BUONA PER IL METODO DI COTTURA?
Amodio Group p. 95
Arcabox p. 91
Cameo p. 91
Cuppone p. 41
Demetra p. 9
Di Marco Corrado Srl p. 87
Dr. Zanolli p. 67
Il Granaio Delle Idee p. 43
La Torrente p. 29
Menu p. 3
Millberg p. 97
Molino Agugiaro p. 15
Scuola Italiana Pizzaioli p. 69
Molino Cosma p. 21
Molino Dalla Giovanna p. 81
Molino Pasini p. 7
Molino Sul Clitunno p. 93
Rinaldi Superforni p. 33
Sacar p. 19
Sanfelici p. 99
Solania p. 79
2 Sorí Italia p. 2
Sitta p. 59
Industria Alimentare Tanagrina p. 85
Trinka - Molecola p. 11
Vito Italia p. 75
Waico - Italforni p. 73
— Sommario —
6
editoriale di Antonio Puzzi
8 prima pagina a cura della redazione 10 gli eventi del mese a cura della redazione
Bambini
al Ristorante di Giampiero Rorato
Aggiungi un posto a tavola... che c’è un bambino in più di Domenico Maria Jacobone
22 “Ristoranti 4 family? parliamone” L’esperienza di Agrigiochiamo e Agriculturalab di Giampiero Rorato
storie di pizza Salvatore
La Porta, una vita da campione di Giusy Ferraina
Ristorazione Italiana Esiste una cucina italiana di Giampiero Rorato
38
Indietro nel futuro La storia di Fabbri 1905 di Noemi Caracciolo
44
storie di pizza
Una “dannata” curiosità
Renato Bosco, Saporè
di Antonio Puzzi
storie di pizza
48
La pizza
dell’Agro Pontino
Pucci & Manella, Formia
di Giusy Ferraina
52
Le birre
analcoliche: una scelta di benessere e innovazione
di Alfonso Del Forno
della Capra, Cavriago Quella volta in cui sono
tornato bambino di Domenico Maria Jacobone
64
storie di pizza
Stefano
Chieregato, Pizza e Bistrot a Pompei
di Noemi Caracciolo senza glutine
prodotti
Patate: quanti modi per cucinarle sulla pizza?
di Caterina Vianello 76
prodotti L'orto d'estate per una bella vegetariana di Caterina Vianello 82 salute Menù bimbi: consigli ai ristoratori e ai pizzaioli di Marisa Cammarano
88
la posta dei lettori Oggetto: cosa diamine è sta mixology? a cura della redazione
96
un libro al mese La famiglia si fa a tavola a cura della redazione
le aziende informano Il Granaio delle idee p. 42
Di Marco Corrado p. 86
Scuola Italiana Pizzaioli p. 51 60 storie di pizza Osteria
di Alfonso Del Forno
COLOPHON
Editoriale
Antonio PuzziL'Italia non è un Paese per bambini. Non sono solito lasciarmi andare a espressioni così perentorie ma credo di poter fare un’eccezione in questo caso. Forse ci stiamo disabituando alla loro presenza, visto che – secondo i dati diffusi dall’ISTAT – i bambini nati nelle regioni dello Stivale nel 1964 erano un milione mentre nel 2023 le anagrafi tricolore hanno iscritto solo 379.000 nuovi nati (cioè oltre il 62% in meno, che equivale a più di un punto percentuale perso ogni anno). Nel contempo, però, si eleva la speranza di vita media, arrivando a 83,1 anni (81,1 per gli uomini e 85,2 per le donne) mentre il numero stimato di ultracentenari ha raggiunto a inizio 2024 il record storico, superando le 22.500 unità (2.000 in più del 2022). Stiamo dunque diventando un Paese di agée, uno di quei paradisi in cui trascorrere la pensione… per chi ci arriva.
Un Paese senza bambini è però un Paese senza visione. Possiamo trovare un colpevole per questo crollo demografico? No, perché non ce n’è uno soltanto e le cause sono di uno spettro troppo ampio per finire nelle poche righe di un’editoriale di una rivista che si occupa di cibo e imprese. Di contro, mi sembra più che mai opportuno invitare a prendersi cura di quei pochi figli che abbiamo. Partendo (anche) dalla pizzeria e dal ristorante, come facciamo in questo numero. Frasi come: “i bambini al ristorante creano confusione”, “il problema non sono i bambini, sono i genitori” o – da parte del cliente – “da quando è nato nostro figlio, preferiamo non andare più a mangiare fuori”, “coi bambini puoi andare al massimo al fast food” sono quanto di peggio si possa regalare al nostro futuro. È capitato anche a me di ricevere un rifiuto ad essere accolto in un locale quando mio figlio aveva meno di un anno e anche io mi sono scoraggiato e ho iniziato a pensare che, tutto sommato, sarebbe stato meglio non uscire col passeggino. Poi, però, nel corso degli anni, mi sono reso conto che sarebbe stato più opportuno cercare quelle strutture felici di ospitare le tante tipologie di famiglie del nostro tempo e spingere altri locali a seguirne l’esempio. E voi che ne dite?
Facciamo insieme un pezzo di strada per costruire un’Italia “a misura di bambino”?
Un affettuoso saluto, nio
PIZZA E PASTA ITALIANA
Mensile di Pizza, Pasta, Enogastronomia e Cultura
Edito da PIZZA NEW S.p.A.
Autorizzazione Tribunale di Venezia n.1019 del 02/04/1990
Anno XXXV - n.6 giugno 2024 - Repertorio ROC n. 5768
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Noventa Padovana (Pd)
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LINEA PIZZERIA
Gli eventi del mese
7–8
giugno
AMPHORA
REVOLUTION
Verona, Veronafiere
Un'occasione imperdibile per professionisti del settore, appassionati e opinion leader di incontrarsi, condividere conoscenze e scoprire le ultime tendenze. Partecipa a simposi scientifici, tavole rotonde, masterclass e molto altro ancora, immergendoti completamente nell'affascinante mondo del vino in anfora.
12–13 giugno
DIRE FARE MANGIARE
Milano, Centro Congressi
Alianz Mi.Co.
Un confronto sul presente e sul futuro della ristorazione organizzata: dalla collettiva (scolastica, sanitaria, aziendale) alla commerciale (urbana, nei centri commerciali, in autostrade, stazioni e aeroporti). Uno spazio per parlare di forniture, servizi, soluzioni di approvvigionamento, produzione dei pasti, concept, modelli di servizio, organizzazione e gestione delle risorse umane, gare d’appalto, finanza, trend di consumo, sostenibilità e molto altro ancora.
Per segnalare i tuoi eventi, scrivi a redazione@pizzaepastaitaliana.it
14–23
giugno
COCA COLA PIZZA VILLAGE
Napoli, Mostra d’Oltremare
A meno di un mese dal Tuttopizza, pensato per gli operatori, alla Mostra d’Oltremare di Napoli torna la pizza con 10 giorni di festa in diretta su RTL 102.5, 10 serate con la stampa, le Masterclass e gli spettacoli, 10 giorni in cui coinvolgere in tante attività anche i più piccoli.
28–30 giugno
BOSTER FIERA
Beulard (Piemonte)
BOSTER (acronimo di Bosco e Territorio) è l'evento fieristico dedicato alla valorizzazione delle risorse boschive e alla gestione sostenibile del territorio montano. Particolare attenzione è rivolta alla filiera legnoenergia con un'ampia gamma di macchine ed attrezzature per la produzione di biocombustibili legnosi, l'esposizione di caldaie, stufe e camini e la possibilità di visite tecniche ad impianti di teleriscaldamento realizzati sul territorio.
30
–1 giugno/luglio
BOB FEST
Montepaone (CS), Parco archeologico nazionale di Scolacium
23– 25 giugno
FANCY FOOD
New York, Jacob K. Javits Convention Center
Fiera Internazionale dell'alimentazione promossa dalla National Association for the Speciality Food, la più grande organizzazione del mercato di prodotti alimentari in USA, il Fancy Food rappresenta la più importante rassegna dedicata al comparto alimentare di tutto il continente americano.
Oltre 150 professionisti tra chef stellati, pizzaioli innovativi, pasticceri, bartender e produttori locali si daranno appuntamento al festival, popolando più di 200 stand. L'evento non sarà solo un'occasione per degustare le migliori creazioni culinarie, ma anche per partecipare a talk e interviste, con un palco principale tra le rovine della Basilica e altre aree dedicate esclusivamente alla musica dal vivo e a talk, interviste e masterclass. Il BOB FEST sosterrà attivamente la ricerca contro il cancro, devolvendo l'utile della manifestazione all'Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (AIRC).
AU TH EN TIC
food passion
Tutti i migliori ingredienti più uno... la nostra autentica passione
a cura della redazione
Agugiaro & Figna, ambasciatore della pizza sostenibile: boom di adesioni al Pizzaiolo per il Cambiamento
Dall’anno della sua nascita, il 2022, ad oggi, il movimento del Pizzaiolo per il Cambiamento ha registrato una crescita significativa: se all’inizio, infatti, erano solo 10 i pizzaioli decisi a sposare una nuova visione di fare impresa nel settore della pizzeria, oggi se ne contano ben 45. Così, tra i professionisti della pizza si fa strada una nuova consapevolezza dove la sostenibilità incontra il lavoro in pizzeria, trovando in Agugiaro & Figna Molini uno dei principali promotori delle buone pratiche nella ristorazione, che mercoledì 22 maggio ha celebrato il primo evento del Pizzaiolo per il Cambiamento ad Amalfi nel limoneto biologico di Salvatore Aceto.
Per quanto riguarda lo studio sull’impatto ambientale delle pizzerie, Agugiaro & Figna e l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo hanno creato il Field Project, un progetto pilota che sarà la base da cui partire per costruire un modello di certificazione delle pizzerie che oggi costituisce la prima mappatura delle regole fondamentali per l’attività dei pizzaioli basato su un’indagine e un sondaggio a cui sono stati sottoposti i professionisti della pizza. Ne sono conseguite delle linee guida in cui la tracciabilità della attività in pizzeria si lega, tra l’altro, alla garanzia di condizioni di lavoro dignitose e inclusione sociale.
Il percorso di sostenibilità nel settore della pizzeria di Agugiaro & Figna parte però dal progetto di formazione “Un Sacco di Cambiamento” avviato tre anni fa dall’azienda, che ha avuto l’intuizione di promuovere un tour in giro per l’Italia in collaborazione con Slow Food Italia che ha fatto tappa a Terra Madre Salone del Gusto 2022 per sensibilizzare i professionisti dell’arte bianca e della ristorazione all’adozione di sistemi di lavoro attenti al benessere dell’ambiente e al raggiungimento di una migliore qualità dei prodotti finali. Dal dialogo tra i professionisti durante il tour è nato il Manifesto per il Cambiamento per la promozione di pratiche concrete di misurazione, selezione e miglioramento dell’impatto delle attività nell’ambiente, tenendo in considerazione la qualità dei luoghi di lavoro, la ricerca e l’innovazione volta a semplificare i processi di lavoro per ridurre gli sprechi, ma anche le iniziative per favorire la conoscenza di queste pratiche al consumatore. Attorno a questa sfida ha preso vita negli anni il movimento dei pizzaioli per il cambiamento, veri portavoce di una nuova modalità di fare impresa che traccia la strada alla ristorazione consapevole. I temi che stanno a cuore ai pizzaioli per il cambiamento sono legati all’ambiente, all’etica del lavoro e alla creazione di benessere dei dipendenti, senza dimenticare l’attenzione alla stagionalità delle materie prime e alle pratiche anti-spreco. Tra i giovani maestri della pizza del cambiamento, che si sono alternati ad Amalfi in un tavolo di confronto su questi temi c’erano Giulia Vicini, Giulia Zanni, Ciccio Vitiello, Denis Lovatel, Stefano Canosci, Raffaele Vitale, Guglielmo Vuolo, Giuseppe Maglione, Alexandra Horgidan, Daniele Cassese, Mario Barbato, Alfredo La Bella, Raffaele Pizzoferro, Gianni Di Lella, Nicola Monetti e Francesca Gerbasio.
Bambini al ristorante
Se volete un futuro prospero per il vostro ristorante, aprite le porte alle famiglie e ai bambini. Si pensa, a volte, che i bambini disturbino e portino confusione dato che, per natura, sono vivaci e siano convinti che il mondo debba adattarsi a loro e non loro al mondo. Ma perché dovrebbero essere i bambini a adattarsi al mondo e non viceversa?
di Giampiero RoratoQuesti interrogativi si sono affacciati alla mia mente molte volte, specie in certi locali dove c’erano dei bambini, soprattutto dei maschietti, che rompevano il clima religioso che vi aleggiava, parlando a voce alta, ridendo forte, lasciando il loro posto per correre in giro, disturbando clienti e personale. Di locali ne ho visti tanti, per piacere mio personale e per lavoro, dai “tristellati” alle trattorie di campagna, alle pizzerie e su questo argomento ho maturato delle convinzioni.
È pur vero che ci sono ambienti dove alcuni (molti) vanno per esserci o per essere visti e non per mangiare: sono luoghi dove già solo occupare una sedia costa qualche centinaio di euro e qui bambini ne ho visti molto raramente, delle vere e proprie eccezioni. Solo, a volte, qualche figlio grandicello, composto, silente, espertissimo nell’arte insegnata da monsignor Della Casa. Ma questo non fa al caso nostro.
Cultura e professionalità
In altri ristoranti, di buon livello qualitativo, ho visto famiglie con i genitori attenti ai loro figli, per cui, anche se piccoli, si sono divertiti a scoprire piatti nuovi, parlando quasi sottovoce, muovendosi senza disturbare gli altri commensali. In questi casi, sono stato curioso ed ho voluto capire. Sicuramente - ho pensato - quei genitori sono molto attenti ai loro figli e non s’accontentano che abbiamo bei voti a scuola. Li seguono con amore vero, che significa anche educarli, insegnar loro a comportarsi bene, a rispettare gli altri, a cominciare dai loro compagni e dai loro insegnanti e, quando vanno con i loro genitori in ristorante o in pizzeria, a rispettare gli altri commensali, sapendo che non sono i padroni del mondo. Questo, quando capita, lo si vede, ma ho voluto approfondire, chiedendo poi qualche informazione al titolare o anche al maître del ristorante.
“Abbiamo una serie di piatti studiati apposta con esperti per i bambini, sia per farli mangiare, ma anche perché restino a tavola.”
Ma ci sono degli esperti che insegnano queste cose?
Ecco una domanda importante. Tanti anni fa, quand’ero all’università, c’era un esame piuttosto duro su una materia denominata “Psicologia dell’età evolutiva”, con ottimi docenti, i quali insegnavano – e insegnano – a capire i minori e a farli crescere correttamente, realizzando con loro un bel rapporto empatico. E non è una materia di studio solo per insegnanti delle scuole primarie ma vale per tutti coloro che, professionalmente, hanno rapporti costanti con bambine e bambini, quindi anche i ristoratori. La cultura aiuta, una seria professionalità aiuta ma i problemi spesso restano.
Una riflessione
Ho conosciuto ristoratori eccellenti, specie delle ultime generazioni, che hanno studiato all’università (oggi sarebbe molto importante, ma ne scriveremo in altra occasione) o hanno frequentato corsi speciali per imparare a comportarsi in modo corretto con i minori, sapendo che la maggioranza di loro, quando va con la famiglia nei ristoranti, si comporta bene, anche per merito dei loro genitori.
Gli irrequieti e i disturbatori, che ci sono, restano comunque una minoranza, ma è una minoranza che si fa sentire. Per un ristoratore - e per il suo personale - saper creare un rapporto ottimale con i bambini non è difficile ma occorre avere, come ho scritto qui sopra, le corrette conoscenze o essere portati a creare un rapporto empatico con i bambini che entrano nel ristorante (maître e camerieri bravi con i bambini se ne trovano in tante parti)…
Il lettore mi conceda ora un veloce intermezzo. Da un po’ di tempo, pur aumentando il numero delle persone che frequenta le scuole superiori e l’università, succede che sta diminuendo la capacità educativa di troppi genitori (come anche la loro stessa educazione), i quali pensano che i loro figli abbiano sempre e comunque ragione. Se a scuola prendono una insufficienza o una punizione, pensano che sia solo colpa o cattiveria degli insegnanti e, come si legge sui giornali, ci sono addirittura dei genitori che entrano nelle scuole urlando contro gli insegnanti e anche addirittura malmenandoli. E non si chiedono se sono loro a trascurare i loro figli, lasciandoli interi pomeriggi a trastullarsi con i social, pur di non essere disturbati.
E ci lamentiamo se poi i bambini disturbano al ristorante?
Le pizzerie
Beate le pizzerie, dove c’è più libertà, con un personale dagli occhi vigili che non si dà arie ma aiuta i genitori a calmare i più irruenti con sistemi insegnati dai docenti di psicologia dell’età evolutiva, che i camerieri neppure conoscono. Anche se ho visto la sera in numerose pizzerie degli studenti universitari servire ai tavoli la pizza e le bevande. Il problema dei minori dal comportamento maleducato che si trovano a volte nei ristoranti resta e non basta giustificarlo ripetendo ogni momento che il mondo è cambiato, che i genitori sono stressati, che le istituzioni si occupano poco di una seria educazione degli scolari e dei giovani studenti. Ci sono - è verodelle carenze ed oggi le sentiamo molto di più che in passato. Ma resta vero che, salvo pochi casi estremi, l’educazione dei figli è compito dei loro genitori (vien da aggiungere: ma troppe volte non ci sono).
Apriamo le porte
La cosa migliore da fare, tenuto conto della situazione generale in cui stiamo vivendo, è non aver paura dei bambini in ristorante, perché saranno i clienti di domani e la ristorazione ne ha bisogno. Apriamo le porte a tutti, naturalmente badando al decoro, necessario per rispetto anche degli altri clienti; apriamo le porte come facciamo con i turisti, che la ristorazione accoglie sempre molto volentieri. Apriamo le porte a chi parla una lingua diversa dalla nostra, a chi ha la pelle di un colore diverso dal nostro, a chi ha difficoltà a muoversi, a chi è diversamente abile. Apriamo sempre col sorriso le porte del nostro ristorante, perché ce lo suggeriscono la nostra storia, la nostra cultura e la nostra civiltà. Anche ai bambini che disturbano: non succede tutti i giorni, semmai impariamo a trattarli al meglio. Non abbiamo forse studiato da adulti le lingue straniere per capirci con i turisti che arrivano da altri Paesi? Studiamo anche come accogliere al meglio chi è “diverso”, chi disturba, chi non vorremmo. Credo che le associazioni di categoria, oltre a tenere la contabilità del ristorante, dovrebbero organizzare dei corsi di formazione anche sulla psicologia del comportamento con i clienti, specie con i più piccoli. Ci sono già associazioni che lo fanno ma dovrebbe essere un impegno diffuso in tutta Italia. Sarebbe un ulteriore segno della nostra grande civiltà.
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Aggiungi un posto a tavola… che c’è un bambino in più
di Domenico Maria JacoboneL’iniziativa del MIMIT (Ministero delle Imprese e del Made in Italy) “Aggiungi un posto a tavola” è volta a sostenere le famiglie con bambini, contrastare gli effetti dell’inflazione e promuovere la convivialità nei ristoranti.
Questo progetto, promosso con il supporto di FipeConfcommercio, Confartigianato, Slow Food, Coldiretti, Confagricoltura, CIA, CNA, AIGRIM, Confcooperative, Legacoop, Copagri, Alleanza Cooperative, AGCI e Forum Famiglie, prevede l’adozione di un menù dedicato ai bambini di età inferiore ai 10 anni nei locali aderenti, con un prezzo massimo di dieci euro, un’offerta infrasettimanale e piatti del territorio. Al momento in cui scriviamo, il progetto è previsto fino al 30 giugno 2024. Gli obiettivi principali del progetto sono stati dichiarati in maniera chiara e concisa da tutte le sigle aderenti: contenere gli effetti dell’inflazione, offrire maggiori opportunità di convivialità alle famiglie con bambini, sostenere il settore della ristorazione attraverso l’aumento del flusso di clienti, promuovere prodotti agroalimentari di qualità.
gIl ruolo di Fipe-Confcommercio
Fipe-Confcommercio, la principale associazione di categoria della ristorazione, ha aderito con entusiasmo al progetto, impegnandosi a implementare il protocollo d’intesa nei propri locali associati. Intervistato in merito a questa iniziativa, Lino Stoppani, presidente di Fipe-Confcommercio, ha dichiarato: «Siamo orgogliosi di partecipare a questo importante progetto che va incontro alle esigenze delle famiglie e al tempo stesso sostiene il settore della ristorazione.
Con “Aggiungi un posto a tavola” vogliamo offrire alle famiglie un’occasione per stare insieme in un ambiente accogliente e conviviale, a un prezzo accessibile. Inoltre, il progetto sarà un’importante opportunità per promuovere i prodotti agroalimentari di qualità del nostro territorio». Il progetto ha ottenuto anche il plauso delle associazioni familiari, che vedono in esso un passo concreto verso il sostegno alle famiglie. Adriano Bordignon, (presidente del Forum delle associazioni familiari), ha commentato: «Accogliamo con grande favore il progetto “Aggiungi un posto a tavola”. Fare
Yfamiglia in Italia è sempre più difficile, soprattutto a causa dell’aumento dei costi. Questa iniziativa rappresenta un aiuto concreto per le famiglie, che potranno finalmente godersi un pasto fuori casa senza dover spendere cifre folli. Inoltre, il progetto è un’occasione per educare i bambini a un’alimentazione sana e per promuovere la convivialità».
La situazione “nel concreto”
Nella pratica i locali aderenti elenco disponibile al link: www.mimit.gov.it/it/aggiungi-unposto-a-tavola/elenco-aderenti
non sono stati moltissimi in relazione alle licenze sul mercato. Andando a verificare un po’ di provincie in regioni diverse, mi sono reso conto che la stragrande maggioranza delle attività aderenti censite altro non sono che i punti vendita delle principali catene di ristorazione nazionale e non:
QOld Wild West, McDonald’s, KFC, La Piadineria, Road House, I Love Poke, Pescaria, Calavera e moltissime altre diffuse solo su scala regionale. Ho fatto un’attività di monitoraggio abbastanza puntuale delle grandi catene sopra citate e posso confermare che tutte riportano nel sito o direttamente nei ristoranti un richiamo all’iniziativa con il simbolo scelto dal MIMIT. Le applicazioni degli amplissimi margini lasciati dal Ministero sono abbastanza eterogenee da lasciare un’opportunità alle varie fasce di popolazione in modo che
i bambini possano scegliere il proprio ristorante preferito. Per fare qualche esempio c’è chi ha scontato il menù bambini a 7,50€, chi non fa pagare i bambini sotto i 10 anni (con almeno un accompagnatore adulto pagante), chi aggiunge uno sconto anche al menù dell’adulto accompagnatore, chi offre più possibilità infrasettimanali differenziando i prodotti e chi sponsorizza la fascia della merenda dalle 15 alle 19.
Facendo un po’ di telefonate, non ho percepito, purtroppo, una grande adesione da parte dei ristoratori e pizzaioli indipendenti o comunque non aderenti a franchising o catene. Verificando gli elenchi, le città con più locali indipendenti aderenti sono spesso i piccoli centri o per esempio le provincie di Mantova e Ferrara dove probabilmente c’è stata più sensibilità nel recepire l’iniziativa. Taluni tra i ristoratori contattati, non erano nemmeno al corrente dell’iniziativa. Questo potrebbe essere il primo aspetto da migliorare nella comunicazione tra le associazioni e gli asso-
ciati e rappresentare un tavolo al quale sedersi non solo su invito del MIMIT ma per la ricerca di un’inclusività che comprenda anche le famiglie più numerose.
Quale futuro?
Sono abbastanza convinto che, nella media, la ristorazione e la pizzeria italiane siano abbastanza attente ai più piccoli. È oramai comune trovare fasciatoio, scalda-latte ed attrezzatura per i neonati, così come sono abbastanza diffuse le aree attrezzate per i giochi nei locali che hanno spazi all’aperto (e qualcuno anche al chiuso). Nei menù, esistono portate spesso favorite dai bambini come pasta al sugo, fettina di carne o cotoletta, patate fritte o la pizza in formato “baby” e potrei citare altre decine di esempi.
Sicuramente, la ristorazione pecca di attenzione nei confronti dei piatti locali,
nella spiegazione giocosa ed interattiva con i bambini e magari con un’informazione accattivante per i ragazzi. Banalmente, non ho visto avvicinare i bambini con un menù infograficamente dedicato e magari invitante a qualche sperimentazione, interazione o gioco. Suggerire un disegno raccontando la storia di un piatto, per esempio, potrebbe essere la via per mettere qualche bambino inquieto davanti ad un foglio con dei colori piuttosto che ad uno smartphone.
A proposito di tecnologia, i genitori al ristorante sono una specie in via d’estinzione, anche perché i bambini di
oggi sono sempre più abituati a stimoli eccessivi durante i pasti: tv, smartphone o tablet “zittiscono” e rendono “sopportabile” il pasto. Questo provoca una problematica nel replicare le abitudini fuori casa e spesso rende indispensabile l’utilizzo di smartphone o tablet a tavola al ristorante, con relativo disturbo degli avventori vicini. Mi è successo anche di vedere, durante una cena a Parma, una giovanissima madre tirare fuori dalla borsa un fotolibro e dei pennarelli ed il bambino (non più grande di 4 o 5 anni) disegnare felice prima e dopo aver mangiato: occasione più unica che rara ma esiste anche chi ha saputo rinunciare alla tecnologia a favore dell’interazione con i più piccoli. Sono genitore anche io e conosco le gioie di portare un figlio al ristorante per fargli scoprire qualcosa di diverso, soprattutto se si è fuori città o in zone lontane dalla propria residenza. Se ben gestito, è un gioco interattivo e stimolante: mia figlia a 6 anni sapeva che la sua amatissima pasta al pomodoro era un piatto realizzato da ingredienti provenienti da due continenti perché il pomodoro è arrivato in Europa solo nel 1540, dopo la scoperta dell’America.
Forno con alimentazione elettrica, dalle dimensioni contenute, concepito per la cottura di 1 o 2 pizze da 33 cm.
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Forni a tunnel con tappeto di cottura in refrattario. Montato su ruote e configurabile per ogni esigenza. Disponibile anche con tecnologia Industria 4.0.
E i locali
“child free”?
A proposito dei locali “Child Free” o “No Child” che sbandierano di non ammettere i più piccoli (spesso l’età minima è di 14 anni), sono da un lato contrario e dall’altro contrariato da questa scelta. La scorsa estate una pizzeria aveva suscitato indignazione e condanna nei suoi confronti da parte dell’opinione pubblica ma c’è anche da considerare l’implicazione legale di una scelta di questo tipo. La normativa italiana non prevede la possibilità di limitare l’accesso a un pubblico esercizio basandosi sull’età anagrafica dei clienti. Lo dice il Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (TULPS) che, nell’articolo 187, stabilisce che gli esercenti non possono rifiutare di
servire un cliente senza un “legittimo motivo”. L’età anagrafica non rientra in questa categoria. Nel Codice Penale, gli articoli 689 e 691 puniscono la discriminazione e l’ostacolo all’esercizio di un’attività commerciale. Vietare l’ingresso ai bambini potrebbe rientrare in queste violazioni. Quindi, se un ristorante si rifiuta di far entrare una famiglia con bambini senza una motivazione più che valida, la famiglia può sporgere denun-
cia o segnalare il locale alle autorità competenti. In caso di accertamento, il ristorante potrebbe incorrere in salatissime sanzioni amministrative. Assolta per dovere la parte “legale”, mi permetto di esprimere un pensiero lineare: non vedo perché non si possa riservare uno spazio alle famiglie ed uno a coppie o avventori adulti, cercando di tenere le due tipologie di clientela a “distanza di sicurezza”, pur nello stesso ambiente; in caso di sale particolarmente ampie, c’è chi semplicemente circoscrive lo spazio. Non ho mai sentito la necessità di cercare un locale “child free” ma ho avuto molte volte il desiderio di spiegare le regole del quieto vivere ai vicini di tavolo. Una volta mi è capitato di provare un tale disagio da chiedere di essere spostato ad un’altra zona della sala.
In questo senso, non vedo
∂∂
perché una cena o pranzo di lavoro, una serata tra amici o (peggio), un intimo primo appuntamento debbano essere funestati da bambini che corrono urlando per tutta la sala o ascoltano il cartone animato o la canzoncina “Baby Shark” (chi ha dei figli sa), soprattutto se i genitori mettono lo smartphone a tutto volume per intrattenere il proprio figlio, con il risultato di disturbare l’intero isolato. In questo caso, si manca di rispetto al prossimo, con le conseguenti ricerche di chi inibisca questo tipo di maleducazione (finendo dalla parte del torto).
La soluzione è, come spesso accade, equamente attribuibile al rispetto delle regole, della buona educazione e del buon senso: se tutti ci attenessimo a queste norme basilari non ci sarebbero troppi problemi di convivenza tra categorie a volte profondamente diverse.
“RISTORANTI 4 FAMILY? PARLIAMONE”
L’ESPERIENZA DI AGRIGIOCHIAMO E AGRICULTURALAB
di Antonio PuzziTroppo spesso ci chiediamo se sia giusto o meno portare i bambini al ristorante, tanto dal punto di vista delle famiglie quanto da quello dei ristoratori stessi.
Per toglierci ogni dubbio, ho chiesto a due professionisti della progettazione per i più piccoli e “for families” di raccontarci la propria esperienza. Giuseppe Orefice è presidente di AgriGiochiAmo, associazione che si occupa di educazione agroalimentare e comunicazione rurale e che attualmente è costituita da un network di circa 50 realtà educative in natura. È stato membro del comitato esecutivo nazionale di Slow Food Italia e amministratore unico di “Mediterraneo Sia - servizi per l’agricoltura multifunzionale”. Margherita Rizzuto è fondatrice di “AgriCulturaLab - Cultural & Rural Project”, azienda costituita da un team di professionisti del settore culturale, rurale e legato al food&beverage. Margherita è esperta di
turismo enogastronomico ed esperienziale e lavora nella progettazione di attività educative ed agri-experience. È ideatrice, insieme a Viviana Hutter, pedagogista e storyteller, del progetto “4 Family” che mira a puntare sempre di più l’attenzione sull’organizzazione e l’adeguamento dei servizi a misura di famiglia. Entrambi si occupano da qualche decennio di comunicazione educativa e progettano attività e format ludico/didattico/educativi per la valorizzazione delle produzioni locali, dei prodotti agroalimentari, della dieta mediterranea e di formazione per agriturismi, fattorie didattiche, ristoranti e produttori che vogliano rafforzare il valore educativo della propria azienda attraverso giochi, progetti e materiali.
Aprire i ristoranti alle famiglie o chiuderli ai bambini: quali vantaggi e quali svantaggi?
Diciamo che questa è soprattutto una scelta di mercato, di posizionamento e di obiettivi da parte del ristorante: è vero che spesso il pubblico delle famiglie viene recepito male da altre tipologie di utenze ma è pur vero che oggi si tratti di uno tra i target più cospicui in termini numerici e soprattutto che i ristoranti ben organizzati e strutturati per le esigenze delle famiglie possano ben accogliere e soddisfare questa clientela, facendo vivere una bella esperienza gastronomica e di accoglienza all’interno del proprio locale.
La scelta definitiva è molto legata al tipo di offerta che si vuole proporre; tuttavia, qualche riflessione andrebbe svolta sull’educazione dei piccoli al ristorante, cioè il rischio è che a furia di “vietare” questa possibilità ai bambini avremo adulti poco orientati a quel tipo di proposta.
Il nostro consiglio sta piuttosto di dotarsi di “infrastrutture” che possano rendere il soggiorno dei bambini nel nostro ristorante piacevole per loro e per gli altri ospiti come, ad esempio, avere album da colorare e pastelli, tovagliette interattive con giochi per loro, giochi da fare a tavola durante le attese, tovagliette ludico/ educative sugli ingredienti, sull’orto e le quattro stagioni, giochi a quiz su alcuni prodotti come l’olio extravergine di oliva, che permettono una condivisione a tavola di un’esperienza giocata sensoriale comune. In casi estremi, si possono valutare aree a loro dedicate: non servono grandi spazi o investimenti ma una piccola area attrezzata - ad esempio - con mattoncini Duplo potrebbe già essere una grande opportunità per la loro creatività e manualità, oppure un’area lab dedicata proprio ai bambini o anche alle famiglie, può caratterizzare fortemente il ristorante “for family” e “a misura di bambino” attraverso un programma di attività educative e ludiche da fare in famiglia legate ai temi del cibo e dell’agrifood.
Da che età portare i bambini al ristorante o in pizzeria?
È un dato di fatto che prima si familiarizza con un determinato contesto, prima si impara a stare a proprio agio in quel tipo di ambiente, quindi diremmo: il prima possibile. È importante, però, avere una certa costanza nel frequentare il ristorante o la pizzeria: non basta infatti l’esperienza estemporanea a creare familiarità rispetto a quel tipo di luogo. Condividere un ‘esperienza con tutta la famiglia al ristorante o in pizzeria può sempre regalare un momento di scoperta, di esperienza.
Tutti
i ristoranti e le pizzerie sono “a misura di bambino”? Quali accorgimenti si possono adoperare?
Pochi sono i ristoranti realmente “a misura di bambino” e, nonostante la grande richiesta di questa tipologia, che ci è testimoniata anche dal grande diffondersi di pagine tematiche dedicate al mondo del family, che segnalano strutture a misure di bambino (da hotel ad agriturismi, a ristoranti, pizzerie, musei e parchi), c’è ancora poca attenzione.
E, quindi, secondo noi sarebbe veramente molto utile e stimolante cercare di adeguare - per chi ha interesse, ovviamente per questa tipologia di target - a specializzarsi fortemente verso questo segmento. Partiamo dal presupposto che tutti i ristoranti possono intanto fare una scelta di tipo educativo, sia nel menù che nella comunicazione.
L’idea di base è non proporre ciò che sicuramente gradiranno i bambini, piuttosto ciò che è più giusto per la loro crescita e per la loro educazione. Spiegare il motivo di tali scelte e indicarle in maniera chiara attraverso i menù e con pannelli educativi o tovagliette educative e giocose. Ad esempio, l’utilizzo di cibo locale, biologico, integrale va sicuramente a valorizzare la propria cucina “a misura di bambini”. Cercare di proporre delle pietanze anche visivamente più carine e soprattutto proporre delle ricette diverse. Avere l’omologazione nel menù delle solite proposte è fortemente riduttivo e quindi ben venga la proposta nel menù di altre pietanze stimolando l’assaggio anche con dei giochi sensoriali.
Quando si progetta un’attività da fare al ristorante, è meglio pensarla solo per i bambini o per tutte la famiglia? E oggi, in un contesto in cui il concetto di famiglia, è molto ampio come dobbiamo muoverci?
Ci consigliate qualche
attività da rivolgere ai più piccoli e alle loro famiglie?
Oltre ai già citati colori e Lego, che sono alla portata di tutti, ciò che in generale funziona molto bene sono i percorsi di scoperta: questi possono essere proposti in vari modi, ad esempio accompagnare il pasto con una serie di indizi e di prove che vengono serviti con le pietanze, oppure piccole prove anche di manipolazione che possono essere proposte nelle pause tra un pasto e l’altro.
Il suggerimento è di progettarle come se quelle attività le dovessero svolgere i nonni insieme ai bambini: oggi il tema delle relazioni intergenerazionali significative è un tema centrale, i linguaggi sono diventati molto diversi e non ci sono luoghi progettati affinché questa relazione abbia modo di crescere. In un contesto così progettato, ci staranno bene anche i genitori o altri adulti accompagnatori e persino i bambini da soli.
E veniamo a un “tasto dolente”: il menù bambini. Ha ancora senso proporlo? E cosa dovrebbe contenere? Cosa è una “cucina a misura di bambini”?
Ha senso nel menù evidenziare che c’è un'attenzione ai bambini nella scelta degli ingredienti e delle porzioni (così da evitare anche inutili sprechi). Nella mise en place e nel servizio, è meglio ad esempio un piatto giocato in cui gli ingredienti sono disposti a formare un volto che le trite e ritrite cotolette con patatine.
COME DIVENTARE UN RISTORANTE FOR FAMILY / A MISURA DI BAMBINO IN 8 SEMPLICI PASSI
Se il tuo ristorante vuole fornire una particolare attenzione ai bambini (e addirittura rafforzare fortemente questo target) può cercare di dare ai bambini la possibilità di vivere l’ esperienza non come un luogo in cui annoiarsi e non vedere l’ora che i genitori finiscano di mangiare, bensì come un luogo di divertimento sicuro, stimolante ed educativo in cui trascorrere del tempo libero in armonia con la famiglia e con altri bambini con cui fare amicizia. Ecco 8 semplici consigli:
❶ Spazio adeguato
Una sala spaziosa per poter permettere di sistemare passeggini, sia vicino al tavolo per i neonati, sia più distante quando il bimbo è un po’ più grande, così da poter anche far muovere liberamente i bambini tra i tavoli
❷ Arredamento adatto
Valorizzare un’area baby ed indicarla anche con una frase, come: “Ci prendiamo cura di te”. Qui potranno trovarsi: fasciatoio e scaldabiberon, seggioloni, panche e anche un arredamento allegro e sicuro.
❸ Menù bambini
PER SAPERNE DI PIÙ:
• www.agrigiochiamo.it
• www.agriculturalab.it
• www.mediterraneosia.it
• www.4family.it
Porre attenzione a prodotti stagionali e locali e realizzare impiattamenti divertenti che valorizzino le pietanze, con porzioni giuste e senza sprechi. Il ristorante può diventare un bel luogo educativo se si crea anche un menù con poche informazioni accanto ai prodotti utilizzati, semmai raccontati da un personaggio delle storie che guida alla scoperta di prodotti, ricette e tradizioni
❹ Nell’attesa
Fornire tovagliette e giochi di società e creativi
❺ Tessere fedeltà “for family”
Una raccolta punti per fidelizzare i propri clienti e dare poi uno sconto o un omaggio. È anche possibile proporre giornate tematiche dedicate alle famiglie con laboratori, incontri con chi scrive libri di cucina per bambini e molto altro
❻ Area giochi
Creare un’area giochi in sicurezza e, se si ha spazio all’aperto, arredarlo con tavoli e pannelli illustrativi che invitano alla scoperta
❼ Eventi
Organizzare eventi speciali dedicati alle famiglie e ai bambini
❽ Un piccolo omaggio
Regalare ai genitori un elenco di buone letture a tema cibo, ricette per bambini… e ai bambini un ricordo, come un kit di matite colorate, il cui costo è davvero molto contenuto
storie di pizza
SALVATORE LA PORTA, UNA VITA DA CAMPIONE
Castelli Calepio pare sia la città dei campioni della pizza. Eh sì, proprio di questo piccolo centro della provincia di Bergamo sono Giulia Vicini e Giulia Zanni che hanno portato a casa il primo premio per la miglior pizza classica e anche Salvatore La Porta che ha trionfato nella sezione pizza in pala al XXXI Campionato Mondiale della Pizza.
Una vittoria sperata e provata, dopo il terzo posto dello scorso anno, forse non attesa come ci racconta lui stesso al telefono “perché non si è mai sicuri del risultato, continui a pensare a come potresti fare meglio fino al momento precedente alla gara e sentire quell’adrenalina e l’emozione”.
Per Salvatore La Porta l’adrenalina della gara e l’emozione, anche quella della vittoria, non è mai la stessa, non si doma e non passa mai, nonostante i tanti premi collezionati. E a casa non è l’unico campione: con lui, la figlia Valentina (anche lei in gara quest’anno al Campionato Mondiale della Pizza nella categoria pizza classica e pizza a due con il papà). Valentina, nel 2014,
dopo appena un anno da pizzaiola nella pizzeria di famiglia “Al Posto Giusto” si posiziona seconda al “Giro Pizza Europa”: questo riconoscimento per lei e soprattutto per Salvatore (che a far le gare nemmeno ci pensava) è stata la conferma che le scelte e il lavoro fatto erano quelli giusti. Da qui è scattata una molla che li ha portati di gara in gara e di podio in podio, fino allo scorso aprile quando Salvatore si aggiudica con la sua pizza in pala il primo posto e il premio speciale Parmigiano Reggiano. Salvatore, origini siciliane, ha un passato da cuoco. Il suo amore per la cucina si è rafforzato ancora di più, come lui stesso ci racconta quando gli chiediamo cos’è per lui la pizza: “Per me la pizza rappresenta la fusione e la commistione tra la cucina, mio primo grande amore, e il disco di pasta, dove l’una dà senso all’altro. E poi la pizza ha il grande potere di unire le persone e – diciamolo - non ti stanchi mai di mangiarla”. Una pizza, la sua, che piace molto anche ai clienti che frequentano “Al posto Giusto”. Clienti fedeli che sperimentano le creazioni di Salvatore e Valentina e che, ovviamente, richiedono la pizza vincitrice, già inserita nel menu e gettonatissima.
Salvatore, a questo punto parlaci
della tua pizza.
In pizzeria da noi facciamo una pizza classica ad alta idratazione e anche la pizza in pala in un formato rotondo che poi serviamo a spicchi per dare la possibilità di un percorso di degustazione. L’impasto della classica ha un 50% di idratazione, lavoro con un blend di farine tra integrale e tipo 0 con una lievitazione di 36-48 h. Il risultato è una contemporanea con cornicione pronunciato, condimenti assolutamente stagionali, selezionati e tutti lavorati da noi.
E, invece, cosa ci dici della tua
“Parmidoro”, la pizza che ha vinto?
Ho voluto fare un omaggio alla mia terra, la Sicilia, con una rivisitazione della Parmigiana. La base è realizzata con un impasto ad alta idratazione, un preimpasto rinfrescato dopo 22 ore con una farina proteica a base di ceci e di lenticchie rosse di Lentini per richiamare il profumo dei posti dove sono cresciuto e, a seguire, 5 ore di maturazione. Stesura finale poi con questa stessa farina di legumi per conferire in cottura l’effetto crunch e, sopram, condimento con melanzane à-la-julienne cotte al vapore con pomodoro giallo, cialda di polenta croccante per dare croccantezza sotto ai denti e - altra chicca, che mi ha fatto vincere il premio speciale Parmigiano Reggiano - dei roches di Parmigiano, ovvero delle sfere di parmigiano ripiene di caponata di melanzana. E, se i colleghi e gli amici di Salvatore pensavano che la pizza alla parmigiana fosse banale, Salvatore ha dimostrato il contrario utilizzando tecniche di cotture diverse e giocando con estro sui sapori e la forma.
Cosa hai provato quando hai sentito il tuo nome per il primo posto della pizza in pala?
Un’emozione grandissima, ancora ho la pelle d’oca a pensarci. Sono un veterano delle gare ma a tutta questa emozione non mi abituo mai. E pensare che alla cena di gala non ero presente: ero tornato a casa perché non pensavo di arrivare così in alto. E poi mi hanno telefonato e sono ripartito di corsa verso Parma.
Sul sito della pizzeria ci sono tutti i premi che tu e tua figlia Valentina avete vinto. Cosa significa per un pizzaiolo vincere così tanto?
È uno stimolo continuo, un modo per non rallentare, per non fermarsi con la convinzione di essere bravi. La competizione ti dà la possibilità di studiare, ricercare, pensare a cose nuove e come fare meglio. È un modo per rimettersi in gioco e crescere. La cosa che amo di più di questo lavoro è proprio l’incontro tra la cucina e la pizza: una continua ricerca e sperimentazione. Mi sono ripromesso che, arrivato a 60 anni, avrei smesso di gareggiare: ne ho 58 oggi ma, dopo quest’ultimo campionato e la vittoria conseguita, mi sa che non mi fermo e continuerò… Sicuramente in altre categorie, ma non mi fermo.
Qual è la tua pizza preferita e quali consiglieresti?
La mia pizza preferita e anche quella che inviterei a provare (oltre alla Parmidoro, ovviamente) è “Ricordo d’Infanzia”, con sette tipologie di pomodoro cotti con sette diverse tecniche di cottura e consistenze e un tocco leggero di burrata. Con questa pizza nel 2020 ho vinto il primo premio al Campionato pizzaioli d’Italia.
Com’è fare le pizze con tua figlia?
Ha dato una marcia in più nella tua visione della pizza?
Lavorare con la propria figlia è una cosa stupenda e vedere che lei diventa sempre più brava mi inorgoglisce, come quando lei arrivò prima e io secondo in una gara. Gli scontri ci sono ma fanno parte del ménage familiare e lavorativo, come quando lei vuole inserire delle novità su cui io sono contrario ma solo perché ho una visione più classica per certe cose. Sicuramente lei porta innovazione e modernità e poi è molto creativa.
Da padre ti chiedo quale consiglio daresti a tutte le ragazze come Valentina che vogliono fare le pizzaiole? Visto che di donne pizzaiole in Italia se ne vedono ancora poche.
Avvicinatevi tantissimo a questo mondo perché è fantastico, tutto da scoprire e poi regala tante soddisfazioni. Vedere un cliente che finisce di mangiare e viene a farti i complimenti ti ripaga di ogni fatica.
Infine, ti chiedo: come saranno la pizza e la pizzeria del futuro secondo te?
Ricerca, creazione, innovazione e sostenibilità saranno questi i fattori determinanti della pizza di domani.
Sarà un anno da leccarsi i baffi. C’è una ghiotta novità che darà più sapore al nuovo anno, un calendario che porterà la giusta nota di colore. Tante idee da assaporare ogni mese con i nostri dodici “Artisti della pizza”. Giugno è stato dedicato al nostro caro pizzaiolo Antonio Erra che con la sua “Pizza Bebbè” dalla crosta sottile e croccante è la soluzione perfetta per la tua fame e il tuo desiderio di qualcosa di eccezionale. Grazie alla scelta di ingredienti freschi e sapientemente abbinati, questa pizza è pronta a soddisfare i tuoi sensi e a superare ogni aspettativa.
storie di pizza
DAL CAMPIONATO DOMENICO SANCAMILLO,
CAMPIONE DEL MONDO PIZZA IN TEGLIA
È tutto romano il podio
della categoria “Pizza in teglia” al Campionato
Mondiale della Pizza di
Parma 2024: il primo posto
è stato conquistato da
Domenico Sancamillo de “Il Mondo della Pizza” a Bellegra.
Non è la prima volta che il pizzaiolo romano ottiene un ottimo piazzamento nella competizione e, infatti, l’anno scorso aveva conquistato il terzo posto e prima ancora il sedicesimo. Non contento, ha perseverato e raggiunto il suo obiettivo più che meritato. Non soltanto per la pizza in sé ma per la tenacia, l’allegria, la passione e l’umiltà che mette – insieme anche a sua moglie – nel suo lavoro. Amante del buon gusto e della sua zona, ci tiene a valorizzare i prodotti del territorio, proponendo accostamenti interessanti e un impasto semplice, ma vincente.
Domenico come ci si sente a essere
Campione del mondo?
È una grande emozione, oltre che una bella soddisfazione. Dopo tanti anni di sacrifici, ottenere un risultato così prestigioso, è indescrivibile. Quello di Parma è il più importante, vinsi già a Scalea il primo posto una volta ma non è stato come arrivare terzo – l’anno scorso –a Parma, un altro livello.
Qual è la pizza della vittoria? Parlami
dell’impasto, degli ingredienti e dimmi, come l’hai pensata?
L’anno scorso vinsi con I sapori di mamma (crema di zucca, porcini, scamorza e guanciale), questa volta ne ho fatta una simile, revisionando la precedente. Si chiama Le origini della mia terra : base crema di zucca preparata da me, funghi porcini di Bellegra, scamorza, latte vaccino, guanciale di maiale nero allevato allo stato brado, asparagi trovati da noi a 800 metri di altitudine, cialde di parmigiano e cristalli di pomodoro. Questi per dare colore, ho spellato i pomodori dopo la bollitura, fatto essiccare e frantumato la buccia. Un bel bianco, verde, arancione e rosso. I giudici, quando l’ho presentata, mi han detto di sbrigarmi perché volevano assaggiarla calda. È stata una grande vittoria. Riguardo all’impasto, è quello che preparo tutti i giorni in pizzeria: diretto, niente poolish o biga, farina doppio 0, 10% integrale macinato a pietra, lievito a massa, 24h in frigo e 4 a temperatura ambiente, 80% di idratazione.
Non è la prima volta che sali sul podio e, soprattutto, l’ultimo non è l’unico traguardo raggiunto. Quali vantaggi e cambiamenti hanno portato e pensi porteranno questi riconoscimenti?
Investire in mondiali, gare grandi o piccole, è importante. Sicuramente l’investimento porta più gente, curiosità nel conoscere il prodotto e assaggiarlo. Arrivano tanti complimenti e, dopo la prima volta, le persone tornano. Io non sono in città: Bellegra è un paesino di tremila abitanti, questo dà ancora più soddisfazione. Inoltre, il mio lavoro si basa sulle nostre materie prime. Niente barattoli, al massimo il pomodoro. Prepariamo tutto: dalle patate alle cime di rapa. La gente lo sente il prodotto che usi. Il fungo porcino cucinato è diverso da quello in barattolo. Poi andiamo in base alla stagionalità. Adesso va molto quella con le puntarelle, per esempio: puntarelle, alici, pomodorino dry, olive taggiasche, base rossa e stracciatella oppure mortadella con stracciatella, puntarelle e olive o, ancora, prosciutto cotto a vapore e dopo grigliato, base rossa e puntarelle. Questo è anche il periodo dei fiori di zucca e allora magari proponiamo fiori di zucca, pomodorini e salmone o fiori di zucca, guanciale e bufala ecc.
Tra l’altro non gareggio solo per la mia attività ma anche per Bellegra che è un bellissimo paese a 815 metri di altitudine. Viene chiamato “la città dei panorami”: si vede tutto, dal mare alla montagna, ci sono grotte, un bel percorso naturale, è a 50km da Roma e, in estate, le persone vengono a villeggiare. A ottobre, c’è anche la sagra dei porcini: è bellissimo. Io ringrazio tutte le persone del mio paese e di quelli vicini che mi hanno permesso di crescere.
La tua pizza del cuore?
Quella del mondiale. È una ricetta dedicata alla mia mamma che non c’è più. Poi amo quelle con le patate, per esempio: patate lesse, porchetta, stracciatella, cime di rapa. Oppure, una molto richiesta è quella con baccalà lesso con olio, peperoncino, prezzemolo e aglio, crema fatta con la pelle frullata del baccalà, olive e olio extravergine di oliva di nostra produzione. In questo periodo mio padre fa l’orto in campagna e mi porta quello che c’è.
È un grande valore aggiunto.
Sì. Stessa cosa per le patate, ovviamente quelle della nostra campagna sono completamente diverse, più asciutte, più saporite.
Ma facciamo un passo indietro: come ti sei avvicinato al mondo della pizza, qual è la tua storia?
Ho frequentato l’Alberghiero ad Amatrice e fatto esperienze a partire dai 16-17 anni a Roma, nei ristoranti. Nel mio paese, c’era una pizzeria disponibile e, poiché ho sempre avuto la voglia di mettere le mani in pasta e mi è sempre piaciuta l’arte bianca, nel 1998 ho fatto un corso di pizza in teglia e mi sono detto “provo”, nel ‘99 ho aperto. Grazie anche all’appoggio di mia moglie e dei miei genitori. Non ho voluto fare gare o mondiali finché non mi sono sentito pronto. L’esperienza c’era ma non me la sentivo, nonostante sapessi di essere in grado di confrontarmi. Se si va, è per fare bella figura, imparare e anche vincere. L’anno della pandemia c’è stata una svolta, ho fatto corsi di aggiornamento, cambiato tecnica di impasti, fatto prove ecc. Ho cominciato con una gara per la quale siamo stati selezionati da una foto e, insieme a mia moglie che mi segue sempre, ci sono andato e ho vinto
il secondo posto. Dal 2021, ho fatto una quarantina di competizioni e su 36 ho riportato un risultato, sempre tra i primi 3 o 4. A Parma nel 2022 ci sono andato con poca esperienza per una gara così grande… poi si impara man mano, ci si confronta con i colleghi e ci si fa un bagaglio. Dopo essere arrivato sedicesimo la prima volta, ho corretto errori e appreso molte cose, così, l’anno dopo sono arrivato terzo e, quest’anno primo.
Il podio della pizza in teglia ha visto tutti romani, qualcosa vorrà dire: cos’è che rende la teglia romana diversa?
Regione che vai, usanze che trovi. La nostra non è una teglia spessa, ha una bella alveolatura, è bella croccante fuori e morbida dentro. È proprio una tradizione. Ovviamente sono importanti anche gli ingredienti. Ti dirò: la mia pizza, anche a freddo, resta croccante, idem se la riscaldo.
Se venissi da te, cosa mi faresti assaggiare?
Quella con la porchetta (ma non di Ariccia), ne uso una di maiale nero allevato allo stato brado, con patate, stracciatella, broccoletti ripassati in padella e finocchietto selvatico che si trova in campagna, per dare freschezza. Oltre ovviamente a quella di cui ti parlavo prima, con la zucca, che è eccezionale.
Io adoro la zucca.
Se la cuoci bene, esce un bel prodotto. Io la preparo così: olio, cipolla, rosmarino e aglio soffritto che tolgo quando metto la zucca. Niente acqua, coperchio e via. Resta un bel sughetto, tolgo il rosmarino, finisco con un tocco di burro e una manciata di pepe.
Quindi tutte le mattine prepari impasti e cucini anche.
Abbiamo fatto la scelta di non aprire più la mattina, nonostante ci siano le scuole elementari vicino. Non potevamo dare il prodotto che volevamo stando alle richieste di un bambino che ti chiede “50 centesimi di pizza”. Così abbiamo deciso di incentrare la preparazione al mattino e aprire il pomeriggio. Lavori molto di più e con un prodotto più buono e di qualità.
Al di là del prossimo Campionato, hai altri progetti?
Acquistare il locale vicino al mio, mettere una quarantina di posti a sedere e cercare di diversificare offrendo una bella location, in cui restare colpiti in primis dalla pulizia – che per noi è fondamentale, abbiamo tutto a vista infatti – poi dal personale e ovviamente, dal cibo. Resteremmo sullo stesso prodotto, facendo però quei 10 tavoli che permetterebbero al cliente di restare e mangiare il prodotto caldo invece di portarlo a casa. Magari, con una bella birra o un vino delle nostre zone in abbinamento. Per esempio, con la zucca abbinerei un Cesanese di 15 gradi, una riserva. È questo che vorrei creare.
Ristorazione
ESISTE UNAITALIANACUCINA
“ Tutta sta oba gh’avé ” chiede Lissandro a paron Menego, dopo aver ascoltato la lista degli arrosti. E quell’oste veneziano del Settecento gli risponde quasi offeso: “ La comandi e non la dubita gnente. Semo a Venessia, sala, e ghe xe de tutto, e a tutte le ore, e in t’un batter d’occhio se trova tutto quel che se vol. La comandi. ” Il buon Lissandro, un ricco borgese veneziano, aveva chiesto all’oste gli arrosti disponibili nel suo locale ed era rimasto perplesso dalla lista proposta dall’oste: “ Lonza, straculo, cincghial, lievro, agnello, cavretto, pollastri, dindi, capponi, ànere, quagge, gallinazze, beccanotti, pernise, francolini, fasani, beccafighi. ”
Una gran varietà di carni e animali da cortile, ovini, caprini, uccelli di valle, cacciagione di piuma e di pelo, di pianura e di montagna (e quell’oste non cita il pesce, non richiesto dal cliente), un’abbondanza difficilmente trovabile nei più riforniti ristoranti d’oggi.
“Ma siamo a Venezia, lo si sappia”, esclama il signor Domenico, uno dei tanti titolari di osteria con cucina presenti nel Settecento nella città dogale, dove si poteva trovare tutto quello che si voleva e a qualsiasi ora del giorno. Questo colloquio tra l’oste e un cliente lo si trova nell’opera “Chi la fa l’aspetta”, scritta nel 1764 dal grande commediografo Carlo Goldoni (1707-1793) ed è una fedele testimonianza, come tanti altri passi delle sue molte commedie, dell’ampia disponibilità di prodotti
agroalimentari, di pesci, carni, salumi, formaggi, frutta e verdura, dessert, vini, liquori e caffè disponibili nella sua città nel corso del Settecento e, di conseguenza, dei tanti piatti che potevano essere realizzati con tutti questi prodotti. E una importante e qualificata visione sulla cucina del Settecento in Italia ce la fa anche Giacomo Casanova (1725-1798) nella sua monumentale “Histoire de ma vie”, la storia e le memorie della sua vita scritta in vecchiaia nel Castello di Dux in Boemia, dove è morto.
UN LIBRO DI CUCINA CONTROCORRENTE
In un libro, recentemente pubblicato e ampiamente reclamizzato (vedi ad es. “Cook” del Corriere dello scorso aprile 2024), intitolato “La cucina italiana non esiste”, i due autori – Alberto Grandi e Daniele Soffiati – affermano che: “gran parte della nostra gastronomia e dei nostri prodotti alimentari sono nati dopo il boom economico; quindi, nel corso dei recenti anni ‘70 e ci aggrappiamo a un patrimonio inesistente per il bisogno di affermare la nostra identità.” Chiaramente, il titolo del volume gioca sull’equivoco, perché in Italia esistono centinaia di cucine locali e non esiste invece una cucina unica per tutta la penisola. Ma, come riporto nella parte qui sopra in corsivo, i due autori vogliono dire altro
e cioè che la cucina che gli stranieri trovano oggi in Italia è quanto meno artificiale, nel senso che è non è una cucina storica ma una cucina nata e inventata negli anni ‘70 del secolo scorso, cancellando l’alimentazione prima esistente.
A smentirli, ho citato il caso di Venezia, che ancor oggi presenta con orgoglio - pur adeguati ai tempi in continua evoluzione - i piatti citati da Goldoni nelle sue commedie ed ogni grande città d’Italia, dall’allora asburgica Trieste, all’opulenta Milano, alla ricca Torino sabauda, alla Roma papale, a Napoli e Palermo a quel tempo sotto il dominio dei Borboni, ovunque c’erano prodotti vari ed abbondanti e piatti spesso favolosi ancora presenti nella ristorazione
Ristorazione domani
e nelle case delle rispettive città. Le cucine del Settecento, quelle della nobiltà e della ricca borghesia, erano opulente. Basta leggere i ricettari del tempo – cito fra gli altri: Bartolomeo Stefani, “L’arte di ben cucinare”, Venezia, 1662; Vincenzo Corrado, “Il cuoco galante”, 1773; Anonimo, “Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi”, 1776; Antonio Nebbia, “Il cuoco maceratese”, 1781; Francesco Leonardi, “L’Apicio moderno”, 1790 – per capire la straordinaria ricchezza delle
cucine presenti nella Penisola. Gli autori citati, che probabilmente volevano col loro libro far riflettere gli Italiani, più che scrivere cose non corrispondenti alla realtà, precisano che non si deve confondere la storia della cucina con la storia dell’alimentazione. E questo è verissimo, perché per i poveri, la grande maggioranza degli Italiani, fino a tutti gli anni ‘60 del secolo scorso, l’alimentazione era magra e spesso insufficiente, mentre nelle dimore dei benestanti e nei grandi alberghi già nell’800 si mangiava molto bene, magari gli stessi piatti che arrivavano sulla tavola dei dogi di Venezia, dei Savoia a Torino, dei Granduchi a Firenze, della Curia romana, dei Borboni a Napoli e a Palermo.
LA GRANDE CUCINA ITALIANA ATTUALE
Oggi, ma non da oggi, la vera grande ristorazione italiana – dentro la quale si nascondono purtroppo molte fragili apparenze, pur esse premiate da alcune guide gastronomiche – sa alcune cose importanti e le conosce grazie a una seria cultura di chi vi lavora, che è essenziale nelle cucine che si rispettano. Innanzi tutto, sa che la cucina in Italia (per essere più precisi: i piatti che caratterizzano i ristoranti di qualità), quella offerta ai turisti che vengono a trovarci da tutto il mondo, è il risultato di un mosaico di cucine, naturale evoluzione delle famose cucine della nonna, ancora presenti nelle trattorie delle città e dei paesi della nostra Penisola e delle isole e sono le cucine vere, emblema e caratteristica della e della ricca tradizione alimentare e gastronomica italiana. Queste cucine erano molto diffuse fino agli anni ’60 – ‘70 del secolo scorso e, in numerosi casi, ancora felicemente vive e ben frequentate. Se molto è cambiato nella cosiddetta “grande cucina” – diciamolo con chiarezza – è stato per la irrefrenabile aspirazione di diversi cuochi di puntare alle stelle e simili, cercando di imitare la cucina francese, ben riflessa nella guida francese che distribuisce le stelle. Non esiste una cucina italiana nel senso che a parte alcuni piatti (es.: pasta con ragù alla bolognese; pasta alla carbonara; pasta al pomodoro, di recente
diffusione), ogni territorio italiano ha una sua cucina caratterizzata da piatti locali ed è dall’insieme delle tante cucine che l’Italia offre da sempre al mondo un mosaico gastronomico altrove difficilmente reperibile. Queste cucine sono nate nelle case contadine, tramandate per secoli da suocera a nuora e, per questo, definite comunemente “cucina della nonna”. Queste cucine “tradizionali”, alle quali si sono unite le cucine aristocratiche pur esse ovunque presenti, si sono via via evolute nel corso del tempo o per il venir meno di qualche
materia prima, (ad esempio: i polli ruspanti, i pavoni, le erbe spontanee e selvatiche di primavera, gli uccelli dal becco gentile, i datteri di mare, ecc.), o per l’utilizzo di sempre più moderne tecniche operative e di cottura, o di qualche ingrediente industriale, ecc., come sempre è avvenuto nella storia. Naturalmente, in questo racconto non entrano le grandi e interessanti cucine d’autore, quelle dei grandi nomi, che hanno una storia autonoma, anche se a volte utilizzano i medesimi prodotti che usava la nonna.
GUARDANDO AL FUTURO
Affermare, come hanno fatto i due autori sopra citati che “i piatti oggi considerati iconici del Belpaese in realtà sono arrivati dagli emigrati in America che hanno fatto ritorno in patria” può anche essere vero se ci si riferisce alla Carbonara che veniva servita ai clienti nel ristorante Armando’s di Chicago, come ha raccontato Patricia Bronte in una sua guida gastronomica del 1952 ma per i risotti, tanti e diversi, basta conoscere le ricette veneziane dal 1550 in poi e così le varie preparazioni dello “stoccafisso” (a Venezia chiamato baccalà), delle “moéhe” (granchio verde in muta), delle “sarde in saòr”, ecc. per sapere che sono piatti nati in casa e non all’estero. E, come a Venezia, in tutto il territorio italiano.
Abbiamo preso a pretesto il libro di Grandi e Soffiati (che invito comunque a leggerlo) per ripetere un invito che questa rivista fa ai cuochi fin dai primi numeri: la cucina dei singoli luoghi d’Italia è un patrimonio di grande valore storico e culturale, oltre che essere il risultato di un lungo e serio lavoro di molte generazioni; una cucina che ha saputo superare indenne il severo esame della storia, adeguandosi al mutare dei tempi, dei gusti e delle esigenze nutritive senza
però tradire le radici, per cui va considerata a pieno titolo cucina della tradizione. Presentare al mondo questa cucina, nelle forme suggerite dal buon gusto anche estetico, è il compito della ristorazione più seria, quella che cucina per i clienti e non per conquistare una stella, non sforna piatti nuovi ogni anno per doverli presto cancellare dalla Carta, perché la vera grande cucina è solo quella che passa da una generazione all’altra e racconta la storia, la cultura e la civiltà di un popolo.
INDIETRO NEL FUTURO
La storia di Fabbri 1905
di Noemi CaraccioloUna storia tutta italiana
quella di Fabbri 1905, un’azienda
familiare nata da un’intuizione che ha dato vita a uno dei marchi Made in Italy più conosciuti al mondo.
È da oltre 100 anni che accompagna gli italiani alla scoperta di gusti sempre più variegati e innovativi.
Nicola Fabbri, rappresentante della quarta di cinque generazioni, ci ha raccontato la storia della fatidica
“Amarena Fabbri” nel vaso bianco e blu – ma in fondo, chi non la conosce? –e non solo.
Sig. Fabbri, oggi il vostro nome è famoso in tutto il mondo per svariati prodotti ma so che in realtà siete nati come distilleria…
Sì. Nasciamo in un piccolo paesino rurale vicino Bologna, Portomaggiore. Il mio bisnonno, Gennaro, acquistò un negozio – un normalissimo alimentari – con un retrobottega abbastanza ampio. È proprio nel retro che iniziò a mescolare liquori e, fuori, sull’insegna, scrisse “Premiata distilleria G. Fabbri” invece di “alimentari”. È da lì che nasce la nostra storia. Abbiamo distillato fino alla fine degli anni Settanta e, con il nostro branding, siamo diventati leader sul mercato: ce lo dividevamo con “Vecchia Romagna” e altri marchi storici della distilleria italiana.
E qual è la storia che si cela dietro
l’inimitabile amarena Fabbri 1905 e l’inconfondibile vaso in ceramica bianco e blu?
Nel frattempo, ai liquori si sono affiancate altre cose, a partire proprio dall’amarena. Questa nasce per caso da una ricetta della moglie di Gennaro, Rachele, che cucinava in casa queste ciliegie acide, le amarene che aveva in giardino. Siccome non sono buone da mangiarsi fresche, le trattava con lo zucchero, come altre donne in paese. Il marito, che era un visionario, decise di venderle e lo faceva in damigiane, come oggi si fa per l’olio e le olive. L’idea geniale fu quella di dare un marchio e farlo conoscere a chi gustava il prodotto. Così gli venne in mente di creare un contenitore in cui si potesse versare l’amarena dalla damigiana e tenerlo sul banco. Andò a Faenza, dal miglior ceramista dell’epoca,
Gatti e chiese un recipiente che fosse bello e ambito da qualunque barista volesse esporlo. Erano i primi anni del secolo, un’influenza fondamentale era quella cinese: dalle sete, ai vasi, alle porcellane. Gatti si ispirò proprio a queste ultime per riprodurre i tratti blu e bianchi dei fiori, delle foglie tipiche dei vasi Ming. La stessa forma riprendeva quella della pagoda rovesciata. Oggi è diventato un’icona del Made in Italy nel mondo.
Avete poi iniziato a esplorare altri mondi, per esempio la pasticceria, ma non solo...
Nasce tutto da delle intuizioni, da una generazione all’altra. Per esempio, il primo semilavorato per la gelateria artigianale italiana nell’immediato secondo dopoguerra. Quando la disponibilità di zucchero e frutta era scarsa, noi avevamo una produzione di marmellate da casa – dopo esserci riappropriati dell’azienda, sequestrata e portataci via dall’esercito tedesco – ricominciammo a produrre tutto: dai liquori agli sciroppi alle marmellate per la colazione. L’intuizione fu quella di inserire nella marmellata gli ingredienti che servivano per fare un buon gelato artigianale cremoso: stabilizzanti, neutri e addensanti, quelli che trasformano la granita in gelato. Nel frattempo, Carpigiani e Cattabriga stavano mettendo il motore elettrico nelle macchine da gelato e fu possibile contemporaneamente aprire
più produzioni di gelateria rispetto al passato. Da quel momento, si vide una gran crescita e sviluppo della gelateria artigianale italiana, sia dal lato dell’ingredientistica che meccanico. Un’altra idea fu quella – di mio padre e mio zio, la terza generazione – di creare una “flotta” di van, dei camioncini allestiti a gelateria con cui vendere gelato. Attraverso questo sistema, potevano dimostrare ai proprietari delle gelaterie quanto fosse facile creare un buon prodotto italiano. Giravano dal Nord Europa ai paesi d’Italia. Da quel momento in poi, tante sale da tè e da biliardo furono trasformate in gelaterie. Ancora, possiamo pensare all’intuizione tutta italiana del “bar-gelateria-pasticceria”, una tipicità unica. Nel tempo ovviamente le produzioni sono aumentate e da due, tre, siamo passati a mille, trecento prodotti diversi. Vendiamo in più di 100 Paesi nel mondo.
E, parlando di pizza invece, so che nel 2011 siete stati fautori e “accompagnatori” della pizza dolce in Italia.
Sì. Un’altra delle nostre idee che, però, nonostante abbia aperto un piccolo mercato, non si è sviluppata tanto quanto avremmo voluto. È lo stesso concetto dei cocktail a fine pasto: qualunque gestore dovrebbe cercare di offrire al cliente più scelte e, perché no, proporre anche qualcosa di fatto in casa e genuino. Magari una pizza come dessert a centro tavola. Le cose fatte in casa hanno quel senso di artigianalità che premia.
Come vede il futuro della pizza dolce?
Io ci credo ancora. L’ho vista anche all’estero, anche se in Italia viene meglio, è più buona. Vorrei che tanti pizzaioli italiani andassero a insegnare non solo la Margherita, ma anche la pizza dolce.
Quali prodotti consiglierebbe per una buona farcitura?
La pizza è una base anche un po’ salata, consiglierei le creme spalmabili, i nostri Nutty di cui ci sono tanti gusti o gli Snackolosi, golose variegature a base cioccolato che ricordano il gusto degli snack più amati, magari all’amarena o al mango. La fantasia di noi italiani è irrefrenabile.
Cosa conta di più tra tecnologia / innovazione e artigianalità?
È tutto nelle mani dell’artigiano. Non credo alla sostituzione, però credo all’aiuto che le macchine possono dare per creare prodotti sempre più sani, sicuri e in quantità maggiori. Oggi molti hanno la paura della mancanza di personale: questa può essere “placata” con l’uso di qualche macchina, che però mai sostituirà la mano e la creatività dell’uomo o il gusto dei prodotti.
Qualche novità e un prodotto che mi farebbe assaggiare?
Abbiamo presentato una salsa dolce variegata che si accompagna al gelato, ha sapore di amarena o mango, con inclusioni croccanti. Le varie tessiture sono importanti oggi per il palato dei consumatori che sono sempre più esigenti. Qui troviamo la naturalità del gusto ma anche qualcosa di sfizioso da sgranocchiare. Poi ci sono nuovi prodotti 100% frutta, per sorbetti sempre più ricchi e naturali. E, ancora, lo zenzero caramellato che in realtà abbiamo lanciato qualche anno fa, molto croccante ma succoso e morbido alla masticazione. Veramente buono.
Il Granaio delle Idee Srl
Via Trento, 7
35020 Maserà di Padova - Padova - Italy
info@igdi.it
www.ilgranaiodelleidee.com
INGREDIENTI PRE-IMPASTO ( BIGA ) :
Farina 380-400W 5.000 g
Lievito di birra fresco 50 g
Acqua 2.500 g
Totale 7.550 g
Massima stabilità, massima efficienza: dai una svolta alla tua produzione
con Pater® Pizza
Pater® Pizza è la miscela formulata da Il Granaio delle Idee e dedicata alla produzione di tutti i tipi di pizza e focaccia.
Frutto di un intenso lavoro di ricerca e sviluppo, contiene i fermenti lattici vivi e i lieviti tipici della microflora originale del lievito madre; è unica perché, per la prima volta sul mercato, tutte le caratteristiche e le funzionalità del lievito madre in pasta sono racchiuse in una miscela disidratata.
Pater® Pizza è stata studiata appositamente per offrire ai maestri pizzaioli il massimo in termini di performance dell’impasto e di qualità del prodotto finito. Uno dei principali vantaggi di questa miscela risiede nella sua spiccata versatilità: può infatti essere utilizzata sia con il metodo diretto che con il metodo indiretto (biga), cambiano solo i dosaggi.
Ricetta “Pizza
PROCEDIMENTO BIGA
Con metodo diretto, Pater® Pizza è da dosare dal 8% al 10% sul peso della farina, mentre, con metodo indiretto, è da dosare dal 3% al 5% sul peso della farina.
Pater® Pizza apporta una significativa e duratura stabilità all’impasto, permettendo così di ottimizzare i tempi di produzione anche in caso di produzione con metodo indiretto*.
Inoltre, rende l’impasto facilmente lavorabile ed estensibile.
Ma i vantaggi non finiscono qui: le pizze saranno caratterizzate da timbri aromatici e sapori unici, una struttura ben alveolata e una crosta dorata e croccante, che conquista al primo assaggio.
Di seguito, la ricetta consigliata da Il Granaio delle Idee per la realizzazione di pizza con biga (metodo indiretto)*
con biga” “metodo indiretto”
Versare l’acqua in un’impastatrice a spirale, aggiungere il lievito di birra fresco e farlo sciogliere bene. Aggiungere la farina e avviare la 1a velocità per 3-4 minuti. Il composto dovrà risultare grezzo e farinoso. Rimuovere il composto e metterlo a riposare in marna per 24 ore ad una temperatura di 18-20°C.
PROCEDIMENTO RINFRESCO (da effettuare il giorno successivo)
Versare in un’impastatrice a spirale la biga del giorno prima, aggiungere le farine e Pater® Pizza.
Aggiungere 3.500 g di acqua in 1a velocità per 3-4 minuti.
Passare alla 2a velocità ed impastare per 2-3 minuti fino a che la maglia glutinica si sarà ben formata.
Versare in 2-3 volte la restante acqua (1.500 g) e, con l’ultima dose d’acqua, il sale. Infine, aggiungere 500 g di olio. Una volta che l’impasto sarà liscio ed omogeneo (temperatura dell’impasto: 25-26°C), farlo riposare in cella a 28°C con il 70% di umidità. Al suo raddoppio, formare delle palline da 180-200 g e farle riposare per 60-90 minuti.
INGREDIENTI RINFRESCO:
Farina 280-300W 4.550 g
Pater®
Quando le palline avranno raddoppiato il loro volume, stenderle, condirle e infornarle a 400°C per 60-90 secondi in forno a legna, oppure infornarle a 280°C per circa 5 minuti in forno a platea.
storie di pizza
UNA “DANNATA” CURIOSITÀ
RENATO BOSCO, SAPORÈ
È venerdì e so che il giorno dopo mi aspetta un impegnativo pomeriggio di lavoro. Finirò tardi e la domenica sarò ancora in giro per un altro appuntamento.
Sono in Veneto, a pochi passi da Verona: cosa faccio? Prenoto sull’incantevole lago di Garda o ceno a due passi dall’albergo? La risposta non tarda ad arrivare nella mia mente, che conosce quanto la mia pigrizia sia pari quasi al mio appetito. Non sono però mai propenso ad accontentarmi e, allora, mi chiedo:
dove trovo una buona pizzeria che al sabato sera mi dia la possibilità di prenotare? Facile. Vado da lui.
E per me “lui” è Renato Bosco, ovviamente. Non tanto (o non solo) perché lo ritengo geniale negli impasti, semplice negli abbinamenti, eccellente nell’accoglienza e nell’organizzazione. Ma anche – e soprattutto – perché Renato fa parte di quella sparuta schiera di artigiani del cibo che lavora a testa bassa dietro il bancone, facendo “ciò che c’è da fare”.
Renato Bosco dichiara di essere nato nel 1967 (ma io avrei detto almeno dieci anni dopo), a 15 anni è entrato nella ristorazione e nel 1985 ha imbracciato la pala per la prima volta. La sua passione per questo mestiere nasce da quella che lui stesso definisce “una dannata curiosità” che lo porta a sperimentare e a conquistarsi il soprannome di “pizzaricercatore”, come lo chiamano molti dei colleghi.
Renato è anche docente in diverse scuole di cucina, tra cui Alma – la scuola internazionale di cucina italiana voluta da Gualtiero Marchesi. Lasciatemelo dire: Renato è fenomenale ma non fa il fenomeno. E, a me, le persone così piacciono.
Ho incontrato per la prima volta Renato il 23 maggio del 2011, quando ho iniziato a interessarmi professionalmente di pizza: era a Napoli per un confronto serrato sul presente e il futuro di questo settore in Italia, in un incontro organizzato dal compianto Giuseppe Vignato per conto di un mulino che provava a farsi spazio nel mondo delle pizzerie.
Era, forse, la prima volta in assoluto che si dava la parola ai pizzaioli in un pubblico consesso in cui ad ascoltare c’erano i giornalisti
Era un mondo diverso, in cui, per un imprenditore, assumere un pizzaiolo costava all’incirca quanto un operaio specializzato, una pizza Margherita di buona qualità veniva venduta tra i 4 e i 5 euro e c’era un numero di locali proporzionato non solo alla richiesta di mercato ma anche alla disponibilità di manodopera.
Non saprei dirvi se fosse meglio o peggio ma sono convinto che, in quel mondo lì, la pizzeria aveva meno problemi e la pizza era più “sincera”.
storie di pizza
Ecco, in quello stesso anno, con Slow Food, decidemmo di invitare Renato a partecipare a un appuntamento internazionale in cui avevamo allestito quella che sarebbe diventata la “Piazza della Pizza”, un “evento nell’evento” in cui sono passate tante stelle, comete e giovani promesse e la bravura di Bosco – già oltre 10 anni fa – ci sconvolse. È per questo che quando fui chiamato a curare il libro “Pizza. Una grande tradizione italiana” non ebbi alcun dubbio nell’inserirlo tra i “padri” della pizza del ventunesimo secolo.
E, ora, bando alle ciance.
Come vi dicevo, è sabato sera
e arrivo in pizzeria tardi…
non per colpa mia, ma questa è un’altra storia. Ad accoglierci in questo locale arredato magistralmente e con cura di ogni dettaglio (in cui – come si legge nella presentazione – “c’è la conquista di un posto tutto nostro […], la realizzazione di un grande sogno”), c’è il sorriso di Samantha Verzini, compagna di vita e di lavoro di Renato Bosco; il Maestro, invece, è intento a riempire bicchieri al banco bar: in quanti, tra le pizzaiole e i pizzaioli “star” (come lo è lo stesso Renato), lo farebbero? Ci accomodiamo e scegliamo di iniziare con una “Mozzarella di Pane”: un panino morbido cotto al vapore, un impasto di ispirazione orientale simile al mantou, le cui caratteristiche ricordano immediatamente la mozzarella; nel nostro caso, la mangiamo farcita con besciamella, ragù di bovino e maiale, grana e croccante di pane speziato.
Ed è subito festa!
Passiamo poi a una pizza “doppiocrunch”, l’impasto ad alta idratazione dal marchio registrato, il cavallo di battaglia di Renato Bosco, la sua “pizza farcita” per eccellenza che scrocchia piacevolmente al morso. Questa la assaggiamo in due versioni: una che prevede nell’impasto la farina di riso Artemide ed è farcita con fior di latte, ricotta, sugo di pomodoro, melanzana e grana; l’altra preparata con impasto multicereale che “schiaccia” all’interno fior di latte, crema di acciughe, scarola, pinoli e uvetta. A me queste due pietanze hanno ricordato due grandi classici della mia cucina del cuore, quella partenopea.
Per scoprire tutta la piacevolezza dell’alta idratazione in pizzeria, non disdegniamo però un assaggio della “pizzacrunch” ovvero quella non farcita ma condita, preparata sempre con impasto multicereale e proposta con fonduta di grana, tartare di manzo, polvere di caffè e nocciole tostate. A chiudere, è la tonda di Renato, una pizza dall’alveolatura che è un trionfo di conoscenza tecnica e che ci viene presentata in un impasto classico montato con baccalà mantecato, chips di mais e pomodorino confit
Se avete timore che le proposte siano troppo azzardate per una cena in famiglia, sappiate che siete fuori strada: “Saporè” ha, infatti, anche un ottimo menù bambini, in cui due impasti vengono pensati per i più piccoli: la mozzarella di pane farcita con stracciatella e pomodoro o con stracciatella e prosciutto cotto e la Margherita tonda.
E non manca il burger al piatto, servito con patate al forno.
Per concludere, non andate via – come ho fatto erroneamente io – senza assaggiare il “Panettone tuttotondo” con nocciola, frangipane, arancio e cioccolato o il Tiramisù in cui i savoiardi sono sostituiti dal pandoro. A mia discolpa, posso solo dire che, quando Renato e Samantha alle 22:30 ci hanno salutati, lasciando il locale nelle ottime mani del loro staff, siamo più che satolli. In carta dei dolci, tuttavia, potrete anche trovare una prova di coraggio: fegato di vitello, cioccolato fondente, cipolla, birra, gorgonzola e pandoro, una creazione stramba ma schietta, che reca il nome azzeccatissimo di “Ci vuole fegato”.
Uscendo e ripensando alla serata appena trascorsa, quel piatto dal nome “strano” mi torna in mente e mi chiedo: “ci vuole fegato” per essere come Renato e Samantha? Ci vuole fegato per non sgomitare? Ci vuole fegato per non esibire sui social gioielli, auto di lusso e abiti supergriffati al fine di simboleggiare l’avanzamento sociale? Ci vuole fegato per testimoniare
solo attraverso la pizza (e non con fiumi di parole, spesso sbagliate) la propria competenza? Ci vuole fegato per essere certi di ciò che si è, senza sentire il bisogno di affermarlo in ogni occasione? Ci vuole fegato ad accompagnare i propri ospiti come fa Samantha, ovvero con lo stesso sguardo d’intesa che dedica a Renato?
In un mondo “normale”, no, non ci vorrebbe fegato. In questo mondo, drogato dai fenomeni social, da chi si sente in guerra anche cuocendo una pizza, da chi urla per farsi sentire sperando di coprire la voce altrui, da chi rincorre guadagni e celebrità più che affetti e condivisione, non ci vuole fegato:
ci vorrebbero
tanti Renato Bosco.
LA PIZZA DELL’AGRO PONTINO
PUCCI & MANELLA, FORMIA
storie di pizza
di Giusy FerrainaDove si snoda la Riviera di Ulisse, che va da San Felice Circeo a Marina di Minturno, abbracciando il Golfo di Terracina e quello di Gaeta, proprio qui a cavallo tra Lazio e Campania, c’è una terra di mezzo che rappresenta uno dei territori più produttivi della provincia di Latina: l’Agro Pontino.
Tra ulivi e vigne, allevamenti e caseifici, questi luoghi bucolici sono un vero scrigno di prodotti e di tradizioni contadine di lungo corso che sanno regalare sapori identitari. E, proprio in nome dell’identità, il pizzaiolo Pietro Zannini ha saputo trasformare le sue pizze in un vero e proprio manifesto di territorio.
Siamo a Formia e qui si trova la pizzeria “Pucci & Manella” dove Pietro si è impegnato negli anni, con passione, coinvolgendo tutta la sua famiglia anche, nella creazione non solo di un luogo dove gustare una buona pizza ma di un posto dove si fa e si mangia una pizza etica ed educativa, che si distingue dal panorama locale per una visione sinergica e circolare.
Ovvero, Pietro Zannini ha deciso di dare voce al territorio attraverso ciò che lui ama fare di più e sa fare meglio, selezionando solo prodotti del territorio - dunque a filiera corta - facendo conoscere anche piccole realtà produttive che, sulla sua tonda, diventano grandi protagoniste. “Pucci & Manella” nasce come progetto nel 2020 e, fin da subito, la pizzeria guadagna i due spicchi del Gambero Rosso, per poi ricevere lo scorso anno il riconoscimento come “Miglior Pizza Dolce” della Guida “Pizzerie D’Italia” del Gambero Rosso. Risultati importanti che sicuramente confermano l’esattezza delle scelte fatte da Pietro, la sua filosofia che si fonda sulla triade di tradizione, innovazione e sostenibilità Parole forse fin troppo ricorrenti e abusate nell’ambito gastronomico ma a cui Pietro e Margherita, sua moglie e braccio destro, vogliono ridare il giusto valore, oltre a una loro visione personale. “Parlare di innovazione oggi, su un prodotto come la pizza, significa per me valorizzare le nostre materie prime e divulgarle per avere una clientela consapevole di ciò che mangia. Non intendo
Il risultato?
Il 90% delle materie prime che utilizziamo sono laziali, il resto campane.”
prodotti in generale, ma solo quelli che sono l’espressione del territorio in cui viviamo e delle piccole aziende artigianali che lo esprimono. Uno dei lavori più delicati e nel quale mia moglie Carolina mi ha affiancato, è stato la ricerca di piccole realtà agricole, di aziende casearie e di allevamenti che operano su quest’area. La pizza diviene per Pietro un vero strumento per far conoscere un territorio il più delle volte sconosciuto anche agli stessi abitanti. Ecco che un prodotto semplice, immediato e popolare si innalza a essere momento di gusto e anche momento divulgativo di storia e cultura gastronomica. Ed entrando da “Pucci & Manella” la prima cosa che colpisce sono i cartelloni alle pareti attraverso cui viene narrato l’incredibile territorio pontino, l’importanza della pizza nella dieta mediterranea e l’individuazione
dei suoi principi nutrizionali, il mondo dei sapori e - la cosa più importante - il manifesto dei produttori con cui si riesce a mappare e tracciare la filiera di tutte le materie prime che vengono utilizzate. E, come fa notare Pietro, il manifesto è in continua crescita: ogni volta che lui scopre un nuovo prodotto o produttore, questo entra nel menu e viene aggiunto a questa sorta di mappa del tesoro. Per farvi qualche esempio, si va dagli ingredienti principi delle pizze classiche, come la Fiaschetta di Sperlonga dell’Azienda Sanvida, certificata senza nichel; il pomodoro San Marzano Dop di Sarno, il basilico, la scarola proveniente da una azienda biologica di Minturno, la mozzarella di bufala “Casa Bianca” di Fondi e il fior di latte “Alveti e Camusi”, il provolone di Recco stagionato 18 mesi, la colatura di alici di Cetara, il prosciutto di “Bassiano Reggiani”, stagionato 24 mesi, gli affettati e la salsiccia della macelleria storica “Tucciarone” a Maranola di Formia, il lardo di “Scherzerino” e la mortadella artigianale “Passaretta”. Non può mancare un’attenta selezione degli oli, riuscendo a coinvolgere le varie aziende di zona.
Questa è la sintesi del grande lavoro che c’è su ogni pizza, che ci facciamo raccontare dallo stesso Pietro, con il desiderio di conoscere i dettagli di questo suo mondo di cui va orgoglioso.
Pietro, quando e come nasce il tuo amore per la pizza?
Potrei dire che sono nato con l’amore per la pizza e che l’ho scoperto grazie a mia mamma. Lei mi portava con sé quando andava a lavorare nella pizzeria di mio zio. La guardavo e non vedevo l’ora di affondare le mie mani di bambino (manelle) nella farina. Era un momento divertente e magico, così come lo è anche adesso.
Raccontaci bene la tua pizza:
oltre all’attenta selezione degli ingredienti, che tipo di impasto fai?
Uso una farina 80% tipo 0 e il restante tipo 1 con germe di grano attivo estratto a freddo e macinato a pietra. Preparo una biga che lascio a fermentare per 24 ore a temperatura controllata. Aggiungo poi l’acqua rimanente e il sale per arrivare a chiudere l’impasto con una idratazione all’80% e un tempo di lievitazione totale di 32 ore.
Tu hai scelto di dare voce al territorio attraverso la pizza. Cosa ti piace dell’Agro Pontino e qual è a tuo avviso la materia prima più rappresentativa.
È un territorio talmente ricco che è difficile citarne solo uno senza fare torto agli altri. Per me ci sono state delle vere e proprie scoperte, come la fiaschetta di Sperlonga o prodotti inconsueti per la pizza come i ceci di Teano con cui preparo
la mia Cecina con Crema di ceci di Teano (Presidio Slow Food), fiordilatte Alveti e Camusi, pancetta, fonduta pecorino romano DOP e “terra di pomodoro”. Ho utilizzato grandi primizie per le mie pizze dolci, come le fragole “Favetta” di Terracina, la nocciola gentile o le mele annurche. Ma la vera ricchezza di questo luogo sono i suoi artigiani che sanno trasformare e lavorare con rispetto la materia prima, regalandoci anche grandi salumi, carni e prodotti caseari che sono la preziosità delle mie pizze.
La tua pizza è, dunque, un manifesto del territorio.
Quale storia vuoi raccontare?
Voglio raccontare i luoghi dove vivo, la ricchezza delle nostre materie prime e la semplicità dei sapori. Sono curioso e vorrei che dalla mia pizza si percepisse tutta la mia curiosità, che mi permette di cercare continuamente prodotti sempre nuovi e soprattutto dare un motivo ai miei clienti di tornare con gioia.
Come definiresti la tua pizza?
Buona e sincera
Qual è la tua pizza del cuore e quella più richiesta dai tuoi clienti?
Non ce n’è una sola. Le amo tutte, forse perché in ogni pizza porto la mia identità e quella di questa meravigliosa terra che è l’Agro Pontino. Anche per i miei clienti non penso ci sia una prima della lista. Amano cambiare e scoprire i gusti nuovi che proponiamo.
Se Pietro non si esprime, qualcosa sulla sua pizza ve la diciamo noi che abbiamo avuto occasione di assaggiarla durante la nostra chiacchierata e vi possiamo assicurare che qui la pizza è rappresentante di un territorio ricco, forse poco conosciuto, che regala elementi di gusto e sapore, che poi combina sapientemente prima o dopo la cottura. Esiste uno stretto connubio tra l’impasto, soffice e scioglievole della contemporanea di Pietro, il suo profumo e il gusto finale. Dalla semplice Margherita, che è una vera esplosione di sapore e contrasti, così come la Puparuò con crema di peperone di Pontecorvo, salsiccia artigianale “Tucciarone”, provola, olive nere di Gaeta e crumble di pane o la Cecina (prima citata da Pietro) diventano emblema di quanto finora raccontato. E ovviamente abbiamo anche assaggiato la Miglior Pizza Dolce 2023 realizzata con crema pasticcera, mele annurche caramellate, miele dei monti Lepini, nocciola gentile, zest di limone e foglioline di menta: un altro grande omaggio al territorio.
Piccola curiosità:
se vi state chiedendo chi sono Pucci & Manella, Manella è lo stesso Pietro Zannini identificato dalle sue piccole mani (manelle appunto) con cui impasta; Pucci invece è il papà di sua moglie Carolina, Guglielmo Billinghurst, così chiamato sin da bambino per il suo aspetto minuto.
BAMBINI E PIZZERIA: UN BINOMIO
TUTT’ALTRO CHE SCONTATO
di Angelo Silvestrini, Master Istruttore di Scuola Italiana PizzaioliIl tema dei bambini nei ristoranti è un argomento molto discusso in questi anni: si va dai locali in cui non sono ben accetti a quelli in cui hanno spazi dedicati esclusivamente a loro. Nella nostra pizzeria “Nuovo Ronche”, l'accesso non è vietato a nessuno, anche perché le famiglie costituiscono una grande percentuale della nostra clientela abituale. Negli anni abbiamo visto tantissimi bambini crescere e diventare giovani adulti o addirittura coppie giovani che nel tempo hanno allargato il numero della loro famiglia. I bambini non sono mai il problema ma è l'attenzione che diamo (o non diamo) alle loro esigenze che crea situazioni a volte spiacevoli. Noi personalmente non possediamo un'area giochi, che può essere una buona soluzione per far divertire il bambino anche durante l'attesa ma cerchiamo comunque delle soluzioni per aiutarli a non annoiarsi. Come avere un kit di colori e pennarelli sempre funzionanti e sempre dei fogli a disposizione, anche di riciclo, quando possibile. Nel nostro menù ci sono numerose pizze da scegliere ma ci sono anche piatti da cucina, di cui la maggior parte può essere ridotta in porzioni più adatte ai bambini. Il modo migliore per "accattivarsi" i più piccoli parte proprio dal servizio: un sorriso sempre presente e domande specifiche sulle preferenze del nostro piccolo cliente. La maggior parte dei bambini non ama piatti troppo complicati, preferiscono quelli semplici come la classica pizza Margherita o le immancabili patatine fritte. Non è semplice far apprezzare ai bambini le verdure ma un trucco può essere scegliere ingredienti freschi e lavorarli in modo da mantenere i colori vivaci e più invitanti agli occhi dei piccoli, oppure "nasconderle" in qualche abbinamento piacevole. Un consiglio per i colleghi pizzaioli è sicuramente quello di non dimenticarsi mai di tagliare la pizza dei bambini, così il bambino riuscirà subito a gustarsi il suo piatto ed il genitore vi ringrazierà per averlo già fatto.
www.scuolaitalianapizzaioli.it
info@scuolaitalianapizzaioli.it
storie di pizza
STEFANO CHIEREGATO, PIZZA
E BISTROT A POMPEI
A volte la passione nasce trovandosi dinnanzi
a un’esperienza inaspettata e cresce man mano toccando, guardando e vivendo un qualcosa per cui magari si pensava di non avere attitudine.
Per alcune persone, invece, certe vocazioni sono innate, così come la passione che nasce, cresce e continua a vivere dentro, bramosa di uscire, di essere “espressa” per così dire, che porta automaticamente a intraprendere la strada giusta. A volte, certe cose si sanno fin dalla tenera età, proprio come è successo a Stefano Chieregato – oggi proprietario, panificatore e pizzaiolo di “Chiere” a Piacenza – il quale ci ha raccontato di aver subito fin da bambino il fascino dell’enogastronomia.
Già da quando andava al ristorante con la mamma e il papà, infatti, era attratto da quel mondo, curioso di capire, di apprendere e sapeva apprezzare un buon piatto.
Finito il liceo scientifico, Stefano sapeva di dover intraprendere un percorso universitario: «cosa molto importante anche oggi, ma che 15 anni fa era ancora più “sentita”. Dovevo trovare qualcosa che mi permettesse di entrare in quel mondo», dice; e così fece. La sua mamma, sfogliando il Sole 24 Ore, lesse la pubblicità dell’università
di Pollenzo – aperta da appena 10 anni – e, così, andarono all’open day. Quel giorno Stefano capì di aver trovato il percorso giusto. Gli avrebbero insegnato ciò che voleva, studiando materie come la filosofia, la chimica, la biologia e non solo, applicate al mondo del food, a conoscere le filiere e gli attori operanti in quel mondo. «Dopotutto, non c’era ancora il boom televisivo, la conoscenza del cibo a 360° e lavorare in quel settore poteva significare “solo fare il cuoco”», ci racconta.
Dopo aver conseguito la laurea triennale in Scienze Gastronomiche nel 2011, desideroso di “capire” anche le grandi aziende, andò a lavorare nel mondo della GDO, facendo dapprima il magazziniere, il cassiere, per poi arrivare a gestire la cantinetta dell’Iper di Arese. Il direttore voleva aprire un birrificio nel punto vendita e metterci un birraio. Così Stefano imparò anche a fare la birra. Attraverso questa esperienza, capì che quest’ultima non fosse la sua vocazione ma di amare l’artigianato. Contestualmente, nascevano grandi realtà come quelle di Simone Padoan o Renato Bosco e, girando per le pizzerie, rimase affascinato dalla possibilità di mettere certe bontà sulla pizza: «era accattivante, all’inizio non mangiavo il pane, non mi piaceva. Conoscevo solo quello fatto dai panettieri e dai supermercati al Nord che sa di cartone, fatto con un preparato che non sa di niente ed è durissimo». Decise così di frequentare il primo corso di panificazione moderna tenuto dal Maestro Ezio Marinato all’Alma, un’ottima base per poter poi fare anche la pizza. Quello con l’arte bianca fu amore a prima vista.
Stefano, quali sono i valori essenziali di un panificatore?
Per un panificatore moderno sono curiosità, conoscenza della materia prima, capacità tecnica e avere la mente aperta sull’evoluzione tecnologica.
Molti ritengono che la tecnologia faccia a pugni con l’artigianalità.
È facile perdere l’artigianalità, soprattutto perché ci sono molte scorciatoie, come ricercare sempre meno materie prime di qualità. Nel tempo vai a impigrirti e, di conseguenza, non insegnerai neanche più a essere un panificatore, piuttosto spiegherai come usare un mix di ingredienti.
Hai usato l’aggettivo “moderno”: quali le differenze sostanziali con un panificatore “vecchio stampo”?
Fondamentale è il fatto che quello “moderno” non sta più solo nella sua attività ma guarda anche fuori, grazie anche alla rete, le fiere e cose del genere. Uscire dal laboratorio è necessario, a partire dal proprio territorio. Io sto creando una comunicazione con esso. Una cosa che si stava perdendo. Tutti erano soli nella propria attività. “Guardare fuori” è un modo per creare collaborazioni, opportunità, conoscenza, economia. Il creare squadra si sta perdendo con il supermercato o l’azienda che ti porta tutti i prodotti. Comunicare con gli altri vuol dire evolversi, far conoscere e capire il tuo prodotto, perché è diverso e il lavoro umano che c’è dietro.
Negli ultimi anni i clienti sono sempre più informati: è positivo o negativo?
Quando c’è tanta informazione, ci sono anche tante cavolate, gente che spaccia informazioni sbagliate. Come il fatto che il glutine fa male, il lievito di birra fa male o il pane ingrassa. Tutte cose che fanno male al nostro settore.
Certo, poi sono anche più esigenti.
Immagino siate continuamente presi da ricerca e sperimentazione.
Come stare al passo?
Riusciamo ad accontentare diverse esigenze, quelle che però mi motivano, non le cavolate. Mi piacciono per esempio il veganesimo, il vegetarianesimo, va benissimo anche essere onnivori ma bisogna ridurre il consumo di carne e certi alimenti per salute e per il pianeta. Abbiamo creato una linea di pizze vegetali tutte da provare, buone anche per chi voglia solo sperimentare qualcosa di diverso. È una proposta che ritengo nutrizionalmente valida, anche per il pianeta.
Restando in tema di “naturalità”, hai ricevuto molti riconoscimenti e
tra gli ultimi hai vinto Veggie Style
2023 – L’altra Faccia del Panino, il concorso siglato da 50 Top Italy e l’azienda D’Amico. Parlami del panino della vittoria, com’è fatto e come ti è venuto in mente?
La sfida era dare valore alle melanzane alla napoletana, a filetti, sott’olio e leggermente piccanti. Mi hanno fatto pensare alla cucina mediorientale e quindi l’ho abbinata a un falafel di melanzane, salsa tzatziki, a base di yogurt greco e cetrioli – che ho sostituito
con il finocchio perché era estate – e la mia ciabattina croccante. Dei gusti molto speziati, una bella variazione tra morbido e croccante. Sfizioso. Mi ha portato alla vittoria e l’ho riproposto anche al locale, conquista un sacco. Poi è una ricetta sostenibile, ho sfruttato la stagionalità e non ho buttato via niente, ho anche riutilizzato l’olio delle melanzane per la realizzazione delle ciabattine.
Parlando di grani, quali prediligi?
Ho un bellissimo rapporto di lavoro con i contadini piacentini che hanno creato una linea di miscuglio evolutivo di grani. Tante varietà messe in campo che si sono adattate pian piano ai Colli Piacentini. Poi collaboro con un ragazzo con un
mulinetto che ha recuperato a Bobbio. Abbiamo messo su questa filiera per produrre il nostro pane di campagna locale – il mio preferito – che vendiamo anche ai locali nella zona. Poi, alcune farine un po’ più tecniche per alcuni dolci, attualmente uso Molino Dallagiovanna. Ci tengo alla valorizzazione del ruolo del contadino sulle nostre colline. Coltivare grano in collina è difficile, si ottiene poca resa ma serve molto. Soprattutto a quei territori destinati all’abbandono, così preservi anche l’ambiente. Chiaro poi che hanno un bel gusto super godurioso e dei profumi eccezionali. Il pane di campagna è proprio un simbolo. Ha una lavorazione molto delicata: non è concesso alcuno sbaglio a livello manuale. È complicato ma è proprio quello il bello del pane: vai proprio a recuperare li la professionalità del panettiere.
E in merito alla pizza? So che
definisci la tua “una tonda fuori
dagli schemi”: in che senso?
Non è napoletana, non è romana. È super croccante fuori e con una bella morbidezza dentro e dei profumi inebrianti. La leggerezza stupisce i miei clienti, fa venir voglia di mangiarne quasi una seconda. Ho fatto un grande studio sulla fermentazione della farina, il lievito madre, le tempistiche. Dev’esserci un grande equilibrio e la cottura è importantissima. La mia è un po’ più delicata rispetto al normale. La tecnica mi è stata regalata dal lievito madre che trattiene molta acqua e, se ben tenuto e capito, ti da tutto. È il miglior strumento tecnologico, chiaro che anche su quello ho fatto un corso.
La tua pizza simbolo?
La pizza piacentina, l’ho creata per omaggiare la mia città. È stata presentata a una cena con il Sindaco, i fornitori e gli organi di competenza. Mi sono ispirato a uno storico piatto di Piacenza: il tortello piacentino, ripieno con ricotta e spinaci, condito con salvia, burro o olio. Per la pizza, realizzo un bordo ripieno di ricotta e spinaci, in mezzo mozzarella e pancetta in tre cotture di Capitelli – un grandissimo prodotto, al vapore affumicata e cotta
lentamente, leggera, gustosa e profumata – salvia e olio piacentino. Poi ci sono pizze con le quali i clienti hanno capito la nostra filosofia: “fidati di noi che studiamo le cose”. Una di queste è La pizza proibita, con spalla cotta, blu di capra e albicocca. Che cosa strana e assurda la frutta sulla pizza, no? E invece è tutto un equilibrio. La grassezza del salume viene mitigata e completata dall’acidità spinta in forno dall’albicocca, la copertina di erbori-
nato unisce questi due elementi. Sulla falsa riga di questa, ho fatto la pizza con l’anguria e anche con l’ananas. La gente si fida di noi. Poi c’è sempre il cliente che è affezionato ai gusti classici, che però sono sempre rivisti e adattati al nostro modo di cucinare.
Quali, secondo te, le tendenze che si delineano per il futuro nel mondo della panificazione e della pizza?
Io ho un’idea e spero sia così, cioè che si ritorni a qualcosa di semplice, che non vuol dire assolutamente banale. Togliendo magari un po’ questi strati di finta comunicazione che si è creata intorno a questo prodotto, che alla fine è semplice: acqua e farina. Il pane deve tornare a essere un elemento base della nostra dieta mediterranea. Anche la pizza è una cosa semplice ma ha un valore aggiunto, permette la conoscenza del territorio attraverso gli ingredienti. Sicuramente, si stanno abbassando i consumi ma magari, visto che mi piace anche l’attività fisica, cercherò di comunicare e allinearmi con altre realtà che esulano dal mondo della ristorazione. Spero, alla fine, che ritornino certi valori genuini.
LA BIRRA
bir re
le Una scelta analc o lich e: di Bene s sere e innovazione
di Alfonso Del FornoNegli ultimi anni, l'attenzione crescente dei consumatori verso una dieta sana ha portato a un'evoluzione nel mercato delle bevande, inclusa la birra. Questo cambiamento di mentalità, accentuato durante la pandemia, ha reso la salute un valore centrale e il benessere fisico un obiettivo primario. Le birre che emergono come innovative in questo contesto sono le analcoliche, le biologiche e quelle senza glutine.
Le birre analcoliche, a seconda del paese europeo, possono avere differenti livelli di contenuto alcolico. Generalmente, in Europa, queste birre hanno un contenuto di alcol inferiore allo 0,5% in volume, che rappresenta il limite massimo per essere
considerate legalmente analcoliche. In al cuni paesi, come Svezia e Finlandia, questo limite scende allo 0,2%, mentre in Italia il limite è più permissivo, fissato all'1,2%.
Il mercato delle birre analcoliche ha visto una crescita significativa negli ultimi anni, con una quota di mercato in continua espansione. Secondo le stime, il mercato globale di queste birre dovrebbe crescere a un tasso di crescita annuo composto (CAGR) superiore al 5,5% tra il 2023 e il 2032. Questo aumento è dovuto a una maggiore consapevolezza dei rischi per la salute legati al consumo eccessivo di alcol, un'at tenzione crescente al benessere, e uno stile di vita più sano che porta i consumatori a cercare nuove opzioni di bevande.
In Nord Europa, il consumo di alcol tra i giovani è un problema crescente, con un’età media di iniziazione al consumo di alcol intorno ai 13-15 anni. Questo comportamento può portare a problemi di salute a breve e lungo termine, dipendenza e comportamenti a rischio. In risposta, i governi e le organizzazioni sanitarie hanno implementato politiche per
Le birre analcoliche possono giocare un ruolo cruciale nella riduzione del consumo di alcol tra i giovani, offrendo un'alternativa più salutare e socialmente accettabile alle bevande alcoliche tradizionali. Le aziende produttrici possono collaborare con governi e organizzazioni sanitarie per promuovere queste birre come parte delle strategie per ridurre il
Per alcune religioni, come l'Islam e il mormonismo, che vietano o scoraggiano il consumo di alcol, le birre analcoliche rappresentano un'alternativa accettabile. Anche le norme sociali di alcune comunità, che possono essere più rigide riguardo al consumo di alcol, specialmente tra donne e giovani, possono influenzare la scelta di evitare l’alcol. In questi casi, le birre analcoliche permettono una partecipazione più inclusiva agli eventi sociali dove la birra è presente.
LA BIRRA
Le aziende produttrici di birra possono sfruttare queste opportunità di mercato creando prodotti specifici per questi gruppi di consumatori e personalizzando le strategie di marketing. È essenziale che le birre analcoliche siano percepite come alternative valide alle birre tradizionali, garantendo una qualità e un sapore comparabili e rendendole facilmente accessibili.
Le autorità sanitarie spesso raccoman-
La crescente consapevolezza dell'importanza di uno stile di vita sano si riflette nelle scelte dei consumatori, con una domanda sempre maggiore di prodotti a basso contenuto calorico, naturali e privi di ingredienti artificiali. Le birre analcoliche, offrendo un’alternativa più salutare, si allineano perfettamente con queste tendenze. Rispetto alle birre alcoliche, spesso contengono meno calorie, contribuendo a un regime alimentare più bilanciato.
a bassa temperatura e la filtrazione selettiva, è ora possibile creare birre analcoliche con gusto e consistenza simili alle birre tradizionali. Questo miglioramento ha cambiato la percezione dei consumatori, aumentando la domanda di birre analcoliche.
Le birre analcoliche rappresentano una risposta innovativa alla crescente attenzione dei consumatori per la salute e il benessere, offrendo alternative salutari
storie di pasta
Questo mese ho deciso di condividere con voi la mia “madeleine”, perché attraverso un caso assolutamente fortuito ho ritrovato la memoria di un sapore mai dimenticato che mi ha riportato indietro di quasi quarant’anni, un po’ come il sorso di the che ricorda a Proust la sua felice infanzia..
Nel giorno di rientro dopo il Campionato Mondiale della Pizza di Parma (di cui avete letto nello scorso numero), mi sono accorto di essere clamorosamente in ritardo sulla tabella di marcia, complice un’inaspettata mattinata di smart working in hotel e ne ho approfittato per cercare un posto dove fermarmi a pranzo, in direzione nord. L’immancabile Google mi ha suggerito diverse destinazioni vicine e vicinissime ma già le conosco e soprattutto ho comunque voglia di fare un po’ di strada in attesa dell’ora di pranzo, quindi cambio zona e sposto la mia attenzione verso la provincia di Reggio Emilia. La Bassa Emiliana offre una moltitudine pressoché sconfinata di soluzioni ristorative; in effetti, l’elenco che mi si para davanti è così vario da avere l’imbarazzo della scelta. Però si fa strada un ricordo che filtra dal fondo della mia memoria: la “Trattoria del Leone” a Cavriago. Per me era la “locanda delle feste” quando nei primi anni ‘80, da bambino, abitavo vicino Modena. Controllo subito, ma non
esiste più. Dopo più di trentacinque anni e con in mezzo crisi, pandemia e guerre non ci speravo troppo nemmeno io. Scorrendo senza troppe speranze i risultati di Google, mi imbatto in un articolo del 2019 che parla delle titolari della “Trattoria del Leone”, Angela e Maria Romana Belli, che hanno cambiato nome al locale nel 1987, trasformandolo in “Osteria della Capra”, in onore della più antica licenza ristorativa trovata per caso in una ricerca nell’archivio del paese. Dopo quasi quarant’anni, scopro con piacere che l’osteria che ricordavo con tanto affetto si è rinnovata e, nel 2019, si è trasferita poco lontano da dove la cercavo. Oggi la nuova sede è a Barco di Bibbiano (RE) ed è felicemente aperta, nonostante il tempo e gli eventi trascorsi in tutti questi anni. Telefono: risponde una voce dal tono familiare. Il posto c’è, parto.
Google Maps mi porta puntualmente nel parcheggio dietro questa vecchia magione che è diventata la nuova sede: il bianco
della ghiaia sfrigolante sotto le ruote è un rumore argentino che mette allegria. Una carica di emozione mi accompagna nel camminamento che passa intorno ad un nocciolo secolare e prosegue attraverso il meraviglioso giardino. Vicino all’ingresso, scorgo alla mia sinistra l’orto aromatico, rigoglioso e profumato di rosmarino, timo, basilico e salvia che mi raggiungono in una carezza olfattiva.
Varcata la soglia scorgo subito Agata (di cui ricordo ancora il nome ed i modi gentili), che negli anni ’80 era la più giovane della famiglia appena entrata nel ristorante ed oggi è subentrata nella gestione dell’attività. Mi si presenta con il volto sorridente di chi ha il mestiere dell’oste nell’anima, impresso a fuoco nel codice genetico e lo fa non per mestiere ma per passione. Un tuffo al cuore: sono nel posto in cui speravo di essere, con le aspettative di una fisarmonica temporale di 35 anni ma con una location nuova e diversa nella quale riconosco comunque alcuni dei vecchi mobili.
Il nuovo locale è del 2019 ma ha raccolto ed amplificato l’eredità del passato, che per me significa osservare un mix unico di vecchi ricordi in un ambiente nuovo.
Chi mi conosce sa che farmi rimanere senza parole non è cosa semplice ma qui la sala mi accoglie con il calore dei soffitti a volta riportati al mattone ed ammalia con i suoi spazi ampi. Le pareti di mattone e pietra ad incorniciare i tavoli antichi, ampi e spaziosi, comodamente disposti a distanza adeguata da consentire la convivialità e la privacy come raramente accade nei locali dal design moderno e con spazi compressi. Scelgo di sedermi nella tranquilla saletta
interna, al riparo dall’inaspettata ondata di caldo primaverile che invece ha attratto tutti gli altri avventori all’esterno, sotto un bellissimo pergolato. Io ho scelto di accomodarmi di fianco ad una sala di stagionatura con delle impalpabili pareti a vetri con l’evocativo nome “La cambra del salam” che custodisce al suo interno ogni leccornia che si possa immaginare in tema di salumi e formaggi a vista, giusto per solleticare l’appetito. Nel frattempo, dal mio posto osservo il viavai verso l’esterno e la cucina, il banco, le parti vitali di questo ristorante. Nel silenzio inaspettato di questo angolo, posso annusare l’aria e sentire ancora una nota della sfoglia tirata la mattina presto che è stata lasciata ad asciugare su un tavolaccio all’aperto. Affamato ed invogliato da tutti questi stimoli olfattivi e visivi, prendo il menù e comincio a fantasticare di ciò che ricordo e di come immagino possano essere oggi i piatti in carta. Ho subito una prima piacevole sorpresa: il menù è stato digitalizzato e mi guida in un viaggio tra le portate classiche del territorio, tra immagini e descrizioni che inviterebbero a percorsi degustativi estremamente diversificati fra loro, pur rimanendo legati alla tradizione. Mi colpiscono le foto dei piatti, particolarmente realistiche e che scoprirò essere frutto di diverse giornate di collaborazione ed “apprendistato” di un giovane fotografo, col pallino delle foto in cucina. Purtroppo, ho davanti un viaggio impegnativo e non posso dedicarmi al menù come vorrei ma la lettura ha stimolato ricordi e desideri di assaggio molteplici, che in qualche modo chiedono di essere soddisfatti. Comincio con un piatto evocativo già dal nome: “C’era una volta”. Nome che
anticipa il tema del piatto: una degustazione a base di Erbazzone nelle sue diverse varietà, afferenti alla tradizione contadina reggiana. Il gusto della semplicità contadina in un piatto ricco di storia (che avevo già raccontato qualche anno fa su queste pagine): una torta salata caratterizzata da due sottili sfoglie della cosiddetta “pasta matta” (un impasto a base di farina e strutto), ripieno di verdure in vario ordine e quantità tra coste, erbette e spinaci, cipolle e l’immancabile Parmigiano Reggiano. Queste preparazioni tradizionali ed apparentemente semplici sono spesso indicative per valutare il posto nel quale si è entrati. Un po’ come accade quando si ordina la pizza Margherita in una pizzeria sconosciuta, sull’Erbazzone da queste parti si fa la tara alla bravura dei ristoratori. Il gusto di questi rettangoli di pasta ripiena di verde ricordano le tante merende fatte a spasso per l’Emilia, con il cestino da picnic ed una tovaglia da stendere sui prati dell’Appennino. Sarà l’atmosfera o il sapore ma i ricordi cominciano ad affacciarsi da posti e momenti molto lontani nella mia memoria, così attendo il prosieguo del pranzo quasi con interesse più sentimentale che gastronomico.
Il primo piatto è stato un’esperienza mistica, una scelta di cuore, un test alla memoria ed un fluire inaspettato di ricordi: le tagliatelle al ragù. Potrei finire qui il mio racconto, perché indipendentemente dalla zona e dalla declinazione regionale di questo piatto, penso che a qualunque italiano il ragù evochi qualcosa che sa di casa, di buono, di famiglia.
Il piatto che arriva non delude, una porzione perfetta nella quantità e nell’armonia degli ingredienti, tecnicamente anche bel-
lo da guardare, un profumo esaltante ma il gusto è qualcosa di eccezionale: la prima forchettata è stata una freccia al cuore. Quel sapore ritrovato in maniera così cristallina mi ha fatto semplicemente felice, di una felicità che si prova quando abbracci un amico dopo tanto tempo, ritrovi la fidanzata in stazione ad aspettarti dopo un viaggio o pensi al sapore del piatto preferito che ti cucinava la nonna. Penso che una scintilla di felicità sia l’ingrediente segreto che si nasconde tra queste forchettate che sto gustando. Vivo una temporanea estasi, fatta di sapori ed odori che hanno sorpassato le leggi del tempo e forse vivono dentro di me, pronti ad essere evocati come questo piatto di tagliatelle che è rimasto fedele a quello che mangiavo quando ero alto poco più del tavolo al quale sono seduto adesso. A distanza di oltre trent’anni, un milione di km percorsi in giro per l’Italia e migliaia di km di sfoglia tirati nel frattempo, ho riconosciuto “la mano” di Angela e Maria Belli, mano che saprei riconoscere tra mille perché l’imprinting dei sapori felici che viviamo nell’infanzia resta nella memoria per sempre. Al limite del commosso, tra una forchettata e l’altra di questo piatto denso e gentile di sapori e ricordi, mi è sovvenuto un episodio divertente occorso a mio nonno dopo un pranzo luculliano preparato dalle sorelle Belli: uscì nel parcheggio, aprì lo sportello della prima auto trovata (nella Bassa del 1984 non si chiudeva sempre a chiave l’auto nel parcheggio del ristorante), stese il sedile e si fece una pennichella mentre il resto della famiglia lo cercava disperatamente, prima di considerarlo disperso… Ad un certo punto, si svegliò per il
vociare: scese dall’auto, ci guardò stralunato e chiese candidamente perché stessimo facendo tutto quel baccano per un riposino pomeridiano. Rido ancora se ci penso. Non potevo tenere per me tutto questo, ho preso coraggio e mi sono “dichiarato” ad Agata raccontandole dei miei ricordi, di lei giovanissima e di sua mamma e sua zia in cucina. A quel punto è scattata una parziale “riunione di famiglia” con l’apparizione solo della zia Maria, perché purtroppo la mamma Angela era convalescente dopo un piccolo “tagliando” medico. Non so dire se sia la passione per il lavoro, la polvere di farina e uovo della sfoglia o il tempo che si distorce tra i fornelli ma queste donne straordinarie sono quasi identiche a come le ricordavo da bambino. Maria, Agata e sua madre sono donne straordinarie, volitive e vigorose, che ogni giorno tirano la pasta e preparano i piatti con la stessa gioia di quando hanno cominciato questo mestiere più di quarant’anni fa. Il bello è che la signora Maria, inizialmente dubbiosa in tutto questo trambusto fuori dal suo regno, ha strizzato gli occhi, riflettuto un attimo e poi si è illuminata (come quei professori che ti riconoscono per strada dopo quarant’anni e si ricordano ancora dov’eri seduto in classe) ed è partita snocciolando una descrizione dettagliata e puntuale nella quale ha raccontato che si ricordava perfettamente di me bambino, della mia famiglia, di dove ci eravamo poi trasferiti e persino della via di casa dove era passata a trovarci in vacanza. Inoltre, la vera sorpresa è stata il racconto di un episodio che ha caratterizzato l’inizio del 1985, perché in occasione del pranzo di capodanno abbiamo avuto l’onore ed il piacere di conoscere Luigi Veronelli, in visita presso la loro osteria. Io non ricordo direttamente l’episodio ma lo considero un battesimo professionale da mettere incorniciato nelle storie da raccontare ai
nipoti. Come molti sanno, non amo i dolci ma il pensiero che mi è stato rivolto con il piatto di degustazione a sorpresa, fatto di mini-porzioni che spaziavano dal gelato ai budini, per finire alle frolle (tutte rigorosamente fatte in casa) è stato una piacevolissima sorpresa ed anche in questo caso non posso che esaltare la semplicità degli accostamenti e la straordinaria cura per l’impiattamento, una piccola opera d’arte. Parlando con Agata, ho scoperto che all’Osteria della Capra stanno coltivando anche l’ingresso delle nuove generazioni, come la nipote delle sorelle Belli, Chiara, che sta pian piano entrando in azienda, portando avanti con professionalità la sua preparazione ed il recente acquisto dello Chef Alfonso Gigi che ha arrecato freschezza, una grande mano e la voglia di eccellere dietro ai fornelli. Appesi sulla parete vicino alla cassa, ci sono i disegni dei nipoti e dei giovanissimi avventori ai quali è dedicato un angolo speciale del cuore di queste donne straordinarie: avere cura dei piccoli avventori significa creare degli adulti gastronomicamente felici e capaci di apprezzare l’esperienza del gusto attraverso i piatti della tradizione. A volte sono piccole attenzioni che fanno la differenza con i bambini: ricordare il nome, l’età, tenere qualche macchinina e bambolina nel locale o far giocare con un po’ di impasto i più piccoli.
Ai più grandi si può far fare un giro della cucina (magari con assaggio): sono piccole cose, accortezze ormai d’altri tempi ma è molto più coinvolgente ed istruttivo che tenerli davanti allo schermo di uno smartphone per tutto il tempo.
La mia infanzia culinariamente felice è parte del profondo amore che nutro per la cucina ma sono passioni nate anche da queste esperienze, un motivo in più per condividere la mia personalissima esperienza, raccontando cosa mi è accaduto in un felice, quanto inatteso, incontro con i ricordi. Sono convinto che questo tipo di ristorazione, così capace di rinnovarsi senza tradire le proprie radici (anche se i cambiamenti a volte sono osteggiati proprio dagli habitué), possa essere senza tempo, quasi immortale, come il sapore delle cose semplici. Spero di avere presto l’occasione di tornare presto a trovare questa famiglia straordinaria e di abbracciare Agata, Maria ed infine Angela, alla quale approfitto di queste pagine per dedicare il mio più caro augurio di pronta guarigione.
Il senza glutine a misura di bambino
Il senza glutine a misura di bambino Negli ultimi anni, la consapevolezza riguardo la celiachia e le intolleranze al glutine è cresciuta esponenzialmente. Questo ha portato a una maggiore attenzione nella preparazione di pasti senza glutine, specialmente per i bambini, che possono sentirsi privati di gusti e alimenti comuni ai loro coetanei.
Creare una cucina senza glutine a misura di bambino significa non solo garantire sicurezza e salute, ma anche rendere ogni pasto un’esperienza gustosa e divertente. Il giusto approccio alla cucina senza glutine per bambini deve comprendere le esigenze dei bambini. I bambini sono particolarmente sensibili ai cambiamenti nella loro dieta. Possono sentirsi diversi se non possono mangiare ciò che mangiano i loro amici o i fratelli. Per questo motivo, è importante coinvolgerli nella preparazione dei pasti e spiegare loro, con parole semplici, perché è necessario seguire una dieta senza glutine. La trasparenza e l’educazione alimentare sono fondamentali per far sì che i bambini accettino e comprendano le loro esigenze dietetiche. Coinvolgere i bambini nella preparazione dei pasti può trasformare un potenzia-
le ostacolo in un'opportunità di gioco e apprendimento. Lasciare che partecipino alla scelta degli ingredienti e alla preparazione dei piatti li aiuta a sentirsi parte del processo e può aumentare la loro volontà di provare nuovi alimenti senza glutine. Ad esempio, possono aiutare a impastare una pizza o decorare dei biscotti, scegliendo le loro guarnizioni preferite.
La presentazione dei piatti è un altro aspetto cruciale. I bambini sono attratti dai colori vivaci e dalle forme divertenti. Creare piatti visivamente accattivanti, utilizzando tagliabiscotti a forma di animali o personaggi dei cartoni animati, può rendere il pasto più interessante e piacevole. Anche l'uso di piatti e posate colorate o a tema può contribuire a rendere il pasto un momento speciale. Vediamo insieme alcune ricette gluten free da realizzare con i bambini
Pizza senza glutine
La pizza è un classico che piace a tutti i bambini. Una versione senza glutine può essere altrettanto gustosa e divertente da preparare. Per l’impasto, si può utilizzare una miscela di farine senza glutine disponibile in commercio. Ecco una ricetta semplice:
Ingredienti:
• 500g di farina senza glutine
• 7g di lievito secco
• 2 cucchiai di olio d'oliva
• 1 cucchiaino di zucchero
• 400 ml di acqua tiepida
• 10g di sale.
Preparazione:
1. In una ciotola, mescolare la farina senza glutine, il lievito, il sale e lo zucchero.
2. Aggiungere l'acqua tiepida e l'olio d'oliva, mescolando fino ad ottenere un impasto omogeneo.
3. Lasciare lievitare l’impasto per circa un’ora in un luogo caldo.
4. Stendere l’impasto su una teglia ricoperta di carta forno.
5. Farcire con salsa di pomodoro, mozzarella e ingredienti a piacere.
6. Cuocere in forno preriscaldato a 220°C per circa 15-20 minuti.
Nuggets di pollo senza glutine
I nuggets di pollo sono un altro piatto amato dai bambini. Prepararli in casa senza glutine è semplice e permette di evitare gli additivi presenti nei prodotti confezionati.
Ingredienti:
• 500g di petto di pollo
• 2 uova
• Farina di mais q.b.
• Pangrattato senza glutine q.b.
• Sale e pepe q.b.
• Olio per friggere
Preparazione:
1. Tagliare il petto di pollo in pezzi piccoli.
2. In una ciotola, sbattere le uova con un pizzico di sale e pepe.
3. Passare i pezzi di pollo nella farina di mais, poi nell’uovo e infine nel pangrattato senza glutine.
4. Scaldare l’olio in una padella e friggere i nuggets fino a doratura.
5. Scolare su carta assorbente e servire con salse a piacere.
Biscotti al cioccolato senza glutine
Per una merenda golosa, i biscotti al cioccolato senza glutine sono perfetti. Possono essere preparati con i bambini, che si divertiranno a formare i biscotti e a decorarli.
Ingredienti:
• 200g di farina senza glutine
• 100g di burro
• 100g di zucchero
• 1 uovo
• 50g di cacao in polvere
• 1 cucchiaino di lievito per dolci senza glutine
• Gocce di cioccolato q.b.
PLATEA ROTANTE ORAANCHECON
FATTO IN ITALIA, AMATO NEL MONDO.Preparazione:
1. In una ciotola, lavorare il burro con lo zucchero fino ad ottenere una crema.
2. Aggiungere l’uovo e mescolare bene.
3. Unire la farina, il cacao e il lievito, mescolando fino ad ottenere un impasto omogeneo.
4. Aggiungere le gocce di cioccolato.
5. Formare delle palline con l’impasto e disporle su una teglia ricoperta di carta forno.
6. Schiacciare leggermente le palline e cuocere in forno preriscaldato a 180°C per circa 10-12 minuti.
Approcciarsi alla cucina senza glutine per bambini richiede un po’ di creatività e attenzione, ma i risultati possono essere sorprendenti. Non solo è possibile preparare piatti gustosi e sicuri, ma si può anche rendere ogni pasto un’occasione di divertimento e apprendimento. Coinvolgere i bambini nella preparazione, presentare i piatti in modo accattivante e sperimentare nuove ricette sono tutte strategie efficaci per farli sentire a proprio agio e felici della loro dieta senza glutine. In questo modo, il pasto diventa non solo un momento di nutrizione, ma anche un’occasione di condivisione e gioia.
Patate: quanti modi per cucinarle sulla pizza?
di Caterina VianelloCrediamo di non sbagliare nell’affermare che, nell’immaginario comune, a molti boomers (e chi scrive si inserisce a pieno titolo nella categoria) parlare di patate e pizza rimandi immediatamente alla pizza con patate fritte (e wurstel) che fece la sua comparsa verso la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90. Da allora, il mondo della pizza ha fatto un salto gastronomico di portata eccezionale e, nonostante i detrattori di quella proposta siano ancora moltissimi, nonostante – al contrario – in molte pizzerie di provincia la “patatine fritte e wurstel” sia ormai entrata nel novero dei classici, l’evoluzione delle tec
niche gastronomiche e la preparazione dei pizzaioli odierni ha fatto fare a quella ricetta una vera e propria rivoluzione di paradigma, arrivando allo stesso punto di partenza ma con un sostrato completamente diverso. Quella delle patate fritte sulla pizza è tuttavia solo una delle molte versioni in cui l’umile tubero può essere proposto: l’obiettivo di questo breve viaggio gastronomico è proprio quello di dimostrare come le patate possano non solo essere valorizzate sulla pizza in modi e consistenze diverse ma anche come il loro contributo sia prezioso e, a volte, determinante per esiti gourmand
Questo, tuttavia, non le ha impedito di comparire nella “Top 15” delle pizze più ordinate su Deliveroo, con percentuali in crescita. Eppure, ancora nel 2015, Gino Sorbillo ha lanciato una sorta di campagna di sensibilizzazione per bandire la pizza würstel e patatine, la quale però non ebbe grande successo. Piuttostoed è questa la vera vittoria - ha posto il problema della qualità degli ingredienti e ha portato molti pizzaioli a rileggerla e a reinterpretarla in chiave gourmet. È il caso, tra gli altri, di Denis Lovatel della pizzeria “Da Ezio” ad Alano di Piave (BL) che, pur non avendola in menu, la prepara su richiesta (in genere per i bambini). Qui gli ingredienti sono: fiordilatte di qualità, patate con buccia cotte prima alla brace, poi leggermente scottate al forno con spezie di montagna e, infine, würstel artigianale da un fornitore di fiducia. napoletani, in particolare Antonio Starita, patron della celebre pizzeria tradizionale “Starita” nel rione Materdei, a proporre per primo le patatine fritte sulla pizza: l’obiettivo era quello di contrastare e intercettare l’ondata di novità che proprio tra gli ’80 e i ’90 aveva visto sbarcare in Italia la più grande catena globale di fast food (evento che peraltro segnò anche la nascita del movimento di Slow Food, ma questa è un’altra storia). Ecco allora la proverbiale creatività ed inventiva partenopea che vide in breve tempocomplice anche una tradizione fortissima di “cibo di strada” - inserire stabilmente la pizza con le patatine fritte in carta. Accompagnata con prosciutto cotto o, più spesso, würstel – con uno spostamento geografico decisamente straniante che accosta il riferimento germanico a quello statunitense – ha finito per diventare il simbolo di una proposta giovane, giocosa e divertente. Se certamente essa esercita ancora un certo fascino sui bambini, la pizza in questione ha finito negli anni per essere bollata da un lato come una deriva infantilista della tradizione e, dall’altro, come non esattamente salutare dal punto di vista dietetico, con la presenza del doppio carboidrato, di cui uno in versione fritta, che avrebbe peraltro l’effetto di assorbire parte dei liquidi finendo per perdere croccantezza per un risultato finale poco convincente.
Per evitare sprechi, è fatta in versione ridotta in modo che non resti nel piatto. La versione che le vuole fritte non è, tuttavia, l’unica in cui le patate compaiono sulla pizza. La vera sfida gastronomica - ma soprattutto culturale - è non solo quella di proporle in cotture e consistenze differenti ma anche quella di valorizzarne le varietà. Eccole allora in versione bollita, disposte a fette, oppure aggiunte a crudo in fettine sottili precedentemente condite con sale, pepe e rosmarino. Rese in crema, avendo l’accortezza che non sia né troppo liquida né troppo densa, costituiscono un’ottima farcia da sistemare sulla base.
Trasformate in chips sottili, magari con l’aggiunta di peperoncino o paprika in polvere, possono arrivare a dare quella sferzata croccante al resto; a tocchetti e arrostite, possono arricchire condimenti di carne o verdure. Da non dimenticare, infine, la possibilità di aggiungere delle patate lesse schiacciate all’impasto stesso, per una maggiore morbidezza.
Le potenzialità insomma
sono molte e non a caso
molte delle illustri firme
del panorama nazionale
vi si sono cimentate.
A partire da Patrick Ricci a San Mauro Torinese che, con la sua Pane&Patate, rilegge sapori poveri nobilitandoli, giocando con temperature e contrasti, visto che il suo purè di patate è accostato a patate cotte alla brace, guarnite con prezzemolo, olio e sale di Maldon. Usa le patate dolci, tagliate a cubetti e lessate per qualche minuto, Simone Padoan che dalla sua pizzeria “I Tigli” di San Bonifacio (VR) propone una pizza con baccalà (dissalato, tagliato a fettine e cotto in padella per pochi minuti con olio e acqua), patata dolce (appunto), pomodori confit, erba cipollina e olio di nocciole.
Ciro Salvo, nella sua “50 Kalò” (Napoli), presenta la “Pizza e Patate” guardando alla tradizione campana della ricetta di pasta con patate e provola, alla quale peraltro ha ceduto alla fine anche Gino Sorbillo.
Memorabili, per chi ha avuto la fortuna di assaggiarli, sono gli “assoluti” di Pier Daniele Seu di “Pizza Illuminati” (Roma), che sperimenta da anni in questo modo l’utilizzo delle verdure in diverse declinazioni. Tra queste, la vera sfida è stata proprio l’”assoluto di patate”: patate americane a pasta arancione, trasformate in crema con l’aggiunta di una punta di senape; quelle gialle vengono insaporite con il cajun per simulare l’aroma della carne cotta al barbecue e, infine, le patate viola affumicate e lasciate una notte in frigo, in modo da stabilizzare il colore.
Si chiama “Past e patan” la proposta di Fabio Di Giovanni della pizzeria “Don Antonio 1970” di Salerno e vede patate gialle e patate viola. Le prime sono preparate in doppia versione: in crema, (ottenuta dopo aver fatto un soffritto con sedano, carota e cipolla, unito le patate e fatte cuocere finché non si sono intenerite) e poi in dadolata, friggendole. La crema è sistemata alla base del disco, poi viene aggiunta la dadolata e, infine, il fiordilatte, la provola affumicata e il Parmigiano Reggiano 24 mesi. All’uscita dal forno, viene condita con un’emulsione di patata e un corallo dì patata viola, ottenuto facendo bollire le patate viola intere senza buccia, congelandole una volta raggiunta la temperatura ideale, grattugiandole e cuocendole in forno a 60/70°C.
“Vellutata viola” è il nome della proposta di “Carlo Sammarco – Pizzeria 2.0” di Aversa (Caserta) - che vede patate viola francesi e pancetta croccante di suino nero del Casertano, fatta saltare e adagiata sulla pizza quando è croccante. Simile è la “Pizza Violetta” di Andrea Godi, pizzaiolo di “400 gradi”, a Lecce. La crema di patate viola qui si accompagna a capocollo di Martina Franca e crema di Parmigiano Reggiano. E ancora “C’ammafà” a Torino propone in carta la “Piemontesina” con crema di patate viola, fiordilatte, salsiccia di Bra a crudo, petali di tartufo nero e stracciatella. Chiudiamo il giro con i “Fratelli Salvo” di San Giorgio a Cremano (Napoli) che hanno una pizza con salsiccia, patata e menta, che affianca all'intenso sapore della salsiccia la freschezza della menta. Le patate qui sono in fiocchi (lessate, pelate e schiacciate e con l’aggiunta di menta fresca tritata finemente, Parmigiano Reggiano grattugiato, latte ed un pizzico di sale e pepe) e il condimento vede anche fior di latte e salsiccia di suino brado grigio del Casentino. Andare oltre la banalità ed i pregiudizi, insomma, non solo è possibile ma finisce per essere anche un’esperienza molto gustosa.
L'orto d'estate per una bella vegetariana
di Caterina VianelloLa tanto richiesta stagionalità, il concetto bandiera che – giustamente – trova ampio spazio nella visione degli chef sembra svanire di fronte a pizze vegetariane che vedono proporre tutto l’anno la classica triade intramontabile “melanzane, peperoni e zucchine” non considerando come le suddette verdure, esattamente come tutte le altre, non siano perenni ma, appunto, stagionali. I più attenti arrivano ad arricchire la versione invernale con radicchio e zucca, in primavera con spinaci e asparagi ma siamo ancora lontani – se si eccettuano le firme più note ed eccellenti
segua il ciclo delle stagioni. Se l’attenzione al mondo vegetale, ad una proposta vegetariana (e vegana) è costantemente in crescita, una pizza vegetariana che sappia distinguersi, insomma, può davvero fare la differenza. Guardando all’estate, non si può fare a meno di nominare i tre grandi attori di cui abbiamo parlato all’inizio: peperoni, melanzane e zucchine rappresentano certamente dei solidi punti di riferimento, oltre al pomodoro, ovviamente, che diamo per scontato. Ad essi possono essere aggiunti molti altri prodotti interessanti, come fiori di zucca,
Il pomodoro
A fare la differenza, come sempre, è la capacità di giocare con cotture e consistenze diverse da un lato e quella di valorizzare le varietà locali dall’altro.
Con il pomodoro è facilissimo e molto divertente. Ecco, allora, oltre alla classica base in polpa, il pomodoro essiccato, ridotto in crema, affumicato, grigliato, asciugato in una conserva concentrata e persino cotto nello zucchero di canna. Quanto alle varietà, c’è l’imbarazzo della scelta: dal pomodoro di Corbara, al piennolo del Vesuvio, al pomodorino giallo del Cilento, a quello di Pachino (e non solo in versione ciliegino, ma anche nella tipologia Tondo Liscio - a grappolo o a frutto singolo - Costoluto, Plum e Miniplum), al costoluto, tra cui vale la pena assaggiare il fiorentino, ma anche il costoluto di Rotonda, il sorrentino e il grinzoso sanminiatese. E, poi, il cuore di bue, ben rappresentato dal bovaiolo toscano, dal pomodoro di Albenga e da quello a pera d’Abruzzo. Tra i pomodori di varietà pizzutello, vale la pena citare il siccagno della Valle del Bilìci e il pizzutello delle Valli Ericine. Autentica delizia sarda è il camone mentre quasi regale nel suo color oro (ma dalla polpa rosa) è il verneteca sannita, ciliegino di forma schiacciata.
La melanzana
Fritta, grigliata, al funghetto, sott’olio, in crema: la melanzana è la regina dell’estate. Lo diventa altrettanto sulla pizza dove si moltiplica in varietà gustosissime. Della ovale nera, vale la pena assaggiare la sciacchitana dalla provincia di Agrigento, mentre di quella lunga violetta, ecco la lunga napoletana, dalla forma più affusolata e dal sapore piccante; la lunga palermitana e la riminese. Unica, soprattutto perché assomiglia ad un pomodoro, è la deliziosa melanzana rossa di Rotonda, coltivata in Basilicata e a marchio Dop nell’area del Massiccio del Pollino. C’è poi la zebrina, caratterizzata da striature bianche su sfondo viola e la perlina (detta anche mini o baby), di colore viola intenso, lunga una decina di centimetri, dalla forma estremamente affusolata, buccia sottile e polpa dolcissima, compatta e quasi priva di semi. Per finire, la melanzana lunga nera, più nota delle precedenti.
Il peperone
Un universo anche quello dei peperoni, da rendere non solo grigliati ma anche abbrustoliti e in filetti o resi in crema. Quali assaggiare (senza troppi spoiler, visto che prossimamente ne parleremo)? Il Pontecorvo Dop di Frosinone, il Nostrano di Mantova e Piacenza, il Cappello del Vescovo dalla forma stranissima, il Corno di Toro giallo dolce e delicato, il Carmagnola Igp, il Topepo e la Papaccella napoletana e, ancora, da consumare essiccati, il Senise Igp e il dolce di Altino. Ci sono, poi, quelli quadrati di Asti e di Polizzi Generosa: la chiave è scoprire le caratteristiche tipiche di ognuno e valorizzarle sulla pizza.
La zucchina
La famiglia delle zucchine non è da meno: fritte, grigliate o in crema, riescono a trasformarsi praticamente in qualsiasi versione di condimento. Si va allora dallo zucchino nero di Milano, il più noto ed estremamente versatile al romanesco; dall’ortolano di Faenza, pieno e sodo, alla saporitissima zucchina lunga fiorentina, dalla striata di Napoli alla bianca triestina, dal sapore delicato. E ancora dalla rigata pugliese, dalla polpa soda, allo zucchino tondo di Piacenza, che apre alle forme rotonde e permette di proseguire con il tondo di Nizza, gusto dolce, e con il tondo di Firenze. Concludiamo abbandonando il classico colore verde per i toni del giallo: da quello delicatissimo della zucchina trombetta di Albenga, dolcissima e dalla polpa compatta e croccante, a quello più vivo della stranissima zucchina pâtisson, il cui sapore assomiglia a quello del carciofo e del topinambur. Un giallo più squillante per concludere: quello dello zucchino giallo, buccia sottile e sapore dolce, e quello dello zucchino giallo rugoso friulano, delicatissimo e simile ad una zucca.
Gli altri...
Avevamo parlato di fagiolini e taccole: ebbene, abbandoniamo i pregiudizi perché, se ben trattati, questi due ortaggi possono rappresentare un vero asso nella manica. Basta assaggiare, per esempio, la versione della pasta al pesto tradotta in pizza, con i fagiolini in crema a fare da base e una farcia composta di fagiolini alla piastra, crema di patate, pinoli,
Menu bimbi: consigli ai ristoratori e ai pizzaioli
a cura della Dott.ssa
Marisa Cammarano, biologa nutrizionistaMangiare fuori con i bambini è una tradizione più consolidata, oggi più che mai. Con orari di lavoro impegnativi e meno tempo per cucinare, molti genitori vedono il mangiare fuori come un'opportunità per godersi del tempo di qualità in famiglia. Tuttavia, cenare fuori con i bambini può essere costoso e tutt'altro che rilassante, a meno che il ristorante o la pizzeria non siano veramente accoglienti e preparati ad ospitare i bambini. Una delle caratteristiche più importanti di ogni ristorante per famiglie che si rispetti è un menu bimbi che sia in grado di soddisfare i palati e gli appetiti di bimbi
di diverse età e allo stesso tempo di placare le preoccupazioni dei genitori, soprattutto in termini di budget e qualità. Fino a poco tempo fa, e spesso anche oggi, la maggior parte dei menu bimbi si limitava ad un'offerta piuttosto scontata di hamburger e patatine, pizza, crocchette di pollo o altre sfiziosità. Con la crescente consapevolezza nei confronti di un'alimentazione sana, per arginare per esempio fenomeni come l'obesità infantile, molti genitori preferiscono avere opzioni di menu per bambini più nutrienti e diversificate. Gli stessi bambini sono spesso educati a provare piatti variegati, tra cui anche molta frutta e verdura. Pur desiderando mantenere un'opzione intramontabile come hamburger e patatine, si può, comunque, aggiornarla in modo salutare sostituendo con un panino integrale il classico di farina bianca e sostituendo con la patata dolce le solite patatine fritte.
Bisogna cercare di offrire alternative a basso contenuto di grassi come patate al forno o saltate in padella o ancora verdure condite con olio extravergine di oliva, pollo croccante al forno anziché fritto o striscioline di maiale marinate alla griglia con una salsina allo yogurt. Anche la pizza integrale con una scelta di condimenti vegetali. In alternativa vediamo che i bambini di tutte le età amano essere coinvolti nel processo creativo della preparazione del cibo e godono della sensazione di libertà e autonomia nella preparazione dei piatti. Quindi si potrebbero offrire alcuni piatti a misura di bambino con una selezione di salse e condimenti (formaggio, avocado, pomodori tritati...) posti in ciotoline tra cui scegliere o lasciare che i più piccoli preparino i loro panini per un pranzo in tutto e per tutto adatto a loro.
Anche per il dessert, si potrebbe lasciare che i bambini personalizzino i loro gelati con una selezione di guarnizioni come frutta, noci, scaglie di cioccolato o salse. Il menu per i più piccoli dovrebbe anche presentare porzioni significativamente più piccole per evitare lo spreco di cibo e offrire allo stesso tempo un prezzo vantaggioso. Il fabbisogno giornaliero di un bambino è diverso rispetto a quello di un adulto per cui è difficile calcolare con estrema precisione le calorie dei piatti, ma almeno, bisogna cercare di limitare i "danni". Come per esempio bandire l’uso dell’olio di palma ed realizzare impasti lievitati naturalmente e in generale usare prodotti che vanno dalla carne alla frutta e verdura di assoluta qualità!
AZIENDE INFORMANO
DI MARCO CORRADO SRL
Uscita 12 Gra-Centrale Del Latte Via Monte Nero, 1/3 - 00012 Guidonia Montecelio, Roma
Tel. (+39) 0774.572804 T. 0774 363847
La Pinsa Di Marco conquista Casa Azzurri
Al via il nuovo progetto internazionale che porta l’originale pinsa romana del prossimo evento di calcio in Germania
Di Marco, azienda italiana di successo nel settore dei panificati e delle farine, annuncia con orgoglio la partnership esclusiva con Casa Azzurri, l'area ospitalità ufficiale della FIGC e della Nazionale Italiana di Calcio, in vista dei prossimi Campionati di Calcio in Germania. Di Marco, in qualità di Official Sponsor di Casa Azzurri, offrirà un'esperienza gastronomica di alta qualità a tutti i fan, tifosi e partner con l'apertura di una pinseria "pop-up" durante la manifestazione. Una collaborazione che unisce l'eccellenza di un prodotto italiano con la passione per lo sport, sottolineando l’importanza di valori come il rispetto della tradizione e la dedizione. Per l’occasione, tutte le confezioni Di Marco saranno in edizione limitata celebrativa, con un QR code che fornirà accesso a un ricettario esclusivo. Alberto Di Marco, CEO di Di Marco, afferma “La collaborazione con Casa Azzurri si inserisce in un momento di consolidamento importante per la nostra azienda. Siamo orgogliosi di affianca-
re un partner internazionale e condividere con loro un percorso di crescita che ci porta oltre i confini del nostro Paese”.
INFORMAZIONI SU DI MARCO
Di Marco, attiva dal 1981 nel settore professionale della pizza, nasce dall’iniziativa imprenditoriale di Corrado Di Marco, veterano nel mondo della panificazione. All’origine della nascita dell’azienda, l’invenzione di un mix di farine specifico per la Pizza in Teglia alla Romana, la linea Pizzasnella®, che rivoluziona il mercato delle pizzerie al taglio grazie all’eliminazione dei grassi negli impasti per ottenere un prodotto digeribile e fragrante. Nel 2001, viene ideato il prodotto di punta dell’azienda, la Pinsa Romana. Gustata in tutto il mondo, è oggi il biglietto da visita internazionale della Di Marco. Dal 2008, la famiglia Di Marco e il sempre più ampio staff, lavorano con passione nel nuovo stabilimento di Guidonia Montecelio, alle porte di Roma.
LA POSTA LETTORI
redazione@ pizzaepastaitaliana.it
Oggetto: cosa diamine è sta mixology?
Caro Michele, stavolta sono io a scrivere a un lettore. Dopo aver letto con attenzione il numero di Pizza e Pasta Italiana di maggio dedicato alla mixology, mi sono chiesto: “ma cosa diamine è sta mixology”? Forse manca un pezzo e così ti chiedo di rispondere alle mie domande.
Grazie per quanto potrai fare. Nio
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Caro Nio, con colpevole ritardo (ma sono stati giorni di fuoco), cercherò di rispondere in modo analitico alle tue domande.
Partiamo dalle basi: cos’è un cocktail e come nasce questa “alchimia”?
Questa, che sembra una domanda banale, è la domanda che invece dovrebbero porsi tutti prima di approcciare sia alla preparazione che alla fruizione di un cocktail; purtroppo, da quello che vedo in giro, è evidente che non se la pone quasi più nessuno e quei pochi che lo fanno non conoscono la risposta giusta visto il bassissimo profilo generale che hanno le creazioni degli ultimi 15 anni.
Queste sono il frutto dell’errore di fondo di queste risposte errate, il cui tenore è, di solito questo:
◊ per chi li crea: “prendo degli ingredienti a caso - basta che ce ne sia qualcuno strano o esotico o dal nome impronunciabile - così faccio vedere quanto sono originale e bravo a ricercare prodotti rari”
◊ da parte del consumatore sprovveduto: “Io vado da quello perché fa dei cocktail strani, diversi dai soliti, così mi sento più esclusivo”.
In realtà la risposta è semplicissima: il cocktail è l’equilibrata miscela tra due o più elementi (massimo sette, contando gocce e polveri) in cui, grazie alla conoscenza e alla bravura di chi li miscela, la somma del gusto è superiore
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a quella del valore dei singoli componenti. In altre parole, se conosci le materie prime e hai la capacità di assemblarle armonicamente, sia dal punto di vista olfattivo che cromatico, sei sulla buona strada per creare un buon cocktail; poi, se in chi lo beve provochi un’emozione che va oltre al gusto, hai ottenuto l’alchimia del cocktail perfetto.
Ci sono ingredienti totem e ingredienti tabù nella preparazione di un cocktail?
Gli ingredienti di riferimento nella creazione di un cocktail sono i distillati che servono a creare la base alcolica su cui viene poi sviluppata la parte aromatica con l’utilizzo di liquori a base di frutti o spezie o con frutta fresca e i suoi derivati tipo succhi, sciroppi e polpe.
Sarebbe buona norma utilizzare una sola tipologia di distillato nella creazione della ricetta perché il gusto si gioca tutto sugli altri elementi della ricetta. 3
La moda che si è diffusa tra i consumatori più giovani di chiedere cocktail con più distillati insieme nasce “dall’ignoranza” specifica sull’argomento; il caso più diffuso è quello dei 5 bianchi, dove la credenza popolare è che la somma di vodka 40° + gin 40° + rum 40° + tequila 40° + altro distillato a piacere da 40° faccia 200°, mentre in realtà la somma è 40°
Fare cocktail con prodotti buoni e freschi: si può o è chiedere troppo?
Non solo si può fare ma sarebbe una buona pratica seguire la stagionalità della frutta e anche valorizzare quella del proprio territorio ove possibile e disponibile.
Il cocktail è abbinabile alla pizza?
La risposta è: ovviamente si. Ma occorre una premessa. Al contrario di quello che sta diventando un tentativo maldestro di “fare i fighi” - a cui si assiste purtroppo oggi, anche a causa della poca preparazione sia di chi li propone che del pubblico - per ogni tipologia di impasto e di farcitura va studiato un drink su misura, dove gli elementi sia della
pizza che del drink devono esaltarsi a vicenda. Non è proprio una novità visto che, nel 2015, in collaborazione con la barlady e chef Francesca Mannis di Falerna (Catanzaro) abbiamo fatto un seminario di presentazione a Londra proprio sull’argomento, in un contesto dov’erano presenti alcune decine di pizzaioli da tutta Europa e in cui veniva
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anche spiegato quali sono i cardini fondamentali per un abbinamento di successo.
Da anni c’è grande attenzione verso la “mixology”: come la definiresti tu e perché?
In realtà, il mondo che ruota intorno all’american bar (luogo di culto per eccellenza della miscelazione e della gioia di vivere la socialità dagli anni ‘60 a fine millennio) è sempre stato al centro dell’’attenzione,
non solo per i cocktail ma proprio come fenomeno sociale di costume. Basta pensare al fenomeno dei paparazzi che andavano a caccia di scoop sulle uscite delle coppie “vip” ed al ruolo importantissimo che avevano i grandi barmen (come si chiamavano allora) non solo dei grandi alberghi ma anche di locali che hanno segnato la storia del settore.
Con il passaggio al nuovo millennio, abbiamo progressivamente assistito al decadimento di tutte le regole basilari che regolavano quel mondo e che possiamo riassumere in:
◊ capacità di accoglienza e savoir faire
◊ empatia
◊ ruoli ben definiti e rispettati (il cliente è sacro e lo scopo del barman era di fargli vivere una serata da protagonista e mai lo si può trattare con superficialità)
◊ quel che accade all’interno del locale resta all’interno del locale (si chiamava discrezione)
◊ replicabilità delle ricette “urbi et orbi” (un Negroni doveva avere lo stesso sapore a Firenze, Roma, Parigi, New York, Berlino, Singapore, Tokio. ecc.). 5
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Le nostre farine ORO PURO PIZZA BLU W270 e ORO PURO PIZZA ROSSA W320 rappresentano la nostra idea di pizza: fragrante e leggera. Sono il frutto della ricerca e della selezione meticolosa delle parti più nobili e nutrienti del chicco. Porta in tavola l’autenticità della tradizione italiana e l’eccellenza dei sapori moderni. Scopri il segreto per una pizza indimenticabile.
Oggi assistiamo ad un fenomeno completamente diverso: in moltissimi casi, le succitate regole non valgono più;
non esiste più il rispetto “sacro” per le ricette, anzi c’è una frenetica gara a chi lo fa più strano; dietro il banco, non c’è quasi più il barman che si prodiga a soddisfare il cliente con discrezione ma il “minchiologist” che si erge a protagonista per fare il suo show e dimostrare la sua (in) competenza, sfoggiando le sue presunte competenze nel “rivisitare” i cocktail classici senza sapere che, da sempre e non solo nel mondo dei cocktail, il
variare degli ingredienti crea risultati diversi, anche solo per le proporzioni. Vedi, per esempio, Gin e Vermouth dry che, a seconda della preparazione, danno origine al cocktail più celebrato del XX secolo con le varie sfaccettature: parlo del caposaldo storico “Martini Cocktail”, la cui ricetta “sacra” è ¾ di Gin con gradazione superiore ai 55° e ¼ Vermouth dry francese. Poi c’è il “Gibson”, ⅚ di Gin e ⅙ Vermouth dry francese; “Hemingway” con 11/12 Gin e 1/12 di Vermouth dry francese; il “Montgomery” con 15/16 Gin e 1/16 Vermouth dry francese; “In & Out”, Vermouth dry francese per lavare il ghiaccio e scolarlo e 6 cl Gin.
Oggi invece non si parla d’altro che di twist, rivisitazioni, interpretazioni “a capocchia”, uso di prodotti homemade ma senza avere il coraggio di dare un nome nuovo ad un drink. È un po’ come se uno chef dicesse: “faccio la pasta al pomodoro e basilico per restare sul “semplice” ma con una salsa di lamponi e le foglie di menta”! Il mio pensiero è che così si crea solo un sacco di confusione che non ha prospettive per il futuro, perché il consumatore si stanca presto delle mode e, soprattutto, dopo un po’, non ne può più di dover specificare che se ordina un “banale” Gin & Tonic vuole Lime, Gin e Acqua Tonica.
Michele Di CarloUN LIBRO AL MESE
a cura della redazione
La si fa
Autore: Carla Tomasini
Edizioni: Sonda
Prezzo di copertina: 18 euro
Pagine: 176
a tavola famiglia
Carla Tomasini, meglio nota come “Pediatra Carla”, si è specializzata in Pediatria e Puericultura presso l’Università di Granada, in Spagna, per poi perfezionarsi in Nutrizione con un Master Internazionale. È mamma di due bambini e svolge e la sua attività come pediatra ambulatoriale. I suoi consigli pratici l’hanno resa la pediatra più famosa d’Italia e sui social è seguita da oltre 200 mila follower.
® BORN TO BURN
UN LIBRO AL MESE
In questo libro, Pediatra Carla ci accompagna nell'importante compito di nutrire i più piccoli sin dal momento in cui si siedono a tavola con noi. Ci spiega cosa succede dallo svezzamento in poi, quali sono le tappe fisiologiche dell'alimentazione infantile, le principali sfide da affrontare e come supportare i bambini nel percorso verso la loro autonomia nutrizionale sia dal punto di vista fisico che psicologico.
Il manuale aiuta infatti a costruire un rapporto sano con ciò che finisce nel piatto, sia creando le basi per una buona educazione alimentare nei genitori, sia accompagnando bambini e adulti in un viaggio verso il vero significato del cibo, anche grazie a una grafica semplice e intuitiva.
Non è solo un libro per genitori ma per tutti coloro che hanno davvero a cuore il modo in cui i più piccoli entrano in contatto con il cibo.
Ci permettiamo di consigliarlo in una rivista di settore perché pensiamo sia un libro che anche i ristoratori e i pizzaioli, quando non vedono di buon occhio l’arrivo dei bambini al ristorante, farebbero bene a leggere.