Mensile di informazione, politica e cultura dell’Associazione Luciana Fittaioli - Anno IV, n. 1 - giugno 2012 - distribuzione gratuita
“Prima di giudicare (e per la storia in atto o politica il giudizio è l’azione) occorre conoscere e per conoscere occorre sapere tutto ciò che è possibile sapere” (Antonio Gramsci) “Faremo il possibile per esporre in forma semplice e popolare, senza presupporre la conoscenza nemmeno dei concetti più elementari. Vogliamo farci comprendere dagli operai.” (Karl Marx)
Il compagno Orfeo Goracci e la “Questione Morale”
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otto per mille
L’otto per mille alla Chiesa Valdese! (E’ “imbarazzante” suggerirlo... ma Vi spieghiamo perchè) Nei prossimi giorni scade il termine per la presentazione delle dichiarazioni dei redditi per l’anno 2011 e, quindi, per il versamento delle relative imposte (saldi). In quella occasione i cittadini avranno la possibilità di indicare la destinazione di una parte delle imposte dovute a soggetti diversi dallo Stato e precisamente: una quota pari all’8 per mille a organizzzioni religiose formalmente riconosciute dallo Stato italiano e una quita pari al 5 per mille a organizzazioni private di solidarietà, assistenza sociale, ricerca scientifica, ecc., non a scopo di lucro, registrate all’Agenzia delle Entrate. Riteniamo utile fornire alcune indicazioni (comunque reperibili sui siti governativi e dell’Agenzia delle Entrate) e dare alcuni suggerimenti. Cominciamo dell’8 per mille. 1) NON si tratta di donazione (vale anche per il 5 per mille), cioè non è un atto di generosità per il quale il così detto “donatore” si priva di qualche cosa di proprio, ma consistene nella sola indicazione allo Stato di versare una parte delle imposte già incassate a sostegno di organizzazioni religiose che hanno “patteggiato” con lo Stato una convenzione (un concordato). Non tutte le organizzazioni religiose hanno stipulato (sono state ammesse a stipulare) questo concordato, ad esempio non c’è l’Islam, il buddismo, ecc., ma solo alcune sette cristiane e l’ebraismo; non ci sono le organizzazioni che diffondono l’ateismo o agnostiche. 2) NON è una vera e propria scelta, nel senso che, comunque, tutto il montante dell’8 per mille viene ripartito tra le organizzazioni religiose convenzionate, indifferentemente dal fatto che vi sia stata l’indicazione dei cittadini o no. Questa precisazione è estremamente importante per quanto appresso si dirà come suggerimento di destinazione, considerando che solo il 42% degli italiani indica la destinazione e il residuo 58%, non destinato, viene comunque attribuito “d’ufficio” in proporzione alle scelte degli altri: cioè chi non sceglie (non indica) subisce la scelta degli altri. Così accade che la Chiesa cattolica che viene “scelta” da circa il 35% degli italiani percepisce una quota di finanziamento che supera l’80% del totale. I numeri sono impressionanti, si tratta di oltre 1 miliardo 200mila euro, dei quali oltre 1 miliardo lo incassa la Chiesa cattolica. Tra i beneficiari da poter indicare c’è anche lo Stato italiano, il peggiore in assoluto per quanto appresso si dirà. 4) NON viene rispettata (salvo l’eccezione che si dirà) la destinazione voluta dalla legge che ha istituito questo finanziamento religioso. Lo scopo era quello di sostenere le attività benefiche, in senso lato, erogate dalle organizzazioni religiose, quindi: carità, solidarietà, assistenza ai bisognosi, ecc. Accade invece che le organizzazioni religiose spendono la grandissima parte del finanziamento per il sostentamento della propria organizzazione e destinano poco o niente alla solidarietà (i dati sono reperibili in internet). La Chiesa cattolica ad esempio spende l’80% dell’incasso per il clero e solo 7,5% per la solidarietà internazionale (le missioni che vengono propagandate nella intensa campagna pubblicitaria per la quale la Chiesa cattolica spende oltre 22 milioni di euro!). Il peggiore utilizzatore è comunque lo Stato italiano che non destina nulla alla solidarietà nazionale o internazionale e che ha persino utilizzato i fondi dell’8 per mille per finanziare le missioni di guerra in Iraq e in Afganistan!). MAI perciò indicare lo Stato italiano! 5) Una sola organizzazione religiosa (secondo i rendiconti pubblicati) investe interamente la propria quota di finanziamento in attività di solidarietà: la Chiesa Valdese. Se dunque una scelta deve essere fatta, e va fatta altrimenti scelgono gli altri per noi, il suggerimento “forte” anche se “imbarazzante” per questo giornale è: METTETE UNA CROCETTA SULLA CASELLA DELLA CHIESA VALDESE, MAI SU QUELLA DELLO STATO ITALIANO! Quanto al 5 per mille, che invece viene attribuito solo se indicato, qualsiasi scelta è valida. Se non ne conoscete personalmente, cercatele nell’elenco dell’Agenzia delle Entrate che ne controlla la spesa sociale, ma ricodatevi sempre che NON si tratta di un atto di generosità, ma di una sola indicazione di destinazione di denaro comunque già dello Stato!
L’Editoriale
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Il compagno Orfeo Goracci e la Questione Morale di SANDRO RIDOLFI Sono passati alcuni mesi dalla scarcerazione del compagno Orfeo Goracci e degli altri componenti della sua ultima giunta comunale. L’argomento, consumata la morbosa attenzione che lo aveva circondato nei circa cinquanta giorni della sua prigionia in isolamento, sembra essere scivolato nel “dimenticatio”. Non è così per questo giornale comunista che anzi, col suo primo numero nella nuova veste di rivista, vuole richiamare un’attenzione, alta e preoccupata, su quella vicenda giudiziaria dai contorni sempre più inquietanti. Prima d’ogni altra cosa, però, questo giornale vuole testimoniare la propria stima e la vicinanza a tutti i compagni coinvolti in quella vicenda, ricordando, con piacere e orgoglio, che fu proprio il compagno Goracci, nel marzo 2008, a presenziare alla nascita, nei locali di via del Grano, dell’Associazione Comunista intestata a Luciana Fittaioli. A motivare la presenza del compagno Goracci non era stata, infatti, solo la condivisione ideologica del progetto politico e culturale dell’Associazione, quanto soprattutto la sua lunga conoscenza e l’affinità ideale e morale, fonte di un solido reciproco apprezzamento, con Luciana. Il Sindaco Goracci proseguiva allora la lunga storia politica della nostra Regione che aveva visto sempre e sostanzialmente ovunque il Partito Comunista assumere il governo locale e fare della corretta, trasparente e soprattutto competente gestione della cosa pubblica una bandiera di eccellenza e di orgo-
glio per i lavoratori e per i cittadini tutti che lo sostenevano e vi partecipavano. Non riusciamo a comprendere ancora oggi quali siano i reati imputati al compagno Goracci e alla sua Giunta. Le notizie, anzi i materiali istruttori via via resi pubblici sembrano mostrare un’assurda sproporzione tra i fatti di reato ipotizzati (va sottolineato: ipotizzati) e la violenza delle misure coercitive adottate. Seguiremo gli sviluppi del procedimento giudiziario confidando, com’è giusto e doveroso, che la lealtà e la competenza della magistratura saranno in gardo di fare chiarezza e giustizia di questa grave “anomalia”. Non possiamo tuttavia non rammentare il principio che fu cardine della costruzione della nostra Costituzione in merito all’esercizio del potere giudiziario, che così recitava nella stesura della bozza redatta da Giorgio La Pira: “Nel suo magistero punitivo la legge non oblierà mai il valore della personalità umana del reo. Qualunque trattamento che aggravi la pena legalmente applicabile importa la responsabilità personale di chi lo mette in atto”. Premessa la dichiarazione di solidarietà, di rispetto e di attenzione agli aspetti umani e morali degli indagati, voglio però ora entrare nel discorso del profilo più delicato, quello politico e, specificamente, dell’uso del tutto improprio fatto, per ignoranza (spesso) o per lucido depistaggio (ancora più spesso) del termine “questione morale”. Trenta anni fa l’ultimo segretario marxista-leninista del partito fondato da Gramsci rilasciò un’intervista nella quale pose,
per la prima volta, la questione della deriva morale della politica italiana, difendendo il primato e l’esempio del Partito Comunista. Gli anni sono passati e hanno profondamente manipolato sia la figura di quel segretario marxistaleninista che lo stesso contenuto del suo discorso. Berlinguer, come avviene spesso per coloro che non ci sono più e non possono più parlare, è divenuto un’icona “neutra” dell’uomo buono e onesto; la sua “questione morale” è stata stravolta in una questione penale. S ulla figura ancora rivoluzionaria del compagno Berlinguer mi auguro che avremo altre occasioni per ritornare, è certo invece che il suo significato di “morale”, ovvero del suo contrario “immorale”, non aveva nulla a che vedere con il “penale”, che è altra cosa (categoria) che non appartiene alla politica, ma alla giustizia. Un politico, uomo o organizzazione, non è morale perché non commette reati, ma perché esercita la sua azione nel rispetto e per la tutela dei diritti e degli interessi della collettività che lo ha espresso a suo rappresentante. E così un politico, uomo o organizzazione, è immorale anche quando non commette reati ma, attentamente muovendosi nei margini delle leggi, viola il mandato ricevuto ed esercita il potere o la funzione delegata dai cittadini per la cura di interessi propri o comunque deviati. Affermava in quell’intervista del 1981 Enrico Berlinguer: “La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bi-
sogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono provare d’essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche.”. Su questo tema dovrebbe stimolarci a discutere l’incidente del compagno Goracci, ma anche (e ben di più) quelli, oramai all’ordine della cronaca d’ogni giorno, dei Lusi/Rutelli, dei Belsito/Bossi e compari d’ogni club o fazione elettorale. Dobbiamo discutere sulla “questione morale” dell’allontanamento, se non persino della netta separazione, che oggi domina tra la politica, intesa anche come gestione della cosa pubblica, e la partecipazione consapevole e responsabile dei cittadini. I tecnici che hanno espropriato il governo nazionale saranno pure onesti (non fosse altro perché già ricchi o ricchissimi), ma quali interessi rappresentano e curano, in nome di chi stanno gestendo il potere? Questa è la “questione morale”. L’abuso di atti d’ufficio e fatti simili (se saranno accertati) sono reati, di quelli si deve occupare la struttura giudiziaria che viene pagata dai cittadini per svolgere quel lavoro, rigorosamente nel rispetto della dignità della persona umana.
4 Sommario del mese di giugno Leggi La legge Elettorale Democrazia rappresentativa e governabilità di Luigi Napolitano
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Economia Il Metal-mezzadro Un modello industriale superato di Andrea Tofi
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Territorio Recupero dell’ex zuccherificio La crisi del centro storico di Sandro Ridolfi
pagina 13
Lavoro Articolo 18 Una quesione di potere La storia e il testo
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Teatro “Teatro Valle Occupato” Cronaca per un futuro imminente di Irene Lepore
pagina 21
Dignità “Vonno omini gnuranti” ll lavoro dell’uomo di Maria Sara Mirti
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Democrazia La Politeia ateniese Nascita della classe media di @barberini.it
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Menù Pedagocico Educare senza violentare Superfluo (necessario) Una collana di pietre dure
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Inediti Il migliore dei mondi possibili Un racconto di di Maurizio Coccia
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Redazione: Corso Cavour n. 39 06034 Foligno redazionepiazzadelgrano@yahoo.it
Autorizzazione: tribunale di Perugia n. 29/2009 Editore: Sandro Ridolfi Direttore Responsabile: Maura Donati Direttore Sito Internet:
Andrea Tofi Stampa: GTP Srl Città di Castello Chiuso: 25 maggio 2012 Tiratura: 3.000 copie Periodico dell’Associazione “Luciana Fittaioli”
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Leggi
La Legge Elettorale
DI
LUIGI NAPOLITANO
Non provo particolare trasporto per l’esecutivo che ci governa, non per coloro che lo compongono, sicuramente stimabili professionisti e degne persone, ma per la contingenza nella quale è stato nominato. Non ho trovato giusto che le parti politiche, che pur con il loro sostegno ne hanno consentito la nascita, non abbiano trovato il coraggio, ma soprattutto la volontà, di prestare il loro volto ad un governo le cui scelte, fin qui di forte sacrificio e probabilmente necessarie, hanno prodotto effetti fortemente depres-
sivi. Trovo quasi inutile, oggi, fare dei distinguo sull’individuazione dei soggetti maggiormente responsabili di questa situazione i quali, tuttavia, hanno una chiara matrice riconducibile al precedente governo e i cui componenti, almeno secondo un’ampia parte dei media, si sono distinti, ad essere benevoli, per il loro dilettantismo. Tuttavia la massima di un’autorità dell’ambiente, secondo la quale a pensar male si fa peccato ma probabilmente si coglie nel segno, dà la certezza che l’insediamento di questo governo sia stato possibile nella speranza per i rappresentanti dei maggiori partiti – intesi come coalizione
di persone e di interessi, non certo di ideali - di potersi ripresentare alla prossima scadenza elettorale come se nulla fosse accaduto. Aggiungo, nella mia superficiale conoscenza del funzionamento dell’economia, di non capire come mai un risultato elettorale, prima ancora dell’insediamento del governo e delle indicazioni delle scelte politiche-programmatiche, possa provocare dei terremoti in borsa, facendo tremare l’economia di un intero continente. Mi domando: non dovrebbero essere i mercati influenzati dalle scelte della politica? Non occorrerebbe una maggiore autonomia della politica, legittimata dal vo-
to popolare, rispetto alla finanza che, sicuramente, rappresenta interessi di una parte della società e per di più ristretta? Ecco che si concretizza il tarlo che mi rode - perchè questo governo? Per giunta con competenza limitata a provvedimenti esclusivamente economici. Ad acuire il malessere per questo interrogativo contribuiscono la disaffezione al voto da parte dei cittadini, manifestatasi alle ultime elezioni amministrative e la propensione di quelli che esercitano ancora questo diritto a scegliere schieramenti che fanno del malessere sociale il loro vessillo e si ispirano ad un’unica persona quale loro “Messia”.
6 Senza voler andare a ritroso nel tempo ed evocare i bui periodi sfociati nella Seconda Guerra Mondiale, è sotto gli occhi di tutti quale sia il destino di fenomeni di tal fatta, anche recentissimi, a riprova, se mai ce ne fosse bisogno, di quali scompensi può provocare l’affidarsi ad un Capo indiscusso. Per evitare l’aggravarsi di una situazione già complessa ap-
Leggi pare dunque ineludibile, come affermato dal presidente della Repubblica, almeno la riforma della legge elettorale. La classe politica la auspica insieme a tante altre, ma non ne fa nessuna. Eppure sarebbe indispensabile, in un sussulto di dignità, che vi si provvedesse, mandando in soffitta la legge n.270 del 21 dicembre 2005 che, per la stessa ammissio-
ITALIA Punti salienti della legge regolatrice del sistema elettorale italiano (porcellum) sono: - Liste bloccate: con l'attuale sistema l'elettore si limita a votare solo per delle liste di candidati, senza la possibilità, a differenza di quanto si verifica per le elezioni europee, regionali e comunali, d'indicare preferenze. L'elezione dei parlamentari dipende quindi completamente dalle scelte e dalle graduatorie stabilite dai partiti. - Premio di maggioranza: viene garantito un minimo di 340 seggi alla Camera dei deputati alla coalizione che ottiene la maggioranza relativa dei voti. Da notare che 12 seggi, assegnati alla "circoscrizione Estero", sono contemplati a parte, come anche il seggio della Valle d'Aosta. Per quanto concerne il Senato, il premio di maggioranza è invece garantito su base regionale, in modo da assicurare alla coalizione vincente in una determinata regione almeno il 55% dei seggi ad essa assegnati. In Valle d'Aosta, cui è assegnato un solo seggio, il sistema elettorale è uninominale, come pure in Trentino-Alto Adige per 6 dei 7 seggi assegnati alla Regione. - Programma elettorale e capo della forza politica: la legge prevede l'obbligo, contestualmente alla presentazione dei simboli elettorali, per ciascuna forza politica di depositare il proprio programma e di indicare il proprio capo. - Coalizioni: la legge prevede la possibilità di apparentamento reciproco fra più liste, raggruppate così in coalizioni. Il programma e il capo della forza politica, in caso di coalizione, devono essere unici: in questo caso viene assunta la denominazione di Capo della coalizione che, però, non è candidato alla Presidenza del Consiglio dei ministri, poiché spetta al Presidente della Repubblica la nomina a quell'incarico. - Soglie di sbarramento: per ottenere seggi alla Camera, ogni coalizione deve ottenere almeno il 10% dei voti nazionali; per quanto concerne le liste non collegate la soglia minima viene ridotta al 4%. Al Senato le soglie di sbarramento (da superare a livello regionale) sono pari al 20% per le coalizioni, 3% per le liste coalizzate, 8% per le liste non coalizzate. - Minoranze linguistiche: le liste delle minoranze linguistiche riconosciute coalizzate o non, potranno comunque accedere al riparto dei seggi per la Camera dei Deputati ottenendo almeno il 20% dei voti nella circoscrizione in cui concorrono. - La legge ha introdotto la novità delle circoscrizioni estere, che permettono di eleggere 12 seggi alla Camera dei deputati e 6 seggi al Senato della Repubblica.
ne del suo autore, è stata definita una porcata e denominata da un autorevole politologo porcellum. Questa legge, spacciata come lo strumento indispensabile per assicurare governabilità al paese ha prodotto un gran caos, svilito la democrazia rappresentativa mescolando proporzionale e premio di maggioranza (bollato anni indietro come leg-
ge-truffa), previsto, di fatto la nomina del presidente del Consiglio da parte degli elettori e quella dei parlamentari dalle segreterie dei partiti. E si che sono state raccolte oltre un milione e duecentomila firme che ne chiedevano l’abrogazione. Vanificate dalla pronuncia della Corte Costituzionale che pure si è spaccata sull’inammissibilità del referendum.
FRANCIA Nell'ordinamento costituzionale dalla V Repubblica ha trovato accoglimento la formula del bicameralismo. Il Parlamento, alla stregua dell'art. 24 della Costituzione, comprende l'Assemblea nazionale ed il Senato. Si tratta peraltro di un bicameralismo imperfetto, sia in rapporto all'eterogeneità dei meccanismi che presiedono all'elezione dei due rami del Parlamento che alle rimarchevoli differenze esistenti fra i rispettivi poteri ed attribuzioni. LAssemblea Nazionale E formata da 577 deputati, eletti per un mandato di cinque anni a scrutinio universale diretto. La formula elettorale è quella dello scrutinio maggioritario a due turni nell'ambito di circoscrizioni uninominali (570 per il territorio metropolitano e i dipartimenti d'oltre-mare, 5 per i territori d'oltre-mare, ed uno ciascuno per Mayotte e St-Pierre-et-Miquelon). I candidati che abbiano ottenuto al primo turno la maggioranza assoluta dei voti validi sono direttamente proclamati eletti, a condizione che la cifra elettorale conseguita sia almeno pari al 25 per cento del numero degli elettori iscritti nelle liste. Ove tale quorum non sia raggiunto, si fa luogo, la domenica successiva, ad un secondo turno, al quale possono concorrere i soli candidati che abbiano conseguito al primo turno almeno il 12,5 per cento degli iscritti della circoscrizione. Il Senato Consta attualmente di 346 membri. Di essi, 326 sono eletti nei 95 dipartimenti metropolitani e nei dipartimenti d'oltremare; i tre territori d'oltre-mare designano complessivamente 6 senatori (uno la Polinesia francese, uno la Nuova Caledonia e 2 Mayotte), mentre le altre due collettività territoriali esistenti designaNo un senatore, per un totale di 6 seggi. Infine, i francesi residenti all'estero eleggono un numero 12 senatori. La durata del mandato elettorale è di 6 anni; ogni 3 anni, il Senato rinnova per la metà dei suoi seggi, il metodo delle elezioni parziali fa sì che i mutamenti negli orientamenti politici degli elettori trovino riscontro nella composizione del Senato solo con notevole gradualità, a differenza di quanto accade per l'Assemblea nazionale. Le elezioni hanno luogo a suffragio universale indiretto: la scelta dei senatori è infatti attribuita a collegi elettorali territoriali che ricomprendono i deputati e i consiglieri regionali eletti dal dipartimento, nonché i consiglieri generali del dipartimento stesso e, infine - ma si tratta della componente di gran lunga prevalente in termini numerici e, quindi, anche di peso politico - i consiglieri municipali e/o loro delegati.
Leggi Né la politica, che aveva dichiarato a mezzo dei suoi rappresentanti l’intenzione di cambiarla senza l’angoscia referendaria, dà segno di volervi provvedere, ignorando il diritto dei cittadini di scegliere i propri rappresentanti, le coalizioni e i governi. Personalmente sono favorevole a un doppio turno alla francese dove tutti possono, in prima
istanza, correre per un seggio, limitando la competizione finale ai due candidati più votati. In tal modo si semplificherebbe la competizione e vincerebbe chi riesce a conquistare più voti, rappresentando la maggioranza dei cittadini. Va da sé che sarebbero necessari ulteriori correttivi che consentano la governabilità del paese, quali la sfidu-
GERMANIA Nel sistema costituzionale tedesco concorrono, con modalità e poteri alquanto differenziati, due Assemblee di tipo parlamentare: la Dieta (Bundestag) ed il Consiglio Federale (Bundesrat). Soltanto il primo di tali organi è peraltro eletto a scrutinio universale diretto, laddove il Bundesrat è composto da membri dei Governi dei Länder, ad opera di questi designati e revocabili. Il Bundestag Consta di 598 componenti eletti per un mandato quadriennale. Dei 598 seggi del Bundestag, 299 sono assegnati, nell'ambito di altrettanti collegi uninominali, a scrutinio maggioritario ad un turno, per l'assegnazione dei rimanenti seggi, si procede mediante scrutinio a rappresentanza proporzionale con voto bloccato di lista, in un ambito territoriale coincidente con i Länder. Ciascun collegio uninominale comprende in media circa 280.000 abitanti. L'elettore dispone di due suffragi, che esprime mediante un'unica scheda elettorale. Questa riporta, nella colonna sinistra, i nominativi dei candidati che si presentano nel collegio, accompagnati dall'indicazione del partito per il quale concorrono ovvero candidatura indipendente. Il voto è denominato "Erststimme" (cioè "primo voto"). In ciascuno dei 299 collegi uninominali, risulta eletto il candidato che riporta la maggioranza relativa dei "primi voti" validi. L'elettore ha la possibilità di esprimere anche un "secondo voto" ("Zweitstimme"), mediante il quale attribuisce la propria preferenza ad una delle liste di partito presentate nel Land nel quale è ricompreso il suo collegio. A tal fine, nella colonna destra della scheda sono riportate le denominazioni delle formazioni che presentano una lista nel Land, affiancate dai nomi dei rispettivi primi cinque candidati. E' ammessa la facoltà di dissociazione fra il voto al candidato ed il voto di lista (cosiddetto "splitting"). Sono i "secondi voti" a determinare la consistenza numerica complessiva delle rappresentanze delle varie formazioni politiche presso il Bundestag. Alla ripartizione dei seggi sulla base dei "secondi voti" partecipano peraltro, alla stregua dell'articolo 6, comma 6, del BWG, soltanto i partiti che abbiano raggiunto il 5 per cento dei voti validi espressi a livello nazionale, si tratta della cosiddetta "Sperrklausel", o clausola di sbarramento che, come si è accennato, rappresenta il secondo aspetto caratteristico del sistema tedesco, dotato una certa valenza maggioritaria. Per l'attribuzione dei 299 seggi che restano da assegnare dopo l'assegnazione dei seggi nei collegi uninominali, si applica un criterio di scor-
cia costruttiva e la possibilità per il presidente del Consiglio di sostituire singoli ministri. Mi sento di dire con convinzione che tutti noi, nonostante lo spettacolo fin qui offerto, saremmo grati ai politici che, con il nostro voto ma con le loro scelte, ci rappresentano se finalmente ci restituissero, almeno, il diritto di sceglierli.
7 In linea con quanto concordato con il nostro editore rinvio alle schede pubblicate in queste pagine ove sono tratteggiate le linee salienti delle leggi elettorali dei più importanti paesi europei affinchè coloro che hanno avuto la pazien-za di leggere queste note possano valutarle e formare il proprio convincimento in proposito.
poro che attenua sensibilmente gli effetti di dis-proporzionalità per i "primi voti". In base a tale metodo, per calcolare quanti seggi siano da assegnare ad ogni partito il numero totale dei seggi viene moltiplicato per il numero dei secondi voti di ogni partito e poi diviso per il numero complessivo dei secondi voti di tutti i partiti. Le quote intere risultanti da tale calcolo esprimono il numero di seggi da assegnare ai singoli partiti. I seggi rimanenti vengono assegnati in proporzione alle maggiori frazioni di quota risultanti dal calcolo. Dal numero dei seggi che risulta così attribuito a ciascuna lista vengono, infine, sottratti quelli conquistati a titolo di "mandato diretto" nei singoli collegi del Land dai candidati collegati. In pratica, comunque, è esclusivamente il "secondo voto", cioè quello di lista, a determinare la composizione politica del Bundestag, in quanto la ripartizione dei seggi fra i vari partiti avviene in proporzione al numero dei voti di lista da ciascuno di essi riportati; i "primi voti" influenzano soltanto la composizione personale del Bundestag. Proprio in considerazione di tali caratteristiche, il sistema elettorale tedesco è stato ascritto al tipo "proporzionale personalizzato". Il Bundesrat E composto da membri dei Governi dei Länder, ad opera di questi nominati e revocabili. Ciascun Land dispone di almeno 3 voti; i Länder con più di 2 milioni di abitanti hanno 4 voti, quelli che superano i 6 milioni di abitanti ne hanno 5, mentre 6 sono attribuiti ai Länder con più di 7 milioni di abitanti. Ogni Land può inviare quali componenti del Bundesrat un numero dei propri membri non eccedente i voti di cui dispone; i membri inviati da ciascun Land possono farsi rappresentare da altri membri del rispettivo Governo. I membri del Bundesrat vengono nominati e revocati con deliberazione dei Governi dei Länder, e non dei rispettivi Parlamenti. Alla peculiare natura del Bundesrat si ricollega anche la necessità per i rappresentanti dei Länder di votare in modo unitario, secondo le direttive dei Governi di provenienza; è quindi esclusa la possibilità che la delegazione di un Land si divida in una maggioranza e in una opposizione riguardo ad una determinata deliberazione. Per l'espressione della volontà del Land all'interno del Bundesrat non è pertanto richiesta la presenza di tutti i suoi rappresentanti, essendo sufficiente che un rappresentante consegni i voti espressi per conto del Land. Il modo di votazione imposto dalla legge fondamentale si fonda sul principio che nel Bundesrat non vengono rappresentati i cittadini degli Stati membri della Federazione, ma gli Stati stessi.
Le Pubblicazioni di Piazza del Grano La critica marxista deve porsi questa parola d’ordine: studiare, e deve respingere ogni produzione di scarto e ogni arbitraria elucubrazione del proprio ambiente. (Lev Trotsky) La cultura è organizzazione, disciplina del proprio io interiore, é conquista di coscienza superiore. Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. (Gramsci) Basta un profumo di rosa smarrito in un carcere perché nel cuore del carcerato urlino tutte le ingiustizie del mondo. (Ho Chi Minh)
Veniamo da molto lontano e andiamo molto lontano! Il nostro obiettivo è la creazione di una società di liberi e di eguali. (Togliatti) Alcuni piagnucolano, altri bestemmiano ma pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere sarebbe successo ciò che è successo? Perciò odio gli indifferenti. (Gramsci) Siate tutti degli amministratori. Accanto a voi si troveranno i capitalisti stranieri, si arricchiranno accanto a voi. Si arricchiscano pure; ma voi imparerete da loro ad amministrare. (Lenin)
Finalmente è stato dato alla stampa ed alla distribuzione, il sesto volume di poesie presentato in gemellaggio dal Centro Culturale Città Nuova di Spoleto e da Piazza del Grano di Foligno. Si tratta di un viaggio attraverso le sensazioni, le visioni, le immagini, le situazioni raccontate da giovani poeti umbri. Essi esprimono, alcuni per la prima volta, le loro inquietudini, le loro emozioni e si mettono a nudo, raccontandosi. Il volume è stato presentato a Spoleto presso la Biblioteca di Palazzo Mauri, venerdì 18 maggio 2012 alle 17:30 con la lettura di alcune delle poesie. Per Piazza del Grano è intervenuta Sara Mirti, che ha ribadito l'importanza della collaborazione. La pubblicazione del volume di poesie è l'esperimento primo di una serie di inediti, facenti parte di un progetto editoriale più ampio volto alla valorizzazione degli scritti, che per le motivazioni più svariate rimangono nei cassetti intere vite, senza vederne mai la luce. La maggior parte dei poeti intervenuti si è prestata alla lettura della propria opera e in alcuni casi mostrando notevole disinvoltura e personalità. Le letture sono state intervallate dalla chitarra classica della musicista-poetessa Chiara Mancuso. Le immagini presenti nel libro e sulla copertina sono frutto dell'immaginazione creativa della pittrice Michelangela Martinisi. Contestualmente alla presentazione del volume sono state esposte alcune sue opere. Nel mese di giugno si farà una seconda presentazione del volume nella città di Foligno. E' prevista la partecipazione di tutti i poeti.
I poeti che hanno contribuito alla compilazione del libro sono: Davide Calandri Alessandro Carlini Cristian Crispini Sandro Costanzi Giovanni D'Andrea Eleonora Di Girolamo Paola Gubbini Iacopo Feliciani Greta Guerrini Gionada Battisti Chiara Mancuso Federica Mosca Ilaria Nizi Pablos Parigi Anna Petrova Vineshka Marika Ranucci Lorenzo Ricci Michelangela Martinisi. Grazie a tutti i poeti per le forti emozioni donatemi. Pablos Parigi
Economia
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Il metal-mezzadro Il fallimento di un progetto imprenditoriale o l’incapacità di alcuni imprenditori di adattare un modello che per decenni è stato vincente?
DI
ANDREA TOFI
L'eroe del modello industriale marchigiano è il "metal mezzadro", il contadino operaio che lavora a domicilio per l'industria negli intervalli della fatica nei campi, sposando antico sapere artigianale e ritmi da cottimo. Tutti i fondatori delle dinastie industriali marchigiane erano "metal mezzadri". Aristide Merloni era uno di questi e per decenni sfruttando la laboriosità di tanti braccianti agricoli strappati alle loro terre (durante gli anni cinquanta e sessanta, accordava permessi ai dipendenti in occasione della mietitura e della vendemmia), ha saputo creare un impero che, lasciato in mano ai suoi figli, ha intrapreso strade diverse con esiti contrapposti.
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Economia
L’impero Merloni Lo specchio dei limiti e delle debolezze dell’imprenditoria italiana Aristide Merloni, il coraggio di creare un’impresa credendo nei propri mezzi Aristide Merloni nacque a Fabriano il 24 ottobre 1897, di famiglia operaia, diplomatosi perito tecnico nel 1916 presso l’Istituto Tecnico Industriale. Inziò ha lavorare come disegnatore nello stabilimento Buroni di Pinerolo, produttrice di bascule, stadere e altri strumenti per pesare nel 1919. Ma l’iniziativa imprenditoriale del giovane e intraprendente marchigiano non iniziò a Pinerolo, bensì nella sua terra di origine. Nel 1930 tornò ad Albacina con la moglie e tre figli (Ester, 1922; Francesco, 1925 e Antonio, 1926; il quarto, Vittorio, nacque nel 1933) e con circa 12.000 lire di risparmi, con cui – unitamente allo sconto di alcune cambiali sottoscritte dal parroco del paese – poté iniziare l’attività di produzione di bilance in una sorta di piccola rimessa, con cinque-sei dipendenti mal pagati e privi di tutele assicurative e sindacali. Nel 1933 nacque la Società anonima Merloni Aristide (SAMA), a struttura familiare: il padre si occupava delle paghe, del magazzino e dell’economato, il cognato fu impiegato come capo operaio e in azienda, per qualche lavoretto, presto circolarono anche i figli maggiori. Nel 1936, nella prospettiva di un allargamento dell’attività, Aristide Merloni decise di trasferirsi a Fabriano, dove i dipendenti, pagati meglio che ad Albacina, divennero una quarantina; nel 1938 il
fatturato annuo – di appena 80.000 lire nel 1931 – aveva raggiunto il mezzo milione. Negli anni seguenti arrivò la seconda guerra mondiale e gli immobili dell’azienda vennero requisiti per stivare derrate alimentari. Finita la guerra riuscì ad ottenere un’importante commessa dalle ferrovie che gli permise di riavviare l’attività che, in pochi anni fece diventare la SAMA la principale azienda produttrice di bilance ad uso industriale con una quota di mercato oltre il 60%.
Enrico Mattei, le nuove opportunità e il salto di qualità Ma il vero intuito imprenditoriale, che permise all’azienda di fare il salto di qualità, Aristide lo dimostrò nei primi anni cinquanta quando nel 1953 Enrico Mattei, allora presidente dell’Ente nazionale idrocarburi (ENI), e originario di Matelica, comune al confine con il territorio fabrianese, gli propose di aprire una fabbrica per la produzione di serbatoi per i distributori di benzina. Merloni, che aveva già in mente di diversificare i prodotti della sua azienda prese in considerazione l’invito di Mattei, ma
invece di produrre serbatoi per la benzina, pensò bene di investire sulla produzione di bombole per il gas liquido ad uso domestico, vista la recente scoperta di metano nella pianura padana e per la quale l’AGIP gli aveva garantito una cospicua commessa. Nacque così lo stabilimento di Matelica, il progetto era talmente valido che Aristide Merloni riuscì ha sopportare il dietro front dell’AGIP gas, in quanto la risposta sul mercato fu talmente soddisfacente che in poco tempo la produzione raggiunse livelli così alti da far precipitare i costi di produzione, facendo aumentare i profitti. Nel 1970 l’azienda copriva il 60% del mercato nazionale con utili così importanti da permettere enormi investimenti
zialmente si trattò di fornelli e cucine a gas ed elettriche (1957-59), poi scaldabagni (1957-59: dapprima a Matelica e dal 1965, nel nuovo stabilimento di Pianello di Genga); mobili da cucina in ferro smaltato (1957-59) a Cerreto d’Esi. Il processo di assestamento nel nuovo settore subì un’accelerazione tra il 1965 e il 1970, quando la MerloniAriston fece, in rapida successione, scelte decisionali significative: si avviò la distribuzione con marchio proprio di lavabiancheria fornite dalla San Giorgio di La Spezia (1965; dal 1973 autoprodotte nel nuovo stabilimento di Comunanza); alla produzione di lavastoviglie su licenza Kenwood (1966; dal 1969-70 interamente autoprodotte nel nuovo stabilimento di
in altri settori. Sul piano industriale, in sincronia con gli anni del «miracolo economico» italiano, egli mise l’azienda sulla strada di una progressiva e continuata diversificazione.
Santa Maria di Fabriano); all’acquisto della ALIA di Milano, produttrice di frigoriferi in conto terzi (1965-66; dal 1970 interamente autoprodotti nel nuovo stabilimento di Melano-Marischio, frazione di Fabriano); alla produzione di vasche da bagno (1967). Il punto di forza di questo imprenditore che proveniva da una famiglia di origini umili era proprio quello di acquisire i prodotti e le conoscenze di produzione industriale per farle proprie e rafforzare il proprio marchio. Nel 1970 Aristide Merloni morì in un incidente stradale e lasciò tutto l’impero nelle mano dei tre figli, da alcuni anni già in azienda.
Ariston, nasce il marchio di fabbrica “made in Italy” Tra il 1957 e il 1965 la ditta entrò – con prudenza e iniziando dai prodotti tecnicamente più semplici, destinati a un mercato «povero», che allora si andava affacciando al benessere – nel settore in forte espansione degli elettrodomestici «bianchi», con il nuovo marchio Ariston. Ini-
Economia Antonio Merloni, quando un figlio tenta di emulare le gesta del padre senza capirne il senso Dei quattro figli, tre proseguirono l’attività industriale, mentre la moglie e la figlia Ester si occuparono del patrimonio immobiliare e della proprietà agricola. Francesco, laureato in ingegneria industriale meccanica a Pisa, iniziò a lavorare in azienda nel 1954, dirigendo lo stabilimento di Matelica, dove venivano fabbricate le bombole per il gas liquefatto e, nel 1970, assunse la responsabilità della divisione sanitari. Antonio, laureato in economia e commercio a Perugia, come il fratello minore Vittorio, entrò in azienda molto giovane, occupandosi del settore meccanico; ma nel 1968, successivamente all’ingresso della ditta nel settore degli elettrodomestici veri e propri, preferì avviare un’iniziativa industriale autonoma nella produzione di lavabiancheria. Antonio Merloni acquisisce alcuni rami d’azienda, tra i quali la produzione di bombole per il gpl di Mate-
Ardo, stabilimento di Gaifana lica e da vita ad un marchio proprio di produzione elettrodomestici: ARDO. Purtroppo però del padre ha acquisito solo alcuni doti, tra cui sicuramente quella per la gestione da “metal mezzadro” dell’azienda. Negli anni, infatti, anche nelle proprie fabbriche si è ripercorso il motivo dominate delle aziende del suo predecessore, senza accorgersi che i tempi stavano cambiando velocemente e che i contadini stavano scomparendo.
La parabola discendente, da imprenditore a conto terzista La scelta peggiore di Antonio
Il dramma di chi è rimasto senza lavoro Testimonianza di una ex lavoratrice dell’Antonio Merloni Non posso credere di essere rimasta senza il mio lavoro. Prendetela come un piagnisteo, un continuo lamentarsi addosso, ma io faccio ancora fatica ad abituarmi... Per una donna non pensiate che sia facile restare senza niente tra le mani, da un giorno all'altro. Con uno stipendio da fame, riuscire a mettere in piedi un pranzo e una cena, a dare ai miei figli la parvenza di una vita normale... Io sono fuori mercato. Cosa significa? Significa che per questa società io non ho diritto di cercarmi un' occupazione perchè non servo più. Io per lo Stato devo accontentarmi dell'elemosina che ricevo, e dire
persino grazie mille con gratitudine vera... Ho una rabbia dentro che graffia più della puntina del giradischi su un vecchio vinile. Politici, sindacalisti, che mi dite di star calma, di sorridere, di sentirmi fortunata... Vi prego. Non fatelo più. Vorrei prevalesse dentro di me sempre e solo la speranza e la forza di andare avanti.... Lavoro all'Antonio Merloni da non molti anni. Prima mi dicevano che le donne non le assumevano e quando è stato possibile ho lottato disperatamente per l'impiego in questa azienda. Anche contro la mia dignità. Oggi per pagare l'affitto e mantenere i miei figli ho dovuto integrare la
Merloni è stata quella di non avvere creduto nel proprio marchio e di essersi appiattito sulle opportunità contingenti che, dagli anni settanta in poi, hanno consentito a molte aziende italiane di fare ottimi fatturati ed enormi profitti personali traformandosi in sotto-produttori per contro terzi. Questo tipo di sotto-produzione si è rivelata poi una scure per molte aziende, perché non ha permesso loro di crescere e imporsi con il proprio marchio, l’esatto opposto di quello che pensava e faceva Aristide Merloni, che acquisiva idee e prodotti di altri per farli propri. Imparare dagli come fare delle eccellenze per poi imcassaintegrazione con un lavoro in nero. Faccio la donna delle pulizie e guadagno 6 euro l'ora... senza nessun diritto lavorativo, ma lo faccio solo per i soldi... Non chiedo nient'altro se non il mio vero posto di lavoro, nella catena di montaggio a fare frigoriferi. Niente di più. Non un euro di troppo... So che le cose non cambieranno...ma chissà che qualcuno domani come me, non vergognandosi di raccontare la sua storia, possa riuscire a smuovere le coscenze di chi dovrebbe aiutarci, di chi dovrebbe rappresentare lo Stato e non abbandonarci. Vado perchè è tardi e domani un altro giorno arriverà. (tratto dal blog “voci dal Presidio” realizzato dal comitato operai Antonio Merloni di Gaifana)
11 metterle sul mercato con un proprio marchio di fabbrica: lo aveva fatto con le bilance per poi ripeterlo successivamente con le bombole per il gpl, ma soprattutto con gli elettrodomestici. Antonio Merloni questa scelta l’ha pagata a caro prezzo perché, alla fine, produrre per gli altri significa principalmente tenere i costi di produzione bassi e, con la concorrenza sopraggiunta dai paesi orientali, il vecchio binomio vincente Italia-terzismo si è rivelato non più sostienibile. La scelta di circondarsi poi di persone non di alto profilo tecnico e con dirigenti e capi fabbrica scelti ed imposti nella maggior parte dei casi dalle strutture corporative all’interno delle aziende (era il sindacato che esprimeva più adesioni a decidere quali persone dovevano ricoprire un determinato ruolo), ha portato il gruppo ad uno scadimento qualitativo che in poco tempo ha determinato il collasso aziendale.
L’ingresso nella Legge “Marzano” e l’inzio del calvario per gli operai coinvolti Dai record di fatturato degli anni 2000-2001 con livelli produttivi e magazzini stratosferici (oltre 100-120.000 elettrodomestici solo nello stabilimento di Gaifana) all’ingresso nella cosidetta legge “Marzano” nell’ottobre 2008, con un debito accumulato ben oltre gli 6800.000.000 di Euro. Qualcosa di sicuro non ha funzionato, sta di fatto che ad oggi oltre 2500 persone si ritrovano senza un lavoro e con un evidente disagio sociale enfatizzato dall’ubicazione dei siti dove Antonio Merloni aveva costruito le proprie fabbriche: l’Appennino Umbro marchigiano, zona impervia con evidenti deficit infrastrutturali.
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Le “torri” di Foligno
Il progetto di recupero dell’area dell’ex zuccherificio un dibattito tra “sesso degli Angeli” e “gossip”, mentre intanto il centro storico di Foligno muore tra indifferenza, disattenzione e incompetenza
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Il maxi progetto di recupero urbanistico ed edilizio dell’area dismessa dell’ex zuccherificio tra promesse di rilancio e rischi concreti di disastro DI
SANDRO RIDOLFI
Da diverse settimane, dalla grande festa della presentazione al pubblico del maxi progetto di recupero urbanistico ed edilizio dell’area dell’ex zuccherificio, stiamo assistendo a un intenso dibattito cittadino sui benefici o, a giudizio dei più, sui “malefici” dell’iniziativa. Riteniamo doveroso in questo primo numero della nuova rivista mensile di Piazza del Grano portare anche il nostro contributo. Lo faremo in modo semplice e comprensibile, in coerenza con il messaggio del sottotitolo di copertina, e lo faremo secondo la nostra chiave di lettura della realtà, marxista. Il marxismo ci insegna che i fatti vanno analizzati partendo dalla loro realtà materiale e solo poi ne va
esaminata la sovrastruttura ideologica che non è che l’espressione idealizzata, o meglio, ideologizzata di quella realtà concreta sottostante. In termini “popolarizzati” ciò vuol dire che per giudicare i possibili effetti sociali, economici e culturali del progetto di recupero della vasta area praticamente urbana dell’ex zuccherificio occorre prima conoscerne la sua attualità concreta e materiale, poi si potranno trarre conclusioni ed esprimere giudizi.
Il progetto Prima sezione: le torri residenziali Il progetto si compone di due sezioni, alle quali ne va però aggiunta una terza opportunisticamente non menzionata dai promotori del progetto, ma inevitabile
Nota tecnica Diritti soggettivi e interessi legittimi Esistono due categorie di diritti: una “forte”, cioè piena e assoluta; la seconda più “debole”, cioè condizionata al collegamento, in posizione inferiore, con una posizione più forte. La prima categoria è quella dei “diritti soggettivi”, che possono appartenere a qualsiasi soggetto dotato di personalità giuridica (persona fisica, società, associazione, ecc.) e debbono essere rispettati da tutti, trovando il solo limite nellequivalente diritto pieno di altri soggetti. Questi diritti pieni debbono essere rispettati dalla Pubblica Amministrazione anche quando agisce nelle sue funzioni e con tipici poteri pubblici. La nostra Costituzione, in verità, prevede la possibilità che i diritti soggettivi pieni possono venire meno di fronte allazione della Pubblica Amministrazione quando la stessa agisce per la tutela di un superiore interesse pubblico; in tal caso, tuttavia, la Pubblica Amministrazione è tenuta a risarcire il titolare del diritto soggettivo compromesso. Ad esempio, nel caso di esproprio di beni immobili per esigenze di realizzazione di strade, infrastrutture, opere pubbliche primarie, ecc., il proprietario del bene, che non può opporsi allesproprio, ha diritto di essere indennizzato con una somma o, se possibile, con una permuta
e sostanziale. La prima sezione del progetto riguarda la porzione dell’area destinata a residenze, le due torri/grattacieli di oltre 100 appartamenti. Si tratta, o almeno così si prospetta, di alloggi di alta qualità dal prezzo stimato di circa 3.000 euro metro quadro, con costi condominiali e consortili (le “torri” fanno
parte dell’unitario comprensorio residenziale e commerciale organico e vigilato) dei quali non si parla, ma è facile immaginarli per un importo più o meno pari a un canone di locazione corrente nel nostro territorio. Appartiene al “notorio” (cioè a ciò che ciascuno sa solo per avere aperto gli occhi e guardato attorno a
di un altro bene equivalente. La seconda categoria concerne gli “interessi legittimi”, che meglio potremmo definire le “aspettative” di un diritto, la cui realizzazione è subordinata alla loro compatibilità con un superiore interesse pubblico; lincompatibilità, originaria o sopravvenuta, con il superiore interesse pubblico fa venire meno anche linteresse legittimo (la aspettativa) del privato. Lurbanistica, cioè la pianificazione del territorio, è una delle attività tipiche della Pubblica Amministrazione rispetto alla quale si pongono degli interessi legittimi (delle aspettative) dei privati. Ad esempio, linclusione di un terreno in un piano urbanistico che ne preveda la possibilità di edificazione, fa nascere in capo al proprietario del terreno unaspettativa legittima di edificarvi. Si tratta però solo di una aspettativa, in quanto un eventuale nuovo orientamento della Pubblica Amministrazione che ne modifichi le caratteristiche di edificabilità per qualità (destinazione residenziale, commerciale, ecc.), dimensioni (cubature e superfici), imposizione di limitazioni e vincoli a vantaggio pubblico, ecc., sino potenzialmente a revocarne del tutto la edificabilità, fa venire meno (o limita) lauspicato diritto di edificazione del proprietario del terreno e nulla, in tal caso, è dovuto a questultimo da parte della Pubblica Amministrazione per la privazione di una mera aspettativa.
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Terza sezione: l’esproprio e la demolizione del Tigre
sé) che nella nostra città (e comprensorio) ci sono centinaia di abitazioni invendute e sfitte, il cui prezzo oscilla dai 1.000 euro metro quadro per il recuperato post sismico, ai 2.000 euro metro quadro per le nuove costruzioni anche di qualità così detta ecologica. Prima domanda, col buon senso comune; quante possibilità ci sono che venga venduto anche uno solo degli appartamenti delle due torri? A stima di larga massima, più o meno ZERO!
Seconda sezione: la galleria, il direzionale, i parcheggi Passiamo alla seconda sezione del progetto che comprende la galleria commerciale, gli uffici direzionali e il grande parcheggio sotterraneo, su due livelli, per circa 1.400 posti auto, ovviamente a pagamento. Non appartiene al notorio, ma può essere dato per certo, che la modalità dei centri commerciali in gal-
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leria è stata da alcuni anni completamente abbandonata, cioè non ne vengono da tempo più costruite in alcuna parte d’Italia e d’Europa. Per gli uffici direzionali vale la stessa considerazione di attuale enorme eccedenza nel nostro territorio sopra segnalata per le abitazioni. Quanto ai parcheggi sot-
Perché un interesse legittimo si trasformi in un diritto soggettivo, sempre restando al campo dellurbanistica, occorre che il soggetto interessato abbia effettivamente esercitato la facoltà prefigurata del piano regolatore, cioè abbia effettivamente edificato (tecnicamente abbia posato la così detta “prima pietra”, che formalmente consiste nellinvio della comunicazione di “inizio dei lavori”). Da questultimo momento linteresse legittimo si trasforma in un diritto soggettivo pieno e lAmministrazione perde il suo potere di modifica discrezionale della pianificazione urbanistica. Nel caso dellarea dellex zuccherificio non solo non sono iniziati i lavori di edificazione (lautorizzazione rilasciata concerne solo la demolizione dei preesistenti manufatti fatiscenti), ma la Pubblica Amministrazione non ha neppure rilasciato i necessari permessi a costruire. Conseguentemente, ai termini di legge, qualsiasi modifica dellattuale destinazione urbanistica dellarea, sino al limite della sua riqualificazione in area inedificabile, è nella piena facoltà dellAmministrazione Pubblica, senza che ciò faccia sorgere alcun diritto risarcitorio in capo al soggetto proprietario. Esiste tuttavia un principio giuridico, che potremmo giustamente definire persino superiore a quello ora esposto, che impone alla
terranei, anch’essi appartengono a una tecnica costruttiva da tempo superata per i costi altissimi di realizzazione e i crescenti problemi di sicurezza d’uso. Seconda domanda: quante probabilità ci sono che questa sezione del progetto venga effettivamente realizzata? La risposta è la stessa: ZERO!
Veniamo infine alla terza sezione “oscurata” relativa della demolizione del vicino supermercato Tigre che costituisce, a norma di PRG, la condizione pregiudiziale per il rilascio del permesso di costruzione del nuovo supermercato alimentare all’interno dell’area dell’ex zuccherificio. La demolizione del Tigre prevede l’esproprio, a opera del Comune, del fabbricato e dell’area. Terza domanda: quante probabilità ci sono che il Comune proceda in tempi ragionevoli e con le risorse necessarie a tale operazione? Da notare che la catena commerciale proprietaria, Gabrielli, non è la così detta “ultima arrivata” e che nell’attuale supermercato sono impiegate alcune decine di dipendenti (da licenziare?). Anche per questa terza sezione del progetto, almeno per i prossimi anni, la risposta non può essere che un ennesimo ZERO!
Pubblica Amministrazione di tenere comportamenti rispettosi nel senso più vasto dei diritti, degli interessi, ma anche delle mere aspettative dei cittadini in nome dei quali, e non “contro” i quali, esercita le proprie funzioni. Il principio che si chiama correttezza, ragionevolezza, competenza, trasparenza, ecc., ripete il principio cardine dellordinamento del vivere civile: quello del “neminem laedere”, cioè del non danneggiare, non solo con comportamenti dolosi, ma anche solo colposi (difetto di diligenza, di competenza, imperizia) gli altri chiunque essi siano, e per la Pubblica Amministrazione gli altri sono la collettività amministrata. Se dunque è diritto (e dovere se necessario) della Pubblica Amministrazione di modificare in ogni momento, magari per giustamente aggiornarle, talune previsioni urbanistiche non consolidate in diritti soggettivi (lavori iniziati), ciò nondimeno è dovere della Pubblica Amministrazione di individuare soluzioni che raggiungano un corretto equilibrio tra gli interessi della più vasta cittadinanza amministrata e quelli del singolo soggetto compromesso dal nuovo orientamento di pianificazione. E questa però una categoria che appartiene alla “politica”, alla “buona” politica, seppure sempre nel rispetto delle leggi.
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Sommando gli ZERO agli ZERO Sommando gli ZERO si ottiene sempre lo stesso risultato ZERO, che vuol dire che non c’è alcuna ragionevole probabilità che il progetto dell’ex zuccherificio (almeno quello oggi propagandato) venga realizzato. Allora, di cosa stiamo discutendo? Del sesso degli angeli? O forse meglio si tratta di “gossip” cittadino, parlare tanto per parlare. Ma il “parlare tanto per parlare” non è mai fine a se stesso e se non serve per discutere seriamente di un fatto reale, serve sicuramente a depistare l’attenzione dei cittadini dal vero, reale, concreto e attuale problema della nostra città: l’agonia del centro storico, sia sotto il profilo del fortissimo calo dei residenti, sia sotto quello della grave e crescente crisi delle im-
prese commerciali insediate. Parliamo di questo e parliamone presto e seriamente; lasciamo perdere le “giocolerie” delle torri e delle gallerie immaginarie. Una delle città più belle del centro Italia, miracolata dal-
Nota politica Economia e ricchezza beni comuni Scriveva Ernesto Guevara che “il socialismo è un sistema sociale che si basa sull'equa distribuzione delle ricchezze della società, ma a condizione che tale società abbia ricchezze da spartire”. Non sarà mai un operaio a “tifare” per il fallimento del suo padrone, perché il bene più grande per un lavoratore è il lavoro. Leconomia e la ricchezza sono “beni comuni” che debbono essere pregiudizialmente tutelati, perché solo se esistono in concreto possono essere oggetto di una equa ridistribuzione. Questo ci insegna la teoria marxista delleconomia e la teoria leninista della costruzione dello Stato socialista ed egualitario nella creazione e nella distribuzione della ricchezza. Che una città cresca, che le aziende lavorino e diano occupazione è un bene assoluto; che le imprese generino ricchezza è anchesso un bene perché sulla ridistribuzione di quella ricchezza si potrà discutere e, se necessario (e lo è sempre stato e così sempre sarà), anche duramente combattere. Se una città decresce, se le aziende chiudono e si perdono i posti di lavoro è un male assoluto; se invece di produrre ricchezza le imprese la sperperano in operazioni non adeguatamente ponderate, magari anche perché sopraffatte da unemergenza produttiva oggettivamente grave, generano un danno che va oltre il patrimonio dei singoli imprenditori, perché è destinato a ricadere sullimpoverimento dellintera collettività. Il progetto dellex zuccherificio sicuramente non andrà in porto, ma semmai vi si ponesse realmente mano il rischio di un insuccesso è reale e consistente. Quali saranno le conseguenze di un colosso edi-
l’enorme quantità dei finanziamenti per la ricostruzione post sismica che hanno consentito di risanare e restituire innumerevoli edifici, strade, piazze e interi quartieri, sta morendo sotto i nostri occhi. E’ davvero
tutta colpa della crisi finanziaria mondiale? O forse stiamo scontando una grave mancanza di attenzione, di progettualità, di iniziativa politica e sociale? Parliamone; il dibattito è aperto anche su questo giornale.
lizio incompiuto o comunque inutilizzato, quale sarà il così detto “effetto domino” di un ennesimo dissesto economico è difficile immaginarlo, ma non può non essere previsto, o quanto meno messo in un bilancio preventivo cautelativo. Unopera così grande è sicuramente una altrettanto grande attrattiva imprenditoriale, tanto più quando tutto attorno leconomia ristagna e anzi regredisce e, come è noto, la speranza della “svolta”, o più modestamente della sopravvivenza, è lultima a morire. Si dice che sia nella logica imprenditoriale il rischiare (si dice ma non è quasi mai così, almeno per limprenditoria italiana nata e vissuta con sussidi pubblici, sgravi, esenzioni e contributi a fondo perduto, raramente con veri capitali del così detto imprenditore); è però certamente nella logica dellimprenditore in difficoltà lalzare la posta del gioco e perdere la capacità di controllo dellimpresa, delle sue dimensioni e potenzialità e, infine, della sua redditività. Non si può quindi pretendere da questo imprenditore una capacità previsionale che non può avere. E indispensabile un intervento di tutela “pubblico”, è indispensabile laiuto dellintelligenza collettiva che, pur giustamente preoccupata e spaventata dalla gravità della crisi che ci sta affondando, sia ancora in grado di guardare più avanti dellemergenza delloggi e pensare a un domani per il quale ci sarà bisogno di tutte le risorse possibili, risorse che quindi non possono e non debbono essere sperperate in interventi inutili, infruttuosi o persino dannosi. Tenere la testa alta e aperta è fondamentale tanto più nei momenti di maggiore difficoltà, ma i piedi vanno sempre tenuti ben piantati in terra. E leconomia che determina la storia, non le filosofie.
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ARTICOLO 18 Una questione di “potere”
Tra le grandi riforme che il “governo tecnico” si è assunto il compito di imporre al nostro Paese sotto il ricatto, continuamente ripetuto, del precipizio nel fallimento greco, assume indubbiamente un primo piano quella del lavoro. Ma è bene precisare subito: non del mondo del lavoro inteso come produzione, sviluppo, crescita; bensì del mercato del lavoro, cioè della compravendita di quella merce indispensabile per la produzione, ma l’unica a non avere un prezzo fisso, che viene ipocritamente chiamata “risorse umane”, ma che molto più realisticamente si chiama “manodopera”. Ora, appartiene al buon senso comune, che non richiede alcuna competenza specifica, che nel caso in cui una merce abbondi non c’è nessuna necessità di disciplinarne il mercato, perché saranno le sue stesse regole naturali della domanda e dell’offerta a stabilirne prezzi e quantità scambiata. Appartiene ancora al notorio che ci troviamo in una gravissima crisi produttiva e quindi occupazionale, sicché l’unica risorsa che oggi abbonda è proprio quella della merce lavoro. Occorre quindi domandarsi perché il mercato del lavoro ha assunto una così grande importanza, perché viene ritenuta così urgente la sua radicale riforma, non occorre dirlo, manifestamente peggiorativa per i lavoratori? La risposta è nella natura stessa di questa faccia oscura del capitalismo finanziario che ha preso il potere nel nostro Paese. La risposta è nella affermazione del “potere” di dominio, di controllo, di disposizione da parte dei proprietari dei mezzi di produzione sugli addetti al funzionamento di quei mezzi, i lavoratori.
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L’art. 18, che viene preso come simbolo dell’intero progetto di riforma del mercato del lavoro, disciplina i licenziamenti individuali, cioè il diritto del padrone di liberarsi dei suoi dipendenti “scomodi”. Letta così la norma non sembra avere alcuna concreta utilità o rappresentare alcun pericolo per i padroni in questo momento in cui i licenziamenti sono all’ordine di ogni giorno e non individuali ma di vera e propria “massa”. Perché allora accanirsi contro una disposizione attualmente inutile e inutilizzabile? Perchè questa disposizione contiene un “virus” mortale per il capitalismo, stabilisce il diritto dei lavoratori subordinati di contestare e contrastare il potere assoluto dei padroni. Pone un limite al dominio del capitale. La missione di questo governo “tecnico” è di abolire questo limite, ora e per sempre, di riaffermare in questo momento di debolezza dei lavoratori e delle loro rapresentanze sindacali, uniche rimaste dopo la morte dei partiti, l’incondizionato potere del proprietario dei mezzi di produzione. Contrastare l’aggressione all’art. 18 è dunque una questione di civiltà, di quella civiltà che ha fatto scrivere nell’art. 1 della Costituzione che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro; non sulla produzione dei proprietari delle fabbriche, ma sulla fatica dei lavoratori.
Da Giuseppe Di Vittorio a Giacomo Brodolini, la lunga vicenda della nascita dello “Statuto dei Lavoratori” Il primo a parlare di una legge che tutelasse i diritti costituzionali e civili dei lavoratori nelle fabbriche é stato Giuseppe Di Vittorio al Congresso di Napoli della Cgil (1952). Con lo slogan “la Costituzione nelle fabbriche” si volle allora tradurre alcuni principi costituzionali in norme capaci di garantirne l’applicazione nel mondo del lavoro operaio. “Il lavoratore” – dichiarò Di Vittorio - “è un uomo, ha una sua personalità, un suo amor proprio, una sua idea, una sua opinione politica, una sua fede religiosa, e vuole che questi diritti siano rispettati da tutti e, in primo luogo, dal padrone … perciò sottoponiamo al Congresso un progetto di Statuto che intendiamo proporre alle altre organizzazioni sin-
dacali (…) per poter discutere con esse e lottare per ottenerne l’accoglimento e il riconoscimento solenne”. Negli anni seguenti vennero approvate alcune leggi che ne anticiparono l’elaborazione, quale la legge che pose fine ai licenziamenti delle donne incinta, e quella che cancellò il licenziamento “ad nutum” e introdusse l’obbligo della “giusta causa”. Si giunge all’epoca del centrosinistra e c’è un uomo, Giacomo Brodolini, già dirigente della Cgil e ministro socialista, che fa propria questa missione presentando un disegno di legge nel giugno 1969. L’obiettivo era di “creare un clima di rispetto della dignità e della libertà umana”. Ci fu in verità un forte dibattito, soprattutto per il tentativo
del PCI di inserire nello Statuto anche il riconoscimento delle organizzazioni partitiche nei luoghi di lavoro. La richiesta non passò e il Pci, pur riconoscendo la grande importanza della nuova legge, si astenne dal voto parlamentare che, comunque, consacrò lo “Statuto dei lavoratori” come legge dello Stato n. 300 del 20 maggio 1970. La legge è stato il coronamento di tante battaglie e lotte operaie; di assemblee che procedevano, fabbrica per fabbrica, alla nomina dei “delegati di gruppo omogeneo”, e portarono all’entrata del sindacato, con i dirigenti sindacali letteralmente trascinati dagli operai, all’interno dei capannoni industriali. Furono quelle lotte a quella realtà a partorire lo Statuto. Oggi si vuole tornare indietro. La retromarcia è stata innestata dal centrodestra col ministro Maurizio Sacconi che affermava di voler "completare la liberazione dall'oppressione burocratica, da
tutto quello che genera conflitto e dall'incompetenza che minaccia l'occupabilità". Oggi i “tecnici” delle banche stanno attuando (vogliono attuare) quel progetto antidemocratico che i politici non hanno avuto la forza di portare a fondo. Minacciano lo spettro della recessione (che c’è già!), millantano investitori stranieri pronti ad entrare in Italia a patto della cancellazione dei diritti dei lavoratori, fantasticano di “dinamismo” che vuole solo dire precarietà e instabilità come condizione “normale” del lavoro subordinato. Certo lo Statuto dimostra la sua età e avrebbe bisogno di aggiustamenti, ma del tutto diversi da quelli prospettati dal governo della finanza. Oggi i Co.Co.Co. i lavoratori a progetto, gli stagisti, quelli che pullulano nelle fabbriche con le casacche degli appalti non sanno che cosa sia lo Statuto. È necessaria una estensione dei diritti non una loro riduzione.
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Legge n. 300 del 20 maggio 1970 voluta da Giuseppe Di Vittorio realizzata dal “Ministro dei Lavoratori” Giacomo Brodolini
“Statuto dei Lavoratori”
L'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori italiano implementa la cosiddetta tutela reale disciplinando il caso di licenziamento illegittimo (perché effettuato senza comunicazione dei motivi, perché ingiustificato o perché discriminatorio) di un singolo lavoratore: - nelle unità produttive con più di 15 dipendenti (5 se agricole); - nelle unità produttive con meno di 15 dipendenti (5 se agricole) se l'azienda occupa nello stesso comune più di 15 dipendenti (5 se agricola); - nelle aziende con più di 60 dipendenti. Il testo Ferme restando l'esperibilità delle procedure previste dall'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell'articolo 2 della predetta legge o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Tali disposizioni si applicano altresì ai datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che nell'ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso
al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro. Ai fini del computo del numero dei prestatori di lavoro di cui primo comma si tiene conto anche dei lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro, dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale, per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all'orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge ed i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale. Il computo dei limiti occupazionali di cui al secondo comma non incide su norme o istituti che prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie. Il giudice con la sentenza di cui al primo comma condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata l'inefficacia o l'invalidità stabilendo un'indennità commisurata alla retribuzione globale di fat-
to dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell'effettiva reintegrazione; in ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione globale di fatto. Fermo restando il diritto al risarcimento del danno così come previsto al quarto comma, al prestatore di lavoro è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto. Qualora il lavoratore entro trenta giorni dal ricevimento dell'invito del datore di lavoro non abbia ripreso il servizio, né abbia richiesto entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza il pagamento dell'indennità di cui al presente comma, il rapporto di lavoro si intende risolto allo spirare dei termini predetti. La sentenza pronunciata nel giudizio di cui al primo comma è provvisoriamente esecutiva. Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui al-
l'articolo 22, su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato cui questi aderisce o conferisca mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di merito, può disporre con ordinanza, quando ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro. L'ordinanza di cui al comma precedente può essere impugnata con reclamo immediato al giudice medesimo che l'ha pronunciata. Si applicano le disposizioni dell'articolo 178, terzo, quarto, quinto e sesto comma del codice di procedura civile. L'ordinanza può essere revocata con la sentenza che decide la causa. Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al primo comma ovvero all'ordinanza di cui al quarto comma, non impugnata o confermata dal giudice che l'ha pronunciata, è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all'importo della retribuzione dovuta al lavoratore.
Nel Sud del mondo Cooperazione allo sviluppo, a sostegno economico diretto in molti paesi del Sud del mondo e collaborazioni con enti locali e organizzazioni internazionali. Dalla sua fondazione a oggi il CISS ha già realizzato, o ha ancora in corso, più di 50 progetti di durata pluriennale (generalmente di tre anni) e oltre 200 azioni di più breve durata (sei mesi/un anno) beneficiando direttamente nel mondo più di 1 milione di persone. I progetti del CISS riguardano vari settori dintervento e generalmente utilizzano un approccio multisettoriale. Lintervento internazionale avviene tramite il sostegno economico diretto, linvio di materiali e mezzi tecnici e la partecipazione ai progetti di personale tecnico qualificato (volontari e cooperanti). Al di là dei diretti finanziamenti a progetti, il CISS ha realizzato collaborazioni e consulenze con diversi Enti locali e con lagenzia delle Nazioni Unite denominata UNOPS, specializzate nella gestione dei progetti di sviluppo umano. Il CISS attualmente sta realizzando interventi di solidarietà e cooperazione internazionale in Albania, Algeria, Bolivia, Bosnia Erzegovina, Egitto, Etiopia, Guatemala, Honduras, Libano, Macedonia, Marocco, Mauritania, Palestina, Repubblica Democratica del Congo e Tunisia Per destinare il 5 per 1000 ai progetti del CISS è sufficiente: - firmare sui modelli di dichiarazione (CUD; 730; UNICO persone fisiche) nel riquadro dedicato al sostegno delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale; - riportare, sotto la propria firma, il Codice Fiscale del CISS: 97143970826
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Teatro
Teatro, la resistenza a Roma: cronaca per un futuro imminente
“Quando l’ingiustizia diventa legge, la resistenza diventa dovere.” Bertolt Brecht
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Teatro
Il “Teatro Valle Occupato” La permanenza del regista-attoredrammaturgo Mario Perrotta, artefice del laboratorio teatrale “Frammenti d’Italia”. Cinque storie di oggi per gli attori del futuro. DI
IRENE LEPORE
Roma. Giovedì 10 maggio 2012, alle ore 19 il Teatro Valle Occupato ha aperto le porte agli artisti di strada, una serata memorabile. Ciò è accaduto in contraddizione alle ferme delibere del sindaco di Roma Alemanno volte a dare severissime restrizioni a questi artisti, accusati di disturbare la quiete pubblica. Moltissime persone di ogni età sono accorse numerose per lasciarsi piacevolmente occupare il tempo dagli artisti strada, ormai senza più neanche la strada. Una fila incredibile per entrare nel teatro, anche se lo spettacolo era nel foyer, fuori, intorno, ovunque. Si sente spesso dire che il teatro è morto, quel giovedì sera si poteva invece dire che il teatro è vivo, e allo stesso tempo però sembrava, immersi in quella vita e vitalità extraordinaria, di vedere che c’è qualcuno che agisce costantemente per uccidere le possibilità, per cancellare i volti di chi fa teatro, per cancellare la cultura, i giovani, il futuro, qualcuno che vuole far dipendere gli esseri umani da parole e meccanismi incomprensibili dell’economia globale, dai misteri delle banche d’affari, qualcuno che vuole far calcolare le persone come roba di finanza, ma la vita è altro, è quello che scorreva quella sera e non solo per le vie di Roma, caotica ma pulsante. I luoghi di cultura per lo più si sono
irrigiditi, sono diventati stabili, stabili e morti. Non si lasciano sbilanciare, accolgono poco la novità. Gli artisti di strada su quel palcoscenico sono stati uno spettacolo dal vivo vitalissimo. Tutti i giorni, avvicinandosi a quella via, si vede gente a lavoro costantemente e pubblico a tutte le ore. Il Teatro Valle Occupato sembra davvero diventare un luogo di aggregazione, di incontro, di confronto, di possibilità, di cultura, di parole pensate, di silenzio, di prove luci. Il 12 maggio ore 18 e 30, con prove dalle ore 15, i partecipanti del laboratorio “Frammenti d’Italia”, condotto da Mario Perrotta, sono stati accolti senza troppe formalità sul palcoscenico del Teatro Valle, nella scenografia del suo spettacolo “I cavalieri -Aristofane caberet” che lo stesso Perrotta avreb-
me di tentativi degli attori per fare emergere azioni efficaci e significative e per dare voce a quelle parole, affinché fossero parole-azioni, hanno preso vita i lavori dei drammaturghi. Cinque quelli arrivati a una scrittura più matura e quindi portati sulla scena: il pezzo sul G8, incontro e pensieri non detti tra una manifestante e un poliziotto; “Pane, amore e Scampia”, ovvero i consigli di un malavitoso al regista del film “Gomorra” girato a Napoli; i pupi di Piazza Navona del puparo
be poi in serata presentato. Un’impalcatura in acciaio su due piani a forma di ferro di cavallo. Qui, dopo sei giorni di intenso lavoro, di bozze, correzioni, indicazioni, cancellazioni, riscritture e insie-
Marcel cacciato dall’ “editto di Alemanno” contro gli artisti di strada; le parole di uno stalker e della donna sua vittima: parole in atto di assedio da un lato e di paura dall’altro; il suicidio di uno
studente arrivato al dottorato ma senza futuro. Così sono emerse diverse occasioni teatrali e umane che forse, come spesso accade, andranno sprecate. Sarebbe necessario che i teatri fossero sempre aperti democraticamente a chi il teatro ama farlo, a chi è disposto a non sapere dove andare a dormire pur di farlo, a chi non chiede niente in cambio se non farlo, a chi non calcola profitti, a chi si acconteterebbe di fare onestamente il proprio lavoro, a chi non chiuderebbe mai un teatro, a chi non esproprierebbe mai un luogo della sua storica connotazione culturale. Aprire i teatri a chi ama il profumo del teatro: quell’odore di legno e di lavoro di braccia insieme. Odore di silenzio, di spazio vuoto che attende e pretende di essere attraversato, occupato, vissuto in maniera efficace. Se un teatro, che è destinato ad essere chiuso o trasformato in qualcosa che tradisce le sue origini, viene occupato è perché non tutti ragionano in termini economici. Un mio amico teatrante, esperto nel settore, confrontandoci sulla questione dei teatri chiusi, mi ha scritto:
Teatro Qui in Umbria, ma anche in altre regioni, accade spesso di passeggiare per le città e vedere i portoni dei teatri serrati, le bacheche vuote o con manifesti di vecchia data, strappati da vento e pioggia.
“Cara Irene, molti teatri, soprattutto quelli di provincia, molto spesso pubblici, sono ormai ricompresi nelle logiche economiche, spesso solo nelle logiche gestionali, diventando strumenti di ipotetico e infinitesimale incremento del PIL e piccoli ammortizzatori sociali. Molti amministratori pubblici locali (non solo umbri) declinano o sono costretti (pochi) a declinare il teatro solo in termini economici, sia perché obbligati dai bilanci decurtati, sia perché spesso disinteressati al teatro - bene comune - e al teatro in generale, alla cultura ovvero anche al sapere. Si calcolano solo i costi del servizio di apertura dei teatri, i costi del personale di sala, di vigilanza antincendio e del personale della sicurezza. Non si parla più di progettualità artistica. Trattando il teatro solo in questi termini i teatri rimangono spesso chiusi. Non è possibile dunque utilizzarli in quanto il meccanismo infernale che li regola prevede che l'apertura di uno spazio teatrale comporta l'immediata attivazione di una folta squadra di persone che a vario titolo poi dovrà essere pagata. Non si parla di artisti ma di persone che di fatto non lo fanno il teatro, anzi non lo amano, lo subiscono con la scusa di controllarlo. Il tutto grazie allo zelo dei politici che sfornano norme perverse applicate da zelanti burocrati e tradotte in regolamenti altrettanto perversi. Sembra di essere testimoni di un modo “legale” di tenere chiusi i teatri. Mi chiedo come mai l'apertura dei luoghi di culto (chiese) non comporta, in occasioni delle funzioni, il coinvolgimento di tutto questo personale a pagamento? Come mai non ci sono squadre di mascherine, responsabili della sicurezza, portieri, vigili del fuoco invece imposti nei teatri? Senza voler offendere la sensibilità dei credenti, la funzione religiosa è di fatto una rappresentazione, seppur religiosa. Anche questa volta due pesi e due misure. Ici docet. Per semplificare lo Stato laico dovrebbe tutelare anche la rappresentazione laica e favorirla. Abbiamo diritto, noi cittadini, di rappresentare e rappresentarci , noi che dovevamo essere il futuro. Noi che lo saremo comunque a dispetto di chi declina il verbo essere solo al passato. (Stato, Lo Stato è passato). Cara Irene, è solo una questione di tempo.”
Questi teatri sono diventati bei palazzi che fanno immagine, spesso però sono stati restaurati solo all’esterno avendo dimenticato, come se fosse secondario, di aggiustare il palcoscenico o di consolidare il tetto per evitare che cada la pioggia in scena, non prevista dal copione, durante gli spettacoli. Si cura per lo più la facciata. Se, passandoci davanti, si nota una porta o una finestra socchiusa viene allora la voglia di entrare, di spalancare tutto e accendere le luci, senza attendere permessi, senza aver richiesto e faticosamente ottenuto le agognate e lente concessioni, senza aspettare che i custodi o chi per loro vengano a chiudere l’uscio come se si trattasse ormai di una proprietà privata. Come mai non si fa qualcosa per facilitare, agevolare l’attività nei teatri? Perche non considerarli “Tempio laico” e svincolarli dalle logiche perverse che il mio amico denunciava. Perché le Istituzioni non favoriscono effettivamente l’uso degli spazi teatrali e così quella necessità umana secolare di rappresentare continuamente l’umanità stessa a una certa distanza, su un palcoscenico, che permette di osservare tutto in maniera diversa e che fa ricordare ciò che spesso si dimentica di dover tenere
23 presente per immaginare il futuro? L’Umbria è piena di teatri che vengono aperti solo per cose ormai troppo formali, magari con grandi nomi appariscenti, ma che nel tempo sono diventate luminose vetrine vuote. Mai però che le manifestazioni culturali e i teatri si aprano alla partecipazione dei giovani (che magari sono andati a studiare fuori per il teatro o sono cresciuti nei teatri quando una volta le città si animavano di arte e cultura) senza troppe restrizioni, mai che accada veramente qualcosa di contemporaneo, di vivo. I teatri spesso sono morti anche quando vengono accesi i riflettori per intere stagioni. Certo il teatro non può essere lasciato a chiunque. Bisognerebbe darlo in mano a chi sa a cosa serve il teatro oltre a fare teatro e poesia: a educare, ad aprire le menti, a passare messaggi, a saper stare insieme, a lavorare insieme, a confrontarsi per un obiettivo comune senza scopo di lucro, a infondere valori come la tolleranza, a sentire la vita che scorre, le anime che si accendono, i profumi che si immaginano, le immagini che si moltiplicano, i mondi diversi che si riconoscono. Il gruppo che si è creato in quei giorni a Roma in occasione del laboratorio di Mario Perrotta rimane in parte attivo, vorrebbe continuare a lavorare, a formarsi, forse si ritroveranno. Qualcuno che doveva partire e andare via dall’Italia non se ne andrà, perché ha visto che anche in Italia qualcosa è possibile fare, è possibile esserci, è possibile avere un luogo, respirare senza sentirsi di troppo, avere un volto, il proprio, senza troppe maschere, avere un’idea, ascoltare qualcuno con esperienza che ha qualcosa da dire, da trasmettere.
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Purtroppo questa possibilità è durata poco, è stato un assaggio di come le cose dovrebbero andare: dovrebbero esserci scuole di teatro libere senza troppi provini, perché fare teatro insegna anche a vivere se fatto bene. Scuole di teatro aperte nei teatri, senza più quegli insegnanti stabili, spesso privi di entusiasmo, ma avendo come Maestri artisti attivi, con l’obbligo morale di fermarsi ogni tanto e di restituire costantemente le proprie conoscenze e “i segreti” del mestiere. Da esperienze formative come questa, condotta da Mario Perrotta e resa possibile da Nuovo Cinema Palazzo e dal Teatro Valle Occupato, si va via con lo zaino pieno di panni sporchi da lavare e tanta nuova poesia per i giorni che verranno, alcuni
Teatro
libri da leggere, alcune parole da sottolineare e ricordare, storie che non conoscevi, volti che non conoscevi, persone che per pochi giorni hanno vissuto con te un’ esperienza particolare, importante a detta di tutti. Intanto viene da pensare a questo mondo di gente sempre più isolata, che forse aspetta solo di potersi conoscere e fare qualcosa insieme, condotti da maestri che ne sappiano più di loro disposti ad insegnare e anche però ad ascoltare, in uno scambio reciproco e comune, condiviso. Ad oggi dunque esiste il Nuovo Cinema Palazzo, nel quartiere San Lorenzo, sulla cui vita ci hanno messo la firma, il corpo e la voce tanti cittadini, artisti e uomini di cultura, tra i quali anche uno spoletino, Guido Farinelli che insieme all’attrice Sabina Guzzanti ed altri è stato uno dei pionieri dell’occupazione. Esiste inoltre la Fondazione Teatro Valle Bene Comune. Alla base di queste occupazioni, avvenute non solo a
Roma, ma anche in altre città di Italia, c’è l’idea del teatro come BENE COMUNE, un teatro che sia partecipato; l’idea di un teatro aperto, fuori da logiche economiche e di mero guadagno, di un luogo dove si tenta di fare poesia, di fare cultura, dove si ascolta la voce del pubblico. Un teatro che non chiede niente alle Istituzioni, se non di poter essere quello che già è, che si affida al proprio lavoro e ai cittadini che vogliono collaborare e sostenere questa possibilità, che si affida all’energia ostinata che viene dal basso volta a difendere il diritto all’espressione artistica e non solo. Si può dire quindi che in questi luoghi occupati sono tutti legittimamente illegali. Si può finalmente essere testimoni di gente che si riappropria del territorio e dei luoghi che ne sono da secoli l’humus vitale, gente che lotta contro le privatizzazioni, contro la trasformazione dei luoghi di cultura in spazi di mercificazione e speculazione. In una pagina
del giornale scritto, pubblicato e gratuitamente distribuito dal Teatro Valle, c’è una citazione di Bertolt Brecht: “Quando l’ingiustizia diventa legge, la resistenza diventa dovere.” Intanto lo Stato, costituito da governanti non governanti, in tutte le sue declinazioni e diramazioni evidenti e celate, e con tutte le sue crepe debordanti di corruzione, emana odore di stantio, produce rumore di meccanismo ingolfato, sembra essere una macchina che stampa moneta solo per riempire le proprie tasche o le tasche di cui è schiavo, lo stesso Stato che produce leggi complesse e articoli di burocrazia che bloccano l’esistenza, lo sviluppo umano, l’arte. In questi luoghi occupati invece si cerca e spesso si riesce in ciò che lo Stato, affannosamente impegnato in folli logiche di mercato, ha dimenticato da tempo di fare: occuparsi della cultura, dei giovani e del Teatro come risorsa, dei diritti fondamentali degli essere umani, della vita.
Dignità
La Dignità del Lavoro
“S’avanza la fudda - […] Su milli… du’ mila… - Ma d’unni spuntaru? S’avanza la fudda: - Vulemu travagghiu! Rispunni ‘na vuci: - Mittiti ’nsirragghiu. II La massas’arresta… - si movi, cammina… Allenta lu passu… - ripigghia di bottu… Si ferma ’n’anticchia… - fa comu la china… Avanza la fudda – currennu di trottu…” (“S’avanza la folla – […]/sono mille… duemila… - Ma da dove sono venuti?/Si avanza la folla: - Vogliomo lavoro./Risponde una voce: - Pronti a far fuoco.//II. La massa si arresta… - si muove, cammina…/allenta il passo… - riprende di scatto/si ferma un poco… - fa come la piena…/avanza la folla - correndo al trotto…” - Ignazio Butitta, “Lu scioperu”)
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MARIA SARA MIRTI
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icordo ancora con un misto di stupore e dolore un giorno d’estate di quando ero bambina: il mare, ricordo, era il Tirreno, la calura era insopportabile e la folla fastidiosa. Mi ero convinta che prima o poi qualcuno avrebbe finito per calpestarmi se mia madre non avesse continuato a vigilare, così decisi di rimanerle sempre vicina e di seguirla fino alle cabine. Lì nei pressi, in un minuscolo cortile col cancello bianco e il mattonato rossiccio, un bambino pestava i piedi in maniera a dir poco fragorosa. Trovai il coraggio di allontanarmi da mia madre e gli chiesi cosa stesse facendo. «Cerco formiche mi disse - e faccio rumore per spaventarle e farle uscire di corsa, così poi ne schiaccio una. Poi la apro e le vedo finalmente le ossa». Le formiche, così come ogni insetto e piccolo animale in genere, m’incutevano una certa repulsione, un disagio inspiegabile, così scappai via e non lo rividi più né ebbi più modo di tornare sull’argomento. Anche adesso provo stupore per un simile intento crudele e sciocco, come sciocchi e crudeli sanno essere spesso i bambini, calchi fedeli e spietati della realtà che li ha fatti nascere e che li nutre. A ben pensarci quel bambino, non volendo, mi ha suggerito una metafora calzante: le formiche sono l’analogia animale del lavoratore indefesso, dell’operaio nato per essere soltanto un uomo di fatica, del bracciante che, nell’immaginario industrializzato, si ostina a chiedere in maniera ottusa e un po’ aberrante soltanto di lavorare, di mangiare, bere e poi ancora di lavorare.
Dignità
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e formiche, si sa, non hanno ossa; inutile cercarle, inutile pensare che un giorno possano raddrizzarsi sulla schiena e lavorare solo per se stesse, senza dover per forza arrivare a sacrificarsi per il formicaio. Le formiche sembrano proprio tutte uguali, senza sguardi, senza coscienza e senza stupore. Ignare del tempo, del paesaggio e persino della durezza del loro lavoro: non sono forse nate per svolgerlo? Sono facili da schiacciare le formiche, non si ribellano, al più si spaventano ma poi, passato il pericolo, tornano a testa bassa a lavorare, già dimentiche dell’accaduto. Dove potrebbero mai essere allora le loro ossa? Se anche una qualche magnanima evoluzione si decidesse a fargliele crescere, dove mai potrebbero trovare posto in quei corpi così straordinariamente piccoli
ed efficienti? No, certo, le ossa sarebbero soltanto un peso; così come per un lavoratore sarebbe di peso un’eccessiva coscienza della propria condizione. Il lavoro, comunque la si metta, sporca le mani, attiva troppi muscoli, troppi nervi, troppi gesti, costringe a troppi pensieri: meglio non parlarne in pubblico, meglio relegarlo nell’intimità del proprio essere; meglio non esporsi, non auto etichettarsi, non incatenarsi nella definizione tragicomica e fin troppo “naturale” di formica-operaia. In fondo si ha bisogno di lavorare perché si è “poveri” e quindi solo i poveri hanno bisogno di lavorare o, peggio, di ammettere di doverlo fare loro malgrado, spinti da chissà quale istinto primordiale, da chissà quale disegno umano o universale: ai cosiddetti poveri non è permesso di scegliersi il proprio lavoro.
“Ormai da molto tempo andavo ripetendo di provare una grande nostalgia per la povertà, mia e altrui, e che ci eravamo sbagliati a credere che la povertà fosse un male. Affermazioni reazionarie, che io tuttavia sapevo di fare da una estrema sinistra non ancora definitiva e non certo facilmente definibile. Quando il dolore di vedermi circondato da una gente che non riconoscevo più - da una gioventù resa infelice, nevrotica, afasica, ottusa e presuntuosa dalle mille lire in più che il benessere gli aveva improvvisamente infilato in saccoccia - ecco che è arrivata lausterità, o la povertà obbligatoria. In quanto provvedimento governativo io considero tale austerità addirittura anticostituzionale, e mindigno furiosamente al pensiero di quanto essa sia “solidale” con lAnno Santo. Ma, come “segno premonitore” del ritorno di una povertà reale, essa non può che rallegrarmi. Dico povertà, non miseria. Son pronto a qualsiasi sacrificio personale, naturalmente. A compensarmi, basterà che sulla faccia della gente torni lantico modo di sorridere; lantico rispetto per gli altri che era rispetto per se stessi; la fierezza di essere ciò che la propria cultura “povera” insegnava a essere. Allora si potrà forse ricominciare tutto da capo… sto farneticando, lo so. Certo, queste restrizioni
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assi il dover ammettere la propria eventuale miseria d’animo, e questo vale per tutti (si sa, tenendo la testa nella sabbia di una professione o di un mestiere, è difficile conoscere altri spazi, altre prospettive), ma Dio non voglia mai che si debba arrivare ad ammettere persino la propria povertà. Poveri sono gli animali, privi di grazia e di ragione, povero è tutto quel mondo non umano destinato a diventare cibo, o materia prima, o scarto, o semplicemente a mutarsi in polvere. Poveri sono coloro che non sanno misurarsi con la grandezza delle possibilità offerte dagli umani progressi, coloro che si stupiscono, che non prendono tutto ciò che trovano, che non cercano di spezzare le superfici incantate della materia, come invece fa la scienza. I poveri seguendo quest’ottica, dovrebbero essere senz’altro ottusi, pericolosi, sognatori sconclusionati,
economiche, che hanno laria di fissarsi in un tenore di vita che sarà ormai quello di tutto il nostro futuro, posso significare una cosa: che era forse una troppo lucida profezia da disperati pensare che la storia dellumanità fosse ormai la storia dellindustrializzazione totale e del benessere, cioè un “altra storia”, in cui non avessero più senso né il modo di essere del popolo né la ragione del marxismo. Forse il culmine di questa storia aberrante - benché non osassimo sperarlo - lavevamo già raggiunto, e ora comincia la parabola discendente. Gli uomini dovranno forse risperimentare il loro passato, dopo averlo artificialmente superato in una specie di febbre, di frenetica incoscienza.” - (P.P. Pasolini)
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Dignità sempre quest’ottica, dovrebbero essere senz’altro ottusi, pericolosi, sognatori sconclusionati, sempre ubriachi di qualche fantasia tragicomica: troppo seria per far ridere e troppo assurda per essere presa sul serio. olo i poveri provano compassione per i poveri, solo chi non ha il senso del tempo-denaro sarebbe capace di provare tenerezza verso una ciocca di capelli divenuta bianca, verso una mano troppo ruvida e callosa, magari avente degli artigli al posto delle unghie, e persino verso quegli animaletti fastidiosi (topi, scarafaggi…) con cui a volte divide lo spazio. Proprio cercando di dimostrare la fatuità di tale compassione qualora abbinata alle fatiche del lavoro, un’anonima cittadina di Innsbruck, nel lontano 1920, spese l’inchiostro di un’inte-
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ra lettera. Ella se la prendeva con un’altra lettera: quella inviata da Rosa Luxemburg a “Sonika” (e poi pubblicata da Karl Krauss su “Die Fackel”), in cui, tra le altre cose, la Luxemburg descriveva all’amica la violenza gratuita e terribile riservata a un bufalo da soma, frustrato a sangue. Lo sguardo di quell’animale aveva l’ “espressione di un bambino che abbia pianto a lungo”, la dignità dell’innocenza, dell’alterità irraggiungibile e per questo mansueta, incapace di difendersi. Le cose che l’uomo-dio non può nominare, che non può conoscere, con cui non riesce a comunicare, sempli-
“[…] Bisogna però sapere che da tempi immemori, in quelle regioni, i bufali sono allevati e impiegati in genere come bestie da soma, oltre che per il latte. Quanto al foraggio non hanno particolari esigenze e sono di una forza eccezionale, benché di andatura assai lenta. Non credo pertanto che “lamato fratello” della Luxemburg potesse essere particolarmente sorpreso nel dover tirare un carro a Breslavia e nel buscarsi un bel colpo sul groppone con il “manico della frusta”. Cosa che a ogni buon conto - se non avviene con eccessiva brutalità - è di tanto in tanto necessaria con le bestie da tiro, giacché queste non sempre sono accessibili ad argomenti razionali; allo stesso modo, come madre, posso assicurarLe che un ceffone ha sovente effetti alquanto benefici sui ragazzi più gagliardi. Non bisogna pensare sempre al peggio e compiangere per principio gli uomini (e gli animali), senza conoscere più da vicino le circostanze. Questo non può che recare danni anziché benefici. La Luxemburg avrebbe certo predicato volentieri la rivoluzione ai bufali, se solo avesse potuto, e avrebbe fondato per loro una repubblica bufalina, per quanto resti assai opinabile se le sarebbe mai riuscito di provvedere per loro a quel paradiso - da lei sognato […]. Ci sono davvero molte donne isteriche a cui piace immischiarsi in ogni cosa, e sempre vorrebbero aizzare lun partito contro laltro; quando sono dotate di spirito e di bello stile vengono docilmente ascoltate dalla massa e seminano nel mondo grande sciagura, sicché non ci si può poi stupire troppo se chi tanto spesso ha predicato la violenza, la trova poi anche, una morte violenta. Una silente energia, un lavoro nella cerchia a noi più prossima, una tranquilla bontà danimo e uno spirito conciliante: di questo abbiamo bisogno, assai più che di sentimentalismi e sobillazioni varie. Non lo pensa anche Lei?» - (Da “Una non-sentimentale risponde a Rosa Luxemburg”)
cemente non hanno diritto di esistere con uguale dignità, di essere scritti sullo stesso Libro della Vita. Eppure, presi da uguale prigionia e in seguito anche da uguale violenza, Rosa Luxemburg e il bufalo (la cui pelle avrebbe dovuto essere dura e resistente e che invece si mostrava lacerata, esposta, un’inutile difesa) emergono dalle parole che ci sono pervenute come due esseri in perfetta armonia, capaci di reciproca comprensione e di reciproca compassione. Se pure è vero che “Neanche per noi uomini c’è compassione” è altresì vero che mai
ci sarà finché non ne proveremo noi per primi verso noi stessi. ettersi alla pari con la parte di sé più succube degli avvenimenti, quella capace di fallire, timorosa, bisognosa di tutto, è l’unico modo per concedere dignità alla vita così com’è, priva di ragioni e soprastrutture, e per capirne il senso. Questo significa trovare il coraggio e la dignità per mettersi alla pari coi propri figli, con tutti i figli della propria società, ossia mettersi sullo stesso piano di coloro la cui compiutezza è ancora in essere, ancora imperfetta, e rimanergli accanto, mantenersi il più possibile “vicini alla terra” come fanno i piccoli (umani e animali); anche se tale incompiutezza fosse destinata a rimanere immutata, imperfetta, difettosa, minacciosa, poco funzionale,
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“[…] Quel che penso - e con questa abbrutita genia, possidente di terreni e sangue, e con il suo codazzo voglio qui parlar franco una volta per tutte, giacché costoro non comprendono il tedesco e dai miei “Contraddetti” non riescono a dedurre la mia vera opinione, voglio parlar franco dal momento che ritengo la Grande Guerra un inequivocabile dato di fatto e lepoca, che ha ridotto la vita umana a un cumulo di rifiuti, uno spartiacque invalicabile - quel che penso è: il comunismo in quanto realtà è solo lopposto speculare della loro ideologia profanatrice della vita, ma in virtù di una più pura origine ideale è pur sempre un mezzo sghembo alla ricerca di un fine più puro e ideale. […] Penso che lumanità che guarda allanimale come a un amato fratello abbia assai più valore della bestialità che trova sollazzevole una cosa del genere […]. Perché qui cè quella ripugnante furbizia che “fin dalla giovinezza” fa credere ai signori del creato e alle loro dame che nellanimale non vi sia alcun moto dellanima, che esso sia privo di sentimenti proprio come lo sono i suoi padroni, soltanto perché non ha avuto in sorte la stessa dose di superbia e non è in grado di dar voce alle proprie sofferenze in quel confuso gergo di cui costoro, invece, dispongono. Poiché però, rispetto a questa specie, lanimale ha il privilegio di non essere sempre accessibile “ad argomenti razionali”, essa ritiene che il manico della frusta sia “di tanto in tanto inevitabile”. In verità, lo usa solo per una cupa rabbia davanti a un incerto destino, che sembra riservarle un giorno analogo trattamento. Anche quando schiaffeggiano i propri figli, misurandone le forze con la loro […] si comportano così solo perché hanno qualcosa da temere dalla vita o dal cielo.” - (Da K. Krauss “Una non-sentimentale risponde a Rosa Luxemburg”)
28 anche se dovessimo rimanere piccoli a nostra volta; anche se, guardato dal basso verso l’alto, l’Universo da riempire di frasi e significati dovesse apparire irraggiungibile. Questo significa accorciare le distanze sulla terra e non curarsi dell’enorme distanza che ci separa dal cielo, l’unica distanza che ci è necessaria. Se è vero che quella “bontà,/che fa giorno sui volti/e pitta arcobaleni/ nel cielo degli occhi,/la nascondiamo nelle nubi/prima di nascere”, se nonostante questo è pur vero che gli uomini, se solo lo volessero, saprebbero “parlare/con il cuore negli occhi” (“[…] buntà,/c’agghiorna i facci/e pitta arcobaleni/nto celu di l’occhi,/l’ammucciamu nte negghi/prima di nasciri”; “[...] sannu parrari/ cu cori nta l’occhi” - da I. Butitta, “Si mori dui voti”), allora è altrettanto vero che non possiamo permetterci d’ignorare gli sguardi dei nostri simili, non possiamo accontentarci d’indovinarli, d’immaginarli sospesi nel cielo, di mutarli in metafore vaghe; per questo è necessario rimanere il più vicino possibile alla terra. obbiamo avere il coraggio della metamorfosi in ciò che è piccolo, la stessa metamorfosi che Elias Canetti ritrova esemplificata negli scritti di Franz Kafka e che serve a difendersi da quell’ “angoscia della posizione eretta” capace di rendere l’uomo e il suo potere sul creato paradossalmente più esposti e vulnerabili. La cura si trova dunque già insita nel male: parafrasando lo stesso Kafka, la magrezza propria di tutte le forme di povertà, motivo di disprezzo e di orrore anche per chi la indossa, non sottrae potere solo ai corpi sociali che la subiscono, ma indebolisce l’intero apparato del potere costituito. Rimpicciolendosi, o la-
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Dignità
sciandosi rimpicciolire, le masse di lavoratori possono diventare abbastanza minute da essere prede poco ambite per i cacciatori di ogni specie, e animali abbastanza innocui da non subire fino in fondo la violenza dei padroni, né rischiare di attuare a propria volta la violenza dei predatori. Rivendicare una siffatta dignità serve ad evitare di essere simili alle bestie da soma o ai loro aguzzini, entrambi tristi senza rimedio e soli. Meglio piuttosto essere formiche che sanno di essere formiche, senza ossa da spezzare, capaci sì di costruire, ma non di distruggere. Ma cos’è che rende dei lavoratoti simili a formichine operose? Cos’è che li fa sembrare tutti uguali? Certo, essi sono uguali nella retribuzione prevista per il proprio lavoro, tuttavia le rispettive paghe cambieranno a seconda dell’attività produttiva svolta; aveva ragione Elias Canetti: “l’uguaglianza dei lavoratori non va molto lontano” (E. Canetti, “Masse und Macht”), dunque non ha senso ragionare per eccessi di somiglianza.
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hiediamoci allora cosa renda i lavoratori umani diversi da quelli trasportati per metafora nel regno animale…lo sciopero, per esempio: “Il divieto di lavorare crea un atteggiamento che s’impone e può resistere. Quello della fermata è un grande momento celebrato nelle canzoni dei lavoratori. […] La loro uguaglianza fittizia, di cui si parla loro, ma che in realtà non va oltre la loro comune attività manuale, diviene improvvisamente reale. Finché lavoravano dovevano svolgere compiti diversissimi, e tutto era loro prescritto. Ma nell’interrompere il lavoro fanno tutti la stessa cosa” (E. Canetti, op. cit.). Non è la durezza delle ossa, la capacità di resistere ai colpi, la presenza o meno di spirito razionale a fare la differenza tra umano e inumano; a rendere possibile ogni riscatto è la consapevolezza che ingiustizia e violenza hanno il solo il potere che noi, indossati i panni delle “formiche”, gli concediamo e non una briciola di più.
“Vonnu omini gnuranti, omini chi testi vacanti; e non omini veri chi talìanu avanti e ghìsanu banneri; e non omini nfatati chi tagghianu riticulati pi canciari a vita e fari l’omini frati. […] Hannu bisognu di chiddi Chi non accattanu mai un quadernu, mai un libru; di chiddi chi non legginu non studianu e non accattanu u giurnali a mattina: l’armali u stissu fannu, cumpagni, legginu nta manciatura. (“Vogliono uomini ignoranti,/ uomini con le teste vuote;/e non uomini veri/che guardano avanti/e alzano bandiere;/e non uomini fatati/che tagliano reticolati/per cambiare vita/e fare gli uomini fratelli.//[… ]//Hanno bisogno di quelli/che non comprano mai un quaderno,/mai un libro;/di quelli che non leggono/non studiano/e non comprano il giornale la mattina:/gli animali fanno lo stesso, compagni,/ leggono nella mangiatoia.” - da I. Butitta, “U pueta nta chiazza”)
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Democrazia
Le forme della Democrazia
Aristotele 384-322 a C.
La “politeia” ateniese nascita della “classe media”
In realtà, nel mondo, libertà e democrazia non possono esistere in astratto, ma solo in concreto. Sia la democrazia che la libertà sono relative e non assolute: esse sono apparse e si sono sviluppate in condizioni storiche definite. (Mao)
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Democrazia
“Politeia”, il buon governo da Pericle ad Aristotele attraverso Platone DI
@BARBERINI.IT
La democrazia compare per la prima volta nella storia dell’uomo sociale, cioè dell’uomo parte di una comunità organizzata, nel V secolo avanti Cristo in Grecia (vedi nota a fianco). I presupposti storici della nascita della democrazia sono nella promulgazione delle prime leggi (dagli stessi greci poi denominate statuti o costituzioni) che posero delle regole, cioè dei limiti, ai poteri assoluti delle figure (re) o delle classi (aristocrazie) dominanti. A provocare la produzione delle leggi, come ci insegna la teoria economica marxista, non fu l’elevazione culturale, filosofica e scientifica, oggettivamente sorprendente in quello stesso periodo, bensì la formazione di nuove classi sociali che, emerse dal ruolo dei sudditi passivi (servi o schiavi), iniziarono a rivendicare la loro partecipazione alla gestione del potere. Non a caso la forma più avanzata di governo democratico si sviluppò ad Atene e raggiunse il suo massimo nel periodo del così detto governo di Pericle. Atene, infatti, in virtù della sua posizione strategica sulla punta della penisola attica, visse, in quel periodo, una trasformazione economica radicale, passando dall’agricoltura al commercio e alla produzione di beni. Ciò portò alla nascita di una nuova classe sociale, assai vasta in rapporto alla popolazio-
ne dell’epoca, intermedia tra i sudditi e gli aristocratici, una classe, appunto, media, sostanzialmente la borghesia. E’ proprio questa classe media che, nello scontro con la classe dominante, trascina con sé anche la classe inferiore, che potremmo già definire degli operai, e impone un nuovo sistema di rapporti di governo non più basato sulla nascita o sul patrimonio (in genere terriero), bensì sul numero. E’ il governo della maggioranza. L’euforia democratica si spinse, in quel periodo storico (e luogo topografico) irripetibile, sino alla statuizione di un sistema assembleare pressoché perfetto e permanente, ove tutte le decisioni erano il risultato di ininterrotte discussioni e continue votazioni pubbliche e le cariche di governo, per estrema garanzia di imparzialità e uguaglianza, venivano attribuite per sorteggio a chiunque, senza necessità neppure di quello che oggi chiamiamo un curriculum di idoneità a ricoprire quella determinata carica (fatta eccezione per il comando militare che richiedeva esperienza specifica).
“Qui ad Atene noi facciamo così”. Il Discorso di Pericle agli ateniesi Questo sistema di governo, e di vita sociale, mirabilmente descritto nel famoso “Discorso di Pericle agli ateniesi”, fu ovviamente oggetto di fortissime criti-
Il termine democrazia deriva dal greco (démos): popolo e (cràtos): potere, ed etimologicamente significa governo del popolo. Il concetto di democrazia non è cristallizzato in una sola versione o in un'unica concreta traduzione, ma può trovare e ha trovato la sua manifestazione storica in diverse espressioni ed applicazioni, tutte caratterizzate per altro dalla ricerca di una modalità capace di dare al popolo la potestà effettiva di governare. La democrazia è una forma di Stato. Nell'arco di più di due millenni, il concetto di democrazia ha vissuto una continua evoluzione, subendo importanti modificazioni nel corso della storia. Le prime definizioni di democrazia risalgono all'antica Grecia. Va ricordato che nell'antica Grecia la parola democrazia nacque come espressione dispregiativa utilizzata dagli avversari del sistema di governo di Pericle. Infatti la parola kratos, più che il concetto di potere (meglio definito dalla parola archìa, vedi Monarchia, governo di uno solo: monos, o Oligarchia, governo di pochi: oligos) rappresentava quello di "forza materiale" e, quindi, "democrazia" voleva dire, pressappoco, "dittatura del popolo" o "della maggioranza”.
Ricostruzione ideale dell'Acropoli di Atene, Leo von Klenze che, sia da parte delle altre città greche, economicamente e culturalmente più arretrate, sia da parte delle vecchie classi dominanti, ma anche di una nuova aristocrazia economica emergente. Per costoro la democrazia assumeva la forma di una nuova dittatura, non
più del singolo o dei pochi, bensì della maggioranza; una dittatura dove a emergere non erano le qualità, quello che oggi noi chiamiamo il merito, bensì la dimensione dei numeri (una testa un voto), ciò che noi oggi chiamiamo suffragio universale.
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Democrazia In verità non si trattava affatto di un suffragio universale perché il popolo, il demos, non includeva tutti i cittadini ma solo i maschi maggiorenni di nascita ateniese da parte di ambedue i genitori; ne erano dunque escluse le donne, i non “doppi” ateniesi, denominati meticci, gli stranieri e gli schiavi, perché allora, non va dimenticato, c’era la schiavitù, anche se non per ragioni di razza ma, prevalentemente, per prigionia di guerra. Certamente non era la città perfetta, e ha facile gioco Umberto Eco (con tutto il rispetto per il grande scrittore e studioso) nel denunciarne, in un recente articolo, i vizi di abuso di potere, populismo e corruzione, dai quali non era certo immune lo stesso Pericle (Eco rilegge,
in un suo recente articolo, il “Discorso agli ateniesi” di Pericle in chiave non più di proclama al mondo delle virtù del sistema di governo democratico ateniese, bensì di propaganda sostanzialmente elettorale per se stesso). A demolire la democrazia ateniese saranno eventi economici, in certo senso eguali e contrari a quelli che l’avevano generata (guerre, sconfitte, crisi commerciale e produttiva), ma forte è stata anche la critica interna da parte delle classi dominanti depotenziate, critica della quale tutt’altro che casualmente ci restano grandissime testimonianze, poiché a possedere le capacità (culturali ed economiche) della scrittura erano proprio gli appartenenti a quella classe.
Qui ad Atene noi facciamo così (Pericle 461 a.C.) Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia. Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell'eccellenza. Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento. Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private. Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa. E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell'universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso. Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benché in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla. Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia. Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore. I nsomma, io proclamo che Atene è la scuola dell'Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la fiducia in se stesso,l a prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la n ostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.
Anonimo, Discorso di Pericle agli ateniesi
Contro la “dittatura della maggioranza”. L’avversione alla democrazia in Platone e in Aristotele Due critici della democrazia ateniese hanno in particolare lasciato un grande segno nella storia, ancora oggi forte, studiato e discusso anche con letture fortemente contrastanti. I due massimi critici, Platone e Aristotele, condividono lo stesso presupposto di partenza, il comune disprezzo per la democrazia, e dunque perseguono il medesimo obiettivo di demolirla, ma lo fanno con percorsi radicalmente diversi e, occorrerà dirlo, con una profondità sicuramente maggiore per il secondo (anche se in gran parte dovuta a intuizione, piuttosto che a un vero approfondimento scientifico). Platone, del tutto ignaro di economia, muovendosi conseguentemente su di un piano esclusivamente ideologico (“Il mondo delle Idee”), oppone alla forma di governo della maggioranza, considerata come massa indistinta e non qualificata, la superiorità della “sapienza”, cioè del possesso degli strumenti di conoscenza
che, nel suo pensiero, conduce alla morale (moralità). Solo il saggio non persegue fini personali o di parte (cioè di classe o di casta) e dunque è in grado di governare con equilibrio e imparzialità per il bene comune. La Kallipolis (kalos bella, polis città) teorizzata da Platone nel trattato “La Repubblica” prevede una sostanziale suddivisione dei cittadini in tre classi socieli: la classe dei lavoratori (popolo), la classe dei guardiani (militari), la classe dei governanti (re-filosofi). Il potere, per Platone deve restare nelle mani dei governanti-filosofi, in quanto classe di innata sensibilità e di inesauribile curiosità intellettuale; i filosofi vogliono capire e non solo constatare, ma anche far funzionare la convivenza. E’ la teoria della “filosofia al potere”, una teoria che la storia ha poi dimostrato essere sempre risultata disastrosa, fondamentalmente per l’ignoranza (non conoscenza) da parte dei governanti-filosofi delle dinamiche economiche che in realtà governano la storia dell’uomo (Il più famoso fallimento della filosofia al potere è stato forse quello dell’Imperatore Marco Aurelio che chiude, appunto
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disastrosamente, uno dei più “alti” periodi della storia romana, quello dei così detti “Imperatori di adozione”, da Nerva a Traiano ad Adriano, ad Antonino Pio, a Lucio Vero e infine a Marco Aurelio, al quale succede, non il migliore erede possibile, ma il figlio naturale Commodo).
La scoperta della classe media e le intuizioni economiche di Aristotele Diverso, come accennato, l’approccio mentale alla critica della democrazia di Aristotele. Anzitutto Aristotele, con approccio scientifico e non astrattamente ideologico, parte dalla costatazione della realtà materiale e, seguendo il percorso evolutivo dell’uomo sociale, lo definisce “naturalmente” politico, cioè destinato a vivere nella polis in comunità con altri uo-
La scuola di Atene di Raffaello Sanzio (al centro Platone e Aristotele) mini, di qui la necessità, anch’essa “naturale”, delle regole (leggi). Aristotele ha conseguentemente la concezione realistica dell’economia, anche se forse ancora a livello di percezione. Sorprendente nel suo pen-
La Politica (Aristotele) La comunità che risulta di più villaggi è lo Stato perfetto che raggiunge ormai, per così dire, il limite dell’autosufficienza completa: formato per rendere possibile la vita, in realtà esiste per render possibile una vita felice. Quindi ogni Stato esiste per natura... Da queste considerazioni è evidente che lo Stato è un prodotto naturale e che l’uomo per natura è un essere socievole: quindi chi vive fuori della comunità statale o è un abietto o è superiore all’uomo... È chiaro quindi per quale ragione l’uomo è un essere socievole molto più di ogni ape e di ogni capo d’armento. E per natura lo Stato precede la famiglia e ciascuno di noi, perché il tutto deve essere necessariamente superiore alla singola parte: infatti, soppresso l’insieme non ci sarà più né piede né mano se non per analogia verbale... ora, tutte le cose sono definite dalla loro funzione e capacità, sicché, quando non sono più tali, non si deve dire che sono le stesse, bensì che hanno il medesimo nome. È evidente dunque che lo Stato esiste per natura e che è superiore a ciascun individuo: difatti, se non è autosufficiente, ogni individuo separato sarà nella stessa condizione delle altre parti rispetto al tutto, e quindi chi non è in grado di entrare nella comunità o per la sua autosufficienza non ne sente il bisogno, non è parte dello Stato, e di conseguenza è o bestia o dio.
siero è la critica durissima alla accumulazione capitalistica che lui individua nelle deviazione dell’uso del denaro non più o non solo come mezzo di scambio di merci e prodotti, ma come fattore di riproduzione di se stesso; intuisce così, in quale modo, l’immoralità dell’economia finanziaria e, per certi aspetti, precorre la teoria del plus valore di Marx (“Il più odioso di questo genere di scambi è l’usura, che trae guadagno dal denaro stesso, e non dall’uso naturale di esso. Poiché il denaro è destinato a essere strumento di scambio, e non padre dell’interesse. Qesta usura che fa nascere denaro dal denaro è il peggior modo di guadagnare contro natura”). In questa chiave economica Aristotele riconosce le classi sociali reali e il loro ruolo storico economico e quindi politico. Egli immagina dunque di rettificare la “nefandezza” della dittatura del popolo (della maggioranza), mediando i numeri con i ruoli, non più “una testa un voto”, ma un voto qualificato. La classe
dominante diviene quindi la classe media che, ostacolando da un lato il congenito assolutismo delle classi aristocratiche e dall’altro il disordine plebiscitario delle assai più vaste classi inferiori, guida uno Stato equilibrato nel quale ciascuno resta al proprio posto, i ricchi tra i ricchi, i poveri tra i poveri, ma tutti hanno da guadagnare a restare uniti e, di contro, tutti hanno da perdere a scontrarsi tra di loro. Con Aristotele dunque, come ci ha insegnato Gramsci, la nuova classe economica borghese ha prodotto la sua ideologia di società (Stato e governo) conforme ai suoi interessi, da imporre alle classi subalterne come verità superiore. Non sarà un caso che secoli e secoli più tardi, confinato comunque Platone nel suo mondo astratto di Idee appunto astratte, sarà la riscoperta dell’insegnamento di Aristotele a guidare e caratterizzare il Rinascimento europeo (italiano) con la nascita (rinascita) di una nuova classe borghese, allora mercantile, più avanti industriale.
Menù Pedagogico
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Ad ogni latitudine, sotto ogni regime e comunque venga propinata, l'istruzione inculca nell'allievo l'idea che l'istruzione stessa non ha valore se non si acquista a scuola e che ciò che conta è avere "titoli"per riuscire nella vita e che è più importante apprendere cose sul mondo che non trarre il proprio sapere dal mondo. Ivan Illich Educare in modo autoritario è senz'altro facile: con violenza costringi un bambino a far solo quello che ti sembra più giusto o che ti crea meno problemi e la cosa finisce lì. Tipico modello di stupidità che riesce a offrire solo ostilità e a tramandare rancore represso. Considero che sia più valido un atteggiamento rispettoso dell'altro e che inventa nuovi percorsi di confronto. Un esempio: mio figlio di tredici anni evita di mangiare pesce e carne. Non gli piace, dice che gli dà fastidio vedere bistecche sanguinolenti e pesci crudi, figuratevi masticarli cotti. Non mangia neppure verdure. Dopo innumerevoli tentativi di presentargli quieti cibi contrabbandati sotto varie forme, ecco un paio di ricette che ho escogitato per lui. Gli sono piaciute e adesso mangia, fino a quando si stancherà, pesce cucinato solo così (comunque per la carne non c'e ancora nulla da fare). Spero che sia sempre felice. TRATTO DA
RICETTE ANARCHICHE
DI
RINO DE MICHELE
Pasta e cozze con traino di verdure
Pesce alla grande maniera
Pulite un kg di cozze e fatele aprire in una padella con dell'olio extravergine d'oliva e un paio di spicchi d'aglio leggermente schiacciati con la forchetta. Una volta aperte, estraete la carne dai gusci e mettete tutto da parte assieme al brodino che queste hanno formato. Fate saltare in padella, e poi cuocete, un paio di broccoli romani e una/due zucchine tagliate a pezzetti. Quando il tutto è cotto unite le cozze e il liquido che avevate messo di lato (state attenti se c'è della sabbia, magari passate il tutto da un colino). Avrete nel frattempo cotto, al dente, delle penne rigate, o degli spaghetti, che butterete in padella con del prezzemolo tritato al momento e un pizzico di pepe nero. Fate saltare per qualche secondo e servite.
Vi servono un paio di filetti di pesce (merluzzo, platessa, ecc.). Se avete difficoltà con la sfilettatura ve la fate fare dal pescivendolo, ma un buon coltello ben tagliente vi aiuterà senz'altro. Ungete una padella con dell'olio extravergine d'oliva e, a fuoco basso, fate appassire uno scalogno tagliata a fette molto sottili. Aggiungere quindi pinoli, pistacchi, un pomodoro secco, che avrete lasciato ammorbidire nell'olio almeno per un mesetto, e finalmente il pesce. Salare e pepare con grani integri di pepe rosa. Il tutto si cucina, con un coperchio, in brevissimo tempo. Ricordarsi, a cottura avvenuta, di aggiungere, come simpatico decoro, un rametto di prezzemolo, e alcune gocce di limone.
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Superfluo (necessario)
Possiamo fare a meno di tutto tranne che del superfluo Oscar Wilde
Morale: i gioielli sono come la mela di Eva, roba pericolosa. Hanno un significato seduttivo quando la donna li indossa, adornano parti del corpo da mettere in luce. Hanno un significato di legame quando vengono lasciati in eredità o quando un uomo te li regala. Il famoso ”valore affettivo” che, come si usa dire, è quello che conta, al di là del valore reale dell’oggetto. E di questo sono convinta anche se molte donne rapaci amano dire, scherzando ma non troppo, che “sotto i tre carati non è vero amore” [Paola Jacobbi - Sotto i tre carati non è vero amore. Storie di gioielli, i migliori amici delle donne]
Realizzare una collana di pietre dure A CURA DI
Occorrente per la creazione del gioiello handmade: - pietre dure - filo di cotone o di seta (possibilmente del medesimo colore delle pietre) con ago incorporato (se le pietre hanno i fori abbastanza grossi, si possono utilizzare come ago i fili di metallo, estraendoli dalla plastica, che si trovano nelle confezioni dei sacchetti per congelare gli alimenti); - una pinza dalla punta dritta (tipo la pinza usata dai medici); - coprinodi con estremità forate e anellini di congiunzione; - un fermaglio di chiusura. Consiglio: pietre dure, filo, coprinodi, anellini e fermagli di chiusura si comprano a buon prezzo e di media/buona qualità presso i negozi di bijoux gestiti da indiani; se si vuole risparmiare, si possono comprare, di qualità un po’ più scadente, presso i negozi gestiti da cinesi. Io li compro sulle bancarelle nei mercatini (da indiani e cinesi). Realizzazione: 1) effettuare 2-3 nodi ad una estremità del filo; 2) infilare il primo coprinodo con le
coprinodi
anelli
chiusura
IOLANDA TARZIA
estremità forate verso l’esterno e farlo scivolare fino ai nodi in modo tale che questi vadano a posizionarsi nella parte concava; 3) con la pinza piegare il coprinodo su se stesso (con il nodo dentro) così che le due estremità forate si uniscano; 4) infilare la prima pietra e farla scivolare fino al coprinodo, quindi fare un nodo e, tenendo l’occhiello del nodo largo aiutandosi con la punta della pinza o con un ago, far scivolare il nodo fino alla pietra infilata; 5) sfilare la pinza o l’ago dal centro del nodo e stringerlo quanto più possibile vicino alla pietra così che non possa muoversi; 6) seguitare così, pietra dopo pietra, nodo dopo nodo, sino alla fine della collana; 7) dopo l'ultima pietra, infilare il coprinodo e annodare; 8) ripetere l'operazione di chiusura del coprinodo e tagliare i fili che escono. 9) con l’aiuto delle pinze aprire gli anellini ed infilarli nelle estremità forate dei coprinodi nonché negli anellini del fermaglio di chiusura e richiuderli; 10) indossare la collana
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Inediti
Il migliore dei mondi possibili Quando il bambino scelse la cartolina del borgo in collina dal mucchio nell’espositore, la mostrò al padre, per chiedergli: «Perché, papà, su tutte le colline sta una chiesa o un castello o una casa bella e sotto le altre case?» «Perché – rispose il padre – il potere sta sopra e il popolo sta sotto.» E il bambino posò la cartolina coi colli e scelse quella col gabbiano che vola sopra la marina deserta.
un racconto di MAURIZIO COCCIA Ha una sola, lunga strada maestra quel borgo marino che un tempo viveva di pesca. Il resto sono piccole stradette che si dipartono a pettine da quella, con le case dei mastri d’ascia, dei vecchi rematori di paranza e degli acconciatori di reti sempre più soffocate dalle ombre incombenti degli alberghi a dieci piani. Si è sviluppato negli ultimi vent’anni il borgo, rubando alla collina di marna lo spazio che prima era sfogo a piccole frane e allungando la cimosa di sabbia fin dentro l’Adriatico, ben oltre la ferrovia. Lungo quel mezzo chilometro di passeggio lucido di marmo che taglia in due il reticolo della vecchia e più recente cementificazione, sta la vita di questa piccola località di mare, sonnacchiosa d’inverno (perché vi assicuro che di pesce ve ne è più poco in acqua, ove ormai spuntano semmai i tralicci delle piattaforme petrolifere) e gonfiata dal fiume distratto dei turisti in estate. Ci vado anche io, talvolta. E vi ritrovo i venditori di ciambelloni gonfiabili, di coccodrilli a remi e di zoccoli di legno, che mettono in mostra le loro mercanzie, dove un tempo invece si tendevano al sole l’uva e il pesce da essiccare
per la brutta stagione. La vita è cambiata, da un po’. Più comoda, certo; chissà se migliore? Lungo i muri spolverati di insetticida giallo contro le formiche, gli stessi negozianti piazzano i treppiedi degli espositori di cartoline: ad ognuno l’immagine che cerca, ogni immagine un luogo caro ai turisti. Tutte uguali, queste cartoline, a ben vedere: da trent’anni lo stesso viale di palme col mare da sfondo; il pattìno abbandonato sulla spiaggia finissima; la stella marina e le spume delle onde; le natiche sode e abbronzate della modella bionda, imperlate di goccioline e di salsedine. I temi son questi. Diversi i prezzi, semmai, per quello strano caso per cui all’aumentare del passepartout bianco intorno all’icona estiva – elegante vagheggiamento di Cannes o di Malibu – diminuisce lo spazio visivo e aumenta la somma da elargire. Ma uno è soprattutto il soggetto preferito dai turisti: la cartolina del castello che domina il borgo, con la chiesa accanto, dalle alture sovrastanti quella spianata di case che si allarga sul mare come
fossero i grani di mais sparsi dai contadini sulla terra magra al tempo della fame. Quel vecchio incasato in via d’abbandono e riscoperto dai bed and breakfast alla moda è uno spaccato di vita che pare scampato agli ingranaggi della modernità; una scintilla del paesaggio marino italiano che solletica il cuore. Una trentina di anni fa, il piccolo Dante, tra tutte, aveva scelto proprio quell’immagine. Tiratala fuori, colla curiosità di un vacanziere di otto anni, aveva chiesto al padre perché su ogni colle italiano ci fossero un castello o una chiesa: li aveva visti durante il viaggio, valicando l’Appennino e poi costeggiando l’Adriatico per un bel tratto. E li conosceva anche a casa sua, quei paesaggi. Sopra ogni pugno di case stanno la torre del castello o il campanile della chiesa o ancora la magione aristocratica, secolari e vigili sentinelle dei malumori degli uomini. – Non solo in Italia è così – fece il padre –, ma ovunque tu vada vedrai come sopra le teste di ognuno di noi sta il potere di pochi. Chi li ha scel-
ti quei pochi, mi chiedi? Nessuno. E’ un potere che cambia padrone ogni tanto, staziona nelle mani di chi lo merita solo per poco o per nulla e ricade a lungo tra quelle di chi lo brama. Non è bello scoprire a otto anni che quei ricci di luce che si riflettono sulle finestre dei castelli nelle cartoline illustrate non sono altro che un inganno e un sopruso perpetrato da secoli. Non è facile dire al proprio figlio quanto sia stata ingiusta la Storia. Ma questo fu, per Dante. E la cartolina del borgo marino con sopra il castello e il campanile della chiesa non arrivò mai al mittente; Dante la ripose al suo posto e trasse di contro quella col gabbiano in procinto di prendere il volo dal molo, con sotto la grafica “Saluti dal mare”. Dietro, Dante aveva scritto: “Ti mando questo gabbiano: è l’unica cartolina dove chi ci guarda dall’alto non mi fa schifo”. La conservo ancora, come monito. Quella cartolina era infatti destinata a me. Fu da quel giorno che Dante si mise a sognare un mondo migliore: il migliore dei mondi possibili.
36 Era un bambino come me. Siamo cresciuti insieme, epigoni entrambi. Abbiamo attraversato insieme il pulviscolo degli Anni di Piombo, la crisi, l’era craxiana, i mitici anni Ottanta, la recessione, la fine della Prima Repubblica, i mitici anni Novanta, la crisi, la fine della Lira, i mitici anni Duemila, l’era berlusconiana, la crisi, la recessione, la mitica prima decade del nuovo millennio. Epigoni, io e lui: troppo tardi alla luce per il Sessantotto, troppo piccoli per la Pantera, troppo distratti dal calcio per i No-global, troppo disincantati per lanciare anatemi da Facebook; anche se, sia chiaro, al referendum per l’acqua e contro il nucleare siamo andati entrambi a votare. E oggi eccoci qui. Siamo uomini. Anche Dante è un uomo. E porta senza imbarazzo il nome di colui il cui profilo arcigno, con la corona d’alloro honoris causa, sta sui Due Euro. Non ci avremmo creduto, da bambini, se ci avessero detto che avremmo un giorno fatto spesa in Francia, in Olanda, in Germania con la testa di un nostro poeta, del Sommo Poeta. Specialmente se penso che al mare i bambini tedeschi con eine Deutsche Mark giravano tre ore sull’anello d’asfalto dell’autoscontro (si chiamava così, ma in realtà non si arrivava mai allo scontro frontale: l’abilità era sorpassarsi senza andare a rimbalzare contro gli pneumaticoni incassati a mezzaluna nel cemento a centro e a bordo pista; solo che a noi italiani di provincia il gettone finiva prima dello sprint finale); e per la stessa moneta con l’aquila ad ali spiegate e le incisioni intraducibili sul contorno, noi bambini italiani eravamo disposti ad ingaggiare un’asta al rialzo da capogiro: tutto, pur di entrare in possesso del pezzo che ci avrebbe consentito, al rientro dalle vacanze e coll’imminente inizio di una nuova stagione calcistica, di ottenere nel mercato degli scambi dieci o venti figurine rare: magari la coppia di terzini del Lanerossi Vicenza o lo scudetto della matricola terribile del girone B di Serie C1, che ti impedivano immancabilmente di completa-
Inediti re l’album. Tutto sommato, erano le prime prove di convivenza economica europea e noi, innocenti, giovani vittime, ne eravamo all’oscuro. Il piccolo Dante oggi è un uomo che porta il nome che gli ha preferito il padre: il nome di colui che scelse l’esilio (o ne fu costretto, suo malgrado?), imparò siccome sa di sale lo pane altrui, mise i papi all’inferno e trattò con riguardo gli avversari politici e gli infedeli, che amò la terra che lo vide nascere, ma non per questo esitò a colpirla; con le parole, solo con le parole. L’uomo che fece delle parole il miglior uso che poté.
Oggi il piccolo Dante è un uomo che non ha cambiato il mondo. Non ce l’ha fatta. E vi pare facile?! Ma non per questo, quando si accarezza la barba la mattina di fronte allo specchio, prova l’onta di torcere lo sguardo dallo stesso suo sguardo. Dante ha raccolto i pezzi di una vita in immagini: cartoline per il suo espositore, senza passepartout bianco e senza grafiche accattivanti di benvenuto o arrivederci; immagini di quello che avrebbe voluto il mondo fosse: il migliore dei mondi per lui possibile; con tutte le controversie, gli atteggiamenti incoerenti, i difetti caratteriali e le bizze, i vezzi, le alzate d’ingegno e i gesti da folli, ma un mondo. Ogni muro di casa sua, adesso, è uno spettacolare museo di questo suo stato – il migliore dei mondi possibili –, pure gli angoli infimi, buoni solo per le tele dei ra-
gni, sopra le mensole e dietro le colonne portanti. Io sono stato spesso a casa sua. Lo conosco da tanto tempo. Siamo cresciuti insieme, praticamente, e anche quell’arlecchino di colori sulle pareti ho visto nascere e crescere. Ho visto roba ammucchiata, e poi attaccata all’intonaco, da scriverci un libro. E forse un giorno lo farò. C’è molta della storia dell’Uomo, lì. Io considero Dante una specie di esploratore, che dopo un viaggio riporta da terre lontane qualcosa che lo ha colpito. Il resto è nella sua mente, ma intanto ci fornisce la chiave, se non per capire, almeno per avere la curiosità del diverso e dell’altrui. In fondo sta dietro questa anticamera la vera conoscenza. Da quella storia della cartolina al mare, Dante non era più stato il bambino spensierato che conoscevo. Ne parlavamo l’altro giorno, l’ultima volta che gli ho fatto visita. Mi ha fatto camminare ancora nel suo migliore dei mondi possibili, in mezzo a pile di libri accatastati a caso, a quadri appoggiati al pavimento, a mobili ed oggetti di ogni sorta. Tutto in terra, per liberare le pareti alle sue immagini. – Ma come fai a vivere così? – Gli ho chiesto. - Se guardi bene – mi ha risposto – c’è un magnifico ordine dentro questo caos. Ed effettivamente, se non proprio un ordine, c’è un fascino in quel mondo. Ora, io non sono tanto bravo da sapervi descrivere tutto quello che ho visto. Ma vi racconto solo quello che più mi ha colpito, quello che ho capito, secondo come Dante me lo ha spiegato, e quello che, soprattutto, meglio mi ricordo. Ho visto montagne di immagini d’arte, che fossero pitture, sculture, performance, installazioni, film, testi di canzoni; e pochi oggetti utili (forse nessuno). Dante ha sempre sostenuto che nel migliore dei mondi possibili si può fare a meno di
tutto, tranne che dell’arte. Da essa può nascere tutto, da essa non si può prescindere. Così, tra fotogrammi di cento film, ricordo l’immagine della scena in cui Silvio ed Elena (Alias Alberto Sordi e Lea Massari), polemizzano e cenano in casa dei nobili Rustichelli, la sera del Referendum del 2 giugno ’46. - Perché non hai messo l’immagine di Alberto Sordi che si abbuffa di maccaroni in “Un americano a Roma”? E’ simpatica! – Gli ho detto. - E’ simpatica?! Ne ho abbastanza della simpatia! Nell’immagine che dici tu, Alberto Sordi si abbuffa per ingordigia; qui per rabbia e per fame. Anche il titolo del film è emblematico: “Una vita difficile”. Il migliore dei mondi possibili non nasce per simpatia, ma per una scelta non facile e non banale. E vicino, infatti, Dante ha posto il mito di Ercole al bivio, da una tela di maniera di Annibale Carracci. Io penso che ci voglia proprio una forza erculea per scansare la voluttà a favore della virtù. Ma non gliel’ho detto. Non è sempre facile spiegare le proprie ragioni a Dante. Più in là, ancora immagini d’arte, fin sotto il davanzale della finestra. Tra tutte, mi ha colpito un gruppo di non finiti leonardeschi e michelangioleschi. - Perché non hai messo la Gioconda, così bella nella sua perfezione? - La sua perfezione?! Ne ho abbastanza della perfezione! Per fare un mondo che sia il migliore possibile abbiamo semmai bisogno di tendere verso qualcosa. Guarda il San Girolamo di Leonardo, come suggerisce! Sembra implorarci: finiscimi tu, completami, fammi meglio! Guarda i prigioni di Michelangelo o la sua Madonna di Manchester: invogliano a fare arte, a prendere scalpello e pennello e a dare colpi, a caso magari, ma colpi su colpi. La perfezione toglie la voglia; il non finito invita a costruire, a lasciare un segno. E poi, chi può dire quando un quadro è perfetto? O quando è finito? Un artista è sempre rapito da nuovi progetti e pensieri. Un artista è sempre perfetto nella sua imperfezione.
Inediti Dante, in effetti, aveva una tendenza all’incompiutezza: avrà iniziato a leggere mille storie, dipingere cento quadri e scrivere una cinquantina di libri, ma mai che ne abbia finito uno! Però forse ha ragione, ho pensato: a ben vedere, quel finto sorriso della Gioconda stanca. Meglio pensare a come sarebbe andata a finire se Leonardo, o chi per lui, avesse dato ancora qualche colpo di pennello al leone ammansito del San Girolamo. Magari il leone si sarebbe arrabbiato e avrebbe divorato il Santo. Ma questo non gliel’ho detto. Eppure, sopra l’angolo sinistro del finestrone che dà sul giardino, ho visto infine un’immagine della Gioconda, perfettamente inconfondibile, nella sua finitezza. - Dante! E quella, allora?! - Guarda meglio, e capirai. Occorreva uno sforzo ottico notevole, data l’esiguità delle dimensioni e il contrasto di luce creato dalla vicina finestra, ma alla fine si intuivano i baffi e il pizzo dadaisti apposti al capolavoro di Leonardo dal sacrilego Duchamp. In più, il nostro Dante aveva aggiunto di sua penna un filino di barba sulle gote: devo ammettere che così conciata Monna Lisa ha una mascolinità che non ripugna. Ma non gliel’ho detto. Arte, ancora arte. Ho visto, e me lo ricordo bene, un barattolo che credevo di lucido da scarpe, tra i tramonti di Lorrain, gli straccioni di Murillo e di Ribera e le scene di domestica povertà dei Fratelli Induno. - E’ merda – mi fa Dante, secco. - Come merda? - Merda. Merda d’artista. E’ un’opera di Manzoni. Non Alessandro, bada bene, ché qui la divina Provvidenza non ha posato la sua mano. Piero Manzoni. Ha riempito di merda novanta barattoli e li ha etichettati, numerati e firmati. Ha dimostrato che quando uno è famoso e ha una firma importante, si è fatto un nome, insomma, trasforma in arte pure la merda…e la vende! - Ma perché, c’è chi l’ha comprata? - Oggi la “Merda d’artista” di Manzoni è introvabile. Devi cercarla nel caveau delle banche o nei musei e vale un bel po’. E’ un gesto provocatorio.
C’è bisogno di evocare e provocare per il migliore dei mondi possibili. Io metto questa merda di Manzoni nel migliore dei mondi possibili, nella speranza che domani ci possa essere la merda di tutti. E a proposito di provocazioni, che dire poi di sua nipote? Prendi lei, ad esempio… - Dove la prendo? - E’ lì, sul muro, tra Bukowski e Marco Polo. C’era in effetti una donna ai margini di una strada in abito da sposa, seduta su un guardrail, il pollice teso e un cartello in mano con scritto “Gorizia”. – Chi è? – Gli ho chiesto. - E’ Pippa Bacca. La nipote di Piero Manzoni, appunto. Ha girato l’Europa in autostop così conciata, fino a che ci ha lasciato la pelle, violentata e uccisa in Turchia, sulla strada per Beirut, da un camionista. - E che ci fa un tipo così nella tua collezione? - Non è una collezione! E’ il migliore dei mondi possibili. Il mio migliore mondo possibile. E Pippa Bacca ci sta come un fiore di campo in un giardino di sementi olandesi. E’ un tocco di autentica freschezza. Ci sarà bisogno di questo, nel migliore dei mondi possibili, o no?! Ci stava proprio bene, secondo me, anche se io non capisco niente di arte e non arrivo a capire come possa essere un’opera d’arte il morire violentata in abito da sposa per opera di un camionista turco. Ma questo non gliel’ho detto. Anche perché Dante mi avrebbe spiegato che non c’è niente da capire e mi avrebbe ripetuto che l’arte è sempre aperta al giudizio e alla comprensione di tutti. E più oltre ho visto ancora tanti e tanti personaggi: della storia, dell’arte, della musica, dello sport, del cinema, della filosofia, della tecnica, della filosofia. C’è tutto un mondo, vi dicevo. E guai a far notare a Dante che nel migliore dei mondi possibili voi aveste piuttosto posto a modello persone dall’irreprensibile comportamento. Egli vi risponderebbe che ognuno di noi ha qualcosa di cui vergognarsi, che i miti e gli eroi, a conoscerli meglio, non sono poi tanto limpidi, che anche nel peggiore e più abietto degli uomini
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può esservi un lampo di umanità degno di rappresentanza in questo mondo futuribile, che la società, la storia, le vicende personali hanno pesato sulle azioni in modo così eterogeneo e deviante che pure l’ultimo straccione sepolto in un cimitero di campagna avrebbe potuto rendersi grande, se cambiato di contesto.
Poi diverse opere di Borromini, l’architetto barocco. - Perché non hai messo Bernini? Io lo preferisco a tutti. E’ eclettico, è l’artista per eccellenza! A tutto tondo! - Eclettico?! Ne ho abbastanza di persone eclettiche! Ho scelto Borromini proprio perché è una cosa sola. E’ un architetto e ha fatto bene quello che do-
Non provate a dire a Dante che ci sono persone grandi che avrebbero fatto cose grandi pure senza grandi mezzi: io non gliel’ho mai detto. Ed ecco, appunto, come nel salottino tra la cucina e le camere ho visto altri stralci fascinosamente confusi di questo migliore mondo possibile: c’è Maradona, nonostante le sue manie; c’è la camicia rossa di Garibaldi, nonostante Bixio a Bronte; i tuareg e la loro illusione che i confini disegnati a tavolino nel deserto, il tempo e le umane cose non li tangano; gli indigeni delle Andamane, nonostante il loro anacronismo; Antonio Sciesa e il suo “Tirèm innanz”, nonostante moglie e prole; la Costituzione della Repubblica romana del 1849, nonostante sia finita come sia finita; una lavagna di scuola, nonostante certi ministri, certi presidi, certi bidelli, certi professori e certi alunni; e poi Lorenzo Milani, un nativo americano e un sinto, Umberto Bindi, Che Guevara, Gramsci, Giordano Bruno e Pasolini, nonostante tutto. C’è un Cristo in croce, nonostante l’ateismo di Dante, e ci sono i due ladroni; ci sono i tornanti di Lombardi Street e un ritratto di Torquato Tasso; Bakunin e Marx, la scuola di Barbiana, Colomba Antonietti, la banca dei semi di Leningrado e la lapide ad ignominia per il camerata Kesserling; uomini e donne qualunque, infine.
veva fare. E mi piace proprio perché è contro: contro Bernini, contro tutti, pure contro se stesso. Pensa che è morto gettandosi su una spada, inquieto, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo e perennemente insoddisfatto. Ma al di là di come ha scelto di finire, senti cosa diceva: – e mi destò l’attenzione prendendomi per il gomito – “Chi segue altri, non gli va mai innanzi”. Borromini – riprese Dante – non sarà stato apprezzato come altri, ma nel suo campo è stato un fuoriclasse, come Maradona, e per questo merita un posto qui. Molti suoi successori hanno definito le sue strutture piene di concavi e convessi “chimeriche”; e io proprio per questo lo apprezzo. Cerco anch’io la chimera che non trovo. - Ma il Barocco, per quel che ho capito dai miei studi, non è un meraviglioso inganno ai danni del popolo? - Meraviglioso, appunto. Ma ora che l’inganno è svelato, la meraviglia resta. “Altro che guglie e fontane: pane volémo! Pane! Pane!”, recitava una sovversiva pasquinata antipapale. Ma oltre al meritato e ben distribuito pane, non pensi che ci sia bisogno anche di sognare e di meravigliarsi, stupirsi, appagarsi di piccole cose nel migliore dei mondi possibili? Una farfalla, il sorriso di un bambino, una nevicata, una canzone, una poesia, il mosto che diventa vino.
38 Trovavo che il pane dovesse venire prima di tutto, altrimenti non ci sarebbe stata la forza per apprezzare il resto. Ma forse in fondo aveva ragione lui, anche se non gliel’ho mai detto. E non a caso, Dante ha posto Borromini sulla parete del salotto dedicata ai geni meravigliosi, nemici a se stessi, ai luoghi comuni, ai compromessi e al potere: Paul Gascoigne che ammonisce l’arbitro, le cere sofferenti di Medardo Rosso, i cristi contorti di Rosso Fiorentino e i colli lunghi di Modigliani e Parmigianino. E soprattutto Luigi Tenco, con quell’aria triste e le parole delle sue canzoni che scavano l’anima. Ma non solo opere umane, a casa di Dante, nel migliore dei mondi possibili. Ci sono anche una serie di oggetti cari. Quella che più mi ha colpito è stata una vecchia Fiat 500 del ’67 targata “Mondo”. E poi anche tante piante, e un’infinità di animali, naturalmente. Penso che in questo caso abbia fatto meglio di Noè, che non mise nemmeno un alberello, nemmeno un seme nella sua arca. Eppure senza le piante cosa saremmo noi? Sì, credo che in questo caso Dante sia stato geniale. Ma non gliel’ho mai detto. Gli ho invece chiesto come mai avesse messo tantissimi gatti, ma non vedessi un cane. - Preferisco i gatti, e ai gatti i topi e ai topi gli elefanti e agli elefanti i fili d’erba e ai fili d’erba la goccia d’acqua. – Dante aveva sempre parteggiato per i più deboli. - Ma i cani sono fedeli, sono i migliori amici dell’uomo. - Sono fedeli?! Ne ho abbastanza della fedeltà. E quanto all’amicizia, dimmi: io e te siamo amici? - Beh, direi di sì. Siamo cresciuti insieme e… - E questo ha forse cambiato il mondo? La nostra amicizia, voglio dire, ha reso il mondo un posto migliore? Non ha reso migliori nemmeno noi.Tanta gente è amica di altra gente e non ha fatto altro che creare piccoli circoli impenetrabili. Meglio i gatti allora. Guardali lì, i gatti! Attendono pazienti. Scampati alla loro fama di sornioni iettatori, rappresentano in pieno, come le cornacchie, la capacità di cavarsela di cui il migliore dei mondi possibili non può fare a meno. Il gatto è
Inediti oltre la superstizione e l’amicizia, è al di là del tempo. Il gatto non dipende da niente, nemmeno dalle ore. E’ lì, che si gode il sole o rifugge il gelo; va bene per il giorno, va bene per la notte; e ti concede affetto solo quando glielo chiedi; se gli va. Avrà anche avuto ragione, ma penso che qualche cane, comunque, avrebbe anche potuto metterlo, in questo paradiso di cose a casaccio. Eppure non gliel’ho mai detto. Ma la parte più bella della casa resta per me ad ogni buon conto il pavimento. Mi pare di non avervelo ancora detto, ma se avrete la fortuna di essere invitati da Dante nel migliore dei mondi possibili, camminerete su un mare di fogli scritti. Se le
autentico poeta maledetto, ma pure del più docile Camillo Sbarbaro, perché uno che dedica la vita alla poesia e ai licheni merita un posto nel migliore dei mondi possibili. E di mille altre cose vorrei e potrei sapere. Di me stesso, ad esempio, altro che… E poi su in alto vedo infine, con somma meraviglia, una foto mia. Il mio ritratto, fatto chissà quando e chissà dove, scatto rubato ad uno dei tanti momenti passati insieme e che già avevo dimenticato: - Quello…quello sono io! - Quello non sei tu in quanto mio amico. Non credere di poter entrare nel migliore dei mondi possibili per il privilegio di conoscermi. Nel migliore dei
immagini guidano lo sguardo e gli esempi – pur tra i mille “nonostante” – guidano il nostro cammino, le parole fungono da sostegno al tutto. Alla stampa, nelle figure appese alla parete di Gutenberg che armeggia coi suoi caratteri mobili e col geniaccio Senefelder al suo torchio litografico, Dante ha offerto la propria ammirazione. E io lo ringrazio, perché ora vi è anche la mia. Ma non gliel’ho mai detto. E così ora so di Arthur Rimbaud, di Emilio Praga e di Baudelaire, di Corazzini, Palazzeschi e Gozzano, di Montale e di Quasimodo, di Kostantinos Kavafis e Bertolt Brecht, di Trilussa, Alda Merini, Oscar Wilde e Leopardi, di Lucio Mastronardi e Gavino Ledda, di Defoe e Swift, di Mauro Corona e Ippolito Nievo, dei discorsi di Calamandrei, delle ultime lettere da Stalingrado, della lettera al figlio di Nicola Sacco, di Dino Campana, ovvero dell’unico,
mondi possibili non ci sono privilegi. Avranno spazio prima gli ultimi e i diseredati. Quella è semplicemente l’immagine di una persona buona. Ci sarà pur bisogno di bontà, infine, in questo cavolo di migliore dei mondi possibili?! C’è bisogno sempre di tutto, secondo me: delle persone cattive che possono diventare buone con un gesto magnifico e delle persone buone e un po’ pavide, come me. Così avrei dovuto dirgli, ma non gliel’ho detto. Avrei dovuto dirgli che adesso ho voglia anch’io di dare un mio piccolo contributo al migliore dei mondi possibili. Vorrei attaccare al muro un mio pensiero, anzi, la citazione di un grande scrittore, ché è meglio scrivere che parlare, specialmente se si usano le parole degli altri, di gente famosa, magari morta, attraverso la quale ci vestiamo di una corazza impenetrabile che vince la
timidezza nostra e la ritrosia altrui: “Io non vi biasimo tanto per la vostra voracità, miei simili – faceva predicare Herman Melville al vecchio cuoco nero della Pequod –. Questa è natura, e non c'è niente da fare; ma dominare questa cattiva natura, questo è il punto. Voi siete pescecani, certo; ma se dominate il pescecane in voi, allora siete angeli; perché tutti gli angeli non sono altro che pescecani ben dominati”. Ah, se sapesse che pescecane sono anch’io! Incapace di diventare angelo! Se sapesse cosa penso davvero del mondo e di tanta gente, forse Dante non mi definirebbe buono e non mi includerebbe nel suo migliore dei mondi possibili. O forse sì? Ma questo non lo saprò, per ora, perché non gliel’ho detto. Quelle, infatti, sono state le ultime parole che ci siamo scambiati. Gli tremava un po’ la voce. Uscendo, l’ho salutato, ma lui non mi ha risposto. Avrei voluto tanto tornare presto a vedere il migliore dei mondi possibili, ma non gliel’ho detto. Prima di varcare la soglia di questo museo della visione umana un’ultima immagine mi ha colpito: c’è un ritratto della famiglia di Dante, colla madre, il padre e tutti. Ma lui no. Manca solo lui. Non c’è spazio per uno come Dante, nel migliore dei mondi possibili? A ben guardare, non un’immagine di sé. C’è un grande, ultimo spazio bianco. Da riempire o da lasciare vuoto? E dov’è ora Dante? E’ molto che manca. Dite che dovremmo preoccuparci? Tranquilli, non penso che abbia cattive intenzioni. Lo conosco bene, almeno credo. D’accordo, gli piacciono Tenco e Borromini, ma che vuol dire? E poi, lui ha sempre sostenuto la tesi del complotto contro quella del suicidio. E’ solo andato un po’ in giro, ad esplorare ancora un po’ questo mondo possibile, che non è certo il migliore, almeno per lui. Come dice quella canzone? E’ proprio di Tenco, mi pare: “…E un bel giorno dire basta e andare via!”. Ha fatto come il gabbiano della cartolina: è andato forse a vedere il mondo da un’altra prospettiva. Ma vedrete che tornerà. Deve tornare! Ci sono un sacco di cose che non gli ho mai detto. E c’è ancora tanto spazio bianco da riempire.
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La Lista
Le anime vergini degli uomini di campagna, quando si convincono di una verità, si sacrificano per essa, fanno tutto il possibile per attuarla. Chi si è convertito, è sempre un relativista. Preferisco che al movimento si accosti un contadino più che un professore d'università. (Antonio Gramsci)
ex comunisti, mai comunisti, anti comunisti la Lista Giorgio Napolitano Nato a Napoli il 29/06/1925. Personaggio di secondo piano del grande Partito Comunista Italiano; eterno numero 2 della circoscrizone di Napoli. Henry Kissinger dichiarò che Napolitano era il suo Comunista preferito ("My favourite communist"). Ministro degli interni del primo governo Prodi; presidente della Repubblica eletto con i voti della destra democristiana storica; responsabile: - come ministro degli interni, della costituzione dei CPT campi di concentramento e identificazione per l’espulsione degli immigrati così detti “clandestini” (legge Turco-Napolitano del 1998); - come presidente della Repubblica, della consegna nel 2007 della Banca d’Italia alle banche private di Passera (Intesa) e Colaninno (Unicredit); - come presidente della Repubblica, della soppressione della democrazia parlamentare con la consegna del governo del Paese agli emissari delle banche private e dell’ “Opus Dei” Massimo D’Alema Nato a Roma il 20/04/1949. Figlio d’arte (il padre è stato deputato di medio livello del PCI). Segretario del PDS e tesoriere di fatto dell’enorme patrimonio del vecchio PCI; primo ministro per 16 mesi affetto da mania d’onnipotenza; responsabile: - della partecipazione dell’Italia alla distruzione delle infrastrutture civili (ponti, ospedali, scuole) e industriali della Serbia e dei bombardamento all’uranio impoverito; - della consegna ai boia del governo turco di Apo Ocalan, capo del movimento di liberazioe del popolo curdo, espulso dall’Italia prima che il tribunale di Roma ne riconoscesse il diritto d’asilo quale perseguitato politico Fausto Bertinotti Nato a Milano il 22/03/1940. Socialista lombardiano, sindacalista professionista, segretario di Rifondazione Comunista; presidente della Camera dei Deputati per due anni e beneficiario a vita di privilegi illegittimi (pensione, auto e scorta, abitazione e ufficio, ecc.); responsabile: - del fallimento elettorale della coalizione contro natura “Arcobaleno” che ha aperto la strada all’ultimo governo Berlusconi; - della dissoluzione dell’ultimo Partito Comunista in Italia; - di occuparsi ancora di poltica (almeno in televisione).
la “Lista” prosegue nei prossimi numeri
a cura di SANDRO RIDOLFI
Sandro Pertini il Presidente della Repubblica medaglia d’oro al valor militare
quando a sfilare erano i combattenti partigiani e non generali di mestiere in Maserati blindate