PIG Mag 97/99 Natale 2011

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Trimestrale. Numero 97/99, Natale 2011

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SBTRKT intervista a pag. 76 Foto di Piotr Niepsuj

PIG Mag Natale 2011 Publisher: Daniel Beckerman

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Editorial Editor in Chief: Valentina Barzaghi Photo Editor & Creative Consultant: Piotr Niepsuj Fashion: Fabiana Fierotti Cinema: Valentina Barzaghi Art and New Media: Francesca Mila Nemni Books & Design: Rujana Rebernjak Videogames: Janusz Daga

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Contributors for this Issue Marina Pierri, Michela Biasibetti, Maria Aversano, Bobby

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Doherty, Tankboys, Pawel Eibel, Mattia Buffoli, Erik

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Wåhlström, Guido De Stefano, Alessandro Comai, Riley

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Hillyer, Luca Massaro, Romain Bernardie James, Victoire Simonney, Emi, Bertrand Le Pluard, Andrew Durham.

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Special Thanks Bianca Beckerman, Caterina Napolitani, Piera Mammini,

PIG Magazine è edita da B-arts editore s.r.l. Tutti i diritti

Giancarlo Biagi, Radek Szcześniak e Olga Drenda (Unsound),

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PIG Magazine: Copyright ©2002 Edizioni B-Arts S.r.l.

Magazine Layout: Stefania Di Bello

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Autorizzazione del Tribunale di Milano n° 453 del 19.07.2001

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Shave your style. “Circle, Spiral, Line - Fai girare il mondo” Ronnie Abaldonado, 27, B-Boy

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cruZer


Sommario Interviste:

60: Megaforce

76: SBTRKT

80: Korallreven

58: Rodarte

66: Girls On Synth: Speciale Unsound Foto di copertina di Pawel Eibel

Moda:

Street Files:

84: Ex- Factor

100: Emi

50: NYC

Foto di Piotr Niepsuj

Foto di Romain Bernardie James

Foto di Bobby Doherty

Regulars: 12: Bands Around: Lone - Motor City Drum Ensemble 16: Arte: Sabine Delafon 18: Shop: Libreria del Mondo Offeso 20: Publisher: Onomatopee 22: Design: Kueng Caputo 28: Accessori: PIG’s Wishlist 32: Moda News 42:Photographer of the month: Igor Okuniev 112: Musica 116: Cinema 120: Book and So 124: Videogames

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Photo: Spencer Lowell © 2011 Vans, Inc.

Photo: Bryce Kanights © 2011 Vans, Inc.

Art: Mike Giant Photos: Acosta, MEMENTO, Colin Devin Moore © 2011 Vans, Inc.


Š 2011 Vans, Inc.


Bands Around

Foto di Piotr Niepsuj

Lone Asterix @ Rocket, Milano Nome? Matt Cutler (Lone). Età? 26. Da dove vieni? Nottingham, Inghilterra. Cos’hai nelle tasche? Sigarette, portafogli, chewing gum, accendino e telefono (niente di interessante). Qual è il tuo vizio segreto? Collezionare vestiti con sopra disegni di animali. Qual è l’artista / la band più sorprendente oggi? Hudson Mohawke è straordinario. Di chi sei la reincarnazione? Sono nuovo. Che poster avevi nella tua camera quando eri un teenager? Il poster dell’album di Orbital, Insides. Ci dici il nome di un artista o di una canzone italiana? D’Arcangelo.

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Bands Around

Foto di Piotr Niepsuj

Motor City Drum Ensemble Classic @ Tunnel, Milano Nome? Danilo Plessow / MCDE. Età? 26. Da dove vieni? Colonia, Germania. Cos’hai nelle tasche? Il portafogli, l’iPhone, le sigarette e altre cose che non mi servono. Qual è il tuo vizio segreto? Fare finta sull’aero di essere un trance DJ famosissimo. Qual è l’artista / la band più sorprendente oggi? Il tipo che suona come una versione fresca di Terry Callier...Come si chiama di nuovo? Di chi sei la reincarnazione? Probabilmente di qualche jazzista che sapeva suonare il pianoforte, ma si faceva di eroina. Vorrei essere lui. Che poster avevi nella tua camera quando eri un teenager? I poster di graffiti e hip-hop (‘Wildstyle’ etc). Sono ancora a casa dei miei genitori. Ci dici il nome di un artista o di una canzone italiana? Romano Mussolini - Mirage. Fighissima!

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Arte

Intervista di Francesca Mila Nemni

Sabine Delafon Una, nessuna, centomila. Chi è Sabine Delafon? Proviamo a chiederlo a lei. Da quanto tempo vivi in Italia? Da diversi anni, quasi metà della mia vita. I ♥ TO è un lavoro che avevi fatto a Torino nel 2005. Lo rifaresti? Ti piace l’Italia di oggi? No, non lo rifarei. All’epoca nessuno aveva ancora, che io sappia, utilizzato il logo di Milton Glasser I ♥ NY. Oggi invece ogni città ha il suo I Love. Dopo avere vissuto diversi anni a Torino, mi ero accorta di quanto gli italiani, e in particolare i torinesi, si lamentassero del posto in cui vivevano, senza pensare che altrove probabilmente era molto peggio e allora mi era venuto il riflesso opposto, come a dire: “Vaffanculo, a me piace!”. Invece oggi purtroppo nessuno si lamenta più, anche se sarebbe proprio questo il momento di farlo. Io stessa non so per quanto tempo vorrò restare ancora in Italia. I motivi sono tanti… Da qualche anno stai tappezzando alcune cit-

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tà con volantini che ti ritraggono alla ricerca delle tue sosia, “I’m looking for myself”. Sei finalmente riuscita a trovare te stessa? Forse neppure mio nonno che ha 92 anni è riuscito a trovarsi. Credo si tirino le somme di ciò che si è fatto per capire chi si è stati. Con alcuni anni in più sulle spalle dal 2005, quando ho cercato per la prima volta un mio sosia, forse, qualcosa in più lo so. Un vero sosia però non l’ho ancora trovato, anche se la ricerca si è ampliata: inizialmente le locandine erano tradotte in tre lingue, ora in diciassette e le fototessere utilizzate per questo lavoro erano trecento, ora sono più del doppio. Credo che si possa leggere questo lavoro come la ricerca di un’identità mondiale, in cui abbiamo tutti qualcosa dell'altro. Da quando hai 12 anni collezioni e conservi le tue fototessere. Sei arrivata ad averne più o meno settecento.

Sei cambiata o sei sempre la stessa? Ho sempre la stessa data di nascita. Mi chiamo sempre Sabine Delafon. Il lavoro si intitola “Ex”, tantissime piccole morti che danno origine a tantissime piccole nascite. E’ un progetto artistico a lungo termine che avrà esito soltanto alla mia morte. Cos’è la Sabine Delafon Corporation? Ne faremo parte anche noi? Ho fondato la Sabine Delafon Corporation nel 2008. E’ il logico sviluppo dalla ricerca sull’identità personale a quella collettiva. La Corporation è un modo per completare la mia singola identità, un modo per crescere, fisicamente, mentalmente, concretamente. Dal momento in cui si partecipa allo sviluppo del mio lavoro in qualsiasi modo, se ne entra a far logicamente parte. Quindi la risposta è sì, PIG Magazine è entrato nella SDC! www.sabinedelafon.com sabinedelafoncorporation.blogspot.com



Shop

Intervista a Laura Ligresti di Valentina Barzaghi

Libreria del Mondo Offeso Nell’antro d’ingresso di una casa con cortile nella zona di Brera a Milano, si nasconde l’entrata di questo piccolo mondo dei sogni, fatto di tanta cortesia, competenza, ma anche di storie da scoprire. La Libreria del Mondo Offeso - nome tratto da “Conversazioni in Sicilia” di Elio Vittorini - tratta solo autori italiani, una scelta che le regala forte identità. Da tenere d’occhio anche i numerosi eventi che la libreria propone, per conoscere testi e autori nuovi o che non avreste mai preso in considerazione. Mi potresti descrivere la Libreria del Mondo Offeso in poche parole? Un luogo di incontro, confronto, scambio, aggregazione e approfondimento. Mi racconteresti com'è nata? La precarietà unita al desiderio di costruire un progetto di vita che potesse soddisfare sia le mie esigenze primarie (un lavoro e uno

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stipendio, magari non a tempo determinato) consone alle mie capacità, alla mia professionalità, alle mie caratteristiche, ai miei valori e ideali. Mi diresti chi sono i "clienti tipo" della tua libreria? Persone che cercano un ambiente a dimensione d’uomo, non un supermercato

asettico, spersonalizzato e meccanico, dove si possa avere un confronto diretto e un approfondimento. Avete solo autori italiani. Da cosa nasce questa scelta? Da una passione personale e da un'analisi commerciale legata al progetto, alla metratura e alla possibilità di dare profondità all’argomento trattato/scelto. Oltre al fatto di differenziarsi anche per la qualità delle scelte da quelle librerie di varia, che offrono principalmente i titoli di maggiore vendita. Cinque libri usciti quest'anno che ci vorresti consigliare. 1. Ogni promessa di Andra Bajani, Einaudi; 2. L’odore acido di quei giorni di Paolo Grugni, Laurana; 3 .Il demone di Beslan di Andrea Tarabbia, Mondadori; 4. Il contratto di affitto di Marco Passeri, Bietti editore; 5. Teresa di Claudi Fava, Feltrinelli. Cinque autori da scoprire. 1. Marco Passeri: Il contratto d’affitto - Bietti Editore; 2. Giorgio Falco: Pausa Caffè - Sironi, L’Ubicazione del Bene - Einaudi, La compagnia del corpo - :duepunti.; 3. Mimmo Sammartino: Un canto clandestino saliva dall’abisso - Sellerio Editore; 4. Ornella Vorpsi: Bevete Cacao Van Houten!, La Mano Che Non Mordi, Paese Dove Non Si Muore Mai - Einaudi e Nottetempo; 5. Marco Rovelli: Inappartenenza Con Dc Audio Libertaria - Ed. Transeuropa. Qual è il futuro dell'editoria secondo te? Se ti riferisci all’e-book credo che senz’altro occuperà grande spazio nel mercato. Ma credo che la carta non scomparirà, almeno non per i prossimi cinquant'anni. Fino a quando le generazioni avranno il privilegio di maneggiare la carta sin da bambini. Se ti riferisci al progetto culturale oltre che puramente commerciale, credo ci sarà inevitabilmente un'inversione di tendenza. Avverto nelle persone il desiderio di qualità e progettualità. Libreria del Mondo Offeso Corso Garibaldi, 50 20121 Milano


S U N G L A S S E S H A N D M A D E I N I TA LY W W W. R E T R O S U P E R F U T U R E .CO M SUNLENS BY


Publisher

Intervista di Rujana Rebernjak

Onomatopee Onomatopee non è una casa editrice, quantomeno una casa editrice indipendente. Nonostante questo, Onomatopee, guidata da Freek Lomme, merita di essere inclusa in questa sezione per il suo approccio produttivo che cerca di coniugare “l’esperienza di una mostra, con la profondità di un libro” e tiene in mente che il pubblico potrebbe non essere sempre composto solo dai ‘grafici di nicchia’. Come nasce Onomatopee? Onomatopee nasce nel 2006, dalla mia esigenza come curatore e di un giovane graphic designer, di creare una piattaforma che potesse realizzare progetti che uniscono l’esperienza di una mostra con la profondità di un libro. L’intento era quello di fornire forti stimoli nell’ambiente culturale che potessero coinvolgere un pubblico più vasto.

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Che tipo di libri vi interessa produrre? Ci interessa sviluppare dei libri che possano stimolare l’interesse di un pubblico non settoriale. Per esempio, nel progetto “Vis a vue”, relizzato nel 2006, l’intento era quello di stimolare l’alfabetizzazione visiva attraverso tre pubblicazioni nelle quali gli scrittori hanno sviluppato dei testi sulla possibilità di usare la retorica visiva per coinvongere e

persuadere le persone; mentre i designer hanno elaborato questo contenuto in modo che esso fosse reso esplicito visivamente. I vostri libri vengono sempre prodotti in relazione ad una mostra, potresti spiegare meglio come si relazionano questi due tipi di produzione potenzialmente autonomi uno rispetto all’altro? Attraverso la mostra l’osservatore è soggetto all’indagine tramite un’esperienza diretta, mentre attraverso la pubblicazione il contesto e, a volte, la precarietà di un progetto, vengono sviluppati in profondità. Il vostro credo è la cultura come agente sociale. Potresti spiegarci come questo si manefesta nell’approccio di Onomatopee? La domanda che spesso ci poniamo è come attraverso il design, nel senso più vasto della parola, possiamo plasmare quello che ci circonda e dare forma alla nostra società. L’intento è di arricchire il nostro ambito culturale e indagare la comprensione culturale, creando un ponte tra i professionisti commerciali, un’avanguardia autonoma di pensatori e produttori e il pubblico generale. Per questo Onomatopee vuole strutturarsi come uno spazio che conserva le idee e le esperienze per proporle come motivo di ispirazione. Dato che Onomatopee non è una casa editrice nel senso stretto della parola, come mai partecipate a tantissime fiere dell’editoria indipendente? Dato che il lavoro editoriale ultimamente era diventato molto più sostanzioso e la richiesta cresceva in continuazione, abbiamo deciso di partecipare più spesso alle fiere internazionali. Questo ci ha permesso non solo di promuovere la nostra attività, ma anche di entrare in contatto e stabilire una relazione con scene locali in altri paesi. Qual è il libro che ritieni più riuscito? Beh, ci sono molti libri che ritengo interessanti principalmente perché hanno avuto successo tra il grande pubblico. Uno dei progetti editoriali che vorrei far notare è la serie NEST disegnata da Raw Color, che ha vinto il premio dei libri più belli in Olanda. www.onomatopee.net



Design

Intervista di Rujana Rebernjak. Foto di Tankboys

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Kueng Caputo Gli oggetti di cui ci circondiamo parlano inequivocabilmente di noi. Conoscere la casa o lo studio di una persona è un atto intimo, ancor di più se si tratta di un designer. Entrare nello studio di Sarah Kueng e Lovis Caputo, uno spazio enorme condiviso con altri artisti e designer nella periferia di Zurigo, è stato una sorpresa. Lo studio, o meglio il laboratorio/falegnameria/fabbrica del duo svizzero, ha svelato indiscutibilmente la loro natura artigiana. I mobili erano praticamente tutti costruiti a mano e ricoperti di vari campioni di materiali, prototipi, colori, legna, enormi sacchi di cemento. Se guardando i loro prodotti online, in ansia prima dell’intervista, ero solo affascinata dalla loro forma, avendo scoperto come venivano realizzati, le domande troppo formali che avevo in testa sono diventate subito obsolete. È diventato fondamentale indagare un po’ di più questo processo progettuale e capire se tutti quei trapani li usano veramente. Devo dire che mi sento un po’ impreparata per questa intervista, perché online era impossibile trovare qualsiasi informazione biografica su di voi. Come mai? Pensiamo che sia triste riassumere la vita di una persona con poche frasi pubblicate in un sito. Preferiamo lasciar parlare i nostri progetti. Quindi dobbiamo partire dall’inizio. Com’è nato lo studio? Cosa facevate prima? Abbiamo cominciato a lavorare assieme tre anni fa, appena finita l’università dove abbiamo collaborato a progetti come “Five Stars Cardboard”, presentato al Salone Satellite. È strano che, mentre eravamo all’unversità, non siamo mai state considerate; eravamo le outsider della scuola, che tendeva a sostenere i veri ‘industrial designer’. Ora però le cose sono cambiate, dopo tre anni ci invitano a fare i workshop e tenere varie lezioni. Questo ci fa riflettere molto, perché ogni volta che facciamo una mostra in Italia o Inghilterra le persone sono molto più interessate al nostro lavoro che qui in Svizzera... Forse perché la storia del design è molto diversa in altri paesi: l’umorismo è diverso, le persone sono molto più aperte. Parlando di mostre: lavorate molto con le gallerie piuttosto che per altri progetti specifici. Potete spiegarmi un po’ il sistema di produzione dentro il quale vi inserite dato che non si tratta del sistema produttivo industriale? Questa è stata una vostra scelta o semplicemente finora non si è presentata l’occasione per realizzare un prodotto industriale? Finora abbiamo lavorato con i sistemi che richiedono una reazione specifica al contesto, sia perché ci piace lavorare in questo modo sia perché ci sono stati offerti progetti di questo tipo. Abbiamo comunque l’idea

e la volontà di lavorare per l’industria. Però ci stiamo chiedento se siamo adatte alla produzione industriale perché essa implica molta attenzione nella progettazione, cura

dei dettagli e molto tempo di elaborazione. Noi preferiamo sviluppare velocemente un’idea, produrla in minor tempo possibile, vedere velocemente i risultati. Forse per

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questo non abbiamo mai cercato di inserirci in un contesto industriale, anche se pensiamo sia un’esperienza importante, sia dal punto di vista dei rapporti che si possono instaurare che dal punto di vista del sistema di progettazione con il quale bisogna fare i conti. Si tratta di approcci completamente diversi da quelli che conosciamo. Quanto tempo dedicate ad un progetto? Questo ovviamente dipende dal progetto. L’ultimo progetto per la Frieze Art Fair è durato molto di più rispetto al solito ed è stato estremamente interessante avere del tempo per riflettere di più su quello che stavamo facendo. Solitamente sviluppiamo i progetti in tempi molto più stretti per cui non abbiamo l’opportunità di ragionare in modo più approfondito sulle cose. Volevo chiedervi qualcosa sul vostro progetto più noto finora, “Copy”. Com’è nato e come lo state portando avanti, visto che recentemente avete fatto un’altra 24 PIG MAGAZINE

mostra a Berlino? “Copy” è un progetto che nasce all’interno dell’università, in realtà è la nostra tesi di laurea. Il progetto è stato determinato da un contesto molto specifico, quello della mostra di fine corso, che è stata il punto di partenza per la nostra riflessione. Sentivamo che gli oggetti esposti non avevano una relazione tra loro, venivano presentate troppe cose, metà delle quali forse erano inutili. Di conseguenza l’idea è stata sia quella di creare un filo rosso che potesse mettere in relazione i vari progetti e svelare come funzionavano, quali fossero i pregi e gli eventuali diffetti, etc. Il metodo migliore per farlo ci è sembrato copiarli ed accentuare in questo modo i loro elementi costitutivi, la loro funzionalità. Nonostante i vari problemi nella produzione, siamo riuscite a portare a termine il lavoro e il tentativo di coinvolgere di più i visitatori, stimolarli nel non essere passivi in relazione alle cose esposte, ma di cercare

veramente di capire come fossero fatte è stato ottenuto. Anche se sembra semplice ‘copiare’ i progetti degli altri, in realtà realizzare una copia che non sia offensiva, ma nemmeno troppo facile, è un processo molto lungo. Per questo per la mostra tenutasi a Berlino siamo partite da dieci oggetti, ma alla fine ne abbiamo realizzati la metà. A parte questo progetto che state portando avanti da un po’ di tempo, quali sono i vostri ultimi progetti? Uno degli ultimi progetti è stata la mostra “Totem and Taboo” inaugurata a Vienna poche settimane fa. Dal concept della mostra fornitoci dai curatori, l’unica cosa che abbiamo capito era ‘complessità e relazione tra l’arte e il design’. Di conseguenza abbiamo progettato sette sgabelli, di cui cinque sono stati presentati come oggetti di design e due come opere d’arte. I prodotti erano assolutamente identici, cambiava soltanto il modo in cui venivano disposti nello spazio e il prezzo. L’intento è stato quello di far riflettere su quale potrebbe essere la differenza tra l’arte e il design, nel tentativo di rispondere all’eterna domanda se siamo artiste o designer. Secondo voi è necessario stabilire questo tipo di definizioni, delinare i confini stabili tra ciò che è ‘design’ e ciò che è ‘arte’? Secondo noi è una domanda superflua, nonché un’idea molto limitata di quello che potrebbe essere il nostro lavoro. Con la mostra di cui abbiamo parlato prima abbiamo proprio voluto far vedere questo punto di vista. Ma non è la prima volta che affrontiamo la questione. Quando siamo state chiamate dalla galleria Salon94 all’interno della Frieze Art Fair, ci è stata data carta bianca per realizzare un’opera. Come designer, ci siamo sentite a disagio nel tentare di produrre una soluzione senza che ci fosse un problema. Di conseguenza abbiamo deciso di produrre tutto l’arredamento e gli oggetti presenti nello spazio della galleria. L’intento è stato di creare degli oggetti di cui veramente potessero aver bisogno – dagli sgabelli alle bottiglie d’acqua, per arrivare alle penne e matite. I vostri progetti spesso hanno una dimensione riflessiva, quanto importante è che l’idea passi all’utente in modo diretto? Per riflettere su un progetto è fondamentale che qualcosa passi all’utente durante il primo contatto. In questo senso i titoli che diamo ai progetti spesso aiutano, come nel caso di “Copy”, dove prima di assegnargli quel nome per molti era incomprensibile. Parlando del messaggio da passare all’utente. Come affrontate il problema del


pubblico non settoriale, considerando il carattere sperimentale dei vostri progetti? L’esempio più riuscito di un progetto che parla al pubblico più vasto è stata la mostra “The Quadrangular Cloud” organizzata all’interno dell’Università di Syracuse negli Stati Uniti. La mostra tenta di portare avanti il concetto di “Five Stars Cardboard” in un luogo molto specifico. Tenendo presente il tipo di pubblico e le esigenze dello spazio, abbiamo sviluppato una serie di oggetti, dei cappelli, prodotti con vari materiali, di varie forme e colori, che volevano creare una reazione nelle persone che vi inserivano la testa. Abbiamo cercato di sviluppare la curiosità delle persone facendo loro interagire con gli oggetti presenti nello spazio. Le reazioni sono state assolutamente positive in quanto ai visitatori piaceva indagare i diversi punti di vista, poter veramente toccare le cose in un contesto espositivo dove solitamente gli oggetti sono intoccabili. Da questo emerge come la vostra progettazione dipende da un contesto molto specifico... Il contesto è fondamentale per qualsiasi progetto. In ogni progetto, la prima cosa che facciamo è vedere lo spazio in cui andrà ad inserirsi e di coseguenza realizziamo un modello in scala reale. Non facciamo mai

i rendering, disegnamo facendo le cose, per capirne le proporzioni, le forme... Fondamentalmente siamo tutti estremamente influenzati da quello che ci stà intorno, per questo dobbiamo capire come funzionano gli oggetti dentro lo spazio in cui andranno ad inserirsi. Secondo noi uno dei problemi fondamentali dei designer è che spesso progettano in astratto, senza fare i conti con lo spazio in cui andranno a collocarsi i loro progetti. Qual è il vostro processo progettuale? All’inizio discutevamo in eterno, con il tempo le cose sono diventate più semplici, sapiamo che un’idea è giusta quandi ci convince entrambe da subito. Da quest’idea iniziale proseguiamo subito con la creazione dei prototipi, prodotti velocemente, con i materiali che troviamo, per renderci conto di quello che dovrebbe essere il prodotto, per poter visualizzare i nostri pensieri. Un’altra cosa fondamentale è vedere i materiali dal vivo, sentire il materiale, capire come viene prodotto. Il nostro processo parte da alcuni fatti che ci vengono assegnati, dal tempo e dallo spazio in cui lavoriamo, le possibilità che esso ci offre. Da questi limiti emergono nuove soluzioni. Pensate che nei vostri prodotti questo processo sia visibile? Nel progetto per gli sgabelli di Frieze il pro-

cesso è stato fondamentale per il risultato finale dell’oggetto, in quanto essi vengono colorati in pasta per cui il colore finale non può esere previsto. È il processo che determina il risultato, anche se a volte può essere estremamente lungo o faticoso. Quanto è importante che i progetti vengano prodotti manualmente? È una vostro credo assoluto o dipende dalla situazione? Dipende dal tipo di risultato che vogliamo ottenere. Nel caso degli sgabelli, se fossero stati prodotti industrialmente, il prodotto finale sarebbe stato completamente diverso. Dipende tantissimo dal tempo a disposizione e, ovviamente, da quello che ci viene richiesto. Cosa ne pensate del concetto di stile, ritenete di averne uno riconoscibile? La parola stile è troppo abusata. Cerchiamo di sorprendere noi stesse, di non usare sempre lo stesso materiale o lo stesso tipo di produzione, in relazione alle esigenze specifiche di un progetto. Come ultima cosa, una domanda stupida: qual è il vostro progetto preferito? Purtroppo non abbiamo un progetto preferito. Siccome tendiamo a sviluppare i progetti velocemente, siamo sempre concentrate su quella che dovrebbe essere la prossima grande idea. www.kueng-caputo.ch

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PIG’s Wishlist

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1.Alexander Wang 2.Diane von Furstenberg 3.Acne 4.Brown bat by The evolution store 5.Delfina Delettrez 6.A.P.C. 7.Rochas 8.Super 9.A.P.C. Parka 10.Fujifilm 11.Acne 12.Prada 13.Isabel Marant 28 PIG MAGAZINE


I nostri desideri per Natale. Fashion

Di Fabiana Fierotti

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1.Jonathan Sounders 2.Dolce & Gabbana 3.Borsalino 4.Kenzo 5.Ruby Woo by Mac 6.Una fotografia di Ellen Rogers 7.Jacques Magazine 8.Pierre Hardy 9.Umit Benan 10.Acne 11.Vionnet 12.Prada 13.Drawings from the film beginners di Mike Mills 14.The Smiths Collection 29


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1.Miu Miu 2.Super 3.Trickers 4.Kitzune 5.Alexander Wang 6.Chloè 7.Tocca 8.Super 9. Boy by Band of Outsiders 10.Giuliano Fujiwara 11.Frazer 12.Alexander Wang 13.Bulldog Inglese 14.Dr Martens

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1.Dries Van Noten 2.Golden Goose 3.A.P.C. 4.Jacques Tati Collection 5.Un viaggio in Luisiana 6.Volta 7.Adam Kimmel 8.I Heart Transylavania by Jason Nocito 9.Christopher Kane 10.Miu Miu 11.Michael Kors 12.Il ragazzo nella foto 13.Pierre Hardy 14.Vanessa Bruno

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Feature on Designer: Marcella Dvsi marcelladvsi.tumblr.com - Intervista di Maria Aversano

Marcella Dvsi, giovane designer italiana, ci parla di sè attraverso le sue “opere d’arte”. Ha imparato a lavorare a maglia da sola, ha viaggiato e ha vissuto all’estero, ha raccolto le influenze artistiche familiari e le ha rielaborate dando vita a qualcosa che non si può definire, si deve guardare e basta.

Quand’è che hai scoperto la tua passione per la moda e come? Mi reputo una sognatrice.Ricordo che da bambina mia madre mi sgridava sempre perchè avevo la mania di tagliare i vestiti delle bambole e modificarli continuamente fino a distruggerli. Probabilmente una grande influenza è stata anche quella di mio padre. Esprimeva la sua arte con la pittura ed io cercavo di imitarlo, ma dipingendo non

di avere avuto una vita sociale brillante. La maggior parte del mio tempo lo trascorrevo sola nella mia stanza sperimentando senza avere una vera e propria guida. Creavo in base al mio umore senza nessun tipo di progetto su carta, accompagnata dalle note di artisti come Mina, Philip Glass, Handel e Morricone. Chi vorresti che le indossasse? Qualsiasi persona che sia in grado di indos-

tuoi accessori? Perchè indossare un’opera d’arte non è come indossare un vestito. Che definizione dai alla femminilità? Forse è un concetto soggettivo. Per me la massima rappresentazione della femminilità è il contrasto tra forza e delicatezza. La immagino un po’ come una maestosa statua di cristallo. Dovendo indicare un’icona di stile o un

riuscivo ad identificarmi. Hai viaggiato molto nella tua vita, quanto pensi abbia influito sulle tue creazioni? Non abbastanza per soddisfare la mia curiosità e stimolare la mia mente. Penso che questi ultimi quattro anni vissuti a Berlino mi abbiano influenzato molto. Non posso dire

sarle con personalità e carattere. A cosa ti ispiri maggiormente? Sono sempre stata attratta dalla mitologia, dall’occulto e dal potere dei simboli. In un momento storico che vede il sistema moda saturo di qualsiasi cosa, perchè una donna dovrebbe preferire e scegliere i

designer chi sceglieresti? Alexander McQueen. Dove ti vedi tra dieci anni? Not sure. Dov’è possibile acquistare le tue creazioni? Presto avrò uno store online.

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RZA LOGOS: RZA S HO T B Y K A I R E GA N www. we s c. co m / ch a m b e r s


Blog of the month: Lost lost.net.au/vic/ - Intervista a Victoria Hannan di Michela Biasibetti

Con questo numero invernale ci soffermiamo, vi suggeriamo e vi accompagniamo alla scoperta di Lost, un blog contenitore di immagini e parole personali. Pensato dalla creatrice Victoria Hannan e destinato in primis agli amici, un diario online divenuto parte del circolo delle blogger-fotografe più cliccate. Studi o lavori? Lavoro nella parte creativa di un’agenzia pubblicitaria londinese. Mi occupo di campagne digitali per grossi marchi. Contemporaneamente, ogni tanto, scrivo e fotografo da freelance. Nel tuo blog c’è molta fotografia, ma anche moda. Il fotografo di moda che

Ciao Victoria! Come stai? Ciao! Bene, sono molto contenta di poter rispondere a questa intervista! Di dove sei? Fino ai vent’anni ho vissuto tra le colline sopra Adelaide, in Australia. Da allora mi sono trasferita nel Nord-Ovest dell’Inghilterra, a Brisbane e a Manchester. Quanti anni hai? Ho da poco compiuto trent’anni. Vado nel panico quando si tratta di compleanni. Perché hai iniziato un blog? E’ successo circa cinque anni fa, come semplice modo per collezionare e riunire in un unico posto tutte le cose che mi piacevano e che trovavo su internet. Mi è sempre piaciuto scrivere, ma con il tempo il mio interesse per la fotografia è cresciuto. Il blog è diventato il posto adatto dove inserire le foto per me e i miei amici. Non avevo realizzato che la gente lo guardasse davvero, ma fino a un anno fa lo faceva anche mia madre. Dove vivi? A Dalston, nella zona est di Londra, in una grande casa Vittoriana con cinque camere da letto e quattro coinquilini. Ah,

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e una famiglia di volpi! Qualche anno fa il consiglio della zona scoprì che uno dei vicini aveva scavato, in ogni direzione partendo dalla sua proprietà, dei tunnel che si allungavano per venti metri ciascuno. Ora è rimasto solo un vecchio palazzo senza tetto, ma l’uomo talpa è una leggenda locale.

preferisci? Trovo stupende le foto scattate da Autumn De Wilde per la collaborazione tra Rodarte e Opening Ceremony. C’è una grande attenzione sui fashion film. Il migliore? Ho visto il documentario di Bill Cunningham. Rimani ispirato dalla sua passione e abilità di trovare la bellezza ovunque. Il suo punto di vista lo condiziona a 360°, non solo sul lavoro. L’ingrediente per un blog fatto come si deve? Trovare il tuo punto di vista. Ci sono molti blog che comunicano tutti nello stesso modo. Più metti te stesso all’interno del blog, e non intendo inserendo solo foto con te in prima persona, più la gente si interesserà.


Sour

OPEN

THE

POSSIBILITIES

www.disaronno.com

1 part Disaronno 1 teaspoon of sugar half lemon squeezed and crushed ice


Something Else Eyewear

Something Else, celebre brand australiano di urbanwear, per la prima volta si approccia al mondo degli accessori proponendo una linea di occhiali da sole che porta il nome di “Window to the sky”. La collezione si articola in tre linee ciascuna delle quali declinata in un materiale specifico: “The Basic Frame” in quarzo, “ The Radiant Frame” in ambra e “The Classic Crystal Frame” in ametista. Disponibili da ottobre su www.alteriormotif.com.au - www.something-else.com.au Di Maria Aversano

Sofia Coppola per Louis Vuitton Continua la collaborazione tra Sofia Coppola e Louis Vuitton. La giovane regista dà ancora via libera al suo estro per la maison francese cimentandosi in una Resort Collection che pensa al total look nei dettagli: tutto diventa il punto di forza di una donna leziosa ma dinamica, disinvolta ma costantemente attenta a quel “particolare che faccia la differenza”. www. louisvuitton.com M.A. 36 PIG MAGAZINE

Handsom Per la SS 2012, il brand Handsom dall’Australia pensa al tempo libero in chiave formale. Declina un range di outfit pratici dall’aria sartoriale e si rivolge a chi ama quella comodità fatta di polo e pantaloni morbidi ma che non intende soffocare la propria indole elegante e composta. Il tempo libero secondo Handsom è fatto di tessuti basici come denim e cotone, di capi versatili come camicie e chinos e di stampe e colori mai troppo vistosi. Abiti e scarpe per essere easy senza essere banali. www.handsom.com.au M.A.


Vish! Vish! nasce nel 2007 dall’idea di un’illustratrice di stampe e uno stilista brasiliani: Andreia Schmidt Passos e Luiz Wachelke. Si conoscono mentre lavorano entrambi per un brand di abbigliamento femminile e immediatamente decidono di dar forma al comune desiderio di creare un brand giovane prendendo come punto di partenza un solo presupposto: la leggerezza. Esordiscono all’inizio con una linea di sole T-shirt ma, grazie al successo fulminante riscosso in sud America e negli USA, l’offerta si amplia e, partendo da camicie e bluse, si estende anche a pantaloni e shorts in cotoni stampati. La nuova collezione è un’esplosione continua di positività ed energia. Le linee lineari e pulite dei capi lasciano che l’attenzione sia tutta rivolta alle stampe dei cotoni che danno l’idea d’esser disegnati a matita e colorati con imprecisione. Una brand fresco e senza pretese, per vestirsi senza prendersi troppo sul serio. www.vishland.com.br M.A.

Opening Ceremony ss 2012

William Okpo Per la prossima Primavera-Estate, le sorelle Darlene e Lizzy Okpo si ispirano all’album “CrazySexyCool” delle TLC proponendo una collezione con chiari riferimenti alla moda oversize newyorkese. Puntano su silouhettes e colori fluidi, maxidress, jumpsuits oversize e pantaloni vita alta dal cavallo basso. Un vero e proprio inno a quello stile americano dalle forme avvolgenti e dai colori caldi. www.williamokpo.com M.A.

Attraverso l’obiettivo di Tim Barber, Opening Ceremony presenta la collezione donna della prossima primavera\estate. Fil rouge di questo nuovo ciclo produttivo è l’Argentina e i suoi festival musicali. Le linee degli abiti e i colori gravitano intorno ad una femminilità energica e frizzante, che vive la nuova stagione con con capi dalle linee pulite e basiche ma estremamente singolari e divertenti. Ancora una volta, il duo Leon-Lim non fa altro che riconfermare la propria originalità con semplicità, ma con grande stile. www. openingceremony.us M.A.

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Origini Scozzesi Il marchio inglese D.S. DUNDEE presenta la collezione autunno inverno continuando ad attingere alle sue origini scozzesi e traendo ispirazione dalla rigida nobiltà del paese. Ne scaturisce una linea elegante e maschile dove le fotografie anni cinquanta di Paul Strand, scattate durante la visita alle isole Outer Hebrides, ne influenzano silhouette e tessuti. Lana e tweed presenti in prima linea. www.dsdundee.com Di Michela Biasibetti

Utile UTILE è un brand tutto inglese fondato da Jude Afriyie e Tom Lewis. Le menti creative, nate e cresciute a Londra, vantano esperienze al fianco di marchi come Stussy, Albam e Folk. Un marchio ad interpretazione libera, la cui produzione va dai dieci ai quindici pezzi a capo, opponendosi al concetto di produzione di massa. Una linea incentrata su tessuto, costruzione e funzionalità, tra ispirazioni di sartoria classica, militari e capi outdoor. www.utileclothing.com M.B.

Damien Hirst: retrospettiva Dal 4 Aprile al 9 Settembre 2012 va in mostra alla Tate Modern di Londra la prima retrospettiva dedicata all’artista Damien Hirst. Un viaggio nelle decadi che hanno segnato l’arte contemporanea, attraverso l’esposizione di oltre settanta opere tra cui il rinomato squalo in formaldeide da 12 milioni di dollari, dal titolo “L’impossibilità fisica della morte nella mente di un vivo”. La mostra sarà parte del London 2012 Festival, in concomitanza con il culmine delle olimpiadi culturali. (Damien Hirst The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living 1991 © Damien Hirst and Science Ltd. All rights reserved. DACS 2011. . Photo: Photographed by Prudence Cuming Associates). www.tate.org.uk - www.damienhirst.com M.B.

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Tutta la musica di PIG Mag, 24 ore su 24. www.pigradio.com

PIG Radio la trovi anche in iTunes, sezione radio, categoria eclectic.


Brixton Brixton è un brand nato nel 2004 dalla collaborazione di tre amici uniti da musica, cultura, conoscenze e con la volontà di trasmettere il loro stile di vita. Una linea pulita costituita da pochi capi: due modelli di giacca, Brigg e The Ridge, maglieria e felpe. A completare guanti e cappelli, indispensabili nel guardaroba di chi deve affrontare il clima invernale. www.brixton.com Di Michela Biasibetti

Pierrepont Hicks Cravatte e papillon in pregiata lana, seta e cotone per Pierrepont Hicks. Un brand nato in Minnesota dall’incontro tra Mac e Kat, interamente prodotto a New York, con ispirazioni a paesaggi e tradizioni europee: dalle Hebrides Isles scozzesi alle coste dell’Adriatico, giungendo alla Croazia. Il tutto alla ricerca del dettaglio per una quotidianità da valorizzare. pierreponthicks.com/about

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Rivisitare in chiave moderna... Whyred è un brand svedese che per questa stagione invernale propone una collezione dettata dalla contrapposizione tra minimalismo e massimalismo. Tagli netti, forme architettoniche, colori come blu, rosso e bianco in un mix di contrasti decisi per un uomo elegante che ama indossare capi vecchio stampo rivisitati in chiave moderna. http://whyred.se M.B.



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Photographer of the Month: Igor Okuniev http://igor-okuniev.blogspot.com/ - A cura di Sean Michael Beolchini

L’Ucraino Igor Okuniev - di Kiev, classe 1989 - è stato recentemente oggetto di discussione e confronto nei nostri uffici. La contraddizione è nata quando Igor è stato proposto come Photographer Of The Month, affermando che la scelta era stata fatta perché il suo lavoro è sperimentale, differente e quindi nuovo. Non tutti erano d’accordo. Senza stare a specificare le ragioni esatte, credo che il suo lavoro non fu apprezzato soprattutto per la sua oscurità. Una oscurità che ai miei occhi rappresenta uno spazio e un tempo che definiscono chi sia lui, da dove viene, così come una vera influenza grafica. Le immagini crude di superfici in bianco e nero spruzzate di vernice si rivelano eleganti. Incroci bui che rivelano forti angoli e pareti che fanno capolino da ombre scure, comunicano una forte sensazione di immediatezza. Mentre le immense e disturbanti costruzioni architettoniche pesantemente appoggiate a terra, come se fossero appena sbarcate da una vita aliena prendon un fascino curioso, simboli di un tempo segnato. Questo solo per citare alcune delle caratteristiche di queste immagini. Ciò che approfondisce il tutto, dandogli un senso e sottolineando questa coerenza nella visione, e inoltre approfondendo il livello di intensità di queste immagini - è il fatto che tutto sia girato con istintivo, immediato e crudo bianco e nero. Immagini istintive, non create e neanche studiate. Crude e dirette, come tra l’altro l’Europa dell’Est. E questo per me è sperimentale, diverso e, quindi a suo modo, nuovo. Come ti chiami? Igor Okuniev. Di dove sei? Vengo dall'Ucraina. Dove vivi? Sono nato a Kiev, ma ora vivo a Yalta. Ci campi con la fotografia? Non sempre. Se no, come ci riesci? Qualche volta lavoro come graphic designer freelance. Quanti anni hai? Sono nato nel 1989. Quanti te ne senti? Varia di continuo. Quando hai iniziato a fotografare e perché? Ho iniziato a scattare fotografie per i graffiti. Poi, mi sono rivolto a documentare la vita intorno a me - persone, luoghi, diversi tipi di situazioni. Ho studiato graphic design e fotografia. La fotografia può essere il primo passo, il materiale, e dipende solo dall'artista come usarlo e presentarlo. Si tratta più di estetica o del senso delle cose? Avevo iniziato con l'estetica, ma ora è più il senso delle cose. Come descriveresti il tuo modo di fotografare?

All'inizio la mia fotografia era una documentazione di ciò che per me era fonte d'ispirazione. Uso la fotografia come una parte del tutto, in combinazione con arte, architettura e graphic design. Tutte queste discipline interagiscono tra loro. Sono interessato alla ricerca di materiale visivo nell'ambiente in cui vivo. La fotografia come materiale da utilizzare in varie discipline - scultura, design, grafiche... Qual è la tua big picture? La mia percezione sta cambiando di anno in anno. Il tempo passa e mi sto interessando ad altre cose, così non posso dire di avere una foto in particolare, ma ognuna è importante in un particolare periodo. Ma ci sono alcune foto, che sono speciali per me. Cosa altera le tue percezioni? Mi ispirano un sacco di cose. L'ambiente che mi circonda influenza la mia attività più di ogni altra cosa. Cosa non ti piace della fotografia oggi? Suppongo non ci sia nulla di simile all'odio. Tutto dipende dagli autori e da come questi prendono la loro attività. Oggi ci sono un sacco di "spam visivi", così come un'imitazione della tendenza in tutte le attività e questo è triste. Ci sono coloro che hanno un'idea di quello che stanno facendo e quelli che invece se-

guono giusto la tendenza. Non è che tutto questo sia un male, ma è necessario avere una caratteristica e del buon gusto. Cosa ami della fotografia oggi? Mi piacciono molti autori, tutti con qualcosa di speciale. Preferisco la vecchia scuola dei fotografi e l'entusiasmo di quelli nuovi. Che tipo di macchina fotografica usi? Ho usato diverse macchine fotografiche e si sono rotte in diversi modi e situazioni. Mi piacciono le macchine fotografiche compatte con delle buone ottiche, perché sono comode da usare e la qualità delle foto è davvero ottima. Che macchina vorresti usare? Dunque, tutti questi sono criteri, ma senza un modello concreto. La cosa più importante è come scatti le fotografie, che macchina fotografica usi viene al secondo posto. Chi ti piacerebbe scattare in topless? Il topless è per sognatori. Chi dovrebbe essere il nostro prossimo fotografo del mese? Qualcuno dall'Ucraina. Quale sarà il tuo prossimo scatto? Ho abbastanza idee su cosa fare, desidero solo avere un po' di tempo per cominciare. Stavo scattando fotografie e "cercando la via" per un lungo periodo, ma ora voglio usare il materiale che ho come base per progetti con vari media visivi. 43


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Street Files. NYC. Foto di Bobby Doherty - www.bobbydoherty.net

Nome? Kristin Roby. Quanti anni hai? 23. Da dove vieni? Oregon. Cosa fai? Fotografa (freelance). Sei innamorata? Sì. Che progetti hai? Di camminare per la città. Perdi tempo in… Film. Le tre cose più noiose di NYC? Il noleggio, il rumore, il noleggio. Quale sarà la cosa migliore del 2012? Che il mondo non finirà. WWW. kirstinroby.com

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Nome? Colin Lord . Quanti anni hai? 24. Da dove vieni? Brewster, NY. Cosa fai? Copywriter freelance. Sei innamorato? No. Che progetti hai? Vivere di stipendio in stipendio e di infiltrarmi nella upperclass per essere affascinante. Perdi tempo in… Mario kart. Le tre cose più noiose di NYC? I ragazzi del mio college, i beni immobili, Broadway vicino a Houston.. Quale sarà la cosa migliore del 2012? Nuove super razze di cani mutanti. WWW. vitamindmilk.net

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Nome? Dennis Oehl. Quanti anni hai? 21. Da dove vieni? Long Island. Cosa fai? Studente senior della NY University. Sei innamorato? No. Che progetti hai? Andare dal dottore. Le tre cose piĂš noiose di NYC? Le persone, le trombe, trasporto di massa. Quale sarĂ la cosa migliore del 2012? La laurea.

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Nome? Young Sohn. Quanti anni hai? 22. Da dove vieni? Cincinnati, Ohio. Cosa fai? Artista affamato. Sei innamorata? In cerca di qualcuno di speciale. Che progetti hai? Fare foto, diventare famosa, morire. Perdi tempo in… Fare piani che non porterò mai a termine. Le tre cose più noiose di NYC? L'inverno, il lago del parco, i ragazzi. Quale sarà la cosa migliore del 2012? Quando moriremo tutti insieme. WWW. minyoungsohn.blogspost.com

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Nome? Lauren Post. Quanti anni hai? 23. Da dove vieni? MS. Cosa fai? La ballerina con l'American Ballet Theatre. Sei innamorata? Sì. Che progetti hai? Mi godo il bel tempo. Perdi tempo in… Tutto. Le tre cose più noiose di NYC? MTA, la spazzatura, le persone folli. Quale sarà la cosa migliore del 2012? Vedremo.

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Nome? Frank Carino. Quanti anni hai? 20. Da dove vieni? Arizona. Cosa fai? Vado a scuola, faccio foto, suono, esco con il mio cane. Sei innamorato? Sì, di mia mamma, della mia fidanzata, del mio cane, della mia famiglia, dei miei amici e della Coors Light. Che progetti hai? Prendere la moto, andare verso ovest. Perdi tempo in… Niente in particolare. Le tre cose più noiose di NYC? La gente ubriaca in metropolitana, tutto costa troppo, i miei amici fuori. Quale sarà la cosa migliore del 2012? Il nuovo Gateway Laptop. Sono super organizzato in merito. WWW. frankcarino. com, sightseeing.bandcamp.com

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Nome? David Brandon Geeting. Quanti anni hai? 22. Da dove vieni? Bethlehem (PA). Cosa fai? Mangio una banana coi cereali tutte le mattine. Sei innamorato? Sì signore. Che progetti hai? Spero di essere accettato per i francobolli col cibo. Perdi tempo in… Ohhhh, internet. Le tre cose più noiose di NYC? Le persone che ti fissano, l'aria che respiri, pochi soldi per riuscire a viverci. Quale sarà la cosa migliore del 2012? Che il mondo non finirà. WWW. davegeeting.com

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Nome? Julie Rhodes. Quanti anni hai? 20. Da dove vieni? Denver, Colorado. Cosa fai? Sono una studentessa di letteratura. Sei innamorata? Sì. Che progetti hai? Trovare la bellezza in tutto e tutti il più possibile. Perdi tempo in… leggere e vagabondare. Le tre cose più noiose di NYC? Little bugg, le persone che corrono, non sentire quello che le persone dicono per il rumore. Quale sarà la cosa migliore del 2012? Alzarsi la mattina dell'1 Gennaio e gioire del nuovo anno.

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Rodarte Intervista di Fabiana Fierotti. Foto di Andrew Durham

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Rodarte, brand giovane dallo spirito fortemente artistico, nasce nel 2005. Le sorelle Mulleavy sono riuscite in pochi anni, grazie a una grande passione per i costumi di scena, il teatro e appunto l’arte, a costruire attorno al marchio un’identità ben definita che ha attirato l’attenzione della stampa internazionale. Con un’estetica estremamente femminile, gli abiti Rodarte ci portano indietro nel tempo, quando l’eleganza era fatta di materiali pregiati, come il pizzo e lo chiffon, e i ricami rendevano unico ogni singolo pezzo, da indossare nelle occasioni più speciali. Grazie al forte attaccamento di Kate e Laura alle loro origini e all’immaginario appartenente alla California, l’effetto “how” è assolutamente garantito. Come avete trascorso il weekend? Kate e Laura: Siamo state a Death Valley a guardare i fiori selvatici e le saline. Dove siete nate e cresciute? L: Siamo molto ispirate dalle nostre origini. Siamo cresciute vicino alle spiaggie di Santa Cruz, l’Oceano Pacifico, le foreste di sequoie, campi color senape, i papaveri della California , e frutteti di mele. Hare Krishna, psichedelici skaters, hippy, punk, il surf.. tutti questi ricordi hanno dato forma al nostro modo di pensare in modo creativo. Parliamo dei vostri studi: vi siete laureate nel 2001 all’Università di Berkeley in Belle Arti. Come mai questa passione in comune? L: Il percorso che abbiamo intrapreso ci ha permesso di pensare diversamente e di dar forma alla nostra visione estetica. In questo senso, non vorremmo mai fare quello che facciamo in un modo più convenzionale. K: Tutto ciò che creiamo proviene da una visione personale ed è concettuale nella sua realizzazione. Il nostro desiderio di disegnare collezioni a più strati con diversi costrutti intellettuali ed estetici è frutto della nostra curiosità accademica, che è diventata più mirata mentre studiavamo arte e letteratura alla UC Berkeley. Per esempio, l’ispirazione per la primavera 2012 deriva dalle pennellate di Van Gogh nei suoi dipinti. Vedendo uno schizzo fatto nel 1845 di Lord Rosse della galassia Whirlpool, ci interessammo a trovare la connessione tra le immagini del cosmo e lo stile artistico di Van Gogh. Questo disegno è stato fatto 44 anni prima della Notte stellata di Van Gogh e c’è un collegamento visivo diretto tra i vortici di questa galassia e le stelle di Van Gogh. Dopo gli studi vi siete trasferite a Los Angeles e avete creato il vostro marchio, Rodarte. Come mai questo nome? L: Rodarte è il nome da nubile di nostra madre. Cosa rende Rodarte speciale e unico? L: Tutto ciò che creiamo proviene da un luogo personale e viene eseguita con una mano delicata. Noi crediamo nel potere e nella bellezza dell’artigianato e nell’integrità artistica. Ogni dettaglio dei nostri abiti riflette questo.

Molti personaggi iconici di oggi indossano i vostri abiti: Kirsten Dunst, Elle Fanning, Natalie Portman... vedete un po’ del mood Rodarte in loro? Vi sentite rappresentati da loro? L: E ‘un onore quando qualcuno che ammiri indossa il tuo lavoro. Che si tratti di qualcuno come Natalie Portman agli Oscar o Kirsten Dunst a Cannes, è incredibile vedere come donne diverse reinterpretino quello che abbiamo creato. Adoro vedere in che modo la personalità di qualcuno sia in grado di cambiare un abito creato da noi. Possiede un significato per noi Significa nel contesto della sfilata e, allo stesso tempo, qualcosa di completamente diverso nella vita di qualcuno. Parlateci della tua partecipazione a Pitti Firenze quest’anno. E’ stato tutto davvero sorprendente: la location, gli abiti... Che spirito c’era dietro l’evento? K: Eravamo così eccitate quando siamo state contattate dal Pitti per presentare una collezione speciale a Firenze. Dopo aver studiato storia dell’arte all’Università di Berkeley, sia Laura che io eravamo profondamente ispirate da Firenze e dal suo patrimonio artistico. Abbiamo trascorso innumerevoli ore sognando quella città così poetica, ogni magnifico dettaglio attraverso la nostra curiosità e fantasia. Ci dite qualcosa dei progetti futuri del marchio? K: La moda è un mezzo di comunicazione e noi siamo alla continua ricerca di modi different per approcciarci al dialogo. Abbiamo appena finito il nostro primo libro, nato dalla volontà di raccontare la nostra storia... per rivelare cosa c’è dietro alle cose che disegniamo. Per questo abbiamo collaborato con Catherine Opie e Alec Soth. Catherine ha fotografato soggetti come Idexa, Jenny Shimizu, Kate Moenning, e nostri amici come Guinevere Van Seenus e Trailer Susan. Ha fotografato ciascun soggetto sullo sfondo di un colore specifico, e abbiamo selezionato pezzi delle nostre collezioni che interagissero con i colori scelti. Ogni ritratto esprime un intenso senso di intimità con il soggetto, ciò che solo una foto di Catherine Opie può fare. Catherine ha lavorato separatamente da Alec ma il risultato è stato come un vero

dialogo tra le opere. L: Kate e io abbiamo fatto ad Alec una lista di tutte le cose che ci hanno ispirato in California e lui ha fatto un viaggio di due settimane e ha trascorso tutto il tempo per strada a fotografarli. Credevamo che il paesaggio della California fosse fondamentale per raccontare la storia dei nostri vestiti. E ‘stato interessante, perché gli è stato chiesto di documentare le cose che ci interessavano e che hanno influenzato il nostro processo creativo ed estetico, ed è stato così che abbiamo avuto modo di conoscerci. Era come se fossimo amici di corrispondenza. Abbiamo intitolato il libro Rodarte, Catherine Opie, Alec Soth perché, alla fine, tutto del nostro lavoro risultasse una narrazione. Ci dite il viaggio migliore che abbiate mai fatto? K e L: Big Sur Siete sempre insieme? K: Spesso. Abbiamo sempre creato insieme , siamo inseparabili sin da bambine. Le nostre menti pensano come una soltanto. Siete mai state in Italia? Cos’è che vi piace del nostro Paese? E cosa invece no? K e L: L’arte è trascendente al di là della bellezza. Quali sono le vostre canzoni del momento? K: Galaxy 500, Blue Thunder L: The Replacements, Left of the Dial Cos’è che vi ispira sul serio? K: Siamo attratti dall’imperfezione e dalla bellezza del caos. Crescendo la nostra casa è rimasta lo stesso sulla faglia di San Andreas. Mi ricordo di terremoto incredibile d’estate ... ero in piedi nella nostra cucina e in pochi secondi ogni piatto di porcellana, ciotola e bicchiere di vetro era letteralmente volato via dagli scaffali e finito in frantumi sul pavimento. Ricordo di essere stata ipnotizzato dai cocci. Un piatto rotto resterà sempre più interessante per Laura e per me rispetto ad uno perfetto, rispetto ad un oggetto intatto. Il valore è nell’ombra, nella macchia, nello strappo. Lasciate un messaggio ai nostri lettori? “The mountains are calling and I must go.” – John Muir www.rodarte.net

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Megaforce I Megaforce non sono un gruppo di super eroi, anche se il nome ci suggerisce il contrario, ma quattro registi francesi che hanno unito le forze. Lèo Berne, Charles Brisgand, Raphael Rodriguez e ClÊment Gallet, questi i loro nomi, si aggirano sulla trentina e sono dei talenti creativi esplosivi. Tra videoclip per Metronomy, Tame Impala, Is Tropical, Kid Kudi... e commercials per marchi quali Orange, Eurostar, m6 mobile... i Megaforce ci hanno fatto sorridere e divertire, lasciandoci a bocca aperta per il loro modo cosÏ estroverso di mettere in scena delle piccole follie del quotidiano. Nati come graphic designers e conosciutisi in circostanze diverse, amanti del video e amici anche nella vita, attendiamo impazienti il loro primo lavoro di fiction. Li abbiamo raggiunti con una skypecall a Parigi, dove vivono e lavorano. Intervista di Valentina Barzaghi. Foto di Bertrand Le Pluard - www.bertrandlepluard.net 61


Ciao ragazzi, come state? Bene, grazie. Cosa stavate facendo prima di iniziare questa intervista? Stavamo aspettando te. Chi sono i Megaforce? Potete introdurre il gruppo in poche parole? I Megaforce sono Clément (Gallet), Raphael (Rodriguez), Charles (Brisgand) e Léo (Berne) che però non è ora qui con noi. Cos’altro... Ormai facciamo video da quattro anni. Abbiamo iniziato a dirigere proprio quattro anni fa. Siamo dei designers e lavoriamo anche come copywriters. Quanti anni avete? Intorno ai 30, chi più chi meno. Mi dite cosa devo assolutamente sapere riguardo ai Megaforce? Che siamo francesi e buoni amici! Di Parigi, vero? Sì. Abbiamo un sacco di amici qui che però non fanno parte dei Megaforce. Noi eravamo amici anche prima di cominciare a lavorare insieme; questa credo che sia una cosa che accade spesso tra le persone.

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Anche se è difficile. Come e quando vi siete conosciuti? Charles e Clément sono amici da quando avevano 11 anni, in pratica vent’anni fa. Charles poi ha incontrato Raphael durante i suoi studi di graphic design. Clément e Charles si sono incontrati a Leon, dove andavano a sciare insieme e sono diventati amici. Come spieghereste ad un bambino il vostro lavoro? Cerchiamo di raccontare storie attraverso l’uso di una camera. Un’idea carina sarebbe cercare si spiegarglielo, mostrandoglielo allo stesso tempo con la camera. Noi guardiamo le storie attraverso la telecamera e quando vogliamo andare un po’ più in profondità, tentiamo anche di disegnare quello che abbiamo in mente di realizzare in video. In verità, gran parte del tempo del nostro lavoro non è girare, ma tentare di costruire il set e le cose che abbiamo in mente perché vogliamo visualizzarle e riprenderle come le abbiamo pensate. Vogliamo che i nostri sogni diventino realtà.

Qual è l’aspetto migliore del vostro lavoro? E il peggiore? L’aspetto migliore è quando vedi il risultato finale del tuo lavoro. Per qualche progetto capita che ci metti anche uno o due mesi a preparare tutto, quindi quando vedi che ha preso forma, è sempre una piacevole sensazione. La peggiore è il PPM. Quando vai a realizzare commercials e hai clienti e meeting con loro, questo si chiama PPM: Pre - Production - Meeting. Questo credo che sia l’incubo di ogni regista che deve fare un commercial. E’ difficile stare a spiegare per ore quello che hai in mente a persone che non hanno il tuo stesso tipo di background, così glielo devi provare a spiegare come faresti con un bambino. E tante volte lo devi fare con più di uno! Potendolo fare, cosa cambiereste nei vostri lavori passati? Il video dei Late of The Pier è troppo in 2D e rigido nel modo in cui è stato pensato. E’ stato girato con una gru in modo troppo piatto, mentre i test erano stati fatti meglio. Anche il green screen è abbastanza brutto.


La seconda versione del video dei Two Doors Cinema Club doveva essere più forte, ma ci siamo dovuti limitare a fare dei semplici effetti di merda per la mancanza di tempo. Come nelle parti del coro, o del ponte che è stato ripensato il giorno delle riprese, filmando cose a caso e perdendo poi tempo in montaggio. Al video dei Goose mancavano delle parti che pensavamo di aver filmato e su cui poi abbiamo dovuto intervenire in montaggio. La chiusura del video dei Tame Impala avrebbe dovuto essere più surreale e folle, con braccia strappate che rimanevano attaccate e molte altre cose. Ma molti dei props sono rimasti bloccati alla frontiera e il presidente ucraino ha deciso di farci perdere due ore per cercare un’altra soluzione per attraversare il ponte su cui stavamo girando. Nel video di Kid Kudi avremmo dovuto fare alcuni cambiamenti. Le inquadrature sul coro sono troppo naive e non ben pensate. Abbiamo dovuto intervenire in molte parti. Alcuni primi piani sono girati in grandangolo, che

non è una gran cosa. La fotografia dei Metronomy è terribile e la scena con le ragazze che cadono ridicola. La intro del video di Is Tropical avrebbe dovuto essere più intrigante. La scena del pugno non è stata montata bene, rallenta il crescendo. Il video di Cadbury poteva essere a metà tra un prodotto di cose cheap random e uno ben fatto, ben prodotto e ben coreografato. Abbiamo dovuto prendere una di queste due strade e percorrerla. Credo però che l’idea che ci siano persone che si muovono nei vestiti non sia molto chiara. Nei vostri video usate una tecnica che a me piace chiamare “boxes game”, una situazione che diventa un’altra, poi un’altra ancora... Come nei commercials per Orange. E’ ormai una sorta di vostro marchio di fabbrica. Come l’hai chiamata? “boxes game” ci piace. Noi la chiamiamo transizione. E’ un passaggio che è come se sfuggisse al montaggio, per finire direttamente in un’altra scena e in un’altra sequenza. Qual è l’aspetto più difficile di girare

video come questi? Sul set vi dividete i ruoli o fate tutto insieme? All’inizio eravamo tutti e quattro sul set e cercavamo di fare tutti le stesse cose. Era un po’ un casino. Ora che abbiamo più progetti ci organizziamo in modo da avere due persone su un set e due su un altro, così da poter seguire più cose contemporaneamente. Generalmente lavoriamo tutti insieme all’idea e poi due la vanno a girare. E’ facile perché non possiamo dire che ognuno ha un ruolo definito. Tutti possono fare tutto e per questo abbiamo deciso di farlo insieme. E’ come se comunque fossimo quattro durante lo shooting: abbiamo differenti personalità che ci contraddistinguono, possiamo dire che magari qualcuno ha un’indole che lo porta a saper meglio comunicare con gli attori e qualcun altro invece nel controllare che stia andando tutto bene durante il lavoro sul set, ma è tutto qui. Spesso uno di noi è come se stesse dietro al progetto, nel senso che supervisiona tutto e fa da tramite tra il set e l’editing. Ovviamente dipende

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dal progetto, magari ce n’è anche qualcuno in cui mentre uno si sta occupando dell’editing, l’altro cerca di lavorare di più sul “boxes game”... Giriamo tanti progetti differenti in cui tentiamo sempre di organizzarci al meglio. Mi avete detto che nate come graphic designers, quindi nessuna scuola di cinema? Com’è cominciata? Sì, nessuna scuola. Com’è cominciata... La prima volta che abbiamo lavorato insieme è stato nell’estate del 2007 per un video musicale. Lo abbiamo realizzato per questa band che si chiama Naive New Beaters, una band francese di nostri amici. Prima di allora ciascuno di noi per conto suo aveva diretto piccoli video, tra scuola e amici: volevamo riprendere e dirigere. Abbiamo realizzato questo progetto insieme, lo abbiamo fatto gratis per i nostri amici, dopodiché è andato online ed è piaciuto, al che un sacco di case di produzione ci hanno chiamato per lavorare. E’ iniziato il nostro rapporto con Irene75 che ci ha affidato un nuovo progetto. All’inizio lavoravamo per noi stessi, ma poi i progetti sono aumentati e ora è il nostro lavoro principale. Quindi riuscite a camparci di questo lavoro? Sì (ridono). Qual è il vostro ricordo più bello di quando eravate bambini e andavate al cinema? Raphael: Credo che il mio sia il Barone di Münchausen. Sono andato a vederlo quando ero davvero giovane, in pratica quando uscì... Non mi ricordo l’anno, ma credo sia stato negli anni ’80, massimo inizio anni ’90. Mi ricordo di averlo amato ed odiato allo stesso modo. Era angosciante e folle allo stesso tempo. Clément: Per me credo sia stato Jurassic Park. Ero con un amico e fu davvero strepitoso. Charles: Per me è Jose. R e C: Charles è un po’ vecchio. Poi quello era in tv (ridono). Se dovessero fare un film su di voi, chi sarebbe il regista? Un regista del cavolo perché sarebbe davvero noioso (ridono). Anzi dai, no, Gaspar Noé perché quando decide di dedicarsi ad un progetto gli piace sperimentare idee e strutture nuove. Lo rispettiamo dall’inizio alla fine. Che genere sarebbe: drama, romance, thriller... ? Un mix di tutto. Che personaggio interpreterebbe

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ciascuno di voi? Faremmo i Ninja Turtles. Dovremmo trovare Splinter però... Clement potrebbe essere interpretato da Michel Crémades, non so se sai chi sia, nel senso noi non lo sapevamo finché non gli hanno detto che ci assomigliava. E’ un attore francese che interpreta i film di Jean Pierre Jeunet. Leo lo fa Gerard Depardieu e Charles Snoop Doggy Dogg dipinto di bianco. Raphael lo fa Robert Pattinson. Dicono ci assomigli. Cosa possiamo definire folle oggi? Che non siamo super famosi! E’ pazzesco... (ridono) Anche che abbiamo perso delle occasioni con qualche buona band a cui realizzare un video. Tutto quello che qualcuno che pensiamo sia normale definirebbe come normale. Voi avete realizzato un sacco di videoclip per artisti e/o band: quale vi ricordate con più affetto? Forse Is Tropical, il feeling era davvero buono. Li abbiamo conosciuti e ora sono buoni amici. Potendo scegliere, con chi vi piacerebbe lavorare? Il budget è sempre un problema nella realizzazione dei video musicali ed è davvero difficile trovare un artista che ne abbia tanti da investire, tanto che spesso desidereresti aggiungere tu qualcosa al fine di arrivare al prodotto che vuoi. Ci sono band che amiamo molto, ma non possiamo fare molti video perché non avremmo soldi. Ora comunque direi i Metronomy, il loro nuovo album è davvero figo. Beh, ovviamente ci piacerebbe lavorare con Michel Gondry. Il miglior videoclip di tutti i tempi? Quello in cui Jared Leto incontra l’FPS Russa nella foresta. Ma vi definireste dei filmmakers indipendenti? Qual è la vostra idea di indipendente? Non troviamo di essere molto indipendenti. Nei videoclip di più perché scegliamo le musica che ci piace e dopo cerchiamo di lavorare con l’artista. Se lavoriamo con Metronomy o altri è perché ci piace la loro musica: è questo che definisce la scelta. Noi facciamo advertising e commercials, per questo non possiamo definirci così indipendenti. E’ solo questione di gusto. Lo siamo a volte, ma forse la nostra immagine suggerisce il contrario, rimanda all’indie: se pensiamo al termine, a un tipo di prodotto, anche nella nostra testa pensiamo a cose come le nostre. Quando fai un commercials non ti devi

più preoccupare del budget, ma allo stesso tempo puoi arrivare a fare un lavoro indipendente. Il problema è che per noi, quando tenti di uscire da una qualità mainstream, rimane solo questione di creatività. Devi rimanere creativo, che tu stia lavorando con budget alti o bassi. Tutto è sempre molto costoso, per cui tentiamo di lavorare senza usare grossi budget, vogliamo unire un tocco di mainstream alle nostre idee, che così prendono vita dimostrando che ci si può riuscire veramente. Unico problema è che spesso è difficile trovare progetti che lascino libero sfogo alla creatività e che abbiamo destinati dei budget. Come vi vedete tra dieci anni? E’ una domanda che ci facciamo spesso. Una delle domande che ci facciamo è che cosa ne sarà se decidessimo di non fare più commercials. Purtroppo il commercial è qualcosa attraverso cui sei obbligato a passare. E’ un processo e un’ottima scuola per imparare, perché hai ottime possibilità di girare cose che in altro modo non avrai mai l’opportunità di fare e imparare. E’ come se parli con qualcuno e questo qualcuno parlerà per te, ma senza che tu abbia la possibilità di intervenire. Ovvio, ci piacerebbe iniziare a fare qualcosa tra cortometraggi e fiction. Vogliamo andare in quella direzione, ma dobbiamo continuare a fare commercials per avere i soldi. Per riassumere: per i prossimi dieci anni, l’idea è quella di fare altri lavori e non solo commercials o videoclip, anche perché se non sei in grado di trovare altri lavori finisci di essere un regista, diventando un regista di commercials o videoclip.... Lavorare per un corto o per una fiction sarà totalmente differente perché ci saremo noi, mentre per tutto quello fatto fino ad oggi c’era sempre qualcuno o qualcosa. Inizi a lavorare sul progetto quando vuoi e decidi tu cosa ci deve essere. Poi inizi a girare. E’ un esercizio che non vediamo l’ora di cominciare a fare. Avete mai iniziato a scrivere un corto? No, ne abbiamo parlato spesso, ma mai seriamente. Sentiamo solo che dobbiamo fare qualcosa. In questo momento abbiamo un giusto bilancio tra commercials e videoclip e vogliamo iniziare quest’altro esercizio, provarci in quattro registi. Non è così comune. La domanda che nessuno vi ha mai fatto, ma a cui vi piacerebbe rispondere? Questa! (ridono)


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Girls On Synth: Speciale Unsound Attratti dal tema “Future Shock”, lo scorso ottobre siamo stati a Cracovia per seguire l’Unsound, uno dei festival di musica più avvincenti d’Europa. Abbiamo visto artisti che non dimenticheremo. Morton Subotnick che riproduce “Silver Apples of The Moon” del 1967 col suo sintetizzatore Buchla. Chris & Cosey e la loro magistrale prova di cold wave. Juan Atkins e la techno mutante della man-machine Model 500. Andy Stott con i suoi bassi ipnotici. Villalobos, sperimentale come un pittore nella chiesa di S. Caterina. Un Daniel Martin-McCormick dall’energia inesauribile. I Sun Araw neo psichedelici al museo dei manga. Ed è proprio qui che abbiamo voluto conoscere di persona quattro tra i nomi femminili più freschi dell’elettronica contemporanea: LA Vampires, Laurel Halo, Maria Minerva e Stellar OM Source. Arrivano da Los Angeles, New York, Tallin e Parigi. Pubblicano su etichette culto dell’underground come Not Not Fun, Hippos In Tanks, 100% Silk, Olde English Spelling Bee e hanno in comune la passione per i sintetizzatori e il lavoro in solitario. Ma, soprattutto, sono donne. Pronte a sovvertire il cliché machista sulla produzione di musica elettronica.

Testi di Gaetano Scippa. Foto di Pawel Eibel 66 PIG MAGAZINE


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LA Vampires La Not Not Fun è una delle etichette più avventurose del sottobosco losangelino. Nata dalla creatività dei coniugi Amanda (LA Vampires) e Britt Brown, sta scalando le barriere del digitale a suon di vinili e cassette per un pubblico di cultori sempre più ampio. Dall’arte concettuale all’estetica passando per la sensualità, ecco come reinventarsi nel 2012.

Intervista di Gaetano Scippa. Foto di Pawel Eibel - andhere1go.blogspot.com

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Quando e perché avete mollato il vostro lavoro per fondare la Not Not Fun? Britt Brown: Nel 2004 lavoravo per la rivista di moda Flaunt e Amanda era la mia stagista. Uscivamo insieme, suonavamo nei Weirdo/Begeirdo e conoscevamo altri validi artisti senza etichetta. All’improvviso Amanda, dopo essersene andata dal magazine, mi propose di mettere in piedi una nostra etichetta, per pubblicare materiale meritevole di attenzione. Non avevamo un’idea precisa, volevamo raccogliere buona musica da ogni parte del mondo. Britt, esci sempre con le tue stagiste? BB: E’ stata la mia prima volta, e ci siamo sposati (risata, ndr). Amanda Brown: E’ colpa mia. L’ho forzato, lui non voleva. La verità è che lui era un ottimo capo, io una pessima stagista. BB: Infatti poi te ne sei andata. AB: Ti ho piantato lì per rivederti fuori dall’ufficio. BB: Abbiamo avviato l’etichetta in modo meno autoconsapevole di altri, per mettere insieme la nostra creatività, senza barriere sul genere di musica da pubblicare. Solo ciò che ci piace, psichedelia, strano bedroom pop o ambient noise. Cos’è cambiato da allora, oggi che siete tra le realtà underground più conosciute? AB: Ora dedichiamo alla label tutto il nostro tempo, le energie, l’amore e il denaro. Possiamo pubblicare più uscite, incontrare più band, ascoltare tutti i demo e i master. E’ un circolo virtuoso: più curiamo le cose, più aumentano i nostri fan. Ci facciamo conoscere, andando in tour o attraverso interviste, in modo che anche l’audience più lontana da Los Angeles possa apprezzarci. Non siamo qui per diventare miliardari, tuttavia non ci dispiacerebbe (risata, ndr). Riuscite a sopravvivere solo con questa attività? AB: Per fortuna sì, perché abbiamo poche spese generali. Non avendo dipendenti sosteniamo costi molto bassi, e inoltre lavoriamo da casa quindi paghiamo meno tasse. BB: La nostra vita è il nostro business: meno spendiamo e più riusciamo a investire nei prodotti. L’economia non va benissimo, ma viviamo in una zona tranquilla e poco cara, Highland Park, a quattro minuti da Eagle Rock dove siamo stati per sette anni. Che ne è di Bethany Cosentino, con cui tu Amanda hai condiviso i primi passi nei Pocahaunted? AB: E’ più giovane di me ed è voluta andare a studiare a NY. Per un po’ ho portato avanti il progetto, ma quando Bethany è tornata a LA ormai le nostre strade si erano divise: lei pop, io underground. Anche volendo, non

riuscirei a fare lo stesso. Non saprei come scrivere una canzone pop, i miei testi e suoni sono più strani. Perché LA Vampires è sempre in collaborazione con qualcuno? AB: Per me non è divertente lavorare da sola, anche se quasi tutti gli artisti lo preferiscono. Amo la condivisione di questo lavoro, ho bisogno di un partner. Zola Jesus, Ital, Matrix Metals sono collaboratori molto diversi. Cosa cerchi in ognuno di loro? AB: Cerco persone brillanti che mi rendano brillante. Non voglio restare ingabbiata in un unico progetto o tipo di suono, per questo mi piace lavorare con persone ricche di spiritualità, capacità e passione come Maria, Daniel e Damon (Minerva e Mi Ami, ndr) e di recente anche con Pariah. Vorrei possederli, ma non è possibile. Viviamo in città diverse e produciamo musica diversa, ma stare insieme anche per un solo progetto è un’esperienza davvero eccitante. Quando ho lavorato con Zola Jesus ero terrorizzata: lei è molto più dark e drammatica di me, la sua voce mi intimidisce. A cose fatte sono rimasta di stucco, non avrei immaginato un risultato simile. Con la musica di Daniel, invece, mi sento più affine. E’ una contraddizione cercare la spiritualità ed essere concettuali? AB: Avere contraddizioni rende più interessanti. E’ vero, mi considero più un’artista concettuale che una musicista fresca, come può essere Maria. Per ogni album immagino un tema, un protagonista, ma dal mio interno cerco sempre di essere sincera ed empatica. Quali sensazioni vuoi dare all’ascoltatore? AB: Dipende, con Zola Jesus qualcosa di sensualmente oscuro e haunting; con Daniel qualcosa di sexy e triste, a metà tra sensualità e malinconia; con Matrix Metals ho cercato di sembrare più sbandata. …e sexy. AB: Ma certo! Voglio essere sexy in ogni progetto. Sai, mi viene più naturale ora di quando avevo vent’anni. Mi sento più esperta e non ho il timore di mostrarmi per quello che sono. Non dobbiamo fare tutte come Britney Spears o aver paura di apparire troppo sexy e senza profondità. L’intelletto è la cosa più sexy che esista. Non avete paura di perdere genuinità con la crescita del vostro business e l’avvento del digitale? BB: Il trucco è conservare l’ispirazione. Non è solo business, è amore. Lavoriamo più ora di quando eravamo assunti, non stacchiamo mai. AB: Nemmeno la sera a tavola e nei

weekend. E’ stressante ma appagante. La musica ci mantiene giovani e vitali (risata, ndr). Qualcosa con la crescita dei volumi è inevitabile che si perda, come le lavorazioni a mano che facevamo all’inizio su ogni prodotto in edizione limitata. E abbiamo dovuto cedere anche sul fronte digitale: continuiamo a preferire vinili, cassette e perfino i CD ai file digitali, ma la modernità non guarda indietro. Dobbiamo rispettare anche chi ascolta la musica su iTunes o con l’iPod. Il vostro è un approccio estetico, al lavoro come nella musica. AB: L’estetica per noi è tutto. Nella musica, prima ancora che artisti siamo dei fan. Ci lasciamo ispirare da ciò che è bello, una canzone, un’opera d’arte, un film, una conversazione, e lo traduciamo senza freni in musica. Con la Not Not Fun, invece, siamo un po’ più cauti nel cambiare estetica: cerchiamo di fare piccoli passi avanti e vediamo chi ci segue. Ci piace la dance, ma non possiamo catapultare i nostri fan nella dance pura, dobbiamo avvicinarli prima all’elettronica, alle drum machine e ai beats. E’ anche per questo che è nata la 100% Silk, etichetta parallela che attrae a sé il pubblico meno intransigente della Not Not Fun. Ed è anche il motivo per cui non potete spingere troppo sul dub, genere che amate. BB: In Inghilterra sarebbe diverso, ma in America non possiamo spingerci oltre una mera influenza del dub nelle nostre produzioni. Siamo partiti da cose più ambient e psichedeliche e ci stiamo evolvendo, l’importante è suonare freschi. Come si fa a restare freschi quando tutto è già stato detto? AB: E’ dura, ma oggi in musica siamo allo stesso livello di collage in cui si trovò l’arte visuale negli anni ’60-’70: dal cubismo all’astrattismo, c’era già stato tutto, tranne il pastiche. Ora si scava un po’ qui e un po’ lì, ma anche questa è una forma d’arte. La sfida è rispettare il passato dando un tocco moderno. Nel 2012 non si può essere originali al 100%, basterebbe arrivare al 20%. Senza contare che non tutti gli ascoltatori hanno una vasta cultura musicale, specie i più giovani. Chi non è cresciuto con Siouxsie Sioux potrebbe avvicinarsi alla sua musica partendo da Zola Jesus. Trovate il tempo per fare altro? AB: Dobbiamo trovarlo, siamo pur sempre una famiglia, essere umani, amici, compagni, scrittori. Sono riuscita a scrivere un romanzo sugli adolescenti di LA, Drain You, che verrà pubblicato nell’estate 2012. Ormai siamo adulti, non possiamo più fregarcene come a vent’anni. 69


Laurel Halo

Intervista di Gaetano Scippa. Foto di Piotr Niepsuj

Producer dalla sensibilità pop e il potenziale techno, che sfrutterà a breve con un nuovo progetto più orientato al dancefloor, Laurel Halo è un’artista seria e di talento. Ci parla degli studi classici, la folgorazione per l’elettronica, l’incontro con Daniel Lopatin, ma soprattutto della sua musica “massimalista”, androgina e da ascoltare rigorosamente in macchina. Ciao Laurel, qual è il tuo nome di battesimo? Ina Cube. Dove sei cresciuta? Ad Ann Arbour, cittadina universitaria del Michigan distante 40 minuti da Detroit. Ora dove vivi? Mi sono trasferita a Brooklyn nel 2009 perché ci sono più musicisti che si inseriscono attraverso i confini musicali, mentre ad Ann Arbour c’è una scena salutare ma fin troppo definita di musica noise, folk e dance. Io sento di muovermi in un altro territorio. Hai un lavoro oltre a quello legato alla musica? Appena spostata a New York lavoravo full time potendo dedicarmi alla musica nelle ore libere. Nell’ultimo anno, invece, mi sono concentrata esclusivamente sulla musica. Hai studiato musica o sei autodidatta? Ho iniziato a suonare strumenti classici come pianoforte e violino qundo avevo rispettivamente sei e dieci anni. All’università ho proseguito col piano, ma non sono mai stata un granché. Una pianista mediocre, direi. Dicono tutti così. No, sul serio. Non hai idea di come suonavano e interpretavano bene il pianoforte certi ragazzi. Al college credo di aver appreso di più sul piano teorico, la storia della musica e l’armonia, che su quello pratico. Ho imparato a condurre la voce e a distinguere l’altezza delle note, ma, per esempio, delle tante lezioni di opera non ricordo nulla. Mi sentivo ingabbiata in una sorta di musica da chiesa, per cui ho cercato ispirazione fuori dal contesto accademico, suonando o improvvisando con i gruppi e facendo la dj alla radio dell’università. Questo lato “spirituale”, specie nell’uso della voce, si sente di più nel precedente EP King Felix che nell’ultimo Hour Logic. E’ vero. Nel primo EP ho pensato a parti vocali che si muovessero insieme, si scontrassero e poi si riunissero. Conflitti e risoluzioni. Invece nell’ultimo ho concepito un suono diverso, più techno anche se spezzato, per il quale una voce pop non avrebbe trovato maggior spazio. In realtà qui la voce è in due tracce, ma viene campionata in tutti i pezzi dove sospiro o utilizzo timbriche diverse. Adesso comunque sto lavorando a un nuovo album fatto interamente di canzoni, in cui cerco di fondere lo stile e la scrittura di King Felix col valore produttivo di Hour Logic. Com’è che a NY ti viene da pensare più alla techno rispetto a quando eri vicino Detroit? In effetti potrei trasferirmi a Detroit nel giro di

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qualche anno. E’ lì che mi sono innamorata della musica elettronica, nel 2001. A 16 anni non avevo mai ascoltato un disco di elettronica, ma dopo l’esperienza dal vivo al Detroit Music Festival il mio cervello è cambiato. Ora voglio produrre quella musica, a mio modo. Il tuo suono è complesso e stratificato. Quanto ci lavori dietro? Hour Logic viene talvolta criticato per le sue improvvisazioni, mentre la maggior parte degli album dance e techno tirano dritto, con i vari elementi della struttura – ritmo, bassline, synth e così via – facilmente distinguibili. Io al momento ho un approccio massimalista, tendo a buttarci dentro di tutto e a differenziare i beats in ogni traccia, per caricare più il groove o dare spinta. In termini di tempo, impiego di più a scrivere una canzone perché devo bilanciare arrangiamenti e voci. In genere comincio con arrangiamenti grezzi cercando di avvicinarli il più possibile all’atmosfera definitiva, in quanto questi determinano i testi, il modo di cantare e la melodia. La tua musica è più cerebrale o fisica? Vorrei che fosse entrambe, e da producer credo che la miglior dimensione possibile per scoprirlo sia la macchina. Se suona bene lì, suonerà bene in qualsiasi impianto. Mi piace pensare alla musica come qualcosa da assimilare, che tiri su quando sei stanco, sei in giro o torni a casa dal lavoro, perché è così che io la sento. Alcuni faticano a entrarci dentro, per cui sto lavorando anche a un altro progetto più dance e dritto – ma non troppo, non ne sarei capace – con un moniker diverso. Hour Logic mi ha portata a un punto di separazione tra sensibilità pop e da club: col nome Laurel Halo porterò avanti il lato pop, mentre con un nuovo nome – che non posso rivelare – svilupperò quello da club. Quando uscirà il nuovo progetto da club? Nei primi mesi del 2012 uscirà il primo singolo per Liberation Technologies, sotto etichetta dance della Mute. Fai tutto da sola a livello produttivo? Sì, nel nuovo progetto faccio tutto tranne il mastering, mentre come Laurel Halo faccio fare il mix ad altri perché non ho ancora sufficienti capacità da studio. Lavorare con altri produttori mi sta bene nella misura in cui questi non compromettono l’identità del mio suono con la loro impronta. Mi spremo le meningi a cercare i suoni più adatti e quando mi areno preferirei un feedback esterno, se non altro per accorciare i tempi. Quali produttori ammiri in ambito techno?

Mark Ernestus, Oni Ayhun, Darren J. Cunningham, Lukid, Carl Craig e molti altri. L’elenco potrebbe continuare all’infinito. Come vedi l’attuale scena elettronica? I trend musicali nascono e svaniscono rapidamente, ma quello della musica dance ancor più degli altri. I dj ricevono e lanciano le nuove tracce prima di tutti, aiutando a spingere lo sviluppo dei suoni futuri molto più che negli altri generi musicali. Differenziarsi in uno scenario dove tutto è stato già fatto è sempre più difficile, nella musica come in altre forme d’arte. La voce, il messaggio, l’anima, il cuore e il cervello sono gli elementi che possono rendere il tuo lavoro unico e permetterti di evolvere. Da quanto tempo sei in contatto con Daniel Lopatin? Dalla primavera del 2010, ma ascoltiamo le rispettive produzioni anche da prima. Amiamo parlare di musica, ci confrontiamo e consigliamo a vicenda. Lui mi incoraggia a sentirmi più libera nelle scelte, è un buon amico. Cosa pensi del suo album con Ford? E’ un lavoro eccellente dal punto di vista produttivo, ma preferisco i pezzi strumentali a quelli cantati. Non capisco però gli hipster che lo criticano solo perché ha rivisitato gli anni ’80 quando ora vanno di moda i ’90. Come ti vedi in confronto a Stellar OM Source, Maria Minerva e LA Vampires, le altre protagoniste di questo speciale? A fare una distinzione grossolana, Maria Minerva e la Brown lavorano con suoni lo-fi, mentre io e Stellar OM Source abbiamo in comune l’apertura dei suoni. Lei reinterpreta la kosmische in modo poco emozionale, dal punto di vista delle macchine. Il che per me è un complimento: mi piace la musica delle macchine. La mia musica è un po’ più ottimistica e l’energia oscura è a un livello inferiore rispetto a quella di Maria Minerva. Diciamo che tutte noi usiamo molti strati. O forse siamo tutte donne e quindi la nostra musica è la stessa (risata, ndr). Come ti senti da producer donna in un mondo prettamente maschile? E’ dura in quanto la gente è restia al pensiero che a fare i beats ci sia una donna. Per tradizione, nella musica elettronica la figura femminile è associata al cantato o al massimo alla scrittura, mentre a quella maschile spettano i ritmi e la produzione in generale. L’essere donna influenza la percezione degli ascoltatori: ho sentito descrivere la mia musica come ‘floreale’, ‘morbida’, ‘romantica’, o con altri aggettivi con cui viene stereotipata la figura femminile, mentre io credo che la mia musica sia androgina.


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Maria Minerva Ambiziosa creatura lanciata da Amanda Brown, arriva da Tallin per colpire l’eurozona con la sua torbida “disco not disco” e un’immagine sfocata di sensualità baltica. Autoironica e naif, Maria Juur è una perfetta aspirante icona pop underground. L’abbiamo incontrata a Milano per un evento Vice, due giorni prima di ritrovarla ad Unsound più felice che mai, con tutta la famiglia Not Not Fun. Intervista di Gaetano Scippa. Foto di Mattia Buffoli www.mattiabuffoli.com

Quando e perché ti sei trasferita in Inghilterra? Tallin mi è stata stretta sin da piccola, ma ho deciso di andar via nel 2009 perché stavo vivendo malissimo una sorta di triangolo amoroso con una persona fuori di testa. Più che il tipo in sé era la situazione claustrofobica a nausearmi: hai presente quando ti trovi a una festa dove quattro ragazzi con cui sei stata a letto confabulano tra loro? Desideravo far parte di una città stimolante a livello culturale come Londra. Amo i miei genitori, però ormai ero rinchiusa in camera a guardare la tv, annoiata e infelice. Terminata la laurea ho pensato di andare cercare un lavoro lì (da stagista a The Wire a barista, ndr) e fare un master in Art and Theory alla

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Goldsmith. E’ stata dura, ma la miglior decisione della mia vita. Cosa cerchi nella vita di tutti i giorni? Vivo alla giornata. Stando da sola all’estero ho il terrore di rimanere senza soldi e finire per strada, ma cerco di restare calma e trovare un modo per guadagnare qualcosa anche al di fuori della musica. Con la crisi finanziaria le cose sono peggiorate. E’ triste sapere che su una popolazione di 1.3 milioni di abitanti, 100mila hanno lasciato il mio paese negli ultimi tre anni, oltre il dieci per cento. I salari medi in Estonia sono di tre euro l’ora, contro i dieci nel Regno Unito e Australia, e non c’è assistenza sanitaria garantita. L’incertezza e la precarietà influiscono sul-

la tua musica? E’ una cosa astratta. Per me la musica è escapismo. All’inizio del tour avevo solo 200 sterline sul conto, ma poi ho scoperto un fondo poco conosciuto che sostiene con migliaia di euro la musica estone all’estero, quindi ho fatto domanda e ottenuto un finanziamento. In ogni caso sono privilegiata, faccio parte della classe media, mentre ci sono molti giovani artisti e non che stanno peggio di me. Sei contenta di essere un’artista solista? Non mi vedo in una band, al massimo qualche collaborazione. Per esempio farò un album con Amanda Brown (LA Vampires, ndr). Ma di questi tempi è difficile lavorare con altre persone. E comunque la maggior


parte dei miei artisti preferiti sono solisti, come Sun Araw e tutti quelli della Not Not Fun. E poi mi piace lavorare e andare in tour da sola, mi scoccia solo dover trasportare le borse. Come hai conosciuto Amanda? In realtà prima di venire ad Unsound non ci eravamo mai incontrate di persona. Conoscevo l’etichetta, non perché trendy ma per l’ottimo lavoro e la cura con cui fanno le cose. Sono bastati cinque link su YouTube per convincerli a pubblicare 20 mie tracce tra cassette, 12” e altri formati. Ora considero Amanda come una sorella. Che rapporto hai con gli strumenti, specie i sintetizzatori? Quando ho cominciato mi sembrava impos-

sibile ottenere i suoni che avevo in mente. Dopo aver imparato a usare certi programmi ci ho preso gusto. La tecnica, tuttavia, non è tutto: ci sono persone estremamente abili senza stile e viceversa, persone senza tecnica come me che puntano tutto sul tocco (risata, ndr). Quanto conta l’uso della voce nelle tue composizioni? Parecchio, ma non in senso classico come molti vorrebbero. Mi piace scrivere canzoni su cui poggiare la voce come una nuvola, senza che questa predomini e, anzi, lavorandola con gli effetti fino a renderla una tessitura del suono. Se le donne sono abituate a rivelare voce e corpo in un certo modo, non significa che io debba fare lo stesso. Qualcuno ha accostato la tua voce a quella di Nico. Nico era molto più gotica di me, magari si fanno ingannare dall’apparente freddezza e distanza della mia voce. Forse inizialmente era così, ora invece mi sento più coraggiosa e sicura di sperimentare. Anche di emozionare chi ti ascolta? Più che emozionante, vorrei che la mia musica suonasse bella o interessante (risata, ndr). Non fraintendermi, anch’io sono una persona che si emoziona e ascolta canzoni sentimentali. Ma sembri più attratta da questioni estetiche o intellettuali. Sì. Preferisci la sublimazione dei sentimenti a quelli reali? In effetti non ho relazioni sentimentali da tempo. L’ultima volta che ho fatto del buon sesso risale al novembre 2007. Chi è la vera Maria Juur? Sono io, proprio come mi vedi. Una persona idealistica e sensibile, un po’ naif, da poco entrata in modo serio nel mondo della musica a cui dedica gran parte del suo tempo. Quanto ti rispecchi nell’immaginario della ragazza sensuale? Questo lato ti sta procurando molti haters… Non tutti hanno studiato arte per anni come me. Conosco i trucchi del mestiere e puntualmente qualcuno abbocca. Mi diverto a provocare e confondere, ma alla fine credo sia più importante dare alla gente qualcosa, costruire il proprio personaggio in modo che gli altri sappiano della tua esistenza. Usare foto e video provocanti o ironici fa parte del gioco? Sono appassionata di cultura pop. Eppure a fine giornata non mi considero per il mio egocentrismo, ma per quel che ho prodotto. Penso di essere divertente, sparo cazzate tutto il tempo anche se la gente non se lo aspetta da una ragazza. Mi diverto a po-

stare in maniera casuale foto dalla webcam e prendere in giro, oltre che me stessa, le popstar più vanitose e wannabe. Come ti è venuto in mente il video di Soo High, filmato a tema porno censurato da YouTube? E’ stato uno scherzo in fase impulsiva. Avevo dedicato e mandato quella canzone via mail a un ragazzo che mi piaceva, ma gli ero indifferente. Allora ho pensato di farne un video e sono finita in una sezione di film porno con trama. Ne ho trovato uno accurato e squallido al tempo stesso e quando l’ho avviato insieme alla canzone ho notato che si abbinavano perfettamente. Musica e immagini erano già sincronizzate senza bisogno di editing! La tua musica fa riferimento soprattutto agli anni ’80 e ‘90. In verità amo mischiare più cose. Sono cresciuta ascoltando l’enorme varietà di generi di mio padre, che è un critico musicale (Mart Juur, ndr) e possiede migliaia di dischi, da Neil Young alla 2-step, drum’n’bass, Andrew WK, Motorhead, Ramones, Basement Jaxx. Dev’essere questo il motivo per cui i miei hanno divorziato: mia madre preferiva il silenzio. A 15 anni mi sono appassionata agli Stereolab e alla house, con una breve fase nell’hip hop. In Cabaret Cixous emergono elementi hip-hop e dub, come nel pezzo Laulan Paikse Kaes…che tradotto significa? “Cantando al sole”. Non sono esperta di quei generi, ma è l’effetto ibrido della mia musica. E gli ABBA, che hai omaggiato con Honey Honey. Amo gli ABBA, sono dei geni. Quanto durerà il fenomeno Maria Minerva? Non voglio essere un fenomeno stagionale, continuerò finché sentirò di evolvere come persona e come artista. Sto cominciando solo ora a farmi conoscere e, dopo il boom inaspettato della cassetta Tallin At Dawn, ho fissato moltissime date. A metà novembre sarà uscito un altro mio EP di Euro-disco dozzinale per 100% Silk, poi mi ritirerò a Lisbona per preparare un nuovo e più maturo album. Come mai Lisbona? Non sono una persona sociale e ho bisogno di quiete per registrare. Una persona asociale sempre connessa a Internet. Ho dei veri amici e sono estroversa, ma troppa gente e chiacchiere mi stancano. Sto al computer perché la sera non esco. Nemmeno quando ero a Londra… Quasi me ne pento: chissà se la fase party mi tornerà quando avrò 45 anni.

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Stellar OM Source Lo spazio è il suo posto, il sintetizzatore – meglio se vintage – il mezzo di espressione ideale per raggiungerlo. Da bambina, invece che giocare con le Barbie, Christelle Gualdi armeggiava con il mixer del padre musicista. E così è diventata un’amazzone della nuova kosmische, produce musica da trip e, da quando ha scoperto la drum machine, riesce pure a farci ballare. Intervista di Gaetano Scippa. Foto di Pawel Eibel andhere1go.blogspot.com

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Hai un cognome italiano. Di dove sei? Mio padre è italiano ma sono nata a Parigi. Da piccola mi sono trasferita in Olanda, tra Rotterdam e L’Aia, per 15 anni. Ora vivo ad Antwerp, ma stare in Belgio è una strana sensazione. Una specie di isola in mezzo all’Europa dove non accade molto. Perché te ne sei andata dall’Olanda? A L’Aia c’era uno studio di registrazione enorme e super economico, dove mi trovavo con altri artisti a far baccano sin dal mattino, che purtroppo hanno chiuso. Allora ho deciso di cambiare aria per vedere cosa succede da altre parti. Ho vissuto anche a Lisbona per un breve periodo, ma ora mi mancano i miei amici olandesi e penso di tornare indietro. Com’è nata la tua passione per la musica? Mio padre mi faceva ascoltare i suoi dischi di Tangerine Dream, Ash Ra Tempel e Jean Michel Jarre. Inoltre lui è un musicista blues, un ambito diverso, ma fin da bambina mi portava ai suoi concerti e festival. Per 14 anni mi ha reso partecipe del suo programma radio. Ero affascinata da quel mondo, adoravo giocare con i comandi del mixer della radio ed entrare in quello studio senza tempo. Rimanevo stupita di cosa si potesse fare con tutti quegli strumenti. Ti divertivi col mixer invece che con le bambole. Lo so, è strano, sono sempre stata più a mio agio con le attrezzature tecniche e i macchinari. Ogni tanto penso che dovrei comportarmi come le mie amiche, andare a cercare il trucco o i vestiti, ma non posso farci nulla. E’ più forte di me. Quando hai iniziato a scrivere pezzi? In uno degli eventi di mio padre. Gli commissionarono la colonna sonora per una mostra intitolata “Musica e Spazio” in un centro culturale comunista nella periferia ovest di Parigi. Doveva andare in loop per quattro ore. Mio padre a quel tempo aveva una Yamaha MSX e un Atari 1040 e mi chiese di fare insieme delle musiche sintetiche e spaziali, sai tutti quei bip e suoni tipo satellite. Avevo 13 anni e una visione ancora infantile della musica dello spazio, ma fu comunque la prima volta. Conservo ancora quella registrazione a quattro tracce. Hai imparato a suonare sul campo o studiato? Ho studiato musica classica, a sei anni il piano, poi il violino, il sassofono, il contrabbasso e il violoncello. Dai 16 ai 18 ho suonato il violoncello in una giovane orchestra in Germania. Tuttora provo molte

emozioni nell’ascoltare la Symphonie Fantastique di Berlioz, o le opere di Debussy e di alcuni quartetti, le stesse che posso provare con la contemporanea, la UK bass o altro. Sono intuitiva nel mio approccio alla musica, cerco di seguire l’istinto più che la testa. Produci ancora musica kosmische? In realtà nell’ultimo anno ho introdotto le drum machine. All’inizio ne ho usata una di mio padre, ma ora che mi diverto a produrre beat e avendo restituito il sintetizzatore preso in prestito per realizzare Trilogy Select, vorrei comprare nuovi strumenti e cambiare un po’ il suono, renderlo ritmico. Ascoltando i miei nuovi pezzi, alcuni amici dicono che sono totalmente diversi dalle mie prime produzioni, è dance da ballare. Altri che è la mia tipica musica, cosmica, spaziale e con le sferzate di synth. Qual è il tuo sintetizzatore preferito? Sto usando un nuovo mono che all’inizio odiavo e ora amo perché combina sei tipi diversi di sintetizzatore e riproduce i suoni FM. Poi mi piace qualsiasi cosa della Roland, dalla D-50 alla Juno 106. Quest’ultimo è il mio preferito, ma è difficile da trasportare e usare dal vivo, quindi spesso tiro fuori il JP-80 o il JP-8080 anche se suonano molto anni ’90. Quanti ne possiedi? Una decina, anche per questioni di budget. Se uno di loro rimane inutilizzato troppo a lungo, lo sostituisco. In Olanda c’è un posto fantastico dove scambiare e permutare questi strumenti, Marktplaats, un vero mercato legato a Synthforum. Sono sempre lì a comprare e vendere. Che sensazioni ti regalano le macchine? La libertà. E’ incredibile cosa puoi riuscire a fare partendo da una semplice onda sinusoidale, aggiungendo un filtro e così via. E’ come cucinare. Quando cominci a giocarci diventa un viaggio, entri in un altro mondo. E’ una sensazione che non ho mai provato con gli strumenti acustici, solo con l’elettronica e senza sforzi. Tuttavia non uso il laptop, troppa libertà e troppi presets. Come ti senti da analogica in un mondo digitale? Ogni macchina analogica ha una sua anima e con ognuna di esse instauro una relazione diversa. Basta aprire un sintetizzatore per capirlo, ha un corpo pieno di circuiti, è organico e caldo come quello umano. Il digitale, invece, suona di ghiaccio. Preferisci stare più con le macchine che con altri esseri umani? Dopo due giorni di fila passati in studio,

la prima persona che incontro la mattina seguente è la cassiera del supermercato. Lì mi dico che forse è il momento di interagire con altre persone (In realtà dopo questa intervista abbiamo scoperto che Christelle ama stare in mezzo alla gente: al party finale di Unsound ha chiacchierato fino alle 9.00 del mattino seguente, ndr). Fai musica per te o per gli altri? E’ una cosa astratta per me stessa, ma sento il bisogno di condividerla. Che bisogno c’è di rivisitare la musica del passato? Si può ancora attingere dagli anni ’60 fino agli anni ’80, ventennio rivoluzionario per la musica, mentre i ’90 e i ‘00 sono stati più insipidi. C’era libertà totale grazie ai pionieri del suono. Mi manca anche il modo di godersi i concerti di una volta, quando si stava quattro ore davanti a una band rock, certo magari anche attraverso le droghe. Oggi una dimensione simile è più facile da trovare nei club ed è per questo che sto esplorando la musica dance. Sono tempi duri ed è molto difficile essere artisti, anche perché chiudono sempre più spesso i luoghi dedicati alla cultura. “Space is the place”? Lo spazio è il posto, ma sulla Terra. Sei attratta dalla fantascienza? Mi piacciono i libri di Philip K. Dick, avevo anche un progetto chiamato Ubik come la sua opera del ‘69. Sono una grandissima fan di J.G. Ballard, però è strano perché all’università ho studiato architettura. Volevo rimanere coi piedi per terra, ma appena sono entrata in ufficio mi sono sentita soffocare. A Incendiary magazine hai dichiarato che la scena undergound non è dominata dagli uomini, mentre a Simon Reynolds che c’è disparità sessuale. Qual è la verità? La verità è che mi piacerebbe parlare solo di musica, non se chi la fa è uomo o donna. Da un altro lato, tuttavia, mi rendo conto che la maggior parte degli smanettoni sono uomini e vedere sul palco una donna in mezzo a quei giocattoli tecnologici può colpire. Progetti futuri? Sto lavorando a nuovi pezzi per un EP di prossima uscita che, come ti dicevo, saranno più ritmati e ballabili per l’uso di drum machine. Mi piacerebbe suonare a qualche sfilata, dove la musica è molto intensa, a partire da una fashion designer olandese che adoro, LEW. La trovate al sito www.l-e-w.nl

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SBTRKT

Intervista esclusiva di Gaetano Scippa. Foto di Piotr Niepsuj

Si porta dietro un acronimo impronunciabile – che sta per “Subtract” – e una maschera tribale – versione moderna di quelle indossate dai nativi del Kenya durante i cerimoniali – per mantenere l’anonimato. Per “far parlare solo la musica”. Eppure SBTRKT ha un volto, quello timido ma determinato di Aaron Jerome, esperto producer inglese dal passato nu jazz e dal presente sempre più proiettato nella dance contemporanea. Cavaliere effimero del trend post-dubstep o talento puro destinato a durare? Lo incontriamo di persona, in esclusiva, dopo la sua unica apparizione italiana al roBOt festival di Bologna, per parlare dell’essere e dell’apparire, delle sue qualità performative e produttive – la BBC lo dipinge come il nuovo Timbaland – e di un remix per i Radiohead. Ma anche del suo essere anti-social nella vita reale, mentre in Rete decine di migliaia di persone ogni giorno perdono la testa per la sua musica. Proviamo a smascherarlo.

Allora Aaron, com’è andata stasera? Ci siamo sentiti un po’ come quando abbiamo suonato nelle Asturie in Spagna, al L.E.V. festival. Una location del tutto nuova con soffitti altissimi e un riverbero molto forte che ostacolava l’ascolto. Diciamo che non è stato proprio come al Bestival, ma ci fa bene suonare in posti così diversi. Inoltre è stata la nostra prima volta in Italia e il pubblico, nonostante i problemi tecnici, ha reagito fin troppo bene. Al secondo pezzo (Hold On, ndr) non so come mai il power click continuava a spegnersi, forse a causa del convertitore, e abbiamo dovuto ricominciare da capo. Ma le persone in sala l’hanno presa bene, forse erano ubriachi (risata, ndr). Cominciamo con una domanda un po’ scontata, ma inevitabile… Il significato della maschera? No, dell’acronimo. La maschera è la seconda domanda. (risata, ndr) Sì, certo. In realtà l’acronimo SBTRKT, che sta per “Subtract”, è solo un nome, un modo come un altro per crearmi un’identità artistica che mi consente di astrarmi, cioè di sottrarre me stesso dalla mia creatività e della mia musica. Quando compongo melodie e produco musica elettronica non ho intenzione di soffermarmi sulla mia vita privata o su storie passate, ma solo di evadere. Non devo essere io a parlare, voglio che lo faccia la mia musica. E la maschera? E’ una cosa secondaria, che mi ha aiutato a conservare l’anonimato soprattutto all’inizio, ora molto meno. E comunque si ricollega al fatto di cercare una propria identità artistica, che va al di là della semplice uscita discografica e abbraccia anche altri aspetti

espressivi, come quelli legati al design o ad altre forme artistiche. Ci sono grandi artisti – come Björk, Radiohead e M.I.A. – che si sono costruiti un mondo intero intorno a sé semplicemente rafforzando lo stile e l’immaginario, dall’artwork degli album fino al modo di presentarsi sul palco. Non trovi che oggi lo strumento-maschera sia inflazionato, se pensiamo per esempio a producer come Redshape e Zomby? Non conosco le motivazioni degli altri, potrebbero essere diverse dalle mie. Alcuni si mascherano solo per creare mistero su di sé e accrescere le aspettative del pubblico. Io lo faccio per staccarmi dalla mia persona e spostare l’attenzione sulla musica. Ma così paradossalmente rischi di far parlare più della tua maschera che della musica. A quel punto dovresti fare come Burial, che nemmeno suona dal vivo e fa parlare solo i suoi pezzi. Burial, come i Radiohead, è un buon esempio di chi può gestire con successo ciò che più gli piace fare senza dover conformarsi o sottostare ai dettami del mercato discografico. Si sono guadagnati la posizione privilegiata di poter suonare e pubblicare musica quando gli pare, di rilasciare o meno interviste. Magari fosse così per tutti, anche perché il divertimento è alla base della creatività e poter coltivare solo quello invece che passare il tempo a seguire le direttive del proprio management farebbe meglio alla musica. Ma non è un fatto realistico, per cui bisogna imparare a promuoversi, continuare a sviluppare i propri spettacoli dal vivo, i djset, le copertine degli album, rinfrescare la musica insieme all’immagine. Credevo fossi più un animale da studio

che da palco. E invece ho notato con piacere che dal vivo te la cavi bene anche con la batteria. L’immagine degli artisti di musica elettronica è stereotipata. Molti club presentano i loro spettacoli come dei live, ma poi questi si presentano sul palco con laptop e controller, senza interagire davvero col pubblico e senza che accada granché, di fatto suonando come fossero dei djset. Invece di premere play preferisco ricreare dal vivo le parti di batteria e tastiera usate per registrare in studio. E’ molto più divertente, ogni volta ne possono nascere situazioni diverse, inaspettate. Ed è anche una sfida per superare se stessi, magari cercando di suonare nuovi strumenti per sorprendere l’audience. Quando hai imparato a suonare la batteria? A dieci anni, ma non sono mai stato davvero fluido. Per me non è una questione di strumento: a casa non ho alcun drumkit né mi alleno tutti i giorni. A partire dallo scorso gennaio ho iniziato ad allontanarmi dai djset, dove comunque per non annoiarmi utilizzavo più effetti – tipo delays e riverberi – e mixing rispetto ai dj tradizionali. Nei djset ho sempre avuto un approccio vicino al live, quindi ora che suoniamo dal vivo mi sento ancora più intraprendente. Ma siamo agli inizi, per completare il rodaggio ci occorrono altri due o tre anni di performance. Anche se nell’album ci sono diverse voci, Sampha sembra molto più che un collaboratore, una parte essenziale di SBTRKT. E’ così. Anche se SBTRKT rispecchia la mia visione produttiva, quando lavoro con dei vocalist voglio che ci sia sintonia totale tra i nostri mondi, altrimenti sarebbero dei

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semplici ospiti. Non mi piace quando si percepisce una separazione tra il producer e la voce, i due elementi devono fondersi. Quel che Sampha fa per conto suo è nettamente diverso da ciò che fa con me. E’ versatile, contribuisce a scrivere i testi, trova soluzioni per i live, è aperto al confronto anche in studio, è la voce perfetta per il sound che ho in mente quindi è una parte integrante di questo progetto. Ma il discorso va esteso a tutti i collaboratori, basta trovare le persone giuste e poi coltivarle. Con Yukimi-Little Dragon ho instaurato un rapporto professionale già da alcuni remix precedenti e tappe del tour insieme. Sono un grande fan della loro musica, che trovo davvero originale. Il brano fatto insieme (Wildfire, ndr) è nato in maniera del tutto spontanea da un apprezzamento reciproco, e sembra funzionare. Cosa chiedi a un vocalist? In generale non li incoraggio a fare qualcosa di troppo abituale. Sampha per esempio è più vicino a un ambiente soul fatto di piano e voce come potrebbe essere quello di John Legend, mentre io lo spingo ad avventurarsi nei contesti del grime e dell’elettronica. Non cerco un nuovo Stevie Wonder, voglio persone che creino qualcosa di più ambizioso e originale rispetto alle loro prospettive. Lo stesso vale per me come produttore elettronico, in quanto cerco di mettere insieme elementi diversi provenienti dal dubstep, dal garage e dalla drum’n’bass. Questo non conta solo per i vocalist, ma anche per chi scrive i testi. Io sono più abile con le melodie, quindi ho bisogno di qualcuno con un punto di vista più sincero del mio per quanto riguarda la scrittura. Hai mai pensato a un album interamente strumentale? Non saprei, al momento ciò che mi dà maggior soddisfazione a livello produttivo è lavorare con dei vocalist in senso classico, capire come utilizzarli per colmare ciò che lascio vuoto con le mie atmosfere “per sottrazione”. Questo tuo primo LP viene spesso paragonato alla musica di James Blake. Non mi interessa più di tanto. Voglio dire, quando si frequentano gli stessi spazi, si partecipa insieme alle serate del FWD>> con DMZ, Mala e compagni, ci si nutre di musica diversa tra cui classica, folk e indie trasformandola in qualcosa di nuovo, ecco che vengono fuori artisti come The xx, Jamie xx, Mount Kimbie, James Blake ed io stesso con SBTRKT. Ognuno di noi cerca di non omologarsi a un genere prestabilito, di creare una propria identità, ma è inevitabile avere dei punti in comune. 78 PIG MAGAZINE

Quanto è farina del vostro sacco e quanto invece viene influenzato dagli altri artisti menzionati? Gli elementi che cerco nella musica di oggi probabilmente piacciono anche ad altri artisti. Facendo tutti parte della scena attuale, inoltre, ci si influenza a vicenda, ma senza programmazione. Anzi, James Blake così come ognuno di noi si sta evolvendo in qualcosa di diverso e non si può prevederne il futuro. Di certo io non ho intenzione di fare musica popolare, né produrre roba dubstep o garage solo perché è quel che la gente vuole ascoltare. Cerco di bilanciare il suono di SBTRKT con le mie influenze musicali, ovvero la musica che amo: dagli elementi vocali di soul, nu jazz e swing fino a Björk, Thom Yorke o l’elettronica pura, la techno di Berlino e i Modeselektor. Non hai citato la house, che tra l’altro mi pare predominante. Sì è vero, la house di New York – più che Chicago – ha influenzato i miei esordi. Ma quando parliamo di UK Garage finiamo comunque a Chicago o New York, perché i primi dischi UKG di fatto erano americani, come Gabriel, l’anthem incredibile di Roy Davis Jr. Gli inglesi prendono sempre spunto dalla musica di altri e provano a rifarla meglio (risata, ndr). Noi amiamo il lato elettronico, ed è ciò che vogliamo sviluppare. Sampha suona pure la chitarra, ma sul palco lo vedrete con una drum machine perché abbiamo intenzione di lavorare sempre di più sui bassi sub. Anche i Radiohead sembrano dirigersi in questa direzione. Fare musica che muova la gente nei club interessa sempre più artisti… Com’è stato remixargli il pezzo Lotus Flower? Strano, erano diversi mesi che non facevo un remix. Avevo deciso di prendermi una pausa per dedicarmi di più alla mia musica. Ma è successo che Thom Yorke ha ascoltato alcuni miei pezzi al programma radio di Gilles Peterson e mi ha contattato. Lavorare a un remix per me non significa semplicemente riarrangiarlo o dare al pezzo qualcosa in più, ma stravolgerlo e se possibile renderlo migliore dell’originale. Sapevo che una cosa simile coi Radiohead sarebbe stata difficile, con tutti i rischi che si corrono considerando i loro fan, ma alla fine mi sono divertito parecchio. Cerco solo di evitare i remix commerciali, quelli commissionati dalle etichette per accrescere il numero degli ascoltatori. E’ come se tu viva tutta la tua vita esclusivamente per e con la musica. Già, è proprio così. Sono in tour da mesi e

purtroppo ora ho meno tempo per lavorare a nuovo materiale, ma ho da poco acquistato alcuni sintetizzatori nuovi e altri gingilli elettronici su cui mi concentro appena posso. Hai o ti interesserebbe avere una vita sociale al di fuori della musica? Anche volendo non potrei. La mia è una vita solitaria: suono nei club, quando ho finito non amo mischiarmi tra la folla ma preferisco rintanarmi nel backstage, poi vado a riposare in hotel e quindi di corsa a prendere un aereo per una nuova destinazione. Non sei una persona sociale, eppure raccogli oltre 50mila fan su Facebook e 20mila follower su Twitter. Che rapporto hai con i tuoi seguaci? Sono numeri impressionanti in effetti, specie se paragonati a quelli di altri artisti che sono in giro da molto più tempo di me. Mi piacciono i social network e rispondo volentieri alle richieste dei miei fan. Alcuni segnali di affetto nei miei confronti sono esagerati. Per esempio? Durante un festival in America un fan si è presentato tra la folla con un enorme dipinto di me in veste di dj. Un bellissimo quadro fatto con spray ritoccato a matita, così grande che non sono riuscito a imbarcarlo col mio bagaglio. E dove è finito? Se l’è tenuto il mio agente americano, l’ha appeso nel suo ufficio. Cos’hai provato di fronte alle centinaia di persone mascherate durante la tua esibizione al Bestival? E’ stato incredibile, molto emozionante. Ogni live è diverso, ho l’impressione che il mio pubblico stia continuando a crescere. In Europa sono ancora poco conosciuto, ma in Inghilterra, Australia, Stati Uniti e Giappone ho sempre fatto sold out. Cosa ricordi della tua prima performance al Fabric? Ricordo di aver avuto una gran paura! Nessuno mi aveva preparato al fatto che suonare in un club così grande, dal sound system così potente, avrebbe evidenziato ogni minima mossa o errore. Un impatto su scala gigante, pazzesco. Una recensione della BBC parla di te come un nuovo Timbaland. E’ solo l’opinione di un recensore (risata imbarazzata, ndr). Credo che la sua affermazione si riferisca al fatto che sono riuscito a gestire più vocalist in un unico sound omogeneo, un po’ come Timbaland e Neptunes. Sai, mettere insieme suoni e persone diverse senza far casino è il più gran complimento che si possa fare a un producer.


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Korallreven Intervista di Marco Lombardo. Foto di Erik Wåhlström - www.erikwahlstrom.se

Marcus Joons e Daniel Tjäder sono svedesi e insieme formano i Korallreven, il duo balearic-pop più chiacchierato del momento. I blogger li adorano, la critica li osanna. Il loro debutto, “An Album by Korallreven”, è un piccolo capolavoro sospeso tra sogno e malinconia. Abbiamo intervistato per voi Marcus, la mente creativa del gruppo. Eccone il prezioso resoconto. 80 PIG MAGAZINE


Ciao Marcus, come stai? Bene, grazie. Non sono abituato a tutta questa frenesia intorno a me. Di solito sono un tipo molto tranquillo e riservato. C’è grande attesa per il vostro disco di debutto, An Album by Korallreven. Ve l’a-

spettavate tutte queste attenzioni? Mentirei se ti dicessi di no. Sin da subito le reazioni sono state estremamente positive. Ricordo quando ho suonato per la prima volta un demo di The Truest Faith in un bar di Stoccolma. Mi si è avvicinato il boss della

Service (una delle etichette simbolo della scena indie svedese) e mi ha proposto di pubblicarla immediatamente, prima ancora di averla registrata. Appena è uscito il singolo siamo stati contatti da una label giapponese e dalla Acéphale negli Stati Uniti per distribuirlo. In seguito è arrivata la Primary, un’agenzia di booking internazionale, che ha voluto metterci sotto contratto anche se non avevamo ancora un live vero e proprio. I responsi seguiti al singolo As young as yesterday poi ci hanno confermato che la musica dei Korallreven stava raggiungendo un livello qualitativo sempre più alto. Raccontami come è nato questo progetto. Prima di formare i Korallreven ho vissuto in giro per il mondo tra Scozia, Australia e New York. Ero alla ricerca di me stesso e di un qualche significato che ovviamente non ho mai trovato… Entrare in contatto con realtà così diverse mi ha trasmesso un senso di confusione e di precarietà ancora maggiore rispetto a quando sono partito. Non ci rendiamo davvero conto di quanto sia grande il mondo. Di quante cose ci siano da vedere al di là degli Starbucks o di città tutte uguali a se stesse, anche se disseminate agli antipodi del pianeta. I Korallreven hanno iniziato a formarsi nella mia testa nel 2007, durante un viaggio nell’isola di Samoa. Ho avuto una visione che una volta tornato in Svezia ho condiviso con Daniel, mentre giocavamo a calcetto a Långholmen, un isolotto di Stoccolma. Era l’estate del 2009, splendeva il sole e c’erano 29 gradi. Gli ho raccontato di come volessi creare delle canzoni pop che avessero la stessa potenza spirituale dei cori della Chiesa Cattolica Samoana o la bellezza ipnotica della natura tropicale, per rivivere attraverso la musica la felicità raggiunta in quel viaggio. Da quanto tempo vi conoscete tu e Daniel? Ci siamo incontrati nel 2003 a Malmo, nel sud della Svezia, dove ho vissuto per un po’. Daniel è nato e cresciuto lì. Ci vedevamo sempre in giro per club o ai concerti e lentamente siamo diventati amici. Non ricordo molto di quel periodo, eravamo spesso ubriachi. Nonostante i miei numerosi viaggi siamo sempre rimasti in contatto. Qual è il significato del nome Korallreven? Barriera corallina. Foneticamente è una delle parole più belle della lingua svedese… I coralli poi sono appuntiti, taglienti e pericolosi ma nonostante tutto bellissimi. Quanto tempo avete impiegato a scrivere e registrare il disco? Abbiamo iniziato a lavorarci nell’estate del 2009 per finirlo la scorsa primavera. In mezzo però ci sono state molte pause, a causa dei miei viaggi. Lo abbiamo composto a fasi alterne, tra Stoccolma e New York. Quando

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tornavo in Svezia Daniel mi ospitava sul suo divano e gli dedicavamo anima e corpo. Altrimenti veniva lui negli States. Avete dei ruoli precisi all’interno dei Korallreven? Come nasce un vostro pezzo? Io non suono nessuno strumento. Di solito un nostro brano nasce da una mia idea cantata a Daniel che poi la traduce in note. Diciamo che io sono il visionario dall’approccio naif, mi occupo tra l’altro anche dei video e delle grafiche, lui invece è il produttore di talento che interpreta e concretizza le mie intuizioni spesso portandole a un livello superiore, che non avrei neanche immaginato esistesse. Victoria Bergsman, in arte Taken By Trees, canta in due canzoni: Honey Mine e As Young As Yesterday. Com’è nata questa collaborazione? Vicky B è una mia cara amica. Ha una delle voci più belle di questo lato dell’universo. E’ assolutamente perfetta su quei brani. E’ come se fossero stati scritti per lei. Sa Sa Samoa invece è interpretata da Julianna Barwick… Ho avuto un periodo molto scuro la scorsa estate. Una sorta di depressione. L’unica cosa che riusciva a calmarmi era la voce di Julianna Barwick in loop. Poi una sera sono andato a un suo concerto a Brooklyn, l’ho avvicinata e abbiamo parlato un po’. E’ stata gentilissima così le ho mandato un demo della canzone e le ho chiesto se le andasse di cantarci sopra. Ha risposto di sì ed ecco Sa Sa Samoa. E’ stato tutto piuttosto facile… Ci sono altri ospiti? Gli unici che mi vengono in mente in questo momento sono un nostro amico che suona il flauto pakistano in Coming Down e il batterista di Lykke Li alle percussioni, sempre nello stesso brano. Per il resto abbiamo fatto quasi tutto da soli, tranne il mixaggio, durante il quale siamo stati affiancati da Mathias Oldén, che si occupa di tutti i lavori dei The Radio Depth. Ha lucidato i nostri brani come se fossero dei diamanti, dandogli quella luce omogenea che puoi sentire in tutto il disco. Nel brano Keep Your Eyes Shut c’è il sample di un uomo che parla in italiano. Di cosa si tratta? E’ l’uruguaiano Edson Cavani, il giocatore del Napoli. Abbiamo campionato il frammento di una sua intervista trasmessa alla televisione svedese. Sono rimasto affascinato dal trasporto con cui raccontava il sogno di vincere lo scudetto. L’ho trovato un momento molto poetico. Cosa ascoltavate durante le registrazioni di An Album By Korallreven? Influenze? Un sacco di Uk Rave anni ‘90. Gli Elite Gymnastics, nostri compagni d’etichetta alla Acéphale. Senza dimenticare Zomby e gli Animal Collective. Le loro produzioni hanno

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sempre un qualcosa di magico. La canzone As Young As Yesterday è stata remixata da Panda Bear e Girl Unit. Avete scelto voi questi due nomi? Sì. Non siamo molto soddisfatti dei remix precedenti e questa volta volevamo davvero raggiungere le persone che stimavamo di più in ambito musicale. Senza compromessi. Panda Bear e Girl Unit erano al top della nostra lista dei desideri. Abbiamo mandato loro la traccia e hanno subito accettato di collaborare. Non potevamo chiedere di meglio. E’ quasi scontato sottolineare la qualità cinematografica della vostra musica. E’ un

risultato che volevate raggiungere? Non in maniera così consapevole. Forse è più adatta alla pubblicità dei gelati… Scherzo. Il cinema è un’influenza diretta per i Korallreven? No, direi di no. Anche se adoro registi come Lars Von Trier o Terrence Malick. I loro film hanno così tanti strati di significato da farti riflettere per giorni interi. Sono tra i pochi cineasti contemporanei in grado di dividere il pubblico e spingerlo a interrogarsi sui messaggi delle proprie opere. Siete particolarmente attivi anche nel campo dei mixtape. Si tratta di puro diverti-


mento o è un altro canale per diffondere la vostra estetica? Dipende dal contesto. A volte i mixtape possono essere un puro divertissement, altre, come in A Dream Within A Dream, dove abbiamo raccolto tutta una serie di edit preparate in questi mesi, qualcosa di più artistico e personale. Come vi è venuta l’idea di remixare Till The World Ends di Britney Spears? E’ un’artista che rispettiamo molto. Adoriamo quella canzone. Volevamo metterne in primo piano il testo e quel senso di spaesamento che sembra emergere dalla voce.

Ecco come lavoreremmo a una traccia di Britney Spears se mai avessimo l’opportunità di produrre un suo disco. E’ a conoscenza del vostro remix? Non saprei ma ci hanno detto che i tipi della sua casa di discografica in Inghilterra e Benelux hanno apprezzato molto. Immagino che qualcuno del suo entourage ne sia al corrente. In teoria per fare questo mestiere dovrebbero essere degli appassionati di musica, quindi… Cosa ascoltavate da piccoli? Io ero un grandissimo fan di Primal Scream, The Jesus And Mary Chain e My Bloody Va-

lentine. Poi ho scoperto la dance… Come descriveresti la musica dei Korallreven a chi non l’ha mai ascoltata prima? Fresca come uno smoothie o un sogno che diventa realtà. Vogliamo combinare l’ultra digitale e l’ultra analogico. Questa contraddizione è spesso il cuore delle nostre composizioni. Sappiamo dove vogliamo andare e vogliamo arrivarci il più in fretta possibile. Come quando sei a Roma e vuoi vedere la Fontana di Trevi. E’ meglio arrivarci prima di tutti gli altri, alle cinque del mattino, per goderti quel momento con la persona che ami. Daniel è il tastierista dei The Radio Depth. Loro cosa ne pensano dei Korallreven? So che avrebbero voluto scrivere Honey Mine ma non credo siano fan dell’album in generale. E’ molto lontano dalle loro corde. Mi sembra di capire che porterete questo progetto in giro per il mondo anche dal vivo. Cosa dobbiamo aspettarci? Ci stiamo lavorando in questi giorni. Dal vivo saremo in tre: io, Daniel e suo fratello. Jamie Harley si occuperà delle visual. Spero possa trasformarsi in una vera e propria esperienza onirica per il nostro pubblico. Mi consigli un nome svedese da tenere d’occhio? Alexander Jr Ferrer, incide sotto lo pseudonimo NewKid. Ha solo ventanni ed è una versione locale di The Dream. Tu invece conosci qualche artista italiano? Sì, soprattutto in ambito dance. Ho idealizzato il periodo a cavallo tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta nel vostro paese. Immagino quanto debba essere stato divertente avere ventanni nel Nord Italia con quei club incredibili tra Verona, Rimini e il Lago di Garda. Tutti questi ragazzini, figli di papà, così in botta da eroina da costringere i dj a suonare i vinili alla velocità sbagliata, per sintonizzarsi con quel livello di sballo. Inoltre sono un fan dei paninari. Qual è stato sinora il momento più speciale che hai vissuto nei Korallreven? Il giorno in cui abbiamo finito le registrazioni del disco, la scorsa primavera, e subito dopo mi sono messo in macchina, direzione Portogallo. Due settimane di relax, con la consapevolezza di aver creato qualcosa di unico. Cosa ti spaventa di più come artista? Essere considerato tale. Ogni volta che qualcuno si riferisce a noi con quel termine facciamo un passo indietro. In più mi spaventa suonare dal vivo. Siamo molto timidi e lo avremmo evitato volentieri se non ci fosse stata così tanta richiesta. Una volta poi avevo paura di morire ma adesso non più. So di aver raggiunto un traguardo nella mia vita con questo disco, tutte le soddisfazioni che verranno d’ora in poi le vivrò come un bonus aggiuntivo di felicità. Sono fortunato.

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Maglione adidas SVLR, calze M MISSONI, cappello vintage

Ex-Factor Photographer: PIOTR NIEPSUJ (www.piotrniepsuj.com) Stylist: FABIANA FIEROTTI (www.fabianafierotti.com) Assistant Styling: MARIA AVERSANO e GUIDO DE STEFANO Make up and Hair: ALESSANDRO COMAI at Orea Malià Models: RILEY HILLYER @ Women Direct e LUCA MASSARO

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Maglione vintage

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Cardigan vintage, coulottes vintage

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Cardigan M MISSONI, gonna AMERICAN APPAREL

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Cardigan M MISSONI

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Maglione AMERICAN APPAREL

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Tutina M MISSONI, cintura vintage, sciarpa AMERICAN APPAREL

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Cardigan M MISSONI, gonna AMERICAN APPAREL

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Maglione vintage, pantaloni MAISON MARTIN MARGIELA MM6

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Blazer FEBRUARY, dolcevita vintage

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Gonna AMERICAN APPAREL, maglione vintage

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Pantaloni vintage, sciarpa vintage

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Maglione BALENCIAGA vintage

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Lei: Maglione vintage, pantaloni MAISON MARTIN MARGIELA MM6 Lui: Camicia AMERICAN APPAREL, pantaloni FEBRUARY

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Tutina M MISSONI, sciarpa AMERICAN APPAREL, cintura vintage

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Emi

Photographer: ROMAIN BERNARDIE JAMES (romainbjames.com) Styling: VICTOIRE SIMONNEY Model: EMI at Studio KRLP

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Camicia in Denim A.P.C MADRAS, pantaloni MISSONI, borsa IRIÉ

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Body in velluto AMERICAN APPAREL, bracciale stylist’s own

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Giacca e felpa LACOSTE LIVE, gonna A.P.C

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Maglia t-shirt A.P.C, model’s own sunglasses

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Vestito LACOSTE LIVE, scarpe MELLOW YELLOW

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Vestito ricamato con frange IRIÉ


Camicia in Denim A.P.C MADRAS, pantaloni MISSONI, sandali MELLOW YELLOW

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Maglia a pois AMERICAN APPAREL, gonna PAULE KA

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Cappotto A.P.C, vestito LACOSTE LIVE

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Musica Album del mese

Di Gaetano Scippa

DRC Music - Kinshasa One Two (Warp) Un’osservazione comune ascoltando Kinshasa One Two è che mancano le canzoni, intese nel senso più pop del termine. Ma questa è una raccolta, non l’album di una band. E’ il lavoro realizzato in cinque giorni a Kinshasa da un collettivo di producer internazionali guidati da Damon Albarn – tra cui Jneiro Jarel, Actress, Dan The Automator, Richard Russell, Kwes – insieme a una cinquantina di musicisti e performer congolesi contemporanei, e una delle rare volte in cui la produzione occidentale si presta a valorizzare la musica “del mondo” senza snaturarla, anzi esaltandone le radici. E’ un’opera sperimentale dai suoni avvincenti, tra bassi spaziali e cori di antiche celebrazioni, che ben collega tradizione e futurismo. E’ musica registrata con attrezzature di fortuna

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recuperate per strada, lattine, tronchi d’albero, percussioni fatte in casa, aste di metallo. Quindi lo spirito, prima di tutto. Poi la musica. Tra gli alti spiccano l’anthem dub Hallo, in cui si intrecciano le voci di Tout Puissant Mukalo, Albarn e Nelly Liyemge; il groove afro-jazz di K-Town con N’Gotshima e Bebson; i ritmi nel cosmo di A.S.A. prodotti da Jarel; l’aggressione sonora di Actress in Three Piece Sweet Part 1 & 2; le danze forsennate di Bokatola System ieri (We Come from the Forest) e oggi (Lingala); i tre ottimi brani afrofuturistici in bonus regalo. Infine, ma non da ultimo, è una compilation concepita per una giusta causa: sostenere l’Ong Oxfam nella Repubblica Democratica del Congo (DRC), Paese afflitto da una delle peggiori crisi umanitarie al mondo. I proventi dell’album sono devoluti

ai musicisti locali e alle migliaia di persone che necessitano di educazione, acqua pulita, sanità e igiene base. www.oxfam.org/drcmusic


Musica Album del mese

Di Gaetano Scippa

Pinch & Shackleton - s/t (Honest Jon’s) Non sempre due produttori di spessore danno risultati soddisfacenti in un progetto comune. Nel caso di Pinch – tornato dopo il clamoroso ma lontano Underwater Dancehall – e Shackleton – che si mantiene a livelli altissimi dopo Three EPs e Fabric 55 – non solo il binomio funziona, ma si resta a bocca aperta. Dagli abissi del primo ai richiami gnaoua del secondo, questo split è quanto di più potente, ipnotico, profondo ed escapista si possa cercare nella bass music di oggi. Ogni pezzo si focalizza sull’elemento percussivo, presenta sfumature e ambientazioni diverse, trascina l’ascolto in una dimensione di trans mistica.

Kuedo - Severant (Planet Mu) Anche Jamie Teasdale (Vex’d), subìto il fascino della chillwave, del footwork e del synthesizer revival, molla il dubstep – lui che è uno dei precursori più “pestoni” del genere – per abbracciare la musica di Vangelis e il drumming da preset che va di moda adesso (da Zomby ai vari artisti della Tri Angle). Ciò detto e considerate le capacità nei suoni organici del soggetto (il remix di King Midas Sound), Severant è comunque un album sopra la media, con alcune punte stilistiche da incorniciare: Salt Lake Cuts, che da sola vale l’acquisto del disco, il dipinto modernista Reality Drift e la nuova aura epica di Blade Runner, Flight Path.

The Field - Looping State Of Mind (Kompakt) Mai titolo fu più azzeccato. Così come un pensiero evocativo rimane ingabbiato nella mente, il terzo album di Axel Willner fatica a uscire dal lettore CD. Sublimi giri di note, ripetuti all’infinito e implementati da strumenti acustici e campioni vocali che favoriscono la tensione di sottofondo, producono una curiosa sensazione di piacere autolesionistico. Spinto da due tracce in particolare – It’s Up There (il loop di New Gold Dream che riaffiora?) e Arpeggiated Love – LSOM posiziona definitivamente The Field nell’olimpo di quei visionari che evolvono tra techno e krautrock, proprio accanto a Caribou e Four Tet.

Mario & Vidis - Changed (Silence) Dopo un singolo su Future Classic, remixato tra gli altri da John Talabot, è in arrivo l’album del duo lituano sulla label di Vidis. Il lavoro, che include una selezione di precedenti EP e inediti, si divide in un primo disco di pop elettronico più melodico e downtempo, con atmosfere delicate e voci a tinte soul, tra cui Kathy Diamond, Giedre, Jazzu ed Ernesto. Quest’ultimo è protagonista, oltre che nell’anthem Changed, anche nel riuscitissimo pezzo ISM. Il secondo disco, che raggiunge l’apice in You Are Here e Test tra varie riedizioni, vira deciso nella deephouse vecchio stile, spalancando le porte della pista da ballo.

Tycho - Dive (Ghostly) Dive è un ascolto da fine estate, in macchina, percorrendo al tramonto la HW 1 da San Francisco – dove risiede Scott Hansen – a San Diego. La produzione finto vintage ma efficace grazie all’uso di Reaper riprende quanto di buono viene espresso dal producer sotto il suo alias di designer grafico ISO50. I paesaggi disegnati da Tycho, tra il solare e il nostalgico, si accostano alle suggestioni elegiache di Boards Of Canada (A Walk) e all’elettronica balearica più sognante (Coastal Brake), anche quando il basso rallenta (Ascension). Il tutto in chiave diretta, poco concettuale, tanto da rendere questo album ancora più gradevole.

David Lynch - Crazy Clown Time (Sunday Best) Che Lynch sia un genio della macchina da presa è risaputo. Come pure abbia ottimi gusti musicali, considerate certe colonne sonore dei suoi film. Com’è allora questo CCT? Anzitutto va citato l’ingegnere del suono Dean Hurley, che suona e canta egregiamente con Lynch in tutti i pezzi esclusa l’opener. Pinky’s Dream fa sussultare da subito. Un’onda torbida e groovy con Karen O alla voce, dopo la quale il beat si alza con un vocoder da italo disco onirico e surreale. Poi il mood torna nero, con pezzi sussurrati o sbiascicati sopra il marciume elettroblues, a tratti uptempo (Stone’s Gone Up). L’omicidio è dietro l’angolo.

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Musica Album del mese

Di Marco Lombardo

Korallreven - An Album by Korallreven (Acéphale) Gli svedesi Marcus Joons e Daniel Tjäder pubblicano finalmente il loro debutto, An Album by Korallreven, dopo averci deliziato per mesi con incantevoli anticipazioni. Ritroviamo infatti le splendide The Truest Faith, Loved-Up, Honey Mine e l’ultimo singolo As Young As Yesterday, con Victoria Bergsman alla voce, più una manciata di nuove gemme sospese tra sogno e realtà. La cifra stilistica è ormai inconfondibile: cori paradisiaci, ritmiche tropicali, melodie oniriche, partiture trance, riverberi celestiali, arrangiamenti liquidi e stratificati. Chiudete gli occhi e lasciatevi ammaliare. Uno dei dischi fondamentali del 2011.

CANT - Dreams Come True (Warp) Dopo essersi fatto conoscere come bassista nei Grizzly Bear e aver prodotto alcuni dei gruppi più chiacchierati della scena di New York degli ultimi anni (inclusi i Grizzly Bear stessi, Dirty Projectors e Twin Shadow), Chris Taylor, in compagnia di qualche amico, tra cui George Lewis Jr (Twin Shadow appunto), si lancia in un nuovo progetto dove sfoga la sua voglia di sperimentazione. A colpi di kraut-rock, new-wave anni ottanta, divagazioni psichedeliche, gargarismi elettronici e melodie sofisticate, Dreams Come True si rivela un’opera affascinante e complessa che arricchisce il curriculum prestigioso di un’artista in stato di grazia.

M83 - Hurry Up, We’re Dreaming (Mute) Mellon Collie and The Infinite Sadness sedici anni dopo? Forse. Buona parte dell’ispirazione, a detta dello stesso Anthony Gonzalez, è venuta proprio dal capolavoro degli Smashing Pumpkins. D’altronde sogno e malinconia sono da sempre tratti caratteristici della band di Antibes. In questo nuovo disco però, oltre all’infornata di suoni anni ottanta (che fa di Midnight City una delle hit del 2011), è lo slancio epico delle intenzioni a cambiare le carte in tavola, complice l’esperienza accumulata al fianco di Depeche Mode e The Killers, e degli stadi gremiti ai quali sembrano essersi abituati. Che ambiscano a diventare i nuovi U2?

Rustie - Glass Swords (Warp) Ascoltare l’esordio di Russell Whyte, venticinquenne scozzese da tempo sotto i riflettori degli appassionati di clubbing made in Uk, è come trascorrere una giornata a Gardaland sotto l’effetto di anfetamine. Un’avventura imprevedibile, bersagliati da una quantità di input da lasciare come minimo storditi. In Glass Words c’è di tutto. La creatività è straripante. Dubstep poliforme, trance zoppicante, funk impazzito, Idm cafona, rave intelligentissimo, hip-hop deviato e scherzetti metal-prog-rock. Un massimalismo elettronico controllato con sapiente maestria dove ogni suono trova la sua dimensione naturale, nonostante gli accostamenti più arditi. Geniale.

Surkin - USA (Marble) Surkin, all’anagrafe Benoit Heitz, è un dj/ produttore transalpino finito sotto le luci dei riflettori qualche anno fa durante la seconda ondata french-house capitanata dall’istrionico Busy P. Distintosi all’epoca come talentuoso enfant prodige alla corte di Daft Punk e Justice, lo ritroviamo oggi al suo secondo disco forte di una verve creativa che ha saputo rinnovarsi nonostante il crollo verticale delle azioni della scena d’oltralpe. Sgonfiatasi quella bolla passeggera di celebrità e onnipotenza, eccolo alle prese con un house meticcia e ormonale, innestata di generi minori della dance anni ottanta e rinvigorita di electro corposa e mai banale.

Youth Lagoon - The Year Of Hibernation (Lefse) Orfani di Grandaddy e Sparklehorse non disperate. E’ arrivato un nuovo messia. Il suo nome è Trevor Powers, in arte Youth Lagoon, ha ventidue anni e viene da Boise, Idaho. The Year Of Hibernation, il disco d’esordio di questo giovane Werther con l’aria da hipster, è quel piccolo gioiello lo-fi che la scena indie americana attendeva da un po’. Bedroom pop dei più canonici certo, senza alcun intento rivoluzionario, spruzzato di elettronica minimale, coretti malinconici, melodie fragili e introspettive ma che finalmente torna a far parlare di sé grazie a un talento fuori dal comune. Di quelli che si riconoscono all’istante.

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Musica varie

Di Gaetano Scippa e Marco Lombardo

AAVV - Versus (Queenspectra) free download

Tracey Thorn - Night Time (Strange Feeling) EP Parziale ritorno, se così si può dire, degli EBTG: Tracey Thorn remixa la canzone degli xx insieme a Ben Watt e la sua traccia Swimming viene a sua volta rivista da Visionquest e Charles Webster. Il risultato è eccellente, in tutti i casi. G.S.

Sigur Rós - Inni (Krunk) DVD Un doppio album live e un film diretto da Vincent Morisset, presentato lo scorso settembre a Venezia, per la band islandese al culmine della carriera. Meno caleidoscopico di Heima, ma altrettanto suggestivo, Inni si focalizza sulle performance del gruppo. G.S.

Massive Attack vs. Burial - Four Walls/Paradise Circus (Vinyl Factory) 12” Ltd Split intergenerazionale per il trip hop del nuovo millennio. Lacrime e ghiaccio in due tracce di 12 minuti: l’inedita e più riuscita Four Walls, e il remix di Paradise Circus, con la voce di Hope Sandoval in slowmo. G.S.

Darkside - Darkside (Clown & Sunset) EP Nuovo progetto di Nicolas Jaar con Dave Harrington alla chitarra. Il groove di Darkside, spinto dal basso di Jaar tra falsetti, riverberi e fruscii, è intenso e crescente nei tre titoli presenti, A1, A2 e A3. E sì, anche questo è blues romantico. G.S.

Charli Xcx - Nuclear Seasons (This Is Music) 7” E’ la nuova starlet goth-pop inglese. Oltre ai numeri per conquistare lo scettro di un micro-trend passeggero questa diciannovenne ha la stoffa per diventare una star senza vezzeggiativi. A metà strada tra Kate Bush e Katy Perry. M.L.

King Krule - S/t (True Panther) EP Zoo Kid aka Archy Marshall cambia nome e affina la tecnica. Come un crooner d’altri tempi, ma cresciuto a hip-hop e videogiochi, annega le proprie angosce tra chitarre jazzate e atmosfere polverose. Chet Baker nel cuore e Halo nell’hard-disk. M.L.

Lana Del Rey-Video Games/Blue Jeans (Stranger Records) 7” Sembra uscita da una foto in compagnia di James Dean e di un chirurgo plastico. Botox e Indie-Pop. Chi l’avrebbe mai detto? Odore di marketing strategies al limite del grottesco. E va bene così. Video Games e Blue Jeans spaccano. M.L.

Pandr Eyez - Eyes On You (Cascine) EP Due universitari fuori sede a Londra. Tom Lloyd lui, produttore da cameretta. Ferren Gipson lei, voce da grandi arene. Insieme scrivono perle R&B nelle quali collidono creatività underground e melodie mainstream. Li ritroveremo in vetta alle chart? M.L.

Alcuni tra i migliori beatmaker attratti dai suoni cosmici remixano UXO1, album dell’omonimo producer. Lo standard è altissimo, a partire da Fingalick, Digi G’Alessio, AnalPhatBeat, Ether e molti altri. queenspectra.bandcamp.com/album/ versus G.S.

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Film del mese

Di Valentina Barzaghi

Midnight In Paris Di Woody Allen. Se di recente avevamo pensato che Allen fosse uno di quei tanti che avrebbe fatto meglio ad andarsene in pensione per non rovinarsi con gli ultimi lavori anni di più che onorata carriera, dobbiamo essere costretti a ricrederci grazie a questo fiabesco e incantevole film. Allen sbarca nella sua amata Parigi (quella che già elogiava in film come Tutti Dicono I Love You), per omaggiarla questa volta già dalle prime inquadrature: un concantenarsi di splendide cartoline della città (un po’ come aveva fatto per un’altra città cara alla sua storia, nel suo capolavoro Manhattan) sia col sole sia sotto la pioggia. Sì, perché il protagonista del film, uno scapigliato Owen Wilson nei panni di uno sceneggiatore hollywoodiano in cerca d’aspirazione come scrittore, adora camminare sotto l’acqua. Gil, questo il suo nome del film, arriva a Parigi per una vacanza con la fidanzata Inez. La loro quiete viene interrotta di continuo dagli invadenti genitori di lei e da una coppia di amici piuttosto spocchiosi e saccenti. Gil non è un “uomo di mondo” e una sera, cercando di tornare da solo

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all’albergo, si perde. E’ mezzanotte quando una macchina si ferma accanto al marciapiede su cui l’uomo è seduto senza speranze di ritrovare la via. Non gli offrono un passaggio, ma lo portano ad una festa. Gil scoprirà di essere finito nella Parigi degli anni ‘20, in pieno fermento culturale: conosce Zelda e Scott Fitzgerald, Hemingway, Picasso... ma soprattutto la bellissima Adriana, musa di molti artisti dell’epoca. Gil cerca di prolungare più che può il suo soggiorno a Parigi, trovando una scusa ogni sera per assentarsi e tornare in quel mondo d’incanto in cui sembra sentirsi molto più a suo agio che nel suo. Il suocero si insospettisce e incomincia a farlo seguire. Con un cast davvero stellare (Wilson, McAdams, Sheen, Brody, Cotillard, Bates, Seydoux... c’è perfino Carla Bruni), Woody Allen dipinge una favola contemporanea legata “alla ricerca”. Ognuno, nella propria vita e nel proprio intimo, ambisce a trovare la propria serenità, spesso sostenendo che basterebbe trovare “un luogo” o “un tempo” in cui poter essere davvero felici. Allen ci accompagna in questa avventura, in cui non

usa solo la città come cartolina e affresco di fondo, ma ce ne ricorda l’inestimabile valore artistico. Ci fa capire passo dopo passo i travagli emotivi del suo protagonista, per poi mettere in bocca a Salvador Dalì il senso ultimo della sua pellicola “Questo è quello che è il presente. E’ qualcosa che non dà soddisfazione, perché la vita non dà soddisfazione”. Come tutte le fiabe che si rispettino dunque, Allen trova la sua morale di vita, abbastanza cinica, come solo la sua arguzia narrativa sa essere, con quel senso di ineluttabilità che ci stordisce nella sua semplicità e immediatezza. Il messaggio ci arriva marcato, ma senza sbavature melodrammatiche. Midnight In Paris finisce così per essere un bellissimo film che mischia romanticismo e fantasia, arte e vita, in un intrecciarsi continuo di situazioni e luoghi, tempi e sentimenti. Nel finale ci regala una speranza in formato pozione magica per sopravvivere al presente. A noi comunque già bastava sapere che Woody Allen è tornato in splendida forma dietro alla macchina da presa e che è ancora in gara per regalarci i suoi magnifici film.


Cinema

Win Win Di Tom McCarthy (ITA. Mosse Vincenti). Paul Giamatti è Mike Flaherty, un avvocato sull’orlo del fallimento che come hobby allena la squadra di lotta libera di un liceo. Mike, per motivi prettamente economici vista la sua situazione finanziaria, diventa il tutore legale di un anziano che mette in una casa di riposo. Un giorno, il nipote adolescente dell’uomo si presenta alla sua porta di casa. Non vuole più vivere con la madre che lo trascura e cerca il nonno. Mike

lo prenderà con sé in casa. Il ragazzo sconvolgerà la sua vita e anche la sua squadra di lotta. Il regista del già commovente L’Ospite Inatteso, ci racconta un’altra situazione di contingenza di vita, la storia di come degli estranei possano entrare in contatto rivoluzionando le rispettive esistenze. Presentato al Sundance, Win Win mischia amabilmente dramma e commedia, sfiorando solo il tema sportivo, che diventa quindi non una parte rilevante della narrazione, ma un escamota-

ge per parlare del personaggio e per analizzare la sua situazione emotiva-caratteriale. La patina indie nasconde un film che non lo è (se non forse per scelte di colonna sonora). Win Win gode di una leggerezza che lo farà apprezzare dai più, ma che non manca di una strutturata accurata e di una piccola morale di fondo. Una seconda possibilità (di riscatto) viene data a tutti. Giamatti è ovviamente perfetto nel suo ruolo. Un bella sorpresa.

Le Idi di Marzo Di George Clooney. Nella storia, le Idi di Marzo risalgono al 44 a.C. e in particolare all’assassinio di Gaio Giulio Cesare, trafitto da ventitré pugnalate. Con la sua morte, viene interrotta la più grande trasformazione in atto nel mondo antico. Il fatto dimostra una totale mancanza di democrazia e di complotto a livello politico. Clooney ci porta ai giorni nostri, mostrandoci inaspettatamente da buon progressista dichiarato, in un thriller vorticoso, le sue paure e l’altra faccia della democrazia. Presentato e osannato alla scorsa edizione della kermesse veneziana (in cui è stato proiettato come film d’apertura), ma da cui purtroppo non ha portato a casa nemmeno un riconoscimento, Le Idi di Marzo racconta le vicende del

giovane Stephen Meyers (un Ryan Gosling a cui ormai si sono aperte ufficialmente le porte dell’olimpo di Hollywood), responsabile della comunicazione tra le fila del Partito Democratico durante le primarie per le Presidenziali. Mike Morris (Clooney) è il candidato che sostiene. Morris ha un forte carisma ed è un profondo conoscitore sia del mondo politico sia delle leggi e dei codici su cui questo poggia. E’ un democratico americano e ogni aspetto del suo ego sembra confermarne la facciata, ma ben presto Meyers dovrà ricredersi a tal proposito, arrivando a conoscerne anche un insospettabile lato oscuro. Clooney dietro alla macchina da presa, dimostra un’altra volta sia di essere un abile regista sia di avere cara l’analisi

in profondità di certi aspetti della politica U.S.A. La cosa inaspettata che la critica arriva proprio durante il “mandato Obama”, di cui il regista era sostenitore, come ad ammonirci che non è mai tutto oro quello che luccica. O sarà stata solo una coincidenza? Difficile crederlo. Clooney ci racconta come la politica come la intendiamo oggi, fatta di privilegi e favoritismi dimentichi di meritocrazia e ideali, abbia svuotato il termine democrazia del suo significato più nobile e popolare. Parte dagli U.S.A., ma il discorso potrebbe essere applicato a raggiera. Un classico thriller politico a stelle e strisce, che racconta la crescita di un uomo con ideali puri in un ambiente che sembra non averne. Intrigante.

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News

Di Valentina Barzaghi

Torino Film Festival Eccoci anche quest’anno pronti a partire per uno dei nostri festival di cinema italiani preferiti. Il Torino Film Festival avrà luogo dal 25 Novembre al 3 Dicembre 2011 e sono talmente tante le proposte interessanti, che anche quest’anno non saprò dove girare la testa. Cosa vedremo: nella sezione Torino 29 i più attesi sono Win Win (di cui ho parlato nella pagina precedente), 17 Filles di Delphine e Muriel Coulin, 50/50 di Jonathan Levine, Attack The Block di Joe Cornish (super, già visto a Locarno), Ghosted di Craig Viveiros, A Little Closer di Matthew Petock… Nella sezione Festa Mobile avrete l’occasione di vedere il meraviglioso Miracolo a Le Havre di Kaurismaki e Midnight in Paris di Woody Allen tra i più noti, ma anche titoli e nomi nuovi come l’horror Bereavement di Stevan Mena, The Descendants di Alexander Payne con George Clooney, Good

Luck, Mr. Gorski che prende spunto dalla misteriosa frase pronunciata Armstrong al suo arrivo sulla Luna. Questi solo alcuni dei titoli e delle sezioni in cui il festival si divide (le altre: Festa Mobile-Paesaggio con Figure, Rapporto Confidenziale, Onde, Italiana.Doc, Italiana.Corti, Figli e Amanti) che non mancano di essere, come nel puro stile del festival, nuovi e giovani, interessanti e particolari, tanto che il mio consiglio è davvero quello di andare a farci un giro perché sarà forse una delle uniche occasioni di vedere certi film passare dalle nostre sale. Per i cultori e i nostalgici, ma anche per semplici curiosi e appassionati, il festival quest’anno dedicherà la sua tradizionale retrospettiva completa a Robert Altman, di cui verranno proiettati gli oltre quaranta lungometraggi che il regista americano ha girato sia per il cinema sia per la tv, ma anche una serie di documentari girati a cavallo negli anni ‘50 e le serie televisive. Insomma, tanta carne al fuoco che non vediamo l’ora di gustare.

Noir Film Festival: Courmayeur Dal 5 all'11 Dicembre nella solita meravigliosa cornice del Monte Bianco, avrà luogo il Noir Film Festival, piccolo e prezioso, da non mancare. Tra i titoli più caldi che potrete trovare in cartellone, uno su tutti attira morbosamente la mia attenzione: Martha Marcy May Marlene di Sean Durkin con Elisabeth Olsen, un thriller mozzafiato vincitore come Miglior Film della scorsa edizione del Sundance. La storia è quella di Martha (Olsen), nome cambiato dal padre padrone leader di una setta in Marcy May, da cui la giovane riesce a scappare per rifugiarsi dalla sorella Lucy in una lussuosa casa in riva al lago, nel Connecticut. Nonostante la fuga, la ragazza però rimane preda e vittima dei suoi ricordi. Oltre a questo film, altre pellicole da non perdere in programmazione sono Policeman di Nadav Lapid (già visto a Locarno), Don't Be Afraid Of The Dark di Troy Nixei, scritto da Guillermo del Toro e Matthew Robbins, We Need To Talk About Kevin di Lynne Ramsey con Tilda Swinton e John C.Really, The Yellow Sea - The Murderer di Na Hong-jin, già visto alla scorsa edizione del festival di Cannes. Tra gli altri eventi di quest'edizione, verrà risfoderato un classico dimenticato del cinema come La Scatola di Satana di Benjamin Christensen, mentre si potrà avere un primo assaggio del nuovo Dracula di Dario Argento, oltre che le preview di serie tv cult di genere come Luther e Dexter, o vere primizie come Homeland e Prime Suspect. Oltre ai film, grande spazio verrà come al solito riservato alla narrativa di genere: al festival interverranno autori come Lawrence Block, Otto Penzler, Stephen Kelman, Thomas Kanger… e molti altri. In attesa del temuto 2012, il tema di quest'anno sarà l'Apocalisse, che verrà affrontato non solo nel suo significato primo, ma anche nel suo senso di trasformazione e rinascita, soprattutto in concomitanza dei premi che verranno assegnati alla carriera ad Andrea Camilleri e Petros Markaris.

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Serial Box

Di Marina Pierri

Alcatraz (Fox) Forse non avete mai sentito parlare di JJ Abrams, ma, in realtà, lo conoscete. È uno dei creatori di Lost (il più famoso, forse) e si è fatto le ossa nelle officine più svariate: da “Mission Impossibile III” ad “Alias”. Negli ultimi due o tre anni, poi, è cresciuto a dismisura con “Star Trek” e, ultimamente, il bel “Super 8”. Il viaggio nella tv di JJ, però, è tutt’altro che finito e il 9 gennaio, negli Stati Uniti, prende ufficialmente corpo la sua nuova creatura, “Alcatraz”. Niente “prison drama”, o quasi, comunque: la storia è tutta sovrannaturale e non vi sorprenderà sapere che di mezzo ci sono viaggi nel tempo, fantasmi e misteri misteriosissimi. Le aspettative sono alle stelle e il faro dell’isola maledetta brilla in questa stagione un po’ smunta che i tecnici chiamano “midseason” (termine tecnico per gli show che partono, appunto, dopo la conclusione delle più attese serie autunnali).

Smash (NBC) Sono tornati gli anni d’oro per Spielberg, che si lancia a capofitto nell’ultima moda della tv americana: coinvolgere registi di un certo calibro nella creazione (produzione e spesso direzione del pilota) di serial di qualità. Così, dopo Scorsese (Boardwalk Empire), Baumbach (che pare sia al lavoro sull’adattamento de “Le Correzioni” di Franzen), Van Sant (Boss) e Darabont (The Walking Dead), arriva il turno del maestro. Che questa voglia sceglie il format - a lui inedito - del musical. “Smash” sarà a metà strada tra talent show e drama: la trama ruota attorno alla messa in scena della vita di Marilyn Monroe e le vicende di una troupe teatrale. Anche il cast femminile è sfavillante: Debra Messing, Angelica Huston e Katharine McPhee (vincitrice di American Idol 2006) sono tra i protagonisti. Il nuovo “Glee”? Dio, speriamo di no. Debutto previsto il 6 febbraio.

PIG consiglia:

Homeland (Showtime) Vi aspettano circa quindici giorni di vacanze natalizie gonfie di cibo e tempi morti da riempire in qualche modo: detto fatto, recuperate “Homeland”. C’è chi giura che sia stata la vera rivelazione televisiva del 2011 e noi siamo d’accordo: una eccezionale Claire Danes (fresca del successo del bellissimo film per la tv “Temple Grandin”, firmato HBO) e un disturbante Damian Lewis rivestono rispettivamente i ruoli di un’agente psicotica della CIA e un eroe di guerra con una probabile doppia identità. La premessa non è né nuova né accattivante, è vero, ma avete presente quello che diceva Jean Luc Godard? Non è importante dove si va, ma come ci si arriva. E la macchina narrativa di “Homeland” ha dei sedili comodissimi. Postilla: mentre leggete questa pagina è probabile che Homeland sia appena arrivato alla conclusione della sua prima stagione (annunciata per il 18 dicembre). È per questo che vi abbiamo detto subito “recuperate”.

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Books and So

Di Rujana Rebernjak

Terrazzo Fondata nel 1988 da Ettore Sottsass e Barbara Radice, Terrazzo è stata e rimane una delle riviste italiane più belle in assoluto. Dichiarata rivista di architettura e design, Terrazzo ha cercato di porre queste due discipline ‘creative’ all’interno di un dibattito culturale più vasto (approccio forse ereditato dalla precedente esperienza editoriale di Sottsass “Pianeta Fresco”). Al pari di altri numeri, in totale tredici

120 PIG MAGAZINE

pubblicati dal 1988 al 1996, questo numero è estremamente ricercato sia dal punto di vista dei contenuti che della produzione. A partire dall’estremamente raffinata introduzione di Barbara Radice, il numero presenta un articolo sul colore trattato attraverso le citazioni dei maggiori intellettuali, artisti, poeti, filosofi, un affascinante servizio fotografico sull’architettura urbana scattato da

Helmut Newton (il fotografo di moda per eccellenza), oltre ad un pezzo sull’architettura delle tombe e i sempre fantastici disegni di Ettore – ormai storica rivista dovrebbe diventare il modello per tutti i ‘piccoli’ editori indipendenti. Titolo: Terrazzo Editore: Barbara Radice Casa Editrice: Rizzoli New York Anno: 1988 - 1996


On Display Per quanto sia quotidianamente a contatto con i più svariati tipi di fotografie, non sono ancora in grado di definire cosa potrebbe essere il ‘bello’ fotografico. Però il tanto auspicato ‘punctum’ lo ritrovo in (quasi) tutti i lavori di Liesbeth e Maurice. La coppia olandese è diventata ormai quasi superstar grazie alla continua collaborazione

con riviste come Fantastic Man e The Gentlewoman. Oltre al loro incredibile opus commerciale, On Display mette in mostra i lavori di ricerca sviluppati negli anni. Tra questi è da notare in assoluto la serie di nature morte, un lavoro ambiguissimo di collage fotografici, e Detail in Reverse che indaga i concetti di stratificazione,

del dettaglio e della riflessione – il fastidiosissimo punctum diventa una certezza. Titolo: On Display Autore: Maurice Scheltens Casa Editrice: Veenman Printers Anno: 2008 www.scheltens-abbenes.com

Kidnapping Mountains Slavs and Tatars è un collettivo artistico che si occupa della situazione geopolitica dei popoli della zona caucasica. Avvalendosi dei labili confini interdisciplinari, usano la fotografia, la letteratura, la storia e la grafica per indagare le complesse dinamiche dell’identità dei popoli che hanno formato la cultura occidentale. Kidnapping

Mountains è il catalogo dell’omonima mostra che attraverso un complesso sistema visivo esplica la altrettanto complessa attività di ricerca. Dopo questa lunga premessa non posso affermare che il libro non sia assai impegnativo e a tratti anche incomprensibile, sicuramente solo per lettori

veramente motivati, ma superata la soglia iniziale del ‘non ci capisco niente’, potreste amarlo. Titolo: Kidnapping Mountains Autore: Slavs and Tatars Casa Editrice: Book Works Anno: 2009 www.bookworks.org.uk

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Videogames

Di Janusz Daga (jan@pigmag.com)

PIG’s Most Played. A Natale, imbracciate machete e fucile. Poi tutti in chiesa a caccia di Alieni e Zombie. Resistance 3 _ PS3 Otto ore di gioco per un inferno coast to coast che in quanto a trama non ha nulla da invidiare al migliore dei blockbuster. Joseph Capelli sfiderà i Chimera che nel frattempo hanno conquistato e distrutto la Terra decimandone la popolazione. Quelli che sono sopravvissuti cercano riparo sotto terra, costantemente minacciati dai giganteschi Terraformanti. Sembra non esserci un’alba per gli uomini. L’unica speranza è il nostro incredibile arsenale di armi e una buona mira. Ringraziamo Insomniac per aver pensato ad alcune meccaniche di gioco che differenziano Resistance dai soliti FPS. Dead Island _ Xbox360 _ PS3 Un survival horror con tutte le carte in regola per rimpiazzare il nostro zombie-game favorito. L’ambientazione è pazzesca: una meravigliosa isola tropicale al largo della Papua Nuova Guinea, chiamata Banoi. Tutto ha inizio qui: contagio, follia, morte, resurrezione. Chiamati a impersonare un sopravvissuto misteriosamente immune alla malattia, dovremo vedercela con migliaia di zombie affamati. La grafica è paurosa, curatissima la flora tropicale e il mega resort in rovina e il gameplay è pronto a regalarci ore di adrenalina pura. Mescolando FPS e RPG dovremmo completare missioni e costruire armi di fortuna. Nessuno immagini fucili e pistole, si combatte per lo più con coltelli e bastoni. Massacro ravvicinato e sangue dappertutto. Unico neo la poca interazione con gli oggetti nello scenario, ma bilancia alla grande un multipla-

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yer gustoso e una full-immersion memorabile nell’orrore dei morti viventi. Perfetto per passarci una vacanza! Gear of Wars 3 _ Xbox360 Gran finale per Marcus e compagni che innescano una bomba atomica e spediscono le loro carcasse nel firmamento delle Stelle del Videogames. Inutile dire che questo terzo capitolo ha venduto milioni di copie sfondando qualsiasi record mondiale, superfluo ricordare che GoW è e sarà per sempre una delle migliori trilogie mai progettate su console. Se volete vedere un vero motore grafico date un’occhiata agli effetti particellari, alle ombre e alle tonnellate di piombo che piovono sui dannati insetti. Imperdibile l’online che ci delizia con moltissime modalità. Adesso potete anche smettere di sparare. Boxer _Mac _ PC Se amate i classici non potete perdervi questo capolavoro: un emulatore DOS capace di caricare in modo facile e intuitivo tutte le vostre Rom preferite: Eye of The Beholder, Traders, Ultima, Wing Commander. Voi dite un titolo, scaricatelo e mettetelo dentro il Boxer. Lui farà il lavoro sporco. Unica nota dolente sono –ogni tanto- i tasti o il mouse. Non sempre è tutto come lo ricordavate o lo immaginavate. Magari dovrete industriarvi a capire come un Mac possa interpretare comandi di tastiera vecchi di un CP-ventennio. Ma è poca cosa se paragonata all’emozione di poter caricare tutti quei gioielli. Adesso mi lancio un Elite e subito dopo Rail Road Tycoon. Anzi, prima un Monkey Island e poi un F-16...


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Videogames

Di Janusz Daga (jan@pigmag.com)

The Sting Nel 1974 due ragazzi in un garage avevano un sogno: progettare per Atari un grande videogame. Dopo Pong non esiste gioco più famoso di Breakout. Forse non tutti sanno però, che i genitori di questo piccolo capolavoro digitale sono niente meno che Steve Jobs e Steve Wozniak. Proprio la coppia che qualche anno dopo avrebbe presentato al mondo nientemeno che Apple. Vi raccontiamo la loro storia: sogni, denaro e tradimenti hanno come sfondo quell’epoca che ha visto nascere le aziende di software e di hardware che ancora oggi dominano il mercato, gli anni ‘70. Alcuni particolari di questa vicenda sono stati resi noti solo pochi mesi fa proprio da uno dei protagonisti ma si tratta di tanto tempo fa, quasi quarant’anni, e la memoria di uno potrebbe non essere sufficiente. Tempi difficili e confusi, dove la Silicon Valley era ancora una placida distesa di alberi da frutto e fattorie. Tutto ebbe inizio in Atari. Periodo duro, l’azienda cercava di uscire dal successo di Pong proponendo un

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prodotto migliore e meno costoso, pur entrando in concorrenza con le molte software house nate proprio in quel periodo dalle sue costole. Fu durante quel difficile 1974 che il giovane Steve Jobs entrò per la prima volta negli uffici di Allan Alcorn (genio di Atari e indiscusso padre della moderna industria del videogioco). Era un fresco pomeriggio di primavera quando la segretaria di Allan annunciò che nella hall c’era un ragazzino coi capelli lunghi che chiedeva un colloquio di lavoro, probabilmente un hippy perdigiorno gracchiò all’interfono. Allan lo fece sedere e rimase subito colpito dal suo entusiasmo e dalla voglia di rimboccarsi le maniche. Steve mentì su una sua presunta esperienza in Hewlett-Packard e raccontò di un background tecnico che in realtà non possedeva. Lo fece così bene che Al decise di assumerlo per 5 $ all’ora, reparto ingegneria. Anni dopo, Allan dichiarò: “ Jobs

non aveva la minima idea di cosa fosse l’ingegneria elettronica. Mi fregò alla grande, mi ci vollero anni per capire che dietro molti progetti c’era invece lo zampino del suo amico Woz, fatto entrare di nascosto dalla porta di servizio mentre Steve si prendeva il merito...”. Nel maggio del 1974 Steve Jobs divenne l’impiegato numero 40 di Atari all’età di 18 anni. Il suo compito sarebbe stato quello di revisionare le schede dei cabinati coin-op prodotte da Atari. In azienda c’era molta libertà e subito Steve capì che avrebbe potuto curiosare anche nei progetti degli altri tecnici e programmatori. Questo suo bighellonare dando consigli e dicendo la sua anche su quello che non gli era di competenza lo mise subito sotto una strana luce. A questo aggiungiamo che aveva l’abitudine di mettere i piedi sulle altrui scrivanie parlando di India e magici santoni. In una società fatta ancora di businessman vecchio


stampo la cosa non poteva durare. Fu così che Allan decise di trasferirlo ad altro incarico, dargli insomma un’ultima chance. Gi disse che da quel momento avrebbe dovuto seguire la parte inerente ai circuiti sonori da aggiungere o togliere alle schede (stiamo parlano dell’era pre-CPU dove le schede si costruivano aggiungendo e togliendo circuiti). Fu proprio in quel periodo che Jobs organizzò per il il suo vecchio amico Woz un tour guidato al reparto tecnico dove lavorava. Woz lasciò gli ingegneri di Atari di stucco, non solo perchè aveva già sviluppato una sua versione di PONG casalingo, ma anche perchè la sua versione risultava di molto più avanzata e migliore di quanto stavano facendo loro. Era persino riuscito ad utilizzare un numero di transistor (TTL) di molto inferiore quello utilizzato da Atari. Lui lo aveva fatto meglio e spendendo meno. Nemmeno a dirlo, Allan offrì subito un lavoro a Woz che però declinò l’offerta. Lui voleva progettare calcolatori elettronici, non videogames! Da questo punto in poi le cose si fecero frenetiche, Steve cercava a tutti i costi di farsi pagare un viaggio in India da Atari, cosa che incredibilmente avvenne durate l’estate del 1974. Tornò in azienda col capo rasato e vestito di arancione. Nella

sua valigia, alcuni stracci colorati e un libro di Baba Ram Das per Allan. Anche così agghindato venne subito riassunto. Non solo, convinse Allan a nominarlo ingegnere grazie alla buona impressione che Jobs aveva fatto durante il suo viaggio in Germania (tappa precedente al viaggio mistico in India). Pochi sanno però, che Steve fece colpo sui tedeschi proprio grazie ad una serie di dritte che lo stesso Allan gli diede prima di partire. Sia come sia, Steve ricominciò a lavorare sui circuiti. La svolta però, arrivò solo nel settembre del 1975. Alla ricerca di una rapida soluzione per il lancio del nuovo gioco, Atari decise di offrire ai propri tecnici un bonus di produzione. 100 $ ogni chip TTL fossero riusciti a rimuovere dalla scheda (un gioco normale ne utilizzava 130-170). Fu proprio in quest’occasione che Steve dimostrò tutta la sua intraprendenza: firmò il contratto per la progettazione di Breakout e mise subito al lavoro il suo amico d’infanzia. La fregatura è anche qui nota, tanto che Woz, anni dopo la commentò con un sorriso: Steve gli passò il lavoro per quello che gli disse sarebbe stato il compenso. 350 $. In più gli disse che si doveva fare in quattro giorni. Cosa impossibile se pensate che la richiesta iniziale di Atari era anche quella

di dimezzare l’uso dei chip sulla scheda e che normalmente ci volevano circa sei mesi di lavoro. Notte e giorno lavorò Woz, sul suo tavolo da lavoro. Immerso tra tazze di caffè e sudore. A imprecare sul saldatore e sui fumi dello stagno fuso. Anche la storia dei quattro giorni si scoprì dopo, era un’invenzione di Steve, che doveva prendere un aereo per l’Oregon e voleva consegnare prima possibile. Ebbene, alla fine Woz costruì il suo prototipo e Steve lo testò. 42 chip in tutto. Roba da non credere. Breakout era nato con un’architettura del tutto nuova, che avrebbe cambiato molte cose di li a poco. Nel frattempo cambiava il conto in banca di Steve che riceveva dalle mani di Allan un assegno di 5000 $ (700 $ di base più il bonus per ogni chip tolto). Per tutto lo stress e il lavoro, i due si beccarono anche la mononucleosi ma fu l’inizio di una lunga amicizia. Woz ha più volte dichiarato che sulla scia di Breakout arrivò anche l’idea per la prima architettura Apple 2. La storia del “Grande Inizio” potrebbe anche finire qui, se non fosse che Atari ebbe grandi problemi a capire l’architettura concepita dai due Steve. Allan spiegò che il design fu così compresso che nessun comune mortale riuscì a riprodurlo. Fu necessario per Steve Jobs capire esattamente tutto quello che Woz aveva fatto per poi spiegare ai tecnici Atari passo-passo. E questo richiese tempo. Ne fu ricostruita una versione più semplice e ci vollero mesi per ri-calibrare la scheda. Finalmente, il 13 aprile del 1976 Atari fece il colpaccio che stava aspettando e pubblicò uno dei suoi titoli più conosciuti. Fu anche uno dei primi titoli ad uscire su Atari 2600, seguito da una sua versione aggiornata nel 1978, Super Breakout. Per i due Steve fu una bella avventura, che segnò per sempre la storia del videogame e successivamente, la storia della tecnologia. Una storia fatta di uomini e dei loro sogni, vite vissute che continuano ad ispirare molti di noi. Stay Hungry, Stay Foolish.

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