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U Vicinanzo dal Passato può riemergere, il Futuro ?

Questo lavoro ha origine, e ne rappresenta il Documento conclusivo, dal Programma U Vicinanzo, finanziato dalla Fondazione CON IL SUD e realizzato nel periodo che va dal 22 agosto 2011 al 22 dicembre 2012 dal partenariato costituito da Associazioni di Volontariato del Lagonegrese Area Sud ‐ Occidentale della Basilicata, Valli del Noce e del Mercure Capofila Auser Volontariato di Lauria

Realizzato con il contributo di: Alfonso Pascale, Giuseppe Di Fazio, Reinaldo Figueredo, Michele Iannuzzi, Giusy Gazaneo, Francesco Stoduto, Sara Zizzari, Antonella Viceconti, Claudia Cantile, Marida Panaro, Ginetta Scaldaferri, Carmine Cantisani,

Dicembre 2012 Stampa MPM, Lauria (PZ) Logo e copertina pippodifazio

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Ringraziamenti a tutti quelli che hanno collaborato, ‐ ai Partner del Programma U Vicinanzo, ‐ ai consulenti, ‐ a chi ha frequentato i Seminari. Per tutti, a buon rendere

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Collaboratori Alfonso Pascale Lunga esperienza di direzione nelle organizzazioni di rappresentanza dell’agricoltura. Ha promosso con altri l’Associazione "Rete Fattorie Sociali", di cui è stato presidente. È membro del Tavolo Permanente di Partenariato della Rete Rurale Nazionale in rappresentanza della Rete Fattorie Sociali. Collabora con l’Istituto Nazionale di Economia Agraria (INEA). Giuseppe Di Fazio Architetto libero professionista. Master in Alta Formazione (DAPIT) Nuovi strumenti di governo e gestione del territorio. Esperienza di urbanistica, pianificazione/gestione di Programmi Comunitari, animazione territoriale. Socio Auser e consulente di Ruralia, Associazione culturale. Partecipa a Programmi di volontariato e del Terzo Settore in generale. È Amministratore del Gruppo di Azione Locale ALLBA per la Basilicata Sud Occidentale, per il quale svolge funzione di Agente di sviluppo. Reinaldo Figueredo Planchard Direttore presso l’ONU del Dipartimento sulla Globalizzazione, Liberalizzazione e Sviluppo Umano duraturo. Già Ministro del Presidente e Ministro dell’Energia e degli Affari Esteri della Repubblica del Venezuela. Presidente Onorario della Protezione Civile Gruppo Lucano. Michele Iannuzzi Dottore in ricerca. Docente a contratto di Etnologia per il Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Basilicata. Membro della Segreteria di redazione di Archivio Etnografia e socio SIMBDEA. Si occupa in particolar modo di patrimoni immateriali, devozione, scrittura etnografica. Giusy Gazaneo Docente Scuola dell’Infanzia, Responsabile del Laboratorio di Comunità di Lauria. È legale rappresentante dell’Associazione Auser Volontariato di Lauria, Capofila del Progetto U Vicinanzo. Francesco Stoduto Docente di Lettere classiche in pensione. Studi liceali a Sapri e Universitari a Napoli. Ha insegnato alla Scuola Media e poi al Liceo Classico di Lauria. È interessato alle problematiche culturali e sociali, in particolare giovanili, è responsabile del Circolo Culturale Erasmo di Lauria, collabora con altre Associazioni ( Upel, Parrocchia, Fondazione Lentini, Scuole). Sara Zizzari Studi classici. Lauree conseguite presso l’Università Federico II di Napoli: in Sociologia (Tesi “La figura del Venerabile Domenico Lentini tra unione e conflitto a Lauria”), e in Antropologia culturale ed etnologia (Tesi in Etnofotografia e Multimedialità “Da Muro Lucano a Melun. Il mutare delle modalità relazionali e comunicative in tre generazioni di emigranti”). Coautrice per il 2012 di Basiliskos, rivista di storia locale dell’Istituto degli Studi storici della Basilicata. Antonella Viceconti Docente IRC. Magistero di Teologia e Scienze Religiose (Ateneo Apollinare Santa Croce, Roma). Educatrice Servizi socio‐educativi. Fondatrice del CIF Lauria e Consigliera Tesoreria Regionale e Provinciale CIF Basilicata. Responsabile del Centro Educativo Ricreativo per Minori di Lauria. Coordinatrice del Centro di Aggregazione Giovanile del Comune di Lauria (Piano Sociale di Zona, Regione Basilicata). Claudia Cantile Tecnologa alimentare ‐ enologa, si occupa di formazione nel settore alimentare. E’autrice di diverse pubblicazioni nel settore olivicolo e vitivinicolo. Marida Panaro Laureanda presso l’Università di Salerno con indirizzo in Scienze dell’Educazione, educatori professionali extrascolastici (Tesi “Totalitarismo” ‐ Annientamento della personalità sotto i regimi totalitari”). Coniugata con un Libanese, ha esperienza diretta del sistema di relazioni di prossimità e di accoglienza nelle diverse realtà sociali. Ginetta Scaldaferri Insegnante magistrale. Pensionata, è interessata da sempre al patrimonio della Memoria collettiva. Ha maturato notevole esperienza nel corso di ricerche svolte durante l’attività didattica, ha segnalato interessanti evidenze nel quotidiano della tradizione locale. Attualmente ne cura una rubrica sul Sito Web ‘Lauria on‐line’ Carmine Cantisani, Dottore in Psicologia, esperto in Risorse Umane. Ha condotto studi sui metodi per l'apprendimento della sicurezza sul lavoro e svolto attività di docenza e consulenza su temi relativi a selezione, formazione e valutazione delle risorse umane. E' autore di diversi articoli pubblicati da ISPER (Istituto Per La Direzione Del Personale), Torino.

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INDICE

PREMESSA: U Vicinanzo e il Volontariato in Rete ....................................................... pagina 5 IL SOSTEGNO ALLE RETI ................................................................................................. pagina 6 La Fondazione CON IL SUD, U Vicinanzo – Le motivazioni e il contesto del Programma U Vicinanzo, U Vicinanzo ‐ Scheda del Programma, Le Associazioni del Partenariato, Le Azioni programmate.

ATTUAZIONE DEL PROGRAMMA ........................................................................... pagina 27 Il rafforzamento della Rete Manutenzione della Rete – Manifesto, Giornata del Volontariato, Il prosieguo dei lavori, Le sessioni di lavoro congiunto, La dotazione strumentale, L’animazione, I Seminari, La Cura dei Beni Comuni, La Comunicazione, La Socialità del Vicinato, L’integrazione culturale degli immigrati, La qualificazione del Volontariato, L’articolazione dell’indagine (Giusy Gazaneo), Tecniche di ascolto (Carmine Cantisani).

I SEMINARI ............................................................................................................. pagina 57 Calendario, Schema degli incontri assistiti.

LA PARTECIPAZIONE, SEMINARIO DI AVVIO ...................................................................... pagina 60 La condivisione, il senso degli incontri.

AGRICOLTURA ED ECONOMIE CIVILI ............................................................................... pagina 61 Agricolture civili e Vicinato nel Mediterraneo (Alfonso Pascale), Elicicultura nel Lagonegrese: dall’allevamento pilota alla cooperazione contadina (Claudia Cantile), Azione innovativa in contesti sociali: La Fattoria Sociale (Giuseppe Di Fazio).

LE EREDITÀ DEL VICINATO ............................................................................................. pagina 97 La civiltà è contadina (Giusy Gazaneo), Le eredità del Vicinato tra Storia, Mito e nuove opportunità (Michele Iannuzzi), Azione innovativa in contesti sociali: Il Distretto Solidale (Giuseppe Di Fazio). “ LA SOCIETÀ … PROSSIMA” ....................................................................................... pagina 113

Società prossima ‐ Comunità accogliente ‐Territorio resiliente (Giuseppe Di Fazio), La Basilicata, lo sviluppo umano duraturo e un esempio di solidarietà lucana (Reinaldo Figueredo), Azione innovativa in contesti sociali: Cosa si intende per territorio resiliente (Giuseppe Di Fazio), Il Vicinato come valore e punto di riferimento ieri e oggi (Sara Zizzari), Per un nuovo modello di sviluppo (Francesco Stoduto). TRASFORMARE IL PATRIMONIO IN RISORSA ................................................................... pagina 137

Comunità, territorio e sviluppo (Giuseppe Di Fazio), La dimensione femminile del vicinato (Antonella Viceconti), Memoria, femminile plurale (Giusy Gazaneo), Strumenti e Memorie della tradizione locale (Ginetta Scaldaferri), El Giran, il vicinato in Libano (Marida Panaro).

CONCLUSIONI ........................................................................................................ pagina 174 Un risultato concreto ( Giuseppe Di Fazio).

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ................................................................................ pagina 189

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PRESENTAZIONE U Vicinanzo e il Volontariato in Rete La Rete di Volontariato Lagonegrese‐Pollino trova con il progetto “U Vicinanzo” la possibilità di sperimentare una serie di pratiche di cui mai come in questo periodo si avverte la necessità. Mi riferisco al tentativo di recuperare e ri‐tessere quella trama di relazioni e quel senso della prossimità che i territori di riferimento si portano in dote dai tempi remoti, producendo concrete, e spesso inconsapevoli, “economie di Comunità”. Ma mi riferisco anche al modo in cui, dopo una lunga fase di elaborazione e di confronto, la Rete è riuscita ad attivare delle pratiche partecipative che sono diventate punto di riferimento per l’intero territorio. Si tratta di pratiche partecipative in grado di dire con nettezza che nessun sapere è dato senza essere collettivamente costruito e nessun percorso è possibile senza tenere legato un intero territorio al proprio futuro. Alla Rete Lagonegrese‐Pollino quindi va dato il merito di aver riaffermato in modo semplice e solidale principi che risalgono alla notte dei tempi, ma che in questo tempo troppo rapido e veloce spesso vengono dimenticati. Ritengo che il ruolo più significativo svolto dalla Rete del volontariato Lagonegrese‐Pollino nel corso del Programma U Vicinanzo, sia quello di aver sancito a titolo definitivo la presenza forte del volontariato sui territori. Una presenza che nei territori si muove per costruire forme di partecipazione e di civismo più compiute rispetto a quelle che abbiamo conosciuto negli ultimi anni. Leonardo Vita Presidente CSV Basilicata

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IL SOSTEGNO ALLE RETI La Fondazione CON IL SUD È un ente non profit privato, generato dall’alleanza tra Fondazioni di origine bancaria e il mondo del Terzo Settore e del Volontariato per promuovere l’infrastrutturazione sociale del Meridione d’Italia, per favorire, cioè, percorsi di coesione sociale che siano finalizzati allo sviluppo. È nata nel novembre 2006 a seguito di un Protocollo di Intesa per la realizzazione di un Piano sociale che interessasse le Regioni del Mezzogiorno (Campania, Basilicata, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna), sottoscritto dall'ACRI (Associazione di Fondazioni e di Casse di Risparmio Spa) e dal Forum Permanente del Terzo Settore. Per quest’ultimo si intende: “… quel complesso di istituzioni che all'interno del sistema economico si collocano tra lo Stato e il Mercato, ma non sono riconducibili né all’uno né all’altro; sono cioè soggetti organizzativi di natura privata ma volti alla produzione di beni e servizi a destinazione pubblica o collettiva (cooperative sociali, associazioni di promozione sociale, associazioni di volontariato, Organizzazioni non governative, ONLUS, ecc.). Il terzo settore (TS) si differenzia dal Primo, lo Stato, che eroga beni e servizi pubblici, e dal Secondo, il mercato o settore forprofit, che produce beni privati, e va a colmare quell'area tra Stato e Mercato nella quale si offrono servizi, si scambiano beni relazionali, si forniscono risposte a bisogni personali o a categorie deboli secondo approcci che non sono originariamente connotati dagli strumenti tipici del mercato, né da puro assistenzialismo.” (Wikipedia, l’Enciclopedìa libera)

Alla Fondazione CON IL SUD, il cui Presidente è Carlo Borgomeo, aderiscono: ‐ ‐ ‐ ‐ ‐

Compagnia di San Paolo Consulta Nazionale Permanente del Volontariato presso il Forum Convol ‐ Conferenza Permanente Presidenti Associazioni e Federazioni Nazionali di Volontariato Csv.net ‐ Coordinamento Nazionale dei Centri di Servizio per il Volontariato CO‐Ge ‐ Consulta Nazionale dei Comitati di Gestione dei Fondi speciali per il Volontariato

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La Fondazione sostiene : “…. interventi esemplari per l’educazione dei ragazzi alla legalità e per il contrasto alla dispersione scolastica, per valorizzare i giovani talenti e attrarre i cervelli al Sud, per la tutela e valorizzazione dei Beni Comuni (patrimonio storico‐artistico e culturale, ambiente, riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie), per la qualificazione dei servizi socio‐ sanitari, per l’integrazione degli immigrati, per favorire il welfare di comunità”.

Ha finanziato finora : ‐ oltre 400 progetti esemplari e programmi di volontariato, ‐ la nascita delle prime 3 Fondazioni di Comunità meridionali, coinvolgendo complessivamente oltre 5.300 organizzazioni diverse e oltre 160 mila destinatari diretti, soprattutto giovani. Si dichiara consapevole del fatto che per rilanciare lo sviluppo delle Regioni meridionali sia indispensabile una forte cooperazione tra tutti i soggetti della società civile e che questi, attraverso strumenti e forme innovative, operino in sinergico rapporto con le istituzioni pubbliche per contribuire alla costruzione del bene comune. Afferma che la sua unicità è :

“… realizzata con capitali interamente privati e che mette in primo piano la priorità della crescita del capitale sociale quale precondizione per un autonomo e innovativo processo di sviluppo. Si tratta di un progetto ambizioso e inedito, che unisce il mondo delle fondazioni di origine bancaria e quello del Volontariato e di tutto il Terzo Settore. È la testimonianza concreta di un privato sociale che si attiva direttamente, dando un vero esempio di mutualismo tra soggetti diversi”.

Si propone di promuovere e rafforzare le infrastrutture in ambito sociale, quel sistema cioè di strutture immateriali o di reti relazionali in grado di collegare una molteplicità di luoghi e di soggetti, di farli conoscere, dialogare e lavorare insieme per il bene comune. Non interviene direttamente, ma sostiene progetti e forme di collaborazione e di aggregazione tra i soggetti che intendono impegnarsi per il miglioramento delle comunità locali, nell’ottica della responsabilità, della partecipazione e della solidarietà. Promuove iniziative di economia civile, la cultura della donazione, e favorisce la partecipazione attiva al welfare di Comunità, valorizzando le risorse sociali e culturali locali, affinché siano sempre più forza motrice di uno sviluppo che parta dal territorio.

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Sono tre gli strumenti principali per il perseguimento della propria missione: ‐ ‐ ‐

Progetti Esemplari, Fondazioni di Comunità, Programmi di sostegno al volontariato.

Con riferimento ai Progetti esemplari, sostiene quelli che per qualità, rappresentatività delle partnership coinvolte, gestione delle risorse e impatto sul territorio, promettano di divenire esempi di riferimento di un processo virtuoso di sviluppo del capitale sociale nel Meridione. Progetti quindi che abbiano capacità dimostrativa, soprattutto attraverso il partenariato tra organizzazioni del Volontariato e del Terzo settore ma anche con Enti pubblici, Università, operatori privati e parti sociali, nei seguenti ambiti: ‐ educazione dei giovani, con particolare riferimento alla cultura della legalità e ai valori della convivenza civile; ‐ sviluppo del capitale umano di eccellenza; ‐ cura e la valorizzazione dei "Beni Comuni"; ‐ sviluppo, la qualificazione e l'innovazione dei servizi socio‐sanitari, non in via sostitutiva dell'intervento pubblico; ‐ mediazione culturale e l'accoglienza/integrazione degli immigrati (ambito trasversale). La Fondazione promuove e sostiene la nascita di Fondazioni di Comunità, ovvero soggetti rappresentativi di una Comunità locale in grado di attivare energie e risorse per la promozione della cultura della solidarietà e della responsabilità sociale. Insieme ai Progetti Esemplari e alle Fondazioni di Comunità, la Fondazione finanzia infine Programmi di sostegno al Volontariato, con l’intento di rafforzarne il ruolo sul territorio. Lo fa attraverso una innovazione che si propone di finanziare non specifici Progetti, ma Programmi che, per il carattere trasversale e sistemico che contraddistingue la natura e l’agire delle Reti di volontariato, di queste ultime si prefiggano il potenziamento e il conseguente impatto virtuoso sul territorio, favorendo la sperimentazione di nuove modalità di lavoro e di cooperazione in rete.

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La selezione viene effettuata attraverso Bandi pubblici. La Rete del Volontariato del Lagonegrese‐Pollino ha da sempre particolare attenzione per questa iniziativa, e nel 2010 ha risposto al primo Bando, ottenendo il finanziamento che ha prodotto “U Vicinanzo”, Programma descritto in questo Rapporto. Successivamente, una parte delle Associazioni appartenente alla Rete ha partecipato al secondo Bando “Sostegno a Programmi e Reti di volontariato 2011”, candidando il Programma dal titolo “Lungo la strada maestra”, la cui realizzazione avrà inizio a gennaio del 2013. Le motivazioni e il contesto del Programma U Vicinanzo Esplicito è il riferimento al sistema di mutuo aiuto attraverso il quale le Comunità locali nel passato rispondevano all’esigenza di reciproco sostegno. Il Partenariato si è costituito con lo scopo di valorizzare sia la tradizionale disponibilità verso l’altro che le capacita conseguenti alla stessa necessità di sopravvivere in un territorio aspro e ostile. Sono caratteri che combinati insieme hanno consentito alle Comunità locali di realizzare un sufficiente grado di resilienza, almeno finchè il salto di scala delle pressioni socio‐economiche non ne ha compromesso l’equilibrio. Sono caratteri maturati attraverso i secoli determinando un insieme di beni, strategie e società, e che hanno anche il merito di aver costruito in realtà un vero e proprio prototipo di welfare, anch’esso in fondo un Bene Comune. Quest’ultimo, in mancanza di uno Stato sociale, consentiva alcune garanzie minime di assistenza e di collaborazione, e una qualità sociale tutto sommato decorosa, per i tempi. Oggi questo tesoro si è impoverito per tanti motivi, e tra questi: ‐ l’emigrazione, che ha indebolito la Basilicata rendendola sempre più vuota e più fragile, ‐ la perdita di valore della sapienza degli anziani, che non trovano più giovani ai quali passare il testimone, ‐ l’enfasi eccessiva sulle risorse economiche.

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Ci siamo tutti convinti, in realtà, che non c’erano risorse locali, e che bisognava cercarle altrove. Ci siamo sempre più concentrati sulla merce e sul guadagno, e la “persona” non è più al centro dell’interesse. U Vicinanzo si è proposto pertanto di recuperare le antiche abitudini alle relazioni sociali, promuovendole sia nell’ambito del volontariato che verso tutta la società civile, consapevole che qualunque progetto di progresso debba partire comunque dalla rifondazione delle condizioni di collaborazione e di nuove capacità di stare insieme. Senza indulgenze, però, verso un recupero del “così‐com’è”, nella convinzione che porterebbe ad una replica di forme e tecniche che, se pure erano congeniali ad altre esigenze e tempi, non avrebbero più, oggi, la stessa utilità. Avendo lo stesso Vicinato un carattere dinamico, come del resto tutte le espressioni delle società vitali, non c’è alcuna ragionevole motivazione per riproporre aspetti che potrebbero risultare anacronistici, come spesso purtroppo un maldigerito senso dell’offerta di territorio propone in tono folcloristico al visitatore negli ultimi anni. Nessuna nostalgia per i tempi passati, quindi, ma ricerca del senso stesso di alcune sapienze tradizionali, tra quelle che possono utilmente aiutare nella costruzione di un nuovo saper fare. Nuovo, ma radicato in capacità consolidate. La strategia delle “reti”, del resto, avviata nel mondo del volontariato lagonegrese ormai da qualche anno ha evidenziato realtà associative che esistevano e lavoravano già naturalmente sul territorio, ma che avevano la necessità di frequentarsi e consolidare tra loro legami e capacità relazionali. Oggi le Associazioni della Rete costituiscono un insieme di risorse, di energie umane e di relazioni che prima d’ora si erano espressi in maniera isolata e nella convinzione, per ciascuna delle Associazioni, che la propria scala degli interventi fosse l’unica disponibile. Un po’ alla volta, sperimentando concretamente attività svolte insieme, la Associazioni hanno cominciato invece a collaborare.

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I primi incontri “di lavoro” della Rete del Lagonegrese si sono tenuti già nel 2005, ma in modo più strutturato dal mese di maggio del 2007. L’obiettivo prioritario era quello di ritrovarsi insieme oltre il proprio specifico ambito di intervento, e di costruire un’azione forte e diffusa del Volontariato su quello che le Associazioni stesse hanno definito “il secondo livello”. Intendendo per questo una dimensione utile per affrontare tematiche come i Beni Comuni, e capace di far convergere tutte le Associazioni verso l’evoluzione di Comunità più coese e solidali. Questo obiettivo, sin dall’inizio, è parso raggiungibile esclusivamente raccogliendo dal basso i saperi e i vissuti, e mettendoli in rete attraverso momenti di confronto e di condivisione. Inizialmente sostenute dal CSV di Basilicata (Centro Servizio al Volontariato), le Associazioni del territorio si sono periodicamente incontrate e confrontate, forse per la prima volta conoscendosi davvero. Le 26 Associazioni della Rete (delle quali 23 di volontariato e 6 di promozione sociali) rappresentano circa il 50% di quelle attualmente operanti sul territorio in quanto, con riferimento ad agosto del 2010 le OdV (Organizzazioni di Volontariato) iscritte nel Registro Regionale del Volontariato erano 51. È una Rete le cui Associazioni componenti si occupano di tematiche ambientali (protezione civile) e socio‐sanitarie (anziani, minori, donne, disabilità). Sono presenti anche Associazioni che operano nel campo dei beni culturali, paesaggistici e dell’ambiente. In particolare, sin dal primo incontro, tra i traguardi che la Rete ha individuato vi sono i seguenti: ‐ ricostruire le modalità virtuose della tradizionale collaborazione interfamiliare della collettività lagonegrese, ‐ rendere partecipate le Azioni delle Associazioni e della Rete, con la finalità di stimolare processi di sviluppo sociale, economico e culturale dell’ambito territoriale del Lagonegrese, ‐ incentivare il riconoscimento del volontariato da parte delle istituzioni

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locali, provinciali e regionali. ‐ potenziare la rete esistente con nuove Associazioni per accrescere l’impatto sociale sul territorio, ‐ favorire i processi di partecipazione, avvicinare nuovi soggetti, anche giovanili, al mondo del volontariato. Attualmente la Rete, dal punto di vista della rappresentanza presso le Istituzioni, ha guadagnato alcune posizioni e può contare sulla seguente attribuzione di compiti e di ruoli, nel contesto provinciale: ‐ un referente di Rete, eletto dal gruppo delle Associazioni aderenti, che ha la responsabilità di attivare e gestire relazioni con tutte le Associazioni del territorio e con le istituzioni locali, ‐ quattro membri della Rete, designati a far parte dell’Assemblea del CSV Basilicata con funzioni di rappresentanza del territorio in riferimento ai servizi erogabili dal Centro, ‐ un componente designato per l’Osservatorio del Volontariato, organismo consultivo della Giunta Regionale costituito in base all’articolo 10 della Legge Regionale n°1/2000. La dimensione di lavoro, nell’esperienza della collaborazione, è apparsa subito naturalmente più vasta. Al posto del contatto occasionale e saltuario si profila perciò l’opportunità di lavorare insieme per aumentare l’effetto e i risultati delle cose buone che pure si fanno. Nella logica di sviluppo della Rete questa stessa, prima ancora di operare su riorganizzazioni e riassetti della governance, ha ora il compito di strutturarsi in modo più significativo nella sua parte operativa. I meccanismi di funzionamento, infatti, prevedono l’intensificarsi dei momenti di elaborazione per gruppi di lavoro, oltre che incontri di condivisione in plenaria. Già ad oggi questi hanno effettivamente permesso l’esperienza di una stretta relazione tra tutte le OdV partecipanti. Questa modalità ha tra l’altro confermato la sua positività anche nei casi in cui si è verificato un allargamento della Rete ad altre Associazioni.

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Con questa articolazione la Rete intende migliorare, ai fini del suo consolidamento, soprattutto gli aspetti logistici e l’uso condiviso di strumenti di comunicazione, ma anche la capacità di rappresentanza nei confronti delle Istituzioni. La Rete ha insomma l’obiettivo di diventare un luogo di relazione e di incontro tra generazioni, culture, esperienze del Mondo. Insieme alla finalità di recuperare le tracce della Memoria collettiva che siano ancora capaci di ricostruire, del territorio, il senso di identità, il Capitale sociale, le competenze consolidate, le capacità relazionali.

U Vicinanzo – Scheda del Programma Ambito: ............................................ Sostegno a programmi e reti di volontariato Luogo: .................................................................................................. Provincia di Potenza Territorio: ............................................. Lagonegrese, Valli del Noce e del Mercure Obiettivi generali: ‐ consolidare l’azione della Rete, legittimare il volontariato, avviare comportamenti virtuosi, esemplari e replicabili, rafforzare il ruolo politico del Volontariato, ‐ realizzare un sistema di integrazione delle risorse, finalizzandole ad una maggiore efficacia e garantendo una più vasta visibilità alle attività svolte, ‐ organizzare il collegamento stabile tra le Associazioni anche attraverso la partecipazione del web, e promuovendo la frequentazione di blog/forum per le organizzazioni di volontariato, al fine di condividere informazioni ed esperienze sia all’interno che all’esterno della Rete, ‐ realizzare maggiore confidenza con le tecnologie informatiche e con l’ICT ( Information and Comunication Tecnology) Descrizione sintetica delle finalità: Le attività sono tutte immaginate per sopravvivere al Programma stesso. Per proseguire, cioè, oltre la sua conclusione. e attraverso di esse si intende continuare a promuovere il rinnovo del mutuo aiuto, elevandolo a esercizio di cittadinanza attiva.

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La stessa attività formativa dovrà proseguire nell’impegno a recuperare gli antichi principi di Vicinato, e gli incontri pubblici dovranno sempre più proporre il recupero di questa socialità, che una volta era usuale, mettendola in relazione con le competenze sociali e con le pratiche di solidarietà più attuali. U Vicinanzo si intende perciò proiettato nel futuro, e si propone come sistema che promuove comportamenti virtuosi, relazioni di Vicinato, attenzione per le persone, sinergie di Rete. La stessa attività formativa dedicata alla gestione informatica, ed anche la realizzazione della newsletter on‐line, sono pensate per costituire anche tecnicamente una base comune di scambio. La newsletter è immaginata in modo che possa consolidarsi come uno degli strumenti principali per veicolare l’attività di Rete, con comunicazioni periodiche che aggiornino sulle collaborazioni possibili, sulle attività avviate, sui Bandi raggiungibili, sulle opportunità comuni. Rispondendo anche alla necessità di appropriarsi delle tecnologie più recenti, oltre che a quella di rendere sistemica l’attività di promozione e di crescita in autonomia e con le opportune competenze. Il partenariato Le Associazioni che partecipano svolgono la propria attività in più Comuni della Valle del noce e della Valle del Mercure: ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ ‐

Auser Volontariato di Lauria, Responsabile e Capofila Associazione Auser Volontariato, Castelluccio Inferiore Associazione di volontariato Sociale “Il Girotondo”, Viggianello Associazione Volontari Ospedalieri – AVO, Lagonegro Associazione Auser U.L. Maratea Associazione Auser, Rivello Auser Volontariato, Lagonegro Centro Italiano Femminile Lauria ‐ CIF, Lauria Centro Italiano Femminile Rotonda ‐ CIF, Rotonda Confraternita di Misericordia, Rotonda “Figli Speciali”, Rotonda “Il Ceppo della Memoria – I Ritunnari”, Rotonda Mov Lucania, Lauria Noi e gli Altri, Nemoli Università Popolare dell’Età Libera ‐ UPEL, Lagonegro U Vicinanzo ­ Pagina 14


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Le Associazioni del Partenariato ‐

L’Auser Volontariato di Lauria, Capofila del Programma Promuove attività di volontariato e di solidarietà, ispirandosi alla Carta dei Valori Auser. Svolge, sulla base di progetti propri o concordati con altri, e in sinergia con i servizi pubblici, attività a favore delle persone e delle loro reti di relazione, a partire da chi è in stato di maggior disagio e senza discriminazioni di età, genere, cultura, religione, cittadinanza. Promuove e sostiene, anche sul piano formativo, il mutuo aiuto nella costruzione di reti comunitarie. Si propone di valorizzare le disponibilità e le competenze delle persone anziane come opportunità e risorsa di società, Favorisce la formazione sociale di una domanda di servizi e di beni, promuove solidarietà e giustizia sociale, pratica il volontariato, sostiene il comunitarismo solidale e aperto come fondamento di una cittadinanza attiva e responsabile. Incoraggia un rinnovato rapporto con le istituzioni per la tutela, la diffusione, lo sviluppo dei diritti in genere. Il Laboratorio di Comunità attivato dall’Associazione fa riferimento al Piano Sociale di Zona: “... per affermare la centralità della persona nei processi e nelle dinamiche di cambiamento; per costruire una cultura della solidarietà e della responsabilità …” (dal Regolamento dei Centri Laboratori per la Comunità‐ Regione Basilicata) Si propone l’integrazione tra i diversi Attori del territorio, e mette al centro delle strategie la “territorialità”, quest’ultima intesa come attenzione a tutta l’area e come voglia di partire dai bisogni e dalle risorse che sono espresse dall’area stessa nel suo insieme. Gli obiettivi sono perseguiti attraverso la valorizzazione delle esperienze e delle professionalità disponibili, ed anche per questo ha aderito al progetto Fqts, di Formazione dei Quadri del Terzo Settore.

Il C.I.F. di Lauria Associazione Onlus di volontariato di donne cristiane che opera nel campo della promozione sociale, civile e culturale, in un quadro di rinnovamento e di continuità per un impegno speso al servizio della Comunità e del bene comune in modo volontario e gratuito per contribuire alla costruzione di una società più solidale e più giusta. È presente in rete in modo capillare su tutto il territorio nazionale e si struttura in CIF comunale, provinciale, regionale e nazionale.

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I gruppi sono costituiti da donne che si propongono di interagire con le Istituzioni per il pieno esercizio dei diritti di cittadinanza. L’azione si radica profondamente nel tessuto sociale ed è aperta alla collaborazione per costruire una rete di relazioni e di progetti. Le iniziative esprimono un impegno culturale, sociale e civile orientato alla costruzione di rapporti di promozione umana, di giustizia, di solidarietà e di pace. Il servizio C.E.R., Centro Educativo Ricreativo “Domenico Lentini”, offre ai minori e agli adolescenti una formazione socio‐educativa finalizzata alla creatività, alla solidarietà, ai valori etico‐sociali, alla legalità, al “gioire insieme”, ai principi cristiani. Il servizio Centro di Aggregazione Giovanile propone ai giovani momenti di socializzazione e aggregazione finalizzati ai valori etico sociali, ai principi cristiani, alla legalità, alla solidarietà. ‐

Il M.O.V. di Lauria Opera in campo socio‐assistenziale e culturale dal 1996. Offre assistenza ai malati mentali e a tutte le persone bisognose che si rivolgono all’Associazione. Ha promosso e promuove iniziative culturali per le persone ricche di talento che hanno difficoltà ad esprimersi a causa dell’indigenza o di ostacoli vari. Il Movart articola percorsi di arte‐terapia tra giovani e adulti che hanno bisogno di esercitare la propria manualità.

Noi e gli Altri di Nemoli Si occupa principalmente dei programmi e delle attività di sviluppo volti all’integrazione sociale di anziani, disabili ed extracomunitari, con lo scopo di sensibilizzare il paese e il territorio sui problemi condivisi. Valorizzare la diversità e l’inclusione e’ l’obiettivo nei confronti del quale l’As‐ sociazione si propone di maturare competenze di relazione, di empatia e di comprensione dei bisogni propri e altrui. Negli ultimi anni l’Associazione si sta avviando al mondo delle “reti” al fine di evidenziare realtà che esistono e lavorano già naturalmente sul territorio, ma che hanno la necessità di consolidare tra loro legami e capacità relazionali. La collaborazione tra le varie Associazioni è assunta come necessità di valorizzare il ruolo di ognuna, e a questo scopo offre le competenze acquisite mettendole a disposizione di tutti.

Il Girotondo di Viggianello L’Associazione, come da Statuto, persegue finalità sociali civili e culturali, studia, promuove, organizza e gestisce occasioni relative alle proprie finalità al solo fine di

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migliorare la qualità della vita. Ha assunto la responsabilità di progettazione, coordinamento e gestione di vari progetti ludico‐ricreativi rivolti alle persone diversamente abili per conto di un Ente pubblico, e questa è diventata la missione principale dell’Associazione. Missione che comporta la collaborazione tra i soci per: ‐ impegnarsi per migliorare la qualità della vita delle persone diversamente abili, ‐ favorire la formazione dei propri associati o di privati, ‐ promuovere la cultura della solidarietà, ‐ promuovere la pratica sportiva e ricreativa in genere, in quanto finalizzate allo sviluppo delle relazioni interpersonali dei soggetti in difficoltà. ‐

L’Auser di Castelluccio Inferiore L’Auser Volontariato propone svolge sia progetti propri che insieme ad altre Associazioni, Enti pubblici ed altri, al fine di creare un rapporto sinergico tra i vari soggetti senza discriminazione di età, cultura, religione, e con modalità che favoriscano formazione sociale e relazioni di tipo intergenerazionale. Opera nel settore del Volontariato ai sensi della Legge Nazionale 266 del 1991 dal 2003, anno della sua costituzione. Promuove attività di volontariato e di solidarietà per l’avvio di un nuovo modello di sviluppo sociale ed economico globalmente sostenibile ed estensibile, e ripudia ogni forma di violenza. Si propone il compito di orientare e valorizzare le disponibilità e le competenze delle persone anziane come una opportunità e una risorsa per la Comunità attraverso la tutela, la consapevolezza dei diritti, la diffusione dei contatti attivi e di reciproco interesse con le altre età. Si adopera per favorire le condizioni che possono "mettere in gioco" le singole esperienze personali e la propria emotività, per imparare ad essere utili agli altri, grazie allo scambio reciproco delle esperienze e alla possibilità di partecipare delle vicende degli altri. Anche attraverso il ricorso a linguaggi non verbali che possano consentire la più immediata delle disponibilità (canti e balli tradizionali, musica popolare in genere). Per l’Associazione assume grande importanza coinvolgere persone di qualsiasi età per riscoprire vecchie ma rinate tradizioni popolari, attraverso l’ascolto, la costante passione, ed anche seguendo lezioni di musica popolare (tra queste l’insegnamento dell’organetto e musica per Bande Comunali). L’Associazione propone altresì la musica come momento di socializzazione e di cultura per intere generazioni, e inoltre come possibile sbocco futuro per giovani professionisti.

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Figli Speciali di Rotonda L’ associazione si propone di: ‐ promuovere ogni attività che possa contribuire al miglioramento della qualità di vita delle persone in difficoltà per grave malattia invalidante, ‐ contribuire allo sviluppo ed alla diffusione delle ricerche medico‐scientifiche sull’ handicap, ‐ favorire una piena integrazione sociale ed il benessere fisico, psichico e spirituale dei disabili, adoperandosi per l’affermazione della loro personalità in ogni settore, ‐ valorizzare le loro qualità intellettive, artistiche, sportive, sforzandosi di rimuovere ogni concreto ostacolo al riconoscimento ed alla effettiva attuazione dei propri diritti, ‐ fornire aiuti concreti alle persone in difficoltà e alle loro famiglie, supportandole nella risoluzione dei problemi di assistenza, clinica e psicologica, di educazione, di integrazione, di tutela, ‐ avviare qualsiasi attività ritenuta utile per il pieno perseguimento delle indicate finalità, affiancando, coadiuvando, coordinando e promuovendo le attività e gli Enti pubblici e gli organismi privati che perseguono i medesimi scopi. Intende inoltre contribuire con la propria esperienza allo sviluppo della socializzazione e dell’integrazione (con l’obiettivo di aumentare il benessere psico‐sociale, l’autonomia e la partecipazione attiva del singolo e della comunità, Infine, intende partecipare attivamente alla promozione/diffusione delle capacità tradizionali, collaborando soprattutto in occasione di incontri ed eventi ‐ oltre che nel quotidiano ‐ per la ricostruzione, in congenialità con le necessità odierne, delle tradizionali abitudini sociali alla relazione con l’altro e con il diverso.

L’Auser di Rivello Come tutte le Auser d’Italia promuove attività di volontariato e di solidarietà ed è impegnata ad operare per la cultura della pace e nella giustizia, per l’avvio di un nuovo modello di sviluppo sociale ed economico globalmente sostenibile ed estensibile. Soprattutto lavora per valorizzare il ruolo degli anziani, la loro sapienza accumulata, e per trasferire conoscenze e abitudini sociali alle nuove generazioni. Come testimoni delle tradizioni, coinvolge gli anziani nelle occasioni di contatto con la cittadinanza, di festa, di ricordo dei caratteri del patrimonio culturale locale. Fa leva sulle esperienze vissute, anche di quelle di emigrazione, recenti e antiche, al fine di sensibilizzare i giovani verso gli stranieri che si spostano oggi per i motivi drammatici che loro stessi hanno vissuto. Ricostruisce oggetti della tradizione, strumenti per i giochi dei bambini di una volta, ricorda i riti del lavoro e delle feste, il rapporto con gli eventi della vita (nascita, matrimonio, morte) che ripropongono le modalità storiche di incontro.

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Testimonia le pratiche sociali di relazione, sia familiari che cittadine. Collabora per la creazione di una nuova frequentazione delle piazze e dei cortili, ne ripropone le abitudini che sono ancora presenti nel tessuto storico e sociale di Rivello ma anche negli altri Paesi della Valle, valorizzando l’importanza dei caratteri urbanistici locali, realizzati nel tempo : ‐ per favorire l’incontro, ‐ per recuperare i rapporti di vicinato, ‐ per sostenere l’aiuto reciproco tra famiglie e l’economia dello scambio, evidenziando, di quest’ultimo, come possa ancora consentire una condizione di “star bene” sociale. ‐

L’Auser di Lagonegro Associazione impegnata a promuovere l’invecchiamento attivo degli anziani e a far crescere il loro ruolo nella società. Si propone di contrastare ogni forma di esclusione sociale, migliorare la qualità della vita, diffondere la cultura e la pratica della solidarietà perché ogni età abbia un valore e ogni persona un suo progetto di vita attraverso il quale trasformarsi di nuovo in risorsa per sé e per gli altri. Promuove le attività di volontariato e di solidarietà. È impegnata ad operare per la pace nella giustizia, a sostegno della legalità nazionale e internazionale. Organizza corsi di informatica di base, inglese, italiano per stranieri, laboratorio musicale, attività manuali, ecc. Realizza Azioni di integrazione culturale, e ospita l’Upel, Università per l’età Libera, che in occasione dell’inaugurazione dell’Anno Accademico è partecipata anche da esponenti di cultura estera.

Il ceppo della Memoria – I Ritunnari, di Rotonda Per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio culturale del territorio utilizza la forma del volontariato quale strumento di solidarietà, promozione, valorizzazione, tutela e sviluppo della persona umana. Promuove la cultura locale nelle sue varie espressioni mediante mostre e rassegne, convegni, manifestazioni in vari settori dell’arte.

Confraternita della Misericordia, di Rotonda Scopo della Confraternita, affiliata alla Confederazione Nazionale delle Misericordie d’Italia, è l’esercizio volontario, per amore di Dio e del Prossimo, delle opere di Misericordia, corporali e spirituali, del pronto soccorso e dell’intervento nelle pubbliche calamità, sia in sede locale che nazionale ed internazionale. Collabora con ogni pubblico potere nonché con le iniziative promosse dalla Confederazione Nazionale delle Misericordie d’Italia.

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La Confraternita promuove ed esercita tutte quelle opere di umana e cristiana carità suggerite dalle circostanze, e se ne rende partecipe impegnandosi a contribuire all’analisi ed alla rimozione dei processi e delle cause di emarginazione e di abbandono dei sofferenti. È Associazione Onlus di volontariato e si occupa di assistenza domiciliare e trasporto in ospedale o strutture sanitarie su lunghe e brevi distanze. Dispone di 3 ambulanze, un’auto medicalizzata e un fuori strada per disastri ambientali di supporto alla protezione civile, un’auto di trasporto per servizi sociali, un pulmino per trasporto disabili con pedana in comodato d’uso gratuito da parte della Comunità Montana del Lagonegrese. ‐

Il C.I.F. di Rotonda Associazione di volontariato di donne cristiane, opera nel campo della promozione sociale, civile e culturale. È al servizio della Comunità e del Bene comune, in modo volontario e gratuito, per contribuire alla costruzione di una società più solidale e più giusta, fondata sul rispetto dei diritti umani e della dignità della persona, secondo lo spirito e i principi cristiani. Interagisce e collabora con le Istituzioni per il pieno esercizio dei diritti di cittadinanza. E’ aperta alla collaborazione, anche con donne di culture diverse, per costruire una rete di relazioni e di progetti. Realizza iniziative orientate alla costruzione di rapporti di promozione umana, di giustizia, di solidarietà e di pace. Si impegna in particolare nella formazione, e pertanto offre consulenza e ascolto psicologico gratuiti. Gestisce servizi socio‐educativi comunali. Ha istituito il “C.E.R.C.”, Centro Educativo Ricreativo Culturale, servizio socio‐ educativo per minori e giovani e per il sostegno della famiglia.

L’A.V.O. di Lagonegro L’Associazione fonda la sua attività istituzionale ed associativa sui principi del Vangelo e sui quelli costituzionali della Democrazia e della Partecipazione sociale. Opera nelle strutture ospedaliere e nelle strutture sanitarie alternative con un servizio organizzato, qualificato e gratuito per assicurare una presenza amichevole e solidale, offrendo ai malati calore umano, dialogo, aiuto per vivere la sofferenza e lo stato di disagio con serenità. L’Associazione collabora con le Istituzioni pubbliche perseguendo gli obiettivi di umanizzazione delle strutture sociali, nel rispetto dei ruoli e delle competenze previste dalla normativa vigente.

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Integra e non si sostituisce a quelli che sono i compiti e le responsabilità della struttura pubblica. ‐

L’U.P.E.L. (Università per la Libera Età), di Lagonegro Promuove le attività di educazione e di socializzazione. Sulla base di progetti propri o concordati con altri promuove attività a favore delle persone e delle loro reti di relazione, senza discri‐minazione di età, genere, cultura, religione e cittadinanza. Ne promuove e sostiene anche sul piano formativo l’autorganizzazione e il mutuo aiuto. Realizza programmi di aggiornamento con finalità di diffusione della qualità della informazione, ne promuove la partecipazione e stimola la realizzazione di studi e ricerche. Soprattutto in riferimento al recupero della cultura locale, ma anche in funzione dell’accoglienza, aprendo alle culture diverse e raccogliendone i contributi per una concreta crescita reciproca. ‐ L’Auser di Maratea Associazione di promozione sociale, è impegnata a promuovere l’invecchiamento attivo degli anziani e a far crescere il loro ruolo nella società. Promuove le attività di volontariato e di solidarietà. Collabora con altre Associazioni per la valorizzazione dei caratteri territoriali, sociali e professionali delle Comunità costiere. Promuove la valorizzazione del patrimonio locale e partecipa alle attività concertate con le Associazioni che operano nel Bacino interregionale del Noce. È attiva l’Upel, Università per l’età Libera, anche con incontri pubblici di informazione e di stimolo per l’apprendimento durante tutto l’arco della vita. Ha inoltre attivato, aderendo all’espresso Progetto della Regione basilicata, l’Internet Social Point (ISP) rendendo disponibili presso la propria sede computer in rete utilizzabili gratuitamente da chiunque, di ogni età, abbia necessità o voglia di accesso in Internet, per lavoro o per passione.

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Le Azioni programmate Obiettivi specifici che U Vicinanzo si prefigge di raggiungere: ‐ consolidamento dell’azione stessa della Rete e delle organizzazioni proponenti, a beneficio del territorio di riferimento, ‐ promozione, riconoscimento/legittimazione del volontariato, nei confronti degli Enti locali, finalizzato alla collaborazione con le Amministrazioni ‐ avvio, nell’immediato, di comportamenti virtuosi, esemplari e replicabili, desunti dalle tradizionali disponibilità di vicinato e capaci di orientare al progresso sociale delle Comunità locali, ‐ rafforzamento del ruolo di intermediazione sociale che è proprio del volontariato, inteso come capacità di sviluppare e diffondere maggiore consapevolezza degli aspetti sociali critici del territorio, a partire dalle condizioni di vita delle persone più deboli. Se si sarà riusciti a costruire le premesse perché questo Programma continui anche oltre la sua stessa conclusione, l’alto grado di frammentarietà al quale sono asservite da sempre le attività del Volontariato locale finalmente si potrà ridurre. La sua evidente anomalia è in realtà uno dei motivi per cui l’efficacia delle tante cose buone che si fanno è limitata, e il successo di U Vicinanzo potrà aver contribuito a promuovere nuove e più virtuose abitudini alla condivisione, dimostrandone l’utilità. Nel frattempo il carattere di sostenibilità che si è attribuito al recente processo di collaborazione, e che ha orientando verso la costituzione della Rete, si sarà cimentato in occasioni di integrazione concreta. Si coglie intanto l’occasione per la strutturazione delle relazioni attraverso la condivisione di attrezzature, il travaso di capacità e di affinità sperimentate insieme, collegamenti stabili e incontri di lavoro volontario. Concrete collaborazioni realizzeranno sicuramente attività esemplari, puntando sulla tradizionale disponibilità della società locale a forme di “sussidiarietà” nei confronti delle difficoltà quotidiane.

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Attraverso modalità di collaborazione di prossimità collaudate, attingendo al patrimonio di tradizioni alle quali appartengono. Il sistema è innovativo rispetto all’attività consueta del volontariato locale ed è stato finalizzato alla costruzione di un soggetto/interlocutore stabile che intende produrre attività in autonomia rispetto al pubblico, e che nel contempo intende offrire collaborazione sinergica agli Attori locali, sia pubblici che privati. Ed ha anche l’ambizione di rappresentanza e di collaborazione “alla pari” con le Istituzioni. Il lavoro “insieme” potrà consentire un bagaglio comune di esperienze di successo e di competenze disponibili, con l’obiettivo di avere a portata di mano una “cassetta degli attrezzi” pronta all’uso quando serve. Potrà inoltre avere carattere dimostrativo delle utilità offerte dal “lavorare Insieme” e dal condividere obiettivi e risorse. Soprattutto, dovrà avere carattere di testimonianza delle opportunità che sono offerte da questa nuova consuetudine di lavorare insieme nell’ambito della società civile. Due in particolare gli ambiti di intervento evidenziati: comunicazione e socialità di vicinato: la Comunicazione e la Socialità di Vicinato. ‐ La Comunicazione Si è inteso realizzare un sistema di integrazione reale dell’insieme delle risorse. Risorse che finora sono state coltivate separatamente, mentre invece un sistema di immagine e di informazione puntuale che sia coordinato può contribuire ad una loro migliore efficacia, con maggiore visibilità delle cose fatte, e con aumentata capacità “dimostrativa”. Finora le Associazioni, non essendosi sostanzialmente occupate di informare, sono risultate praticamente “trasparenti”, senza possibilità di comunicare le cose buone che pure finora hanno realizzate. Oltre a comunicare tra loro, devono perciò attivare una organica trasmissione all’esterno, con l’obiettivo di far conoscere i servizi erogati e i progetti per le attività in corso e programmate.

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La Comunicazione servirà anche: ‐ a facilitare l'accesso ai servizi, ‐ a conoscere e rilevare in maniera più diffusa i bisogni della gente, a migliorare sia l'efficacia che l'efficienza dei propri servizi, ‐ a favorire i processi di sviluppo sociale, economico e culturale, ad accelerare la modernizzazione degli apparati ‐ a svolgere azioni di sensibilizzazione e di congenialità con le politiche pubbliche. La struttura di Rete potrà facilitare i flussi delle informazioni, e la circostanza che queste sono scambiate “alla pari” potrà rendere il processo comunicativo tra le Associazioni molto più snello e semplice. La newsletter U Vicinanzo News è intesa perciò come strumento di comunicazione finalizzata alla diffusione di notizie, informazioni, è diretta ai beneficiari e copre la comunicazione interna alla Rete. La brochure, invece, immaginata per contenere le schede dei partner, è costituita da un foglio unico in A4 piegato in modo da esporre 4 facciate. Ha il compito di presentare la Rete all’esterno e a diffondere informazioni di base. Oltre a comunicare l’esistenza stessa della Rete, finora “invisibile”, dovrà sensibilizzare il pubblico sulle diverse attività e sui servizi erogati, e promuovere con una grafica coordinata, “aziendale” la partecipazione agli incontri. Potrà contenere le schede delle singole Associazioni partner, in modo da veicolare l’immagine “istituzionale” di ciascun partner, oltre che della Rete. Il ricorso ai Seminari come tipologia di incontro risponde, infine, alla necessità di approfondimento, ma anche alla diffusione d’informazione e notizie su tematiche specifiche del Programma, favorendo un contatto diretto con gli Attori‐operatori dello sviluppo locale, con gli studiosi, e in sostanza con pubblici diversi e interessati. Tutte le attività divulgative sono finalizzate al trasferimento di buone pratiche e al rafforzamento della Rete. Questo Rapporto conclusivo, infine, è immaginato per rispondere alla necessità di lasciare traccia di quanto realizzato, divulgarne i risultati in

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ambiti scolastici, Istituzionali, e costituire la base per eventuali future ricerche, in continuità con il Programma U Vicinanzo. Possiamo immaginare un interesse a breve perfino dell’Università della Basilicata, insieme alla quale abbiamo già dichiarata la reciproca e piena disponibilità. Le diverse tipologie di comunicazioni hanno, insomma, il compito di sollecitare in vario modo la partecipazione alle attività sociali, e la loro diffusione nella società civile. ‐ La Socialità di vicinato (civitas, comunità civile) Recupero della tradizionale disponibilità di prossimità (U Vicinanzo) che è stata, nel passato, caratteristica della Comunità del Lagonegrese. Una forma di sussidiarietà naturale che è tipica delle relazioni sociali e che consentiva il mutuo aiuto nella dimensione del vicinato. Se ne è inteso promuovere il rinnovo, in quanto ancora presente nella Memoria collettiva, nella dimensione della Comunità allargata e del mutuo aiuto, elevandolo a esercizio di cittadinanza attiva. Questa forma di solidarietà primaria può consentire intatti di rielaborare le tradizionali relazioni di Comunità, operando una ricognizione puntuale dei bisogni del più debole, evidenziandone cause e modalità, e creando capacità condivise di intervento. U Vicinanzo si è occupato di indagare alcuni degli antichi principi del Vicinato locale mettendoli in relazione con le competenze sociali e con le pratiche di solidarietà attuali, e gli incontri pubblici proporranno il recupero di questa socialità, che un tempo era usuale. Con l’ausilio di relatori esperti, e attraverso la sperimentazione di pratiche che avessero sufficiente grado dimostrativo e di replicabilità. Il percorso di indagine/riappropriazione di questa pratica antica si promuove di sperimentarne il confronto, per quanto possibile, tra le relazioni storiche di vicinato e quelle congeniali al contesto attuale. E comunque di provocarne un rinnovato interesse.

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ATTUAZIONE DEL PROGRAMMA Manutenzione della Rete di Giusy Gazaneo L’avvio Programma è stato comunicato a far data dal 22 agosto 2011, per la durata prevista di 16 mesi. Il 28 agosto 2012 si è tenuto un evento pubblico di avvio (Giornata del volontariato) che è stato anche occasione di incontro tra numerose Associazioni del Terzo Settore presenti sul territorio del Lagonegrese. Hanno partecipato all’Incontro Istituzioni locali e regionali, e il dibattito si è tenuto in un clima di festa popolare, ma discutendo argomenti seri. Centrale, nel dibattito, il ruolo del Volontariato per il miglioramento complessivo della società locale, attraverso il recupero dell’abitudine alle relazioni ed al mutuo sostegno. La collaborazione tra Associazioni, già sperimentata attraverso la partecipazione a Progetti condivisi, ha consolidata l’intenzione di proporre il Volontariato nel suo insieme come interlocutore sociale nei confronti degli Enti locali, e come tramite tra le esigenze della gente e le Istituzioni. Fondamentale è risultata la circostanza di presentarsi alle Istituzioni con la dote del successo ottenuto, stante il riconoscimento da parte della Fondazione CON IL SUD. Successo che ha rafforzato il credito della Rete nei confronti degli Amministratori pubblici locali. Per una volta questi ultimi si sono trovati di fronte ad un Volontariato propositivo, che non cercava “contributi”, ma che al contrario offriva collaborazione concreta. L’incontro si è deciso di celebrarlo, perché di questo avesse significato anche la forma simbolica oltre che la sostanza, nella Villa Comunale del Rione Superiore, a Lauria. U Vicinanzo ­ Pagina 27


Spazio urbano per eccellenza, nel Comune più grande dell’area, è il luogo degli incontri e della passeggiata. In questo spazio la Comunità si riconosce ed è tradizionalmente disponibile alla partecipazione. È il Largo Giardino, ex Porta Fontana. Area libera fuori porta dell’antica città medievale, è stato forse anticamente lo spazio di parate e spettacoli, ed era il “luogo” degli eventi pubblici. Scenario di manifestazioni ludiche dimostrative ma anche di eccessi cruenti, come l’eccidio in occasione del “Sacco di Lauria” ad opera dei Francesi del Generale Massena nel 1806. È stato il luogo anche di esercitazioni militari, l’ultima delle quali celebrata appena prima dell’ultimo conflitto Mondiale, in presenza del Principe Umberto II di Savoia che più tardi, nel 1946, sarebbe divenuto Re d’Italia, il “Re di maggio”. Evento quest’ultimo ancora vivo nella memoria degli anziani e che conferma ancora oggi la consacrazione del luogo all’incontro. Hanno partecipato alla cerimonia gli Amministratori locali, il Parroco, il Presidente Regionale del Centro per i Servizi al Volontariato, il Responsabile dell’Assemblea regionale del Volontariato, Assessori in rappresentanza della Regione Basilicata e il Vice Presidente Vicario del Parlamento Europeo Gianni Pittella. A tutti i presenti, alle tante Associazioni di più Paesi delle Valli del Noce e del Mercure, tra giochi, dimostrazioni e offerte gastronomiche che hanno riproposto per un giorno l’ambito festoso delle giostre medievali, e con la partecipazione attenta della gente intervenuta, sostenuto dalla Rete del Volontariato Lagonegrese‐Pollino, U Vicinanzo ha illustrato compiti ed obiettivi del suo Programma. Si riporta si seguito parte del testo offerto alla discussione, in quella occasione.

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Manifesto,

GIORNATA DEL VOLONTARIATO, LAURIA 28 AGOSTO 2011

Che cos’è il volontariato La sua missione sociale è soprattutto di promozione alla partecipazione e di sostegno alle parti deboli della società, e promuove una rinnovata cultura delle relazioni e della solidarietà. Negli ultimi anni il Volontariato ha sperimentato la condivisione tra le Associazioni, ed ha realizzato Progetti che hanno consolidato la voglia di “fare insieme”. La sua caratteristica principale è la gratuità come scelta di realizzazione personale, in una prospettiva di relazioni solidali con gli altri, di progresso sociale e di valorizzazione dei Beni Comuni. È perciò anche un progetto politico, in quanto alla centralità dello scambio per denaro sostituisce la centralità della persona, quella delle relazioni tra la gente, e quella del legame sociale. Il riferimento è all’Istituto della Sussidiarietà, di recente incluso anche nella Costituzione Italiana, che promuove il senso della reciprocità tra gli Attori della società. Il volontariato chiede perciò di partecipare con pari dignità nei luoghi della decisione, e di essere formalmente riconosciuto tra i partner della Programmazione sociale. È un diritto conquistato attraverso l’esperienza concreta dell’aiuto, in virtù della sua speciale presenza tra la gente, della sua diretta conoscenza dei bisogni reali, della capacità dimostrata nell’individuare soluzioni. Emerge un po’ dappertutto il suo impegno concreto a promuovere il cambiamento sociale, lavorando direttamente all’interno del tessuto sociale. Chiede, in sostanza, che gli venga data la possibilità di contribuire alla salvaguardia di quel particolare Bene comune che è il Capitale sociale del nostro territorio. ‐ Il Volontariato in Basilicata La Basilicata da qualche tempo si propone come luogo nel quale si sperimenta un rinnovamento sociale che non ha eguali. Non è più la Regione che, nell’immaginario collettivo, appariva come terra di problemi antichi senza soluzione. C’è oggi una Basilicata che propone una maggiore attenzione ai problemi della società, e che è diversa dal passato, anche se del suo passato assume i principi fondanti. Le organizzazioni di volontariato sono cresciute in questa Regione di otto volte in più rispetto agli anni 90, con una media tra le più alte nel Sud. Le Associazioni sono sempre di più, e sono sempre più impegnate in uno sforzo di rinnovamento “dal basso e dal di dentro”, rispetto al modo di vivere i problemi sociali. Questi ultimi vengono ormai sempre meno subìti, e sempre più vissuti con protagonismo e originalità.

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All’indagine “Occhi nuovi dal Sud, Analisi quantitative e qualitative del Terzo Settore nel Mezzogiorno, a cura di Pietro Fantozzi e Marco Musella, apprendiamo che : ‐ nel 2003 le Associazioni iscritte nel Registro regionale erano 253, ‐ nel 2008 erano già arrivate a 495. In cinque anni sono praticamente raddoppiate, raggiungendo una densità di 8,4 per ogni 10.000 abitanti. La nuova voglia di partecipazione porta con sé naturalmente tutti i problemi della crescita improvvisa e tumultuosa. Ma il Volontariato lucano sta imparando ad organizzarsi, a migliorare le risposte, ad evitare le sovrapposizioni di servizi e a riempire i vuoti di ancora tante esigenze. Ha però finora trascurato la propria visibilità: pressato dai problemi concreti da risolvere, ha dovuto rinunciare a mettere in evidenzia le tante qualità che le sue Associazioni esercitano ogni giorno. Il fatto è che è costretto a privilegiare “il fare” rispetto “al raccontare”, ed è intento a realizzare, più che a comunicare, le cose buone che fa: “…. o cant o purt’a croce !” Come si recita dalle nostre parti. Deve scegliere insomma ogni volta se dedicare il proprio tempo e le energie alle esigenze del servizio o invece alla promozione delle proprie attività. Ne fa tante, con risultati a volte interessanti e che andrebbero meglio e più conosciuti. Ha dalla sua la tradizione dell’accoglienza e del mutuo aiuto che nel passato era rappresentato dalle relazioni di vicinato, spazio sociale che può di nuovo diventare consapevole e utile. In realtà è però diminuita la storica capacità di relazioni tra la gente e con le diverse parti del territorio, e l’area è ancora soggetta ad un esodo che ha dimensioni e qualità decisamente sempre più preoccupanti e che la rende sempre più povera e fragile. Ma la rinnovata attenzione sociale che un po’ dappertutto si coglie la dice lunga sulla tradizione antica e moderna di accoglienza che la Basilicata può ancora esprimere. Questa esplosione di partecipazione risponde tuttavia anche alla esigenza di calmierare un mercato di servizi sociali che il pubblico non vuole, non può, non sa soddisfare, e che ha delegato all’organizzazione spontanea della gente. Non tutto è luce, naturalmente, e ci sono alcune ombre. È infatti la nostra una Regione che più di altre ha continuamente minori capacità occupazionali, e lo spazio dei servizi alla persona, per esempio, più che dono, diventa sempre più una prospettiva di lavoro. L’iniziativa solidale non è dunque sempre una scelta fatta per aiutare il prossimo, e in qualche caso, proprio a causa delle più generali esigenze di sopravvivenza, è anche riconducibile ad uno scambio di presta‐zione/retribuzione. Più che l’istituto del dono, può attirare insomma verso il volontariato l’illusione di una possibilità di occupazione. O meglio, di sotto‐occupazione.

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Si paga anche così la scarsità di occasioni di lavoro: a volte ci si affida perfino al volontariato per quel poco di risorse che può metter in moto. Ma anche questa circostanza, decisamente negativa, si diluisce di fronte ai dati significativi del nuovo Volontariato lucano, soprattutto nel Potentino:

popolazione nelle Provincie a dicembre 2008

percentuale del Volontariato in rapporto alla popolazione

Potenza

386.83

65,5%

Matera

203.770

34,5%

Totale

590.601

100%

Il volontariato nel Lagonegrese ‐ Pollino In quest’area le Associazioni si sono periodicamente incontrate e confrontate, forse per la prima volta conoscendosi davvero. Lavorare insieme per affinità di intenti ne ha rafforzato la presenza e l’azione sul territorio, e si propongono di ricostruire le modalità virtuose della tradizionale collaborazione interfamiliare. Intendono favorire i processi di partecipazione e avvicinare nuovi soggetti, anche giovanili, al mondo del volontariato. Hanno rafforzato la loro rappresentanza, e oggi la Rete si propone con una rinnovata assunzione di compiti e di ruoli: ‐ 1 referente di Rete, eletto dal gruppo delle Associazioni componenti, ‐ quattro membri eletti nell’Assemblea del CSV Basilicata (e tra questi il Presidente), ‐ un componente dell’Osservatorio Regionale del Volontariato.

Le Associazioni hanno anche avviato diversi progetti “insieme”, ma il primo impegno è stato quello di un’analisi di Comunità finalizzata a costruire un sapere condiviso, e dal basso, dei problemi manifestati dal territorio nel quale le Associazioni operano. Ci si è posti la finalità di recuperare tra le tracce della Memoria collettiva quelle ancora capaci di ricostruire, del territorio, il senso di identità, il Capitale sociale, le competenze consolidate, le capacità di relazione. Ne è venuto fuori che le problematiche più delicate sono naturalmente i riflessi di un malessere che sperimenta in generale tutto il Meridione: ‐ nonostante la crescita di Associazioni, nel territorio vi è una diffusa sensazione della perdita di relazioni, intese queste come la capacità del “fare insieme agli altri”, ‐ c’è ancora molto da fare sul versante della partecipazione, ‐ bassa è la propensione alla collaborazione e scarso è il senso civico, con quell’atteggiamento di apparente disinteresse che le Associazioni hanno tradotto con “silenzio della Comunità”. ‐ la dimensione degli interventi è al massimo comunale, e comunque per ciascuna Associazione è ristretta al proprio ambito tematico, alla propria mission, ‐ è forte lo scollamento generazionale, anche a seguito del fenomeno dei giovani che si allontanano per studiare e che non tornano più.

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Questa analisi ha consentito di individuare l’obiettivo più ambizioso e nello stesso tempo più realistico, stante le premesse: diventare un luogo di relazione e di incontro tra generazioni e culture diverse. È in questa logica che sono nati diversi Progetti realizzati in partenariato, che evidenziano già una mappa delle problematiche sociali da affrontare e da risolvere. Per tutto questo il volontariato chiede, anche attraverso il confronto nell’ambito di questa Giornata del Volontariato, e a cominciare da oggi, la collaborazione delle Istituzioni. Proponendosi come partner consapevole, affidabile, competente. Il Partenariato del resto ha già conseguito un curriculum di tutto rispetto, in maniera autonoma e sostenibile, pesando sempre meno sui bilanci comunali, sperimentando l’autonomia delle sole proprie risorse, e in ambiti delicati e strategici:

‐ Servizi istituzione e gestione di Servizi socio educativi, Punti ludici, Laboratori di comunità, Centri di aggregazioni giovanile sul territorio Internet Social Point, accesso facilitato al web e alla reciprocità in Rete, diminuzione della difficoltà “digitale”

‐ Integrazione Uguale‐diverso, specificità del territorio lagonegrese, tecniche di gastronomia e artigianato tradizionali, musica popolare, detti e forme dialettali, confronto/evidenza delle diverse modalità tra paesi della Valle del Noce ‐ anno 2006. Macon, progetto di intercultura e di ospitalità interterritoriale, insieme agli stranieri presenti nei paesi della Valle del Noce – anno 2007. Finalmente insieme, Progetto di integrazione dei ragazzi disabili, attraverso il “fare” insieme ai normodotati, anno 2008. Diversità, risorsa d’amore: integrazione attraverso il ricorso alle tecniche artistiche (musicoterapia), anno 2008. Dire, fare, mangiare, Laboratorio dei dolci tradizionali della Valle del Noce, anno 2009. Stranieri: risorse da integrare, Progetto di integrazione tra i ragazzi italiani e stranieri, anno 2010 ‐ Autoformazione e promozione Seminari di Comunicazione, di concerto con il Csv, per una formazione di base, condivisa, nell’ambito della info‐formazione ‐ anni 2008 e 2009. Formazione delle odv, Articolo 16 ‐ Linee guida regionali sull’affidamento familiare. Co‐progettazione della Prima Giornata provinciale del Volontariato, Grumento Nova, Laboratorio per l’autoanalisi del volontariato e la promozione dell’associazionismo nell’ambito sociale ‐ anno 2009.

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Ricostruzione dell’identità culturale Festa del Fiume (ad oggi quattro edizioni), animazione territoriale, evento periodico finalizzato alla costruzione identitaria e di valorizzazione del Capitale territoriale della Valle del Noce ‐ anni 2008, 2009, 2010 e 2011. Con periodicità annuale, l’evento è itinerante e si ripropone ogni volta in un Comune diverso della Valle, rigorosamente sulle rive del Fiume. I ricordi del Noce – Recupero dei riti collettivi tradizionali nell’ambito rurale (Porco Mondo, Laboratorio con ragazzi e anziani per la trasmissione delle tecniche e del significato in relazione alla lavorazione del maiale) ‐ anno 2009. I rimedi del Pollino – Recupero della Memoria collettiva in riferimento alle sapienze tradizionali (star bene e cosmési) nell’ambito naturale del Parco Nazionale del Pollino ‐ anno 2010.

Partecipazione al sostegno della sensibilizzazione civica e per la cittadinanza attiva Comitato pro‐bretella ss 585, evento di aggregazione della gente del Lagonegrese e di sensibilizzazione rispetto a problemi comuni (ecomostro della Valle, ripresa e completamento dei ventennali lavori, interrotti ormai da tempo e che sono strategici per la Comunità) ‐ anno 2010. Celebrazioni dei 150 anni dall’Unità d’Italia, 2011. Se non ora quando. Manifestazione per la difesa della dignità delle donne. Sostegno alla petizione che la società civile fa alla società politica ‐ anno 2011. Osservatorio sui rifiuti, di concerto con l’Amministrazione comunale di Lauria per la promozione/controllo della raccolta porta a porta.

Che cosa chiede Per tutto questo il Volontariato si offre alla collaborazione con le Istituzioni. Gli spazi per la partecipazione amministrativa sono ad oggi in verità poco o niente frequentati dallo stesso Volontariato. Eppure sono già esattamente individuati nella Legge regionale n°4 del 2007 (Rete integrata dei servizi di cittadinanza sociale). La Legge : • • •

istituisce la Consulta territoriale degli utenti dei Servizi, individua tra gli Attori sociali le Organizzazioni di Volontariato, le Cooperative sociali, le Associazioni e gli Enti di promozione sociale, le Imprese sociali, promuove la partecipazione degli Attori sociali alla Programmazione, realizzazione e valutazione concertata degli interventi della Rete regionale integrata dei servizi e di cittadinanza sociale.

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L’intento dichiarato è quello di favorire l’organizzazione e l’espansione della rete locale dei servizi, anche attraverso la progettazione congiunta degli interventi e la messa in rete delle risorse. La Regione Basilicata evidenzia insomma la volontà di realizzare l’integrazione delle politiche sociali, anche mediante la valorizzazione delle capacità di sperimentazione e di innovazione degli Attori sociali. Dichiara di voler eseguire altresì lo sviluppo di attività socio‐economiche capaci di incrementare il Capitale sociale, di valorizzare le risorse locali, di sostenere l’inclusione dei soggetti deboli. Per questi obiettivi gli Enti locali e le Aziende Sanitarie, anche attraverso strumenti innovativi di collaborazione: “... possono stipulare convenzioni con le Organizzazioni di Volontariato iscritte nel Registro Regionale”. La Regione individua sostanzialmente nel Volontariato un soggetto da consultare attraverso l’attivazione di Tavoli di concertazione in occasione della formulazione del Piano ai vari livelli, compreso quello intercomunale dei servizi sociali e socio‐sanitari, e nelle occasioni di verifica e valutazione della Programmazione pubblica. Chiediamo pertanto che nel nostro contesto territoriale di riferimento siano attivati e comunque resi operativi gli strumenti di consultazione e di programmazione congiunta, e ne offriamo disponibilità a tutti i livelli, dal comunale al regionale. Chiediamo, in definitiva, : ‐ che sia ottimizzata la partecipazione del Volontariato come soggetto portatore di visioni e di esigenze “di territorio”, ‐ che sia possibile riversare sul sociale i risultati della sua specialissima esperienza “del fare”, esperienza che può consentire la conoscenza puntuale delle risorse e dei problemi, che può comprendere interessi collettivi altrimenti estranei alla pratica politica, e della quale la società civile non può più permettersi di fare a meno. le Associazioni in Rete

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ll prosieguo dei lavori Oltre che nell’occasione dello stat up, un diverso livello di promozione è stato conseguito attraverso la realizzazione della Giornata Provinciale del Volontariato, celebrata a Tito il 22 aprile 2012, e che è stata occasione di incontro per numerose Associazioni della Provincia. La Giornata è stata organizzata tra le Reti finanziate nella Provincia di Potenza dalla Fondazione CON IL SUD attraverso lo stesso Bando. Sono le Associazioni‐partner, che hanno inteso realizzare una occasione di condivisione tra loro. Aumentando, di fatto, il livello della Rete. Gli stessi incontri tra i partner hanno assunto, non solo tra loro ma anche tra le Reti, il ruolo di lavoro condiviso. Le iniziative illustrate nell’occasione sono tutte apparse riconducibili all'obiettivo della costruzione di autonomia rispetto alla attuale dipendenza amministrativa (capacità di progetto e di gestione) e finanziaria (capacità di reperire risorse in alternativa al solito rapporto subordinato con l'Ente pubblico). Si è convenuto altresì sulla necessità di impostare su basi nuove le relazioni con gli Enti locali, anche attraverso occasioni di confronto e di proposta per collaborazioni concrete, e libere dalla necessità di finanziamenti. Le sessioni di lavoro congiunto Attraverso gli incontri periodici di partenariato U Vicinanzo si è proposto di realizzare occasioni che fossero di partecipazione alla gestione del Programma stesso, e che si proponessero per proseguire l’attività di consolidamento dell’abitudine alla condivisione. È un’esperienza scomoda e difficile da realizzare, ma è la sola che : ‐ assicura la proprietà diffusa delle decisioni e produce nello stesso tempo capacità condivise, ‐ aumenta tra i partner la conoscenza dei meccanismi di conduzione dei progetti, ‐ costruisce la padronanza di alcuni ambiti vissuti finora spesso come “separati” dalle esigenze quotidiane delle Associazioni. U Vicinanzo ­ Pagina 35


Associazioni che hanno realizzato correttamente, nel tempo, come da propria mission, attività di assistenza o di animazione. Ma finora in subordine ad Enti che ne hanno curato talvolta direttamente la contabilità, e che ne hanno favorita l’attività esclusivamente attraverso piccoli finanziamenti, spesso riproducendo la solita condizione di subordinazione. U Vicinanzo ha invece offerto ai partner la possibilità di partecipare da protagonisti a modalità integrate, mettendo insieme amministrazione, contabilità, logistica e operatività concreta. Un’esperienza completa che ha contribuito a forgiare, limitatamente all’impegno di spesa di riferimento, alcune nuove capacità tra i propri soci. Aumentando anche il livello complessivo di competenza delle Associazioni che vi hanno partecipato e, in qualche modo, la competenza del Volontariato del Lagonegrese. E la sua disponibilità ad investimenti organizzativi più articolati, ora che sa di poter affrontare anche impegni complessi. La dotazione strumentale Oltremodo diverso il livello di strumentazione che è stato constatato, in ingresso, tra i soggetti del Partenariato. E di conseguenza anche la capacità di utilizzo della strumentazione stessa, soprattutto in riferimento alle apparecchiature informatiche. Alcune Associazioni avevano già buone dotazioni e sufficienti esperienze e competenze. Altre, all’estremo opposto, avevano semplicemente rimosso la necessità del rapporto con le apparecchiature e con i compiti di gestione, ritenendo di doversi dedicare esclusivamente alle attività pratiche di assistenza e di sostegno, confidando nell’esperienza e nella sensibilità dei propri soci. In dipendenza pressoché assoluta, per quanto descritto, dall’Ente finanziatore. Naturalmente ne conseguiva anche che tra i partner esisteva una articolazione di livelli intermedi di dotazione tecnica e di confidenza, sempre in riferimento alla strumentazione.

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Si è deciso pertanto, e di comune accordo, per il raggiungimento di almeno un livello minimo di dotazione da conseguire per ciascuno dei partner. Con l’obiettivo di garantire una base di competenze comuni a fronte della disponibilità, nel seguito, alla complementarità tra i partner stessi. In maniera da realizzare comunque una sinergia tra le diverse abilità acquisite. Un primo censimento interno alla Rete ha evidenziato le singole relative dotazioni di partenza. Ha consentito la programmazione di piccoli acquisti, in proporzione alle necessità funzionali, che potessero consentire intanto un sufficiente grado di autonomia in relazione al livello minimo concordato di efficienza. Per alcuni dei partner si è trattato di un adeguamento della dotazione già disponibile, al fine di migliorare la funzionalità di quanto già attivo e tra le proprie competenze. Per altri, e in funzione del loro ruolo nel Programma, l’ulteriore dotazione si è orientata alla erogazione di servizi che potessero essere di interesse comune nell’ambito del Partenariato, come l’acquisto di software e di manualistica per la Comunicazione. L’animazione Sono stati riproposti rituali di relazione tra i partner della Rete ripercorrendo le tradizionali tecniche di “manutenzione“ che appaiono ancora presenti nella Memoria della gente, come le “visite di crianza”. Incontri tra persone, prima ancora che tra Associazioni, le visite hanno assunto, del passato, le stesse modalità: doni offerti da chi visita (tradizionalmente zucchero e caffè) e doni ricambiati dal visitato (il bicchierino di rosolio e le paste). Naturalmente l’idea della visita contiene anche tutt’altro, come “l’intrusione” (un’occhiata cioè alle capacità amministrative acquisite, o al buon uso della strumentazione) e “l’assistenza” (una mano per la contabilità, un’aggiustatina al software, una dimostrazione pratica, … ), oltre a quanto ancora può dare il senso di una prossimità non solo fisica e quotidiana, ma anche ideale tra le Associazioni.

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Carattere inusuale, prima che fosse avviato U Vicinanzo. Ha fornito spesso l’occasione per discutere delle esigenze locali, del locale rapporto con le Istituzioni, delle cose che non vanno e di come dovrebbero andare. E per promuovere anche azioni di cittadinanza attiva, come per i servizi sociali, o per la gestione pubblica dell’acqua, o per la raccolta differenziata. O per una maggiore informazione sui rischi per il territorio e per l’ambiente, o sulla disponibilità delle Amministrazioni alla collaborazione. E per proporre anche la diffusione delle ambizioni, in continuità con l’esperienza dei Municipi partecipati, e attraverso la richiesta di discussione pubblica dei bilanci comunali. In realtà il primo tentativo, realizzato a inizio dicembre 2011 a Lauria, nella Sala del Consiglio comunale, ha avuto soltanto un esito “formale”, scontando la condizione di assoluta novità. Ma si conta di ripeterlo periodicamente e di promuoverlo come occasione consolidata per i prossimi anni e in tutti i Comuni delle nostre Valli. Occasioni di collaborazioni sono state anche proposte alla gente nei singoli Quartieri urbani, attraverso: ‐ incontri sull’ecologia urbana e con finalità di promozione della raccolta “porta a porta” dei rifiuti, ‐ l’istituzione di un Osservatorio dei rifiuti, come già formulato quest’estate all’Amministrazione di Lauria. Si sta valutando l’ipotesi di estendere l’esperienza di questi incontri anche alle Contrade. Intanto in Contrada Seta si è sostenuta l’iniziativa di “Se non ora quando” e della “Quercia Grande”, partecipando attivamente alla giornata dimostrativa di pulizia della strada vicinale, interna alla Contrada. Di concerto con altre Associazioni culturali e Movimenti di opinione si è collaborato anche alle Programmazioni estive degli eventi comunali, offrendo collaborazione alle Proloco nei diversi Comuni. Si sono sostenute le iniziative di confronto tra i diversi luoghi, adattandole alla dimensione di Valle, come per la “Passeggiata per la Giustizia” proposta dall’Associazione Libera tra le Contrade di Lauria e di Nemoli, nella Valle del Noce.

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Si è promossa intanto la costruzione di una Visione di sviluppo condiviso attraverso la partecipazione e il sostegno al Comitato per il Noce che si è contribuito a far nascere: 6 sindaci lucani e 2 calabresi insieme alla Rete e con Libera lavorano per la sottoscrizione di un Patto orientato allo sviluppo socio territoriale dell’intera Valle. Ci si è proposto di coinvolgere la gente su programmi di più lunga durata e di più vaste dimensioni. Si è partecipato attivamente agli incontri promossi da Eugenio d’Auria, che è Ambasciatore d’Italia in Austria e che è originario della Valle del Noce, con finalità di discussione e “scuola di politica” con risvolti sociali. Già al terzo appuntamento, agli incontri sono state presenti Associazioni che hanno ripreso e continuato il dibattito sulla crisi politica nazionale (e locale), cercando di elaborare proposte in più direzioni e a più livelli. L’idea è quella di definire insieme un documento‐manifesto condiviso, da diffondere in maniera ampia, utilizzando anche i nuovi strumenti multimediali. Si è organizzata infine, insieme alla Rete del Volontariato del Lagonegrese ‐ Pollino e al Centro per i Servizi al Volontariato, la partecipazione alla visita del Dalai Lama e di Betty Williams, tra l’altro entrambi Premi Nobel per la Pace, a Scanzano Ionico. L’occasione della storica cerimonia ha preso avvio dal Progetto per una Città dei bambini e della Pace da realizzarsi nei luoghi della Basilicata che vinsero il braccio di ferro con il Governo Berlusconi contro la destinazione dell’area a discarica nazionale di rifiuti nucleari. Una testimonianza che si è ritenuto doverosa, per offrire alla gente l’idea che una convinta espressione locale possa assumere carattere nazionale, ed essere determinante sulla preservazione del Bene comune. I Seminari Si è proposta una serie di incontri di studio che consentisse in modo ordinato e “assistito” l’indagine sulle tracce di vicinato ancora visibili nella società locale.

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E che nello stesso tempo ne potesse produrre eventuali ipotesi di recupero del senso ancora riproducibile. Alcuni degli incontri sono stati “autogestiti”: il primo, di avvio, e l’ultimo, utile per le conclusioni. Sono stati organizzati in modo da consentire il confronto tra le Associazioni, hanno avuto comunque carattere “aperto”, e a chiunque dei partecipanti è stato chiesto di esprimere la propria opinione o raccontare la propria esperienza di vicinato. Il primo dei Seminari si è offerto anche come occasione per impostare insieme il lavoro da svolgere, su un canovaccio che chiedeva di essere migliorato con il contributo di chiunque fosse disponibile a questa avventura articolata in più incontri. Per ciascuno degli altri Seminari è stato invece invitato un esperto nei settori di maggiore interesse, in modo da conferire all’incontro un maggior carattere di rigore e di organicità. Di questi, un primo Seminario, nel quale si è indagata la dimensione rurale, di Vicinato allargato al territorio, ha avuto come ospite Alfonso Pascale, esperto di agricoltura solidale, realizzatore del Sito Nazionale per le Fattorie sociali. Un secondo ha ospitato Michele Iannuzzi, antropologo, che per conto l’Università di Basilicata ci ha raccontato della dimensione urbana e più intima del vicinato, del Mito del quale è stato fatto oggetto, della dimensione nostalgica nel quale è stato relegato. Ma anche delle opportunità di indagine e della prospettiva di utilità sociale che può ancora dispiegare. Ad un terzo Seminario ha partecipato Reinaldo Figueredo, già Ministro, e più volte, per il Venezuela e consulente per molti anni presso l’ONU. In quest’ultimo Seminario la dimensione assunta per il Vicinato è stata di più ampio respiro, rispetto a quelle già indagate dell’agricoltura allargata e dell’ambiente urbano. Dei territori si è evidenziata la necessità di relazione tra di essi in funzione delle nuove fragilità derivanti dalla crisi epocale che coinvolge tutti. E della necessità di farvi fronte attingendo anche a valori tradizionali.

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Gli incontri hanno avuto una articolazione in più parti. Ad una comunicazione “esperta” ha fatto seguito ogni volta la presentazione di una Buona pratica, ovvero di una esperienza imprenditoriale che avesse tenuto conto del contesto sociale di appartenenza e che fosse proiettata in una dimensione territoriale più ampia di quella locale. Naturalmente in ognuno degli incontri è stato lasciato spazio per gli interventi e per le discussioni. I partecipanti si sono detti, in generale, consapevoli di quanto la crisi dei nostri giorni abbia dimostrato il fallimento di un modello di sviluppo che non tiene conto dell'utilizzo razionale delle risorse. “Affascinati da una "modernità" che proponeva una idea di benessere a tutti i costi ‐ si è evidenziato ‐ abbiamo tralasciato la solidarietà e l'operosità sapiente delle relazioni”. Capacità che possedevamo e che, assimilate gradualmente, ci avevano consentito nel tempo di convivere con il territorio e di ricavarne benefici. “Gli stili di vita di una volta, che rappresentavano la più alta forma di identità culturale della Comunità locale, possono ancora ‐ si è convenuto ‐ rappresentare una rinnovata opportunità”. Il Ciclo dei Seminari del resto si proponeva di indagare nella Memoria delle gente per estrarne occasioni, conoscenze, capacità che ancora oggi potessero aiutarci a migliorare noi e la nostra stessa maniera di vivere. Attraverso gli incontri ci eravamo proposti di apprendere insieme, ciascuno migliorando le proprie conoscenze e lavorando sulle capacità che abbiamo, una maniera diversa di guardare quello che c'è intorno a noi e di sperimentare nuove relazioni. La cura dei Beni Comuni “Se un Bene è considerato comune, è perché le persone che lo condividono hanno relazioni tra loro”. (I fondamenti della sussidiarietà, Pierpaolo Donati) Il Bene, ne conveniamo, ha un senso solo all’interno di relazioni. Ma del Bene Comune abbiamo imparato anche un’altra sua caratteristica: che una Comunità deve cioè riconoscerlo come qualcosa che va al di là U Vicinanzo ­ Pagina 41


della Comunità stessa, e che va condiviso con chi c’è stato prima e con chi verrà dopo. Non ha e non può avere, inoltre, un rispetto basato sulla costrizione, non può discendere da obblighi di legge, nessuno può inventarselo o forzare gli altri ad osservarlo. Insomma, o c’è o non c’è. La sua natura, il suo stesso riconoscimento, ha un’origine esclusivamente relazionale, e quindi risiede nel carattere mutuo e reciproco delle azioni di chi contribuisce a generarlo o a individuarlo. Se il legame sociale si rompe, o si allenta, collassa anche l’idea stessa del Bene, in quanto il suo valore dipende da quel legame. Il Bene comune, ancora, viene comunemente inteso come realtà tangibile, una cosa o una risorsa concreta, che appartiene al territorio. Come l’acqua, ad esempio, oppure un paesaggio. Ma può invece anche essere immateriale, come un servizio, una capacità collettiva, una eredità culturale, una Memoria. Di certo c’è che non appartiene agli individui che lo custodiscono, e questi possono usarlo, ma non possono né dividerlo tra loro, né toglierlo ad altri, né tanto meno mercificarlo. Pena la sopravvivenza stessa del Bene comune, che finisce quando non viene più inteso come qualità delle relazioni tra persone. Poiché è pertanto una risorsa collettiva, senza la quale si perde un beneficio comune, quando una Comunità si accorge che il livello dell’attenzione per il Bene diminuisce deve avvertire anche l’obbligo della sua manutenzione straordinaria. L’articolo 118 della nostra Costituzione, anche se introdotto di recente (con la revisione fatta nel 2001), sancisce l’Istituto della Sussidiarietà. Questa è intesa di norma in senso verticale tra i diversi livelli gerarchici, a partire dallo Stato alle Amministrazioni sottostanti, e attraverso i Comuni può arrivare fino al cittadino. Ma c’è un’altra dimensione che appare più congeniale alla “cura” del Bene Comune.

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Nel 2009 il premio Nobel è stato assegnato a Elinor Olstrom, una economista dell’Indiana University che ha evidenziato aspetti connessi alla gestione della cosa collettiva, attraverso uno studio sulle capacità degli individui di apprendere dai propri errori e delle Comunità locali di autoregolarsi. È da allora che si parla di Beni Comuni. Nel suo lavoro viene sottolineato il carattere di conoscenza e di consapevolezza collettiva necessaria perché il Bene “esista” e sia preservato: “In primo luogo è centrale il ruolo della comunicazione: quanto più gli utilizzatori di Beni Comuni comunicano tra di loro, tanto più alta è la possibilità che tra di essi vengano stipulati accordi vicini al livello ottimale di utilizzo dei Beni, e gli attori tendono a raggiungere un risultato ottimale” (Elinor Olstrom, 2006, p. XLIII). Gli studi della Olstrom individuano poi il livello al quale appartengono gli Attori che più opportunamente ne possono “aver cura”: è certamente quello più vicino al Bene, quello che è capace di controllo diretto in quanto più di altri può godere dei benefici della manutenzione, e più di altri può avere interesse a preservalo. È troppo lontano, dunque, lo Stato, ed è invece alla Comunità locale che spetta la cura del Bene Comune. Ecco la dimensione orizzontale e operativa della sussidiarietà: tra Comuni ed Associazioni di Volontariato, tra famiglie e società civile. Attraverso le relazioni e la redistribuzione consapevole dei benefici, attraverso contratti di solidarietà, attraverso il dono gratuito (free giving), attraverso la norma della mutua reciprocità, Attraverso gli strumenti, insomma, che il Vicinato tradizionale, più o meno consapevolmente, aveva già fatto propri. Con un rischio sempre incombente: quando non è consapevole, il mutuo interesse assume gli aspetti patologici che da noi sono oggi così diffusi. Lo scambio diventa allora finalizzato alla mercificazione, al compromesso, alla clientela: “a’ amicizia s’mantene s’u stiavucc va e vene !” ovvero la

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relazione è utile soltanto se c’è reciproca convenienza. Giustificando in questo modo di fatto tutte le utilità, fino alla patologia della corruzione, e del “voto di scambio”. Perché non succeda, bisogna promuovere con esempi concreti la capacità di trasformare in sviluppo economico e sociale le risorse locali, costruendo l’attenzione per il Bene comune (Il fiume Noce, il paesaggio della Valle, la capacità ospitale, la tradizione, la cultura e la storia), ed anche l’attenzione per le economie virtuose che quel Bene può produrre. E ancora, lavorando insieme, bisogna “realizzare la condivisione” dei beni e dei servizi collettivi, quelli naturalmente che sono legati alle specifiche vocazioni del territorio. Con benefici concreti, visibili, che producano economia. Non c’è probabilmente altro modo perché se ne avverta davvero il senso della “proprietà”, e di conseguenza se ne senta la necessità di preservarli. La Comunicazione Tra gli obiettivi che U Vicinanzo si è proposto di raggiungere, c’è quello di realizzare un sistema di integrazione reale dell’insieme delle risorse. Finora i partner le avevano coltivate, le risorse, separatamente. In solitudine e sempre a rischio di insuccesso. La finalizzazione ad un obiettivo condiviso può invece dare loro maggiore efficacia, con migliore visibilità delle cose fatte, e con aumentata capacità “dimostrativa”. In realtà il Programma si era proposto di organizzare il collegamento stabile tra le tutte le Associazioni, e non soltanto tra i partner, attraverso la realizzazione di un proprio Sito, rispetto al quale si sarebbe dovuto attivare una frequentazione capace di far condividere informazioni ed esperienze sia all’interno che all’esterno della Rete. È invece emerso che per alcune Associazioni del partenariato era sostanzialmente scarsa l’attitudine all’utilizzo delle tecnologie e dei relativi software. Per alcuni era assente la capacità stessa di frequentazione di Internet.

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L’evidenza di una diversità incolmabile, al momento, di capacità e familiarità con i mezzi informatici ha convinto che bisognava creare, prima di tutto, una dimensione di congenialità e di competenze che fosse almeno comparabile, tra i partner. Gli sforzi sono stati indirizzati, pertanto, verso una formazione di base che fosse in grado di assicurare livelli minimi e condivisi di conoscenze. La Fondazione CON IL SUD ha del resto messo a disposizione un blog già efficiente, implementato continuamente grazie al contributo di Associazioni che partecipano anche ad altri Programmi finanziati dalla Fondazione stessa, e con un buon livello di frequentazione. Pertanto si è deciso di evitare investimenti che non avrebbero avuto le opportune ricadute, non essendovi né abitudini nè competenze confrontabili, tra le diverse Associazioni, e di utilizzare, in alternativa, le possibilità connesse con il collegamento al blog che era disponibile su http:/www.esperienzeconilsud.it. La prevista newsletter è stata per analoghi motivi realizzata anche a stampa su carta, oltre che condivisa via e‐mail e su Facebook, in quanto si è immaginato che potesse risultare in questo modo raggiungibile anche a chi, tra le Associazioni, non aveva facilità di utilizzo informatico. Si è contato del resto anche sulla circostanza che la stessa stampa su carta potesse rappresentare l’occasione perché l’informazione fosse condivisa anche all’interno delle famiglie. La news si è rivelata comunque uno strumento principale per veicolare l’attività di Rete, con comunicazioni periodiche di aggiornamento sulle collaborazioni possibili, sulle attività avviate, sulle opportunità comuni. E sulle notizie locali che avevano vocazione “aggregante”. In ogni caso parte della attività formativa è stata dedicata alla gestione di Siti e newsletter puntando comunque, anche tecnicamente, sulla realizzazione di una base comune di scambio. Alla comunicazione è stato naturalmente affidato il compito di sollecitare la partecipazione alle attività sociali, ed anche la loro diffusione nella società civile. Si è provveduto alla realizzazione di un Logo digitale che evidenziasse

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l’idea di una Rete, ma i cui nodi fossero costituiti da persone. Si è dato avvio alla redazione e alla stampa della newsletter con un primo numero di U Vicinanzo news (Numero zero) al quale sono seguiti con cadenza mensile altri 12 numeri, fino a conclusione del Programma. All’interno del partenariato si stanno valutando le opportune modalità per consentire il proseguimento dell’esperienza, anche attraverso il ricorso ad eventuali risorse interne alla Rete stessa. È stata realizzata una pagina Facebook dedicata, alla quale si provvede con aggiornamento in continuo, fornendo anche informazioni sulle Associazioni esterne alla Rete di U Vicinanzo ed in generale su questioni di Cittadinanza attiva. L’acquisto di software dedicato, insieme alla dotazione di tecnologie e capacità adeguate, di libri e manuali operativi, ha consentito la creazione di competenze specifiche da dedicare alla promozione in tutti i suoi aspetti, compresa la grafica. È stato via via migliorato lo standard del giornalino mensile, che comincia ad essere apprezzato all’esterno anche per la grafica, oltre che per la sua rispondenza alle necessità interne della Rete. È stata altresì realizzata una brochure/cartellina. Questa è intesa come contenitore delle schede dei singoli partner, ed anche per essa si è immaginato un utilizzo che potesse proseguire al di là del completamento del Programma. Sappiamo che anche attraverso l’uso dei nuovi strumenti di comunicazione si possono apportare benefici al territorio. Il volontariato avrà ora modo di rendere visibile tutto ciò che fa, e di condividere maggiormente con la Comunità le proprie attività. Di conseguenza potrà diffondere in molte più persone la consapevolezza che ci sono tanti cittadini attivi e tanti luoghi in cui c’è apertura e disponibilità al contributo di chiunque, con modalità partecipate del tipo di quelle che sono ancora sostanzialmente presenti nel DNA del territorio.

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La socialità del Vicinato Le forme di relazione riattivate attraverso U Vicinanzo, potrebbero produrre, di certo, un effetto di straordinaria rilevanza per la Comunità: potrebbero riaprire le persone alla fiducia nei confronti dell’Altro e stimolare la partecipazione. Le analisi realizzate dai partner hanno evidenziato come la perdita delle relazioni e lo scarso senso civico siano le criticità più delicate ed urgenti da affrontare per il bene della Comunità. I nostri territori si spopolano, viene meno il senso dell’appartenenza, le persone sono raggiunte a fatica dalle attività delle Associazioni e dichiarano di sentirsi sole. U’ vicinanzo ha avviato in fondo un processo che lavora per il ripristino e il riallestimento della Comunità. Un processo di ricostruzione dei rapporti, dello “stare insieme” e di quel “fare insieme” che solo il volontariato, per la particolarità del suo agire informale, diretto, immediato, e per il suo radicamento di territorio, può realizzare. Riteniamo che sia questo il beneficio più importante che la Comunità può conseguire. In periodi di così forte crisi economica e sociale, le persone hanno bisogno di ritrovare fiducia. La fiducia si ricostruisce solo nella ricostruzione della capacità di relazioni sia realizzando nuovi modi di concepire sia la Comunità che modificando il proprio agire, cambiandone gradualmente ma radicalmente la traiettoria. Recuperare le forme del Vicinato tradizionale, “tali e quali”, con nostalgia per il passato, non è certo tra gli obiettivi del Programma. Piuttosto che riproporre un sistema che saprebbe solo di folclore, abbiamo convenuto sul carattere dinamico della società, immaginando l’evoluzione della stessa tipologia delle relazioni, capaci anch’esse di adattarsi alle modifiche migliorando l’efficacia, se debitamente sollecitate.

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L’integrazione culturale degli immigrati Tra le Associazioni della Rete alcune hanno già realizzato, e realizzano tutt’ora, attività di mediazione e di integrazione culturale. È il caso delle Associazioni Auser, di Noi e gli altri di Nemoli, del Mov e del Cif di Lauria. È stato appena completato un progetto in partenariato con l’Amministrazione comunale di Lauria dal titolo “Stranieri, risorse da integrare”. In altri contesti sono attivi processi in integrazione giocati sui linguaggi musicali, come ad esempio i laboratori tenuti dall’Auser di Castelluccio sull’organetto. Scambi di esperienze nel settore della gastronomia hanno già sperimentato quest’ultima come importante veicolo di collaborazione capace di diminuire le resistenze e predisporre alla socialità. Tutto questo ha consentito di attivare relazioni e di verificare che nel territorio la presenza di immigrati, che da noi hanno numeri e tipologie diverse da quelle delle distese agricole del Metapontino o del Salernitano, è tutto sommato accettata dai residenti, pur nella difficoltà delle differenti tradizioni e modi di espressione. È il momento di avanzare ulteriormente sulla strada dell’integrazione. La notevole ricchezza culturale che può conseguire dalla contaminazione tra i diversi modi di pensare non è del tutto colta dalla Comunità ospite, in quanto la presenza di culture diverse, pur così tante, è ancora poco visibile: saltuari sono infatti i rapporti di queste con il contesto territoriale, e una buona dose di diffidenza è anche patrimonio degli immigrati stessi. Non solo per la comprensibile tendenza a rinchiudersi in gruppi di origine, ma anche perché timorosi nel mettersi in evidenza, forse anche a causa della soggezione alla quale si sentono esposti per l’incertezza dei documenti di soggiorno. Di conseguenza vi sono comunque difficoltà di inserimento. Bisogna, tra l’altro, sensibilizzare le Istituzioni perché si convincano ad investire anche su di loro, affinché le esperienze del “vivere insieme” diventino, nella programmazione politica, valori da capitalizzare.

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Il primo passo è naturalmente la conoscenza amichevole con gli stranieri, per vincerne la diffidenza e condividerne spazi, abitudini e modi di pensare. La frequentazione deve diventare un’esperienza concreta, ricca di occasioni di scambio, confronto, incontri, laboratori, condivisione di abitudini, oggetti e ricette tipiche, di nuove modalità di “essere”. U Vicinanzo e le Associazioni partner, attraverso la presenza dei volontari “dentro” la Comunità, e tra le persone, si adoperano per attivare anche forme di incontro, con modalità e in luoghi informali, con gli immigrati. Incontri che sono finalizzati a creare rapporti di fiducia e di rispetto, ma che preludono anche a strumenti di qualificazione linguistica. Non soltanto per diminuire la difficoltà di comunicazione, quanto anche per migliorare l’accoglienza e superare le formalità, preservando gli stranieri dai rischi di incomprensione delle regole, naturalmente soddisfacendo alle necessità di rispondenza alle Norme sull’immigrazione. Nella convinzione che oggi, di fronte al complesso sistema di tante e diverse culture che giungono tra noi, siamo tutti chiamati a mettere da parte ogni atteggiamento difensivo, consapevoli che l’incontro tra le culture non solo è inevitabile, ma che va vissuto intensamente, e con passione, per il miglioramento che può determinare nella vita di tutti. La qualificazione del Volontariato Le attività di formazione sono state orientate a fornire le competenze per gestire, successivamente, gli strumenti di comunicazione della Rete. Hanno assunto il compito, in quanto rivolte ai protagonisti della socialità di vicinato di riattivare la comunità degli interessi e la partecipazione. I volontari dovranno testimoniare sempre più le pratiche dell’agire civile e solidale che, ci auguriamo, possano consentire a tutti di condividere un approccio fondamentale e imprescindibile: la comunione e la partecipazione sono tra le dimensioni più alte che l’uomo sia capace di esprimere. E la Comunità, contestualmente, è l’unica dimensione in grado di offrire alle persone il senso del proprio agire e del proprio essere. I volontari della Rete, beneficiando anche di strumenti di comunicazione

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fino ad oggi non sufficienti, avranno il compito di essere persone tra le persone, cittadini tra i cittadini, decisi a risvegliare il senso della partecipazione solidale. A partire dalla necessità di rivedere gli approcci classici delle Istituzioni verso le nostre/loro Comunità. Approcci che consideravano le Associazioni soltanto puri erogatori di servizi, piuttosto che soggetti determinanti e decisivi nell’attivazione del “fare società”. Motivo infine per cui la Rete è convinta della propria missione, è che il volontariato, all’interno delle Reti, può realizzare un nuovo modo di concepire la “politica”. La Rete può attivare la consapevolezza che, al di là dei Partiti, ogni persona può esprimere una dimensione politica che è decisiva per la vita della Comunità e per la tutela e la promozione dei Beni Comuni. Che sono questi ultimi preziosi e non rinnovabili, che sono le nostre risorse più fragili e che costituiscono nel contempo la parte più cospicua del nostro patrimonio. La formazione specifica è stata orientata al rafforzamento della autonomia e dell'abitudine alla collaborazione tra Associazioni (informatica di base, gestione amministrativa, gruppi di ascolto). Per quanto riguarda la promozione e la visibilità abbiamo convenuto sulla collaborazione con una risorsa che fosse competente per le questioni di comunicazione. Si è incaricata pertanto una unità giovane e già esperta per l’individuazione e la realizzazione di iniziative di pubblicità e di informazione sulle attività avviate. Sono state acquistate piccole attrezzature in grado di aumentare sia l’autonomia dei singoli partner che la capacità di utilizzo delle opportunità che sono fornite dalla capacità di accesso ad Internet. Alle Associazioni che ne erano completamente sprovviste si è fornito un computer con dotazioni minime ma che fossero sufficienti a garantire servizi interni ed anche capacità di collegarsi con gli altri partner.

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Per alcune Associazioni si è provveduto semplicemente ad aggiornare la dotazione esistente. Nei casi in cui non si è rivelato sufficiente all’obiettivo di integrazione di capacità comuni, si è individuato in ogni caso un livello di attrezzature minimo, da assicurare comunque e che consentisse di confrontarsi tra Associazioni con “pari dignità”. E, all’interno stesse di queste, che realizzasse autonomie tecniche. Lo stesso è stato realizzato in riferimento alle risorse umane, riconducendone ad un stesso livello condiviso le capacità, intese come “sapere” nell’ambito dell’amministrazione, dei collegamenti informatici, della gestione di Programma. Tra i servizi che i Partner hanno ritenuto strategici, si sono realizzati alcuni corsi di formazione. Innanzitutto quelli relativi all’alfabetizzazione informatica di base, uno dei quali realizzato attraverso la partecipazione al Progetto Nonni Sud Internet, frequentato dai partner che hanno sede nei Comuni della valle del Noce. Questo, in particolare, è stato realizzato senza costi per U Vicinanzo, trattandosi di occasione già finanziata, anche questa, dalla Fondazione CON IL SUD, e resa disponibile dall’Istituto scolastico ISIS nel quale si svolgeva. Lo stesso programma è stato proposto per i Comuni della Valle del Mercure con altro similare Corso di Formazione, quest’ultimo invece a spese di U Vicinanzo e che si è organizzato nel Comune di Rotonda, baricentrico rispetto a quest’altra Valle. Un altro ancora è stato realizzato dall’Auser di Lagonegro per i propri soci e per i soci dell’Avo, che ha sede a Lagonegro, ed anche questo è stato erogato gratuitamente.

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L’articolazione dell’indagine di Giusy Gazaneo Assumere l’impegno di Comunicare vuol dire non soltanto avere qualcosa da dire, ma anche dirla nella maniera più utile. Abbiamo immaginato che i nostri ricordi di una infanzia ancora intrisa di Vicinanzo, le Memorie raccolte tra gli anziani, le tracce messe insieme dalle Associazioni, le considerazioni fatte negli incontri di lavoro, dovessero essere raccolte in modo ordinato e rigoroso. Se è sempre doveroso lasciare tracce del lavoro svolto, è altrettanto doveroso confezionarle in modo che possano essere utili per chi vorrà proseguire nel percorso tracciato, eventualmente con ulteriori studi. Ed è anche opportuno che la gente stessa trovi interessante informarsi sugli aspetti che ci hanno accompagnato fino al recente passato. Abbiamo immaginato dunque di dover svolgere con quanta più diligenza possibile il nostro compito e di trasmetterlo in modalità comprensibili, partecipate e divulgabili con efficacia. Abbiamo perciò organizzato un sistema di incontri articolato in modo da ospitare esperti che fossero in grado di accompagnarci con competenza durante il percorso. Agli incontri abbiamo affidato il compito di dimostrare anche la concretezza delle discussioni. Abbiamo pensato di farlo attraverso la presentazione di esperienze che fossero in grado di documentare capacità locali d’eccezione, che fossero riconducibili alla cultura tradizionale e che promettessero nel contempo di aiutarci a partecipare anche ad economie esterne all’area. Il Ciclo dei Seminari risponde a questa esigenza. A ciascuno dei Seminari è stata assegnata una struttura articolata in più parti: ad una comunicazione ”esperta” ha fatto seguito la presentazione/ discussione di una Buona Pratica. Ha concluso ogni Seminario un Progetto in uscita, ovvero una ”provocazione” che potesse suggerire la partecipazione ad un’idea che fosse pensata insieme, in attinenza con il Tema specifico di quel particolare Seminario.

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Un Progetto che avesse efficacia dimostrativa, che fosse cioè in grado di indicare Azioni concrete capaci di trasformare la discussione in fattibilità operativa. Nel primo Seminario, di costruzione partecipata del Ciclo stesso, si è intervenuti “a quattro mani” sul canovaccio predisposto, migliorando insieme la composizione dei Seminari successivi. Il Secondo seminario ha esaminato la dimensione del Vicinato allargato all’agricoltura, alle pratiche stagionali, allo scambio rituale di servizi e mano d’opera che consentiva nel passato operazioni periodiche e complesse. Si trattava di lavorazioni che altrimenti non sarebbero state alla portata della singola famiglia o del singolo operatore. Assistito da Alfonso Pascale, esperto di Agricoltura sociale, il Seminario ha prodotto in uscita la proposta di ri‐utilizzo di terreni demaniali nella Valle del Noce (circa 33 ettari in territorio di Nemoli), per i quali è stata ipotizzata la realizzazione di una Fattoria Sociale. È stato sollecitato l’impegno da parte degli Attori istituzionali interessati, dal Sindaco di Nemoli al Commissario della Comunità Montana del Lagonegrese, che ne ha la proprietà, ed anche all’ISIS di Lauria e all’IPAA, Istituto Professionale per l’Agricoltura e l’Ambiente di Lagonegro. L’impegno, tra gli Attori presenti al Seminario, è stato quello di formalizzare un partenariato entro la fine del 2012, pervenendo ad un Protocollo sottoscritto nel corso di un pubblico incontro. Il Terzo Seminario è stato realizzato con la partecipazione di Michele Iannuzzi, antropologo dell’Università di Basilicata. Si è discusso delle “Eredità del Vicinato tra Storia, Mito e nuove opportunità”. Oggetto dell’incontro, le relazioni sociali che caratterizzano i legami tra le persone, i collegamenti con il contesto e tra i centri urbani e rurali, lo scambio dei servizi e delle prestazioni rituali di mano d’opera le regole dell’economia locale modulate in risposta alle esigenze comuni. La Buona pratica offerta alla discussione ha rivelato un’altra interessante occasione di capacità imprenditoriale che è locale ma che nello stesso tempo frequenta un ambito decisamente internazionale.

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Si tratta di un’attività di allevamento di asini (Azienda “Il Sagittario”) che dall’iniziale produzione di latte per utilizzi alimentari si è orientata, in breve tempo, alla offerta di ingredienti per la cosmesi e per la medicina. Si è verificata l’esistenza di spazi e disponibilità per la realizzazione di alcune opportune complementarità con altre attività che si possono realizzare in campo agricolo e produttivo in genere e che già si sono espresse a favore dell’idea di Fattoria Sociale. E soprattutto, ne appare utile la disponibilità in possibili servizi condivisi. In genere questi ultimi esigono infatti una dimensione che supera quella della piccola azienda, per risultare efficaci. Tra i presenti, Francesco Stoduto ha invitato a riflettere sulle recenti tipologie proposte per una diversa economia, e sulla necessità di un nuovo modello di sviluppo. Per il progetto in uscita si è evidenziato un buon interesse tra gli imprenditori presenti, e soprattutto tra i giovani, incuriositi per la filosofia del Distretto solidale e per le Reti di Imprese. È sembrato, in generale, che ci fosse la volontà di superare, almeno nelle nuove generazioni, la tradizionale solitudine che accompagnava gli investimenti fino ad oggi. Solitudine che costruiva intorno a questi un isolamento duro da gestire e che è stata causa di tanti fallimenti, anche per iniziative di buon livello. Si è anche ipotizzato uno scenario che potesse consentire una dimensione virtuale sufficiente a garantire servizi e opportunità che certamente non sono alla portata di un singolo imprenditore. Per il quarto Seminario abbiamo avuto come esperto Reinaldo Figueredo. È stato già più volte Ministro per il Venezuela e Direttore per anni del Dipartimento dell’ONU sulla Globalizzazione, Liberalizzazione e Sviluppo Umano duraturo. La discussione ha investito una dimensione del Vicinato che è ancora diversa da quelle trattate finora, e dall’agricoltura allargata al territorio e dalla sua scala urbana si è passati a quella degli Stati nazionali e delle perplessità globali che ci accompagnano in questi anni.

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Il Seminario ha rivelato, di queste ultime, la connessione stretta con le avversità di ambito e con la necessità di contrastare le aggressioni al territorio e di conferirgli un giusto grado risposta ai disastri. Un territorio sempre meno popolato, e di conseguenza sempre più fragile, può re‐imparare dal passato il modo di concepire nuove difese per rischi antichi e recenti, e per trasformare le avversità in occasione di nuove opportunità. Un territorio che sia resiliente, quindi, e che sia abitato da una Comunità resiliente. Che sappia affrontare, quest’ultima, le difficoltà della moderna convivenza sociale. Si è convenuto, pertanto, con gli obiettivi del Progetto “Making Cityes Resilients” promosso dall’ONU e si è deciso di sollecitarne l’adesione tra i Sindaci delle Valli del Noce e del Mercure. Il Seminario conclusivo, infine, ha affrontato alcuni importanti ambiti di indagine, provando a completare il quadro di insieme dei lavori del Ciclo. Tra questi quello della componente femminile del Vicinato e del suo rapporto con il contesto urbanistico e il paesaggio sociale, le storie locali, la Memoria e le implicazioni conseguenti alle previsioni del Piano sociale di Zona. Raccogliendo le indicazioni dei presenti si è ritenuta poi opportuna la partecipazione all’importante evento di fine anno che proporrà Laboratori di progettazione partecipata su temi che pure sono stati trattati nel Ciclo dei Seminari. Promosso dall’Ambasciatore D’Auria, l’evento“Progettiamo il nostro sud”: ‐ potrà consentire al lavoro svolto dal Programma U Vicinanzo l’occasione per una continuità anche oltre la conclusione del Programma stesso, ‐ potrà consolidarne gli impegni. Ne potrà consegnare gli esiti alle Istituzioni che partecipano all’incontro, dalle Amministrazioni locali all’Assessorato alle Attività Produttive della Regione Basilicata.

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Soprattutto, si chiederà di sostenere, in quella Sede, il Progetto della Fattoria Sociale perché si consolidi come prodotto concreto.

Tecniche di ascolto di Carmine Cantisani Nella logica del funzionamento costruttivo del Programma U Vicinanzo, la comunicazione assume un aspetto determinante. Per educare i soggetti ad interagire in maniera chiara e significativa è stato necessario progettare e realizzare un intervento formativo con l’obiettivo di far acquisire alle diverse componenti della Rete gli aspetti basilari della Comunicazione: ‐ elementi che caratterizzano il processo comunicativo, ‐ parti che compongono la Comunicazione, ‐ metodi e strumenti da utilizzare per veicolare i messaggi, ‐ significato di ascolto, ‐ differenza tra ascoltare e udire. Il percorso formativo intrapreso ha indotto i soggetti a cercare, individuare e assimilare quei comportamenti comunicativi consapevoli da adottare nella relazione tra soggetti e gruppi delle Associazioni. Ogni componente con la propria soggettività è riuscito a : ‐ consapevolizzare meglio il processo comunicativo, ‐ sviluppare e migliorare le abilità comunicative, ‐ acquisire metodi e strumenti per attuare una Comunicazione di qualità nei rapporti interpersonali.

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II Ciclo dei Seminari

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LA PARTECIPAZIONE, SEMINARIO DI AVVIO L'analisi dei sistemi sociali deve passare in rassegna molteplici dimensioni (economica, politica, simbolico ‐ culturale, fisico‐ambientale), strettamente interconnesse in reti che hanno ampiezza locale, ma che ormai sono contemporaneamente anche planetarie. Lo scenario di riferimento è quello di sistemi complessi (urbano/rurale) che competono per mantenere la propria identità e per creare nuovi modelli di sviluppo in un ambiente che è in rapida trasformazione. Siamo convinti che urbano e rurale continueranno a giocare un ruolo fondamentale (nonostante le reciproche invasioni di campo) anche nel corso del XXI secolo, e che le politiche di territorio avranno sempre un peso significativo nel determinare la qualità della vita. Esistono nella tradizione capacità sperimentate, soluzioni che possano orientarne la corretta gestione e che ancora oggi siano riconoscibili nelle tracce ancora evidenti di Vicinanzo ?

La condivisione, il senso degli incontri La crisi dei nostri giorni ha dimostrato il fallimento di un modello di sviluppo che non tiene conto dell'utilizzo sociale delle risorse. Affascinati da una "modernità" che propone una idea di benessere a tutti i costi, abbiamo tralasciato la solidarietà e l'operosità sapiente delle relazioni. Capacità che, assimilate gradualmente, ci hanno consentito invece nel passato di convivere con il territorio e di ricavarne benefici. Gli stili di vita di una volta, che rappresentavano la più alta forma di identità culturale locale di una Comunità, possono tornare ancora utili? Il Ciclo di Seminari si è proposto di indagare nella Memoria delle gente per estrarne occasioni, conoscenze, capacità ancora presenti nella esperienza e nei ricordi, e che ancora oggi possano aiutarci a migliorare noi e la nostra maniera di vivere.

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Ci si è proposti dunque di apprendere insieme, ciascuno con le proprie conoscenze e lavorando sulle capacità che abbiamo. Una maniera diversa di guardare quello che c'è intorno a noi e di sperimentare nuove possibilità di relazioni. Il primo Seminario è stato l'occasione per impostare insieme il lavoro da svolgere, su un canovaccio che chiedeva di essere migliorato con il contributo di chiunque fosse disponibile a questa avventura articolata in più incontri. Si è contribuito dunque ad articolare insieme l’intero Ciclo conferman‐ done i Temi, individuandone sia le ragioni per l’approfondimento e le connessioni tra essi e sia la coerenza con l’obiettivo condiviso dal Programma. Discusso, concertato nella sua articolazione, il Calendario ha messo alla prova le diverse anime del partenariato, che però alla fine ha convenuto su una selezione delle opportunità che ha trovato d’accordo tutti. Le stesse sedi di incontro, secondo un principio di itineranza, sono state immaginate per “ascoltare” le diversità del territorio e favorire la messa in evidenza delle vocazioni. Si sono altresì individuate le partecipazioni esperte che potessero aiutare nel compito di rendere rigorosa l’investigazione. Agli esperti è stato chiesto di rapportare quest’ultima al contesto generale delle più recenti riflessioni, nelle sedi della ricerca, in merito agli argomenti da trattare. Perché l’insieme delle tracce locali avesse un senso anche nel contesto generale di una società come quella attuale, che è informata e consapevole di partecipare a vicende complesse e che sono avvertite ormai come comuni in gran parte del Mondo di oggi.

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AGRICOLTURA ED ECONOMIE CIVILI La crisi attuale propone la dimensione rurale di un vicinato allargato, oltre la famiglia, oltre il cortile. Suggerisce anche orizzonti che una volta appartenevano all'agricoltura “sociale”, caratterizzata da valori che sono sempre più attuali: la prospettiva di un benessere comune, il lavoro solidale, l'inclusione sociale. Si profila la possibilità di un ripensamento dell’agricoltura proprio per questo suo carattere trasversale e per il suo radicamento in principi di carattere etico oggi più che mai attuali. Proviamo a sperimentare, formulandola insieme, una ipotesi di lavoro concreto che contenga principi ancora attuali e nuove possibilità di economia sociale.

Agricolture civili e vicinato nel Mediterraneo di Alfonso Pascale Nulla accade nella sfera delle ricchezze che non riverberi in essa dalla sfera delle idee (Carlo Cattaneo).

Con l’espressione “agricoltura sociale” s’intende un fenomeno molto complesso, caratterizzato dall’intreccio di diversi settori e dalla presenza di differenti soggetti, competenze e modelli di gestione, che variano a seconda dei contesti territoriali, istituzionali e civili e delle risorse disponibili. L’agricoltura sociale ha molto a che fare con la virtù civile, che è un tratto del carattere di chi la pratica, una disposizione di lungo periodo, una buona abitudine o un habitus da coltivare nel tempo, e da rendere stabile, e che una volta acquisito produce frutti che sono frutti d’eccellenza. Dai primi studi del fenomeno in Italia e in Europa, l’agricoltura sociale si può definire come l’insieme di pratiche che producono beni relazionali inclusivi, mediante processi produttivi e beni relazionali propri dell’agricoltura e delle tradizioni civili di fraternità e mutuo aiuto del mondo rurale. La virtù civile di tali pratiche dipende dal raggiungimento di determinati

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beni che sono interni alle pratiche stesse. Beni non strumentali, quindi, poiché hanno a che fare con lo scopo intrinseco delle pratiche stesse. Beni che non sono definiti soggettivamente dall’individuo, ma da una Comunità. Le pratiche si “ricevono”, dunque, da una storia e da una tradizione, che è eccedente rispetto al consenso dei singoli membri di una Comunità, e si inseriscono in nuove forme di gestione dei Beni Comuni. E’ per questo che la pluralità delle pratiche ‐ con cui l’agricoltura sociale si manifesta ‐ arricchisce e caratterizza le reti di economie civili, che tutelano le risorse naturali e valorizzano il paesaggio, il patrimonio culturale dei luoghi e le capacità creative dei soggetti che operano nei territori rurali e periurbani. Il Mediterraneo come spazio‐mondo Il Mediterraneo è uno spazio dove storicamente si sono consolidate tradizioni civili di fraternità e mutuo aiuto legate all’agricoltura e al mondo rurale. Fernand Braudel riteneva che la mediterraneità in sé non esiste perché il Mediterraneo non è un’unità ma un “incontro”, una “relazione”, una “pluralità di elementi eterogenei”, un luogo di scambio e di collegamento (Braudel, 1986). Non è una civiltà “ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre” (Braudel, 1992). Il Mediterraneo si è sempre concepito come il nodo di una rete che si estende all’infinito, uno spazio‐mondo che si dilata progressivamente, un mondo di nuovi venuti che finisce per accogliere e far propria qualsiasi cosa, come se da sempre fosse stata sua. Autenticamente mediterranei si diranno perciò gli uomini che, avendo compreso questo gioco e le sue regole, “assimilano tutto da tutti, per poi rimanipolarlo a modo loro” (Braudel, 1992). Ciò che appare “tipicamente” mediterraneo, nelle popolazioni umane come pure nelle piante, si rivela spesso un intruso relativamente recente e ben acclimatato.

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Nel Mediterraneo non si vive mai in un luogo da soli, ma in gruppo, quali che siano le dimensioni e la ricchezza di quest’ultimo. Un migliaio di uomini che vivano poveramente del lavoro della terra e dello scambio dei suoi prodotti è sufficiente, nel Mediterraneo, a costituire una città. Anche un borgo modesto si presenta come un microcosmo urbano, nel quale tutta la vita sociale è organizzata in funzione del gruppo. Sono rimasti disperatamente vuoti i villaggi di colonizzazione creati con la riforma agraria nel cuore della Sicilia e della Basilicata interna al fine di strappare i contadini dalle agrocittà, simbolo della forza d’inerzia del latifondo, e di legarli alle terre loro distribuite. “Non basta una casa in mezzo ai campi per fare un podere” (Insor, 1979) La moderna urbanistica è nata nel Mediterraneo, nella Grecia del V secolo, con Ippodamo di Mileto inventore delle piante a scacchiera. Sia i greci che i romani portavano dovunque arrivavano il proprio modello urbanistico. Lo spazio pubblico della città, dove l’uomo è tenuto ad apparire, fruisce di una duplice definizione: ‐ l’una lo differenzia rispetto alla casa, luogo del riposo e del sonno, ma spazio chiuso, privato, femminile, difeso e da difendere, ‐ l’altra rispetto al “paese piatto”, al “paese vuoto” della campagna, spazio aperto, ma luogo del lavoro e della natura. Si impone come lo spazio dell’azione senza lavoro: luogo del rituale e della festa, del gesto e dello spettacolo, dei piaceri e dei giochi. Il vero centro sociale è situato nella piazza dove sfocia tutta la circolazione confusa e caotica delle viuzze. Una piazza per ogni quartiere, per ogni comunità etnica o religiosa. Una piazza per ogni funzione, dal mercato al culto all’assemblea: ‐ una piazza dalle dimensioni di una strada – un “corso” – lungo la quale si allineano le case dei ricchi e le botteghe di lusso e dove sfilano processioni e cortei, ‐ a ogni piazza, infine, la sua coloritura, aristocratica o popolare.

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Anche nel più piccolo borgo è sempre sufficiente uno spazio, anche di modeste proporzioni, vicino alla chiesa o al municipio, con un caffè e qualche albero e un po’ d’ombra, perché gli uomini vi si ritrovino tra loro e diano vita alla piazza. “Molto più che al clima, alla geologia e al rilievo il Mediterraneo deve la propria unità a una rete di città e di borghi precocemente costituita e notevolmente tenace: è intorno ad essa che si è formato lo spazio mediterraneo, che ne è animato e ne riceve vita. Non sono le città a nascere dalla campagna: è la campagna a nascere dalle città, che è appena sufficiente ad alimentare” (Braudel, 1992).

Attraverso le città si proietta sul territorio un modello di organizzazione sociale e attraverso le reti di città e di borghi i mercati si ampliano e, coi mercati, l’idea stessa di vicinato supera ogni frontiera. Il vicinato come adempimento dei doveri verso gli altri L’idea di vicinato ha a che fare con la reciprocità. Nel senso comune “avere rapporti di buon vicinato” significa stabilire una reciprocità di diritti e doveri tra persone che abitano terre o case contigue. Nel poema “Le Opere e i Giorni”, Esiodo esorta gli agricoltori a coltivare i doveri di vicinato: “Fatti ben misurare dal vicino ciò che ti occorre, e restituiscigli la stessa misura e anche di più, se lo puoi, avendone in futuro ancora bisogno, tu lo ritrovi pronto” (Esiodo, 1983). “Vicìnia” e “vicinanza” sono i termini con cui nelle aree alpine si denominano le terre collettive, le Comunità, le Università agrarie. Il termine “vicinanza” è usato da Boccaccio per indicare “la gente che abita nel proprio rione”. L’idea di “molto vicino” si rende con il termine “prossimo”. Il vicinato è la prossimità. I recenti fenomeni di smaterializzazione e a‐territorialità, indotti dalla globalizzazione, ci hanno fatto perdere il senso del luogo. Occorre riscoprire il senso del Genius Loci, inteso come il ”terzo termine” che sta tra me e il paesaggio che contemplo e che mi contempla, una sorta

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di ”terzo paesaggio”, una costruzione mentale e culturale che definisce la mia identità. Ma senza feticizzare le radici e blindare la comunità contro lo straniero perché l'identità si riconosce nell'alterità, e l'ospitalità è più antica di ogni frontiera. Il Genius Loci è un “memento” essenziale: “ricorda a un mondo frenetico e smemorato come quello odierno che l'uomo è un albero che si sprigiona, al modo di una fiamma, in due sensi. Ha bisogno di cielo, di aria, di orizzonti e di paesaggi e nello stesso tempo deve mettere le radici nel profondo della terra, succhiarne i liquidi vitali, garantirsi così la sopravvivenza e la creatività” (Ferrarotti, 2009).

Identità è, dunque, alterità e rovesciamento della prossimità. Nelle culture del Mediterraneo l’idea di vicinato e di prossimità non ha, infatti, a che fare con la geografia ma coi doveri di reciprocità nei confronti degli altri. La parabola del samaritano A questa idea di vicinato e di prossimità ricorre il Premio Nobel per l’economia, Amartya Sen per fuoriuscire dalla dimensione nazionale e affrontare i problemi della giustizia nella dimensione globale. Egli ha bisogno di superare l’idea di mutuo vantaggio, che non spiega molte azioni che le persone compiono. Noi siamo legati gli uni agli altri da tanti fattori: la letteratura, la musica, le arti, il teatro, la religione, le cure sanitarie, la politica, l’informazione e altro ancora. E tali elementi legano le persone ovunque esse si trovino nel mondo senza che vi sia necessariamente una strumentalità nella relazione. Sia l’idea di equità che quella di imparzialità hanno bisogno di una nuova idea di prossimità non legata alla vicinanza geografica. Ed è in questo ambito che Sen prende come testo di riferimento – da un versante prettamente filosofico – la parabola evangelica del samaritano per fondare un’idea di prossimità nella teoria democratica (Sen, 2010) . Normalmente la prossimità – come del resto la fraternità ‐ è stata intesa

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come prossimità geografica, etnica, affettiva, culturale: si deve amare il nostro prossimo, e quindi si ama di più …. il più prossimo rispetto al meno prossimo. Ma questa idea di prossimità cozza con il bisogno di imparzialità e universalità necessaria ad una corretta visione della giustizia, che deve estendersi ben oltre i confini geografici ed etnici. Nel racconto evangelico il prossimo dell’uomo imbattutosi nei briganti sarà alla fine il Samaritano, e non il Levita o il Sacerdote, due persone espressioni di prossimità legate alla vicinanza, alla religione, all’etnia. Il Samaritano diventa prossimo, per Gesù, perché si prende cura di quell’uomo vittima, e quel Samaritano è un prossimo nuovo poiché va oltre tutte le altre classiche prossimità (i Samaritani erano un popolo diverso e nemico di Israele), oltre ovviamente l’idea di mutuo vantaggio. Gesù chiede allo Scriba di rispondere su chi fosse stato in quel contesto il prossimo dell’uomo ferito, e questi risponde: colui che lo ha aiutato. E quello era esattamente ciò che Gesù voleva dire. Il dovere verso i prossimi non è confinato soltanto a coloro che vivono accanto a noi. La maggior parte dei commenti al Samaritano del Vangelo di Luca trae dalla parabola una generica indicazione morale per la sollecitudine universale, senza soffermarsi sulla critica che questa esprime alla prossimità circoscritta, che è il cuore del racconto. La prossimità come paradigma dell’agricoltura mediterranea L’agricoltura mediterranea è fortemente legata alla dimensione della prossimità, sia nell’accezione di Genius loci che di rete proiettata verso l’economia‐mondo. Il termine “agricoltura” deriva dal latino “agri‐cultura”. L’agricoltura è l’arte di coltivare la terra. Per i popoli mediterranei la “terra” non è solo lo spazio intorno ad un centro abitato, ma è il borgo o la contrada in cui i contadini scambiavano i propri prodotti e vendevano il proprio lavoro, da dove partivano la mattina per andare in campagna, ma dove rientravano la sera.

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Da noi la “terra” è il paese (da “pagus”, villaggio) dove usare e mantenere in vita le opportunità materiali, sociali e interpersonali del territorio. È lo spazio del coltivare, del costruire e dell’abitare senza distinguere l’urbano dal rurale. Nelle culture mediterranee la “terra” è insomma la Comunità che soddisfa i bisogni delle persone mediante le pratiche reciprocamente solidali e la cura dei beni di tutti. La civiltà materiale del Mediterraneo è fondata sull’economia del dono e del baratto, sull’insediamento urbano, sulla pluriattività (figure miste, lavori multipli) e sulle reti interpersonali di mutuo aiuto. Quando poi le attività economiche sono cresciute, si è formato il mercato. Un’economia di mercato paritaria, che, secondo la lezione di Fernand Braudel, precede il capitalismo. Esso si struttura, infatti, non tanto sullo scambio ma sull’accumulazione. E questo passaggio avviene quando nascono le grandi città e gli Stati nazionali. In origine il mercato è società civile che si autorganizza sulla base dello scambio. La moneta non è merce ma unità di conto e strumento di scambio e i mercati finanziari svolgono un ruolo di servizio negli scambi commerciali. Le fiere di cambio nascono in Italia nel XII secolo ma raggiungono il livello di attività più intensa nel 1500. Esse operano sulla base della lettera di cambio, una “trovata” italiana che rivoluziona le transazioni commerciali. E il tutto è organizzato in forme che si possono definire cooperativistiche. Un sistema finanziario sovranazionale che funziona perfettamente. L’agricoltura mediterranea è un modo di vivere e, al tempo stesso, un’attività economica che produce “beni relazionali”. I beni relazionali nella teoria economica Solo da qualche anno, alcuni economisti hanno incominciato a definire i beni relazionali.

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Questi sono prodotti intangibili di natura comunicativa e affettiva, generati attraverso le interazioni tra gli individui. Si possono, dunque, possedere solo attraverso intese reciproche. Luigino Bruni ha individuato alcune caratteristiche‐base di un bene relazionale (Bruni, 2012): • identità – non è mai anonimo e indipendente dal volto dell’altro, • reciprocità ‐ non può essere né prodotto né consumato né investito da un solo individuo, ma solo se condiviso nella reciprocità, • simultaneità ‐ viene co‐prodotto e co‐consumato simultaneamente dai soggetti coinvolti, • gratuità – la relazione che emerge è vissuta in quanto bene in sé, non usata per altro. Non è un incontro di interessi ma un incontro di gratuità, • bene – un modo sintetico per dire cosa sia un bene relazionale è insistere sul sostantivo. E’ un bene e non è una merce. Ha un valore (perché soddisfa un bisogno) ma non ha un prezzo di mercato, • bene di legame – le persone che lo pro‐sumano (producono e consumano assieme) entrano in una relazione che le rende dipendenti le une dalle altre, oggettivamente. Si tratta di beni fondamentali nella nuova era dei Beni Comuni, che sono beni utilizzati da tanti contemporaneamente (ad es.: la terra) o da tutti (ad es.: lo strato di ozono). Nelle società preindustriali i beni relazionali e gli altri Beni Comuni erano spontaneamente percepiti come beni interagenti tra di loro, sulla base di usi e consuetudini che le comunità potevano imporre autoritariamente agli individui in mancanza di libertà individuali. Se si vanno a leggere gli statuti degli enti che gestivano le terre collettive, si può osservare quanto questi antichi ordinamenti avessero a cuore la difesa e la cura del territorio: dalla manutenzione delle strade di campagna alla bruciatura delle stoppie, dall’incanalamento delle acque piovane e dilavanti alla predisposizione delle golene dei fiumi e dei torrenti per poterle coltivare, a volte a rotazione, ad ortaggi. Oggi, la tutela dei Beni Comuni va conciliata con le libertà individuali

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attraverso modalità che non possono essere solo autoritative. E anche qualora si volesse ricorrere a norme legali, la dimensione globale entro cui necessariamente salvaguardare taluni Beni Comuni sarebbe un grave ostacolo in mancanza di istituzioni globali: è questa la novità rispetto al passato! E dunque diventa una grande opportunità, ai fini della tutela dei Beni Comuni, che i beni relazionali emergano spontaneamente nello scambio di mercato e lo inciviliscano ulteriormente. Riprodurre i beni relazionali è, dunque, la condizione per salvaguardare tutti i Beni Comuni. E questa connessione è frutto di un continuo processo di incivilimento. Agricolture civili: ossimoro o complementarità? Quando mi capita di adoperare l’espressione civiltà contadina noto nella maggior parte dei miei interlocutori una reazione di sorpresa, se non proprio di commiserazione. La cultura contadina non è stata mai identificata dalle élite intellettuali del nostro Paese come una cultura portatrice di valori e pratiche capaci di contribuire a realizzare livelli sempre più ampi di civiltà. Del resto, nell’uso corrente il termine “civile” significa “cittadino” e si contrappone a “rurale” che significa “campagnolo”. Ma si usa anche come sinonimo di “educato” in contrapposizione a “villano” che significa “contadino”, “uomo di campagna”. Allo stesso modo del termine “cortese” che indica chi vive nelle corti in antitesi con “rustico” che connota invece gli abitanti della campagna. Insomma, nel senso comune “urbanità” e “cortesia” indicano “educazione”, “conoscenza”, mentre “inurbanità” sta per “inciviltà”, “ignoranza”. Se si considera, invece, la storia delle forme con cui si è edificata nel tempo la società civile e si valuta con attenzione il contributo offerto dalle campagne e dal ceto contadino al processo di incivilimento della società, si comprende quanto ingiusto e irritante sia lo stigma – perfino nel vocabolario ‐ inflitto dalle culture dominanti al ceto contadino. Basterebbe rammentare solo le pratiche solidali da sempre esercitate in

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modo del tutto informale nelle campagne ‐ come lo scambio di mano d’opera tra le famiglie agricole nei momenti di punta dei lavori aziendali, che sarà recepito nel nostro codice civile ‐ per rendersi conto che il mondo rurale ha costituito un grande serbatoio di tradizioni civili. A seconda delle regioni questa pratica collaborativa assume una denominazione diversa: la “prestarella” o anche l’”aiutarella” o ancora la “retenna”. E avviene in momenti particolari come la mietitura, la vendemmia, la raccolta delle olive e del cotone, che diventano anche occasioni di convivialità e d’incontro. Consuetudini siffatte sono presenti su tutto il territorio nazionale a testimonianza di un senso civico diffuso. Solo commentatori ignari della storia riguardante i Beni Comuni e le sue forme collettive di gestione possono dar credito alla vecchia leggenda secondo la quale la meglio strutturata società civile dell’Italia del Nord sia da attribuire alla remota esperienza dei Comuni medievali. Questa tesi, riesumata recentemente dal politologo americano Robert Putnam, vorrebbe dimostrare che i divaricati risultati conseguiti dalle attuali amministrazioni regionali dipenderebbero dalle differenziate tradizioni civiche della popolazione: in particolare, laddove sono esistiti i liberi Comuni si otterrebbero i migliori risultati e laddove, invece, sono proliferate istituzioni di tipo feudale si produrrebbero esperienze fallimentari (Putnam, 1993). Una tesi discutibile che ignora il grande patrimonio di tradizioni civiche che si è accumulato anche nelle fasi successive alla fragile e circoscritta esperienza comunale sia nel Nord che nel Sud, sia nelle città che nelle campagne. Una dimenticanza che è figlia degli stereotipi anticontadini e antimeridionali risalenti ad epoche lontane e sedimentatisi nel tempo. E’ stata, inoltre, del tutto rimossa l’esperienza dei movimenti religiosi nel Medioevo e poi nella modernità come fattori formidabili di innovazione sociale e civile in ambiti ben più complessi della sola dimensione di fede. S’ignorano esperienze straordinarie di umanesimo sociale come quella

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messa in atto dai monaci camaldolesi a Fonte Avellana, nelle Marche, dove per tre secoli consecutivi migliaia di contadini sperimentano la gestione collettiva di un’azienda di 3.700 ettari formatasi con donazioni e lasciti di famiglie del luogo (Brunetti, 2011). Non c’è memoria della funzione importante nell’invenzione e nella diffusione delle nuove tecniche agricole e delle nuove colture svolta non solo nell’Italia centro‐settentrionale, ma ancor più nell’Italia meridionale e in Sardegna, dalle grandi abbazie, specie benedettine, e dai centri monastici basiliani. Che avevano potuto più facilmente conservare la tradizione e i testi agronomici dell’antichità classica e beneficiare di più larghi contatti con il mondo bizantino ed orientale in genere. Eppure le tracce della presenza dei monaci greci sono ancora oggi visibili se osserviamo i santuari o cenobi, collocati in un raggruppamento di laure o grotte, i suggestivi riti religiosi che continuano ad essere celebrati nella contemporaneità, la tradizione gastronomica e fitoterapica che si conserva in molte realtà locali. Non a caso l’immaginario collettivo associa la tradizione monastica non solo a vicende di penitenza e di umiliazioni corporee, ma anche a storie di prodotti sani e gustosi, di cibi affettuosamente preparati, di saperi secolari che profumano di zuppe fumanti, di erbe medicinali, di salutari elisir, di formaggi squisiti. Si dimentica il ruolo propulsivo svolto dai Monti di pietà, dalle Confraternite, dalle Chiese ricettizie e dalle Misericordie: enti che gestivano enormi patrimoni fondiari regolati da statuti così minuziosamente rispettosi delle prerogative dei soci e dei principi mutualistici da farceli apparire quasi come fattorie sociali ante litteram. Le terre collettive Altre istituzioni promosse dalla società civile ma prive di un’ispirazione religiosa, sono gli enti associativi per la gestione dei beni demaniali di proprietà diretta delle popolazioni locali. Si tratta di una forma particolare di autorganizzazione delle popolazioni locali volta a garantire percorsi inclusivi dignitosi anche agli ultimi nella

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scala sociale. Costituiva infatti senso comune già in epoca medievale l’idea che ogni individuo dovesse avere accesso ad una quantità di risorse sufficiente a metterlo in grado di assolvere i suoi obblighi verso la Comunità nella lotta per la sopravvivenza. E pertanto le popolazioni avevano acquisito collettivamente sul loro territorio i domini civici, che esercitavano lavorando questi terreni per renderli coltivabili e fruttiferi. Sono antichi diritti e forme tradizionali di godimento collettivo che vengono variamente denominate: “associazioni degli antichi originari”, “cantoni”, “vicinìe”, “vicinanze”, “consorterie”, “consorzi”, “consortele”, “regole”, “interessenze”, “partecipanze”, “comunaglie”, “comunanze”, “università agrarie”. Nei territori dell’ex Regno di Napoli, nella Sicilia e nella Sardegna le terre di uso collettivo sono di proprietà comune della generalità dei cittadini del Comune o delle Frazioni che separatamente le amministrano e vengono denominati “demani comunali”. Gli enti che gestivano le terre collettive originariamente svolgevano non solo compiti di organizzazione degli spazi agricoli comuni per il soddisfacimento di bisogni primari, ma anche funzioni pubbliche, come pagare il medico e la levatrice oppure curare la manutenzione dei fiumi, delle strade e delle fontane. Non costituivano mai solo Comunità di proprietà, ma sempre comunità di vita. Oggi la funzione di queste comunità potrebbe essere rivitalizzata, adeguando le forme di utilizzo alla nuova realtà socio‐economica, ma guardando sempre al legame tra produzione di beni relazionali (solidarietà e mutuo aiuto) e tutela e valorizzazione dei Beni Comuni (terra, acqua, ecc.) e dunque all’interesse esclusivo della collettività (Bourbouze e Rubino, 1993). Le comunità intenzionali Nel Mediterraneo si sperimentano le prime “Comunità intenzionali”, cioè quei particolari gruppi di persone che scelgono di lavorare insieme con

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l’obiettivo di un ideale o una visione comune. La prima comunità intenzionale, documentata, è Homakoeion, fondata da Pitagora nel Sud dell’Italia intorno al 525 a.C. La Comunità, vegetariana, ha diverse centinaia di residenti, maschi e femmine, i cui beni vengono messi in comune. I suoi membri lavorano insieme e dividono i momenti dei pasti. Sullo stesso filone troviamo, a partire dal secondo secolo a.C., le Comunità essene. Lo storico Giuseppe Flavio considera gli Esseni una sorta di “pitagorici ebraici”. Essi vivono poco distanti dal Mar Morto e a queste Comunità si ispireranno i primi cristiani, organizzati nella Comunità Gerosolimitana, e successivamente i movimenti monastici. Nella seconda metà del Settecento si sperimentano anche in Italia alcuni modelli di vita “comunitari” che si richiamano alle teorie utopistiche di Charles Fourier. Il caso più noto è la colonia di San Leucio, fondata nel 1786 da Ferdinando IV di Borbone: un esperimento educativo, economico e sociale che produrrà i suoi effetti per oltre 150 anni (Bagnato, 1998). L’organizzazione della fabbrica per la lavorazione della seta sotto forma di colonia comunistica, le leggi che il sovrano detta nel 1789 per regolare la vita del falansterio, i meravigliosi tessuti che vengono prodotti, la fama europea che la realizzazione borbonica acquisita in poco tempo, fanno di San Leucio un luogo ideale di lavoro e di vita nell’immaginario collettivo. Nel 1790, un analogo esperimento viene tentato da un nobile veneto, Alvise Mocenigo, che ribattezza la sua terra dal proprio nome, Alvisopoli. Egli progetta un centro abitato dotato di servizi per rendere la comunità autosufficiente. Pertanto, alla tradizionale attività agricola tenta di affiancare il settore tessile. La campagna è così riorganizzata e bonificata, alternando aree asciutte a terreni umidi, regolamentati da un efficiente sistema di canali tuttora

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funzionante. Per quanto riguarda l'urbanistica, si costruiscono edifici ad uso residenziale (si possono ancora notare le basse casette dei contadini) e industriale (barchesse, risiera, fornace, mulino). A ciò si aggiungono le attività culturali, con la fondazione di una celebre tipografia. Un altro esperimento di colonia comunistica viene avviato alla fine del Settecento anche a Campomaggiore, un piccolo centro agricolo della Basilicata, dove l’architetto Giovanni Patturelli, allievo del Vanvitelli, aveva progettato su incarico del conte D’Errico un paese per sole 1600 persone con case disposte a scacchiera. Gli abitanti hanno tutti a disposizione un pezzo di terra con seminativi, un oliveto e una vigna e gestiscono in comune magazzini, frantoi e diversi servizi. E’ Patturelli ad aver progettato anche la colonia di S. Leucio. Ma nel 1885, una frana costringe la popolazione di Campomaggiore ad abbandonare il paese (Boenzi e Giura Longo, 1994). Conflitti tra famiglie borghesi e interessi speculativi sull’area dove si andrà a edificare il nuovo centro, rallentano la ricostruzione oltre i tempi ragionevoli, provocando l’inevitabile diaspora e l’esaurimento del sogno utopico dei fondatori. Nella seconda metà dell’Ottocento, le prime e più significative esperienze di cooperazione in Italia – a differenza di quanto avviene nei paesi nord‐ europei – nascono in agricoltura: si tratta delle cooperative di braccianti a Mantova e a Ravenna. Nel filone utopistico può anche essere inserita la celebre esperienza dei kibbutzim israeliani, il primo dei quali è creato a Degania nel 1909. Si tratta di una dimensione comunistica gestita coi criteri della democrazia diretta. La sua istituzione viene considerata come una reazione di rifiuto allo stile di vita e alla cultura dello Shtet, cioè del ghetto ebraico presente in numerose città europee e una ribellione contro le famiglie autoritarie.

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Lasciare la condizione di agiatezza per il deserto palestinese è la conseguenza di una scelta dettata non da una fede religiosa, ma da un’etica del lavoro atea e socialista non imposta, ma liberamente scelta. I primi insediamenti ebraici in Palestina, all’inizio del Novecento, sono realizzati dai settler, coloni, mediante l’acquisto di terreni dagli arabi, su cui vengono costruite le case di abitazione e le aziende di produzione, in primo luogo agricole. Il modello di vita di un kibbutz è puramente socialista: i beni sono comuni, la comunità provvede ai bisogni dei suoi membri, i quali lavorano per il kibbutz ognuno secondo le proprie capacità ed inclinazioni. Ancora oggi il motto è: “Da ognuno secondo le proprie possibilità, ad ognuno secondo i propri bisogni”. Un’altra esperienza comunitaria con un chiaro intento educativo è quella di Nomadelfia, una comunità fondata da don Zeno Saltini nel 1947 nell’ex campo di concentramento di Fossoli, in Emilia. Successivamente il gruppo si sposta nella Maremma toscana, a dieci chilometri da Grosseto. Nel 1954 sorge in questo luogo una città con una propria Costituzione fondata sulla fraternità cristiana vissuta in forma comunitaria e solidale. Le famiglie non vivono isolate ma in gruppi familiari di circa trenta persone. Per evitare che il gruppo familiare diventi a sua volta un centro di egoismo, per essere disponibili a vivere con tutti e a distaccarsi dalle cose, ogni tre anni la presidenza scioglie i gruppi e li ricompone con altre famiglie. Ciascun nucleo familiare, naturalmente, rimane sempre unito e porta con sé soltanto gli effetti personali. In ciascun gruppo ci sono assistenti e allievi della scuola agraria, falegnami, muratori, meccanici, sarti, calzolai, magliaie in modo da essere autosufficienti per la lavorazione della terra, la cura del bestiame, la costruzione e la manutenzione delle case e dei mobili, la confezione e la riparazione degli indumenti e di tutto quello di cui può sorgere necessità. Nel 1968 i Nomadelfi ottengono dal Ministero della Pubblica Istruzione

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l’autorizzazione di istruire i propri figli all’interno della Comunità sotto la loro diretta responsabilità. Nasce così la “scuola familiare” che è anche vivente e di popolo: • familiare perché sono i genitori a dare l’istruzione necessaria ai bambini, • vivente perché ogni momento della vita è Scuola, • di popolo perché tutta la comunità è responsabile dell’educazione e dell’istruzione dei fanciulli. Sull’onda del ‘68, ai filoni religioso e utopistico si aggiunge quello esistenzialista: sono le Comuni, fortemente caratterizzate dalla scolarizzazione di massa e dalla critica antiautoritaria. La ruralità contemporanea Le pratiche di Agricoltura Sociale più diffuse in Italia si inseriscono nel più vasto fenomeno della nuova ruralità, che dagli anni Settanta ha incrociato la crisi del modello fordista dell’economia e la crisi del modello di Welfare State. La nuova ruralità mediterranea, a differenza di quella continentale prevalentemente conservazionistica e ricreativa, si pone in continuità con una tradizione che si caratterizza per una maggiore integrazione tra città e campagne, nonché per una diffusa presenza della pluriattività e dell’economia informale. Essa non si manifesta come “nostalgia del mondo rurale”, ma come un insieme di attività in più settori svolte da soggetti sociali di diverse estrazioni e provenienze, legate tra loro da relazioni di tipo collaborativo. Questa nuova ruralità è visibile osservando alcuni fenomeni nuovi nelle relazioni tra città e campagne: la rurbanizzazione, i consumAttori e le Comunità di cibo. La rurbanizzazione E’ un fenomeno che riguarda sia lo spostamento di singoli individui e gruppi dalle città verso le aree periurbane e rurali alla ricerca di stili di vita e forme dell’abitare meno stressanti e più sostenibili, sia la crescita di attività agricole e rurali meno industrializzate e più legate a logiche di competizione di tipo cooperativo.

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Le esperienze più significative di Agricoltura Sociale sono nate, sin dalla seconda metà degli anni Settanta, in tale contesto (Bagnato, 1984). Nell’ambito della rurbanizzazione, i nuovi soggetti riproducono, in forme moderne, alcuni tratti dell’economia preindustriale. Questi “neo‐contadini” hanno come obiettivo non tanto quello di produrre cibo in sé, ma di produrlo in un certo modo, per ottenere dei Beni Comuni capaci di soddisfare nuovi bisogni collettivi. Si opera una sorta di capovolgimento dei mezzi in fini, per ristabilire un ordine di priorità che si era smarrito con la modernizzazione agricola. E’ l’uomo coi suoi bisogni e le sue aspirazioni più profonde e sono i Beni Comuni, relazionali e ambientali, i fini delle attività economiche, mentre il processo produttivo, il prodotto e la sua scambiabilità sono soltanto i mezzi per perseguirli. I consumAttori Sono una particolare tipologia di consumatori che vogliono essere partecipi del progetto con cui si crea il prodotto agricolo e non semplicemente spettatori passivi nel teatro del marketing. Vogliono essere co‐protagonisti che interagiscono coi produttori. Essi non si limitano a informarsi sui diversi prodotti, guardare l’etichetta e acquistare passivamente il bene in qualunque punto vendita. Vogliono, invece, partecipare attivamente al rapporto di scambio, dopo essersi aggregati, anche informalmente, in gruppi di acquisto. Fino a qualche tempo fa, gli scopi prevalenti di tali aggregazioni riguardavano la ricerca del rapporto diretto produttore/consumatore e della genuinità dei prodotti. Ultimamente si è aggiunta una nuova finalità specie in quei gruppi sociali sensibili ai bisogni delle persone svantaggiate. Questi consumAttori sociali intendono sostenere direttamente i sistemi di Welfare, mediante l’acquisto di prodotti delle fattorie sociali e i percorsi partecipativi che si attivano nell’ambito dei progetti di Agricoltura Sociale e delle reti di economie civili.

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Le Comunità di cibo Le comunità di cibo si creano intorno alla cultura del cibo e sono costituite dai farmer’s market, dagli hobby farmer’s, dalle reti di fattorie sociali e di orti urbani e dai presidi di prodotti tradizionali. Esse non dovrebbero, tuttavia, chiudersi in una logica di autosufficienza ma agire sempre in una dimensione globale, costruendo reti sempre più ampie, che coinvolgano filiere alimentari civili interessate a muoversi in un’ottica cooperativa. Una delle idee fondanti delle comunità di cibo è che piacere e salute non vanno intesi in modo conflittuale ma nel segno dell’alleanza e del reciproco vantaggio. La diffusione dell’Agricoltura Sociale sta contribuendo ad integrare il binomio “piacere/salute” con un nuovo ingrediente: l’inclusività. L’alternativa fra cibo slow e cibo fast è spesso intesa in termini di tempo, di ritmo: lentezza contro velocità. E’ un’interpretazione fuorviante perché la differenza sta piuttosto nella propensione (o, viceversa, nel disinteresse) a preparare, offrire e gustare il cibo con cura. Questo richiede tempo, ma non necessariamente molto. Richiede piuttosto attenzione: alla scelta degli ingredienti, ai modi di cottura, alla successione dei sapori, alle forme di presentazione, alla scelta della compagnia con cui condividere il cibo. Ciò che va superata è la cultura della distrazione verso il cibo. E il modo per recuperare una cultura dell’attenzione al cibo, a questo atto fondamentale della nostra vita, è quello di accompagnarlo con l’attenzione verso l’altro: la convivialità, che è poi un aspetto della cultura del vicinato e della prossimità. Le attività di Agricoltura Sociale Le pratiche di Agricoltura Sociale riguardano una serie di attività che si possono racchiudere in tre ambiti principali. Il primo ambito attiene alle attività in cui persone con disagi o svantaggi danno un significato alla propria vita e un senso alle proprie capacità mediante l’attività agricola.

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Lo scopo di tali attività è quello di promuovere l’inclusione sociale e lavorativa, intesa sia come inserimento lavorativo vero e proprio (remunerato dall’impresa), sia come percorso di auto‐realizzazione delle capacità in un contesto imprenditoriale e lavorativo non assistenziale, mediante forme di sostegno inclusivo. I soggetti svantaggiati che vengono inclusi sono di vario tipo: invalidi fisici, psichici e sensoriali, ex degenti di istituti psichiatrici, soggetti in trattamento psichiatrico, tossicodipendenti, alcolisti, minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare, condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione, ex detenuti, donne che hanno lasciato il lavoro per la difficoltà di conciliare i tempi di vita lavorativa e tempi di vita familiare, persone sole con figli a carico, donne che hanno subito violenze e maltrattamenti, disoccupati ultracinquantenni o di lungo periodo. Il secondo ambito di attività riguarda l’organizzazione – in collaborazione con strutture pubbliche ‐ di servizi terapeutici e riabilitativi, comprese l’onoterapia, l’ippoterapia e l’ortoterapia. Il terzo ambito di attività concerne la fornitura di altri servizi sociali, quali quelli rivolti alla fascia di età prescolare (agrinido, agriasilo), le attività educative a minori in difficoltà, le attività con gli anziani e quelle di accoglienza e integrazione di migranti. Le forme di Agricoltura Sociale Le pratiche di Agricoltura Sociale presentano una pluralità di forme che non possono essere ricondotte ad un unico modello. Questa caratteristica dipende dal fatto che l’Agricoltura Sociale interagisce con più settori e più competenze e utilizza diverse combinazioni di risorse (Pascale, 2009). La molteplicità delle forme e dei modelli è una ricchezza che va salvaguardata, evitando ogni tentativo riduzionista e semplificatorio e lasciando, invece, quanto più possibile alla creatività dei soggetti protagonisti la capacità di sperimentare nuove e sempre più ricche modalità. La virtù civile di una pratica di Agricoltura Sociale non dipende dalla forma giuridica del soggetto che la realizza, ma dalle motivazioni degli operatori,

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dalla qualità del progetto e dalle ricadute di quest’ultimo sul territorio. Le principali forme di Agricoltura Sociale si possono distinguere in forme imprenditoriali e in forme di cittadinanza attiva. Le forme imprenditoriali L’imprenditore che realizza una pratica di Agricoltura Sociale è sempre un imprenditore civile che non agisce mai per mero profitto. Egli non intende la sua impresa semplicemente come una macchina per far soldi, ma come qualcosa che esprime la sua identità e la sua storia. Gli scopi che lo muovono sono ricchi e complessi: ‐ la volontà di lottare per ottenere un successo in quanto tale piuttosto che i frutti del successo, ‐ il piacere di osare e creare qualcosa che apporta un cambiamento nella società e nell’economia, ‐ la responsabilità di dare un apporto diretto alla promozione della giustizia, ‐ la gioia di donare qualcosa ad altri oltre il dovuto in una relazione di reciprocità incondizionata. Le imprese che realizzano pratiche di Agricoltura Sociale sono pertanto imprese civili e possono assumere le forme più varie: ‐ quella dell’impresa agricola for profit e a responsabilità sociale, ‐ quella della cooperativa agricola, ‐ quella della cooperativa sociale agricola o ancora quella dell’impresa sociale che svolge anche l’attività agricola. Le forme di cittadinanza attiva Sono pratiche che riguardano attività agricole e zootecniche effettuate in modo esclusivamente funzionali agli obiettivi del progetto di Agricoltura Sociale, benché siano svolte secondo le tecniche agronomiche correnti e nel rispetto delle normative di settore. Ma orientate all’autoconsumo e al rifornimento di reti consumeristiche di familiari e conoscenti. Queste forme racchiudono gli orti urbani; gli “orti sui tetti o pensili”; i centri ippici con finalità riabilitative e le asinerie; le attività di piccoli

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produttori non professionali (hobby farmer’s); le attività su terreni agricoli in luoghi di cura e riabilitazione, di detenzione (carceri), di accoglienza (comunità terapeutiche), che danno vita ad originali percorsi di benessere fisico e psichico. La sostenibilità economica di tali forme è ricercata nelle reti di economie civili. Oggi la moneta e la finanza hanno perduto l’originaria funzione di servizio negli scambi economici e sono parte esse stesse del mercato. Vi sono tentativi di ritorno allo spirito originario: le monete locali complementari e la finanza etica (finanza civile). Le nuove tecnologie informatiche permettono forme di baratto 2.0 che vanno oltre l’esperienza delle “banche del tempo”. Si potranno realizzare nel prossimo futuro vere e proprie monete virtuali. Si potranno offrire i propri prodotti e servizi on line scambiandoli con altri prodotti e servizi. Le forme di cittadinanza attiva non vanno, dunque, erroneamente considerate forme assistenzialistiche o parassitarie, ma combinazioni diversificate e originali di apporti lavorativi e professionali, motivazioni delle persone coinvolte e risorse inusuali del territorio. Le reti come nuovi mercati civili locali e globali Si tratta di creare mercati civili mediante l’utilizzo di varie forme di commercializzazione, quali la fornitura di Gruppi di Acquisto Solidale, la vendita diretta in azienda, la vendita on‐line, la partecipazione a mercati agricoli di vendita, la fornitura di mense collettive. La peculiarità di tali forme commerciali è che lo scambio economico di beni e servizi avviene sulla base di relazioni interpersonali, fondate sulla reciprocità e sulla cooperazione. Si tratta di organizzare in modo distinto, ma complementare, sia la domanda che l’offerta di beni e servizi prodotti da fattorie sociali e reti di economie civili, volti a soddisfare bisogni sociali e idealità altruistiche che permeano in modo diffuso la società civile. Rivitalizzare mercati locali è importante, ma occorre farlo sempre con

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dinamicità e in modo innovativo, soprattutto ora che, nei paesi emergenti, entrano in scena milioni di nuovi consumatori che stanno modificando la propria dieta alimentare. La lezione che ci viene dalla storia è di pensare il sistema alimentare non come una realtà semplice, dettata dalla “natura” dei luoghi, bensì come una costruzione complessa, legata ad una cultura, ad uno stile di vita che i popoli del Mediterraneo hanno imparato a condividere, a modificare, a contaminare, a creare giorno dopo giorno (Montanari, 2009). E’ forse questa modalità che noi dovremmo offrire alle altre parti del mondo come un percorso utile di confronto e integrazione delle diverse culture alimentari esistenti attualmente. La competitività da perseguire, sia a livello locale che globale, dovrebbe essere di tipo cooperativo. Si tratta di tornare all’economia di mercato che prende il meglio della civiltà materiale del Mediterraneo, a partire dalla capacità di produrre beni relazionali nell’economia‐mondo. Ecco una sfida per le comunità di cibo del futuro…!

Elicicoltura nel Lagonegrese: dall’allevamento pilota alla cooperazione contadina di Claudia Cantile Per elicicoltura si intende l’allevamento di tipi commestibili di chiocciole appartenenti alle specie Helix aspersa, Helix pomatia, Helix vermiculata. Si tratta di un’attività economica poco diffusa in Italia tanto che, secondo alcune stime, risulta essere soddisfatto appena il 10% del fabbisogno nazionale. Eppure raccogliere chiocciole dopo una giornata di pioggia e consumarle sottoforma di varie delizie gastronomiche che rispettino anche le giuste raccomandazioni nutrizionali, è una pratica diffusa anche nei nostri paesi, soprattutto al Sud Italia, dove però la possibilità di allevare le chiocciole è molto meno nota. Ma non per questo meno interessante.

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E l’elicicoltura diventa ancora più interessante quando ci si informa, si incontrano esperti in materia e matura la convinzione che questa attività è davvero riproducibile nel paese in cui si vive, magari in quei terreni che non sono più produttivi da anni perché attività agricole tradizionali non offrono una redditività adeguata. In realtà l’attività elicicola e, più in generale quella agricola, risultano essere ancora fattibili ad un’analisi più approfondita delle potenzialità che offre il nostro territorio, a cominciare dal recupero della tradizionale disponibilità di prossimità (nel senso di vicinato) che è stata, nel passato, caratteristica tipica del Lagonegrese. Così, dopo un’accurata analisi bibliografica del settore e la partecipazione a giornate tecniche presso l’Istituto Internazionale di Elicicoltura di Cherasco (CN) che da oltre quarant’anni si occupa del settore elicicolo, è maturato in me il pensiero di poter trasferire quanto appreso al mio Comune e all’intero areale del Lagonegrese. Con l’obiettivo ben preciso di avviare un “allevamento elicicolo a ciclo biologico” di tipo pilota per poi coinvolgere il maggior numero di concittadini in un’ottica di attività elicicola ad impostazione cooperativa. Nello specifico, l’allevamento a ciclo biologico si realizza su libero terreno e all’aperto, senza coperture o uso di protezione, in quanto l’attività diventa produttiva ed economica solamente se impostata con costi relativamente limitati e controllati. Questo metodo consiste nell’introdurre, in recinti delimitati da reti specifiche, chiocciole selezionate destinate ad accoppiarsi e a moltiplicarsi. Le chiocciole vengono allevate utilizzando esclusivamente alimentazione di tipo vegetale, seminata all’interno dei recinti ed irrigata a sufficienza per creare un ambiente sufficientemente umido allo sviluppo della chiocciola, costituita per oltre l’80% da acqua. L’intero ciclo, che va da maggio ad ottobre, permette quindi di raccogliere già entro il primo anno di avvio dell’attività le prime produzioni, a fronte di costi di impianto e gestione piuttosto contenuti. I canali di sbocco sono molteplici e spaziano dal settore del fresco a quello del conservato, passando anche per l’industria cosmetica.

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Punto di forza è rappresentato dalla possibilità di crearsi un’attività economica partendo da risorse di cui già si dispone. A cominciare dalla propria forza lavoro e quindi dal coinvolgimento di altri potenziali allevatori, che mettono in compartecipazione se stessi e le risorse di cui dispongono.in termini di terreni abbandonati, piccole attrezzature agricole spesso inutilizzate, know‐how agronomico dei propri familiari circa la coltivazione del fondo con colture frequentemente presenti nei nostri orti e assai appetite anche dalle chiocciole. Le analisi chimico‐fisiche realizzate qualche mese fa su campioni di terreno di proprietà che sorgono in due punti strategici (in termini di disponibilità di potenziali terreni attigui da adibire all’attività elicicola) del comune di Lauria, hanno fornito un risultato incoraggiante. Che si è ben presto tradotto nella messa a punto di un preciso piano esecutivo comprensivo di business plan dettagliato. Dall’analisi di quest’ultimo è emerso subito come gli allevamenti elicicoli possano concretamente tradursi in un’occasione lavorativa interessante, fornendo ricavi lordi annui di circa € 50.000/ha, con impianto a regime. Come per ogni attività, specie se agricola, è evidente che, in corso d’opera possano presentarsi degli episodi di insuccesso. Tuttavia un’accurata formazione dei futuri operatori presso l’impianto pilota unitamente ad una scrupolosa osservanza delle indicazioni agronomiche del piano esecutivo da parte degli stessi operatori, costituiscono senza dubbio solide premesse alla buona riuscita dell’attività. I futuri soci potranno difatti confrontarsi con le potenzialità che l’attività elicicola possiede, essendo essa un’attività innovativa per il nostro territorio ma già sperimentata e collaudata altrove e quindi con risultati prevedibili. Certamente l’elicicoltura è una proposta che deve sposarsi con un’idea di sviluppo che è quello del vivere rurale e dell’impiego di singoli nuclei familiari che lavorano il proprio terreno e che cooperano con i rispettivi “vicini” nella conduzione e gestione del fondo. L’attività elicicola diventa allora una forma di naturale sussidiarietà, tipica delle relazioni sociali e che, specie nell’ambito agricolo, ha da sempre

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consentito il mutuo aiuto nella dimensione del vicinato. Si tratta di una caratteristica tipica dell’areale del Lagonegrese, ancora presente nella memoria collettiva e che può e deve allargarsi coinvolgendo anche buona parte della popolazione di immigrati presenti nei nostri Comuni, eccellenti custodi delle buone pratiche agricole dei Paesi di provenienza. La pratica elicicola può così elevare il mutuo aiuto a esercizio di cittadinanza attiva, sostenendo le relazioni di Comunità con un autentico rinnovo che parte proprio dalla condivisione della coltivazione del fondo. Attraverso il coinvolgimento di donne e uomini, custodi da sempre di pratiche agronomiche e conoscenze sufficienti a condurre in larga parte un impianto elicicolo, l’elicicoltura diventa allora ancora più concreta nel nostro territorio. Contribuendo, tra l’altro, al mantenimento della sua salubrità in quanto l’attività elicicola non inquina, sottrae terreni all'incuria, agli incendi e agli allagamenti di corsi d'acqua, ed evita che gli stessi diventino ricettacolo di immondizia (ad esempio discariche abusive). Da non sottovalutare poi la possibilità di far avvicinare bambini e disabili alla conoscenza dell’attività agricola attraverso l’istituzione di Fattorie didattiche da realizzare in collaborazione con le scuole e le Associazioni sociali presenti sul territorio. È evidente che l’allevamento di chiocciole non ha le pretese di essere un volano di sviluppo per l’intero territorio, ma è una proposta concreta che può integrare il reddito di qualche decina di famiglie. Inoltre può recuperare beni inutilizzati (ad esempio attrezzature agricole inutilizzate) e, considerando le reali possibilità che la natura del luogo e la ricchezza privata possono realizzare, può puntare nel lungo termine anche sull’esportazione del prodotto semilavorato o finito. È evidente, comunque, che, trattandosi di un’attività agricola all'aperto quindi sotto la volta del cielo, è soggetta all’evolversi delle condizioni climatiche che possono comportare una mortalità dei riproduttori oltre il range statistico. All’area del Lagonegrese e, nello specifico del Comune di Lauria

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gioverebbe, in termini di attrattiva turistica ed economica, l’istituzione di una Sagra della chiocciola (sullo stampo di quella di Cherasco, di Borgo San Dalmazzo, etc.) per promuovere il prodotto “chiocciola” e richiamare l’attenzione sull’intero territorio in termini di strutture ricettive, ricreative, etc. Utile sarebbe anche la partecipazione a fiere e manifestazioni agricole con l’intento di promuovere il prodotto e valorizzare il territorio. In questo senso ritengo che l’elicicoltura, per sua natura “slow”, si contestualizzi nel momento di crisi economica con la disoccupazione giovanile e la continua emorragia di giovani lucani verso altre destinazioni che essa comporta. Puntando sulla qualità del prodotto, sull’autoimpiego nella propria Regione e, in definitiva, sull’auto‐determinazione e sul coinvolgimento dei miei concittadini.

Azione innovativa in contesti sociali: la Fattoria Sociale di Giuseppe Di Fazio

Il mondo agricolo, nella recente ottica di agricoltura multifunzionale e di sviluppo sostenibile delle aree rurali, sta scoprendo nuovi orizzonti per l'agricoltura sociale. Fioriscono esperienze che fanno uso delle risorse, consapevoli già nella tradizione locale, per far fronte al ripristino di valori etici nel campo agricolo. Come il benessere dei cittadini, il lavoro solidale, l'inclusione sociale. L'agricoltura, proprio per questo suo carattere trasversale e per il suo radicamento in princìpi di carattere etico può diventare il ponte tra le politiche agricole, sanitarie, sociali e formative. I principali ambiti di attività dell' agricoltura sociale sono: Socio‐sanitario: l'inserimento lavorativo di fasce svantaggiate (disabili, ex‐tossicodipendenti, ex‐carcerati, ecc.) Terapeutico: i servizi terapeutici e riabilitativi per determinate patologie

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Socio‐educativo: i servizi ricreativi ed educativi per bambini, studenti adulti e anziani (agrinido, centri diurni, ecc.) Il materiale al momento disponibile è reperibile nell'ambito del progetto "Promozione della cultura contadina" finanziato dal Mipaaf (Ministero delle Politiche Agricole, Ambientali e Forestali). Di recente risultano avviate numerose esperienze anche nella nostra Regione e in quelle vicine. Si tratta di un percorso, ormai condiviso, di confronto, di riflessione e di ricerca sui cambiamenti sociali e culturali nel mondo agricolo e rurale in genere. È l’idea alla base della proposta che proponiamo di costruire insieme. Se siamo d’accordo, naturalmente. I Partner di U Vicinanzo si dichiarano comunque intenzionati a proseguire anche dopo il completamento del Programma e sono disponibili a collaborare per l’eventuale prosieguo. Abbiamo immaginato un gruppo che, collaborando con le Istituzioni, si metta insieme con compiti di monitoraggio, di censimento di terreni e fabbricati agricoli pubblici per progetti da dedicare all'agricoltura responsabile. Ed anche una disponibilità di tecnici e volontari di competenze diverse per la progettazione di unità produttive, corsi di formazione e informazione per operatori sanitari, sociali ed agricoli. Intanto segnaliamo l’occasione offerta dalla disponibilità di terreni demaniali in Nemoli : Ipotesi di riutilizzo di terreni demaniali per finalità di agricoltura sociale Si evidenzia la disponibilità, nel territorio di Nemoli, di terreni pubblici coltivabili ad orto, e di una serra attrezzata. E vi è inoltre la disponibilità di tecnici agronomi (Istituto per l’Agricoltura e l’Ambiente di Lagonegro, ex Comunità Montana del Lagonegrese, ed anche Alsia, Azienda della Regione Basilicata con finalità di sperimentazione in agricoltura). È il contesto ideale nel quale abbiamo proposta la predisposizione,

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l’assistenza e l’attuazione pratica di un Progetto di Fattoria Sociale. Si tratta di 33 ettari di collina con edificio annesso. La gestione è affidata alla ex Comunità Montana e tramite questa, in convenzione, all’Istituto di Lagonegro. Più volte negli anni i soggetti istituzionalmente interessati hanno avanzato ipotesi di utilizzo sperimentale, oggi intendiamo cogliere l’opportunità per provocarne un interesse condiviso. L'ambizione è quella di coalizzarsi intorno al percorso che può creare nuove opportunità, facendo emergere l'esperienza dell'agricoltura sociale da un contesto di nicchia. E di trasformarla, nel tempo, in economia ad alto valore aggiunto: questa tipologia di agricoltura sociale mette insieme l'elemento della solidarietà con quello della ruralità, l’economia con il mercato solidale. Si propone anche di consolidare un Progetto, ormai avviato, di animazione territoriale e di collaborazione “con pari dignità” con il pubblico. Con una idea di sussidiarietà orientata alla costruzione di una rete tra le Istituzioni e il privato sociale, finalizzata all’utilizzo di risorse economiche locali, nazionali e comunitarie. Immaginiamo un Progetto che sia “luogo” di incontro e di scambio per tutte quelle esperienze di moderna socialità rurale. Esperienze che, prendendosi carico dei bisogni locali, puntino all'armonizzazione dell'uso delle risorse, interne ed esterne al Progetto stesso. Quando più Attori dell’ambito didattico, della ricerca, dell’economia e della politica attenta e del Terzo Settore in genere condividono la finalità di soddisfare le esigenze delle persone: • si creano nuovi stili collaborativi, • si riorganizza l'architettura sociale dei contesti • si apre il dialogo tra i territori rurali e i centri urbani.

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Il valore aggiunto: la terra che cura Sono ormai consolidati i risultati socio‐riabilitativi delle azioni di agricoltura sociale per molte patologie. Da diversi anni operatori e cooperative delle Fattorie sociali coniugano agricoltura e lavoro con diverse tipologie di fattorie sociali che vanno dalla riabilitazione e cura alla formazione e inserimento lavorativo, all'educazione di persone con disabilità e di minori migranti. Dal punto di vista della salute L'Orto‐terapia è una nuova terapia alternativa, capace di migliorare lo stato di salute degli individui, sia da un punto di vista prettamente organico che psicologico. Infatti i destinatari di tale progetto sono disabili o individui socialmente deboli. Impegno necessario: ‐ frequentazione per due volte alla settimana, dei laboratori di orto‐ terapia che vengono accompagnati e seguiti dagli operatori e dalle educatrici professionali che esercitano servizio lavorativo e volontario, ‐ integrazione con le Associazioni del Terzo settore del Lagonegrese, per iniziare. E poi complementarità con i servizi offerti dalle Amministrazioni pubbliche, dall’ASL, dalle Associazioni per disabili. È possibile l'attività di giardinaggio e di coltivazione di piante e ortaggi, attività che permettono la cura dell'ansia attraverso la stimolazione dei sensi del tatto, dell'olfatto e della vista. Anche la semplice frequentazione, nei casi più particolari, può dare beneficio. Sia dal punto di vista dell’incontro/condivisione degli spazi e delle attività, che per quello della contemplazione e dello stare nel verde. Tutti sappiamo quanto faccia bene una passeggiata nel bosco o in un parco, o in un giardino pubblico quando si è molto stressati e stanchi: la semplice visione degli alberi e dei colori dei fiori riesce a risollevare il morale anche ai malati, ai disabili, agli stressati.

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Ancora, chi si sente socialmente escluso può trovare occasione di rinnovata integrazione: anziani, disoccupati, stranieri, badanti, ecc.. Si comprende perciò come un rapporto attivo con la natura possa ulteriormente favorire le proprietà terapeutiche naturali dei luoghi “verdi”. Così come gli animali, utilizzati nella pet‐therapy, anche l’orto‐terapia lavora con un materiale “vivente” può curare particolari disabilità o il semplice disagio (stress, depressione, ansia, vecchiaia, tossico dipendenze, stato di detenzione ecc.). Grazie alla collaborazione di specialisti e volontari (tecnico agrario, operatori, educatrici) e già con i primi risultati pratici, gli utenti ritrovano fiducia nella propria capacità di far vivere, crescere e curare un essere vivente, e sviluppano un metodo di lavoro. Si concentrano sull’obiettivo da raggiungere, rappresentato dalla crescita della pianta. Un altro aspetto importante è che chi lavora in gruppo ha un'ulteriore opportunità di socializzare, eseguendo i vari metodi di coltivazione che va dalla preparazione del terreno alla semina, alla concimazione, alla cura con pulitura e annaffiatura. Ciascuno può trovare la tecnica a lui più congeniale. Del resto in agricoltura, tradizionalmente, anche i disabili trovavano un ruolo. Sostenere uno sforzo fisico, anche se limitato, è comunque fattore di stimolo sia psichico che fisico che giova ulteriormente su tutto il tono generale. L’osservazione e la comprensione dei cicli naturali, o la capacità di trasformare il paesaggio, la soddisfazione in occasione della crescita a vista, della raccolta dei primi ortaggi, sono grandi lezioni di vita e di autocompiacimento. L’individuo è veramente solo soltanto se si vede lasciato a se stesso. Il Laboratorio di Comunità, la Rete del Volontariato, U Vicinanzo, hanno prima di tutto la finalità di frullare insieme, come componenti essenziali,sia la voglia di essere utile, che la sperimentazione delle proprie possibilità, ed

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anche socialità e impegno puro, non necessariamente cioè legato all’utile finanziario. Lo stato attuale delle ricerche in materia può apparire incerto o poco scientifico, ma di sicuro l'orto‐terapia non ha controindicazioni, né effetti collaterali, per cui è senz'altro un ottimo rimedio di cura attraverso semplici modalità che hanno il pregio di essere naturali. Che fare Sistemazione delle aree disponibili (anche quelle incolte e abbandonate) attrezzandole per gli anziani e i disabili che vorranno partecipare al Progetto. Questo prevede che ci si prenda cura dei terreni coltivandoli secondo i dettami dell'agricoltura biologica, senza alcun uso, cioè, di diserbanti e sostanze chimiche. Con l’assistenza del personale della Scuola e degli specialisti dell’Alsia, e beneficiando delle esperienze che si vanno facendo anche in Basilicata. Un primo “orto sociale”, ad esempio, potrebbe essere suddiviso in una ventina di lotti, eventualmente illuminati attraverso sistemi di energia alternativa e perimetrati da staccionate di legno di castagno. Ai “neo‐coltivatori” che ne farebbero richiesta, potrebbe essere affidato un orto di circa cento metri quadri, e potrebbero coltivarlo con alberi di frutta e con verdure. Un lavoro sufficientemente duro, che verrà però ripagato in occasione della raccolta, quando frutta e verdura finirà sui banchi come mercato biologico, promosso attraverso il riferimento al“valore aggiunto” della particolare provenienza, e allo scopo sociale che c’è alla base. Già con i primi risultati si potrebbe pensare a piccole finalità economiche (rimborso spese e piccolo utile per autofinanziamento) e alla valorizzazione delle importanti finalità educative (ambiente, socialità, autosufficienza, auto sostenibilità nel tempo). Il Progetto potrebbe aiutare gli anziani e i disabili a combattere il senso di inutilità e di isolamento sostanziale, anche per quelli accolti nelle famiglie ed in qualche modo anch’essi “emarginati” nel ruolo di vecchi.

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Ed è anche una buona idea per riqualificare le aree incolte della Comunità, utilizzando i metodi di produzione biologica ed inserendo a margine del progetto una serie di iniziative, complementari. Come i programmi di educazione alimentare nelle scuole, il rispetto della natura ed altri tematismi in linea con gli ultimi orientamenti delle politiche ambientali. Non bisogna sottovalutare, infine, la possibilità di garantire di nuovo un presidio utile ad evitare il degrado idrogeologico di terreni, in generale di notevole estensione e da tempo privi di ogni manutenzione. Inoltre la possibilità di realizzare una Rete con gli orti dei Centri urbani e delle contrade della Valle attraverso la diffusione di un’idea di ortoterapia allargata ed anche di onoterapia, quest’ultimo in sintonia con l’allevamento di asini da qualche anno impiantato a Lauria. Attività che creerebbero intorno all’esperienza una disponibilità collettiva e che potrebbero avere anche un importante ruolo sociale. Oltre a lavorare per la ricostruzione della identità di Valle. E che potrebbero essere educative rispetto a regole di produzione e sobrietà… commerciale. Immaginiamo, ancora, la possibilità di integrazione con il G.A.S. (Gruppo di Acquisto Solidale), anch’esso di recente avviato nella Valle del Noce, che può essere un primo piccolo mercato per una produzione limitata, e può anche cominciare a realizzare economie locali e garanzie di qualità per chi acquista. Si può pensare anche ad offerte di servizi particolari, come quella di ospitare soggetti con disabilità mentali e psichiche, appoggiandosi alle strutture locali per l’ospitalità e l’alimentazione. Potrebbero partecipare ad un laboratorio formativo all’aperto, magari con esperienze stagionali connesse ai rituali tradizionali. Occasioni confinanti con l’ambito turistico che garantirebbero la frequentazione anche da parte di semplici “navigatori” delle tradizioni, che partecipando ad esperienze “culturali”, oltre a dedicarsi ad una serie di attività a stretto contatto con la natura, nello stesso tempo potrebbero contribuire al raggiungimento di un effettivo reinserimento sociale.

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In riferimento agli Orti didattici Rappresentano uno strumento di educazione ecologica in grado di riconnettere i bambini con le radici del cibo e della vita. Gli studenti, in un contesto che favorisce il benessere fisico e psicologico, attraverso le attività di semina, cura, raccolta e compostaggio apprendono i principi dell'educazione ambientale e alimentare, imparano a leggere in chiave ecologica le relazioni che legano i membri di una società e a prendersi cura del proprio territorio. Coltivare un orto in una Scuola significa, pertanto, assegnare ai valori, ai saperi e alla multifunzionalità dell'agricoltura contadina un ruolo centrale nella formazione di Comunità sostenibili. Se si crea un occasione che consenta di farlo in modo coordinato, diventa una opportunità preziosa.

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LE EREDITÀ DEL VICINATO Il richiamo ad una sobrietà sollecitata da più parti ripropone la rivisitazione di antiche pratiche sapienti, di un Patrimonio che oggi non riusciamo più a trasformare in Risorsa. È un Capitale sociale difficile da definire, ma che certamente comprende i seguenti elementi: fiducia, collaborazione, reti sociali, adesione a norme comportamentali condivise, sentimento, impegno e appartenenza. È una capacità che una volta acquisita da una Comunità resta annidata nei rapporti tra gruppi e all’interno di essi, e ne costituisce identità aperta, sociale e non esclusiva. Per realizzarsi richiede però partecipazione, impegno, relazioni di reciprocità, complementarità di interessi e orientamento verso un Progetto comune di progresso.

La civiltà è contadina

di Giusy Gazaneo

Anche se tanti luoghi comuni e l’ormai consolidato riferimento alla città come produttrice di civitas lo fanno sembrare un ossìmoro, una contraddizione in termini, in realtà è dalla campagna che è nata la civiltà così come la conosciamo oggi. Dagli altipiani della Mesopotamia alle valli della Basilicata, negli ultimi novemila anni abbiamo coltivata sempre la stessa idea di civiltà E da sempre questa si è caratterizzata per l’abbondanza di relazioni sociali, per la capacità di legami tra le persone, e tra queste ed il territorio. Ancora oggi dai dati statistici risulta che almeno metà della popolazione mondiale vive direttamente di campagna. Per non contare gli interessi enormi che nella terra hanno sempre più le organizzazioni dell’economia globalizzata. Le stesse multinazionali che investono sul nostro futuro acquistando sempre più terreni in ogni parte del Mondo ci ricordano, in fondo, che alla terra saremo ancora e sempre più legati.

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Naturalmente in modalità diverse, e con tecnologie sempre più moderne. E con un sempre più labile legame alle tecniche tradizionali, che sono colpevoli di ricordarci un recente passato di privazioni e di miserie. E’ comprensibile ed umano rimuovere i ricordi del dopoguerra, e lasciarsi andare alle promesse di un benessere che viene proposto insieme a un’idea di sviluppo senza limiti. Non dovremmo pero’ dimenticare i riferimenti che sono propri dell’agricoltura contadina: durabilità, autonomia, sostenibilità, qualità e dignità Sono valori dei quali dovremmo di nuovo appropriarci, e possiamo farlo attraverso : ‐ il controllo delle risorse, ‐ la salvaguardia del territorio, ‐ il recupero di saperi e tecniche consolidate, ‐ la costruzione di nuovi saperi e conoscenze, ‐ la costruzione di reti di relazioni, lo sviluppo di mercati locali, ‐ il recupero delle responsabilità che ci sono state espropriate, soprattutto nei confronti dei consumatori e dell’ambiente. C’è ancora un progresso possibile, equidistante sia dalla sbornia di finanza di questi decenni che dal ritorno a una vita antica di bisogni non risolti. E’ un progresso fatto di sviluppo rurale e locale, cioè plasmato dagli Attori locali. E’ moderno e multidimensionale, in quanto attraversa la dimensione tecnologica, economica, sociale, culturale, politica. E’ multi‐attore, è fatto di più livelli, ed è anche conflittuale. La consistenza attuale della Questione agraria è forse proprio caratterizzata dal distacco dall’agricoltura e dagli Attori che vi sono direttamente coinvolti, dal rifiuto di appartenere alla sua società, dal distacco nei confronti del patrimonio delle sue capacità e dei saperi tradizionali. La ruralità appare povera, scomoda, incivile, lontana dalle cattedrali della Terra promessa.

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Una condizione cioè dalla quale tenersi alla larga, un incubo da rimuovere. Sicuramente la crisi attuale ci avvicinerà di nuovo, nostro malgrado, ad una contadinità alla quale in fondo non possiamo sfuggire, perché è la nostra vera natura. Una idea di progresso che sia credibile non puo’ non tenerne conto, e dovrà necessariamente passare attraverso : ‐ una più alta qualità della vita rurale, ‐ una rinnovata capacità di costruire relazioni sociali, ‐ la costruzione di nuove occasioni di economia, sinergiche tra loro, ‐ la valorizzazione del territorio di appartenenza. E’ la condizione necessaria perchè nascano e si diffondano competenze e attività innovative, ed anche perché si realizzi una dimensione che sia di territorio anziché di paese, e che sia a scala di Valle, o di bio‐regione, come si usa dire oggi. Perché assuma, insomma, una estensione capace di rendere convenienti gli sforzi di chi decide di restare (o di tornare), e che mostri concretamente utile collaborare tra attività che possono esaltarsi a vicenda e, perché no, che insieme possano fronteggiare gli aspetti perversi della globalizzazione. Si tratta, in realtà, di mettere insieme le esperienze che si vanno già facendo anche nella Valle del Noce, ma che rischiano di rimanere isolati (e quindi a lungo andare perdenti), se perseguono una idea di autonomia che li spinge avanti da sole. Bisogna riprendere le pratiche virtuose di un Vicinato che era anche dimensione economica, oltre che sociale. Si tratta di creare “mercati civili” di collaborazione reciproca, mercati che operino sia nella dimensione locale, che nello stesso tempo nazionale e globale. Mediante l’utilizzo delle diverse forme di commercializzazione (vendita diretta, vendita on‐line, mercati agricoli di vendita, mense collettive, gruppi di acquisto solidale, etc..) nei quali lo scambio economico di beni e servizi avvenga sulla base di relazioni interpersonali, dirette e fondate sulla reciprocità e sulla cooperazione.

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Mercati dunque complementari e congiunti che rispondano sia alla domanda che all’offerta di beni e di servizi, e che intendano soddisfare anche ai bisogni sociali e alle idealità altruistiche che ormai permeano in modo diffuso tutta la società civile. Costruendo Reti territoriali ci si confronta (e si compete secondo principi di socialità) su come cooperare “dentro ” la Comunità e con altre Comunità e territori, uscendo dall’isterìa suicida della competizione di tutti contro tutti. Una co‐competizione che non è, tuttavia, in contrasto né con il merito, che deve comunque selezionare chi è più capace, né tantomeno con la necessità di contrastare qualsiasi iniziativa che rischi di impedire alle reti territoriali di crescere. ogni ingerenza potrà essere neutralizzata, semplicemente, da una sistema virtuoso di iniziative pensate “insieme”. Di qualunque natura essa sia, pubblica o privata, e che minacci di essere di ostacolo a un clima di competizione sana, Secondo Ivan Illich, il guru delle nuove economie, gli ideali verso cui tendere sono lo “strumento conviviale” e la “società conviviale”. E in effetti, come succedeva nel passato, per promuovere gli scambi di vicinato occorre un‘ affinità di interessi, piuttosto che misure legislative che li favoriscano. Occorre il piacere di mettersi insieme. Occorre partire dalla conoscenza di chi ci vive accanto. Avere la consapevolezza che si hanno problemi simili da risolvere, rende disponibili alla messa in comune del proprio “saper fare” (competenze tecnico‐pratiche di varia natura) o anche semplicemente il tempo da dedicare alla discussione. Va rilevato che gli scambi di vicinato, intesi in questo modo, sono legati all'economia del “dono”, e alla creazione di relazioni interpersonali. Già solo la creazione di relazioni sembra un buon motivo per promuovere scambi di vicinato a tutte le scale, da quella del cortile a quella del territorio. Probabilmente avere delle cose concrete da condividere o da fare insieme

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è un aspetto necessario per costruire nuove relazioni, che altrimenti non nascerebbero. O nascerebbero con più fatica. E tra un po’ non sarà neppure una scelta volontaria. Siamo consapevoli del fatto che non torneremo più ad una economia disinvolta come quella alla quale ci eravamo abituati …. abbiamo necessità di cambiare il nostro stile di vita. Dal passato non potrà venire certamente un modello da copiare, ma una sapienza consapevole, questo si. Una capacità di affrontare e risolvere i problemi di un contesto altrimenti ostile, possiamo re‐impararla. Questa è forse la vera lezione del Vicinanzo.

L’eredità del Vicinato tra Storia, Mito e nuove opportunità di Michele Iannuzzi Il vicinato, un'istituzione sociale di cui tanto si è parlato e si continua a parlare. Ogni volta che questa parola viene pronunciata pare però trasparire una certa nostalgia, quella tristezza che accompagna la perdita delle cose belle, un rimpianto, una malinconia. Da tempo condivido con altri studiosi l'idea che bisogna fare chiarezza sul vicinato e sono felice di poter avviare qui con voi, una riflessione su questo tema, all'interno di questo interessante laboratorio di idee denominato appunto "U' Vicinanzo". Ma cos'è il vicinato? Cosa s'intende ancora oggi quando parliamo di vicinato? Quale eredità ci lascia il vicinato? (Questa breve riflessione è debitrice di alcune suggestioni derivanti da Ariun Appaduraj, Modernità in polvere, Milano, Raffaele Cortina Editore, 2012. In particolare il Cap. 8, La produzione di località, pp. 229‐256).

Per un approfondimento sul vicinato si veda: Lidia De Rita, Il vicinato come gruppo, in "Centro sociale", II, N. 1, pp. 3‐10; I Sassi sotto inchiesta, in "Civiltà delle macchine", N. 2, pp.26‐32. Tullio Tentori, Matera: la

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"comunità" e il suo sistema di vita, in AA.VV. Matera 55, Edizioni Giannatelli, Matera, 1966, pp. 251‐303). Occorre subito chiarire che consultando un dizionario appuriamo che il termine assume almeno due significati, da un lato quello denotativo di insieme di persone le cui abitazioni sono vicine, dall'altro quello connotativo che rinvia all'insieme delle relazioni reciproche che interessano queste persone. Il vicinato, dunque, lungi dall'essere soltanto il contesto urbano in cui si colloca un'abitazione e uno spazio condiviso, è anche flusso e rete di relazione. È esperienza comune verificare quanto i due significati siano così strettamente connessi al punto che subito ci troviamo di fronte ad un interrogativo: è il luogo che contribuisce a creare le relazioni o sono le relazioni che creano un siffatto spazio ? Il vicinato però non è solo questo, e le problematiche che esso solleva non si risolvono certo soltanto nella risposta a questo interrogativo. Si tratta di una tematica complessa, che necessita ancora d'esser meglio indagata, attraverso l'analisi diacronica e sincronica della realtà, e ricostruita su base letteraria ma anche attraverso indagini rigorose, supportate da una pratica di documentazione continuativa ed estensiva, e in costante dialogo con una dimensione soggettiva e autobiografica ancora tutta da recuperare. Il vicinato cui ci riferiamo frequentemente come modello di riferimento è generalmente quello degli anni Cinquanta del Novecento, ancor vivo nei ricordi di alcuni e cristallizzato in certa produzione letteraria e folklorica. Se vogliamo approfondire le nostre ricerche ci imbattiamo però ben presto nelle prime difficoltà che ci fanno intravvedere quanto questo termine che appare tanto familiare e per molti versi anche rassicurante sia in realtà più complesso di quanto ci saremmo aspettati e di come alla familiarità del termine, all'uso e all'abuso, non corrispondano poi molte ricerche. Non ho certo la pretesa di poter offrire qui risposte definitive, intendo

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soltanto far emergere, muovendomi tra storia e mitizzazione, come e perché, la discussione sul vicinato possa ancora oggi essere importante e attuale. Nonostante si sia parlato molto e si continui tuttora a parlare di vicinato, come testimonia anche questo bel progetto di impegno sociale e civile, pochi sono gli studi scientifici, anzi, a fronte di molteplici citazioni. Un primo vero tentativo di affrontare in qualche modo la ricerca sul vicinato la psicologa Lidia De Rita che condusse un'indagine sul vicinato a Matera nei primi anni '50, quando i Sassi erano ancora del tutto abitati e vibranti di tensioni emotive e di vita. De Rita riscontrò che lo spiazzo sul quale affacciavano le varie abitazioni rappresentava il centro e il punto di convergenza sia fisico sia sociale per le varie famiglie, tra le quali si costituiva, per bisogni comuni, un rapporto di reciproco aiuto e controllo che creava generalmente solidarietà, ma non era esente da momenti di tensione e ostilità. Nella ricerca, pubblicata nel 1954, la studiosa metteva in luce le dinamiche relazionali del vicinato, adottando il metodo sociometrico elaborato da J. L. Moreno. L’indagine evidenziò che, mentre nei vicinati più evoluti da un punto di vista sociale si alternavano rapporti formali o di reciproca indifferenza ad altri di diffidenza, discrezione, riserbo, nei vicinati più poveri e più piccoli si manifestavano continuativamente tensioni esasperate. Del resto, sempre negli anni '50, l'antropologo americano Banfield nel corso di una ricerca sul campo condotta proprio in Lucania, elaborò il controverso concetto di familismo amorale che a prima vista e considerando il vicinato solo con gli occhi della memoria, sembra cozzare fortemente con la presunta idea di vicinato come spazio della gratuità, della reciprocità e dell'uguaglianza. Alla descrizione idilliaca del vicinato Banfield (Edward Banfield, Le basi morali di una civiltà arretrata, Bologna, Il Mulino, 2010, p.132) oppone, più pragmaticamente, i principi di un'etica utilitaristica nella quale i rapporti tra vicini sono funzionali a garantire la sopravvivenza e il sostegno della

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famiglia nei momenti di bisogno e difficoltà. Nella scarsa bibliografia sul tema, se si parla in modo particolare di vicinato proprio a proposito della situazione lucana, è probabilmente perché la Basilicata degli anni '50 è stata teatro di molteplici ricerche sulla cosiddetta civiltà contadina, nate sulla scia del successo mondiale del Cristo si è fermato ad Eboli di C. Levi. (Ferdinando Mirizzi, La Basilicata dopo Levi, laboratorio e centro propulsivo di studi demoetnoantropologici, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi della Basilicata», 2000, 10, pp. 177‐207).

Il vicinato è sembrato sempre, agli occhi dei tanti studiosi che giungevano qui da tutto il mondo, una speciale dimensione della dinamica della civiltà contadina, un sostegno cui aggrapparsi nella miseria economica e politico sociale. Tanto importante da doverne tener conto, quando si trattò di scegliere i criteri per costruire i nuovi borghi rurali per accogliere gli abitanti dei Sassi di Matera in seguito all'applicazione della legge n. 619 del 1952 per lo sgombero e il risanamento degli antichi rioni materani. (La legge fu promulgata il 17 maggio 1952 con il n. 619 e intitolata “Risanamento del rione Sassi nell’ambito del Comune di Matera”).

Agli architetti incaricati sembrò dunque fondamentale ispirarsi al vicinato e probabilmente parve loro sufficiente riprodurre in qualche modo alcune modalità insediative per riprodurre nei nuovi borghi le condizioni generali sufficienti a riattivare le dinamiche relazionali di vicinato cui attribuivano tanta importanza dal punto di vista sociale e antropologico. Probabilmente, al di là delle nobili intenzioni, non si accorsero che mentre con i loro progetti contribuivano ad alimentare il mito del vicinato, quel mondo che faceva da cornice e contesto a quelle relazioni che si sostanziavano nel vicinato stava venendo meno, così quella gente ebbe nuove case e una vita profondamente differente. (Per il rapporto vicinato nuovi borghi è significativo quanto sostiene F.G. Friedmann in Mirizzi, La Basilicata dopo Levi, 2000, p.185. La preoccupazione maggiore dei ricercatori era, per dichiarazione di Friedmann, "come costruire un insediamento nuovo in modo tale da migliorare le condizioni di vita degli abitanti, e in specie le condizioni igieniche, senza distruggere quelle forme di cultura che

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erano diffuse da secoli nei Sassi. Si veda inoltre Riccardo Musatti), I borghi residenziali Unrra Casas, in «Comunità», 13, 1952, pp. 44‐48).

Nell'attuale contesto storico, economico e sociale dominato dalla precarietà e dall'incertezza, è facile volgere lo sguardo al passato per ricercare efficaci modelli cui ispirare nuove dinamiche relazionali che possano in qualche modo contribuire a limitare la crisi economica, ma ancor più valoriale e relazionale che pare condannare inesorabilmente alla frammentarietà, all'isolamento, all'infelicità l'uomo contemporaneo. Come ogni volta che si volge lo sguardo al passato si corre il rischio che ciò che non è più appaia spesso migliore del presente e tra rimpianto e nostalgia emerge falsata la percezione di quella che pare quasi esser stata un'età dell'oro. Così un vecchio contadino degli anni '40 del Novecento, in un racconto riportato da Carlo Levi a proposito del periodo pre‐unitario, rievocava al nipote il bel tempo passato quando "un pezzo di pane non mancava a nessuno[…] il ben di Dio si perdeva e tutti quanti campavano almeno cent'anni”. (Carlo Levi, Il contadino e l'orologio, in "Quaderni ACI (Associazione Culturale Italiana)", 1,2, Torino, 1951).

Allo stesso modo ancora oggi se si parla di civiltà contadina, la memoria pare metter da parte gli stenti, le miserie, la subalternità e tratteggiare un orizzonte di semplicità, d'autenticità e libertà che poco ha a che fare con la realtà. Tuttavia questo, a ben vedere, fa emergere ciò che inconsciamente sappiamo mancarci nel mondo complesso in cui siamo immersi. E di quel mondo, della cosiddetta civiltà contadina, certo pare mancarci proprio quel complesso di relazioni che legavano al prossimo, al vicino, configurando la fitta rete di reciprocità e condivisione che sembra poter ancora alleviare quel senso di solitudine, di frammentarietà, di alienazione che ci assale mentre proviamo a orientarci nel complesso mondo globalizzato in cui il lontano ci pare vicino e il vicino lo sentiamo lontano. L'interesse per il vicinato è perciò a mio avviso sintomatico di quanto

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sentiamo mancare di più, nel nostro sistema di vita, di quel patrimonio così ricco e prezioso della nostra cultura tradizionale, ossia quelle dinamiche di relazione semplici e dirette che si sostanziavano in pratiche di reciprocità e condivisione all'interno di un solido orizzonte morale. La miseria, le difficoltà, la crisi della presenza che pur caratterizzavano quel contesto difficile paiono improvvisamente risolversi e scomparire per effetto della memoria, che sa operare tagli tanto selettivi e necessari quando sofisticatori del passato e ci porta a ri‐volere quanto ancora riteniamo necessario. Via, dunque, le difficoltà, le asprezze e le privazioni della vita del vicinato ed eccolo riapparire come quella piccola molecola dell'insediamento umano che in paesi e città si sostanziava in una fitta rete di rapporti tra individui e famiglie che condividevano non soltanto uno spazio ma interessi e sentimenti. Più attenzione mostriamo per questo importante vincolo sociale, come Tentori lo definisce, più mettiamo in evidenza le mancanze che avvertiamo nel sistema sociale di cui siamo parte e in cui siamo immersi. Il vicinato cui ci si continua a riferire è dunque, oltre che spazio urbano e vincolo di relazione, luogo di memoria e d'affezione e spazio d'interazione continuamente ricostruito attraverso ricordi e testimonianze. Così quando oggi guardiamo al vicinato lo facciamo spesso soltanto con gli occhi della memoria ed emerge la nostalgia, l'affezione, il rimpianto. Ciò se da un lato falsa l'idea di vicinato che ci siamo costruiti, dall'altro fa però affiorare proprio ciò che riteniamo possa mancarci di più di quel passato che intanto inconsapevoli contribuiamo a mitizzare. Necessità di andare oltre, di indagare attraverso la lettura in negativo della mitizzazione del vicinato, ciò che cerchiamo, ciò che più ci manca. Si può spiegare così, probabilmente, il grande successo del mondo dell'associazionismo e del volontariato negli ultimi decenni, e perché no, per certi versi, quello dei social network, come risposte d'opposizione e speranza allo smarrimento della globalità.

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Tentativi d'offrire risposte ad esigenze reali attraverso la creazione di località, come sostenuto da Appaduraj, attraverso reti di vicinato che rispondono ad esigenze condivise tra quanti si ritengono in qualche modo prossimi tra loro, al di là degli spazi fisici e dei luoghi topograficamente intesi, sfruttando anche gli spazi virtuali, sempre più disponibili, per mettere in comune idee e appartenenze, esperienze e progetti, per creare relazioni e costruire località. Forse così, proprio come avveniva nel vicinato, si rinuncia a parte della propria privacy, della propria sfera di riservatezza personale, ma si condividono conoscenze e relazioni e si sente così un po' meno soli e maggiormente in grado incidere in qualche maniera nei molteplici e complessi contesti in cui simultaneamente siamo chiamati ad muoverci. Offro queste riflessioni brevi e ancor bisognevoli di decantazione alla condivisione, nella logica della rete che sostanzia questo progetto, nella speranza che possano in qualche modo fornire un contributo per ulteriori approfondimenti nel tentativo di sollecitare ad una maggiore consapevolezza delle dinamiche sociali e culturali di cui siamo parte.

Azione innovativa in contesti sociali: il Distretto Solidale di Giuseppe Di Fazio “...Nell’Ottocento e nel Novecento le persone fraternizzavano e si auto‐organizzavano perché si riconoscevano in uguali condizioni e situazioni comuni, determinate dalle forme che andavano assumendo il capitalismo e lo Stato nazionale. Quelle appartenenze e le grandi ideologie che le sostenevano si sono frantumate. Oggi la condizione umana più diffusa è fatta di fragilità, precarietà, impoverimento e di emozioni come la paura … Solo se ci riconosceremo nella fragilità presente in ciascuno di noi e ci educheremo a guardare dentro di noi e a immedesimarci nelle attese e nelle speranze degli altri, potremo ricostituire i legami di Comunità.” (Bonomi, Borgna, 2011)

Ipotesi di lavoro Le reti di economie civili, a queste si fa riferimento, esprimono tutte le loro potenzialità quando: ‐ si creano le condizioni perché una pluralità di soggetti possano interagire, ‐ le persone abbiano voglia di “fare insieme”.

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Le Reti si formano per affinità elettive, e si occupano di far cooperare mondi diversi e cioè : ‐ aziende di settori diversi e complementari che adottino strategie di responsabilità sociale, ‐ raggruppamenti informali di mutuo aiuto, di cittadinanza attiva, oppure di comunità di cibo, ‐ persone che si riconoscano in una Comunità di interessi da soft‐ economy e di disponibilità sociale (consumAttori, hobby farmer’s, commercio solidale, ospitalità, cultura, arte), le Reti comprendono chiunque sia orientato alla frequentazione dello sport, dell’aria aperta e delle attività fondate sulla terapia omeopatica e sulla riscoperta della relazione tra uomo e animale, e comprendono anche gli ambiti Istituzionali preposti alla cura/gestione di : ‐ patrimoni civici e Beni Comuni, ‐ pratiche di valorizzazione di beni paesaggistici e architettonici, ‐ raggruppamenti formali di servizi ‐ sistemi della conoscenza ‐ sistemi degli spazi pubblici Che cosa sono i Distretti ? Dal Decreto Legislativo n° 228 del 2001: “….. Aree con un’identità storica e territoriale omogenea e dalla produzione di beni e servizi di particolare specificità coerenti con le tradizioni e le vocazioni naturali e territoriali ”.

E’ un sistema produttivo locale costituito da imprese in grado di interagire tra loro attuando una politica di diversificazione produttiva, di integrazione economica, sociale e di coesione nel rispetto della conservazione e riproduzione degli equilibri naturali. Ed è in grado di promuovere una qualità totale territoriale, con una forte vivibilità per i residenti, proponendosi come polo di attrazione per altre imprese e persone. Valorizza e rafforza l’identità del territorio, ma anche lo specializza, in quanto affina le intelligenze locali verso sperimentazioni ed applicazioni che concorrono ad ingigantire il Distretto stesso e a creare sinergie verso obiettivi comuni.

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Perché è opportuno ragionare sull’ipotesi di un Distretto Solidale nel Lagonegrese? L’evoluzione delle politiche di sviluppo dell’Unione Europea sono tali da incoraggiare progetti di questo tipo, in quanto un Distretto : ‐ può consentire uno sviluppo di territori rurali proprio come il Lagonegrese, ‐ promuove la conservazione dell’ambiente del paesaggio e la tutela dell’ambiente, da preservare in quanto fattori di promozione per il Distretto stesso, ‐ specializza alcuni beni e servizi, ‐ valorizza le risorse locali, la multidisciplinarietà e la intersettorialità, ‐ provoca il coinvolgimento degli Enti locali e delle parti sociali, ‐ rafforza le iniziative di programmazione del tipo “bottom up”. Inoltre, e non è poco, mette insieme le capacità più vive, ne stimola il confronto e la collaborazione, permette loro di condividere gli sforzi imprenditoriali e la ricerca di qualità, ambiti che da soli gli imprenditori locali, frammentati e separati, non potranno mai realizzare. Infine aggiunge ad un progetto di riscatto e di sostenibilità la componente sociale, che è alla base della scelta di chi ha deciso di rimanere sul proprio territorio. Che impegni comporta? Inizialmente non c’è alcun impegno immediato, niente di formale. Tuttalpiù si puo’ pensare ad un Protocollo, da sottoscrivere tra chi è interessato. Un Protocollo non lega formalmente, ma è un indice di interesse autentico per un’avventura da pensare insieme, calibrando le possibili complementarità tra le singole iniziative e immaginando quali sinergie reali puo’ attivare. E’ già una cosa in comune, e un buon viatico per proseguire (se son rose,….). Soltanto in seguito, in analogia con il Distretto Rurale, per il quale esiste una normativa di riferimento, si potrebbe decidere per un assetto più

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formale, attraverso la costituzione di un Patto tra Attori diversi, privati ed anche pubblici. Avviando relazioni, ad esempio, con la Fattoria Sociale già promossa, alla quale porterebbero in dote la diversificazione e la complementarità. In quel caso, vi sarebbero alcuni vantaggi da considerare: ‐ i Distretti hanno durata indefinita, in quanto non fanno capo ad alcun programma specifico di sostegno finanziario ma, per contro, li possono utilizzare tutti, ‐ possono avere relazioni in modo autonomo e senza sottostare a gerarchie, non solo con altri Distretti, ma anche con la Regione, lo Stato, l’Unione Europea, ‐ hanno esclusive agevolazioni fiscali e finanziarie. Con più Leggi Finanziarie infatti sono state introdotte negli ultimi anni norme che consentono alle aree dei Distretti di contrattare direttamente con l’Agenzia delle Entrate aliquote fiscali unificate e stabili per tutti gli aderenti, per un triennio e a parità di gettito, e senza controlli per lo stesso periodo di tre anni. Inoltre possono bypassare gli Istituti di Credito locale e intrattenere rapporti con gli Organi Centrali delle Banche per contrattare modalità di credito facilitato conforme per tutta l’utenza inclusa nel Distretto, centralizzando nella struttura la presa in carico delle garanzie di fido. Vedi per il comparto agricolo Distretto Rurale (DR) e Agroalimentare di Qualità (DAQ). Il passo successivo potrebbe essere la costituzione di una rete di mini‐ Distretti solidali, in collegamento con iniziative simili che stanno sorgendo un po’ dovunque, in modo da assumere una dimensione tale da diventare una sorta di parco scientifico e tecnologico per le imprese che si orientano al sociale. Una struttura di sostegno cioè che faccia comunicare imprese, società e gruppi e che renda possibile la circolazione delle conoscenze e delle esperienze in più e diversi territori. Le Buone pratiche e le imprese sociali si stanno moltiplicando anche qui da noi, e i tempi sembrano adeguati. Potrà esserci una prospettiva di sviluppo dei Distretti solidali, pero’, solo se le aziende sapranno fare sistema, ovvero sapranno sostenersi reciprocamente e garantire il mutuo sostegno attraverso reciproci contatti.

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A raccolta sono chiamate diverse realtà che possono essere definite come Buone pratiche: ‐ gruppi di acquisto solidale collegati a produttori di agricoltura biologica, ‐ associazioni ambientaliste e di Volontariato, ‐ cooperative sociali e imprese non profit, ‐ botteghe del commercio equo‐solidale e iniziative di finanza etica, ‐ società che si occupano di incentivare il risparmio energetico e gruppi che promuovono il consumo responsabile. Queste tipologie di singole iniziative, se scollegate fra loro e prive di un comune Progetto, a lungo andare sono perdenti, corrono il rischio di essere riassorbite dal sistema e di perdere la loro carica ideale. Ma come dovrebbero funzionare i distretti di economia solidale? una condizione è essenziale: i futuri "poli sociali" dovrebbero riuscire ad accorciare le filiere tra produttori e consumatori e a cambiare i rapporti economico‐sociali sul territorio in cui operano. Infine, mettersi insieme in fondo deve avere una ragione, e la migliore è certamente quella di essere predisposti … a cambiare il Mondo.

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LA SOCIETÀ …. PROSSIMA Resilienza è la capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà (Wikipedia) e nella letteratura sociale indica la capacità umana di affrontare, di superare e di uscire rinforzati da esperienze negative (Grotberg, 1995). Nella società di oggi essere resilienti vuol dire resistere ad un modello di sviluppo che ormai non sta più in piedi. Sopportiamo con fatica i colpi di coda di un sistema che si dimostra perverso e senza via di uscita. Una società resiliente dovrà dunque poter sopravvivere e adattarsi a condizioni di vita che ancora non riusciamo a immaginare. Il ricorso alle pratiche di condivisione e alla capacità di relazione che erano proprie del Vicinato può insegnare ancora quella capacità di soluzioni che nel passato ha consentito l'adattamento a ben più gravose esperienze. Una Persona è resiliente se acquista la capacità di ritrovare in se stessa e nelle relazioni umane, nei contesti di vita e negli elementi di prossimità la forza per superare le avversità. Una Comunità è resiliente se nel suo ambito le persone sono in grado di sviluppare azioni che possano rafforzare sia la competenza individuale che quella di gruppo e sia, infine, la condivisione e il "fare insieme". L'obiettivo è quello di sempre: migliorare la risposta sia nei confronti del territorio che ci ospita che delle moderne avversità di contesto, al fine di affrontare e gestire un cambiamento sociale ed economico che si annuncia epocale.

Società prossima ‐ Comunità accogliente ‐ Territorio resiliente di Giuseppe Di Fazio Il Seminario sull’Agricoltura sociale è stato un passo decisivo verso un’idea di condivisione attiva e partecipata, in una dimensione allargata del Vicinato. Dal cortile al territorio, un’unica capacità di trovare soluzioni adeguate. La necessità di sopravvivenza, a volte in situazioni difficili, ha costruito strategie in grado di garantire economie e “welfare” delle quali ancora oggi si vedono le tracce. Il Seminario sulla Eredità del Vicinato ci ha consegnata, a sua volta, una idea del mutuo‐aiuto che è fondato sulla capacità di relazione tra persone,

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tra nuclei abitati, e con il contesto. La necessità di controllo delle risorse e della salvaguardia del territorio hanno costruito nel tempo una sapienza capace di accrescersi continuamente, migliorando le tecniche di manutenzione. E consegnandoci territori che erano strettamente connessi tra loro e con i loro stessi abitanti, in una interdipendenza virtuosa che è arrivata fino a noi, cristallizzata nel nostro Capitale socio‐territoriale locale. Entrambe le esperienze ci hanno rivelata una dimensione dell’economia che si esalta attraverso la contaminazione con il sociale, inteso quest’ultimo come coinvolgimento di tanti soggetti, forti e deboli insieme. Tutti siamo necessari, senza nessuna delle esclusioni che ci siamo inventati per rispondere a un’idea di sviluppo, di bello e di “normale”, che oggi barcolla. L’esperienza dei Seminari ci ha confermata l’ipotesi che antiche/nuove opportunità, affrontate insieme, possano costituire risorse fondamentali per il progresso e per il cambiamento al quale tutti ormai siamo chiamati. Tra queste: ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ ‐ ‐

l’integrazione territoriale, nelle sue connotazioni di urbano e di rurale, il concepimento di nuove forme di collaborazione, la riorganizzazione del welfare locale, la rimodulazione delle attività produttive attraverso la loro contaminazione con rinnovate opportunità sociali, lo scambio virtuoso tra Centri urbani di Valle e con il loro contesto, la maturazione di più sofisticate concezioni e forme di tutela ambientale, il miglioramento della risposta ai disastri, il rinnovo delle modalità di funzionamento delle reti ecologiche e dei servizi, la sperimentazione e l’attuazione di nuove e autentiche forme inclusive di partecipazione democratica.

Oggi, in seguito alla crisi più aspra che ci sia mai capitata, nuovi pericoli si aggiungono a quelli di sempre, e nuove strategie vanno combinate insieme. E tutte devono avere l’obiettivo non solo di resistere alle avversità, ma anche di farne tesoro, trasformandole in nuove opportunità. La Basilicata ha grandi risorse naturali, dall’ambiente all’acqua, al

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petrolio. Si è anche distinta, nel passato, per le sue doti organizzative e culturali, e per la sua operosità ospitale e accogliente. Sapienze che si sono affievolite, negli ultimi decenni, anche a fronte di un’emigrazione drammatica, che ha avuto l’effetto di un vero tsunami demografico. La Basilicata può ancora contare sulle sue doti ? “…. due sono i problemi della società lucana, e senza affrontarli e risolverli, questa Regione non avrà nessun futuro: la solidarietà sociale, la coesione sociale... Se non c’è solidarietà sociale non si può avere sviluppo La Basilicata ha condizioni che non ha nessun’altra Regione, ma ci sono, per contro, anche grandi difficoltà, determinate soprattutto da due caratteri negativi : mancanza di solidarietà sociale, individualismo cattivo” (Reinaldo Figueredo)

Le sue doti vanno dunque ricostruite, ricercate nel suo stesso DNA. Tra le doti più utili, il riferimento è alla capacità di resistere alle difficoltà, di fronteggiare gli urti, di trasformare i problemi in risorse. Questa competenza consiste nell’essere resilienti, nel rispondere cioè efficacemente alle avversità: “ … che sfidano il proprio ambiente fisico e sociale, raggiungendo nel contempo un livello di funzionamento migliore rispetto alla condizione precedente l’evento critico, mostrandosi capace di ritrovare un equilibrio dopo la situazione di crisi “. (Manetti, Zunino, Frattini, Zini ‐ Università di Genova)

Anche la condivisione, la collaborazione trasversale, è utile affinchè le competenze si esaltino tra loro. La società di oggi promuove e sostiene una specie di “darwinismo sociale” che mette tutti in competizione: bisogna essere sempre al meglio, più capaci di altri, anche a costo di essere contro, gli altri, altrimenti si soccombe. Un buon sistema gestisce invece le sue risorse umane attraverso il confronto e non con la lotta, puntando soprattutto sulla forza d’urto della sinergia. Ecco un’altra delle antiche/nuove competenze. Ma una società sana è anche una società responsabile.

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E’ un sistema che si organizza perché prevalga il benessere collettivo attraverso la reciprocità degli interessi. Una società insomma che sottoscriva un Patto di Sussidiarietà. La sussidiarietà è oggi un Istituto compreso anche nella nostra Costituzione, il cui articolo 118 recita : “…Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà ”.

“L'origine del vocabolo è antica, giacché risale al latino subsidium, che designava l'ordine militare dei triari, cioè delle truppe di rinforzo (le subsidiariae cohortes). Dal vocabolo originario è derivato il termine italiano di sussidio" (Voce sussidiarietà, dall’Enciclopedia del Diritto, Editrice Giuffrè) Il Professor Carlo Batini, nella sua “Ricerca sulle Amministrazioni di Tor Vergata” rileva come i caratteri salienti della Sussidiarietà si sostanzino in: democrazia deliberativa: contesti ‘discorsivi’ nei quali i cittadini (singoli o associati) intervengono in prima persona circa l’impiego dei mezzi disponibili, integrando le forme consolidate della democrazia rappresentativa,

progettazione condivisa: partecipazione dei cittadini (in prima persona) alla progettazione degli interventi e dei servizi, in quanto portatori di competenze specifiche, indissolu‐ bilmente legate al fatto di vivere i problemi da risolvere,

processi integrati:

due ordini di ‘fattori produttivi’: quelli organizzati dalle Istituzioni e quelli presenti nei contesti con i quali le Istituzioni vengono a contatto.

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La Basilicata, lo sviluppo umano duraturo e un esempio di solidarietà lucana

di Reinaldo Figueredo La fase dello “sviluppo globalizzato” in cui ci troviamo oggi si caratterizza in primo luogo come fase “dell’economia fondata sulla conoscenza” (EFC) e presenta sia sfide che opportunità. La “rivoluzione della conoscenza” è principalmente il risultato dell’intensificazione del processo di globalizzazione e dello sviluppo delle “tecnologie dell'informazione e della comunicazione” (TIC). In questo sviluppo cambiano in profondità il funzionamento delle economie e le condizioni di governance. Con l’espressione "economia fondata sulla conoscenza" (EFC) si tenta di indicare con precisione il significato di questa nuova modalità e forma di economia. Ovviamente la EFC richiede lo sviluppo delle TIC e dei loro servizi, come infrastruttura principale. Ma l’Economia Fondata sulla Conoscenza richiede anche: ‐ una popolazione creativa e ben educata, ‐ un clima di innovazione il quale favorisca l'espressione e la diffusione delle novità, ‐ un struttura economica ed istituzionale capace di stimolare e sostenere lo spirito dell’imprenditoralità e della modernità. Per il momento, il livello di preparazione relativo alla EFC, nella intera regione del Mezzogiorno, appare insufficiente. La Basilicata in primo luogo e i governi di quelle ricche e belle Regioni, hanno solo di recente e timidamente iniziato a diventare consapevoli della necessità di adottare misure che vadano in questa direzione. Riguardo ai Paesi o alle Regioni europee in sviluppo o in transizione, il Mezzogiorno si trova posizionato lontano. Indietro rispetto a qualsiasi altra regione italiana ed in particolare rispetto a quelle del nord dell'Italia. Certamente per alcune Provincie meridionali si registrano progressi e vi

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sono differenze significative tra provincia e provincia, ma comunque nel complesso la situazione rimane preoccupante. Gli aspetti più importanti da considerare per la Regione sono: ‐ Notevoli sforzi sono stati fatti nel campo della formazione, misurato in termini del PIL, assorbendo più del 5% e contribuendo a ridurre significativamente l'analfabetismo. Ma il contenuto dell'educazione resta inadeguato alle esigenze dell'economia e delle qualifiche richieste dalla popolazione, e questo vale anche per l'istruzione data ai giovani nelle fasce di educazione superiore. ‐ La regione nel suo complesso non ha investito adeguatamente in TIC e il loro uso (densità di telefoni cioè il numero di telefono pro capite è inferiore al 10% per cento). Mentre meno dell’ uno per cento della popolazione utilizza internet. Ciò è dovuto a una serie di fattori quali: infrastrutture insufficienti, in particolare nelle zone rurali, restrizioni e controlli eccessivi, tariffe elevate e mancanza di personale qualificato. ‐ C'è troppo poca innovazione tecnologica sia per quanto riguarda la modernizzazione dei settori tradizionali che per quanto riguarda la creazione di nuove industrie. Una situazione che è conseguenza anche dell'inadeguatezza dell'investimento sia in senso finanziario ma anche e soprattutto sul tessuto sociale (con un conseguente livello di coesione sociale troppo basso) e della "fuga dei cervelli". ‐ Il contesto economico e istituzionale soffre di una persistente debolezza conseguenza di una sua insufficiente apertura verso l'esterno, particolarmente nella conoscenza delle lingue straniere, di un clientelismo interno esagerato, e il tutto tende a rafforzare un “individualismo cattivo”, dannoso allo sviluppo della "solidarietà sociale". Ricostituire un "tessuto sociale coeso", per il quale sarebbe necessario rivolgersi ad un senso di orgoglio "lucano" (presente ora soprattutto come ricordo lontano del passato), rappresenta la condizione necessaria per progettare una rinascita dello "sviluppo umano sostenibile". ‐ Tuttavia, più di una provincia nel Mezzogiorno ha preso iniziative importanti e alcune delle significative riforme attuate stanno cominciando a dare i loro frutti.

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Quest’ultimo non sembra ancora essere il caso della Basilicata. Quelle Province sono esempi che possono ispirare il resto delle Regioni, soprattutto una come la nostra che ha immensa energia, acqua e risorse ambientali, tre dei quattro vettori strategici per lo sviluppo umano sostenibile. Spetta alla classe dirigente della Basilicata ed alle Comunità unite ed interessate alle modifiche, di attuare le politiche appropriate per combattere le forze che vi si oppongono e di assumere atteggiamenti che portino a proteggere i propri interessi come Regione. Per l’autorità pubblica, al momento attuale, più che muoversi per cercare di ottenere risorse finanziarie addizionali per gli investimenti in infrastrutture, è importante cercare di implementare nuove forme di governance della nostra società. Cioè implementare un’azione di evoluzione normativa e di incentivi mirati che siano in grado di liberare grandi energie umane ed economiche, a patto che si definiscano prima quali siano i settori verso cui indirizzarli, il dove ed il come. LUCANI SVEGLIATEVI; SI.., POSSIAMO FARCELA Un esempio di solidarietà lucana, con un riconoscimento quasi nullo dai politici regionali

Giovedì 21 maggio 2009 sono andato per visitare le tendopoli ad Aquila e per osservare quella di cui io, come venezuelano, avevo già sentito parlare all'estero: l’efficienza riconosciuta del mondo della Protezione Civile italiana, in grado di intervenire in ogni genere di disastri naturali, del tipo di quello verificatosi in Abruzzo. Ho potuto, in quella occasione, verificare sul campo la magnifica dimostrazione di tutti livelli, governativi e di volontariato, dell'efficienza del coordinamento negli aiuti portati a più di 75.000 terremotati gestiti nel contesto d’una emergenza naturale. Il sotto titolo “un esempio di solidarietà…” riguarda per me, come italiano acquisito per avere sposato una Marsicana, il fatto che, con pochissimi eccezioni, tra cui quella di Piero Lacorazza che già aveva visitato il campo lucano ad Aquila Ovest, nessun'altra autorità né regionale né della Val

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d’Agri hanno manifestato solidarietà neppure con una semplice telefonata ai volontari Oggi quello che i fatti dell'Abruzzo riconoscono pubblicamente a Priore, Presidente del Gruppo Lucano, e' il valore della sua gestione e la motivazione che ha saputo infondere al reggimento lucano di oltre 4.500 volontari che agiscono come elite all'interno della Protezione Civile italiana La tendopoli lucana, denominata “ex Italtel 1”, presso Aquila Ovest fu gestita da 50 volontari in rapporto di 1 a 10 con i terremotati ospitati, e a dire di Gerardo, sergente dell’esercito italiano che abbiamo incontrato nella nostra visita, “é per molti altri campi in Abruzzo un esempio di efficacia gestionale”. Più di 500 sono stati le vittime del terremoto che hanno abitato lì in armonia non scelta, ed più di 1.000 i pasti caldi serviti due volte al giorno per più di sei mesi. Questa è un'altra indicazione della qualità del servizio fornito dal volontariato senza chiedere assistenza ufficiale straordinaria, ma attraverso l'appoggio dei lucani che con regolarità hanno inviato dalla Basilicata donazioni di cibo. Voglio soltanto ricordare, per questo motivo, che in quella occasione mi sono rivolto alle compagnie petrolifere che operano in Basilicata per chiedere un contributo in aiuto allo sforzo dei volontari lucani. Le compagnie petrolifere, anche se hanno dimostrato in termini generali la loro volontà a contribuire ‐ ed è giusto riconoscere che l'hanno fatto a livello nazionale ‐ non hanno voluto neanche capire la vera intenzione di questa richiesta di aiuto. Preferisco non riportare la consuetudinaria risposta negativa datami, soltanto: “…. nel nostro preventivo non c’è stato contemplato!!! ” Alcuni dei miei amici, quando dico che mi sono paracadutato in Basilicata, aggiungono però che sono un vero “tifoso lucano”. Questo è vero, faccio il tifo per la Lucania, anche riconoscendo le virtù ed i difetti di una delle Regioni più ricche d’Italia per la sua bellezza naturale e l’abbondanza in energia, acqua e ambiente.

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Ma che, senza reagire a livello istituzionale, si lascia sfuggire la maggior parte dei cervelli giovani, e comunque continua a manifestare una grave carenza di “economia della conoscenza”. Risorsa questa indispensabile per uno sviluppo umano duraturo accompagnato da una crescita di qualità. Ho segnalato molte volte che sono due i problemi della società lucana e che, senza affrontarli e risolverli, questa regione non avrà nessun futuro: la “solidarietà sociale” e la “coesione sociale.” Per entrambe vale la comprensione che non è vero che i lucani non sono in grado di dare dimostrazioni di queste condizioni inerenti al comportamento collettivo. Basta solo guardare al comportamento dei volontari lucani in Abruzzo che dimostrano a vista la loro generosità e la coesione efficiente quanto sottoposti ad uno stimolo, ed è ciò che dovrebbero ben capire i politici. Questo è anche vero per tutti quelli che lavorano nella assistenza medica, altro esempio virtuoso, dove comunque esistono margini per un miglioramento se si riuscisse a rendere il settore meno politicizzato. Non è la mia un'intenzione di parlare negativamente della classe dirigente della Basilicata, ma invece di stimolarla sull’importanza nella realtà moderna di avere una società civile strutturata e con motivazioni significative che non siano quelle delle ideologie dei partiti, oggi sempre più orientate al materialismo e al clientelismo. Svegliatevi se non volete essere lasciati in solitudine e con la grave responsabilità di avere mancato al vostro dovere di gestire lo sviluppo umano di tutti lucani. Il farsi sfuggire l'opportunità che avete davanti di comprendere il vero rapporto che esiste tra "il progresso economico e il benessere" di tutti i lucani e la sua attuazione attraverso la convergenza di tutta la società civile e dirigente, verrà percepito dalle prossime generazioni come la più grande delle irresponsabilità Reinaldo Figueredo, ex Ministro degli Esteri del Venezuela Presidente Onorario Protezione Civile Gruppo Lucano

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Azione innovativa in contesti sociali: Cosa si intende per territorio Resiliente di Giuseppe Di Fazio È un sistema urbano/rurale capace di rinnovare il proprio equilibro quando cambiano le condizioni al contorno. E’ in grado di adattarsi alle modifiche esterne o ad eventuali patologie del suolo, dell’idrografia e del clima, e reagisce alle cause di inquinamento o di cattivo uso. Per estensione è anche una Comunità resiliente, in grado di elaborare risposte sul piano sociale, economico e ambientale rispetto alla crisi che caratterizza la nostra epoca. La resilienza costituisce dunque una espressione della sostenibilità, o meglio, della compatibilità, in quanto richiede una profonda revisione dei modelli organizzativi e gestionali sulle quali si basa la convivenza civile. In particolare, la “città resiliente” è anche una Comunità in grado di pianificare e realizzare una strategia di lungo periodo che garantisca la costruzione di nuove premesse per una migliore efficienza, anche attraverso le nuove tecnologie, per la gestione collaborativa: ‐ di territorio, ‐ di risorse energetiche, ‐ di mobilità.

Le cose da fare perché il nostro territorio lo diventi Il nostro territorio è resiliente: ‐ se costruisce un tessuto connettivo fra i diversi centri abitati dell’area. È anche sostenibile: ‐ se rende i quartieri a misura di bambino e di anziano, ripristinando nel reticolo urbano gli spazi per la socialità e per il rispetto del ruolo dei diversi Attori sociali, ‐ se spostarsi da una parte all’altra diventa una scelta e non un obbligo quotidiano (riflettiamo sulle distanze tra i servizi nello stesso territorio di Lauria e tra i diversi Comuni dell’area, dalla Valle del Noce alla Valle del Mercure),

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se diminuisce il flusso della mobilità privata e se restituisce nel contempo valore al sistema del trasporto pubblico e condiviso. Quest’ultimo è certamente a più basso tenore di sostanze che alterano il clima e che mettono a rischio sia la salute pubblica che i nervi delle persone,

Inoltre è resiliente: ‐ se costruisce tra i Comuni di quest’area, che in fondo ha vocazione “metropolitana”, un sistema integrato di programmazione strategica, nel quale sia compresa la gestione di quel particolare Bene pubblico che siamo noi cittadini, ‐ se punta sull'efficienza energetica attraverso un programma di riqualificazione del patrimonio edilizio, ‐ se accompagna l’espansione delle fonti rinnovabili, ‐ se riorganizza il sistema delle acque, dai fiumi ai torrenti ai canali artificiali, di qualunque natura, ‐ se programma una rete capillare e diffusa per le acque bianche, ‐ se abbatte gli sprechi e riduce l’utilizzo di materia prima indirizzando i rifiuti verso le filiere del recupero, riattivando condizioni virtuose per i sistemi strutturali già realizzati, ‐ se la rete fognaria ha continui miglioramenti e manutenzioni, realizzando le condizioni indispensabili per l’adattamento ai fenomeni meteorologici estremi, sempre più frequenti anche alle nostre latitudini come conseguenza del riscaldamento globale, ‐ se per lo stesso motivo ramifica gli spazi verdi che favoriscono il raffrescamento, migliorandone la disposizione e curando la manutenzione con criteri professionali, ‐ se favorisce la partecipazione alle decisioni, se condivide, se accoglie più punti di vista, ‐ se rispetta e ascolta l’interesse attento della Comunità in riferimento ai rischi da inquinamento e da cattivo uso, costruendo le condizioni per la piena salvaguardia del sistema di protezione del nostro Capitale socio‐ territoriale.

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Ancora, è resiliente : ‐ se ha un programma di ri‐qualificazione degli spazi urbani secondo un disegno di Città accogliente e accessibile, sicura e funzionale per tutti, sia residenti che stranieri, ‐ se lavora per armonizzare la strumentazione urbanistica tra tutti i Comuni della Valle e secondo una Visione strategica e unitaria, ‐ se abbatte il consumo di suolo, che è colpevole di aumentare il rischio idrogeologico, ‐ se ascolta i differenti punti di vista, stimolando le opinioni di tutti gli Attori sociali, ‐ se accetta la sussidiarietà, e collabora con le Associazioni con pari dignità, ‐ se sostiene le forme di autogestione da parte dei gruppi sociali locali, ‐ se rafforza la spinta creativa e innovativa delle iniziative imprenditoriali locali, ‐ se capitalizza la ricchezza di competenze che sono faticosamente costruite nelle Università anche a spese della collettività locale, e che vengono invece graziosamente dispensate in tutto il Mondo dai nostri giovani che oggi non trovano collocazione tra noi, ‐ se si fa onore del servizio svolto dalle organizzazioni che si interessano del sociale, ‐ se promuove sia per le imprese che per gli stessi residenti la diminuzione dell’analfabetismo informatico e ne sostiene la padronanza nel settore dell’ICT, ‐ se favorisce, infine, la nascita di nuove professioni e nuovi servizi utilizzabili attraverso le tecnologie che annullano la distanza e che aumentano virtualmente le dimensioni aziendali. U Vicinanzo ­ Pagina 125


Il “Vicinato” come valore e punto di riferimento ieri e oggi di Sara Zizzari Volendo fare una riflessione sul “Vicinato” credo sia opportuno partire dall’estinzione o dalla trasformazione di alcune tradizioni che, in generale, ma sicuramente nei nostri paesi, erano tanto presenti quanto efficaci. Mi riferisco, per esempio, al cosiddetto “ntartino” ossia l’intrattenimento e cura dei bambini in assenza della mamma, al “cunsulu”, ossia l’assistenza ai familiari del morto, alla “crianza” cioè la visita di cortesia del vicinato. Mi sono chiesta quindi se le tradizioni si siano estinte e trasformate perché a cambiare è stata la percezione‐concezione del vicinato, oppure perché non c’è stato più bisogno del vicinato? Ho svolto una ricerca su una tradizione da sempre esistita nei nostri paesi, l’uccisione del maiale, per capire in che misura incida ancora il fattore “vicinato”. Ho constatato che ancora oggi questa si pratica nella maggior parte delle nostre case, gradualmente è diventato un rituale allo stesso tempo solenne e festoso. Negli anni molto si è trasformato, di questa pratica, ma nonostante ciò, resta ancora un giorno carico e magico. Bisogna ricordare che non è il gesto in sé che potremmo definire come “rito”, ma tutto quello che vi è intorno, perché alcuni gesti si ripetono secondo una narrazione nella quale vi è un esordio, uno svolgimento ed una conclusione. I partecipanti riconoscono la festa e si riconoscono in essa, principalmente adottando comportamenti ritualizzati: ci si sveglia presto quando è ancora notte, i bambini non vanno a scuola, e ci si incontra sin dall’alba con tutti. Per ciascun partecipante la festa ha senso se le azioni che in essa si svolgono seguono un ordine prestabilito e che in alcuni casi ha un preciso valore di causa‐effetto. Anche le grida del maiale che si udivano, diffondevano una sorta di allegria, perché tutti capivano che in quella casa era giorno di festa.

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La dimensione comunitaria della festa era testimoniata dal fatto che l'uccisione del maiale non avveniva contemporaneamente tra le varie famiglie, ma secondo un calendario ben preciso che, a rotazione, portava le stesse famiglie a riunirsi per molti giorni di seguito, ora in una casa ora in un'altra, si formavano delle vere e proprie “squadre di lavoro”. L’avvenimento non si esauriva nella stessa giornata, ma continuava nei giorni successivi per la lavorazione delle carni, infatti l’uccisione prevedeva diverse fasi all’interno delle quali c’era, e c’è, una forte differenziazione dei ruoli di genere. Ad uccidere un tempo era il capofamiglia, ora invece è un addetto, pratico di quel mestiere, ma comunque quasi sempre un amico, una persona di fiducia, in un secondo momento per farlo a pezzi e scuoiarlo si fa aiutare dagli altri uomini che generalmente sono amici o parenti. Le donne subentrano invece nella lavorazione del sangue, nella pulitura degli intestini e nella preparazione degli insaccati che in genere si svolge il giorno dopo, questo è un gran momento di aggregazione e comunicazione con i presenti. In passato quindi ogni fase era gestita dalla famiglia, dall’allevamento alla produzione di insaccati, oggi invece sono gli allevatori specializzati che si preoccupano della crescita dell'animale. Sono sempre meno le famiglie che allevano il proprio maiale, anche nelle comunità più piccole, dove ancora persistono elementi tradizionali dell'uccisione del maiale è facile trovare una piccola azienda di un amico o di un conoscente che rivende direttamente la carne e i pezzi più desiderati del suino. La lavorazione domestica della carne era in realtà un forte momento di socializzazione tra le famiglie e tra i vicini o i parenti e si rinsaldavano in questo giorno i vincoli di amicizia e di parentela. Quindi, proprio perché le uccisioni avvenivano a distanza di qualche giorno da quello del vicino, era usanza di buon vicinato quella di scambiarsi, di volta in volta, qualche pezzo del maiale, usanza che in alcuni casi resiste tuttora. Dopo che il maiale era stato aperto, ripulito e diviso in due, il lavoro per la

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prima giornata finiva e allora ci si dedicava alla piacevolezza della tavola ed al banchettare. Prima il tutto veniva solennizzato con un banchetto domenicale, e alcune volte ancora accade. È il pranzo in cui si mangiano i prodotti del maiale commestibili al momento. Altre volte si festeggiava la sera accompagnando la festa con la musica d’organetto. Durante l’uccisione del maiale, considerando che la mattinata è molto lunga ed impegnativa, ci sono comunque diverse pause durante le quali si consuma una leggera colazione. Tornando al significato della festa, nella cultura contadina il piano festivo non era affatto distinto dal momento produttivo, non era cioè necessariamente separato dal lavoro . Tutte le pratiche, anche quelle stagionali, erano indissociabilmente legate ad altrettanti momento di festa. In questi casi il lavoro si caratterizzava come festivo non solo per i suoi aspetti di opera collettiva indirizzata concretamente a cogliere i frutti di un annata di fatiche: “… è festivo anche perché si ha socialmente da spartire con tutta quanta la comunità una parte della produzione”. (Mazzacane L., Struttura di festa, 1985:23) Per fortuna, oggi, vivendo nel benessere, a differenza di 50‐60 anni fa, il maiale non è più fonte principale di economia e sussistenza di una famiglia, e quindi il “giorno del maiale” e tutte le altre giornate che ne conseguono sono vissute con allegria e alacrità. Non c’è più l’ansia di chi, preso dal bisogno, non doveva perdere nulla del maiale, tutto andava recuperato, tutto andava utilizzato e non c’era spazio per gli sprechi. L’ansia, quella stessa ansia, sempre conseguenza del bisogno che portava le famiglie, gli individui, a vivere quelle giornate non solo come festa comunitaria ma come un lavoro vero e proprio, che portava a fare spergiuri, a credere in superstizioni per liberarsi da eventuali malefici.

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Oggi quindi questa come altre attività dei nostri paesi è più una buona pratica, un’abitudine delle nostre famiglie dove ancora ha un significato, un ruolo il “Vicinato”. Vicinato che prima svolgeva un ruolo importante, soprattutto in contesti in cui l’aiuto e la condivisione erano alla base di queste ed altre attività. Nelle nostre Comunità sembra che sta accadendo quello che nelle grandi città già è avvenuto da tempo, ossia la scomparsa del vicino come “amico” per eccellenza. In qualche intervista anche informale che ho fatto ho osservato l’amarezza e il disappunto nelle persone anziane per il fatto che i figli e i nipoti non conoscono nemmeno più il nome del vicino di casa. Un tempo i bambini giocavano sotto casa ed erano “guardati dal vicinato”. Probabilmente si è sempre pensato che le nostre più ristrette realtà non avrebbero subìto la diffidenza, il cinismo e l’aggressività che più naturalmente colpiscono le grandi città, aggressività che aumenta con la diminuzione dei rapporti e dei contatti personali. Da ciò ne consegue che le regole del buon vicinato e cortesia reciproca si stanno indebolendo. Ritengo che sia stato proprio lo sviluppo sociale ed economico, conseguenza del progresso tecnologico ad aver determinato, lì dove si è verificato, anche un radicale cambiamento dei rapporti col vicinato. Considerando ancora il rito del maiale come esempio, è facile notare come l'avvento di macchine moderne per tritare e insaccare i salumi abbia non solo ridotto i tempi di lavorazione ma anche ridotto la necessità di aiuto. Personalmente però, non credo che in tutti i nostri paesi sia sparita del tutto la pratica quotidiana di intrecciare relazioni autentiche come anche la pratica del buon vicinato. Io stessa infatti ho rilevato come, nei piccoli paesi agricoli o nelle frazioni un po' isolate da centri abitati più sviluppati, persistono rapporti approfonditi ed articolati con il vicinato ed in essi, nonostante l'introduzione di macchine per macinare o insaccare, le fasi della

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lavorazione del sangue, della pulitura degli intestini e della preparazione degli insaccati sono tuttora svolte con l'aiuto dei parenti e dei vicini di casa. Queste eccezioni non sono così rare come si potrebbe pensare quindi, a parte i più grandi contesti urbani, soprattutto nel sud Italia, i rapporti di vicinato sopravvivono ed ancora oggi si rivelano molto intensi. Ciò può essere dovuto tanto ad uno sviluppo socio‐economico molto limitato (soprattutto paragonato a quello di contesti urbani non necessariamente metropolitani), quanto alla ricerca di sicurezza e protezione da un mondo globalizzato che pare poter invadere da un momento all'altro la quiete e l'isolamento in cui da sempre la provincia italiana tende a sentirsi avvolta. Nella “buona pratica” di vicinato si constata peraltro la presenza di reti di relazioni, di associazioni, di figure sociali positive che rendono meno egoiste le persone, meno individualiste. Sarebbe auspicabile che vadano rimesse al primo posto non l’individuo ma appunto le relazioni. Bisognerebbe smetterla di dividere le nostre già piccole Comunità in tanti luoghi separati, in una miriade di gruppi di appartenenza non comunicanti tra loro.

Per un nuovo modello di sviluppo di Francesco Stoduto CRESCITA (economico‐monetaria) contrapposta a SVILUPPO‐PROGRESSO

Da qualche secolo (indicativamente dalla rivoluzione industriale del Settecento) il mondo occidentale ha seguito sempre più convulsamente un modello di sviluppo basato sul concetto della crescita indefinita, e possibilmente infinita. Ora questo modello è entrato, forse definitivamente, in crisi, ed è ora di chiedersi innanzitutto se è logico augurarsi la sua ripresa, e quindi, se non è così, indirizzarsi verso altri obiettivi. Si parla spesso, in questi ultimi anni, di decrescita, ma il termine è infelice, perché inevitabilmente evoca il ritorno al passato di stenti dal quale pure

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(almeno per una parte del mondo) il vecchio modello di sviluppo ci ha fatto uscire. In realtà il termine francese decroissance, tradotto in italiano con decrescita, indica anche, e in questo senso si deve intendere, il ritorno del fiume nell’alveo dopo la piena, la croissance. Ma in definitiva il problema non è di termini, bensì si debbono porre (o riproporre) alcune domande fondamentali: Perché viviamo? quale vita vogliamo vivere? Dobbiamo mirare al ben‐essere o al ben‐avere? Sicuramente finora, insieme con lo sviluppo industriale della produzione, abbiamo confuso il benessere con il possesso di beni sempre più numerosi (e spesso inutili) e in ultima analisi col possesso del denaro in sempre maggiori quantità. Questo sembra essere l’obiettivo della finanza mondiale, che ha generato fra l’altro la presente crisi, ma questo è anche l’obiettivo di tutti e finanche dei poveri, che immaginano nel danaro la soluzione di ogni problema. Quindi il problema non è, a mio parere, uscire dalla crisi con una nuova crescita economica, ma approfittare della crisi, forse ringraziarla, per riflettere sulla direzione da prendere per la nostra vita, e riesaminare i concetti di crescita, sviluppo e progresso, che non racchiudono lo stesso significato. Certamente è da superare e anche combattere il concetto di crescita economica illimitata, visto che la nostra terra tutto è fuorché illimitata. Verso il FUTURO attingendo dal PASSATO In questi incontri la Rete ‘u vicinanzo si è posta anche l’obiettivo di riscoprire le antiche tradizioni di buon vicinato, che costituivano un aspetto importante della vita sociale fino a vari decenni fa, ma che ancora sopravvivono, almeno parzialmente, nei nostri paesi e nelle nostre contrade. È possibile recuperare alcuni aspetti di queste tradizioni, nella loro parte migliore (perché non erano esenti da risvolti anche negativi) per migliorare la qualità della vita oggi?

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Non si tratta di rimpiangere il passato, né di idealizzarlo, né di provare solo una certa nostalgia per i tempi che furono, ma di andare verso il futuro senza calpestare il passato bensì recuperando le sue parti migliori, come succede sempre in un processo di sviluppo corretto. Inoltre pare che sia già in atto un processo di ritorno dei nostri giovani, purtroppo non tanto positivo, ma dovuto al fatto che le loro risorse non consentono di vivere nelle grandi città del centro‐nord e preferiscono tornare a casa dove almeno é garantito il soddisfacimento dei bisogni essenziali. Quasi sempre si tratta di giovani qualificati e anche intenzionati a cercare nuovi sbocchi nei nostri paesi, per cui bisogna creare le condizioni migliori per accoglierli e permettere loro di sviluppare le loro idee, anche se dovranno fare i conti con la crisi economica da un lato e con sistemi antiquati e poco produttivi dall’altro. La Cultura della Coltura La negletta agricoltura forse può dare ancora molto anche nelle nostre zone. Come ha sottolineato la ricerca di Raffaele Papaleo, un tempo non molto lontano (50‐60 anni fa) la nostra valle del Noce riusciva a soddisfare i bisogni alimentari della popolazione senza dover ricorrere a prodotti lontani. Certo si trattava di un’alimentazione più parca, ma anche più salutare, visti ad esempio i danni dell’eccesso di carne cui ci ha ormai abituato il mercato odierno. Un ritorno all’agricoltura, valorizzando opportunamente i terreni ora abbandonati, può quindi dare i suoi frutti, come testimoniano varie iniziative in tutta Italia, dalla Sardegna al Molise, e anche qui, con i progetti di Claudia Cantile, l’impresa di Pietro D’Imperio e l’ipotesi di Fattoria Solidale emersa nel Seminario sull’Agricoltura sociale ed evidenziata dal dottor Alfonso Pascale. Dieta mediterranea e carnea, vegetariani per forza? Si tratta di promuovere anche una nuova cultura alimentare, che però affonda le sue radici nella tradizione, quando seguivamo davvero una dieta

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mediterranea, ricca di verdure di stagione e di prodotti genuini. Abbiamo visto e sentito poco fa dell’antica usanza dell’ammazzare il maiale, che pure avveniva nel vicinato. Il maialino si comprava, mi pare, in primavera, si ingrassava in un localino apposito a casa o nei pressi (‘a zimma) e si ammazzava e conservava nei mesi invernali, venendo poi consumato tutto l’anno, fino all’inverno successivo quando la cerimonia si ripeteva. Oltre a questo pezzo forte di carne, che veniva consumato con molta parsimonia, dovendo bastare appunto per un anno ed essere messo in tavola soprattutto nelle grandi occasioni (ospiti, feste, ecc.) la dieta era quasi interamente vegetariana, caratterizzata da verdure, legumi, olio, e pasta, per lo più fatta in casa. Presenti anche latte, uova, formaggi, e di tanto in tanto qualche pollo, o meglio gallina. Bevanda privilegiata, oltre l’acqua, il vino. Questa era la dieta mediterranea, di cui spesso si parla, certamente più salutare di quella a forte presenza carnea che contraddistingue i tempi odierni e dalla quale forse ci dovremo allontanare non solo per motivi di salute. Pare infatti che, a causa dell’enorme consumo di acqua e mangimi per allevare bovini e altri animali da macellare, l’umanità sarà presto a corto di viver. Per cui si dovrà giocoforza tornare ad un’alimentazione più vegetariana, pena la fame per gran parte degli abitanti del pianeta (cosa che del resto accade già, nell’indifferenza dei popoli benestanti). Conoscersi, scambiarsi visite, collaborare È dunque opportuno e forse anche necessario tornare ad usanze del passato, recuperare tradizioni e solidarietà, per vivere meglio sia fisicamente che spiritualmente. Certo non tutto andava bene nel rapporto di vicinato. E per tanti versi molte cose non sono oggi riproponibili, mentre si aprono nuove possibilità alle quali i giovani sono già abituati e sulle quali sono

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proprio loro a poterci dare lezione. Mi riferisco ai famosi social network, che, per chi li conosce e li usa, hanno un po’ il sapore delle chiacchiere fra comari, con il vantaggio di poter superare ogni distanza e lo svantaggio di essere pur sempre un po’ troppo virtuali. Sarebbe bello quindi riprendere, o non far morire, l’usanza delle visite fra vicini, almeno nelle occasioni chiave della vita (nascite, morti, matrimoni, anniversari particolari), che, insieme con gli scambi virtuali (primo arrivato fu il telefono) possono servire a non cancellare i rapporti interpersonali, una delle chiavi per la vita sociale e la vita tout court. Abbiamo sentito poco fa dal nostro esperto, dottor Michele Iannuzzi, che si rende sempre più necessario collaborare a tutti i livelli, dal vicinato, appunto, ai piccoli Comuni, che lo devono fare oggi addirittura per legge. È del resto del tutto logico e opportuno valorizzare le varie competenze di ognuno e di ogni comunità, cominciando col chiedere magari un uovo alla vicina di casa o un po’ di “ntartini” per i propri bambini, fino ad arrivare ad istituire un servizio bus per poter utilizzare tutti le piscine della Valle senza costruirne una per Comune, ad esempio, gestendole invece insieme. Esperienze conviviali

E perché non provare ogni tanto a passare una serata insieme intorno ad un bel piatto di pasta di casa? L’invito è a concludere questo ciclo di Seminari e questo Progetto con un’esperienza di convivialità accompagnata dalla manualità, nel senso che le cose da mangiare non solo saranno a km. 0, ma proprio fatte al momento dai convitati, oltre a qualche cosina portata da casa, magari. Continuiamo a discutere di questi argomenti, cerchiamo ogni occasione per confrontarci e conoscerci meglio, incontriamo esperti e chi ha già provato a realizzare incontri del genere, cerchiamo insieme le vie per lo sviluppo della nostra zona, cercando di incoraggiare i giovani che vogliono restare e di accogliere nel migliore dei modi chi cerca di tornare. Le iniziative non mancano, bisogna soltanto informarsi. Il 29 dicembre prossimo, per esempio, il Circolo Erasmo, che ha portato avanti negli anni scorsi la lodevole iniziativa del Premio di Studio per i

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Giovani lanciato dall’Ambasciatore Eugenio d’Auria, lauriota da lungo tempo in giro per il mondo ma sempre legato al suo paese e alla sua zona, organizza insieme con altri Enti e Associazioni un Seminario per chi vuol impegnarsi per lo sviluppo delle nostre valli. Da Fiodor Dostoevskij ....

“…. Intendendo la libertà come moltiplicazione e rapido appagamento dei bisogni, gli uomini deformano la propria natura, perché si creano molti desideri sciocchi e insensati, e molte abitudini assurde e immaginarie. Così, vivono solo per invidiarsi l’uno con l’altro, per soddisfare la loro sensualità e la loro vanità. Pranzi, viaggi, carrozze e servitori‐schiavi sono considerati ormai una necessità, per la quale si sacrifica anche la vita, l’onore e l’amore del prossimo, pur di soddisfare questa necessità e, se non possono soddisfarla, magari si uccidono! Per quelli che non sono ricchi vediamo che è la stessa cosa, mentre i poveri per ora affogano l’insoddisfazione e l’invidia nel vino. Ma presto si ubriacheranno di sangue, invece che di vino, perché è a questo che li porteranno. Io vi domando: è libero un uomo simile? Dove può arrivare e di che cosa può essere capace? Forse di un’azione rapida, ma non di una lunga resistenza. Non c’è da meravigliarsi se, invece della libertà, hanno trovato la schiavitù, e se, invece di servire la causa della fratellanza umana e di unirsi, sono caduti nell’isolamento e si sono disuniti. E’ per questo che nel mondo si va spegnendo sempre più l’idea di servire l’umanità, l’idea della fratellanza e dell’unione universale, e questa idea è accolta perfino con scherno: infatti, come può staccarsi dalle sue abitudini, e dove può andare questo prigioniero, ora che si è abituato a soddisfare gli innumerevoli bisogni che egli stesso si è inventato? Ormai è isolato, che gli importa della collettività? E hanno ottenuto questo: che i beni materiali sono aumentati, ma la gioia è diminuita”. …..a Robert Kennedy

“... non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale

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soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell'ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell'indice Dow Jones, né i successi del paese sulla base del Prodotto Interno Lordo. Il PIL comprende anche l'inquinamento dell'aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine‐settimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l'intelligenza del nostro dibattere o l'onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell'equità nei rapporti fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull'America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani”.

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TRASFORMARE IL PATRIMONIO IN RISORSA Il sistema territoriale di Valle, con il suo intreccio di relazioni coerenti con il contesto, mostra caratteristiche in grado di rendere utile il patrimonio locale ai fini della riproposizione, in chiave attuale, di abitudini e comportamenti virtuosi, di ”sussidiarietà” e di capacità di risposta alle debolezze sociali. È un Capitale sociale che stenta però a trasformarsi in Risorsa: è necessario ri‐attribuire valore alla sapienza tradizionale, intesa come Bene Comune da salvaguardare, da rendere esemplare e riproducibile in contesti similari. La sua capacità di miglioramento e di difesa dal contesto, capacità collaudata e sedimentata nel corso dei secoli, appare utile per affrontare con successo l’attuale disorientamento, causato dall’impatto con la nuova dimensione delle relazioni sociali.

Comunità, Territorio e Sviluppo di Giuseppe Di Fazio I concetti di “luogo” e di “locale”, la consapevolezza del loro ruolo nei processi di sviluppo e la loro condivisione collettiva sono un requisito fondamentale perché un Progetto sociale sia davvero sostenibile e, soprattutto, auto–sostenibile. La sostenibilità, naturalmente, è intesa anche nel senso che un Progetto debba possedere al suo interno i requisiti in grado di consentire la continuazione dei suoi effetti anche a Progetto completato. Questo è ancora più vero per un progetto di Volontariato, nel quale il concetto di sostenibilità va inteso nel suo significato più profondo di matrice sociale, ambientale, economica, e istituzionale. Il benessere della collettività deve passare necessariamente attraverso il rapporto con l’intorno (naturale, costruito, umano, sociale) e attraverso il rafforzamento dei legami comunitari. La strategia delle “reti” che il mondo del Volontariato lucano ha oramai avviato e del quale U Vicinanzo è parte integrante, mette in evidenza legami e capacità relazionali che già esistono naturalmente sul territorio.

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Sono il risultato della sedimentazione sapiente e millenaria di chi ci ha preceduto e che ci ha lasciato in eredità, legami che però nell’esperienza più recente rischiano di “allentarsi”. La strategia delle “reti” recupera gli spazi, sociali ma anche fisici, dentro i quali le relazioni possono ancora essere esercitate. Recupera il senso delle distanze geografiche, dei tempi lunghi, delle difficoltà di incontro, della diffidenza, della lontananza delle Istituzioni dalle persone. Dagli anni novanta in poi anche l’Unione europea promuove processi “bottom up”, che partono cioè dal territorio, prendendo atto del sostanziale fallimento delle tradizionali impostazioni di governo “dall’alto”, delle decisioni cioè prese senza “sentire” il territorio e che hanno contribuito ad allontanare quest’ultimo da chi lo governa e dalla sua gente. Decisioni che certo hanno prodotto spesso anche risultati di efficienza, ma non sempre di efficacia, e quasi mai di equità. È tempo di tornare al coinvolgimento dei diversi Attori che popolano le aree rurali (e la Basilicata è praticamente tutta rurale) e ai legami di reciprocità, per ricostruire quel “contesto relazionale” che ha messo in primo piano nel passato le persone che abitano il territorio ed il suo genius loci. È tempo di dimenticare finalmente quello strano senso di fastidio che a volte dalle Amministrazioni locali traspare nei confronti degli “aiuti” per il volontariato. Quasi non fossero invece, questi aiuti, preziosi strumenti di supplenza per servizi che il pubblico non sa, non riesce, non ritiene di dover erogare. Lo spazio fisico sarà di nuovo popolato dagli interessi della gente, le piazze saranno ancora luogo di relazione, gli edifici saranno accoglienti e amichevoli ? Forse. E comunque il riferimento sarà quello degli spazi dilatati, in quanto la nuova ruralità impara in fretta, ha compreso che lo sviluppo locale attinge da tutte le risorse del territorio, esige il contributo di tutti gli Attori sociali e, come un gas, si espande a tutto lo spazio disponibile.

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La sua nuova dimensione dovrà aspettare che anche il pubblico si adegui seguendo i suoi ritmi? Il volontariato dovrà ancora soccorrere quest’ultimo ricorrendo alla sua propria capacità di “sentire” le esigenze del territorio, e di orientare ai bisogni veri? Il suo radicamento nel sociale, profondo e vero, consentirà di sniffare la direzione giusta, e assolverà al compito di rispondere alle sollecitazioni indicandole al resto della società civile? Un esercizio di rinnovo delle capacità di risposta ai problemi

Quali condizioni per lo sviluppo? Proviamo ad estrarle dalle capacità sedimentate nel Vicinato. Abitiamo territori socialmente fragili, che rischiano di perdere ogni possibilità di sopravvivenza economica e culturale perché non c'è più protezione sociale e produzione di beni pubblici: ci sono sempre meno scuole, presidi sanitari, uffici postali, mezzi di trasporto pubblico. Lo sviluppo deve essere inteso, pertanto, non come puro accrescimento di economia e di beni materiali ma piuttosto nel significato di progresso, come indicato già negli anni settanta da Pierpaolo Pasolini, e cioè come insieme di miglioramento personale e di benessere sociale. Il Volontariato ha il compito di sollecitare un vero partenariato con le Amministrazioni, ai vari livelli, esprimendo concretamente una pluralità di comportamenti in stretta relazione tra loro, attraverso : ‐ la riproposizione di modelli di trasformazione eco‐logica di relazione e insediamenti umani, ‐ il coinvolgimento dei soggetti culturali e sociali che sono Attori della trasformazione territoriale in atto, ‐ la ridefinizione del concetto di “abitare” attraverso la riscoperta di valori qualitativi e di sapienza ambientale. Abitare la casa

La Comunità rimuove i legami con il debole e lo confina in casa, nel migliore dei casi. L’età avanzata, la difficoltà di movimento, la vedovanza, l’assenza di una

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rete familiare, la malattia e la diversità diventano isolamento, solitudine e depressione. Viviamo la contraddizione di un posto sicuro che è stato creato dall’uomo per difenderlo e isolarsi dall’ambiente esterno, e che oggi invece, paradossalmente, viene utilizzato dall’ambiente esterno per isolare l’uomo! La soluzione più “elegante” escogitata, e a portata di mano, appare il recente sistema di presìdio che, attraverso la sola rinuncia all’incameramento della pensione, utilizza le badanti straniere per il servizio di custodia e cura dell’anziano. Ne consegue un altro paradosso: in questo modo un “recluso” viene assistito da un altro essere umano preso per bisogno, sottopagato ed in regime di sostanziale schiavitù. Il Volontariato deve dunque organizzarsi per fornire invece socialità e cura, magari cooptando le stesse badanti. Una volta professionalizzate, naturalmente. E decorosamente in regola con le leggi dello Stato, regolarizzando capacità e dedizione, in gran parte sperimentate sul campo, e nello stesso tempo recuperando umanità e risorse anziane. Abitare la città

Le famose Barriere che accompagnano il debole dalla casa alla scala urbana, passando attraverso i servizi, l’inaccessibilità dei luoghi sociali, la difficoltà di sentirsi pari e l’emarginazione fisica dagli eventi quotidiani, sono sperimentati in realtà non soltanto dai disabili. Occasioni per sentirsi impediti ne hanno tutti, prima o poi, anche se fortunatamente spesso è per poco tempo: un’influenza, l’esito di un incidente, la rottura di un arto, o pensiamo più semplicemente a una donna incinta, a un bambino, un anziano. Per questi ultimi c’è una barriera in più, quella tra le diverse generazioni: i dati statistici ci dicono che la piramide demografica si sta modificando e anzi, a sentire gli esperti, si è addirittura rovesciata. L’evoluzione dei comportamenti è molto rapida, stili e modelli di vita cambiano più in fretta, le tecnologie galoppano, i giovani acquisiscono

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un’autonomia e un’indipendenza di giudizio più precocemente, si sentono soffocati dagli anziani le cui esperienze rappresentano sempre meno un modello per le nuove generazioni. Per i giovani d’altra parte è sempre maggiore l’offerta di sperimentazione dell’autonomia, della società attiva, ma sempre di meno hanno occasione di curare il proprio radicamento alle tradizioni, alla cultura locale, alla sapienza di territorio. Ecco una barriera che il Volontariato può aiutare a superare: l’incontro tra generazioni deve avere i suoi luoghi, le sue strutture, le sue risorse. Che sono umane, queste ultime, ma anche finanziarie. Luoghi che devono essere “prossimi”, e non fuori mano, come spesso sono i ricoveri resi disponibili per attività sociali importanti ma che sono ancora considerate marginali (strutture dismesse, ex scuole, locali periferici rispetto agli abitati), e devono avere invece decoro e manutenzione. E soprattutto devono trovarsi “dentro” la città. Gli anziani devono avere spazi consoni, devono stare in mezzo alla gente, devono ospitare attività condivisibili con i giovani, devono avere tecnologie e servizi in grado di trasferire davvero le loro capacità alle altre generazioni. Sono pezzi di Comunità, e non è decoroso, ma nemmeno socialmente utile, che debbano esercitare il solo gioco delle carte in ambienti umidi e polverosi che ricordano vecchie fumose e inospitali cantine. Il Progetto della Regione Basilicata “Internet Social Point” ha dimostrato che c’è una “contaminazione” possibile attraverso usi impensati degli strumenti elettronici, e che da questa si può arrivare a condividere manualità artigianali e sapienze collettive. I vecchi spazi domestici dell’incontro con i nonni possono dilatarsi anch’essi in una nuova dimensione che recupera socialità urbane e nuove modalità di trasferimento delle “buone pratiche” di Comunità. Abitare il territorio

Il paesaggio oggi è poco “naturale”. È il prodotto invece della sedimentazione millenaria del presìdio umano,

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di un utilizzo collettivo virtuoso che è stato capace di costruire nel tempo una sapienza che, in un territorio che non vanta meravigliose cattedrali o monumentali opere d’arte, costituisce in realtà l’eredità più preziosa che ci sia pervenuta. È frutto di una Comunità operosa e densa di relazioni, capace di migliorare il suo habitat raccogliendo il contributo quotidiano di tutti i suoi membri. Capacità che forse è ancora presente nel nostro DNA e che può ancora sperimentare la riproposizione di un’agricoltura responsabile, in grado di rispondere a vecchi e nuovi bisogni del territorio. E che nello stesso tempo, più modernamente, impari a trarre beneficio dal contributo di tutte le componenti sociali, recuperando quei margini di utilità e di economia che nella tradizione contadina erano occasione di ricchezza, con pari dignità, all’interno della organizzazione produttiva: “… l’agricoltura contadina non conosceva i ‘disabili’, tutti erano a loro modo abili, quale che fosse il loro livello culturale o le condizioni mentali. Le piante e gli animali non discriminano nessuno, non si voltano dall’altra parte e crescono sane chiunque le accudisca”. (Saverio Senna, Università della Tuscia‐ Viterbo)

Il Volontariato può farsi promotore di una rinnovata agricoltura, multifunzionale e orientata allo sviluppo sostenibile, aiutando la scoperta dell'agricoltura sociale, caratterizzata cioè da esperienze che fanno uso delle risorse presenti nel mondo rurale per far fronte al ripristino di valori etici nel campo agricolo, come il benessere delle persone, il lavoro solidale, l'inclusione sociale. Proprio per questo suo carattere trasversale e per il suo radicamento in principi di carattere etico, il Volontariato può diventare il ponte tra le politiche agricole, sanitarie, sociali e formative. Può immaginare, ad esempio, l’utilizzo sociale di terreni pubblici attraverso partenariati con gli Enti proprietari. Potrebbero prodursi coltivazioni che oltre a costituire occasione di formazione e lavoro dignitoso per giovani, donne e soggetti “border line”, potrebbero offrire occasione di rinnovata integrazione (trasmissione di saperi) a chi si sente socialmente escluso: anziani, disoccupati, stranieri,

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badanti, ecc.. Il Volontariato può proporre, insomma, un più moderno e dignitoso senso della ruralità, a più livelli e denso di relazioni e contributi reciproci, di nuovo espressione delle capacità innovative e imprenditoriali locali e in linea con le tendenze positive dell'economia, del turismo e dell'ambiente. Ruropolis

Nel Ciclo dei Seminari si è discusso, tra l’altro, del carattere strutturale o di “Sistema” della crisi economica attuale. Sono stati evidenziati i limiti del modello della “crescita continua”, a fronte del carattere finito del pianeta e delle sue risorse. A tutti i livelli sia geografici, che istituzionali e sociali ‐ si è detto ‐ si pone il problema di ridefinire i parametri dello sviluppo umano in rapporto alla necessità di conservare il territorio (e il Pianeta) come lo conosciamo e come appare ancora congeniale alla sopravvivenza umana. Ci siamo chiesti come il Volontariato possa individuare alcuni dei Beni Comuni per i quali bisogna che proponga l’obiettivo della salvaguardia, nel suo ruolo di sussidiarietà rispetto alle Istituzioni, ed in quello di espressione della partecipazione attiva dei cittadini ai processi decisionali E di come la salvaguardia possa essere perseguita. Il confronto tra le Memorie personali, e tra le diverse competenze, ha evidenziato che ciò che individuiamo come Vicinanzo sia in realtà un prezioso Patrimonio costruito dalle Comunità che ci hanno preceduti, e che può ancora esprimere relazioni, soluzioni di adattamento al contesto, e capacità di risposta alle avversità. Un patrimonio che appare costituire un vero e proprio Capitale Sociale in dotazione alle Comunità delle nostre Valli. Nel corso degli incontri di lavoro la riflessione dei singoli partecipanti ha analizzato il ruolo che le Comunità locali hanno il dovere di svolgere nei confronti della salvaguardia del territorio, delle risorse, dei valori storici, sociali e civili. Come nel passato così nel presente, le Comunità devono svolgere un’attenta manutenzione delle capacità disponibili, migliorando le loro potenzialità rispetto ai cambiamenti futuri.

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L’esame ha evidenziato valori che nel passato erano condivisi, e ne ha messo in rilievo: ‐ la dimensione, generalmente appropriata alle risorse del territorio, ‐ il loro ruolo di presidio per la gestione e per la conservazione delle risorse del territorio ‐ il carattere tutto sommato sostenibile dell’economia, ‐ l’esistenza di una sapienza e una cultura locali, di un sistema di solidarietà e di relazioni sociali espresse anche nei confronti delle Comunità più vicine. Ma ha rilevato anche aspetti che non hanno favorito l’instaurarsi degli stessi valori che si sviluppavano invece nelle Comunità del centro Europa nel corso delle recenti epoche storiche. Valori che sono stati avvertiti, nel sentire popolare ma anche nelle discipline umanistiche ed economiche, come altrettante “assenze” o “mancanze” dalle nostre Comunità. Comunità che mostravano di subire, come per una colonizzazione forzata: ‐ la persistenza di rapporti servili e di clientela; ‐ l’assenza della nozione di “pubblico” e di democrazia come si andava definendo nel resto del Continente, ‐ la percezione di mancati diritti e responsabilità sociale, ‐ il subordine di una classe “borghese” scarsamente imprenditoriale e disposta ad un puro ruolo di controllo e di cerniera nei confronti del potere politico, ‐ il permanere di una economia agricola povera e di pura rendita, ‐ il limitato afflusso di conoscenze e di tecnologie. E non hanno certo giovato, agli inizi del secolo scorso, gli appelli all’emigrazione come unica soluzione sociale ed economica possibile, da parte di esponenti di rilievo del nostro stesso Parlamento. Le Comunità si sono svuotate di forza lavoro, ed il confronto con le possibilità offerte da altri luoghi ed altri sistemi ha svalutato agli occhi dei rimasti il valore della propria terra e della propria Comunità. Le politiche di sussidi verso il Mezzogiorno hanno rafforzato il fenomeno sfilacciando il tessuto economico e sociale già compromesso.

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L’economia di consumo, i mezzi di comunicazione di massa e la globalizzazione, attraverso la proposta di qualità “altre”, scarsamente riscontrabili localmente, hanno convinto poi all’emigrazione anche i giovani istruiti, ai quali non si propone nemmeno oggi, in alternativa, un ruolo consono. È a rischio la perdita della Memoria storica e collettiva. Perfino un certo disprezzo per il proprio territorio appare conseguente al sovrapporsi di nuove sudditanze ai vecchi mali di una cultura ferma a volte al Medioevo. Questa cultura ripropone patologie che sono, giustamente, un rinnovato stimolo alla fuga delle intelligenze e al rifiuto dell’impegno verso un territorio che è vissuto come patrigno. Tuttavia l’attuale crisi strutturale determina oggi il paradosso di un Patrimonio che è “drammaticamente” ricco, in quanto è scarsamente utilizzato. Anzi, piuttosto conservato, proprio a causa dello spopolamento e del mancato sviluppo. Un patrimonio ricco, naturalmente, se si paragona al consumo di qualità che altrove ha determinata una nuova povertà globale. Ricco anche a fronte di un rinnovato interesse per condizioni sociali e culturali che appaiono oggi di nuovo utili. L’indebolimento della Memoria collettiva sembra ancora recuperabile, per quanto difficile. E forse più qui che altrove. Purchè si rimedi, ovviamente, all’attuale frattura tra le generazioni, e purchè si ricostruisca il tradizionale meccanismo di trasmissione tra anziani e giovani. Attraverso questo ponte generazionale sarebbe forse recuperabile il valore positivo (sostenibilità – dimensione umana del sociale) dell’antica economia locale lungo tutti gli Appennini, luogo dove ancora ne permane traccia in certe abitudini quotidiane. E in special modo nelle Comunità Lucane, della Bassa Campania e dell’Alta

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Calabria, nelle quali appare realizzabile, attraverso l’introduzione di una corretta economia della conoscenza, un rinnovato senso della dignità di lavoro e di vita. Ruropolis, o città rurale, può essere dunque il “luogo” che connota il Patrimonio socio‐economico della piccola Comunità locale, esso stesso Bene comune da salvaguardare, da rendere esemplare e da proporre come esempio riproducibile in contesti similari.

Le specificità dei luoghi sono un patrimonio di importanza fondamentale, hanno costituito nel tempo la ragione di ogni insediamento e, nello stesso tempo, l’utilità per la continuazione del loro presìdio. Sono luoghi di Comunità sapienti, che non sono costituiti soltanto dai caratteri naturali e geografici, ma che sono anche patrimonio sociale e culturale fondamentale, contengono le indicazioni per soluzioni locali conservate nel tempo perché riconosciute di successo, propongono il senso sociale dell’abitare, e possono trasformarsi ancora in Risorsa. Ormai da tempo siamo consapevoli che “la ricchezza delle Nazioni”, come la chiamava qualche secolo fa Adam Smith, è certamente il risultato del lavoro applicato alla trasformazione dei territori, ed è conseguenza delle attività delle imprese locali, del loro fatturato. Ma è anche, ed in modo sostanziale, il risultato di quella secolare accumulazione di lavoro intelligente che ha prodotto le nostre piccole città storiche, ed è l’accumulo di sapienza che ha prodotto i nostri “Beni culturali”, come li chiamiamo oggi. Ed è, ancora, l’insieme degli usi collettivi, delle consuetudini culturali, delle memorie condivise, delle tradizioni, dell’abitudine alla relazione tra persone e luoghi. L’insieme di tutto questo, com’è sempre stato nel passato, può costituire di nuovo occasione di economia. Non c’è nessun motivo perché non lo sia: ‐ può fornire esempi di buone pratiche consolidate perché nel tempo sono state selezionate in quanto riconosciute migliori di altre. ‐ può insegnare la ri‐petizione della capacità di adattamento virtuoso al contesto che nei secoli la nostra Comunità ha sperimentato e validato.

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Ogni territorio del resto esprime un insieme di capacità che costituisce il suo proprio Capitale territoriale. Capitale che è la particolare combinazione di esperienze che si sono sedimentate nel tempo, ed è la risposta che la Comunità locale ha dato all’esigenza di convivenza tra persone, natura e struttura dell’area. Spesso è un equilibrio faticosamente raggiunto, è in genere il miglior prodotto dell’intelligenza collettiva in “quelle” speciali condizioni, ed è un valore che va difeso. È anche un valore che viene riconosciuto nelle più recenti motivazioni di viaggio e di perlustrazione, come evidenziano studi e ricerche degli ultimi decenni, Questo ultimo aspetto basta già da solo a segnalare che si può trasformarlo in una rinnovata motivazione per l’investimento. Ma c’è il rischio che il suo patrimonio venga disperso. Oggi infatti l’ambito rurale è un territorio fragile, e la gente che dovrebbe continuare il presìdio non trova sufficienti ragioni per restare. Si interrompe il rituale antico della consegna del testimone ai giovani da parte degli anziani: ‐ quelli perseguono qualità di servizi e di relazioni diverse dalla dotazione locale, ‐ questi non trovano più disponibilità all’ascolto e si convincono che non ha più valore la sapienza stessa che storicamente le generazioni anziane avevano il compito di trasmettere. Una parte importante del territorio è perciò a rischio di spopolamento. Diminuisce sempre più la funzione di presìdio dei luoghi. Senza presìdio, viene a mancare quel lavoro continuo di manutenzione che ha prodotto, finora, proprio il Capitale territoriale. Soprattutto nelle aree più interne, e nella ruralità più povera di servizi, il fenomeno dell’invecchiamento, che interessa tutta la società, da troppi anni ormai si sta accompagnando a quello dello spopolamento: ‐ i giovani si allontanano per studiare, trovano servizi e condizioni più agevoli e non tornano più, ‐ il mercato locale del lavoro è povero ed è “separato” dalle aspettative,

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la concentrazione di anziani ha fatto aumentare la richiesta di servizi migliori e di cure mediche adeguate, Del resto proprio l’inadeguatezza delle strutture sanitarie collocate nelle aree rurali costringe la gente a migrare verso i centri urbani più grandi per accedere a servizi sanitari di qualità (Di Iacovo‐Senni, 2006). Ne deriva che le migliaia di piccoli Comuni delle aree più interne lungo tutto l’Appennino rischiano di estinguersi. Con essi sono a rischio capacità storiche che erano state collaudate nel tempo, diverse per luogo e simili per logica, che costituivano un Capitale sociale caratteristico e spesso di qualità. Anche comportamenti virtuosi come la relazione di vicinato e le tecniche di travaso delle sapienze vengono abbandonati, e le generazioni anziane soffrono della scarsa considerazione attribuita al loro ruolo sociale. Sono una parte sociale sempre meno consapevole della utilità e del valore delle tradizioni. Di queste sono gli ultimi custodi, malgrado ciò essi stessi ne lasciano indebolire le tracce. Eppure il futuro si può ancora costruire, attraverso la sapienza che viene dal passato. ‐

La dimensione femminile del vicinato di Antonella Viceconti Relazionarsi nella società, nel suo insieme, è una necessità, una potenzialità ed anche un desiderio di ogni uomo e di ogni donna. In una società come quella attuale, nella quale prevale l’individualismo, richiamare l’attenzione al valore del rapporto di vicinato è quanto mai prioritario, perché si dà valore a quelle capacità relazionali “che possono nutrire”. A volte possono anche “guarire” quel senso di solitudine dal quale noi tutti spesso siamo assaliti, pur vivendo in una Comunità sempre più frenetica, massificata, rumorosa.

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Aver cura di chi e di ciò che ci sta vicino, presuppone prima di tutto l’aver cura di noi stessi. E questo è vero in particolare per le donne. Scambiare con altri e con altre, scoprire pratiche, esperienze, relazioni, può illuminarci e fortificarci nella cura delle relazioni di vicinato. Prendersi cura del territorio e dei suoi abitanti grandi e piccoli, è un principio fondamentale della vita sociale. L’attenzione verso il benessere, di bambini e anziani in particolare, è una antica e preziosa tradizione dei rapporti di vicinato, compito privilegiato della sfera femminile. Certamente nel corso degli ultimi 50 anni (come afferma mia nonna novantaquattrenne) le regole del buon vicinato, le cortesie reciproche e scambi di gesti di solidarietà si sono affievolite e/o hanno cambiato il contenuto del rapporto personale. Al di sopra delle ideologie e delle false identità che dividono la frenetica vita odierna dei nostri paesi/città in tanti luoghi separati, in gruppi di appartenenza e istituzioni non comunicanti tra loro, in dissonanza con i ruoli sociali che fanno ostacolo alla vita dei liberi rapporti, esiste e resiste, nonostante tutto, la pratica quotidiana di intrecciare relazioni autentiche. Pratica che dalla casa si estende sul territorio e viceversa, rendendo ancora tutto sommato le città abitabili, più vicine ai bisogni quotidiani, ed ancora accoglienti. Tutto questo e altro ancora, molto di più, è pratica di vicinato. La presenza di reti di relazione, di associazionismo, di figure sociali positive nel territorio rendono possibile una maggior disponibilità all’accoglienza, meno egoismo, paesi più sicuri, e aiuta a modificare la vita dei rapporti e soprattutto a far fronte alle difficoltà e ai vari problemi di una comunità. La cultura del Vicinato nella dimensione femminile si racconta nella memoria storica di tutte quelle donne che hanno intrecciato ogni giorno quella fitta rete di scambi, di legami di fiducia, su cui si regge il cuore, il centro vivo di una Comunità, sin dai primordi del genere umano, nel corso della storia, fino ad arrivare ai giorni nostri.

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L’evidenza del genio pratico femminile, di chi conosce l’impegno quotidiano di allevare i figli, portare avanti una famiglia, nonostante la guerra, la povertà, le malattie e oggi come sempre della capacità di affrontare la crisi, e tutto questo insieme, ci ricorda che la dimensione femminile ha avuto sempre un ruolo fondamentale nei rapporti di vicinato, perché le donne sono state, per secoli, l’unica forma di socialità esterna alla famiglia. Storicamente sono quindi legati alla tradizione femminile tutte le possibili relazioni quotidiane di movimento e di incontro tra donne, che hanno prodotto quella famosa cultura della pratica di buon vicinato. Ripercorrendo le tappe del ruolo femminile nei rapporti di vicinato, con la mia nonnina Domenica (B. D. del 1918) ho ripercorso insieme alla sua saggia lucidità, tante piccole storie di rapporti relazionali che mi hanno permesso di dare quel giusto valore alle relazioni tra persone che vivono nello stesso contesto sociale. Innanzitutto vi è da sottolineare che le donne trascorrevano gran parte della giornata nella cura della piccola dimora domestica (2‐3 stanze: cucina, camera), nell’educazione dei figli, nel lavoro dei campi insieme ai contadini. Si dedicavano in particolare alla raccolta delle olive, alla ripulitura dalle erbacce nei campi di grano, granturco, nella mietitura, nella raccolta delle felci, nel pascolo degli animali, nel mungere dentro le stalle, e provvedevano a preparare latte e formaggi. La mia nonnina ricorda che scendeva dalla campagna insieme alle altre donne del suo vicinanzo a vendere il latte, nel centro urbano, di buon mattino, per rientrare per l’ora “du’ ruppidiuno” (circa le ore 10,00, una sorta di merenda di mezza mattinata, consistente in polenta o pane e formaggio, consumata spesso nei campi). Era questo un momento condiviso con il vicinato, o nei campi con i propri compagni di fatica quotidiana. Spesso, soprattutto d’estate si cantavano canzoni popolari per alleviare la fatica del lavoro e il caldo torrido dell’estate durante la mietitura. Nelle serate delle stagioni miti, le donne si sedevano davanti alla porta di

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casa per momenti di serenità dopo la faticosa giornata, dove si scambiavano confidenze, discutevano delle eventuali malattie dei loro bimbi, dell’andamento dei lavori della campagna. Nel frattempo provvedevano a filare il lino o la lana con il fuso, a raggomitolare la lana filata o a rattoppare per l’ennesima volta i poveri indumenti, a sferruzzare gomitoli di lana e preparare caldi maglioni, calze e scialli per l’inverno. Nelle umili e semplici case, vi era maestoso solo l’immancabile presenza del focolare, posto nella stanza‐cucina, che rappresentava la zona più importante della casa. Intorno ad esso infatti si mangiava e si trascorrevano i rari momenti di riposo della giornata. La sua funzione era di vitale importanza in quanto serviva per cucinare e per riscaldare tutta la casa. Inoltre molto spesso il suo bagliore era l’unica luce la sera, quando i contadini, per necessità, erano costretti a risparmiare l’olio della lucerna e le donne vi cucivano stoffe, rammendavano panni e spesso raccontavano buffe storielle ai bambini (non c’era la televisione e le serate si trascorrevano in casa). C’era la tradizione il sabato sera di fare a turno, nelle case dei vicini, le “serenate”, piccole festicciole con l’organetto o la fisarmonica, che rappresentavano un momento spensierato e appuntamento atteso dai fidanzati per scambiarsi piccole tenerezze. Oggi giorno abbiamo le discoteche, i pub, le sale giochi che rappresentano luoghi di incontro giovanili ...ma quanti pericoli, quante devianze minacciano questi nostri giovani…?? La domenica e nelle festività comandate ci si ritrovava insieme per recarsi in chiesa, rigorosamente a piedi. Il tragitto per raggiungere la parrocchia era un modo per socializzare e stare insieme. Questa era anche l'occasione per evadere dalla realtà quotidiana, per incontrare gente e scambiarsi impressioni e consigli sull'andamento delle stagioni e dei lavori nei campi, sulla vita familiare e del paese.

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Luoghi caratteristici di socialità delle donne erano proprio il vicinato, soprattutto per ciò che riguarda le tappe della vita: nascita, fidanzamento, matrimonio, morte. Erano proprie le donne che gestivano, relazionandosi con le “comari di vicinato”, queste tappe fondamentali. Nella dinamica delle relazioni all'interno del vicinato vigeva una sorta di matriarcato e l'uomo era in genere solidale con la sua donna, che gestiva liti, amicizie, fidanzamenti e matrimoni. Solitamente la donna non usciva mai da sola dal vicinato, se non per i pellegrinaggi religiosi. Le ragazze da marito, per salvaguardare la propria onorabilità, non comparivano mai in pubblico da sole, se non accompagnate dalle madri che, peraltro erano molto rigide nell'educare le figlie al rispetto delle norme sociali della Comunità e le difendevano strenuamente dalla malignità e dall'invidia delle vicine di casa. Le donne giocavano d'astuzia per poter incontrare l'amato fidanzato o soltanto vederlo da lontano, perché il vicinato era, purtroppo colmo di spie, pettegolezzi, gelosie ed invidie. La madre di una ragazza nubile, invidiosa del fidanzamento di una vicina, poteva "sparlare" degli incontri segreti dei fidanzati o diffondere malignità sulla “zita”. Sua figlia avrebbe così potuto prendere il posto della zita, smettendo d'essere zitella. Le ragazze comunque, quasi sempre aiutate dalle madri, sorelle e zie, trovavano un marito per accasarsi. Per gli incontri con il vicinato spesso si organizzavano giochi, serenate, inviti, che erano un efficace sistema d'approccio. Una volta fidanzati, l’uomo si recava dalla “zita” solitamente il Giovedì e la Domenica (e comunque solo 2 volte a settimana). Oggigiorno le relazioni tra fidanzati sono molto cambiate: gli innamorati si vedono ogni giorno, messaggiandosi, chattandosi tramite FB, video‐ chiamandosi ogni qualvolta lo desiderano.

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La fontana pubblica, e in particolare il lavatoio pubblico, rappresentavano un luogo privilegiato di relazione, in quanto avevano molto tempo a disposizione per dare e ricevere notizie e per fare pettegolezzi. Riguardo alla fontana, occorre ricordare che spesso in alcuni centri la fontana pubblica assolveva a due compiti contemporaneamente: erogare acqua potabile e dare la possibilità alle donne di lavare i panni. Molto spesso proprio al lavatoio scoppiavano le più memorabili litigate tra donne. Per le famiglie delle case sparse la carenza di acqua, specie d’estate, creava sempre gravi difficoltà. Nel periodo invernale riuscivano a raccogliere acqua piovana e facevano il bucato in casa, mentre nel periodo estivo erano costrette a tempi lunghi per poter lavarli tutti nelle cosiddette “cibbie” (grandi vasche di raccolta di acqua per lavare panni e approvvigionarsi dell’acqua per innaffiare in tempi di siccità) spesso le donne si ritrovavano a relazionarsi socialmente, per lavare e per approfittare per tessere rapporti di vicinato. Portavano una enorme quantità di panni, trascorrendo così l’intera giornata vicino al torrente. Preparavano la cosiddetta “lessia”, un bucato con l’ammollo delle lenzuola in acqua calda e cenere. Si sciacquavano i panni nell’acqua corrente, poi li battevano con una mazzuola di legno sulle pietre del torrente, e successivamente li mettevano nell'acqua calda che preparavano accendendo il fuoco. Infine ritorcevano i panni, sbattendoli sulle pietre, e li mettevano ad asciugare sui rovi. Le donne che abitavano vicino ai centri, invece, andavano al lavatoio pubblico portando in testa, oltre i panni, tutto l’occorrente e cercando di arrivare presto per conquistare un posto migliore. Nella cultura contadina la religione è presente dalla nascita alla morte. In tutte le situazioni della vita, infatti, il divino come oggi era una costante che generava una concezione di vita svolta in un contesto di fede. Il contadino sente istintivamente il bisogno di invocare Dio contro le

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malattie, i soprusi, le avversità atmosferiche e contro qualsiasi altro evento negativo. Bisogna, quindi, considerare la religiosità popolare e i suoi rapporti con il tessuto sociale per evidenziare a quali supporti della mente popolare si attacca l'esperienza religiosa. In modo particolare la devozione per il Santo protettore spesso portava le donne a vestire i bambini con abito simile a quello del Santo e/o a dare il nome del Santo ai propri figli. Accanto ai sentimenti di autentica religiosità popolare, i pregiudizi e le credenze superstiziose trovano ancora oggi fertile terreno nel mondo contadino. La magia, pur condannata più volte nei sinodi diocesani, è il mezzo attraverso il quale la popolazione cerca di proteggersi dall’ignoto e di fronteggiare le avversità. In una società rurale minacciata continuamente da epidemie, carestie, terremoti, calamità d’ogni genere, il ricorso alla magia diventava un modo rassicurante, almeno sul piano psicologico, per esorcizzare la paura della morte e della disgrazia imminente. Nella costante precarietà dei beni più elementari della vita e nella continua incertezza del domani, il ricorso al soprannaturale diveniva speranza. Perciò fatture, "fascinazioni" ed esorcismi sono da ricondursi alla insicurezza della vita quotidiana piuttosto che ad una vera fede nella validità delle forze magiche. Il contadino che vede continuamente in pericolo la sua ricchezza, che è tutta nella terra che coltiva, ha fiducia in Dio e getta nella terra il seme della speranza, ma nello stesso tempo è fatalmente abituato a temere le avversità della natura. Spesso ancora oggi, quindi, le pratiche magiche sono dipinte di religiosità popolare, per cui sono soprattutto le donne che si recano presso un fattucchiere o loro stesse sono “magare”, svolgono cioè, riti di magia per allontanare il cosiddetto “occhio”, l’invidia”, “i vermi” dall’addome dei bambini.

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I riti consistono, nella tradizione, in parole pronunciate di fronte all’interessato o, in mancanza, tenendo in mano un suo indumento. Le donne attribuivano grande potere di guarigione ad alcune erbe e piante, alcune di loro si improvvisavano quasi erboriste, cioè esperte di erbe medicinali e all’occorrenza venivano interpellate in soccorso per alleviare un malore improvviso. Era compito esclusivo delle donne assolvere il compito di preparazione e assistenza della partoriente. Gli uomini venivano mandati nei campi a lavorare e le donne del vicinato assistevano la partoriente insieme alla “mammana” (ostetrica), che però spesso era distante ore di cammino dalla casa del nascituro e per questo veniva chiamata solo in caso di parto estremamente complicato o gemellare. Le donne del vicinato continuavano ad assistere la puerpera ed il suo neonato nelle prime settimane di vita. In caso di mancanza di latte o insufficienza ad allattare il bambino si faceva ricorso a mamme che allattavano già i loro bambini : le cosiddette mamme di latte. Ricordiamo che l’allattamento veniva protratto per i primi tre anni del bambino ed è per questo che le donne si scambiavano tra di loro, nell’allattare i figli. Oggi sul mercato c’è il latte artificiale, ma è ammirevole constatare quanto la donna nel corso della storia, si sia adoperata per risolvere questioni legate alla propria maternità, adempiere a carenze varie che si presentavano nel ruolo di madre ed assistere le proprie amiche di vicinato nel delicato periodo post‐partum (oggi tanto a rischio nelle giovani mamme per la cosiddetta depressione post‐partum) Un altro ruolo importante di relazione di vicinato affidato alla donna era quello di saper gestire con saggezza la consulenza familiare. Spesso alcune donne erano particolarmente dotate di ristabilire l’intesa coniugale o familiare tra marito e moglie e/o in occasione di liti tra famiglie (per questioni di rispetto della propria proprietà privata, confini “tirmini”, ecc….) ancora riportare la pace tra famiglie o parenti.

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Queste donne venivano chiamate: “fimminone”. Oggi giorno questa competenza femminile è stata sostituita dai Consultori familiari, i Counseling, la psicoterapeuta, ecc…, ma certamente, in passato, il ruolo femminile è stato un valore di relazione sociale indispensabile. Compito prettamente femminile erano i preparativi del matrimonio: alle donne era affidato l’ incarico di preparare la sposa, il pranzo nuziale (il banchetto di nozze si svolgeva solitamente a casa della sposa), i dolci nuziali, in particolare i tradizionali “viscuttini janchi” simbolo delle nozze. La preparazione di tali biscotti richiedeva qualche giorno di preparazione: l’impasto, la cottura, la preparazione del “naspro bianco” albume d’uovo con lo zucchero, che veniva colato sul “viscuttino” e lasciato asciugare su canne all’aperto. In occasione di un funerale, le prime a correre a casa del defunto erano proprio le donne del vicinato, che si occupavano di vestire il morto e preparare la cassa funebre con la biancheria e oggetti cari all’estinto. Vi erano poi alcune donne specializzate a “cantare il verbo”, cioè lamentare versi per la perdita del famigliare o amico/a. Le donne si occupavano anche dei viveri, il cosiddetto “cunsulu”, cioè per alcuni giorni si portava da mangiare alla famiglia del defunto. Era questa una forma si solidarietà e di vicinanza per il dolore che aveva colpito la famiglia. Un’altra tradizione tipicamente femminile era la preparazione del pane fatto in casa. Tra donne di vicinato spesso ci si aiutava a vicenda per impastare e infornare, ma la consuetudine di scambiarsi il lievito per la panificazione è forse l’elemento che caratterizza questo gesto tipico della cultura contadina. Il lievito, ad ogni panificazione passava da una casa all’altro del vicinato. In questo modo la cosiddetta “livatina” era sempre fresca. Vi era l’usanza nella cultura del vicinanzo di scambiarsi la focaccia chiamata “pizzatolo” tra famiglie dello stesso vicinato. Come la “crianza”, così chiamata la visita di vicinato, quando qualcuno

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non stava bene, quando si festeggiavano eventi gioiosi della vita, o in occasione di lutto: solitamente si portava “zucchero e caffè”. E’ per concludere la cura dei piccoli: sempre le donne si prendevano cura dell’educazione e della crescita della prole. Spesso le donne si riunivano con i bambini nella cosiddetta “aia”, dove i piccoli potevano rincorrersi a giocare e rincorrersi. C’era l’uso tra donne di utilizzare un metodo per poter intrattenere i bambini “ù ntartino””, o “truzzula bancone”, una specie di nursery per bambini e ragazzi. Questi si mandavano dalle vicine di casa per tenerli occupati ogni qualvolta le mamme era occupate dalle faccende domestiche La riflessione viene spontanea: le donne in ogni tempo hanno cercato un modo di socializzare, di relazionarsi tra di loro, di collaborare per sostenersi a vicenda nelle piccole e grandi difficoltà della vita, collaborando a servizi di prossimità, mutua collaborazione e scambio di beni e mano d'opera nei lavori stagionali. Oggi è necessario trasformare questi valori in una risorsa relazionale, per recuperare la memoria storica di quella tradizione contadina genuina di valori concreti, da salvaguardare perché possa diventare una risorsa del nostro patrimonio umano.

Memoria, femminile plurale di Giusy Gazaneo Lo stato di benessere della persona dipende dalla qualità sociale, e perciò dall’attenzione per i bisogni veri di tutti ma in special modo degli anziani, oggi i più fragili tra i deboli. Dipende dalla qualità stessa dei servizi che offriamo loro, dalla rispondenza alla domanda, dalla condizione dell’abitare, dalla sicurezza. E dalla loro consapevolezza di essere ancora utili, nel ruolo tradizionale di testimone e di legame con le cose buone del passato. Il rischio è che si tagli definitivamente il collegamento con la Storia, convincendoli di una loro sostanziale inutilità sociale.

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Il peso della solitudine è evidente negli stati di depressione che accompagnano la vita degli anziani ed in particolare quella che la riassume tragicamente, della donna anziana sola, spesso vedova, particolarmente fragile e soggetta a disturbi psichici. Tutto questo ci chiede di essere più attenti alla necessità di aumentare le relazioni tra le persone, di tenere vivo il sentimento e la voglia di apprendimento, di comprendere anche la necessità di affetti e il bisogno di amore nell’arco di tutta la vita. Bisogna trovare nuove strade, inventare iniziative, costruire un’organizzazione sociale più rispondente e più sensibile ai problemi della persona. Soprattutto che dia un senso alla presenza e alla capacità di chiunque. Nel Laboratorio di Comunità di Lauria stiamo provando a tenere in vita la Memoria collettiva passando attraverso le storie personali, attraverso le biografie, attraverso i “luoghi” della Memoria. Ripercorrendo le esperienze delle gioie ed anche delle piccole e grandi battaglie personali, delle Feste, del matrimonio, della maternità, dei propri lutti, del lavoro. Crediamo che ricostruire le singole piccole storie possa servire per ricostruire la Storia, quella grande, per fissarne le tracce e consegnarle a chi viene dopo. E per costruire rapporti di uomini e donne, persone attive, che aiutino a trasmettere la conoscenza di cui abbiamo bisogno. Aiutare le persone a liberare i propri ricordi, riconoscerne la dignità, con‐ dividere le esperienze può aiutare, inoltre, le nuove generazioni a recuperare il senso della coerenza, del tempo e delle cose. Nel contempo proviamo a ricostruire i legami tra le storie personali e familiari e quelle collettive, dell’ambiente e degli scenari nei quali le storie si sono svolte. Raccogliamo soprattutto le memorie delle donne, che sedimentano più degli uomini forse proprio in virtù del ruolo che viene affidato loro all’interno della famiglia, e che deve tener conto sia delle tradizioni che della necessità di fare i conti con le cose reali di tutti i giorni.

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Contemporaneamente intendiamo leggere anche gli eventi storici, in collaborazione con esperti esterni, per evidenziare l’intreccio di sempre tra i fatti storici e la vita quotidiana. A supporto di questa operazione ci piacerebbe realizzare una serie di iniziative culturali, storiche e di rappresentazione della Memoria che riportino quest’ultima tra la gente, e che diano visibilità alle nostre ricerche perché diventino patrimonio condiviso. Tutti noi siamo “produttori” di Memoria, e di Memoria di grande qualità. Non abbiamo però consapevolezza di tanta ricchezza, e questa non diventa mai risorsa. La Memoria non riesce più a fare il suo lavoro, non ci aiuta, cioè, a sentirci migliori di quanto noi stessi pensiamo: non riusciamo a sentirci protagonisti, ci sentiamo inutili e soli. Perché la Memoria recuperi la sua funzione deve diventare davvero collettiva, ed è indispensabile perciò valorizzare i nostri contributi attraverso tutte le modalità possibili (piccole pubblicazioni, dvd, Siti internet, ecc). Dovremo imparare a mettere in Rete le iniziative che produciamo nel Laboratorio di Comunità, con una ulteriore operazione di condivisione che può esaltare gli effetti positivi dei nostri sforzi, che non devono più rimanere “separati”, e sconosciuti. Stiamo provando a riprenderci le Memorie attraverso la frequentazione delle strumentazioni informatiche, utilizzando l’Internet Social Point realizzato sulla base del Progetto digitale della Regione Basilicata. Vogliamo imparare ad utilizzarlo per lasciare traccia delle cose che facciamo, e vogliamo che ci aiuti a tenere insieme i giovani e gli anziani. Vogliamo intensificare le relazioni con le altre Associazioni, migliorare la capacità di “fare insieme”, per costruire una dimensione virtuosa e consapevole che aumenti l’impatto sulla Comunità. Abbiamo imparato ad essere ambiziosi, e solleciteremo contributi anche da parte degli studiosi e dei Dipartimenti dell’Università. Immaginiamo di saper dimostrare come percorsi di conoscenza

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apparentemente diversi tra loro possano costruire, e con perfetta coerenza, una consapevolezza “di territorio”. Consapevolezza: ‐ che sia realizzazione di rinnovata identità, ‐ che ci aiuti a sentirci orgogliosi di quello che, in continuità con le nostre tradizioni, siamo ancora capaci di fare, ‐ che consenta ai nostri giovani di recuperare una eredità che è di grande qualità, ‐ che trasformi l’insieme delle nostre risorse culturali e sociali in patrimonio condiviso, ‐ che ci prepari a nuove economie e ad una nuova qualità di vita. Negli ultimi decenni l’esodo dalla Valle, mai cessato dagli inizi del secolo scorso, e pur diminuito nelle quantità, ha assunto dimensioni sociali e qualità preoccupanti in quanto minano la permanenza stessa dei caratteri tradizionali locali. L’esodo interessa infatti i giovani scolarizzati che partono per non tornare più. Questi non riconoscono all’area la capacità di riferimenti culturali forti e di livello tale da costituire alternativa alle suggestioni della società “globalizzata”. Non ne riconoscono i caratteri di identità e sono convinti di non partecipare ad alcuna forma di cultura per la quale valga la pena di restare. Sono orfani di una storia e di una tradizione che invece è ricca e complessa, ma che è stata per molto tempo negata o travisata. È più che mai necessario ricostruire le ragioni del riferimento alle proprie radici, utilizzando gli strumenti più diretti e immediati, adottando linguaggi e tecniche più congeniali ai ragazzi, in modo da provocare nell’immediato interesse e reazione “partecipata”. La scelta è di quelle capaci di rivolgersi alla naturalità più genuina del contesto sociale ed in qualche modo allo stesso “dna” dei residenti. Del resto il contesto locale si va facendo sempre più multi‐culturale, grazie alla presenza di un sempre maggiore numero di immigrati. Separata dalle aspirazioni dei giovani, il ruolo della conservazione di

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caratteri autentici non sembra avere più valore, e invece di arricchire il contesto locale, la nuova consuetudine alle frequentazioni esterne e alle sollecitazioni “globali” dei Media rischia di sovrapporsi banalmente alle radici locali, diminuendone il valore. La Memoria collettiva rischia però anche di deteriorarsi in localismi, campanili e inopportune chiusure al forestiero e al diverso in genere. Deve essere invece preservata in quanto contiene in sé i caratteri e la dimensione locale della “Qualità della vita”. È una componente fondamentale dello sviluppo, perché : ‐ ‐ ‐

è il riferimento per la riproduzione “sociale” di alcuni valori fondamentali, grazie alla recente attenzione alle identità locali può aiutare ad attrarre risorse umane ed economiche, adeguatamente valorizzata, può creare valore aggiunto e promuovere occupazione giovane, dignitosa ed orgogliosa delle proprie tradizioni.

E’ costituita dall’insieme delle singole Memorie individuali, e questa sua natura la rende poco riconoscibile. Se non attraverso codici che non sempre sono evidenti, e che bisogna tradurre in un linguaggio che sia comprensibile a tutti. Perché la consapevolezza collettiva emerga di nuovo, è fondamentale che si realizzi una “conoscenza condivisa” del territorio, delle capacità in esso presenti, delle opportunità, delle conoscenze comuni. In sintesi va ricostruita la consapevolezza del Capitale territoriale che si ha a disposizione, inteso come l’insieme di ambiente naturale e di patrimonio storico, di cultura economica e sociale, di capacità istituzionali, di mezzi di espressione “partecipati”. La dimensione deve essere dilatata, deve superare i Paesi e i campanili, e quella di Valle appare la più congeniale a garantire un aggregato sufficientemente capace di esprimere una significativa quantità di riferimenti comuni e di comune sensibilità. È una dimensione che risponde a criteri di congruità, offre sufficienti garanzie all’ipotesi di comportamento come unico soggetto collettivo,

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sembra interpretare una certa “autoconsapevolezza”. Inoltre nel corso dei millenni ha vissuto più volte particolari condizioni di coesione socio‐culturale e di linguaggio emozionale e comunicativo, esperienza che appare consolidata nella memoria collettiva. Anche nel ritmo e nel canto, e nelle Sante ricorrenze, permangono riferimenti per ritrovare le proprie ragioni e per riconoscere la cultura dell’incontro, della quale sono ancora permeati. Riferimenti che sono ancora evidenti anche nei riti quotidiani di conoscenza e di frequentazione collettiva, fissati attraverso la traduzione, nei mezzi di espressione più semplici ed anche non verbali, di situazioni, passioni, drammi e gioie “sociali”. Gli stessi canali forti della comunicazione solidale, ancora presenti in qualche modo nel sentimento popolare, possono ritrovare un senso nella ri‐abitudine alla dimensione di Valle ed alla condivisione attraverso i mezzi più suggestivi e coinvolgenti. Una rinnovata vitalità che può opporsi alla disgregazione del tessuto sociale, che è capitale umano fondamentale. Disgregazione avviata anche qui da noi da qualche decennio, e che va contrastata attraverso il ricorso alle reti informali e agli strumenti sociali. Gli stessi che nel passato, anche in contesti drammatici, hanno consentito di condividere il senso di appartenenza e di superare altre fasi critiche, e di adattarsi alle difficoltà che superavano la dimensione del singolo. Tra le espressioni tradizionali più coinvolgenti, il ritmo e la danza potranno ancora costituire oggetto di attrazione in quanto nello stesso tempo evidenzano le capacità comunicative di spiritualità e di sentimento collettivo. Anche della danza e del ritmo dovranno essere perciò investigate le capacità di sedimentazione del sentimento popolare, attraverso la lettura della gestualità consolidata, comparata alle similari modalità dell’area sud del Mediterraneo. Si dovranno cercare i riferimenti alle origini e ai significati che possono ancora oggi raccontare la capacità collettiva ed originale di essere presenti

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negli avvenimenti epocali, l’orgoglio di riconoscere con rinnovata consapevolezza le antiche sapienze ancora presenti e di travasarle nel prossimo futuro. Il territorio delle Valli del Noce e del Mercure è ricco di Capitale sociale, inteso quest’ultimo come patrimonio sedimentato di relazioni, tradizioni, esperienze, codici di comportamento, norme e procedure produttive e commerciali, comprensione reciproca, valori condivisi, consapevolezza di una identità comune e dignitosa. Sono valori che si intendono evidenziare nella misura in cui sono condivisi dai territori di riferimento delle Associazioni partners, valori che già in precedenti collaborazioni le stesse Associazioni hanno rilevato l’opportu‐ nità/necessità di rappresentare, in quanto elementi di una visione sociale ancora comune. Nell’area le Associazioni hanno infatti incamerato esperienze di collaborazioni recenti in un contesto che appariva invece poco incline a lavorare insieme. In realtà negli anni recenti la consuetudine a pensare in maniera individuale (e, ai vari livelli, campanilistica e “separata”), consuetudine ereditata dal recente passato, ci ha impedito evidentemente di tener conto di una evoluzione che invece si stava orientando ad una rinnovata condivisione delle esperienze sociali comuni. E che è disponibile a realizzare una nuova offerta di territorio, aperta alla collaborazione ed ospitale. Gli strumenti della socialità, gli incontri, le condivisioni, tradizionalmente vicini alla spiritualità più popolare, possono contribuire a superare diffidenze e differenze. Possono accellerare la scoperta di nuove possibilità di promozione turistica, ad esempio, e possono solleticare anche ambizioni di piccole economie in grado di dimostrare ai giovani la possibilità di trasformare in risorse la ricchezza delle proprie tradizioni.

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Strumenti e Memorie della tradizione locale

di Ginetta Scaldaferri Il ruolo del vicinato nel passato in relazione agli usi, costumi e tradizioni propri dell’infanzia: analisi delle relazioni, dei ruoli, dei rapporti sociali relativi a: la nascita, i giochi. La nascita La donna in attesa di un bambino veniva, in un certo senso, adottata da tutta la comunità del vicinato. Tutti avevano uno speciale riguardo per la futura mamma. In particolare, bisognava esaudire ogni suo desiderio. Era diffusa la credenza che se il bambino nasceva con qualche macchia sulla pelle, questa veniva attribuita al fatto che la mamma, in gravidanza, non aveva mangiato un cibo desiderato e, nel punto in cui si era toccata, si era formata la “voglia”. Vi erano, dunque, due precauzioni da prendere: ‐ bisognava esaudire tutti i desideri della donna incinta, ‐ oppure, se la futura mamma non poteva essere accontentata, doveva evitare di toccarsi le parti del corpo più esposte. La donna partoriva in casa, aiutata dalle donne del vicinato, dalle parenti e dalla levatrice o “mammana”, che corrispondeva all’attuale ostetrica. Dopo le cure della “mammana”, la puerpera restava a letto almeno una settimana. Tutte le donne del vicinato si mettevano d’accordo per donare, a turno, la gallina per il brodo, utile per il rinforzo fisico e per l’allattamento. Se la mamma non poteva allattare si ricorreva ad una neo‐mamma che aveva molto latte. La “mamma di latte”, così era chiamata, si recava a casa del neonato, più di rado il piccolo veniva portato presso la sua abitazione. Tra la “mamma di latte” e il bambino si instaurava uno speciale rapporto, che durava tutta la vita. Spesso le mamme, sedute davanti all’uscio di casa, cullando con un piede

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la “sporta”, una culletta di legno, eseguivano, conversando piacevolmente, lavori a maglia e di ricamo. I vicoli erano animati anche dalle voci dei bambini più grandi, che si divertivano a rincorrersi ed a fare giochi semplici ma divertenti. I giochi Anticamente i giocattoli si compravano o regalavano raramente. Quei pochi che il bambino riceveva in particolari ricorrenze erano considerati preziosi: spesso erano esposti su mensole o credenze, guardati con ammirazione ed usati con la massima attenzione ...guai a romperli! I giochi più divertenti erano perciò quelli che si svolgevano all’aperto, nei vicoli e nelle piazzette del vicinato, che era sempre animato dalle voci allegre e festanti dei bimbi. Spesso bastavano un carboncino, delle pietruzze, dei tappi di bottiglia, dei bottoni, dei cerchioni di bicicletta ...ed ecco assicurato il divertimento con il gioco della “campana”, con il “battimuro”, con la “tappa”, con la “stacciola”, con la corsa con il cerchio. Indimenticabile rimane, poi, il gioco con la trottola di legno (strummulu), con il quale si facevano delle gare molto divertenti e competitive. Si avvolgeva “u strummulu” con dello spago e poi lo si lanciava a terra. Dalla forza che si imprimeva al lancio e dall’inclinazione dipendeva la durata del movimento della trottola, che girava su un perno di ferro. I maschietti si cimentavano nella costruzione della carrozza, considerata il giocattolo più ambito, che richiedeva abilità non comuni e molta inventiva. La costruivano con assi di legno e cuscinetti di metallo reperiti presso meccanici o carrozzieri. Completata la costruzione, andavano alla ricerca di ripide discese: vi salivano numerosi e si lanciavano a grande velocità, urlando e sollevando un gran polverone (le strade non erano asfaltate). Spesso, a fine discesa, venivano catapultati a terra. Si alzavano prontamente e, presa di peso la carrozza, risalivano la china per ripetere il gioco fino all’esaurimento delle forze. Le urla esagerate e prolungate spesso costringevano gli abitanti del U Vicinanzo ­ Pagina 166


vicinato ad intervenire per placare gli animi e, a volte, per interrompere quel gioco tanto rumoroso. Nel vicinato vi era tanto frastuono di voci, di chiasso, di rumori, ma anche tanta vita! Dagli usci sempre aperti o socchiusi provenivano i profumi invitanti delle pietanze, le voci e i pianti dei bambini. Tra le famiglie: tanta solidarietà, che si traduceva in sostegno morale e materiale. Volendo fare un confronto con le abitudini di vita di oggi, è evidente il totale cambiamento. La società attuale impone ritmi accelerati: non si ha tempo da dedicare agli altri e, forse, neanche a se stessi. Prevale l’individualismo che mira a favorire il proprio benessere materiale, trascurando quella condizione dello spirito che dà serenità, tranquillità d’animo e gioia di vivere. E ancora, da Lauria on line : ….. i giochi preferiti dalle femminucce, oltre alla "campana" ed alle filastrocche da ripetere lanciando la palla in alto o contro il muro, vi erano il salto con la corda e le "cummaredde". Queste ultime consistevano nell'imitare le mamme, specialmente nell'allevare i figli. Si faceva a gara per avere la bambola più bella, che spesso era fatta con ritagli di stoffa (bambola di pezza), con occhi, naso e bocca disegnati con un carboncino. Mentre si giocava, si cantavano delle filastrocche. Una di queste era: "Tuppe tuppe, n'du murtale, s'è nzuratu u spìziale, s'ha pigliatu na pupa di pezza, quannu camina li gammi si spezza".

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D'inverno, in casa, si giocava a Tombola e a Mastro Cucuzzaro, che era un gioco di attenzione. Si svolgeva così: tanti bambini in cerchio, e uno di essi era il Mastro Cucuzzaro. Ogni bambino aveva un numero. Il Mastro Cucuzzaro sentenziava: "Nel mio cucuzzaro mancano...tre cucuzze". Il bambino numero tre rispondeva prontamente: "E perchè tre?" E il Cucuzzaro: "Quanti se no?" Il bambino: "Cinque"...e così via. Chi non era pronto a rispondere pagava un pegno. Volendo fare un confronto tra i giochi di "ieri" e quelli di "oggi", viene spontaneo considerare quanto poco conti il valore e la bellezza del giocattolo (come non pensare ai giocattoli tecnologici moderni!), perchè il bambino si diverta e soddisfi il suo bisogno di inventiva e di creatività. Vicoli: ieri e oggi Quando si va avanti negli anni, affiorano alla mente i ricordi del passato con sempre maggiore nitidezza. A volte capita che vicende, persone, luoghi lontani nel tempo, a causa di una semplice e banale circostanza, tornino alla memoria, risvegliando ricordi e, a volte, rimpianti. Pochi giorni fa, dopo diversi anni, mi è capitato di passare per un vicolo di Lauria, a me molto caro: lì si trova la casa dove abitavo da bambina, lì ho trascorso la mia infanzia. Il vicolo è sempre lo stesso, con le medesime abitazioni, anche se tutte ristrutturate ed abbellite con una ricca varietà di piante e fiori. Anche la mia vecchia casa ha cambiato aspetto, con gli infissi e il portone d'ingresso nuovi.

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Mentre cammino, per qualche istante, come un flash, riemergono dal passato i ricordi e rivedo quel vicolo a distanza di circa cinquanta anni. Il silenzio all'improvviso si rompe. Le porte tutte chiuse, come per magia, si riaprono, lasciando uscire dall'interno voci varie, pianti di bimbi, qualche urlo. Davanti all'ingresso delle case: la mia mamma e tutte le altre signore del vicinato, sedute, intente a lavorare a maglia, a ricamare ed a conversare piacevolmente. E poi, quanti bambini! I più piccoli accanto alle loro mamme, i più grandi a rincorrersi, a giocare con la palla, a "campana", con le bambole e, spesso, anche a litigare. Tra le famiglie: tanta solidarietà, che si traduceva in sostegno morale e materiale! Nel vicolo, oggi, con le sue belle case adorne di magnifici fiori, regna il silenzio assoluto. Vedo solo un gatto, che si nasconde, spaventato, al mio passaggio. Il contrasto con la vita di oggi è palese e stridente. Sono cambiate le abitudini, si sono modificati gli usi e le consuetudini. Non c'è più tempo da perdere...! Si corre sempre ...gli impegni sono tanti ...non ci si può fermare ...! Non c'è tempo ... per perdere tempo...! Mi chiedo, facendo un confronto tra ieri e oggi: qual è la qualità della vita odierna? Certamente si è meno felici, più stanchi e nervosi, più soli.

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El Giran (il Vicinato in Libano) di Marida Panaro Sono italiana e ho avuto la fortuna di sposare un ragazzo libanese e quindi la possibilità di arricchire i miei schemi mentali grazie all'unione di due culture diverse. In una coppia mista ci sono tante differenze: diversità linguistiche, culturali, religiose; un diverso modo di espressione delle emozioni, di comunicazione, verbale e non‐verbale. A volte proprio tali diversità possono contribuire a far nascere l'attrazione tra due persone. L'unione tra due culture diverse porta alla consapevolezza di possedere delle risorse in più e infatti anche i figli hanno una visione della vita più ampia, una cultura più vasta e più completa. Tutto dipende dal valore che viene dato alla diversità: la diversità non è qualcosa in meno, ma è una ricchezza in più. Oggi molte persone provenienti da diverse culture si incontrano per convivere insieme e rompere quegli schemi di pensiero e quei comportamenti rigidi che spesso sono fondati sulla presunzione di superiorità e di perfezione e che scatenano paure, chiusura e pregiudizi. Credo che sia necessario operare nella prospettiva interculturale per incontrarsi e convivere nelle differenze. In passato l'Associazione “Noi e gli Altri”, di cui faccio parte, si è occupata insieme all'AUSER di integrazione tra diverse culture e le esperienze interculturali vissute sono state delle fantastiche opportunità per creare rapporti di amicizia molto profondi e durevoli nel tempo. Il dialogo interculturale è la chiave per una convivenza pacifica. Dare il mio contributo al Progetto “U Vicinanzo” raccontando alcune usanze libanesi è stato per me un modo per far vivere l'altro e anche per trasmettere un mondo che ancora mi affascina e che adesso è parte di me. Ed anche evidenziare, tra le differenze, tracce comuni di comportamenti e di rispetto per lo stare insieme.

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Nei vari paesi del mondo, il vicinato è una tradizione che unisce molte famiglie, ad esempio in Libano il vicino è sempre il benvenuto a casa. Per questo motivo la gente ha sempre qualcosa di pronto da offrire, infatti gli ospiti sono sempre molto graditi e le tavole sono sempre imbandite di cibi prelibati, di dolci e di frutta fresca. Una caratteristica fondamentale dei libanesi è la generosità e l'ospitalità verso i vicini, i parenti e gli amici. L'ospitalità è un'esperienza travolgente perché è praticamente impos‐ sibile andare in una casa libanese senza mangiare esageratamente, anche al di là delle proprie capacità. Le donne seguono il costume delle loro mamme : “ nutri il tuo ospite prima di nutrire te stessa, e nutrilo bene”. L'ospite, sia esso un parente, un amico, un vicino di casa o un perfetto estraneo, sarà il benvenuto in casa e a tavola, e sarà trattato sempre con lo stesso riguardo e la stessa gentilezza. I pasti arabi, più che formali, sono più spesso una sintesi di festosità, calore e familiarità. La gentile insistenza di un padrone di casa va capita: spesso, non mangiare e non bere tutto ciò che viene offerto può essere interpretato dai padroni di casa come un mancato apprezzamento verso la propria ospitalità. Il pranzo termina solitamente con il termine "sahteyn", che significa "due volte la salute a voi" e che enfatizza l'importanza di una riunione conviviale presso i popoli arabi. I vicini di casa si riuniscono tutti i giorni per bere del buon caffè in compagnia, un particolare caffè intenso e profumato il cui aroma porta una piacevole conversazione e la voglia di stare insieme. In Libano il caffè si prepara alla turca ed è conosciuto con il nome di “Kahwe”, un caffè speziato con il cardamomo (che è il seme di una pianta tropicale) che offre un gusto di terre lontane. Le donne si scambiano le visite nelle case, e nelle case il caffè si beve spesso nel corso della giornata e si prepara per l’ospite senza nemmeno offrirlo a parole.

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Se proprio non desideri berlo, devi dichiararlo fin dall’inizio, con decisione, appena messo piede nella casa. Tradizionalmente se ne beve tanto, in piccole tazze tonde senza manico con tipiche decorazioni locali. Finito di bere il caffè c’è ancora qualcuno che prova a leggere i fondi, rovesciando la tazzina e immaginando sorti inaspettate. Gli uomini e le donne, oltre a gustare il caffè, fumano anche il narghilè. In libano il narghilè viene soprattutto usato per fumare essenze di frutti. E' un'ampolla d'acqua attraverso la quale il fumo viene filtrato prima di arrivare alla bocca. La gente ama fumare sui balconi delle proprie abitazioni e infatti basta passeggiare per le strade delle città per sentire, in un'atmosfera del tutto magica, l'aroma del tabacco alla frutta che si diffonde nell'aria. Ma il profumo più invitante è quello dei dolci appena sfornati. Infatti per tutte le occasioni speciali si comprano e si preparano dei dolci particolari, ripieni di frutta secca come “Baklawa”, e anche dei dolci cremosi e speziati come “Mogrli”, un dolce che le donne preparano e offrono per festeggiare la nascita di un bambino. Un'altra tradizione libanese molto coinvolgente che si condivide tra amici in molte occasioni è la danza nazionale libanese che si chiama “Dabkah” e che è diffusa e amata in tutto il medio oriente. E' una danza di gruppo che unisce i partecipanti in una stretta relazione e gli arabi la considerano la danza più originale ed espressiva di tutte. E infatti esprime nostalgia, gioia e poesia. I movimenti vanno da colpi al suolo a salti e calci, piegamenti sulle ginocchia e produzione di ritmi con i piedi percossi a terra, e i danzatori accompagnano i movimenti con frequenti grida di incitamento. Il “Ras” è il più bravo fra i danzatori e conduce la fila stabilendo e proponendo i passi da eseguire e incoraggiando la socializzazione ed il divertimento collettivo.

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Il repertorio tradizionale: "Ala Dala'ona": “Il vento dell'ovest ti ha cambiato il colore, dona ai nostri cuori la gentilezza e la bellezza, cosicché le nostre amate possano amarci...” La danza che non può mancare nelle case e nei locali libanesi è la Danza del Ventre, uno stile particolare di danza araba, una danza prevalente‐ mente femminile che nelle sue origini portava con sé un significato rituale propiziatorio per la fertilità, il concepimento e il parto. La Danza Orientale, infatti, è altamente simbolica: ogni movimento, ogni gesto ha un suo significato preciso, spesso legato a storie, miti e leggende di dee o al sentimento che si vuol esprimere. E' caratterizzata dalla movenza sinuosa di fianchi e addome dolcemente accompagnata dalla sensuale espressività di tutto il corpo. Il primo beneficio di questa danza è quindi quello di aiutare a ritrovare se stesse, mediante la riscoperta di una femminilità che non è soltanto sensualità, ma è anche dolcezza, leggerezza, forza, energia, spiritualità. Chiunque, che sia magra, o grassa, o matura, o giovane, può danzare. Chiunque, danzando, pur vedendo i propri difetti fisici, si accetta così com'è perché il movimento rende il suo corpo comunque gradevole. Si acquisisce stima di sé, sicurezza, consapevolezza delle proprie qualità, fierezza. Si arricchisce la propria individualità esplorando con il gioco della danza il mondo interiore. Mentre si danza non ci si sente pesanti, ci si libera dalle negatività che come un fardello ogni giorno ci spingono verso il basso e, leggere, ci si eleva … felici.

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CONCLUSIONI La crisi è ecologica, morale, culturale, sociale, finanziaria …..che fare? La realizzazione dell’intero Programma è stata orientata alla condivisione, ed è stata “partecipata” in ogni sua parte. Non poteva questo aspetto non riversarsi, con tutta la voglia di ”fare insieme” che abbiamo espresso, anche “dentro” il Ciclo dei Seminari. Dunque anche il momento delle conclusioni doveva essere affrontato discutendone insieme. Il contributo che segue è perciò il risultato di un lavoro “a più mani”, che riprende le considerazioni emerse durante l’intero percorso e che sperimenta, altresì, l’ambizione di confrontarle con quanto di più rigoroso oggi si fa in relazione ai temi che abbiamo affrontati. Con obiettivo non solo di una rilettura di quanto prodotto, ma anche di prefigurarne il prosieguo e di perseguire un’idea di futuro che superi i limiti dell’ambito locale. Gli appunti da una conversazione pubblica di Elena Pulcini, che insegna Filosofia sociale all’Università di Firenze, in particolare, ci hanno aiutato ad inquadrare l’attività dei nostri Seminari in un sistema coerente che prova a tenere insieme la nostra esperienza con le riflessioni più avanzate in merito al vero e proprio cambiamento antropologico che stiamo vivendo in questi anni e nel quale tutti siamo immersi. L’incontro in questione si è tenuto in una serata di fine agosto sul molo del porticciolo di Maratea ed era inserito nel Programma Europa Summer School, che la Regione Basilicata organizza ormai da qualche anno. Un incontro che si è rivelato una vera miniera di preziose considerazioni sulla necessità di prendersi cura della società e del Mondo, e sulla opportunità di recuperare capacità di Relazione e senso di Responsabilità nel confronti dell’altro e del Mondo stesso. Le domande che ci eravamo posti dando il via al Ciclo dei Seminari derivano tutte da questioni che pongono interrogativi inquietanti, e ne ricercano soluzioni che siano in grado di sciogliere un’ansia condivisa

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perlomeno in tutto l’occidente, sotto pressione a causa di questa crisi che ci ha investiti negli ultimi anni, e che è globale, cattiva e incombente: ‐ possiamo recuperare, dal senso della prossimità che è dentro il Vicinato, gli strumenti per fronteggiare una dimensione del Vicinato stesso che è enormemente più ampia? ‐ può funzionare ancora quella tradizionale capacità locale di “resilienza” che si era rivelata, nel tempo, un potente strumento di difesa e di adattamento al contesto? ‐ può ancora essere utile per affrontare le sfide epocali nelle quali siamo già immersi? La globalità ci espone a rischi radicali che fino a qualche anno fa erano impensabili e che mettono in pericolo la nostra stessa sopravvivenza. Sono rischi vecchi e nuovi che oggi la stessa condizione di condivisione “globale” può esasperare. Siamo ormai consapevoli di partecipare a pericoli che una volta erano lontani da noi nel tempo e nello spazio, e che ora invece sappiamo vicini e in qualche modo anche “nostri”. La questione dell’utilizzo dei mezzi disponibili, alcuni troppo scarsi ed altri male utilizzati, non è più ormai soltanto un dilemma locale, ma ha assunto una dimensione planetaria. È sempre più anche nostro il problema delle risorse, ed anche quello del riscaldamento del pianeta, e quello della minaccia nucleare. È ormai “troppo” prossimo a noi anche uno tsunami nelle Filippine, un terremoto nell’altro emisfero, o una inondazione in Paesi lontani, o una crisi finanziaria che si rivela globale, o “… le tante possibili Fukushima alle quali siamo continuamente esposti”. Tutti pericoli che appaiono sempre più “qui e ora”. Producono effetti catastrofici che non possiamo più considerare epocali come una volta, perchè hanno ormai assunto una dimensione quotidiana, e convivono con noi. Dall’11 settembre qualcosa è cambiato. È qualcosa che si era già annunciata attraverso la tragedia di Chernobil, con la caduta del muro di Berlino, che prosegue attraverso l’insorgenza

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delle pandemie virali. E che è sempre più evidente nella condivisione di rischi con gente lontana, con la quale non immaginavamo la comune dipendenza dagli stessi pericoli. Qualcosa che ci ha rivelata una fragilità che non sospettavamo. Improvvisamente si sono dissolte le sicurezze, i confini territoriali e politici che sembravano isolarci dai rischi degli altri, le fiducie che avevamo, le promesse di progresso e di felicità per tutti che negli ultimi decenni la politica e l’economia ci avevano suggerito, e dalle quali ci eravamo lasciati affascinare. Qualcuno si chiede se è possibile ancora addirittura immaginarlo, un futuro ! E in realtà, siamo disposti a mantenere gli stessi stili di vita che oggi si dimostrano inadeguati e che mettono in pericolo le future generazioni? Che atteggiamento prendere nei confronti del modello di sviluppo che ci ha accompagnato fino ad oggi? Che atteggiamento nuovo dobbiamo avere verso il Mondo, verso le persone, verso gli oggetti? Sono tutte domande alle quali non immaginavamo di dover rispondere, e in così poco tempo. Domande che incalzano la gente, e persino gli “addetti ai lavori”, in quanto la crisi è anche politica, nell’età globale. È una politica che appare impreparata a questa nuova dimensione, che non riesce più a dare certezze. Non è naturalmente una crisi soltanto locale, non ha responsabilità soltanto “di casa nostra”, e non appare perciò risolutivo nemmeno ipotizzare un ricambio … punitivo dei rappresentanti locali. Stiamo assistendo a una difficoltà che non è più contingente, come invece per tanto tempo ce ne sono stati descritti i sintomi. Non è casuale, non passerà senza lasciare tracce nei comportamenti, provocherà una mutazione sociale che è già in atto e che non sappiamo ancora dove ci porterà. È la crisi di un sistema che scricchiola a livello globale.

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Questa circostanza aggiunge un’altra dimensione alla nostra difficoltà di risposta: “abbiamo goduto finora in pienezza del mondo in progresso, ma la complessità della crisi che sconvolge noi investe anche e soprattutto i Paesi che ancora non avevano goduto di quelle opportunità. Sono Paesi che si affacciano soltanto adesso alle stesse logiche che noi abbiamo perseguito per tanto tempo, e che difficilmente potranno accettare il rigore e la sobrietà che da più parti si ipotizza. Sono infatti soluzioni che questi Paesi subiranno come una forte limitazione, rispetto ad aspirazioni che non avevano ancora pienamente raggiunte. Reagiranno con modalità che non sappiamo prevedere. Perché dovrebbero rinunciare agli allegri benefici che noi finora ci siamo concessi? Soprattutto dopo aver promosso per anni la loro “occidentalizzazione” ! La politica non ce la fa più a sostenere questa dimensione, è inefficace rispetto alla sfida dell’economia, della tecnica, dei nuovi stili di vita, e dimostra di essere impreparata anche rispetto alla sfida dell’Altro come diverso, che è un’altra grande sfida dell’età globale. È un Altro che ci viene presentato perciò come incombente e pericoloso, ricorrendo alle anacronistiche competizioni medievali tra civiltà, e al cui arrivo si risponde con la banalità assassina dei “respingimenti”. Diciamoci la verità, con queste uniche certezze ciascuno di noi sente che non può più affidarsi a istanze esterne. A quanto pare non possiamo più “delegare”, e nessuna Istituzione sembra dare fiducia. Allora bisogna fare da soli? E invece, com’è successo già altre volte nella Storia, proprio questo è il momento della sussidiarietà, della interazione con la gente, della partecipazione come diritto sociale e civile, della collaborazione con il pubblico, del coinvolgimento nella costruzione delle nuove politiche e delle scelte, del concorso di tutti nella risoluzione dei problemi. Da questo punto di vista la parola chiave è “responsabilità”, nel senso

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proposto dalle recenti riflessioni esperte: "La responsabilità è la cura per un altro essere quando venga riconosciuta come dovere, diventando “apprensione” nel caso in cui venga minacciata la vulnerabilità di quell’essere. Ma la paura è già racchiusa potenzialmente nella questione originaria da cui ci si può immaginare scaturisca ogni responsabilità attiva: che cosa capiterà a quell’essere, se io non mi prendo cura di lui? Quanto piú oscura risulta la risposta, tanto piú nitidamente delineata è la responsabilità. Quanto piú lontano nel futuro, quanto piú distante dalle proprie gioie e dai propri dolori, quanto meno familiare è nel suo manifestarsi ciò che va temuto, tanto piú la chiarezza dell’immaginazione e la sensibilità emotiva debbono essere mobilitate a quello scopo" (Hans Jonas, Il principio Responsabilità)

Responsabilità che non vuol dire soltanto rispondere di qualcosa, rendere conto di quello che si è fatto (o che non si è fatto), e che non deve essere intesa, insomma, nel suo significato di pura contabilità, di rendicontazione. Responsabilità che è, invece: “Non solo responsabilità “di ”qualcosa, o di qualcuno, ma anche responsabilità “per” qualcuno, per la gente, per il Mondo, per l’unica dimora che noi conosciamo e alla quale dobbiamo affidare noi stessi e le generazioni future” (Elena Pulcini, La cura del Mondo)

Tutto questo chiama in causa, nell’immediato, la “reciprocità” della cura, e cioè la necessità di esercitarla a vicenda scambiandocela l’uno con l’altro. Appare evidente che l’attuale sistema di delega, di tipo ottocentesco, non ha più senso. Questo ormai vecchio sistema si fonda infatti sul principio “uno per molti”, e dobbiamo invece immaginare la complessità di un “molti per molti”. Dobbiamo tornare ad aver davvero cura delle nostre vite, dobbiamo riprenderci le nostre responsabilità, dobbiamo chiederci che cosa possiamo fare “noi” per noi stessi. Finora ci siamo sempre affidati alle Istituzioni, a quelle culturali, o professionali, ma prevalentemente alla politica.

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Questo non vuol dire che della Politica dobbiamo farne a meno, non significa cioè che questa non debba più avere un ruolo fondamentale rispetto alle soluzioni da trovare, ma significa invece che ci dobbiamo lasciare sempre di più alle spalle ogni atteggiamento “delegante”. È il tema fondamentale della Responsabilità: “nessuno agisce al mio posto”. Se inquino il mare, insomma, oppure un fiume, non c’è nessuno che lo ripulisce. Se costruisco male, se spreco il territorio, prima o poi dovrò affrontarne le conseguenze. Se un rifiuto danneggia l’ambiente, se una bolla finanziaria ci mette in crisi, riusciamo anche a sopravvivere con tecniche d’emergenza, ma non riusciamo a prevenire, non abbiamo ancora imparato ad “evitare” che succeda. Abbiamo strumentazioni e Istituzioni dedicate alla gestione dei rischi, ma anche queste inseguono, prevalentemente, gli eventi. Intervenendo solo per rimediare i danni. Le loro strategie sono sempre isolate, ciascuno per la propria specifica missione, senza un confronto reale con altre competenze, senza una strategia comune e integrata, capace di affrontare nella loro complessità i problemi che abbiamo di fronte. Quello che serve è dunque un vero e proprio cambiamento antropologico, una mutazione che trasformi in disponibilità la paura, che faccia prevalere il senso della responsabilità rispetto a quello della disinvoltura, della delega, serve una nuova attenzione che costruisca strategie concertate e di lungo termine. Questa rinnovata responsabilità non è però da intendersi come obbligo, e bisogna anzi evitare di trasformarla in un’etica dell’ubbidienza. Bisogna ‐ ci avverte la professoressa Pulcini,‐ superare il concetto del “dovere”, che tenda insomma ad imporre un dogma preconfezionato. Il problema è insomma piuttosto quello di imparare a “sentire” la necessità personale e autonoma di essere responsabile, recuperando il concetto di “cura” nella sua dimensione sociale.

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Un’etica del concreto che promuova il “volontario e il disinteressato”, e che superi anche la necessità di aspettarsi un tornaconto: “…mentre infatti quello della responsabilità rischia di rimanere un principio astratto, altrettanto astratto come quello della speranza, il concetto di cura indica di più un senso pragmatico, in quanto ogni giorno, in ogni momento, ci impegna all’attenzione verso l’altro inteso nella maniera più generale possibile, dall’ambiente all’altra persona, alle future generazioni”.

Com’è possibile che si diventi così … virtuosi? In fondo i presupposti ci sono: oggi siamo più informati, più colti, più partecipi degli eventi e dei meccanismi delle scelte, siamo più capaci di entrare nelle logiche complesse e di comprenderne gli esiti possibili. Storicamente non lo siamo mai stati tanto. E bisogna riconoscere che perfino la crisi globale ci restituisce una chance, e ci regala l’opportunità per riflettere, per recuperare il senso della nostra vulnerabilità: “… io sono responsabile, mi prendo cura dell’altro, dell’ambiente, del Mondo, perché riconosco di essere fragile, mi ricordo del mio stesso bisogno di cura, della mia dipendenza dall’altro”.

Quello della cura è un’etica che va oltre il concetto di convenienza, di misericordia, di pietas, ed anche oltre lo stesso altruismo. È l’esigenza, cioè, di chi trova nella propria stessa vulnerabilità la ragione della cura per l’altro. È un riferimento al dono e alla gratuità, valori che a quanto pare abbiamo ormai perduto completamente. In fondo siamo animali economici, e non a caso è proprio l’economia che ci tiranneggia, come fa oggi attraverso l’oppressione dello spread, degli indici finanziari e del Prodotto Interno Lordo, e che ci trasforma in sudditi. In realtà questi strumenti di soggezione sono soltanto una sua manifestazione attraverso i suoi aspetti più moderni. L’economia ha radici molto più lontane, e noi siamo abituati da sempre ad intrattenere con gli altri rapporti che sono prevalentemente strumentali, sempre mediati dalla convenienza, sempre in dipendenza di un’utilità, di uno scopo.

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Abbiamo sempre un fine da perseguire. In questo modo andiamo sempre più incontro alla perdita del senso stesso della gratuità perché in sostanza tralasciamo, svilite e messe da parte, altre importanti dimensioni dell’umano. Come il senso della nostra insufficienza e fragilità, della nostra dipendenza dall’altro. Gli Stati moderni hanno talmente esaltato il senso della Libertà e del Progresso che ne può conseguire, al punto che ci hanno fatto praticamente dimenticare quei valori stessi che la Libertà l’hanno prodotta, e che oggi possono di nuovo diventare risorsa. Perciò soltanto se recuperiamo il senso della nostra fragilità possiamo avere cura dell’altro, altrimenti restiamo arroccati nel nostro aristocratico isolamento. La stessa politica, in fondo, si era assunta il compito di farci sentire protetti, immuni, costruendo confini all’interno dei quali sapevamo che la realtà esterna arrivava filtrata, attraverso la mediazione dei politici. La globalità invece ha lacerato i confini, li ha dissolti, e adesso ci scopriamo di nuovo esposti, fragili, vulnerabili. “…scopriamo che non siamo immuni nel nostro stesso territorio, e allora rischiamo per reazione di chiuderci ancora di più dentro l’individualismo, nel nazionalismo, nel comunitarismo settario e in quello estremista”.

Ricorriamo sempre più volentieri all’accusa, alla sterile denuncia delle inadempienze, come se questo bastasse ad esorcizzare i problemi. Ma questi comportamenti non sono soltanto sbagliati, sono addirittura ridicoli. È più saggio invece riavviare la tradizionale capacità di risposta ai problemi del contesto, la concertazione, l’analisi condivisa fino alla qualità dei risultati, la “co‐progettazione” (da proiezione, previsione) delle conseguenze, la responsabilità collettiva delle scelte. il controllo sociale. La costruzione insomma di una visione comune del futuro e la collaborazione alla sua realizzazione. Ci siamo affidati per secoli alla sovranità dello Stato, e la stessa Europa è

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una congregazione di Stati che rispondeva a scala mondiale a questa stessa esigenza di protezione e di mediazione. Dissolti i confini, appare evidente la dipendenza reciproca anche da quei conflitti che si svolgono in territori che una volta erano lontani e che oggi sono proiettati in mezzo a noi, nel nostro salotto di casa, grazie all’ubiquità creata dai Media, ma anche a causa delle loro conseguenze sulla nostra vita quotidiana. Capita che quando affrontiamo la paura, quando ne accettiamo il rischio, quando “riconosciamo” i limiti e ne diventiamo consapevoli, allora succede che la stessa economia può farsi contaminare dalla filosofia del dono, e costruisce temi come quello della decrescita, della Felicità Interna Lorda. Del FIL contrapposto al PIL. Slogan, certamente, ma anche segnali per chi riconosce che siamo in piena mutazione antropologica: si dona per mettersi in relazione, per creare dipendenza, per aprirsi, ed anche per “rischiare”, in fondo, nel rapporto con l’altro. Bisogna riconoscere che passando attraverso il liberalismo e nell’enfasi di contrastare a oltranza il socialismo, i valori dell’illuminismo si sono sfocati, e siamo ormai ad una svolta. Che fine ha fatto, il trittico della Rivoluzione Francese: “Libertè, fraternitè, egalitè”? La Libertà in questi ultimi tempi è un valore indebolito un po’ in tutto il Mondo, la Fraternità ci pone un sacco di problemi anche in casa nostra, e l’Eguaglianza è praticamente scomparsa. La verità è che in fondo la Modernità, nel corso del Seicento e del Settecento, ed anche di più in seguito, ha dovuto legittimare sé stessa. Per questo ha dovuto fare delle promesse, e ha inventato l’utopia del Benessere. Una promessa accattivante, e in fondo facile da accettare. Perché era una proposta di felicità, di democrazia, di sviluppo a oltranza, di progresso infinito.

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Ma ha prodotto, alla fine, impegni disattesi, difficili da riproporre, impossibili da sostenere ancora. Però nel frattempo a questa utopia sono stati sacrificati valori, contenuti, passioni. Oggi, in preda a una crisi che morde più di altre, e sfruttando l’occasione della crisi stessa, dobbiamo riprenderceli, quei valori. Ricominciando dalla capacità di intessere relazioni, di contare sull’altro, di accogliere la diversità, di incontrarci, di costruire insieme, di modificare la nostra vita. Cominciando a riconoscere la necessità di avere bisogno uno dell’altro, reciprocamente e disinteressatamente. Le profonde trasformazioni di questi ultimi anni hanno indebolito fortemente: ‐ le relazioni comunitarie, ‐ la reciprocità, ‐ la coesione sociale. Come riprendere queste pratiche virtuose in un contesto nel quale quelle tradizionali e ormai dismesse possono apparire anacronistiche? “…. la reciprocità è “simmetrica”, in quanto coinvolge le parti, è dentro le appartenenze di comunità, implica il riconoscimento dell’altro”. Le forme attraverso le quali si esprime possono essere diverse dalle solite, ma il senso rimane. Il suo indebolimento è effetto delle disuguaglianze introdotte di recente nella società, e si può ricostruire superandole, ricorrendo alla pratica del sostegno, dell’attenzione, dell’ascolto e dello scambio. Soprattutto dello scambio, che è operazione tra pari, e che perciò supera le diseguaglianze di ogni tipo. La politica, che ha il compito di calmierare le differenze, è sempre più distratta dalla sua quotidiana alimentazione del consenso verso sé stessa e della sua riproducibilità. Oggi è più che mai inadeguata al compito del recupero dei valori di Comunità.

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È il Volontariato (e il Terzo Settore in generale), che per la sua radicazione tra la gente, e in funzione della sua propria vocazione, è chiamato a svolgere dunque un compito di sussidiarietà nella ricostruzione della coesione sociale. Può determinare comportamenti che contribuiscano alla ripresa delle relazioni, e può limitare la subalternità alla politica, a patto che riesca a liberarne prima sé stessa. Può ricucire la società frammentata. Se non lo fa la sua funzione risulterà a breve mortificata dalla facile e subdola confusione con la filantropia, che è la sua sorella pietosa. Sorella che è ad arte sollecitata da una spesa pubblica alla quale piacerebbe tornare alle caritatevoli elargizioni “una tantum” e “se le finanze lo consentono”. È altro, invece, quello che serve: ‐ sostenere la partecipazione sociale e riconoscerne il valore, ‐ dare dignità all’apporto volontario, ‐ riconoscere le capacità tecniche insite nel contributo gratuito, ‐ partecipare concretamente alla difesa dei Beni Comuni, ‐ difendere il Capitale sociale, ‐ contribuire alla trasformazione del patrimonio collettivo in risorsa, ‐ attribuire carattere di resilienza al territorio.

Un risultato concreto

di Giuseppe Di Fazio

Con riferimento alle premesse, il Programma U Vicinanzo ha esercitato maggiore attenzione a quei meccanismi e a quelle modalità di relazione che, dalla tradizione, mostrano di avere un senso trasferibile nel contesto sociale ed economico attuale. Almeno tre delle diverse aree del Vicinato sono state indagate con sufficiente rigore, nell’ambito del Ciclo dei Seminari. Una prima è la dimensione del Vicinato “allargato al territorio” e alla gestione delle pratiche agricole.

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Un’altra è quella più urbana, o meglio urbanistica, ed ha esaminato le logiche di relazione “compatte”, che hanno ragione cioè in condizioni di maggiore prossimità, come quelle di cortile, di quartiere, di centro abitato, di Valle. Infine un’altra è quella globale e locale nello stesso tempo, che ricuce insieme le capacità proprie del genere umano, che può superare i confini e che può spingere a lavorare “insieme” contro le avversità e i disastri, oltre la perdita di senso delle relazioni stesse. Un po’ di ricadute le “provocazioni” proposte attraverso i Seminari le hanno chiaramente manifestate, e alcune appaiono già concretamente perseguibili. Si può infatti immaginare un proseguimento, nell’immediato, grazie al ruolo di catalizzatore che U Vicinanzo ha scelto di esercitare nei confronti dell’insieme degli Attori diversi. Questi ultimi più volte, in verità, in tempi diversi e in solitario, avevano già tentato soluzioni per la conduzione utile dei terreni pubblici nel territorio del Comune di Nemoli. Ciascuno ha sperimentato però, in quelle occasioni, l’impossibilità di affrontare in maniera isolata temi che si sono rivelati di grande complessità a causa di implicazione sociali, oltre che produttive, e che evidentemente non sono gestibili in maniera “separata”. La sfida che hanno accettato oggi è invece quella della complementarità. Si lavorerà nell’ambito di una strategia complessiva che affidi un ruolo anche alla componente sociale. Si metteranno insieme le competenze scientifiche, quelle didattiche, la sperimentazione di tecnologie di avanguardia. Ed anche la capacità imprenditoriale di chi la capacità l’ha già dimostrata sul campo e che punta sulla sinergia possibile di servizi e mercati. E si parteciperà anche con la disponibilità attiva del Terzo Settore. Quest’ultimo ci sarà non soltanto con il solito ruolo di rappresentanza, nel quale viene relegato come una parte fragile della società. Non come zavorra, insomma, ma per una volta protagonista con pari dignità in una attività che è imprenditoriale, innanzitutto.

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Il Progetto, che prefigura una Fattoria Sociale, ha come partner la Comunità Montana, che è proprietaria dei terreni, il Sindaco di Nemoli, che ne ha la responsabilità “di territorio”, l’Istituto Agrario di Lagonegro, l’Arsa, Ente Regionale per la Sperimentazione Agraria), alcuni giovani imprenditori locali, Associazioni tra le quali l’Auser e Ruralia, che offrono la disponibilità concreta dei propri soci, anziani ed esperti e, naturalmente, la Rete stessa del Volontariato. Seguiranno a breve incontri di costruzione del Progetto, anche oltre la conclusione di U Vicinanzo. L’Istituto Agrario ha intanto inserito nel POF annuale lo studio dell’aspetto sociale dell’agricoltura, con attività didattiche che impegne‐ ranno gli studenti degli ultimi anni scolastici e che saranno oggetto di comunicazione pubblica a fine anno scolastico. Ancora, nel corso di un Evento già programmato per il 29 dicembre dal Comitato per il Premio D’Auria e promosso dall’Ambasciatore d’Italia in Austria, un Seminario sperimentale metterà a confronto ragazzi ed esperti sull’idea di Fattoria sociale, e nel frattempo un Protocollo d’Intesa sarà sottoscritto entro l’anno tra partner istituzionali e operatori commerciali. Del resto il CESE (Comitato Europeo per lo Sviluppo Economico), proprio il 13 dicembre 2012 ha licenziato un suo parere sull’Agricoltura Sociale (Bruxelles NAT/539 ‐ Agricoltura sociale: terapie verdi e politiche sociali e sanitarie). In questo ha espresso raccomandazioni perché l’agricoltura sociale si intenda: “… come approccio innovativo fondato sull’abbinamento di due concetti distinti: l’agricoltura multifunzionale, e i servizi sociali/ terapeutico ‐ assistenziali a livello locale. Questo nuovo settore contribuisce, tramite la produzione di derrate agricole, al benessere e all’inclusione sociale di persone con esigenze specifiche”.

Lo stesso CESE più avanti ha ritenuto opportuno invitare: “….gli Stati Membri a inserire l’agricoltura sociale nella loro programmazione e a mettere a punto, nell’ambito di un approccio integrato, programmi ad hoc affinché questo settore possa avvalersi in misura maggiore dell’intero ventaglio dei fondi strutturali”.

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Pertanto confidiamo che anche gli Attori locali, come da impegni presi, diano continuità questa volta ad un ulteriore percorso partecipato. E che si lavori finalmente insieme per la costruzione condivisa di una Rete locale che sia finalizzata alla realizzazione della Fattoria sociale. Si avvierà così una sperimentazione con modalità di collaborazione che finora erano inusuali. Ma che appaiono congeniali alle nuove tendenze degli aspetti più innovativi della moderna agricoltura, anche in vista della ridefinizione della Legislazione Comunitaria, Nazionale e Regionale. Un percorso che si proporrà anche come riferimento per le politiche produttive, sociali e sanitarie dei prossimi anni. A Bruxelles intanto nella sede del Parlamento Europeo, Capoulas Santos, relatore per la riforma della PAC, ha annunciato l’inserimento di un ruolo forte dell’inclusione sociale nella prossima Programmazione agricola 2014/2020. Ha evidenziato come questo ruolo debba essere, per lo Sviluppo Rurale, il primo degli obiettivi definito dalla proposta di Regolamento che la Commissione Agricoltura approverà il 23‐24 gennaio 2013. E come ricomprenda perfettamente obiettivi e attività dell'Agricoltura Sociale in Europa. Inoltre ha precisato che, in particolare con l'articolo 15, potranno essere finanziate le attività formative per le persone che risulteranno addette alle attività specifiche nell'ambito dell'Agricoltura Sociale. Gli Stati Membri, nella programmazione a livello nazionale (Piani nazionali o regionali di sviluppo rurale), dovranno dunque raccogliere le indicazioni che sono già previste e sollecitate a livello Comunitario. Serve ora l'impegno dei gruppi politici per sostenere e rafforzare questa posizione della Commissione anche nell'Assemblea Plenaria, prevista per l'11 e il 14 marzo 2013. Avrà un futuro, insomma, questa provocazione di U Vicinanzo.

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È in sintonia con le più avanzate buone intenzioni degli "addetti ai lavori" ed è auspicabile che già nell'immediato futuro raccolta interessi concreti intorno a se. Lo stesso si auspica per le buone pratiche di relazione seminate nel corso dell’attuazione del Programma. Dalla condivisione dei servizi tra i partner alle visite reciproche di manutenzione delle relazioni, puntando anche sull’aspetto dimostrativo che è stato associato sia alle singole attività che al loro insieme. Infine, rimane da verificare se avrà successo l’ambizione più grande che aveva ispirato il Programma: stimolare una attenzione per il patrimonio di relazioni, per la capacità di risposta alle sollecitazioni della società locale. Patrimonio che negli ultimi tempi abbiamo relegato, nel migliore dei casi, in un ambito di nostalgia e folclore. E che per troppo tempo è rimasto connesso ad un’idea di vecchio, di miseria e di ignoranza. E perciò di vergogna, da rimuovere persino dal ricordo. Saremo riusciti a ridare dignità a un patrimonio del quale abbiamo immaginato che possa ancora trasformarsi in risorsa? Sappiamo che anche l’ambiente universitario è interessato a continuare l’esplorazione avviata, certamente con più rigore e successo. U Vicinanzo si renderà naturalmente disponibile ad eventuali collaborazioni sul campo.

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Questo Rapporto è il Documento conclusivo del Programma U Vicinanzo, ù‐e ne rappresenta descrizione e sintesi attraverso alcuni dei contributi raccolti nel corso della sua attuazione. È stato stampato in n° 2.600 copie, al costo complessivo di 4.980 euro iva compresa, ed è stato interamente finanziato, a seguito di Bando pubblico, dalla Fondazione CON IL SUD attraverso la specifica attività che questa svolge per il Sostegno alle Reti di volontariato. Oltre alla Tipografia mpm per la stampa, nessun altro ha ricevuto compenso per questo specifico lavoro. Chi volesse consultare la raccolta più nutrita del materiale prodotto nel corso del Programma, e in special modo nell’ambito del Ciclo dei Seminari, potrà consultare e/o scaricare i singoli file dall’archivio remoto messo a disposizione dal Centro Servizi al Volontariato di Basilicata al seguente link:

http://lnx.csvbasilicata.it/volontariato-lucano/volontariato-lucano-in-rete Del materiale messo a disposizione è consentito l’uso, purchè naturalmente lecito, con il solo obbligo di citare la fonte

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