, perfetto per rilassare, poi lasciando la pelle umida strofinate l’epidermite di tutto il corpo con olio di argan, rinomato per le pro‐ prietà antiossidanti ed idratanti. Tonificante Mescolate sei cucchiai di polpa di cetriolo, un cucchiaio di acqua di rose e un cucchiaino di succo di limone, applicate sul viso ben pulito. Cetriolo e limone contengono molti acidi organi‐ ci, sali minerali e vitamine. Detergente viso Mescolate un cucchiaio di miele, 20 cl di acqua minerale e 20 cl di latte par‐ zialmente scremato, da stendersi sul viso e rimuovere con un dischetto di cotone imbevuto in acqua tiepida. Gli zuccheri, l’acqua e i flavonoidi presenti nel miele assicurano la pulizia ella pelle, che il latte, oltre a eliminare tutti i residui, rende vellutata. Nutriente viso Tre cucchiai di albume d’uovo semi‐ montato a neve, amalgamatelo a un cucchiaio di olio d’argan, stendetelo sul viso massaggiando (meglio se dal basso verso l’alto) e lasciandolo agire per circa 15 minuti prima di sciacquare con acqua tiepida. Questi ingredienti sono ricchi di acidi grassi polinsaturi e proteine preziose per la bellezza della pelle.
Ricordiamoci che, per mantenere viva un’amicizia, ci vuole impegno e atten‐ zione. Cosa non fare Essere inaffidabili: è un modo di fare che nasce dall’egoismo, cerchiamo quindi di mantenere gli impegni presi o di onorare le promesse fatte. Rivelare un segreto: è da considerarsi un tradi‐ mento in piena regola. E’ uno stupido errore in cui incappiamo spesso. Ruba‐ re la scena: se un’amica sta annuncian‐ do che ha avuto una promozione, evi‐ tiamo di interferire raccontando dei nostri successi lavorativi o parlando della nostra ultima conquista senti‐ mentale spostando l’attenzione di tutta la compagnia su di noi.Smettere di fre‐ quentare un’amica perché si è sposata o fidanzata: vi può sembrare di non avere più nulla in comune, ma si può trattare di un distacco temporaneo che nel tem‐ po si può trasformare in qualcosa di di‐ verso e di migliore. Cosa fare Ricambiare i favori: dobbiamo essere ca‐ paci di sacrificare del nostro altrimenti le amiche si sentiranno sfruttate. Accettare le altre per quello che sono: non preten‐ diamo di lottare contro le personalità al‐ trui, non ne abbiamo il diritto. Se ci ren‐ dessimo conto di questo tutti i rapporti risulterebbero più facili. In poche parole, fare per le altre tutto quello che vorrem‐ mo che le altre facessero per noi.
rà in luce gli aspetti più salienti, più arditi, più significativi della composi‐ zione. Il tutto sarà incorniciato da letture da diari e letture del composi‐ tore.
La Donna Bilancia 21 settembre ‐ 20 ottobre E’ una donna che riesce a farsi notare malgrado rifiuti ogni eccesso estetico. Il dominio di Venere sul segno fa sì che il suo fascino e la sua grazia le siano suffi‐ cienti per sedurre. La sua è un’eleganza congenita che si esprime al di là degli abiti e degli accessori indossati. Ama la mondanità, i salotti con le sue graziose (e crudeli) chiacchiere. Di grande im‐ portanza il matrimonio, le è indispen‐ sabile avere un compagno con il quale condividere; impensabile la solitudine o lo status di single. Ineccepibile donna di casa, l’esaltazione di Saturno la rende molto diligente nei suoi compiti di pa‐ drona di casa. Ordine e pulizia vengono imposti alla famiglia come espressione di un’estetica che nasconde spesso una certa freddezza, che può coincidere con il suo bisogno di stare bene, di non sof‐ frire ed evitare le situazioni ed i doveri meno piacevoli. Donne famose del segno della Bilancia: Eleonora Duse – 3 ottobre 1858 – attrice teatrale italiana Rita Hayworth – 17 ottobre 1918 – attri‐ ce americana Margareth Thatcher – 13 ottobre 1925 – ex primo ministro britannico Senza pretesa scientifica abbiamo rias‐ sunto le caratteristiche della donna bilan‐ cia, abbiamo giocato con gli astri, perché è sempre divertente contrapporre il teori‐ co all’empirico, il sogno alla realtà.
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Cile
Pablo Neruda
il poeta comunista che ha cantato la libertà Mi chiamo Pablo, l'uccello, l'uccello di una sola piuma, il volatore d'ombra chiara e di chiarezza confusa, le ali non mi vedono, le mie orecchie risuonano quando passo tra gli alberi o sotto le tombe così come uno sfortunato om‐ brello o come una spada sguainata, teso come un arco o rotondo come un'uva, volo e volo senza saperlo, girato nella notte buia, chi viene ad aspettarmi, chi non vuole il mio cantare, chi mi vuole morto, chi non sa che sono arrivato e non verrà a battere, a sanguinare, torcere o baciare il mio vestito rotto dal fischio del vento. Così vengo e me ne vado, volo e non volo, ma canto: sono l'uccello furioso della tempesta tranquilla. L’11 settembre 1973, guidati e sostenuti dall’am‐ ministrazione USA di Nixon e della sua mente criminale Kissinger, i militari cileni abbatterono il governo legittimo presieduto da Salvador Al‐ lende, bombardando il palazzo presidenziale de La Moneda e uccidendo lo stesso presidente Al‐ lende che si era rifiutato di abbandonare il pa‐ lazzo. Seguirono anni di incredibili violenze ai danni dei sostenitori del governo deposto con torture, uccisioni e sparizioni. Tra le vittime del‐ la barbarie militare e americana vi fu anche il poeta, premio Nobel per la letteratura, Pablo Neruda. Insediatasi la dittatura, i militari co‐
minciarono a vessarlo con arresti domiciliari e perquisizioni, durante una di queste Neruda avrebbe detto ai militari «Guardatevi in giro, c’è una sola forma di pericolo per voi qui: la poesia». La poesia era ed è ovunque un pericolo per le dittature e il 23 settembre 1973 Pablo Neruda venne infine assassinato nella clinica Santa Ma‐ ria a Santiago. A 40 anni di distanza vogliamo ri‐ cordare quei fatti attraverso la memoria del suo “cantore di libertà”, pubblicando un testo scritto dal più grande combattente per la libertà del sud America, e non solo, Ernesto Guevara e alcune brevi poesie d’amore.
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Cile
Commento al “Canto General” di Pablo Neruda di Ernesto Guevara de la Serna “Che”
Quando il tempo avrà un po’ sfumato gli andamenti politici e contemporaneamente – ineluttabilmente – avrà assegna‐ to al popolo la sua definitiva vittoria, questo libro di Neruda si porrà come il più vasto poema sinfonico d’America. E’ poesia che rappresenta una pietra miliare e forse una vetta. In essa tutto, persino i pochi (e inferiori) versi personali del finale, traspirano grandezza. Il poeta cristallizza quel mez‐ zo giro di volta che dette quando abbandonò il dialogo con se stesso e discese (o salì) a dialogare con noi, semplici mor‐ tali, che facciamo parte del popolo. E’ un canto generale d’America che ripercorre tutto ciò che è nostro, dai giganti geografici fino alle povere bestioline del signor monopo‐ lio. Il primo capitolo s’intitola La lampada della terra e fra l’altro vi risuona il suo saluto al gigantesco Rio delle Amaz‐ zoni: Rio delle Amazzoni, capitale delle sillabe dell’acqua, padre patriarca,… All’esatta coloritura unisce la giusta metafora, pone l’am‐ biente, mostra il suo impatto con esso, canta non come un fine dicitore, ma come uomo. E infatti il primo capitolo del‐ la sua descrizione che potremmo chiamare “precolombia‐ na” si chiude con “Gli uomini”, i nostri avi remoti: Come la coppa d’argilla era la razza minerale, l’uomo fatto di pietre e d’atmosfera, lindo come le brocche, sonoro. Poi il poeta trova la sintesi di quello che era la nostra Ame‐ rica, il suo più grande simbolo e canta allora le “Alture di Machu‐Picchu”. Il fatto è che Machu‐Picchu è l’opera d’in‐ gegneria aborigena che arriva più a noi; per la sua elegante semplicità, per la sua grigia tristezza, per il meraviglioso pa‐ norama circostante, per l’Urubamba che ulula in basso. La sintesi di Machu‐Picchu è data da tre versi che sono tre de‐ finizioni di una categoria quasi goethiana: Madre di pietra, spuma dei condor. Alta scogliera dell’aurora umana. Pala perduta nella prima rena. Ma non si limita a definirla e storicizzarla, e in uno slancio di follia poetica vuota tutto il suo sacco di metafore abba‐ glianti e talora ermetiche sulla città simbolo, invocandone poi l’aiuto: Datemi il silenzio, l’acqua, la speranza. Datemi la lotta, il ferro, i vulcani. Che cosa è successo? Tutti conoscono la sequenza della storia: all’orizzonte comparvero “I conquistatori”. I macellai devastarono le isole. Guanahaní fu la prima In questa storia di martirii. E così scorrono Cortés, Alvarado, Balboa, Ximénez de Que‐ sada, Pizarro, Valdivia. Tutti sono squartati senza pietà dal suo canto detonante come una revolverata. L’unico per cui abbia parole affettuose è Ercilla, il cantore delle gesta arau‐ cane: Uomo, Ercilla sonoro, sento il polso dell’acqua
Ernesto Guevara con Jean Paul Sartre
del tuo primo risveglio, frenesia d’uccelli e stormire di fronde. Lascia, lascia la tua orma d’aquila bionda, spacca la guancia contro il mais selvaggio, tutto sarà nella terra divorato. Tuttavia la conquista continuerà e darà del suo all’America, e pertanto dice Neruda, “Nonostante l’ira”: Ma attraverso fuoco e ferratura come da una sorgente illuminata dal sangue oscuro, con il metallo fuso nel tormento si riversò una luce sulla terra: numero, nome, linea e struttura. … Così, al sanguinario Titano di pietra, falcone inferocito, non venne solo sangue bensì grano. La luce venne malgrado i pugnali. Ma la notte della Spagna finisce e la notte del monopolio è minacciata. Tutti i grandi d’America hanno il loro posto nel canto, dagli antichi libertadores fino ai nuovi, i Preti, quelli che combattono con il popolo gomito a gomito. Ora la de‐ tonazione svanisce e un gran canto di gioia e di speranza ir‐ rora il lettore. Ma risuonano particolarmente le gesta della sua terra. Lautaro e i suoi guerrieri e Caupolicán l’ostina‐ to. “ Lautaro contro il centauro (1554)” dà l’idea del certa‐ me. La fatica e la morte conducevano la truppa di Valdivia tra le fronde. Avanzavan le lance di Lautaro.Tra morti e foglie andava Come in un tunnel Pedro de Valdivia. Fra le tenebre arrivava Lautaro. Pensò all’Extremadura petrosa, al dorato olio, alla cucina, al gelsomino lasciato oltremare. Conobbe l’ululato di Lautaro. … Vide venire la luce, l’aurora, forse la vita, il mare. Era Lautaro.
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Cile Non poteva mancare nel suo canto la riunione misteriosa di Guayaquil e fra le righe dell’incontro politico palpita lo spirito dei grandi generali. Ma non fu tutto fortuna eroica e limpida dei libertadores, si ebbero anche tradimenti, car‐ nefici, carcerieri, assassini. “La rena tradita” si apre con “I carnefici”: Sauria, squamosa America avvinghiata allo sviluppo vegetale, all’albero radicato nel fango: hai allattato figli terribili con velenoso latte di serpente, torride culle covarono e coprirono con fango giallastro una progenie incrudelita. Il gatto e la scorpiona fornicarono nella patria selvatica. E compaiono sfilando i Rosas, i Francias, i Garcìa Morenos, e via dicendo, e non solo nomi, istituzioni, caste, gruppi. Ai suoi colleghi, “I poeti celesti”, chiede: Che avete fatto voi gidisti, intellettualisti, rilkisti, misterizzanti, falsi stregoni esistenziali, papaveri surrealisti accesi su una tomba, europeizzati cadaveri della moda, pallidi lombrichi del cacio capitalista… E, quando arriva alle compagnie nordamericane, la sua pos‐ sente voce trasuda pietà per le vittime e schifo e odio per le piovre, per tutti quelli che fanno a pezzi e inghiottono la nostra America: Quando la tromba suonò, tutto fu pronto sulla terra e Geova spartì il mondo fra Coca‐Cola Inc., Anaconda, Ford Motors e altre entità: la Compañía Frutera Inc. si riservò il miglior succo, la costa centrale della mia terra, la dolce cintura d’America. A González Videla, il presidente che lo manda in esilio, grida: Triste clown, miserabile mistura di scimmia e topo, la cui coda pettinano a Wall Street con pomata d’oro. Ma non tutto è morto e dalla speranza sgorga il suo grido: America, non invoco il tuo nome invano. Quindi si concentra sulla sua patria, con il “Canto generale del Cile” dove, dopo averla descritta e cantata, lancia la sua “Ode d’inverno al fiume Mapocho”. Oh, sì, neve imprecisa, oh, sì, tremante in pieno fior di neve, palpebra boreale, piccolo raggio gelido, chi, chi ti chiamò verso la cinerea valle, chi, chi ti trascinò dal picco dell’aquila fin dove le tue acque pure toccano i terribili stracci della mia patria? E allora viene la terra, “La terra si chiama Juan” e, fra il canto incerto cui ogni operaio si abbandona, si ode quello di Mar‐ garita Naranjo che strazia con la sua nuda emotività: Sono morta. Sono di María Elena. E poi si volge furioso contro i principali colpevoli, contro i monopoli e dedica a un soldato yankee la poesia “Si desti il
taglialegna”: E lo avverte:
Ad ovest del Colorado River C’è un luogo che amo.
Sarà implacabile il mondo per voi. Non solo saranno le isole spopolate, ma anche l’aria che già conosce le parole a lei care E dal laboratorio coperto di rampicanti uscirà anche l’atomo liberato verso le vostre superbe città. Gonzàlez Videla scatenò la persecuzione contro di lui e lo convertì ne “Il fuggiasco”, dove però il suo canto subisce una caduta come se l’improvvisazione avesse da questo mo‐ mento la meglio perdendosi quindi l’altura della sua meta‐ fora e il delicato ritmo della sua idea. Segue quindi “I fiori di Punitaqui” e poi saluta i suoi colleghi di lingua spagnola. Nel “Corale di Capodanno per la mia patria nelle tenebre” polemizza con il governo del Cile e dopo ricorda “Il grande Oceano” con il suo Rapa Nui: Tepido‐Te‐Henùa, ombelico del mar grande, laboratorio del mare, spento diadema. E il libro termina con il suo “Io sono”, dove fa il suo testa‐ mento dopo essersi riveduto e corretto: Lascio ai sindacati del rame, del carbone e del salnitro la mia casa sul mare d’Isla Negra. Voglio che lì riposino i vessati figli della mia patria, saccheggiata da asce e traditori dissipata nel suo sacro sangue, consumata in vulcanici brandelli. Lascio i miei vecchi libri, raccolti negli angoli del mondo, venerati nella loro tipografia maestosa, ai nuovi poeti d’America, a quanti un giorno fileranno nel roco telaio interrotto le significanze di domani. E infine grida: Termino qui. Questa parola nascerà di nuovo, chissà in un altro tempo senza pene, senza le impure fibre che attaccarono nere vegetazioni al canto mio, e di nuovo su in alto starà ardendo il mio cuore infuocato e stellato. Così termina il libro, qui vi lascio questo mio Canto Generale scritto nella persecuzione cantando, sotto le ali clandestine della patria. Oggi, 5 febbraio di quest’anno 1949, in Cile, a “Godomar de Chena”, alcuni mesi prima dei miei quarantacinque anni d’età. E con questo finale alla François Villon si conclude il libro più alto dell’America poetica. L’epica del nostro tempo di toccare con le sue ali curiose tutto il bene e il male della grande patria. Non vi è spazio che per la lotta; come in La araucana del suo geniale predecessore, tutto combattimen‐ to continuo e la sua carezza è la carezza goffa del soldato, ma non per questo meno amorosa e tuttavia carica di tutte le forze della terra.
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Cile
Poesie d’amore Il tuo sorriso Toglimi il pane, se vuoi, toglimi l'aria, ma non togliermi il tuo sorriso. Non togliermi la rosa, la lancia che sgrani, l'acqua che d'improvviso scoppia nella tua gioia, la repentina onda d'argento che ti nasce. Dura è la mia lotta e torno con gli occhi stanchi, a volte, d'aver visto la terra che non cambia, ma entrando il tuo sorriso sale al cielo cercandomi ed apre per me tutte le porte della vita. Amore mio, nell'ora più oscura sgrana il tuo sorriso, e se d'improvviso vedi che il mio sangue macchina le pietre della strada, ridi, perché il tuo riso sarà per le mie mani come una spada fresca. Vicino al mare, d'autunno, il tuo riso deve innalzare la sua cascata di spuma, e in primavera, amore, voglio il tuo riso come il fiore che attendevo, il fiore azzurro, la rosa della mia patria sonora. Riditela della notte, del giorno, delle strade contorte dell'isola, riditela di questo rozzo ragazzo che ti ama, ma quando apro gli occhi e quando li richiudo, quando i miei passi vanno, quando tornano i miei passi, negami il pane, l'aria, la luce, la primavera, ma il tuo sorriso mai, perché io ne morrei. Timidezza Appena seppi, solamente, che esistevo e che avrei potuto essere, continuare, ebbi paura di ciò, della vita, desiderai che non mi vedessero, che non si conoscesse la mia esistenza. Divenni magro, pallido, assente, non volli parlare perché non potessero
riconoscere la mia voce, non volli vedere perché non mi vedessero, camminando, mi strinsi contro il muro come un'ombra che scivoli via. Mi sarei vestito di tegole rosse, di fumo, per restare lì, ma invisibile, essere presente in tutto, ma lungi, conservare la mia identità oscura, legata al ritmo della primave‐ ra. Ode all'autunno Modesto è l'autunno, come i tagliale‐ gna. Costa molto togliere tutte le foglie da tutti gli alberi di tutti i paesi. La primavera le cucì in volo e ora bisogna lasciarle cadere come se fossero uccelli gialli: Non è facile. Serve tempo. Bisogna correre per le strade, parlare lingue, svedese, portoghese, parlare la lingua rossa, quella verde. Bisogna sapere tacere in tutte le lingue e dappertutto, sempre, lasciare cadere, cadere, lasciare cadere, cadere le foglie. Difficile è essere autunno, facile essere primavera. Accendere tutto quel che è nato per essere acceso. Spegnere il mondo, invece, facendolo scivolare via come se fosse un cerchio di cose gialle, fino a fondere odori, luce, radici, e a far salire il vino all'uva, coniare con pazienza l'irregolare mo‐ neta della cima dell'albero e spargerla dopo per disinteressate strade deserte, è compito di mani virili. Se muoio sopravvivimi con tanta forza pura che desti la furia del pallido e del freddo, da sud a sud leva i tuoi occhi indelebili,
da sole a sole suoni la tua bocca di chi‐ tarra. Non voglio che vacillino il tuo riso o i tuoi passi, non voglio che muoia la mia eredità d'allegria, non bussare al mio petto, sono assente. Vivi in mia assenza come in una casa. È una casa tanto grande l'assenza che v'entrerai traverso i muri e appenderai i quadri all'aria. È una casa tanto trasparente l'assenza che senza vita ti vedrò vivere e se soffri, amor mio, morirò un'altra volta. Chiedo silenzio Ora, lasciatemi tranquillo Ora, abituatevi senza di me. Io chiuderò gli occhi. E voglio solo cinque cose, cinque radici preferite. Uno è l'amore senza fine. La seconda è vedere l'autunno. Non posso vivere senza vedere che le foglie volino e tornino alla terra. La terza è il grave inverno, la pioggia che ho amato, la carezza del fuoco nel freddo silvestre. La quarta cosa è l'estate rotonda come un'anguria. La quinta cosa sono i tuoi occhi. Matilde mia, bene amata, non voglio dormire senza i tuoi occhi, non voglio esistere senza che tu mi guardi: io muto la primavera perché tu continui a guardarmi. Amici, questo è ciò che voglio, È quasi nulla e quasi tutto.
40 anni da non dimenticare
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11 settembre 1973
Il governo terrorista USA fa bombardare il palazzo de La Moneda, presiâ&#x20AC;? denza della Repubblica democratica del Cile, uccidendo il presidente leâ&#x20AC;? gittimo eletto Salvador Allende e istaurando la dittatura militare della loro marionetta Augusto Pinochet
Album di famiglia (del premio Nobel per la pace Barack Obama)
Giappone, radiazioni nucleari
Vietnam, diossina e napalm
Iraq, fosforo bianco
Serbia, uranio impoverito