Somos Ricos "Insula Felix"

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Somos Ricos “Insula Felix� Racconti e Ritratti da Cuba di Sandro Ridolfi



SO MOS RICO S (“INSULA FELIX”)

Ra cc o nt i e R it r a t t i d a C u b a d i S a n d r o R i d o l fi



INDICE Il muro “…che da tanta parte…il guardo esclude…”

pag. 5

Cuba “Tra mito, cubanìa e realismo dell’impossibile”

pag. 11

Osvaldo “Un amico italo-argentino-cubano”

pag. 21

Marlene “Una donna, una madre, una attrice cubana”

pag. 33

In treno “Servizi, disservizi e fantasia”

pag. 41

Lavinia “Cubanìa, filosofia e santeria”

pag. 51

Dianelis “Una attrice cubana arrabbiata”

pag. 63

Un pensionato “Nostalgia e turismo de la salud”

pag. 73

In volo “Paese che vai… malcostume che trovi”

pag. 83

Fernando “Un regista, un artista, un uomo”

pag. 95

Ana “Medicina, lavoro, studio e cubanìa”

pag.101

Un cartografo guevarista “De tu querida presencia…”

pag.111


Oreste “La piccola impresa nel socialismo reale”

pag.123

Guantanamera “Il rally dell’oriente. Primi!”

pag.131

Santiago “La città degli aquiloni”

pag.137

Renan “Adelante cubanos!”

pag.147

Due bambini “Una nuova generazione”

pag.155


IL MURO “...che da tanta parte…il guardo esclude...”

pag. 5



Da qualche giorno avevo iniziato a riflettere su quell’argomento, discutendone e dibattendone con un immaginario interlocutore in verità così diverso dall’immaginario dall’avere sempre contorni precisi e ben delineati, quasi una vera presenza fisica, anche se frequentemente mutevole nello stesso corso del ragionamento ad ogni sua occasionale interruzione e ripresa. Ci ragionavo da tempo e quella sera, sul balcone di una camera d’albergo di quella terra lontanissima, decisi di fissare sulla carta i miei pensieri per ricercarne un ordine ed una coerenza logica. Prima di iniziare a scrivere, però, mi guardai attorno ancora una volta, quasi per dare un contesto concreto ed attuale a quelle mie riflessioni. In quel momento mi resi conto della presenza di un muro che, alto e cieco di fronte al mio sguardo, mi sovrastava fisicamente e, a quel punto, anche mentalmente. Il balcone, piccolo e stretto, sul quale si trovavano due piccole sdraie di plastica e tela che si fronteggiavano divise da un ancor più piccolo tavolino, era chiuso sui due lati corti da pareti in muratura piena, una molto più lunga dello sbalzo del balcone. Seduto sulla sdraia di destra mi trovavo a fronteggiare il muro più lungo che, impedendomi la veduta verso occidente, mi soprastava di diversi piani, così creando un senso d’oppressione che comprometteva la veduta dell’oceano ancora illuminato dal sole al lento tramonto. Mentre riflettevo sulla presenza opprimente di quel muro cieco ed alto, ho girato un poco la testa alle mie spalle, notando che da quella parte, invece, il muro finiva al limite esatto dello sbalzo del balcone. L’albergo, disposto lungo il fronte dell’oceano, aveva una struttura “a gradini” ed il mio era il primo balcone del gradino arretrato. Nessun ostacolo alla veduta, nessun muro incombente, pag. 7 dunque, dal lato opposto alle mie spalle. Sarebbe bastato cambiare sdraia, dare le spalle al muro più


avanzato e così guadagnare la veduta incontrastata dell’oceano sino alla curvatura visibilissima dell’orizzonte marino. Mi venne da sorridere apertamente benché fossi da solo, considerando la banalità di quel senso di oppressione che poco prima aveva bloccato il mio impulso di scrittore. Abbandonandomi ad una debolezza filosofica, che sovente dilaga nelle ore del tramonto, considerai che molto spesso i muri che ci troviamo di fronte nella vita sono solo il frutto di un errore di prospettiva, di un angolazione sbagliata dello sguardo o dell’approccio. A volte basterebbe ruotare la testa, cambiare sedia od angolo di veduta ed allora tanti muri, veri o immaginari, perderebbero in attimo la loro imponenza e lo sguardo si aprirebbe verso diversi orizzonti e soluzioni già pronte, a portata di vista e mano, solo a volerle e saperle vedere. Prima però di darmi definitivamente dello stupido per il clamoroso errore nella scelta della sdraia, mi soffermai ancora un attimo a riflettere più a fondo sulla situazione. Il muro più grande ed opprimente era in effetti disposto verso ovest, verso cioè la direzione in cui stava tramontando il sole e così impediva proprio la veduta di uno spettacolo naturale tra i più emozionanti, quello del lentissimo tramonto sino alla totale, quasi improvvisa, scomparsa in mare del sole che, a quelle latitudini e nell’orizzonte curvilineo di un oceano infinito, assume l’immagine di una palla di fuoco rosso incendiato che quasi si spegne, con un’ultima fiammata violenta e brusca, precipitando nel mare. Accreditandomi a quel punto di un istinto primigenio, giustificai in quel modo la scelta inconscia della sdraia di destra condizionata dal non casuale orientamento verso il tramonto del sole. Intanto, però, il sole non c’era più, la luce con l’ultima fiammata, oscurata tuttavia alla mia vista da quel muro alto e lungo, d’improvviso era venuta meno, ed era perciò impossibile scrivere. Decisi quindi di rinviare a domani, o ad un generico domani,


il progetto di scrittura appena concepito. Nella penombra debolmente rischiarata dalle luci dell’albergo che si andavano via via accendendo, c’era però ancora la possibilità di “incendiare” e fumare una sigaretta, restando pur sempre seduto sulla stessa sdraia “dell’istinto”.

pag. 9



CUBA “Tra mito, cubanìa e realismo dell’impossibile”

pag. 11



Questo febbraio 2003 compio il mio quarto viaggio nell’Isola di Cuba. Penso di avere ben presenti le ragioni che di volta in volta mi hanno spinto a partire dal mio paese, o meglio dalla mia casa, verso quest’isola lontana; quelle ragioni però riguardano argomenti molto personali e, quindi, non faranno parte di questo racconto. Più difficile, a prima vista, comprendere le contrapposte ragioni che per ben quattro volte mi hanno portato a scegliere proprio l’Isola di Cuba come mèta delle mie partenze. Ricordo bene, infatti, quando al ritorno dal mio primo viaggio a Cuba avevo giurato a me stesso di non tornarvi mai più. Ero partito, allora, alla rivelazione di un mito che in qualche modo aveva segnato ed accompagnato, anche se certamente non da solo, la maggior parte degli anni della mia formazione giovanile e, debbo aggiungere onestamente, non solo quelli. Un sano proverbio desunto dalla fonte della saggezza popolare così piena di luoghi comuni ed ovvi da essere sempre nel giusto, ammonisce che i miti non vanno mai rivelati, pena la perdita del loro fascino. Solo pochi giorni di permanenza nell’isola del socialismo reale latino ed il mito del paese che lotta e lavora per la costruzione e la diffusione nel mondo di una nuova idea epica di società degli uguali era andato in pezzi. Nessun socialismo realizzato. Di più, nessuna coscienza sociale e tanto meno socialista realmente diffusa e radicata nei quasi quaranta anni da quello che ogni muro intonacato e pitturato dell’isola declamava enfaticamente e roboantemente il “trionfo della rivoluzione”. Solo pochi giorni per rendermi conto che mi trovavo in un paese che di reale aveva anzitutto l’appartenenza al terzo mondo economico, sociale e culturale, ancorché reso più ac- pag. 13 cettabile, almeno alla luce della nostra predisposizione culturale europea e così detta di sinistra, da una più equa di-


stribuzione della povertà; abitato da un popolo latino pieno di tutti i vizi del pressappochismo, della ignavia e della inaffidabilità, per citarne solo alcuni, che caratterizzano la allegra, ma molto spesso disastrosa, incoerenza sociale e culturale dei popoli “del mare e del sole”. Del socialismo realizzato, apparentemente, nessuna traccia evidente e qualificante; del popolo nuovo che lotta e lavora per sé e per il mondo, meglio non parlarne. Fatta eccezione della forse giovanile, ma sincera emozione per la visita alla tomba del Che (gli eroi morti, soprattutto se da giovani, hanno il privilegio di non dover rendere conto della coerenza delle loro azioni e dei loro progetti), per il resto l’unica reale sensazione era stata quella di partire al più presto e di non tornare più. Ricordo che avevo portato con me ben due macchine fotografiche ed almeno 15 rullini per immortalare in ogni dettaglio quel viaggio-evento, per me, epocale. Ho consumato appena due rullini e quasi esclusivamente per un personale dovere di cronaca e memoria, immortalando più camere d’albergo che situazioni, luoghi o persone. Eppure due anni più tardi sono tornato di nuovo a Cuba, e l’anno successivo ancora ed oggi una quarta volta. Mi sembra giusto, almeno a questo punto, cercare di capire cos’è che mi ha attratto ed ancora oggi mi attrae così fortemente verso questi luoghi e persone, una volta svelato il mito non veritiero. Preciso subito di non essere un “turista del sesso”, e ciò, aggiungo, non perché quell’argomento non mi interessi, ma perché nei miei quattro viaggi (ma sarebbe già bastato il primo) quel tipo di turismo, qui a Cuba ed alla mia età, ha un diverso nome ben preciso e si chiama “tecnicamente” prostituzione. Dai venti ai trenta anni il turismo “con il sesso” è una esperienza bellissima ed una irrinunciabile occasione di conoscenza interessantissima per ambedue le parti, per chi arriva e per chi riceve. Dopo i trenta anni, o giù di lì, e con effetto di crescita espo-


nenziale all’avanzare dell'età, quel turismo diventa senza mezzi termini “per il sesso” negato o represso in casa propria e, quindi, precisamente prostituzione, anche in questo caso per ambedue le parti. Va detto, peraltro, che oltre tutto difetta clamorosamente la qualità del “prodotto”. In via generale, infatti, le così dette “mulate” cubane non sono affatto belle come si fantastica, anzi la media, vista “all’opera” con i relativi conquistatori-clienti, è alquanto bassa. Fatti salvi i gusti personali, intorno ai quali, com’è noto, non si può discutere, intendo precisare che quando parlo di “qualità”, cioè di bellezza della “prede” cubane (peraltro indifferentemente femminili o maschili, dato che la richiesta turistica interessa ambedue i sessi; ancorché io mi riservi il personale giudizio soggettivo sulla sola componente femminile), non intendo esprimere giudizi etnici o razziali-razzisti, parlo di qualità oggettiva del “prodotto”, così come si conviene vertendosi in materia di transazioni commerciali nell’ambito delle quali, seppure in area di illecito, va ricondotta la prostituzione. E’ scontato, ma ritengo di doverlo precisare per completezza e correttezza di esposizione, che ovviamente anche tra la popolazione cubana, così come di qualsiasi altra parte del mondo, nella infinita varietà “cromatica” delle razze che la compongono ci sono un grandissimo numero di persone, donne o uomini, di straordinaria bellezza tanto esteriore che interiore, ma queste persone bisogna scoprirle uscendo dal circuito del “turismo del sesso”, nella vita quotidiana di tutti i giorni: nelle file per gli autobus, in quelle dei mercati e degli uffici, nelle finestre e nelle porte che si aprono spalancate da ogni casa sulle vie pubbliche. Queste persone io le ho incontrate e le ho conosciute anche a fondo e sono state la grande sorpresa di cui intendo parlare in questi racconti; ma tutto ciò non ha nulla a che vede- pag. 15 re con la avvilente logica del “turismo del sesso”. Avendo dunque escluso, quasi più per etica della estetica


che per ragioni di morale socio-politica, il movete delle “mulate”, cerco dunque di capire le vere ragioni del fascino calamitante che su di me ha esercitato ed ancora esercita l’Isola Felice. Certamente non è il mare tropicale che mi attrae, mare che io assolutamente non amo, e tanto meno il sole che ha in odio la mia pelle chiara (se credessi nella reincarnazione dovrei ritenere di essere stato, nella mia precedente vita, un naufrago annegato in qualche “maledetto” mare del sud!). Penso allora che sia l’atmosfera, più umana e sociale che climatica, cioè l’anima latina e caraibica di questa terra e della sua gente che ha contagiato ed ancora fortemente influenza il mio desiderio di ricerca e rifugio in un luogo sereno ed accogliente. C’è in quest’isola, nel suo popolo, nel suo modo del tutto originale di vivere, più e prima ancora che di pensare, un senso, un sentimento, una ansia allegra sino all’irrazionale per la vita, che sicuramente da lontano, con suoni e voci, richiama ed attrae. Forse è proprio la singolare reinterpretazione del socialismo in chiave di un realismo dell’impossibile, tradotta in una capacità di vivere comunque il presente così com’è e così come viene giorno per giorno senza neppure porsi i problemi dei perché e dei per come, pur senza mai rinunziare, neppure un attimo, a quel sogno di un futuro radioso e glorioso, sicuramente più declamato che creduto o capito sino in fondo, enunciato dalle mille iscrizioni roboanti dei “muri della rivoluzione” (d’altronde i sogni non si possono capire, ma solo sognare e l’importante è non dimenticarli e perciò ripeterli incessantemente, quasi ossessivamente, per ricordarli per sempre). Ho detto poco sopra della saggezza dei proverbi della tradizione popolare, aggiungo ora la verità della profonda penetrazione nell’anima cubana delle più fantasiose parole d’ordine del socialismo epico, ma anche allegro ed ironico, della più recente esperienza latina. Il modo con cui i cubani hanno interpretato nella quotidia-


nità del loro modo di vivere e pensare l’incitamento alla euforica follia dell’inseguimento dell’impossibile enunciato dal Che nella storica parola d’ordine: “Siamo realisti, esigiamo l’impossibile”, può dare forse, più d'ogni altra argomentazione sociologica, filosofica o politica, una idea corretta della realtà cubana. Cuba è oggettivamente un paese dell’estremo sud del mondo che vive, con una dignitosa povertà ben ripartita ed organizzata, la convinzione di fare parte del primo mondo, arrogandosi, a volte, anche il diritto di assumerne la guida quanto meno politica, morale e culturale. Sbarcando a Cuba, infatti, si respira da subito un’aria da primo mondo politico, sociale e culturale, e quel che colpisce, sino quasi a sorprendere, è semmai la condizione di povertà, unita al disordine ed alla disorganizzazione diffusa e generalizzata propriamente latina, che risulta non coerente con il livello di dignità del paese e della sua popolazione. Sotto questo punto di vista Cuba, conosciuta ovviamente oltre i recinti riservati al turismo dei club vacanze o del sesso mercenario, è davvero il paese dell’impossibile, eppure c’è ed è reale. Interpretando “a modo loro” l’incitazione del Che i cubani ne hanno completamente capovolto l’ordine logico e persino sintattico. Il progetto di vivere con coerenza morale e materiale, cioè reale, la pretesa della conquista dei sogni dell’impossibile, è stato ribaltato nella assunzione al mondo del reale di ciò che non c’è e non può oggettivamente esserci. I cubani cioè hanno molto più semplicemente ritenuto reale ed attuale l’impossibile, convincendosene loro stessi profondamente e pretendendo di convincere di ciò il mondo intero. Faccio degli esempi. I cubani, tutti, ritengono di godere di livelli qualitativi di medicina tra i migliori del mondo, persino eccellenti in taluni pag. 17 settori specialistici. Non è vero!


La loro medicina è sicuramente buona se rapportata alla realtà di un paese del terzo mondo ma, quando non rivela situazioni di vero e proprio bluff, può essere persino pericolosa nelle così dette, ma del tutto inesistenti, punte di eccellenza dove emerge, al contrario, la mancanza di mezzi, strumenti e strutture, nonché di reale preparazione tecnica degli addetti a tutti i livelli. La loro scuola, parimenti, seppure ha un grado di diffusione straordinario pur sempre con riferimento ad un paese del terzo mondo, è decisamente di un livello medio-basso, tendente al basso, laddove confrontata con quella dei paesi sviluppati. La loro qualità del lavoro, per citare solamente un terzo esempio di più semplice e diretta evidenza, intesa sia in termini di professionalità che di così detta “intensità”, è assolutamente, e senza mezzi termini, inaccettabile per i parametri del primo mondo. Eppure i cubani, siano essi socialisti o quanto meno e molto più spesso “castristi”, ovvero esattamente al contrario antisocialisti o meglio anticastristi, sono tutti, indifferentemente, sinceramente ed acriticamente conviti del contrario. Sicché per i primi il terribile e demonizzato embargo USA e per i secondi il regime totalitario, vengono caparbiamente dichiarati e sinceramente creduti come le cause uniche ed assorbenti del sottosviluppo, o meglio del mancato decollo di un paese che, in verità e realtà, non ha proprio nulla! Cuba non ha risorse energetiche, non ha materie prime, non ha produzioni agricole (almeno e livelli significativi da eccedere le necessità del sostentamento interno, peraltro già assai insoddisfatte), e soprattutto i cubani non hanno nessuna seria propensione al lavoro (certamente per come la si intende nei paesi sviluppati o in quelli di nuova emergenza di sviluppo come ad esempio la Cina o lo stesso Vietnam). Questi argomenti sono del tutto sconosciuti alla “intelligenza” (intesa come capacità o disponibilità alla comprensione) del popolo cubano che vive, con serena convinzione e sincera allegria, la condizione di rappresentare una “piccola


Svezia”, forse con meno industrie, automobili e beni consumo, ma con più meritata visibilità mondiale e certamente (ed in questo almeno sono nel giusto) con molto più mare e più sole. “Diaboliche” sfortunate circostanze, come loro usano dire nell’idioma spagnolo, impediscono a Cuba ed ai cubani di emergere e primeggiare nel mondo. Ma questo è solo per l’oggi, perché il domani sarà certamente diverso e migliore, quindi, concludono, non resta che aspettare, non a caso in spagnolo tradotto dal verbo “esperare” che esprime ad uno stesso tempo i nostri concetti di attesa e di speranza; attendere sperando dunque, ma nel frattempo anzitutto, senza mezzi termini e riserve: vivere. Credo proprio che questo sia il grande, singolare e straordinario fascino di quest’isola, così lontana nello spazio fisico, ma così tanto vicina in quello mentale al nostro modo di sognare, per quel che ancora resta della matrice latina o più propriamente mediterranea, di vivere e godere e nel frattempo di “(rac)contarsela e cantarsela”. Questo fascino non credo che si possa rendere con delle immagini alle quali mancherà comunque il sapore, l’odore e la complessità dialettica e mutevole della vita reale. Ho così pensato di provare a renderlo e restituirlo raccontandone momenti dinamici di vita e, quindi, non luoghi ma persone e rapporti. Analizzare e scoprire sino in fondo le persone ed i rapporti con loro, penso e spero, mi servirà a capire, infine, le ragioni del fascino che l’ “Isola Felice” ancora esercita, così fortemente, su di me.

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OSVALDO “Un amico italo-argentino-cubano”

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Osvaldo, in cubano pronunciato “Ovaldo”, non è cubano, non è italiano, non è argentino e tanto meno abruzzese come lui oggi cerca di accreditarsi. Osvaldo è un amico e tanto basta per definirlo. “E Lui parla, Lui parla, parla, parla...”. Se ogni uomo avesse il suo inno come una nazione, allora questo sarebbe l’inno di Osvaldo. Non parlo del vessillo per non ferire la sua sensibilità; certo però che si vede da lontano, gonfio e teso come una vela di prua. Il “Lui” che parla è, ovviamente, il Comandante in Capo, il Leader della rivoluzione vittoriosa, il Presidente, è Fidel. Osvaldo non ama Fidel, ed in questo è libero di esprimere come crede i suoi sentimenti. Lo critica pesantemente ed incessantemente per le tante scelte sbagliate e più ancora per quelle non fatte negli oramai 44 anni dalla vittoria della rivoluzione, e su questo punto ha fondate e condivise ragioni. Lo accusa, ancora, di essere il principale responsabile, quasi l’unico, degli insuccessi o comunque dei difetti del sistema politico, economico e sociale cubano; lo accusa, in qualche modo, di essere l’ancora o la zavorra che blocca il decollo del processo di sviluppo dell’economia e delle società cubana, e qui, invece, sbaglia. Con tutti i limiti ed i grandi errori passati ed ancora presenti che nessun comunista può perdonare ad un altro comunista, Fidel è, tuttavia, l’essenza stessa di Cuba così come oggi è e come noi tutti, in tutto il mondo, l’abbiamo scoperta, conosciuta ed amata. Cuba, l’isola o lo Stato repubblicano e socialista cubano, non avrebbe avuto un passato ed un presente, né potrebbe aspirare ad un futuro migliore, o comunque non disastrosamente peggiore, senza Fidel. Il mito dell’ “Isola Grande”, dell’ “Isola Felice”, non sarebbe mai andato e non potrebbe mai sperare di andare molto ol- pag. 23 tre i tanti modelli degli pseudo-paradisi turistici e reali paradisi fiscali e penali che pullulano nel mare dei caraibi, sen-


za Fidel. Il pur sempre vivo ed attuale mito del “Che”, che va ricordato era nato in Argentina e morto in Bolivia, non avrebbe da solo potuto sostenere la fama mondiale di Cuba, così com’è ancora forte ed attuale, senza Fidel. Fidel è la Cuba di oggi e Cuba, così come viene conosciuta, amata, difesa ed aiutata nel mondo intero lo è per Fidel. Si dice comunemente che è il cuoco che fa la fama di un ristorante anche se non è il proprietario; dimenticarlo, credere diversamente che sia il nome del ristorante a fare la sua forza, significa perdere il senso della realtà, cadere in una illusione di potere-possibilità che non può che condurre a delusioni pesantissime. Ma Osvaldo è terribilmente ostinato nelle sue convinzioni e non sente ragioni perché non le vuole sentire. Cambiando approccio una volta ho raccontato ad Osvaldo l’aneddoto dell’incontro tra Fidel e Mao. Un giorno Mao venne informato dell’arrivo in Cina di una delegazione di cubani guidata da Fidel. Mao, che non aveva mai sentito parlare di Cuba e tanto meno di Fidel, si informò su chi fosse, da dove veniva e cosa rappresentava. Gli dissero che era il Presidente di una repubblica comunista nata da una guerra rivoluzionaria su di un isola dei carabi, proprio di fronte agli Stati Uniti del Nord America. Mao chiese allora quanti fossero. Cadendo nell’equivoco tra rappresentanti e rappresentati gli risposero che erano circa 11 milioni. Per nulla stupito da quest’ultima risposta, Mao chiese ancora in quale albergo cinese fossero stati alloggiati. Morale della favola: i cubani, mille, centomila o 11 milioni, rappresentano assai poca cosa nell’enormità del mondo. Se Mao si è interessato di Cuba ciò è avvenuto solo perché a parlargliene è stato Fidel. Ma Osvaldo ha le sue ragioni. Ha sposato una splendida donna cubana che non vuole saperne di rinunziare alla sua “cubanìa”, comunismo o non


comunismo e Fidel o non Fidel. Osvaldo, inoltre, lavora nella cooperazione italiana ed europea a favore di Cuba e, come tutti i missionari, i benefattori o comunque i volontari o quanto meno i volonterosi portatori di aiuti, non riesce a tollerare le resistenze, i burocratismi, gli impedimenti che rallentano la materiale erogazione degli aiuti; in sostanza non riesce a farsi una ragione della scarsa collaborazione e gratitudine dei beneficiati. Osvaldo ha, naturalmente, una visione politica più profonda ed articolata della realtà cubana, sia nel particolare che nelle linee della politica economica e sociale generale, ma la nasconde un po’ troppo sotto l’emotività della contingenza che umanamente coglie tutti gli operatori sul campo, onesti e leali, e così cerca spesso scorciatoie di denunzie indubbiamente fondate su valide ragioni, ma troppo semplici per essere concrete, complete e soprattutto utili. Se Osvaldo conoscesse il nostro sistema burocratico occidentale così bene come conosce quello cubano allora, forse, ricorderebbe il proverbio del bue che dice cornuto all’asino, o almeno la parabola del fuscello e della trave. La “cubanìa”, questa volta intesa come reinterpretazione in qualche modo persino peggiorativa del grigio burocratismo dello statalismo socialista, in verità, è ad uno stesso tempo un ostacolo ed una forza. Deprime ed a volte delude gli slanci dell’entusiasmo innovativo, ma assai spesso, forse anche più spesso, garantisce un contesto di vivibilità politica, economica e sociale che solo una illusoria e fantasiosa moltiplicazione delle scarsissime risorse disponibili rende possibile, attuale, quasi tangibile. Coniugare “cubanìa” con socialismo significa assicurare al secondo quell’elemento di fantasia, se non di vera e propria follia, che sostiene la fiducia illimitata nel tempo e nello spazio in un mondo migliore e diverso, ma nello stesso momento fornisce alla defatigante inconcludenza della prima pag. 25 la giustificazione di formalismi, burocratismi e procedure, anche se troppo spesso inutili e fini a se stesse.


La faraginosità del socialismo reale cubano è infatti una potente arma di difesa di un popolo povero e bisognoso quasi di tutto dagli assalti non solo degli speculatori di mestiere, ma anche di quelli, sovente assai più dannosi, degli improvvisatori. Osvaldo sa bene che la povertà ed il bisogno sono beni di scambio di altissimo valore commerciale e, quindi, di grande appetibilità e ciò tanto per chi li vende, generando fenomeni di corruzione devastanti culturalmente e socialmente, tanto per chi li compra, manipolando strumenti e sentimenti di sostegno e di solidarietà. Forte dei suoi rigorosi principi di correttezza e moralità, Osvaldo non consente che si alimenti il circuito vizioso e viziante del dollaro turistico; così quando può (in verità quasi sempre con rarissimi cedimenti ritengo dovuti più a stanchezza che a sincera disponibilità) impone l’uso delle sole strutture di ristorazione pagabili in pesos cubani. Costo e qualità, nemmeno a dirlo, vanno di pari passo. Uno dei ristoranti in pesos cubani prediletti da Osvaldo è il “Varsovia”; locale insignito, almeno a leggere gli stemmi e gli attestati affissi sulle pareti un poco malandate del patio, di encomi di “meritevolezza rivoluzionaria” per la qualità e la scrupolosità del servizio. Il menù, anch’esso affisso al muro del patio, declama la promessa di una consistenza quantitativa delle portate controllata sino al centesimo di ettogrammo per ogni singola specialità offerta dalla casa, in genere una sola e sempre la stessa: il pollo fritto; più raramente due, secondo disponibilità, con l’aggiunta della variante del maiale fritto. La struttura del ristorante, dato il clima caraibico, è tipicamente a portico aperto sulla strada. Su di un lato del portico, tuttavia, c’è una specie di container blindato senza finestre, con una sola entrata dal lato del ristorante. Nel così detto container è allestita una piccola sala da pranzo per così dire: riservata. Data la composizione internazionale della clientela, cioè


la mia presenza di italiano in vacanza, ci è stata subito offerta l’opzione, a parità di prezzo (credo), del servizio nel container. Aperta la porta è apparso un universo insospettato: una bomboniera, sovraccarica di drappi, tavoli addobbati, lampadari a gocce e specchi alle pareti. Ma quel che più ha colpito fisicamente gli spettatori è stata la folata di aria gelida uscita di colpo dalla porta del container-frigorifero, generata da un numero imprecisato di potentissimi, quanto rumorosissimi condizionatori ininterrottamente accessi alla massima potenza e ciò indipendentemente dal fatto che all’interno in quel momento (ma è lecito pensare sempre) non vi fosse alcun cliente. Respinti dalla bora del gelo polare abbiamo declinato l’offerta, scegliendo uno dei vari tavoli all’aperto, in tipica formica cubana, senza tovaglia e tovaglioli, cioè senza niente, provvedendo noi stessi ad una sommaria pulizia prima dell’uso con la carta igienica opportunamente portata da casa, oltre a dei fazzoletti di carta per l’uso di tovaglioli non forniti dal ristorante. “Suggestioni del giorno”: pollo fritto con patate e birra popolare con consistenti residui di fondi. Tolta la pelle bruciata più che fritta, al di sotto è apparso uno splendido lesso di pollo, in verità un poco acquoso. Il miglior pollo fritto di Cuba, a detta di Osvaldo, in sin troppo trasparente odio per i ristoranti in dollari riservati ai turisti stranieri, per di più (io direi: e meno male!) pagato in pesos cubani per un equivalente di meno di un dollaro nord americano a persona. E sì che Osvaldo a casa sua mangia, ed in verità offre generosamente a tutti gli ospiti ed amici, code di aragosta, gamberoni ed ottimo pesce fresco. Ma anche per il critico Osvaldo un sistema socialista che assicura almeno un quarto di pollo uguale per tutti ad un prezzo assai contenuto, ogni tanto una difesa d’ufficio la pag. 27 merita. All’angolo del porticato era seduto un signore con davanti


tre o quattro bottiglie di quella birra popolare oramai vuote, con tra le dita il resto di un sigaro altrettanto popolare. Va detto che quando da noi si parla i sigari cubani di costo altissimo ci si riferisce a sigari bensì prodotti nell’isola di Cuba, ma interamente destinati alla esportazione ed al consumo estero; per i cubani ci sono produzioni per così dire parallele, di costo quasi irrisorio e ritengo, pur non avendo mai fatto la prova diretta, di corrispondente qualità. Quel signore, solitario e malmesso, era stato, sino ad un anno prima, un rampante e promettente industriale italiano, sbarcato nel soleggiato paese del terzo mondo per portare progresso e sviluppo, e certamente anche per fare tanto denaro. Aveva affittato degli ampi uffici nel prestigioso palazzo Bacardì nel cuore dell’Avana Vecchia, aveva assunto quattro o cinque segretarie, aveva allacciato linee telefoniche e fax, ed infine noleggiato un’auto ed una villa nel quartiere esclusivo di Tararà. Tararà è un comprensorio chiuso di villette signorili disposto lungo la spiaggia bianca ad est di Avana. Dopo il trionfo della rivoluzione il comprensorio signorile era stato convertito in un centro di cure e soggiorno, negli ultimi anni anche per i bambini di Cernobil. Di recente era infine tornato a svolgere la sua funzione di residenza di lusso, riservata sostanzialmente agli industriali ed investitori stranieri in grado di pagare affitti assai salati anche secondo i nostri parametri, pur non avendone, da quel che ho potuto direttamente vedere, le corrispondenti qualità. In pochi anni il promettente imprenditore italiano aveva consumato tutto il denaro che si era portato dall’Italia, senza avere realizzato nulla. Chiuso l’ufficio, lasciata la villa e la macchina, cercava ora di sopravvivere al livello di vita corrente dei cittadini cubani, forse non disponendo nemmeno dei soldi, e tanto meno della faccia, per tornare indietro al suo paese. Una vittima della burocrazia e della inefficienza cubana?


No, una vittima della sua stessa presupponenza, della arroganza, della ignoranza, in sostanza della sua totale incapacità imprenditoriale. L’ex dirigente, ma dipendente industriale, improvvisatosi imprenditore con i soldi della liquidazione dal lavoro e dei risparmi capitalizzati negli anni delle buone retribuzioni, sarebbe infatti sicuramente fallito anche in Italia, qualunque impresa avesse ritenuto di avviare sulla base della presunzione di capacità imprenditoriali inesistenti. Sbarcato ricco e determinato nell’isola del terzo mondo aveva evidentemente creduto di poter fabbricare collanine e specchietti da scambiare con pelli rare e monili d’argento con i poveri indigeni ignoranti, depredandoli e con ciò arricchendosi a dismisura, magari anche nella soggettiva convinzione di avere arrecato un grande aiuto ad un paese socialista e ad un popolo fratello. Viene in mente la scena di un bellissimo film italiano di rara intelligenza dove i due personaggi principali, trasportati per uno strano evento magico in una epoca assai remota, dopo avere in qualche modo preso atto della irreversibilità della loro nuova condizione, cercano di trarre profitto dalle loro più avanzate abitudini di vita quotidiana, più che conoscenze tecniche o scientifiche, del mondo futuro. Improvvisatisi inventori di cose d’uso comune nella loro epoca ancora sconosciute in quella remota, dopo essere partiti dall’idea, per loro inesplicabile, del funzionamento della lampadina, finiscono per arenarsi sullo sciacquone del bagno del quale, al dunque, non riescono neppure a ricostruire il meccanismo di carico e scarico delle acque. Nello stesso modo i sedicenti imprenditori occidentali, sbarcati pieni di progetti innovativi e di presupponenza nel terzo mondo arretrato, finiscono per dimostrarsi non in grado di comprendere neppure le diversità reali di questi paesi, le loro esigenze e possibilità, finendo con l’affondare, con l’ulteriore rischio di trascinare nel loro fallimento anche quelli pag. 29 che, magari per ignoranza, impreparazione, fiducia e comunque o soprattutto per disperato bisogno, avevano cre-


duto in loro e nelle loro vuote e vane promesse. Da questi cialtroni, oltre che dai tanti altri veri e propri avventurieri e speculatori invece scaltri ed attrezzati, deve difendersi Cuba come ogni altro paese arretrato e bisognoso, magari anche nascondendosi dietro i filtri, gli sbarramenti e le lungaggini di un sistema burocratico, sotto certi aspetti forse solo più protettivo che passivo. Questo Osvaldo lo sa ma si ostina a negarlo, un poco accecato da una fede nascosta ma mai veramente rinunciata nel luminoso ideale di uno Stato socialista capace di smascherare all’istante i cialtroni e gli avventurieri, e nello stesso tempo in grado invece di riconoscere, accogliere e premiare gli onesti e bravi portatori di idee ed azioni buone e corrette. Se Osvaldo conoscesse veramente il nostro sistema politico ed amministrativo probabilmente riconsidererebbe e rivaluterebbe di molto l’allegra inefficienza cubana. Nel nostro paese la rugginosa burocrazia borbonica che si era impadronita dello Stato unitario all’indomani stesso della sua conquista da parte dei re piemontesi, da certo tempo ha lasciato il posto a una nuova “specie” di parassiti della politica e dell’amministrazione pubblica ancora più inefficienti e dannosi. La nuova “specie” emergente è quella degli “gnomi”. Piccole persone, con piccole idee e piccoli desideri ed ambizioni, per le quali l’importante non è prevalere nel senso di riuscire a capeggiare e quindi governare i processi di crescita, ma essenzialmente di impedire tali processi, facendo in modo che tutto resti fermo ed uguale e perciò controllabile e controllato. Incapaci di comprendere, inseguire e dominare le nuove idee ed iniziative, gli “gnomi” molto più semplicemente dedicano tutte le loro energie ad impedire che qualcuno o qualcosa avanzi oltre le loro ridotte prospettive e possibilità di comprensione e di controllo. Se Osvaldo conoscesse a fondo queste verità del nostro occidente sviluppato, sicuramente rivaluterebbe il piattume


incolore, ma sostanzialmente onesto, di una sana burocrazia di sistema, a fronte della falsità e della meschinità dei piccoli “gnomi” dalle piccole idee. Se Cuba è verosimilmente il paese dei burocrati, allora l'Italia è certamente quello degli “gnomi”. Osvaldo prima o poi conta di tornare in Italia ed io glielo auguro, ma solo per godere una meritata e serena pensione, riunendo la sua splendida famiglia cubana con quella affezionatissima italiana. Chi ha vissuto come lui, partecipandoli intensamente e coraggiosamente, gli entusiasmi delle lotte e degli impegni anche professionali per l’emancipazione dei popoli e delle classi sociali arretrate ed emarginate in Argentina, Nicaragua e Cuba dall’oppressione politica ed economica del sottosviluppo, molto difficilmente potrebbe capire un popolo uscito solo ieri dalle stesse condizioni di drammatica miserabile povertà che oggi cerca persino di cancellare quella memoria, assumendo giorno dopo giorno comportamenti politici, sociali e sottoculturali di individualismo arrogante e razzista. Ma per ora Osvaldo resta Cuba per sua immensa fortuna, nell’Isola Felice, ad arrabbiarsi con l’ignavia dei lavoratori cubani e l’ottusità della burocrazia di regime, ma soprattutto a contestare “Lui, Lui, Lui” che non fa altro che parlare, parlare, parlare…

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MARLENE “Una donna, una madre, una attrice cubana”

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Marlene è una splendida donna cubana, moglie di un amico italo-argentino-cubano. Colta, elegante, dolce, Marlene è l’esempio raffinato della “cubanìa” serena. Nata da una famiglia operaia di una cittadina dell’interno non lontana da Avana, Marlene, dotata di notevoli doti di intelligenza e di grande capacità di impegno, ha avuto la possibilità, come si addice ad un sistema socialista, di percorrere i livelli più elevati dell’istruzione universitaria ed in particolare di frequentare l’accademia delle arti, specializzandosi nella recitazione. Marlene è dunque una attrice di professione che porta nel sangue i genii di una famiglia di potenziali artisti, con un padre operaio in pensione e pittore dilettante e la madre ricercatrice e sostenitrice del teatro popolare locale, lei stessa cantante dilettante. Quando si parla di attori-attrici in un sistema socialista ci si riferisce necessariamente a professionisti, forse anche dotati per natura di una certa bella presenza, ma anzitutto frutto di un lungo percorso scolastico di preparazione culturale e tecnica che li rende capaci di esprimersi e lavorare indifferentemente nei campi del teatro, del cinema, della televisione, nonché della radio. Pur essendo propriamente una attrice di teatro, negli ultimi tempi Marlene é interamente assorbita dalla radio dove incontra apprezzamenti, consensi e quindi crescenti ulteriori occasioni di lavoro. Marlene ha una figlia nata da un precedente matrimonio “cubano”, tanto precoce quanto effimero. Dileguatosi nel vero e proprio significato della parola il marito e padre della bambina, Marlene ha assunto e continua a sopportare da sola tutti gli oneri materiali e morali dell’educazione della figlia, senza porsi il minimo problema e con risultati davvero eccellenti, come dimostra la rara qualità pag. 35 della educazione della figlia. Questo almeno sino all’arrivo del nuovo marito che, alla innata emancipazione ed energia della madre cubana, ha ag-


giunto un pizzico di così detto sano rigore e disciplina maschile tanto cari alla cultura della famiglia, un poco morbosa e possessiva, del sud del nostro vecchio continente. Dopo avere vissuto sulla sua pelle e su quella della propria figlia l’inconsistente leggerezza del maschio cubano, oggi Marlene mostra di apprezzare quella vena di paternalismo che ancora caratterizza il maschio mediterraneo, un poco credendoci, un poco giocando a farlo credere, senza comunque mai rinunciare alla sua autonomia ed alla consapevolezza di sé tipica delle donne cubane. Seppure cosciente dei benefici arrecati dalla nuova relazione matrimoniale che, con l’affetto e la presenza, ha anche portato nella sua vita un vento di internazionalità, oltre ad un certo benessere economico che a Cuba, come peraltro in qualsiasi altra parte del mondo, nessuno disdegna, Marlene non intende rinunziare per nessuna ragione al mondo alla sua terra, alla sua origine, alla sua storia, in sostanza al suo mondo ed alla sua natura cubana. Sicuramente le interessa viaggiare e conoscere altri luoghi, paesi e costumi per sé e per sua figlia, cosa che peraltro ha già fatto avendo conosciuto il suo attuale marito in Italia; ma a Cuba comunque intende ritornare ora e per sempre. La “cubanìa” è una componente genetica, quasi una malattia dell’anima, i portatori ne sono consapevoli e sostanzialmente felici, nel bene e nel male. Marlene svolge il suo lavoro di attrice, gestisce la casa e segue moltissimo ed attentamente la figlia, ma anche il suo compagno, sorprendentemente di quando in quando anche esternando una certa morbosità di attaccamento squisitamente latina. Alla sera, come lei stessa spesso dice con tono sinceramente sofferente, è sfinita. Il tempo quasi sempre le manca, non tutto si può fare oggi, c’è sempre un domani, la vita va presa con la dovuta calma e la giusta misura. In questi giorni Marlene ha fatto alcuni lavori di ristrutturazione e manutenzione della casa recentemente per-


mutata all’uso cubano che non consente compravendite immobiliari ma solo permute, anche se in verità sempre assistite da consistenti integrazioni monetarie, ovviamente non ufficiali. Una bella casa, con tre camere, cucina, tinello e salotto, con tanto di patio ed un ampio giardino su due lati, lussureggiante del tipico verde tropicale. L’unica pecca è nel piccolo bagno un poco approssimativo, ma anche da noi la cultura della sala da bagno ha avuto sviluppi molto recenti e sovente è più di moda che di uso effettivo che, in genere, fa del così detto primo bagno la lavaderia e relega il secondo bagno a funzioni di ripostiglio multi usi. Quando si dice “ha fatto” dei lavori di ristrutturazione e manutenzione si intende dire che Marlene ha ingaggiato degli operai, un “poco tanto” improvvisati, che hanno realizzato una apertura a finestra interna tra cucina e tinello ed hanno dato nuova pittura a pareti ed infissi. Il risultato è oggi quello di una casa bella ed accogliente, pulita, fresca ed attraversata da una più o meno costante brezza rinfrescante che tira dal mare assai vicino e dà alla casa una atmosfera quasi più mediterranea che caraibica. Quanto impegno però e quanta fatica per arrivare a questo risultato. Marlene è, come lei stessa dice, sfinita. Anzitutto contrattare i costi dell’intervento, un misto tra corpo e cottimo, con la variabile dei prodotti di consumo per qualità e quantità impiegata. Trattare a Cuba, e certamente a casa di Marlene, è una disciplina tra la scienza e l’arte, comunque è questione da donne. Bisogna sempre porre un freno alla eccessiva disponibilità, sin quasi alla vulnerabilità, del maschio, tanto più se non è neppure cubano. E’ Marlene, cubana verace, che fa il prezzo: prendere o lapag. 37 sciare. Molto più faticoso, poi, seguire i lavori, o meglio assistere alle esigenze correnti degli operai.


Un giorno, ad esempio, sono venuti due operai per carteggiare a fondo una porta di legno pitturata di vernice bianca che Marlene ha voluto riportare al naturale, per omogeneità con le finiture della nuova apertura praticata tra la cucina ed il tinello. Una intera giornata di lavoro di due operai affaticatissimi, con un risultato, peraltro, non ottimale, quindi da riprendere e completare, altrimenti, dice Marlene, così non si paga. Una giornata intensissima per Marlene: seguire ben due operai, soddisfare tutte le loro incessanti richieste, una volta un bicchiere d'acqua, poi un caffè, anzi un “cafesito”, cosa d'altro?; insomma due bambini da assistere e curare. Alla sera Marlene era stremata; erano solo le dieci di sera ma lei non ce la faceva più, era tempo di andare a dormire, se non altro per ricaricarsi e prepararsi alla nuova giornata quando, l’indomani, i due operai sarebbero ritornati all’assalto. Marlene era sincera, spontanea e veramente stanca. Resta in verità la forza di lamentarsi ancora un poco. Di dire che il sapone distribuito ed in commercio è poco, peggio ancora per le quote di pollo e di tutti gli altri prodotti assicurati dallo Stato con la distribuzione della “libreta”, anche se Marlene, in verità, ha il congelatore pieno di code d’aragosta, polipi ed altro pesce ricercato; il governo non va, proprio non va, insomma non riesce a fare i miracoli (che diamine!). Comunque la giornata è stata calda, tira ora una fresca brezza serale dal mare, domani la figlia andrà alla scuola pubblica dove da tempo primeggia tra le migliori, Marlene andrà a registrare altri programmi alla radio di Stato, due operai lenti e riflessivi, organizzati in proprio magari perché in malattia dal posto di lavoro pubblico che comunque continua a pagare loro lo stipendio, continueranno a carteggiare la porta della cucina o a dipingere il patio, tra un bicchiere di acqua ed un “cafesito” cortesemente preparato ed offerto dalla padrona di casa. Una lieve e rituale dichiarazione di insoddisfazione, una lie-


ve fatica, perché anche guardare stanca; in sostanza un gran bel paese, giustamente da non lasciare mai. Questa è la “cubanìa”, fresca, spontanea, sincera, quasi infantile. 44 anni di così detto “ferreo” socialismo reale non la hanno neppure scalfita. Se mai dovesse cadere Fidel, o il suo sistema, saranno davvero grossi problemi per i vicini nord americani; altro che albanesi! Con tutto l'affetto possibile, ovviamente!

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IN TRENO “Servizi, disservizi e fantasia”

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Il treno è un mezzo di trasporto collettivo tanto comune e di uso per così dire popolare da noi, quanto straordinario invece nell’Isola di Cuba. Anche il treno, nel suo insieme di infrastrutture fisse ed apparati di locomozione e trasporto, ha subito nella più recente storia di Cuba il repentino degrado conseguente alla cessazione degli aiuti economici e tecnici provenienti dalla ex Unione Sovietica, sicché all’abbandono progressivo delle tratte minori e più degradate si è aggiunta la notevole riduzione del numero dei convogli, nonché l’abbassamento della qualità dei materiali e del servizio in genere. Non ho conosciuto la migliore qualità del servizio ferroviario cubano nell’epoca d’oro del socialismo assistito, ma posso narrare quel che ho visto a circa otto anni dal drammatico inizio del così detto “periodo speciale”. L’esperienza che ho vissuto, tuttavia, ha ben poco a che fare con le difficoltà del “periodo speciale”, ma offre uno spaccato eloquente della reinterpretazione cubana del concetto e della gestione concreta di un servizio pubblico. Poter utilizzare il mezzo di trasporto ferroviario nel mio primo viaggio che mi ha portato a percorrere in ambedue le direzioni l’Isola di Cuba, facendo centro ad Avana, è stata una mia “fissazione” che, alla fine, sono riuscito a soddisfare seppure per la breve tratta da Holguin a Santiago. Ma cominciamo dall’inizio, da quando cioè per soddisfare tale desiderio mi sono recato per la prima volta alla Stazione Centrale del “Ferro Carril” di Avana. La stazione ferroviaria si trova a ridosso della Avana Vecchia, sul fronte del mare interno alla baia, ed è costituita da un notevole complesso di stile ottocentesco molto simile alle nostre più antiche ed un poco sontuose stazioni ferroviarie europee. Un edificio monumentale con ampie scalinate di accesso ad un vastissimo atrio, con lunghe tettoie che si proiettano dalla testa dei binari lungo il loro percorso verso l’esterno della pag. 43 città, costeggiando dapprima il mare e poi all’interno, lungamente fiancheggiando la Carretera Central che da Avana


conduce a Santiago all’altro capo orientale dell’isola. Il primo obiettivo, una volta verificata l’esistenza di un sistema ferroviario niente affatto promosso per l’uso dei turisti stranieri e quindi ignorato dalle relative guide, è stato quello di conoscere l’orario dei treni, le possibili destinazioni, le modalità, infine, di prenotazione dei biglietti ed i relativi costi. Un orario dei treni effettivamente esiste ma, contrariamente a quanto si possa immaginare sulla base della nostra esperienza e conoscenza, questo non è rappresentato in un tabellone luminoso e comunque stampato e leggibile al pubblico, l’orario dei treni in partenza dalla stazione centrale di Avana è rappresentato da un enorme signore nero. Nero a Cuba si dice semplicemente e spontaneamente “negro”, così come bianco è “blanco”, mulatto è “mulato” e se ci si riferisce a donne graziose si dice “blanchita” o “negrita”, “mulata” invece resta sempre uguale seppure alcune molto articolate precisazioni sulla gradazione verso il bianco o il nero Diversamente nella ipocrita cultura nord americana i bianchi sono caucasici, i neri afro-americani, i messicani ispanici e gli indiani? Quelli non ci sono più o quasi salvo che nelle riserve per i turisti. Tornando alla stazione di Avana, ad una specie di banco informazioni posto al lato esterno verso il piazzale di partenza dei treni, probabilmente per problemi od opportunità di ventilazione naturale dato il caldo soffocante dell’atrio, c’era un enorme scurissimo impiegato (“negro” scuro) che, a richiesta del pubblico, declinava gli orari e le destinazioni dei treni in partenza per l’intera settimana. La cosa non sarebbe stata sorprendente più di tanto se non fosse stato che ad ogni successiva richiesta di ripetizione o di chiarimento o dettaglio tutto cambiava, giorni, orari e destinazioni. Problema di memoria o sfogo di fantasia creativa dell’addetto? Quella volta non lo ho approfondito avendo poi scelto di


partire da Avana verso Cienfuegos con un altro mezzo di trasporto, però una conferma dell’originalità del sistema informativo cubano (non certo informatico o informatizzato!) la ho avuta qualche anno più tardi ripetendo l’esperimento dal capo opposto della linea ferroviaria alla stazione di Santiago. La stazione ferroviaria della città “ribelle, ospitale e sempre eroica” è invece una struttura molto moderna, anche se già un poco andante, ma il sistema di quelle che qui chiameremmo le “relazioni con il pubblico” è lo stesso. Dietro il vetro un poco appannato della porta d’ingresso all’atro passeggeri c’è un signore, appena un poco più chiaro del suo collega “avanero” ma molto più piccolo di statura che, socchiudendo appena il necessario la porta sbarrata agli utenti non già muniti di biglietto, fornisce cortesemente le informazioni richieste sugli orari e le destinazioni dei treni in partenza. Ebbene per Avana parte un solo treno al giorno, ma in orari diversi per i giorni pari e per quelli dispari; il punto è ricordarsi quale è l’orario dei giorni pari e quale quello dei giorni dispari. In conclusione (o almeno alla fine questa è stata la mia personale conclusione) si tratta di andare presto la mattina alla stazione ed aspettare pazientemente per scoprire a quale ora parte il primo (solo) treno per Avana in quel giorno e salirci sopra, ovviamente, prima della sua partenza. Comunque io una volta il treno sono riuscito a prenderlo dopo avere espletato il giorno prima le formalità della obbligatoria prenotazione del posto rivolgendomi all’apposito sportello riservato ai turisti stranieri e quindi pagando la relativa speciale tariffa in dollari nord americani. In un voluminoso registro quadrettato è stato scritto il mio nome, con l’indicazione del treno, del vagone e del numero del posto riservatomi; analoga annotazione è stata quindi riportata sulla ricevuta di pagamento rappresentante il mio pag. 45 biglietto di viaggio. Il giorno successivo, con ampio margine di anticipo sull’ora-


rio di partenza previsto, mi sono quindi recato alla stazione ferroviaria. La stazione di Holguin è una gradevolissima struttura di foggia coloniale, realizzata da un ampio porticato che costituisce l’atrio di attesa pieno di sedili disposti per file parallele, aperto verso il piazzale esterno con grandi arcate, chiuse invece dal lato verso i binari da cancellate di ferro a maglia molto larga. Una di queste cancellate era apribile, ma l’apertura era vigilata da un impiegato seduto dal lato esterno verso i binari su di un alto sgabello, attento a non far passare nessuno che non fosse stato prima verificato come “addetto ai lavori”. Di quando in quando, in effetti, qualcuno si presentava al cancello dal lato interno all’atrio, confabulava lungamente con l’addetto il quale, evidentemente dopo averne verificato le credenziali, concedeva il passo; estraeva pertanto dal taschino della camicia un piccola chiave, apriva la serratura del cancello, lasciava passare l’interessato, richiudeva accuratamente cancello e serratura, riponeva la chiave nel taschino della camicia e si sedeva nuovamente sull’alto sgabello in attesa del prossimo interlocutore e così di seguito. Ho assistito lungamente e ripetutamente a tali operazioni di controllo in qualche modo sorprendendomi per il rigore e la disciplina del sistema di sicurezza ferroviario cubano, nel mentre l’atrio si andava riempiendo di viaggiatori e di bagagli in numero esponenzialmente crescente via via che si avvicinava l’ora prevista per la partenza del treno. Il treno è infine arrivato scorrendo lentamente e con fortissimo rumore di ferraglie dietro le cancellate chiuse dell’atrio di attesa. A quel punto si è verificato un fenomeno di eccitazione collettiva: tutti i passeggeri sono balzati in piedi all’unisono afferrando i propri bagagli e lanciandosi in gruppo verso il passaggio sino ad allora scrupolosamente serrato e vigilato dall’apposito addetto alla sicurezza. Grande sorpresa (mia) il cancello era stato improvvisamente spalancato ed il guardiano si era volatilizzato nel nulla.


Nessun controllo d’ingresso, nessuna disciplina, sul marciapiede del binario è stata una scena di assalto alla diligenza. Ho visto scene di corse, spinte, grida e lancio di bagagli attraverso i finestrini verso l’interno delle carrozze che mi hanno riportato alla memoria gli assalti ai treni speciali delle vacanze vissuti venti-venticinque anni prima nelle stazioni di Milano o di Torino quando grandi masse di lavoratori del sud, emigrati nel ricco ed industrializzato nord, si affollavano in massa sui treni speciali che in uno o due giorni di viaggio da carro bestiame li avrebbero riportati, per i pochi giorni della chiusura delle fabbriche, ai loro paesi di origine a riabbracciare mogli, figli, parenti ed amici abbandonati alla disperata ricerca di un lavoro per non morire di fame nella miserabile arretratezza dell’assolato ma povero sud d’Italia. Ricordo una volta, in particolare, quando anch’io lasciando la grigia città di Torino per tornare nella mia città per le ferie estive, sono salito, con grandi difficoltà e paura di rimanere a terra o appeso al predellino esterno del vagone, su di un treno che da Torino mi avrebbe portato senza cambi sino a Firenze e poi, con un solo cambio, più a sud. Il treno, sovraccarico e sovrariscaldato dalla massa dei viaggiatori nonostante l’ora mattutina quasi ancora notturna, è partito in orario, ha attraversato abbastanza velocemente la afosissima pianura padana e poi, giunto in prossimità della stazione di Bologna, ha iniziato a rallentare, sempre più, procedendo a piccoli salti, riprese, frenate, soste, poi di nuovo riprese e frenate e così via. Con un notevole ritardo sul tempo previsto il treno è infine giunto alla stazione di Bologna ma, stranamente, si è fermato su di un binario lontanissimo dalla banchina della stazione, mi sembra di ricordare il binario numero venti o ventuno. Lì è rimasto a lungo, senza spiegazioni o apparenti motivapag. 47 zioni. Infine, in un caldo divenuto oramai torrido ed asfissiante per l’avanzare dell’ora pomeridiana, ha ripreso la sua mar-


cia arrivando con non meno di quattro o cinque ore di ritardo nella stazione di Firenze. Solo allora ho saputo cosa era accaduto. Era il 10 agosto 1980 ed una bomba esplosa nelle prime ore della mattina aveva devastato la stazione di Bologna uccidendo un grandissimo numero di viaggiatori, di turisti ma anche, in maggior parte, di emigranti in transito verso il sud. Di quell’atto criminale oltre ogni limite di follia a venti anni di distanza non è stata fatta giustizia; una cosa sola è stata inequivocabilmente accertata, dietro la mano fisica del pazzo criminale che ha deposto ed innescato la bomba c’era una assai più lunga, potente, folle e criminale mano: quella dei servizi segreti italiani asserviti a quelli nord americani. Con quell’atto, che non fu in quell’epoca l’unico neppure per l’efferatezza e la gravità, si voleva terrorizzare un paese e rigettare all’indietro decenni di conquiste democratiche e sociali. Il piano non riuscì, o almeno non del tutto, ma la mente criminale che ha armato quella e quelle mani è sempre viva ed attiva, pronta ad armare altre mani di pazzi criminali in qualsiasi altra parte del mondo, ovunque gli interessi della superpotenza nord americana corrano il rischio di essere messi in pericolo o forse anche solo in discussione. Quel giorno di venti anni più tardi nulla di questo è accaduto nella calda, rumorosa, caotica ma allegra piccola stazione di Holguin. Nel sole cubano quell’assalto al treno esprimeva un’aria di festa popolare. Alla fine anch’io sono riuscito a raggiungere la mia vettura, a salire e ad individuare il mio posto riservato. La carrozza era del tutto priva di porte e di finestrini, con un pavimento di assi di legno abbastanza larghe da far vedere le traversine sottostanti, mentre i sedili erano fatti da gusci di plastica di diverso colore sui quali erano disegnati a pennarello i relativi numeri d’ordine. Il mio sedile era già occupato da una persona che mi aveva


preceduto munita di regolare biglietto con indicato il numero di quel posto, lo stesso stampato sul mio biglietto e dietro di me c’era almeno un’altra persona con lo stesso numero di prenotazione. In altri termini quel posto era stato regolarmente, attentamente e formalmente riservato ad almeno tre viaggiatori. Evidentemente quel particolare numero doveva essere specialmente simpatico all’impiegato addetto alle prenotazioni tanto che invece altri numeri adiacenti o prossimi non erano stati riservati, sicché, alla fine, ci siamo comunque seduti tutti con grande reciproca simpatia, cortesia ed allegria. Una occasione, in fondo, per fare interessanti conoscenze confrontandoci i rispettivi biglietti di prenotazione con tanto di nomi, cognomi, paesi di provenienza, ecc., altri dati e notizie ce li siamo scambiati a voce nel corso del viaggio. Il treno, stracarico ed altrettanto rumoroso di voci e grida di richiami, è quindi partito dando inizio alla parte più avventurosa del viaggio. Ho già detto delle caratteristiche strutturali delle carrozze, nel corso della marcia del treno ho poi potuto apprezzare le condizioni delle rotaie. Una volta in movimento il treno iniziava a vibrare come un frullatore, in certi momenti entrando in risonanza come un diapason. Occorreva aggrapparsi a qualsiasi sostegno che si auspicava stabile, tenersi saldamente, mentre era impossibile parlare data la grande rumorosità del mezzo di trasporto. Fortunatamente la velocità era molto bassa ed assai frequenti e lunghe le fermate intermedie che permettevano di sgranchire gli arti contratti nella salda tenuta nel corso del movimento, scambiare alcune parole con i propri vicini ed infine, grazie alla temporanea libertà delle mani, anche fumare una sigaretta o un sigaro, a preferenza. Nelle varie fermate dal treno saliva e scendeva di tutto, pag. 49 cioè non solo persone e bagagli, sacchi o pacchi d’ogni tipo e dimensione, ma anche biciclette, motocicli ed infine un maiale.


Quest’ultimo si è tanto avvicinato a me guardandomi dritto negli occhi da farmi pensare che anche a lui fosse stato riservato lo stesso mio numero di posto. Così non era e fortunatamente il maiale di lì a poco è sceso lasciandomi anche respirare un poco meglio. Ad un certo punto del viaggio è sopraggiunta la notte che ha calato il treno nel buio più totale a causa della mancanza di qualsiasi sorgente di illuminazione diversa dalle punte rosse delle sigarette accese. Nel buio “qualcosa” è successo in più di un sedile non lontano dal mio, al punto che il controllore, che di tanto in tanto passava guidato dalla luce di una torcia elettrica che teneva in mano, più di una volta ha ripreso ad alta voce e con tono imperativo la condotta di qualche coppia, o “coppietta” di viaggiatori sollevando, tuttavia, un coro di risate ed anche, una volta, un caloroso battimano alla fantasia degli acrobati del sesso viaggiante (o almeno delle effusioni evidentemente un poco “spinte”). Come Dio, per chi ci crede, o l’orario dei treni del “famoso” impiegato negro della stazione di Avana ha voluto, alla fine, siamo giunti a Santiago, mèta del viaggio e termine degli scambi affettuosi dei viaggiatori di cui sopra. Non ho più avuto occasione di ripetere altri viaggi con il servizio del Ferro Carril cubano, ma quello che mi sembrava il massimo dell’avventura ha dovuto ben presto cedere il primato ad altre successive esperienze automobilistiche ed aeree.


LAVINIA “Cubanìa, filosofia e santeria”

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Lavinia è la donna cubana più carina, interessante, intelligente che ho avuto la fortuna di conoscere nei miei attuali quattro viaggi nell’Isola Felice. Il soprannome di “Isola Felice” è un gioco di parole, o meglio un tormentone, tra me e quella “pentola di fagioli al fuoco” che altro non è Osvaldo. Lavinia, invece, non brontola, anzi è serena e luminosa come il suo sorriso dritto, come un taglio lungo ed orizzontale sul suo viso minuto, accentuato da due occhi scuri che si dilatano e si irradiano dalle ciglia lunghissime. Piccolina, arditamente arrampicata su zoccoli altissimi dei quali non dimostra una perfetta padronanza, è bianca e minuta, giustamente dotata di quella rotondità tanto amata ed apprezzata a Cuba ed un poco meno dalle nostre parti. Il vestito lungo fasciante purtroppo non slancia la sua figura, evidenziando un poco troppo la rotondità di cui sopra, ed in concreto affaticandone l’andatura già resa problematica dagli alti zoccoli. Ma quel che colpisce di Lavinia ed attrae magneticamente è quel suo sorriso dritto, semplice e dolce, quasi permanente, invitante ma misurato, in qualche modo timido e rispettoso. Lavinia è una attrice di buona fama televisiva, come testimonia la curiosità che genera per strada il suo passaggio tra i cubani che la guardano, evidentemente la riconoscono, ma non si permettono di disturbarla con un rispetto un poco dimenticato dalle nostre parti. E’ singolare, nella altrimenti esagerata comunicativa dei cubani, debbo dire non solo verso gli stranieri ma anche tra loro stessi, vedere questo senso di rispetto per le persone famose che li rende persino timidi e quasi schivi. Comunque Lavinia a Cuba è qualcuno, o qualcuna com’è più corretto dire; lei non lo mostra affatto, ma chi le è vicino, per quanto distratto o non consapevole, alla fine non può pag. 53 fare a meno di rendersene conto. Come tutte le donne cubane Lavinia ha avuto un figlio in età giovanissima, ha lasciato o è stata lasciata dal compagno e


padre del bambino, ed ora si occupa da sola e senza problemi, lamentele o recriminazioni del proprio figlio. Quasi tutti i parenti stretti, la madre, la sorella di Lavinia hanno lasciato da tempo Cuba, lei li sente spesso, ha mantenuto frequenti e buoni rapporti, ma non pensa neppure per un momento di seguirli e raggiungerli. Lavinia è cubana, nata cubana e tale determinata a restare, così come vuole che cresca, venga educato e viva il suo figlio, a Cuba e da cubano. Eppure nonostante la notorietà procuratale dalla televisione ed in fondo la speciale qualità del lavoro di attrice che ha avuto la fortuna di potere svolgere dopo i lunghi ed impegnativi anni della accademia d’arte, Lavinia ha una condizione di vita assai modesta e, molto sinceramente, non priva di difficoltà pesanti. Per poterla incontrare è stato necessario combinare l’appuntamento per il tramite del telefono di una vicina, perché Lavinia non può permettersi un telefono proprio ed abita in un quartiere assai periferico e difficile da raggiungere. La mobilità, in effetti, è uno dei più grandi problemi di Lavinia, ma bisogna dire non solo di Lavinia nella situazione di grande carenza di servizi pubblici di trasporto che caratterizza tutta l’Isola di Cuba. Quando ha impegni di lavoro presso gli stabilimenti della scuola nazionale del cinema, ubicati in un quartiere assai periferico di Avana, si vede costretta a cercare soluzioni di ospitalità, a volte assai precarie, nei pressi della scuola, non potendo permettersi di andare e tornare dalla sua casa al luogo di lavoro quotidianamente. Però Lavinia è contenta del suo lavoro, della sua famiglia, della sua città, dell’Isola Felice. Un giorno mi ha accompagnato a scegliere dei prodotti da portare in Italia nel mercatino per turisti in Avana Vecchia. Da brava ed oculata madre di famiglia Lavinia ha scelto accuratamente ed ha selezionato alla fine due capi di abbigliamento femminile, uno corto ed una lungo, ma ambedue meritevoli per qualità dei materiali e delle lavorazioni, il prez-


zo era ovviamente fuori della sua competenza, lasciando quindi a me la decisione finale. Io, come alcuni direbbero “ovviamente”, li ho acquistati entrambi, ben confezionati in due originali sacchetti di plastica verde chiara, stranamente così simili ai nostri sacchetti della spesa-spazzatura, ma senza la pubblicità stampata sopra. Mentre ci allontanavamo dal mercatino li ho offerti a Lavinia invitandola a sceglierne uno come mio regalo di amicizia e simpatia. Inutile raccontare l’imbarazzo, il rifiuto timido e garbato, ma alla fine la mia insistenza e la confidenza che nel frattempo si era creata tra di noi, hanno avuto la meglio e Lavinia ha deciso di accettare il regalo. A questo punto, però, si è posto il problema della scelta. Lavinia che ben conosceva i due capi per averli già valutati e scelti è caduta in una totale incertezza, ha voluto rivederli e compararli di nuovo, prima l’uno poi l’altro, e poi nuovo ancora una volta, quasi a provarli indosso se mai fosse stato possibile farlo nel mezzo della strada piena di gente nella quale ci trovavamo. Alla fine ha scelto quello lungo e mi ha restituito, ben chiuso nel suo pacchetto regalo di plastica verde, l’altro. Lavinia, in verità, non ha scelto il più bello, o almeno quello che le piaceva di più, molto più profondamente ha rinunziato all’altro. E’ stato così evidente e quasi palpabile che in quel momento avrei voluto regalarglieli tutti e due, se non avessi avuto il giusto timore di esagerare e di offendere la sensibilità di una donna così dolce, sicuramente bisognosa o comunque affascinata da beni voluttuari assai al di sopra delle sue ordinarie possibilità, ma altrettanto dignitosa ed orgogliosa. Però Lavinia è anche o soprattutto donna e non c’è luogo nel mondo in cui un tributo, per quanto piccolo ed occasionale, alla grazia e gentilezza femminile non trovi accoglimento pag. 55 ed apprezzamento. Abbiamo camminato e parlato ancora a lungo e di tanti e di-


versi argomenti. Lavinia non è una “attricetta”, come la si intende nella nostra sotto cultura televisiva di spot pubblicitari, comparsate e riviste popolari. Lavinia ha frequentato la scuola d’arte nella forma più completa, specializzandosi nella recitazione. Oggi recita in televisione, ma ieri e sicuramente anche domani ci sarà il teatro e magari il cinema. Con i limiti di una istruzione di massa certamente non in grado di assicurare i più alti livelli internazionali, Lavinia ha comunque compiuto studi universitari e conosce la storia, la letteratura e la filosofia. Quest’ultima materia in particolare la ha da sempre affascinata e Lavinia continua ad approfondirla per se stessa, anche aderendo ad una associazione culturale e filosofica di antichissima origine e diffusione mondiale, in verità, come ho poi approfondito, prevalentemente radicata ed attiva nel così detto nuovo mondo. Lavinia aderisce ai “rosacroce” o “rosa più croce”, una antichissima scuola di pensiero neoplatonica, strutturalmente associata ad una loggia massonica. Questa è una tra le più sorprendenti e singolari contraddizioni del sistema di asserito socialismo totalitario cubano. A fianco di un apparente partito-chiesa, articolato su tutto il territorio dell’isola, città, paesi e villaggi di campagna, con le sue innumerevoli e capillari sezioni e comitati di difesa rivoluzionaria, vivono e prosperano non solo le diffusissime e sovente imponenti strutture della chiesa cattolica, le chiese metodiste e battiste, i santuari di credenze magiche di origine africana in buona parte omologate dalla più scaltra chiesa cattolica, ma di quando in quando, anche nei paesi più piccoli e sperduti, spuntano inattesi templi massonici assai attivi e gremiti di aderenti. Se questo è totalitarismo ideologico, allora viene da pensare che il concordato tra la Chiesa cattolica e lo Stato italiano potrebbe essere considerato legittimazione della santa inquisizione.


Anche in questo Lavinia è davvero una persona fuori dal comune e molto, come si dice, intrigante. Ad un anno di distanza mi è stato detto da chi ha avuto l’occasione di incontrarla del tutto casualmente che Lavinia è andata “oltre” nella sua ricerca tra il filosofico e lo spiritualista, deviando decisamente per questa seconda opzione e così si è fatta “santera”. Vestita di bianco dalla testa ai piedi, anzi con la testa completamente rasata, è divenuta sacerdotessa della chiesa della santeria, un insieme di credenze magiche importate dagli schiavi neri dell’Africa centrale, opportunamente omologata dal cattolicesimo come avvenne per i nostri riti pagani in grande parte recuperati nei culti magici mariani. Lavinia, mi dicono, è sacerdotessa della divinità dell’acqua; di più non mi è stato detto e non so. Ma quel giorno abbiamo parlato a lungo di tante cose ed in particolare anche di arte e di pittura, proprio muovendo dal nome di Lavinia che il padre le aveva imposto in ricordo di una sorella di Raffaello, credo (sull’argomento lei era molto più informata di me). Nel pieno di questi discorsi d’arte abbiamo allora deciso di visitare il nuovissimo museo nazionale d’arte antica da poco aperto in uno splendido palazzo dell’Avana Vecchia recuperato dal totale degrado con il generoso contributo della nazione andalusa. Un palazzo tanto imponente e bene ristrutturato quanto modesta, per quantità e qualità, la raccolta delle opere contenute. L’impressione è stata quella di una “summa” di tutto il patrimonio artistico recuperato all’indomani del trionfo della rivoluzione da tutti i palazzi del decaduto potere politico, economico e finanziario, nonché dalle ville dei potenti e soprattutto dei mafiosi precipitosamente fuggiti dall’isola all’arrivo dell’esercito dei ribelli. Un monumento all’orgoglio nazionale, a prima impressione, pag. 57 espressione del desiderio, di più, dell’esigenza di uno Stato sovrano e fiero custode della sua autonomia e del suo ruolo


nel mondo, di voler testimoniare anche il possesso di un suo patrimonio storico ed artistico internazionale. Reperti greci e romani, rinascimento italiano e quadri fiamminghi, accanto a pitture autocelebrative della nuova aristocrazia nord americana ed isolana, in parte di origine spagnola, in parte francese. D’altronde gli inglesi vantano nei loro musei tra i più importanti reperti egizi, greci, romani, pitture rinascimentali italiane e successive, quando ancora solo a ieri, come qualcuno che ben conosciamo rammenta, bevevano nei teschi. E che dire poi degli “yanquis” che ancora oggi girano con i revolver appesi alla cintura sparando indifferentemente a bisonti, negri o messicani, eppure possiedono tra i più grandi musei d’arte antica e moderna del mondo. L’orgoglio di uno Stato sovrano si soddisfa anche nelle celebrazioni museali. Ma forse non di orgoglio nazionale parla il grande ma piccolo museo d’arte antica cubano. Percorrendo le varie sale espositive del museo, con una estrema lentezza che ci ha portato quasi a chiuderne le porte con i custodi, ho visto Lavinia guardare quelle modeste opere d’arte con l’attenzione e l’emozione di chi sino ad allora aveva potuto vedere quelle cose solo sulle pagine dei libri d’arte o nei filmati documentari. Di grande maestria o di scuola minore quelle opere rappresentavano per Lavinia il primo contatto vivo, quasi tattile se fosse stato possibile accarezzarle con la mano (e spesso Lavinia ci è andata vicino con la compiaciuta tolleranza dei custodi che l’avevano riconosciuta), dopo l’asettica astrattezza dello studio scolastico. Per chi è abituato a vivere in un paese che è esso stesso un museo vivente, passando nello scorrere della vita quotidiana sotto archi romani, scansando reperti etruschi, circondato da chiese piene di opere d’arte pittoriche e plastiche di assoluta maestria, l’idea di un museo non ha alcuna attrattiva se non la si trasforma, così come in effetti è da certo tempo avvenuto, in un evento fondamentalmente spettaco-


listico e di moda. Strabilianti raccolte uniche, quantificate a peso di chilogrammi d’oro esposti o persino per le iperboliche polizze di inutili assicurazioni, da visitare come fatto puramente turistico, in ordinata coda, panini e bibite alla mano. Ma per la cubana Lavinia, nata in una isola del nuovo mondo che ha avuto come più grande tradizione storica la tratta degli schiavi e la barbarie dei colonizzatori cattolici, l’emozione della visita di un museo è evidente. Me la spiegano i suoi occhi curiosi ed attenti ad esaminare con lentezza persino esasperante ogni singola opera della quale lei conosce comunque, con la sua buona cultura universitaria, periodi e scuole ancorché legate nei suoi studi alle opere maggiori certamente assenti in quel modesto museo. Capisco che allora quell’opera di regime ha invece un senso culturale molto più grande e profondo. Oltre al legittimo orgoglio nazionale c’è indubbiamente la funzione didattica, svolta con i mezzi possibili per quantità e qualità, ma evidentemente ben compresa e recepita dai cittadini, ai quali non è data altra possibilità per superare almeno una volta il distacco tra l’astrazione dei libri e la concretezza delle opere vissute, viste dal vivo e magari anche toccate. Uscendo a pomeriggio oramai inoltrato dal museo in chiusura ho trasmesso a Lavinia questa mia riflessione, in qualche modo scusandomi della prima impressione superficiale ed arrogante datami dalla povertà delle raccolte esposte nell’imponente edificio museale. Ho avuto però la sensazione che Lavinia non mi abbia capito sino in fondo. Lavinia, per sua fortuna, non conosce il paese degli “gnomi” e quindi certe cose non le può capire. Non può capire perché in un altro paese tanto diverso dal suo, ed in particolare ricchissimo di opere d’arte d’ogni epo- pag. 59 ca e genere, piccoli orgogli paesani inducano alla dispersione anche di ingenti quantità di denaro pubblico per realiz-


zare una infinità di micro musei destinati a raccogliere per lo più le “croste” locali che spesso hanno l’unico pregio artistico, oltre ad essere vecchie, di essere state realizzate da qualcuno che sapeva tenere in mano un pennello quando la stragrande maggioranza dei suoi contemporanei non andava oltre la zappa. Strumenti e strutture quindi del tutto prive di funzioni educative, ma solo effimere auto-celebrazioni di piccoli orgogli di piccoli governanti di piccoli paesi. La sovente assai più valida consistenza e fruibilità ancora attuale delle strutture immobiliari sovrasta di gran lunga la pochezza dei contenuti assolutamente inidonei a generare la minima attrattiva anche a livello locale. Questo degrado Lavinia non lo può onestamente capire attenta com’è a non perdere il suo ombrello che per tutta la giornata aveva gelosamente stretto al suo braccio e che non senza una certa reticenza aveva lasciato al guardaroba del museo ed ora si affretta a recuperare nel timore della improvvisa chiusura del museo. L’ombrello è per Lavinia un bene essenziale, non tanto perché il clima di Cuba ne richieda un uso costante, anzi le piogge non sono frequenti e normalmente sono di breve durata, quanto perché, perso quello, é assai improbabile pensare di poterne avere un altro. In una economia povera ogni oggetto è essenziale, qualunque sia l’uso che è destinato a svolgere, solo perché è difficilmente ripetibile. Così camminando e parlando siano infine giunti al portone di un edificio nei pressi del Campidoglio, un edificio in verità in pessime condizioni di manutenzione e forse persino di sicurezza, nel quale comunque Lavinia doveva entrare per recuperare le fotocopie di un libro per lei evidentemente di grande interesse ed importanza; forse proprio un libro di arte o magari di filosofia, non mi ha spiegato di più ed io non ho chiesto. Al portone di quell’edificio ci siamo salutati. Io le ho lasciato il mio indirizzo e-mail e lei mi detto di aver-


ne uno presso l’accesso internet alla Casa della Cultura, ma non sapeva se era ancora attivo essendo trascorso tanto tempo senza averlo più utilizzato, col rischio quindi di averne perso il diritto d’uso. Così è stato ed io di Lavinia, a parte la notizia indiretta della sua conversione alla santeria, non ho saputo più nulla. Buona fortuna “santera”!

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DIANELIS “Una attrice cubana arrabbiata”

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Dianelis è una delle più famose attrici cubane, prevalentemente di televisione, ma anche di cinema seppure è un po’ di tempo che non le affidano delle parti, ma presto, così recentemente mi hanno detto, avrà finalmente l’occasione di girare un nuovo film; se lo merita. E’ bionda naturale con gli occhi blu cobalto. Io però l’ho conosciuta bruna, tendente al rosso, con gli occhi, ovviamente, sempre blu cobalto. E’ piccola e minuta, con la giusta rotondità così apprezzata a Cuba. In sostanza come la maggior parte degli attori e delle attrici, grandi, alte e slanciate sullo schermo, nella realtà non molto alti e minuti, seppure con grandi visi espressivi e fotogenici. Non parlo ovviamente dei miti delle così dette attrici delle frazioni di secondi degli spot pubblicitari, ma di vere professioniste in grado di tenere la scena di un film o di una opera teatrale ben più a lungo e di interpretare personaggi compiuti. Le veline, o velone in taluni casi per le ragguardevoli dimensioni fisiche, assai raramente approdano al vero e proprio cinema e tanto meno al teatro, consumando tutte le loro doti naturali in pochi sguardi, sorrisi o carrellate anatomiche. Comunque a Cuba non ci sono spot pubblicitari del tipo occidentale e quindi mancano anzitutto le occasioni di lavoro per le super donne. Dianelis è una attrice vera e completa, formatasi alla scuola d’arte di Stato, buona conoscitrice della storia delle arti e della letteratura, in grado di recitare da vera professionista tanto nel cinema e nella televisione, come dal vivo in teatro. Dianelis è una donna sicuramente e profondamente cubana, ma appartenente alla speciale categoria delle “arrabbiate”. Come tutte le donne cubane, tanto più se di cultura più elevata e quindi maggiormente emancipate, Dianelis ha avuto un figlio in età precoce da un uomo forse scomparso o comunque certamente deresponsabilizzato come tutti i ma- pag. 65 schi cubani. Forte e sinceramente soddisfatta della sua autonomia, Dia-


nelis si occupa da sola, o con un poco di aiuto della propria madre, dell’allevamento e dell’educazione del figlio che lei intende crescere cubano, escludendo senza ombra di tentennamenti qualsiasi progetto di abbandono del proprio paese. In quanto attrice affermata Dianelis gode di alcuni privilegi sociali, o più precisamente di uno, avendo avuto in assegnazione un alloggio di più recente costruzione in un quartiere “buono” dell’Avana. Un alloggio di due camere da letto, un soggiorno, una cucina ed un bagno, oltre all’immancabile balcone-patio tipico dell’edilizia e, direi di più, del clima tropicale cubano. Come lavoratrice un poco “speciale” nel sistema egualitario del socialismo cubano Dianelis guadagna anche molto bene, sempre con riferimento comparativo alle medie dei lavori così detti ordinari, con la variante, però, della incertezza degli ingaggi di lavoro. Ciò vuol dire che, in deroga ad un principio universale di sicurezza retributiva, quando non ha impegni di lavoro Dianelis non guadagna nulla, a parte il sussidio uguale per tutti della “libreta” alimentare per il ritiro dai magazzini dello Stato dei beni di prima necessità. Nei periodi di “magra” Dianelis da brava cubana si arrangia un poco come tutti e così subaffitta, ritengo “a nero”, una camera del suo speciale appartamento e tira avanti sino alla prossima occasione di buon lavoro. Ma Dianelis non é una che si accontenta, e così borbotta, protesta, si agita, chiede e richiede maggiori riconoscimenti, o diritti o forse anche privilegi, comunque esponendo e difendendo le sue qualità e capacità professionali. In una singolare miscela di principi di meritocrazia, in qualche modo di ideologia capitalista, e di uguaglianza e parità di diritti, propri invece del socialismo reale, Dianelis ad uno stesso tempo rivendica i meriti di attrice di qualità, unitamente al diritto ad una più equa distribuzione delle opportunità di lavoro che, nella oggettiva limitatezza delle potenzialità produttive della modesta industria cinematografica


e televisiva cubana, finiscono sempre per premiare gli stessi interpreti e registi più noti, guarda caso proprio nel mercato estero verso il quale la povera produzione cubana cerca disperatamente di espandersi, auspicando ricavi dalle vendite dei propri prodotti, nonché investimenti di cooproduzioni straniere nell’Isola. Perugorria, declama Dianelis, o come più confidenzialmente soprannominato nel mondo del cinema cubano “Chico”, sempre lui, come se fosse l’unico bravo attore di Cuba! Così non resta mai nulla per gli altri tanti bravi, anche bravissimi attori diplomati della scuola d’arte e del cinema nazionale; dov’é, insiste Dianelis, il rispetto delle regole socialiste della parità di opportunità; se c’é poco lavoro, ebbene quel poco va diviso equamente tra tutti. Provo, ma con non grande successo, a spiegare a Dianelis le così dette leggi del mercato capitalista per le quali il prodotto “buono” non è necessariamente il migliore, ma sempre quello che si vende meglio e di più; mercato nel quale la giustizia morale o sociale non “ci azzecca” proprio nulla. Le narro ed in verità più che altro le ricordo cose che lei ben conosce, la pioggia delle “mezze calze” di attori “yanquis” che imperversano nel cinema di successo del mercato “globale”, deprimendo le assai più qualificate produzioni europee, di fatto “lobotomizzando” un pubblico omologato e sempre più respinto verso un analfabetismo di ritorno da gladiatori che vivono, pensano, parlano e vestono da cowboy nord americani, supereroi dal braccio di ferro e dal cuore di burro che si scioglie per la patria e la famiglia, mentre nel frattempo riducono a brandelli sanguinolenti esseri inferiori e quindi geneticamente cattivi, gialli, neri ed anche meglio se musulmani rigorosamente bendati e sudaticci, magari anche puzzolenti se il cinema potesse trasmette anche gli odori. E c’é anche di peggio quando il livello di generale demenzialità si sublima in produzioni magari anche di elevata qualità pag. 67 tecnica ed artistica per trasmettere aberranti messaggi subliminali di violenza e di razzismo.


In occidente, nel ricco occidente aperto ad ogni possibilità, lo strumento di espressione artistica cinematografico e televisivo è oggi principalmente un ragionato mezzo di governo sociale che trasmette messaggi di consenso o almeno di disaffezione ed allontanamento dall’impegno sociale, veicolando prodotti preconfezionati dal computer come preconizzato, con lucida previsione, nel messaggio fantapolitico di Orwell. Così le spiego che Taibo in questo momento è il regista cubano più conosciuto nel mondo, e Chico Perugorria l’attore che dà all’estero il volto alla cinematografia cubana. Allora non c’é scampo, se il cinema cubano vuole uscire dai confini dell’isola, e più ancora se si vuole riuscire ad attrarre capitali esteri di cooproduzione, è inevitabile proporre ed offrire quei nomi e quei volti, con buona pace dei principi di egualitarismo socialista. E va ancora bene, aggiungo infine, che non vengano imposti anche al cinema cubano i volti di bambocci nord americani come uno Stallone e simili per assumere la parte e l’immagine stravolta di una Cuba “da vendere”. In verità non mi è sembrata molto convinta, ma almeno, per un poco si è quietata. Un giorno le ho telefonato, Dianelis infatti ha anche il telefono a casa, per invitarla ad una serata per così dire mondana. “Questa sera? Volentieri, alle otto.” E’ stata la risposta precisa e rapida di Dianelis, pienamente rispecchiante il carattere determinato dell’attrice che non si acquieta. All’ora convenuta sono andato a prenderla salendo sul primo taxi di fila; era un pulmino Transit da almeno 9 posti e non c’è stato verso di poterlo cambiare con una autovettura normale. Strada facendo ho pensato a come giustificare l’eclatante incongruenza del mezzo di trasporto collettivo con l’eleganza della serata mondana. Per una così grande attrice, ho pensato e poi ho detto a Dianelis, era doverosa la scelta di un grande veicolo, scusandomi per non avere avuto la disponibilità di un “camello”.


Il “camello”, “cameio” nella pronuncia “cuvana”, non è il quadrupede arabo, ma un enorme veicolo da trasporto collettivo frutto della fantasia isolana dopo il taglio degli aiuti da parte dell’Unione Sovietica ed il conseguente progressivo sfascio dei già pochi e sovraccaricati autobus urbani di verosimile fabbricazione rumena. Ad una motrice-trattrice da autosnodato di produzione (credo anche regalo) canadese, i cubani hanno agganciato una specie di vagone ferroviario, caratterizzato da un profilo a due gobbe in corrispondenza delle assi delle ruote. Con sorprendente spirito di autoironia sui nuovi mezzi di trasporto è stata disegnata l’immagine di un cammello con le sue due gobbe ed il nome del quadrupede è stato ufficialmente attribuito al nuovo mezzo di trasporto pubblico. In quest’ultimo viaggio, in verità, ho visto ben pochi “camelli” ancora in funzione, segno di un ulteriore processo di degrado che sta mandando a casa anche questi mezzi sostitutivi, dando oggi spazio a veri e propri camion da trasporto merci adattati alle persone con l’applicazione di originali ripidissime scalette di salita posteriori e, nei paesi più di provincia, alla riscoperta dei mezzi a trazione animale anch’essi adattati al trasporto di persone come grandi carrozzelle turistiche. Enorme inoltre la diffusione delle biciclette rigorosamente a due posti, con il secondo sellino e la pedaliera di appoggio del passeggero collocata sul mozzo della ruota posteriore, quando non addirittura potenziate da un sidecar, emulazione, ma con la motorizzazione umana, della storica vespa familiare del nostro ultimo dopoguerra. Un’ultima invenzione sorprendente nella politica cubana dei trasporti l’ho scoperta l’ultimo giorno di permanenza a Cuba nel tragitto verso l’aeroporto internazionale. Attraversando incroci di gran lunga più gremiti di persone in attesa di passaggi che di mezzi di trasporto in transito sempre più rari, il conducente del taxi mi ha fatto notare la pag. 69 presenza di uno speciale funzionario ministeriale, riconoscibile dal vestito interamente blu, che aveva il compito di


fermare tutte le automobili statali per obbligarle a far salire i cittadini loro malgrado autostoppisti, secondo il principio che i mezzi pubblici debbono servire a tutti, ai funzionari per il loro spostamenti ma, strada facendo, anche ai cittadini appiedati, in modo che tutte le auto pubbliche viaggino sempre piene. Di nuovo socialismo e fantasia latina (cubana); ovviamente sempre in attesa del decollo dell’economia nazionale e dell’acquisto dei nuovi autobus di linea, magari non oggi, ma domani senz’altro, o domani dopo o dopo ancora, basta attendere e sperare con fiducia, “esperare” appunto. Giunto quindi sotto la abitazione di Dianelis, come da istruzioni preconcordate, ho chiesto al conducente del taxi di avvertire dell’arrivo con un colpo di clacson; è stata la fine del mondo. Sembrava la curva dello stadio al goal della squadra di casa. Ho cercato, ma invano, di fermare il concerto, ma l’autista non ne ha voluto sapere, invitandomi a fidarmi di lui, della sua sicuramente migliore conoscenza degli usi e dei costumi locali. Finalmente, per fortuna, Dianelis si è affacciata al suo balcone, gridando di avere ricevuto il segnale e di essere in procinto di scendere e così, nella via già silenziosissima per lo scarsissimo traffico, è tornata la quiete. Debbo riconoscere che di tutto quel clamore nessuno, inclusa la stessa Dianelis, ha dato segno di fastidio e direi neppure di interesse; d’altronde per quanto ho potuto vedere a Cuba i campanelli, non parlo ovviamente di citofoni, non ce ne sono e dunque il clacson o l’urlo umano sono l’unico modo possibile per richiamare l’attenzione degli abitanti delle case che, per qualche fortuita casualità, non si trovino in quel preciso momento a dondolare sulle immancabili sedie a dondolo poste sui balconi, patii o direttamente sulle porte di casa. Abbiamo consumato una buona cena in un ristorante alla moda, cubana ovviamente, accuratamente scelto di concerto tra l’attrice e l’autista del taxi che, visibilmente inorgogli-


to dalla fama della sua passeggera, si prodigava in ogni modo per soddisfarla compiacendosi anche di chiamarla confidenzialmente per nome. Un locale un poco per artisti era sfortunatamente impreziosito da uno spettacolo di musica e danza di flamenco dal vivo, fortunatamente invece sufficientemente breve da non impedire un poco di colloquio, oltre al resto. C’è stato un intenso, gradevole e sinceramente interessante dialogo in un reciproco misto di italiano e spagnolo, così come ci veniva ad entrambi, quasi tutto in verità su di una tonalità un poco alta, consona al ritmo epico dei comportamenti della bella e ribelle attrice cubana. Poi una lunga passeggiata per le affascinanti piazze notturne della Avana Vecchia, tra ammiccamenti di fans cubani ed un piccolo codazzo di bambini un poco più ardimentosi ed espansivi verso l’attrice di qualche loro sceneggiato avventuroso. Ad un certo punto ci siamo affacciati sulla splendida piazza S. Francesco posta sul fronte della stazione portuale cittadina, e lì abbiamo scoperto che erano in corso delle riprese cinematografiche in notturna di un nuovo film in merito al quale, però, non ho ricevuto maggiori informazioni. Abbracci e baci calorosi da parte di quasi tutta la troupe al lavoro alla bella e nota attrice, scambi veloci di informazioni sul lavoro cinematografico in corso, delle quali in onestà non sono riuscito a comprendere molto, tranne il nome dell’interprete principale, guada caso il “solito” Perugorria. Meglio salutare ed allontanarci in fretta. Alla fermata dei taxi, fatalità, lo stesso pulmino dell’andata capofila. Ma Dianelis se lo meritava, bella, brava e combattiva attrice cubana. Mi hanno detto del suo prossimo imminente film, glielo auguro proprio, con la speranza anche per lei di riuscire a superare gli angusti limiti della territorialità isolana e così po- pag. 71 ter dimostrare e far conoscere le sue doti e capacità interpretative anche ad una più ampia platea internazionale.


Spero proprio di poterla vedere all’opera nel suo nuovo film e cosÏ compiacermi un poco anch’io per il privilegio di averla conosciuta personalmente ed ameno un poco piÚ umanamente ed intimamente.


UN PENSIONATO “Nostalgia e turismo de la salud”

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Gratificata dalle proprie eccezionali condizioni climatiche quasi tropicali, della ricchezza illimitata del sole e del mare, nonché forte dell’intima convinzione di possedere livelli di conoscenze e di pratica medica di assoluta avanguardia, Cuba offre ai turisti, non motivati da sole ragioni “sessuali”, l’attrattiva di un turismo particolare proponendosi di arricchire le offerte della natura con prestazioni di cura e terapia medica fisica. L’offerta, o meglio per quanto di seguito narrerò la promessa dell’offerta speciale, viene promossa dalle istituzioni ufficiali cubane facenti capo ai ministeri del turismo e della sanità sotto il nome di “turismo della salute”. Al turista straniero, già di per sé bisognoso di riposo, viene proposto un pacchetto di soggiorno alberghiero integrato dall’accesso a strutture parasanitarie di cura fisica sulla base di un programma terapeutico da costruire al momento dell’arrivo nell’Isola del turista e quindi personalizzato alle condizioni fisiche ed alle esigenze particolari del cliente. Medici laureati e paramedici soprattutto fisioterapisti specializzati sono pronti a ricevere il turista presso il centro di salute attiguo alle strutture alberghiere convenzionate, per procedere ad una prima visita e quindi costruire d’intesa con il cliente il programma sanitario da svolgere nel corso della permanenza del turista nell’Isola e ciò senza pregiudizio dei momenti propriamente turistici comunque compatibili. In questo quarto viaggio a Cuba avevo “tempo da perdere” e più ancora voglia di perderlo, o meglio di perdermi nei ritmi di vita dell’Isola, di lasciarmi andare e trasportare dal loro modo di vivere la quotidianità senza programmi, senza scadenze, senza progetti predefiniti. Ho dunque deciso di sperimentare anche questa “invenzione” cubana, almeno per alcuni giorni di voluto abbandono al più totale rilassamento ed allontanamento dai miei penpag. 75 sieri e problemi domestici. Ho deciso di farmi “vittima sacrificale” ed affidarmi alle loro mani (pur sempre “con judicio”!).


Sorpresa! Forse ero davvero la loro “vittima sacrificale”, o più precisamente la “cavia” volontaria del loro programma di turismo e salute: ero il primo, o comunque in quel momento il solo. Dapprima mi sono recato agli uffici amministrativi della istituzione nazionale del “turismo della salud”, dove gentilissime ed impegnatissime dottoresse mi hanno lungamente esposto le ragioni, la filosofia, le tecniche ed i benefici del progetto, riempiendomi di programmi, schemi, relazioni scientifiche, nonché di indirizzi e biglietti di presentazione presso i centri convenzionati con il servizio. Mi sono quindi recato presso la struttura alberghiera convenzionata, con adiacente il centro di salute di recentissima costruzione (anzi in parte era ancora in edificazione), e qui ha avuto inizio il rituale “calvario” cubano. Una mattinata intera, ma forse anche di più, per riuscire ad interpretare, con l’impegnato concorso della responsabile del centro di salute, della direttrice dell’albergo, qualche intervento di una responsabile del locale ufficio turistico e soprattutto della mia infinita pazienza, le norme regolatrici del progetto integrato di turismo alberghiero e di cura fisica. Alla fine comunque è stata raggiunta la soluzione, in verità non saprei dire se perché è stata dipanata l’aggrovigliata matassa delle procedure burocratiche e dei relativi regolamenti, oppure se perché, essendoci un cliente, una soluzione qualsiasi andava comunque trovata. La soluzione dunque si è trovata ed io sono stato accettato dall’albergo ed ammesso al centro di salute. Lì è iniziata l’elaborazione del mio personale programma terapeutico. Cyclette, tapis roulant, qualche altro apparecchio di ginnastica passiva, massaggi, sauna e quindi, pedicure, manicure, pulizia del viso e persino taglio dei capelli, ma soprattutto tanta, tanta, tanta iacuzzi che, come si sa, è una terapia salutare di assoluta efficacia per qualsiasi esigenza, malattia o malessere, come dire… anche meglio di una buona dormi-


ta che fa passare tutto, anche il …! In sostanza null’altro che una palestra, bensì moderna, pulita ed anche bene attrezzata, ma il tutto un poco “surreale” considerando che sul fronte dell’albergo si stendeva l’oceano caraibico con l’aggiunta della protezione di una bellissima piscina naturale ad uso esclusivo dei clienti dell’albergo. Ho detto che ero, di fatto, l’unico cliente del programma di turismo della salute, non ero però l’unico fruitore della palestra che era invece frequentata da alcune “belle persone”. Forse cubane in attesa di matrimonio straniero, forse operatrici dei più prestigiosi locali notturni cubani, di quando in quando nella sala di ginnastica apparivano delle ragazze superbe che accentuavano il loro fascino producendosi in esercizi di danza ginnica (credo che si chiami “spinning” o giù di lì) mozzafiato anche solo per la straordinaria capacità resistenza. In poche parole debbo dire che non so se sotto il profilo fisico il programma terapeutico abbia funzionato davvero, certo che sotto quello psichico è stato straordinariamente rilassante e conciliante con il mondo. Comodamente seduto su di una cyclette rigorosamente ferma, ho potuto assistere a spettacoli di danza di elevata, anzi elevatissima qualità ginnica quasi teatrali, fumando più d’una sigaretta (a me, credo quale unico cliente pagante, è stato concesso il privilegio di fumare dovunque nel centro di salute, anche nella iacuzzi e con la sola esclusione – ma questo lo ho deciso io – della cabina della sauna per non morire asfissiato). Con giudizio e opportuna misura ho accettato e mi sono sottoposto a tutti i trattamenti del programma, fatta eccezione del taglio dei capelli che non mi sembrava “ci azzeccasse” molto con la salute e comunque (senza ridere! per chi conosce la mia calvizie) non rappresentava una mia esigenpag. 77 za impellente. Un giorno entrando nella cabina della sauna vi ho trovato una persona che stava boccheggiando persino un poco


cianotica, forse per l’eccesso di umidità, certamente per la poca o nulla confidenza con questo strumento di tortura svedese. Con la scusa di sfiammare un poco il locale e di verificarne anche i tempi accettabili di utilizzo, abbiamo cominciato a parlare così scoprendoci ambedue italiani. La persona semiasfissiata era un pensionato italiano, bensì anziano ma in ottime condizioni fisiche per l’età, un ex portuale di Ravenna pieno di tatuaggi propri della “gente di mare”, ma con un accento romagnolo accattivante e confidenziale. L’ho incontrato successivamente diverse altre volte nel centro di salute, sempre comunque fuori dalla sauna, e piano piano lo ho conosciuto meglio, sino a rompere gli argini imposti dalla non conoscenza alla istintiva comunicativa romagnola e quindi a rimanere travolto dalla valanga dei suoi racconti. In pochi incontri non solo ho saputo tutto della sua vita italiana ed attualmente cubana, ma anche delle vicende storiche del porto di Ravenna, della famiglia Sama e di quella del “povero” Gardini. Scapolo incallito, ma grande avventuriero in gioventù ed in mezza età, il portuale romagnolo (di cui non ricordo e forse credo di non avere mai neppure saputo il nome) raggiunta la pensione si era dato alle avventure nei mari del sud (carabi). Sbarcato (dall’aereo ovviamente) a Cuba aveva infine trovato la donna della sua vita, o almeno una che lo aveva convinto a restare e qui infatti era restato, facendosi rimettere la pensione via banca ed acquisendo la residenza cubana. Aveva sposato la donna della sua vita, una professoressa di storia dell’arte, ovviamente abbastanza più giovane di lui, molto bella e con il “solito” figlio a carico lasciatole da un marito cubano dissoltosi non nella nebbia che a questa latitudine è sconosciuta, ma in qualcosa di simile. Il rude ma gentile portuale romagnolo si era fatto carico senza esitazione della nuova famiglia (figlio, nonni, sorelle


e fratelli e via così), acquisendo come detto la residenza cubana e pronto almeno di spirito a divenire anche un cittadino cubano ancorché “miracolato” da una pensione in euro italiani. 1.500 euro al mese, mi narrava, una cifra notevole per le condizioni di vita di Cuba, certamente troppo poca per poter tornare in Italia più spesso si una volta ogni tre o quattro anni, ed anche, ammetteva, per poter fruire senza problemi delle ottime strutture cubani per turisti, come quel centro di salute, pagato in dollari ad un prezzo persino più alto dell’Italia e senza le mai dimenticate agevolazioni delle convenzioni dei vari CRAL o dopolavori sindacali romagnoli. Ma lui stava attrezzando una casa all’italiana, con tanto di caminetto in pietra per il barbecue all’aperto; un anno o due o tre, per la sistemazione della casa e per il reperimento dei materiali, ma prima o poi l’avrebbe finita ed allora… grandi grigliate all’aperto con i nuovi parenti ed amici cubani. Certo quanta nostalgia per le pescate e le grigliate sui canali di Ravenna, nei capanni abusivi ma attrezzatissini di fuochi e frigo realizzati in società con i vecchi colleghi di lavoro. Le partite a carte nei bar del porto, o della piazza e del quartiere, quante volte giocate con il famoso Sama, cognato del “povero” Gardini, tutte persone della sua generazione e della sua estrazione, amici d’infanzia e di sempre dei quali sapeva e narrava tutti i retroscena familiari, societari e penali. Ma poi sua sorella che erano due anni che non vedeva con i suoi nipoti; forse il prossimo anno lei con i nipoti sarebbe venuta trovarlo a Cuba, o forse, ma non prima di due anni, sarebbe stato lui a tornare almeno per qualche settimana in Italia, a rivedere la sua città, a ricercare i suoi amici, quanto meno quelli ancora vivi o vivaci, perché la pensione invecchia ed uccide chi non la combatte. Lui l’esclusione della pensione l’aveva combattuta trasferendosi a vivere a Cuba, mettendo in piedi quella famiglia pag. 79 che non aveva mai avuto in Italia. E poi a Cuba tutto è assicurato e gratuito; solo ieri aveva fat-


to degli esami clinici e nei prossimi giorni ne aveva prenotati degli altri; poi la farmacia vicino a casa gli forniva i farmaci necessari per la pressione, gli acidi urici e non so cosa altro, tutti gratuiti, tutti disponibili. Certo quando era giovane, o almeno un poco più giovane, quando “scorrazzava” per i porti italiani e della Yugoslavia dove aveva donne a volontà che lo attendevano, anche la cognata della Silvia Koscina (“lo sa Lei che è yugoslava? Il fratello era un mio grande amico”), e soprattutto quando lo Stato “passava” ai portuali le cure termali nelle più esclusive stazioni italiane ed allora si andava in gruppo, a mangiare, giocare a carte e soprattutto a “cacciare” belle signore. Sono orami due anni che manca dall’Italia, dall’ultimo viaggio, ed almeno altri due ne dovranno passare per potersi permettere il costo del biglietto aereo e la permanenza di qualche settimana nel paese dell’euro, dove tutto si paga ed a caro prezzo. Poi qui a Cuba è sempre estate, le “ossa” stano molto meglio per chi ha passato all’umidità, caricando e scaricando navi col sole o con la pioggia, i migliori anni della propria vita, ed adesso non “passano” più neppure le cure termali, per chi è pensionato poi non c’è più tutela, il lavoro manca, i giovani non lo trovano e chi ce lo ha rischia ogni giorno di perderlo e di finire in mezzo ad una strada. A Cuba tutti lavorano, tutti mangiano, tutti hanno diritto alla assistenza sanitaria, le donne sono belle e gentili anche a questa età, i giovani sereni, educati ed anche rispettosi. Certo le pescate nel canale e le grigliate nel capanno, ma oggi quei capanni non ci sono più, hanno allargato i canali, hanno pulito le sponde, l’acqua è nera di petrolio e di rifiuti ed il pesce non abbocca più e se abbocca non c’è da fidarsi a mangiarlo. Un giorno non lo ho più visto, non credo affatto che gli sia accaduto qualcosa di male, penso invece, come lui stesso mi aveva detto, che il costo della struttura era un po’ troppo alto per chi disponeva di una pensione di ben, ovvero di soli, 1.500 ero al mese.


Un lusso ogni tanto, quando la moglie era fuori casa per lavoro e dunque per non restare soli e comunque mantenere tonico il fisico, ma senza esagerare, semmai c’è il mare che è libero e gratuito per tutti, basta nuotare e correre sulla spiaggia senza dover pagare 1 euro,o meglio a Cuba 1 dollaro. Chissà quanti pensionati italiani ancora vitali e giovanili, espulsi dal mondo del lavoro e dunque dal loro ambiente di vita di trenta o quaranta anni, relegati sulle panchine dei piccoli giardinetti di quartiere pensano che al di là del loro mare c’è un’isola assolata dove ancora gli anziani hanno spazi di vita e di rispetto civile ed umano? Non conosco Cuba a sufficienza per poter dare sul punto un giudizio definitivo e documentato, ma non mi sembra di avere visto pensionati abbandonati sulle panchine, inutili a se stessi ed al mondo. Un pensionato lo ho conosciuto abbastanza bene, ma di lui parlerò in un altro racconto.

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IN VOLO “Paese che vai…malcostume che trovi”

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Il racconto che segue narra la storia di una avventura molto divertente ed emozionante (nel vero e proprio senso della parola), che porta dentro si sé, però, la vicenda di un episodio di malcostume specchio di un compromesso morale talmente diffuso da sembrare quasi scontato, prevedibile e banale, così tanto il nostro modello di vita occidentale ci ha portato a “normalizzare” l’idea stessa della immoralità, purché contenuta entro determinati limiti di tollerabilità. L’essere buoni “fino ad un certo punto”, l’essere bravi “fino ad un certo punto”, l’essere onesti “fino ad un certo punto”, sono contraddizioni in termini che pure sono parte del nostro patrimonio culturale che fa dei principi morali, in qualche modo, merce di scambio per l’affermazione o la conquista di condizioni di vita economica e sociale più appetibili o premianti. Il compromesso pone, o comunque tenta di porre dei limiti, dei paletti di tollerabilità che tuttavia, com’è ovvio, non solo sono soggettivi, ma sono anche inevitabilmente variabili nel tempo e nelle singole circostanze. Così oggi si può essere contro la guerra nord americana all’Iraq e solo ieri invece avere “tollerato” la distruzione sistematica e criminale dei ponti, delle fabbriche e delle infrastrutture civili in genere della Yugoslavia, perché la pace, affermano i campioni del compromesso politico e morale, non è un valore assoluto, ma va valutata caso per caso, opportunità per opportunità, contingenza o convenienza volta per volta. E così l’onestà, o il suo contrario la disonestà, assume un diverso valore a seconda dell’allarme sociale che la stessa genera in quel preciso momento o in quella specifica contingenza. L’evasione fiscale, la corruzione, la concussione, la truffa nella sue infine modalità di esecuzione (nel commercio, nel lavoro, nei rapporti anche affettivi in generale) sono tutti fatti di immoralità che possono tuttavia essere “tollerati” pag. 85 quando trovano o presumono di trovare formalmente in contesti oggettivi, ma sostanzialmente nella nostra coscien-


za colpevole, giustificazioni discriminati ed assolutorie. Constatare con esperienza diretta la pratica e la diffusione di questa morale malata anche in un paese che fa del rigore morale, nelle declamazioni indubbiamente più propagandistiche che reali, un suo punto di emergenza qualificante, provoca uno stupore che risveglia almeno per un attimo la coscienza, salvo poi a riacquietarla con le mille giustificazioni contingenti di facilissimo reperimento. Un modesto, ma sincero impulso di onestà mi obbliga comunque a narrare con il buono, il simpatico ed il divertente delle mie esperienze nell’Isola Felice, anche questo episodio, in verità non unico od isolato, di disonestà. Ma torniamo per ora al tema del racconto dedicato ad una esperienza di trasvolata aerea dell’Isola dall’aeroporto della città di Santiago a quello di Avana. Nei miei viaggi, in verità, o più volte fatto uso del mezzo di trasporto aereo per percorrere nelle due direzioni il lungo corpo dell’isola estesa da ovest ed est per una lunghezza più o meno pari a quella della penisola italiana che invece si stende dal nord al sud. I mezzi di trasporto aerei cubani sono decisamente inusuali da noi, o più correttamente sono talmente obsoleti al punto che, nonostante la mia non giovane età, non ho proprio memoria diretta della loro esistenza ed attività in Italia. Vecchi cargo o mezzi militari sovietici riadattati al trasporto passeggeri volano ancora dai due capi dell’isola con un coraggio, non solo per i passeggeri, che merita di essere premiato salendoci sopra almeno una volta (sperando ovviamente che non sia l’ultima!). Il viaggio che narro merita una particolare menzione perché lo ho fatto con uno dei mezzi tecnologicamente più avanzati in dotazione all’aviazione interna cubana, un tri-reattore YAK 42 sovietico che, sia per l’età, sia soprattutto per la probabile mancanza di assistenza tecnica dopo il collasso dell’Unione Sovietica, rappresenta la prova vivente della concretezza, consistenza e serietà delle produzioni, “brutte ma solide”, dell’oggi dissolto socialismo reale dell’oriente


europeo. Il viaggio era programmato in orario notturno avanzato cosicché, con il consueto anticipo che ho sempre osservato negli spostamenti che non consentivano soluzioni alternative di facile reperibilità (cinque giorni di prenotazione circa per trovare un posto libero), mi sono portato all’aeroporto internazionale di Santiago de Cuba programmando di cenare all’interno dello stesso e di godermi, nell’attesa paziente della partenza, la veduta notturna o almeno il rumore ed il profumo dell’oceano caraibico disteso sino all’orizzonte marino al di sotto della terrazza della stazione aeroportuale. L’aeroporto di Santiagio si trova infatti su di un lungo costone dalla cresta pianeggiante giusto la larghezza della pista di decollo ed atterraggio, disposta lungo la riva dell’oceano a sud della città. La collocazione è emozionate per la veduta dai finestrini dell’aereo soprattutto all’atterraggio quando, provenendo dall’ovest di Avana, dopo avere sorvolato a discreta quota la bellissima baia emiciclica del porto di Santiago, l’aereo improvvisamente tocca terra quasi su di una piattaforma sospesa a mezza altezza tra terra e mare e cielo. Questa emozione vale ovviamente per la prima volta, nel caso di un secondo atterraggio, la memoria della originale collocazione della pista insinua nei passeggeri una qualche preoccupazione sulla mira del pilota tra lo strapiombo del costone verso il mare e quello opposto verso l’interno dell’isola. Nel mio caso però quella sera si trattava di decollare e semmai la preoccupazione era quella di una pronta ascesa dell’aereo verso il cielo prima delle fine della pista e quindi del salto verso il fondo precipizio della baia. Eseguite dunque le operazioni di registrazione col numero uno di imbarco, mi sono dedicato alla visita della aerostazione dove, nello spazio di poche centinaia metri quadri di pag. 87 superficie si ripete in miniatura l’organizzazione dei veri e propri aeroporti internazionali: negozi (uno, più un ban-


chetto di vendita di souvenir nell’atrio), uffici delle compagnie aeree (Cubana de Aviacion, Gaviota, Aerocaribe, ecc.), bar e ristoranti (uno per ciascuna specialità). Al bar ho consumato una modesta cena di panino e bibita, poi mi sono seduto nell’atrio di attesa e quasi meccanicamente, secondo una opportuna abitudine acquisita nei ripetuti viaggi solitari, ho verificato per l’ennesima volta la completezza della mia dotazione “cartacea”: documenti personali, documenti di viaggio, denaro in diversa valuta. Nel portafoglio, per singolare casualità, c’erano solamente nove banconote da venti dollari, valuta corrente nell’isola di Cuba e di fatto obbligatoria per gli stranieri ai quali non è impossibile, ma certo assai difficile accedere alle strutture di ospitalità, ristorazione e trasporto acquistabili in valuta nazionale cubana e quindi giustamente riservate in preferenza ai cittadini cubani. E’ giunto quindi il tempo del passaggio alla sala di imbarco in attesa del rifornimento dell’aereo che nel frattempo era arrivato da Avana e che di lì a poco sarebbe ripartito per l’ultimo volo della notte. In analogia e proporzione con la complessiva configurazione della aerostazione, all’ingresso della sala d’imbarco c’era il filtro del sistema di controllo personale, porta con metal detector, e dei bagagli, tunnel con raggi di ispezione. L’impianto era compresso in uno spazio strettissimo di non più di tre metri dalla porta di accesso dall’atrio, con due addetti della sicurezza in divisa, l’uno per la porta per le persone e l’altro per il tunnel dei bagagli. Quando è stato il mio turno, dopo avere deposto sul nastro trasportatore del tunnel il mio bagaglio a mano, sono stato invitato, prima di passare dalla porta per le persone, a depositare nell’apposita vaschetta porta oggetti in plastica tutto quanto avevo in mano o indosso, completamente svuotando le tasche dei calzoni e della giacca. Nonostante alcune mie blande osservazioni sono stato invitato a deporre nella vaschetta anche l’orologio di plastica, i documenti di carta ed infine il portafoglio di pelle, oggetti


tutti certamente non reattivi al controllo per le ispezioni dei metalli. Eseguita questa operazione ed affidato tutto il materiale all’addetto al tunnel dei bagagli, ho attraversato la porta per le persone venendo fermato dall’altro addetto per qualche scrupoloso ulteriore controllo ai vestiti. Quindi, all’atto di riprendere il bagaglio che nel frattempo era uscito dalla parte opposta del tunnel, su sollecitazione dell’addetto alla porta per le persone rivolta all’altro addetto al tunnel dei bagagli, sono stato invitato ad aprire la mia valigia, a mostrarne il contenuto, a fornire, infine, alcune curiose spiegazioni circa la accensione ed il funzionamento della macchina fotografica digitale e del voluminoso telefono palmare. Nel frattempo, tuttavia, ritardava oltre il normale il transito della vaschetta porta oggetti contenente, tra l’altro, il portafoglio. Ad un certo punto delle curiose spiegazioni richiestemi, l’addetto al controllo ha deciso che erano sufficienti e quindi, invitandomi a sollecitare lo spostamento del bagaglio dalla piattaforma di arrivo del nastro trasportatore del tunnel di ispezione, ha passato fuori del tunnel la vaschetta dei documenti, sino ad allora nascosta alla mia vista, mi ha fisicamente preso una mano aprendomela e rovesciandoci dentro il contenuto della vaschetta e, infine, mi ha congedato con la sempre gradevole cortesia di un augurio per una buona permanenza nell’isola. Con un poco di precipitazione sotto la pressione impostami per lo spostamento del bagaglio ho quindi rapidamente richiuso la valigia e raccolto gli effetti personali ridistribuendoli nelle loro tasche di origine. Poiché la diffidenza è l’ultima a morire, nel riporre in tasca il portafoglio, quasi di soppiatto un poco vergognandomi per la scarsa fiducia dimostrata verso gli addetti alla sicurezza aeroportuale, ho voluto vederne l’interno, constatan- pag. 89 do che le banconote c’erano ancora. Poi mi sono allontanato dall’ingresso verso il centro della


sala d’imbarco e mi sono seduto in attesa della chiamata all’uscita, un poco riflettendo ancora sulla anormalità del comportamento dei due addetti alla sicurezza: controllo di materiali pacificamente non rilevanti, eccesso di indagine, precipitazione della chiusura improvvisa del bagaglio, ecc. Così pensando tra me e me ho riaperto il portafoglio ed ho nuovamente contato le banconote da venti dollari: erano solamente sette, nel passaggio del controllo di sicurezza i due addetti, in evidente intesa tra di loro, ne avevano sottratte due, una per ciascuno. Debbo dire che più dell’irritazione ho avuto un impulso di compiacimento per la bravura, scientifica ed organizzata, dei due prestigiatori del controllo di sicurezza: il “gatto” distrae il turista e la “volpe” vuota il portafoglio, o meglio lo alleggerisce quanto basta per non dare nell’occhio ed invero, se non ci fosse stata la singolare concomitanza del mio precedente controllo e dell’unico taglio delle nove, cioè ora sette, banconote da venti dollari il furto, perché di questo si è trattato, sarebbe anche potuto passare inosservato. Va detto, per chiarezza, che mentre per noi venti dollari sono attualmente un poco meno di venti euro, somma non notevole tanto più considerata nel contesto di un viaggio turistico dai costi non indifferenti, per i beneficiari della prestidigitazione venti dollari sono pari a circa quattro mesi di stipendio, ciascuno! Ho avuto l’impulso di tornare verso di loro per reclamare e denunziare aspramente il fatto, ma ho subito pensato alle difficoltà della prova, parola contro parola, alla mia condizione di turista straniero comunque con difficoltà di lingua, alla mia necessità, infine, di prendere comunque quel volo per Avana al quale avrebbe fatto seguito il giorno seguente quello di ritorno a Roma. E’ stato facile a quel punto dare spazio alla colpevole ipocrisia politica e morale di cui ho detto in apertura di questo racconto e considerare che, tutto sommato, quella somma rubata non era per me grande danno, mentre per i “beneficiari” era davvero tanto.


In conclusione, a loro e mia complice discolpa, ho considerato che si era trattato di un fatto di ridistribuzione dei redditi, bensì realizzato per mezzo di un illecito, ma di dimensioni e gravità “tollerabili”. Sono restato dunque seduto al mio posto attendendo la chiamata per l’imbarco. Con un’ora e mezza circa di ritardo sull’orario previsto è infine giunta la chiamata d’imbarco della quale ho avuto notizia non già dall’altoparlante della sala completamente soffocato dal rumore assordante di un televisore acceso al centro della stessa, ma dalla concitazione con la quale improvvisamente, quasi illuminati da un comando telepatico, tutti i viaggiatori sono scattati in piedi e si sono caoticamente ammassati alla porta di uscita verso il piazzale di decollo. Forte del mio biglietto di imbarco in mano mi sono messo compostamente in coda e così sono salito per ultimo sull’aereo fermo al centro della pista. Errore: a Cuba non c’è prenotazione del posto ma ci si siede così come capita quasi all’arrembaggio. Errore veniale, per fortuna, in quanto anche a Cuba almeno non emettono più biglietti d’imbarco rispetto alla capienza di posti seduti dell’aeromobile; quindi ho trovato infine un posto libero e mi sono seduto. Salvo migliori verifiche mi è sembrato di essere l’unico turista straniero in quel volo interamente riempito da cittadini cubani in spostamento da un capo all’altro dell’isola per motivi di lavoro e più probabilmente familiari, come mi ho ritenuto di capire dai discorsi scambiati nel corso del viaggio con alcuni dei vicini. Anche per l’uso del mezzo aereo esiste infatti una tariffazione speciale per i cittadini cubani che lo rende abbordabile alle loro assai modeste possibilità economiche con prezzi credo inferiori di almeno cento volte rispetto a quelli praticati per gli stranieri. Tale fatto giustifica sia la difficoltà delle prenotazioni che il pag. 91 fatto, sempre constatato, di occupazione totale di tutti i posti su tutti i voli disponibili.


Escludendo o comunque enormemente contenendo un uso aziendale del veloce mezzo di trasporto aereo, atteso che a Cuba non ci sono uomini d’affari in transito per le esclusive sale vip, l’approccio dei cubani al mezzo aereo non differisce da quello al treno o all’autobus (in cubano pronunciato “uaua”). Anche sull’aereo dunque sale di tutto: pacchi legati con lo spago, sacchi di iuta, ceste e persino enormi torte di pasticceria dolce senza incarto, tenute in mano dal proprietario per tutto il tempo del viaggio. Quella del trasporto delle torte in mano, senza incarto, è una delle consuetudini più diffuse in ogni angolo dell’isola. E’ frequente infatti vedere uscire dalle profumate pasticcerie aperte e molto attive in tutta l’isola clienti con in mano, o persino sulla testa o sulla spalla, enormi torte decorate dai fantasiosi e vari colori pastello (celeste cielo, rosa confetto, verde pisello, ecc.), che poi vengono trasportate a lungo per le vie cittadine e, come ho potuto personalmente constatare, anche per aereo da una città all’altra. Debbo confessare di non avere mai avuto il coraggio di assaggiare tali torte che, alla vista, sembrano quasi essere finte, per sola mostra, fabbricate di cartapesta e di gesso colorato; so però che loro le mangiano e le apprezzano molto; chissà la prossima volta, un’altra volta, le assaggerò anch’io. Com’era ovvio, la quasi totalità dei viaggiatori cubani aveva trasformato la cabina dell’aereo in una piazza vociante e festosa dato l’alto tono delle voci e l’abbondare di risate e battute. Una signora seduta nella fina dietro la mia, in particolare, parlava ininterrottamente con tutti quelli che le risultavano a tiro di voce, come una macchinetta, alternando parole a risate dal tono assai alto. Erano chiaramente chiacchiere e risate nervose che lasciavano trasparire la non poca apprensione dei viaggiatori per l’esperienza, forse non molto diffusa, del volo aereo. Cosicché non appena l’aeromobile si è messo in movimento e dal pavimento della cabina ha iniziato a salire un


denso fumo, costituito in verità da nebbia di condensa del sistema di condizionamento, quel vociare e ridere s’è improvvisamente interrotto sopraffatto da un silenzio assordante come il rombo delle turbine dei tre reattori in accelerazione. Poi il vociare, questa volta in tono quasi isterico, è di nuovo ripreso interamente incentrato sulla giusta preoccupazione generata dal quella coltre di fumo che si andava diffondendo sul pavimento della cabina; ad un certo punto il comandante del volo, con un forte e ripetuto messaggio dagli altoparlanti della cabina, ha dovuto rassicurare i passeggeri sulla natura e sulla “normalità” di quelle emissioni gassose, invitandoli alla calma e, di più, alla fiducia(!). La calma è tornata, la fiducia onestamente non lo so a guardare i volti stirati dei passeggeri più vicini, quasi paralizzati nella istantanea di un sorriso congelato. L’aereo ha iniziato a rullare sulla pista, ha raggiunto il punto di partenza, ha alzato al massimo il rumore dei motori ed ha iniziato la sua corsa per il decollo. In quello stesso momento l’emissione di fumo si è decuplicata e nei pochi istanti dello stacco dal suolo la cabina dei passeggeri è stata interamente invasa dal gas di condizionamento sino ad impedire la vista persino del sedile di fronte al proprio. Questo fatto mi ha impedito di vedere le nuove espressioni che indubbiamente si erano andate formando sui volti dei miei vicini in quel frangente preannunziato ma non certo previsto con quelle dimensioni assolute, ma il gelo termico diffuso dal gas del condizionamento era accompagnato da un gelo di voci e persino di respiri che ben trasmetteva il clima psicologico che mi circondava. Per fortuna non appena in volo il gas si è disciolto con la stessa improvvisa rapidità con cui si era formato e quindi la trasvolata si è svolta serenamente e senza ulteriori sorpre- pag. 93 se, avvolta nel buio della fonda notte caraibica. Lo sbarco ha visto ripetere le stesse scene di assalto della


salita, ma oramai si era a terra, per qualcuno a casa, per altri, come me, in attesa del prossimo volo ‌ certamente con un mezzo di trasporto piÚ moderno ed affidabile.


FERNANDO “Un regista, un artista, un uomo”

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Fernando io lo avevo già conosciuto prima di incontrarlo per la prima volta a Cuba. Lo avevo conosciuto, come giustamente si deve conoscere un artista, attraverso la scoperta della sua opera. Fernando è un regista di cinema, sicuramente tra i migliori della scuola cinematografica cubana che pure vanta registi, “direttori” come si dice in spagnolo, di primissimo livello internazionale. Fernando è anche riuscito ad andare oltre il solo ambito cubano ed in genere di idioma ispanico, avendo avuto il meritato privilegio di vedere distribuiti alcuni suoi film in Francia, accademia del cinema d’autore, e persino doppiato un film in Italia, vera e propria patria dell’arte cinematografica almeno dopo il secondo dopoguerra. E’ anzi proprio all’insegnamento del neorealismo cinematografico italiano che si sono formati i primi grandi registi cubani post rivoluzionari, fondatori a loro volta della scuola del cinema cubano, tanto prolifica di grandi registi, direttori della fotografia, sceneggiatori ed anche attori, quanto sempre più povera di mezzi economici che oggi ne riducono le capacità produttive a non più di un film all’anno. Fernando ha girato il suo ultimo film oramai quattro anni or sono e da allora non ha avuto la possibilità di andare oltre alcuni cortometraggi in attesa di trovare i finanziamenti per dei soggetti già da tempo pronti nei minimi dettagli, tranne che in quelli finanziari. Conoscere personalmente Fernando è stata una sorpresa grande almeno quanto quella provata vedendo per la prima volta quel suo film doppiato in lingua italiana. Il film mi è apparso, già alla prima visione vieppiù confermata al giudizio più ponderato delle successive proiezioni, un lavoro di altissima maestria professionale, ma soprattutto un esempio di straordinaria lucidità progettuale che, nella complessità dei diversi racconti che si intrecciano in apparente autonomia, segue invece con estrema precisione pag. 97 e puntualità il filo di un messaggio preciso, chiaro e forte, quello dell’anima cubana, calda, umana, profonda e comun-


que e soprattutto ansiosa di vita, di mare, di musica, in una parola il messaggio della “cubanìa”. Per sentire, prima ancora che capire questo messaggio, non basta vedere una sola volta il film, anche se lo si fa con la massima attenzione, occorrono più letture e riletture per scoprire ogni volta un motivo, un personaggio, un passaggio, una scena nuova. Quel che distingue un’opera d’arte (ed il cinema è sicuramente un mezzo di espressione artistica, anche se oggi risulta prevalentemente deviato ad un uso minore: nei migliori dei casi di distrazione, nei peggiori di condizionamento politico e sotto-culturale) è la sua capacità di stimolare letture successive che consentano al lettore-spettatore di scoprire elementi nuovi ad ogni passaggio, nuovi collegamenti, nuove idee e messaggi. Questo c’è nel cinema di Fernando che, già gradevole, emozionante ed attraente alla prima lettura-visione, si arricchisce di dettagli, immagini e sensazioni ad ogni successivo nuovo passaggio. Scoprire questi dettagli, solo apparentemente nascosti ma ben presenti e coerenti ed anzi funzionali alla trama del racconto, distingue il lettore che cerca nell’opera cinematografica l’espressione di una arte, dallo spettatore che consuma un prodotto di distrazione, disimpegno e svago. Nello stesso tempo la scoperta del messaggio profondo affidato dall’artista al suo lavoro, crea una intesa, quasi un legame intimo tra il lettore-spettatore e l’autore che fa sì che il primo si impossessi del lavoro del secondo facendolo parte del proprio mondo e modo di vedere, sentire e pensare. Così quando ho avuto l’occasione di conoscere di persona Fernando, cioè l’autore dell’opera, sono rimasto impressionato dalla straordinaria corrispondenza tra il sentimento profondo di umanità che traspariva dall’opera e quello dell’uomo regista e sceneggiatore. Fernando è quello che si vede, è quello che scrive, dice o fa dire, in una parola è quello che filma.


E’ cubano, con una anima latina, serena, paziente, semplice, modesta e soprattutto è un sognatore fiducioso nella verità dei suoi sogni. Prima o poi quei sogni si realizzeranno, bisogna sapere aspettare e crederci, ma intanto comunque vivere, magari al ritmo di quella musica, suonata, cantata o fischiata, che riempie e guida sempre il dipanarsi dei suoi film. Sono rimasto affascinato da questo personaggio, assolutamente “non personaggio”, ma solamente uomo vero, semplice e diretto. Pensando di fargli una cortesia particolarmente utile per il suo lavoro, gli ho offerto in regalo la mia raccolta di videocassette, piccola cosa per il nostro ricco mondo, ma ritengo un bene preziosissimo per quella terra povera e per quell’ancor più povero cinema isolano a dispetto della notevole qualità delle sue produzioni. L’offerta ha colpito Fernando molto di più di quanto meritasse non solo il valore della stessa, ma anche la semplicità delle mie intenzioni. Fernando però è Fernando, è quella persona diretta ed onesta che io avevo scoperto nelle sue opere e confermato nell’incontro di persona, e quindi ha subito rifiutato l’offerta per sé, indicandomi la scuola di Stato del cinema cubano quale corretta destinataria di un bene di potenziale utilità ed utilizzabilità generale. Il progetto non è poi andato a buon fine, ma non certo per colpa di Fernando, e comunque non vale qui cercarne le ragioni e neppure parlarne oltre. Qui merita invece parlare di Fernando, della sua speranza di girare prima poi un nuovo film, di poter dare vita, immagini e suoni, ai suoi soggetti già pronti da tempo, magari proprio a quello più amato di una storia italiana di coraggio, amore e grande immensa fiducia nella vita “…vissuta sulla sponda di un mare al di là del quale immaginare altra gente sull’opposta sponda che vive, combatte, spera e sogna guar- pag. 99 dando verso quello stesso mare”. Un augurio immenso a Fernando, ma anche a noi tutti di po-


tere al piĂš presto vedere, ancora rivedere e rivedere, discutere ed amare ed infine “rubareâ€? le immagini, i suoni, i messaggi di una sua nuova opera.


ANA “Medicina, lavoro, studio e cubanìa”

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Ana è una giovane dottoressa di 24 anni, graziosa, timida, misuratamente sorridente e molto delicata. Ana non è una “mulata” intendendo con tale definizione non un ceppo genetico, ma il così detto oggetto del desiderio che da anni guida gli sciami del turismo erotico europeo, principalmente italiano, abbagliato dalle icone patinate dei depliants turistici, o forse più banalmente per tentare di fuggire da una vita un poco grigia e timorata di principi e luoghi comuni. Di quelle “mulate” promesse dai depliants turistici in verità a Cuba non ce ne sono affatto. O meglio, alcune effettivamente ce ne sono e di indiscutibile bellezza, ma le si può trovare la notte solo nei locali notturni più esclusivi ed assai costosi anche secondo i parametri europei, oppure a volte anche di giorno nei centri commerciali in dollari, intente a spendere, su trampoli di tacchi altissimi e con il telefonino costantemente all’orecchio, in voluttà occidentali i dollari “onestamente” guadagnati con il mestiere notturno. Quelle splendide “mulate” però sono invariabilmente singles e si accompagnano ai loro clienti per lo stretto tempo del “contratto”, come dire: esattamente come le loro colleghe che si esplicano in Italia, costo del biglietto aereo escluso. Ma Ana non ha le doti della “mulata”, bionda riccia con occhi neri e sopracciglia scure fittissime, è stata gratificata dalla natura della nota rotondità cubana. Detto questo non conta andare oltre nel descrivere l’aspetto fisico di Ana; molto più interessante è invece parlare di lei, della sua vita, della sua cubanità o “cubanìa” come si dice a Cuba per esprimere il senso profondo dell’appartenenza genetica a quella terra di sole, di mare, di musica e soprattutto di poco lavoro. Ana vive ora ad Avana ma viene da una provincia dell’orien- pag. 103 te più povero dell’isola nel suo insieme certamente non ricchissima. Si trova nella capitale per motivi di studio e vi resterà sino


al conseguimento di un diploma di specializzazione post universitaria, poi si vedrà. Appena laureata Ana ha avuto subito il suo posto di lavoro da medico, come di addice ad un sistema socialista dove non esiste l’idea stessa non solo della disoccupazione, ma neppure della ricerca e della attesa del lavoro, di condizioni di temporaneità o di rischi di precarietà così culturalmente moderni e progressivi nel nostro ricco e dinamico occidente. Quel primo lavoro non era stato certo il massimo per le aspirazioni di Ana, tanto che lei è oggi ad Avana per proseguire negli studi ed acquisire una più qualificata specializzazione post laurea. Superato il primo periodo di prova al lavoro ed evidentemente dimostrate particolari capacità e meritevolezza, Ana è stata ammessa alla ulteriore prosecuzione degli studi per crescere e migliorare nella qualità del suo lavoro medico. Capacità e meritevolezza sono elementi decisivi in un paese di socialismo reale dove lo studio non solo non costa, ma addirittura dà diritto ad una retribuzione in corso di studi superiore a quella lavorativa. Ammessa alla scuola di specializzazione universitaria Ana oggi non solo ha diritto ad alloggio e vitto gratuito, ma riceve anche uno stipendio mensile un poco superiore a quello percepito quando lavorava, stipendio destinato a crescere di semestre in semestre al superamento di ogni periodica prova di profitto nello studio. A questo punto va detto a quanto ammonta questo stipendio “premiante”; tradotto in dollari nord americani, nei quali è sempre possibile convertire la moneta cubana materialmente corrisposta dallo Stato a tutti i cittadini cubani, si tratta di circa 9 dollari al mese(!). Riaccompagnadola a notte avanzata alla sua residenza universitaria, dopo una serata di riposo passata nel cuore turistico della Avana Vecchia, Ana non ha potuto non notare che il costo della corsa in taxi era più o meno pari al suo stipendio mensile.


Ma certamente i taxi, gli alberghi, i ristoranti turistici ed i centri commerciali in dollari non sono cose per i cubani non applicati al “servizio” turistico. I pesos cubani della retribuzione di Ana, come di qualsiasi altro lavoratore o pensionato cubano, consentono di acquistare, ovviamente nei tempi, modi e quantità effettivamente disponibili, i prodotti e servizi nominalmente o tipologicamente corrispondenti destinati ai cittadini cubani a prezzi assolutamente irrisori, quando non del tutto gratuiti. Il dollaro nord americano in sostanza è una unità di misura del tutto inesistente o comunque irrilevante al di fuori delle ristrette aree geografiche e topografiche riservate al turismo straniero. Garantite, o comunque soddisfatte nei limiti delle disponibilità concrete, le necessità primarie dei diritti alla salute, alla istruzione, alla casa, ai servizi energetici, di igiene e di trasporto, tutti di fatto gratuiti, così come la parte prevalente della alimentazione fornita sul luogo di lavoro o di studio, lo stipendio serve solo ad acquistare i beni ulteriori in via di massima non strettamente necessari, ancorché inevitabilmente nelle qualità e quantità disponibili e comunque uguali per tutti. Ana, dunque, non ha lasciato il suo primo lavoro e la provincia di nascita all’inseguimento di inesistenti opportunità di ricchezza, ma per la sincera voglia di progredire nella sua professione, in verità unitamente ad un certo non gradimento per quel suo primo incarico di lavoro. Appena laureata Ana era stata destinata ad una struttura che, con termine edulcorato, potremmo definire un centro per la rieducazione ed il reinserimento sociale di prostitute che, evidentemente, avevano un poco “ecceduto” nell’esercizio della loro antichissima professione. Ana non ha saputo o voluto definire meglio il concetto di “eccesso” che certamente in un paese di cultura cattolica doveva avere raggiunto punte strepitose e socialmente de- pag. 105 stabilizzanti. E’ noto infatti che la prostituzione è una piaga sociale dei


paesi cattolici o comunque caratterizzati da una cultura familiare e sessuale fortemente repressiva, coniugata con una disapprovazione, per non parlare di negazione o demonizzazione, della sessualità femminile. Alla repressione familiare e sessuale femminile ha fatto da sempre da contro altare l’enfatizzazione della sessualità più animale maschile che si sfoga nel ricorso alla prostituzione, formalmente condannato, ma di fatto non solo consentito ma spesso anche incoraggiato e persino normato come servizio di funzione e valore sociale. Nell’Isola di Cuba un cattolicesimo integralista e di conquistatori si è sovrapposto e coniugato a vicende allucinanti di schiavismo nero ma anche bianco di dimensioni enormi, svolgendo l’isola, nella sua storia passata e sino a tempi assai recenti, la funzione di centro di smistamento degli schiavi africani per tutto il continente americano. Anche per l’effetto della “intelligente” operazione di recupero alla cultura della chiesa ufficiale cattolica delle assai diverse culture e riti africani ed indigeni, la così detta libertà sessuale ha trovato la sua massima espressione anche oltre il così detto mestiere ufficiale e, in sostanza, a tutti i livelli sociali ed in tutte le sue forme espressive anche trasversali. Prova tangibile è la straordinaria varietà etnica, intendendo con tale termine la differente pigmentazione della popolazione cubana, che dal bianco latteo dei discendenti dei forzati delle Canarie, va allo scurissimo nero ebano dei discendenti degli schiavi centro africani, attraverso le infinite variazioni dei creoli, meticci, mulatti, ecc. Quel che sorprende semmai a Cuba è la grande capacità del sistema socialista di governare tale fenomeno sotto il profilo del controllo sanitario e della quantità delle nascite. Una delle piaghe più gravi dei paesi del terzo mondo ulteriormente afflitti dall’oppressione culturale di religioni integraliste e proibizioniste, è infatti l’incapacità di controllo del fenomeno dell’aumento esponenziale della popolazione che soffoca ogni tentativo di crescita economica, non con-


sentendo alcuna possibilità di accumulazione delle risorse necessarie agli investimenti per lo sviluppo e consumando, al contrario, tutto nell’emergenza quotidiana, in tal modo innestando una spirale depressiva che genera da grandi povertà ancora più grandi miserie. A Cuba, invece, le ragazze, come si dice, diventano donne sovente in età ancora puberale, ed in questo non c’entrano nulla i tristi turisti del sesso che nel caso rischierebbero pene detentive pesantissime; hanno il primo figlio in maggioranza già prima dei 20 anni e spesso senza marito, ma poi lì prevalentemente si fermano nonostante i sovente anche numerosi successivi matrimoni, per non parlare degli altri rapporti non istituzionalizzati. Ana era già stata sposata ma senza avere figli e buon per lei per gli attuali suoi studi post universitari. Il famoso centro di rieducazione si trovava assai lontano dalla città, in aperta campagna, circondato da una recinzione protettiva apparentemente inviolabile che lo faceva fin troppo assomigliare ad una struttura di detenzione, ma l’uso di questo termine ovviamente non è consentito in un sistema che, come può o almeno certamente dichiara, non reprime ma rieduca. Ana era addetta al controllo ed alla assistenza delle necessità di salute medica delle rieducande. Ebbene in questa sua funzione la casistica medica che Ana si trovava con grande prevalenza a trattare era quella delle malattie veneree. Il fatto non sarebbe stato più rilevante di tanto trattandosi di ex prostitute se non fosse che tutte le rieducande, al momento del loro inserimento nel centro di recupero, erano state verificate e certificate sane. Le malattie da attività sessuale, per così dire, non accorta, venivano infatti contratte dalle rieducande nel periodo della loro permanenza presso il centro. Forte della sua straordinaria capacità, per quantità e varietà, pag. 107 di offerta, infatti, il centro di rieducazione aveva prodotto un fenomeno di attrazione di clientela maschile dai luoghi


più lontani. I così detti clienti, così si dice nelle relazioni ufficiali, di notte coraggiosamente e roccambolescamente scavalcavano la recinzione perimetrale, trasformando il centro di rieducazione diurno, in un enorme bordello notturno, con l’aggravante di una pericolosa caduta dei livelli di protezione e prevenzione igienica e sanitaria. Ma non per questo Ana aveva deciso di lasciare quel suo primo lavoro. L’aveva spinta alla decisione di tornare agli studi, affrontando anche i disagi di un trasferimento ad Avana della durata di non meno di cinque anni, un misto di desiderio di continuare a studiare con una giusta dose di “cubanìa”. Orientandosi nella scelta della specializzazione Ana aveva avuta ben presente una pregiudizialità di vita: un lavoro non troppo impegnativo, sopratutto sotto il profilo della continuità, intensità e durata quantitativa oraria del tipo di prestazione medica da erogare. Ana aveva così scelto la disciplina della immunologia, prefigurandosi un futuro di consulenze a chiamata, alternate a periodi di studi, a riposi, a riprese senza eccessivo vincolo di orario, ecc. Ana, sana, bella e forte giovane medico cubana non ha remore nell’affermare che il suo fisico (ma non sarà la mente?) non sarebbe stato in grado di sostenere impegni di lavoro e di concentrazione mentale troppo pesanti o lunghi. 9 dollari, 20 dollari, 40 dollari, in fondo non era importante, quel che contava era la “sostenibilità”, cioè la qualità della sua vita quotidiana. Non c’è prospettiva di lavoro né di guadagno che possa compensare la perdita del proprio tempo di vita, la consumazione delle proprie energie fisiche e mentali. In un paese dove il minimo per un vivere civile e dignitoso è comunque da sempre assicurato, il desiderio più grande è quello di poter godere il più possibile di tutti quei beni che non solo sono uguali per tutti, ma che soprattutto sono illimitati.


Il desiderio assoluto di godere del sole, del mare (che Ana, cubana dell’entroterra, ama più d’ogni altra cosa, per il solo odore e rumore), della musica ed infine, perché no, anche del sesso, è questa l’anima ed il significato profondo della “cubanìa”. Di fronte a questa anima, indubbio frutto della straordinaria mescolanze di razze, storie e culture, non c’è socialismo che diriga né capitalismo che imbonisca, Cuba è un’isola felice anzitutto per i cubani; politici bacchettoni, imprenditori rampanti o tristi turisti del sesso a pagamento, questo non lo possono capire e quindi tanto meno mutare.

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UN CARTOGRAFO GUEVARISTA “De tu querida presencia…”

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A Cuba, come in ogni paese del mondo, ci sono divieti “severamente vietati”, che generalmente vengono rispettati da tutti per precetto morale o per timore delle eventuali sanzioni, e divieti invece “però…”, per i quali è lasciata alla così detta sensibilità dell’individuo valutarne il rispetto in relazione alle diverse contingenti circostanze che poi, a loro volta ed in qualche modo, costituiscono anche il metro di valutazione discrezionale per l’eventuale applicazione delle sanzioni. Tra i divieti “però…” più comuni nell’isola di Cuba, almeno con riferimento alle esigenze dei turisti stranieri, c’è quello dell’utilizzo per il trasporto turistico delle autovetture personali, così dette “particolari”, in dotazione a taluni più fortunati cittadini cubani. Il turista, sotto un profilo economico: giustamente, ha l’obbligo di fare uso solamente dei mezzi di locomozione a lui riservati, o comunque espressamente aperti anche al suo utilizzo alla condizione del pagamento del servizio in valuta nord americana. Treni, aerei, autobus sono sempre accessibili ai turisti stranieri previo l’acquisto di uno speciale biglietto in dollari di costo enormemente superiore a quello praticato ai cittadini cubani (questo almeno sino a qualche tempo addietro, ora il peggiorare delle condizioni dei sistemi di trasporto sta imponendo anche ai cubani pagamenti in valuta nord americana assai elevati per le loro possibilità). Per quanto riguarda le autovetture i turisti stranieri possono noleggiarle presso le apposite agenzie autorizzate, ovvero fare uso dei taxi in dollari dal costo molto vicino a quello di una città europea. Poiché “tutto il mondo è paese” è invece abbastanza corrente la possibilità per un turista di noleggiare un “passaggio” da un conducente privato proprietario di una autovettura “particolare”, pur sempre pagando in dollari ma con una tariffa chilometrica enormemente inferiore a pag. 113 quella di un taxi. Percorrendo la lunga isola da ovest ad est ho fatto più volte


ricorso a tale modalità di trasporto che, nel “però…” del divieto, è stato sempre assai facile trovare, magari proprio presso le agenzie turistiche deputate al noleggio delle autovetture per stranieri o direttamente al banco di accettazione dei vari alberghi di transito. Dopo un breve rituale legalitario, infatti, è sempre “uscito fuori” un cugino, un amico, un conoscente comunque fidato che, solo pochi minuti dopo, era già pronto lì, magari dietro l’angolo dell’albergo se non proprio davanti alla portineria, con la sua autovettura già rifornita del carburante necessario, pronto ad eseguire il trasporto di “cortesia” ad un prezzo onestamente sempre accettabile. I preliminari della partenza, in verità, hanno sempre riguardato la definizione del prezzo chilometrico per il previo approvvigionamento del carburante che, non ritengo di andare molto lontano dal vero, difficilmente avveniva presso un impianto di erogazione ufficiale. Prescrizioni del viaggio: un trasporto di cortesia frutto di una lunga amicizia con il conducente-proprietario ed il divieto, questo sì tassativo, di far salire cittadini, o più precisamente cittadine cubane lungo tutto il tragitto. Ho così incontrato e conosciuto diversi “conducenti”, uno però lo ricordo con particolare affetto per gli intensi ed interessanti discorsi scambiati lungo le circa quattro ore del viaggio. Si trattava di un signore sulla mezza età, di professione cartografo ma da almeno un paio di anni a riposo a casa in una condizione molto simile alla nostra cassa integrazione a zero ore a causa della mancanza cronica della carta che dunque gli impediva di svolgere il proprio lavoro nell’ufficio statale presso il quale era applicato e dal quale, ovviamente per il sistema politico e sociale cubano, continuava a ricevere regolarmente a casa lo stipendio intero. Questo signore possedeva un livello di preparazione culturale, di conoscenze e di curiosità mentale mediamente alto ed in più aveva vissuto una vita alquanto complessa, se non proprio movimentata.


Nasceva da una famiglia benestante prima rivoluzione socialista, circostanza che, nella originale elasticità della statalizzazione post rivoluzionaria, gli aveva consentito di conservare sufficienti possibilità economiche per disporre di una autovettura “particolare”, seppure mostruosamente cannibalizzata con pezzi di ricambio d’ogni sorta e provenienza, ma comunque marciante e, almeno per quel mio viaggio, affidabile (chissà il ritorno!). Aveva avuto due matrimoni, lui bianco, dapprima con una donna bianca e poi con una nera, dalle quali aveva avuto quattro figli, due per ogni madre e quindi due per ogni colore o gradazione di colore della pelle. Due dei figli in particolare, se non ricordo male proprio quelli “colorati”, avevano dimostrato speciali capacità di apprendimento ed intelligenza tali da farli selezionare per le scuole “speciali”. La istituzione di scuole speciali per gli studenti più dotati è una idea, più correttamente una ideologia, aberrante per la nostra cultura almeno da quando, non senza grande conflitto, oramai da diversi anni si è riusciti a sopprimente le così dette scuole “differenziali” istituite, al contrario, per i meno dotati o più genericamente per i “diversi” (disagiati fisici, psichici o più semplicemente e più diffusamente sociali). Ho avuto l’impressione che questa idea-ideologia sia ritenuta in qualche modo aberrante anche per la cultura latina cubana e che sia stata invece una infelice imitazione di uno dei peggiori aspetti culturali del socialismo reale slavo (sovietico). Queste scuole di “cervelli”, grottesche emulazioni della creazione di una razza eletta di tragica memoria nazista, ancora esistono a Cuba ed i genitori dei prescelti, umanamente e comprensibilmente, ne vanno un poco fieri. Ma non era questo l’argomento più interessante dei colloqui con il mio occasionale conducente. L’argomento sul quale più a lungo ci siamo diffusi è stato pag. 115 quello della figura e delle capacità manageriali del dott. Ernesto Guevara, più noto con il soprannome del “Che”.


Il cartografo cassaintegrato era un entusiasta ammiratore del Che, ma non tanto per le sue mitiche e mitizzate doti di condottiero rivoluzionario e ribelle o di affabulatore di giovani di tutto il mondo, quanto per le sue ritenute elevatissime competenze di studioso, teorico ed anche pratico economista (!?). Del Che il cartografo conservava e di quando in quando rileggeva, dispiacendosi di non averne purtroppo una copia per me, un testo di economia che, a giudizio dell’ammiratore, lo poneva ai vertici di tale scienza, avendo altresì il Che dimostrato una eccezionale competenza operativa nei primi anni post rivoluzionari di ristrutturazione e rilancio dell’economia cubana, anni nei quali, appunto, il Che ricopriva la carica di Ministro dell’Industria. Gira per Cuba un aneddoto, curioso quanto affettuoso per il rispetto della memoria di un personaggio al di sopra di qualsiasi critica, sulle circostanze in cui venne attribuita al Che la carica di Ministro dell’Industria. Si narra che un giorno tutti i capi dell’esercito ribelle erano riuniti attorno ad un enorme tavolo, fumando, bevendo e parlando tutti insieme ad alta voce, quando qualcuno pose la domanda su chi dei presenti volesse assumere la responsabilità del Ministero dell’Industria. Il Che che sedeva ad un capo del tavolo, forse distratto, forse assordato da tanta confusione, alzo il braccio per chiedere di ripetere la domanda che non aveva sentito; quell’alzata di braccio venne invece interpretata come accettazione dell’incarico e così, in quel modo ed in quel singolare contesto, il Che divenne il Ministro dell’Industria della nuova Repubblica Socialista di Cuba! Non era, evidentemente, il suo “mestiere” e ben presto lui stesso se ne rese conto tornando invece a svolgere quelle che erano le sue straordinarie competenze di ideologo e di guida dei processi rivoluzionari o quanto meno ribelli di tutto il mondo, cercando di conquistare quell’ “impossibile” che il coraggio e la fantasia possono e debbono perseguire e trovare nella politica, ma non certo nella più “piatta” ma


inevitabilmente realistica e tecnica programmazione e gestione dei processi della produzione industriale. Debbo dire, con onestà, che tale era l’enfasi con cui il mio conducente esponeva le sue diverse convinzioni, trasmettendo una ammirazione ed un amore incondizionato per il Che, che non me la sono sentita di contraddirlo, limitandomi solamente a sorridere un poco ma dentro me. Peccato non avermi potuto regale una copia di quel testo o trattato! In verità io poi, per affettuosa curiosità, la ho cercata lungamente nelle innumerevoli bancarelle di libri di Avana, ma non sono riuscito a trovarla. Così parlando, o forse meglio ascoltando, siamo infine giunti a Santa Clara, città dell’interno dell’isola oramai eternamente legata alla storia ed alla memoria del Che. A Santa Clara il Che guidò e vinse la battaglia cruciale della guerra rivoluzionaria, a Santa Clara sono oggi sepolti i resti del Che. Ho alloggiato nel mitico albergo Santa Clara, mitico perché durante la rivoluzione venne adibito a quartiere generale dell’esercito di Batista e dopo la vittoria lo stesso Che vi istallò il suo comando, dopo averlo conquistato, si narra, stanza per stanza. Ero l’unico turista straniero forse di tutta Santa Clara ma certamente di quell’albergo come ebbe modo di confermarmi l’addetta all’accoglienza che, rispondendo alla mia domanda sulla presenza di turisti stranieri, dopo aver consultato l’elenco degli ospiti, concluse: “Uno”, puntandomi il dito. A Santa Clara, ancorché nei soli due giorni di permanenza, ho conosciuto dentro e fuori dell’albergo diversi cubani molto interessanti e gentili, ma soprattutto ho visitato il mausoleo, perché tale è, dedicato ai resti ed alla memoria del Che. Il caso o la fortuna hanno voluto che io raggiungessi il mau- pag. 117 soleo dal dietro, accedendo dapprima al così detto sacrario dei resti ed al contiguo piccolo museo, e solo successiva-


mente mi rendessi conto della, senza mezzi termini, mostruosità del complesso visto dalla prospettiva frontale monumentale. Ma di questo parlerò poi, ora voglio provare a narrare e trasmettere l’emozione della visita alla tomba ed al museo del più grande mito della mia generazione e credo ed anzi vedo ancora delle nuove generazioni di giovani europei sensibili alle idee, ai sentimenti, ai sogni ed alle illusioni della politica. “Le urne dei forti…” iniziava una poesia tanto odiata ai tempi di un insegnamento scolastico ottuso ed ipocrita, nel quale ancora dominavano le aberranti ideologie della patria, della famiglia e della religione di Stato e dunque i forti erano quelli che enfatizzavano le doti superiori di una razza che ancora reclamava meriti e diritti di discendenza o di generosità divina. Un popolo di artisti, poeti, scienziati e navigatori, insediato nella penisola fiorita e profumata nel cuore del mare mediterraneo, anzi, come ci insegnavano, del mare “nostro”, che pretendeva una visibilità, quanto meno europea, del tutto inadeguata alle sue reali capacità e potenzialità. Un popolo amministrato da governi pronti a schierarsi con i primi prevedibili vincitori per raccogliere le briciole di conquiste territoriali ed economiche; ieri qualche montagna carsica, qualche deserto sabbioso o scoscese vallate balcaniche ed oggi, ancora oggi, appalti edili per ricostruire infrastrutture ed abitazioni prima sapientemente distrutte da bombe così intelligenti da sedere, prima o poi, nei consigli di amministrazione delle imprese della ricostruzione. Altro che “forti”; un popolo, o meglio governanti scaltri o così secredenti, comunque sicuramente sensali intriganti, commercianti ed arrivisti, ipocriti farisei avrebbe detto “qualcuno”. Ma le “urne dei forti” indubbiamente esistono e quando si incontrano se ne sente, profonda e persino violenta, l’emozione. Entrando e sostando per i pochi minuti emotivamente so-


stenibili nel piccolo vano nel quale si dice (non importa la verità materiale) siano sepolti i resti del Che l’emozione è stata forte, profonda, coinvolgente, un brivido che, accompagnato dal freddo intenso dell’impianto di condizionamento, mi ha percorso inatteso la schiena sino alla punta delle dita delle mani bloccate ed incapaci di scattare fotografie tanto inopportune quanto inutili perché non in grado di rendere sulla pellicola o sulla carta la vibrazione di quella emozione. Il Che non è certamente lì, come lì non ci sono i suoi tanti compagni di vita e di lotta caduti con lui, per lui o comunque dietro il suo incitamento ed esempio. Il Che ed i suoi compagni non ci sono più, non sono in nessun posto del mondo, oppure al contrario sono dovunque e non sono mai morti come i loro ideali, i loro esempi, la loro memoria che sopravvive e prosegue e si rigenera, generazione dopo generazione in una ricerca che non è mai finita, ne mai finirà. Eppure quel simulacro, pieno o vuoto non importa, fissa un punto nello spazio e nel tempo del quale la nostra natura terrena e materiale, a dispetto del predominio dell’astrazione della mente (o dell’anima per chi ci crede o comunque si voglia chiamare la parte immateriale del nostro essere), ha bisogno e subisce il fascino calamitante e rigenerante. Il “mito” esiste, o almeno è esistito, è reale, è di questa terra, non è solo illusione, creazione astratta della mente, dunque si può rivivere e riprodurre; l’impossibile nasce dal possibile e dunque tale può prima o poi divenire. Divinità che si incarnano, madonne che appaiono, statue che piangono, mani che sanguinano sono esigenze di concretezza che anche la più illusoria delle astrazioni, la fede nel divino, ha di quando in quando bisogno di rendere concreta, reale, tattile come il mondo che ci circonda e nel quale siamo destinati a vivere. Dunque è vero le “urne dei forti” servono, hanno la funzio- pag. 119 ne di dare concretezza ed attualità visiva e tattile alle idee, ai sogni, alle speranze; servono a creare di quando in quan-


do quel punto-momento di contatto tra fatti ed idee che restituisce alle seconde la misura dell’umano terreno. Il piccolo museo adiacente al sacrario è forse la realizzazione museale più corretta, opportuna e sintonica all’emozione della previa visita alla tomba che abbia mai avuto la fortuna di incontrare. Piccolo, misurato, semplice e niente affatto celebrativo così come la figura o l’immagine che noi abbiamo del Che. Piccoli oggetti personali in grandissima parte d’uso del tutto comune, di nessun valore se non quello di essere stati nelle mani o nelle tasche del Che nel periodo più caotico della guerriglia nella Sierra. Una serie di strumenti di chirurgia dentistica che il Che, medico di discutibilissima esperienza, utilizzava nella Sierra per trapanare o strappare qualche dente a dei poveri barbudos malcapitati nelle sue mani. La giacca, soprattutto, la mitica giacca verde a bande nere con la chiusura lampo centrale che il Che indossava nella più diffusa delle sue foto; piccola, vista dentro una vetrina sul busto di un manichino, umana, semplice, terrena; sembra quasi che la abbia appena posata, che lui sia lì nei pressi, che tutto sommato la si possa prendere, misurare ed indossare. Sì il museo giusto; il museo non di un eroe mummificato come le raggelanti salme di Lenin o di Mao per chi le ha viste, ma il museo del “comandante amico” come lo ricordano le più belle delle iscrizioni murali a lui dedicate in tutta l’isola. Al di sopra, l’orrore di un monumento al “milite ignoto”. Uscendo dal museo e salendo al livello superiore verso il fronte del mausoleo appare la sorpendente sconfinata distesa di un piazzale pavimentato con disegni geometrici, pronto ad accogliere masse di visitatori-turisti (nazionali o internazionali il concetto è lo stesso), discesi in fila ordinata dagli autobus anch’essi allineati negli appositi spazi di parcheggio, macchine fotografiche alla mano, pronti ad immortalare la visita domenicale al nuovo sito celebrativo.


Sopra alle piccole stanze del sacrario e del museo si sviluppa una struttura emiciclica sormontata al centro, su di un più alto piedistallo, dalla statua bronzea di un guerriero, un soldato che avanza aggressivo, mitra in mano. Non è il Che! Quel guerriero, quel soldato non è il Che! Mai, in nessuna foto della sua pur ricchissima iconografia il Che è apparso con una arma in mano! Il Che era un rivoluzionario, più probabilmente un ribelle, sicuramente un combattente e tale è caduto nell’imboscata boliviana, ma mai è stato un militare e dunque mai il suo strumento prediletto è stata un’arma. Un sigaro, un libro o una boraccia, magari anche una mazza da golf giocato in tuta da barbudos e scarponi da sierra ai piedi, ma mai e poi mai con una arma in mano. La rivoluzione si fa con le armi, non v’è dubbio, e con le armi la si difende quando i terroristi nord americani tentano di soffocarla, ma le armi poi vanno immediatamente deposte perché il socialismo lo si costruisce con le mani nude ed aperte, specchio di una analoga apertura di mente e di spirito. Fare del Che un soldato è l’operazione più aberrante che abbia mai visto e stupisce, di più stordisce che la stessa sia stata fatta proprio a Cuba. E’ una operazione di revisionismo storico e politico che non può essere accettata al rischio di degradare davvero la figura universale, interetnica ed intergenerazionale, del Che ad un piccolo combattente di una piccola rivoluzione in una piccola isola persa nel mare dei carabi. Se mai andrete a visitare Cuba, non andate per nessuna ragione al mausoleo di Santa Clara, di vergognosi monumenti al milite ignoto ne abbiamo a iosa in ogni paese occidentale, già bastano!

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ORESTE “La piccola impresa nel socialismo reale”

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Di Oreste avevo già sentito parlare nel mio primo viaggio a Cuba, ma non come pensionato, benché tale fosse già allora, bensì come piccolo imprenditore emergente grazie alla sua iniziativa, all’intuito, in sostanza alla sua capacità e volontà di lavorare dopo quel minimo di piccola liberalizzazione economica che era stata consentita dal governo cubano nel disperato tentativo di contrastare la gravissima crisi economica che aveva fatto seguito alla improvvisa cessazione degli aiuti elargiti dall’Unione Sovietica. Pur senza un vero e proprio programma di così dette (almeno da noi) liberalizzazioni, il governo cubano aveva di fatto stimolato l’intraprendenza dei propri cittadini invitandoli ad “ingegnarsi” a produrre qualsiasi cosa (bene) comunque mancante o insufficiente, limitandosi ad imporre un obbligo di sola comunicazione e la “gabella” di una imposta fissa all’erario. La liberalizzazione aveva prevalentemente interessato i settori dei servizi legati al turismo quali la ristorazione (i “paradar” ristoranti privati) o l’alloggio (le case “particolari”), nonché in qualche misura anche i trasporti (taxi a percentuale tra conducente e Stato; camion trasformati in automezzi da trasporto collettivo, ecc.), ma qualsiasi iniziativa era comunque benvista e benvenuta, purché ovviamente comunicata e controllata. Oreste, operaio pensionato da tempo ma ancora vivace ed in ottime condizioni di fisico e di mente, non aveva perso tempo e rapidamente aveva sospeso, o quanto meno ridimensionato la sua passione per la poesia alla quale si era dedicato dopo il pensionamento, ed aveva approntato una officina per la produzione di camere d’aria rigenerate per biciclette. La crisi economica che tra l’altro o forse prima di tutto si era accanita sulla già cronica carenza della fonte energetica petrolio, aveva riportato il mezzo di trasporto a motorizzazione umana, la bicicletta, in primo piano, stimo- pag. 125 landone le fantasiose versioni della “due posti” (secondo sellino sulla ruota posteriore con pedaliera sul mozzo), e


persino a “tre posti” con l’aggiunta di un carrozzella laterale a mo’ di sidecar. Tuttavia anche per questo mezzo di trasporto si erano ben presto manifestate carenze di pezzi di ricambio e specialmente di camere d’aria che le pessime condizioni della pavimentazione stradale cubana ed il sovraccarico umano e di merci, avevano sottoposto ad un superuso fortemente usurante. Allora Oreste aveva aguzzato l’ingegno ed aveva ideato la produzione di camere d’aria super resistenti ai sovraccarichi realizzate utilizzando pezzi di camere d’aria di camion, assai più spesse e robuste. Ritagliando i residui di camere d’aria scoppiate di mezzi pesanti, Oreste aveva poi ideato un sistema di vulcanizzazione utilizzando due ferri da stiro elettrici, completando il tutto con le valvole di gonfiaggio anch’esse recuperate dalle camere d’aria rottamate dai mezzi pesanti. In sostanza una camera d’aria persino più robusta degli stessi copertoni esterni, invulnerabile alle buche ed a tutte le possibili insidie del dissesto stradale e delle scarsa pulizia della viabilità urbana ed extraurbana. Un successo strepitoso mi si diceva nel racconto di quel mio primo viaggio, una impresa florida in grande espansione, un vero miracolo di imprenditoria privata. Ho poi avuto modo di vedere lo “stabilimento” dell’imprenditore Oreste, lo ho anche fotografato, ora provo a descriverlo. Avete presente un capanno di fondo cortile per la rimessa degli attrezzi da giardino, fatto di assi di legno più o meno sconnesse, con solo tre lati chiusi e quello più lungo sul fronte totalmente aperto (tanto a Cuba non piove quasi mai), con dentro un tavolaccio a metà tra falegnameria e banco di lavoro di un meccanico, un paio di fili elettrici volanti da cui pendono le spine per l’allaccio dei ferri da stiro, una morsa e non so cosa altro, ma comunque molto poco. Ebbene questa era l’impresa industriale del pensionato Oreste; dipendenti addetti uno solo: lui; all’occorrenza l’aiuto


della moglie anche lei vivacissima pensionata dedicatasi invece alla pittura. Dimenticavo, anche una tinozza con l’acqua per le ricerche delle forature o le prove di tenuta delle valvole di gonfiamento delle camere d’aria. Comunque Oreste, ed alcuni sui parenti beneficiati dal nuovo benessere dell’ex pensionato, era giustamente orgoglioso della sua impresa dalla quale ricava un reddito, netto dell’imposta reclamata dallo Stato, enormemente superiore all’importo della sua pensione con la quale, peraltro, sino ad allora aveva tranquillamente vissuto avendo tempo e modo di dedicarsi alla sua passione per la poesia. La pensione di Oreste era ed è, tradotta in dollari, di circa 6 dollari al mese; sì 6 è giusto, 6 dollari al mese. Ma la misura di conto del dollaro nord americano non ha alcun rilievo e persino alcun senso nella Cuba non direttamente interessata dal turismo straniero, dove vige il corso della moneta cubana. Oreste ha una casa adeguata alle esigenze sue e della sua moglie; acqua, luce e gas di fatto gratuiti; la “libretta” per i generi di prima necessità distribuiti dallo Stato gratuitamente ed in misura uguale per tutti; assistenza sanitaria assicurata e gratuita; trasporti a prezzi simbolici; ed infine per il suo hobby, nonché per quello della moglie, l’accesso alla Casa della Cultura locale con biblioteca, mezzi, corsi, conferenze, ecc. Ma Oreste piccolo imprenditore lanciato dalla liberalizzazione del “periodo speciale” ha vissuto un periodo di grande attività e di parimenti grandi risultati economici, paragonati ovviamente alle sue ordinarie condizioni di pensionato. E’ stato un periodo bellissimo, racconta, poi improvvisamente finito, putroppo, tutta colpa dei cinesi. Un milione di biciclette nuove di zecca e tanti, tanti pezzi di pag. 127 ricambio, copertoni, camere d’aria e quant’atro. Questo è stato uno degli aiuti che la Cina ha improvvisamente elargito allo Stato cubano in aiuto alla sua lotta con-


tro l’imperialismo degli “yanques” e la violenza del loro “bloqueo” (embargo). Un milione di biciclette, un milione di televisori, diverse migliaia di computer, ma questi in verità sono stati donati dal Vietnam che, uscito dalla immane tragedia di due guerre di occupazione e di aggressione dapprima francese e poi nord americana, si permette ora di aiutare il popolo cubano avendo raggiunto la capacità di produrre persino computer e non solo riso! E Cuba accetta, e come se accetta, anzi reclama come giusto contributo alla sua infaticabile ed eroica lotta contro il “mostro” nord americano, e poi c’è anche qualcuno che tutto sommato si lamenta un poco perché quando è troppo è troppo. Un milione d’altronde è l’unità di misura minima del sistema di conto cinese che muove dal numero di un miliardo di abitanti, cinese più cinese meno. Vedendo le file dei cittadini cubani in lista per la assegnazione delle biciclette e più ancora dei televisori cinesi, vedendo la distruzione in meno di un anno (questo lo ho potuto constare di persona tra un viaggio e l’altro) del pure grande numero di biciclette elettriche donate dai cinesi al popolo cubano, monta un poco di sentimento di disappunto, pensando e paragonando chi passeggia al sole e lungo il mare, balla, canta, suona ed in qualche modo vive la propria vita al meglio del possibile, scrivendo poesie, dipingendo quadri, assistendo a spettacoli teatrali ed a conferenze su tutto e di tutto e chi invece, chiuso in qualche opificio certamente ben lontano delle condizioni di sicurezza e di tutela della salute alle quali siamo abituati in occidente, vive e lavora come una formica senza mai alzare la testa e mangiando prevalentemente cavoli e giù di lì. Poi però appaiono le immagini dei nuovi “yuppies” delle borse orientali emergenti, con i volti gialli e gli occhi a mandorla, vestiti di blu in giacca e cravatta e magari infilato nell’occhiello della giacca il distintivo del partito comunista cinese, immagini di grattaceli che salgono senza criterio e


pianificazione ambientale e sociale, immense migrazioni interne, campagne devastate e desolate, l’immagine in sostanza di un modello di crescita mostruoso quanto la sua parodia dell’occidente capitalistico. Quanto lontana appare la vicenda di Piazza Tien An Men quando un carro armato dell’esercito popolare cinese si arrestò davanti ad un singolo mitomane esaltato che gli sbarrava la strada, incapace di procedere contro un cittadino, qualunque e chiunque fosse in quel momento e contesto, comunque un componente di quel popolo che lui (gli uomini dell’equipaggio del carro armato, i membri cioè dell’esercito popolare) era stato addestrato, educato, quasi condizionato a difendere e servire (termine orribile, ma pertinente all’enfasi della vicenda) e mai e poi mai ad aggredire. La grandiosità di quell’immagine, di quel carro che avanza a salti come ubriaco e poi si ferma e si spegne, di quel capo carro che quasi prega il mitomane di togliersi dalla strada e che poi non sa cosa fare e non riceve evidentemente neppure ordini superiori, perché non possono esserci ordini contro il popolo in un esercito creato e formato dal popolo e per popolo. Ben diversa la vicenda dei nostri carabinieri fedeli nei secoli ad ogni regime, sia esso così detto democratico o dichiaratamente dittatoriale, sempre pronti ad eseguire, anzi persino ad anticipare gli ordini dei padroni, sparando sui ragazzi del Ponte Garibaldi (anzi “Masi”) o di Genova, e prima di Reggio Emilia, e prima ancora alle spalle dei ragazzi soldati che arretravano dai massacri delle trincee delle guerre dei padroni, dovunque e comunque un cittadino osi esprimere il suo dissenso, la sua disobbedienza. Oggi gli yuppies dell’emergente apparentemente inarrestabile economia capitalistica cinese stano cancellando l’idea stessa del comunismo, neppure curandosi di rinnegarne il nome così come hanno fatto i loro omologhi russi che hanno direttamente consegnato il paese nella mani della mafia. pag. 129 Nel gioco del dominio economico del mondo la Cina può ben permettersi di elargire un piccolo aiuto alla parimenti


piccola repubblica cubana che si oppone, nei limiti paradossali della lotta di un topo contro un elefante, all’egemonia nord americana. E dunque in tale contesto ben fanno i cubani ad accettare tale aiuto, falso e strumentale, ed a consumarlo così come credono senza rimorsi né vergogna. A Cuba non ci sarà mai un esercito che spari sui propri cittadini, non ci saranno yuppies della borsa valori; ci sarà magari inefficienza, pressappochismo ed un poco di parassitismo, ma questi sono mali assai meno gravi, quasi modesti, comunque emendabili. Intanto Oreste ha ricominciato a scrivere le sue poesie, a leggere, ad assistere a conferenze. Chi può dire se più avanti, quando saranno scoppiate tutte le camere d’aria delle biciclette cinesi, non ci sarà di nuovo necessità di riattivare l’originale produzione “autoctona” cubana, Oreste l’officina la tiene efficiente e pronta.


GUANTANAMERA “Il rally dell’oriente. Primi!”

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Guantanamera, come sanno quelli che conoscono la celebre canzona cubana, è la strada che conduce a Guantanamo, cittadina dell’estremo oriente dell’isola di Cuba. Per me la “guantanamera”, in quest’ultimo quarto viaggio a Cuba, è stata la strada della vittoria della gara di rally più dura e combattuta che abbia mai avuto l’occasione di correre in vita mia. Un’ora scarsa dal via all’aeroporto di Santiago sino al traguardo all’uscita per il centro di Guantanamo della “autopista”, come si chiama a Cuba una specie di stradone più o meno asfaltato, un poco più largo di una strada normale, ma decisamente più sconnesso, accidentato ed insicuro. All’arrivo al controllo cronometrico di Guantanamo, sulla piazza principale della cittadina, sono sceso dal mio posto di navigatore, ho messo i piedi saldamente a terra, ed alzando le braccia al cielo ho infine gridato “Primi!” (anche se in verità dietro di noi non c’era proprio nessuno). Maledetto pilota! Maledetto Osvaldo! (Ma questo non glielo ho detto, almeno non in questi termini). Un’ora o giù di lì aggrappato a due mani al maniglione antipanico sopra la portiera di destra, con ambedue i piedi puntati, anzi piantati sulla parete frontale della cabina, gli occhi sbarrati sulla strada per cercare di individuare per tempo le buche o i dossi più grandi, quelli che facevano saltare il veicolo come una moto da fuoristrada, e soprattutto lo stomaco non più in gola ma oramai decisamente nel cervello! Maledetto Osvaldo! (di nuovo) E non è stato l’unico record. Il mezzo di gara era (niente meno che) un camioncino da trasporto promiscuo, opportunamente appesantito da sacchi di pietre sul cassone posteriore per attutire i sobbalzi, sospensioni neppure a parlarne, e per fortuna altrimenti avremmo rischiato di arrivare sulla luna in qualche salto, pag. 133 senza necessità di propulsione all’idrogeno. Ma non c’è stato nulla da fare; inutile protestare, vomitare (o giù di lì), cercare di spiegare, dialogare col pilota sca-


tenato. Osvaldo si dichiara italiano ed amante della musica italiana, ma è evidente che non conosce la canzone di Lucio Battisti: “...si viaggiare, dolcemente viaggiare evitando le buche più dure...”. Per lui viaggiare significa partire ed arrivare; nel mezzo il nulla! E se ci sono le buche o dossi? Peggio per loro, lui non gli da nessuna confidenza, cioè proprio non li vede! Nessuna esagerazione: 140 all’ora, magari non di media ma con punte ripetute; decisamente troppo. Per dare un’idea, 140 all’ora sull’autopista cubana equivalgono, senza esagerazioni, ad almeno 280 su di una autostrada italiana, fermo restando il mezzo, cioè un camioncino per trasporto promiscuo! E’ vero che a Cuba non c’è un grande traffico, ma le piante ce ne sono e tante e stanno ferme ed immobili lì come qui. Insomma, davvero una avventura da non ripetere mai più nella vita. Eppure nella scabrosità del territorio molto sassoso, brullo e poco fertile, di momenti e situazioni interessanti ce ne erano. Le coltivazioni di canna da zucchero a perdita d’occhio, con la raccolta in corso. Di quando in quando, folti gruppi di braccianti al lavoro o (più spesso) al riposo sotto l’ombra di giganteschi (e pericolosissimi) alberi con un chioma grande come una piazza. Mezzi meccanici e di trasporto collettivo delle più varie forme, utilizzazioni e, credo, noie meccaniche, dato il grande numero di cofani aperti e sotto, o praticamente dentro, una infinità di meccanici e curiosi d’ogni razza e colore a cercare di scoprire l’arcano forse più che il guasto, perché molto spesso solo un miracolo avrebbe potuto far ripartire quei “cosi”. E poi tante persone in marcia o ferme ai numerosi incroci in attesa e speranza (“esperando”) di un passaggio qualsiasi.


Ma tutto questo, purtroppo, è andato perso “come lacrime nella pioggia”; non c’è stato il tempo per vedere, parlare, fotografare; l’importante non era “viaggiare”, ma “arrivare”. Infine, almeno, siamo arrivati, sani e salvi e poi siamo anche tornati e questo racconto ne è la prova e la memoria. Ciao Osvaldo! Non mi ci … più!

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SANTIAGO “La città degli aquiloni”

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“Ribelle ieri, ospitale oggi, eroica sempre” Questa è Santiago di Cuba, capoluogo dell’oriente più nero, più povero e più popoloso, ma anche della parte più profondamente cubana dell’isola e la più fedele alla rivoluzione socialista che proprio qui, prima con il tentativo fallito dell’assalto alla Caserma Moncada e poi con lo sbarco dei ribelli nella Sierra, ha visto il suo inizio. Da questa città Fidel annunciò 44 anni fa la caduta della dittatura di Batista e la vittoria della rivoluzione, allora non ancora dichiarata alla matrice ideologica comunista. In verità quando l’esercito ribelle entrò in Avana Batista se ne era già andato da quattro giorni, il regime era definitivamente collassato ed i cittadini “avaneri” stavano impazientemente aspettando, tra curiosità e preoccupazione, di vedere in viso i famigerati “barbuti”, per capire o almeno cercare di immaginare cosa sarebbe successo del loro futuro, per chi auspicatamente in meglio e per altri inevitabilmente in peggio. Erano mille, uno più uno meno, i ribelli realmente in armi al momento della conquista del potere, ed in tanti avevano sconfitto un sistema evidentemente già sull'orlo del collasso politico ed economico, devastato dalla corruzione della mafia soprattutto ebrea ed italiana che aveva fatto di Avana la propria base logistica per il nord america. Mille e neppure tutti cubani su di una popolazione che ammontava a circa 11 milioni di abitanti, mille più mille meno. Mille ribelli, tre comandanti, oltre il fratello minore del comandante in capo, questo esercito, o forse più correttamente questo gruppo, 44 anni fa ha fondato quello che oggi viene considerato l’ultimo stato socialista (o comunista) del mondo. D’altronde mille erano, una più una meno, le camice rosse che circa 150 anni fa avevano fatto crollare ed avevano momentaneamente conquistato il Regno delle due Sicilie. Solo che in quel caso ad attenderli alla fine del percorso vit- pag. 139 torioso non c’era una popolazione perplessa e curiosa, ma un esercito di mestiere molto meglio armato e pronto e de-


terminato a spazzare via le camice rosse se non avessero immediatamente consegnato armi e potere. La maggiore intelligenza politica di un piccolo piemontese miope impedì allora la costituzione nell’Italia meridionale di una repubblica forse popolare, certamente laica per non dire atea; la ben più grave miopia politica dei nord americani impedì invece loro di prevedere, 100 anni dopo, quella che sarebbe stata la inevitabile evoluzione politica della rivoluzione castrista. Poche avanguardie, tra pazzi, avventurieri ed eroi e dietro loro il progetto di un cambiamento dell’ordine delle cose in un percorso di coinvolgimento, condivisione e partecipazione ampio, generale e radicato. A 44 anni dal trionfo della rivoluzione non sembra purtroppo che questo progetto sia stato realizzato dal socialismo reale cubano. Più che su di un radicamento compreso e condiviso del progetto di comunità socialista, il sistema cubano sembra infatti reggersi su di una singolare miscela ed integrazione di elementi culturali e sociali apparentemente tra di loro tanto diversi. Il fedele oriente cubano non è certamente socialista, verosimilmente è “castrista”, sicuramente è creolo, vivo, vivace, allegro e vitale. Emancipato grazie alla rivoluzione da condizioni di miseria ed iniquità sociale indescrivibili ancora negli anni 50, condivide la consapevolezza di un oggi vivibile, almeno e così come è possibile giorno per giorno, o meglio canzone dopo canzone con la musica che fuoriesce ad altissimo volume ed ininterrottamente da tutte le case, coprendo persino il rumore del traffico cittadino. Santiago è una città sorprendente per Cuba e forse per gli interi caraibi, proprio perché è una città, così come la si intende almeno in Europa. Avana, a parte il quartiere della città vecchia di origine e conformazione spagnola di stile coloniale, ha un impianto urbanistico decisamente nord americano, non messo in di-


scussione ma persino in qualche modo accentuato dagli interventi funzionali o celebrativi e rappresentativi del nuovo regime socialista. Santiago risente invece manifestamente dell’influenza della cultura anche urbanistica francese, portata in questa parte orientale dell’isola dalla borghesia di origine e cultura francese profuga dalla vicina Haiti. A Santiago molte parole, cognomi e definizioni geografiche e toponomastiche mantengono il caratteristico accento sdrucciolo francese; così si dice Haitì per l’isola, Tivolì per un quartiere centrale, Bacardì per il fondatore della celebre casa del rum oggi rinominata Havana Club. Distribuita su alcune colline prospicienti il mare, anche se priva di un vero e proprio porto alla maniera mediterranea, è ricca di saliscendi anche ripidissimi, alcune volte interrotti da scalinate inattese ed improvvise. Pur caratterizzata da un impianto stradale di disegno geometrico, non mancano vicoli contorti e ciechi, piazzette e belvederi a vari livelli verso il mare o l’interno dell’isola caratterizzato dai profili montuosi della Sierra Maestra. Residui di percorsi tranviari fittissimi nella parte più centrale della città danno l’idea di un dinamismo urbano altrove sconosciuto nelle larghe vie carrabili all’uso nord americano. Al contrario a Santiago le vie sono tutte strettissime, necessariamente a senso unico, con marciapiedi ovunque presenti in evidente memoria della protezione dai percorsi dei tram ed oggi utilissimi per salvarsi dal transito dei camion di trasporto collettivo non meno ingombranti, rumorosi e pericolosi degli antichi tram, ritengo, spariti da tempo oramai immemorabile. Quel che colpisce di Santiago è l’impressione che tutti gli abitanti siano sempre e tutti insieme in strada. Il traffico pedonale sugli strettissimi ed altissimi marciapiedi è infinitamente più intenso di quello veicolare sui ripidi pag. 141 saliscendi urbani. Fatta eccezione della piazza centrale intestata alla Cattedra-


le cattolica, luogo riservato quasi interamente ai turisti di transito in “caccia” (attiva o passiva) della “mulata” qui nell’oriente decisamente più “nera”, il resto della città è interamente ed esclusivamente popolato e vissuto dagli abitanti di Santiago, pieno di numerosi ristoranti in pesos cubani, di case della “trova”, di scuole e ritrovi di danza, ecc. La situazione non cambia se dal così detto centro storico ci si sposta nella immediata periferia di più recente edificazione; i “santiagheri” sono tutti per strada, a comprare o vendere qualsiasi cosa di commestibile, e tanti, davvero tanti a formare file lunghissime, disciplinatissime che nel frattempo costituiscono, per quel che è possibile capire vedendole, luoghi sostanzialmente di incontro, dialogo, allegria e soprattutto musica, a tutto volume, in qualsiasi punto della città e sempre rigorosamente cubana e ballabile. La stessa edilizia popolare di recente ed evidente costruzione socialista appare lontanissima dagli schemi geometrici e freddi del socialismo reale dell’Europa orientale, ed anzi assai prossima alla caoticità della nostra edilizia pubblica o cooperativa assistita post bellica, quasi che anche qui vi sia stato un problema di speculazione dei terreni edificabili, circostanza che paradossalmente imprime alla periferia una idea di maggiore umanità, se non proprio di vivibilità europea. E’ chiaro però che anche Santiago, centrale o periferica, non si sottrae alla generale e generalizzata condizione di degrado indotta dalla storica povertà dell’isola ed accentuata dal più recente collasso economico conseguente alla caduta dei sistemi del socialismo reale europeo che ha dato inizio a quello che i cubani chiamano eufemisticamente il “periodo speciale”. Immense buche stradali, sgretolamenti di facciate e recinzioni, voragini urbanistiche generate dal crollo di interi edifici con le sole facciate su strada ancora coraggiosamente in piedi, forse tenute su dalla vegetazione spontanea più che dalla consistenza residua delle colonne portanti in grandissima parte in legno.


Santiago tra l’altro è una città singolarmente fiorita rispetto alla generale mancanza di colori che caratterizza le rigogliosa vegetazione tropicale e, soprattutto, è una città profumata. Diversamente dalla più intensa pesantezza del clima di Avana qui l’oceano manda una brezza continua, ma leggera, fresca e profumata quasi come quella di un mare mediterraneo. Negli stretti saliscendi della città esplodono poi continuamente fortissimi profumi di rabarbaro e di caffè, molto raramente sopraffatti dagli odori della cucina caraibica di frittura di pollo o di maiale. Il sabato sera, ogni sabato sera che l’anno manda, ricorre immancabile il rito della festa creola, giusto ed irrinunciabile premio ad una settimana di lavoro, lotta ed infaticabile impegno rivoluzionario, perché, ammoniscono innumerevoli iscrizioni distribuite per tutta la città, “rivoluzione è costruire”! Le strette strade si bloccano quasi, il quasi è d’obbligo perché qui non esiste una idea di isola pedonale e dunque sempre e comunque, anche nel massimo caos possibile di persone per strada, c’è sempre un veicolo che deve passare proprio di lì e si tratta quasi sempre di un gigantesco camion. All’inizio della festa creola, o “criola” come loro la pronunciano, su improvvisati bracieri ricavati da bidoni di latta tagliati a metà in linea verticale, vengono arrostiti e serviti, di fatto gratuitamente, un grandissimo numero di veri e propri maiali più che maialini; da enormi cisterne apparentemente per il trasporto di gasolio, caricate su altrettanto immensi camion, viene distribuita quasi a pioggia birra a volontà. E poi, ovunque e dovunque, musica, musica cubana, ritmica, continua, inarrestabile e soprattutto fortissima. E’ sorprendente vedere nelle case della cultura, totalmente aperte sulla strada, gruppi musicali foltissimi composti dai pag. 143 più diversi strumentisti e vocalisti, apparentemente improvvisati ma dotati di capacità tecniche notevoli e soprattutto,


almeno agli occhi di un più fragile occidentale, di una resistenza fisica incredibile. Tutto ciò con una allegria e che trasmette una gioia di vivere per così dire assoluta, del tutto indipendente e niente affatto condizionata dalle oggettive condizioni economiche e sociali del contesto circostante. Alle pareti della sala di musica appaiono ovunque affissi innumerevoli attestati di meritevolezza della istituzione culturale, dei suoi dirigenti o animatori, degli stessi musicisti, tutti premiati per avere con il loro impegno difeso e sostenuto lo spirito eroico della città ribelle, delle sue tradizioni culturali, della sua anima socialista, della sua invincibile resistenza all’imperialismo “yanqui” ed infine (e perché no!) oggi anche per la pace nel mondo. “Così è Cuba”; si dicono da soli gli stessi cubani. Viene allora da pensare che in effetti questo sia il segreto, il senso e l’anima profonda dell’originale ed unico socialismo cubano: una fusione, una miscela, una riuscita mescolanza di sogni ed ideali di socialismo e socialità, con la naturale forza vitale di per se stessa socializzante dell’anima caraibica, che quasi geneticamente contrappone come antidoto al grigiore, alla violenza, alla depressione dell’individualismo occidentale anglosassone e nord americano, la voglia di vivere per godere, così come si può, ma tutti insieme in allegria e promiscuità di razze, culture e sessi, della bellezza e della ricchezza della natura. Oggi a Santiago è giorno di acqua, nel senso che oggi l’amministrazione dell’acquedotto ha immesso un poco delle modeste riserve di acqua nelle condutture cittadine. Lo si vede e lo si capisce dagli spruzzi e dalle pozzanghere pullulanti che si formano un po’ ovunque dalle innumerevoli falle del fatiscente impianto idrico cittadino. Ma nulla sembra andare sprecato perché ad ogni spontanea sorgente di acqua viene data una opportuna destinazione ed utilizzazione: secchiate di acqua che escono dai lavaggi dei pavimenti delle case a livello strada, lavaggi in strada di automobili e di qualsiasi altro bene, improvvisate piccole pi-


scine nelle grandi buche stradali per i bambini. Ma intanto nel cielo sempre leggermente ventoso volano un numero infinito di piccoli aquiloni di carta e dall’altro capo del filo verso terra spesso sorprende di trovare non solo dei bambini ma anche degli adulti abbastanza cresciuti. Se si ha il coraggio, camminando, di alzare ogni tanto gli occhi da terra fissi ad individuare per tempo le innumerevoli buche che accidentano ogni strada e maciapiede, allora è possibile notare l’incredibile numero di vecchi aquiloni impigliati, anzi catturati, dalla fitta ragnatela dei fili elettrici delle vie urbane. Decine, centinaia, forse migliaia di giochi di bambini e di uomini con spirito ancora vivo e vivace persi nei fili dell’elettricità o dei telefoni. Viene voglia di pensare che in verità quegli aquiloni non sono stati catturati dal ragno elettrico e persi, ma che al contrario siano stati lasciati, lanciati dai loro padroni verso il cielo, per portare lassù, più in su della attuale oggettiva povertà di quella terra, la tensione e la propensione del popolo creolo alla voglia di vivere e di giocare. Santiago è una città di colline tra terra e mare percorsa da una anima creola che tende irrefrenabilmente verso il cielo. Questa potrebbe essere, in ultima analisi, l’essenza dell’originale socialismo reale cubano, ma anche in fondo in fondo di ogni ideologia che ponga al fondo dei suoi obiettivi la realizzazione di sogni: immaginare un futuro ideale ed impossibile, ma intanto vivere il presente con energia, allegria e forza vitale. Se poi si riesce anche a credere che il presente sia diverso dal reale e che quel che non va o che manca è solo il frutto di una sfortunata (“diabolica” come dicono i cubani nel loro idioma spagnolo) circostanza del tutto involontaria e comunque temporanea, sicché non basta che attendere pazientemente perché tutto cambi e si risolva per il meglio, vivendo intanto l’attesa in allegria, allora davvero l’impossi- pag. 145 bile si è realizzato. Vedendo, girando, in qualche modo “studiando” Santiago,


le sue condizioni socio-economiche e lo spirito che traspare dai visi, dai gesti e dalle parole della sua popolazione, si può allora capire perché il crollo del socialismo reale dell’oriente europeo, che ha completamente devastato i sistemi di vita sociali, economici e culturali di quei paesi, di gran lunga più sviluppati, ricchi ed attrezzati, qui a Cuba è passato senza danni eccessivi, certamente al prezzo di grandi sacrifici che hanno toccato i livelli della vera e propria carestia, ma è comunque passato, lasciando indenni non solo il così detto regime, ma il clima sociale, la cultura, la coscienza, in una parola il modo di vivere dei cubani acquisito dopo il trionfo della rivoluzione di 44 anni or sono. Il sole c’è, il mare c’è, da vivere e mangiare almeno un poco per tutti c’è, la voglia di vivere, suonare e cantare c’è; c’è soprattutto ed infine la convinzione di essere in un paese ai vertici del mondo, bensì con qualche problema neppure piccolo, ma sulla giusta strada, come dire: “Hasta la victoria, siempre!” Fino alla vittoria, che ci sarà sicuramente, sempre!


RENAN “Adelante cubanos!”

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Renan è un giovane ingegnere elettronico cubano che lavora presso l’Amministrazione Provinciale, il “Poder Popular”, applicato ai rapporti con una organizzazione di cooperazione internazionale italiana. E’ bianco di pelle con occhi chiari, alto e longilineo da sembrare assolutamente fuori luogo nel “nero” oriente cubano. E’ talmente silenzioso e riservato da sembrare quasi assente e distaccato. Ma Renan è soltanto molto educato e quando finalmente interviene e parla esce fuori la sua anima comunicativa latina, manifestazione di una disponibilità di amicizia forte, disinteressata e sincera. In qualche modo Renan è un “prodotto” emblematico del sistema di socialismo reale cubano. Nato in una piccola città dell’estremo oriente cubano è stato allevato da una madre brava ed in gamba come tutte le donne cubane, nel più o meno completo disinteresse del padre presto scomparso per altri rapporti coniugali o similari, a seminare altri figli dei quali a volte non ricorda, se non lo stesso nome, sicuramente l’età e comunque non ne conosce e non ne partecipa i problemi di studio, lavoro ed in genere di vita. Avendone indubbiamente capacità e meriti, Renan ha potuto percorrere tutti i gradi dell’istruzione superiore, laureandosi per poi trovare immediatamente una occupazione lavorativa corrispondente al proprio titolo di studio, come è ovvio in un paese socialista. Avendo intelligenza, curiosità e disponibilità mentale Renan ha quindi colto l’occasione che gli è stata offerta dalla sua Amministrazione di lavorare con degli operatori stranieri, fungendo da interfaccia del sistema statale cubano nei progetti di solidarietà attivati nella sua provincia. Ciò lo ha portato però a rendersi più direttamente conto dei limiti di un sistema socialista realizzato in un paese povero, che da un lato offre opportunità egualitarie e generalizzate pag. 149 di studio e di lavoro, ma dall’altro non può garantire né promettere percorsi di crescita sociale e soprattutto economica


neppure lontanamente equivalenti a quelli dei ricchi paesi occidentali. Renan infatti è sposato con una laureata, anche lei regolarmente occupata in un impiego pubblico corrispondente al proprio titolo di studio, ma vive in casa con i suoceri non potendosi permettere, nonostante i due stipendi, una abitazione propria della quale, peraltro, non intravede neppure la speranza, considerata la ridottissima capacità del sistema pubblico di realizzare nuove abitazioni a causa della gravissima crisi che ha devastato l’economia cubana dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Così Renan ogni tanto sogna di poter emigrare all’estero, pur essendo ben consapevole che non riuscirà trovare, nell’ipotetico ricco paese occidentale di destinazione, la stessa qualità del lavoro svolto a Cuba; forse una occupazione assai inferiore ma certamente, così spera, molto meglio pagata. In questo suo sogno Renan è pure l’esempio emblematico della totale mancanza di diffusione, e conseguentemente di assimilazione da parte della popolazione cubana degli stessi principi basilari del pensiero e dell’etica socialista, e ciò a dispetto della miriade di slogan, ammonizioni e dichiarazioni rivoluzionarie scritte su di ogni spazio libero di muro e declamate da ogni organo di stampa e televisivo. Una volta Renan è venuto con noi italiani in un breve viaggio di fine settimana. Giunti in una cittadina dell’estrema punta orientale dell’isola, Renan si è presentato insieme a noi presso l’albergo per turisti dove avevamo programmato di passare la notte. L’albergo era ovviamente in dollari americani, ma Renan era nostro ospite e quindi poteva pagare in quella preziosa valuta. Ciò non ostante non è stato facile farlo ammettere e c’è voluta la decisa presa di posizione del suo corrispondente italiano nel progetto di cooperazione cogestito, per imporre alla direzione dell’albergo la concessione di una camera anche al funzionario pubblico cittadino cubano.


Pur nella quasi impenetrabile riservatezza del suo volto è stato evidente il sentimento dell’offesa subita da Renan, rifiutato da un albergo del suo stesso paese, benché in grado di pagare il prezzo ufficiale richiesto. Come spiegare a Renan, nato, vissuto ed educato al sole di un socialismo reale sicuramente tante volte ascoltato, letto, studiato e pedissequamente anche ripetuto come la litania di un rosario, ma mai realmente compreso, due regole fondamentali, concettualmente contrastanti, ma nel caso di specie assolutamente convergenti, l’una di etica socialista e l’altra di economia capitalista? Anzitutto sul piano della morale socialista, o comunista che dir si voglia, si pone la prima regola: quella fondamentale ed inderogabile del rispetto dell’egualitarismo. In un paese socialista, basato sul principio dell’eguaglianza e della parità, non possono esistere due livelli di diritti e di opportunità, un primo per chi può pagare in dollari ed un secondo per chi non può disporre di quella rara valuta. Se anche un solo cittadino non può accedere ad un determinato servizio, bene o comunque opportunità, allora non deve accedervi nessuno, indipendentemente dal fatto del tutto contingente che qualcuno se lo possa materialmente permettere. Resterebbe poi da approfondire e capire a cosa possano servire ai cubani, che ne hanno l’opportunità lecita e legittima di guadagnarli, i dollari nord americani da spendere comunque nei confini di Cuba. Ma questo è un altro complesso argomento che non può essere adeguatamente trattato in questa sede. La seconda regola riguarda invece un principio fondamentale dell’economia capitalista, o forse più correttamente del capitale e del mercato, e concerne l’ottimizzazione dello sfruttamento delle risorse economiche. Le strutture turistiche a Cuba sono state create, o comunque rapidamente convertite dopo l’inizio del “periodo spe- pag. 151 ciale”, al prezzo di grandi sacrifici posti a carico dell’intero non ricco popolo cubano, per drenare dal turismo estero il


massimo delle quantità possibili di valuta pregiata da reimpiegare, quindi, nella soddisfazione delle esigenze sociali collettive, a partire da quelle primarie delle salute, dell’istruzione, dell’alimentazione, ecc. Conseguentemente quelle strutture non possono essere distratte, in nessun caso, modo e misura, in favore di un consumo interno che rischia di interrompe, o comunque certamente limitare, la raccolta della valuta estera e conseguentemente incidere sulle capacità di risposta sociale del sistema. Renan è intelligente anche se non ha studiato o capito ed assimilato sino in fondo i principi del socialismo ed ancor meno conosce le leggi del capitale e del mercato sicuramente neppure enunciate ed anzi forse persino demonizzate dal sistema scolastico pubblico cubano (anche se non va dimenticato che il più grande studioso del “capitale” è stato proprio il fondatore del comunismo) e quindi sono sicuro che prima o poi capirà. Renan è nativo dell’oriente cubano ma, come detto, è di razza, o meglio pigmentazione bianca, e quindi non riesce a sentire ed esprimere, o almeno a trasmettere negli atteggiamenti esterni quell’anima, allegra e vitale sino ai limiti delle esplosioni della sregolatezza, patrimonio innato della gente creola. Ma sotto sotto un poco di quell’anima creola ce l’ha anche lui e di quando in quando emerge con forza ed evidenza, perché, tutto sommato, quell’anima, prima di essere creola, e senz’altro cubana, ed è la “cubanìa” che possiede, più che essere posseduta, tutti gli abitanti dell’Isola Felice, bianchi, neri e mulatti. Una sera sulla piazza principale di Santiago si esibiva una banda musicale con un repertorio, francamente, ad evidente uso turistico. Al momento di concludere l’esibizione pubblica, tuttavia, la banda ha intonato le note di una canzone(tta) “di regime”. Era una marcetta semplice ed allegra nella quale la linea ritmica epica assumeva i tempi e le varianti di un passo di dan-


za collettivo. In sostanza una parodia autoironica di un militarismo interpretato da un paese che nella sua intera storia, remota e recente, non ha mai partecipato e quindi conosciuto una vera guerra. A quel punto è stato ad uno stesso tempo sorprendente ed emozionante vedere Renan mettersi quasi automaticamente ad accompagnare con le parole le note suonate dalla banda, ritmando il tempo con il dito e con il viso illuminato da un sorriso di evidente partecipazione ed allegria. Renan è andato sino in fondo, sino alla fine della musica, compiacendosi davanti a degli stranieri, ma in mezzo alla grande maggioranza della sua gente, di essere parte di quel popolo, di essere cubano, di essere, in fondo, anche socialista qualunque cosa volesse dire quel termine per lui oramai indissolubilmente legato alla storia passata, presente e futura del suo popolo policromo e della sua terra povera di dollari, ma ricca, ricchissima di sole, di mare e di allegra incontenibile voglia e gioia di vivere. Questa è forse la grande forza del socialismo cubano, sintesi e fusione di principi e regole della morale filosofica del socialismo scientifico, con la contrapposta mancanza di regole che non siano quelle della voglia di vivere propria della “cubanìa”. Declamava Renan a tempo di marcetta: “Adelante cubanos...”. Avanti cubani! In quel momento, anche alla luce dei nostri precedenti discorsi di morale socialista ed economia capitalista mi è venuta in mente un’altra canzone, anch’essa corale come una marcia, appartenete alla storia di un altro popolo in qualche modo anch’esso di mare e di sole come quello cubano, canzone che recitava: “Basta che ce stà ‘o sole, ca c’è rimasto ‘o mare, ‘na voce, ‘na chitarra, ‘na canzone pe’ cantà...”. Ma c’era allora anche tanta povertà e fame vera e molti, mol- pag. 153 tissimi di quel popolo hanno dovuto rinunciare al sole ed al mare e non so se hanno continuato almeno a cantare.


Oggi l’Italia è uno dei paesi più ricchi del mondo, ma molte di quelle persone partite in quell’epoca difficile non sono più tornate, pagando sulla loro pelle l’odierna ricchezza degli altri. Quello che è accaduto a quella gente, a quel popolo, non lo si deve augurare a nessuno e allora… “Adelante cubanos!”, finché resiste l’originale, fantasioso, mendace anche, socialismo cubano; il peggio può sempre venire!


DUE BAMBINI “Una nuova generazione”

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L’ultimo mio pomeriggio a Santiago lo ho passato seduto di nuovo in una delle panchine che circondano la piazza centrale. Questa volta nel centro della piazza non c’era la banda per i turisti ma si stava allestendo una grande tavola rotonda sui problemi della gioventù e della scuola. Mentre erano ancora in corso i preparativi ed il montaggio del grande tavolo circolare e si stava procedendo alla collocazione di un grande ritratto del Che, mito e riferimento ideale di tutti i giovani del mondo, due bambini della scuola primaria, come testimoniava la loro divisa scolastica in rosso e bianco, dibattevano animatamente, a voce e a gesti, proprio sulla mia panchina, a volte direi anche addosso a me. Erano due giovanissimi delegati alla tavola rotonda ed in attesa dell’inizio forse discutevano proprio dei temi che di lì a poco avrebbero dovuto affrontare in pubblico. La mia scarsa conoscenza della lingua, l’uso probabile di espressioni dialettali e forti accenti locali, oltre alla concitazione del dibattito, non mi ha consentito di comprendere di più che pochi spezzoni frammentari ed incompleti. Un passaggio però lo ho compreso benissimo ed suo ricordo mi sembra l’argomento più giusto per concludere questi brevi racconti, perché più d’ogni altro ritengo che possa esprimere e riassumere l’identità del popolo cubano così com’è oggi dopo 44 anni dal trionfo della rivoluzione socialista. Giunti al punto più elevato o comunque certamente più caldo della discussione, a valutarlo dal tono delle voci e dal turbinare dei gesti, uno dei due bambini si è fermato, ha guardato dritto negli occhi l’altro puntandogli un dito verso il petto, ed in uno spagnolo piano e chiaro che anch’io ho potuto comprendere perfettamente, ho così enunciato: “Ricordati che per ogni problema c’è una soluzione!” Ogni commento appare superfluo. 44 anni di socialismo fantasioso, allegro e vivace sono pure pag. 157 qualcosa che sembra non essere passato invano. Ed allora, di nuovo: “Adelante cubanos!”


Supplemento del periodico Piazza del Grano Aurorizzazione dei tribunale di Perugia n. 29/2009 Corso Cavour n. 39 - Foligno e-mail redazionepiazzadelgrano@yahoo.it Stampato presso GPT Srl - CittĂ di Castello ottobre 2012



Il modo con cui i cubani hanno interpretato nella quotidianità del loro modo di vivere e pensare l’incitamento alla euforica follia dell’inseguimento dell’impossibile enunciato dal Che nella storica parola d’ordine: “Siamo realisti, esigiamo l’impossibile”, può dare forse, più d'ogni altra argomentazione sociologica, filosofica o politica, una idea corretta della realtà cubana.

Collana INEDITI di Piazza del Grano


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