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LUCCHESI COACH D'ORO

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LA FOTO DEL MESE

LA FOTO DEL MESE

Focus - di Giulia Arturi

LUCCHESI COACH D’ORO

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L’UOMO DELLE 5 MEDAGLIE GIOVANILI HA UN VISSUTO PIENO DI SVOLTE IMPROVVISE E CURIOSE. “L’IMPORTANTE È RINNOVARSI: CON L’UNDER 16 STAVOLTA ABBIAMO PROVATO A USARE GLI SMARTPHONE PER IL BASKET INVECE CHE PROIBIRLI...”

Giovanni Lucchesi, 59 anni, uno dei personaggi del momento nel mondo del basket femminile, ha al collo cinque medaglie: due d’oro, due d’argento e una di bronzo. Con le Nazionali giovanili nessuno ha vinto più di lui. Ma non tutti sanno che prima di guidare sapientemente giovani talenti era un playmaker un po’ intemperante… “Il mio primo ricordo legato alla pallacanestro è alle scuole medie Federico Cesi, a Roma. Un professore, Pietro Poli, organizzava un corso mattutino di basket e mi iscrisse a quello pomeridiano. Così cominciai. Me la cavavo bene, ero un playmaker, piuttosto alto in verità. Come capita spesso a chi diventa poi un allenatore particolarmente esigente, da giocatore ero un po’ scapestrato, non sempre rimanevo nelle regole dei giochi… (risata). I miei idoli erano Marzorati e Brunamonti. Con gli amici una volta andammo a vedere una Coppa Italia: la IBP Perugina di Bianchini contro la grande Ignis Varese, con Meneghin, Morse e tutti gli altri. Ma il nostro preferito era Massimo Lucarelli, un centrone dal fisico un po’ così. Nel nostro immaginario era straordinario, volevamo vederlo in campo. C’era un silenzio totale al palazzetto, non c’era nessuno fuorché noi. Lu-ca-re-lli, Lu-ca-re-lli. Intonammo cori in suo onore tutto il tempo, scatenando un grande stupore sulla panchina dei lombardi (risata)”.

“Nei miei anni da giocatore ricordo una partita in particolare, contro una squadra del Cristo Re. Quell’appuntamento per noi significava moltissimo, era un evento straordinario. Proprio poche settimane prima, giocando in un campetto all’aperto, sul marmo, mi procurai una forte distorsione. Facevo fatica a camminare, mi adoperai con tutte le soluzioni dell’epoca: la vegetallumina, gli impacchi di acqua e sale. Cercavo di testare il processo di guarigione toccando lo stipite della porta con un salto, per verificare come reagiva la caviglia. Giocai fasciatissimo, con quelle bende elastiche che si usavano una volta. Avete presente? Perdemmo 103 a 17, io feci 4 dei 17 punti”.

Flash forward. 2018, Kaunas, Europei Under16. Lucchesi è l’allenatore delle azzurrine. L’era è quella dei social. Se è inevitabile che le ragazze usino costantemente il telefono, tanto vale che sia per qualcosa di utile, pensa Giovanni. “Spesso, gli anni passati, notavo l’incomunicabilità delle ragazze all’interno del gruppo; passavano troppo tempo con il telefonino in mano. Avvisate le famiglie, glieli toglievo e immediatamente la comunicazione aumentava. Quest’anno invece, con il mio assistente Nazareno Lombardi, abbiamo fatto una scelta diversa: usiamoli. Prima di ogni partita le ragazze avevano sul loro smartphone le clip individuali e delle avversarie. È stata una soddisfazione enorme vederle interagire commentando quei video, o prendere appunti. Un’iniziativa utilissima, abbiamo preso spunto dai social per socializzare pallacanestro con questa formula”.

Dalle fasciature di stoffa, alla condivisione 2.0 degli schemi delle avversarie, con una costante: la passione per la pallacanestro. E non si tratta solo di correre avanti e indietro per il campo; conversando con Giovanni, si avverte uno stile di vita, un modo di crescere, un percorso. Partendo dal basket, gli orizzonti si allargano.

“Negli anni ho affrontato tante scelte repentine, tante sliding doors, occasioni che ti cambiano la vita. Quella che mi portò a Vicenza fu una di queste. Ho smesso molto presto di giocare: la considerazione dello sport in famiglia non esisteva, spesso dovevo uscire di casa di nascosto. Gli ostacoli diventarono troppi, e nonostante mi piacesse moltissimo, smisi presto. Anni dopo, poco più che ventenne, mi riavvicinai al basket e iniziai ad allenare, prima per divertimento, poi per guadagnare i primi pochi soldini, sempre a Roma. La stagione in cui fui assistente al Cor Basket Roma, in A2, in squadra c’era Antonella Ferrante, moglie di Aldo Corno. Aldo allenava a Viterbo, ed ebbe l’occasione di prendere in mano Vicenza. ‘Se Aldo dovesse andare, mi piacerebbe seguirlo’, dicevo ad Antonella, per scherzo. Non era un pensiero realistico, ma quando questa opportunità si concretizzò per davvero, la presi al volo. Da un giorno all’altro, feci armi e bagagli e mi trasferii a Vicenza”.

Improvvisamente tutto cambia: in palestra ci sono Gorlin, Fullin, Lawrence, Smith, Pollini: mostri sacri. La realtà diventa quella dello squadrone per eccellenza del basket femminile. “Nessuno mi conosceva, non avevo chissà quale curriculum. A Roma mi ero occupato di giovanili, mi ero divertito: ricordo le sfide con le Stelle Marine dove giocava Stazzonelli. Ma non avevo neanche mai partecipato a interzona o finali nazionali. L’impatto con Vicenza fu stupefacente, rimasi a bocca aperta. Proprio quella stagione arrivò Janice Lawrence, un personaggio incredibile. Una faccia scura, che nascondeva una sfrenata simpatia. Non mi dimenticherò mai quando si presentò ad un allenamento di tiro della mattina in jeans attillatissimi e maglietta: la sua forma di protesta. Aldo la fece tirare comunque, pensava fosse meglio in qualche modo assecondarla (risata)”. Hai mai visto una formazione più forte di quella? “No. Una squadra corta, unita, di impressionante solidità. Le giocatrici non permettevano a nessun avversario di toccare la compagna. Una spinta a Gorlin? Arrivavano Peruzzo e Fullin per una vendetta tecnica. E Aldo era l’allenatore ideale per quel gruppo: riuscì a gestirlo al meglio, con le sue capacità di aggregatore e motivatore. I risultati sono nella storia”.

Se parliamo di settori giovanili, il nome di Giovanni Lucchesi è quasi una conseguenza automatica. Ma nella sua carriera ci sono anche otto stagioni in serie A1, da capo allenatore. “Ho fatto 8 anni ad Ancona, di cui quattro da capo allenatore. Il primo fu speciale: iniziato malissimo, con tante sconfitte, ma concluso sfiorando i playoff. Io ero all’esordio assoluto, e la squadra era giovanissima. Costalunga, Gardellin, anche loro al debutto o quasi nella massima serie. Poi ricordo con particolare gioia la mia stagione a Costa Masnaga: da neopromosse ci piazzammo quinte, guadagnando anche la possibilità di giocarci la coppa Ronchetti. Stavo benissimo, non me ne sarei mai andato, ma purtroppo la società chiuse e non ci fu possibilità di continuare quella splendida avventura. Se mi manca fare il capo allenatore di un club? No. Ho fatto una scelta precisa, con grande umiltà e con la fortuna (sottolineato con penna rossa e blu) di poterla portare avanti con il settore squadre nazionali. Farei fatica in questo momento a rimettermi i panni di chi deve alzarsi la mattina sperando che la straniera sia di buon umore. Sono ormai troppo orientato verso quello che sto facendo: il settore giovanile per me è la soddisfazione più grande”.

Quando si lavora con le giovani, la questione non si riduce ad insegnare movimenti di gioco, ad applicare schemi e difese. È un impegno ad ampio respiro: l’allenatore contribuisce ad un percorso di formazione. “Già: parliamo di ciò che è appoggiato sul tavolino, anzi sul petto e non si vede. Non splende, però è a diretto contatto con il cuore. Ed è anche ciò che ti alimenta. Come il reattore Arc di Iron Man: quella luce che ha in mezzo al petto. È la sua fonte di energia. Finché è acceso quello…”.

E per ora sembra risplendere: abbiamo visto Giovanni dare tutto sulla panchina delle azzurrine campionesse d’Europa Under 16. “Un gruppo fantastico, una delle squadre giovanili più belle che abbia giocato a pallacanestro negli ultimi anni. Ma la prossima estate non le avrò io, tornerò all’Under 16. I rapporti cambiano molto, la mia scelta è quella di rinnovarli. Mantenere l’attenzione sullo stesso gruppo per tanti anni è molto difficile: servono argomenti diversi, oppure bisogna usare gli stessi ma con altre persone, altrimenti il rischio è di annoiare. È bene poi che un gruppo senta altre voci e idee, e non ci devono essere preconcetti e preclusioni. Una giocatrice può non essere adatta alla mia pallacanestro, ma perfetta per quella di qualcun altro. E se dovesse far bene meglio ancora: abbiamo una giocatrice in più”.

Rinnovarsi. Una parola chiave anche nello sviluppo della carriera di Lucchesi: “È fondamentale ricordarsi del passato, inteso come insegnamento, cultura ed esperienza, per adattarlo al presente, al moderno. Senza mai dimenticare la prima pagina del libro e il nome dell’ultima pagina. Bisogna innovare continuamente quello che proponiamo ai ragazzi, sfruttando la fantasia. Non schiavi di una moda, ma sempre pronti a disegnare nuovi modelli e se non sono efficaci sostituirli con altri”.

Per la Nazionale senior si avvicina l’ultimo appuntamento, quello decisivo, delle qualificazioni a Eurobasket 2019. Il 17 novembre in Croazia, il 21 a La Spezia contro la Svezia. “È un passaggio cruciale. Marco Crespi ci sta mettendo l’anima, sviluppando una visione d’insieme e una capacità di comunicazione che sono estremamente ‘contemporanee’, come usa dire lui. I problemi sono sempre gli stessi, nel senso che siamo tutti comunque in attesa della nuova generazione che sta crescendo, però dobbiamo anche essere concreti e cercare di portare a casa la qualificazione, per nulla facile o scontata. L’importante è che comunque vada, la Nazionale sia da traino, sia benzina che consenta di alimentare il motore. Se a maggior ragione il motore non è quello di una Ferrari, bisogna stringere i denti, essere stretti a coorte e portare a casa il risultato”.

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