Racconti e pensieri I raccolta

Page 1

www.piazzadelgrano.org

Racconti e Pensieri 2010-2011 Raccolta I in collaborazione con

www.memori.it



Premessa Di fronte all’ultimo numero del mensile di Piazza del Grano, molti devono aver pensato che la Redazione si fosse concessa un periodo di otium, vale a dire, come ci spiega Arianna a p. 7, un periodo di isolamento volontario da una società come la nostra, alla ricerca di un miglioramento complessivo (p. 8) e di nuove forme d’espressione. In realtà, lo dimostra questo nostro primo libro, di tempo per la vita contemplativa ce ne siamo preso ben poco, anzi, i “negotia” si sono moltiplicati su più fronti…insomma, si sono aperte nuove strade. Anche se “l’ira” (Cristiano, p. 14) è senz’altro “un sentimento propedeutico alla riflessione”, in quanto il primo di una cascata di sentimenti forti che ci costringono a riprendere in mano la nostra vita, tuttavia non è stata l’ira a muoverci, ma la certezza che “lo straordinario” è assolutamente possibile (p. 15): è possibile dare voce e corpo a parole altrimenti “mute”, imprigionate su fogli di carta, è possibile trasformare le parole in persone con dignità e bisogni propri, è possibile, infine, costruire con le sole parole una relazione anche tra perfetti sconosciuti. Però, come ci spiega Iolanda a p. 22, ci vorrebbero forse troppe parole, per rendere il senso di un abbraccio; il loro compito allora è farsi volume che si possa stringere tra le mani, è farsi “ponte”, un ponte vivo quanto quello descritto dall’omonimo racconto di Kafka, un “materiale senziente” destinato a supportare i veri soggetti della vita fino alla meta loro assegnata, col solo potere di resistere o crollare. Così come avviene per il ponte, una parola, una volta scritta, se non viene cancellata rovinosamente, non può smettere di farsi tramite tra un essere umano e un altro. Altrimenti, senza evocare le parole giuste, come potremmo far rivivere, anche a chi non c’era, gli odori e i sapori del paese in cui abbiamo vissuto, come potremmo dare un senso al nostro dolore e convincerci ad andare avanti? “[…]/E la mia barca va in questo mare in burrasca, ogni giorno faticosamente, finché viene sera…/Ed io stanca di remare mi addormento” (Mariella, p. 32). Tutto ciò che abbiamo da dire rappresenta la nostra più potente linfa vitale, ciò che ci fa rimanere noi stessi anche quando il sonno ci rende incoscienti, e che, se è neces-


sario, ci costringe a dormire male: “[…] Di certo dormire sulla scrivania avendo come cuscino le pagine 41 e 42 delle E pistulae ex Ponto di Ovidio, non è il massimo del confort” (Samantha, p. 34). Questa prima raccolta di racconti e pensieri vorrebbe poter divenire per la coscienza un “cuscino” scomodo almeno quanto Ovidio, vorrebbe poter aiutare, chi lo desidera, a ricordare e a ragionare: “Passavo in auto e come tante altre volte ho gettato uno sguardo alla mia destra per guardare lo zuccherificio, o meglio, le strutture della ex distilleria di Foligno. […] Poi […] mi sono chiesto: […] una foto può raccontare una storia? In parte naturalmente sì… Ma cosa ne sa di quel fabbricato lungo lungo, con un improvviso parallelepipedo che svetta in alto, e si riallinea. Di quella finestrella che guarda verso Pale, di cosa c’era dietro le porte in basso, alcune con le inferiate a proteggere qualcosa di prezioso altre no” (Fausto, p. 39). Quando guardiamo di sfuggita le nostre vite, i luoghi in cui studiamo, in cui lavoriamo, cerchiamo una traccia pur flebile del nostro passaggio oppure ci limitiamo ad esprimere il desiderio di essere altrove? Scrive Zinaida N. Gippius: “[…]La volontà si è nascosta nell’ambito circoscritto dei semplici desideri. E io non voglio esprimere dei desideri. Non serve” (Maria Sara p. 53). Chiedersi in continuazione il perché delle cose che avvengono è l’unico modo per rimpastare la realtà e sfornarla di nuovo come avrebbe voluto fare la fornaia, protagonista del racconto di Paride a p. 57, con la propria sorte, per rendere più appetibile ai nostri occhi persino “questa sporca vita”. Parafrasando Paolo Conte, e Irene a p. 63, “se non avessi questa sporca vita”, e questa inestinguibile, sporco bisogno perenne di scrivere, “morirei”. È proprio per non lasciar “morire” le voci di chi desidera confrontarsi con ciò che lo circonda che prende il via questa nostra nuova forma editoriale. Gli autori qui raccolti sono gli stessi che ci hanno accompagnato durante l’avventura precedente, quindi li chiameremo solo per nome, non hanno bisogno di troppe presentazioni, ma presto seguiranno altri racconti inediti, e altri autori le cui parole formeranno nuovi ponti da percorrere insieme. Maria Sara Mirti


A RI A N N A

“E’ difficile per un uomo sopportare se stesso” Lo sballo promette felicità evanescente e il suo richiamo è assordante Marco Aurelio ha ragione, sopportare i propri pensieri, tormenti, angosce è la cosa più complicata che ci sia, specialmente a vent’anni, quando si è ancora tanto confusi. A questa età la tentazione dello sballo è forte, in particolare si fa sentire la curiosità, quasi morbosa, di scoprire cosa riserva questo mondo colorato, scintillante e pulsante di ecstasy, cocaina, eroina, il tutto miscelato con cocktail dai nomi accattivanti ed esotici. Lo sballo seduce, il suo richiamo a volte sembra farsi quasi assordante, il gruppo di amici che ci casca, tanto una volta sola cosa vuoi che sia, ma poi la dipendenza dalla felicità artificiale è inevitabile; le droghe sintetiche portano in paradiso, ma poi si riscende in terra e spesso cadere fa male. Molto male. Resistere è fondamentale, godere di una sana emarginazione è presupposto per non essere omologati in una massa indistinta e per avere la dignità di essere se stessi. Il consumo di droghe sintetiche cresce sempre di più, secondo le statistiche sarebbero circa ottantacinquemila i consumatori, tra i quindici e i venticinque anni, dati allarmanti per gli esperti, soprattutto perché in questo vortice sono coinvolti i giovanissimi. Le angosce della giovinezza, gli amici che spingono a provare, e nessuno a casa che chieda delle spiegazioni, creano una miscela esplosiva. Un dato da non tralasciare è che molto spesso questi ragazzi sono lascati soli, non hanno alle spalle genitori o chi per loro, che si preoccupano, che fanno domande, che chiedono chiarimenti sul perché i loro figli siano apatici, in uno stato depressivo, che rappresenta una delle fondamentali conseguenze dell’euforia provocata dall’ecstasy, e trepidamente in attesa del sabato successivo. Bisogna avere il coraggio di tenere duro, di resistere al desiderio di vedere cosa si prova. Pandora lo sapeva bene, lei che con la sua curiosità ha aperto il vaso e ha fatto uscire i mali del mondo. Ri- pag. 3 fiutare le facili euforie è segno d’intelligenza, di forza d’animo che permette di sentire le proprie sensazioni, le più ele-


mentari percezioni, come il caldo, il freddo, il piacere di divertirsi e ballare senza lasciarsi obnubilare e stordire. Il mondo dello sballo promette incanti, colori, luci sfavillanti, vortici di pura euforia ma ciò che rimane è un senso di vuoto, l’amarezza di aver vissuto una serata della propria vita e non ricordarsela. “A che serve passare dei giorni se non si ricordano?” diceva Cesare Pavese. Gli eroi omerici del 2011 Migranti che raggiungono la terra ferma e i doveri di solidarietà Nel canto VI dell’Odissea, Odisseo, per aver accecato Polifemo, si imbatte in una terribile tempesta causata dall’ira di Poseidone, il dio del mare, ma viene salvato dalla dea Ino che gli permettere di raggiungere la terra ferma, l’isola dei Feaci. Odisseo è stremato, nudo e coperto di salsedine ma viene accolto da Nausicaa, la figlia del re Alcinoo, la quale adempie i doveri della solidarietà dando all’eroe le cure di cui necessita: a Odisseo viene data una veste, cibo, bevande e un bagno nel fiume. Questo episodio rappresenta un esempio di ospitalità, quella che i Greci chiamavano “xenia”, ovvero un concetto fondamentale nei rapporti della Grecia antica,che comprendeva consuetudini da rispettare per non scatenare l’ira degli dei. La “xenia “ richiede il rispetto reciproco dell’ ospite verso l’ospitante e dell’ospitante verso l’ospite, il padrone di casa doveva dare all’ospite cibo, bevande, un bagno e delle vesti, esattamente quello che fa Nausicaa nei confronti di Odisseo. Nel momento in cui l’ospitalità terminava l’ ospitante doveva lasciare un dono al suo ospite e quest’ultimo avrebbe a sua volta ricambiato, creando in questo modo un vero e proprio vincolo. Era un rapporto connotato principalmente da reciprocità e rispetto e soprattutto garantito dagli dei. Un singolare rapporto di continuità si può cogliere tra l’eroe omerico e i migliaia di migranti che giungono alle nostre coste. Ugualmente stremati dal viaggio, dal mare, chissà se per l’ira di qualche dio,


non sempre riescono ad arrivare alla terra ferma; chi ce la fa me lo immagino come Odisseo, solo e bisognoso di cure, che irrompe nella leggerezza e tranquillità dei giochi di Nausicaa e delle sue ancelle ,esattamente come gli immigrati piombano nella vita tranquilla di Lampedusa. Il problema è che non c’è Nausicaa ad accoglierli, almeno non sempre. Sono in balia di una Europa che non se ne preoccupa, nelle mani di un’ Italia così unita che litiga su dove mettere queste migliaia di persone, perché alcune regioni sarebbero disposte ad accogliere solo i rifugiati politici e non i clandestini. La sensazione generale, non solo in Italia, ma soprattutto in Europa, è che si è in presenza di una clamorosa violazione dei “sacri “ doveri di ospitalità; chiaramente si sta verificando un’importante emergenza, visto che gli “ospiti” sono migliaia, ma almeno un posto decente in cui stare è un diritto sacrosanto di ogni uomo. L’eroe omerico alla fine trionfa, ma queste povere anime raggiungeranno mai la loro Itaca? “Abitiamo in disparte, nel mare ondoso / ai confini del mondo, nessun altro mortale arriva tra noi. Ma costui è un infelice, qui arrivato ramingo/ che ora ha bisogno di cure: mendicanti e stranieri/ sono mandati da Zeus. Il dono sia piccolo e caro. Ancelle, date all’ospite cibo e bevanda,/ fategli il bagno nel fiume, dove c’è un riparo dal vento.” (Odissea, VI, vv 204-2010) Una lettera al mondo adulto Che ne sarà di noi e del mondo che ci lasciate Caro mondo adulto, basta a chi ci dice “bamboccioni “, gioventù senza valori, senza Dio, senza educazione. Basta agli articoli e saggi di illustri sociologi e psichiatri che dicono di quanto noi ventenni siamo confusi e persi. Lo sappiamo benissimo. E basta dire che è colpa della scuola, della televisione, del computer, della scienza. Basta a chi si erge e dall’alto della sua incommensurabile scienza, giudica e ci infila in categorie. Si parla pag. 5 spesso di tribù metropolitane, come i punk, i metallari, gli emo, i pariolini, gli skaters e tanti altri, che l’esigenza di


mettere tutto in categorie ha classificato. Ma non siamo mica dei prodotti da supermercato, messi accuratamente al posto giusto nel reparto di riferimento. Che tristezza!! Noi siamo chi siamo, e basta; evitate di rinchiuderci in stereotipi perché poi va a finire che in qualche modo ci crediamo anche noi e uscirne è difficile perché per una stupida esigenza di coerenza si è obbligati a restare nella propria rassicurante categoria di riferimento e finisce che si fa fatica a capire chi siamo veramente. Ci state lasciando un mondo che va a rotoli, ci date esempi ben poco edificanti e poi vi lamentate che restiamo a casa fino a trent’anni. Andate voi con laurea e magari anche master ed esperienze all’estero a fare i camerieri, se vi sta bene. Dovreste prendere invece esempio da questi ragazzi che lavorano sodo, che hanno studiato tanto, con risultati eccellenti e che vanno a fare lavori che un tempo faceva solo chi era poco istruito. E scusate se poi l’affitto per una casa, da soli, non ce la facciamo a pagarlo, scusate se non riusciamo a lavorare per più di un anno o anche meno, ma con la precarietà che avanza non è cosa semplice. Non siamo noi che siamo senza valori, ma siete voi che li avete distrutti, e con loro molte altre cose. Ci insegnate che per fare successo conta essere belli, per le ragazze essere anche un po’ veline non guasta, giovani, pronti a lavorare anche dodici ore al giorno, che la maternità a trent’anni è solo un impedimento ad una carriera eccellente, che contano le conoscenze e amicizie, e poi se sei competente è anche meglio ma non fondamentale. Ma che cosa state dicendo? E il merito? La classe politica urla che i romani sono porci e vi lamentate del fatto che l’unità nazionale si realizza servendo il paese con uno di stipendio sicuro a fine mese. Non investite sulla scuola, sull’educazione e non vi rendete conto di quante capacità e risorse state sprecando obbligando giovani laureati italiani a realizzarsi all’estero. Quindi basta stereotipi, e mettetevi una mano sulla coscienza. Proprio sicuri che quelli senza valori siamo noi? In bocca al lupo, ragazzi.


L’otium a Roma Il binomio vita contemplativa - azione ai giorni nostri La vita ci costringe a ritmi frenetici, la fretta ci divora, e a volte ci si dimentica di noi stessi, della nostra interiorità. Nella cultura romana era frequente il ricorso al cosiddetto “otium “, che nulla ha a che fare con il moderno significato di ozio, inteso come inattività, pigrizia, inerzia, sicuramente in un’accezione negativa. Al contrario, il termine otium indicava il tempo lontano dai “negotia”, ovvero dagli affari e dalla vita politica, dedito all’attività contemplativa, alla speculazione intellettuale; era una sorta di dolce riposo della mente, uno spazio privato, che atteneva alla domus, alla dimensione privata del cittadino. Otium come disimpegno politico, distacco dallo Stato, e riscoperta della propria individualità, spazio riservato allo studio, alla cultura, alle arti, al nutrimento e alla rigenerazione del proprio spirito. In particolare Seneca ( 4 a. C.- 65 d. C.), nel suo libro “ De otio” (“ La vita contemplativa”) , dedicato ad Anneo Sereno, afferma la necessità dell’otium come spazio privato, perché la vita contemplativa migliora l’uomo, che a sua volta sarà migliore anche per gli altri e più facilmente saprà rendersi utile per la propria comunità. Afferma Seneca “ Tutti sono d'accordo nel ritenere che, vivendo in società, è difficile essere immuni dai vizi, e allora, se non abbiamo altro mezzo per salvarci da essi, isoliamoci: già questo solo fatto ci renderà migliori. D'altronde chi c'impedisce, pur vivendo appartati, di avvicinare uomini virtuosi e ricavarne un esempio su cui modellare la nostra esistenza? E ciò non è possibile se non in una vita tranquilla, lontana dalle pubbliche faccende: solo così potremo mantenere fermi i nostri propositi, non avendo accanto nessuno che, sollecitato dalla grande massa che gli sta intorno, possa distoglierci dalla nostra decisione, ancora instabile, all'inizio, e perciò facile a sgretolarsi.” Seneca , in questa opera,risolve il binomio azione- vita contemplativa a favore della seconda, probabilmente in- pag. 7 fluenzato dalle vicende personali ; il saggio deve evitare i turbamenti dello Stato, deve dedicarsi a se stesso perché “


se io passerò in rassegna tutti gli Stati, uno per uno, non ne troverò nessuno, che possa accettare un saggio o che il saggio possa sopportare. E se non si trova quello Stato che noi immaginiamo, comincia ad essere necessaria per tutti la vita appartata “. E allora se anche noi, in alcuni momenti, pensiamo che il nostro Stato sia pieno di vizi, insopportabile, allora ritiriamoci nell’otium; se non ce la facciamo più a correre da una parte all’altra dietro alle nostre quotidiane attività, allora dedichiamoci al nostro spirito e riposiamo le nostre anime affinchè si possa trarre dall’otium un miglioramento complessivo.


C RI STI A N O

“… le parole veraci … del mio calzolaio” Uno spunto per non fermare la ricerca di noi e della realtà che ci appartiene Il mio calzolaio. “La parola “vergogna” non la spreco: non ne capireste il proposito./ Mi dispiace, cari non amici miei!/ Non siete riusciti ad amare…/ non ce l’avete fatta ad apprezzare l’alba… ma siete bravi a gridare “assassino”!... ”assassino”... senza sapere./ Le vostre priorità non le considero!/ False sicurezze vi danno una forza inconsistente …/ mai arguti né taglienti./ Beati voi!/ Sei miliardi di persone non esistono,/ l’incontaminata letteratura non esiste,/ il calore di una carezza non esiste,/il sole di un sorriso non esiste,/ e non esiste l’essere,/ ma solo il vile allineamento…/ La noia è sconosciuta,/ la cordialità un relitto./ O antico rispetto!... quanto mi manchi,/ ma lo so:/ non morirai mai./ Io cerco senza sosta e/ cercherò sempre… senza sosta!/ Beati voi, che senza reali prospettive ignorate che la vera rivoluzione/ è assorbire,/ osmoticamente e con giovane leggerezza,/le parole veraci …/ del mio calzolaio!” Una giornata come tante. Quelle che certamente non si ricordano. Quelle di cui nemmeno ti rendi conto che sono state anonime e piatte, finché qualcosa o qualcuno non te lo fa pensare… e ti fa cambiare assolutamente idea. Un evento così semplice da potersi considerare straordinario. Un’ora del tuo tempo che ti offre spunti di riflessione, che ti fa pensare di stare bene proprio quando non te l’aspettavi. Uno scambio di opinioni così autentico da meritare, nella tua mente a volte addormentata, qualche “sgangherato” verso. Così, per gioco, dopo aver tirato un gran sospiro di sollievo, ho voluto fermare quel confronto… quelle parole dell’inconsapevole Giorgio, il mio calzolaio. La scoperta della meraviglia di ciò che ti circonda riesce a innescare la miccia di un equilibrio vacillante o a consolidare quello in fase di raggiungimento. E non credo che occorra una particolare predisposizione o impostazione mentale per vedere ciò che normalmente non vediamo, perché occul- pag. 9 tato dai frenetici ostacoli del quotidiano. Basta solo avere un po’ di pazienza ed essere ben avviati sulla strada del “dubbio”.


Credo che la ricerca della coerenza e di una stabilità interiore, parta proprio da un approccio profondamente umile e autocritico nei confronti dell’altro, dei suoi sentimenti e delle sue idee. Ovviamente, il rischio di incappare nella banalità di idee e parole inflazionate è davvero elevato in questa propensione verso un mondo spesso vigliacco e così difficile da comprendere. Ma questo è un rischio sano, che vale la pena correre, per crescere, per migliorare. Forse in maniera più lenta, ma di certo più compiutamente. Tanta gente è concentrata solo nel “suo tutto”. Osservando i comportamenti automatici e i tic quotidiani ti accorgi che in realtà porre l’attenzione solo sul “proprio tutto” equivale a farlo sul niente. Ci sarà un motivo perche sulla Terra siamo sei miliardi di persone, o no? Forse la ragione sta proprio nel fatto che dobbiamo cercarci, scoprirci, rispettarci. Ed è questo il viatico verso una vita dignitosa per tutti. Semplicemente per tutti. Il ragionamento non vuole condurre a una scontata promozione dell’altruismo. Un altruismo troppo spesso spento e fonte di insegnamenti retoricamente tramandati. Vuole solo sottolineare come la volontà di costruire la propria personalità, ha bisogno di traguardi molto più esigenti della costruzione di un benessere chiuso e spiccatamente interiore. Le nostre energie, la nostra rabbia, attendono solo di essere utilizzate per un miglioramento comune e totale. Per la creazione di un futuro che non sia la banale ripetizione del presente. Ed è proprio la ricerca di una sintonia critica con il nostro “intorno” che ci fa sfuggire al rischio di omologarci a esso e allinearsi al comune sentimento. La piccola rivoluzione quotidiana muove da questa consapevolezza: ognuno di noi può essere con il proprio atteggiamento attivo e propositivo un “cavallo di Troia” all’interno della realtà; un virus sano in grado di “sbugiardare” le false sicurezze che qualcuno vuole darci e che molto, troppo!?, spesso vengono accettate passivamente, o contrastate solo quando è troppo tardi; ciò, con la convinzione che la vita migliore sia quella del flusso favorevole e tranquillo. E va bene allora: se la vita può essere facile, che lo sia per tutti! Altrimenti qualcosa va assolutamente cambiato. Cominciamo intanto a guardarci intorno. A sentire


intorno. Ad accogliere i messaggi che la nostra realtà ci invia e che troppo velocemente cancelliamo. Se mentre cammino per strada, butto il mozzicone spento della sigaretta nel cestino dei rifiuti anziché per terra, non voglio essere guardato con stupore, come se facessi chissà che… perché mi sto solo “guardando intorno”. Una fiaba per guarire “C’era una volta, in un tempo lontano …” Era così che iniziavano i nostri sogni. Una luce soffusa e la voce calda del nostro stanco “narratore” che si impegnava a leggere qualcosa di cui già conosceva il finale, tralasciando, furbescamente, le parti interlocutorie. Poco importava. Qualche immagine offuscata, indeterminata … e il sogno aveva inizio. Una magia che accendeva le luci dell’immaginazione, un “contenente” a cui davamo un coloratissimo contenuto di innocente speranza. Magia raccontata, magia ascoltata. Questo è lo spunto per un pensiero semplice e assolutamente lontano dal fornire una soluzione alle frustrazioni quotidiane e all’astuta debolezza delle “menti” importanti. Vuole essere solo un inizio, come il sogno di questa premessa. Ho immaginato qualcosa di fantastico per evadere dalla mia realtà. Un qualcosa di fantastico, ma comunque tangibile, esistente. Una fiaba appunto, scritta e letta, narrata e utilizzata. Ritengo che le fiabe siano in grado di sviluppare in ognuno di noi la creatività; di svegliare il talento spesso addormentato da una vita in cui troppa gente riesce a svolgere esclusivamente il proprio “compitino”. Esiste in psicoterapia un metodo, il c.d. “metodo Debailleul” che si incentra sostanzialmente sullo sviluppo della creatività e del potenziale attraverso l’ascolto e l’analisi delle fiabe; in tal modo si riconduce la persona alla radice infinita della sua qualità umana:riscoprire il Re, l’Eroe o la Fata che vivono in noi ci porta a riscoprire il nostro valore. La meraviglia! Una storia fantastica riesce a renderci segretamente felici per qualcosa o qualcuno che solo apparentemente non esiste. Oggi, nel mondo degli adulti il signi- pag. 11 ficato e l'importanza delle fiabe è spesso frainteso o sottovalutato; l'adulto pensa che le fiabe siano utili solo ai bambini;


pertanto, si limita a leggerle ai suoi figli, senza riservare troppo interesse ai messaggi che queste contengono; e poi, non appena questi crescono, le fiabe, ritenute oramai inutili, vengono relegate in soffitta. Questo atteggiamento comune verso la fiaba è fortemente riduttivo nei confronti del suo "significato"; le fiabe ci offrono la possibilità di ripercorrere le tracce di quello che è stato il cammino dell'umanità, dei problemi, delle difficoltà e delle ingiustizie in cui si è imbattuta. La favola insegna quanto sia seducente ed attraente il "male" poiché questo è sempre rappresentato da qualcuno o qualcosa di molto potente, abituato ad usare i suoi poteri in modo subdolo. Streghe, draghi, orchi e serpenti usurpatori che "rubano" il posto che spetterebbe di diritto all'eroe; e quando troviamo queste situazioni, la conclusione risulta sempre chiara: il "crimine", di fatto, non paga, perché alla lunga chi rappresenta il male è un perdente. La fiaba ci raggiunge attraverso il tempo per trasformare il nostro atteggiamento nei confronti della vita e favorire il cambiamento. Un cambiamento che in qualche modo deve trovare spazio nelle troppe scontate esistenze. I nuovi mali si stanno ormai diffondendo ed impossessando delle menti dei popoli, delle "civiltà" industrializzate; adulti e bambini sono sempre più spesso vittime di stress e depressione, si sentono demotivati ed hanno perso di vista il vero significato della vita. Il piacere di una passeggiata, il vento che ti accarezza. Mali sottili, spesso trascurati che, inevitabilmente, portano a vivere grosse crisi esistenziali. Un rimedio naturale per queste "menti stanche" potrebbe essere quello di riprendere contatto con la fiaba. Le fiabe creano e risolvono situazioni di paura, inadeguatezza e solitudine, sconfiggono angosce e fanno svanire i fantasmi. Che piacere sottrarsi dalla realtà e tuffarsi nell’illusione che esiste la possibilità di un’inversione radicale degli eventi. Si, perché nella fiaba è l’eroe che “sguaina” il proprio coraggio e sovverte i pronostici. Quando esco da casa ogni giorno, sono io l’eroe di me stesso … con fantasia e coraggio, con fiducia di queste mie uniche risorse. Purtroppo e per fortuna! Siamo circondati di streghe e serpenti, meschini e potenti ... potremmo essere eroi, per il momento, avendo la sola con-


sapevolezza che resistere e lottare non è solo una “fiaba”. “Giocosamente”: una laica accelerazione verso i sogni ritrovati. Finalmente! La mente ricorda quando le mie serate se ne andavano tristemente, affannosamente … la mia estate magicamente era diventata un inverno, o un inferno? La luce del sole trasmette desiderio, normalmente … ma guarda che facilmente la voglia può trasformarsi in noia, inspiegabilmente. Il giorno rovente iniziava immediatamente … e non finiva mai, l’uscita era lontana, nonostante gridava il contrario la corrente … giustamente! Però! Però la speranza latente improvvisamente si pente e si annulla come il gol marcato irregolarmente … che gioia ardente! Percorro la strada impervia ma gli eventi mi aiutano fortunatamente. Mi riaccingo a vivere, tremante, ma l’amore vero è quello che ti circonda … il difficile è accorgersene immediatamente impedendo che ti colpisca l’infingardo fendente … bugiardo, ma così bello che avrebbe ingannato ogni gente. Amati incondizionatamente, accetta la realtà vivente, non gioire inutilmente di un preciso futuro inesistente, e arrogante! Aggiungi coraggio al presente, distogli celermente le energie da chi non le ha guadagnate meritatamente … ma solo apparentemente in forza di un involucro splendente. Adesso! Il giorno si dipana stimolante, mai scontatamente. Non è fortuna … è forza! Vigore che si libera naturalmente, inaspettatamente … te ne accorgi, non procedi penosamente come un serpente ma fiero e sorprendente come un aliante … state attente! Umilmente e consapevolmente, aderisco rispettosamente alla parola che vuole

pag. 13


che lo spasso diverta efficacemente se si protrae concisamente, ma … finalmente, giocosamente!!!

Ho giocato con le parole, qualche tempo fa. Avverbi, participi presenti e termini in movimento. Un amuleto. Un inno al risveglio, uno scatto di reni al di fuori delle frustrazioni e delle paure che incombono sugli animi più sensibili. Molto spesso è proprio la “maledetta” sensibilità ad impedirti di affrontare a viso aperto i pericoli e le sofferenze. Ti ritrovi in una palude di pensieri, quasi sempre malsani, putridi come quelle acque. Tuttavia, sarà proprio questo ristagno, costante, lento e continuo, dannatamente palese, che in lampo d’amore e razionalità ti condurrà fuori dal “riposo” forzato. Ed ecco allora: una laica accelerazione verso la agognate mete; una vita semplice condita da immagini e sapori antichi … le parole di un amico: quelle stesse parole che nel periodo di letargo erano solo parole, mentre adesso ingenerano desideri su desideri. Nel contempo e per fortuna, si modifica l’interpretazione dei segni della natura: dall’indifferenza alla meraviglia; dalla normalità allo stupore; dal fastidio a non poterne fare a meno. È questo il mutamento che genera forza e genialità, tanti sorrisi e sana insofferenza. Si, insofferenza. Perché nell’”inferno” tutto va bene e non riesci nemmeno ad arrabbiarti. E allora non importa in che direzione si propaga questa nuova energia … non importa, purché si liberi … fiera, arrogante! Una storia come tante, questa, innaffiata dal coraggio di giocare, a posteriori … Questo è quello che vorrò fare ed essere. Quando sei in apnea, inizia a correre più veloce che puoi. Ti fermerai ad un certo punto, affannato; ma probabilmente, con la testa di nuovo fra le nuvole, riderai. Riderai … e ripartirai! L’ira, un sentimento propedeutico alla riflessione Un peccato capitale! Già avevo deciso di trattare questo concetto. E poi, la meraviglia nel fare mente locale. Sì, uno dei sette vizi, da cui secondo la religione cristiana, dovremmo astenerci in ogni caso. In ogni caso!? Affascinante! Si tratta di uno stato psichico alterato, in genere suscitato da uno o più elementi di


provocazione, capace di rimuovere alcuni dei freni inibitori che influenzano nettamente,… fortunatamente, le scelte del soggetto coinvolto. Una reazione, che si scatena quando la profonda avversione verso qualcosa o qualcuno fuoriesce dall’involucro della ragione. Esistono tre diverse tipologie di ira: quella “frettolosa e improvvisa", animalesca, che si verifica quando ci sentiamo tormentati e intrappolati; quella “caratteriale”, scarsamente incisiva, che molto spesso conduce a situazioni di scontrosità e villania; e, infine, la mia preferita : quella "costante e deliberata”. Adorabilmente adolescenziale. La reazione alla consapevolezza di subire un trattamento ingiusto. Ogni giorno, ogni volta che apro gli occhi mi sento fortunato … e profondamente arrabbiato. Perché lo so che di lì a poco, magari al distributore di benzina o al bar, incontrerò l’incasellato di turno, il figlio stralegittimo del suo contesto, e quindi arrogante. Lui, mai tagliente né arguto, si innervosisce solo perché il suo i-phone non ha il segnale pieno. Felice e prevaricatore, ma non lo sa. Non se ne accorge. Una lettura superficiale del problema porterebbe a pensare che una riflessione del genere muove da una profonda invidia verso il vile allineato, perennemente contento. In parte è vero. “Sono arrabbiato perché so che mi arrabbierò”: un cane che si morde la coda. E non esiste una soluzione definitiva. Allora il segreto è quello di amare questo stato d’ira, farlo proprio ed utilizzarlo. Ritengo che molto spesso la rabbia sia propedeutica ad una razionale meditazione. Una contraddizione in termini forse, ma il discorso fila: se non ho lo spunto, non scrivo; se non sono arrabbiato non rifletto. L’ira, nel suo intimo significato, è potenzialmente in grado di mobilitare risorse psicologiche positive e di trasformarle in un sano dibattito interiore. E poco male se diventa distruttiva. Non è necessario un controllo cognitivo del proprio comportamento, laddove questo porti ad una sedentarietà mentale. Ed è inevitabile, leggendo un giornale o ascoltando le esteticamente impeccabili interviste dei nostri “eroici” rappresentanti, avere qualcosa di irrisolto, una disarmonia in- pag. 15 teriore, una discrepanza tra desideri e realtà. Inevitabile? Forse no, se penso al perennemente contento di cui sopra. Io sono


arrabbiato ma lui resta felicemente innocuo. Come il suo sorriso. Rivolgo il pensiero ad un classico: Achille, l’eroe omerico. Un leone in gabbia. La percezione del dolore e dell’ingiustizia fa si che quell’uomo sprigioni la sua vera essenza, il suo anelito di vita. Ed ecco allora che un ruggito diventa melodia. Una battaglia può placare la fame di giustizia. “Se si dovesse esprimere in una frase la caratteristica più importante dell’attuale situazione psico-politica mondiale, questa dovrebbe essere: siamo entrati in un’era senza punti di raccolta dell’ira con prospettiva mondiale” (Peter Sloterdijk “Ira e tempo”). La solita provocazione per dire che forse non ci arrabbiamo abbastanza. Non facciamo in modo che questo dibattuto sentimento sia fonte di respiro e vitalità. Ed è proprio quell’eroe che in qualche modo ci dice che solo attraverso costanti e quotidiane impennate di energia siamo in grado di salvarci e ripartire. In ogni ambito e ad ogni livello. Con ogni mezzo. Lo “straordinario” è assolutamente possibile. Così come è possibile alzarsi oltre la medietà senza che ciò implichi presunzione ed inutile trascendenza. Troppo spesso essere ed esistere, vivere e sopravvivere significano la stessa cosa. Questo mi spaventa, … profondamente! Mi spaventa molto di più rispetto al pensiero che la mia sana ira possa costituire anche la mia debolezza, il mio “tallone”. E allora, forse, in realtà mi sento fortunato ad essere arrabbiato.


I OL A N D A

Pensavo fosse amore … invece era un calesse “Ma perché l’amore è così fragile nei primi mesi di vita? Perché è così allergico, così esposto alle intemperie, così soggetto all’impietosa regola della selezione naturale? [...] Se nella vita ordinaria (quella senza traumi né gioie, a cui in fondo tendiamo: la vita – ottobre, dove ci si copre poco) la morte è una comparsa, nell’amore giovane si presenta, piuttosto, come un’imposta abusiva, un’Irpef della felicità. Come i pesciolini che nuotano sotto la coda degli squali, con la differenza che la morte – Irpef non si attacca all’amore per vivere a scrocco, ma per schiantarsi insieme a lui contro il primo scoglio” (Diego De Silva – Mia suocera beve; Ed. Einaudi) Forse perché quello dei primi mesi di vita non è “Amore”? Si può, infatti, “Amare” una persona che non si conosce? Incontri qualcuno che ti rimette in moto i battiti del cuore, che ti trasmette emozioni, che ti sconvolge la tua quotidianità, le tue sicurezze, il tuo modo di essere e di porti. Che ti fa scoprire una parte di te che non pensavi neppure esistesse. Quel qualcuno comincia ad avere un posto in prima fila nei tuoi pensieri, nelle tute giornate, nei tuoi programmi. Anche quando non te ne accorgi, quel qualcuno sta lì nella tua vita. Ti sei innamorato – o almeno è questa l’espressione che si usa per definire il tuo stato di subbuglio emotivo. Ma di cosa ti sei innamorato? Di un’immagine, di momenti condivisi, di atteggiamenti, delle emozioni che l’altro trasmette, spesso di mere proiezioni. Già, perché l’altro non sai ancora chi sia. E’, dunque, un sentimento tanto intenso, quanto irrazionale e superficiale, quello che è definito “innamoramento”. Un sentimento che, proprio perché nasce e si fonda su sensazioni e apparenze, è destinato a schiantarsi contro il primo scoglio. Si potrà schiantare contro la prima incomprensione; o, sopravvivendo, si schianterà di fronte alla conoscenza dell’altro, se la realtà che si scopre è diversa dall'immagine di cui ci si è innamorati o se, semplicemente, il tempo svelerà che quella realtà non emoziona più. O ancora, pur dimostrando di possedere una tempra più forte di pag. 17 quello che apparentemente palesava, morirà di morte naturale quando si accorgerà che il “noi”, quell’entità nuova che l’inna-


moramento aveva generato, anziché crescere e fortificarsi in un unicum ritorna pian piano a sdoppiarsi e regredisce nuovamente a un “io” e un “tu”, perché il “noi” era solo un’espressione vuota. O, vigliaccamente, si lascerà morire perché un “noi” è più impegnativo di un “io e un “tu” e fa paura. E’ in quel momento “… che la vecchia insaziabile ti propone il condono: “Molla tutto, - dice, e ti risparmierai un sacco di sofferenze”. E spesso, lì dove si annidava il sentimento dell’innamoramento, trova posto un senso di delusione. Ci si scopre, così, non più innamorati e delusi. Ma delusi da chi? Da cosa? Da noi stessi? Dalle nostre aspettative? Dalle nostre proiezioni? Dalla nostra incapacità di investire e costruire? Già, perché innamorarsi è una puntata alla roulette. Anche se si conosce il gioco, anche se si è fortunati, non si potrà mai essere sicuri anticipatamente che il numero su cui si è fatto la puntata sia quello vincente. Ma può succedere che, assistiti dalla fortuna e grazie all’abilità nel gioco, la puntata sia vincente. Ci si potrà allora accontentare di consumare la vincita godendone finché dura, fintanto che non arriverà l’esattore dell’“abominevole imposta”, e nel frattempo, magari, scommettere già su un altro numero. Perché l’importante è giocare! Oppure, se si ha la capacità di comprendere quanto si è stati fortunati e non si vuole sciupare la fortuna che è capitata - perché non è dato sapere se e quando di nuovo capiterà di puntare su un numero vincente e, soprattutto, se la vincita avrà lo stesso valore – decidere di investire al meglio quella vincita senza rischiare di dissiparla. Perché nel frattempo ci si è accorti che la conoscenza dell’altro, anche le sue diversità, continuano a emozionare; che ogni giorno che passa il sentimento che si nutre nei confronti di chi si sta conoscendo è più forte di quello che si provava ieri verso una proiezione. Allora nascerà il desiderio di scoprire cosa sarà domani insieme all’altro. E se ci sono delle difficoltà che mettono a rischio l’investimento, si farà di tutto per superarle affinché i frutti che quell’investimento sta producendo non vadano persi infrangendosi contro lo scoglio della incapacità e della paura ma, anzi, possano aumentare nel tempo. Certo il tutto funzionerà solo se l’“io” e il “tu” sono innamorati; se entrambi


scoprono che l’altro è una vincita preziosa da non dissipare; se entrambi vorranno investire in un “noi”, anche se fa paura; se entrambi saranno capaci di proteggere il “noi” e farlo diventare la dimensione nella quale condividere anche domani quello che da soli ieri non avevano. Perché entrambi hanno sentito che quella è la dimensione in cui possono essere felici ed hanno capito che solo attraverso la forza del “noi” potranno riuscire, probabilmente, a non pagare l’Irpef su quella felicità o, almeno, a posticiparne il pagamento. E’ forse questo l’“Amore”? Il peccato originale di Dio “In primo luogo, persino l’intelligenza più rudimentale non avrebbe alcuna difficoltà a comprendere che essere informato sarà sempre preferibile a ignorare, soprattutto in materie tanto delicate come lo sono queste del bene e del male, nel quale chiunque si mette a rischio, senza saperlo di una condanna eterna a un inferno che allora era ancora da inventare” (Josè Saramago - Caino; Ed. Feltrinelli). La conoscenza come strumento per non sbagliare o, comunque, per sbagliare consapevolmente comprendendo le conseguenze che dall’errore commesso deriveranno. E’ questo il primo appunto che Saramago fa a Dio a proposito del “nefando crimine di aver mangiato del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male”: non aver reso edotti Adamo ed Eva che un semplice atto, quale quello di mangiare una mela, avrebbe macchiato per sempre la loro discendenza di un peccato indelebile. E sono l’incomprensione e i fraintendimenti fra Dio e gli uomini che, secondo Saramago, caratterizzano la storia di questi ultimi. Nelle pagine di “Caino” troviamo un’immagine di un Dio molto diversa da quella che il catechismo, le liturgie e anche la cultura, domestica e non, ci hanno trasmesso. Ma questa immagine è poi così diversa da quella che ritroviamo nella lettura de La Bibbia? Nel Libro della Genesi 3,14 - Castigo e Promessa – invero non incontriamo certamente il più comprensivo dei Padri. Certo, stiamo parlando di una mera lettura pag. 19 del libro, non già di una lettura guidata o dell’interpretazione delle Sacre Scritture. E non è certo questa la sede per voler e/o


poter disquisire su, o men che meno interpretare, La Bibbia. Invero, chi scrive intende prendere spunto da quello che afferma Saramago in merito all’ignoranza come uno dei fattori che portano gli uomini a commettere errori – sin dal primo e più grave errore mai commesso – per esprimere qualche personale considerazione sulla non conoscenza e, conseguentemente, sull’incomprensione e i fraintendimenti nei rapporti interpersonali. Il non sapere, perché non si conosce, non si può conoscere, si è ingannati, si fraintende, se nella cultura popolare spesso è considerato come un bene – “Occhio non vede, cuore non duole” -, di fatto impedisce la comprensione di ciò che è e potrà essere e, conseguentemente, di trovare ed utilizzare gli strumenti per non sbagliare e/o per prevenire o correggere gli errori. Solo con la conoscenza si può comprendere; anche se non sempre la conoscenza comporta la comprensione né, tantomeno, la comprensione evita i fraintendimenti e gli errori. Sovente nell’interagire con gli altri non abbiamo una reale conoscenza dell’essere cui ci relazioniamo che ci consenta di comprendere le ragioni di certe affermazioni o di certi comportamenti ed atteggiamenti. Tendiamo a considerarli e valutarli secondo quelli che sono i nostri parametri di riferimento e di ragionamento, le nostre esperienze, le nostre convinzioni, le nostre esigenze e i nostri desideri, non conoscendo quelli che sono i percorsi mentali ed emotivi che, invece, portano l’altro a fare quelle affermazioni o tenere quei comportamenti ed atteggiamenti. Eppure, sono tante le volte in cui erriamo nel valutare e recepire ciò che l’altro voleva fare o dire. Di qui i fraintendimenti e le incomprensioni che possono rovinare i rapporti umani ed allontanare gli uni dagli altri. Ciò non vuol dire che la conoscenza dell’altro ci eviterebbe di commettere i medesimi errori o di comprendere ciò che ci viene dagli altri. Non è dato a noi sapere, infatti, se avendo Adamo ed Eva conosciute le conseguenze del loro gesto, non avrebbero agito nello stesso identico modo. Tuttavia, la conoscenza di ciò che non siamo, unitamente al desiderio di sapere e capire le ragioni che sottostanno a certe affermazioni, comportamenti o atteggiamenti, forse potrebbero evitare tanti fraintendimenti.


Un proposito buono per il nuovo anno che ognuno di noi dovrebbe fare è quello di impegnarsi a stare più attento a ciò che gli altri dicono e fanno, ascoltare ed osservare, non solo con i propri occhi e i propri orecchi, ma cercando di capire come gli altri vedono e sentono, e di chiedere, quando non si comprende, le ragioni che sottostanno a quei comportamenti e atteggiamenti che a noi appaiono errati. Magari, così, riusciremo ad evitare che i fraintendimenti rovinino rapporti preziosi. L’amore non carnale - Il linguaggio della parola “muta” Nelle mie lunghe giornate estive ho avuto il piacere di rileggere “Le lettere a Felice” di Franz Kafka (Ed. Mondadori – Coll. I Meridiani). Trattasi di un romanzo epistolare che raccoglie le lettere d’amore scritte da Kafka fra il 1912 e il 1917 alla fidanzata Felice. Le numerose lettere racchiudono in sé una storia d’amore durata 5 anni: dal primo incontro, alle tormentose vicende del fidanzamento, sino alla fine della storia. Un amore nato da un solo incontro – che Kafka descrive minuziosamente, attimo per attimo, riuscendo quasi a renderci partecipi di quell’incontro – e alimentato da Kafka attraverso una seduzione epistolare (60 lettere nei soli primi 4 mesi) dapprima timida e discreta e successivamente manifesta e intima. Un amore nato, vissuto e finito quasi esclusivamente attraverso le parole “mute” affidate a numerosi fogli di carta (i due in cinque anni si erano incontrati solo pochissimi giorni). Un amore che unisce l’anima di due persone senza mai coinvolgerne la carne. Un amore, si potrebbe pensare, assolutamente anacronistico in un’epoca in cui ogni pulsione amorosa attraversa il corpo prima – forse - di arrivare nell’anima. Eppure, uno sguardo più attento ci rileva anche oggi una realtà in cui alla parola è ancora – o nuovamente – affidato il compito di traghettare le emozioni e i sentimenti da un’anima all’altra. E’ il mondo delle chat, dei social network, degli sms. Senza entrare nel merito delle ragioni psico/sociologiche per cui detti strumenti di comunicazione hanno acquisito così tanto spazio nella vita di pag. 21 tanti, è un fatto che sempre più spesso si sceglie il linguaggio della parola “muta” per emozionarsi ed emozionare. Quante


anime si saranno incontrate sul web senza che i corpi si siano mai conosciuti? Quante storie di amore saranno disperse nell’etere? La lettera d’amore, quella con cui Kafka esprimeva il suo amore a Felice, ha oggi la foggia di una e-mail o di un sms. “Raccontare” se stessi ed i propri desideri, “esprimere” i propri sentimenti e le emozioni attraverso le parole scritte è certamente più facile. Le parole possono sedurre, possono confondere, possono aprire dei varchi nelle chiusure emozionali, possono portare nuova acqua nei deserti sentimentali. Ma non sempre le parole – soprattutto se “mute” - comunicano la realtà. E non solo perché spesso attraverso le parole si racconta un “io” che non è, bensì la proiezione di quello che si vorrebbe essere, o si esprimono sentimenti che esistono solo in quanto “parola”. Quante volte le parole comunicate arriverebbero all’udito di chi le ascolta con un significato diverso se solo fossero accompagnate dall’emozione della voce che le esprime o se si potesse guardare negli occhi chi le pronuncia? E’ fuor di dubbio che attraverso la parola “muta” nei secoli sono state elaborate e tramandate le rappresentazioni più poetiche dei sentimenti e delle emozioni regalando loro l’immortalità. Ma può la parola – soprattutto “muta” - comunicare e trasmettere ad un’altra anima i sentimenti e le emozioni al pari e con la stessa intensità di uno sguardo o un semplice contatto fisico? Quante parole sono necessarie per tentare solo di descrivere le sensazioni che si possono provare per un semplice abbraccio? La vita è una favolosa rottura di coglioni Tony Pagoda, il protagonista del libro di Paolo Sorrentino “Hanno tutti ragione” (Ed. Feltrinelli), sostiene che “La vita è una favolosa rottura di coglioni. Ma su cosa dobbiamo concentrarci? Sulla rottura di coglioni? O sul favoloso?” D’istinto risponderemmo tutti “sul favoloso”, ma nella realtà le scelte che giorno dopo giorno ognuno di noi effettua mirano effettivamente a raggiungere “il favoloso”? O “il favoloso” lo releghiamo a mero ricordo di un momento passato della nostra vita che non ci appartiene più o, ancora, lo collochiamo in una sorta di limbo da cui confidiamo che prima o poi verrà


fuori per sconvolgere il nostro futuro? Chi di noi non ha, almeno una volta, chiuso gli occhi sognando di vivere una favola? Nell’infanzia la favola che ci veniva racconta ci trasportava in mondi lontani e meravigliosi dove i principi e le principesse vivevano per sempre felici, dove i desideri diventavano realtà e dove il cattivo veniva sempre sopraffatto dal buono; da adolescenti, nella favola che ci raccontavamo da soli, diventavamo noi i principi e le principesse che avrebbero voluto vivere per sempre felici, sognavamo che i nostri desideri si sarebbero realizzati e che avremmo vissuto in un mondo in cui il bene non sarebbe sempre stato sopraffatto dal male. E poi? Persa la capacità di vivere le favole siamo diventati anche incapaci di desiderare “il favoloso”? Certamente gli anni vissuti ci portano sempre più spesso a pensare che “tranquillo” e “favoloso” siano sinonimi. Il che, in alcune situazioni, può essere anche vero. Ma ciò accade solo quando un momento di tranquillità è vissuto con quella leggerezza razionale e profondità emozionale che è propria degli animi sognatori. Ma non confondiamo il vivere tranquillo della quotidianità con il “vissero felici” delle favole. La felicità, intesa come quel momento di straordinaria intensità e, nel contempo, di fugace durata, può certamente trovare ingresso in una vita tranquilla ma è proprio in quel momento di felicità che sparisce la tranquillità. C’è chi preferisce, senza se e senza ma, la tranquillità come leitmotiv della propria esistenza anche se ciò comporta la rinuncia, anche definitiva, della ricerca della felicità, e l’incapacità di provare sincere passioni (sono, come li definisce Pagoda, “… quelli che si mettono comodi. E appassiscono ... I comodi si adagiano sulla rottura di coglioni. Li rassicura. Come il telegiornale alle otto”). C’è chi, come Tony Pagoda decide di rinunciare, tout court, ad una vita tranquilla, per andare alla ricerca spasmodica di tanti momenti intensi quanto fugaci di felicità, ai quali, però, diventa assuefatto come alla cocaina. C’è anche chi, come quei Paolo e Francesca che Dante colloca nel girone dei lussuriosi, decide di sacrificare in nome di un solo momento di felicità, la pro- pag. 23 pria esistenza. Allora su cosa dobbiamo concentrarci? Sulla rottura di coglioni? O sul favoloso? Forse dovremmo, sempli-


cemente, far si che la nostra vita, sia pur tranquilla [o come la definisce Tony Pagoda “… semplice (che non significa banale, tutt’altro)”] non diventi una rottura di coglioni e, soprattutto, non rinunciare mai a cercare dei momenti favolosi da cui lasciare stravolgere quella tranquillità che abbiamo conquistato. E non importa se il momento favoloso sconvolgerà solo il nostro mondo interiore senza necessariamente coinvolgere la quotidianità. L’importante è mantenere viva sempre e comunque la capacità di farsi emozionare dalla favola. Perchè, se come dice il Maestro Mimmo Repetto, idolo di Pagoda, l’unica cosa importante è la “sfumatura”, allora bisogna chiedersi se una vita serena e tranquilla ma senza sfumature emozionali sia o meno una vita realmente vissuta. L’incontro tra due essenze ovvero l’affinità non carnale “…Un incontro, a stretto rigor di termini è una coincidenza, il che non significa, è chiaro, che tutte le coincidenze debbano essere incontri” (Josè Saramago – Il Vangelo secondo Gesù Cristo; Ed. Universale Economica Feltrinelli) Nel corso della vita le coincidenze ci portano ad incrociare un numero indeterminato di persone. Alcune le ignoriamo, altre ci soffermiamo a guardarle ma non riusciamo a vederle, altre ancora entrano a far parte della nostra esistenza, per un attimo o per anni. La loro vita incontra la nostra. Fra le varie vite che incontriamo ce ne sono talune che sin dal primo istante percepiamo simili e nei confronti delle quali proviamo immediatamente un’attrazione, una vicinanza, istintiva. Sono quelle che Goethe definiva le nature “affini”. Altre, invece, che sentiamo assolutamente diverse e lontane al nostro io e che altrettanto istintivamente respingiamo. Con queste ultime è probabile che rimarremo estranee. Ci sono corpi “che stringono presto relazione e si uniscono senza alterarsi l’un l’latro: come il vino si mescola all’acqua. Ora invece si manterranno estranei l’un l’altro e nemmeno la mescolanza e l’attrito meccanico varranno a fonderli insieme: così come l’olio e l’acqua, sbattuti insieme, dopo un attimo si tornano a separare” (Johann Wolfang Goethe – Le affinità elettive; Ed. Fabbri Editori).


Eppure, può capitare che una mera coincidenza determini un incontro fra due esseri opposti, che forse proprio perché opposti e nonostante la presenza di altri esseri simili, incontrandosi si attraggono, si scelgono, si avvincono, si abbandonano e si legano modificandosi per formare un’entità nuova. Che cos’è, però, quel quid che causa l’attrazione, l’affinità, fra due opposti? Goethe lo identificava negli elementi mediatori che combinano ciò che reciprocamente si respinge: le leggi, la morale, le sostanze chimiche, ecc. Ma in un rapporto fra un uomo ed una donna che per una coincidenza si incontrano e, seppur opposti o, quantomeno, diversi, si attraggono, in che cosa si può identificare l’elemento mediatore? L’attrazione fisica o, meglio, la passione, è l’elemento che più frequentemente spinge due esseri a cercarsi, a confondersi fino a perdersi l’uno nel corpo dell’altro. E’ il desiderio di possedersi, di dare e attingere piacere che determinerà il legame. I corpi saranno lo strumento per vivere l’incontro. E ciò anche quando i due esseri hanno un io che razionalmente non potrà mai incontrarsi e compenetrarsi. Consumata la passione finirà l’incontro. Ma può accadere che due esseri, seppur diversi, nonostante istintivamente e talvolta anche razionalmente si respingano, non possano fare a meno di cercarsi. E non per attrazione o piacere fisici. Non è la ricerca di un corpo. Il corpo sarà solo lo strumento attraverso il quale i due esseri creeranno il primo contatto. Gli occhi, le mani, la bocca, la pelle, l’odore serviranno solo come veicoli per unire l’essenza dei due esseri, ciò che si cela sotto le sovrastrutture che il percorso delle due vite ha creato su ciò che naturalmente è del tutto simile. L’essenza si riconoscerà, comunicherà, si unirà, si confonderà e si perderà in una dimensione astratta, avulsa e lontana dalla realtà delle due vite, che diversamente continueranno a respingersi. Le parole e i gesti non serviranno per mantenere unite le due essenze, anzi, spesso saranno utilizzate per separarle. Sarà una lotta continua fra ciò che l’essere “è” e ciò che “è diventato”, finché l’uno non si arrenderà all’altro. Certamente la razionalità aiuterà ciò pag. 25 che l’essere “è diventato” a prevalere sulla parte più nuda ed indifesa dell’io, l’ essenza. Tuttavia se ciò che l’essere “è diven-


tato” realizzasse quanto siano rare le coincidenze che determinano l’incontro con altre essenze simili, si spoglierebbe immediatamente delle sovrastrutture inutili, mettendo a tacere la razionalità e dimenticando le parole, i gesti, gli atteggiamenti che gli derivano da altre coincidenze e altri incontri, per abbandonarsi totalmente a ciò che “è” per diventare un’entità nuova con un'altra essenza. Ho perso le mutande… ma solo quelle di cotone Le cerco disperatamente ma non le trovo. Non so come sia possibile che le abbia perse, erano riposte nel cassetto dell’armadio. Eppure ora non ci sono più. Sono sparite tutte. Ma non tutte tutte, solo le mutande di cotone. Che sciocca donna, era solo un sogno!!! Cerco di riaddormentarmi, magari nel sogno successivo ritrovo la mutande. E’ mattino e non ricordo altri sogni. Le mutande sono tutte al loro posto. Dentro di me è rimasta una sensazione di smarrimento e di curiosità. Qualcosa mi dice che quello della scorsa notte non era un sogno qualsiasi. Perdere le mutande e, soprattutto, perdere solo una ben precisa tipologia di mutande, cosa vorrà significare? Consulto la Smorfia. Perdere le mutande: perderai tutto (numero della cabala 9 - che, peraltro, considero anche il mio numero fortunato); mutande pulite: coscienza tranquilla (45); mutande da donna: desiderio sessuale (22). E quindi? che conclusioni trarne? sto perdendo la coscienza tranquilla o il desiderio sessuale? Forse dovrei limitarmi a giocare questi numeri al lotto, magari… Le ore passano, ma il sogno continua ad incuriosirmi. Ne parlo con gli amici. Qualcuno mi dice che perdere le mutande significa perdere la dignità. Mi chiedo: “Ma se io ho perso solo le mutande di cotone e non quelle di pizzo o quelle di lycra, ho perso solo una parte di dignità? solo quella di più basso profilo?” Mi viene anche suggerito che forse, considerato che ho sognato di perdere solo le mutande di cotone, inconsciamente penso che sia arrivato il momento di dismetterle ed incominciare ad usare quelle meno comode, ma tanto più sexy, di pizzo. Consulto internet, altra interpretazione:


“Ti vergogni di qualcosa e questo qualcosa è simboleggiato dalla perdita delle mutande. Perché i vestiti nei sogni sono le maschere che portiamo nella vita, quindi quei costrutti sociali che ci fanno apparire ma non mostrano quello che siamo veramente. Le mutande poi sono un indumento intimo che rappresenta la protezione più forte, la maschera più forte di una donna, che non vuole mostrarsi completamente al pubblico, che nasconde la sua bellezza ed intimità solo per chi ama veramente. Quindi hai timore che questa ricerca di una stabilità sociale ti possa portare a perdere l'intimità, quelle maschere che hai costruito per socializzare con gli altri”. Bah! Eppure, sono sicura che quel sogno qualcosa nasconde, deve significare qualcosa. Mutande… perdere le mutande di cotone… Se “mutanda” etimologicamente significa “da cambiare”, se il cotone rappresenta qualcosa di naturale, forse il mio inconscio mi vuole comunicare che sto cambiando e perdendo la mia “naturalezza”? oppure, considerato che nel sogno cercavo disperatamente le mutande perse, che ho già subito dei cambiamenti che non accetto e, pertanto, vado alla ricerca della parte di me più semplice e naturale? Ma che idiozie dico!? E se, invece, quello che ricordo è solo una parte del sogno? Magari c’era dell’altro nel sogno che il risveglio ha rimosso nella memoria e, dunque, la perdita delle mutande era solo un episodio marginale di una situazione più complessa. Torno a casa, apro il cassetto, contemplo le mutande. Ne manca qualcuna? Come faccio a saperlo, non le ho mai contate. Allora penso: “Se ne perdo qualcuna come faccio ad accorgemene?” Chissà quante ne ho perse negli anni e non l’ho mai notato. Forse, allora, non sono così importanti!? E poi, mi dico, se anche le perdessi tutte le potrei ricomprare o usarne di altro tipo. Magari è questa l’occasione per comprarne di più belle. Fra un po’ è il mio compleanno, potrei fare la lista delle mutande da farmi regalare. E se invece di continuare a perdere tempo a pensare alle mutande, che peraltro non ho perso, facessi al- pag. 27 tro? Esco. Il mio pensiero ritorna al sogno. Ormai è un incubo!!! Cerco di distrarmi. E’ inutile. Torno a casa, apro il cas-


setto, prendo tutte le mutande di cotone, le metto in un sacchetto, le poggio vicino alla spazzatura. Le butto, così non potrò più avere paura di perderle. Faccio altro, non devo più pensare alle mutande. Ritorno indietro, il sacchetto è lì, lo riprendo. Non posso buttare le mie mutande, le perderei per sempre. Sono di nuovo al loro posto, sono belle da vedere tutte insieme. Vorrei immortalarle in una foto, così se le perdo mi rimarrà un loro ricordo. Oddio, incomincio a fare confusione fra sogno e realtà!!! Ci manca poco che mi metto a colloquiare con le mutande. Non sarà che mi sto facendo condizionare dalle elucubrazioni oniriche di Schnitzler? Richiudo il cassetto. E’ tardi, ho trascorso la giornata pensando al sogno e alle mutande e non mi sono accorta che è scesa la notte. Non ho neppure cenato per pensare alla mutande. Mi sono smarrita. Vado a dormire. Chissà cosa succederà questa notte!? Brucia! Mi sono addormentata sotto il sole. E’ la birra a pranzo che fa quest’effetto. Forse è il caso che mi butti in acqua per rinfrescarmi. Mi soffermo un attimo, mi guardo intorno … quella che mi circonda è gente in mutande!? Basta!!! [“Nessun sogno è soltanto un sogno!” (Doppio sogno - Arthur Schnitzler)] L’insostenibile leggerezza dell’essere zitella “Amare, sacrificarsi e soccombere! questo è il destino suo e forse di tutte le donne? … Ero pervenuta al sofisma di tante donne che conciliavano l’amore dei figli colla menzogna maritale? Il mio spirito si raffigurava un avvenire di viltà felice fra le gioie materne e gli amplessi dell’amante?” (Sibilla Aleramo, Una Donna; Ed. Universale Economica Feltrinelli). “Quanti anni hai?” “42” “E sei sposata? “No” “Hai figli?” “No”. Abracadabra!!! I due “no” trasformano in un attimo la donna che ha osato rispondere negativamente in un essere minus habens. Già, perché se sei “una quarantenne”, non sei sposata e, soprattutto, non hai figli, appartieni ad un’altra realtà, ad una dimensione popolata da esseri la cui vita è destinata all’infelicità perenne perché “mancante” di quel valore aggiunto che è il matrimonio e/o la procreazione. E non


importa se nella tua vita hai avuto relazioni di durata più lunga di quella che mediamente ha un matrimonio. Né hanno rilevanza alcuna le ragioni per cui un figlio non è stato da te concepito. Sei “mancante”! Ma non c’era stato il femminismo? L’emancipazione femminile? L’autodeteminazione e l’imposizione della donna in quanto tale e non solo come moglie e madre? Allora perché ancora oggi una donna è considerata come un essere destinato all’infelicità se ha superato i quarant’anni senza marito o figli? Sarà, forse, perché quella donna che incarna ancora, nell’immaginario soprattutto femminile, uno status sociale che ha condizionato negativamente, nei decenni passati, la vita di intere generazioni femminili. L’emancipazione femminile ha trasformato la nubile in “single”. L’essere “single” ha reso fantastica e meravigliosa quella fascia di età, dai 30 ai 40 anni, che per le generazioni femminili precedenti rappresentava, invece, il trapasso, in assenza di coniugio, dalla condizione di nubile a quella di “zitella”. Ma parliamoci chiaro e chiamiamo le cose con il loro nome, oggi puoi chiamarti o essere chiamata “single” sino al compimento dei cento anni. Di fatto, però, se hai passato i quarant’anni, non sei sposata o, comunque, convivente e non hai neppure figli, il termine “single” assume lo stesso significato che una volta aveva il termine “zitella” (parola, peraltro, meravigliosa!!!). Ed è forse per questo che gli occhi di chi considera “mancante” una donna solo perché a quarant’anni è solo ancora “donna” sono quasi sempre quelli di altre quarantenni che hanno scongiurato la possibilità di diventare zitelle abbandonando la vita da “donna single” in prossimità dei quarant’anni. Sono loro che si sentono donne “migliori” solo perché mogli (o anche solo ex mogli) e madri e a prescindere dai loro successi come donne, mogli o madri. Che avendo deciso di “completarsi” diventando mogli ma, soprattutto, madri non riescono più a concepire che ci si può sentire completi anche facendo scelte e vivendo vite diverse dalle loro; che non pag. 29 comprendono che non essere moglie e/o madre non priva assolutamente la donna della possibilità di essere felice; che


una donna può essere felice avendo accanto un “uomo” anche se non è marito; che ci sono donne che vivono bene anche se un figlio lo volevano ma non sono riuscite a procrearlo o, addirittura, che vivono meglio pensando di non aver procreato un figlio che avrebbe sofferto per gli errori propri o di un padre sbagliato; che ci sono donne che non potrebbero mai sopportare i sacrifici che l’essere moglie e madre richiede; che ci sono donne che non potrebbero mai accettare l’ipocrisia e la monotonia che alcune volte caratterizza la vita coniugale; che per alcune donne è proprio la libertà da qualsivoglia vincolo coniugale o filiale che può costituire fonte di felicità. Che non sanno che esiste una insostenibile leggerezza dell’essere zitella che ti fa godere del privilegio di essere donna anche se accanto non hai né un marito né un figlio.


MARIELLA

Il mio paese sapeva di buono Nell’aria si mescolavano senza darsi fastidio profumi di tutti i tipi. Per Pasqua l’odore forte delle pizze di formaggio si alternava al profumo leggero della vaniglia, dei canditi, dell’uvetta di quelle dolci. Le donne passavano dritte per i vicoli, orgogliose, sotto il peso di lunghe tavole di legno, attraversavano il paese e sopra, civettuole, facevano l’occhiolino le pizze, appena coperte da candidi panni bianchi, tutte da cuocere al forno di Galileo. Davanti a quel piccolo forno sulla discesa di Santa Margherita era tutto un fervore... devo infornare io - no tocca a me! - sono arrivata prima!... ed erano veri drammi quando il povero Galileo, il fornaio, aihmé, sbagliava i tempi o la temperatura e le bruciava tutte, le pizze. E ricordo che succedeva... succedeva. C’errano le pizze della sora Totina, le pizze della signora Onella e c’erano le pizze della zia Melania (e più buone!). Per San Niccolò le monache del Monte preparavano dei biscotti buonissimi ricoperti di zucchero, erano a forma di asinello, di casetta, di albero di Natale, di san Niccolò, ecc., li mangiavamo la mattina con il latte che tutte le sere portava il lattaio. Il lattaio veniva a bussare a casa la sera, veniva in bicicletta con la sua giacca bianca, un grande contenitore di latta argentata e legati con delle catenelle 2 o 3 bicchieri dosatori sempre di latta argentata. Si sentiva da lontano che arrivava per il tintinnio del contenitore e dei bicchieri. Si scendeva in strada con il tegame in mano e lui versava il latte profumato. A novembre il corso del paese sapeva tutto di buono, erano le castagne arrosto di Zuara, la fruttivendola del paese che aveva sempre un sorriso e una parola per tutti e profumava di castagne arrosto, 7-8 in un cartoccio di carta paia, ed era subito festa. Miaccio - Miacioooooo callo callo! Era il macellaio sulla porta della bottega avvisava tutti a squarciagola: era cotto il miaccio. Sempre in cartocci di carta paia vendeva sangue di maiale cotto e condito con zucchero, uvetta, pinoli... che buono che era! A settembre-ottobre un forte odore di mosto avvolgeva tutto il paese, nei vicoli erano tante le piccole cantine dove si pressava l’uva. Arrivava (l’uva) su carretti tirati da asini pigri o da pag. 31 candidi buoi, arrivava dalla campagna che tutta intorno abbracciava Bevagna. Ma per le strade, nei vicoli, si sentiva anche sem-


pre forte l’odore delle stalle dei maiali, dei somari, dei polli. Dalle porte socchiuse uscivano caldi e morbidi i profumi delle zuppe, dagli usci si intravedevano piccoli fuochi accesi sotto pentole di coccio, lì bollivano fagioli, ceci, cicerchie, spesso unico pasto di tutta una giornata. La gente degli anni cinquanta era povera, prevalentemente povera, in questo piccolo paese di pianura immerso nella nebbia d’inverno e affogato dalla calura d’estate, ma dignitosa e onesta e… se chiudo gli occhi… sento con profonda nostalgia che profumava proprio di buono. In due Sto cercando una casa nuova... la mia l’ha spazzata via l’uragano… Tra le sue macerie cerco me stessa e non mi ritrovo… Diversa, impaurita e spaesata insieme. Per quaranta anni… ho camminato insieme a lui, per lui, a volte contro di lui… ma sempre insieme. A volte lo ami il tuo compagno, in altri momenti lo sopporti, in altri non puoi fare a meno di lui, in altri… in altri… e via via, come un fiume che attraversa pianure verdi, rapide turbolente, anfratti nascosti… Così è la vita in due… ma condivisa sempre nel bene e nel male, Così è stata la nostra… Oggi da sola non mi riconosco e cerco appigli per vivere, sopravvivere e soprattutto ricominciare a vivere: I figli, i nipoti, Gli amici… pochi, i fratelli… uno… E la mia barca va in questo mare in burrasca, ogni giorno faticosamente, finché viene sera… Ed io stanca di remare… mi addormento


SA M A N TH A

Elenco di una vita universitaria del XXI secolo 1. Essere pronti a lasciare la propria terra, i genitori, gli amici, anche i futili amori adolescenziali per inseguire la paura di un futuro che non c'è o forse solo l'incoscienza dei propri sogni; 2. Mettersi in coda armati di foglio e penna per vagliare gli annunci più convenienti riguardo alle stanze da affittare. Telefonare, prendere un appuntamento e accorgersi solo dopo che in una casa di 50 mq si vive in quattro, i muri hanno le crepe, il riscaldamento non funziona, l'acqua è fredda a giorni dispari e l'affitto è in nero; 3. Lavorare fino alle 5 di mattina al pub, in discoteca guadagnando 5 euro l'ora o alzarsi per lavorare alle 5 di mattina consegnando volantini per 30 euro al giorno, e poi andare a lezione con gli occhi cerchiati di nero ed essere accusati di fare uso di sostanze stupefacenti e di essere una generazione bruciata e irriconoscente; 4. Addormentarsi sui libri mentre fuori piove e l'odore del caffè e delle sigarette irrora il tugurio che mi ostino a chiamare casa e a nascondere alla vista dei miei genitori per non farli vergognare di avere una figlia studentessa universitaria che si ostina a vivere in un luogo come questo; 5. Fare la coda per due, tre, cinque ore davanti all'ufficio del professore e poi sentirsi dire dal personale dell'università che il docente non si presenterà a ricevimento: ha un impegno di lavoro; 6. Aspettare l'autobus sempre in ritardo sotto la pioggia o correre per non perdere l'autobus dopo l'ultima lezione delle otto di sera perché sennò poi si torna a piedi a casa. Sotto la pioggia. E nonostante tutto vedersi i biglietti dell'autobus aumentati del 50%; 7. Elemosinare un pasto a mensa e chiedersi se i rifiuti italiani abbiano, nelle cucine di queste sedi, trovato un nuovo alloggio; 8. Essere derisi dai compagni che hanno lasciato gli studi perché ora vivi come una pezzente fuori di casa e loro hanno un misero lavoro. Essere derisi dai padroni delle case dove vivi perché hai gli abiti bucati ma paghi regolarmente l'affitto. Essere derisi dai datori di lavoro perché se ti chiedono di fare il doppio turno abbassi la testa e non apri bocca. Essere derisi dagli amici quando invii l'ennesimo curriculum che non avrà che una rispo- pag. 33 sta: il silenzio. Essere derisi da quelli che non credevano in te e ti ritrovano a fare il commesso al supermercato perché ti ostini


a inseguire i tuoi sogni. Essere derisi quando provi a fare un concorso qualunque esso sia. Essere derisi quando dici di avere 20 anni e di non voler fare né il medico né l'attore né l'avvocato. Essere derisi da se stessi quando la sera si fissa il soffitto e ci si ritrova a pensare; 9. Voglio cambiare il mio Paese inseguendo i miei sogni. Non voglio più essere considerata un'eroina come eroi sono Falcone, Borsellino, Impastato, se scelgo di farlo. Non voglio essere più l'unica a urlare nel silenzio, ma voglio che la mia voce si confonda con migliaia di altre diverse voci. La finestra sul ponte generazionale E' un'altra umida mattina. Le mie ossa sembrano avere 80 anni o poco più. Di certo dormire sulla scrivania avendo come cuscino le pagine 41 e 42 delle “Epistulae ex Ponto” di Ovidio, non è il massimo del comfort. Niente a che vedere con le televendite dei materassi. Sì quelle che riciclano i personaggi spazzatura della tv. Abito molto lontano da qui. Talmente tanto che non sento più l'odore di caffè appena fatto da mia madre alle 7 di mattina o i passi già stanchi di mio padre che va al lavoro in fabbrica. L'angosciante paura del domani a volte si fa opprimente. Che farò? Chi sarò? Ma soprattutto..quando sarà il mio futuro? La mia storia è quella di tanti altri, dei giovani che scappano dalla provincia per rincorrere sogni e aspettative, per cambiare la storia familiare, per “elevarsi” al di sopra di un ceto sociale di medie ambizioni. L'università. Già. Sono una studentessa universitaria con disturbo bipolare della personalità. Di giorno studio, di notte lavoro. Dottor Jekyll and Mister Hide. No, no, non quel tipo di lavoro che credete voi. Non c'entrano niente marciapiedi o quant'altro. Cameriera in un pub per 5 euro l'ora. Et voilà. L'affitto è pagato. 250 euro al mese per una stanza (spese escluse), e passa la paura. Perchè la scalata verso il futuro è dura. Ma soprattutto costa. Come tutto in Italia, d'altronde. Andatelo a dire ai politici che vendono il loro didietro per un posto e un po' di euro mensili, andatelo a dire ai furbi delle aziende che ti fanno entrare se fai la tesserina magica per questo o quel partito, per questo o quel sindacato. Test d'ingresso alle facoltà degli svariati atenei. Devo aggiungere qualcosa? Oh si forse una


nota in inglese poiché i nostri cugini europei poco capirebbero. Quanto astio, quanta rabbia. Ci vuole un Malox per digerire un articolo così. Pensate a viverlo. Che vuol dire essere poco più che ventenni nell'italica nazione del 2010? Non saprei. Cioè non saprei da dove cominciare. Il fatto è che tu parti motivato, veramente. A 20 anni lasci tutto, la tua famiglia, i tuoi amici, gli amori talvolta, sacrifichi tutta la tua vita di adolescente bambino e parti. Ti senti un po' nonno emigrante a cercar fortuna. La prima volta che metti piede in una università ti rendi conto che sei fottuto. Che non c'è speranza. Se anche lotterai e sgomiterai e urlerai più forte, nessuno correrà a soccorrerti. A meno che non ti asciughi le lacrime con dei bigliettoni verdi. Sei figlia di un operaio? Peggio per te. E in più sei anche poco attraente? Allora tornatene in fabbrichetta a fare l' “operaia” silenziosa che si busca i suoi bei 1000 euro tondi tondi, che va a casa a vedere i reality show sognando la svolta della sua vita, che si gioca tutto all'enalotto e ai gratta e vinci, e chiama le trasmissioni dei pacchi per partecipare come concorrente. Meglio di così, che altro si può sognare? Oh si un cellulare di ultimissima generazione e una vacanza pagata con il mutuo a Porto Cervo o che so io al Billionaire. Da soli non ce la si può fare. Eppure. Eppure eccomi qua. Appena sveglia dopo una notte di studio dopo una serata di lavoro. Fa freddo e mi infilerò il giubbotto di pelle per andare a lezione stamattina. Darò un saluto veloce alla mia coinquilina e scapperò a perdere l'autobus. Le scarpe mi si slacceranno a metà strada e quando entrerò il professore si interromperà un attimo e dovrò sedermi per terra perchè non ci sono abbastanza posti per seguire le lezioni seduti. Oh accidenti. Che futuro posso avere? Uno di cui sarò orgogliosa comunque vada. Uno in cui mi ricorderò di oggi, ieri e domani. Del freddo, del caldo, dell'autobus puzzolente, del cibo del discount, degli abiti comprati alle svendite. Dei 5 euro guadagnati ogni ora di lavoro, dei calli alle mani, del mal di schiena. Della profonda ingiustizia che regna nella società verso i giovani. Io voglio lottare e fallire e non ringraziare. Anzi, qualcuno voglio ringraziare. Ringrazio tutte le pag. 35 mamme e i papà, che come i miei, fanno sacrifici e buchi in più alla cintura, per far studiare i figli all'università. Ringrazio quelli


che come me credono ancora che questa nazione possa cambiare e faranno di tutto per toglierla dagli artigli dell'avvoltoio manierismo politico. The polITicALY 2010. Le strade restano intasate d'auto, e il cielo leggermente velato di grigio. E' un'altra lunga giornata in Italia. E a ventidue anni sono molte le cose da fare, troppi i sogni da inseguire, in questo Paese di vecchi. Già. Di vecchi. Sembra non esserci posto per qualcosa che profumi di giovinezza, di ribellione, di voglia di cambiare. La classe politica di questa, ormai rinominata, Seconda Repubblica è la pallida e sgualcita immagine di questo ostile sentimento contrario al nuovo. Le poltrone sembrano incollarsi ai fondoschiena di deputati per niente onorevoli, che non hanno alcun senso della res publica e l'unica legge che conoscono è quella dei nove zeri ad ogni costo. Favori, scambismo, furbate. Prendere in giro la gente che sputa sangue per quattro soldi al mese e da essa essere osannati. Nessuna paura dei sentimenti di rabbia. C'è la televisione e il suo mondo dorato a calmare gli animi. La tv con i suoi amarcord musicali del venerdì sera e i suoi irreality show che fanno sognare non il diritto a chiedere uno Stato migliore, ma la botta di culo che può cambiarti la vita. La tua. Per quella degli altri si vedrà. Che si arrangino. Questo hanno creato i nostri politicanti. Nessun valore da consegnare ai posteri prossimi. E se gli chiedete che fine ha fatto il nostro futuro, sono sicura che subito risponderanno: “Ma come? Non lo sai? E' lì in fondo a destra”. Esatto. Come i wc. Se ne vola via la cenere dell'ultima sigaretta poggiata nel posacenere al primo vento di maggio. Domani è un altro giorno. Il coraggio di essere coinvolti Non è facile essere se stessi sempre e comunque... Lo so bene io che ho una famiglia e dei figli. Ti alzi la mattina, in questa città dove tutto conosce tutti e tutti conoscono tutto, e pensi a far finta di niente, a evitare gli specchi perché a guardarsi negli occhi ci si fa comunque un po’ schifo. Pensare che non sta succedendo niente. Non pensare che mi hanno strappato via un lavo-


ro che io mi sono sudato e nessuna tessera partitica o sindacale rappresenta il sudore che ho versato Non pensare a quando stringevo i denti e mi mordevo le labbra e subivo le umiliazioni in silenzio per non essere licenziato e andavo a lavorare nei peggio posti della catena di montaggio, a spaccarmi le braccia pur di mantenere quello che era il mio presente e il futuro della mia famiglia. Adesso che vedo qualcun altro lottare anche per me, abbasso lo sguardo e cammino veloce pensando a quanto, a quanto vorrei essere lì pure io... Perché non ci sono? Perché ho paura di essere coinvolto? Perché non sta succedendo niente, le fabbriche riapriranno, le umiliazioni torneranno e io...non posso niente contro tutto questo. Chiedo scusa a tutti i ragazzi che hanno l'età dei miei figli, vent'anni o poco più. La mia generazione è una generazione vigliacca, che pur di avere soldi e potere la dignità l'ha buttata via, l'ha dimenticata, l'ha rimossa. Ma non solo quella, anche l'identità...Si l'identità, perché io non so più chi sono, mi sento solo uno dei tanti. Come una goccia del mare, per capirci. Eppure qualcuno lotta anche per me. Scusatemi tutti, pure voi che gridate con la mia voce anche per conto mio, se stasera non sono lì a ridere o piangere insieme, a scrivere messaggi, volantini, a fare il punto della situazione. Ma non sta succedendo niente, e chi sono io per compromettermi così? Per sfidare questo sistema? Le fabbriche riapriranno e io tornerò a essere umiliato. Voi forse no. Io tornerò a essere umiliato, voi no. Come sempre. Andate avanti. Non mollate. Lacrime e sangue C'era un tempo la speranza di un mondo migliore, di una società più giusta. Per tutti. C'era un tempo il lavoro, lo stipendio, i diritti. C'erano un tempo i sogni di una famiglia da costruire, una casa in cui invecchiare, un'auto per correre verso il mare. Dice il famoso passo della Bibbia che c'è un tempo per ogni cosa. Da oggi infatti le cose cambiano. Ora è il tempo dei pianti, delle urla, della disperazione perché è troppa la nebbia che nasconde l'orizzonte di un domani. Il lavoro. Quale lavoro? Colpa pag. 37 della crisi? Troppo comodo. Troppo facile. Il lavoro, l'occupazione non esistono più. Da questo momento si chiamano ele-


mosina. E lo stipendio? E' solo parte di quest'obolo, una gentile concessione fatta da filantropi che già si prodigano nel dare un senso alla vita delle persone normali come noi. Di quelle insignificanti come noi. Di quelle che se muoiono sono un numero, come noi. I diritti sono solo pretese. I diritti sono solo retaggi del passato, frutto di un modo di parlare e di concepire la realtà viziato dagli anni di piombo. Guai a usare questi termini. Guai a usare questo linguaggio. Guai solo a pensarlo. Signori miei, lo spettacolo è finito. Chi avrà il coraggio di cambiare questa realtà? Io ormai scrivo queste poche righe, non avendo più fiducia in niente e nessuno. Eppure ho solo 23 anni. E non ho visto niente. Ma ho conosciuto bene l'umiliazione di essere una studentessa universitaria che cerca casa fuori sede, che cerca un lavoro onesto retribuito in maniera onesta. Questo è l'ultimo articolo che parlerà dell'attuale situazione del nostro Paese. Non intendo proseguire oltre. A cosa serve se nessuno vuol capire? Mirafiori. Questa è la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Che mi ha fatto capire che ormai c'è poco da fare. Che questa società non cambia, non cambia. E loro, i politici, non la cambiano. Mi sembra di fare un'orribile citazione al discorso della vedova di Vito Schifani. Mirafiori. Ogni parola di un politico, mi sembrava una violenza alla mia vita. Io figlia di un operaio. Li avete sentiti parlare i nostri “onorevoli”? Ma come possiamo ancora essere così ciechi di fronte a tutto questo? Dobbiamo pretendere di più! Moriamo per soli 1200 euro al mese, quando va bene. Oppure moriamo di fame lavorando in nero per cercare di mettere insieme il pranzo con la cena. E lasciamo che ci prendano in giro, che ci umilino. Eppure non si può alzare la voce. Perché se si alza siamo violenti. Terroristi. Figli degli antichi ideali. Comunisti. Come finiremo? Che ne sarà di noi?


F A USTO

La distilleria minore dello zuccherificio Passavo in auto e come tante altre volte ho gettato uno sguardo alla mia destra per guardare lo zuccherificio, o meglio, le strutture della ex distilleria di Foligno. Da tempo si notavano strutture fatiscenti già spogliate di tutto e ho notato un grande mezzo che stava completando l'opera di definitiva demolizione. La prima sensazione è stata di compiacimento, finalmente! Da anni l'area era un vero sito archeologico praticamente dentro la città. Poi ripensando a quello che scriverò mi sono chiesto: le foto o filmati potranno ricordare la sua storia, o meglio, una foto può raccontare la storia? In parte sicuramente si... Ma cosa ne sa di quel fabbricato lungo lungo, con un improvviso parallelepipedo che svetta in alto, e si riallinea. Di quella finestrella che guarda verso Pale, di cosa c'era dietro le porte in basso, alcune con le inferriate a proteggere qualcosa di prezioso altre no. Era la distilleria, figlia minore dello zuccherificio, ma i cui operai che ci lavoravano si consideravano l'elite della fabbrica. Il perché l’ho compreso da grande; la catena di produzione era breve,circa 3\4 passaggi. Ognuno di noi vedeva il prodotto finito e la cosa, contrariamente allo zucchero che prevedeva decine di ruoli diversi e dispersivi, era particolarmente gratificante. Noi facevamo l'alcool con la melassa della barbabietola. Sembrava petrolio dolciastro molto denso, per farla scorrere nei tubi doveva essere riscaldata. Poi mischiata con acidi e acqua, fatta fermentare, riposare e inviata alle grandi colonne di distillazione. Ecco l'alcool buongusto o denaturato, attentamente controllato dalla guardia di finanza che insieme a noi prestava servizio nelle 24 ore. Circa tre per turno, in totale 11\12 operai. Alla prima lavorazione erano destinati i più giovani, alcuni universitari come me, con qualche libro dietro nella speranza di poter magari dare una ripassata all'esame in preparazione. Generalmente non si apriva libro,tanto era il rumore e le cose da fare, ma qualcosa sicuramente ha aiutato visto che, dei colleghi che pag. 39 ricordo, tutti abbiamo conseguito la laurea. A me piaceva il turno di notte, sonno a parte; mi piaceva la sensazione che


mentre altri dormivano,lì era giorno pieno. Si parlava, fumava, mangiava, lavorava normalmente, le luci erano artificiali ma la vita e le cose da fare erano le stesse fatte a mezzogiorno. Ricordo un particolare divertente del mio lavoro: la base che preparavo di melassa per la fermentazione doveva avere una determinata acidità e concentrazione zuccherina: per la presenza dello zucchero era abbastanza semplice, si usava un saccarometro ma per l'acidità si usava una cartina di tornasole che in base alla sua colorazione determinava l'aggiunta ulteriore di acido o di acqua. Abbastanza facile no? Si, se non fossi daltonico... e allora? di corsa giù per una scaletta a domandare al collega di sotto: è troppo rossa? come va? Le prime volte mi prendevano in giro, poi... più acqua, metti un po’ più di acido e il risultato era sempre raggiunto. Poi la sirena, arrivava il cambio, quattro chiacchiere e via un po' assonnato ma tutto contento di uscire con la mia lambretta per ritrovare amici e familiari. La paga era strepitosa per un operaio (si parla degli anni '68 '69 '70): in tre mesi circa di campagna, mi comprai la prima auto e anche se utilitaria era come comprarsi ora una Punto del valore di 12\13.000euro in tre mesi di stipendio (l'equivalente di circa 3.000euro mese). Tre anni di lavoro, o meglio tre campagne, così si chiamava il periodo lavorativo. Poi si chiudeva, rimanevano gli effettivi (l'attuale contratto a tempo indeterminato) e gli avventizi venivano licenziati. Per molti era un momento di tristezza, il lavoro finiva, per altri fortunatamente ricominciava una vita più normale: studio o altro , in ogni caso si realizzavano gli obiettivi della nostra vita futura. Mazzoni, Belloni, Crisanti, Nizzi, Vittorio, sono alcuni nomi di colleghi che ricordo. Perciò tranquilli, fino a che ci saremo noi, vi racconteremo cosa c'era dietro quella porta. Come eravamo Fra poco partiamo per Terni da zia Giuliana, hai preso il fiasco dell'acqua? E io capivo senza bisogno di tante spiegazioni cosa dovevo fare. L'acqua era indispensabile; fiat seicento primo modello affrontare la salita della Somma significava


fermarsi almeno una volta per rimboccare il radiatore dell'acqua che incominciava a bollire ed era una cosa del tutto naturale. Stesso discorso se si andava al mare a Riccione, ovviamente bagagli sul tetto dell'auto (bisognava valicare Nocera e Gualdo). Dai siete pronti? Si va a Perugia alla Standa (era come andare ai grandi magazzini Harrold di Londra). Il gelato da Cirillo era da trenta e cinquanta lire (ma su richiesta anche da venti lire). Ed il caro Safwan (un nostro amico siriano) che in quattro con la cinquecento partiva da Perugia per andare ad Aleppo (Siria). Poi il cinema all'aperto, il pacchetto di sigarette solo da 10, le feste studentesche con elezione della miss, le vespa o lambretta, stivaletti alla beatles (tornati di moda almeno altre 5 o 6 volte), pantaloni stretti in fondo, larghi a campana (anche loro più volte rivisitati), LA MINIGONNA! Sembrano barzellette, ma erano cose normali. Eppure tanti di noi, che hanno pienamente vissuto il ventesimo secolo e vivono il ventunesimo, ci sentiamo ancora assolutamente in sintonia con il tempo passato e quello attuale. Non eé una dichiarazione di "giovanilismo" o sindrome di Peter Pan. Da cosa dipenda questa sensazione non lo so esattamente: forse dagli studi fatti, dall'educazione ricevuta e la voglia di crescere, la curiosità per le cose nuove, di migliorare e di buttare un po' il cuore oltre l'ostacolo, è rimasta. Certo tanti di noi si sono persi per strada e sono quelli che io ora chiamo "ai miei tempi questo non accadeva” o “le mezze stagioni non ci sono più” o “più sicurezza” (ingaggiamo anche la Polizia Provinciale in assetto da combattimento - nota attuale)… ma bisogna avere fiducia, lo spazio per migliorarsi si può sempre trovare, PRIMA o POI. Purtroppo tanti di noi oggi si dedicano a tempo pieno a fare i censori "sempre e comunque preoccupati per la deriva democratica" o per sottolineare quello che non va o per censurare i comportamenti degli altri. Probabilmente se guardassero dentro se stessi troverebbero più di una cosa da censurare e se ognuno pensasse ai propri comportamen- pag. 41 ti molte cose migliorerebbero (purtroppo la maggiore indulgenza si usa sempre con se stessi e difficilmente si è inclini


a valutare i propri difetti); mi sembra di averla già da tempo sentita "guarda la trave che hai nel tuo occhio, piuttosto che la pagliuzza nell’occhio dell’altro". Ed ora che si farà? Ma figurati se sappiamo cosa si farà domani! Con le proprie certezze ed insicurezze.


M A RI A SA RA

I cavalieri vanno alla guerra La tragedia è il semplice pianto che può diventare un’inondazione sul viso altrui; è una morte violenta, è la vita che sfugge senza rimedio, è il dissolversi dei corpi, delle immagini e dei racconti. La tragedia è la guerra, è la mancanza di pudore che spinge la morte, così come la vita, a mostrarsi senza veli al nostro sguardo. Per lo più rimaniamo ciechi, sordi, impauriti di fronte alla notizia di un evento tragico, sentiamo il dolore e la paura ma non sappiamo da quale parte, da quale istante, con esattezza, essi provengano. Se è vero che la nudità dell’uomo è più evidente, più esposta al ludibrio, di quanto non lo sia per la totalità della natura, se è vero cioè che la natura è portatrice di una nudità impossibile da scoprire, da sorprendere, da far vergognare, mentre l’uomo è vittima della sua stessa autoaffermazione di nudità e di colpa, del suo bisogno di rivestirsi di un ruolo, allora si può affermare che il dolore e la paura veicolati da un evento tragico causino lo stesso tipo di disagio, la stessa perdizione che prova il nostro corpo nel sentirsi denudato. Per ovviare a tale nudità teoretica, gli uomini ricoprono i propri corpi di armature, costruiscono nuovi ordigni e chiamano tutto questo progresso, sicurezza. Se qualcuno ci attacca, o ci minaccia, fino a che punto è lecito difendersi? Almeno fino al limite della nostra sicurezza. Quando si compiono “sacrifici umani“, ogni vittima diviene tale nell’illusione di allungare, migliorare e glorificare la vita che resta ai carnefici. Nessuno, vorrebbe trovarsi mai nel ruolo di vittima, allora, in nome della propria sicurezza, tanto vale diventare buoni carnefici. Se necessario si procederà alla disumanizzazione del cosiddetto nemico, si cercherà di distinguere tra una violenza giusta, o comunque giustificabile, e una violenza insostenibile; la paura e il dolore, allora, saranno aggravanti per una parte e attenuanti per l’altra. I cavalieri senza macchia che immaginiamo un giorno ci vengano a salvare dalla nostra quotidianità su altrettanto bianchi destrieri, appariranno per quello che sono: burattini di carta pirandelliani, sagome bianche come sudari, pag. 43 come lo stupore che ha sostituito l’empatia nei nostri occhi, come lo spazio lasciato bianco sulle mappe a indicare un mon-


do ignoto, ancora da esplorare. Mi viene in mente un’affabulazione ellenistica che parla di Bellicosa, una delle molte città dell’immenso, immaginario, continente situato al di là delle terre e dei mari conosciuti. I suoi abitanti erano costantemente in guerra coi paesi limitrofi, inoltre pur possedendo oro e argento in abbondanza, ritenevano più prezioso il ferro a cui i loro corpi erano invulnerabili. I Bellicosi, avrebbero dovuto essere capaci di difendersi in ogni circostanza, eppure il proprio eccesso di difesa li ha ridotti a dover essere uccisi in un modo selvaggio, quasi animalesco: a suon di sassi e bastoni. Mi chiedo come ci difenderemo noi una volta divenuti “invincibili”: ci ricorderemo ancora come nasconderci da pietre e bastoni, da sguardi di odio? Non bastano certo le armi contro il panico notturno, non bastano i vestiti, troppo facili da strappare via, a farci sentire abbastanza nascosti da sguardi indiscreti, e non basta il corpo intero, con i suoi nascondigli più remoti, a proteggere da un contatto esterno tutti i nostri desideri e il nostro orgoglio. Dopo una tragedia regna solo l‘attesa: si aspetta solo la pace. Così è, se vi piace Non mi sono mai posta il problema di quale fosse l’abito giusto da indossare, né tantomeno quale abito preferirei indossassero le persone che incontro; in effetti gli unici quesiti che di solito mi pongo rispetto a un abito riguardano la sua vestibilità (che sia della mia taglia o più grande) e la sua sopportabilità (pesante o leggero, pulito). Credo che siano soltanto gli sguardi ad avere il compito sociale di essere rassicuranti o d’incutere timore, e comunque non riesco a memorizzare nemmeno i dettagli dei volti: in fondo quanto potrà mai incidere il colore degli occhi, o la forma delle labbra, sul carattere di qualcuno? È davvero così necessario abbinare tra loro gli elementi di cui siamo, casualmente, composti? Quando anche l’insieme ne risultasse più armonico, rimarrebbe comunque il problema della vestibilità e della sopportabilità del nostro, non casuale, carattere. Molte persone possiedono il dono di emanare la propria personalità anche attraverso il più sofisticato travestimento, anche attraverso i propri innati difetti, altre no,


e questo è tutto. Una volta qualcuno rimproverò a Prometeo di non aver apposto sul petto degli uomini, al momento della loro creazione, una finestrella da cui fosse possibile osservare direttamente il cuore umano e discernere così l’amico dal nemico, ecc. Mi chiedo, se davvero esistesse una finestra sul nostro petto, con quale criterio si sceglierebbe il gradevole e lo sgradevole, che cosa si cercherebbe, cosa ci si aspetterebbe di trovare? Se anche avessimo libero accesso alla visuale del nostro cuore, non ci sarebbe comunque modo d’interpretarne la qualità a partire dalla forma, o dal colore, o magari dal suo ritmo. I colori non ci appartengono, e le impressioni fingono soltanto di esistere, in realtà non ci possiedono, né all’interno né all’esterno, ci vengono addosso semplicemente, seguono la scia delle nostre tracce, confondendoci e creando un misto inestricabile d’identità: bastano del succo di mirtillo e del rossetto rosso sul viola della cannuccia, ed ecco che tutto, con il sole allo zenit, diventa di un imperscrutabile violaceo oltremare; è così che si mescolano tra loro sensi e colori. Basta poco e tutto si confonde. Paolo Mantegazza scrive: “L’eterna storia dell’egoismo e del cuore si può tutta ritrarre colle leggi dell’ottica. I cuori degli uomini si possono tutti dividere in quattro classi, cioè in bianchi che riflettono sempre, in neri che sempre assorbono, in trasparenti che lasciano passare la luce, ed in grigi che assorbono e riflettono; e questi sono i più.” (P. Mantegazza, ”Fisiologia del piacere”, Casa Editrice Mandella, Sesto S. Giovanni, Milano, 1913, p. 151) Non riesco a dargli torto: pensati separati dal resto i cuori, rossi come sono, sembrano piccoli e inutili, niente più di una geniale, e tuttavia limitata, meccanica esistenziale. Inoltre, il bianco, il nero e il grigio, indossati, danno una maggior sicurezza, e giocare con le trasparenze permette di ampliare ogni possibile confine ed affrontare ad armi pari tutte le forme. Il rosso invece, pur nelle sue diverse sfumature, è quantomeno scomodo, pretende certamente l’esclusiva, una certa originalità nell’essere esibito. Ma è anche vero che, se parliamo di cuori, il rosso è l’unico colore pag. 45 possibile, l’unico che rimane indifferente a mode e pregiudizi, fedele solamente a se stesso.


Esistere appena “Il Subcomandante spiega perché è un partito di poscritti” Capita di sentire che qualcosa è rimasto tra le dita, che ci sono ancora alcune parole che vogliono trovare la strada per trasformarsi in frasi, che non si è finito di vuotare le tasche dell’anima. Ma è inutile, non ci sarà mai un poscritto in grado di contenere così tanti incubi…e così tanti sogni.” (da J. Berger, Photocopies, Pantheon Books, New York 1996, Bloomsbury London 1996, Fotocopie, trad. M. Nadotti, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 142) Se ho preso in prestito queste parole, è perché mi preme precisare che non tutte le anime hanno delle tasche segrete da vuotare, che non tutti gli spiriti nascondono risorse inaspettate. In realtà noi possediamo virtù e difetti in numero proporzionale alle volte in cui ci siamo andati a cercare le prime e abbiamo subito, più o meno di buon grado, i secondi. Un uomo (inteso come appartenente al genere umano) si può giudicare, senza commettere errori di giudizio, da ciò che gli rimane tra le dita dopo che tutti i veli sono caduti. Tempo fa ho potuto vedere da vicino uno dei quadri che più riescono a colpirmi nel profondo. Si tratta della “Negazione di S. Pietro” del Caravaggio: mi è quasi impossibile sostenere a lungo lo sguardo intimorito, sconcertato, di Pietro senza avere un moto di repulsione. Gli occhi del - futuro - Santo sono languidi fino all’eccesso, sembra quasi che vogliano fluire via dalle orbite per non essere costretti a riconoscere il proprio compito, il proprio ruolo nel mondo. Le gote appaiono congestionate per un’agitazione repentina e d’ingiustificata violenza. La sua non è una smorfia di dolore o di sorpresa, è più che altro un piagnucolare clownesco inconsolabile, un‘espressione in cui la futura grandezza biblica del personaggio appare ancora irriconoscibile. Quelle mani grandi rivolte al petto canuto non sembrano essere mai state buone a fare nulla di pratico. Si potrebbe definire il ritratto di un uomo che, nonostante l’età matura, non sa ancora di essere tale. Ci sono degli uomini che non hanno nulla da offrire a parte se stessi, la propria limitata essenza e le proprie sterminate paure. Altri si credono a tal punto ingranaggio di


un insieme più grande di loro da reputare vera la storia che l’unica differenza tra sé e un altro stia nel nome e nella grandezza della sua grafia. Ci sono padri orfani di se stessi, incapaci tanto di prendere quanto di dare. Padri dei propri vizi, delle proprie paure, dei propri bisogni, padri alla continua ricerca di un senso, di una forma per la propria vita. Ma ci sono anche padri della patria, i padri di un’ideologia, i padri di una rivoluzione, capaci sì questi ultimi di tramandare un senso, di trasmettere un’anima insieme a una carne incerta e involontaria, di offrire la vita di cui sono padroni a piena mani. Anche se ad alcuni di questi uomini le mani dovessero tremare, resterebbe comunque la loro voce roca, pastosa, in grado di spiegarti, e di piegare, il mondo intero, resterebbero il loro coraggio, il loro non essere succubi, schiavi, dei propri limiti. Nessuno vorrebbe mai ritrovarsi a essere l’unico padre di se stesso e dover quantificare il peso dei propri resti. Soltanto per interesse Potrebbe sorprendere scoprire come, a ben guardare, la filosofia, la politica, la cultura, insomma tutto ciò che ci definisce “occidentali”, nasca dal lavoro in senso ampio e come in esso poi si riverberi. Tutto: i canti, i sogni, le speranze di progresso, il modo di guardare l’altro, il modo di pensare e rappresentare il mondo che ci circonda, il modo d’intendere la religiosità, i legami interpersonali e, non ultimo, il modo d’intendere noi stessi, la nostra individualità. Dai tempi dell’antica Grecia (che sapeva quanto il lavoro, nella forma dell‘utilizzo degli schiavi, fosse indispensabile) in avanti però, il lavoro è stato progressivamente sottovalutato e, nella nostra Era post-capitalistica o quasi, trasformato in qualcosa non di necessario ma di umile, non di specializzato e fondamentale ma di mediocre. Qualcosa di adatto più agli schiavi e agli stranieri che ai cittadini, un peso simile a una oscura colpa. Qualcosa che può arrivare a deturpare la nostra immagine. Il modo che abbiamo di rapportarci ad esso dipende soltanto dal concetto ancestrale, che cia- pag. 47 scuno di noi possiede e assimila senza nemmeno saperlo, di interesse e quindi, in ultima analisi, di egoismo. Mi viene in


mente un epigramma d’ispirazione omerica che elenca, indivisibili, le caratteristiche biografiche e le capacità lavorative di un tale Atota, “lavoratore metallurgico” (si è ipotizzato di trattasse di uno dei tanti schiavi che aveva trovato lavoro in Attica meridionale): “Il magnanimo Atota, paflàgone del Ponto Eusino, lontano dalla sua terra riposò il corpo dalle fatiche. Nell’arte non ebbe rivali: discendendo dalla stirpe di Pilèmene, che morì domato dalla mano di Achille.” (S. Nicosia, Il segno e la memoria, p. 137, Sellerio Editore Palermo, 1992). Atota è un operaio, ma di stirpe regale, così come regale è, secondo Platone, il suo particolare mestiere; eppure è palese l’esigenza da parte della cultura greca di regolamentare il contatto con le popolazioni “altre” tramite una genealogia mitica. Noi oggi, poco avvezzi a chiedere spiegazioni alle storie raccontate dai miti, ci ritroviamo sforniti di appigli culturali, consci e inconsci, che ci aiutino a spiegarci e ad accettare la presenza dello straniero, a “casa nostra”, a maggior ragione se del suo lavoro abbiamo un disperato bisogno, se il cosiddetto straniero si fa portatore, nella nostra società, di abilità e saperi un tempo nostri e oggi dimenticati, se si trova, malauguratamente, a colmare le nostre “lacune” economiche e sociali. Siamo del tutto impreparati a spiegarci le nostre stesse esigenze, a colmare le distanze, fisiologiche, che ci sono e sempre ci saranno tra il semplice lavoro e il profitto di cui il lavoro rappresenta la parte più scomoda. Si può dire che nelle epigrafi le parole rinnovino se stesse ad ogni sguardo rappresentando un bisogno di movimento, di nuova vita, e di confronto; noi invece, almeno in apparenza, preferiremmo di gran lunga l’immobilità a 360 gradi sia per i morti che per i vivi; tutto preferiremmo fuorché riprendere in mano i nostri orizzonti e rimetterne in discussione i confini. Cercando di soddisfare tanto Tucidide (che vedeva le convulsioni delle brame di potere, inevitabili e devastanti come la paste, trasferirsi nella follia delle azioni e delle parole) quanto J. Adams (che confidava nella divisione dei poteri per equilibrare società e sentimenti), la follia è sì inevitabile, ma essa, qui in occidente, continua a preferire una violenza culturale, che però noi non consideriamo tale, da esercitare in modo


indiscriminato, alla violenza propria di una Natura rivelatrice. Scrive Giorgio Cremaschi nel suo recente libro: “Lavoratori migranti che stanno da una vita nello stesso posto di lavoro, sono soggetti però al ricatto permanente del rinnovo del permesso di soggiorno e a quello dell’espulsione, che riguarda loro e i familiari. Ed è proprio con i migranti che si manifesta tutta l’ipocrisia autoritaria del liberismo. I capitali sono liberi di girare per tutto il mondo, ricattando lavoratori e popoli. Le persone no. Più cresce la libertà di manovra dei capitali, più le leggi mettono vincoli a quella delle persone. Il perché è chiaro. Se le persone potessero muoversi come le merci, dai paesi più poveri affluirebbero in quelli più ricchi in misura molto maggiore del consentito. Nei paesi più poveri il mercato del lavoro si stabilizzerebbe e i salari comincerebbero a crescere velocemente.” (G. Cremaschi, Il regime dei padroni. Da Berlusconi a Marchionne, p. 47, Editori Riuniti, 2010) Ignorare l’importanza e la dignità del lavoro vuol dire accettare della nostra cultura solo la parte più distruttiva. Se l’alternativa alla violenza naturale deve essere la violenza culturale, organizzata ed esportata come sistema, allora tanto vale rimanere in uno stato egoistico di natura, perché la natura conosce, pur negli sconvolgimenti peggiori, i propri limiti; sa essere tragica ma, almeno, mai sacrilega. Neri luminosi La maggior parte di noi non è in grado, all’occorrenza, di distinguere, in nome di una pretestuosa sicurezza (mentale), un gesto “strano” da un gesto “straniero”. Ma tutti noi siamo soliti giustificare le nostre lacune con motivazioni ottusamente visive, di “colpo d’occhio”, o “di pelle“, quindi in un certo senso “caratteriali”, ontologiche. A tale proposito è interessante la testimonianza riportata da P. Tabet: “Pirri, Cagliari I elementare. I miei genitori sono neri e anche noi nasciamo anche noi neri e se noi siamo neri e anche i nostri figli nasceranno anche loro neri e se tutti siamo morti abbiamo le anime nere. […]” pag. 49 (tratto da P. Tabet, La pelle giusta, p. 11, Einaudi, Torino, 1997) La diversità è un’immagine opaca, l’equivalente di un (presun-


ta) normalità sporcata con dolo dall’aggiunta di una tintura indelebile di cui non si conoscono la fattura né la provenienza. Si sa comunque che tale tintura passa con facilità attraverso le blande coperture di abiti, costumi e professioni, che non può essere nascosta alla vista, che può oltrepassare persino la nostra più intima difesa, la pelle, mettendo a rischio, così pare, l’identità della nostra stessa anima, quindi la nostra stessa sopravvivenza. Il nero, una volta penetrato fino al nostro interno, si teme faccia diventare neri persino i nostri pensieri e la nostra voce che invece, con i suoi accenti, dovrebbe raccontare di noi, trasformandola così in un insieme di suoni incomprensibili, echi di mostruosità che si vorrebbe poter tacitare. Chi potrebbe distinguere i diversi colori di cui si forma il nero? Chi potrebbe vedere di notte, attraverso l’oscurità? Solo chi nell’oscurità è già immerso, proprio come i morti, vale a dire colui o coloro i cui occhi non sono avvezzi alla facile comunicazione della luce e dei suoi colori. Ci sarà pure un motivo per cui i tratti di un viso, se più scuri, sembrano tutti uguali, tutti impenetrabili in ugual misura! Se la “loro” faccia non è chiaramente interpretabile, ci sarà un motivo! Infatti ogni tonalità diversa dalla nostra sta lì per ricordarci che la nostra faccia non è altro che un foglio bianco, tutto ancora da scrivere dal destino. Se è vero che esistono altri colori oltre al bianco e al nero, è anche vero che questi ultimi determinano il “chiaro” e lo ”scuro”, come il buono e il cattivo, il noto e l’ignoto, ciò che è fruibile da ciò che è inarrivabile, e che quindi fa paura. “D: Lei ha denunciato in particolare lo scandalo della a nera in Rimbaud. R: Vede, ci sono persone che hanno l’orecchio assoluto e altre che non ce l’hanno, ma riescono lo stesso ad associare immediatamente un colore a una vocale. La sperimentazione, soprattutto quella fatta sui bambini, ha dimostrato che nella stragrande maggioranza dei casi il rosso viene associato alla vocale a. […] Ovviamente perché è il colore più saturo e più cromatico, così come nel registro uditivo il fonema a è il più pieno e il più sonoro. In questo senso, per molti linguisti è stata una sorpresa il fatto che Rimbaud nella sua poesia abbia definito nera la a. D: E lei ha capito perché l’ha definita così? […]


R: Per Newton esistono colori primari: i colori del prisma, cioè sette od otto. Castel s’interessa invece ai colori dei tintori e, come dice lui stesso, al modo in cui li ottenevano mischiando una tinta con l’altra. Ora, dal momento che per fare il nero bisogna mescolare tra loro una quantità di colori si arriva alla conclusione che il colore più ricco in assoluto non è il rosso, ma è il nero.” (da Claude Lévi-Strauss. Cristi di oscure speranze. Intervista di Silvia Ronchey e Giuseppe Scaraffia, pp. 12 ss, gransasso nottetempo, Roma 2008) Il nero che tanto atterrisce, può anche segnalare pienezza vitale: l’intervista infatti prosegue spiegando che Valéry chiamava i neri di Manet “neri luminosi”. Un po’ come dire che usando segni neri accuratamente scelti si possono tracciare suoni, colori, immagini e significati su quella che, prima, era soltanto una pagina tristemente bianca. Il pane degli uomini “Tanti e tanti chicchi di grano in un sacco, ma scuotili pure e spargili, chicchi restano. Nessuna quantità di russi, di francesi, di inglesi è in grado di costruire un popolo, chicchi nel sacco anche loro, sempre frumento umano ancora non macinato, convertito in farina, ben cotto in pane. La condizione di chicco di grano nel pane corrisponde alla condizione dell’identità individuale in quella combinazione unificante, completamente nuova e non meccanica che si chiama popolo. E possono esserci appunto epoche in cui non si sforna pane ben cotto, e poi granai ricolmi di frumento umano non c’è però macinatura, il mugnaio è stanco, decrepito, e le larghe ali palmate dei mulini impotenti aspettano che si dia loro lavoro. Il forno della storia, mai stato così spazioso e largo, il forno caldo, il forno tutore della casa, si è messo in sciopero. Il frumento umano ovunque rumoreggia e si agita, ma pane non diventa, sebbene a ciò lo forzino, quanti si ritengono suoi padroni, rozzi proprietari, possessori di granai e depositi. […] C’è bisogno d’uno sguardo sobrio: l’Europa di oggi è un enorme granaio di grano umano pag. 51 di autentico frumento d’uomini, e al presente un sacco di questo grano è più monumentale del gotico.” (O. Mandel’stam, Il


programma del pane, cur. Lia Tosi, pp. 20 ss, Città aperta, Troina, 2004) A molti uomini ancora oggi, sulla faccia dell’Europa e del mondo intero, manca tanto il pane, il sostentamento, quanto l’essere pane, cioè l’essere l’uno per l’altro elemento essenziale piuttosto che pericolosa incognita. La metafora religiosa del “Pane delle Vita” è qui evidente, e si potrebbe dire che, per l’Autore, il pane rappresenti la salvezza dalla fame concreta, e la vita la libertà di scrivere e tradurre poemi. A testimonianza della quantità di pane consumato, portatore di un calore materno, rimane una data quantità di uomini, mentre a testimonianza degli uomini passati rimane un numero inversamente proporzionale di poesie. La poesia, in grado di scomporre il cibo nelle sue molte parti simboliche, è l’unica a dare un finale, un senso sacro al pane degli uomini. Ma il pane per essere vivo, per essere investito di una sacralità che altrimenti gli sarebbe estranea, deve perdere i propri confini fisici e i propri limiti culturali; deve cioè saper ritrovare i frammenti più sottili di se stesso pur essendo questi ultimi dispersi in un amalgama omogeneo, apparentemente anonimo, di popoli e idee. Tutti noi abbiamo, e ci aspettiamo di avere, un limite, fosse solo un termine ultimo. Viviamo nel terrore di un’ultima parola, di un ultimo respiro, troppo spesso crediamo che il margine estremo della statura dei nostri pensieri arrivi esattamente là dove un piccolo segno, fatto su un muro della casa a segnalare l’altezza massima raggiunta da ragazzi, ci sbarra idealmente la strada verso l’alto. Non siamo in grado di lievitare, di andare oltre la nostra ragionevole prigione, al cui interno però regna la follia. Gli uomini sono composti di uno strano impasto: la farina, ovunque raccolta, mantiene sempre la stessa consistenza eppure mai lo stesso sapore, ha dappertutto lo stesso peso e la stessa dignità, eppure si cuoce in tempi diversi a seconda, parrebbe, della latitudine in cui è stata raccolta la messe. E tutti abbiamo bisogno di pane, tutti siamo pane, pane che viene dalla fatica e dal dolore, non dal nulla; per questo, come qualcuno ha già detto, ci è lecito chiedere soltanto “il nostro pane quotidiano”: pane “sociale”, non personale, e neanche pietanza di cui i potenti che fanno le guerre, che seminano morte e povertà, non


sono mai sazi. Mandel’stam considera l’europeismo, l’internazionalità di cui proprio l’europeismo avrebbe dovuto essere il precursore, come l’unica condizione moralmente, culturalmente ed economicamente possibile per sfornare un buon pane, pane capace di sfamare un buon popolo. Non solo c’è bisogno che un chicco smetta di essere tale perché faccia frutto, ma i suoi frutti necessitano di una ulteriore lavorazione sofferta che li porti a far parte dell’impasto del mondo o, ma Mandel’stam forse non sarebbe stato d’accordo, di una singola Nazione, di una singola comunità, di un “tutto” grande o minuto che sia. Si può essere, o meglio si è già, parte di un tutto pur senza capirsi, senza nemmeno vedersi, ma solo percependosi attraverso l’invisibilità dei sentimenti, attraverso, potremmo dire, l’internazionalità del pane delle idee. E poco importa se le parole non basteranno per esprimersi, se il pane prima o poi finirà o se finiranno anche gli uomini: superare almeno di un chicco di grano i nostri limiti, creare nuovi tempi, non vuol dire far irrompere dal nulla un’infinità di chicchi, o di pani, senza identità, anche perché il forno della storia è uno solo, bensì vuol dire saper setacciare e trovare in un numero finito e irripetibile di frumento un’infinità di risorse. Se di Rivoluzione si può parlare “23 febbraio-giovedì [1917]” Come guardando nell’acqua torbida non riusciamo a vedere nulla, così non sappiamo a quale distanza ci troviamo dal crollo. Esso è inevitabile. Non siamo più nelle condizioni non dico di evitarlo, ma nemmeno di modificarlo, ma nemmeno di modificarlo in qualche modo (questo adesso è evidente). La volontà si è nascosta nell’ambito circoscritto dei semplici desideri. E io non voglio esprimere dei desideri. Non serve. Là si scontrano istinti e viltà, timore e speranza. Anche lì nulla è chiaro. Se domani tutto si sarà placato e torneremo a sopportare come è nostro costume in modo ottuso, insensato, in silenzio, non cambierà proprio niente nel nostro futuro. Insorti senza dignità, senza dignità chineremo un’altra volta la testa. E se invece sen- pag. 53 za dignità non ci piegassimo? Sarebbe meglio? Sarebbe peggio? Che tormento. Meglio tacere. Penso alla guerra. Guardo da


quella parte e vedo che un senso di stanchezza collettivo generato dall’insensatezza e dall’orrore si impadronisce dell’umanità. La guerra sta probabilmente corrodendo le viscere dell’uomo. Si è fatta quasi carne galvanizzata, corpo, materia viva che lotta. Lo zar è partito per il fronte. Ora il suo entourage è libero di ‘stroncare’. Ma loro ci ‘stroncheranno’ con la stessa debolezza con cui noi ci ribelleremo. Quale delle due debolezze vincerà? Povera terra mia. Risvegliati.” (Zinaida N. Gippius, Diari pietroburghesi 1914-1919 (dal 1914 al 1917), cur. D. Di Sora, trad. R. Gabrielli, intr. S. Trombetta, pp. 79-80, Biblioteca del Vascello, Roma, 1993) …E “non avere paura di doverti svegliare”. Nemmeno se si tratta di un freddo risveglio invernale. Mi piace il profilo degli alberi d’inverno, coi rami spogli che si allungano verso l’alto e nei quali il cielo s’impiglia al punto d’apparire immobile e gelido. Sono delle mani protese, pronte ad accogliere una specie di dono. Il dono più necessario tra quelli possibili però, non viene né dal cielo né da alcun altro posto, né lo si ritrova impigliato sui rami: il dono maggiore per una qualsiasi vita è l’assenza di paura. Smettere di tracciare confini sottili e spogli nella speranza vana di rendere esclusivamente nostra una parte di mondo, smettere d’isolarci, di fare delle nostre vite altrettanti moduli di società prefabbricate nelle quali nessuno ha il coraggio di tracciare strade abbastanza lunghe, oppure semplici linee di congiunzione tra un insieme e l’altro. Proprio questo mi paiono gli alberi d’inverno: fili lasciati a indicare altri spazi. Che lo vogliamo o no, ogni giorno trascorso si profila come una nuova rivoluzione dei nostri moduli vitali: ogni istante, pur restando noi immobili, la terra si sposta un po’ da sotto i nostri piedi, voci, oggetti, immagini varcano giorno e notte la linea immaginaria dei nostri confini. Tutto quanto ci appartiene per diritto di fatica o di discendenza sembra sfuggirci continuamente di mano, spinto da misteriosi sobbalzi. Nessuna sorpresa dunque nel vedere persone agitate e furiose battere i pugni lamentando il fatto che qualcuno abbia sottratto loro una felicità immaginaria. Chissà se sanno di reclamare contro se stessi: anche la felicità passa dall’assenza di paura. Le paure sono tutte uguali, in apparenza, per chi li vive, e se hanno ampiez-


ze diverse, hanno comunque tutte pari profondità. Non c’è legge, provvedimento o armamento che possa arginarle davvero. A volte si ha paura che qualcosa cambi e a volte la vera rivoluzione sta proprio nell’ammettere che prima o poi le cose cambieranno lo stesso, ma che sta a noi decidere se in meglio o in peggio. Per vincere la paura bisogna recuperare quello spirito di freddezza che alita in inverno e che rende più sopportabili gli spasmi dei nostri dolori cronici. Se solo anche a noi, come all’inverno, venissero concessi, se non risvegli, almeno sonni così tranquilli… Semplice al tatto “Lo sguardo tocca perché si approssima. Viene vicino al lago, vicino alle pietre, agli alberi, ai lembi di nebbia. Viene contro le onde minuscole dell’acqua, sposa il loro fremito. L’approssimarsi è ciò che arriva direttamente fino al bordo, è ciò che si approssima fino a toccare. Ma il toccare si ritrae: è il tatto stesso. Non penetra, non sposta niente della superficie di cui si fa tangente. […] ritrae i suoi bordi come fa la mimosa, la pianta mimetica che si ritrae quando la si tocca.” (Jean-Luc Nancy, Il peso di un pensiero, l’approssimarsi, trad. it. a cura di D. Calabrò, Mimes Edizioni, Milano-Udine 2009, p. 114) Se la povertà è quasi una debolezza fisica, assimilabile a una brutta cicatrice sulla pelle del mondo esposto ai climi peggiori e ai lavori più usuranti, essa è anche una sindrome diffusa, un sentimento acuto e bruciante, un’erosione frutto del contatto troppo violento tra uomini, e tra gli uomini e le proprie risorse. Avvicinarsi nel modo sbagliato a un mondo diverso dal nostro, “toccarlo”, potrebbe voler dire operare su di esso trasformazioni deturpanti. Il tatto è l’unico senso dato a tale sindrome epidermica, il più capace di riconoscere l’essenza delle cose, quello che meno apprezza le sovrastrutture umane, quello che avvicina tra loro tutte le specie di esseri viventi e non viventi, il primo a percepire il cambiamento violento che prelude alla povertà. Il materiale di un vestito, di una casa, la sostanza di cui pag. 55 sono costituiti animali, terra e persone si percepisce al tatto. Esso può mutare le proprie sensazioni all’improvviso senza


provare lo stesso sgomento degli altri sensi quando vengono turbati. L’attitudine inglobante del tatto non ha uguali. Guardare qualcosa di spiacevole, per esempio, vuol dire ratificarne, fondarne, l’esistenza, rendersene in parte colpevoli, farsi in parte luogo immateriale in cui una data realtà continuerà ad esistere al di fuori del tempo. Lo sguardo quindi ci rende colpevoli, il gusto ci costringe a scegliere, l’udito ci rivela la profondità delle nostre voci, l’olfatto spesso ci fa perdere la strada e la ragione. Il tatto invece ammalia senza ferire, traccia segni chiari, descrive limiti, argini sottili e normalmente invisibili, tra uno stato d’animo e l’altro. C’è un’eccezione però: un’acquaforte di Rembrandt del 1638, Adamo ed Eva (citato da Federico Ferrari e Jean-Luc Nancy in La pelle delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 42 ss.), in cui le mani che si stringono intorno al frutto proibito finiscono per toccarsi, creando così, quasi per contagio, il luogo del peccato, non segnalando confini ma prolungando la pelle del frutto con la propria. Forte di quella prima esperienza, sembra voler dire il quadro, ora la superficie della nostra pelle, anche la più provata, la più abrasa, lascia scivolare via tutte le onde d’urto dei suoni, delle voci, tutte le scene di discriminazione, tutto l’amaro della prevaricazione e della violenza fine a se stessa, per mutare la propria funzione, per farsi, da ferita che era, soglia privilegiata di conoscenza, superamento dell’umano limite. Quello che resta al tatto è l’esigenza di una contiguità sociale, di un’autoaffermazione, sia pure violenta. Il frutto proibito, sempre parafrasando Nancy, “è il luogo del toccare”, del sentire e del verificare, ma non del mangiare, un luogo in cui la fame resta dignitosamente insoddisfatta, e resisterle diventa il senso del venire al mondo.


PA RI D E

A volte ti chiedi perchè debbano succedere certe cose Perchè il buon Dio si debba accanire contro determinate persone che nella vita non hanno mai fatto del male a nessuno, e lascia che la vita di altri, magari malvagi, scivoli via serena e senza scossoni. Perchè? Mentre questi pensieri le affollavano la testa, stava seduta in poltrona, lo sguardo fisso sullo schermo del televisore. Immagini colorate gli passavano davanti agli occhi; ma lei non le vedeva. Stava seduta in poltrona, con la coperta sulle ginocchia, nella stanza che si era ricavata in quella grande casa, con le cuffie in testa, per la parziale sordità che l'aveva colpita da qualche anno. Aveva quasi cento anni. Altre immagini popolavano la sua mente, immagini di tanto tempo fa, non ricordava bene, decine e decine di anni. Non si era mai sposata, era troppo indaffarata a tirar su i suoi fratelli, per pensare al matrimonio. Otto fratelli, e lei l'unica femmina. Lava, stira, pulisci, cucina, e poi il forno, dove cuocere il pane per tutto il paese, lavoro duro, ore strappate al sonno. Il pane che lievita, l'attesa prima di impastare, la grande madia piena, il forno caldo, il pane infornato, sfornato caldo e biondo. I pochi soldi guadagnati, dati alla famiglia, per vestire, far studiare i fratelli. Quante notti insonni, quanta fatica. Ma che soddisfazione i fratelli istruiti, ben vestiti, rispettati. Un’occasione di matrimonio l'aveva avuta anche lei, si anche lei si era innamorata. un bel giovane, alto, robusto, due forti braccia, gran lavoratore.......ma poi la proposta...”andiamo in America, potremo fare fortuna io e te, partiamo!!”. In America, con te, con il piroscafo, un'altra vita, lontano dall'unico posto che aveva mai visto, il piccolo paese, chiuso dalle montagne, dove tutti si conoscevano, dove vivere era duro, ma… La mamma, i fratelli come avrebbero potuto fare senza di lei, chi li avrebbe sfamati, chi li avrebbe accuditi...Gigi, Pietro, Giuseppe...chi? Quante notti insonni, com’era combattuta, quanta responsabilità... Infine prese la sua decisione… non partì. L'amore, i sogni, la speranza se ne andarono una mattina di primavera, a dorso di mulo, per la strada polverosa. Lei non andò a salutarlo, era lì davanti alla pag. 57 grande madia, ad impastare il pane, lo sguardo fisso sulla pasta , decisa, risoluta. Ebbe solo un momento di debolezza,


quando sentì gli zoccoli del mulo sotto la sua finestra, che si fermarono per pochi secondi, allora si, sentì un tonfo al cuore, un velo le offuscò lo sguardo, una lacrima le rigò la guancia. Fu solo un attimo. Si asciugò con la manica la guancia bagnata, e seguitò ad impastare. Il mulo riprese il cammino, cammino verso l'America, verso un'altra vita, verso un'altra Lei. Era nata nel 1904, il due agosto, quando scoppiò la guerra aveva 12 anni. Li vide partire, tutti e quattro i suoi fratelli, con la divisa verde, le fasce ai piedi, gli scarponi, quanto erano belli. Alti, pieni di vita, allegri, li accompagnò verso il carretto che li avrebbe portati via, li salutò tutti, Pietro, Filippo... che festa, la musica, le bandiere, i fazzoletti che sventolano, i ragazzi sorridenti che abbracciano la morosa, e le mamme piangenti, i padri che seguono con lo sguardo compiacente i giovani, quasi invidiosi, che festa. Passarono pochi mesi, Pietro tornò senza una gamba, il suo bel carattere era scomparsa; era diventato torvo, pensieroso, quasi scontroso. Non era più lui. Poi arrivo la notizia, Filippo era morto, insieme a tanti altri, lassù, in mezzo alla neve, lontano da tutti, lontano dal suo paese. Di lui ritornò solo una medaglia, che lei ancora oggi conserva dopo tanti anni. Fu un dolore immenso che colpì la famiglia, uno di loro era scomparso, divorato dalla guerra, un’entità che con difficoltà riusciva a comprendere. Di tutti i famigliari fu la mamma a risentirne di più, si invecchiò improvvisamente, i suoi 60 anni, sembravano moltiplicarsi, e nel giro di pochi mesi morì, di Spagnola dissero, di dolore pensava lei. Erano tempi duri, tempi in cui la vita e la morte convivevano senza drammi, in cui si era consapevoli della possibilità di andarsene in qualsiasi momento, anche per cause banali. Pietro si sposò, e sembrò come rifiorire, sembrò tornare il ragazzo di prima, anche con una gamba di legno. La moglie rimase subito incinta; tutta la famiglia aspettò con trepidazione che la gravidanza giungesse a termine. Tutti si diedero da fare, copertine, calzini, fasciature, cappellini, tutto era pronto per il grande evento. Ma la fortuna spesso tira brutti colpi, quasi prendendoci gusto, a farti cadere nel momento che cerchi di spiccare il volo. Nacque una bambina, le fu dato il nome di Beppa, “la mi Beppa”, ma la


mamma morì per una emorragia, lasciando Pietro e la bambina soli. Il padre della piccola ripiombò nella disperazione, il suo carattere si fece duro e scostante. La bambina fu affidata alla famiglia. Fu affidata a lei, che aveva la stessa età della mamma morta, e lei ne divenne la mamma. La accudiva con amore, la nutriva, vestiva, la amava come una mamma. E la bambina cresceva, bella, robusta, con i suoi capelli neri come la fuliggine, i suoi occhi neri e luminosi come un cielo stellato. La chiamava mamma e lei se ne compiaceva, si, era la sua bambina… Pietro dopo qualche anno si risposò, una donna più vecchia di lui, non più giovane, che tutti chiamavano “la parrucca”, perché appunto teneva in testa una parrucca. Era una donna vanitosa, egoista, che non accettò mai la figlia del marito, tanto che la Beppa rimase a vivere nella casa dei genitori, non con il padre. La parrucca tentò molte volte di avere figli, ma abortì, sempre. Per lei fu una gioia, continuare ad accudire quella bambina. Il solo pensiero che potesse allontanarsi da lei , l'avrebbe distrutta. Ma sin da allora e per tutti gli anni, tanti anni, che le rimasero da vivere non perdonò mai più al fratello Pietro e a quella donna, chiamata in modo dispregiativo “la Parrucca” di non essersi più interessati alla piccola. Furono anni felici, pesanti, il forno la notte, l’educazione della Beppa, la Mi Beppa il giorno. La nutrì, la vestì come una regina, le insegnò a scrivere e a far di conto, aiutata dalla mastra Emirene, sua maestra e vicina di casa; le elementari, le medie, poi la scuola da maestra. Quanto era bella la “Mi Beppa”, ormai una signorina, alta, con quei capelli neri, ricci, quello sguardo vivace pieno di vita, quanto era bella ai suoi occhi. Nel vederla scomparivano tutti i sacrifici che aveva dovuto sostenere, il lavoro, la fatica, la possibilità di farsi una famiglia propria, tutto passava in secondo piano. Già la vedeva maestra, la maestra giovane e bella del paese, ed era stata lei, un’umile fornaia, ad averla allevata, educata, formata, amata. Quanti sogni, quante aspettative, quanti bei pensieri... Un giorno d’inverno, si un giorno freddo e ventoso la morte se la venne a prendere e se pag. 59 la portò via, “la Mi' Beppa”; così, senza un perché, senza una spiegazione, senza un motivo se ne andò. Perchè?, si ripeteva,


perché proprio a me, perché proprio lei… Nessuno mai le dette una risposta, nessuno mai le potrà rispondere. È la vita. Una sera la Beppa andò a letto presto, perchè aveva un po’ di dolori alla pancia, “si vai pure, tanto io resto alzata” le disse la Zia. Durante la notte i dolori aumentarono, fino a farsi insopportabili. La Zia mandò a chiamare Pietro, ma questi non si alzò dal letto. Andò dal farmacista, l’unico a quei tempi che capisse di malattie. Il farmacista viste le condizioni della ragazza, mandò a chiamare il medico, che si trovava, a dieci chilometri di distanza. Nevicava, faceva un freddo terribile, il Medico arrivò dopo diverse ore, quando ormai la ragazza era stremata dai dolori e dalla febbre. Appendicite sentenziò, peritonite aggiunse. Tutto finì lì, intono a quel letto, con il medico e il farmacista che si guardarono negli occhi, sentenziando la fine di un sogno, la fine di una vita. Il giorno dopo la Mì Beppa morì. Perché continuò a chiedersi la Zia, perché propria a me… Ma nessuno nei tanti anni che ancora visse le potè dare una risposta. Eccola ora davanti alla TV, vecchia e malata, con la coperta sulle ginocchia. Ancora questi ricordi le occupavano il cervello, si, mentre guadava lo schermo senza vederlo, mentre figure colorate le passavano davanti agli occhi, mentre tanti fantasmi confusi apparivano e scomparivano di fronte a lei. Perché proprio a me?... La ragazza (20/07/06) Il gommone procedeva lento nello stretto passaggio tra due isole. Era un pomeriggio di luglio. Dopo una mattina di caldo sole, verso le due erano comparse alcune nuvole, che poi progressivamente erano andate aumentando. Alle cinque si era alzato un po’ di vento, il cielo era ormai coperto. Per questo decidemmo di fare rientro alla base. Gli altri avevano preso il piccolo traghetto, per risparmiare al gommone due viaggi. Eravamo in tre sulla imbarcazione, io, Andrea e sua moglie Maria. Andrea era l’esperto marinaio. Lasciammo la spiaggia e ci dirigemmo lentamente verso la città di Hvar. In uno stretto braccio di mare, il motore all’improvviso cominciò a tossire, poi si fermò. “Sicuramente manca l’olio” – dis-


se Andrea e cominciò ad armeggiare sul fondo dello scafo e sul motore. Io ero seduto sul grosso tubolare, incuriosito dalla situazione e dal posto. Si stava bene, non era caldo e quel paesaggio leggermente cupo, senza sole mi piaceva. La costa scogliosa, ma bassa, era a poche decine di metri su entrambi i lati. Mentre mi guardavo intorno, il mio sguardo si posò su una macchia chiara, in movimento sulla scogliera, anche essa chiara. Guardai meglio e la vidi, era una figura femminile, che si slanciava contro la roccia. Una donna giovane, alta, magra, ma ben fatta, con lunghi capelli castano chiaro che le ondeggiavano sulle spalle ad ogni passo. Era completamente nuda, sola. Camminava con attenzione tra le rocce aguzze, ogni tanto si chinava a raccogliere probabilmente spigo. Non riuscivo a distinguerne i lineamenti, ma solo le sinuose curve del corpo, la grazia dei movimenti, lenti, spontanei, la naturalezza dell’essere nuda, senza imbarazzo e senza malizia. Si muoveva lentamente con grazia, si chinava, si rialzava, si protendeva in avanti, raccoglieva quei fiori secchi e li riuniva in un mazzo, tenendoli con il braccio sinistro, accostati al piccolo seno. Sicuramente intorno a sé si spandeva un profumo di spigo, un alone che come una sfera magica isolava quella figura dal mondo estero. Guardandola, inizialmente ho provato un senso di disagio, come se stessi rubando qualche cosa. Adesso, pensavo, quella ragazza, mi rivolge lo sguardo come per dire “che cosa vuoi? Perché mi guardi così? Non hai mai visto una donna nuda? Invece niente, lei seguitava la sua opera, procedendo lentamente sulla costa, come se stesse in un luogo deserto; lei, i fiori, la costa e il mare. I miei amici parlavano tra di loro, io seguivo in silenzio quell’immagine. Non riuscivo, data la lontananza a distinguerne i lineamenti, ma solo la figura nel suo insieme. Forse era la personificazione dell’’immagine femminile, astratta, sublime, gracile ma nello stesso tempo forte, vicina ma irraggiungibile. Mi sono ritornati in mente i pag. 61 lontani e confusi ricordi scolastici di poeti dell’antichità, da Omero, quando nell’Odissea Ulisse si ritrovò semi incosciente su una spiaggia, circondato da fanciulle nude; o i


poeti del trecento che idealizzavano la donna, fino a farla diventare irreale. Fortunatamente il motore si avviò, prima che io mi sentissi troppo colto, la barca partÏ, allontanandosi lentamente dal luogo, mentre la ragazza nuda diventava sempre piÚ piccola, confusa, fino a dileguarsi, come si dileguano i sogni al risveglio.


I RE N E

Questa sporca vita che amo L’altro giorno ho risentito questa canzone di Paolo Conte, fa parte del suo primo album “Paolo Conte”, inciso nel 1974, avevo voglia di riascoltarla perché sapevo che c’era stato, come tanti, qualcuno che aveva cantato l’ironia di questa nostra vita. Sono stati in molti a farlo ma il Conte con una semplice ballata rende l’idea e lo fa anche con quel pizzico di non sense e di aleatorio che caratterizza tutta questa melodic-song. La sporca vita di cui si canta a mio avviso è un canto di gioia verso anche la sua incomprensibilità e per chi come a me capita di perdersi in elucubrazioni varie e amare, sul suo corso bizzarro e impietoso. Io vivo come tutti una sporca vita, che amo. Ho trentadue anni e lavoro come operatrice sociale presso “La Locomotiva” una cooperativa che opera da più di trent’anni nella città di Foligno, svolgo attività di animazione per bambini dai 6 ai 10 anni. Lavorare con i bambini mi piace molto, sto bene con loro e penso che il modo migliore sia ascoltarli e parlare con loro in maniera diretta e semplice coinvolgendoli e facendoli sentire parte pensante e decidente. Una cosa curiosa che ho notato, poco dopo compiuti i trent’anni ed è il viaggio a ritroso dell’esistenza che si innesca inconsciamente, ovvero, ricordi sepolti dell’infanzia che ti sorprendono nei momenti più impensati e lì, in quei momenti di stordito stupore e calore è come se qualcosa cominciasse a prendere una sua forma. Non sempre è facile spiegare la vita a chi di sporco conosce solo quello dei pantaloni e delle magliette (o talvolta quello decisamente più sporco della tv!) spesso anche perché il bambino stesso sta svolgendo dentro di sé alcune matasse di cui ancora, spesso, non osa parlare; penso che il ruolo di chi come fa questo lavoro sia riuscire a rendere chiaro proprio quello sporco accettando in fondo con le nostre parole e sorrisi e grida e rimproveri come dice Conte quel che.. .a volertelo spiegare non saprei. Se non avessi questa vita morirei. E più ci penso e più mi accorgo che è così. Ogni volta mi ritrovo sempag. 63 pre qui. A far trottare sotto il sole e la notte questa sporca vita. Che non ha mai pietà e non è mai finita…


Supplemento del periodico Piazza del Grano Autorizzazione dei tribunale di Perugia n. 29/2009 via della Piazza del Grano n. 11 - Foligno e-mail redazionepiazzadelgrano@yahoo.it Stampato presso GPT Srl via Sorel n. 14 - CittĂ di Castello novembre 2011



La cultura è organizzazione, disciplina del proprio io interiore; è presa di possesso della propria personalità, é conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti, i propri doveri. Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Antonio Gramsci


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.