Eda vino

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Dall’uva al vino Corso EDA, Educazione Degli Adulti

Anno 2011 - 2012 Laboratorio di ComunitĂ A u s e r Vo l o nta r i ato d i L a u r i a


Dall’uva al vino Laboratorio di Comunità Lauria, Auser - Corso EDA

Indice : Corso EDA , Educazione Degli Adulti - Anno 2011 2012 Laboratorio di Comunità, Auser Volontariato di Lauria via Rocco Scotellaro n°117 - 85044 Lauria (pz) - telefono 0973 629049 - e-mail: auserlaboratorio@libero.it Estensore e tutor Giuseppe Di Fazio Insegnante Anna Maria Carlomagno, Istituto Comprensivo di Lagonegro per il Progetto EDA, Educazione Degli Adulti.

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Presentazione ............................................................................................ 4 Dall’uva al vino ............................................................................................ 5 La civiltà del vino .......................................................................................... 9 Come si fa per celebrare ancora oggi un rituale tra i più antichi del Mondo?.. 11 Il rituale dell’assagio......................................................................................... 15 Una giornata speciale ... e allegra .................................................................... 17 Saluti & baci .................................................................................................... 21

Stampato in proprio per uso interno, giugno 2012

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Beviamo. Perché aspettare le lucerne? Breve il tempo. O amato fanciullo, prendi le grandi tazze variopinte, perché il figlio di Zeus e di Sèmele diede agli uomini il vino per dimenticare i dolori. Versa due parti d'acqua e una di vino; e colma le tazze fino all'orlo: e una segua subito l'altra

Presentazione Continua l’attività di recupero della Memoria collettiva del Laboratorio di Comunità. La quotidianità e la sua relazione con l’esperienza collettiva sono ancora in primo piano. Questa volta tocca ad uno dei riti più antichi e più affascinanti, per le Comunità Mediterranee: la magia della trasformazione dell’uva. La Storia e le “storie” dei nostri territori sono segnate dalla storia del vino, da alimento a produttore di relazioni sociali. Il rituale del vino ha accompagnato e celebrato incontri, ha consegnato ricchezze ed ha stimolato commerci, con la sua assistenza si sono combattute guerre e stipulati accordi di pace. Le sue tecniche si sono evolute insieme alle strategie di guerra e alle raffinate produzioni letterarie, hanno accompagnato insomma la costruzione della cultura millenaria della quale ancora siamo figli. E ancora tra noi ci sono le tracce di un rispetto religioso per la sua magia, che si fa addirittura risalire agli Dei. Sulle nostre tavole l’uva testimonia ancora tradizioni che ci appartengono e che ci descrivono come una stessa grande Comunità, superando confini e divisioni sociali. Insieme al Maiale e alle Tisane, ci è sembrato doveroso indagare il Vino. Il racconto delle sue abitudini antiche, i ricordi degli anziani legati ai brindisi e alle tecniche che sopravvivono alle nuove mode del bere, ci sembrava che potessero recuperare il senso di una bevanda che da sempre ha accompagnato da vicino le parole e i pensieri, avvicinandosi alla bocca e spesso al cuore. Per l’Anno 2011-2012 il Centro Territoriale Permanente di Lagonegro ha incaricato l’Insegnante Anna Maria Carlomagno, dell’Istituto Comprensivo di Lagonegro per il Progetto EDA, Educazione Degli Adulti. L’insegnante ha accettato con piacere il tema di quest’anno, e nell’ambito delle finalità di recupero della Memoria, che sono proprie dell’Auser, ha collaborato con il Laboratorio di Comunità. Ha aiutato, attraverso la redazione del Rapporto finale, le signore che partecipano al Progetto a recuperare i loro ricordi, ad affidarli alla Comunità ed a renderli patrimonio di tutti. L’attività, nella sua semplicità anch’essa “quotidiana”, appare come un utile esercizio per il riuso di quanto è possibile ricordare insieme. Ed è anche esempio di come si può ricostruire, con la memoria un po’ nostalgica dei tempi andati, anche la curiosità e l’interesse per abitudini alle quali non diamo spesso grande valore, proprio perchè sono “quotidiane”, e perciò così comuni da non apparire di grande importanza. Ma sono abitudini che nel tempo hanno assunto un valore ”marginale”, come direbbe un economista, e perciò un valore grande. Siamo noi, con tutta probabilità, gli ultimi a ricordarle, a causa di una contaminazione “globale” che lascerà sempre meno spazio alle tradizioni locali. Il loro esaurimento significherebbe la fine di un processo lungo secoli e non più riproducibile. Un valore di testimonianza, insomma, che già da solo giustifica la necessità di non spegnerne il ricordo. Attività di recupero semplice, pertanto, ma non poco importante, in quanto ha l’ambizione di proporre una rinnovata modalità di trasmissione del sapere più autentico, quello sedimentato nella esperienza quotidiana di chi ha ancora cose buone da insegnare a tutti noi. Questo Progetto ha dimostrato sul campo di rientrare perfettamente tra i nostri obiettivi generali, ed anche tra le finalità specifiche ed i principi ai quali il Laboratorio di Comunità si ispira.

Il Presidente dell’Auser Volontariato di Lauria

Giusy Gazaneo pagina 4

Alceo, traduzione di Salvatore Quasimodo

Dall’uva al vino La vite comune (Vitis vinefera) è una pianta rampicante, più precisamente un arbusto, appartenente alla famiglia delle Vitaceae. E’ diffusa in tutto il mondo ad eccezione che nei Poli, sia Nord che Sud, e nelle loro vicinanze. Quelli sono infatti climi eccessivamente freddi e privi delle condizioni adatte alla crescita dell’uva. È comunque una pianta molto resistente. Riesce a sopportare bene i climi continentali dell’Europa Centrale, dell’Anatolia ad esempio, ed anche climi molto caldi. A livello selvatico la vite fece la sua comparsa sulla terra tra i 130 e i 200 milioni di anni fa. L’antropologia moderna, analizzando reperti fossili scoperti di recente, fa risalire le prime coltivazioni a circa 9.000 anni prima di Cristo, nell’attuale Cina. Il vino dunque, la capacità cioè di trasformare l’uva in bevanda non semplicemente spremuta, ma fermentata, a quell’epoca sarebbe stato già conosciuto in Cina. E con un livello produttivo sufficientemente avanzato, il che fa pensare che fosse pagina 5


presente già da molto tempo prima. L’ha annunciato con una pubblicazione sulla rivista “Proceedings” della National Accademy of Science americana il professor Patrick E. McGovern, del museo di Archeologia dell’università della Pennsylvania. McGovern ha analizzato i residui di sostanze liquide contenute nel vasellame ritrovato nella provincia cinese dell’Henank, in un sito archeologico che risale all’età della pietra. Sarebbe questa la più antica bottiglia di vino del mondo. La sostanza, ormai certamente imbevibile, sarebbe il residuo di una bevanda alcolica ottenuta dalla fermentazione di riso, frutta, erbe e miele. L’umanità insomma non ha aspettato molto per godere dei piaceri dell’alcol, visto che, a quanto pare, i cinesi hanno scoperto la fermentazione praticamente subito dopo la coltivazione del riso. Esiste anche una boccetta di bronzo sigillata proveniente dalla città di Anyang, che contiene ancora un campione liquido di vino preistorico. Quest’ultima risale al 7.000 a.C. e, a quanto pare, le tecniche di fermentazione e gli ingredienti, da allora, non sono molto cambiati. Finora il più antico ritrovamento di bevanda fermentata era stato fatto nel 1.990 fra i monti dell’Iran occidentale e risaliva “soltanto” al 5.400 a.C. Testi antichi farebbero risalire questa coltivazione addirittura all’era antidiluviana, dai 12.000 ai 10.000 anni prima di Cristo, ma questi testi non sono stati ancora confermati dall’archeologia. Questo non significa che non sia possibile. Come si sa le scoperte archeologiche aggiornano continuamente questa scienza. Probabilmente in un futuro più o meno prossimo sarà possibile retrodatare ulteriormente la coltivazione della vite a quest’epoca, coincidente tra l’altro con la nascita dell’agricoltura e la domesticazione di molte piante e cereali. Quest’inizio della civiltà sarebbe avvenuto infatti intorno a quel periodo nella mezzaluna fertile localizzata nell’antica Mesopotamia, stretta tra i fiumi Tigri ed Eufrate. Recenti scoperte archeologiche hanno spostato la localizzazione delle prime coltivazioni anche di legumi e ortaggi verso il bacino del Mediterraneo, nell’attuale Giordania. Facendo riferimento ai testi antichi, preziosa fonte di informazione, la Bibbia menziona la vite in riferimento a Noè, lasciando intendere come il costruttore dell’Arca fosse già a conoscenza della pagina 6

sua coltivazione. Dal 3.000 avanti Cristo si evidenzia comunque la convergenza sia delle testimonianze storiche che archeologiche sulla coltivazione della vite presso i Sumeri e gli Egizi. Risale a questa epoca il contatto tra le civiltà mesopotamiche e nordafricane con i popoli dell’est Europa meridionale, in particolare con le popolazioni residenti nell’odierna Grecia. Furono proprio i Greci a fare il “salto di qualità”, a dare cioè impulso sostanziale alla diffusione e alla coltivazione della vite, configurandole così come le conosciamo oggi. Non è un caso che sia Bacco, un Dio greco, il Signore del vino. Bacco era sposato con la Ninfa Armonia, e nella mitologia greca era l’inventore stesso del vino. In pratica, “gestiva” personalmente uno dei primi vigneti greci, che il Mito colloca nei terreni intorno all’antica Tebe, oggi Thiva, nel bel mezzo della Grecia. Insieme ai Fenici, i Greci furono i grandi colonizzatori del Bacino Mediterraneo, al contrario degli Egizi che furono un popolo stanziale, in pratica. Fondarono numerose colonie portando con loro conoscenze botaniche e talee, esportando anche la pratica della coltivazione della vite. Ma a differenza dei Fenici, i Greci non si limitarono alla sola coltivazione come era intesa fino ad allora. Capirono che l’uomo poteva intervenire direttamente nella scelta delle piante, a seconda delle esigenze climatiche, ed anche nella resa stessa delle piante. Iniziarono pratiche come la potatura, gli innesti e molte altre tecniche oggi molto comuni in agricoltura. Grazie ai Greci la vite si diffuse dapprima nella Sicilia e poi via via dall’Italia Meridionale fino a quella Settentrionale. I Fenici diffusero a loro volta la vite in Sardegna e in Spagna. Successivamente i Romani, esperti e navigati commercianti, che fecero del loro Impero il primo mercato commerciale globale, la diffusero in tutta la Gallia, l’attuale Francia, in Germania e nei Balcani. Grazie ai Romani la vite divenne importantissima e il commercio del vino rappresentò una delle principali attività dell’antichità. pagina 7


Il declino dell’Impero portò con sè anche l’abbandono delle coltivazioni e delle tecniche, recuperate e raffinate soltanto ad opera dei monaci, al punto che furono in pratica relegate ad esclusiva produzione di nicchia nell’ambito del clero. Questa situazione andò avanti per qualche secolo, e il nostro territorio ne fu privilegiato in quanto in quell’epoca era oggetto di una “colonizzazione dolce”, per così dire, ad opera dei monaci greco-orientali che si rifugiavano qui da noi, sul confine tra i due Imperi, quello Romano d’Occidente (o meglio i suoi resti) e quello d’Oriente. Fuggivano dalle persecuzioni conseguenti agli Editti iconoclasti, cioè quelli che proibivano il culto delle Icone. Popolarono l’Eparchia del Mercurion, che equivaleva, per i Bizantini, più o meno ad una nostra Provincia. Portarono con loro una sapienza immensa nel campo delle coltivazioni, della Religione, delle Scienze. E ci insegnarono anche a fare il vino con le tecniche che ancora oggi danno, qui da noi, un vino “diverso”. Già a partire dall’anno Mille la situazione tornò lentamente a migliorare un pò dovunque, fino ad riesplodere come fenomeno commerciale con il Rinascimento e con l’organizzazione delle grandi rotte marittime. Durante l’alto Medio Evo gli scambi nel Bacino del Mediterraneo e nell’Europa continentale erano molto fitti. Le innovazioni delle tecnologie nautiche che accompagnarono la scoperta delle Americhe contribuirono alla definitiva esplosione del commercio del vino così come lo conosciamo oggi. Grazie alla Marina mercantile inglese, ad esempio, vini come il Bordeaux, il Porto, il Marsala o lo Champagne divennero comuni e richiesti in tutti i porti, fornendo le basi all’enologia moderna. Ovunque la vite rappresenta una delle coltivazioni più importanti, insieme a quella della frutta, dei cereali e degli ortaggi. Il Rinascimento ne registrò le capacità evolute nei primi trattati botanici sulla vite, ponendo le basi alla viticoltura moderna. Quest’ultima univa le preziose conoscenze naturali dei coltivatori agli studi universitari di botanica, che continuarono nell’ottocento e fino al novecento poi, con uno sviluppo eccezionale e costante. Tutto questo non passò invano sul nostro territorio. Baricentrico rispetto a tutte queste culture che si succedevano, ne fu imbevuto, e il vino lasciò, di nuovo, ogni volta, tracce profonde nella nostra cultura locale. pagina 8

La civiltà del Vino Nel vino si rispecchia la nostra Civiltà Mediterranea e quella di tutti gli altri popoli che lo hanno adottato. Tutti, prima o poi, ve ne hanno lasciata traccia, e di tutte vi si leggono, a ben vedere, i contributi. Del resto il vino non solo soddisfa le nostre esigenze fisiologiche, ma dà anche nutrimento al nostro spirito. Lo utilizziamo in tutte le occasioni importanti della vita. Secondo lo stesso Antico Testamento : “….Che sarebbe la vita, senza il vino ? Il vino bevuto in tempi e quantità giuste è gaiezza del cuore, gioia dell’anima … “. La cultura locale del vino è espressione diretta della Comunità che l’ha prodotta. Chiunque è passato qui da noi, nei secoli scorsi, ha gustato il nostro modo di bere il vino. A volte magari ha voluto anche aggiungere la sua personale esperienza, o il gusto di una speciale maniera di produrlo o di servirlo, lasciando traccia di un’altra cultura, aggiungendo un altro tassello alla nostra sapienza. Oggi beviamo vino anche e forse soprattutto per piacere, secondo una consuetudine “occidentale”, frutto di una concezione evoluta del bere. Eppure per i nostri antenati il vino era soprattutto… un alimento. Doveva garantire forza per il lavoro nei campi. Ricordiamo ancora la partenza, di mattino presto, dei nostri contadini, o degli operai. Portavano con sé un concentrato di energia: pagnotte inzuppate del sugo della pasta o di una frittata, un pezzo di formaggio, se andava bene un pezzo di carne bollita nel sugo oppure una salsiccia. E non mancava mai una bottiglia di vino. Era un vino destinato a… “ rupp u‘ diun ”, a spezzare cioè la distanza tra un pasto e l’altro, con l’aiuto di po’ di pane. Doveva essere un vino denso, pastoso, nero, alcolico. La sua funzione era quella di integrare le vitamine spese nella fatica, e il sapore passava in secondo piano. Era il sapore dei nostri vini di adesso, quelli fatti ancora in alcune case per passione e per conservare la Memoria. Aspro, forte, per palati robusti e piatti di carni rosse. Un sapore che nelle cantine ci eravamo ormai abituati a smorzare con espedienti un po’ rudimentali ma efficaci. “Tre quarti e na gazzosa”, era la proporzione giusta, consolidata, per gustare il vino all’ombra di un albero di noce, o sull’uscio di una cantina. pagina 9


Oppure nelle case, d’inverno, davanti al fuoco. Bere il vino, da noi, era un’abitudine da uomini duri, dedicati alla fatica e che per la fatica avevano bisogno di recuperare energie. Già per i Romani il vino era un’altra cosa. Quando sono venuti qui da noi erano inorriditi dal modo di bere dei nostri antenati. Enotri, li chiamavano, che vuol dire trangugiatori di vino. Ubriaconi, insomma. Per loro era un sacrilegio che solo popoli rozzi potevano permettersi, una vera offesa agli Dei! Non capivano quella gente che beveva il vino “assoluto”, senza miscelarlo con sostanze che lo ammorbidissero. Loro lo addolcivano con il miele, lo mescolavano con le essenze più strane. Il loro era un bere raffinato, collegato alle cene e al divertimento. Era il piacere di bere. Più tardi, la consacrazione del vino come sangue di Cristo ne consolidò la tradizione religiosa, tutta orientale. Oggi è un prodotto di cultura, viene prodotto con tecnologia d’avanguardia, è destinato a un cliente colto, è assaporato da esperti del gusto. È sensale di una fitta rete di relazioni sociali, è complice di nuovi rituali di incontro che vengono celebrati tra chi ne condivide il piacere insieme alle più raffinate tra le arti: musica e poesia, o convivialità intellettuali. Per i Romani il “simposio” era una pratica che faceva seguito al banchetto, durante la quale i commensali bevevano e intonavano canti conviviali (skólia), si dedicavano ad intrattenimenti di vario genere (recita di carmi, danze, conversazioni, giochi ecc.). Viene da questo, forse, la nostra espressione popolare ”...s’u scula, u vin ” , per indicare scherzosamente chi ha una tendenza al consumo eccessivo e disinvolto ? È il simposio, comunque, il luogo ideale per il vino, testimone dell’incontro tra menti istruite, eleganti perfino nel parlare, nel descriverli con garbo, i piaceri, nel momento stesso in cui si consumano. Mescolando sacro e profano, cultura, religione, spettacolo, sesso. E ha vinto alla fine la maniera dei Greci e dei Romani, di assaggiare, degustare, godere insieme di un buon sapore. Eppure ancora c’è chi tra noi resta fedele alle tecniche antiche, che oggi appaiono un po’ scontate, e quasi da …stregoni. Certo, la voglia di produrre in piccole quantità richiede la scelta di restare fuori non solo dal mondo dei grandi vini, ma anche dallo stesso mercato ordinario. pagina 10

Chissà fino a che punto sono davvero consapevoli dell’omaggio che fanno ad Orazio, tra i grandi letterati antichi che cantarono lodi al vino, il più vicino a noi. E’ il poeta del Carpe diem, delle lodi al vino conviviale. Proprio la sua volontà ferma di salvare gli affetti, le relazioni, le buone abitudini, ci ha insegnato lo “stare bene insieme”, e ci ha invitato a difenderlo sopra ogni cosa. Per lui la scelta di un vino pregiato per gli incontri è un’arma vincente: il vino ha funzione consolatoria e aggregante. Ancora più forte è la funzione che questo dono della natura assume per Orazio, quando canta “Nunc est bibendum”, ora bisogna bere! Infatti affida al vino una funzione festaiola, perché aiuta l’uomo a rompere ogni vincolo e ad esprimere sfrenatamente la sua gioia. Il vino aumenta il gusto della compagnia, favorisce la preparazione al sesso, accompagna il piacere in tutte le sue forme, facilita le parole, allenta i freni, aiuta ad immaginare un futuro felice, festeggia un successo, sostiene la festa per uno scampato pericolo. E oggi sappiamo anche, grazie ai pù recenti studi medici, che nelle giuste proporzioni aiuta a vivere a lungo e in salute. “Il vino è il latte dei vecchi”, ci dicono i nostri anziani. Sarà per questo che proprio loro si ostinano, ormai purtroppo ultimi, a coltivare la tradizione del vino?

Come si fa per celebrare ancora oggi un rituale tra i più antichi del Mondo? Prima di tutto non bisogna badare a spese per l’acquisto dell’uva da trasformare, né per la strumentazione occorrente, e nemmeno per il tempo da dedicarvi. Soprattutto, bisogna frequentare chi il vino lo fa ancora come lo facevano i suoi nonni, e che conosce ancora i “tempi” astronomici della vendemmia e della cura del mosto. Meglio ancora se frequenta gli ambienti dello “spertusavott”. Magari non sarà questa la base ideale per produrre un buon vino come nei manuali più moderni, ma è certamente quella giusta per celebrare le liturgie tradizionali, le sapienze e le certezze i cui motivi si perdono nella notte dei tempi. Secondo il parere “esperto” delle signore dell’EDA, se si vuole appartenere al sempre più limitato drappello degli appassionati della lavorazione fatta in casa è opportuno, innanzitutto informarsi sul periodo migliore per la raccolta. Va ascoltato il proprietario del vigneto, e soprattutto bisogna informarsi in giro sul valore che la tradizione consolidata assegna a “quel” particolare vigneto. Localita’, tipo di impianto, tipo di vitigno e fattori climatici, esposizione, grado di congenialità del terreno, influiscono sulla data di raccolta e sulla qualità del vino prima ancora dell’annata. pagina 11


Inoltre, è bene che il processo di vinificazione si svolga in un luogo ben areato. Durante la fermentazione si sviluppa infatti anidride carbonica, che è nociva alla salute. Il luogo deve essere fresco, in quanto le temperature elevate potrebbero rendere inutili tutti gli sforzi, che saranno stati comunque tanti. In ogni caso, la cantina dovrà essere sempre pulita, il vino non dovrà prendere aria e dovranno essere sempre evitati i luoghi nelle cui vicinanze si producono forti odori e grosse vibrazioni. Tutto ciò che è sopra le righe rischia di contaminare il processo. Ci siamo informati sulle quantità necessarie a valutare qualità e … capacità di consumo. Si vogliono produrre più o meno 150 litri di vino? Una famiglia media di tre persone, che ne consumi una quantità pari a circa mezzo litro al giorno, tra pranzo e cena, e che abbia l’obbligo di fornirne un assaggio a qualche amico (altrimenti perché farlo, se non c’è nemmeno il piacere di esporsi al giudizio esperto di parenti o conoscenti invidiosi ?) a malapena ci passa l’inverno. Si evita così anche il problema della .... conservazione, per la quale i consigli sarebbero certamente troppi e tutti contrastanti. Ogni quintale di uva produce circa 50 litri di vino, naturalmente se si dispone di un torchio. Ne dà di meno, se addirittura si vogliono sperimentare le fatiche della pigiatura con i piedi. Bisognerà acquistare perciò almeno due quintali e mezzo d’uva da vino. Evitiamo deliberatamente di entrare nel labirinto delle qualità e delle provenienze, che ormai difficilmente saranno locali, e per le quali troveremo in giro infinite certezze, tutte rigorosamente esperte e tutte probabilmente sbagliate. Anche perché hanno contribuito, nel corso degli ultimi decenni, a sostituire tutti gli antichi vitigni, senza che ci si ponesse il problema della conservazione delle tracce originarie. E perché farlo, se non conveniva più utilizzarne le tecniche ormai vecchie che realizzavano gusti non più attuali e quantità non commerciali ? Forse il pubblico doveva pensare a calmierarne i costi? Ormai è fatta. Non ci sono praticamente più vitigni originari. Solo Barbera, Barolo, Lambrusco, o i cosiddetti vini pugliesi. Al massimo qualche Aglianico. E non si trovano nemmeno più vini genuinamente locali. Tuttalpiù possiamo ripassarne le procedure, perché non si perdano anche queste,

anche se già “contaminate” da nuove abitudini e materiali, e da precauzioni “igieniche”. Comprata l’uva, le prime operazioni servono a separare i raspi dall’acino, e si possono fare con piccoli strumenti alla portata del piccolo vinificatore. Già occorrono i primi accorgimenti per evitare patologie causate da parassiti. Sostanze usualmente in commercio come il metabisolfito hanno proprietà antisettiche ed antiossidanti, ed aiutano la precipitazione delle sostanze in sospensione, che sono da eliminare. Il “vino” ottenuto da questa prima fase di lavorazione deve essere raccolto in un recipiente, possibilmente di acciaio inox, fornito di rubinetto. Il contenitore deve essere lavato e disinfettato facendo bruciare al suo interno un dischetto di zolfo, oppure va pulito con acqua bollente. Già dopo qualche minuto dopo averlo chiuso, il contenitore può essere riaperto, evitando di respirare il gas che si è prodotto. Accorgimento del quale bisognerà ricordarsi ogni volta, perché i gas prodotti dalla fermentazione devono poter uscire, sono nocivi. Aprire il contenitore consentirà di “affogare” ogni volta, spingendole dentro, le eventuali bucce che fuoriescono dal liquido, perché il contatto con l’aria potrebbe ossidarle e darebbero a tutto il mosto un sapore di rancido. Operazione che abbasserà un po’ anche la temperatura, perchè se supera i 36 gradi rischia di arrestare la fermentazione. Dopo circa cinque giorni, oppure anche soltanto due se si tratta di uve bianche, si può passare alla svinatura, che consiste nel far uscire il mosto e nel raccogliere le bucce che ancora contengono molto liquido. Bucce che andranno pressate, e l’ulteriore nuovo mosto che se ne produce va rimesso nel contenitore per aggiungerlo a quello di prima. Tutto il mosto ottenuto potrà essere raccolto in 3 damigiane da 54 litri ciascuna e la rimanenza, che all’incirca dovrebbe essere di 10 -15 litri, in un contenitore più piccolo. Come tappo si possono utilizzare dei piccoli “bollitori” di plastica che dovranno essere riempiti al loro interno con un po’ d’acqua, così una barriera impedirà all’aria di entrare e nello stesso tempo ne uscirà l’anidride carbonica, che si manifesterà attraverso bollicine.

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Le damigiane vanno appoggiate su un piano rialzato, che in genere si fa con semplici tavole di legno. Il mosto ribollirà per circa 20 giorni. Appena si è nel periodo della luna calante (sarà poco scientifico, ma funziona da secoli!) con un tubo di plastica si travaserà il liquido. Bisognerà evitare di agitare il vino durante il travaso, altrimenti si smuove la feccia che si è accumulata. Questa, oltre a intorbidire il vino, può passargli batteri pericolosi che si sono prodotti sul fondo. Un campione di mezzo litro a questo punto può essere prelevato e con circa dieci euro un buon enologo potrà dire se ci sono correttivi da aggiungere perchè diventi un buon vino. In genere si tratta di acido citrico o tartarico, o bentonite per la chiarificazione. Ancora trenta giorni e sarà il momento di un nuovo travaso. Un litro d’olio sarà a questo punto un buon tappo idraulico. Basterebbe far passare dieci giorni per un primo assaggio, ma la tradizione (quella che funziona) consiglia di aspettare l’ 8 dicembre, giorno dell’Immacolata. Si deve guardare il risultato attraverso il vetro del bicchiere: un colore limpido è indice di buon vino. Se invece è ambrato si è sbagliato qualcosa, e l’esperimento si dovrà rimandare all’anno successivo! Sembrerà comunque il vino migliore che si è mai bevuto. In primavera si passa all’imbottigliamento, sempre con attenzione alla Luna, chiudendo le bottiglie con tappi di sughero oppure con quelli meno tradizionali in plastica. Il vino rosso imbottigliato con il sughero va assaggiato dopo un anno, se è buono darà il meglio di sè. Gli esperti avvisano che non bisognerebbe bere mai vino nello stesso anno in cui sono state raccolte le sue uve. Il vino infatti ha bisogno di mesi per essere pronto, e a volte i migliori vini possono migliorare anche per dieci anni! E l’abbinamento? Non è più tanto obbligatorio, con le nuove abitudini, rispettare le regole del bianco per il pesce e del rosso con le carni dal sapore forte. Si può perfino degustarlo con la pizza! È importante invece bere un sorso ogni tanto, durante tutto il pasto. Dopo ogni boccone dello stesso cibo, infatti le papille gustative inviano segnali al cervello sempre meno forti. pagina 14

Perciò quella particolare pietanza si apprezza sempre di meno, durante il pasto. L’importanza del vino sta anche in questo: se si beve un po’ per volta, “pulisce la bocca”, come dicono gli esperti, dal sapore di prima, preparandola a gustare ancora il prossimo boccone come se fosse il primo. Prolungando in questo modo il sapore di ogni pietanza. Un complice eccezionale, che più è buono, più tono dà ad un buon piatto, contribuendo a migliorare ogni fase del pasto.

Il rituale dell’assaggio U’spertusavott è un rito che si tramanda da secoli. E’ consuetudine, in quel giorno, andare a casa di chi produce il vino, e in genere l’ospite è già preparato ad avere “soddisfazione”. La raccolta delle castagne, o quella dei funghi, oppure il rito che accompagna l’uccisione del maiale, insieme allo Spertusavott, il cerimoniale dell’apertura della botte di vino, sono gli appuntamenti attraverso i quali le tradizioni culinarie procurano ancora all’intera Comunità occasioni di incontro. È nel giorno dell’8 dicembre che si festeggia l’Immacolata e si assaggia il vino novello, rimuovendo dalla botte la così detta “p’ricicchia ” che è una specie di tappo di legno, spesso di salice, servito a tappare la botte. E’ un rituale che ha origini antiche e che si ripete ancora in maniera diffusa tra le vecchie generazioni delle nostre zone rurali. Il rispetto delle tradizioni rappresenta una continuità che rivaluta il passato e che serve a trasferire al presente i segni incontaminati di una cultura contadina che sopravvive ai secoli. La cerimonia ha inizio nel primo pomeriggio, quando cioè gli amici, senza invito, si presentano a casa dell’amico produttore. La cantina è pronta a ricevere quelle visite. Il padrone di casa, con procedure consumate e dopo essersi assicurato che tutti i convenuti siano muniti di boccale, toglie la p’ricicchia ed invita tutti a servirsi. Si gusta il vino novello, si danno gli immancabili giudizi su quanto si è bevuto. Poi si augura felicità e benessere al padrone di casa ed alla sua famiglia e, tutti insieme, si va a casa del vicino, del compare o di un altro amico per ripetere, con uguale solennità, lo stesso copione. Le botti inaugurate sono tante ed a sera tardi si inizia l’ultima “visita”. Si va a casa dell’amico che ha l’abitazione più lontana e che, in genere, ha l’onore di accogliere l’ultima tappa di un percorso lungo e che ha già abbastanza… inebriato. Dopo i soliti rituali si sale in cucina dove arde un caldo fuoco alimentato da grossi ceppi di quercia. È certamente imbandita una lunga tavolata sulla quale, naturalmente, non manca il pagina 15


buon vino novello. Vi si trova di tutto, dalla fresca e saporita salsiccia al buon pecorino locale con la “lacrima” che ne testimonia l’ottima stagionatura, al pane profumato e soffice, ai sottaceti, ai biscotti, ai taralli, al sanguinaccio, …. Si mangia e si beve mentre i più anziani raccontano storie del passato e di vita contadina. Dal fuoco, intanto, si immagini che provega l’odore accattivante di un arrosto di agnello preparato diligentemente dalle donne e che viene consumato con voracità e solerzia. I taralli, o “biscotti a otto”, da consumare insieme al vino novello, chiudono la ricca e lunga tavolata. Si rispolvera per l’occasione anche il vecchio mandacetto che, affidato al più esperto del gruppo, accompagna canti di vita paesana ed invita anche a qualche giro di ballo. Le cantine non hanno più l’aspetto tetro di una volta, e appaiono sempre più ospitali, ed hanno tutte le... comodità, come dicono i nostri anziani. Eppure qualcuno ha nostalgia degli ambienti tipici di una volta, e soprattutto per l’occasione dello spertusavott, ritiene che ancora, perchè la magìa si ripeta, la cantina debba rispondere ai ...canoni della tradizione. In alcuni Comuni, come a Chiaromonte, il recupero delle vecchie cantine è ormai un obiettivo dell’Amministrazione pubblica, che ne favorisce il ripristino delle ambientazioni originarie e ne sostiene la frequentazione per la Festa dell’Immacolata. Da alcuni anni l’appuntamento è d’obbligo, per gli appassionati. Una buona promozione attira anche forestieri dalla Puglia e dalla Campania, sono ormai tanti i visitatori, e il nostro vino si prende la sua rivincita sulle nuove mode.

Una giornata speciale.... e allegra ! Lauria, 31 maggio 2012. Era necessario recuperare il senso di quanto si era discusso durante l’anno, parlando con qualcuno che ne celebrasse ancora i rituali. Dopo accurata indagine, si è contattato Pasquale Lamboglia, che cura ancora una piccola vigna a Lauria, in Contrada Oliveto. Gli è stato chiesto un incontro, erano tante le curiosità da soddisfare. Bisognava sentire da lui i motivi della sua dedizione alle tecniche tradizionali, e capire da dove venisse la sua esperienza, e come si era trasformata in passione. All’invito a visitare la sua vigna naturalmente tutti hanno accettato di buon grado. Come per una gita scolastica, ci si è organizzati per un pomeriggio di perlustrazione. Si sperava, naturalmente, che l’occasione si trasformasse in una di quelle antiche celebrazioni che i nostri anziani ricordavano di aver vissuto in gioventù. E così è stato. Accoglienza gentile, visita alla vigna e.... spurtusavott ! Simulata quest’ultima, naturalmente, perchè il periodo non era quello giusto. Giusta è stata invece l’attenzione per gli ospiti, e il rituale, fedelmente replicato, ha consentito assaggi, e non solo di vino. Al punto che si è arrivati ai brindisi, e a quelli classici un pò alla volta se ne sono aggiunti anche altri che il vino suggeriva sul momento. L’allegria sembrava proprio quella di una volta. Fedele al compito assegnato, l’estensore del “ verbale” ha riportato, dei brindisi, il testo originale, finchè è stato così lucido da prenderne nota : Riempi il bicchier ch’è vuoto, vuota il bichhier ch’è pieno.... non lo lasciar mai vuoto, non lo lasciar mai pieno! Stu vin è bell e janc brindisi fazz a tutti quant Brindisi alla salute alla morosa mia, che s’è spusata .... ma mica cu’mia ! Siamo meno giovani ma non meno importanti.. brindiamo allegri a tutti quanti ! Quist’ vino è ssut d’a vuttt... viat’ a cu su futt ! A’uza a’uza a’uza, avvascia avvascia avvascia

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accosta accosta accosta... a’ salut nosta ! A Santu Martin ogni must’è vin ! Stu vin è bell’ e fin brindisi fazz’ a Gius’ppin Il buon vino va gustato con l’olfatto ed il palato, e se il vino è di Lamboglia di gustarlo viene gran voglia. Dona l’ebrezza e un dolce calore perchè prodotto con immenso amore Lo faccia ancora... fino a cent’anni sempre felice e senza mai malanni ......!!!

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Ce ne sono stati tanti altri, di brindisi, via via che l’atmosfera si riscaldava, ma diventava anche difficile restare lucidi... Bisognerà organizzare un’altra visita, per continuare il lavoro. Pasquale ci aspetta di nuovo. Crediamo che non passerà molto tempo e torneremo a trovarlo. Intanto, riportiamo di seguito un pò del materiale raccolto.

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L’umanità e la gentilezza di Pasquale e della sua famiglia, la passione che traspare nel racconto delle lavorazioni, l’orgoglio evidente nel mostrare la “sua” vigna, hanno il fascino delle cose buone. Pasquale risponde in pieno all’immagine che ci eravamo fatta di chi sceglie di dedicarsi alla conservazione delle tecniche tradizionali, pur nelle tante difficoltà che ancora oggi le lavorazioni antiche comportano. Certo ci inventeremmo perfino strategie complicate per giustificare un ... ripasso delle sue lezioni. Sappiamo però che sarà felice di un’altra visita come noi saremo felici di tornare a trovarlo. Intanto ai nostri... alunni è rimasta anche la voglia di continuare con i brindisi. E l’occasione per sfoggiare questa ritrovata abitudine si presenta la sera stessa. Il Preside dell’ISIS Ruggero di Lauria li pretende sul palco in occasione dell’Evento annuale che si celebra alla presenza dei suoi studenti, delle loro famiglie e delle Autorità. Un’occasione ufficiale, una Festa gioiosa e importante allo stesso tempo. E durante la serata si decide che sarà consegnato un Attestato a ciascuno degli anziani dell’Auser che ha partecipato al Progetto “Nonni Sud Internet”. Un Progetto che ha trasformato i ragazzi in provetti tutor informatici, per una volta ribaltando i ruoli di chi insegna e di chi impara. Ma alcuni degli anziani sono anche reduci dalla conclusione del Corso EDA, appena celebrata nella vigna di Pasquale. Franco Carlomagno, tra questi, viene delegato a ricevere gli attestati per conto di tutti. E’ un pò emozionato ma ben sostenuto dai brindisi appena consumati, e pertanto ancora colmo di .... amor di vino! Si dice “interprete dei sentimenti di tutti” e dedica “con profonda stima e gratitudine” la composizione che di seguito si riporta:

Saluti & baci Le notizie sono state raccolte, selezionate, impaginate, stampate e distribuite grazie al contributo dei volontari e di chi frequenta il Laboratorio di Comunità. Questo documento rappresenta un piccolo esercizio di recupero della Memoria collettiva ed è anche un esempio di come sia possibile attraverso la collaborazione di chi ancora “contiene” nei propri ricordi il patrimonio di tradizioni, di riti sociali di cultura, insomma. Ed anche attraverso la disponibilità di chi si propone di adoperarsi perché questo patrimonio non si disperda. Giusy Gazaneo

Ogni volta che noi nonni su internet navighiamo dei giovani bravi tutor non ci dimentichiamo. Alla bella professoressa Fittipaldi e al Gentile Preside Pongitore grati siam per come si son dedicati a nostro favore. All’Auser che il Progetto ha accolto prontamente rivolgiamo un pensiero, ed il grazie alla cara Presidente. Con la speranza che si ripeta questa iniziativa, brindiamo all’ISIS col grido di .... Evviva, evviva...! Che sia un nuovo stile? Certo è un rinnovato interesse per abitudini dimenticate, e il piacere di incontrarsi siamo sicuri che proseguirà ormai oltre il Progetto EDA. pagina 20

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