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Racconti e Pensieri 2010-2011 Raccolta II in collaborazione con
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Premessa Il nostro viaggio “alla fin del mundo” (B. Chatwin, in Iolanda p. 8), o meglio, alla fine dei nostri racconti, è giunto a una prima, fruttuosa, conclusione. Proprio da qui, se vorrete, potremmo iniziare insieme nuovi percorsi, confrontandoci coi protagonisti di vicende inedite, reali o immaginarie, siano esse in versi oppure in prosa. Anche poesie e racconti brevi infatti, al pari dei saggi più impegnati, hanno il dono di veicolare la verità personale e sociale di chi li compone. Esistono delle istanze di verità in ogni storia, in ogni momento rapito al silenzio e all’anonimato: esse sono tanto forti quanto, spesso, inconsapevoli. Prendersi l’onore e l’onere di esternare tali istanze ha il sapore di un esame di maturità ancora in svolgimento. «L’esame di maturità è questo: una linea di demarcazione» (Arianna, p. 17) superata la quale non veniamo semplicemente consegnati a una vita fatta, nella migliore delle ipotesi, di scelte difficili, ma a una vera e propria dimensione di viaggio continuo da sé a sé, oltre quella debolezza, forse «debolezza filosofica» (Sandro, p. 27), che sovente ci avvolge e ci soffoca, proprio come fa il caldo d’agosto: «Il caldo sulla testa, sul corpo e nella mente. Ti entra dentro e ti pervade ma è più forte la voglia di andare avanti […]. Non è una sfida, è un’avventura, un’emozione, un senso di libertà» (Maura, p. 11). Tenendo presente che «Le parole, anche se volano, una volta pronunciate non possono più essere ritirate», mentre «se scrivo, le parole, anche se rimangono, possono essere modificate fino al momento effettivo dell’invio della comunicazione» (Fausto, p. 29), quella di scrivere può diventare davvero un’emozione simile a quel senso di libertà tanto stringente per chiunque, eppure mai interamente soddisfatto. «A volte basterebbe ruotare la testa, cambiare sedia o angolo di veduta e allora tanti muri, veri o immaginari, perderebbero in un attimo la loro imponenza e lo sguardo si aprirebbe verso diversi orizzonti e soluzioni già pronte, a portata di vista e mano, solo a volerle e saperle vedere.» (Sandro p. 27), certo, a patto, di riuscire a scriverle, per non rischiare di perderne la memoria. Non possiamo permetterci di rimanere in silenzio e, così facendo, di perpetuare lo status quo, aspet-
tando soltanto di morire fisicamente o civilmente, «perché la gente muore/con gli occhi chiusi» (Iacopo, p. 39), comportandoci come fossimo «un/fiume in secca», senza «lacrime/né parole né emozioni» (Maria Paola, p. 32). In fondo, «Diceva la zia Melania, morta a 101 anni, “la vita è un battito di ciglia, quando le riapri è già finita”» (Paride, p. 37), quindi dobbiamo lottare per avere l’opportunità di far udire ad altri le nostre parole, prima che queste si asciughino. Chissà se e quanti tra di noi riusciranno, per usare le parole di Marta (p. 21), a splendere «di degno entusiasmo», beffandosi «del tempo/e delle lacrime»; ma sia che si tratti di rabbia, di sorpresa, d’affetto oppure d’orgoglio, “Non spegnete questa voce” (Samantha, p. 50) potrebbe comunque essere un buon titolo per la professione d’intenti di ciascuno. L’ispirazione, se vogliamo chiamarla così, arriva come l’amore, «all’improvviso, senza regole, senza limiti, senza età e non c’è più scampo» (Mariella, p. 57), arriva per chiarire, definire, per creare o distruggere confini e alla fine, sa trasformare tutti i segni del tempo, «profondi solchi sul […] viso/e [… ] buchi nel […] cuore» (Anna Rita, p. 63), in parole, in linguaggio libero di andare avanti o indietro attraverso le ore, i giorni o gli anni, a proprio piacimento, trasformando la nostra quotidianità, le nostre aspirazioni e perfino i nostri errori o i nostri rimpianti in «un romanzo meraviglioso, toccante e profondo, che ci porta […] a riflettere sull’immensa solitudine e incapacità di vivere nel mondo moderno, così […] privo di verità e amore» (Maria, p. 42). Una volta concluso l’ultimo capitolo del nostro romanzo (l’ultima riga del nostro racconto, o l’ultima strofa nella nostra poesia) non ci sentiremo più come se per esistere avessimo soltanto quell’unica, «sola possibilità rispetto all’infinito» (M Seta, in Maria Sara, p. 45), ma faremo «come chi mastica e ride», e non «come chi guarda e tace» (Norma, p. 61); sarà come essere giunti finalmente a destinazione. Quale sia poi questa destinazione sta a tutti noi deciderlo. Anche se i nomi nuovi, qui amichevolmente citati, sono ancora pochi (alcuni potrete conoscerli meglio seguendo il nostro quotidiano on-line), le destinazioni da raggiungere possono essere migliaia; ora sta solo a voi descriverle.
I OL A N D A
Gli orgasmi eno-gastronomici di Pepe Carvalho Si assiste ormai da tempo ad un proliferare di romanzi, più o meno interessanti, che raccontano le avventure dei più diversi tipi di investigatori (commissari, avvocati, giudici ecc.). Fra questi quello che più mi ha incuriosito ed affascinato è Pepe Carvalho, investigatore privato nato dall’estro e dalla creatività dello scrittore spagnolo Manuel Vázquez Montalbán. Le caratteristiche che contraddistinguono il personaggio di Pepe Carvalho sono molteplici e astruse (è un ex agente della Cia, vive nella Barcellona post regime franchista contro cui si è opposto partecipando alle lotte clandestine, ama le belle donne, usa i libri della sua amata/odiata biblioteca per accendere il camino («… come giusto castigo a tante verità inutili e incomplete che conteneva» - Assassinio al Comitato Centrale). Ma ciò che nella lettura delle varie avventure di Carvalho ha sempre particolarmente attratto la mia attenzione rendendo ai miei occhi il personaggio oltremodo intrigante, è la passione smisurata che l’investigatore prova per la buona cucina e il buon vino. Nonostante il cinismo che spesso lo caratterizza e nonostante una vita segnata dalla delusione per ciò che non è stato, Carvalho è un “godurioso”. Anche nei momenti più difficili e cupi riesce ad estraniarsi dalla realtà, facendosi trascinare in veri e propri orgasmi eno-gastronomici, gustando una pietanza prelibata - che spesso cucina personalmente - o una pregiata bottiglia di vino. Il cibo per lui non è mai nutrizione: può accostare la pietanza più squisita e raffinata al peggior vino da tavola o una pregiata bottiglia di vino ad un piatto semplice. Quello con il cibo e il vino è, per il personaggio creato da Vázquez Montalbán, un rapporto sui generis («Ho uno spirito senza fondo. Quando mi si sazia il corpo, mangio con lo spirito» - Quintetto di Buenos Aires). Spesso è un rapporto intimo, personale, da non dividere con altri che con se stessi («… i piaceri solitari gli erano sempre sembrati incomunicabili» - Tatuaggio); in altre circostante, diversamente, è un pag. 3 momento da dividere con un amico «per ascoltarsi» (Il Labirinto greco); o, ancora, può rappresentare “l’antipasto” di un
luculliano banchetto di piaceri («Charo ingollava il cibo come un’adolescente in via di sviluppo. Era una delle cose che Carvalho approvava di lei. In realtà nessun essere umano indifferente al cibo è degno di fiducia. Charo seppe trovare il momento giusto per smettere di mangiare e dare inizio all’amore…» - Tatuaggio). Chi ama il buon cibo e il buon vino e sa gustarli e goderli non può non amare il personaggio di Pepe Carvalho per questo suo rapporto con i piaceri della tavola. Condivide con lui la consapevolezza che il piacere visivo, olfattivo e gustativo che può suscitare una pietanza o un vino in alcuni casi è sufficiente ad appagare ogni propulsione fisico/emotiva; in altri, invece, costituisce “l’afrodisiaco” che predispone lo spirito e il corpo ad assaporare altri piaceri. D’altra parte, non poteva che essere “un godurioso” che ama le donne, il buon vino e la buona cucina il personaggio creato dalla fantasia di colui che ha scritto: «Tutti i piaceri sono goduriosamente immorali … E la questione diventa tanto più immorale quando bisogna sommare o combinare due piaceri così definitivi come il mangiar bene e fare bene l’amore … Mangiar bene, e bere ancor meglio, rilassa gli sfinteri dell'anima, sconvolge i punti cardinali della cultura repressiva e prepara alla comparsa di una comunicabilità che non va sprecata» - Ricette Immorali). Purché, aggiungo, i commensali abbiano la stessa capacità di perdersi nel piacere. La guerra dei cavalli «A ogni incontro, due o tre cavalieri ci restavano, ora dei nostri, ora dei loro. E i loro cavalli liberati, staffe impazzite e sonanti, galoppavano a vuoto e si precipitavano giù verso di noi da molto lontano con le loro selle dagli arcioni bizzarri, e il cuoio fresco come quello dei portafogli a Capodanno. Erano i nostri cavalli che andavano a raggiungere, subito amici. Una bella fortuna! Non siamo certo noi che avremmo potuto fare altrettanto! ... I cavalli hanno una bella fortuna, loro, perché se subiscono la guerra, come noi, gli si chiede mica di sottoscriverla, d'aver l'aria di crederci. Sventurati ma liberi
cavalli! L'entusiasmo ahimé, ce l'abbiamo solo noi, 'sta troia!» (L. F. Céline, Viaggio al termine della notte). Il corpo di un altro giovane militare ritorna in Italia dall’Afghanistan. Non ritorna da una guerra, almeno così si dice, ma sicuramente è morto per mano di un altro uomo che forse, invece, ha ucciso solo in nome di una guerra. Chi ha sparato non sapeva chi stava uccidendo, ha colpito una divisa. Non si sarà chiesto, ne forse mai si chiederà, chi fosse la persona destinataria della morte che stava per infliggere. Non si sarà certamente soffermato a valutare quali sarebbero state le conseguenze provocate da un gesto, qual è quello di premere un grilletto di un’arma da fuoco puntata contro un altro essere vivente. Non avrà pensato - prima, durante o dopo - che quel suo gesto stava privando di un futuro un uomo a lui sconosciuto, verso il quale non poteva provare, personalmente e direttamente, alcun sentimento, se non l’odio dettato da circostanze. Non avrà certamente provato ad immaginare cosa sarebbe successo se l’incontro con l’uomo che stava uccidendo fosse avvenuto in altre situazioni e circostanze, ad esempio in un bar, su un treno, su una spiaggia, sui banchi di scuola, in un ristornate, ecc.. Magari avrebbe potuto scoprire di avere in comune con l’altro tante cose da dividere in quella vita che lui stesso gli stava negando. Magari sarebbero potuti essere amici se l’incontro non fosse stato così avverso. Non si sarà reso conto che lui - carnefice - e l’altro - vittima - forse erano, in quei momenti, accomunati da uno stesso identico sentimento, la medesima paura di morire. Di quanto entrambi fossero uguali di fronte alla morte. Non avrà realizzato che in quell’istante stava decidendo non solo della vita di chi stava puntato nel mirino ma, insieme, di tutti coloro che intorno a e con quella vita avevano costruito o soltanto ideato altre vite. Che quel suo gesto avrebbe cambiato irreversibilmente l’umanità privandola di una sua componente unica ed irripetibile. L’incapacità di percepire l’altro in quanto uomo, l’“ignoranza” del- pag. 5 l’altra vita, viene da pensare a chi una guerra non ha mai combattuto, devono necessariamente albergare nella mente
e nell’animo di colui che uccide chi è ritenuto ostile per principio, che è nemico solo perché indossa una divisa diversa. Ma, invero, a nessuno è dato sapere quali pensieri e quali sentimenti avrà elaborato e provato chi contro quel militare ha sparato. Né se quel gesto sia stato effettivamente dettato da una ostilità di principio - magari del tutto priva di un substrato di odio reale - o, semplicemente dall’incoscienza o, addirittura, dall’arroganza e dalla presunzione che sia giusto decidere della vita di chiunque non condivida i propri medesimi principi culturali e/o religiosi. Certamente chi ha sparato il colpo e chi quel colpo ha incontrato non hanno avuto la fortuna dei cavalli. Forse anche loro, come i cavalli, non hanno mai sottoscritto la “non guerra” che si sta combattendo in Afghanistan, forse non ci hanno mai creduto. Eppure i ruoli, i principi, le circostanze hanno privato entrambi della possibilità di corrersi incontro, di scoprire chi fosse l’uomo che indossava quella divisa. Magari, se avessero potuto raggiungersi spogliati da quella divisa, “liberati” dall’ostilità di principio, anche loro sarebbero diventati “subito amici”. Viaggio alla fine del mondo “Raggiunsi la città più a sud del mondo. Ushuaia era sorta nel 1869, quando il reverendo W.H. Stirling aveva fatto costruire, vicino alle capanne degli indios Yaghan, l'edificio prefabbricato della Missione. Per sedici anni anglicanesimo, orti e indios avevano prosperato. Poi arrivò la Marina militare argentina e gli indios morirono di morbillo e di polmonite. Col tempo il posto si trasformò da base navale in colonia penale. Il sovrintendente alle carceri progettò un capolavoro di pietra e cemento più sicuro delle prigioni siberiane. I suoi squallidi muri grigi, forati da strettissime feritoie, sorgono nella parte orientale della città. Oggi l'edificio è usato come caserma. Le mattine, a Ushuaia, cominciavano nella calma più piatta. Al di là del Canale Beagle si vedeva di fronte il profilo frastagliato dell'Isola Hoste e lo Stretto di Murray, che conduceva all'Arcipelago Horn. A mezzogiorno l'acqua ribol-
liva e spumeggiava e la riva lontana spariva dietro un muro di vapore. I malinconici abitanti di questa città in apparenza senza bambini, guardavano gli stranieri senza cortesia. Gli uomini lavoravano in una fabbrica di granchi in scatola o nell'arsenale, dove il lavoro non mancava a causa di una puntigliosa guerra fredda col Cile. L'ultima casa prima della caserma era il bordello. Nel giardino crescevano cavoli bianchi come teschi. Mentre passavo, una donna con la faccia imbellettata stava vuotando la spazzatura. Portava uno scialle cinese nero, ricamato con peonie rosa-anilina. Disse «Qui tal?» e sorrise: fu l'unico sincero e allegro sorriso che vidi a Ushuaia. Evidentemente era contenta del suo stato. La guardia non mi permise di entrare nella caserma. Volevo vedere il cortile della vecchia prigione. Avevo letto del più famoso recluso della Colonia penale di Ushuaia” (B. Chatwin, In Patagonia) Un detto popolare recita che “Partire è un po’ morire”. Ma partire per viaggiare forse è un po’ come rinascere. Decidere di lasciare il quotidiano per vivere una, sia pur piccolissima, parte della propria esistenza in luoghi sconosciuti, a contatto con gente che è e rimarrà quasi certamente estranea, conoscendo culture, abitudini e lingue diverse dalle proprie, presuppone un desiderio/bisogno di “nuovo”. Ci sono dei viaggi, poi, che più di altri ti lasciano dentro un qualcosa che prima non ti apparteneva. Giungere a Ushuaia, «la fin del mundo», per esempio, non è solo un viaggio. E’ un’esperienza emozionale. Ushuaia è una città come tante, con le sue case, le sue auto, i negozi, i ristoranti, i neon e i souvenir. Una città nata intorno ad una prigione, non bella anzi, a tratti, anche un po’ piatta e squallida. Eppure, giungendovi, si percepisce in quel posto qualcosa di unico. Ciò che rende speciale quel luogo non è solo il panorama che si apre senza fine oltre il Canal Beagle; non sono solo i colori del mare e del cielo che si fondono e si confondono in un grigio/azzurro quasi innaturale; non è solo l’aria rarefatta che si respira; pag. 7 non è solo la serenità che ti trasmettono le persone che vi incontri. E’ una sensazione. Quella che deriva dal trovarsi al-
la fine del mondo. In qualunque altro posto della terra ci si trovi si ha la sensazione che la strada, il mare, il fiume che stai percorrendo ti porterà in un altro luogo, in una realtà che conosci o che assomiglierà in qualche modo alle altre realtà a te note. Ad Ushuaia no. Oltre quella città non ce ne è un’altra. Non c’è l’uomo con le sue colonizzazioni e le sue contraddizioni. C’è una realtà irreale rispetto al conosciuto quotidiano. Una realtà che i più possono solo provare ad immaginare, magari richiamando qualche fotogramma che la mente ha registrato carpendolo da un documentario, nella speranza di poterla un giorno conoscere. Ed è forse proprio la consapevolezza di aver raggiunto nel tuo viaggio il luogo in cui finisce l’assoggettamento della natura ai bisogni dell’uomo ed inizia un mondo in cui la natura è ancora padrona e sovrana di se stessa, che rende Ushuaia unica e speciale. Forse è per questo che Ushuaia e il mondo noto ed ignoto che la circondano ti entrano dentro e li rimangono anche quando ormai migliaia di chilometri ti separano da «la fin del mundo». Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate «In mezzo alla piazza si ergeva uno strano monumento, alto quasi quanto le case, e, nell’angustia del luogo, solenne ed enorme. Era un pisciatoio: il più moderno, sontuoso, monumentale pisciatoio che si potesse immaginare; […] Quale bizzarra circostanza, o quale incantatore o quale fata poteva aver portato per l’aria, dai lontani paesi del nord, quel meraviglioso oggetto, e averlo lasciato cadere, come un meteorite, nel bel mezzo della piazza di questo villaggio, in una terra dove non c’è ne acqua né impianti igienici di nessuna specie, per centinaia di chilometri tutto attorno?» (C. Levi, Cristo si è fermato ad Eboli) Da tempo immemore quella che, con grande fantasia, viene chiamata “Autostrada A3” è l’incubo di coloro che si prefiggono di raggiungere l’estremo Sud dell’Italia. I cosiddetti lavori di “ammodernamento”, che da anni interessano l’A3, hanno reso, se possibile, ancora più pericoloso e disagevole
percorrerla. La presenza dei cantieri, i chilometri a una sola corsia, le interruzioni e gli svincoli improvvisi, l’assenza di corsie di emergenza e di aree di sosta, trasformano il percorso della A3 in una vera avventura ai limiti della sopravvivenza. Chi imbocca l’A3 non sempre è consapevole che tutto può succedere in quelle interminabili ore che lo separano dalla destinazione. Sarebbe opportuno, per precauzione, consigliare una vera e propria profilassi contro i malesseri da A3. Si dovrebbe redigere il “Manuale del viaggiatore sull’A3”. Idonei pannelli segnaletici dovrebbero invitare i viaggiatori a: dotarsi di certosina pazienza; approvvigionarsi di viveri e bevande; fare carburante; fare sosta alla toilette; rifornirsi di giornali e passatempi vari per combattere la noia delle lunghe soste in coda; fare scorta di CD, perché anche sintonizzarsi su una frequenza radio può essere impresa ardua; dotarsi di ventilatore in assenza di aria condizionata. Sarebbe, inoltre, consigliabile la presenza di un copilota che coadiuvi il guidatore nell’avvistamento tempestivo delle deviazioni che all’improvviso articolano il percorso. E attenzione alle mucche! In uno dei tratti già “modernizzati” della A3, infatti, è installato un cartello che segnala la presenza di mucche. Si potrebbe pensare che il cartello sia stato posto lì per scherzo o per errore. Vi sbagliate! Nel 2008 una mucca che pascolava sulla A3 causò un grave incidente automobilistico. Eppure, come si legge nel sito dell’ANAS, “L'autostrada A3 Salerno - Reggio Calabria rappresenta la principale arteria di scorrimento che collega la Sicilia e le estreme regioni meridionali tirreniche alla grande rete autostradale europea allacciandosi al Corridoio 1 che collega Palermo a Berlino”. Arteria di scorrimento? Si, ma solo del sangue di chi rimane coinvolto nei numerosi incidenti che avvengono su quella strada. Perché sulla A3 le vetture spesso si schiantano. La A3 non collega la Sicilia e le regioni meridionali alla grande rete autostradale europea; è, invece, il simbolo per eccellenza dello “scollegamento” dell’estremo pag. 9 Sud dal resto dell’Italia. Allora, come risolvere il problema? Semplice, si realizza un bel ponte sullo stretto di Messina.
Il ponte, infatti, ridurrebbe drasticamente i tempi di collegamento fra la Calabria e la Sicilia. Poco importa, poi, se percorso il ponte continueranno a non esistere le strade per proseguire il viaggio verso sud o verso nord. Il Sud d’Italia, finalmente, avrebbe il piĂš moderno, sontuoso, monumentale ponte che si potesse immaginare. Come il pisciatoio in mezzo alla piazza di Gagliano, il ponte, seppure inutile, sarebbe comunque un “meraviglioso oggettoâ€? lasciato cadere, come un meteorite, da un incantatore o una fata in mezzo allo stretto di Messina.
M A URA
Quel giorno d’agosto in Valle d’Aosta. Breve racconto di un’indimenticabile escursione Quattro lunghe e intense ore di camminata per arrivare sul punto più alto della montagna e scorgere l’immenso davanti ai nostri occhi sbalorditi e illuminati dal sole in una giornata calda e luminosa d’agosto. E’ accaduto qualche anno fa, ero in vacanza in Valle d’Aosta in compagnia di amici, siamo partiti per un’escursione ma in leggero ritardo rispetto alle tempistiche che si rispettano in montagna per evitare il caldo soffocante che arriva puntuale durante le ore centrali delle giornate assolate dell’estate. La frescura del bosco e la festa dell’acqua che zampilla fra le rocce del torrente ci hanno fatto compagnia nel primo tratto lasciandoci poi a camminare sulle pietre arroventate dal sole d’agosto su una salita che si fa sempre più dura passo dopo passo. Il caldo sulla testa, sul corpo e nella mente. Ti entra dentro e ti pervade ma è più forte la voglia di andare avanti, di superare anche l’ultimo ostacolo e raggiungere con gli occhi, con le mani e con il cuore quell’obiettivo che ti sei posto prima di partire. Non è una sfida, è un’avventura, un’emozione, un senso di libertà. La salita è stata lunga, intensa, massacrante. Dopodiché, giunti a 2 mila e 500 metri dopo 3 ore e mezzo di camminata, la natura si è dimostrata come sempre generosa regalandoci all’improvviso il primo scorcio di meraviglia: inaspettatamente, dopo un ultimo gradino naturale della montagna, si è aperta una conca di terra verde dove è comparsa la superficie del lago di Liconi, uno dei più grandi laghi naturali della piccola regione. Un enorme diamante incastonato in un solitario angolo della terra. Uno spettacolo indimenticabile, un premio incommensurabile dopo tanta fatica fisica. L’acqua era cangiante tra il verde e il blu scuro, si muoveva leggermente creando delle piccolissime onde che, colpite dal sole, si dipingevano d’argento e sembravano ipnotizzarci regalandoci una pag. 11 sensazione di meraviglia, di serenità interiore e di incanto. Saremmo rimasti a osservarle per ore ma, chi frequen-
ta la montagna, sa bene che questo non è possibile perché già ad agosto il sole tramonta abbastanza presto dietro le enormi montagne della Valle d’Aosta. Se si è arrivati in cima a una vetta bisogna anche avere il tempo utile di tornare indietro con il sole che illumina il cammino, altrimenti il rischio di perdersi o farsi male è molto alto. Se, poi, come nel nostro caso, si vuole raggiungere anche un’ulteriore meta, l’incanto delle onde va lasciato soltanto alla memoria della mente e della macchina fotografica: amica indiscussa di chi ama la natura. Cosi, abbiamo iniziato a percorrere in salita l’anfiteatro verde che abbraccia il lago, proseguendo lungo un comodo sentiero che passa attraverso un alpeggio dove pascolavano tranquillamente e beatamente delle mucche incuriosite della nostra presenza. Una di queste ci ha seguiti e si è messa anche in posa per delle foto scenografiche con il lago visto dall’alto sullo sfondo. Noi, intanto, abbiamo proseguito sapendo che ci aspettava il momento più bello e così è stato. Immaginate, dopo circa mezz’ora di camminata, dietro di noi lasciavamo una discesa d’erba che concludeva con l’enorme e maestoso lago di Liconi e il fondovalle di Morgex vicino Courmayeur; davanti a noi si apriva invece l’infinito: nell’ultimo tratto di salita muovevamo ogni passo con la velocità di un bradipo tanta era l’emozione del panorama che si stava aprendo davanti ai nostri occhi. Incredibile ma vero: davanti a noi uno dei più bei panorami dell'intero massiccio del Monte Bianco, della Val Ferret e della sottostante città di Courmayeur. Eravamo a 2 mila e 700 metri e un passo in più non potevamo farlo perché a un metro da noi la montagna era completamente tagliata lasciando spazio a un precipizio vertiginoso ma allungando un braccio avevamo la sensazione di toccare la punta più alta del monte più alto d’Europa, il monte Bianco, innevato e coperto dai suoi ghiacci perenni brillanti e argentei sotto il sole d’agosto. In compagnia della mucca che si era fermata a una distanza di sicurezza di una decina di metri da noi, siamo rimasti per qual-
che minuto ad ammirare il panorama che si apriva tutto intorno. In questi momenti accade qualcosa di unico: la mente si svuota completamente dei problemi e dello stress accumulato a lavoro e nella vita di tutti i giorni, ma al contempo si riempie di immagini, ricordi, sensazioni che per svariati motivi fanno parte della tua vita e tornano davanti ai tuoi occhi con un’energia nuova, più forte, vivace e positiva. L’unicità di questi momenti non sta solo o soltanto nella strepitosa bellezza del contesto naturalistico che ti circonda, ma anche nel fatto che lì insieme a te ci sono soltanto persone che, come te, si sono fatte quattro ore di dura salita con lo zaino sulle spalle e, come te, apprezzano incondizionatamente quello che hanno raggiunto e lo rispettano come difficilmente accade nella società di oggi durante il nostro vivere quotidiano, che sia in città, al mare o in campagna. Lassù, tra il vallone scosceso e roccioso che conduce al lago di Liconi e la conclusione della salita che si apre come un palcoscenico sull’intero massiccio del monte Bianco, ci si arriva soltanto a piedi, con le proprie forze, con l’energia positiva di chi ama e rispetta la natura, con l’equilibrio interiore di chi sa compiere uno sforzo fisico e mentale nella convinzione che la meta da raggiungere merita un tale impegno perché è prima di tutto un regalo e un insegnamento per la vita. Nelle sue infinite sfaccettature, la montagna ti insegna a osservare la tempistica della natura riportandoti con i piedi per terra ad affrontare ostacoli, pericoli e salite con saggezza, lucidità e determinazione. Quando sei in montagna e vivi la natura a pieno, apprezzi come non mai quei “vecchi” e comodi scarponi che ti accompagnano fedeli da anni, quel semplice panino fatto prima di partire per l’escursione e che al momento di mangiarlo si trasforma in prelibatezza, quell’acqua della borraccia o, ancora meglio, del torrente che casualmente incontri lungo il percorso ed è sempre una gioia. Tutto, anche le cose pag. 13 più semplici, come per magia, si trasformano in meraviglia e la vita si riappropria del valore che merita. Quella
mattina di qualche anno fa siamo partiti per caso per questa escursione perché eravamo indecisi su come trascorrere la giornata. Qualcuno di noi era stanco e preferiva rimanere in albergo o andare con la macchina a visitare qualche città, qualcun altro, tra cui io, si è lasciato prendere dall’idea di una nuova ed emozionante avventura. Così è iniziata l’escursione: scarponi ben allacciati, zaino in spalla, un panino, l’acqua e la voglia di camminare in mezzo alla natura. Parcheggiata la macchina a Planaval che si raggiunge dopo una serie di tornanti in salita subito dopo La Salle poco prima di Courmayeur (la principale porta valdostana per la Francia attraversando il traforo del monte Bianco), abbiamo iniziato un percorso facile e intuibile lungo una strada interpoderale che si immette in un lungo traverso per poi arrivare a un punto in cui si strozza e impenna improvvisamente. Tra salite e discese, stradine più comode e sicure nel sottobosco e percorsi larghi mezzo metro che tagliano la montagna e si affacciano sul nulla, abbiamo camminato per quasi due ore. Tra cambi di pendenze, attraversamenti di torrenti, restringimenti di sentiero e improvvisi tornanti, abbiamo superato ben due valloni, poi il sentiero si riaggancia a una seconda strada interpoderale che, finalmente, permette di raggiungere la località Liconi a oltre 1.800 metri, la base del vallone che conduce al lago e, per la cronaca, il vero inizio dell’escursione. Fino a questo punto abbiamo assaggiato solo l’antipasto, da questo momento in poi abbiamo fatto sul serio. Durante questa prima parte di escursione avevamo avuto l’energia e la forza per camminare e chiacchierare, dopodiché, siamo entrati in perfetta sinergia e concentrazione con la natura e abbiamo iniziato la salita, quella vera, dura, impegnativa che ci ha portato fino a scoprire lo spettacolo mozzafiato del lago di Liconi che si apre come un terrazzo panoramico sulla catena del monte Bianco. Un’emozione indescrivibile che ripaga oltremodo dello sforzo e dell’impegno fisico e mentale necessari al raggiungimento della meta. Tale emozio-
ne e le sensazioni provate a questo punto dell’escursione le ho volute descrivere in apertura di questo racconto quasi a voler proporre fin da subito al lettore la pietanza più appetitosa, gustosa e inebriante. A questo punto rimane soltanto la conclusione di questa giornata avventurosa, il ritorno alla macchina, avvenuto non appena il sole iniziava la sua progressiva discesa dietro le alte guglie e iniziava a segnare il vallone di grandi aree ombreggiate che richiamano all’attenzione e al rispetto perché in poco tempo oscurano completamente il cammino verso casa e l’unico bagliore di luce, se si è fortunati e il cielo è sereno, rimane la luna. Un ultimo sguardo indietro verso il monte Bianco e il luccichio del lago, giusto il tempo di imprimerne nella mente le immagini e le forti sensazioni trasmesse, poi abbiamo iniziato la discesa lungo lo stesso percorso dell’andata. Sulle spalle lo stesso zaino, alleggerito dell’acqua e del panino che avevamo già mangiato ma stracolmo di ricordi, immagini e suggestioni. Una discesa rapida, silenziosa e rasserenante ci ha permesso di consolidare per sempre le sensazioni e le esperienze appena vissute. Dedico questo breve ma piacevole racconto di fine estate ai miei genitori che, per primi mi hanno fatto scoprire questo splendido luogo rafforzando in me l’amore per la montagna e la natura. Estendo questa dedica al mio compagno di vita Gianni che ha voluto vivere insieme a me quest’esperienza pur inconsapevole della difficoltà del percorso ma sempre fiducioso in me.
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A RI A N N A
Largo a noi. L’esame di maturità e la nuova vita ancora tutta da costruire L’esame di maturità è il primo vero traguardo, esperienza comune per la quale tutti passano, i nostri genitori prima di noi e molti altri dopo, ma in fondo che cosa significano quei giorni di maturità, prima gli scritti e il fatidico orale così trepidamente atteso? I giorni precedenti sono massacranti, un tour de force estenuante, giornate chiusi a casa a studiare con l’estate che intanto avanza, imperterrita, indifferente agli infelici maturandi che la vedono arrivare da dentro casa, sovrastati da libri, vocabolari e appunti. La maturità è il primo punto fermo, la fine delle scuole superiori e l’inizio di qualcos’altro. Ma cosa? Esperienze nuove, università che aspettano con i loro test d’ingresso? O la prima esperienza di lavoro? O la vita di sempre? All’ultimo anno di superiori si sogna, come non mai, ci si immagina come sarà la nostra vita fuori da lì, si pensa a cosa si vorrebbe essere, si sogna di partire, andarsene lontano, in altre città e stare a vedere cosa la vita ci riserva. In questo groviglio di emozioni, ce ne è una che a volte si fa sentire di più, ovvero la paura, il senso di vertigine che si prova prima di saltare nell’ignoto, la paura di scoprire che forse era meglio prima, quando si era piccoli alle prese con vocabolari troppo pesanti. Ricordo con tenerezza una frase della mia amata professoressa di latino e greco, che un giorno, vedendoci alle prese con scelte universitarie vacillanti, ci disse : «Mi fate tenerezza, ormai siete consegnati alla vita»; in quel momento non era chiaro cosa volesse dire, pensavamo che in fondo non sarebbe cambiato nulla, ma quelle parole le scrissi ugualmente sul diario, convinta che mi sarebbero tornate utili in futuro, un po’ come tutte le sue perle di saggezza sanno fare, con la loro potente carica chiarificatrice nei momenti più confusi. Ora mi rendo conto di quanto siano vere quelle parole. Se è vero che “Homo faber fortunae suae”, che si è artefici del proprio destino, si deve iniziare a costruire da soli la propria vita, accumulando esperienze su esperienze e cogliere al volo le occasioni che si pag. 17 presentano. Ora tocca a noi affrontare la vita. Sta a noi districarci nelle quotidiane difficoltà, affrontare esperienze univer-
sitarie o scontrarsi con gli scogli del mondo del lavoro senza rassicuranti professori che ci sostengano, catapultati in una nuova dimensione spazio-temporale a volte troppo stretta o spesso troppo larga per andare bene, con la vaga impressione di essere cresciuti e di non essere ancora pronti per essere già grandi. L’esame di maturità è questo, una linea di demarcazione. La vita ci sta solo aspettando. Passione o razionalità? Scelte universitarie e possibilità occupazionali La domanda che affligge da anni coloro che dopo la scuola superiore vogliono continuare con gli studi universitari è sempre la solita: in che facoltà iscriversi?! Assecondare le proprie passioni e inclinazioni o perseguire la razionale logica delle maggiori possibilità occupazionali? Lasciarsi guidare dal cuore o dalla mente? Non credo che la risposta sia semplice, anzi, direi che la soluzione all’amletico dubbio non esiste; la risposta arriverà negli anni, a seconda di quale direzione prenderà la vita di ciascuno. Il Consorzio Interuniversitario AlmaLaurea fornisce basi documentarie e di verifica per aiutare i giovani a entrare nel mondo del lavoro e offre informazioni relative alle varie facoltà delle 64 Università che hanno aderito al consorzio. AlmaLaurea e Istat, da un’indagine svolta nel 2009, dicono che i laureati in Ingegneria sono coloro che hanno maggiori possibilità occupazionali addirittura a un anno dalla laurea, al secondo posto si classificano i laureati in Chimica farmaceutica, poi quelli in Economia, e in Odontoiatria; i dottori in Medicina e Giurisprudenza impiegano più tempo per entrare nel mondo del lavoro dopo la laurea, in quanto impegnati in corsi di specializzazione e in praticantato. Riguardo all’Università degli Studi di Perugia gli ultimi dati AlmaLaurea risalenti a marzo 2011, relativamente alla facoltà di Giurisprudenza, riportano che i 321 laureati del collettivo selezionato hanno impiegato in media 5,6 anni di studio e di questi già lavora il 36,7%, il 37,4% pensa che la propria laurea sia stata efficace, mentre il 25,2% invece sostiene il contrario. Per quanto riguarda la facoltà di Lettere e Filosofia sono 909 i laureati del collet-
tivo selezionato, il 40.6% lavora, il 37,9 % fa un uso ridotto delle competenze acquisite con la laurea e il 24,8% invece le utilizza in maniera elevata. Ciò che è meglio scegliere non può dirlo nessuno, nemmeno le tante percentuali e dati che sono stati pubblicati, e occorre superare il cliché degli ultimi tempi secondo il quale un laureato in lettere automaticamente sinonimo di “sfigato”. Sarebbe opportuno che ognuno facesse la propria scelta universitaria da solo, ragionata e il più possibile matura, senza troppi condizionamenti; la società dovrebbe dare a ognuno la possibilità di spendere la propria laurea nel miglior modo possibile, senza sprecare intelligenze e conoscenze acquisite da anni di studio. Ostacoli al pieno sviluppo della persona umana. I tagli alla scuola risanano il bilancio ma lasciano ferite anche ai portatori di handicap L’insegnante di sostegno è un insegnante specializzato, istituito con il DPR n. 970/1975 in cui viene definito “docente specialista” e poi la figura è stata ulteriormente definita dalla legge 517/77 in cui veniva ribadito il diritto all’ integrazione dello studente portatore di handicap. Precedentemente la legge 118 del 1971 ha dettato le prime norme che affermano il diritto dei disabili a frequentare le scuole pubbliche, nelle classi normali, sancendo il diritto all’integrazione scolastica, nonostante il tutto fosse già contemplato dalla Costituzione. L’insegnante di sostegno viene affidato alla classe in cui c’è il soggetto portatore di handicap oppure in gravi condizioni di disagio sociale o familiare; questa figura specializzata deve provvedere a che il bambino o il ragazzo realizzino forme di integrazione con il resto della classe, assecondare e sviluppare al meglio le potenzialità di ciascuno, in relazione alle specifiche esigenze del soggetto. Inoltre esso collabora alla realizzazione del “Piano Educativo Individualizzato” in cui viene predisposto un programma da attuare su misura del soggetto portatore di handicap con interventi didattici, terapeutici e educativi. Ma, pag. 19 ahimé, i continui tagli della scuola hanno coinvolto anche questo settore, e ciò getta un’ulteriore ombra nella scuola italiana.
Le ore di sostegno di ragazzi in condizioni di disabilità sono drasticamente diminuite e il più delle volte il precariato degli insegnanti non garantisce loro continuità didattica, che per un soggetto disabile è fondamentale, in quanto spesso i progressi sono determinati da un rapporto di fiducia e affetto con l’insegnante che li accompagna nel loro percorso di apprendimento. Ma un’ulteriore considerazione si rende necessaria, ovvero il precariato generale della scuola mette i docenti nella condizione di “scegliere” l’insegnamento di sostegno, in quanto rappresenta l’unica continuità lavorativa nel mondo della scuola, anche senza la completa convinzione professionale e personale che quest’attività rende necessaria. La mancanza di insegnamento di sostegno fa sì che i ragazzi versanti in condizioni più gravi siano lasciati fuori dalla classe perché disturbano lo svolgimento delle lezioni, a volte stanno nello stanzino dei bidelli, oppure trascorrono l’ora di educazione fisica in classe, per non parlare dei laboratori. A volte sono i genitori che devono coprire i vuoti lasciati dalla scuola, dallo Stato, spesso e volentieri accompagnano i loro figli nei viaggi di istruzione, perché spesso il bus non è attrezzato in modo idoneo, oppure nei congressi o nei progetti perché gli altri insegnanti non si prendono la loro responsabilità. I genitori lottano, si infuriano e fanno ricorsi al Tar e spesso ottengono sentenze per loro favorevoli e che addirittura condannano le condotte discriminatorie. In queste storie di disabilità, dove è il diritto allo studio e all’integrazione?! Articolo 3 comma 2 della Costituzione «E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.»
T’ammiro fresca nelle foto sgranate di ieri gli occhi ingenui e le guance morbide incoscienti del dolore aspettavano la vita con ansia trepidante e mesta allegria
M A RTA
Canto alla mia coraggiosa Abbi cura di te, dolcissima dalla voce chiara e le labbra serrate
Non vedi quanto splendi di degno entusiasmo beffandoti del tempo e delle lacrime? Cara, gentile signora, nata tra un cielo di rocce ed un suolo d’acque, i pasti frugali t’attendevano pronti sulla tavola e tu, solitaria bimba, ti nutrivi di sogni e immaginazione… Mille baci avrei voluto dare alla tua fronte d’infante e mille altri ancora vorrei dartene ora Mia seconda madre Assi di sostegno alla mia crescita si rivelarono la tua pazienza il tatto imparziale la naturale riluttanza per le parole vuote Le tue risa spiritose come le tue spigolose contrarietà t’hanno resa mitica ai miei occhi mai abbastanza grati della tua presenza Degna padrona di casa
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le mani pratiche sono artefici d’incantate gioie di cucina e cucito L’agilità delle ruote d’un’instancabile bicicletta sono le gambe svelte Quercia salda e tenace colonna portante di famiglie troppo distratte, i tuoi rami carichi si volgono al cielo cantando i vivi ricordi la saggezza ammaliante la precisione del quotidiano Dopo mesi di assidue visite Tra i vapori della cucina e le ampie stanze della tua dimora mi scopro lontana lontana da te dai pomeriggi di amorevoli, premurose cure E m’accorgo solo ora, insostituibile nonna, di quanto profondamente mi manchi.
SA N D RO
In volo per Cuba Con un’ora e mezza circa di ritardo sull’orario previsto è infine giunta la chiamata d’imbarco della quale ho avuto notizia, non già dall’altoparlante della sala completamente soffocato dal rumore assordante di un televisore acceso al centro della stessa, ma dalla concitazione con la quale improvvisamente, quasi illuminati da un comando telepatico, tutti i viaggiatori sono scattati in piedi e si sono caoticamente ammassati alla porta di uscita verso il piazzale di decollo. Forte del mio biglietto d’imbarco contrassegnato dal numero di prenotazione 1, mi sono messo compostamente in coda e così sono salito per ultimo sull’aereo fermo al centro della pista. Errore: a Cuba non c’è prenotazione del posto ma ci si siede così come capita quasi all’arrembaggio. Errore veniale, per fortuna, in quanto anche a Cuba almeno non emettono più biglietti d’imbarco rispetto alla capienza di posti seduti dell’aeromobile; quindi ho trovato infine un posto libero e mi sono seduto. La cabina dell’aereo era stipata di tutto: pacchi legati con lo spago, sacchi di iuta, ceste e persino enormi torte di pasticceria dolce senza incarto, tenute in mano dal proprietario per tutto il tempo del viaggio. Quella del trasporto delle torte in mano, senza incarto, è una delle consuetudini più diffuse in ogni angolo dell’isola. E’ frequente infatti vedere uscire dalle profumate pasticcerie aperte e molto attive in tutta l’isola clienti con in mano, o persino sulla testa o sulla spalla, enormi torte decorate dai fantasiosi e vari colori pastello (celeste cielo, rosa confetto, verde pisello, ecc.), che poi vengono trasportate a lungo per le vie cittadine e, come ho potuto personalmente constatare, anche per aereo da una città all’altra. Debbo confessare di non avere mai avuto il coraggio di assaggiare tali torte che, alla vista, sembrano quasi essere finte, per sola mostra, fabbricate di cartapesta e di gesso colorato; so però che loro le mangiano e le apprezzano molto; chissà la prossima volta, un’altra volta, le assaggerò anch’io. Com’era pag. 23 ovvio, la quasi totalità dei viaggiatori cubani aveva trasformato la cabina dell’aereo in una piazza vociante e festosa
dato l’alto tono delle voci e l’abbondare di risate e battute. Una signora seduta nella fila dietro la mia, in particolare, parlava ininterrottamente con tutti quelli che le risultavano a tiro di voce, come una macchinetta, alternando parole a risate dal tono assai alto. Erano chiaramente chiacchiere e risate nervose che lasciavano trasparire la non poca apprensione dei viaggiatori per l’esperienza, forse non molto diffusa, del volo aereo. Cosicché, non appena l’aeromobile si è messo in movimento e dal pavimento della cabina ha iniziato a salire un denso fumo, costituito in verità da nebbia di condensa del sistema di condizionamento, quel vociare e ridere s’è improvvisamente interrotto sopraffatto da un silenzio assordante come il rombo delle turbine dei tre reattori in accelerazione. Poi il vociare, questa volta in tono quasi isterico, è di nuovo ripreso interamente incentrato sulla giusta preoccupazione generata dal quella coltre di fumo che si andava diffondendo sul pavimento della cabina; ad un certo punto il comandante del volo, con un forte e ripetuto messaggio dagli altoparlanti della cabina, ha dovuto rassicurare i passeggeri sulla natura e sulla “normalità” di quelle emissioni gassose, invitandoli alla calma e, di più, alla fiducia(!). La calma è tornata, la fiducia onestamente non lo so a guardare i volti stirati dei passeggeri più vicini, quasi paralizzati nella istantanea di un sorriso congelato. L’aereo ha iniziato a rullare sulla pista, ha raggiunto il punto di partenza, ha alzato al massimo il rumore dei motori ed ha iniziato la sua corsa per il decollo. In quello stesso momento l’emissione di fumo si è decuplicata e nei pochi istanti dello stacco dal suolo la cabina dei passeggeri è stata interamente invasa dal gas di condizionamento sino ad impedire la vista persino del sedile di fronte al proprio. Questo fatto mi ha impedito di vedere le nuove espressioni che indubbiamente si erano andate formando sui volti dei miei vicini in quel frangente preannunziato, ma non certo previsto con quelle dimensioni assolute; il gelo termico diffuso dal gas del condizionamento era accompagnato da un gelo di voci e persino di respiri che ben trasmetteva il clima psicologico che mi
circondava. Per fortuna non appena in volo il gas si è disciolto con la stessa improvvisa rapidità con cui si era formato e quindi la trasvolata si è svolta serenamente e senza ulteriori sorprese, avvolta nel buio della fonda notte caraibica. Lo sbarco ha visto ripetere le stesse scene di assalto della salita, ma oramai si era a terra, per qualcuno a casa, per altri, come me, in attesa del prossimo volo … certamente con un mezzo di trasporto più moderno ed affidabile. Nella sua immensa misericordia C’era una volta un re di un popolo, tanto pio e obbediente da essere stato “eletto” dal suo Signore e Creatore. Il re però non riusciva ad avere un figlio maschio (le femmine ovviamente non contavano) per dare la successione al suo trono. Il re si chiamava Abramo, la moglie legittima ma sterile (almeno quanto a figli maschi, di femmine non se ne sa nulla) si chiamava Rebecca. Nonostante le infinite suppliche, atti di contrizione e sacrifici al Dio onnipotente il problema non si sbloccava, gli anni passavano, la successione era in pericolo. Come si usava allora (solo all’allora?) venne concessa una deroga: il re venne autorizzato a utilizzare una serva per farsi produrre il necessario erede maschio. La serva si chiamava Sara, il prodotto che ne nacque venne chiamato Ismaele, erede al trono di Israele. Colpo di scena inatteso, la oramai vecchia Rebecca resta incinta e partorisce finalmente il maschio legittimo che venne chiamato Isacco. Che fare del bastardo Ismaele e della madre serva? Com’era usanza di allora (solo di allora?) ambedue, oggi si direbbe “vacca e vitello”, vennero cacciati dalla tribù e mandati a morire di fame e sete nel deserto. Ma ecco che Dio nella sua immensa misericordia manda in soccorso ai due reietti un angelo che li salva e promette a Sara che il figlio, persa l’aspettativa del trono di Israele, avrebbe comunque dato vita a una grande nuova stirpe, quella degli arabi. A questo punto ci si aspetterebbe la solita conclusione: e tutti vissero felici e contenti pag. 25 (più o meno). E invece no! Ecco che il buon Dio ha un altro bel regalo in serbo per Abramo e per il suo popolo eletto: il
padre deve sacrificare la vita del figlio lungamente atteso alla gloria del Creatore. Il pio e docile Abramo obbedisce (non è detto se con animo grato o con qualche “rodimento” interiore), porta il figlio Isacco in cima a un monte, ovviamente sacro, e prepara il barbecue per la gloria del Signore. Ma il Signore, sempre nella sua immensa misericordia, ha in serbo ancora un colpo di teatro, al momento dello sgozzamento al posto di Isacco compare un agnello, che è pur sempre figlio di qualcuno ma non creato a immagine e somiglianza del suo Dio. Padre e figlio, dopo avere mangiato l’arrosto divino, se ne tornano a casa e finalmente tutti vissero felici e contenti (ma mica per tanto...). Direbbe a questo punto il ragionier Fantozzi: “Come è buono Lei!” Il muro Da qualche giorno avevo iniziato a riflettere su quell’argomento, discutendone e dibattendone con un immaginario interlocutore in verità così diverso dall’immaginario dall’avere sempre contorni precisi e ben delineati, quasi una vera presenza fisica, anche se frequentemente mutevole nello stesso corso del ragionamento ad ogni sua occasionale interruzione e ripresa. Ci ragionavo da tempo e quella sera, sul balcone di una camera d’albergo di quella terra lontanissima, decisi di fissare sulla carta i miei pensieri per ricercarne un ordine ed una coerenza logica. Prima di iniziare a scrivere, però, mi guardai attorno ancora una volta, quasi per dare un contesto concreto ed attuale a quelle mie riflessioni. In quel momento mi resi conto della presenza di un muro che, alto e cieco di fronte al mio sguardo, mi sovrastava fisicamente e, a quel punto, anche mentalmente. Il balcone, piccolo e stretto, sul quale si trovavano due piccole sdraie di plastica e tela che si fronteggiavano divise da un ancor più piccolo tavolino, era chiuso sui due lati corti da pareti in muratura piena, una molto più lunga dello sbalzo del balcone. Seduto sulla sdraia di destra mi trovavo a fronteggiare il muro più lungo che, impedendomi la veduta verso occidente, mi soprastava di diversi piani, così creando un senso
d’oppressione che comprometteva la veduta dell’oceano ancora illuminato dal sole al lento tramonto. Mentre riflettevo sulla presenza opprimente di quel muro cieco e alto, ho girato un poco la testa alle mie spalle, notando che da quella parte, invece, il muro finiva al limite esatto dello sbalzo del balcone. L’albergo, disposto lungo il fronte dell’oceano, aveva una struttura “a gradini” ed il mio era il primo balcone del gradino arretrato. Nessun ostacolo alla veduta, nessun muro incombente, dunque, dal lato opposto alle mie spalle. Sarebbe bastato cambiare sdraia, dare le spalle al muro più avanzato e così guadagnare la veduta incontrastata dell’oceano sino alla curvatura visibilissima dell’orizzonte marino. Mi venne da sorridere apertamente benché fossi da solo, considerando la banalità di quel senso di oppressione che poco prima aveva bloccato il mio impulso di scrittore. Abbandonandomi a una debolezza filosofica, che sovente dilaga nelle ore del tramonto, considerai che molto spesso i muri che ci troviamo di fronte nella vita sono solo il frutto di un errore di prospettiva, di un angolazione sbagliata dello sguardo o dell’approccio. A volte basterebbe ruotare la testa, cambiare sedia o angolo di veduta e allora tanti muri, veri o immaginari, perderebbero in un attimo la loro imponenza e lo sguardo si aprirebbe verso diversi orizzonti e soluzioni già pronte, a portata di vista e mano, solo a volerle e saperle vedere. Prima però di darmi definitivamente dello stupido per il clamoroso errore nella scelta della sdraia, mi soffermai ancora un attimo a riflettere più a fondo sulla situazione. Il muro più grande ed opprimente era in effetti disposto verso ovest, verso cioè la direzione in cui stava tramontando il sole e così impediva proprio la veduta di uno spettacolo naturale tra i più emozionanti, quello del lentissimo tramonto sino alla totale, quasi improvvisa, scomparsa in mare del sole che, a quelle latitudini e nell’orizzonte curvilineo di un oceano infinito, assume l’immagine di una palla di fuoco rosso incendiato che quasi si spegne, con pag. 27 un’ultima fiammata violenta e brusca, precipitando nel mare. Accreditandomi a quel punto di un istinto primigenio,
giustificai in quel modo la scelta inconscia della sdraia di destra condizionata dal non casuale orientamento verso il tramonto del sole. Intanto, però, il sole non c’era più, la luce con l’ultima fiammata, oscurata tuttavia alla mia vista da quel muro alto e lungo, d’improvviso era venuta meno, ed era perciò impossibile scrivere. Decisi quindi di rinviare a domani, o a un generico domani, il progetto di scrittura appena concepito. Nella penombra debolmente rischiarata dalle luci dell’albergo che si andavano via via accendendo, c’era però ancora la possibilità di “incendiare” e fumare una sigaretta, restando pur sempre seduto sulla stessa sdraia “dell’istinto”.
FAUST O
Il linguaggio di ognuno Una lingua è solitamente sia scritta che parlata. La sua distinzione, ai fini della comunicazione, potrebbe apparire non molto significativa, ma in effetti è immensa. Precisiamo subito che una frase orale è unica e irripetibile e può rivestire più significati a seconda di molteplici variabili. La lingua orale usa l'intonazione della voce, le pause, i cambi di volume ed è accompagnata dai gesti, dall'espressione del viso e dal contesto. La lingua scritta (pur nella sua infinita ricchezza) può utilizzare solo la punteggiatura o altri sistemi grafici (sottolineatura, grassetto, ecc.). Le parole, anche se volano, una volta pronunciate non possono essere più ritirate (pensa prima di parlare); se scrivo, le parole, anche se rimangono, possono essere modificate fino al momento effettivo dell'invio della comunicazione. Sono solo alcune e forse neppure le principali differenze quelle da me citate, ma è sufficiente riflettere per trovare ulteriori spunti: distanza o vicinanza degli interlocutori, contesto comune della comunicazione che consente di sottintendere un'infinità di cose che viceversa vanno precisate se la comunicazione è scritta. Nella lingua parlata un modesto 30% delle parole che formuliamo vengono utilizzate per la comunicazione e la comprensione, mentre il 70% viene trasmesso da come lo diciamo, dal contesto, da posture fisiche e da quello che abbiamo già elaborato mentalmente o ci aspettiamo di sentire. Se il marito torna a casa alle quattro di notte e la moglie gli domanda, sai che ore sono? Tutto vorrà rappresentare la domanda tranne che sapere l'ora, ma: dove sei stato? Che hai combinato? Sentiti in colpa! E quante volte è accaduto che davanti ad un'aspettativa di un no alla nostra domanda l'interlocutore abbia dovuto ripetere più volte: guarda che sono d'accordo con te! Che hai capito? Ti ho detto si! Ogni parlante trascina una modalità che ne denuncia la provenienza anche parlando un italiano formale, che identifica e invia messaggi che, anche se inconsapevolmente, riceviamo ed elabo- pag. 29 riamo. Quando si ascolta un'inflessione della lingua non propria, scattano meccanismi automatici: non è delle mie
parti, non ha le mie abitudini, consuetudini, gusti alimentari... è necessario che mi metta sulla difensiva oppure? In Umbria, sicuramente una delle regioni più piccole per popolazione ed estensione, è bastato un fiume (neppure tanto grande), il Tevere, per creare due aree linguistiche molto diverse. Noi folignati riconosciamo un perugino dopo poche parole, come i perugini riconoscono subito l'appartenenza ad un'area geografica che va da Foligno a Terni. Sono considerazioni, senza la presunzione di uno studio o taglio scientifico (è inimmaginabile la mole di testi sull'argomento). Sono semplici riflessioni che ognuno di noi avverte e non si è mai soffermato a valutare.
Avrei voluto da Gocce di cristallo. Poesie d’amore) Avrei voluto spezzare con le mani le fredde ali della morte. Avrei voluto soffiare sul tuo corpo l’alito caldo del mio amore. Avrei voluto stringerti forte fino a farti male e parlarti di cose che non dissi mai Ma ho potuto farti dono solo delle mie lacrime unici gioielli caldi sul tuo corpo
M A RI A PA OL A
Tramonto (da Gocce di cristallo. Poesie d’amore) Filari di luce corrono lungo le chiome verdi e dai rami carichi scendono grappoli dorati di sogni: frutti spremuti acini rinsecchiti che s’ammucchiano ai piedi dell’albero copiosi… baciati soltanto dall’ultimo pallido raggio di luce d’un triste ed uguale tramonto d’Autunno.
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freddo e rassegnato. A mia sorella Sono come un fiume in secca: non ho più lacrime né parole né emozioni. Una pietra al posto del cuore, e la luna ha soffiato l’argento sui miei capelli. La mia anima intirizzita e stanca aspetta il Sole.
PA RI D E
L’same di matematica «Hai preso la merenda?» le gridava dietro la mamma, mentre l’accompagnava al calesse. Era tutto un vociare di ragazzi e di mamme, che si accalcavano nella piccola piazza del paese. Le mamme, tutte vestite di nero, con il fazzoletto sulla testa, i bambini, con i vestiti della festa, che lasciavano intuire la povertà, i sacrifici, che quel momento significava per le povere famiglie. Era giugno, giugno 1914, l’alba. Il calesse aspettava nella piazza. Una piccola piazza, di forma quadrata, dominata dalla facciata della chiesa di Sant'Antonio. Sulla sinistra un piccolo negozio, una merceria, al cui fianco si apriva un arco, che immetteva sulla riva del fiume. Ancora più a destra un ponte in pietra, sorretto da un ampio arco; anche la strada che lo percorreva era arcuata, a dorso di mulo. Gli altri due lati della piazza erano delimitati da case; in particolare il lato sinistro era occupato da un alto palazzo signorile, abitato dalla famiglia più ricca del paese; accanto ad esso c’erano case, molto più basse e dimesse. Case di gente povera, a due piani. La prima aveva un arco che dava sulla strada, con un ampio portone, sempre aperto, all’interno un perenne rumore di telai che tessevano tappeti di lana spessa e colorata. L’anima della bottega era la Tombolina, una donna anziana, bassa e grassa, con una parlantina a mitragliatrice, praticamente incomprensibile. Il portone accanto si apriva su scalette ripide, salite le quali si sostava su un piccolo pianerottolo, su cui si aprivano tre porte. A destra era l’appartamento del maestra Emirene, la porta di fronte portava alle scale per il secondo piano; a sinistra si apriva la grande cucina della famiglia Bischi. Una cucina un po’ buia, con un grande camino sulla parete di fronte, a sinistra una finestra che dava sulla piazza, subito a sinistra rispetto alla porta di ingresso la grande madia di legno chiaro, dentro la quale veniva messo a lievitare il pane. La parete di destra dava su una camera da letto, al fianco della quale si apriva la porta e il corridoio che portava sul retro della casa, verso il monte, dove su un piccolo spiazzo c’era un forno, lì proprio sotto il pag. 33 monte scosceso. Era il forno del paese, sempre aperto, giorno e notte, il giorno per i pochi clienti, la notte per i componenti
della famiglia che vi lavoravano. Questa descrizione riguarda un periodo molto successivo all’avvenimento che sto per raccontare, circa 45 anni dopo. Torniamo al giugno 1914, la bambina che era uscita dalla porta del forno aveva 10 anni, si chiamava Melania, era la penultima di nove figli, sette maschi e due femmine, l’unica vivente delle sorelle, dato che l’altra era morta in tenera età. Era una bambina vivace, volitiva, quasi caparbia, che si faceva rispettare anche dagli altri sette fratelli. Le piaceva studiare, e quella mattina, finalmente era giunto il gran giorno. Finita la quinta elementare si partiva per andare nel paese vicino e sostenere gli esami. Con lei c’erano altri bambini, tutti eccitati, con il libro su cui avevano studiato, il pranzo al sacco, le scarpe consumate, ma pulite, passate loro dai fratelli più grandi. La bambina corse felice, eccitata verso il calesse, seguita dalla mamma e dalla maestra. Si accomodò sul sedile posteriore, insieme ad altre bambine, tra cui la Tombolina. I ragazzi sedevano sul sedile di fronte, in mezzo, poi, quasi a dividerli, l’insegnate. La mamma le ravviò i capelli lunghi e neri, raccolti dietro la nuca. La baciò sulla fronte, mentre le sussurrava le ultime raccomandazioni. La Melania la guardò negli occhi mentre un tenero sorriso le disegnava le labbra, come per rassicurarla. Il carro trainato da due muli, lentamente si mosse, tra lo stridio delle ruote sulla breccia della strada. Lentamente percorse la salita del ponte, poi girò a destra lungo il fiume, tra i tigli fioriti. Le mamme rimaste per qualche attimo sulla piazza, ormai vuota, tornarono alle loro case, agli abituali lavori. La strada era lunga, circa 15 chilometri, i ragazzi prima chiassosi, mano mano che passava il tempo divenivano più silenziosi. La maestra dava gli ultimi suggerimenti “mi raccomando Melania, tu mettiti al centro dell’aula e cerca di aiutare i compagni”. Sì, lei lo sapeva che in “matematica” era la più brava, in italiano no, ma in matematica! Sì, avrebbe fatto come diceva la maestra. Arrivarono alle 8 del mattino, in una scuola grande come non l’avevano mai vista, con grandi aule spoglie. Sulle pareti grandi carte geografiche, il crocefisso, il ritratto del Re. I banchi erano disposti a file di tre. Come prestabilito la Melania si sedette al centro, con intorno gli altri ragazzi. La penna
di legno, con un bel pennino nuovo, la boccetta dell'inchiostro davanti a sé; il bel foglio di carta a quadretti spiegato sul banco. I due maestri della commissione in piedi davanti alla lavagna, dopo aver intimato il silenzio, cominciarono a scrivere il testo del problema di matematica che gli alunni dovevano risolve. Appena finito scrivere si voltarono, verso i ragazzi, che faticosamente stavano trascrivendo il testo. Passarono pochissimi minuti, ed ecco una bambina, vestita di nero, con i capelli scuri, raccolti dietro la nuca, seduta al centro dell'aula, si alzò, avviandosi verso la scrivania. “Dove vai bambina, devi risolvere il problema” gli disse il maestro... “Ho finito “ rispose lei. “Non è possibile, così presto! Fammi vedere”. Il maestro prese il foglio in mano, e rimase di stucco nel vedere il problema perfettamente risolto in così poco tempo... La bambina tornò al suo posto, ed occupò il resto del tempo ad passare il compito ai compagni meno dotati. Quante volte ho sentito questa storia, raccontata dalla protagonista, la Zia Melania. Quante volte l'ho ascoltato fino in fondo, con piacere, immaginando come poteva essere l'ambientazione di questi avvenimenti, svoltisi in un paesino di montagna, circa un secolo fa, in un paese dove fino a 50 anni fa si parlava un dialetto difficilmente comprensibile. Io e i miei figli, malgrado conoscessimo perfettamente la storia, sempre seguivamo il racconto in silenzio e con piacere, seduti di fronte alla Zia ormai centenaria. 60 anni È successo, sembrava impossibile ma è successo! Questa mattina mi sono svegliato, come tutti gli altri giorni, ho fatto colazione , mi sono custodito, ma ecco, il cellulare comincia a emettere il suono del “messaggio ricevuto”, una, due, tre... volte. Apro i messaggi, il ritornello è sempre lo stesso… tanti cari auguri. È successo, oggi, ho compiuto 60 anni. Sessanta anni, non è possibile. Io, che ancora inconsciamente, mi immagino un ragazzo, timido, insicuro, sempre pronto a ricevere i suggerimenti dei più grandi, ...60 anni. Mi guardo allo specchio, pag. 35 vedo un uomo, abbastanza ben mantenuto, con i capelli bianchi, lo sguardo interrogativo, si sono io. Quando compii 40 an-
ni pensai “sono un uomo”, quando compii i 50 anni “sono un uomo arrivato”, e adesso ai 60 che devo pensare, “l’inizio della vecchiaia”, “gli anni dell’abbandono (lavoro)”, “gli anni del declino (fisico)”? No mi rifiuto. Come potremmo definirli… ”gli anni della consapevolezza, gli anni da dedicare a se stesso, gli anni della seconda giovinezza”! Vedremo. Dunque che fare? Chiudersi in una stanza al buio e disperarsi per il tempo che passa? Fare finta di niente; come se nulla fosse successo; andare in giro per la strada cercando di indovinare gli anni degli altri dai capelli, le rughe, le pance, le chiappe cadenti? Nulla di tutto ciò. Festa! Una bella festa di compleanno, non invitando i soliti quattro amici con cui ci si vede tutto l'anno. No, una bella festa invitando più o meno tutti coloro (poi senza dubbio ne ho dimenticati alcuni) che in questi anni mi hanno accompagnato. Quindi tutti quelli che se uno ti chiede: conosci il Tale, potresti rispondere, si è un amico. Che c'entra, un AMICO è qualcosa di diverso, è quello che ti conosce bene, che conosce i tuoi difetti, che ti vuole bene per questo. Gli AMICI non possono essere tanti, due, tre, quattro, basta. Ad un AMICO perdoni tutto, le idee, i comportamenti, le stramberie... Pensa, ho un AMICO che adesso nel 2011 è ancora comunista, ma non comunista illuminato, ma legato ancora agli anni 50, uno stalinista; per lui la caduta del muro di Berlino è stata una delle nefandezze della storia, Pol Pot è stato un esempio, l'invasione dell'Ungheria e della Cecoslovacchia una necessità. Abbiamo sempre litigato per queste idee, e sempre litigheremo, ma è un AMICO, allora... collaboro ad un giornale da lui pubblicato, un giornale comunista stalinista. Che si fa per un AMICO! Torniamo a noi. Quanti sono gli amici di un uomo? Sono fortunato, io ne ho tanti. Ho fatto un elenco... forse cento. Certo non posso invitarli tutti, ma una buona parte, i più vicini (nel senso della residenza) sì. Saremo circa ottanta. Ci sono amici che ho conosciuto all'asilo (Marco), altri all'elementari (Carlo); altri alle medie, liceo ecc... alcuni che bazzico settimanalmente, altri più raramente. Durante la festa mi piacerebbe fare un bel discorso, sì un discorso come quelli che si vedono nei film. Un discorso serio; mi ci vedo, io in piedi, davanti a tutti che mi stan-
no a sentire, seri, ma contenti. Un discorso sull'amicizia, sui momenti che negli anni abbiamo vissuto insieme, io con ciascuno di loro. Come al Giro d'Italia, i corridori partono insieme, poi ogni tanto uno si stacca, ma la mattina dopo sono tutti di nuovo tutti insieme. Si vorrei ringraziare tutti i miei compagni si strada, tutti coloro che negli anni hanno saputo trasformare la mia vita. Che sarebbe la vita senza gli altri, non sarebbe vita, sarebbe un trascinarsi di giorno in giorno in attesa della fine. Invece la condivisione dei problemi, dei momenti, degli interessi, delle vacanze, dell'attività sportiva questo è il sale della vita. Mi ci vedo con un bicchiere in mano in piedi tra di loro. Un breve ricordo di chi non c'è più, delle persone più care, di coloro che ogni volta che ci pensi ti viene un groppo alla gola. Due parole anche per loro, sperando che la voce non venga strozzata dall'emozione. Due parole per Antonio un parente/AMICO che ci ha lasciato pochi mesi fa, sicuro che se fosse stato alla festa, avrebbe apprezzato la compagnia e il mangiare. Due parole per i figli, sempre al centro dei miei pensieri. Due parole per mia moglie, che da oltre 43 anni mi sopporta e... Un bel brindisi e il discorso si chiude con un applauso e un tintinnare di bicchieri. Questo è il discorso che avrei voluto fare, ma che non farò mai, data la mia riservatezza, e un senso di pudore, che mi impedisce di esternare come vorrei i miei sentimenti. Chissà perché è così difficile dire cose belle, mentre a volte è facile dirne di brutte. Diceva la zia Melania, morta a 101 anni, “la vita è come un battere di ciglia, quando le riapri è già finita”. Forse aveva ragione, mi sembra ieri che stavo sui banchi di scuola, mi sembra ieri che tornavo a casa dai genitori, con quella sensazione di tornare in un porto sicuro, mi sembra ieri che mi sono laureato, che mi sono nati i figli, ecc. A me piacciono molto le fotografie, da sempre; ho il computer intasato da migliaia di foto, spesso mi piace cliccando sulla tastiera rivedere volti antichi, situazioni famigliari. È una magia vedere gli amici li sullo schermo eternamente giovani, i genitori eleganti mentre si recano al veglione, i figli che giocano al ma- pag. 37 re, la moglie giovane, bella, sinuosa, desiderabile. Si è veramente bello, è una illusione meravigliosa. Sessanta anni... che ci ri-
serverà il futuro? Bando alla malinconia, anche se la festa in parte è stata rovinata dalla pioggia, non ci importa, che gli anni che ci restano siano come una festa, con buon cibo, buon vino, buona conversazione. Sempre con il sorriso, la voglia di stare insieme. E quando sarà il momento dell'ultimo brindisi, leviamo in alto i bicchieri, e con un sorriso guardiamoci negli occhi per l'ultima volta, abbracciamoci, così che il calore che ci trasmetteremo ci riscaldi il cuore, e ci convinca di non aver vissuto inutilmente, perché saremo stati capaci di amare.
Un finale lo percepisci lievemente ma mai lo affronti cosciente. Ecco, non puoi assolutamente mai aspettare una fine.
I A C OPO
Vacche Gente magra in un mondo grasso grassissimo, gente falsa e il mondo è vero.
Apri gli occhi amore mio perché la gente muore con gli occhi chiusi. Di notte Egoisticamente partirei per non tornare più e nel buio lasciare il buio. Tralasciando molte cose senza saluti né accortezze lascerei questi deserti e questi oceani. Lascerei le rose i cieli muti e le carezze per non dimenticarle. Soprattutto quelle. Lascerei tutto come si trova
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la mia debolezza nell’armadio le scarpe sotto il letto di notte.
M A RI A
La solitudine dei numeri primi Durante un piovoso pomeriggio di mare, gironzolando per un piccolo paesino sardo, mi sono imbattuta in una libreria. Non uno di quei supermarket del libro a cui siamo abituati, no, ma una piccola ed accogliente libreria in cui girare fino a che il prossimo libro non ti sceglie. Già, perché non vorremmo certo dire che una libreria è come un negozio qualunque... c’è una magia strana lì, qualcosa che guida verso il prossimo viaggio. Questa volta mi ha scelto un libro di cui avevo sentito molto parlare, La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano. Già il titolo ci introduce in un mondo di profonda incomprensione e isolamento, attraverso la presentazione di numeri speciali, i numeri primi gemelli. Si tratta di numeri primi, divisibili solo per se stessi e per uno, che hanno un’altra ulteriore caratteristica, sono separati da un unico numero, vicini e al tempo stesso intoccabili, come i protagonisti di questo romanzo. Mattia e Alice sono due persone speciali che viaggiano sullo stesso binario ma destinati a non incontrarsi mai. Sono due universi implosi, incapaci di aprirsi al mondo che li circonda, di comunicare i pensieri e i sentimenti che affollano i loro abissi. La causa è un’infanzia compromessa da un evento drammatico che si trascina nel tempo rendendo difficili le loro fragili esistenze. Alice, rimasta drammaticamente segnata da un incidente subito da piccola e di cui incolpa il padre, e Mattia, al quale il caso ha incredibilmente portato via la sorella gemella, vivono la consapevolezza di essere diversi dagli altri. Questo non fa che accrescere le barriere che li separano dal mondo fino a portarli a un isolamento atroce, e neanche l’incrociarsi delle loro vite e il filo invisibile che li lega riesce a salvarli. Il tono del romanzo sale e l’emozione diventa sempre più palpabile non appena ci si inoltra nel racconto e nelle vite dei protagonisti. La solitudine dei numeri primi è un'opera delicata e terribile allo stesso tempo in cui emergono due protagonisti imperfetti e marginali lontani dai lo- pag. 41 ro coetanei così concentrati su frivolezze, che su Alice e Mattia scivolano invece inesorabilmente. I turbamenti e le
cicatrici, i fallimenti e l'incapacità di vivere quelli che normalmente sono considerati successi, l’incomunicabilità che inevitabilmente mina il rapporto tra i figli che diventano adulti e i loro genitori sono i cardini di questo romanzo. Con il suo libro d’esordio lo scrittore guarda verso una parte della società troppo spesso nascosta e tralasciata, esplorando la vita di questi ragazzi speciali e così deboli. Si tratta di un romanzo meraviglioso, toccante e profondo, che ci porta a vivere fino in fondo il dolore e a riflettere sull’immensa solitudine e incapacità di vivere nel mondo moderno, così pieno di stimoli e possibilità quanto altrettanto privo di verità e amore.
M A RI A SA RA
Uno rispetto all’infinito Gli orizzonti speculari e paralleli della nascita e della morte si dividono tra loro le rappresentazioni di tutte le umane paure. Infatti la prima è vista come paradossalmente oscura, informe, avvolta in superstizioni inestricabili, ingabbiata per sempre nel corpo altrettanto oscuro, potente e pericoloso, della donna; la seconda è considerata invece quasi familiare, abitata da personaggi mitologici e da figure care che nella morte non hanno perduto la propria umanità, in grado all’occorrenza di tornare a mescolarsi con il mondo dei vivi, di ascoltare suppliche e raccogliere offerte. In mezzo, la scienza tenta come può di fare “da pacere”. Una domanda da sola contiene tutte le nostre incertezze: cos’è la vita? Poiché chi scrive, come accade ad altri, non è in grado di dare a tale essenziale quesito né una risposta scientifica, né una filosofica, in queste righe ne verrà ricercata una simbolica, basata su risorse e vissuti personali. Potremmo immaginare la vita come una luce, un fuoco, secondo i culti antichi (inizialmente matriarcali, poi patriarcali), come una sostanza inusuale dotata di sorprendenti facoltà. Le sue espressioni possono essere uniche, eppure esemplari, e nessuna di essa può essere considerata un’eccezione. Si dice che ci sia vita quando c’è movimento, consumo energetico, calore, una piccola luce della ragione già accesa. Tuttavia, quando un bambino nasce, così riporta il Piccolo Midrachim (O. Rank, Il trauma della nascita), un angelo lo colpisce sotto il naso e gli spegne la luce che arde sopra la sua testa. Il bambino quindi, inconsciamente, piangerà a dirotto la sua perdita forzata: da quell’istante in poi la vita dovrà essere inseguita, imparata tutta da capo girando in tondo come fa la Terra che, circondata dal buio più denso, sembra danzare solo per se stessa. Ogni bambino è stato formato e fatto nascere senza tener conto della pag. 43 sua volontà, “chiuso dentro”, nella propria pelle e nel ventre di sua madre, “a chiavistello”, quindi alla nascita piangerà solo per se stesso. Egli non è e non rimarrà altri
che se stesso, immodificabile da chiunque, nel carattere e nella sostanza; d‘altra parte la vita non si crea, esiste soltanto, e forse è sempre esistita. Quel bambino appena nato, una luce isolata, indipendente dal buio che lo ha partorito, assumerà su di sé una nuova vita. K. Kerényi (Dioniso, Adelphi) si è trovato ad affermare che la moderna biologia dovrebbe più correttamente definirsi zoologia: esiste infatti la vita intellegibile, simile a un mimo, chiara e definita, che abbina a un proprio essere una morte “propria”: la bìos. Poi esiste la Vita, quella che per definizione non può cessare d’esistere, sia concettualmente che di fatto, la vita che si identifica col termine anima e ad esso si sovrappone: la zoé. Per quanto la scienza dei divieti e delle assoluzioni cerchi di travasare un po’ di zoé nella bìos, noi esseri umani non potremo mai arrivare a possedere la vita vera: su questo punto il nostro libero arbitrio diventa soltanto libera immaginazione. La forza della zoé è ancora sconosciuta, essa interviene sconvolgendo ciò che noi riteniamo essere la nostra natura, sovvertendo i nostri ritmi, incontrollabile come il calore del fuoco, come il fuoco veicolo di conoscenza. La vita così intesa non può far altro che scottare, accecare, disturbare, inebriare. Essa completa il nostro esserci, e non può essere paragonata alla bìos. Comprendere la vita ci costringe a un nuovo linguaggio, privato del corpo della donna nella sua rassicurante profondità e dispiegato invece su molte superfici tecnologiche e sterili, partorite, piuttosto che dalla mitica costola di Adamo, dal suo intelletto. Ormai lo sappiamo, la vita non è più solo movimento, essa può avere solo l’apparenza del nascere. Un bambino (mi riferisco a prima dell’avvento delle moderne tecniche diagnostiche) può essere formato, almeno all’esterno, arrivare al nono mese di gravidanza e indurre le doglie del parto, eppure nascere morto, o meglio, a dispetto della vitalità delle sue cellule, non essere mai stato vivo. Ancora: un feto che, a seguito della morte della madre, si trovi a migrare nelle vicinanze di un qualsiasi tessuto ne
assimilerà la fattezza, divenendo per esempio osso. Sembra proprio che la bìos possa essere modellata come un qualsiasi materiale. Ma la vita non è certo una materia prima pregiata o un atto segreto, i nostri corpi non sono cave estrattive di cui Altri decidono l’apertura e la chiusura. A cosa servirà quel materiale, la cui unicità viene forzosamente dilatata e strattonata da un capo all’altro della terra, quel materiale divenuto ormai luogo pubblico, se non a trasformare gli emblemi della vita che conosciamo in idoli (B. Duden, Il corpo della donna come luogo pubblico. Sull‘abuso del concetto di vita)? Io credo che sia lecito, per quanto doloroso, “aggirare” il corpo materno allo scopo di dare allo stesso più voce, di aprire una porta, scomoda e imperfetta senza dubbio, per permetterle di ospitare dentro di sé una vita da amare. Avere la pretesa di impadronirsi del corpo della donna “dal di dentro”, invece, è semplicemente inaccettabile. Così come è impensabile l’idea che siano le nostre “celluline speciali”, i nostri idoli divisi in tante parti anatomiche, la sola origine della vita. La vita non ci appartiene, sfugge al nostro controllo, noi non siamo in grado di trattenerla, è lei a sceglierci. Essa ci passa solo attraverso: è consustanziale al nostro desiderio, un desiderio che ha già in sé una preghiera esaudita; l’anima in noi s’impiglia e basta, finché qualcosa di traumatico non la costringe a tornare libera. La vita non è nel nostro genoma, nei nostri tentativi d’interpretazione della conoscenza: sta tutta nel nostro desiderio di vederla nascere e maturare. La vita è un frutto, il frutto di una grande vite a cui vengono periodicamente staccati dei germogli, affinché non dia tralci sterili ma fruttifichi. Troppo spesso la nostra esistenza, accumunata in questo a quella di Dio, è qualcosa che, come diceva M. Seta nel ‘49, può avere una sola possibilità rispetto all’infinito. Mentre “a priori” ha tutte le possibilità di esistere, e quindi non c’è ragione di credere che non esista, “a posteriori” pag. 45 ha una sola probabilità di esserci rispetto all’infinito. La vita non proviene da noi, dunque è una “benedizione”, un
atto d’amore che per compiersi utilizzerà tutti i mezzi possibili e non. Forse l’unica cosa da fare di fronte a pratiche mediche che non condividiamo, eppure coraggiose e generose, di fronte a genitori e figli che non conosciamo, non è ostacolarne il percorso con precetti crudeli, ma usare, per esempio, la formula dubitativa con cui le infermiere, dopo la prima guerra mondiale e fino agli anni ‘50, a modo loro “benedicevano”, cioè spruzzavano con l’acqua, i feti di cui era incerta non solo l’origine e la natura, ma anche la fine: “Se sei un uomo…”. Il compito di riconoscere socialmente il prodotto del concepimento, dunque, era tornato ad essere gestito, magari non dalla madre, ma pur sempre da una donna. Chissà se rimettersi nelle mani di ogni donna non sia, anche adesso che il loro diritto alla procreazione viene rimesso in gioco nei tribunali, quella nostra unica possibilità rispetto all’infinito. Sollievo «Roma è bellissima, somiglia a te: Roma somiglia a te»; le parole di una signora al telefono rompono l’aria rarefatta della sera, e la sera, da parte sua, sobbalza insieme al treno, come presa da un eccesso di singhiozzo. A dire il vero non riesco a immaginare le fattezze o il carattere di una persona capace d’incarnare da sola l’intera Capitale dalla quale sto tornando, tuttavia non posso fare a meno di credere sulla parola alla signora in questione…sono sicura del fatto che una persona bella tanto quanto Roma da qualche parte debba pur esistere, o altrettanto saggia, e il pensare che magari ne esistano più d’una rende un po’ felice anche me. Tutta la bellezza del mondo non può entrare per intero dentro la spaziosa Roma, ma dentro una persona per fortuna si. Gli esseri umani sono assimilabili a delle scatole magiche d’incredibile fattura: visti da fuori hanno degli spazi ben definiti, eppure non esiste nulla di abbastanza grande da non poter essere “messo in salvo” al loro interno. Tutto ciò che è stato e che non è stato può essere racchiuso in un pugno della stessa grandezza di
un cuore. È come se le persone di valore, passando in modo solo apparentemente casuale, lasciassero dietro di loro un’infinità di gesti, di volontà, di nostalgie, di respiri, che si separano dal corpo come fiori recisi e che restano lungo la strada percorsa, trasformandosi poi in sospiri di sollievo quando un dettaglio ci sorprende, quando una notizia di bellezza ci sfiora. Tutto quello che custodiamo dentro si riversa su una superficie più ampia, diradandosi senza mai disperdersi. La persona a cui mi capita di pensare più spesso invece somiglia a un bouquet di rose rosse. Le rose sono fatte di una gentilezza acuta e autoironica e il rosso incarna al meglio il colore vivo di tutto ciò che lei amava. Con quelle rose si potrebbero ancora costruire sogni imponenti come dei monumenti romani, anche se molto più leggeri. «Costruire, edificare implica necessariamente un sacrificio: I bambini giocano spontaneamente coi mattoncini o le scatole di fiammiferi, con le tessere del domino o i cartoni, costruiscono gli edifici più alti che possono. E se li osservassimo di nascosto li sorprenderemmo a sistemare sulla pietra più alta un fiore che hanno raccolto, un ramoscello o quello che ritengono più significativo: un oggetto, insomma, a cui tengono o che ha per loro un significato speciale. Ossia stanno facendo un sacrificio alla nuova costruzione.» (L. Boella, Maria Zambrano. Dalla storia tragica alla storia etica. Autobiografia, confessione, sapere dell’anima, pp. 80 - 81). Gli ideali, i sentimenti, come “sepolti viventi” ci guardano e sorridono dei nostri sacrifici alla storia: a chi custodisce il soffio della poesia, dell’impegno o dell’intuizione, non servono né contorni né difese architettoniche. Infatti da quando la persona a cui penso non c’è più, mi pare di veder crescere rose rosse in ogni stagione, e di vedere mutare in rosa ogni sprazzo di umanità. Si dice che non si pag. 47 possa cavare il sangue da una rapa, certo, così come, fuor di metafora, non si possono veder sanguinare i cuori, che
invece, all’apparenza, si limitano a fiorire o a sfiorire proprio come le rose. Eppure poco tempo fa mi sono imbattuta in una rapa sanguinante, una rapa rossa, incisa a forma di rosa. In realtà c’erano insieme tante cose: piccoli draghi magici, pesci d’oro, rose bianche e rosse; oggetti usciti, minuti e perfetti, dalle mani “sanguinanti” di un mendicante-artigiano di origine asiatica che sembrava strapparle via direttamente dal petto di una terra cementificata. Per un momento ho pensato di averne riconosciuto il sorriso, o forse, quel giorno Roma somigliava solamente a lei. Scendendo, la signora, ancora al telefono, si è appoggiata a me per resistere al contraccolpo della frenata. Che non abbia ascoltato i miei pensieri come io ho ascoltato i suoi? Intanto il treno tirava, così mi è sembrato, un lungo sospiro di sollievo.
SA M A N TH A
Miseria e Nobiltà Non posso credere di essere rimasta senza il mio lavoro. Prendetela come un piagnisteo, un continuo lamentarsi addosso, ma io faccio ancora fatica ad abituarmi. Eppure di mesi ne sono passati. Per una donna non pensiate che sia facile restare senza niente tra le mani, da un giorno all'altro. Con uno stipendio da fame, riuscire a mettere in piedi un pranzo e una cena, a dare ai miei figli la parvenza di una vita normale. Non pensiate che sia facile dormire la notte, quando la mattina dopo ci si sveglia ed è un altro giorno, identico a quello di ieri e identico a quello di domani. Io sono fuori mercato. Cosa significa? Significa che per questa società io non ho diritto di cercarmi un’occupazione perché non servo più. Io per lo Stato devo accontentarmi dell'elemosina che ricevo, e dire persino grazie mille con gratitudine vera. La cassa integrazione i politici non sanno nemmeno cos'è. Non sanno come si vive con 4 soldi, i problemi che ci sono, perché non hanno l'umiltà di sentirsi dei privilegiati, non hanno il senso della nazione, ma solo quello personale, anche se sentendo queste parole qualcuno farà il finto indignato e minaccerà magari querela, chiedendo soldi ovviamente. Perché gli affamati di denaro non conosco l'anoressia, al massimo sono sempre bulimici. Ho una rabbia dentro che graffia più della puntina del giradischi su un vecchio vinile. Politici, sindacalisti, che mi dite di star calma, di sorridere, di sentirmi fortunata… Vi prego. Non fatelo più. Vorrei prevalesse dentro di me sempre e solo la speranza e la forza di andare avanti nonostante tutto. Perché se fosse la rabbia a prendere il sopravvento, allora sarebbe davvero finita la possibilità che si crei in un futuro qualcosa di migliore per i nostri figli. Lavoro all'Antonio Merloni da non molti anni. Prima mi avevano detto che le donne non le assumevano e quando è stato possibile ho lottato disperatamente per l'impiego in questa azienda. Anche contro la mia dignità. Oggi per pagare l'affitto e mantenere i miei figli ho dovuto inte- pag. 49 grare la cassa integrazione con un lavoro in nero. Faccio la donna delle pulizie e guadagno 6 euro l'ora. Mi spacco la
schiena dalla mattina alle 8 per 10 ore, senza nessun diritto lavorativo, ma lo faccio solo per i soldi. All'improvviso…mi sono sentita immigrata anche io…come le badanti dell'Est. Non mi sentivo più italiana, perché lo Stato c'è solo quando deve chiedermi le tasse, e la politica c'è solo quando ci sono le elezioni per chiedere voti, per strappare promesse. Non chiedo nient'altro se non il mio vero posto di lavoro, nella catena di montaggio a fare frigoriferi. Niente di più. Non un euro di troppo. Sono sfiduciata…lo so, le cose non cambieranno...ma chissà se qualcuno domani come me, non vergognandosi di raccontare la sua storia, possa riuscire a smuovere le coscienze di chi dovrebbe aiutarci, di chi dovrebbe rappresentare lo Stato e non abbandonarci. Vado perché è tardi e domani un altro giorno arriverà. Non spegnete questa voce Alla rabbia segue sempre una sorta di innaturale calma. Ci si siede, ci si passa una mano tra i capelli e forse si riflette. Magari si piange. Nella vicenda Merloni, la nascita di un Comitato ha attraversato questi mesi e settimane come un urlo gigantesco che si è propagato fino a rompere qualche timpano di troppo. Si sono vinte battaglie, ci si è scontrati contro una nuda realtà, crudele come solo i soldi sanno essere. Crudele come quest'Italia fatta di partiti, sindacati, tessere, voti, corruzione, scambismo. Schifo. Troppo schifo. Viene la voglia dopo un timido risultato, dopo l'urlo che si è avuto il coraggio di gridare, di abbandonare. Di far finta che tutto sia stato solo una parentesi, un'esperienza, come la prima volta che si fuma o come una ribellione insolita. Abbandonare. Tanto non si può vincere, tanto la gente non cambia, perché "loro", queste persone che restano innominate perché sono solo merda in bocca a chi ne parla, loro non cambiano. Ma loro chi sono? I politici, i sindacalisti, i soliti noti? Non si sa. Non si sa più nulla. E proprio per questo che si abbandona tutto. VE LO POTETE SCORDARE. Perché è l'alba di un tempo nuovo e anche se il giorno forse sarà difficile da vedere, tutto sta cambiando. Tutto. E' tempo che non ci si
fermi più davanti a nulla, nomi affari soldi furbate. Tutto deve venire fuori. Bisogna cominciare a lavare i panni sporchi, perché così un Paese, un territorio come il nostro può finalmente rinascere e offrire alle generazioni di domani un luogo di cui non vergognarsi. Fare un passo indietro, ma solo per prendere la rincorsa. Se uno ha paura di parlare parleremo insieme. Parleremo tutti. “Frigidaire” 30 anni dopo - The Suburbian Miracle Se uno cresce in un paesino di provincia, non è che trova molti sogni a cui attaccarsi. Non c'è molto da fare, se non vivere una monotona realtà cercando di uniformarsi il più in fretta possibile alla piccola massa di uomini e donne, vecchi e giovani, che hanno rappresentato il tuo passato, sono il tuo presente, accompagneranno il tuo futuro. Però, statene certi, a volte i miracoli accadono anche in periferia. Un’intervista. Poche frasi. Non importa che le mie tavole siano giudicate belle o brutte da qualcuno, ma che quel qualcuno, leggendole, ad un dato istante possa sentire il suo cuore battere più o meno forte, le ghiandole secernere più o meno liquido. Quando incontri Andrea Pazienza così, non può che rimanerti dentro per tutta la vita. Ma come riuscire a far rivivere questo concetto di arte? E' più o meno con questa idea in testa che si comincia ad acquistare Frigidaire, verso i 20 anni scarsamente compiuti. Cari lettori, molti di voi, arrivati a questo punto, si staranno chiedendo se Frigidaire sia: una medicina, una droga, un maglione. Se volete scoprire quale di queste tre cose sia ascoltate, per una volta, il mio consiglio: “Foligno, poi Bastardo, frazione di pianura del Comune di Giano, di là verso il vecchio borgo di Giano in collina. Proseguire poi oltre il borgo sulla strada del Monte Martano. A sinistra, circa duecento metri dopo il borgo, c’è il cancello d’ingresso di Frigolandia.” Frigidaire. Frigolandia? Frigolandia è la terra di Frigidaire, che come spero avrete orpag. 51 mai scoperto è un mensile popolare d'élite che a novembre ha compiuto i suoi ben portati 30 anni. E' realmente la terra di Frigidaire eh. Lo so vi state ingarbugliando con i pensieri
e a dirla tutta pure io con le parole. Insomma: Frigidaire è un mensile popolare d'élite che esce ogni mese in edicola, costa 3 euro (e sono spesi bene e fidatevi che se lo dice una che non ha mai un soldo bucato in saccoccia ci potete credere) e come se non bastasse da 30 anni continua a dare natali, pasque e giorni del ringraziamento alle migliori menti che il nostro italico Paese possieda (Andrea Pazienza, Filippo Scozzari, Tanino Liberatore, Stefano Tamburini su tutti - aspettate voglio aggiungerci anche Ugo Delucchi). Frigolandia è la repubblica della fantasia. Un accampamento nomade sulle vie del sogno, come la definisce il suo presidente Vincenzo Sparagna, nonché fondatore insieme a due delle sopracitate menti, di Frigidaire. E' una repubblica marinara di montagna. Che sta in pratica a uno starnuto dai posti più belli dell'Umbria, precisamente a Giano. Una repubblica dotata persino di Costituzione. E anche della possibilità di fare un passaporto. Lo so, lo so. Non c'avete capito nulla. Tranquilli lettori. Tranquilli. E' che si stanno aprendo le vostre menti e inizialmente si hanno di questi effetti da capogiro e uno si sente smarrito e perso e mio Dio che sta succedendo? Allora facciamo così: chiudiamo qua quest'articolo, per ora. Tralasciamo di raccontare del paesaggio bellissimo che si gode dalle finestre di Frigolandia, delle cene stupende, del caffè caldo di Eleonora, delle spiegazioni e delucidazioni di Maila su Ranxerox, del sorriso di Vincenzo che t'accoglie come fossi un ospite atteso più o meno da un triliardo di anni oppure un amico che finalmente si è deciso a tornare a casa. Evitiamo indignazioni inutili, raccontando di come la Giunta comunale di Giano dell'Umbria abbia tentato di sfrattare ingiustamente e ignobilmente Frigolandia dal territorio, una Giunta di sinistra per altro, ma di quella sinistra malata che oggi sta ammorbando l'Italia. Per non far arrabbiare i cittadini di Giano non diremo nemmeno che la Giunta comunale ha perso questa causa di sfratto e ora dovrà sprecare soldi che sarebbero potuti servire per la gestione del territorio, per pagare le spese del giudizio. Nelle prossime volte prometto di tornare a raccontarvi di Pazienza e di tutte le menti
di frigidaeriana memoria che conosco. Intanto avviate l'auto. Vi aspetto ai cancelli di Frigolandia. http://www.frigolandia.eu/ StorieContro Se nasci qui il primo sogno è quello di scappare. Indipendentemente da chi sei, che fai o come la pensi. L'Umbria è chiusa, buia, un paese ogni quarto d'ora. In mezzo solo le campagne, il grigio, il sudore dei miei nonni contadini, mezzadri come nel Medioevo. Lo stesso Medioevo che sopravvive nel pensiero della gente. Se nasci qui è ovvio il primo sogno è quello di scappare. Almeno fino un po' sopravvivi: due scelte al bivio adolescenziale: ti omologhi, o resisti. Diventi massa o sei pronto a dare guerra. Da grande puoi scoprire la via della vergogna, allora ti spegni e la storia finisce qua. La mia sì. Ma non quella di Giulia. «...Stavo in un posto dove tutto suonava uguale Poi c'ho messo l'anima ed è diventato speciale Non lo faccio per la fama ma per dare calore Se sorridi a ste parole tutto sembrerà migliore...» Mi sono sempre chiesta se sia la musica a far battere il cuore o il cuore che in un certo senso dia il ritmo alla musica. Per giorni ho fissato il soffitto ammuffito della solita camera ripetendomi questa domanda fino allo sfinimento. Che si troverà mai una risposta? Nell'attesa che i cosmici dubbi partoriti da questa mente inutilmente lamentosa si tramutino in certezze, ecco che Il giovane Holden e il buon vecchio Salinger sono piovuti nuovamente, come gocce di colore sulle tele di Pollock, nella mia vita. E precisamente sono tornati con questa citazione:«Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l'autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira.» (capitolo III). Io penso che non solo i libri facciano questo effetto, ma pure le note, le canzoni, i testi allucinanti e pag. 53 sognanti di un brano che dura poco più di un sorriso atteso da secoli. Che poi quando tutto questo vortice emozionale
ti capita all'improvviso da qualcosa di inaspettato è come se si spalancasse una porta su un'eternità sconosciuta prima. Vibrations. Tenetevi forti lettori se vi dico che chi conosce la ricetta per amalgamare questi ingredienti potrebbe essere la vostra vicina di casa. O una ex compagna di classe. O semplicemente un'amica che non vedete da tanto tempo. O la figlia di amici. O una concittadina prima schifata, odiata e ora magari riconosciuta con ipocrisia. Se vi dico che Giulia, alias Mc Nill, è una delle più grandi sorprese del rap italiano che vive fuori dai cliché, e proviene nientemeno che dalla nostra odiatissima, apprezzatissima, santissima regione Umbria, siete disposti a crederci? «Sono convinta che le cose possano cambiare ma che in Umbria c'è troppa gente che si lamenta ma alla fine si accontenta» I testi di Mc Nill la prima volta che li ascolti sono un sordo pugno alla bocca dello stomaco. Contengono un'alta dose di realtà talmente condensata in poche parole che quasi si riesce a toccare con mano. Impossibile pensare che ogni rima non sia stata sudata, vissuta, sofferta, amata. «Ho trovato nella musica la mia più grande amante» L'ascolto dell'Ep Rap da Block forzatamente ti lascia qualcosa dentro così come parlare con l'“autrice” di questo lavoro, Giulia. Giulia o Mc Nill non ho trovato differenze, come spesso molti artisti di più ampia fama c'abituano. Essere in un modo per la gente e esserlo in un altro nel privato, perché si recita una parte, un copione prescritto dalle divinità del mondo moderno, fama e soldi su tutte. In questo modo personale e diretto di vivere la musica e le sue sfumature da parte di Giulia, ho rivisto buona parte di un certo Bukowski, il poeta scrittore che amava dire a proposito dell'arte «se non ti esce tutto da dentro cosa lo fai a fare?». «Non sono nessuno per impormi come giusta e/o perfetta però, se riesci a sentire quello che sento quando rimo, quando sono su un palco, se riesci a percepire il mio amore per l'hip hop allora magari mi sostieni» La nostra artista, come anticipato, è umbra doc. Questa è stata la seconda cosa che più mi ha colpito dopo la sua mu-
sica. Vi chiederete perché, e io vi dico che è difficile e facile allo stesso tempo rispondervi. L'Umbria è una terra in cui è complicato crescere, perché il futuro troppo spesso affoga nel passato, dove le tradizioni di pensiero unite a ipocriti pregiudizi sopravvivono alle generazioni. Dove ancora fa scandalo avere malattie mentali, problemi di tossicodipendenza, gravidanze senza matrimonio o essere omosessuali. «Parto dalla convinzione che la gente attacca spesso ciò che non conosce (...) Cerco di far capire che non ci si deve fermare alle apparenze, la vita (esattamente come un testo scritto) se analizzata può svelare cose che non si notano nella vita frenetica di tutti i giorni. La musica dal punto di vista personale poi sicuramente è stato un mezzo per resistere alle pressioni di un ambiente sociale che mi ha sempre ritenuta inadatta.» Giulia la sua omosessualità non la nasconde, ma nemmeno te la sbatte in faccia. La vive come è normale che sia. Niente di cui stupirvi direte voi. Se sei umbra sì. Normalmente i ragazzi che vivono qui, quelli che cercano di andare oltre, di aprirsi al mondo di darsi più di qualche squallida possibilità, qua nelle nostre piccole città medievali non hanno vita facile e spesso perdono i sogni per strada o peggio ancora se stessi e nel tempo diventano bigotti e vendicativi più e meglio dei loro avi. Chi ci riesce scappa e non torna più. O torna giusto per le feste, giusto per i saluti, giusto per i titoli di coda. Pochi hanno il coraggio di restare o ritornare e cercare di cambiare le cose. Giulia insieme alla sua musica credo sia una delle poche. «Tra me e questo ambiente non ho mai cercato di mettere delle mura, ma di creare dei veri e propri ponti. Per me tornare in Umbria significa staccare dalla vita frenetica e riabbracciare le persone a cui tengo che sono ancora qui ma è anche brutto vedere che poco e niente è cambiato e che spesso se si erano fatti dei passi avanti poi qualcuno ne ha rifatti 100 indietro è bello vedere che ci sono giovani che seguono il mio esempio ma fa schifo vedere chi ha mollato perché sì pag. 55 "che fico, facciamo i diversi" ma se poi non hai le palle "fare i diversi" pesa»
Parole da aggiungere ce ne potrebbero essere a centinaia ma sarebbe solo un esercizio di stile. Piuttosto se vi è nata, con questo articolo, un po’ di curiosità vi invito, nient'altro, che ad un ascolto selvaggio di Rap da Block. See ya.
M A RI E L L A
Nina C'è un lungo filo d'amore che lega la mia casa ad uno sperduto paese dell'est, Kosticovici in Bielorussia. E’ un filo lungo centinaia di chilometri, migliaia di metri,15 anni, 5475 giorni e più, perché il tempo passa e passa veloce. Nina è arrivata a casa nostra in un caldo giugno del 1997, piccolo essere sperduto, pulcino infreddolito senza piume, aveva allora poco meno di 9 anni e viveva già da tempo in istituto. Avevamo aderito al progetto Chernobil senza tanto pensarci... ospitare un bambino per un mese a casa nostra non era poi cosi sconvolgente e poi le avevo viste quelle bambine bielorusse tutte bionde tutte carine... e cosi avevo specificato nella domanda "bambina". Quel giorno sono scesi tutti dal pullman, tutti biondi tutti carini, maschi e femmine... alla fine, quasi di nascosto, con timore, da sola mi hanno portato Nina. Il colpo è stato duro, da mozzare il fiato, la natura era stata proprio matrigna con questa sua figlia. A denti stretti e pugni chiusi mi sono detta - vai che è solo un mese ce la faremo passerà presto. Quanto mi sbagliavo non sapevo che quello era il primo passo di un lungo viaggio alla scoperta del mondo degli emarginati alla scoperta della Bielorussia più sperduta, ma anche alla scoperta di sentimenti nuovi inaspettati, inimmaginabili prima alla scoperta di Nina. Nina mi ha insegnato che l'amore arriva all'improvviso senza regole, senza limiti, senza età e non c'è più scampo. E' piombata nella mia vita in una pacata serata di giugno, e come un pugno nello stomaco mi ha lasciato per un po’ senza fiato. Come un cagnolino randagio impaurito e bagnato sotto la pioggia, bambina stanca e affamata che chiedeva solo amore. E invece amore ha dato a piene mani e ha riempito i nostri cuori, la nostra casa... Sento le sue risate squillanti, i suoi passi allegri di bambina, la sua voce... E aspetto che pag. 57 torni. Per tutti questi anni è venuta tre mesi in estate e uno a Natale, è diventata piano piano la nostra terza figlia e crescendo si è fatta quasi carina, almeno ai nostri
occhi, educatissima e molto affezionata a tutti noi. Il suo arrivo che coincideva con l’inizio dell'estate e con il Natale era sempre una festa. In Bielorussia viveva in istituto con qualche piccolissima parentesi presso la mamma alcolizzata così, in un certo senso, è stata protetta e controllata fino a 20 anni. I problemi sono cominciati quando da lì è uscita... sola in un piccolo monolocale dato dallo Stato e un lavoro nelle stalle e nei campi di una cooperativa agricola statale e una piccola paga giusto per sopravvivere. Ma io ero tranquilla, pensavo che mai nessuno avrebbe potuto importunare quella ragazza, visto il suo aspetto; ogni mese le mandavo qualche euro per farla vivere in modo decente, aveva il suo cellulare, la televisione, aveva messo le tende alle finestre. Ma un giorno di marzo di tre anni fa una telefonata... era Nina molto agitata mi dice che vuole venire subito a casa da noi per sempre (glielo avevamo chiesto tante volte ma aveva sempre detto di no). Un po’ increduli abbiamo fatto il biglietto aereo e dopo pochi giorni Nina era da noi. Ma non era lei nervosa, stanca, preoccupata. Non ci è voluto molto per capire che era incinta e che era tornata a casa a chiedere aiuto. Forse quel piccolo benessere avevano attirato Anton, suo compagno d’istituto da sempre e suo compaesano. Dopo tre mesi, alla scadenza del permesso di soggiorno, se ne è tornata in Bielorussia con il suo pancione, ma rassicurata, tranquilla. Poco dopo è nata Victoria, una bella bimba bionda tutta suo padre. L’ho vista per la prima volta questo anno all'aeroporto di Fiumicino, e' ritornata. L’anno scorso non ci eravamo viste perché Victoria era troppo piccola per fare il viaggio ed io avevo Antonio mio marito gravemente malato, malato terminale. Ero molto contenta di vederle, di averla a casa insieme alla sua bambina, una festa... ma è durata pochi giorni. Nina era stanca, molto, allevare una figlia da sola è dura soprattutto per una come Nina... perché Anton era sparito subito dopo la nascita di Victoria, mi dicevo. Ma non mi ci è voluto molto per capire anche
questa volta che era di nuovo incinta (e di un altro), che tristezza che delusione... tu sei italiana e io bielorussa diceva e lo diceva anche quando era piccola se si arrabbiava con me. E se ne è andata con il suo pancione e Victoria per mano all’aeroporto di Fiumicino. Ha partorito un bel maschietto ad ottobre, lo ha chiamato Zima. Ieri mi ha chiamato "mamma non ti arrabbiare, io non ho fatto niente, non è colpa mia". le hanno tolto i bambini, tutti e due affidati a case famiglie, è rimasta sola... Piangeva e come sempre nel bisogno ha cercato me, la mamma italiana, ma questa volta non so proprio come aiutarla. Che Dio me la protegga... e aspetto che torni. Ti voglio bene Nina... un bacio, mamma.
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Alla sagra, d'estate (da Vapori) Fuori di te Come sprazzo attonito. In ogni respiro siamo ciò che al di là
NORMA
Fuori uno (da Giovinezze) Poesia arranca sulla piastra cocente d’acciaio fumoso sotto fredde gocce d’acqua : sfrigola e schizza pepe arrogante sulla morbidezza di dolci sapori. Tra richieste incalzanti e dimesse accuse d’imperizia, farò come chi prende e tace, offre dita titubanti a dubbia intesa con gesti acquisiti, ripone in salse piccanti e carni unte l’inopportuna domanda, quando il tempo diventa solo brusio impaziente di delusi avventori. Faranno come chi mastica e ride, sottrae musica allegra agli angoli scuri col tintinnare di concilianti posate, la raccoglie impastando bocconi e digerisce note frizzanti. Poesia corre dal panno umido alle molliche sul tavolo stanco, si scioglie tra semplici unguenti e sulla bocca socchiusa finché sarò come chi guarda e tace, stringendo il pugno vuoto di odori. Poesia, l’hanno stesa bene accanto al piatto dopo il lauto pasto.
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di noi non ha confine, la nuda struttura della claudicanza. Ad ogni passo inciampa la nostra storia, storia di storie storia fra le storie. In essa ci siamo cercati, trovandoci non siamo piÚ come chi cerca, camminiamo a testa dritta come colui che accetta ciò che trova. Non amiamo nÊ odiamo, viviamo per perpetuare una stirpe di ignoti.
Bugiarda! Le ore che scorrono non si rinnovano, la sabbia morbida, che forma dune perpetuamente identiche, lascia profondi solchi sul mio viso e scava buchi nel mio cuore.
A N N A RI TA
Clessidra Il tempo che scorre sembra tornare indietro, si rinnova nel lento ma continuo fluire della sabbia.
Talento Ăˆ come il vento nessuno lo vede eppure sa essere travolgente e, a pelle, si sente.
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Supplemento del periodico Piazza del Grano Autorizzazione dei tribunale di Perugia n. 29/2009 via della Piazza del Grano n. 11 - Foligno e-mail redazionepiazzadelgrano@yahoo.it Stampato presso GPT Srl - CittĂ di Castello febbraio 2012
La critica marxista deve porsi questa parola d’ordine: studiare, e deve respingere ogni produzione di scarto e ogni arbitraria elucubrazione del proprio ambiente.! Il partito deve quindi pronunciarsi a favore della libera competizione dei vari gruppi e delle varie correnti in questo campo. Ogni altra soluzione sarebbe una pseudosoluzione burocratica. Lev Trotsky