Mensile. Numero 93, Estate 2011
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INSTEAD OF CONQUERING AN ISL AND BY KILLING THE NATIVES, WE DECIDED TO SIMPLY BUY IT. (Besides, have you seen the price of weapons these days?)
Land of the Stupid, home of the Brave.
We are creating a new and better nation. Join the movement and become a citizen at diesel.com
Photo: Ane Jens - © 2011 Vans, Inc.
Photo: O’Meally © 2011 Vans, Inc.
Art: Mike Giant Photos: Acosta, MEMENTO, Colin Devin Moore © 2011 Vans,
Š 2011 Vans, Inc.
Sommario
Interviste:
70: Africa Hitech
60: Walter Pfeiffer
20: Montblanc
66: How To Dress Well
56: Jamie Harley
52: Marcelo Burlon
74: Katherine Foto di copertina di Todd Jordan
Street Files:
Moda:
88: Monica
100: Summer Ladies
44: Biennale Venezia 2011
Foto di Colin Leaman
A cura di Piotr Niepsuj
Foto di Tankboys
Regulars 10: Bands Around: Austra - Hundred In The Hands 16: Publisher: Rollo Press 17: Shop: Voga 18: Design: Sense and sensibility 26: PIG Files 28: Moda News 36: Fashion: Beach styles 38: Photographer of the Month: Mark Peckmezian 114: Musica 118: Cinema 122: Books and So 124: Videogames
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Shave your style. “Fai che la vita segua il tuo ritmo.” DJ Lean Rock, 22
Effettua la scansione per vedere l’esclusivo video di rasatura, stile e rifinitura di Lean Rock. www.braun.com/cruZer
cruZer
Siviglia The Party. Fashion week 2011. Durante la settimana della moda siamo andati alla festa di SIVIGLIA alla Triennale del Design. Foto di Matteo Convenevole
PIG Mag 93, Estate 2011 Publishers: Daniel & Simon Beckerman
Management
Advertising adv@pigmag.com Human Resources Barbara Simonetti Victoria Ebner
Editor in Chief, Creative Director: Simon Beckerman Executive Editor: Valentina Barzaghi Assistant Creative Director: Piotr Niepsuj
Editorial Music: Giacomo De Poli (Depolique) Fashion: Fabiana Fierotti Cinema: Valentina Barzaghi Design, Art and New Media: Giovanni Cervi
Contributors for this issue Marina Pierri, Michela Biasibetti, Luca Massaro, Giulia Maria Tantussi, Francesca Mila Nemni, Todd Jordan, Katherine Clary, Colin Leaman, Trudy Nelson, Sarah Leaman, Monica Nelson, Emanuele Fontanesi, Christopher Schreck, Tankboys, Roberta Ridolfi, Ann Kathrin Obermeyer, Cailin Hill, Marija Strajnic, Ana Kraš, Djuna Bel, Ramona, Yara De Nicola, Michelle Dantas, Alessandro Comai, Jody Rogac, Natasha Devereux, India Lawrence, Aileen Son, Jennilee Marigomen, Redia Soltis, Alex Richardson, Adam Flynn, Maya Villiger, Eugenie Dalland, Charos, Wai Lin Tse, Carolina Vargas, April, Alba Yruela, Mei Larrosa, Andi Schmied.
Books: Rujana Rebernjak
Special Thanks Bianca Beckerman, Caterina Napolitani, Piera Mammini, Giancarlo Biagi, Matteo Convenevole, Assembly New York.
Videogames: Janusz Daga
Edizioni B-arts S.r.l. www.b-arts.com
Contributing Editors
Direzione, Redazione e Amministrazione Ripa di Porta Ticinese, 21 - 20143 Milano. Tel: +39 02.36.55.90.90 - Fax: 02.36.55.90.99
Design: Maria Cristina Bastante
Sean Michael Beolchini: Contributing Editor Ilaria Norsa: Contributing Fashion Editor Gaetano Scippa: Contributing Music Editor Marco Lombardo: Contributing Music Editor
Magazine Layout: Stefania Di Bello
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PIG Magazine: Copyright ©2002 Edizioni B-Arts S.r.l. Autorizzazione del Tribunale di Milano n° 453 del 19.07.2001 Sviluppo foto Speed Photo, via Imbriani 55/A - 20158 Milano Stampa: Officine Grafiche DeAgostini S.p.A. Corso della Vittoria 91 - 28100 Novara (Italy). Tel: +39 0321.42.21 Fax: +39 0321.42.22.46
Distribuzione per l’Italia SO.DI.P. “Angelo Patuzzi” S.p.A. Via Bettola 18 - 20092 Cinisello Balsamo (MI). Tel: +39 02.66.03.01 Fax: +39 02.66.03.03.20 Distribuzione per l’estero S.I.E.S. S.r.l. Via Bettola, 18 20092 Cinisello Balsamo (MI). Tel. 02.66.03.04.00 - Fax 02.66. 03.02.69 - sies@siesnet.it
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PIG Magazine è edita da B-arts editore s.r.l. Tutti i diritti sono riservati. Manoscritti, dattiloscritti, articoli, disegni non si restituiscono anche se non pubblicati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta in alcun modo, senza l’autorizzazione scritta preventiva da parte dell’Editore. Gli Autori e l’Editore non potranno in alcun caso essere responsabili per incidenti o conseguenti danni che derivino o siano causati dall’uso improprio delle informazioni contenute. Le immagini sono copyright © dei rispettivi proprietari. Prezzo del numero 5 Euro. L’Editore si riserva la facoltà di modificare il prezzo nel corso della pubblicazione, se costretto da mutate condizioni di mercato.
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Bands Around
Foto di Luca Massaro
Austra Cattedrale - La Fabbrica del Vapore, Milano Nome? Dorian Wolf. Età? 24. Da dove vieni? Nato a NYC, ora vivo a Toronto. Cos’hai nelle tasche? 10 euro e un cellulare. Qual è il tuo vizio segreto? Non ho segreti. Qual è l’artista / la band più sorprendente oggi? Owen Pallett. Di chi sei la reincarnazione? Pitagora. Che poster avevi nella tua camera quando eri un teenager? Joe Montana. Non ha funzionato. Ci dici il nome di un artista o di una canzone italiana? I Blonde Redhead sono per 2/3 italiani.
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Nome? Katie Stelmanis. Età? 26. Da dove vieni? Toronto. Cos’hai nelle tasche? Una banconota da 50 euro strappata che nessuno accetterà. Qual è il tuo vizio segreto? Comprare scarpe. Qual è l’artista / la band più sorprendente oggi? Il nuovo album di PJ Harvey è il mio preferito tra i suoi finora. Di chi sei la reincarnazione? Kate Bush (mi hanno chiamato così per lei.) Che poster avevi nella tua camera quando eri una teenager? Un poster di Hansel e Gretel per la produzione della compagnia dell’opera canadese. Ci dici il nome di un artista o di una canzone italiana? Andrea Bocelli.
Nome? Maya Postepski. Età? 25. Da dove vieni? Toronto, Canada. Cos’hai nelle tasche? 50 euro. Qual è il tuo vizio segreto? Vino rosso. Qual è l’artista / la band più sorprendente oggi? Yoko Ono. Di chi sei la reincarnazione? John Bonham. Che poster avevi nella tua camera quando eri una teenager? Keiko Abe - un solista giapponese di marimba. Ci dici il nome di un artista o di una canzone italiana? Senza una donna - ?
Nome? Ryan Wonsiak. Età? 25. Da dove vieni? Saskatchewan, Canada. Cos’hai nelle tasche? Monete e un accendino. Qual è il tuo vizio segreto? E’ un segreto. Di chi sei la reincarnazione? Un gatto, Chopin e Anna Nicole Smith. Che poster avevi nella tua camera quando eri un teenager? Britney Spears. Ci dici il nome di un artista o di una canzone italiana? Madonna.
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Bands Around
Foto di Piotr Niepsuj
The Hundred In The Hands Magnolia, Milano Nome? Jason Friedman. Da dove vieni? Nato in Sud Africa, cresciuto in California, ho vissuto per un breve periodo a Berlino e a New York per la maggior parte del tempo. Cos’hai nelle tasche? Qualche euro, un programma del tour e una scatola di fiammiferi degli anni ‘60 che era dentro la giacca quando l’ho comprata. Qual è il tuo vizio segreto? Coca Cola, calcio. Qual è l’artista-la band più sorprendente d’oggi? Holy Ghost. Il mio amico, James Blake. The Rapture. Di chi sei la reincarnazione? Jeff Goldstein. Che poster avevi nella tua camera quando eri un teenager? Led Zeppelin, Dinosaur Jr., Mudhoney. Ci dici il nome di un artista o di una canzone italiana? Giorgio Moroder!!!
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Nome? Eleanore Everdell. Da dove vieni? San Francisco, CA. Beh, New York. Cos’hai nelle tasche? Una torcia. Qual è il tuo vizio segreto? Angry Birs. Qual è l’artista-la band più sorprendente d’oggi? Mi sono innamorata di una band molto divertente di sole ragazze. Dum Dum Girls e Warpaint sono entrambi gruppi sorprendentemente straordinari live. Di chi sei la reincarnazione? Non credo in questo nonsenso. Che poster avevi nella tua camera quando eri una teenager? Buster Keaton. Ci dici il nome di un artista o di una canzone italiana? Zucchero!!!
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Arte
Di Francesca Mila Nemni
Luigi Presicce La barba incolta dei filosofi greci, dei giovani patrioti o dei religiosi osservanti. E’ la figura antica del giovane artista Luigi Presicce, che evoca riti sacri e leggende dimenticate, arcaiche teartralità e cultura popolare. Cominciamo subito da quella che doveva essere l'ultima domanda, credi in Dio? Credo tantissimo in me e Dio è contento. Quanto del tuo immaginario diventa arte? E' una questione di tempo, qualcosa diventa un'opera, qualcos'altro un'idea curatoriale, la testa è sempre in movimento... Il prossimo anno parteciperai a dOCUMENTA13. Mi dici di questo progetto? A dir la verità, And And And (il duo cuatoriale formato da Ayreen Anastas & Rene Gabri) ha invitato Lu cafausu, una "metafora non creata" da Luigi Negro, Ceasare Pietroiusti, Emilio Fantin, Giancarlo Norese e ora anche da me. Abbiamo risposto con la Festa dei vivi (che riflettono sulla morte). Nel giorno della Festa dei Morti, abbiamo dato vita a un pellegrinaggio rallentato, spingendo una barca - come i pescatori usano fare ancora oggi - per le vie di san Cesario di Lecce. Questo percorso diventerà un video documento per Kassel, ma sarebbe bellissimo se si riuscisse 14 PIG MAGAZINE
a portare là anche la barca! Perché Lu cafausu è un luogo immaginario che esiste per davvero. Hai paura di ciò che non si conosce? Credo di più nell'invisibile che nel visibile. La notte, fai sogni tranquilli? Si, sempre. Da quanto tempo porti la barba e i capelli così lunghi? I capelli da sempre, a intervalli. La barba dal 2006... Mi racconti un po' di Brown Project Space e di quello che succederà nei prossimi mesi? Brown è stato il primo project space gestito da artisti a Milano. Dopo di noi si è creata una vera e propria scena indipendente che ha reso senza dubbio più frizzante la vita artistica della città. Negli ultimi tre anni abbiamo ha realizzato vari progetti curatoriali capaci di lasciare il segno, molti artisti (sempre) alla loro prima esposizione - Jacopo Miliani, Davide Savorani, Nicola Martini,
Andrea Kvas, ad esempio - in seguito sono diventati noti al pubblico e apprezzati da gallerie e curatori. Siamo sempre stati orientati a ricercare nuove forme di espressione legate alla spiritualità, la metafisica, l'alchimia e l'arte popolare. I prossimi progetti, invece, cambieranno completamente il modo di percepire lo spazio: abbiamo in programma nuove collaborazioni con giovani architetti e artisti che hanno a cuore una dimensione ambientale del lavoro, Daniele Pezzi, Fabrizio Prevedello, Bo Chistian Larsson o la rivista San Rocco. Inoltre da marzo di quest'anno sono cocuratore di Archiviazioni, un progetto nato a Lecce che sta contribuendo a cambiare la scena culturale del territorio. www.luigipresicce.it brownprojectspace.tumblr.com www.documenta-urbana.de www.archiviazioni.org www.lucafausu.tk
Publisher
Intervista di Rujana Rebernjak. Foto di Jonas Marguet, 2010
Rollo Press Da quando ho cominciato a conoscere il mondo dell’editoria indipendente, ho sempre considerato Rollo Press una realtà intoccabile. Anche se parlando con Urs, il suo fondatore, mi sono liberata del mio timore iniziale, penso ancora che Rollo nella marea di case editrici presenti, sia irraggiungibile. Come e quando hai iniziato la tua attività con Rollo Press? Ho iniziato alla fine del 2007, dopo aver realizzato alcuni progetti editoriali per le istituzioni culturali in Svizzera, assieme al mio socio Lex Trüb. Di conseguenza, abbiamo sentito l'esigenza di stabilire un modo di lavorare che potesse permetterci una produzione più veloce e radicale. Esiste un criterio in base al quale scegli i libri, c'è una linea precisa che cercate di seguire? Questo è molto difficile da definire, e non penso esistano dei criteri predefiniti. Ci sono dei libri che produco e pubblico assieme agli amici, oppure altri che realizzo in stretta e intima collaborazione con gli aritsti, riuscendo a produrre libri che ci piacciono davvero. Dall'altra parte, a volte ricevo proposte di libri oppure noto dei progetti inediti che trovo rientrino bene nel mio 'programma'. Quanto pensi conti il modo in cui viene prodotto un libro per la sua buona riuscita? Il processo di stampa, ovviamente, è una parte importante del progetto di Rollo Press, essendo basato su una singola tecnica di stampa.
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Ancora quando ero studente, quello che mi piaceva di più era il workshop di serigrafia, ma dopo la laurea avevo perso quello spirito. Quando ho cominciato a lavorare con la Risograph, mi sono ricordato quanto fosse affascinante stampare un foglio di carta a mano. Per quale motivo, secondo te, oggi le persone sono molto più attente all'artigianato e al modo in cui vengono prodotti i libri? Non penso che le persone siano molto più attente: forse è la conclusione logica di una tendenza che include mangiare organico, indossare vestiti prodotti in modo sostenibile,etc. L'aspetto artigianale dei miei libri è dovuto al processo di stampa, a sua volta guidato dalle restrizioni economiche. In ogni caso, mi piacerebbe vederli stampati in edizioni più ampie e il mio scopo non è quello di assecondare i bisogni di una nicchia di lusso. Cosa ne pensi dell'editoria indipendente e della sua crescita esponenziale negli ultimi anni? Come già detto sopra, da un lato penso che questo faccia parte di una tendenza più generale. Dall'altra, penso però che questa crescita sia un buon indice dei fatti sottostanti,
principalmente l'enorme energia che gli artisti e grafici investono, nel tentativo di realizzare la visione di come dovrebbe manifestarsi il loro lavoro, per il quale manca l'ambiente commerciale. Quali sono i vostri ultimi progetti? L'ultimo progetto è un libro concepito con l'artista estone Triin Tamm, intitolato Stack od Books, presentato come una pila di libri, che conteneva una serie di rappresentazioni di altri libri. Cosa ne pensi delle fiere dell'editoria indipendente? Penso che ce ne siano troppe al momento, dove per la maggior parte partecipano gli stessi espositori. In questo senso il format è diventato piuttosto inflazionato in poco tempo. Per questo abbiamo smesso con l'organizzazione della "Zürich Zine Sezession" dopo tre anni. Forse ci inventeremo qualcosa di nuovo quest'anno, vedremo.. Se potessi pubblicare il libro dei tuoi sogni, quale sarebbe? Vorrei pubblicare un romanzo best seller e vivere di royalties per il resto della mia vita. www.rollo-press.com
Shop
Intervista di Giulia Maria Tantussi
Voga Ad Arezzo Maddalena e Nicola hanno messo le radici di una grande famiglia. Voga è uno spazio di ritrovo, di festa e di confidenze, dove la forza dello scambio creativo conduce verso il nuovo promuovendo un idea di intimità da leggere in chiave artistica.
Ciao Nicola, ciao Maddalena, come state? Benone, grazie, anche se super impegnati considerando che per Settembre abbiamo in programma di aprire uno spazio adiacente che ci permetterà di dividere gli spazi in maschile e femminile. Vediamo di conoscervi, che cosa vi piace? Ci piacciono le giornate di sole e le stagioni calde e le giornate infinite!..poi ognuno ha le sue passioni personali tipo i cani ed i gatti di Maddalena, la malattia per il basket di Nicola! Voga sta per...? "In voga" come a dire in auge, indica l'insieme di cose che piacciono, è una scelta senza presunzione, semmai eravamo attratti anche dal significato più comune di "vogare", ovvero remare, che rende benissimo l'idea di quanto lavoro ci sia dietro ad un progetto come il nostro! Che posto è Voga? Non è solamente uno shop. Lavoriamo molto nella ricerca di nuovi marchi da proporre, offrendo sempre idee nuove, stimolando la curiosità piuttosto che lasciare il campo libero all'omologazione. Ci teniamo a promuovere aziende meno note ma con alle spalle una tradizione affascinante di artigianalità come ad esempio Label Under Construction di cui
andiamo piuttosto fieri. Tuttavia nel mondo freddo e automatizzato del' e-commerce pensiamo che la vera differenza in spazi come il nostro la faccia il rapporto diretto con i nostri clienti, quell'intimità mista a fiducia ed amicizia che rende Voga prima di tutto un ritrovo dal clima rilassato dove confrontarsi ed a volte azzardare qualche confidenza. Di che pane quotidiano vivete? Siamo curiosi. Questo significa leggere in continuazione, fare ricerca sul web, fare del Cool Hunting per quanto riguarda nuovi marchi da proporre o nuove idee per gli allestimenti periodici che facciamo qui. Giochiamo molto con lo spazio a nostra disposizione e ci divertiamo a trovare costantemente nuove idee per stupire chi viene a trovarci. Quanto background personale avete portato nel vostro progetto? Ognuno ha portato il proprio e fortunatamente si sono compensati a vicenda!..Nicola ha portato la musica, sua grande passione sin da bambino grazie ai propri genitori, ad una laurea in Filosofia della Musica con tesi sul mitico 1967 di Sgt. Pepper's e della Beatlemania ed a una gavetta raccolta lavorando in radio. Maddalena ha portato il gusto che derivava da una passione lunga una vita per la moda, con-
sacrata, dopo il liceo classico, da un diploma in Fashion Business all'Istituto Marangoni e un talento naturale per lo styling che l'ha resa il punto di riferimento qui da Voga. Un artista che vorreste ospitare? Il massimo sarebbe avere John Lennon e Paul McCartney, se poi arrivasse anche la figlia Stella sarebbe il massimo!.. Sarebbe curioso anche avere per un pomeriggio Diana Vreeland, affascinante mente dietro al motto "La vera eleganza è nella mente. Se ce l'hai il resto viene da sé" Di cosa non si può fare a meno da Voga? Di essere stupiti con qualcosa di insolito che non avresti mai pensato di indossare. Se fosse un ipod Voga suonerebbe? (Fate una playlist di artisti o generi musicali in linea con lo store) Voga sarebbe piuttosto eclettico come ipod, si passerebbe da grandi autori di una volta fino ai più avanguardisti di adesso..ci sarebbe Sebastien Tellier e Gainsburg, The xx e Roxy Music, John Lennon e Hercules & Love Affair, passando per Pink Floyd, Talking Heads e Human League, senza dimenticare alcuni classici moderni di Coldplay e Blur. Insomma servirebbe una memoria infinita!! www.vogashop.com
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Design
Intervista a Minale-Maeda di Mariacristina Bastante (kikka@pigmag.com)
Sense and sensibility Un italiano (ma cresciuto in Germania) e una giapponese. Che fondano uno studio in Olanda. E fanno design concettuale, con molto senso pratico. Mario Minale (del duo Minale-Maeda) parla di oggetti, progetti e comunicazione. E come si può rifare un mostro sacro come Rietveld con il LEGO…
Mobile della serie "Chroma Key"
Ciao Mario, per iniziare mi racconti qualcosa di voi? Minale-Maeda sono la giapponese Kuniko Maeda, laureata in scienze del design alla Musashino Art University a Tokyo e l’italiano Mario Minale, cresciuto in Germania e laureato in Industrial Design all Universita di Wuppertal. Dopo aver entrambi ottenuto l’IM Master alla Design Academy Eindhoven, abbiamo fondato lo studio Minale-Maeda. Quanti anni avete? Kuni è nata nel 1976, io nel 1973. Dove vivete? A Rotterdam, in Olanda. Come è nata la vostra collaborazione? Ci siamo incontrati il primo giorno del corso 18 PIG MAGAZINE
di master alla Design Academy. Durante gli studi abbiamo cominciato a discutere i progetti trovando tanti punti in comune, pur avendo origini molto diverse. Poi abbiamo iniziato gradualmente a lavorare insieme su progetti finchè non abbiamo messo su lo studio, insieme. Che cosa fa il vostro studio? Per noi è centrale la riflessione sulla cultura materiale. Dagli oggetti sperimentali e di ricerca a quelli per la produzione, sempre inseguendo i cambiamenti dei paradigmi. Questo lo facciamo sia in collaborazione con i clienti, che su progetti nati da noi. Che cos’è il design per voi? E’ un modo di sondare, riflettere e infine
reagire a fenomeni culturali. E’ un modo di comunicare inaspettato con una portata ampia: tutti sono esposti alla cultura materiale e reagiscono spontaneamente e questo è una grande fonte di ispirazione. Pensate che il design debba essere necessariamente funzionale? Il nostro approccio è pensare in contesti ampi dove non pare necessario ragionare in termini di funzionalità, quanto piuttosto in termini di risultati o fini. Anche un progetto molto libero può avere un risultato, stimolando una discussione oppure ponendo una domanda. Questo si potrebbe già definire come una funzione. Ma riteniamo importante anche
“Survival Furniture”, panchina rivestita in broccato di seta
confrontarci con la realtà ad un livello “pratico”. Quali sono le vostre fonti di ispirazione? Partiamo da fenomeni culturali. Troviamo interessante la tensione tra la natura umana, con le sue necessita di vita quotidiana, e le dinamiche imprevedibili, il passo incalzante dell´ipermodernità nella quale ci ritroviamo. L’Olanda ha una scena del design talmente viva che si parla di “Dutch Design” come fosse un movimento. E’ così? Non lo è consapevolmente. E’ nato dalla particolarità del mercato olandese che ha indirizzato i designer all’autoproduzione e sperimentazione. C’entra anche la mentalità del paese, che è stata sempre molto imprenditoriale e pratica. Chi sono i vostri designer / artisti preferiti? Non è design, ma più o meno lo consideriamo tale, il lavoro dell’artista Olafur Eliasson. Nell’ambito del design vero e proprio, sicuramente il linguaggio di Sottsass per come è libero e allo stesso tempo riesce ad essere preciso nell’espressione. Che cosa pensate del design italiano? Del design italiano rispettiamo molto i maestri, per come erano abili con le forme e i
“Table Manners collection” Tostapane per decorare il proprio panino
“Table Manners collection”, decoro delle porcellane di Delft
materiali, qualcosa che il design più concettuale a volte fa fatica a realizzare quando è troppo astratto o semplicemente non funziona. E’necessario un bilancio tra la ricerca, il processo e l’oggetto finale. In Olanda c’è stata una buona svolta verso una sperimentazione più pratica. E comunque è sempre più difficile di parlare di design italiano o olandese. Con la facilità di scambio e la mobilità di studenti, giovani designer, degli stessi docenti e delle aziende, le correnti sono sempre di più internazionali. E voi? Vi sentite, almeno un po’, concettuali? Ceramente siamo concettuali nello sviluppo dei progetti. In fondo è semplicemente un modo di tenere conto di tanti aspetti. Poi oggi la funzionalità degli oggetti è spesso esaurita oppure le conseguenze sono tanto ampie da richiedere una forma di comunicazione piuttosto che un oggetto finito: è qui che entra in campo il gioco tra realtà e finzione. Perchè riprodurre Rietveld utilizzando proprio il LEGO? Il lego è tanto a portata di mano pur essendo veramente ingegnoso mentre Rietveld è un mostro sacro mentre aveva intenzioni
veramente umili. E’ una riflessione su cosa percepiamo come realtà e motivazione delle nostre scelte. Del LEGO possiamo appropriarci senza tanto rispetto, possiamo infrangere i monopolii sulla fabbricazione della realtà. Ma è anche solo un’espressione ludica, di come ci piace raccontare e dar vita alle nostre storie e come siamo capaci di costruire strutture complesse e tanto serie, per facilitare questo piacere. Trovo molto interessante la serie Chroma Key. Mi raccontate qualcosa su questo progetto? Come è nato? Chroma Key è nato dall’osservazione del ruolo della medializzazione nel design. Vuole essere un oggetto classico nel suo uso di materiali, ma usa questi ultimi per influenzare direttamente i meccanismi mediali. Il disegno classico del tessuto in verità è un moire che rende difficile la riproduzione in foto e stampa, mentre il colore blu maschera le superfici Le forme poi rifiutano ogni individualità e richiamano solo le dimensioni e proporzioni di ogni tipo di mobili. Quando abbiamo mandato il comunicato stampa le persone ci scrivevano chiedendo se i jpeg fossero arrivati bene! www.minale-maeda.com
"Blueprint" mobile
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Montblanc Tutti credono di sapere chi sia Montblanc e cosa faccia, ma non tutti sanno tutto quello che fa davvero. Il 13 e il 14 Aprile scorsi, PIG è stato ad Amburgo, in quella che è la sede in cui Montblanc produce i suoi “Writing Instruments”(dopodiché ci sono: Firenze-Pelletteria, Svizzera-Orologi, Francia/Italia-Gioielli) dove ci hanno condotto alla scoperta di quali siano i diversi tipi di produzione e le varie fasi di lavorazione che ne decretano la storia, l’artigianalità e l’unicità. Durante questa visita didattica (ma anche ludica per noi), abbiamo chicchierato con diversi esperti dell’azienda e grazie a loro abbiamo scoperto, visto e capito tutto quello che vi racconteremo in queste pagine. Oltre a questo, abbiamo anche avuto il privilegio di conoscere di persona e intervistare il CEO Montblanc, Lutz Bethge (di cui trovate l’intervista nelle pagine successive). Di Valentina Barzaghi. Foto di Piotr Niepsuj
Visita alla fabbrica di Amburgo Quando in redazione è arrivata la notizia che Montblanc ci aveva invitato ad Amburgo per una visita al suo “quartier generale”, ovvero la parte in cui vengono prodotti i Writing Instruments – e già qui, notate bene, non parliamo di semplici stilografiche, ma di “stru-
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menti da scrittura” - siamo rimasti entusiasti e sconcertati allo stesso tempo: perché proprio noi? La domanda è legittima: Montblanc nel nostro immaginario evoca tradizione, unicità, lusso e artigianalità, un universo che a molti potrebbe sembrare agli antipodi con quello
di PIG. “E se volesse dimostrarci che invece la pensiamo come tutti e non abbiamo capito nulla?”. Beh, fatti i bagagli e curiosi di entrare alla scoperta dell'universo Montblanc, siamo partiti alla volta di Amburgo. Esperienza incredibile quella di quei giorni,
perché Montblanc non si è solo limitata a mostraci quella favola incredibile di cui il suo nome è pregno, ma ce l'ha anche fatta vivere. E come si sa, le favole piacciono proprio a tutti. La sua stessa storia è di per sé fiabesca. Era il 1906 quando gli imprenditori tedeschi August Eberstein e Alfred Nehemias fecero un viaggio negli U.S.A. e in Gran Bretagna dove rimasero affascinati dalla prima stilografica, ancora in fase sperimentale, che poteva essere usata senza calamaio. Tornati ad Amburgo, fondarono una piccola azienda destinata a quel tipo di produzione e alla vendita ai commercianti di cancelleria. Fu uno di questi, Claus Johannes Voß, che ne comprese il potenziale e si unì ai due imprenditori. Il nome Montblanc nasce tre anni dopo (1909), in seguito ad una vacanza invernale in cui i tre rimasero affascinati dalla imponente, ma elegante vetta del Monte Bianco (quella a forma di stella che viene riprodotta in cima alla chiusura della penna), che per la sua altezza diventò anche simbolo di elevazione a livello produttivo; un punto di partenza, ma soprattutto d'arrivo da mantenere invariato negli anni. Da allora, Montblanc non ha fatto un passo indietro in questo senso, decidendo poi nel tempo di dedicarsi solo al “mercato del lusso” e all'esclusività. Lo step più importante l'ha fatto nel 1924 con la creazione degli Strumenti di Scrittura “Meisterstück” (“Capolavoro”, in tedesco) e in particolare della Stilografica Meisterstück 149, una delle più apprezzate da politici, diplomatici, personaggi illustri dello spettacolo e della vita pubblica, tanto che le hanno dato il soprannome “Power Pen” (alcuni esempi di foto esposte: M. Gorbachev, J.Carreras, V. Westwood, G. Close, J. Moreau...). Una delle leggende più mormorate in azienda è quella secondo cui durante il meeting a Colonia, Aidenauer si accorse di aver dimenticato la sua penna e Kennedy corse in suo aiuto, estraendo dal taschino interno della sua giacca la sua Meisterstück 149. Una vera Meisterstück la riconoscete non solo dalla manifattura, ma anche da quel 4810 inciso sul pennino, che indovinate cos'è? Bravi, l'altezza del Monte Bianco. La piccola parentesi di storia in versione enciclopedia tascabile, solo per incominciare a farvi percepire l'aurea mitologica che sta intorno a questo brand. In questo senso uno dei momenti più affascinanti della nostra visita è stato quando ci hanno condotti all'interno dell'Artisan Atelier, ovvero quella parte dell'azienda in cui vengono realizzate le edizioni limitate e i pezzi unici. L'atmosfera che si respira è di meditazione e concentrazione. Ogni artigiano seduto alla sua scrivania, si adopera con pazienza in un lavoro che va ol-
tre la precisione; pensate che giustamente, per politica aziendale, ogni lavoratore ha un monte ore mesile, che però può distribuire come vuole, perché per fare operazioni di questo tipo, anche un semplice mal di testa potrebbe nuocere alla qualità finale del prodotto. Montblanc gestisce ogni singola produzione dall'inizio alla fine, garantendone qualità e perfezione al 100%: errori o distrazioni dunque non sono permessi. Siamo stati condotti alla scoperta dell'Artisan Atelier da Mrs. Bach, che ci ha spiegato che per edizioni limitate si intendono quelle produzioni che hanno una numerazione che va da uno a più pezzi, ma che vengono realizzati solo per un periodo specifico. Per ognuna di queste, vengono perfino creati degli appositi strumenti di lavoro, che una volta terminata l'edizione
vengono buttati. Ogni pezzo unico o collezione si ispira o è interpretazione di un certo personaggio o comunque di uno specifico soggetto, e il prezzo parte da una base di ventimila euro. In questo caso però bisogna tener conto che non stiamo parlando di “semplici” stumenti di scrittura, ma di veri e propri gioielli. Per farci capire meglio, ci hanno mostrato alcune Limited Edtion, come quella dedicata a Charlie Chaplin e al suo Modern Times, di 88 pezzi (Chaplin morì a 88 anni) – attualmente sold out e con un costo di 20 800 euro – o quella per il Principe Ranieri di Monaco – 81 pezzi, perché è mancato a 81 anni, al costo di 200 000 euro – tempestata di diamanti e rubini e in cui è impresso il simbolo del sovrano . Entrambe queste edizioni hanno richiesto due anni di preparazio-
Dipartimento Pennini: Nib Tip Welding, ovvero fase di posizionamento dell’irridium. Ogni pallina viene pressata e controllata singolarmente.
Artisan Atelier. Ogni committente di una Special Edition può vedere (telecamera sopra la scrivania) in ogni momento a che punto sono o come stanno andando i lavori del suo gioiello.
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Dipartimento Pennini: materiale di scarto dopo la prima fase di stampo (Black Cutting). L’oro dei pennini, che può essere 14 o 18 carati, in questo caso, andrà riciclato per un’altra lavorazione.
ne e della seconda non hanno ancora terminato la produzione, talmente è impegnativa nella cura dei dettagli. Ogni Limited Edition richiede sia molti anni di realizzazione sia un lungo tempo di preparazione del modello base. Un lavoro che implica non sono un alto livello di artigianalità, ma anche di creatività perché riuscire ad esprimere l'essenza di un personaggio o di un concept in uno spazio così piccolo come quello di una stilografica non è semplice. Uno dei modelli che ci ha lasciato più di sasso nella sua complessità ad esempio è quello realizzato per la Beijing Opera, d'oro 18 carati, in cui è riprodotta una maschera teatrale con 2000 pietre incastonate che la ricoprono, per un valore di 120000 euro e per un totale di soli tre pezzi al mondo.... Incredibile! Ma ancora di più è stato vedere tutti questi artigiani lavorare attenti su
pietre e dettagli. Ognuno di loro ha un compito preciso: c'è chi si dedica alla preparazione delle pietre (stone setter), chi al taglio (stone cutting), altri alla fresatura (milling) e alla realizzazione degli strumenti da lavoto (tool maker); c’è inoltre un reparto di ingegneria che si dedica alla funzionalità del prodotto già dalla fase di preparazione. Non tutti ovviamente possono fare questo lavoro: se è il vostro sogno, preparatevi per un lungo percorso che richiede sia studi specifici sia tre anni di apprendistato/master professionale in azienda in una delle categorie di lavorazione sopra indicate. Siamo passati poi al Dipartimento Pennini: la parte che più ci ha divertito, perché siamo entrati davvero nel vivo della produzione. In questo caso non stiamo parlando di edizioni particolari, ma di quelle che poi possiamo trovare sul mercato. Il sim-
Artisan Atelier: Stone Cutting. Fase in cui le minuscole pietre vengono tagliate.
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patico Axel Nier, responsabile di quest'area, ci ha raccontato che per terminare un pennino, ci vogliono dalle 30 alle 40 fasi di lavorazione, un numero incredibile per un oggetto così piccolo, e che i pennini esistono in otto misure, dalla EF (extra Fine) alla OBB (super grosso). La luce nell'ambiente è tanta, il rumore poco, nonostante le macchine impiegate (e tutte realizzate comunque da Montblanc, ad hoc per il tipo di funzione): qui a Montblanc, la risorsa umana è molto importante ed impiegata su ogni macchina. Come nasce un pennino? Inizia tutto da un sottile rullo d’oro, che viene diviso in tanti rettangolini: è una fase importante per decidere il peso del pennino che inciderà sul tipo di scrittura. I tipi d'oro impiegati sono di due tipi: 14 o 18 carati. Poi si passa allo stampo del pennino vero e proprio (Blank Cutting): ogni risultato della pressatura viene controllato da un lavoratore e la parte di scarto viene poi reciclata. Con un'altra pressa da cinque tonnellate, ciascun pennino, attraverso l'uso di un negativo-modello di stampa, viene inciso per poi dover assumere la sua tradizionale forma arcuata, attraverso l'utilizzo di un'altra pressa da 25 tonnellate. Segue il posizionamento del’irridium alla cima del pennino (Nib Tip Welding). Voi mi chiederete: “cos'è?”. Avete presente quella piccola pallina attraverso cui riuscite a scrivere e che sembra far parte da sempre del pennino? Non è così, viene aggiunta durante questa fase. Pensate che 100 granini di irridium hanno un costo di 4000 euro. Questa è una fase estremamente importante perché se viene incastonato male, cioè se non è perfettamente centrale, non riuscirete a scrivere. Segue il Cutting, ovvero il taglio centrale del pennino, quello da cui passa l'inchiostro, che viene fatto con una affilatissima lama di polvere di diamanti; il pennino viene poi rifinito nella sua curvatura a mano (Grinding by Hand) perché deve scrivere bene in tutti i modi in cui viene tenuta la stilografica. Essendo quest'ultimo un processo molto delicato e importante, chi viene impiegato qui, deve avere alle spalle almeno un anno di education. Il processo di colorazione del pennino è incredibile e personalmente un lavoro che, per la mia poca pazienza, non potrei mai fare: vengono messi dei microscopici adesivi sulle parti del pennino che devono rimanere dorate e poi viene fatto un lavaggio nel galvanico, che serve a dare una diversa colorazione all'altra parte. Gli ultimi due procedimenti che ci sono stati mostrati sono il Niib Settng, dove si controlla che nulla sia fuori posto, e il test di funzionamento. Quest'ultimo è incredibile, perché è un test prettamente uditivo (l'avreste mai detto!?!): in una stanza dove “non si sente volare una mosca”, si prende un pennino alla volta e con
dello speciale inchiostro trasparente, si prova a scrivere in tutte le inclinazioni e se ne verifica il reale funzinamento. Al termine del nostro giro qui, ci hanno fatto fare un esperimento davvero divertente chiamato Nib Tes, che ciascuno, se interessato ad acquistare una stilografica Montblanc, potrà fare in boutique: testare qual è la stilografica più adatta a sé, in base a come si tiene la penna, alla posizione della mano, alla velocità di scrittura in alcuni tratti piuttosto che altri... Insomma, se volete investire su un prodotto che vi rimarrà a vita, Montblanc vi fornisce anche i migliori strumenti di indagine. Il mio risultato ad esempio è stato che dovrei prendere un pennino OM, a metà tra la mezza misura e uno di quelli più grandi (la scala è in ordine: EF, F, M – i più sottili; B, BB – via di mezzo; OM, OB, OBB – i più grandi). La giornata è terminata con un ultimo giro all'azienda, in cui disseminati ovunque, dagli uffici ai magazzini, dalle scale alla mensa, abbiamo potuto ammirare i dipinti appartenenti alla Montblanc Cutting Edge Collection, una collezione d'opere d'arte realizzate ad hoc per il marchio, che hanno come soggetto l'ormai celebre stella Monblanc e che nasce con il proposito di finanziare e far conoscere giovani artisti di tutto il mondo, ma non solo, perché tra i tanti nomi spiccano anche quelli di LaChapelle, Lucy Liu, Sam Taylor-Wood... Un'impresa di ampio respiro e incredibile, perché Montblanc diventa così mecenate e veicolo di visibilità per tutti quei giovani che hanno bisogno di un appoggio per emergere. Alla fine di questo incredibile tour abbiamo capito perché Montblanc ci ha chiamato e volesse che parlassimo di lei attraverso i nostro i nostri occhi: perché è una azienda avanguardistica e fresca, nonostante produca oggetti che per molti potrebbero risultare antiquati e lo faccia con un sistema di lavoro artigianale nel rispetto e riconoscimento del valore umano. La sua forza sta nei concetti di tempo e bellezza: quello che creano non deve mai smettere di essere un oggetto di valore, anzi al massimo può solo incrementarlo. E' come se quello che viene creato fosse avvolto da una storia di incatesimo: ed eccoci tornati ancora una volta alla favola. Montblanc ha scelto con decisione una fetta di mercato, quella del lusso, e qui ha deciso di dare il meglio di sé, riuscendoci, ma l'ha fatto tenendo vivi i “valori di una volta”. Come loro stessi ci hanno insegnato, se una cosa è valida, durerà per sempre. Se l'obiettivo era guadagnarsi la cima del Monte Bianco, l'accampamento in vetta è stato piazzato da tempo ormai e nessuno ha ancora accennato a scendere. Anzi, si fanno già previsioni per la scalata di una vetta ancora più alta. www.montblancitalia.it
Artisan Atelier: Limited Editions in corso di lavorazione.
Nib Test: Axel Nier esamina i tratti della mia scrittura.
Abbiamo detto a Mr. Bethge che nella Montblanc “Cutting Edge Art Collection” mancava solo una importante interpretazione della famosa stella: la sua. Ce l’ha regalata in esclusiva.
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Intervista a Lutz Bethge Lutz Bethge ha 56 anni ed è il CEO Montblanc dal 2007. La sua in azienda, per allinearci alla metafora del Monte Bianco, è stata una dura e intensa scalata portata a termine con successo visto che da “Director Finance, Controlling and Legal” nel 1990 è riuscito a salire fino alla vetta più alta. Mr. Bethge si è rivelato una persona straordinariamente gentile e disponibile, umile e interessante (tanto che poi non ci siamo stupiti, più tardi, di vederlo in mensa che pranzava insieme a tutti i suoi lavoratori). Da quello che dice, dalla sua eleganza formale, ma dal sorriso contagioso, abbiamo capito il perché del ruolo del riveste. Abbiamo chiacchierato per un’ora circa di Montblanc, nuove tecnologie e design, su dove la sua azienda si colloca in tutta questa rivoluzione e quali sono gli step che vorrà compiere in futuro. Fino alla fine, quando timorosi per il suo ruolo, gli abbiamo chiesto di giocare con noi, sfidandolo quasi a dimostrarci se ha davvero un lato giovane e lui non c’è stato a pensare due volte. 24 PIG MAGAZINE
Descriva se stesso usando tre aggettivi? Passionale, una persona che crede nella bellezza e nell’eleganza, cose importanti per le persone perché migliorano la vita, ma anche nell’amore e nella famiglia. La passione e la convinzione sono fondamentali nella vita, ma anche nel lavoro per avere successo. C’è bisogno dell’amore e della famiglia per avere equilibrio nella vita. Ha parlato di bellezza. Qual è la sua idea di bellezza? La bellezza sta molto nell’occhio di chi guarda. Non penso che la bellezza possa essere definita, ma penso che si tratti qualcosa che ha la capacità di sorprenderti e di continuare a farlo per anni. Qualcosa di profondo, non solo l’ultimo trend, l’ultima moda, ma qualcosa che abbia stile, senza tempo. Come spiegherebbe il suo lavoro ad un bambino? E’ quello che ho provato a fare con i miei figli quando erano piccoli, senza successo (ride). Un giorno abbiamo portato tutte le famiglie sul posto di lavoro e nella fabbrica per una festa tutti insieme, e io ho portato i miei due figli. Abbiamo girato per la fabbrica e hanno potuto vedere come creavamo questo “piccolo gioco”, “macchina”, “trofeo”.. Qualcuno costruiva, un altro metteva insieme la macchina, qualcuno lucidava.. E alla fine si otteneva il risultato finale. La reazione è stata del tipo “Wow, loro fanno davvero qualcosa, tu stai solo seduto alla scrivania e parli al telefono”. Ma se vuoi la mia spiegazione riguardo al mio lavoro, lo collegherei al campo artistico. Come un direttore d’orchestra che deve assicurarsi che tutto vado bene. Quando gestisci una società è importante saper mettere gli esperti adatti nelle giuste posizioni e creare una squadra che vada oltre la semplice somma dei singoli talenti. Nel design, a mio parere, c’è un conflitto costante tra funzionalità e interpretazione artistica di un oggetto. Qual è la sua personale idea di design? La funzione è estremamente importante. La parola “funzionalità” è perfetta. Noi vogliamo creare una “compagna di vita”, un prodotto di valore, che piaccia non solo oggi, ma anche domani e per 20, 30 anni. Certamente occorre una perfezione qualitativa: la funzione e la qualità devono essere perfette, senza compromessi. Poi bisogna trovare il corretto equilibrio tra qualcosa che sia nuovo, diverso, bello, ma allo stesso tempo con un’eleganza senza tempo. Pensiamo alla moda. Ci piace molto la moda, ma quando compriamo un vestito sappiamo che questo un giorno diventerà fuori moda, lo ameremo solo per un periodo. Noi vogliamo creare qualcosa di duraturo. Come facciamo? Se
avessi la formula metematica sarei estremamente felice. E’ questione di equilibrio e di discussione sulle nuove idee per capire quali hanno la possibilità di diventare senza tempo. Cosa ne pensa dell’evoluzione-rivoluzione tecnologica. Si dice che stia finendo l’era del libro scritto, dei magazine, della scrittura. E’ d’accordo? Ha un iPad..? Ho un iPhone, un iPad.. Questo è il mondo moderno. Sono allergico e non credo ad un certo tipo di cose... E’ fantastico come queste invenzioni aggiungano funzionalità alla vita, possibilità che bisogna sfruttare, ma non significa che il resto scomparirà. Solo perché si può fare dell’arte con un computer o una stampante, non significa che non siamo più interessati a Raffaello. E’ totalmente un altro mondo. Amo molto leggere il giornale di mattina bevendo il caffè, il thè. E’ magnifico, una sorta di rito quotidiano. Quando sono sull’aereo e ho poco spazio, uso il mio iPad, ma non sostituirei mai il piacere del poter toccare e sentire la carta stampata di un giornale. Sono occasioni diverse. Per quanto riguarda la scrittura, faccio sempre una domanda quando vado nelle Università e in particolare alle ragazze. Ora con tutte queste tecnologie esistono ragazze che collezionano gli sms invece che le lettere d’amore? Per le lettere d’amore succede ancora, con gli sms o le email invece è impossibile provare la stessa emozione. Ovviamente sms e email sono molto utili, ma nella scrittura manuale c’è molta più passione, è tutta un’altra storia. E’ qualcosa come Michelangelo o Raffaello: una copia dei loro lavori manuali non sarebbe la stessa cosa. Nella scrittura c’è molta più connessione personale. Tra tutte le cose che Montblanc ha realizzato in campo artistico e culturale, qual è la cosa di cui va più fiero? E’ difficile dirlo perché abbiamo fatto moltissime cose. Ci sono però due cose in particolare e ti dirò il perché: sono progetti a lungo termine. Il primo è la sponsorizzazione di giovani atisti. Niente di spettacolare e di troppo costoso, cose da milioni di euro. Nel nostro mondo in rapida evoluzione penso che l’arte sia fondamentale, per equilibrare la nostra vita. Bisogna perciò supportare gli artisti giovani, dare loro la possibilità di crescere e perfezionare le loro abilità con la sicurezza di sapere cosa mangeranno domani. Li supportiamo in modi differenti, due in particolare: cerchiamo giovani artisti, li paghiamo per una loro opera, che sarà esposta in copia sei settimane in un anno, in tutti i nostri negozi. Insieme all’opera è esposto il loro CV, con le loro esperienze artistiche, le gallerie... L’altra cosa che apprezzo è la
sicurezza che gli artisti siano incoraggiati: seguiamo questo progetto dal 1992. Non è dedicato agli artisti, ma ai mecenati. Organizziamo questi eventi in cui invitiamo tante persone del mondo dell’arte, dei media e vengono presentati i progetti di sponsorizzazione artistica. Gli artisti vedono la vita da una prospettiva diversa. Parlare con un artista te lo fa capire. L’arte e la cultura sono molto importanti: ti ispirano e ti aiutano nella vita di tutti i giorni. Una sua definizione di successo? Successo per prima cosa significa lasciare una traccia nel tempo. Può essere nel campo degli affari, della società, della famiglia, in qualsiasi area della nostra vita quotidiana: significa fare qualcosa di cui sei veramente fiero, qualcosa che ti faccia cambiare la giornata. Può essere qualcosa di molto piccolo. Sta anche nella capacità di vedere, ad esempio, che i tuoi figli hanno bisogno d’aiuto anche se faticano ad aprirsi, in particolare da piccoli, ma spesso anche da più grandi. Dargli un piccolo consiglio. Successo è anche firmare un contratto che cambierà la situazione della tua azienda e del tuo conto in banca. Ci sono tanti tipi di successo. Trovare la donna della tua vita, anche questo è successo... Qualcosa che ti scalda il cuore. Come vede Montblanc tra dieci anni? Certamente Montblanc è molto cresciuta negli ultimi anni. Da marchio di “strumenti di scrittura” siamo diventati una casa con vari prodotti. Vendiamo “compagni di vita” di alta qualità e design senza tempo. Continueremo così, per soddisfare i nostri clienti. Voglio che i clienti che vengono a creare il loro “strumento di scrittura” nell’atelier si dicano “wow”, un lavoro di grande qualità,
raffinatezza.. Allo stesso tempo penso che avremo molte opportunità nei vari segmenti di vendita. Stiamo inoltre progredendo sempre nel design e nell’innovazione per i nostri clienti. Spesso mi è capitato che un cliente apprezzasse la nostra gioielleria, i nostri “strumenti di scrittura”, ma poi dicesse che voleva qualcosa di “suo”, che lo rappresentasse. Questo è il motivo per cui quando vieni da noi per creare il tuo “pezzo unico”, non ti chiediamo se vuoi una penna rossa o blu, ma quali sono le tue passioni, cosa ti piace.. Questa è una cosa che Montblanc continua a fare e ad espandere. Ora con un codice apposito, i nostri clienti possono sempre essere aggiornati sugli ultimi progressi, materiali. Per completare il prodotto ci vogliono uno, due anni e così possono seguire i progressi di quello che stiamo facendo. E’ tutta una produzione fatta a mano, abbiamo un’atelier con 50, 60 persone che creano solo un paio di centinaia di prodotti all’anno, tutto realizzato a mano, calcolando tutto al millimetro.. Qualche storia o leggenda particolare da raccontarmi? Ce ne sono molte... Uno dei prodotti leggendari è la Meisterstück, creata nel 1924, cioè è attuale da quella data perché non ha più subito cambiamenti: è un prodotto icona. E’ stata usata da capi di Stato e da Ministri di tutto il mondo. La più famosa è quella di Kennedy e Adenauer a Colonia (vedi pagine prima, ndr). Per questo la gente a Wall Street chiama la Meisterstück, “Power Pen”: dicono che sia la penna che firma il più alto numero di fusioni e acquisizioni, documenti tra capi di governo. Anche Obama, i primi giorni di governo, faceva intravedere una Meisterstück.
Artisan Atelier: Mrs. Bach ci mostra la Limited Edition dedicata a Chaplin e al suo Modern Times.
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PIG files
Di Rujana Rebernjak
More with less - Wood Veener Wood Veener è un progetto estremamente semplice che tiene conto sia del metodo di produzione che del materiale nella ricerca di produrre un pezzo che merita veramente l'etichetta 'di design'. Sgabello realizzato sovrapponendo i vecchi giornali, assieme ad alcuni fogli di compensato, tutto legato assieme son una corda. L'oggetto curvato riesce a sostenere una persona, dimostrando la resistenza della struttura interna e del processo di produzione. Potrete trovarlo su: www.designboom.com
Mari Thirteen Non so cosa ne pensa Enzo Mari di questo progetto, però lo inserisco soprattutto perché trovo interessante il modo di operare della D&A LAB. D&A LAB è un laboratorio che prova ad indagare il rapporto tra l’arte e la funzionalità del design, cercando di canalizzare la visone artistica attraverso il limite della funzionalità. In questo caso, Jonathan Monk ha deciso di riprodurre la sedia di Mari con 13 tipi di legno diversi che vanno a costruire ognuna delle 13 sedie. www.dna-lab.net
The Edition Of Six Il design italiano è sempre stato un punto di riferimento, anche se ultimamente a differenza di altre realtà, è diventato sempre meno interessante. Per controbattere questa tendenza conformista, un gruppo di sei designers ha presentato un’interessante collaborazione con gli artigiani locali, dalla quale è scaturita la realizzazione di alcuni dei progetti più belli dell’ultimo Salone. www.editionofsix.com
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Old Time Forse sembra difficile considerare una fionda come un oggetto di design, dato che tutti da piccoli allora eravamo designers, ma questa in particolare posside tutte le caratteristiche di un buon progetto. E’ realizzata con materiali naturali, di cui sfrutta tutte le caratteristiche sia funzionali che formali, che la rendono un oggetto dei vecchi tempi, da prendere assolutamente in considerazione. www.theoriginaltreeswing.com
Tom & Jerry Konstantin Grcic, nonostante sia ormai da tantissimo tempo sulla bocca di tutti, riesce a sorprendere ogni volta. Uno dei pochi designer che in quest'epoca di continua fame di novità riesce a restare fedele ai propri principi progettuali. Tom&Jerry sono due sgabelli realizzati per la Magis, il cui tentativo è quello di adattare i vecchi sgabelli da officina alla produzione industriale attraverso l'uso di un tipo particolare di plastica che non necessita di essere lubrificato. www.konstantin-grcic.com
Knot lamps
Copy by Kueng Caputo
Helmut Smits è un artista, designer, pensatore, creativo che tra i suoi progetti ha anche il bellissimo libro “123 Ideas”. Il progetto Knot Lamps sfrutta le caratteristiche intrinseche del materiale – i suoi nodi – per realizzare un prodotto senza nessun tipo di intervento. La semplicità del legno e la maturità del pensiero progettuale sono le caratteristiche principali di questo oggetto. www.helmutsmits.nl
Copy by Kueng Caputo è un progetto in continua evoluzione dei designer svizzeri Sarah Kueng e Lovis Caputo, già riunito nell’omonimo libro. I Kueng Caputo hanno capito che la copia non può che essere un omaggio all’originale, e attraverso questa serie di oggetti cercano di esplorare i limiti del plagio in un mercato dove esso è guidato da un pubblico di massa sempre meno critico. www.kueng-caputo.ch
Kake Hoki Che il design sia onnipresente è ormai ben chiaro. Ma che una scopa possa essere oggetto di design, forse a qualcuno potrebbe far venire dei dubbi. Invece, questo progetto, realizzato per l’unica azienda giapponese che produce scope e cercando di tracciare la produzione tradizionale, rende questo prodotto non solo progettualmente interessante ma anche estremamente bello. www.o-ji.jp
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Feature on Designer: Licia Florio www.liciaflorio.it - Intervista di Fabiana Fierotti
Licia Florio, designer emergente italiana, con la sua semplicità e il suo orgoglio femminile ha prodotto delle collezioni che sembrano fatte su misura per ognuna di noi. A breve lancerà il suo shop online e una nuova collezione unisex. Presentati. Quanti anni hai? Da dove vieni? Cosa fai nella vita? Classe '85. Sono nata e cresciuta in un paesino tra il lago Maggiore ed il lago d'Orta. A tempo pieno fashion designer. Che studi hai fatto? Sono diplomata all'Istituto Marangoni e ho fatto un master in scenografia e costumi per il teatroal politecnico e poi alcuni corsi tecnici da modellista. Con quale spirito sei arrivata a Milano? Avevo 19 anni. Mi sono trasferita con tutta la voglia di imparare, di immergermi nel mondo della moda, di studiare, di vivere la metropoli. Negli anni la città si è fatta più piccola, ma la passione è sempre la stessa. Quando e come è iniziata la tua avventura con il tuo brand? E' sempre stata la mia aspirazione. Dopo aver finito la scuola e dopo alcune esperienze in maison di moda, ho capito che la mia strada sarebbe stata quella di produrre qualcosa, una mia linea donna per comunicare la mia visione. Così un anno fa, ho disegnato in una settimana la prima spring-summer di Licia Florio 28 PIG MAGAZINE
e mi sono tuffata nella produzione. E da lì non mi son più fermata, scoprendo che mi piace seguire tutti i processi: da quello di stile a quello di produzione a quello della vendita. Qual è il tuo obiettivo in termini di estetica? Disegno e produco solo abiti che mi piacerebbe indossare. Passo molto tempo a fare ricerca, su riviste, libri, in strada e condividere la mia visione sul mio blog (liciaflorio.it/blog). Mi piace che chi indossa un mio abito ci possa giocare, indossandolo in contesti differenti, con diversi accessori. Parlaci della collezione fw11, qual è il tema? Ho pensato che la città fosse l'ecosistema contemporaneo, la foresta dove vivere tutti i giorni ed imparare. La collezione si muove quindi come nella poesia che ne è il manifesto. Ho disegnato abiti per una donna metropolitana che si muove in questo ambiente, attenta alla sua figura, capace di adattarsi a tutte le condizioni.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro? Mi piacerebbe far crescere il mio brand, soprattutto in termini di completezza e riconoscibilità. Stagione dopo stagione riuscire a far apprezzare il mio lavoro e avere persone felici di possedere un mio pezzo. La colonna sonora che ti ha accompagnata durante la creazione della tua ultima collezione? Ascolto radio online che rispecchino il mio umore del momento, ma anche molta musica francese. Ti occupi di altro oltre che del tuo brand? Sto lanciando un brand unisex L'F con il mio ragazzo (Francio Ferrari) ed un progetto di vendita online dei nostri brand ( ilflor ) . Se davvero c'è un'altra vita che ci aspetta, cosa ti aspetteresti? Vorrei poter continuare a fare quello che faccio, con amore e passione, con le persone con le quali condivido questa vita. Saresti uomo o donna? Donna naturalmente. Il tuo gelato preferito? Cioccolato molto fondente.
Blog of the Month: Destined To Design blog.jessicacomingore.com - Intervista a Jessica Comingore di Fabiana Fierotti
Jessica Comingore è una graphic designer che nel tempo libero dal lavoro si dedica al suo blog, un contenitore di ispirazioni, immagini, desideri e spunti estetici.
Ciao Jessica, come stai? Bene, grazie Mi sto godendo l'inizio dell'estate a Los Angeles! Cosa hai fatto oggi? Sono stata abbastanza impegnata a disegnare per un paio di clienti e pensare a nuovi post per il mio blog. Ma con l'intendo di rilassarmi un poco e prendere ispirazione, sto anche pianificando un viaggio in Spagna! Quindi vivi a Los Angeles, giusto? Si, vivo nell'affascinante L.A., nel quartiere Los Feliz dove ci sono ristoranti magnifici e giusto poco distante da Griffith Park. Che lavoro fai? Durante il giorno, lavoro come project manager e marketing director per un brand di interior design qui a L.A. Nel tempo libero, mi dedico a progetti grafici da freelance, il blog e la fotografia. Raccontaci di Destined to Design, quando hai deciso di lanciarlo? Perchè?
Mi piace riferirmi a Destined to Design come un diario visivo dato che per me sta diventando un posto dove archiviare tutte le cose che ammiro e che mi ispirano: design, arte, viaggi, cibo, musica... Ho iniziato nel 2007 quando ero ancora nuova nel mondo del design e volevo un posto dove collezionare tutte le immagini che mettevo insieme durante i processi creativi. Di cosa si tratta più nello specifico? Ruota tutto attorno alla semplicità e vivere una vita che sia ben curata. Che si tratti di un outfit, una playlist, una ricetta o una casa moderna, mi piace esser ben consapevole di ciò che mi circonda e ammirare la bellezza in cose non decorate, ma incredibilmente ben disegnate. Qual è il tuo approccio estetico alla vita? Less is more! Mi piace ridurre la vita alle necessità e cercare di circondarmi solo di cose che amo davvero.
Cosa ti ispira veramente? Altri creativi. Non c'è niente che riesca ad alimentare di più le mie ambizioni di leggere del successo di qualcun altro o sentire di qualcuno che ha rischiato tanto per seguire la sua passione. Cosa pensi dei blogger in generale? Penso che siano dei new-age trendsetters. Vengono ammirati perchè il loro gusto e opinioni sono di qualità, ma rimangono comunque relegati alla loro cerchia di lettori, trattandosi della ragazza della porta accanto. Sono curiosa di sapere come questo movimento si evolverà in futuro e che forme prenderà soprattutto. Quali sono i tuoi blog preferiti? Blue Pool Road, Pennyweight, Aubrey Road e The Blue Hour. Un segreto? Sono una grande fan di Sting & The Police e so quasi tutti i testi a memoria.
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Anntian Nella grigia Berlino, Anne e Christian sognano paradisi tropicali e mormorii dell'oceano. Si trastullano immaginandosi immersi in ceste di frutta colorata liberando le proprie fantasie a metà strada tra costruzioni impegnate e leggerezze da spiaggia: "Ocean View" è la collezione che accompagna la loro sesta stagione estiva come designers di Anntian. Il motto è divertirsi con la sperimentazione di tagli, stampe e colori, senza mai perdersi un passaggio nella realizzazione manuale di ogni capo, nato per essere già irreversibilmente unico. Nel mondo di Anntian c'è individualismo in toni scherzosi e l'artificio è magistralmente celato dalla leggerezza. www.anntian.de di Giulia Maria Tantussi
Christophe Lemaire Tutta la sua idea di grazia Christophe Lemaire l'ha voluta riassumere sulla vetta di un palazzo Parigino. Qui ogni sfumatura ricorda le tele di Foujita, ogni silhouette è una elegante citazione ai volumi di India e Giappone, decisa ma mai pesante, a voler celebrare un’armonia sofisticata tra sobrietà e sveltezza. Mannequin dai volti puliti incedono con Sakamoto di sottofondo, esaltando la voglia di un esotismo composto, di concetto. Pantaloni alla zuava, caftani, sete e cotoni, code lunghissime e pantofole di pelle sono un'attrattiva quasi romanzesca. Un' atmosfera tanto poetica da volerla sfruttare per mostrare sia collezione femminile che maschile, per la prima volta dal 2000, nella storia dell'Haute Couture Parigina. www.christophelemaire.com G.M.T. 30 PIG MAGAZINE
Arabella Ramsay Cresciuta da adolescente in una fattoria Australiana tra campi di verdure e vestiti cuciti a mano, Arabella Ramsay, è il prodotto di uno sguardo sincero verso il mondo. Raffinata l'esperienza con studi di Disegno Tessile in quel di Melbourne, Arabella si improvvisa Designer traducendo tutta l'innocenza e l'armonia con la natura in collezioni delicate, dai lineamenti femminili, in un sottofondo di echi folk e atmosfere retro. www.arabellaramsay.com G.M.T.
Keep on Mooving Con ben tredici anni di esperienza passati come cittadina del mondo tra Berlino, Pechino e Parigi, Svenja Specht, fashion designer con la passione per il graphic design, ha accumulato abbastanza sapere da fondare una realtà creativa matura. Svenja ama lo scambio ed è forse con questa spinta che è arrivata a collaborare con artisti come Jen Ray, Julie Gayard ed il marchio Onitsuka Tiger. Ed è intorno a spazi espositivi comuni come il Berlinese L-40 che si è diffuso il nome di Reality Studio, arrivato magistralmente ad unire la tradizione sartoriale della designer, ereditata dalla madre, e la capacità di veicolarla in qualcosa di artisticamente unico. In "A Moving Fashion Show on Bicycles" otto modelle girano per le strade di Berlino durante la Berlin Fashion Week mostrando l'intera collezione ss11 in bicicletta, per dimostrare la voglia di interazione con il pubblico e la presa di distanza da una concezione elitaria di arte. Una collezione che ricorda l'abbigliamento dei monaci buddisti e prende ispirazione dall'artista Californiano Flying Lotus confermando l'elemento androgino come punto di partenza dell'idea di seduzione espressa dal marchio. E se si chiede alla designer il perché di questa manifestazione insolita, Svenja Specht risponde: "Because we have to keep on moving". www.realitystudio.de G.M.T.
DressedUndressed DressedUndressed è un progetto attivo dal 2009 grazie al talento del duo giapponese formato da Takeshi Kitazawa ed Emiko Satoi, arrivato a narrare la propria filosofia creativa con la collezione "Self Religion", sintesi di ricerca spirituale, con un occhio attento alla storia del costume, ma sempre ispirato a paesaggi suburbani. Partiti da Tokyo nel 2009, con la prima collezione consistente solo di cinque capi, dalla ricerca dei materiali ai tagli, si sono resi artigiani del poco ma pensato. Evolversi nella ricerca senza mai tradire se stessi: questo, a detta loro, è l'atteggiamento del fenomeno minimalista giapponese che ancora oggi dopo un trentennio di innovazione, riesce ancora a stupire. www.dressedundressed.com G.M.T.
We just can’t get enough... Of Prada spring/summer 2011. Quando una collezione rasenta la perfezione... www.prada.com F.F.
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Jacquemus Simon Porte Jacquemus ha 21 anni, nasce nel sud della Francia ma vive a Parigi, ama la mozzarella e va matto per Isabelle Adjani. Dopo essersi annoiato alle dipendenze di Benoit Bethume, ha deciso che era arrivato il momento di produrre qualcosa di concreto. Ha capito di amare le donne acqua e sapone, proprio come sua madre, dalla quale ha tratto ispirazione da subito, iniziando a disegnare collezioni pure, tra le poche in grado di gioire dell'assenza del troppo. Sembra venire tutto dal caso nel mondo di Jacquemus: a chi chiede a cosa si sia ispirato per la sua collezione risponde che non è sicuro, ma in fase di ideazione mangiava junk food ascoltando Kate Bush. Magari l'ispirazione l'ha presa da lì. www.jacquemus.com GMT
Salar Manifattura e tradizione Made in Italy possono essere accessibili. Lo dimostra il marchio Salar, che nasce con la precisa intenzione di essere competitivo senza rinunciare ad un grammo di qualità. Specializzato in borse ed arrivato alla terza collezione, Salar riconferma l'esperienza nella lavorazione creativa della pelle affiancata ad un design sofisticato. Texture mosse, granulose, invecchiate fanno leva sulla memoria richiamando la tradizione della pelletteria Italiana, morbidezza e tagli sottolineano la voglia d'innovazione. Volumi fatiscenti padroneggiano le tinte unite, ed i colori primari, mediati dal tocco industriale grazie ad applicazioni metalliche oro-argento sintetizzano lusso tradizionale e capacità di evoluzione. www.salar.it G.M.T.
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Hannah Louise Buswell Si ispira a Sonia Rykiel l'inglese Hannah Louise Buswell, fresca di Royal College of Art come studentessa di knitwear, e decisa a catturare la scena condividendo il suo universo di colori accesi lavorati a maglia. Complice una visione della vita più che giocosa, l'ispirazione tratta dalle tele di Irvin e dalle geometrie colorate dei caleidoscopi, nasce "brightful", prima collezione della giovane designer in erba capace di scuotere la critica più pesa grazie ad una trascinante positività. www.hannahlouisebuswell.co.uk G.M.T.
Inghilterra anni ‘50 Oliver Spencer è un brand tutto inglese in giro da un pò di tempo. Per la Primavera/Estate 2011 un mix di tagli eleganti e rilassati sulle note degli anni '50. Un incrocio tra streetwear e tradizione sartoriale inglese che tanto piace a Rolling Stones e Benicio Del Toro. oliverspencer.co.uk M.B.
Energie Duro Olowu Il Nigeriano Duro Olowu è approdato dalla sua terra d'origine al cuore pulsante del folklore Londinese, Portobello Road, per poi venire acclamato fin oltre oceano dalla più hipster delle First Ladies: Mrs Obama. Il genio sta nell'aver trascinato con vere esplosioni di materiali e colori che sembrano perfettamente adeguarsi alla crescente voglia di positività del fashion system mondiale. Già premiato ai British Fashion Awards poco dopo il suo debutto nel 2004, Duro assicura di disegnare le stampe dei tessuti attingendo da una passione di lunga data per l'arte. Jamaicano da parte di madre, veste perfettamente i panni del multiculturalismo e fa di ogni esperienza un viaggio dai sapori multietnici: per l'ultimo casting ha chiesto l'aiuto prezioso del genio di Bethann Hardison scegliendo come testimonial del proprio mondo modelle dai lineamenti esotici, a testimoniare l'intenzione di abbracciare più mondi possibili. www.duroolowu.com G.M.T.
Energie con la collezione estiva 2011 prova ad avvolgere letteralmente con atmosfere hawaiane giacche e backpacks. I tratti urban-casual del marchio si mescolano così al sogno dell’onda perfetta, attingendo energia dal dinamismo spensierato della spiaggia e riversandolo nelle metropoli grazie all’utilizzo di tessuti maneggevoli e freschi. www.energie.it G.M.T
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Book Club Sul finire del 2009 l'australiana Camberra non era esattamente la capitale del fashion system. Eppure l'entusiasmo di due studenti universitari di 22 e 24 anni, Simo Gibson e Serge Bodulovic, e la loro nascente passione per il design applicato alla moda, è abbastanza per dar vita ad un piccolo universo creativo sotto il nome di Book Club. Si parte da una collezione di jeans in quantità limitata, per amici e conoscenti, sufficientemente interessante da attirare l'attenzione della stampa. Book Club prende piede e attira per la quantità di riferimenti stilistici presi da culture dominanti, da quella giapponese a quella europea, rielaborati secondo l'estetica rilassata, tipica della cultura giovane australiana. Book Club è figlio della tradizione stilistica di Hedi Slimane, Orjan Andersson e Raf Simmons alla quale ha unito il disimpegno di uno streetwear pulito senza voglia strafare. www.bkclb.com.au G.M.T.
A Kind of Guise... ...è un brand based in Monaco, Germania. Il loro percorso è iniziato nel 2009 con l'intenzione di creare un mix proveniente da diversi backgrounds e ispirazioni, mantenendo la produzione il più locale possibile come supporto al loro paese d'origine. Il loro motto è "Quello che creiamo è quello che siamo!". akindofguise.com M.B.
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Forgotten Future L’approccio sartoriale e l’attenzione alla manifattura sono gli obiettivi principali di Forgotten Future che per la collezione SS11 mira alla creazione di capi che guardino oltre le tendenze, promuovendo originalità ed individualismo. Silhouettes del secondo dopoguerra, proporzioni ampie, scale di grigio e rosa tenui con parentesi rosse accese, lievi accenni di patchwork, fantasie ispirate a intarsi geometrici e richiami ad una tradizione di sportswear anni quaranta; il brand si elegge maestro della rielaborazione creativa. www. forgottenfuture.co.uk G.M.T.
BREAD & BUTTER presents a SPORT & STREET production featuring TROY & TRAVIS COCO SUMANI BILLY BOYLE FATE MORGAN FACEMAN DUSTY McRHODES LEANN O‘GILFY •
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first class music acts TBA, be prepared for the 10 years BBB SUMMER HAPPENING from 06–08 JULY 2011 at Berlins historic AIRPORT BERLIN-TEMPELHOF check our website WWW.BREADANDBUTTER.COM/SPORTANDSTREET for more info
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Di Fabiana Fierotti
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1.Norma Kamali 2.Zimmermann 3.Lisa Marie Fernandez 4.Rag & Bone 5.Monki 6.Jetz by Jessica Allen 7.D&G 8.Rodarte 9.vintage 10.Urban Outfitters 11-12.Jetz by Jessica Allen 13.Lisa Marie Fernandez 14.vintage 15.Urban Outfitters
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1.Missoni Mare 2.Wesc 3.D&G 4.Kaliko 5.Super 6.3.1Philip Lim 7.Norma Kamali 8.Lisa Marie Fernandez 9.Rodarte 10.Couverture and The Garbstore 11.We Are Handsome 12.Seventh Wonderland 13.We Are Handsome 14.Kaliko 15.Jeffrey Campbell
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Photographer of the Month: Mark Peckmezian www.markpeckmezian.com - A cura di Sean Michael Beolchini
Mark Peckmezian è nato nel 1985 in Canada, un paese che negli ultimi anni ha giocato un importante ruolo nello scenario della fotografia indipendente. Come spesso si nota tra i suoi connazionali, anche Mark ha una caratteristica pulizia nei suoi scatti, che sporca solo con un layout che realizza personalmente per esprimere un suo concetto e soprattutto, dopo aver sviluppato e stampato le sue foto a mano, come si faceva una volta. Lavorando con vari formati e fortemente influenzato da una fotografia più artistica, Mark riesce a creare un insieme di “fine photography” e documentario, con il risultato di proporre una differente prospettiva.
Come ti chiami? Mark Peckmezian Di dove sei? Toronto, Canada. Dove vivi? Toronto. Ci campi con la fotografia? Qualche volta. Sempre di più. Non spesso come vorrei però. Se no, cosa lo fa? Lavoro servile. Quanti anni hai? 25. Quanti te ne senti? Molto più giovane per certi aspetti e molto più vecchio per altri. Quando hai iniziato a fotografare e perché? Ho iniziato in modo informale quando avevo 11 anni o giù di lì e più formalmente quando ne avevo 15, credo. L’arte è da sempre ciò che ho più a cuore e la fotografia fu di particolare attrazione durante la mia adolescenza. Sento come se avessi potuto prendere un’altra direzione però. Si tratta più di estetica o del senso delle cose? Le estetiche hanno un significato! Sto sempre più imparando questo concetto. La maggior parte delle cose che noi consideriamo puramente estetiche sono in realtà parte del significato complessivo di un’opera, se non il significato stesso. Lo stile è tutto, in un certo senso. Come descriveresti il tuo modo di fotografare? “Portraiture and documentary” (Ritrattistica e Documentario, ndr) è quello che dico solitamente: questo definisce a grandi linee quello che sto facendo. Un sacco di foto che faccio prendono vita solo quando vengono raggruppate, il che mi porta a credere che sia
la mia esperienza personale e la mia visione del mondo il soggetto del mio lavoro, ma non ne sono sicuro. Qual è la tua big picture? Sticking to whatever works Cosa altera le tue percezioni? Droghe, di solito. La meditazione, nel miglior modo possibile, ci riesce anche un po’. Cosa non ti piace della fotografia oggi? La “media cottura”, ciò che è poco interessante, asciutto, la fotografia d’arte concettuale. Questa roba ha un suo posto, ma non mi sento a mio agio a chiamarla arte. L’ arte che è completamente non affettiva manca di qualcosa di fondamentale, elementare. Un sacco di ciò che si definisce arte è solo per un elite e per addetti ai lavori, indipendentemente dal fatto che le persone che la realizzano la apprezzino o meno. Non credo che l’arte debba essere “di basso profilo”, ma che al di là di tutto ci sia un dibattito alto-basso. Cosa ami della fotografia oggi? La sua natura democratica. La maggior parte dei fotografi si lamenta di come sia a basso costo il prezzo d’ingresso, dove tutti in un mese possono spendere $500 e iniziare a produrre immagini che sono da subito troppo vicine a quello che era un prodotto per professionisti, ma penso che invece questo sia il più grande attributo della fotografia. Idee e visione personale sono ciò che importa; inoltre, non ci sono barriere preventive che ostacolino le persone a fare ciò che vogliono. Segui qualche regola? Se sì, quali? Non proprio. Cerco di essere il più non ideologico e pragmatico possibile, di seguire solamente quello che funziona. Da un punto di vista pratico, cerco di lavorare d’intuizione quando scatto, anche se credo che si debba pensare un sacco prima di scattare, in una sorta di impostazione dei parametri di un’in-
tuizione. Chi sono i tuoi fotografi preferiti? Non so se ne ho uno preferito, ma ho un debole per Diane Arbus. Un sacco di fotografi che mi piacciono, poi ad un certo punto non mi interessano più, ma lei posso dire che sia una fotografa che mi piace da sempre - e con sempre maggiore intensità in effetti. Sento una sorta di affinità con lei, anche se non mi illudo, cercando un confronto. Che tipo di macchina fotografica usi? Una varietà di macchine fotografiche: una Contax T2 o una Rollei per gli snapshot, una Hasselblad o una 4x5 per altri lavori. Che macchina vorresti usare? Mi piacerebbe una buona 35mm Rangefinder. Anche una Mamiya 7 sarebbe bella. Chi ti piacerebbe scattare in topless? Non sono sicuro di chi sia adatto per l’idea che avevo avuto. La nudità è difficile da usare, penso, più che altro che ha bisogno di essere giustificata perché non ne esca come un trucco o un’esca per lo spettatore. Non ho nulla contro il porno, ma qualcosa contro chi pretende che il porno sia arte. Chi dovrebbe essere il nostro prossimo fotografo del mese? Per cose documentaristiche, Andreas Meichsner ha un occhio davvero acuto e spirito, una sorta di ibrido tra Martin Parr e Joel Sternfeld (www.andreasmeichsner.de ). Quale sarà il tuo prossimo scatto? Nello stesso modo con cui scatto cani, voglio scattare fiori. Credo che ci sia un terreno maturo per l’esplorazione. Soggetti come cani e fiori sono un luogo così comune da risultare irrilevante, il che significa che sono altre cose, come lo stile, ad emergere. Credo che soggetti come quelli siano assolutamente dei buoni veicoli per un certo tipo di espressione.
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Come ti chiami? Hannah Bhuiya (stylist/writer) Cosa ti ha portato a Venezia? L'arte - la voglia di vivere l'arte e di scrivere di arte. Cosa ti porterai da Venezia? Tantissimi postumi. Qual è la cosa più interessante che hai visto legata alla Biennale? Penso che i giardini in generale siano bellissimi. Qual è la cosa più interessante che hai visto che non è legata alla Biennale? Fondazione Prada - sia il bellissimo palazzo Veneziano che le opere che vi si trovano - sia di arte contemporanea che i grandi movimenti storici. Era una situazione molto interessante, con Miuccia che si aggirava per il palazzo. Fondazione Prada è incredibile. Secondo te qual è il colore di questa Biennale? Rosa acceso.
Street Files: Biennale Venezia 2011 Foto di Tankboys
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Come ti chiami? Andy Kania, (artista). Cosa ti ha portato a Venezia? L'aereo. Questa è la quarta volta che vengo a Venezia per la Biennale; mi interessa scoprire in che direzione si sta evolvendo il mondo dell'arte, conoscere persone interessanti, raccogliere informazioni. Cosa ti porterai da Venezia? Molte esperienze, i piedi doloranti, il portafogli vuoto. Qual è la cosa più interessante che hai visto legata alla Biennale? Non ho ancora visto molto, per cui non posso parlare molto. Adesso andrò a vedere le mostre. Qual è la cosa più interessante che hai visto che non è legata alla Biennale? Un ristorante molto carino, in Giudecca di cui non ricordo il nome. Secondo te qual è il colore di questa Biennale? Penso sia giallo - ci sono moltissimi asiatici a Venezia non solo all'interno della Biennale ma anche in città in generale.
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Come ti chiami? Ekene Weoma, (Interaction designer) Cosa ti ha portato a Venezia? Siccome abito a Treviso perché attualmente sono a Fabrica, presso il dipartimento di interaction design, sono venuto a Venezia a fare un giro con gli amici. Cosa ti porterai da Venezia? Gli amici, il cibo e i vari festival che sto andando a vedere. Qual è la cosa più interessante che hai visto legata alla Biennale? Per adesso ho visto solo The Book Affair - la fiera mi è piaciuta molto, perché l'ambiente è molto rilassante, non devi essere qualcuno per sentirti a tuo agio.
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Come ti chiami? Carlotta Poli, (comunicazione presso Mousse Magazine) Cosa ti ha portato a Venezia? Lavoro e un po' anche la curiosità. Vieni a raccogliere i frutti di quello che hai fatto - abbiamo curato la comunicazione del padiglione Danese, inoltre abbiamo organizzato una festa assieme al padiglione Islandese e Momentum, la biennale nordica. Cosa ti porterai da Venezia? Spero di portarmi una conferma lavorativa, un successo dal punto di vista lavorativo, ma anche un po' di vita assieme ai ragazzi di Mousse fuori dall'ufficio, parlasi un po' vis a vis che non sia sempre davanti al computer. Qual è la cosa più interessante che hai visto legata alla Biennale? Ovviamente il padiglione Danese. Credo che sia un bel padiglione, impegnativo da vedere, perché tratta il tema della libertà di espressione, un tema estremamente attuale. Penso sia una bella mostra di un collettivo di 17 artisti. Inoltre penso che la cosa più bella siano le architetture di questi padiglioni ai giardini. Qual è la cosa più interessante che hai visto che non è legata alla Biennale? Il baccalà mantecato.
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Come ti chiami? Dafne Boggeri, (artista) Cosa ti ha portato a Venezia? Due cose: sono venuta come groupie di Camilla Candida Donzella che partecipa a The Book Affair, inoltre sabato ci sarà un evento collaterale del padiglione svizzero al Teatro Fondamenta Nuove. La curatrice di questo evento, Andrea Thal ci ha coinvolto come collettivo MOTHER nell'organizzazione di questo evento, e noi di conseguenza abbiamo coinvolto Mary Ocher che farà un concerto molto particolare. Cosa ti porterai da Venezia? La luce - c'è una luce fantastica qua, che a Milano non c'è. Qual è la cosa più interessante che hai visto legata alla Biennale? Ho visto degli accessori molto interessanti. Qual è la cosa più interessante che hai visto che non è legata alla Biennale? Ho visto un porta fiori meraviglioso - una struttura con dei cactus che da vicino non percepisci bene mentre da lontano diventa una sorpresa.
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Come ti chiami? Daniel Paida Larsen, (studente di arti visive) Cosa ti ha portato a Venezia? Sono venuto a Venezia per studiare allo IUAV, e soprattutto per essere presente a Venezia durante la Biennale, perché studio arti visive. Cosa ti porterai da Venezia? Beh, prima di tutto un'idea di quello che potrebbe essere la scena internazionale dell'arte oggi. Allo stesso tempo non sono sicuro che la Biennale sia l'evento migliore per scoprirlo perché alla fine quello che viene presentato passa una molteplice selezione. Qual è la cosa più interessante che hai visto legata alla Biennale? Per ora non ho visto molti lavori. Per ora posso dire che mi sia piaciuto il padiglione Greco nella sua semplicità. Qual è la cosa più interessante che hai visto che non è legata alla Biennale? Tutta la gente che ho incontrato in questi giorni.
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Come ti chiami? Anya Titova, (Artista) Cosa ti ha portato a Venezia? Sono stata invitata di Bice Curiger a partecipare nella mostra Illuminazioni; il mio lavoro è esposto alla sede dell'arsenale, il numero 39. Cosa ti porterai da Venezia? Negli ultimi giorni stavo allestendo il mio lavoro, e quindi sono piena di cose che non ho usato per l'opera - cose come i guanti, il colore, le mascherine - che penso si aggiungeranno ai miei bagagli. Qual è la cosa più interessante che hai visto legata alla Biennale? Non ho visto molto finora, però mi è piaciuta molto il lavoro di Mike Nielsen nel padiglione Gran Bretagna. Da come l'ho capito io, il suo lavoro è una sorta di ponte tra il suo modo di vedere Venezia e Istanbul. Mi è piaciuta molto l'idea di entrare in uno spazio che sembra una vecchia, quasi vuota casa di Venezia e invece trovare dentro un piccolo giardino che ricorda Istanbul dove si vedono solo dei muri ed il cielo. Secondo te qual è il colore di questa Biennale? Penso sia multicolore - e questo corrisponde bene al titolo di questa Biennale Illuminazioni - a multifide.
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JUEVES 14 thUrSday
THE STREETS
Paolo NuTiNi PENdulum PlaN B cHaSE & STaTuS coNgoTRoNicS vS RockERS feat. konono no.1 | deerhoof kasai allstars | juana molina | wildbirds & peacedrums | skeletons cRySTal FigHTERS doRiaN JuliETa vENEgaS
aLdO LINarES aNNa CaLVI GrUpO SaLVaJE hENry SaIz JaCk BEatS LayaBOUtS VIOLENS VIErNES 15 frIday
THE STRokES BRaNdoN FlowERS ElBow JamES muRPHy FRiENdly FiRES THE STRaNglERS
aTom RHumBa HERmaN duNE THE JuaN maclEaN NudoZuRdo thE 1945 aINara LEGardON thE MarzIpaN MaN thE MOrNING BENdErS O EMpErOr thE parIS rIOtS zOMBIE zOMBIE SÁBadO 16 SatUrday
aRcTic moNkEyS mumFoRd & SoNS PRimal ScREam present ScREamadElica BEiRuT Big audio dyNamiTE BomBay BicyclE cluB amaBlE aSTRud & col.lEcTiu BRoSSa loRi mEyERS
JErry fISh & thE MUdBUG CLUB LOGO MCENrOE NadadOra SMILE SpECtraLS taME IMpaLa dOMINGO 17 SUNday
aRcadE FiRE
PoRTiSHEad TiNiE TEmPaH NoaH & THE wHalE PRoFESSoR gREEN aNTòNia FoNT caTPEoPlE THE go! TEam THE Joy FoRmidaBlE
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Marcelo Burlon Tutti sanno chi sia Marcelo Burlon a Milano. E non solo, perché pure il New York Times gli ha dedicato un video. Qualsiasi evento lui firmi, diventa subito cool (lui è l’ideatore il fondatore, con Andrea Mazzantini, della celebre serata milanese Pink Is Punk); oltre a questo è anche blogger, pr, stylist, creative director, dj, fashion editor. Mi gira la testa! Marcelo è ovunque, ma mai a caso e cerca di ottenere il massimo da tutto quello che fa. Amico da tempi immemori di PIG, non ci potevamo esimere questa volta da un’intervista come si deve. Lo abbiamo raggiunto nella sua casa di Milano, dove tra un chiacchiera e l’altra, abbiamo cercato di scoprire la sua storia e il segreto della sua incredibile ascesa. Persona con un karma invidiabile e una costanza d’acciaio, ci ha affascinato e un po’ anche fatto invidia, perché no... Personalità in continuo fermento e movimento però, lo sapevamo che prima o poi ci avrebbe dato anche “La” famigerata notizia. Ed eccoci al dunque... Intervista di Valentina Barzaghi. Foto di Piotr Niepsuj Ciao Marcelo! Come va? Forse sono quella, che tra tutta la redazione di PIG ti conosce meno, quindi inizia da dove vuoi. Se vuoi conoscere me, devi alzare quella cosa lì. Io ovviamente alzo, uno strano gadget di legno a forma di indiano da cui sbuca repentino un pene gigantesco. Di questo mi avevano già detto qualcosa... Ok ok... capito... ma raccontami qualcosa della tua storia... Tu sei di origine argentina. Italia: perché e quando? Hai un ricordo particolare legato a questo momento della tua vita? Sono nato nel 1976. Sono arrivato in Italia nel Marzo del 1990, avevo 14 anni. In Italia perché mio padre è italiano e quando aveva 13 anni si è trasferito con i suoi genitori a Buenos Aires, nel dopoguerra. Mia mamma è argentina, ma i suoi genitori sono libanesi, trasferiti in Patagonia negli anni ‘30. Io appartengo ad una famiglia di immigranti da tutte e due le parti, e a mia volta sono un immigrante anch’io. Penso che sia una cosa che si ha nel DNA. Le generazioni prima iniziano e poi quelle dopo continuano il viaggio, io qui non mi fermo. Nel mio DNA c’è continuo movimento e quindi mi muoverò, infatti dall’Italia andrò via tra pochissimi anni. Dove? Ho pensato a New York, ho bisogno di un’esperienza forte come quella che mi potrebbe dare NYC, perché qui mi sto spegnendo un po’. Comunque continuo a seguire i miei progetti. Adesso ad esempio ho preso uno spazio in Via Custodi, che diventerà una sorta di “casa della cultura”, dove farò live show, brunch, unplugged. Uno spazio polifunzionale in cui potersi sfogare. Ho bisogno di nuovi stimoli e Milano mi sta
davvero stancando. Quali sono stati gli step che ti hanno portato ad essere il Marcelo Burlon che oggi intervistiamo? Diciamo innanzitutto che ho la terza media, non ho titoli di studio e quindi in qualche modo dovevo fare qualcosa, emergere da qualche parte. Ho studiato canto, ma quelle sai, sono cose che vanno un po’ così... non ti portano sempre da qualche parte e poi non era quello che volevo fare. Prima ho lavorato come operaio: la mia famiglia quando ha lasciato l’Argentina, è diventata di operai. Tu mi chiedevi un mio ricordo: la prima cosa che mi viene in mente sono i miei genitori che lavoravano un casino. Siamo passati da una vita super privilegiata, con un’agenzia di viaggio, un tabaccaio e una lavanderia in Patagonia, ad essere in Italia e a svegliarci alle 4 della mattina per andare a lavorare in fabbrica. Poi ho trovato una via di fuga nei locali, iniziando a guadagnare molti più soldi dei miei genitori: ballando sui cubi, portando la gente nei club. Ho trovato una mia strada. Abitavo nelle Marche, in un paesino sul mare bellissimo, che però non mi portava da nessuna parte, se non che a iniziare a fare uso di droghe. Ho fatto anche teatro sperimentale a Rimini; ero sempre alla ricerca di qualcosa e non avendo avuto la possibilità di studiare, cercavo altri sfoghi. A quel tempo facevo anche il modello di roba commerciale, tra cui una campagna importante per un marchio chiamato Nose, il fratello di Fornarina. La mia foto era ovunque. Avevo 15-16 anni. Erano gli anni della house, un po’ cyborg, quelli delle Buffalo sai... Gli anni ‘90. Li ho vissuti proprio in pieno. L’ecstasy: ho vissuto una bellissima esperienza anche con le droghe, poi compiuti i 21 ho capito che non era cosa.
Ho vissuto nelle Marche per otto anni dove ero diventato la faccia dei club più cool; giravamo spesso l’Italia per fare dei gemellaggi, come a Riccione. Smisi di prendere droghe grazie al buddhismo, perché mia mamma lo praticava, e questo mi ha aiutato tantissimo a decidere cosa volevo fare della mia vita: andar via da lì. Sono arrivato a Milano nel 1998 senza niente: non avevo soldi, conoscenze... Niente. Sapevo solo che volevo essere qui: una città in cui sfogarmi e crescere in qualche modo. Continuavo a fare il modello e il weekend tornavo nelle Marche a lavorare nei club dove mi pagavano molto bene, per pagarmi l’affitto a Milano. Abitavo in un loft sui Navigli con due amici, sai quelle robe tipo ventenni: dormivamo tutti nella stessa stanza. Un Carnevale decidemmo di fare una festa e di invitare gente che conoscevamo. La festa è diventata una delle più belle che fecero in città in quegli anni, perché c’era un insieme di persone e personaggi che fecero sì che quella casa si trasformasse in una sorta di club di NY anni ‘70 - tipo Studio 54. A questa festa c’erano anche i due che organizzavano il venerdì ai Magazzini Generali: Primo Piano Gallery, che all’epoca erano il top in città. Quello che sono oggi io a Milano, loro lo erano negli anni ‘90. Mi dissero che erano rimasti colpiti da questo mix di gente e di iniziare a lavorare per loro, mi diedero la responsabilità della porta dei Magazzini. All’epoca era la festa più bella, in fila trovavi Roisin Murphy, David LaChapelle, David Byrne... c’erano tutti. Era il posto dove, se arrivavi in città, andavi. Come puoi capire, essendo il responsabile della Porta, passavano tutti sotto le mie mani: decidevo io chi entrava, chi pagava, chi beveva gratis... avevo una sorta di potere. Lì ho iniziato a conoscere tut-
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ta la città e tutti iniziarono a conoscermi. Poi ho conosciuto Riccardo Tisci, che diventò il mio migliore amico e io il suo pr... come tutti sanno lui oggi fa Givenchy a Parigi. Anche Domenico Dolce mi chiese di lavorare per lui su un suo progetto, per pubbliche relazioni, eventi, ecc... Quindi dai club sono passato all’ufficio stampa. Ah! Step indietro: facendo la pubblicità per Nose, avevo conosciuto la pr di Milano, Susanna Ausoni, da cui alla fine ho fatto scuola, che mi disse che aveva un progetto per me... Io stavo pensando di andare a Londra, ma lei mi disse di aspettare, che qualcosa si sarebbe sbloccato. Tempo dopo la rincontrai a Milano e fu lei che mi portò nelle Marche a fare il responsabile ufficio stampa per Nose. Sempre a Milano, un giorno stavo camminan-
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do per strada e una coppia su un motorino mi grida “Marcelo”. Erano una coppia di amici, Jenna Barnett e Gianni Cirfiera: erano tornati da Chicago, dove avevano vissuto per qualche tempo, e hanno iniziato a frequentare le mie feste. Lei aveva un giro interessante e mi chiese di fare da pr per Armani e il suo anniversario di 25 anni come stilista. Quindi il mio vero battesimo a Milano è stato con Armani: avevamo fatto una festa pazzesca in cui c’era il mondo intero e io diedi il mio contributo portando tutta quella gente che fino a quel momento non aveva mai avuto la possibilità di raggiungere una festa di Armani. Fu così anche che iniziai a mettere insieme le mailing x stilisti, eventi ecc. Come oggi: il mio compito è di portare tutte le persone della strada, ma che vivono la città e magari
non frequentano certi giri, a questi eventi. Poi Riccardo, poi Domenico Dolce... Sembra che nella tua vita ci siano state una serie di fortunate coincidenze... Quanto è questo e quanta invece la tua bravura nel saper coltivare e far crescere ogni opportunità? Arrivai a Milano con solo una cosa: l’oggetto di culto buddhista. Tutto per me passava attraverso il buddhismo e questo ti dice che praticandolo, ti troverai al posto giusto al momento giusto. Ed è così. Il mio inizio di Milano è stato tutto all’insegna del buddhismo e della legge “Sutra del Loto”, la legge di causa-effetto. Volevo lavorare per D&G quando avevo 14 anni e ci sono arrivato. Un altro era lavorare per DIESEL e tutt’oggi lo faccio. Il carattere che ho, mi permette di
essere molto più rilassato, sciolto anche in determinati ambienti: è un altro punto di forza. Sono sudamericano e ho un modo di comunicare, un’indole, diversi da quelli italiani, da come sono stati abituati a Milano. Quando ero da D&G la pr aveva 60 anni e mi diceva “Non capisco tu cosa stai facendo” e io “Mi butto a rinfrescare la vostra azienda”. Ho portato una ventata d’aria fresca, che è anche il mio compito con gli eventi, introducendo tutta una nuova generazione di stilosi, nerd, artisti, studenti... che hanno delle idee, che poi metto anche sul mio blog. Qualche suggerimento di Marcelo Burlon per essere dei buoni imprenditori di se stessi. Avere delle idee chiare, non vagare. Se devi vendere un prodotto devi capire davvero
cos’è nella sua essenza. Oggi io vendo me stesso, tant’è che ho fatto le cartoline con la mia faccia. Mi hanno detto “sei uno sfigato”. E invece no, perché se le aziende vogliono me, vogliono la mia faccia, il mio mondo, la mia gente, la mia storia, il mio gruppo di hipsters. Altro... Di fare le cose col cuore, quelle che ti piacciono e che senti realmente che ci stai mettendo passione, altrimenti diventi una macchina e già di macchine ce ne sono a sufficienza. Tante macchine e pochi cuori. Tu sei blogger, pr, stylist, creative director, dj, fashion editor... aiuto! Uno: se dovessi scrivere la tua autobiografia, come la inizieresti? Non riuscivo a scendere dal cubo. Due: come riesci a gestire tutte queste cose? Mi racconti una tua giornata tipo? Gestire tutto sembrerebbe difficile, ma è facile. La cosa bella del mio lavoro è che mi concentro molto, ma magari per una settimana su un progetto. Lo consegno e cambio progetto. A volte si incrociano, ma ti dividi la giornata: fai due ore su un lavoro, tre su un altro... non è difficile. Alla mattina mi alzo alle 10, vado a yoga alle 11, per le 13 sono operativo e poi vado avanti senza orari, magari alle 3 di notte sto ancora lavorando. La fortuna di essere un libero professionista è che non hai orari e non dipendi da nessuno. Visto che sei un punto di riferimento in fatto di tendenze, tu quando eri giovane invece, quali seguivi (musica e moda), soprattutto nel tuo approccio milanese? Ovviamente il clubbing, perché era quella la mia storia, il filone house... C’è stato un momento molto bello di Milano, verso il 20002001, in cui tutto il mio gruppo di modaioli, gay... si è unito a quello skate, i writers... Tutto quel gruppo con cui magari prima ci snobbavamo, perché comunque eravamo due scuole completamente diverse. C’è stato un momento in cui il clubbing ha unito queste due realtà e ci siamo incontrati ai Magazzini, perché nella sala sotto (dove anni dopo Marcelo ha iniziato a organizzare il Pink Is Punk, ndr) facevano anche hip hop e io mi stavo un po’ spostando dalla house all’hip hop. Ovviamente facevo entrare gratis e bere pure tutto il loro gruppo, quindi ero diventato il loro migliore amico. Dumbo mi ha anche fatto un tatuaggio, che rappresenta insomma quel momento di Milano, quello in cui quei due mondi si sono incontrati e io mi sono spostato più verso l’hip hop. Avevi anche tu un tuo “pseudonimo”? No, ma scherzando taggavano loro il mio nome, che era Pluto. Dumbo, Pluto, Panda... questa era la storia. Su qualche muro si può ancora vedere Pluto (come in Via Forcella, ma anche in Piazza XXIV Maggio). Diciamo
che era una cosa scherzosa, non ho mai fatto seriamente. Cioè... non so scrivere con le bombolette... ma è stato molto bello. Perché secondo te nel 2011 intervistiamo Marcelo Burlon? Non prenderla in maniera offensiva, è una curiosità, per capire dove la nostra società ci sta portando e il significato di immagine che ci viene dato e trasmesso a livello mediatico, il suo potere. Ho visto video, interviste, partecipazioni a programmi radio e tv... sei ovunque... Diciamo che in questo momento rappresento internazionalmente Milano, molti me l’hanno detto “Tu stai rappresentando Milano; chi pensa a Milano, pensa a te” perché faccio progetti interessanti, carini, che piacciono... ad altri non piacciono... tipo se vedi il video del New York Times, i commenti che hanno lasciato, ce n’è qualcuno cattivo, ma vedi anche che hanno commentato con superficialità. Va bene anche quello... Vengo intervistato per eventi e altro, ma diciamo che dall’arrivo dei blog, di facebook e di altri social network, ci sono molti personaggi che sono spiccati e io sono uno di questi. Il personaggio più affascinante che hai incontrato durante la tua carriera? Marina Abramovic. L’ho incontrata l’anno scorso durante la mostra che ha fatto al MOMA. Givechy le aveva dedicato una cena e una festa. Poi ci siamo rivisti ad un’altra cena più intima, in cui abbiamo avuto modo di scambiare due chiacchiere molto interessanti. Il tuo sogno erotico? Il mio tipo è l’uomo con la barba! La barba per me è segno d’erotismo. La cosa più bella che hanno detto su di te? E la peggiore? Inizio dalla peggiore, per fortuna me l’hanno detta in faccia: che sono “fuffa”, niente. E’ stato un mio collega, una persona che fa il mio stesso lavoro e con cui ci odiamo. La migliore... Ce ne sono tante, non so, soprattutto nell’ultimo periodo, dopo New York Times e vari, in cui le persone magari iniziano anche a dare più valore a quello che faccio. Una domanda che nessuno ti ha mai fatto, ma a cui ti piacerebbe rispondere? Sei felice? Non me lo chiedono in tanti... E la risposta sarebbe? Sono molto solo, nonostante tutto. Passo molto tempo da solo e ci sto bene, ma uno magari pensa che con un certo tipo di lavoro sei sempre circondato da gente... Non è vero un cazzo. Ho i miei amici, la mia famiglia, i miei amici che sono la mia famiglia, visto che quella vera abita ancora nelle Marche. I miei amici sono “cinque persone”. Sono felice. www.marceloburlonblog.com
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Jamie Harley Jamie Harley, inglese di origine ma francese d’adozione, è l’ultimo profeta della tecnica del found footage film, un termine che indica quei lavori realizzati riassemblando in un nuovo contesto immagini preesistenti, spesso “rubate” da pellicole oscure e misconosciute. Jamie realizza così i suoi video musicali che si trasformano in un nuovi oggetti semantici. In poco tempo ha creato un nuovo trend nel settore audiovisivo, arrivando addirittura a colpire l’attenzione di Lady Gaga e del suo entourage. Ci ha rilasciato una delle sue primissime interviste. Intervista di Marco Lombardo. Foto di Emanuele Fontanesi Ciao Jamie. Raccontaci un po’ di te, del tuo background e di cosa ti ha spinto a diventare un filmmaker. Quando ero piccolo una delle mie zie ha sposato Toni Wilson, il fondatore della Factory Records. Hanno divorziato pochi anni dopo, io ero ancora un ragazzino. Nonostante non l’abbia conosciuto ha avuto un’influenza enorme su di me, soprattutto nel modo in cui è riuscito ad associare la cultura “alta” a quella popolare. Inoltre ho fatto parte della prima generazione di “Mtv kids”. Ero figlio unico e trascorrevo la maggior parte del mio tempo da solo davanti alla tv, guardando video musicali. Qualche anno più tardi ho cominciato a lavorare nell’ambito della computer animation ed è stato naturale iniziare a girare videoclip. Il mio primo lavoro ufficiale è stato una collaborazione con Malcom Mclaren, un cortometraggio per la tv francese intitolato The Biology Of Machines. Dopodiché ho diretto video musicali “convenzionali” per quasi dieci anni, soprattutto per indie band inglesi e ho anche fatto qualche pubblicità. Ma non sono mai stato del tutto soddisfatto dei risultati. Le band con cui lavoravo non erano granché e i budget si abbassavano di anno in anno, per via della crisi. Così tre anni fa ho deciso di smettere. Quando hai capito di voler fare il regista? Sin dall’adolescenza ero sicuro che sarei diventato un artista. Quando ho diretto il mio primo video musicale ho capito che sarebbe stato il mio lavoro ideale. Lavori anche come music supervisor. Che cos’è Schmooze e di cosa si occupa? E’ una compagnia creata dieci anni fa da uno dei miei migliori amici. Forniamo
consulenze musicali per grandi produzioni come le pubblicità della Pepsi, di Chanel, della Lancome o film come Dog Pound, The Time That Remains, Espion(s). Io seguo l’art direction. In pratica seleziono la musica che finirà negli spot o nelle scene di un film oppure scelgo i compositori per le colonne sonore. Che tipo di educazione hai avuto? Dove sei cresciuto? Sono nato a Manchester nel 1973. La mia famiglia si è poi trasferita in Francia per lavoro quando avevo tre anni. Ho vissuto a Versailles in una comunità cristiana di emigrati americani, un ambiente molto religioso. Ero un bambino solitario, con pochissimi contatti con il mondo esterno. I dischi, i libri e i film erano l’unico modo per sfuggire da quella realtà. Non ho studiato granché nella mia vita. Sono andato all’università per pochissimi mesi poi ho smesso e mi sono messo a lavorare. Vivi a Parigi. Cosa ti piace di più della capitale francese? Ogni mattina mi prendo mezzora per leggere i giornali in un caffè a pochi passi da casa mia a Montmartre. E ogni volta mi sento fortunato. E’ difficile spiegare il fascino di una città, così come è difficile spiegare quello di una persona. Hai un ufficio? Lavoro da casa, che è molto comodo ma allo stesso tempo vuol dire non staccare mai del tutto. Sei sposato? Hai figli? Mi sono sposato appena ventenne. Facevo il dj in un club di Parigi. Una notte ho incontrato una ragazza, mi sono innamorato e l’ho sposata due mesi dopo. Stiamo ancora insieme. Non abbiamo bambini.
Forse capiterà presto. Come ci si sente a essere uno dei registi di videoclip più in voga del momento? Ovviamente è gratificante ma cerco di concentrarmi più che posso sul lavoro e non pensare troppo a quello che dicono di me. Il mondo dell’industria discografica funziona a ondate. Un giorno sei trendy, il giorno dopo ti hanno dimenticato. Quando hai iniziato a lavorare con la tecnica del “found footage film” di cui sei uno dei precursori e il rappresentante forse più autorevole? E’ uno stile che va per la maggiore ultimamente nell’ambiente dei video musicali... Il primo lavoro che ho fatto è stato per Memoryhouse. Ho un blog musicale, www. schmooze-blog.com, dove posto soltanto clip. C’era questa canzone, Sleep Patterns, che mi piaceva molto ma non aveva un video. Così ho preso alcune immagini da un film che avevo appena visto, le ho montate sopra la canzone e ho messo il tutto online. Il risultato è stato subito incoraggiante. Pitchfork e altre testate giornalistiche ne hanno parlato immediatamente e così ho pensato: “facciamone altri!”. Qual è secondo te l’aspetto più interessante di questa tecnica? Mi piace associare significanti culturali diversi, provare a tracciare delle connessioni tra cose che sembrano del tutto scollegate. Trovo interessante l’aspetto morale di tutta la faccenda. C’è una linea sottile tra il rubare immagini altrui e creare con esse un nuovo oggetto creativo. Ogni volta che faccio un video mi scontro con questo dibattito interiore. Quanti film guardi alla settimana? Di solito vedo almeno due film al giorno.
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“Cerco del nuovo girato in continuazione. E’ quasi un’ossessione. Registro molti film dalla televisione, compro un sacco di dvd di seconda mano e faccio parte di un paio di community online dedicate allo scambio di pellicole fuori catalogo. Ogni volta che vedo una scena interessante la estraggo e la metto nel mio archivio”. Ma per lo più li guardo con il fast forward per trovare delle scene interessanti da usare. Devi essere costantemente alla ricerca di nuovi film e nuove immagini. Hai un archivio? Dove prendi tutto il materiale? Possiedi i diritti dei sample che usi? Cerco del nuovo girato in continuazione. E’ quasi un’ossessione. Registro molti film dalla televisione, compro un sacco di dvd di seconda mano e faccio parte di un paio di community online dedicate allo scambio di pellicole fuori catalogo. Ogni volta che vedo una scena interessante la estraggo e la metto nel mio archivio. Non possiedo alcun copyright ed è per questo che non guadagno nulla da quei video. Immagino che tu sia sommerso di richieste ultimamente. In base a cosa decidi se accettare o meno un lavoro? Prima di tutto devo essere in grado di aggiungere qualcosa alla canzone che mi viene proposta. Poi è importante che sia in sintonia con l’artista con cui collaboro. Se penso che il suo interesse nei miei confronti non sia genuino, ma legato soltanto alla visibiltà che posso dargli, non se ne fa nulla. Il video di cui sei più orgoglioso? Potrebbe sembrare strano perché il mio apporto è stato davvero minimo ma quello che preferisco è Lover Start di How To Dress Well. Mi ci sono voluti solo cinque minuti per realizzarlo. Il tempo di sovrapporre le immagini alla musica. Poi ha preso una vita propria. In fondo io non creo nulla, faccio solo in modo che le cose accadano. Quanto è importante la fase di postproduzione nei tuoi video? Faccio molta attenzione a dosarla. Cerco di limitare l’uso di effetti il più possibile perché è troppo facile farsi prendere la mano. Se un lavoro funziona già in fase di sovrapposizione evito di intervenire per farlo mio. Il risultato finale è l’unica cosa che conta. Chi ti ha coinvolto in Editing Kate, il progetto di Showstudio teso a
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promuovere il genere emergente dei fashion film? E’ stato Matthew William, l’art director di Lady Gaga, che dopo aver visto alcuni miei video ha deciso di contattarmi. In quel periodo stava lavorando con Nick Knight e gli ha suggerito di collaborare con me. Avevo già una grande stima per Nick ma dopo averlo incontrato è diventato uno dei miei modelli. Che tipo di approccio hai avuto alla cosa? Volevo ottenere un risultato molto semplice, come un videoclip minimale. Ho usato solo una scena del girato che avevo a disposizione affinché Kate Moss non sembrasse una modella ma il personaggio di una storia. Conoscevi qualche fashion film prima di questa esperienza? Non molti, ma amavo quelli di Guy Bourdin. Mi racconti una tua giornata tipo? Mi sveglio sempre molto presto, alle 5,30 del mattino, e lavoro per le restanti venti ore. Nel frattempo bevo un sacco di caffè e fumo troppe sigarette, per essere onesto nel pomeriggio mi faccio anche un riposino veloce. Raccontami del tuo rapporto speciale con How To Dress Well. Passiamo un sacco di tempo a scambiarci idee e sensazioni. Mi piace lavorare con lui perché considera i video come delle opere d’arte e non un veicolo promozionale. Come sei entrato in contatto con Twin Shadow? Conosceva alcune mie cose e mi ha contattato via email spedendomi il brano Castles In The Snow. Me ne sono subito innamorato. Così ho iniziato a cercare del materiale documentaristico di giovani che avessero un aspetto duro e orgoglioso ma allo stesso tempo apparissero molto fragili. Alla fine ho trovato questo documentario sulla scena punk anni ottanta di Sao Paulo. Calzava a pennello. Che tipo di budget hai quando giri un video? Per me è solo una questione di libertà
artistica. Non guadagno nulla. Non possiedo i copyright del materiale che uso. Lo faccio solo per il gusto dell’arte. Non potrei mai arricchirmi su qualcosa che non mi appartiene. Ovviamente me lo posso permettere perché ho già un altro lavoro che mi paga le bollette. Non considero gli artisti con cui lavoro come dei clienti. Per me è importante stabilire con loro un contatto speciale per creare delle opere che possano soddisfare una mia ricerca estetica. Ci sono dei temi ricorrenti nei tuoi clip? Cerco il più possibile di non ripetermi. Ciò che li accomuna però è la totale assenza di ironia. Anche quando uso personaggi come Pamela Anderson o David Copperfield, li tratto come esseri umani e non come icone kitsch. I registi che ti hanno influenzato? Douglas Sirk, Joseph Mankiewicz, Mario Bava, Nicolas Winding Refn, Koji Wakamatsu, Brian De Palma e molti molti altri. Che musica stai ascoltando in questo periodo? Sparks, Harry Nilsson, Franco Battiato, Wire, A.R. Kane, Beach Boys. Come ti vedi tra dieci anni? Spero di essere impegnato in qualcosa che oggi non riesco neanche a immaginare. Il tuo pittore preferito? Francis Bacon. L’attore? Rutger Hauer. Tre aggettivi per descrivere come ti senti in questo momento? Esausto, preoccupato, eccitato. Nuovi progetti a cui stai lavorando? Una pubblicità per Esprit e una serie di nuovi video per How To Dress Well, Korallreven e Koudlam. Il film più sottovalutato di tutti i tempi? Speed Racer. Il blockbuster più sperimentale degli ultimi anni. Cos’è meglio di un film? Un video musicale!
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Walter Pfeiffer Intervista e foto di Sean Michael Beolchini
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Walter Pfeiffer nasce nel 1946 a Zurigo. Qui svolge i suoi studi per poi laurearsi come grafico ed illustratore. Salta da un lavoro all’altro, ma la sua continua ricerca estetica lo introduce ad un nuovo mondo legato alla fotografia, dove inizia a documentare la sua cerchia di amici ed amanti. Timidamente si introduce al pubblico nel 1974 con una mostra collettiva, di nome “Transformer”, un titolo preso in prestito dall’album di Lou Reed di due anni prima. Il suo contributo sono le foto di Carlo, un transessuale che Walter fotografa sia nella versione maschile che nella trasformazione femminile. Nasce così il genere di Walter. Poco dopo esce il primo libro di Walter, intitolato semplicemente “Walter Pfeiffer: 1970-1980”. Sulla copertina, un’immagine viziosa di una bambola di Ken con una mano infilata nelle mutande, per introdurre il tono delle allora scioccanti immagini che si trovavano all’interno. Ragazzi spesso nudi, che giocano tra di loro, drag queen e scatti ravvicinati di fanciulli in tutto il loro splendore: cazzi, culi, pettorali e tanti sorrisi. Questi scatti sono mescolati con foto di scena casuali, paesaggi, giochi di luci e le immagini dei gatti di Walter. Il libro viene immediatamente considerato un cult e Walter guadagna fama nella scena underground. Eppure, anche se molto influente, la fotografia di Walter Pfeiffer è rimasta un segreto relativamente ben conservato per quasi trent’ anni. Tutto questo cambia nel 2007, quando i-D lo contatta e gli commissiona un editoriale di dodici pagine. Poco dopo, Tom Ford lo chiama per scattare il suo ritratto, insistendo che non vuole nessun altro se non lui: gli invia una Bentley e uno chauffeur per portarlo alla location. Quella foto di Tom a casa, in accappatoio contro una serigrafia di Andy Warhol, ha segnato un trionfo per il Walter Pfeiffer mainstream. Poco dopo arrivano le richieste da GQ, Vogue Homme International, Vogue Parigi e ultimamente T Magazine, W Magazine e le campagne per Pringle of Scotland. Proprio durante la sua visita a Milano per la sfilata di Pringle of Scotland, ho avuto finalmente la fortuna di conoscere uno dei miei fotografi preferiti. Leghiamo subito e visto il poco tempo disponibile a Milano decidiamo di continuare il discorso a casa sua a Zurigo, durante una mia visita in Svizzera. Mentre mi mostra i diari personali che tiene da oltre vent’anni anni, i disegni dell’inizio della sua carriera d’artista e la collezione di cappellini Supreme, mi racconta la sua storia e il successo inaspettato (da parte sua), ma atteso per trent’anni da tutti gli altri.
Ciao Walter! Grazie mille per avermi invitato a casa tua. Ho letto così tante interviste sulla tua storia, che vorrei quindi iniziare parlando un po’ di te e di cosa stai facendo oggi. Quanti anni hai? Ci tengo a dire che vivo in età classica. Quanti anni ti senti? Dipende dai giorni... Proprio oggi mi sento giovane. Ma ci sono giorni in cui mi sento vecchio, non cerco di nasconderlo. Dove vivi? A Zurigo. E’ un buon posto dove vivere oggi? Sì, ai giorni nostri è ottimo. Intendo dire che dieci o venti anni fa era una storia diversa: dovevi viaggiare fino a Parigi, Londra, Milano o Roma per lavorare. Ma oggi puoi lavorare anche da Zurigo, o avere come base Zurigo e impostare tutto direttamente da casa: questo lo rende molto meglio e facile. Concludendo: sì, ora mi piace. Voglio dire, credo che sia un tantino tardi per me per decidere di cambiare città a questo punto della mia vita, no!?! (ride) Sei felice qui? Certo!
Stai tenendo d’occhio qualche fotografo giovane? No, devo dire che il mio background sia più derivante da un punto di vista artistico, che è come mi è stato insegnato a scuola e ho mantenuto questa passione, dopo tutti questi anni trovo ancora il mio interesse estetico nell’arte classica. Ora che ci penso, la cosa mi fa sentire abbastanza vecchio... Lo faccio guardando del materiale nuovo, ma lo guardo con una prospettiva completamente diversa, quasi osservandolo con curiosità, vedendo le cose che cambiano e si evolvono, o forse provando tristezza verso quelle per cui non è cambiato nulla. Non le osservo in cerca di ispirazione o di idee. Per me l’ispirazione si trova nella vita quotidiana, guardando le persone che camminano per la strada, quello che tengono in mano, come sono vestiti, perché hanno scelto quella determinata pelliccia... Ma non guardo un libro per essere ispirato, non per pianificare il mio lavoro. Vengo dal mondo dell’arte, dal mondo dell’arte classica italiana dovrei dire, Rinascimento... Come me!!! (ride) No, non ho intenzione di incominciare a citare il come e il quando altrimenti non
finiremmo più. Avevi un mentore quando hai iniziato a lavorare? Sì, avevo un mentore quando ero giovane; in verità ne ho avuto più d’uno, ciascuno per una fase diversa della mia vita. Il mio primo mentore, quando ero giovane e un sipario ancora chiuso, fu il proprietario di una scuola d’arte di Zurigo che frequentai. Fu lui ad aprire il sipario. Mi prese con sé, mi formò dalla testa ai piedi, mi mostrò tutto il possibile, aprendo i miei occhi per un raggio davvero ampio. Fu lui a farmi conoscere l’incredibile Duchamp. Da lui ho capito le varie esplorazioni che l’arte aveva fatto fino a quel momento. Il mio secondo mentore, Jean Christophe Amman, fu il primo a mostrare il mio lavoro. E mi spinse sempre di più. Non era mai soddisfatto dei miei risultati; quando gli mostravo i miei lavori, li analizzava a fondo e mi diceva di scavare ancora di più e come ottenere certi concetti, volendo sempre di più e ancora di più! Uscivo sempre dal suo studio con una faccia lunga e arrabbiata, sentendomi vuoto. Ma alla fine lui fu il più importante, perché fu colui che mi spinse
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più lontano. Con lui feci il mio primo libro: Walter Pfeiffer 1970-1980. La sua visione e le sue idee così ferme furono la miglior direttiva che potessi avere. Voglio dire... A quei tempi i cazzi non erano nei libri, ma lui insistette per metterli in un libro e raggiungere una certa attenzione, un’affermazione che fu avanti per il tempo. Mi ha sempre spinto... Senti di essere stato un mentore per qualcuno? No so se mi definirei un mentore, credo che sia una cosa che uno non possa dire di
Stavo insegnando ad un workshop alla Scuola d’Arte in Svizzera e stavo cercando un ragazzo giovane che mi facesse da modello. Linus era uno studente di questo workshop e pensai che la sua immagine era perfetta per il tipo di lavoro che avevo in mente. Feci un sacco di foto stupende di lui. Dopo siamo diventati più stretti e parlando, abbiamo condiviso un sacco di interessi e punti di vista, dopodiché è diventato il mio assistente. Molti dei ragazzi con cui ho lavorato crescendo mi hanno annoiato in poco tempo e sarebbero poi finiti a fare il militare,
Stai tenendo qualche lecture? O insegnando in qualche istituto? Oh sì sì! E mi piace un sacco! Questo weekend terrò un workshop con degli studenti a Zurigo. Mi piacciono questi progetti perché durano solo quattro-cinque giorni e sono intensivi. Non interferiscono troppo con le altre cose che ho da fare. Il tema di questo è “We Are Family” e ci stiamo impratichendo per fotografare gruppi di persone i più ampi possibili. Queste occasioni sono anche un buon modo per conoscere gente, il che ci riporta a Linus Bill, che ora
se stesso, ma deve essere definito tale da qualcun altro... Comunque ho sempre avuto giovani artisti attorno a me, che mi assistevano. Imparavano un sacco da me mentre lavoravamo, ma credo anch’io di aver imparato molto da loro. Uno dei miei preferiti è stato Linus Bill, un ragazzo con un talento incredibile; mi piace molto il suo modo di pensare. Linus Bill! Sì, sono un suo grande fan sia come persona sia come fotografo, fu una delle mie prime interviste. Come lo hai conosciuto?
ma con Linus è stato diverso. Un consiglio che daresti loro? Non vivere troppo in fretta, di fermarsi e guardarsi attorno o si perderanno un sacco di dettagli. Inoltre, di non affrettare le cose; voglio dire, al giorno d’oggi vedo tanta ambizione, che è buono, ma quando sei un pazzo ambizioso e ti muovi troppo velocemente, credo che lascerai il segno. Sarai famoso per qualche anno, ma nulla di più... Ecco perché sono felice della mia età classica: prendo le cose lentamente, con il mio ritmo.
conosciamo! Sembri molto entusiasta di questo. Cosa credi che (i ragazzi) pensino di te? Spero che mi amino come io amo loro. Sì, devo dire che se il progetto mi coinvolge, mi ci butto a picco e ne rimango entusiasta... Forse troppo? Mi presento con tutti i miei props, i miei colori e le mie idee; e creiamo... Parlami della tua nuova carriera come “Fotografo di moda”! Il tuo lavoro è stato venerato dagli anni ‘80 tra tutti i publishers underground, le zines indipendenti
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e i collezionisti d’arte. Ma recentemente sono i fashion brand e le riviste commerciali che commissionano il tuo nuovo lavoro. Ho visto Vogue Paris, Vogue Homme International, New York Times Magazine e anche Pringle of Scotland, tra i tuoi ultimi successi. Cosa ne pensi? Mi sono sempre tenuto occupato durante la mia vita e dall’inizio della mia carriera professionale sono stato coinvolto dal fashion in qualche modo. Divertente, non abbastanza per fotografarlo. Porti la macchina fotografica sempre con
clienti grossi, uso questa nuova macchina fotografica digitale e tecnologica. Sono così abituati a vedere il risultato del lavoro in modo immediato, che spesso ho la selezione delle foto prima della fine della giornata. Sì, ma il tuo personalissimo tocco, lo si può riconoscere anche quando lavori in digitale. Grazie! Penso che la macchina fotografica in se stessa non cambierà il senso che tu vuoi dare a una fotografia e non credo che dovrebbe. Nel corso degli anni ho scattato con ogni tipo di macchina fotografica che mi è
servizio. Anche oggi, col digitale! Sì, vedo che sei stato fedele allo stesso punto di vista e approccio; le foto col flash sono un tratto distintivo del tuo stile. Perché la scelta di scattare col flash? Non è stata propriamente una scelta. Sono così nervoso che mi tremano le mani, quindi ho iniziato così come necessità per avere foto belle nitide, ma amo il flash! Il tuo anno di residenza a New York fu il momento del grande cambiamento, quasi l’innesco del processo di formazione. Cosa successe là?
te? (Mostramela! Mentre lo dico estrae una Contax T2 splendidamente tenuta dalla sua borsa) Beh, quasi sempre, la dimentico qualche volta ora data la mia tenera età...E mi trovo fuori e vedo tutte queste cose magnifiche e mi arrabbio così tanto che la mia macchina fotografica sia a casa a riposare... Hai una macchina fotografica digitale? Sì. Ultimamente ho deciso di prenderne una per i lavori che mi commissionano oggi. Quando è uno shooting per cose mie uso la mia fedele Contax, ma quando lavoro con
passata per le mani - non sono un tecnico, sono istintivo. Un cliente o un Art Director ha mai criticato le tue scelte? Non lo chiamerei criticare, ma è abbastanza divertente, perché scatto solo una o due volte e dico: “Ok, ho fatto!”. E rimangono lì tutti del tipo: “Cosa vuol dire fatto? Voglio dire, non vuoi scattare di più? Sei sicuro?” ecc... Ma ho sempre lavorato così da quando ho iniziato, quando non avevo molti soldi e quindi dovevo tirar fuori il meglio da ogni fotogramma ed essere sicuro di avere il
Certo! Era il 1980 e avevo appena ottenuto la residenza in una delle città che più mi avevano incuriosito durante gli anni giovanili. Erano gli anni di Roxies, c’era un movimento punk vs disco, c’erano i Pink Flamingoes e il sorgere di un nuovo tipo di film a basso costo: tutto stava accadendo! Oh! Quindi come ci sei riuscito? Era così diverso da quello a cui ero abituato... La prima cosa che feci è stata quella di buttare via tutti i miei abiti e di prenderne di nuovi ai thrift stores; tinsi i miei capelli e volevo andare ovunque, così iniziai da tutte
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“Penso che sia il mio entusiasmo l’unica cosa che a volte supera e mette fuori gioco la mia timidezza... Credo sia la mia sfida”. le retrospettive e proiezioni che potevo. Avevo portato la bozza del mio primo libro (che poi divenne il famigerato 1970-1980, che creò scalpore alla sua pubblicazione per i suoi contenuti e la sua nudità omosessuale esplicita). Il mio sogno era quello di portarlo a Andy Warhol e a Interview Magazine, ma era la mia copia in versione xerox e avevo vergogna... Vuol dire che non sei mai andato? No! Mi rende pazzo il fatto di non esserci mai andato. Così lo hai tenuto con te per un anno e lo lasciasti un segreto? Quasi un segreto sì, ma non per motivi di invidia o simili: ero solo troppo timido. Così tornato a Zurigo mi sono detto che non avrei dovuto aspettare oltre e l’ho liberato. [pausa] Ma c’era tanta bellezza nella gioventù di allora a New York che ne sono stato catturato. Quel viaggio di lavoro di un anno fu molto importante per me e per il mio lavoro.
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Assolutamente, lo vedo nel tuo lavoro. Sei completamente innamorato della bellezza e del glamour (così, il titolo perfetto Love With Beauty - Steidl, 2009) . Mi piace che questo emerga con tale naturalezza, perché questa emozione ricorre spesso quando osservo un tuo lavoro; è come se guardassi attraverso gli occhi di qualcuno che è innamorato di ciò che sta fotografando. Grazie. Per me l’amore è passione e spesso condivido la passione con il progetto che sto seguendo, dunque con tutti i suoi componenti e i modelli. Quella sensazione di arrivare ad un punto dove senti di aver raggiunto un obiettivo e devi spingere te stesso e la tua squadra per ottenerlo, è veramente veramente duro. Spesso i miei modelli e io ci sentiamo tristi alla fine di una collaborazione, tristi che sia finita. Ti piace essere fotografato? Credi di essere un soggetto interessante? Oh no, non credo!
Chi ha scattato la tua foto preferita di te stesso? Tu! (ride) Si può essere timido ed essere un buon fotografo? Oh! E’ un lavoro molto duro! Sono molto timido e l’ho sentito come un grosso limite al mio lavoro, nell’approccio con certe persone o modelli con cui volevo lavorare per me fu impossibile. Penso che sia il mio entusiasmo l’unica cosa che a volte supera e mette fuori gioco la mia timidezza... Credo sia la mia sfida. Segui il cuore o il cervello? E’ sempre stato così? Ragazzo mio, seguo il cuore! L’ho sempre fatto e spero di farlo sempre. Oggi sei qui con me a Zurigo, ma domani dove sarai e cosa farai? Sto lavorando a un progetto incredibile che avrà luogo in Scozia: fotografare Tilda Swinton per Pringle of Scotland. ma poi tornerò qui a Zurigo, così saprai dove trovarmi!
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How To Dress Well Cosa hanno in comune R.Kelly e i Darkthrone, gli Xiu Xiu e gli Outkast, i Coil e Cassie? Assolutamente nulla. Il bello è proprio questo. Tom Krell, in arte How To Dress Well, è un consumatore di musica onnivoro e spregiudicato, che passa dal black metal al soul più commerciale in un battito di ciglia. Ma in fondo a chi importa tanta stranezza, se il risultato di ascolti così schizofrenici è in grado di tradursi in uno degli album più originali degli ultimi anni? “Love Remains”, miracolosamente in bilico tra musica concreta, lo-fi e r&b da classifica. Unico collante a tenere in piedi la baracca, una voce limpida e celestiale, sommersa da strati di riverbero. E allora ben vengano il metal e il chewing-gum pop quando ti riescono dei dischi così…
Intervista di Marco Lombardo. Foto di Christopher Schreck
Ciao! Come stai? Dove ti trovi in questo momento? Ciao! Sono a casa a Chicago. Hai voglia di presentarti ai lettori di PIG? Mi chiamo Tom e sono del segno della vergine. Suono in una band: gli How To Dress Well. Sono nato negli Stati Uniti, vicino alle montagne rocciose. Da piccolo ero molto timido e, a volte, un po’ triste. Da dove vengono le tue canzoni? Sono l’espressione diretta della mia anima. M’ispirano i sentimenti di gioia e tristezza, i momenti cruciali nella vita di una persona, i dolori che ti fanno crescere. Scrivi per allontanarti dalla realtà? Consideri la tua musica escapista? Non direi. La definirei espressiva piuttosto. Anche se alla fine ciò che cerco di costruire è un mondo diverso da quello in cui vivo. Perché hai deciso di dare ai tuoi brani una veste lo-fi? Mi è sembrata la scelta giusta per l’album Love Remains. Rispecchiava il mio umore dell’epoca e ciò che stavo attraversando. Cosa significa per How To Dress Well il termine lo-fi? E’ solo un suono specifico. Non sono un cultore di quell’estetica. Non conosco nulla di garage rock ad esempio. M’interessava approfondire questo tipo di approccio da un punto di vista prettamente legato alla produzione. Una sorta di sfida per mettere la mia voce in difficoltà e vedere cosa ne sarebbe venuto fuori. Consideri la voce il centro della tua musica?
Assolutamente sì! Non importa che genere sto sperimentando. Se ho scelto di sporcarmi le mani con il lo-fi oppure no. Tutto ciò che faccio ruota intorno alla mia voce. Può essere irriconoscibile per via delle stratificazioni e dei riverberi oppure limpida e cristallina. Rimane il cuore di ogni canzone. Quanto c’è di te e della tua vita privata in Love Remains? Immagino che sia inevitabile trasferire le proprie esperienze in tutto ciò che fai. How To Dress Well però non è un mezzo per raccontare di me stesso, per esprimere la mia personalità, quanto più un canale per veicolare un certo tipo di suoni e atmosfere. Ci racconti del tuo processo compositivo? Di solito parto con un suono di piano, di sintetizzatore o un sample e cerco di costruire un’atmosfera che sia in grado di scatenarmi qualcosa dentro. Accumulo qualche nota e aspetto che arrivi la melodia che poi viene canalizzata attraverso il canto. Ultimamente sto scrivendo alcuni brani strumentali. Anche in questo caso è con la voce che traccio la linea guida per poi concentrarmi sui dettagli. E’ tutta una questione di suggestioni. Ogni volta che intono Ready For The World è come se
parlano? Cosa ti ispira? La mia vita, quella degli altri, il dolore, il piacere, la gioia, le storie che mi raccontano. L’amore prima di tutto. Il progetto How To Dress Well è nato mentre eri a Colonia, in Germania, per un dottorato in filosofia. Come ti ha influenzato quell’esperienza? E’ una città davvero stimolante. Ottimi dj ovunque. D’altronde è la sede della Kompakt. Ho conosciuto moltissima gente interessante. Non saprei dirti esattamente come ha influito sulla mia musica. Di fatto è lì che ho iniziato a sperimentare con la forma canzone. How To Dress Well in realtà esisteva già dal 2005, anche se era un qualcosa di molto diverso, in bilico tra drones e musica concreta. Credo che la solitudine di quei giorni in Germania in qualche modo mi abbia spinto a tirar fuori una parte di me più sentimentale, facendomi venire voglia di cantare propriamente. Sarà stata la nostalgia di casa o la lontananza dalla mia ragazza dell’epoca. Di fatto non sono più tornato indietro. In fondo ancora oggi lavoro soprattutto con la malinconia. Hai un forte legame artistico con Jamie Harley, che si è occupato di tutti i
mi trovassi in una vasca da bagno calda e accogliente. Quei suoni e quelle ritmiche evocano dentro di me un immaginario preciso. Mi fanno sentire a casa, al sicuro, indipendentemente da dove mi trovi in quell’ istante. I testi delle tue canzoni invece di cosa
video delle tue canzoni. Come vi siete incontrati? Le nostre vite si sono incrociate a Parigi. Ci siamo semplicemente scontrati. E’ nato tutto da lì… Io e Jamie siamo sintonizzati sulle stesse frequenze. Trascorriamo ore a parlare di film e della complessità dei nostri
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“Ogni volta che intono Ready For The World è come se mi trovassi in una vasca da bagno calda e accogliente. Quei suoni e quelle ritmiche evocano dentro di me un immaginario preciso. Mi fanno sentire a casa, al sicuro, indipendentemente da dove mi trovi in quell’ istante”.
sentimenti. Poi magicamente accostiamo una canzone a una serie di immagini e tutto funziona perfettamente. Chiamala alchimia… Chi si occupa degli artwork dei tuoi lavori? Tendenzialmente io. A volte mi aiuta un amico, William Widmer, un fotografo eccellente. Quali sono gli artisti che hanno influenzato l’estetica di How To Dress Well? Negli ultimi ventanni il rap, l’hip-hop e il nuovo R&B sono diventati il suono americano per eccellenza, nonché il genere musicale più diffuso nel mondo. Non sono rimasto impermeabile a questo cambiamento. La mia musica è profondamente influenzata da quelle sonorità, sono le più vicine al mio cuore. Ho trascorso l’adolescenza ascoltando una radio locale, la KS 107.5, che trasmetteva solo urban music… Se devo fare dei nomi cito in primis R.Kelly, un personaggio chiave, e poi Cassie, Brandy, INOJ, Keith Sweat ma anche Antony, Bjork e Shai. E il black metal dove lo metti? Ho letto che eri un fan del genere e che in passato hai addirittura suonato in alcune band della scena locale. Ahahah. Ero un ragazzino! Ho anche fatto parte di progetti noise e addirittura emo! Gli anni del college sono stati ricchi di compromessi. Io volevo cantare in un gruppo pop ma a scuola c’erano solo band rock, quindi mi sono dovuto adattare. Urlavo a squarciagola dietro un microfono e ho imparato a suonare la chitarra, ma in realtà desideravo tutt’altro. E’ soltanto con Love Remains che ho trovato la vera dimensione per la mia voce. C’è voluto
idea in testa. Come se fossero un corpo unico. In quel periodo scrivevo una decina di canzoni al mese. In poco tempo ho raccolto una quantità di materiale sorprendente e ho deciso di metterlo online. Non ero mai stato così ispirato e soddisfatto della mia musica. Finalmente How To Dress Well aveva un’identità. In fondo sono tutte tracce nate dalla stessa session creativa, anche se sono state pubblicate in tempi diversi, spesso poche ore dopo averle registrate. Da qualche mese hai ristampato Love Remains, grazie alla Tri Angle Records. Che differenze ci sono rispetto all’edizione originale su Lefse Records, l’etichetta che lo ha pubblicato per prima? L’album è lo stesso, con Tri Angle abbiamo aggiunto la versione in vinile e ho pubblicato ufficialmente il disco in Europa, Asia e nel resto del mondo. La Lefse si è occupata del mercato americano. Robin di Tri Angle è una delle prime persone che hanno creduto in me. Mi ha contattato via mail per farmi i complimenti e chiedermi di collaborare in qualche modo, pochissimo tempo dopo i miei primi upload su internet. Io adoravo il suo blog, 20JFG, e ci sono rimasto secco. Non mi aspettavo quei giudizi così lusinghevoli. E’ stato davvero un onore. Uno dei momenti chiave dell’avventura How To Dress Well. Ci tenevo a ristampare Love Remains con lui. Quanto sei cambiato come persona e come artista rispetto ai tuoi esordi? E la tua musica? Immensamente, sotto tutti gli aspetti. Il prossimo disco poi sarà un qualcosa di scioccante. Da brivido… Stupirà parecchia
Qualcuno con cui senti di condividere la stessa visione musicale? Grimes, Cocorosie, SURVIVE, Estasy, Autre Ne Veut. Mi piacciono le cose che passano al Ghe20 Goth1k (una delle nuove serate culto del clubbing newyorcherse), gli Nguzunguzu e i Physical Therapy. Cosa stai ascoltando in questi giorni? Beh sicuramente molti degli artisti che ti ho citato prima e poi Kate Bush e Coil, Diddy Dirty Money e i Last Train To Paris. Una band o una canzone che ti ha cambiato la vita? Gli Xiu Xiu. Jamie Stewart è sicuramente una delle ragioni per cui faccio il musicista. Il tuo album hip-hop preferito? Direi Aquemeni or Atliens degli Outkast. L’ho ascoltato per metà della mia vita. In ambito R&B invece Another Level di Blackstreet. Se potessi viaggiare indietro nel tempo, in quale periodo storico ti piacerebbe vivere? Nessun altro. Se non qui e ora. Quali sono i tuoi interessi a parte la musica? Vivere. E’ più che sufficiente. A volte può essere un sogno così strano… Se fossi un animale, che animale saresti? Un animale che piange e che canta. Probabilmente un bipede senza piume. L’ultimo disco che hai comprato? Il primo album dei Krallice, una band black metal di New York. Una bomba. L’ultimo film che hai visto? Lo hai guardato al cinema o lo hai scaricato? Flandres, scaricato. E’ un film francese straordinario. Contemporaneità allo stato puro, triste e bellissimo. Una delle cose che mi hanno ispirato di più ultimamente. Ti ritrovi a fare il giornalista per un
qualche anno e un po’ di esperimenti! Il tuo album d’esordio è di fatto una raccolta di tracce che avevi già pubblicato su internet in diversi formati. E’ sorprendente come nonostante tutto sia così omogeneo e coerente, non trovi? Ho composto quei brani con una precisa
gente. Quindi hai già iniziato a lavorarci? Quando uscirà? Anticipaci qualcosa… Non posso ancora svelare nulla. C’è qualche artista in particolare con cui ti piacerebbe collaborare? Tricky Stewart o Cassie.
giorno. Chi ti piacerebbe intervistare? Scott Walker, senza dubbio. E’ uno dei miei artisti preferiti in assoluto. Un giorno spero di riuscire a scrivere un disco come Tilt. Domani fondi una nuova band. Come la chiami? Total Loss.
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Africa Hitech Per incontrare in un colpo solo due personaggi chiave della musica elettronica degli ultimi vent’anni come Mark Pritchard (Reload, Global Communication, Harmonic 313) e Steve White in arte Spacek (Spacek, Space Invadas), entrambi impegnati su più fronti tra Londra e Sydney, abbiamo dovuto aspettare la nascita del loro progetto comune Africa Hitech. La loro unica apparizione italiana per l’uscita del primo ed entusiasmante album “93 Million Miles” su Warp è l’occasione più adatta per parlare con Pritchard e Spacek di afrofuturismo, di ritmi sincopati, di footwork e di tecnologia, ma anche dell’istinto di J Dilla e del tentativo di rimpiazzarlo con la scienza del suono. Intervista di Gaetano Scippa. Foto di Piotr Niepsuj
Partiamo dal nome del vostro progetto: è un ossimoro come il termine afrofuturismo. Da chi dei due è arrivata l’idea? Mark Pritchard: L’ha scelto Steve. Steve Spacek: La nostra musica, come quella che ascoltiamo da sempre, è musica hitech. Dall’elettronica rave degli anni ’80 ma anche volendo andare indietro alla rare groove degli anni ’60 e ’70, la sensibilità musicale nasce comunque in Africa. Le percussioni, i bassi, i poliritmi, le vibrazioni originarie sono quelle,
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proiettate in avanti grazie all’elettronica. Cos’ha in comune il vostro concetto di afrofuturismo con quello sviluppato da Kode9? MP: Siamo tutti cresciuti a Londra in pieno boom della drum’n’bass, come pure Steve Kode9 che vi si catapultò da Glasgow, e siamo rimasti influenzati da quella musica. A partire dagli anni ’30 nel Regno Unito arrivarono moltissimi immigrati, in particolare Giamaicani e Africani, che crearono una grande comunità e condizionarono la produzione musicale nei
decenni successivi. Anche nel periodo punk e new wave, i giamaicani organizzavano feste incredibili mischiando tutto con musica disco e reggae. La dancehall crebbe moltissimo, fino all’arrivo dell’acid house e della techno da Chicago e Detroit. La prima musica dance prodotta in UK prese molto da lì: i primi dischi della Warp avevano il tocco techno di Detroit, ma anche dei sub bassi derivati dal reggae che li contraddistinguevano. Da quella sponda arrivarono la drum’n’bass e la musica rave, che
univa hip hop, techno e reggae, fino a trasformarsi in garage, dubstep, grime e UK funky. E’ solo una questione di evoluzione musicale o anche legata alla black science fiction? MP: Beh, siamo certamente appassionati di ogni tipo di film e dvd del genere, tanto quanto di artisti come Sa-Ra e Sun Ra. Ma la cosa che ci interessa di più è la relazione tra basso e batteria, capire come questi due strumenti possano funzionare insieme al meglio in qualsiasi situazione o genere musicale. Per fortuna
in Inghilterra c’è molta attenzione a basso e batteria suonati in maniera non dritta. Eppure entrambi vi siete trasferiti in Australia. MP: E’ vero, sei anni fa sia io che Steve ci siamo trasferiti in Australia. SS: Quello che alcuni non sanno è che noi in realtà ci conoscevamo già e avevamo lavorato insieme ben prima di ritrovarci in Australia, dove ci siamo trasferiti per altre circostanze, di tipo sentimentale: Mark per seguire la sua
fidanzata e io mia moglie. Nel 2000-1 eravamo entrambi sotto l’etichetta Island Blue (del gruppo Universal, ndr). MP: Quando ci siamo rivisti in Australia avevamo già scritto alcuni pezzi, ma dato che entrambi eravamo impegnati su altri progetti non avevamo il tempo di lavorare a un vero e proprio album. Almeno fino al primo singolo, Blen. In effetti Mark, si dice che tu finora abbia avviato circa 26 progetti. MP: Sì, anche troppi nel corso degli anni. Ora come ora, di quelli vecchi, vorrei riportarne a galla solo quattro o cinque e se non funziona comincerò a usare il mio vero nome. Africa Hitech è stato necessario perché è una collaborazione a cui tengo parecchio e sicuramente andrà avanti. Anche tu Steve hai alle spalle vari progetti, tuttora attivi. Come fate a far funzionare Africa Hitech e, soprattutto, come vi dividete il lavoro di produzione? SS: Ci conosciamo bene, abbiamo gli stessi gusti, un simile background e ascoltiamo la stessa musica. Quindi è piuttosto facile sincronizzarci. Andiamo in studio con delle idee e sviluppiamo quelle che più ci convincono senza troppi problemi. Non abbiamo ruoli predefiniti, entrambi lavoriamo sui pezzi in modo libero. Che strumenti usate in studio? SS: Principalmente Logic. MP: Ci piacciono vecchie strumentazioni, ma a volte bastano semplici software o plug-in. Pensa che alcune tracce dell’album sono state realizzate solo con un iPhone e poi trasferite al computer. Uno spasso! A volte usiamo vecchi synth, ma non vogliamo essere per forza old school: specie nella musica dance, l’importante è la vibrazione. Ciò che conta alla fine è che i pezzi suonino bene. Quanto è importante abbracciare nuove tecnologie e quanto invece mantenere viva la tradizione? MP: Noi personalmente non usiamo molti programmi, ma di sicuro quelli di oggi sono meglio di un tempo. Dipende anche dallo stile che si vuol adottare. SS: Più che importante è una questione di necessità reale. Quando lavoriamo su una traccia, usiamo qualsiasi cosa vi si adatti, un fiato, un piano o un sintetizzatore. Cyclic Sun, il penultimo pezzo dell’album, è più acustico. Quasi una sorpresa… MP: Ci piace sorprendere le persone abbracciando stili diversi, specie quando ormai tutti credono che il disco abbia preso una certa piega. Abbiamo in cantiere altri pezzi simili a quello per le prossime uscite. SS: L’idea di base è che i singoli e gli EP siano più adatti al dancefloor e quindi i pezzi devono avere un beat più deciso, mentre l’album deve riservare spazio anche per altra musica. Deve incuriosire, come un viaggio. Quante tracce avete preparato prima di selezionare le undici che compongono il
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disco? MP: Un centinaio, forse anche di più. Però è stato divertente fare la selezione: le abbiamo ascoltate tutte, suddivise in gruppi e annotato quelle che creavano un maggior equilibrio. SS: Quando ascolti l’album noti le diverse dinamiche, umori e sensazioni, alcune più organiche, altre sintetiche. Questo perché, come diceva prima Mark, amiamo movimentare le situazioni. In Australia ci sentiamo più liberi di farlo, a differenza dell’Europa e soprattutto dell’Inghilterra, dove molti producer hanno paura di uscire da schemi prestabiliti per non deludere aspettative di mercato. Secondo certe logiche, un dj techno che improvvisamente passa alla jungle rischia di essere escluso. MP: Mi sono sempre annoiato dopo due ore di techno o house. Ho bisogno di variare. Per fortuna adesso ci sono personaggi sempre più eclettici, come appunto Kode9, che stanno rompendo questi schemi. La gente sembra finalmente capire e apprezzare. Cosa mi dite del singolo Out In The Streets, che è un po’ il manifesto di questo vostro eclettismo? In rete gira pure un video con effetto reverse tra la gente per strada. MP: Ah sì, ma quello non è il video ufficiale. Sono amici di amici che ci hanno chiesto il permesso di diffonderlo e così è stato. Nelle prossime settimane ne usciranno altre due versioni, di cui una ufficiale. SS: Il video ufficiale sarà molto più action e cruento, con omicidi, esplosioni di macchine e scontri per strada. Com’è nata l’idea di campionare in quel pezzo World a Reggae (Out In The Street They Call It Murder) del cantante giamaicano Ini Kamoze? MP: La Warp sta realizzando un documentario sul footwork di Chicago, una danza di strada che ha rimpiazzato la breakdance. E’ un tipo di ballo che deriva dal juking, ma ancora più sincopato e veloce, con lo stesso proposito positivo: far uscire di casa i ragazzi per farli sfogare sulla danza, evitando così che finiscano nelle bande o facciano i bulli in giro. La Warp ci ha chiesto di fare dei pezzi in tema, per alimentare questo tipo di “battaglie” di strada. SS: E’ un ballo davvero fantastico, i passi sono intriganti e bisogna avere una grande abilità per creare con i piedi quelle angolature così folli. Un piacere da guardare. MP: Siamo stati fuori una notte intera per registrare e poi abbiamo iniziato a suonare il pezzo o farlo suonare da altri dj nei club per vedere le reazioni. Ogni volta la gente si esaltava, per cui l’abbiamo subito inserito nell’album. Le vostre tracce sono pressoché strumentali, ma quando c’è il cantato questo funziona benissimo, per esempio in Don’t Fight It. Perché non usate di più la voce? Steve, la tua è stata paragonata a quella di Curtis Mayfield… SS: Ti ringrazio, ma vedi questo progetto non riguarda la mia voce. E’, come si diceva prima, un lavoro di necessità, in cui ci sfoghiamo. Nel
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pezzo che hai citato, tra l’altro, non sono io che canto ma Mark. Cavolo Mark, allora anche tu hai una gran voce! (risata generale, ndr) SS: Se un pezzo è giusto per la voce di Mark canta lui, se va bene per me canto io. E’ tutto molto libero. Anzi, se capita cantiamo insieme, come in Spirit. MP: Non avevo mai cantato un verso prima d’ora, solo ganci qua e là o backing vocals. Avevo un po’ di timori, ma Steve mi ha incoraggiato. E’ stata una bella sfida con me stesso. Comunque non sei l’unico ad aver confuso la mia voce con quella di Steve in Don’t Fight It: molti miei amici hanno detto “Wow, bellissima la voce di Steve in quel pezzo afro-house”. SS: Se la gente vuole sentirmi cantare ci sono molti altri progetti, come Space Invadas (dove canto e basta, la produzione è affidata a Katalyst) e altri che arriveranno in futuro, dove canto e produco. Qui invece sono in veste di producer. MP: Molti pensano che i nostri ruoli siano ben definiti, che io faccia i beat e Steve canti. Come in Blen. Deve essere chiaro, invece, il ruolo di Steve anche in fase produttiva. E’ bravissimo negli arrangiamenti e fa musica incredibile. SS: Il fatto che non si capisca bene chi fa cosa rende l’album più interessante e longevo, induce l’ascoltatore a ripetere gli ascolti. Com’è lavorare con la Warp? MP: Mi sento fortunato a lavorare per Warp, ma non è la prima volta. A circa diciotto anni andai da loro a Sheffield per portargli un demo e qualche anno dopo, nel 1993, mi contattarono per pubblicare un 12”. Nel frattempo feci uscire una compilation sull’etichetta che avevo appena fondato, la Evolution records, e ogni volta che incontravo Steve Beckett (fondatore della Warp, ndr) lui continuava a chiedermi di fare un nuovo album come Reload (uno dei primi progetti di Pritchard, ndr). E così firmai un accordo per la Warp, ma in quel periodo stavo anche producendo musiche per film come Harmonic 33. Gli diedi anche quelle, pubblicate nel 2005, e poi Harmonic 313. L’anno scorso ho firmato un contratto a lungo termine che prevede sette album: Africa Hitech è il quarto, quindi ne dovrò fare altri tre. Steve ha la mente aperta, crede in quello che pubblica sulla Warp, ma non ti impone nulla. Una delle sue tracce preferite di quest’album è Our Luv, che è anche la mia preferita. C’è sintonia. Sono un’etichetta seria, onesta, che fa musica di qualità e paga gli artisti. E’ una delle rare label indipendenti che se lo può permettere, ed è un vantaggio non da poco. Avete collaborato individualmente con artisti hip hop, come Mos Def, J Dilla a Sa-Ra. Che influenza ha l’hip hop sulle produzioni di Africa Hitech? SS: Parecchio, direi. Una delle cose che ci piacciono di più dell’hip hop sono le vibrazioni
create da artisti come Dilla e Madlib, il modo con cui lavorano il ritmo su batteria e basso. Elementi ritmici funky e senso metronomico che cerchiamo di riprodurre a nostro modo, nella musica dance di Africa. MP: C’è una scienza sui tempi, sulle battute, che non molti produttori conoscono, specie quelli fissati con la programmazione 4/4. C’è una ragione umana per cui gente come Dilla produceva in quel modo. Ascolti le sue tracce e senti l’anima. Dilla era puro istinto: posizionava la batteria là dove sentiva di doverla inserire, praticamente a orecchio. Ma c’è anche una motivazione matematica per cui queste cose accadono, che ha a che fare con le frequenze e la diversa velocità con cui esse viaggiano. La maggior parte delle persone lavorano a istinto, ma come Dilla ce ne sono pochi. Ecco perché tra metà e fine anni Novanta, per capire come funzionava il tutto, mi procurai una drum machine SB12, la più usata dai produttori hip hop insieme alla MPC. Registrai le informazioni Midi e sui tempi in Logic, lessi dei libri e finalmente capii il meccanismo. Con gli strumenti di oggi è facilissimo, infatti molti lo fanno. Ma dovrebbero farlo ancora più persone (ride, ndr). E’ più importante la macchina o l’uomo? SS: No, quel che conta è la sensazione, la vibrazione prodotta dalla macchina. MP: Prendere familiarità con la macchina in modo tale da poter tradurre ciò che si sente e farlo accadere in studio. Ci vuole tempo e dedizione, ma più si sperimenta maggiori sono le soddisfazioni. Come reagite quando definiscono il vostro sound come musica del futuro? MP: Beh, è bello. SS: Ne siamo felici, ma siamo anche cresciuti rispetto a quando giovani e “militanti” credevamo di sapere tutto. Ognuno ha un orecchio diverso e rispettiamo qualsiasi giudizio, per quanto possa differire dalla nostra opinione. Non pensiamo di fare musica del futuro, ma del presente. MP: Musica grazie a cui ognuno si può fare il suo viaggio personale. Un viaggio distante 93 milioni di miglia da…? SS: Ovunque tu voglia arrivare. MP: E’ un titolo carino, che abbiamo dato a quella traccia (e poi all’album) dopo aver chiamato Light The Way il pezzo dove campioniamo i Sun Ra. Tutte suggestioni riguardanti il sole, la luce, il giorno. A proposito di futuro, come vi immaginate tra dieci anni? SS: Io non mi immagino. MP: Quest’anno compiamo entrambi quarant’anni. Tra dieci suoneremo meno nei club, dove l’età media del pubblico probabilmente si sarà abbassata a 16-19 anni. Produrremo ancora musica, più ambient e colonne sonore che dance. Come Global Communication o il seguito di Reload su Warp: musica stratificata e oscura, ma senza beat.
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Katherine Photographer: TODD JORDAN Stylist and model: KATHERINE CLARY Special Thanks to: ASSEMBLY NEW YORK
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Maglia NIKE vintage
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Jacket STUSSY, borsa ASSEMBLY NEW YORK
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Maglia ASSEMBLY NEW YORK, pants vintage, scarpe VANS
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Maglia vintage, jeans LEE, scarpe LIKA MIMIKA
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Maglia ASSEMBLY NEW YORK
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Maglione vintage, shorts VANS, calze A DÉTACHER
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Top STUSSY, jeans vintage, scarpe NIKE
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Pants vintage
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Vestito vintage, denim jacket STUSSY, scarpe LIKA MIMIKA
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Reggiseno vintage
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Monica Photographer: COLIN LEAMAN Stylist: TRUDY NELSON Assistant Stylist: SARAH LEAMAN Model: MONICA NELSON
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Jacket NIKE, costume vintage, gonna SHAKUHACHI, scarpe DOLCE VITA
Maglioncino SESSUN, shorts NIKE, scarpe NEW BALANCE
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Maglia vintage, Jeans WOOD WOOD
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Reggiseno NIKE, gonna vintage, scarpe JOE’S JEANS
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Vestito VELOUR, scarpe NEW BALANCE
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Camicia Denim, abito e cintura LEE
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Maglia vintage, pantaloni RODEBJER, scarpe DOLCE VITA
Camicia Denim, abito e cintura LEE
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Maglia CARHARTT, scarpe CONVERSE, body stylists own
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Maglioncino SESSUN, shorts NIKE
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Jacket CARHARTT, maglia SESSUN, shorts HOUSE OF DAGMAR
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Maglia SESSUN, jeans vintage, scarpe JOE’S JEANS, borsa model’s own
Summer Ladies
Dopo il successo della nostra ‘Summer gallery’ dell’anno scorso abbiamo chiesto ancora una volta ai nostri fotografi la loro idea d’estate. Questa volta però, abbiamo deciso di trasformarlo in un servizio di moda: a otto fotografi abbiamo consegnato un costume e la libertà di farci ciò che volevano. Curiosi di scoprire come le ragazze vedono le altre ragazze, per l’esattezza abbiamo dato i costumi a otto fotografe: tutte donne. A cura di Piotr Niepsuj 100 PIG MAGAZINE
Photographer: ROBERTA RIDOLFI (www.robertaridolfi.com) Styling: ANN KATHRIN OBERMEYER Model: CAILIN HILl Costume: ERES
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Photographer: ANA KRAŠ (www.anakras.com) Styling: DJUNA BEL Model: RAMONA
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Photographer and model: MARIJA STRAJNIC (www.marijastrajnic.com) Costume: PULL MY DAISY
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Photographer: ALBA YRUELA (www.albayruela.com) Stylist: MEI LARROSA Model: ANDI SCHMIED Costume: L´ARCA DE L´AVIA
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Photographer: JODY ROGAC (www.jodyrogac.com) Styling: NATASHA DEVEREUX Muse: INDIA LAWRENCE Photography assistant: AILEEN SON Costume: MALIA MILLS Jacket vintage, braccialetto LAUREN MANOOGIAN corona di carta stylists own
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Photographer: JENNILEE MARIGOMEN (www.jennileemarigomen.com) Styling: REDIA SOLTIS Model: ALEX RICHARDSON Assistants: ADAM FLYNN and JENNINE BANKS Costume: RALPH LAUREN, occhiali KAREN WALKER
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Photographer: MAYA VILLIGER (www.turnedout.tv) Styling: EUGENIE DALLAND Model: CHARO @Ford NYC Costume: CM, collana AESA, occhiali THIERRY LASRY, scarpe VANS, jacket stylist's own
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Photographer: YARA DE NICOLA (www.yaradenicola.com) Styling: FABIANA FIEROTTI Model: MICHELLE DANTAS @ joy models Hair & makeup: ALESSANDRO COMAI @ orea malia’ Costume: TOSCA DELFINO
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Photographer and styling: WAI LIN TSE (www.wailintse.com)
Assistant photographer: CAROLINA VARGAS Model: APRIL Costume: TCN
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Photographer: MARIJA STRAJNIC (www.marijastrajnic.com) Model: MILICA KOLARIC Costume: PULL MY DAISY
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Photographer: ANA KRAŠ (www.anakras.com) Styling: DJUNA BEL Model: RAMONA
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Photographer and styling: WAI LIN TSE (www.wailintse.com)
Assistant photographer: CAROLINA VARGAS Model: APRIL Costume: TCN
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Musica Album del mese
Di Gaetano Scippa
Ford & Lopatin - Channel Pressure (Software) Dopo aver celebrato Games e quanto di più
stro di jam session con strumenti analogici e
Play, ma che rimette in discussione il concetto
pop Daniel Lopatin stesse combinando con
digitali – principalmente sintetizzatori e drum
di fusion e, perché no, potrebbe aprire nuove
l’amico di lunga data Joel Ford, ci troviamo
machine – che si ispira al cut-up herbertiano
porte al pop del futuro.
davanti al primo concept album del duo ar-
di suoni MIDI-funk, glitch, ambient, italo disco
tistico. Tutto nuovo il rimpasto, dai rispettivi
e musica concreta. Un lavoro non a caso mi-
nomi di battesimo usati come moniker per
xato da Prefuse 73, ma molto più vicino alle
darsi un tono come coppia di dj e produttori
produzioni elettro-pop di Tigercity che a quel-
– o forse per evitare grane legali con il rapper
le ambient-noise di Oneohtrix Point Never,
Game della Interscope – alla neonata etichet-
specie per il ruolo da protagonista della voce
ta, messa in piedi dagli stessi F&L sotto l’ala
di Ford. Tra i vari fine-tuning anni ’80 spiccano
protettrice della Mexican Summer/Kemado.
il tormentone The Voices e il singolo Emer-
Il boss della casa madre, Tom Clapp, li ha
gency Room (del quale gira anche un remix
fatti registrare in uno studio appositamente
di Gavin Russom), fusione retrofuturistica tra
costruito per loro. Un trattamento da non
Depeche Mode e Darkstar il cui messaggio
rifiutare, anche se fa strano pensarli qualche
tecnologico subliminale confluisce nel metal
anno fa alle prese con le prime registrazioni
onirico di Rock Center Paranoia. Un disco
DIY. Detto ciò, Channel Pressure è un inca-
forse meno convincente dell’EP That We Can
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Musica Album del mese
Di Gaetano Scippa
Battles - Gloss Drop (Warp) E’ difficile scrollarsi dalla testa il ritmo demenzial-indemoniato di Atlas e altre sincopi di quel cartoonesco contenitore math-prog chiamato Mirrored. Diciamolo subito: il miracolo non si è ripetuto. Vuoi per le vicissitudini della band – rimasti in tre dopo la dipartita del fondamentale Tyondai Braxton, voce, mente e anima del gruppo – vuoi perché l’ipertecnicismo non può sempre produrre suoni originali, GD manca di ironia, trovate geniali e persino potenza in confronto allo scomodo predecessore. Le cose migliori arrivano dai cantati eclettici di Matias Aguayo, Gary Numan, Kazu Makino e Yamatsuka Eye, ma forse non basta. Ai posteri l’ardua sentenza.
Maria Minerva - Tallin At Dawn (Not Not Fun) Dall’Estonia con amore. Neanche il tempo di sedimentare nei nostri cuori conquistati dall’ottimo 12” Noble Savage, ecco che arrivano dieci nuove piacevolissime sensazioni dall’est. La cantante e producer Maria Juur in arte Maria Minerva, che in realtà ora vive a Londra, sarà anche l’ennesima diva disco-not-disco, vaporosa epigone sulla scia sexy di Amanda Brown (che l’ha lanciata), ma ci sa fare parecchio. TAD è un sogno di mezz’ora semilucido e lascivo, uno di quelli che si vorrebbe si ripetessero all’infinito. A proposito, avete visto il video censurato da YouTube So High, tratto dal suo imminente LP Cabaret Cixous?
Mountains - Air Museum (Thrill Jockey)
No Surrender - Medicine Babies (ZerOKilled Music) I No Surrender infiammavano i palchi underground di New York insieme a gente come Mike Ladd, Antipop Consortium e Stiffed (Santigold). Nel 2007 Gnomad, Seraphim e Steeples si ritrovano a Londra dai Radioclit per lavorare a MB: una miscela ipnotica, a tratti irresistibile, di alt hip-hop, electro rock e dance da far impallidire il mainstream. Co-prodotto da Costanza Francavilla e arricchito dalla presenza di Tunde Adebimpe dei TVOTR, il disco promette ascolti ripetuti quando si è giù di corda: basta pompare il singolo Godda Get It, cantare il ritornello di You’re A Star o unirsi al black power di Give It Up, e tutto si sistema.
Deadbeat - Drawn & Quartered (BLKRTZ) Negli ultimi anni Scott Monteith ha mirato al dancefloor, ma con il suo settimo album torna ad esplorare ciò che più gli è congeniale: il dub. L’uscita per la sua etichetta, con distribuzione Kompakt, si divide in cinque lunghi momenti che oscillano tra sintetizzatori, field recordings, esperimenti analogici modulari e strumenti registrati. First Quarter è un’immersione ambient liquida, Second Quarter un omaggio alla defunta Scape, Third Quarter (The Vampire of Mumbai) un arioso paesaggio cinematico, Fourth Quarter (Cala’s House) ha il groove di un pezzo deep house, Plateau Quarter (Hope In Numbers) il respiro di Montreal. Buona visione.
Uphill Racer - How It Feels To Find There’s More (Normoton) Uphill Racer è il progetto del polistrumentista Oliver Lichtl, che in realtà da solo è come ascoltare un’orchestra da camera. Il suo quarto lavoro, come i precedenti, vuole rendere il mondo un posto migliore, più gentile, dove perfino i (numerosi) momenti di malinconia appaiono raggianti. E’ pop raffinato e profondo ma anche immediato, che punta dritto al cuore. Questa volta, sotto basi e arrangiamenti elettroacustici, si poggiano voci esterne al progetto. Ospiti più o meno conosciuti, da Amanda Rogers ad Aydo Abay fino a My Brightest Diamond, tutti sognanti e in armonia con il mood del disco.
Attivi da dieci anni, Brendon Anderegg e Koen Holtkamp tornano con il seguito di Choral, grande successo del 2009 per l’etichetta di Chicago. A ragione, perché i due scultori del suono creano paesaggi elettronici stratificati e poetici grazie a strumenti acustici, senza per questo perdere in melodia o delicatezza sonora. Mai come qui il confine elettroacustico è indefinito: è la prima volta che il duo processa quasi in tempo reale chitarre, bassi, violoncello e fisarmonica non al computer, ma attraverso pedali, synth modulari e altri strumenti analogici, quindi a basso impatto ambientale. Scappiamo dalla città, andiamo in montagna.
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Musica Album del mese
Di Marco Lombardo
Bon Iver - Bon Iver (4Ad) Il suo disco d’esordio del 2007, For Emma, Forever Ago, ha fatto scuola e scalato le classifiche mondiali. L’anno scorso Kanye West lo ha voluto nel capolavoro My Beautiful Dark Twisted Fantasy. Non male per un cantautore boscaiolo, asociale ed insicuro, di colpo proiettato sotto le luci della ribalta. Justin Vernon torna dopo quattro anni a indossare lo pseudonimo Bon Iver e non ce ne per nessuno. Il suono si è fatto più complesso, si notano inserti jazz e qualche sfumatura elettronica. Il risultato non cambia. Ancora una volta è immenso e commovente. Chili di melodie da tenere nel cuore, tra falsetti celestiali e crooning polverosi, che si insinuano tra pause e dilatazioni disegnate con perfetta maestria. L’inverno è già qui.
Digitalism - I Love You Dude (V2) Tornano i Digitalism dopo il successo planetario di Idealism, esordio del 2007 che li ha proiettati nell’olimpo del clubbing “alternativo” al fianco di star del calibro di Soulwax, Justice, Erol Alkan e compagnia danzante. Il calderone french touch/nu rave, che aveva funzionato da collante per una nuova scena elettronica, si è ormai sgonfiato lasciando alle spalle rimasugli di creatività che hanno perso i contorni dell’hype per concentrarsi sulla musica, lontano dai riflettori delle passerelle. I Love You Dude è un esempio di tutto ciò. Ottimo dischetto, con un paio di singoli strappamutande (2 Hearts e Circles), ricco d’intuizioni, tra rock ed electro, che li avvicina ai maestri Chemicals più che ai soliti Punks francesi.
FM Belfast - Don’t Want To Sleep (Morr Music) Collettivo islandese al secondo disco, gli FM Belfast più che una band electro pop sembrano i protagonisti sgangherati di un improbabile seguito dei Tennenbaum. Sbarcano su Morr, un tempo la mecca per i seguaci della ormai defunta indietronica, con le loro zuccherose melodie upbeat e ci contagiano con una colorata carovana danzereccia. I costanti richiami ai Pet Shop Boys e a vagonate di gruppi anni ottanta ci fanno sorridere e ballare, anche quando giocano a fare gli adulti ammiccando agli Scissor Sisters. Suoni 8 beat, preset ultra digitali e chincagliere analogiche si mescolano nelle undici tracce di Don’t Want To Sleep evocando un immaginario dancefloor che sa di scuole medie e ultimi giorni d’estate.
I Cani - Il Sorprendente Album D’esordio dei Cani (42 Records) I Cani dicono di essere “solo l’ennesimo gruppo pop romano” e tengono nascosta la loro identità. Scrivono canzoni che parlano di Facebook, citano Flickr e American Apparel, usano la parola hipster e omaggiano David Foster Wallace. Lo fanno con distacco compiaciuto e l’attitudine di chi la sa più lunga degli altri. Il loro album d’esordio in fondo è un disco di pop italiano nelle intenzioni e nei risultati, come però, forse, non l’ha mai fatto nessuno nel Bel Paese. Se i suoni ci parlano di un electro-pop polveroso e lo-fi, l’attitudine e la spocchia ci fanno immaginare a un futuro da nuovi Baustelle. Bel disco, non proprio sorprendente.
Is Tropical - Native To (Kitsuné) Disco di debutto per il nuovo fenomeno british, direttamente da Londra. Suoni rave, slanci electro pop, rivisitazioni terzomondiste e una valanga di irruenza giovanile, gli ingredienti di un dischetto fresco e accattivante. Native To evoca i Klaxons ma riesce a superarli grazie a una naturale leggerezza e a una maggiore inclinazione elettronica, che li avvicina agli MGMT, senza farli sfigurare. Ricordano un incrocio tra i Digitalism e i Bloc Party quando si lanciano in brani dancefloor oriented come The Greeks e Lies, mentre in quelli più rock sembrano una versione meno cervellotica dei Late Of The Pier. Ci sorprendono nel finale con Seasick Mutinity, una calvacata strumentale che sa di Italo Disco e post punk. Producono Lifelike e Alalal.
When Saints Go Machine - Konkylie (K7!) Senza dubbio uno dei debutti dell’anno quello del quartetto di Copenaghen. Un mix raffinato di elettronica ambientale, dance intellettuale e pop malinconico. Il fantasma di Arthur Russell dietro ogni linea melodica, mentre qua e là fanno capolino Antony Hegarty e Mark Hollis dei Talk Talk. L’impianto strumentale è imponente. Aphex Twin sembra scontrarsi con l’ultimo Caribou, mentre Fever Ray e i Beloved di Jon Marsh flirtano tra la nebbia. Ogni suono è calibrato alla perfezione, ogni elemento è al posto giusto, si tratti di orchestrazioni, suoni di synth o drum machine analogiche. Ci sono voluti due anni per confezionare le dieci canzoni di Konkylie. Bastano meno di quaranta minuti per innamorarsene perdutamente.
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Musica Varie
Di Marco Lombardo e Gaetano Scippa
Aquarius Heaven - 7 Days (Circus Company) EP
Mo Kolours - EP1: Drum Talking (One Handed Music) EP
Gang Colours - In Your Gut Like A Knife (Brownswood) EP
Memorizzate questo nome: è raro ascoltare elettronica ibrida di qualità, come nel caso di Mo Kolours. Musica sega mauriziana, dub, soul, jazz e hip hop in un vortice psych al calor di Gonja Sufi e Bibio. Debutto imprescindibile. G.S.
A volte i giornalisti ci azzeccano. Imboccato da Ghostpoet, Gilles Peterson lancia sulla propria label questo producer di talento, che unisce elettronica sincopata e post-dubstep in chiave melodica e romantica. Un soffio al cuore. G.S.
Beaumont - Blush Response (Kinnego) EP Michael Rintoul è scozzese, ma il suo tocco vellutato tra la chillwave e l’R’n’B potrebbe collocarlo tra Parigi e LA. I suoi synth atmosferici da postsbornia notturna ipnotizzerebbero pure Sade e i registi di b-movies anni ’80. Talento puro. G.S.
Lucky Paul - The Slow Ground (Somethinksounds) EP Beats futuristici e percussioni carioca per il neozelandese in quattro tracce, tra cui la bellissima Thought We Were Alone dove canta Milosh. Lo stesso pezzo è poi rivisto in tre remix ad opera di Money Vs Gold, Eliphino e Gang Colours. G.S.
Bass Clef - Rollercoasters Of The Heart/ So Cruel (Punch Drunk) 12” Bristol fuori dalla finestra. Uk funky, grime, ritmi caraibici e sferzate dubstep nelle orecchie, per un carnevale apocalittico. M.L.
Cascao & Lady Maru - Tropical Tasting Remixes (I’m Single Records) 12” Vodoo-disco dalla Capitale. Rodion produce il tutto e remixa con taglio house, affiancato dal norvegese cosmico, Vinny Villbass. M.L.
Disco Of Doom - Invader (Discobelle Records) EP Release esplosiva per i blogger svedesi ora nelle vesti di discografici illuminati. E’ il turno di un duo inglese che incendia la pista con anthem rave-tech-house da manuale. M.L.
Night Angles - Aerodynamour (Force Majeure) EP Il nuovo adepto in casa Force Majeure arriva dai sobborghi di Londra. Suoni notturni e cinematografici, influenzati da Lerry Levan e Vangelis. M.L
dOP e il vocalist Brian Brewster uniti in un progetto sinistro. Quattro tracce tra ritmi Basic Channel/Rhythm & Sound, spoken word (Introduction), deep house (Before U Go) ed electro con l’ottima Universe, dal video altrettanto catchy. G.S.
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Film del mese
Di Valentina Barzaghi
Four Lions Di Christopher Morris. La pellicola di Morris esce in Italia con un po' di ritardo rispetto agli U.S.A., ma siamo contenti di vedere che nonostante tutto anche storie così piccole e particolari possano riuscire ad arrivare dalle nostre parti. Four Lions è uno dei film più divertenti, ma anche incredibilmente riflessivi, in cui mi sono imbattuta l'anno scorso (è passato anche dal Torino Film Festival in concorso), un prodotto di fiction girato però come se fosse un documentario fake, che racconta le vicende di quattro amici pakistani che abitano a Sheffield (Inghilterra), ma sognano anche loro le glorie e i meriti di chi si sta impegnando, tra i loro connazionali, nella Guerra Santa. Decidono così di organizzare un attentato durante la Maratona di Londra. Il film segue le tappe organizzative dello strampalato gruppo: mentre due di loro (Omar e Waj) fanno ritorno in Pakistan per essere addestrati a diventare dei buoni kamikaze, gli altri due (Barry e Fessal) rimangono in Europa per capire come muoversi logisticamente e per addestrare (con poco successo) corvi che secondo loro dovrebbero spostare le bombe da un edificio all'altro durante le manovre per l'attentato. Erede di una tradizione comica britannica di cui fino a questo film Morris è stato protagonista attivo (è un attore comico), il regista usa lo humor per sbaragliare uno dei più grossi tabù di questi anni, partorendo così una pellicola ai limiti del demenziale, ma che non sottrae lo spettatore da una riflessione profonda su quello che ha appena visto. Morris va oltre lo
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stereotipo (quello che ci ha infuso la tv) del musulmano pazzo che decide da un giorno all'altro di guadagnarsi un posto in Paradiso, ma ci fa vedere quattro amici simpatici, divertenti e soddisfatti delle loro vite che insieme decidono di unirsi alla jiihad. Entriamo nelle loro esistenze, fatte di momenti che tutti conosciamo, tra famiglia, figli e abitudini; ci avviciniamo a loro e così facendo Morris prova a spiegare allo spettatore come delle persone "comuni" un giorno possano decidere di compiere un gesto così fuori dalle righe. Four Lions non si dedica a moralismi, ma con ironia (e vi assicuro che si ride davvero) indaga in una storia che sotto alcuni aspetti è davvero cupa, ma incredi-
bilmente lucida nella sua messa in scena e nella sua narrazione. E' un paradosso come una pellicola palesemente così assurda, possa in verità diventare uno dei prodotti più chiari, acuti, attenti e sensibili sul tema "terrorismo". Irriverente ed oltraggioso, Four Lions è assolutamente da vedere, non tanto per la sua qualità filmica a livello tecnico, che comunque è perfetta per il tipo di prodotto che si sta rappresentando, quanto per la sua sceneggiatura e l'interpretazione dei suoi protagonisti. Morris non lascia nulla al caso, costruendo un'escalation di follia che ci porterà dritti a un finale vertiginoso, tanto prevedibile per il tipo di storia, quanto inaspettato e che vi lascerà di sasso. Da vedere.
Cinema
X-Men: First Class
Di Matthew Vaughn (ITA. X-Men: L’inizio). Eccoci ad uno dei film più attesi dalla sottoscritta. Due sono i motivi per cui mi sto grattando le mani: la regia di Vaughn, più che apprezzato da queste parti per essere stato in grado di partorire un mini capolavoro come Kick Ass; secondo, ma non di certo meno importante, perché sono una fan della saga degli X-Men, uno di quei prodotti tratti da comics che si può ancora vantare di avere un senso, oltre che un richiamo. Come lo dice il titolo stesso, X-Men: First Class è un prequel. Prima di Professor X e Magneto, esistevano Charles Xavier ed Erik Lensherr, due ragazzi che prendevano per la prima volta confidenza con i loro super-poteri. Non erano ancora antagonisti, ma quasi amici, attivi entrambi con altri mutanti nel fronteggiare una grossa minaccia mondiale. Qui si conoscono, qui si dividono, fondando rispettivamente La Confraternita (Magneto) e gli X-Men (Professor X). Tra personaggi conosciuti e meno, l’azione di X-Men: First Class si svolge nel 1962 e l’operazione narrativa che è stata fatta, assomiglia molto a quel Batman Begins visto tempo fa, che ci ha fatto fare un salto all’indietro nel tempo e nella storia del supereroe, inaugurando un fortunatissimo ciclo per Nolan. Non so se Vaughn avrà la stessa fortuna nel poter continuare o se è un’operazione nata e chiusa, certo è che dimostra un’altra volta la sua bravura, rinnovando (come aveva fatto Nolan) una saga. Intrattenimento divertente e intelligente, da non mancare (e non solo per i fans).
Zack and Miri Make a Porno Di Kevin Smith (ITA. Zack e Miri - Amore a... Primo Sesso). Uscito negli U.S.A. nel 2008, Zack and Miri Make a Porno è una piccola commedia romantica girata dal "fu regista" di Clerks (sia primo che secondo capitolo) e di Dogma. Interpretata da un sempre divertente Seth Rogen, è la storia di due amici squattrinati di vecchia data che vivono insieme e non sapendo più come pagare le bollette di casa, decidono di girare un film porno. Messa in piedi una troupe di fortuna, composta oltre che da loro, da surreali comparse, si giurano che il sesso non rovinerà la loro amicizia. Trovatisi di fronte alla telecamera però, riusciranno a mantenere la promessa? Non si capisce perché questo film abbia tardato tanto ad uscire nelle nostre sale e se andate a vederlo, vi consiglierei di farlo in lingua originale: dialoghi incalzanti e brillanti, oltre che divertenti, sono lo scheletro di questa pellicola dalla storia classica e lineare, ma con quel tocco di verve che ce lo fa piacere. Forse un punto di svolta del cinema di Smith, di cui però si vede il tocco sarcastico e irriverente dietro la macchina da presa, oltre che la sua incredibile capacità nel saper giocare con dialoghi e parole (si parla di sesso, e tanto, ma non si vede granché), proponendo una tradizionale commedia romantica, ma inserendoci un tema come quello del porno.
13 Assassins Di Takashi Miike (ITA. 13 Assassini). Uno dei più prolifici registi giapponesi, torna con un film che è la giusta continuazione del suo cinema controverso, sospeso tra pellicole per l’infanzia e film super-violenti. 13 Assassins appartiene alla seconda categoria, restando in bilico tra splatter d’autore e delicatezza formale. Un action in formato Jidai Geki (genere “cappa e spada” di radice giapponese) ambientato in epoca feudale, che racconta le vicende di un manipolo di samurai disoccupati, arruolati per abbattere un Signore sadico e impedirgli di salire al trono, gettando così nella miseria e nella desolazione il paese. Epico ed ambizioso, il film di Miike è un classico rivisitato in chiave ultra violenta, ricco di battaglie cruente (di cui quella finale è forse il meglio tra tutto quello che ha girato fino ad oggi). Il regista è anche bravo nella costruzione e nell’indagine dei suoi personaggi, oltre che nella sua capacità di aver fatto sua una tipologia di film abbastanza consolidata (alla Kurosawa potremmo dire, solo per citare il più famoso), ma di averla trasformata in altro. Questo non lo renderà un cult in Occidente (anche - purtroppo - perché il cast è tutto formato da attori pressoché sconosciuti dalle nostre parti), ma un film davvero godibilissimo e in grado di stupirvi, oltre che di divertirvi.
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Dvd
Di Valentina Barzaghi
Black Swan
Di Darren Aronofsky. Black Swan è uno dei film che più ci ha impressionato, sconvolto, emozionato degli ultimi mesi. Dalla sua presentazione alla scorsa edizione del Festival del Cinema di Venezia, non si fa che parlarne, ma non avendone mai avuto l'occasione su queste pagine, finalmente l'uscita del dvd ce lo permette. Black Swan non è solo l'opera più matura di Natalie Portman, con cui quest'anno ha fatto piazza pulita di premi non lasciando nessuno spazio alle colleghe in gara, ma anche quella di Aronofsky, maestro attento all'immagine e all'indagine psicologica dei suoi personaggi. Se in The Wrestler il regista seguiva il protagonista, qui è come se entrasse in lui, mettendo a nudo (e video) il suo lato più oscuro. Lo fa prendendosi il vezzo di inscenare tutto in una compagnia di balletto, accentuando la rivalità puro/oscuro - bianco/nero con l'opera che porta in scena, "Il Lago dei Cigni", in cui la giovane e candida Nina si trova a dover interpretare entrambi i cigni: quello bianco, più vicino alla sua indole, e quello nero, per cui deve trovare il lato più dark, sensuale, sfrontato e violento di se stessa. Lo sforzo continuo e l'immedesimazione, la porteranno a uno sdoppiamento di personalità, che Aronofsky ci fa vivere come un trip ansiolitico che ci catapulta in un labirinto senza via di fuga. L'incredibile lavoro fatto dietro le quinte di questo film traspare da ogni inquadratura, da ogni giravolta o espressione della Portman. Ci lascia senza fiato il valore filmico di questa pellicola, già dalla prima scena, con quel vortice con cui la protagonista si presenta agli spettatori e che viene riproposto fino al finale. Un cerchio che si chiude o forse che non si è mai aperto. Un film così sulla carta poteva essere come qualcosa di troppo particolare e che rischiava di trasformarsi in pochezza espressiva (generalmente non mi piacciono le forzature al cinema, ma anche nella scena in cui alla protagonista spuntano le ali, non pesa la voluta trasformazione reale in cigno che Aronofsky fa assumere a Nina), ma che nelle mani del regista si trasforma - un'altra volta - in un cult, portandolo sull'Olimpo dei maestri del cinema contemporaneo.
Winter’s Bone Di Debra Granik (ITA. Un Gelido Inverno). Questo mese con i dvd ci va di lusso e così ecco un’altra delle pellicole che entrerà di diritto nella mia Top 10 annuale. Nonostante nelle nostre sale il film sia passato abbastanza in sordina, Winter’s Bone è l’opera seconda della regista e oltre ad aver ricevuto il Premio della Giuria al Sundance FF 2010 e i premi come Miglior Film e Miglior Attrice (Jennifer Lawrence), è stata nominata agli Oscar per quattro premi (tra cui Miglior Film e Miglior Regia) e ai Golden Globe (la Lawrence come attrice). Non proprio bazzecole dunque... Winter’s Bone è un film duro e crudo, una sorta di saga familiare che racconta le disavventure di un’adolescente che tiene le redini di una famiglia: ha due fratellini piccoli, la madre è gravemente malata e il padre è in galera. Nonostante la precarietà della sua esistenza, riesce comunque a cavarsela, dimostrando un coraggio e una forza superiori a quelli che competono alla sua età, ma un giorno alla porta di casa bussa lo sceriffo locale: il padre è uscito di prigione garantendo la casa come cauzione nel caso non si presentasse al processo. Toccherà un’altra volta alla ragazza mettersi in gioco, cercando di ritrovare il genitore, entrando in contatto con tutto quell’universo di criminali e reietti con cui il padre faceva affari. L’interpretazione strabiliante della giovane Jennifer Lawrence, incastonata nella regia tanto rigida quanto emozionale della Granik, fa di questa pellicola un piccolo gioiello, che porta sulla scena un altro personaggio femminile testardo, ribelle, coraggioso e unico. La desolazione e il silenzio dei pendii montuosi del Missouri fanno da sfondo e diventano parte integrante della vicenda, un luogo in cui lo spettatore capisce subito come sia difficile crescere e sopravvivere, un ambiente chiuso e claustrofobico, ostile alla protagonista che cerca a tutti i costi una verità che la comunità di criminali invece vuole tenere nascosta. Tutti coloro che sono un po’ ansiolitici, probabilmente accuseranno questo film, mentre per tutti gli altri rimarrà sì l’angoscia, ma anche quel senso della storia, con quel modo incredibile di raccontarla adottato dalla regista.
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Serial Box
Di Marina Pierri
True Blood Estate, finestre aperte, maniche corte, pantaloncini. E divano. Insomma, non si può uscire tutte le sere neanche quando ci sono trenta gradi fuori e True Blood, da quattro anni, ci offre la scusa perfetta per prendere una pausa dalla mondanità e dedicarci alla nostra seconda vita da televisomani. Il mese è giugno, e il giorno il 26: in America riparte la serie più sovrannaturale della tv, nonché la più sexy, la più sanguinosa e la più, uhm, complicata. Su questa quarta stagione ci sono già troppe indiscrezioni, e non vogliamo rovinarvi la festa, ma pare che verranno introdotti un mucchio di nuovi personaggi (tra cui una fattucchiera, un altro paio di mutanti e qualche lupo mannaro). Inoltre, a giudicare da alcune foto trapelate in rete di recente, pare che il triangolo BillSookie-Eric - il più che desiderabile Alexander Skarsgard – si farà ancora più bollente. Prepariamoci a sudare.
Futurama Quella di Futurama è una storia edificante. Nata come sorella povera (e brutta, e poco seguita) dei Simpson, le due serie hanno smesso presto di avere qualcosa in comune oltre a Matt Groening e le vicende del Planet Delivery Express hanno finito per brillare di luce propria. Almeno fino al 2003, quando la Fox ha rischiato il linciaggio per via di una decisione piuttosto impopolare: cancellare il telefilm. A questo punto si è creato una specie di movimento pro-ritorno-di-Futurama che la stessa rete non ha potuto ignorare e, boom, cinque anni dopo Comedy Central ha rifinanziato il progetto. Il risultato sono stati quattro DVD e ben due stagioni suppletive tagliate in due tranche: una autunnale e una estiva. Il 23 giugno comincia quella estiva della sesta serie. E nel 2012 arriva anche la settima. Dedicata a chi non riesce a stare nemmeno tre mesi senza la tenera idiozia di Fry, o l’ilare sconclusionatezza senile del professor Farnsworth. E tutte le altre cose che lo rendono il nostro cartone preferito.
PIG consiglia:
Portlandia Esiste un luogo, al mondo, in cui il sogno degli anni novanta non è mai morto. Dove tutti hanno piercing e tatuaggi, tutti mettono su una band, nessuno ha un lavoro vero e la gente si sveglia alle undici ogni giorno. Quel posto è Portland, in Oregon. E queste non sono parole mie, è l’incipit di Portlandia, la serie ideata dal comico americano Fred Armisen e – cosa che non dispiacerà ai suoi fan – dall’ex Sleater Kinney Carrie Brownstein. Sappiate che si tratta di una sketch comedy, basata sull’unione di svariati frammenti che condividono la parodia dei tipici “hipster” di Portland: la femminista, il vegetariano, quello fissato con gli alimenti bio, il maniaco della Apple, eccetera. La storia è assai flebile ma la verve dissacrante della serie compensa appieno e lascia davvero l’acquolina in bocca. Al momento ci sono solo sei episodi, infatti, ma a gennaio ce ne saranno altri dieci.
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Books and So
Di Rujana Rebernjak
Directory Qualcuno potrebbe obiettare che scegliere i libri in base al numero di pagine che contengono non sia un criterio valido, anche perché i libri eccessivamente grossi tendono a provocare due reazioni: o intimidiscono o risultano estremamente presuntuosi. Non so se è giusto dire che i libri che ho deciso di proporre meritano tutte le pagine che gli sono state assegnate, e nemmeno che per dire quello che hanno da dire siano veramente necessari tutti quei fogli, però
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vorrei tentare di giustificarli. Directory, l’ultimo dell’infinita serie di libri realizzati da Ari Marcopoulos per Nieves, e in questo caso, in collaborazione con Rizzoli, è un libro che volutamente richiama alla mente l’elenco telefonico. Contenente 1200 pagine, cerca di riassumere trent’anni di lavoro di Ari, proponendo una raccolta di fotografie acute delle culture street che caratterizzano il suo lavoro, ma anche le fotografie di paesaggio e della sua intimità.
Anche se davvero gigante, è difficile affermare che questo libro sia anche esaustivo, ma averlo in mano può dare davvero molta soddisfazione. Titolo: Directory Autore: Ari Marcopoulos Casa Editrice: Nieves, Rizzoli Anno: 2011 Prezzo: 45 euro www.nieves.ch, www.rizzoliusa.co
Clip, Stamp, Fold Clip, Stamp, Fold libro realizzato in occasione dell’omonima mostra, è più di un grosso catalogo. Riunisce più di settanta riviste realizzate tra gli anni ‘60 e ‘70, che erano il campo d’azione della sperimentazione architettonica. Che il libro nasca in un contesto grafico, non è un caso, perché i progetti editoriali, essendo l’unica forma fisica di quei progetti d’avanguardia, non potevano
essere da meno. Clip, Stamp, Fold mette a fuoco l’incredibile produzione di un’epoca, delineandone i tratti e ribaltandone l’interesse progettuale, dalla sperimentazione architettonica a quella grafica. Quello che gli autori vogliono affermare è che questa produzione per quanto auto-prodotta e piccola poteva sembrare all’epoca, oggi è più che rilevante.
Titolo: Clip, Stamp, Fold: The Radical Architecture of Little Magazines 196X-197X Autore: Edito da Beatriz Colomina, Craig Buckley Casa Editrice: Actar Anno: 2010 Prezzo: 45 euro www.clipstampfold.com www.actar.es
In questo ciclo di fotografie astratte, una ricerca iniziata nel 2005, Tillmans tratta la fotografia come un oggetto materiale, non soltanto come media riproducibile. Assieme alle fotografie di mostre in cui venivano presentati i lavori riportati nel libro, scattate da lui, il lettore ha l’accesso più diretto al suo
mondo visivo, dispiegato in tantissime pagine, e ne valgono quasi tutte la pena. Titolo: Lighter Autore: Wolfgang Tillmans Casa Editrice: Hatje Cantz Anno: 2008 - Prezzo: 68 euro www.hatjecantz.de
Lighter Lighter di Wolfgang Tillmans lo classificherei sotto quei libri che incutono timore. Ma non per il numero di pagine o la pesantezza dell’esecuzione, me per il suo autore. Essendo un attivo partecipante del mondo dell’arte, nei confronti di Tillmans nutro particolare rispetto se non un po’ di paura.
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Videogames
Di Janusz Daga (jan@pigmag.com)
PIG’s Most Played. We love the smell of pixel in the morning... Sword & Sworcery _ iPhone/iPad Primo posto nei migliori giochi in assoluto per iPad, arriva anche su iPhone il capolavoro in pixel dei canadesi Superbrothers. Avventura grafica in stile anni ‘80 che mixa perfettamente arte, storia e utilizzo del touch screen. Le componenti ci sono tutte: un guerriero solitario, una foresta magica popolata di strane creature e animali meravigliosi. Impossibile non menzionare l’autore delle splendide musiche che sono poi il cuore di questo gioco, l’artista Jim Guthrie che per l’occasione ha messo a disposizione l’album completo su iTunes e ha prodotto anche una limited in vinile per i veri maniaci. Cinque ore di gioco per una produzione indie che ha poco da invidiare alle meglio cose dei big dell’elettronica. Favoloso. Patapon 3 _ PSP Siamo sempre stati dei fans della serie e con questo aggiungiamo che il terzo episodio riserva parecchie gustose novità. Per chi si fosse sempre chiesto che genere di gioco fosse, possiamo dire che chiamarlo “strategico” è riduttivo. La parte grafica è come di consueto curatissima, colonna sonora più rock del solito per un titolo che si distacca leggermente dalle sue passate velleità ritmiche lasciando più spazio alle avventure, alle sfide e agli enormi mostri da battere. Un perfetto terzo capitolo! Monkey Labour _ iPhone 79 miseri centesimi per questo nuovissimo Game&Watch in perfetto stile anni ‘80. Magari non tutti ne coglieranno il senso, ma
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quelli che mangiavano le girelle e collezionavano le gomme del Mulino Bianco sanno di cosa sto parlando. Gameplay più basico del basico: una scimmia incacchiata scaglia pesanti tronchi di legno sulla nostra testa. Compito del nostro omino a cristalli liquidi è quello di recuperare i legnetti e utilizzarli per scottare le chiappe del primate. Alcune chicche rendono lo scaccipensieri assolutamente desiderabile. Curatissimo e divertente, peccato solo che manchi il famigerato GAME B. Dragon Quest VI: Nel Regno dei Sogni _ DSi Se nel 1995 non avevate il SNES e ve lo siete perso e se nel ‘95 non conoscevate ancora il giapponese oggi è il giorno della vostra riscossa. Imperdibile quarto capitolo della saga di Dragonquest esce su DS con una grafica rivista, una traduzione italiana completa e la possibilità di creare un party di amici, slime e lucertole di vario genere. Se vi piacciono gli RPG giappo e amate i disegni del mitico Akira Toriyama, questo è il massimo. Child of Eden - Psichedelia paradisiaca _ Xbox360 Tetsuya Mizuguchi, il papà di REDZ esce finalmente dalla sua tana e ci regala un altro piccolo capolavoro di grafica e musica. Lo abbiamo provato con il sistema Move e Kinect e ascelle pezzate a parte, possiamo dire che le partite sono più che altro un’esperienza mistica. La grafica si fonde perfettamente con gli effetti sonori, la musica creata apposta dai Genki Rockets, la band dello stesso Mizuguchi, diventa il vero scopo di tutti i livelli. Ad oggi uno dei migliori giochi per Kinect e certamente vale ogni centesimo-pixel richiesto.
Zelda è tornata! Il gioco più amato di tutti i tempi arriva in tre dimensioni, più avventuroso e coinvolgente che mai. Immergiti nella sua atmosfera epica come non hai mai fatto prima e diventa il leggendario Eroe del Tempo!
“È un acquisto obbligato per tutti gli amanti dei videogiochi. Da non perdere!“ Multiplayer.it
© 1998 - 2011 Nintendo. TM, ® e il logo Nintendo 3DS sono trademark di Nintendo.
“Uno dei migliori titoli della saga e uno dei più celebrati giochi della storia.” Everyeye.it
Il gioco è classificato PEGI 12.
Videogames
Di Janusz Daga (jan@pigmag.com)
The Samurai is dead. Long live the Samurai. Il Giappone risorge e lancia una serie di gustose novità. Aspettando l’estate godiamoci qualche specialità. In arrivo l’estate più calda del secolo. Anche se l’esplosione del mercato generalista ha deviato le scelte di molte software house e anche se gli FPS sembrano farla da padrone sui banchi dei nostri centri commerciali, non tutto è perduto. Il Giappone, che veniva dato per morto, per fortuna sembra godere di ottima salute e sforna titoli uno dietro l’altro. E di quelli che piacciono a noi. Anche il devastante Tsunami non riesce a fermare uno dei mercati più floridi
dell’Asia. Lunghe file per il nuovo iPad 2, code per l’uscita del Nintendo 3DS, l’annuncio di una nuova console Wii e una serie di titoloni per Playstation 3 ci dicono che giugno sarà davvero Hot. Per questo abbiamo deciso, prima delle anteprime estive, di mostrarvi e segnalarvi le chicche e i gadget che non potete perdervi. Se ancora non avete finito Yakuza 4, state facendo le notti su Dragon Age e Portal 2 o se proprio non riuscite a mollare
i vostri uccellini incazzati ecco alcuni consigli preziosi su quello che troverete nei negozi e sul web nei prossimi mesi. Si va dal porno al nerd passando per quelli che saranno davvero gli imperdibili come il bellissimo Zelda Ocarina of Time in riedizione a tre dimensioni che ci ha lasciati a bocca aperta, o il comodissimo iPad-cabinet che ha in poco tempo sostituito il nostro vecchio cabinato jamma qui in ufficio.
Per tutti gli amanti delle maggiorate è in arrivo un bel titolo per 3DS: Senran Kagura. E’ un’avventura con la classica ambientazione manga-liceale. L’aspetto più interessante è dovuto al fatto che le protagoniste sono delle teenager maggiorate… a voi la stilo per la prova della consistenza… e l’effetto 3D per un maggior realismo. Mooolto giappo. 126 PIG MAGAZINE
Di Monkey Labour ne parliamo anche nelle recensioni, ma se proprio non potete rinunciare ad un vero scacciapensieri in plastica, vi consigliamo di cercare questa riedizione del Ball della Nintendo. Riproduzione fedelissima dell’originale, solo in scala più piccola. Era per quelli del Club, ma su eBay si trova per poco. Siamo dei fan di Minecraft. Questo è un fatto. Per noi, bellissima la serie di magneti da attaccare sulla porta del frigo.
Quelli di Angry Birds sono ormai una setta massonica, li puoi trovare ovunque. Per loro e solo per loro queste magliette ispirate ai famosi pennuti. Di pochi giorni fa anche una linea speciale dedicata ai supereroi.
Siamo qui in attesa di Ninokuni The Another World per DS. Resistere a quella che potrebbe essere la più bella avventura mai uscita sulla portatile di Nintendo è impossibile e quindi abbiamo deciso di ordinare la copia giapponese. Bellissimo cofanetto completo di libro di magie –un vero libro di cartada consultare per preparare gli incantesimi. Vi ritroverete con entrambe le mani occupate, ma la sensazione di essere un piccolo Potter è davvero impagabile!
iCade. Con soli 99$ potete trasformare l’iPad in un piccolo cabinato –vi consigliamo gli stikers di Rastan Saga della Taito- ne hanno già parlato tutti, ma ora trovate anche un nuovo gadget della stessa serie che vi permette di trasformarla anche in un bel Flipper. In aggiunta, per quelli che non vogliono osare è uscito il JOYSTICK-IT. Una piccola manovella stile sala giochi da applicare direttamente sulla superficie della tavoletta.
Siete dei fan dei Simpson? Imperdibile edizione limitata Xbox 360 con tanto di controller giallo e liscio proprio come la capoccia di Homer.
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Indirizzi A kind of Guise
Energie
Lisa Marie Fernandez
Sessùn
www.akindofguise.com/wp
www.energie.it
www.lisamariefernandez.com
www.sessun.com
Aesa
Eres
Malia Mills
Seventh Wonderland
www.aesajewelry.com
www.eresparis.com
www.maliamills.com
www.seventhwonderland.com
Anntian
Forgotten Future
Missoni
Shakuhachi
www.anntian.de
www.forgottenfuture.co.uk
www.missoni.it
www.shakuhachi.net
Arabella Ramsay
For Luna
Monki
Stussy
www.arabellaramsay.com
www.forluna.co.uk
www.monki.com
www.stussy.com
Assembly New York
Hannah Louise Buswell
New Balance
Super
www.assemblynewyork.com
www.hannahlouisebuswell.co.uk
www.newbalance.it
www.retrosuperfuture.com
Book Club
House of Dagmar
Nike
TCN
www.bkclb.com.au
www.houseofdagmar.se
www.nike.com
www.tcn.es
Carhartt
Jacquemus
Norma Kamali
Thierry Lasry
www.carhartt.com
www.jacquemus.com
www.normakamalicollection.com
www.thierrylasry.com
Christophe Lemaire
Jeffrey Campbell
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Dolce Vita
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Licia Florio
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Duro Olowu
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