anno XXXIV 2023 settembre 08
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Industria Alimentare Tanagrina p. 39
Industria Molitoria Perteghella p. 99
Ireks Italia p. 91
Italforni p. 51 La Torrente p. 11
Lira p. 125 Millberg p. 77 Molino Agugiaro p. 43 Molino Braga p. 63 Molino Cosma p. 69
Molino Dalla Giovanna p. 131
Molino Denti p. 57
Molino Magri p. 75
Molino Pasini p. 7
Molini Pizzuti p.3
Mulino Padano p. 103
Rinaldi Superforni p. 31
Sacar p. 117
Sanfelici p. 2
Scuola Italiana Pizzaioli p. 81
Sitta p. 132
Sunmix p. 53
Trinka (Molecola) p. 15
Unitech p. 87
Velma-Pastaline p. 85
Waico p. 9
— Sommario — AZIENDE 6 editoriale di Antonio Puzzi 8-10 prima pagina a cura della redazione 12-14 pizza news a cura della redazione storie di pizza La pizza fritta di Vincenzo Durante di Noemi Caracciolo 4 pizza e pasta italiana settembre 2023 34 Io t’ho incontrato a Napoli di Antonio Puzzi 16 40 Elogio della frittata di maccheroni di Nio 44 Signora Pizza Il tricolore su quattro ruote a Las Vegas a cura della redazione 48 storie di pizza 35 anni di storia napoletana Franco Manna racconta Rossopomodoro di Domenico Maria Jacobone e Monica Pisciella 22 ristorazione domani I nuovi manager della ristorazione di Giampiero Rorato 28 Cuocere il futuro. Intervista ad Antonio Pace, Presidente dell'Associazione Verace Pizza Napoletana a cura della redazione Avanzini Bruciatori p. 65 Conserve Italia p. 21 Cuppone p. 95 Demetra p. 13 Di Marco p. 19 Dr. Schär p. 25 Dr. Zanolli p. 59 Familia p. 109 Farm Frites p. 71 Fiera Milano-Host p. 126 Gam p. 123 Gi.Metal p.
54 storie di pizza La pizza è femmina Storie di pizze al femminile al Sud di Giusy Ferraina 60 Salerno sul tetto del mondo Intervista a Vincenzo Mansi, Campione del mondo di pizza napoletana Stg di Alfonso Del Forno 66 storie di pizza La vità è bella Storie di pizza a Casal di Principe di Giusy Ferraina Dolce Costiera La sublimazione del “pop” nel nuovo ristorante di Sal De Riso di Noemi Caracciolo 5 sommario L’arte del pizzaiuolo di Pompei Storia tragicomica di una notizia di Antonio Puzzi 82 La Teglia contemporanea a cura della redazione 88 La terra di mezzo. Pizza e Pasta in Molise e Sardegna di Domenico Maria Jacobone 92 Impastatrice: quale scelgo per la mia pizzeria? di A.P. 96 Napoli: alla scoperta delle birre artigianali che celebrano l'anima vibrante della città di Alfonso Del Forno 100 Il futuro dei grani ha un cuore antico di Marisa Cammarano 106 Ti piace? E Provola di Caterina Vianello 110 Dite Cheese! Appuntamento in Piemonte con i migliori formaggi del mondo a cura di Slow Food Italia 114 Se ti chiamano friariello non offenderti di Caterina Vianello 120 La parola ai pizzaioli a cura della redazione 128 Un libro al mese a cura della redazione le aziende informano Fiera Milano-Host p. 127 Grandi Molini Italiani p. 119 Molino Grassi p. 113 Molino Naldoni p. 105 Molino Pasini p. 27 Unicredit p. 33 72 78
settembre 2023
Editoriale
Antonio Puzzi
Napoli non è una cartolina. Napoli è un’immagine, nel senso etimologico di ciò che appare ma anche di “idea”. Perché di Napoli si può dire tutto e il suo contrario. Perché Napoli è tutto e il suo contrario. Napoli è il luogo in cui la bellezza paradisiaca dei panorami si scontra con il turismo dell’orrore che viaggia tra il carcere minorile di Mare Fuori e i luoghi volutamente insudiciati di Gomorra, è la città de L’amica geniale ma anche quella di Scugnizzi (che – in realtà – raccontava gli stessi temi di Mare Fuori ma con meno violenza fisica e verbale), è la città in cui andare allo stadio è decisamente più importante del ragù della domenica ma è anche quella in cui lo scudetto è tornato a imprimersi sulle maglie dopo 33 anni, è tra le città d’Italia più amate per il cibo ma anche tra le prime ad avere emesso una norma per fermare per i prossimi tre anni le aperture di nuove attività ristorative nel centro storico. Napoli è dunque la coincidenza degli opposti, la quadratura del cerchio, un museo a cielo aperto di ciò che è quasi impossibile da musealizzare. Ed è per questo che è così affascinante.
In questo numero allora la nostra redazione ha deciso di raccontarvi “per bene” Napoli e l’Italia del Sud: lasciatevi dunque guidare tra le bellezze della città, anche alla scoperta di alcuni dei suoi prodotti più celebri, come i friarielli, la provola e la frittata di maccheroni. Ragionate con noi su cosa voglia dire (davvero) la scoperta dell’affresco della pizza a Pompei e leggete le storie dei protagonisti diversi e complementari della “napoletanità”: l’imprenditore Franco Manna, il pasticciere Sal De Riso, i pizzaioli Antonio Della Volpe e Vincenzo Mansi, le pizzaiole Irene Malfarà, Francesca Gerbasio e Isabella De Cham, l’uomo della pizza fritta di Forcella, Vincenzo Durante. Scoprirete, alla fine, che c’è una parola che accomuna tutte queste pagine, la stessa parola che questo mese auguro a voi che leggete le mie righe di apertura: “coraggio”. Il coraggio di trasformare una “speranza” in un progetto di successo, di andare oltre le lobby della comunicazione gastronomica, di scegliere di essere liberi in un mondo che spesso ci chiede da che parte stiamo.
Un abbraccio, nio
COLOPHON
PIZZA E PASTA ITALIANA
Mensile di Pizza, Pasta, Enogastronomia e Cultura
Edito da PIZZA NEW S.p.A.
Autorizzazione Tribunale di Venezia n.1019 del 02/04/1990
Anno XXXIV - n.8 settembre 2023 - Repertorio ROC n. 5768
DIRETTORE EDITORIALE DIRETTORE ONORARIO
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DIRETTORE RESPONSABILE
Antonio Puzzi
SEGRETERIA DI REDAZIONE
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PUBBLICITÀ
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Noventa Padovana (Pd)
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pizza e pasta italiana
LA LINEA SOFFIO RADDOPPIA
TIPO 0 E TIPO 1 PER MEDIA E LUNGA LIEVITAZIONE PER UNA PIZZA CROCCANTE DAL BORDO ALTO ED ALVEOLATO
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a cura della redazione
La Notte dei Maestri del Lievito Madre 2023
Grande successo per l’8^ edizione dell’evento
benefico alla Pilotta
Grande successo per l’8^ edizione della Notte dei Maestri del Lievito Madre, l’evento benefico all’insegna dell’artigianalità organizzato dall’Accademia dei Maestri del Lievito Madre e del Panettone Italiano con il patrocinio del Comune di Parma e Parma Food Valley, svoltosi lo scorso 24 luglio sotto il cielo stellato della Pilotta nel centro di Parma che ha visto la partecipazione di oltre tremila persone.
I Maestri Alessandro Bertuzzi e Francesco Elmi, al timone del progetto Panettone World Championship promosso dall’Accademia MLM hanno presentato la prima edizione del Campionato Mondiale del Panettone a Squadre, che sarà inaugurata il 9 ottobre a Eataly Verona e che proseguirà con le gare tra le nazionali provenienti da tutto il mondo presso i laboratori del Gruppo Polin dal 10 al 13 ottobre, e culminerà con la finale e la proclamazione dei vincitori il 14 ottobre ad Host Fiera Milano.
Dopo le foto di rito, il folto corteo composto da Maestri dell’Accademia al gran completo, insieme ai ragazzi della sezione giovani lievitisti e agli studenti di ALMA, ha sfilato per le vie del centro cittadino accompagnato dalla Banda della città di Parma, fino a raggiungere le postazioni all’ombra della Pilotta per dare il via alle degustazioni insieme ai volontari di Emporio Solidale Parma: oltre 80 tipologie di lievitati e panettoni d’estate preparati rigorosamente con lievito madre vivo e ingredienti e materie prime di prim’ordine offerte dai numerosi sponsor, come la farina Magistrale del marchio Le Sinfonie di Agugiaro & Figna Molini, il Burro Aroma Naturale di Brazzale, e ancora farciture di frutta particolarmente adatte alla bella stagione, come la crema di mandarino dell’azienda Cesarin o quelle di frutta candita in sciroppo gusti amarena, fragola, zenzero della celebre azienda storica Fabbri1905.
Il ricavato dell’evento è devoluto all’Emporio Solidale Parma, che si occupa di aiutare e sostenere persone e famiglie in difficoltà, una raccolta a cui ha contribuito anche lo sponsor Torrefazione Dubbini che ha omaggiato il Banco Alimentare con 100 barattoli da 250g della miscela di caffè gourmet dedicato in esclusiva al canale caffetteria pasticceria e all'alta ristorazione e adatto sia per estrazioni con la moka che a filtro.
Raccolto grano duro 2023: una qualità fortemente
penalizzata dagli eventi climatici
“La produzione nazionale 2023 di frumento duro presenta, purtroppo, significative criticità sotto il profilo qualitativo”. Così Italmopa-Associazione Industriali Mugnai d’Italia, aderente a Confindustria, in merito alle specifiche tecnologiche e merceologiche del nuovo raccolto.
“L’andamento climatico costatato nel corso degli ultimi due mesi ha gradualmente e profondamente mutato il quadro di una prospettiva che invece risultava, sino alla fine di aprile, particolarmente favorevole per quanto concerne l’esito quantitativo e qualitativo del raccolto” evidenzia Enzo Martinelli, Presidente della sezione Molini a frumento duro Italmopa. “I volumi produttivi, che stimiamo in circa 4,15 milioni di tonnellate, appaiono certamente ridimensionati rispetto alle iniziali aspettative. Ma sono i risultati qualitativi del raccolto a destare grandi preoccupazioni visto che tutti i principali parametri, dal tenore proteico al peso ettolitrico, devono purtroppo essere considerati chiaramente insoddisfacenti. Una situazione che non potrà non influire sulle strategie di approvvigionamento dell’Industria molitoria italiana, con necessità di un maggior ricorso ad onerose importazioni da parte della medesima che, da sempre, trasforma le migliori varietà di frumento, a prescindere dalla loro origine, per produrre semole rispondenti alle esigenze dei pastai italiani e dei consumatori”.
PRIMA PAGINA 8 pizza e pasta italiana settembre 2023
Il pizzaiolo Ciro Di Maio crea la pizza “San Ciro” per i detenuti del carcere di Brescia
Ciro Di Maio, nato nel 1990 a Frattamaggiore, in provincia di Napoli, è un giovane pizzaiolo. Nel 2015 ha deciso di cercare nuove opportunità trasferendosi in Lombardia. Così è cominciata l'avventura di "San Ciro", la sua pizzeria a Brescia.
Ciro si considera oggi un privilegiato e ha deciso di offrire ai meno fortunati la possibilità di trovare lavoro. Nei primi mesi dell’anno, infatti, ha insegnato l'arte della pizza ai detenuti del carcere Canton Mombello di Brescia, grazie a un progetto sviluppato in collaborazione con Luisa Ravagnani, garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Brescia, e sostenuto dalla direttrice del carcere, Francesca Paola Lucrezi. Per alcuni mesi, il pizzaiolo è stato in carcere due volte a settimana, conducendo lezioni teoriche e pratiche sulla preparazione della pizza. Dall'importanza del sale alla temperatura dei forni, passando per i segreti dell'impasto e del pomodoro. Sette detenuti, accusati di reati minori e quindi destinati a scontare un breve periodo di detenzione, hanno partecipato alle lezioni, quaranta ore di un corso professionale. La giusta conclusione sarà un evento che si terrà dopo l’estate e nel quale Ciro presenterà la pizza che ha pensato come “regalo” agli (ex) detenuti.
“Presenterò ufficialmente ‘San Ciro’, una pizza che rappresenta per me l’unione tra Nord e Sud d’Italia, tra la mia vecchia vita e quella nuova, e per un certo verso anche una sintesi tra errori che portano in carcere e l’impegno che poi genera una nuova vita”, dice Ciro. “Sarà una pizza semplice, fatta con le orecchie come piace a me: la pizza va fatta a mano e non può essere rotonda, i pomodori devono essere a pezzettoni. Avrà tre prodotti che uniscono l’Italia: la provola affumicata di Caserta, la porchetta di Ariccia Igp del Lazio e delle melanzane messe sott’olio. Quest’ultimo ingrediente è quello che rappresenta per me la casa, sono infatti preparate tutte a mano da mia mamma, mi piace però condividerle con tutti”.
Tiramisù World Cup 2023: la sfida più golosa dell’anno
La Tiramisù World Cup 2023 è tornata a viaggiare nel mondo. Dopo aver promosso il dessert italiano più famoso nel mondo con le selezioni a Montevideo (Uruguay), San Paolo (Brasile) e Bruxelles (Belgio), l’edizione di quest’anno si prepara al Grand Final (5-8 ottobre) che avrà per tema “Treviso e il caffè”.
“Il Tiramisù è senz’altro uno dei modi migliori per gustare il caffè. Ecco perché abbiamo scelto come tema di quest’edizione ‘Treviso e il caffè’ – spiega Francesco Redi di Twissen, ideatore e organizzatore della rassegna”.
“È uno dei dolci più famosi della pasticceria internazionale, una bandiera del Veneto, che ha saputo però conquistare il mondo – commenta Federico Caner, assessore al Turismo della Regione Veneto. Un’eccellenza che si unisce alla fantasia di coloro che ogni anno si sfidano nella rivisitazione di una ricetta che da anni viene tramandata di generazione e in generazione e ha dimostrato di essere il simbolo del nostro territorio. Il Tiramisù è, a tutti gli effetti, un punto di riferimento della nostra cultura eno-gastronomica e questo appuntamento internazionale dimostra l'interesse nei confronti di un dolce che oggi esprime anche l'estro di abili pasticcieri”.
Conclude il sindaco di Treviso, Mario Conte: “La Tiramisù World Cup non è soltanto una meravigliosa competizione ma una rassegna capace di creare ponti culturali e condivisione. Siamo veramente felici che, di anno in anno, questa manifestazione che vede protagonista Twissen con i partner istituzionali e commerciali abbia visto una costante crescita, integrandosi perfettamente con il tessuto cittadino. La Coppa del Mondo è una festa per la città e una vetrina importante per le nostre meraviglie, le nostre eccellenze e le nostre attività”.
PRIMA PAGINA 10 pizza e pasta italiana settembre 2023
Tante idee da assaporare ogni mese con i nostri dodici “Ar�s� della pizza”. Se�embre è stato dedicato al nostro caro pizzaiolo Ciro De Gregorio, che esalta il gusto dei nostri dadini con la sua “Dadini di bontà”. Dolce e compa�a, in ogni bara�olo c’è solo il cuore del pomodoro di primissima qualità. Che sia saltata in padella, o usata come base per la pizza, la Polpa di Pomodoro a Cube� La Torrente, aiuta da sempre chi ha le mani in pasta.
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- info@latorrente.it
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“Gli tisti della pizza”
Sustainable Growth in primo piano ad Anuga 2023
Alla fine di giugno si è svolto a Milano il Round Table su Anuga 2023. Poche parole per descrivere l'esperienza in programma dal 7 all’11 ottobre: 10 saloni specializzati sotto uno stesso tetto, la più grande piattaforma di business e ispirazione al mondo per l'industria alimentare con la più vasta community specializzata internazionale e allo stesso tempo un mercato innovativo e una mostra dei trend del food & beverage. Quest'anno Anuga punta i riflettori sul tema "Sustainable Growth" convogliando l'attenzione sull'impegno e sulle soluzioni del settore, abbracciando anche gli aspetti relativi a clima e ambiente. Con circa 165.000 m² netti di spazi prenotati da oltre 100 paesi e 7.500 espositori in arrivo, Anuga fa registrare il tutto esaurito e conferma la propria leadership tra le fiere alimentari di tutto il mondo. "I risultati dimostrano che il settore è in movimento e guarda con positività al futuro. Non vediamo l'ora di tornare a dare il benvenuto a Colonia a partner e clienti da tutto il mondo", sottolinea Jan-Philipp Hartmann, Director di Anuga. Da molti anni l'Italia vanta ad Anuga un numero di espositori straordinario. Con 900 aziende iscritte ad oggi e una superficie assegnata superiore a 23.000 metri quadrati, l'Italia è uno dei paesi europei con il maggior numero di partecipanti al salone. Le imprese italiane sono rappresentate soprattutto in Anuga Fine Food, Anuga Dairy e Anuga Meat. "Per le aziende italiane del food Anuga è uno degli eventi mondiali più importanti del settore, come dimostrano non solo il numero di espositori iscritti, ma anche le numerose richieste pervenute alla rappresentanza di Koelnmesse in Italia", dichiara Thomas Rosolia, Managing Director della filiale italiana di Koelnmesse GmbH.
La miglior alleata per una perfetta pizza napoletana
La pizza è diventata una forma d’arte non solo in Italia, ma in tutto il mondo, e negli ultimi anni i pizzaioli hanno sperimentato diverse tecniche per ricreare la pizza perfetta.
Il rispetto della tradizione rimane uno dei punti cardine per molti pizzaioli che propongono l’amatissima pizza napoletana, utilizzando ingredienti di qualità sempre maggiore e servendosi di attrezzature all’avanguardia che, insieme alle capacità e alla creatività, contribuiscono all’ottima riuscita del prodotto finale.
Uno strumento fondamentale per una pizza di qualità è la pala: che sia quadra o tonda, piena o forata, ogni pizzaiolo ha la necessità di utilizzare una pala resistente, leggera e rigida.
Diego Vitagliano ha scelto Cerutti Inox.
Diego Vitagliano, titolare di quattro locali a Bagnoli, Pozzuoli, Roma e Doha, ha scelto le pale di Cerutti Inox come alleate nelle sue pizzerie: dalla pizza napoletana fino alla romana, le attrezzature Cerutti sono adatte a diversi tipi di impasto. Una caratteristica su tutte è la rigidità che consente ai pizzaioli di lavorare con meno sforzo, esercitando meno pressione con le braccia e con i polsi.
Cerutti Inox sarà inoltre Official Partner del Campionato Europeo della Pizza che si terrà durante la fiera HOST Milano. L’evento sarà occasione per l’azienda di presentare i propri prodotti, che verranno utilizzati da alcuni dei migliori pizzaioli al mondo. Lo stand di Cerutti Inox offrirà inoltre la possibilità di toccare con mano le pale pizza, fiore all’occhiello di tutta la produzione e sempre più apprezzate da centinaia di pizzaioli.
PIZZA NEWS 12 pizza e pasta italiana settembre 2023 a cura della redazione
Foto di pizza1.de
In foto Thomas Rosolia e Jan-Philipp Hartmann
AU TH EN TIC
food passion
Tutti i migliori ingredienti più uno... la nostra autentica passione
Rispetto per la stagionalità delle materie prime, “dalla terra in cucina”, dalla raccolta alle preparazioni sapienti, prodotti gustosi e freschi direttamente nelle tue mani. Un’attenta selezione di pomodori conservati in innovative confezioni: polpa, passata, datterini, ciliegini e pomodori pelati... questo è il segreto di Demetra perchè ogni pizza diventi straordinaria.
demetrafood.it
a cura della redazione
Pizze al piatto con il lievito naturale
Superise di Molino Dallagiovanna
Superise è il lievito naturale attivo in polvere di Molino Dallagiovanna, unico sul mercato, ideale per la pizza al piatto. Non necessita di starter ed è confezionato in Atmosfera Protettiva (ATP).
Il prodotto garantisce la perfetta tenuta della pallina in fase di lievitazione. L’impasto è facilmente lavorabile, ben estensibile e con la giusta spinta in fase di cottura
Il dosaggio è di circa il 2-4% sul peso della farina. Superise è disponibile in scatole da 5 confezioni da 1kg. Una volta aperto va conservato tra 0 e 7°C e utilizzato entro una settimana.
Superise è parte di PH4, la linea di quattro lieviti naturali, attivi e inattivi, con la quale Molino Dallagiovanna arricchisce e completa la sua offerta ai professionisti dell’arte bianca per realizzare l’impasto perfetto e semplificare i processi di lavorazione.
Oltre a Superise, la linea comprende altri 3 prodotti specifici per diversi utilizzi: Supereasy, anch’esso attivo, è pensato per pane, pizza in teglia e piccoli lievitati. Tastypower è il lievito inattivo pensato per pane e pizza, mentre Balancepower, anch’esso inattivo, è specifico per il mondo della pasticceria.
PH4 è frutto della ricerca dei tecnici dell’azienda emiliana che hanno selezionato lieviti con aromaticità e gusto, adatti per ogni ricettazione: prodotti sempre bilanciati e costanti, che danno struttura e sentore di acidità nel gusto, garantendo una maggiore durata del prodotto finito.
L’iconica lattina della cola
100% made in italy diventa pop
Compie dieci anni MoleCola, la prima cola 100% Made in Italy ideata da Francesco Bianco e Graziano Scaglia in quel di Torino su ispirazione di un’antica ricetta piemontese di fine Ottocento.
E per festeggiare questo compleanno importante, la lattina di MoleCola si rifà il look con uno stile pop che ne sottolinea l’innata eleganza già presente anche nelle iconiche bottiglie di vetro ispirate all’italianità. Le nuove lattine ideate da Curve Studio hanno tappo rosso e tappo nero per le versioni classiche e senza zucchero, mentre la MoleCola senza caffeina mantiene il colore verde: su tutte, a simbolo di garanzia del Made in Italy, l’icona del tricolore.
“La volontà di questo cambiamento – spiega Giorgia Scaglia, responsabile marketing di MoleCola, nasce dall’idea di rendere ancora più giovane e riconoscibile questo prodotto, con grafiche dal nuovo spirito, fresco e internazionale che rispecchiano la nostra azienda, giovane, frizzante e pop”.
Venduta in tutta Italia e in 48 paesi del mondo, MoleCola quest’anno sarà prodotta in 6 milioni di esemplari in totale. “La prima produzione di dieci anni fa – racconta Francesco Bianco – fu di 100 mila pezzi: oggi vendiamo il 55% della produzione in Italia e il 45% all’estero con Usa, Francia, paesi dell’Est e paesi arabi come migliori mercati. All’estero MoleCola piace soprattutto al ristoratore italiano che cerca il Made in Italy per i suoi clienti e trova nel nostro prodotto la risposta alla sua domanda”.
Per maggiori informazioni: www.molecolaitalia.it
PIZZA NEWS 14 pizza e pasta italiana settembre 2023
Molecola compie 10 anni e si rifà il look
Io t’ho incontrato a Napoli
Un giro nella città della pizza… e non solo
di Antonio Puzzi
il sole, il mare… E non è un caso che quando, alle Olimpiadi di Anversa del 1920, alla cerimonia di premiazione della maratona (da sempre la medaglia più ambita), vinse il marciatore milanese Ugo Frigerio, la banda belga che aveva perso lo spartito della Marcia Reale di casa Savoia (a quel tempo inno nazionale) decise di suonare ‘O sole mio, scritta poco più di vent’anni prima. Esecuzione strepitosamente accolta dal pubblico.
Napoli, eterna canzone
Di Napoli si è detto e scritto tutto e il suo contrario. È dunque altamente improbabile far emergere delle novità. Napoli è una di quelle città entrate a far parte dell’immaginario collettivo, ben presto trasformatosi in olografia. Quando si parla di Italia, spesso si fa riferimento a simboli che rimandano soprattutto a Napoli: il mandolino, la pizza,
Pensare a Napoli senza la musica è impossibile e non potrebbe essere altrimenti, visto che è una delle città che, secondo la mitologia classica, è stata fondata da una sirena, Partenope. In ogni dove, si ritrovano appese tra i vicoli del centro e scritte sui muri delle periferie i versi delle canzoni più celebri che hanno fatto la storia ma anche quelle dei tanto vituperati neomelodici. Musiche malinconiche e marcette, commedia e sceneggiata, dolce e amaro, come il dissidio costante che si vive in questa città.
«In questo mondo del progresso, in questo mondo pieno di missili e di bombe atomiche, io penso che Napoli sia ancora l’ultima speranza che ha l’umanità per sopravvivere».
16 pizza e pasta italiana settembre 2023
Luciano De Crescenzo
Il caffè di piazza Trieste e Trento, il “Gambrinus” (il cui nome deriverebbe dall’omonimo mitologico re delle Fiandre, considerato patrono della birra) è stato nei suoi oltre due secoli di storia il luogo di ritrovo per eccellenza di musicisti e cantanti di giacca, ossia vestiti sempre con giacca, cravatta, cappello e tutto ciò che proponeva la moda maschile dell’epoca per impersonare il guappo, ossia il temuto reuccio del quartiere. Ai tavoli di questo caffè, Gabriele D’Annunzio scrisse la celebre canzone ‘A Vucchella mentre Giacomo Leopardi riempiva di pensieri lo Zibaldone gustando i gelati offerti dalla casa.
Leopardi oggi giace proprio a Napoli, di fronte al suo amato mare, a poche centinaia di metri dal più noto poeta dell’antichità latina: Virgilio. Sarà per questo che si dice: “Vedi Napoli e poi muori”, non come malaugurio bensì come certezza di aver visto, insieme a questa città, un vero angolo di cielo, come si canta nella canzone Dduje paravise e come ebbe a dire anche il filosofo Benedetto Croce, seppur aggiungendo che questo fosse “abitato da diavoli”.
Un tour tra la città vecchia e la città nuova
Se volete fare un giro per Napoli, però, evitate di cedere alla tentazione di cercare l’estetica del brutto come fanno il turismo di Gomorra e di Mare fuori. Partite dal mare. Quello che si può godere in libertà passeggiando su via Partenope, immergetevi nella bellezza del Borgo Marinari che sorge intorno al Castel dell’Ovo, risalite le vie di Napoli nobilissima verso piazza dei Martiri e via Chiaia o salite le rampe di Pizzofalcone, dove su questo scoglio noto come Monte Echia si stabilirono i primi insediamenti della città di Palepoli. Passate poi alla Neapolis dei cardi e dei decumani: via dei Tribunali, San Lorenzo Maggiore, San Gregorio Armeno, via Duomo e lasciatevi affascinare dal culto di San Gennaro e da quello della meno nota Santa Patrizia che scioglie il sangue ogni venerdì. In questo tour alla scoperta della bellezza, oltre a fermarvi al celebre Cristo velato o a cercare il murales di Maradona, la cui storia è tutt’altro che poetica ma che comunque rappresenta bene la vitalità cittadina, fate un giro alla reggia di Capodimonte
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e al suo immenso bosco, nel cui Giardino Torre fu cotta la pizza per la regina Margherita (fatte salvo voci contrarie a tale ipotesi che iniziano a circolare oggi ma che sono tutt’altro che fondate) e non disdegnate una passeggiata al quartiere Vomero, un tempo luogo di coltivazione dei friarielli, di cui pure parliamo in questo numero.
La città del cibo
E dove mangiare qualcosa di buono?
Da qualche anno, ovvero dal doppio mandato di Luigi De Magistris come Sindaco, Napoli si è trasformata in una città che accoglie turisti tutto l’anno e allora bisogna sapersi districare tra le innumerevoli proposte. Su via Toledo, dove un tempo i Borbone e i Viceré allestivano la festa della cuccagna per ingraziarsi il popolo, oggi sorgono friggitorie a cielo aperto ad ogni angolo. Tra i primi, però, a scommettere su questo pezzo di strada, trovate ai due estremi “Vaco ‘e pressa” a piazza Dante con tante tipicità da gustare e “zia Esterina”, il fortunato format di Gino Sorbillo dedicato alla sua prozia e alla pizza fritta in piazza Trieste e Trento. Poco distante da piazza Dante, in via
Port’Alba, la strada sorta in una notte perché i Napoletani decisero di collegare due luoghi della città troppo importanti per compiere un giro lungo prima di arrivarci, sorge quella che (fino a prova contraria) sembra essere la più antica pizzeria cittadina: Port’Alba, regno di Gennaro Luciano. A pochi passi, salendo via Tarsia e percorrendo via Bracco, vi troverete sulla via Pignasecca dove avrete l’imbarazzo della scelta tra il mercato dei freschi, i tarallari (sebbene il consiglio sia quello di assaggiare i prodotti di “Leopoldo” e “Taralleria napoletana”, poco distanti), i trippai e ovviamente le pizzerie e le “cantine” (osterie) come “Al 22” e “Da Attilio” che sapranno deliziarvi con i cibi tradizionali. All’uscita di via Pignasecca, continuate pure a percorrere Spaccanapoli e vi imbatterete in via Benedetto Croce dove incontrerete in piazza San Domenico Maggiore la celebre
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pizza e pasta italiana settembre 2023
L’ORIGINALE PINSA ROMANA
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LE FARINE
LE BASI
pasticceria “Scaturchio” presso cui gustare un superbo Ministeriale, un dolce dal sapore antico e contemporaneo insieme. Facendo un salto al Vomero attraverso le funicolari che dal centro giungono al quartiere alto della città, potrete poi scegliere di fermarvi a pranzo in una storica trattoria, Donna Teresa, dove respirerete il vero gusto della gastronomia partenopea: alici fritte, provola impanata, pasta e patate solo per fare alcuni esempi. A pochi passi da lì, la celebre friggitoria Vomero saprà poi deliziarvi con le sue “zeppole e panzarotti”. Se invece cercate una cucina più contemporanea, non lasciatevi scappare l’occasione di una cena nella stupenda location di Palazzo Petrucci a cura dello chef Lino Scarallo. Troppo aulica per i vostri gusti? A Napoli non avrete che da chiedere: la cucina di Umberto in via Alabardieri saprà accontentare tutti i palati. Napoli, però, è anche (e forse soprattutto) terra di grandi dolci: la sfogliatella,
il babà, la Santarosa sono in ogni dove (e con costi più che accessibili) ma forse un must della città è rappresentato dal biscotto amarena, dolce di recupero delle pasticcerie partenopee che, al martedì, mettevano insieme i dolci avanzati alla domenica e, aggiungendo le amarene, creavano questo straordinario prodotto, tutto da assaggiare.
La pizza storica
Alla fine di questo giro, resta una domanda. Ma se voleste assaggiare una pizza “storica”, nel senso proprio di quelle che hanno fatto la storia, dove andare? C’è una proposta che arriva da Casavatore, nell’hinterland partenopeo. Il locale si chiama Farinati e il pizzaiolo Renato Ruggiero ha inventato questa chicca grazie a un team di esperti pizzaioli che ha studiato le cronache dei secoli passati: la “pizza storica”, per l’appunto, che riunisce nel gusto
quattro secoli di sapori. Il ‘600, che s’ispira alla pizza che mangiavano i marinai, con sugna, pecorino, aglio, origano e con l’aggiunta di una licenza moderna del pizzaiolo, come il pomodoro infornato; il ‘700, con un omaggio a Gioacchino Murat (ma a dire il vero anche ad Alexandre Dumas padre che la celebra nel secolo successivo ne Il corricolo), che amava la pizza con “cicinielli” (bianchetti), sugna, aglio, origano e anche qui con l’aggiunta del pizzaiolo di pomodorini gialli; l’800, che porta la pizza del popolo ovvero una Marinara all’ombra e, infine, il ‘900 che porta il gusto della borghesia ovvero la classica Margherita. Come si dice da queste parti: “Favurite”, ovvero “Buon appetito”.
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I NUOVI MANAGER DELLA RISTORAZIONE
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domani
di Giampiero Rorato
Ristorazione
Nel mondo della ristorazione stanno cambiando molte cose come cerco di raccontare da tempo in questa mia rubrica, anche se il cambiamento è molto lento, perché c’è chi opera come nei decenni scorsi e c’è chi si è già organizzato per affrontare da protagonista il futuro. Chi ha la responsabilità di un ristorante – e ciò riguarda anche il mondo delle pizzerie – non può più limitarsi ad affidarsi ciecamente ai fornitori abituali, perché la responsabilità di quanto avviene nel ristorante e nella pizzeria è del titolare e
non può più, almeno dal punto di vista etico e legale, scaricarla sui fornitori. Il vero responsabile del ristorante – della qualità dei prodotti che acquista, dei piatti che la cucina prepara e di tutto ciò che serve ai clienti – è il titolare. E non basta più che in cucina abbia un bravo cuoco e dei capaci aiutanti; non basta più che in sala abbia dei bravi camerieri o un maître esperto e collaudato; non basta più che abbia un sommelier diplomato. Questo era in passato, ma oggi e ancor più domani, sarà molto diverso.
IL MANAGER DELLA RISTORAZIONE LA BUROCRAZIA
Il titolare – o chi legalmente ne fa le veci – deve allora essere un serio e bravo manager, cioè deve sapere gestire totalmente la sua attività, non solo stabilire i costi di ogni piatto e di ogni vino e di quant’altro viene servito ai clienti, perché questo avveniva in passato. Il titolare/manager del ristorante e della pizzeria non basta che sappia rapportare i costi di quanto serve ai clienti ai costi della materia prima che acquista, valutare il totale delle buste paga del personale che lavora, considerare i costi delle bollette (acqua, energia elettrica, gas, telefono, ecc.), dell’affitto, ecc. non dimenticare la necessità di un equo guadagno che copra anche i momenti di magra. Questo avveniva già in passato, ma oggi non basta più.
In questi ultimi decenni poi, sono uscite nuove leggi che regolano con severità l’aspetto igienico-sanitario del locale, dalla cantina, ai magazzini, ai frigoriferi, alla cucina, alle sale da pranzo, allo stesso ambiente che ospita il ristorante o la pizzeria, incluso tutto il personale che vi lavora. Ed è “obbligatorio” che il titolare conosca tutta questa legislazione per non incorrere in guai quando arrivano gli ispettori dei vari enti preposti (Ulss, Carabinieri, Guardia di Finanza, Capitaneria di Porto, Agenzia delle Entrate, ecc.) ciascuno competente per un settore e, magari, ispettori di più enti arrivati a controllare il medesimo settore. Si dirà, e concordo, che, spesso, c’è una burocrazia soffocante e questa è una piaga antica perché la burocrazia è più facile che cresca piuttosto che diminuisca.
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Ristorazione domani
E ci vorrebbe, come molti richiedono, una forte presa di posizione unanime dei sindacati del settore capaci di aprire un serio tavolo di trattativa con il Governo nazionale, se non altro per far conoscere a chi governa la situazione spesso difficile e soffocante in cui si trova il mondo della ristorazione.
Sarà possibile?
LA MATERIA PRIMA
Certo non basta conoscere la varia, ricca e complessa legislazione di settore, a volte astrusa e diversamente interpretabile, e già questo è molto difficile alla maggioranza dei titolari del mondo ristorativo, perché c’è dell’altro, molto altro. In primis c’è la materia prima che entra nel ristorante e nella pizzeria. Oggi l’organizzazione produttiva, industriale e commerciale mette a disposizione di ristoratori e pizzaioli tutto ciò di cui hanno bisogno, proponendo persino contratti per luce, gas, ed altro.
Dipende dal risveglio delle categorie interessate e soprattutto delle associazioni del mondo ristorativo finalmente capaci di alzare la voce come si conviene, anche se è vero che non sono mai silenti. Ma di risultati, in verità, se ne vedono pochini. Come può fare il titolare a muoversi sicuro di non sbagliare in questo ginepraio di leggi e regolamenti, a volte interpretati in modo diverso dagli enti controllori?
Già conoscere la materia prima necessaria per far funzionare bene un ristorante e una pizzeria non è facile. Perché non tutti sanno, ad esempio, le differenze varietali dei grani da cui derivano le farine che acquistano; non tutti sanno poi cosa significa esattamente la dizione “grano italiano” (che, spesso, italiano non è); non tutti conoscono le differenze qualitative fra un olio evo prodotto da un frantoio umbro o marchigiano o campano da un olio evo di origine EU (Unione europea, si legge spesso in etichetta). E lo stesso si può dire delle carni, del pesce, della frutta e della verdura e di ogni altro prodotto che entra in un ristorante e in una pizzeria.
Se il maître o il cameriere deve illustrare pur sinteticamente un piatto al cliente curioso – e i clienti curiosi sono tanti e sempre di più – deve conoscere tutto dei prodotti che entrano in cucina e anche qui ci vuole una preparazione precisa e ripetuta quotidianamente nei famosi “briefing” ormai sempre più diffusi nel mondo della ristorazione.
Ma il titolare conosce davvero – al di là del costo e di una sommaria qualità - i prodotti che entrano in cucina e in pizzeria?
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Ristorazione domani
IL MANAGER DELLA RISTORAZIONE
Come in ogni attività produttiva e commerciale oggi c’è la figura professionale del manager (attualmente si usano per questa professione titoli in lingua inglese, ma noi restiamo al generico “manager”), un direttore generale responsabile della produzione o della vendita lo stesso dovrebbe essere nel mondo della ristorazione.
Risposta immediata: ma chi può sottoporsi a questa nuova spesa, peraltro non proprio modesta?
Verissimo. Per quanto riguarda l’aspetto contabile e fiscale ormai ogni ristorante e pizzeria si avvale di un commercialista di fiducia, ma per la qualità dei prodotti e dei piatti?
Da tempo le università preparano dei professionisti sempre più esperti e aggiornati con il diploma di laurea in “Scienze della nutrizione umana” detti anche “Bionutrizionisti” che conoscono molto bene gli alimenti o hanno i mezzi per conoscerli bene, anche i più nuovi e in più, sanno come devono essere sia i menu che le diete
serie per raggiungere i risultati che desidera chi entra in un ristorante, senza farsi del male. E cioè gustare cibi sani, buoni, nutrienti, emozionanti e sazianti, uscendo dal ristorante leggero e felice.
Credo che questa sia una professione in grande sviluppo e questi specialisti, davvero importanti, possono collaborare ottimamente e proficuamente con ristoratori, cuochi e pizzaioli perché possano essere protagonisti nella ristorazione già oggi e negli anni che verranno.
Questa rivista ha fra i suoi collaboratori una affermata ed esperta biologa nutrizionista, la dott.ssa Marisa Cammarano i cui articoli – invito i lettori a leggerli sempre con molta attenzione – rappresentano un forte contributo per i ristoratori, i cuochi e i pizzaioli che desiderano attingere ai prodotti migliori offerti dal mercato e preparare piatti pienamente appaganti per i clienti.
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MOLINO PASINI SPA
T. 0376 969015
M. info@molinopasini.com
Dalla collaborazione con Molino Pasini nasce la farina di Ian Spampatti
Classe 1998, a soli 16 anni Ian ha aperto insieme alla sua famiglia la pizzeria “La Lanterna” in provincia di Bergamo: una storia fatta di passione, talento e voglia di crescere. Due anni dopo ha trionfato a Master pizza chef come “miglior pizzaiolo d’Italia”. E negli ultimi due anni ha ottenuto due prestigiosi riconoscimenti che attestano come il suo percorso di crescita l’abbia portato in una posizione di eccellenza: nel 2020 Ian è stato menzionato nella guida Gambero Rosso come miglior pizzaiolo emergente e nel 2021 la sua è stata inserita tra le migliori pizzerie della Lombardia 2021, sempre secondo la Guida del Gambero Rosso. Ma Ian ama sperimentare e non si limita alla sola pizza: i suoi lievitati dolci sono ormai un tormentone social, dal panettone alla colomba pasquale.
Con che cosa prepara le sue creazioni?
Con una farina creata proprio in collaborazione con Molino Pasini, e alla quale il giovane pizzaiolo ha voluto dare il suo nome: la farina Ian Spampatti è una tipo “0” adatta a lunghe lievitazioni, che si presta ad un utilizzo diversificato in pizzeria, panificazione e pasticceria, disponibile in sacchi da 10 kg in carta kraft. È una farina tecnica, perfettamente lavorabile, con un glutine ben strutturato ed elastico e, nonostante sia una farina di forza, mantiene una grande masticabilità del prodotto finito. Ian spiega così la scelta di adottare questa farina, e di metterla a disposizione anche dei colleghi: “Dopo un periodo in cui il numero delle referenze è cresciuto in maniera esponenziale, penso sia necessario fare un passo indietro. Dal mio punto di vista, che è condizionato dalla mia formazione di cuoco, occorre sempre partire dalla materia prima e “plasmarla” per ottenere i prodotti che vogliamo”.
LE AZIENDE INFORMANO
www.molinopasini.com
Un pizzaiolo simpatico, abilissimo, sorridente e una nuova referenza per pizza
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dAntonioPace,Presidente dell’AssociazioneVeracePizza N a pol et a n a
hCuocere il Futuro
Èdi qualche mese fa la notizia della scoperta di un affresco, nel sito archeologico di Pompei, che sembrerebbe a tutti gli effetti raffigurare un’antenata della pizza come la conosciamo oggi. Un prodotto antico ma che, al tempo stesso, ancora più di altri sembra proiettato a grandi passi in questo terzo millennio. Interessante quindi approfondire tematiche e considerazioni sul futuro della pizza con Antonio Pace, presidente di AVPN, l’associazione che da quasi quarant’anni promuove e tutela la pizza napoletana nel mondo.
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a cura della redazione
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Come immaginiamo il futuro della pizza?
Sicuramente in costante evoluzione. Direi anche un futuro sempre più internazionale, perché ormai la pizza gode di una sorta di diritto di cittadinanza in tutte le parti del mondo. Il nostro lavoro in quasi quarant’anni è stato anche quello di promuovere la pizza tradizionale e abbiamo riscontrato come questa sposi i gusti di popolazioni anche molto lontane da noi.
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In un mondo in continua evoluzione, possiamo dire che AVPN rappresenta una sorta di sentinella per il rispetto di alcune regole?
Partiamo da un concetto: la pizza è una specie di vestito sartoriale. Con il disco di pasta che rappresenta la base sulla quale possiamo lavorare in relazione ai prodotti e alle esigenze alimentari dei diversi Paesi.
Il che significa che possiamo prendere in considerazione l’uso di prodotti dei diversi luoghi anche in sostituzione di quelli classici della nostra tradizione?
Nell’immaginario collettivo, quando si parla di pizza, si pensa alla Margherita e alla Marinara. Ma perché dobbiamo escludere la possibilità di una pizza fatta con altri prodotti a patto che il disco venga fatto secondo i canoni? 29
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Quindi regole precise e condivise sul disco e una maggiore libertà sul topping?
Il concetto di pizza napoletana è strettamente collegato al processo produttivo che va dall’impasto fino alla cottura. Del resto, i nostri nonni già proponevano tanti tipi di pizza diversi, spesso legati ai prodotti per loro più facilmente reperibili.
A questo punto, continuiamo sul versante dell’allargamento degli orizzonti. Cosa mi dice sui forni?
Per quanto riguarda i forni, siamo stati i primi a spingere sulla creazione di un forno a gas e di un forno elettrico in grado di garantire gli stessi risultati di un forno a legna con inoltre un’innegabile facilità di utilizzo. Ci è sembrata quindi la scelta più intelligente quella di mettere la nostra esperienza al servizio di chi, seppure con strumenti diversi dal passato, desidera produrre una pizza napoletana di livello.
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Domanda difficile ma che non possiamo non fare, visto che stiamo parlando del futuro della pizza. Lei come immagina le pizzerie del futuro?
Uno dei grandi vantaggi della pizza è quello di essere un prodotto molto duttile, che sa adattarsi a tempi e luoghi diversi. Per fare un esempio, uno dei miei sogni era quello di vedere la pizza napoletana avere un ruolo importante all’interno dei grandi ristoranti. Ai tempi, questa sembrava un’eresia. Oggi la pizza è un fattore attrattivo anche all’interno degli stellati, degli alberghi extra lusso, dei resort più esclusivi. Quindi, per rispondere alla sua domanda, la pizzeria del futuro potrà avere tante caratteristiche e, in ogni caso, la pizza ne resterà la protagonista.
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5AVPN, tra i vari meriti, ha anche quello di essere un punto di riferimento nell’ambito dei corsi professionali. Nel futuro dell’associazione
c’è l’immagine del pizzaiolo che, oltre ad essere un artigiano della pizza, debba essere un manager e quindi con dei corsi specifici in tal senso?
Dopo aver descritto il mestiere e l’arte del pizzaiolo, in sede Unesco, attraverso il nostro disciplinare è evidente che già oggi si debba fare un salto in avanti e non si possa più pensare al pizzaiolo semplicemente come uno in grado di sfornare nuove pizze ma serve lavorare su marketing e comunicazione, in modo da creare una generazione di manager. Dei professionisti in grado di sviluppare un concetto di azienda senza dimenticare che da sempre le pizzerie hanno avuto un ruolo sociale nel tessuto territoriale. A dire il vero, noi di AVPN già da tempo abbiamo inserito nei nostri corsi elementi di marketing e comunicazione. Un percorso che, in un prossimo futuro, andremo a intensificare con la creazione dell’AVPN Business School, anche perché riteniamo che questo sia il modo corretto per avvicinare le nuove generazioni a questo antico e bellissimo mestiere.
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Unicredit, un sostegno di alto profilo per la filiera della pizza napoletana
Come il prestigioso gruppo bancario italiano stia mettendo in campo una serie di iniziative a sostegno del comparto agroalimentare ce lo racconta Ferdinando Natali, Responsabile per il Sud di UniCredit Italia.
UniCredit, gruppo bancario leader in Italia, ha da tempo investito sulla impresa artigianale del nostro Paese e, in particolare, sul settore agroalimentare, perché questa scelta?
UniCredit è da sempre attenta alle esigenze di ogni comparto. Anche recentemente abbiamo lanciato una nuova edizione del piano “UniCredit per l’Italia” che prevede per le imprese alcune importanti misure tra cui un plafond da 6 miliardi di euro per nuovi finanziamenti destinati a sostegno delle imprese del turismo, di quelle operanti nelle Zone Economiche Speciali (ZES) italiane e delle eccellenze del Made in Italy, tra cui figura sicuramento il comparto agroalimentare a cui come UniCredit riserviamo anche iniziative dedicate.
Quali servizi mette a disposizione UniCredit per gli imprenditori del settore? L’agroalimentare ha per noi una valenza tale che ci ha portato a mettere a punto un’iniziativa specifica denominata ‘UniCredit per l’agricoltura’ che prevede sia i finanziamenti a breve termine — ad esem-
pio quelli per sostenere il ciclo produttivo — sia i finanziamenti a medio-lungo termine per investimenti come l’acquisto di macchinari o di bestiame. A ciò si aggiungono gli strumenti di finanza alternativa, per l’agroalimentare abbiamo strutturato una iniziativa settoriale, il “Bond Food Mezzogiorno”: è il primo programma di emissione di minibond, nato in collaborazione con SACE e Nativa per finanziare i piani di sviluppo di medio-lungo termine legati alla crescita sostenibile e internazionale delle imprese agroalimentari del Sud. L’iniziativa ha coinvolto 17 imprese e le risorse complessive raccolte sono state pari a 65,8 milioni di euro.
È nata da poco la collaborazione con l’Associazione Verace Pizza Napoletana, che è il punto di riferimento per la pizza più famosa del pianeta. Perché questo accordo?
È un accordo importante, nato per sostenere tutta la filiera della pizza napoletana che è un patrimonio non solo della cultura partenopea ma dell'intero Paese. La collaborazione stabilisce una serie di condizioni agevolate per l’apertura di nuovi conti correnti, oltre a canoni e commissioni dedicate per i servizi Pos. Questa iniziativa conferma la volontà della banca di sostenere le migliori eccellenze enogastronomiche del territorio.
LE AZIENDE INFORMANO
SPA
www.unicreditgroup.eu UNICREDIT
MILANO T. 02 88621
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La firma dell'accordo tra Associazione Verace Pizza Napoletana e Unicredit
Ferdinando Natali, Responsabile per il Sud di UniCredit Italia
storie di pizza
FORCELLA LA PIZZA FRITTA DI VINCENZO DURANTE
Noemi Caracciolo
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PER RAGGIUNGERLA.”
HERMANN HESSE
Il protagonista di questa storia ha fatto della volontà la sua forza motrice: la vita pone sempre degli ostacoli sul cammino di ognuno di noi, il tutto sta nel saperli superare. E lui lo sa. Nato e cresciuto a Forcella, un quartiere napoletano al contempo bello e complicato, Vincenzo Durante è titolare della pizzeria “1947 Pizza Fritta” che si distingue per una gran varietà di gusti e proposte. Il suo interesse però, non si limita al buon cibo ma anche al tentativo di preservare la comunità e l’ambiente che lo circondano. Come vedremo, infatti, Vincenzo è membro attivo di molte associazioni, compresa Slow Food.
Ricordi la prima pizza che hai fritto? Raccontami le origini di questa passione.
Ciò che sto per raccontarti rispecchia la pura realtà, è la stessa cosa che dico ai clienti e ai turisti. Le origini di questa passione risalgono alla mia adolescenza: la domenica mattina facevo colazione con la pizza fritta e poi andavo a giocare a calcio con gli amici. Mia zia alle 7 del mattino urlava dal vicoletto: “svegliatevi, ‘a tengo bionda bionda”, un doppio senso molto napoletano che è poi diventato il mio slogan. Non era una buona abitudine fare colazione in quel modo ma lo facevo, come ogni adolescente nato e cresciuto in quel quartiere.
Le mie prime esperienze le ho vissute con la famiglia di mia moglie che è nella ristorazione, ma non mi sono innamorato subito della pizza fritta: in realtà ho iniziato come rosticciere. Ho aperto la prima attività nel 2002 a Fuorigrotta per poi successivamente aprire a Forcella, nel mio quartiere: facevo pizza al taglio, friggitoria, panini… un po’ di tutto. Dopo il primo locale dedicato alla rosticceria e chiuso nel 2011, ho fatto il gioielliere per quattro anni. Una domenica sera del 2009 ho subito un agguato. Un’esperienza terribile, ferito con arma da fuoco e in convalescenza per diversi mesi; ecco perché ho lasciato. Il pensiero però era sempre fisso sulla pizza. Quando ho aperto nel 2014, ho deciso di creare un locale improntato su ciò che mi sembrava più spontaneo e naturale: la pizza fritta. Non essendo specializzato nel settore decisi di affidarmi a qualcuno che lo fosse: Vincenzo Vietri, detto “capa bianca”. Non ti nascondo che quando ho aperto e c’era Vincenzo con me, molte persone venivano perché conoscevano lui. Dopo un mese dalla mia apertura, Gino Sorbillo stava aprendo la prima “Zia Esterina” a Piazza Trieste e Trento. Vincenzo andò a lavorare da lui e questo mi diede conferma del fatto che le mie scelte, sia in termini di pizza che di collaborazione, erano state giuste. In ogni caso, sono stato il primo a Napoli a svegliarsi una mattina e decidere di aprire un locale dedicato solo alla pizza fritta.
“QUANDO
UOMO RIVOLGE TUTTA LA VOLONTÀ VERSO UNA DATA COSA, FINISCE SEMPRE
La tua pizzeria si chiama “1947 pizza fritta”, è ormai chiaro che non è la data di apertura, ma ha un significato specifico?
Quando ho deciso di intraprendere questa strada, come tutti gli imprenditori – anche se io non mi ci sento – la prima cosa alla quale ho pensato è stata il nome. Visto che conoscevo la mia storia vissuta, ma non quella storica, mi sono documentato. Wikipedia dice una cosa molto importante: “la pizza fritta è una pizza tipicamente napoletana, anzi, forse è la più tipica delle pizze napoletane” e continua dicendo che era molto diffusa tra il 1945 e il 1947. Si sa: le donne si mettevano fuori ai bassi e friggevano questi dischi di pasta per fare un po’ di soldi. Il 1947 è l’anno di nascita di mio
Forcella è un quartiere simbolo di napoletanità, storia e buon gusto ma le facce della medaglia sono sempre due... Tu ne sei fortemente consapevole e ciononostante sei rimasto lì, tenendo fede alle tue origini e battendoti per esso. Hai mai pensato di andar via?
Forcella è un quartiere in rispolvero, io stesso partecipo a diverse iniziative per migliorarlo. Per esempio, in uno dei posti più degradati, dove prima c’era la spazzatura, oggi c’è un mercatino. Dalla cooperativa “Manallart” (in mano all’arte) all’associazione dei commercianti, tra cui Martone, Michele, il Trianon e la Gelateria Polo Nord, siamo tutti impegnati – anche la mia famiglia – soprattutto per fatti di cronaca riguardanti il passato. La storia di Annalisa non mi piace raccontarla, ma la conoscono tutti. Quando mia moglie era incinta, incontrammo mia nipote proprio nel posto
Inizialmente avrei voluto chiamarla come mia madre, Carmela, ma poi è successo quel che è successo e l’ho chiamata Annalisa. Questa è ovviamente una cosa molto legata ai lati negativi di cui parlavamo, quindi rispondo “sì” alla tua domanda: ho pensato di andar via molte volte. Ma sono sempre stato molto combattuto al riguardo, non riesco a sentirmi in un punto fisso, però combatto comunque. L’essere molto legato a qualcosa ti porta ogni giorno a metterti in discussione. Io ogni mattina mi sveglio e il primo pensiero è: “cosa posso fare per migliorare le cose?”.
So che fai parte dell’Alleanza
Slow Food, dimmi, cosa ti ha spinto in questa direzione e quali sono i vantaggi a parer tuo?
Già prima di entrare a far parte dell’Alleanza, senza volerlo, avevo una “condotta slow”. Ho sempre selezionato aziende che ne facevano parte, puntavo su prodotti di eccellenza campana, sulla ricerca e poi sono un maniaco sul “discorso rifiuti”. Prima che scoppiasse la pandemia, con l’Associazione Annalisa Durante di Forcella, abbiamo avuto l’occasione di fare un percorso insieme al Parco Letterario del Vesuvio Legambiente, Slow Food nelle zone vesuviane, con Nio, Maria Lionelli, Paola Silvi, Giosuè Silvestro e abbiamo iniziato con la formazione; poi, con altri ristoratori di Forcella, facevamo incontri in cui si parlava di pomodoro, mozzarella, olio, ambiente. Questo percorso ha portato alla nascita di una bella comunità. Rispetto ai vantaggi, in realtà non sono tanto importanti quelli quanto le soddisfazioni che ho avuto. Il mio studio è stato molto limitato, quindi sono felice di poter fruire anche della conoscenza di altri. Quando parlo con determinate persone imparo tanto, sono inondato dalla loro conoscenza e questo mi affascina molto. Cerco di imparare il più possibile.
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Soprattutto sui prodotti…
Su tutto. Ho conosciuto Don Federico Battaglia a Somma Vesuviana: è una persona impegnatissima con il recupero dei giovani e dei senzatetto. Con lui e altri stiamo facendo un bel lavoro. Anche questo è Slow Food, non solo cibo. Sì, va bene il “buono, pulito e giusto” ma c’è anche il “per tutti” che significa anche inclusione. Noi siamo impegnati tutti i giorni e facciamo quello che possiamo senza stancarci.
Due pizze fritte a cui non dovrei proprio rinunciare e che mi consiglieresti di assaggiare?
Dimmi perché e come sono fatte.
Necessita una premessa. Nella mia vita ci sono due tasti dolenti: uno riferito alla nascita della pizzeria nel 2014, quando ho aperto tutti dicevano “ma chi se la mangia? Nessuno!”. Sappiamo com’è andata in realtà; hanno lavorato con me Isabella De Cham, Emanuele Graziano che oggi sta da Sorbillo e qualche altro giovane. Oggi con me sul banco c’è Carmine Calise, è arrivato quando aveva 17 anni, il classico scugnizzo di Forcella – in senso buono ovviamente – che faceva le consegne e oggi ha un contratto come pizzaiolo. Non è il primo e non sarà nemmeno l’ultimo a cui ho dato questa opportunità, io credo molto nei giovani.
Il secondo punto dolente riguarda le pizze. Con chiunque parli la classica pizza fritta è quella con ricotta, cicoli, provola, pepe e una fogliolina di basilico. Io smentisco tutti.
Il ripieno della classica è un altro. La storia dice che la pizza fritta di una volta era semplicemente impasto, sugna e una fogliolina di basilico. Solo in un secondo momento è nato il mito di quella che oggi viene considerata “classica”.
Come facciamo allora ad avere una certezza? Bisogna intervistare gli utenti. Io ti dico che più dell’80% dei napoletani chiede la pepe, cicoli, provola e pomodoro, senza ricotta.
Il fatto che il popolo scelga un determinato prodotto è ciò che ne fa un prodotto, appunto, popolare. C’è da sfatare un mito a mio parere.
Quindi mi faresti assaggiare quella…
Sì, la senza ricotta con provola, pepe e pomodoro. Sul menù non c’è scritto, io la chiamo “Furcella”. Per la seconda proposta, cercherei di capire i tuoi gusti. Probabilmente ti proporrei qualcosa senza carne considerato che avresti già mangiato quella con i cicoli.
Una alla quale sei proprio affezionato?
La Faccia Gialla, l’ho chiamata così per San Gennaro. Questo era uno dei suoi tanti nomi per il colore del volto del busto conservato nel Duomo di Napoli. Visto che per ogni cosa che faccio ci sono sempre un significato e un motivo, ho pensato a ingredienti che richiamassero il giallo: pomodorino giallo, provola (ingrediente base della pizza fritta) e un po’ di peperoncino. I gusti più forti restano più facilmente nella mente e il piccante crea un bel contrasto con la dolcezza del pomodorino. Poi, una bella grattugiata di cacioricotta salata, un formaggio che arriva da Avella e via. Nel concreto è molto semplice, ma è davvero buona.
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qui sopra La pizza Faccia Gialla
Elogio della frittata di maccheroni
Cosa mangiate voi quando fate un picnic? Panino, tramezzino, insalatona? E in spiaggia? Granita, gelato, bibitone, smoothie?
Noi no: noi Napoletani siamo diversi, noi mangiamo ‘a frittata ‘e maccarune, il cui solo nome è in grado di riempirti la bocca. Un prodotto che iniziamo a gustare sin dalla sua preparazione perché si potrebbe dire che il rito della frittata è esso stesso frittata. Quando, da bambino, andavo al mare o a fare una scampagnata (sciampagnata, si dice dalle mie parti), la preparazione iniziava la sera prima con questo prezioso rituale della cottura e successiva frittura degli spaghetti.
Ma cos’è la frittata di maccheroni?
È sostanzialmente un piatto della cucina di recupero, che sembra facile da realizzare ma invece richiede arte, nel senso greco di tecnica. Una mia amica grande appassionata di cucina ci ha provato a farla ma le è venuto fuori un papocchio, perché bisogna capire quando è il momento giusto per aggiun-
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di Nio
gere l’uovo, quando quello per girarla all’interno della sartania (padella), quando è il momento di mettere un po’ di pepe e/o di formaggio e quando la crosta è diventata croccante ma il cuore è ancora morbido per lasciar deliziare i sensi. Solo in quel caso è veramente pronta. Si tratta dunque di un piatto strutturalista in cui si celebra la coincidenza degli opposti. Nasce nelle case di Napoli quando gettare il cibo era “peccato” (dovrebbe esserlo ancora oggi) perché in casa c’era tanta gente, anche quando abbiamo smesso di fare tanti figli perché da noi non si mangia mai da soli. Di fronte alla povertà delle materie prime c’erano dunque due strade quando avanzava la pasta: fare come Totò che in “Miseria e Nobiltà” si mette gli spaghetti nelle tasche oppure riscaldarla alla sera e al giorno dopo. E la pasta riscaldata non è come la “minestra riscaldata” che metaforicamente perde il sapore: la pasta riscaldata lo esalta, come ben racconta Eduardo De Filippo in “Sabato, domenica e lunedì” e come sanno tanti chef, a partire da Peppe Guida che, nel suo locale “Nonna Rosa”, a Vico Equense, ha fatto della pasta e fagioli riscaldata in padella uno dei suoi cavalli di battaglia.
Ma perché la pasta riscaldata
Perché noi aggiungiamo l’olio, “le macchie ce le facciamo con l’olio”, diceva sempre Totò in “Miseria e nobiltà”. E la frittura sa rendere tutto più saporito, anche i morsi della fame e i rimorsi della coscienza. Va tuttavia detto che la frittata
di maccheroni è la reinvenzione popolare di un piatto nobile: lo scammaro che veniva preparato durante i giorni di magro, quelli della Quaresima, da quei monaci che, per problemi di salute, mangiavano in camera (‘a cammara) perché erano esentati dal digiuno ma, nel contempo, non dovevano destare tentazione per gli altri confratelli: erano dunque scammarati ossia fuori dalla camerata e dentro la loro stanza.
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è così buona?
A parlarci per la prima volta di questo piatto è Ippolito Cavalcanti, meglio conosciuto come il duca di Buonvicino ed autore del famosissimo ricettario di cucina partenopea intitolato “Cucina Teorico Pratica” del 1837. La differenza tra le due “frittate” sta soprattutto nel fatto che lo scammaro non è affatto un piatto di recupero, tanto è vero che vi è anche l’uva passa, rinomatamente un prodotto per tavole “da re”. Non lasciatevi però fuorviare
dal nome: si chiama frittata di maccheroni ma si usano gli spaghetti per prepararla. Maccheroni è infatti stato per lunghissimo tempo il nome generico per definire la pasta e ancora oggi in America del Nord il grano duro, usato per preparare appunto le paste alimentari, si chiama Macaroni wheat. L’origine è da maccus, termine latino che vuol dire pestato e che deriverebbe da makaria, il cibo consolatorio preparato con l’orzo che veniva usato per lenire il dolore dei lutti. Non a caso a Napoli si parla ancora oggi di consolazione felice quando si gusta un piatto davvero buono. Macco era però anche una maschera delle Atellane, un mangione grassoccio antesignano di Pulcinella che è rinomatamente un gran mangiatore di spaghetti.
Oltre a quella fatta in casa, esiste anche “l’altra frittata”, più nota ai turisti, quella delle pizzerie. In questo caso, la cosiddetta “frittatina” è raccolta nella pastella, un impasto liquido di acqua, farina, sale e lievito da cui si ottengono anche le “zeppole”, ossia le frittelle / pastecresciute delle friggitorie napoletane. La pastella un tempo era fatta con l’aggiunta di bicarbonato per renderla effervescente mentre oggi, nel revanscismo tipico della cucina di recupero, si usa l’acqua minerale.
Quando ero bambino io, l’unica domanda che mi faceva la mamma per la frittata di maccheroni era: bianca o rossa?
Ossia aggiungo o no il pomodoro?
Sale, pepe e uovo c’erano sempre. Oggi, in pizzeria, la trovate anche coi piselli, con salsicce e friarielli e con tutto ciò che “il vostro cuore desidera”.
La mia preferita?
Quella classica, preparata con grande cura, nella pizzeria di Maria Cacialli, nota come “La figlia del Presidente” in via del Grande Archivio. E, come si dice a Napoli, “ve cunsulate”.
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Signora Pizza Il tricolore su quattro ruote a Las Vegas
a cura della redazione 44 pizza e pasta italiana settembre 2023
Non poteva scegliere nome più azzecato per la sua attività Floriana Pastore.
Sì, perché ”Signora Pizza” ti restituisce immediatamente l’idea di chi sia dietro questo progetto: una Donna (con la d maiuscola) che coltiva con cura e premura un’idea imprenditoriale di successo, fatta di tradizione, sapori, profumi e amore per l’Italia. Da Salerno, dove è nata e cresciuta, Floriana Pastore ha potuto arricchire il suo bagaglio di conoscenze frequentando le cucine di chef di tutto il mondo: a Londra, Kerala e Dubai. Trasferitasi poi a Las Vegas, nel 2020 ha deciso di intraprendere con la sua famiglia una nuova avventura creando la prima pizzeria italiana ”su ruote”, Signora Pizza appunto. Un food truck, fornito di forno a legna, per offrire ai clienti il più antico e popoalre street food napoletano.
Portare Napoli nel mondo è qualcosa che fanno in tanti. Portarla davvero in giro su un food truck è più raro. Come nasce questa idea?
L’idea del truck inizialmente è nata dalla concreta necessità di poter essere presenti nei molti eventi organizzati a Las Vegas. L’apertura, però, è coincisa con il lockdown del 2020, in seguito alla pandemia da Covid-19 e così l’attività si è trasformata da presenza occasionale, in eventi particolari, nella quotidiana abitudine di servire i residenti, venendo così incontro a un bisogno specifico della popolazione in quel momento.
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Come scegliete i luoghi in cui portare la vostra pizza?
Abbiamo fatto diverse considerazioni. In primis l’obiettivo è stato cercare luoghi dove i clienti potessero godersi la pizza accompagnata da un buon bicchiere. Per questo collaboriamo con birrerie e vinerie locali che non hanno nella loro proposta cibo ma sono interessate a offrire un’esperienza diversa ai propri clienti. Dopodiché, l’attenzione si è focalizzata sulla ricerca di spazi in zone residenziali dove poter servire e trasformare il truck in una vera e propria pizzeria d’asporto mobile. Siamo rimasti fedeli alle scelte iniziali e frequentiamo sempre gli stessi luoghi ormai da anni.
Dove realizzate l’impasto?
Utilizziamo uno spazio che è un laboratorio dedicato agli impasti oltre che al parcheggio del truck. La città è attrezzata in tal senso, in quanto offre cucine specializzate attrezzate per le preparazioni del cibo destinato ai catering e ai mobile vendors.
Che pizza proponete? Qual è la vostra ricetta?
Principalmente vendiamo prodotti dello street food napoletano come la pizza a portafoglio, la pizza napoletana classica e quella fritta. Inoltre offriamo fritti tipici come arancini, frittatine di pasta, fiori di zucca, senza far mancare i classici angioletti dolci (pasta fritta) conditi con pistacchio o Nutella.
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Quante pizze sfornate al giorno?
Quando non abbiamo in programma eventi, abitualmente usciamo 4 giorni a settimana per circa 4/ 5 ore e mediamente sforniamo 250 pizze al giorno. Invece, nel caso di eventi, quindi calcolando giornate da circa 8/10 ore, arriviamo a sfornare fino a 800 pizze al giorno.
Quale riscontro avete avuto dai clienti?
Abbiamo puntato a voler far vivere ai nostri clienti un’esperienza del tutto italiana mantenendo le tradizioni e offrendo sempre prodotti di alta qualità.
“Signora Pizza Las Vegas” si impegna molto in questo senso ed abbiamo un ottimo riscontro sia dai nostri clienti abituali sia dai nuovi. Inoltre, negli ultimi anni, la ristorazione in America sta dedicando sempre più attenzione alla scelta degli ingredienti per offrire cibi di qualità e quindi il consumatore sta diventando un po’ più consapevole rispetto al passato. Pur essendo complicata la vita di una pizzeria mobile, oggi siamo molto contenti e orgogliosi di essere diventati un punto di riferimento per molti ed essere stati premiati, nel 2022, al “Best of Vegas” come la miglior pizza della città.
La ricetta del nostro successo d’altronde è formata da quattro ingredienti principali: passione, sacrificio, costanza e qualità.
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Anni di storia napoletana
FRANCO MANNA RACCONTA ROSSOPOMODORO
È il lontano 1998 quando nasce a Napoli il brand Rossopomodoro. A dargli i natali sono tre amici: Franco Manna, biologo, l’avvocato Giuseppe Marotta e Giuseppe Montella. Tre percorsi personali e professionali completamente diversi, tre identità che trovano nella contaminazione delle loro esperienze la chiave di volta per un’operazione che sarà per certi versi una svolta nella storia della ristorazione italiana.
In realtà, già dal 1988 avevano cominciato a collaborare per la creazione del brand “Pizza e contorni”, che in dieci anni aveva conosciu-
to un bello sviluppo, fino a diventare una catena di cinque punti vendita. E, all’alba della nascita del sesto punto vendita “Pizza e contorni”, ecco affacciarsi l’idea di un nuovo marchio e la nascita di “Rossopomodoro”. Il format è accattivante, le materie prime sono accuratamente selezionate e in tutti i punti vendita vengono utilizzati gli stessi ingredienti, in massima parte napoletani. Gli arredi sono curati e moderni, il personale è gentile e sorridente, come vuole la tradizione napoletana votata all’accoglienza e come tutti i dipendenti apprendono durante l’iter formativo. A tutti vengono date opportunità
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di Domenico Maria Jacobone e Monica Pisciella
Ingresso Rossopomodoro a Milano, Largo La Foppa 1
di crescita e di miglioramento delle proprie capacità. Nascono punti vendita fuori dalla regione Campania, nel centro storico delle grandi città, nei luoghi che oggi chiameremmo “della movida”. Le vetrine sono ampie e attraenti, ben illuminate e spesso mostrano i primissimi corsi sulla pizza per appassionati, attraendo la curiosità dei passanti e invitandoli a scoprire i locali di questa catena emergente. Preme ricordare che parliamo della fine degli anni ‘Novanta e dei primi anni Duemila e la pizza non aveva ancora ricevuto il riconoscimento Unesco. L’exploit del brand è fragoroso e tale che in una città del Nord addirittura si sussurra il nome di un calciatore famoso come possibile socio della catena. Ormai il successo è inarrestabile. È nel 2006 che la strada di Rossopomodoro incontra quella di Farinetti, patron di Eataly. A raccontarci di questo avvicinamento è proprio Franco Manna, fondatore di Rossopomodoro. “L’incontro con Farinetti fu un momento importante nella storia di Rossopomodoro”, esordisce Manna. “Lui aveva aperto da poco Eataly. Facemmo un accordo che dava a noi la possibilità di aprire le nostre pizzerie Rossopomodoro all’interno degli Eataly all’estero e in cambio noi ci impegnavamo ad utilizzare nelle nostre pizzerie i prodotti di Eataly. Forte di questa partnership, Rossopomodoro poté conquistare diversi mercati stranieri, trovando spazio in diversi Paesi dell’Unione Europea ma soprattutto in USA e Canada.
“Fu importante mantenere grande attenzione alle materie prime, che garantivano di poter servire al tavolo lo stesso livello qualitativo del prodotto in tutto il mondo”
prosegue Franco Manna. “L’altro pilastro fondamentale del nostro modo di concepire i locali riguarda il personale, che è sempre stato al centro della nostra attenzione. La formazione dei nostri collaboratori è sempre votata all’accoglienza tipica dei napoletani, sia in sala che in cucina”.
Sempre nel 2006 Rossopomodoro venne rilevato da un fondo di private equity e successivamente si avvicenderanno altri importanti fondi di investimento. Operazioni che hanno contribuito a generare utili e a far crescere il numero dei locali. Oggi Rossopomodoro può contare su un centinaio di pizzerie che generano un fatturato di 110 milioni di euro, di cui 50 milioni generati da locali gestiti direttamente (di cui 20 milioni sono il fatturato dei negozi presenti all’interno degli Eataly all’estero) e 70 milioni da negozi in franchising. Dopo un lungo periodo di crescita e di successi, a luglio 2022 Franco Manna termina il suo incarico nel Consiglio di Amministrazione. Oggi, con Nicola Saraceno nuovo AD, il percorso di Manna procede nello sviluppo di attività che abbiano anche un risvolto di valorizzazione e riqualificazione del territorio, come la recente apertura della Galleria Navarra Rossopomodoro, un format nuovo all’interno del quale convivono le attività di ristorazione, pizzeria e cocktail bar che sono state inserite in una location unica in zona Chiaia, nel centro di Napoli. Il concept di questo nuovo locale è partito dal lungo lavoro di recupero filologico e di restauro conservativo della struttura, che ha
Franco Manna, uno dei fondatori di Rossopomodoro
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permesso di rendere nuovamente fruibile al pubblico una location storica, inagibile da anni: l’antico “Giardino di Delizie” del Palazzo Nunziante. In questo nuovo format di Rossopomodoro si legano cucina, pizzeria, cocktail ed arte, grazie agli spazi espositivi messi a disposizione di un artista emergente diverso ogni mese, in modo tale da valorizzare anche lo spazio non solo come veicolo commerciale ma di sviluppo sociale. Al termine del racconto di questo intenso percorso di sviluppo, Franco Manna ci concede ancora qualche minuto in cui lascia andare la memoria alle prime fasi dell’espansione del franchising Rossopomodoro nel mondo. Non fu un periodo semplice, in cui si rese necessario affrontare complesse problematiche legate al reperimento della materia prima, soprattutto della farina, perché la disponibilità di prodotti italiani all’estero vent’anni fa era decisamente più limitata rispetto ad oggi. Ad esempio, durante il primo ciclo di espansione in UK ed USA era impossibile trovare farine con forza e livelli proteici simili a quelli italiani e la disponibilità di grani locali inadeguati rischiava di produrre un impasto che scimmiottasse quello napoletano ma senza un risultato abbastanza soddisfacente in termini di gusto e fragranza rispetto alle alte aspettative di qualità dei fondatori. Fortunatamente, dal 2003 sono cambiate molte cose ed è aumentata la disponibilità per l’export di farina, mozzarella, pomodoro ed altri ingredienti, che la catena Rossopomodoro è riuscita a spedire in tutto il mondo, grazie all’impegno dei principali fornitori. In merito alle scelte di layout delle pizzerie sparse per il mondo, sono emersi con forza quelli che potremmo definire alcuni capisaldi, come ad esempio la ricerca di arredi consoni a quanto ci si aspetta da un brand italiano ed il forno napoletano (soprattutto nella versione a legna), che rappresenta un must. Il resto dello stile viene adattato al territorio
in cui viene aperto il punto vendita: un passaggio importante che ha significato portare un pezzo di cultura napoletana all’estero, integrandola con l’architettura locale, un raro esempio di adattabilità per un format in franchising. Franco Manna ci confessa, scherzando, di una piccola follia fatta più di vent’anni fa, quando è stata aperta a Londra la prima pizzeria Rossopomodoro in UK:
“dall’apertura, ogni giorno la sede di Napoli spediva almeno 20lt di acqua potabile di Napoli che veniva utilizzata per fare impasti e caffè!
Un’operazione senza precedenti e con costi importanti [e soprattutto realizzata in un momento storico molto meno sensibile al tema della sostenibilità odierna, n.d.r.], che è servita a far conoscere l’italianità del brand e realizzare una narrazione del prodotto capace di affascinare e coinvolgere gli avventori. In qualche mese, quando ci si è resi conto che questo tipo di approvvigionamento era insostenibile, sono state fatte approfondite analisi e, con sorpresa, l’acqua potabile londinese è risultata perfetta per qualunque preparazione. Da quel giorno tutta la produzione è stata convertita all’utilizzo dell’acqua locale senza alcun percettibile cambiamento”. Oggi, per il marchio Rossopomodoro, questo racconto è diventato un aneddoto, ma all’epoca (presocial e device digitali), non possiamo che fare un plauso alla creatività dei fondatori. La cultura aziendale in Rossopomodoro si è evoluta molto dal lancio della prima pizzeria ed è diventata anch’essa ambasciatrice del prodotto e del format: il savoir faire legato alle persone ed alle procedure, verso il quale Manna mantiene un’attenzione altissima.
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E, nella parte conclusiva di questa intervista, proprio le persone sono state il nodo centrale delle ultime battute. Parlando con Manna, è emerso il grandissimo impegno nel far star bene i collaboratori che hanno portato Rossopomodoro nel mondo, primo tra tutti negli USA. Non si tratta di giovani “di belle speranze” ma, nella maggior parte dei casi, di persone che hanno avuto un’opportunità di vita da condividere con interi nuclei familiari, che hanno scelto di spostarsi verso ovest, come moderni pionieri, sapendo di poter contare su una posizione lavorativa sicura grazie alle scelte e agli investimenti del gruppo. Rossopomodoro ha supportato questi trasferimenti anche negli adempimenti burocratici come l’ottenimento delle Green Card (il “permesso di residenza” americano). I primi dipendenti sono ormai all’estero da più di vent’anni, spesso si sono sposati e hanno formato nuovi nuclei familiari, naturalizzandosi in quelle culture senza perdere la loro napoletanità e l’attaccamento ai valori del gruppo. Le parti più tecniche della standardizzazione delle ricette sono frutto di anni di messa a punto ma oggi si può affermare che l’impasto di una pizzeria Rossopomodoro ha una maturazione di almeno 24 ore (come si evince dai timer presenti in ogni locale), con un lavoro di ricerca fatto sugli amidi e sulla conseguente digeribilità. Certo, la maturazione e la rifinitura dell’impasto di pizza (e pasta) si modificano al variare delle condizioni climatiche ma nuovamente la mano dei professionisti è quella che fa la differenza ed in questo senso la formazione sopperisce alle eventuali difficoltà nella ricerca del punto di pasta. Oggi, all’interno del franchising, si possono gustare in tutto il mondo alcune ricette considerate classiche,
PIZZ ERIE DI RECENTE APERTURA
che Manna definisce “intoccabili” come, ad esempio, la Rossopomodoro ai tre pomodori, condita con provola affumicata, San Marzano Dop, Piennolo del Vesuvio Dop, datterini gialli di Battipaglia e scaglie di cacioricotta stagionato. In Italia e nei paesi più vicini d’Europa, è abbastanza semplice riuscire ad avere questa coerenza nella presentazione e nella ricetta ma, quando si lavora con un marchio globale, si deve anche sopperire alle mancanze man mano che ci si allontana dalla città e poi dalla nazione di nascita. In questa direzione si svolge una parte del lavoro di ricerca e sviluppo dei pizzaioli di Rossopomodoro che sperimentano, in questo specifico caso, 3 pomodori di ecotipi diversi, di cui alcuni reperiti localmente. Nel mix delle esperienze, questo significa che un cliente del franchising potrà assaggiare una pizza concettualmente uguale ma con sapidità diverse che si adattano in piccola parte ai prodotti del luogo, perseguendo attivamente la ricerca di sostenibilità economica e sociale nelle varie città del mondo.
SALERNO
ORIO AL SERIO 52 pizza e pasta italiana settembre 2023
REPUBBLICA CECA
storie di pizza
LA PIZZA È FEMMINA.
STORIE DI PIZZE AL FEMMINILE AL SUD
Pizza, sostantivo di genere femminile. Ergo, la Pizza è Femmina!
E dimostra tutta la sua “femminilità” nel rosso seducente del pomodoro, nella sua forma rotonda, nella sua fantasia e golosità ma soprattutto in quel gusto consolatorio che genera felicità.
Eppure, nonostante queste sue caratteristiche intrinseche, ancora ci meravigliamo nel vedere una donna dietro al banco delle pizze: non abbiamo del tutto metabolizzato che il pizzaiolo non è un lavoro per soli uomini, come si è creduto fino a qualche tempo fa.
Se ci pensiamo bene, le mani femminili sono quelle che di solito a casa impastano e da sempre hanno lavorato il pane, la pasta,
steso la sfoglia, usato il mattarello, infornato. E allora perché siamo così restii a concepire la figura femminile come pizzaiola? Sicuramente fare la pizza e gestire una pizzeria è un mestiere pesante, faticoso sia da un punto di vista fisico (sacchi di farina, impasti, forni ad alte temperature) che di impegno di tempo, ma nemmeno troppo lontano dal lavoro svolto all’interno delle cucine dei ristoranti.
Siamo abituati a vedere e a collocare la donna in cucina come chef o nella dimensione della pasticceria: un lavoro dolce, elegante, creativo. Ma se prendessimo le caratteri-
stiche della pasticceria, quella sua parte chimica e quella sua parte di alta precisione e di creatività le differenze con la pizzeria non sarebbero poi così tante.
Se non avete mai mangiato la pizza fatta da una donna, posso assicurare che le donne in pizzeria raggiungono grandi risultati. Le donne in pizzeria hanno una grande empatia, sono sensibili, danno piena espressione dei loro sentimenti e della loro fantasia.
L’essere femminile è una marcia in più e questa differenza si sente anche al palato e si coglie con gli occhi nella bellezza stessa della pizza.
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di Giusy Ferraina
Vi siete mai chiesti quante donne pizzaiole ci sono in Italia?
Ebbene, non sono poche (e lo vediamo ogni anno al Campionato Mondiale della Pizza) ma non sono nemmeno tantissime se facciamo il paragone con gli uomini. Dobbiamo pensare che ci troviamo di fronte un lavoro ancora ad appannaggio maschile se non addirittura maschilista? E non sarebbe proprio una visione del tutto estrema o errata, visto che c’è chi per farsi accettare dai clienti ci ha impiegato un bel po’ di tempo. Per introdurvi meglio nel mondo della pizza al femminile abbiamo deciso di raccontarvi la storia di tre pizzaiole che vivono e lavorano al Sud, tre interpretazioni al femminile della pizza: Irene Malfarà, Francesca Gerbasio e Isabella De Cham.
Nome: IRENE MALFARÀ
Città: PARGHELIA (VV)
Professione: PIZZAIOLA
Locale: MISERIA E NOBILTÀ
Originaria di Parghelia, nel Vibonese, Irene Malfarà da 10 anni gestisce il suo locale “Miseria e Nobiltà” insieme ai suoi tre figli. Inizialmente, Irene asseconda la sua grande passione per la cucina e il mondo della ristorazione, che si traduce ben presto nell’amore incondizionato per la pizza.
Un amore nato come sfida personale, curiosa di impasti e condimenti, tra corsi di vario genere, sperimentazioni e campionati per mettersi alla prova, Irene Malfarà con impegno e testardaggine è diventata una pizzaiola riconosciuta in Calabria e non solo. Come lei stessa ammette: “per una donna questo lavoro non è proprio semplice, ci vuole forza per gli impasti, resistenza al calore del forno oltre ad avere tempi per la vita personale e la famiglia molto ridotti, ma sono cose che si mettono in conto e si fanno solo se si è motivati”.
E Irene passione ne ha da vendere e te ne accorgi subito parlando con lei, quando ti dice: “Per me la pizza è vita! È tutto! Non riuscirei a stare senza mani in pasta, senza creare qualcosa per i miei clienti, senza inventare le mie pizze gourmet. Tutto questo mi dà soddisfazione, mi rende viva. Così come mi dà gioia vedere il piacere negli occhi di chi mangia la mia pizza”.
Ma com’è la pizza di Irene, perché piace così tanto? “La mia è una pizza contemporanea. Non saprei come altro definirla. È una pizza semplice ma non banale. Lavoro con autolisi, partendo da farina e acqua, utilizzo un blend di farine di Tipo 1 e doppio zero, con un 70% di idratazione e quasi 30 ore di lievitazione. L’autolisi mi aiuta a dare più profumo e sapore all’impasto. L’impasto l’ho messo a punto io e lo curo ogni giorno personalmente, sono molto precisa e cerco sempre il risultato migliore in
termini di leggerezza e consistenza.
Venendo poi dal mondo della cucina, la mia passione sono gli abbinamenti: parto con l’idea di un ingrediente (uso materie prime del territorio, principalmente biologiche) per poi sviluppare combinazioni differenti e fantasiose, giocando sui contrasti di sapore, su impiattamenti e accostamenti cromatici. Cerco di combinare tutti gli elementi per dare vita ad un prodotto eccellente, senza far perdere lo spirito di tradizione che sta dietro la pizza, quel senso vero di un piatto che può essere gourmet e deve essere di tutti”.
Da sempre autodidatta, ama confrontarsi con i tanti colleghi e colleghe, di cui riconosce bravura e talento ma nella sua testa è chiaro il concetto di non voler essere la copia di nessuno. “Non mi piace fare copia e incolla” afferma Irene e, se andiamo da “Miseria e Nobiltà”, si vede immediatamente il grande lavoro di collaborazione e responsabilità che c’è dietro al banco. Per la nostra pizzaiola, l’umiltà e l’impegno sono alla base per poter crescere e lavorare bene, conditi dall’entusiasmo per questo lavoro che continua a stupire i clienti stessi come ci racconta: “Tante volte mi sono sentita dire o chiedere del perché faccio questo lavoro, dove la figura di riferimento continua a essere l’uomo. Ancora oggi a distanza di anni alcuni si meravigliano dicendo che è la prima volta che vedono una donna pizzaiola”.
E qui scatta la domanda finale o meglio il consiglio per chi giovane donna vuole fare questo mestiere. Irene senza pensarci più di tanto dice subito: “Provaci assolutamente! È un’esperienza stupenda, che regala soddisfazione ma va fatta solo se si è mossi da passione forte. Perché non ha prezzo vedere le persone felici grazie alla tua pizza”.
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Nome:
FRANCESCA
GERBASIO
Città: SALA CONSILINA
(SA)
Professione: PIZZAIOLA
Locale: LA PIETRA AZZURRA
Francesca Gerbasio, originaria di Padula, un percorso alle spalle nella ristorazione, iniziato in sala come terapia alla sua timidezza e per prendersi cura delle persone, come ci tiene a raccontare. Dalla sala alla pizza il viaggio è stato lineare, anche se lei si sente una pizzaiola per caso “oppure aveva la pizza nel sangue e non lo sapeva”. Comincia a fare dei corsi di cucina e di pizza: “volevo conoscere, capire di più per poi avviare un mio progetto, ma non pensavo mica di diventare la pizzaiola di oggi. Tutto comincia nel 2011 seguendo i corsi di Michele Croccia, che capisce prima di me le mie potenzialità e mi ha chiesto di rimanere a lavorare con lui… la storia poi la conoscete”.
E, per chi non la conoscesse, ve la raccontiamo noi. Francesca lavora con Croccia presso “La Pietra Azzurra” in Cilento e nel 2015 apre la sua prima pizzeria “Pizz e Maccarun” a Sala Consilina (Sa) e Michele diventa suo socio, fin quando nel 2020 tutto si trasforma in una seconda sede de “La Pietra Azzurra”, abbracciandone completamente la filosofia. Negli anni di intermezzo ci sono tante pizze, i concorsi a cui Michele la iscriveva e i premi conquistati. Tra i più importanti, c’è il Pizza Chef Emergente Sud del 2014 che la decreta non solo vincitrice ma anche la prima ed unica donna ad averlo vinto, fino ad arrivare a essere protagonista della serie TV Pizzagirls in onda su LA5. E qui entriamo nel cuore della conversazione, affrontando la questione delle donne pizzaiole e del perché sono in netta minoranza rispetto agli uomini. “Mi faccio spesso questa domanda e non riesco ancora a darmi una risposta o una spiegazione che possa essere logica” - ci dice Francesca - “e pensare che in passato era la donna a fare la pizza, specie quella fritta e venderla per strada. Oltre a essere un lavoro faticoso, forse da un punto di vista sociale non è mai stato concepito un mestiere nobile al pari dello chef. Al contrario di ora, prima il pizzaiolo era un lavoro facile, quasi improvvisato, fatto per necessità più che per passione, quindi più lontano dal genere femminile. Oggi la pizza si è evoluta, è cresciuta l’opinione intorno alla pizza, la cultura che ne rappresenta e di conseguenza la figura del pizzaiolo sta percorrendo la stessa strada del cuoco. Per alcuni versi abbiamo pizzaioli come vere pop star”.
Troviamo interessante questa ipotesi più socio-antropologica di Francesca per spiegarci le differenze numeriche, che sono alimentate anche da visioni stereotipate di chi ancora si meraviglia che una donna faccia la pizza e ancora di più che la sappia fare. “Tante volte e in tanti modi più o meno eleganti mi sono sentita definire ”una donna che fa la pizza”, una frase che si carica di tante sfumature e alle volte può anche far male. Ricordo all’inizio di clienti che non volevano la pizza fatta da me per palese mancanza di fiducia. Tutto ciò è stato per me motivo per fare sempre meglio, una sfida con me stessa e poi con il resto del mondo”.
E bisogna dire che la pizza Francesca ha imparato a farla bene da subito, ne sa qualcosa il suo mentore Michele Croccia. Fondamentalmente di stile napoletano, ma si cimenta in tutti i formati: teglia, pala,
panini. Il suo impasto è indiretto con biga, ottenuto da grani antichi e lievito madre, con una maturazione di 24/36 ore, e si è specializzata anche in pizze senza glutine. Ama sperimentare, nella sua carta della pizza trovate impasti anche con il cacao o l’orzo. Tra le sue pizze preferite c’è “Ti sblocco un ricordo”, rivisitazione della pizza al ruoto come si faceva a casa una volta in Cilento, la pizza che preparavano le nonne e le mamme prima di infornare il pane, con un sapore ben distinto dalla pizza moderna, quasi ancestrale.
La sua cucina è semplice, si lega alla tradizione e sposa un principio per lei essenziale: “Niente preparati, solo materia prima. Altrimenti finiremo per rendere piatti e pizze tutte uguali!” — e continua — “La pizza è il mio modo di esprimermi, è qualcosa che tira fuori la mia creatività. È attraverso le mie pizze che mi racconto e parlo di me. Ecco perché per me la pizza deve essere personale, deve racchiudere in sé i nostri valori, ciò che siamo, deve in un certo qual modo essere il nostro specchio. L’impasto ai grani antichi mi somiglia, mi fa emozionare ogni volta che lo assaggio e provo sempre a migliorarlo. E poi la pizza deve partire dalla terra, deve essere ambasciatrice del nostro territorio, mettere insieme materie prime vere e di qualità, soprattutto sane per avere un prodotto finale sano, produttori appassionati e mani esperte. Se la pensiamo così, lontana dallo stereotipo del barattolo e del condimento da metterci su, allora stiamo riscattando la pizza in tutta la sua essenza e riscattiamo in dignità anche il mestiere di pizzaiolo”. A modo suo, Francesca cerca di essere versatile e personale; per lei questo è la pizza, massima possibilità di espressione: “Sulla pizza troviamo e mettiamo il nostro stile e la crescita degli ultimi anni ci dice che siamo sulla strada giusta per nobilitare questo mestiere. Forse stiamo rischiando per certi versi di allontanare la pizza come piatto dal popolo e dovrebbe essere nostra cura garantire che ciò non accada, anche se ci piace sperimentare”. Anche a Francesca Gerbasio chiediamo un consiglio per una ragazza che vuole fare questo mestiere. “È un mestiere bellissimo e non abbiamo nulla da invidiare a nessuno. L’importante è non improvvisare, studiare sempre. Noi donne abbiamo sensibilità, delicatezza, creatività e mettiamo in tutto ciò che facciamo una dose maggiore di impegno e passione. E riusciamo bene in questo lavoro, ecco perché dobbiamo farci strada e dobbiamo crescere”. E conclude: “E poi la pizza è un prodotto vivo e la donna è portata a dare la vita”. Un evidente sillogismo.
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con l'Università
Modena e Reggio
che la pizza
migliora l'apporto
per la presenza di acidi grassi polinsaturi
vitamina
Nome: ISABELLA DE CHAM
Città: NAPOLI (Rione Sanità)
Professione: PIZZAIOLA
Locale: ISABELLA DE CHAM PIZZA FRITTA
nobile, sapevo che avrei dovuto fare il doppio della fatica per portarla ad avere la sua dignità. Iniziai fin da subito un mio percorso, cercando la mia tecnica, quella che avrebbe dato carattere e personalità alla mia pizza. La mia fortuna è stata quella di conoscere Luciano Pignataro che scrisse di me, portando curiosità nel mondo della stampa; da lì arrivarono articoli, premi, riconoscimenti, inviti e infine il successo del pubbico dei clienti”.
Un successo scritto? Sicuramente conquistato con coraggio e testardaggine. Oggi Isabella De Cham è la regina indiscussa della pizza fritta, pensiamola come una moderna Sofia Loren che ne “L’Oro di Napoli” stende e vende pizze fritte per le strade della città. Nel variopinto Rione Sanità, nel cuore della città di Napoli, Isabella si è circondata di uno staff totalmente al femminile tra sala e cucina, sommelier compresa, dove potete prendere una pizza fritta in versione street food o sedervi al tavolo e fare questa golosa esperienza.
ciamo anche meglio: noi donne siamo veloci, più precise, perfezioniste, quasi maniacali, non manderemmo mai a un tavolo una pizza venuta male”.
Se la pizza fritta era considerata di serie B, oggi possiamo dire che il lavoro di Isabella l’ha rivalutata di gran lunga, facendola approdare a Capri, a Ibiza e in eventi sparsi per l’Italia; nel 2022 è stata inserita tra le otto friggitorie certificate dall’Associazione Verace Pizza Napoletana. Tra le sue pizze assolutamente da provare: la “Classica”, farcita con cicoli, ricotta, pepe e basilico e poi il must della pizzeria, più volte premiata, “Donna Isabella” ripiena di rucola, provola, caciocavallo, provola e zest di limone.
Isabella De Cham, napoletana verace (non fatevi ingannare dal cognome), solare e sorridente, è da sempre innamorata della pizza: non la classica, quella fritta. E, tanto per complicarsi la vita, decide di dedicarsi “anema e core” a questa preparazione. Dopo la folgorazione, cerca subito le migliori pizzerie dove imparare l’arte della pizza fritta: La Masardona, Sorbillo, Concettina ai tre Santi. Dopo anni di studio e con tanta intraprendenza decide di mettersi in proprio e rileva insieme ad un socio l’esistente “1947 Pizza Fritta” (di cui parliamo proprio in questo numero, ndr). Bisogna aspettare il 2017 per il grande salto, quello che la fa tornare nel suo quartiere, Sanità, per aprire una sua nuova pizzeria, esclusivamente di pizza fritta che porta il suo nome: Isabella De Cham Pizza Fritta.
Lei stessa si racconta così: “La pizza fritta è sempre stata considerata la sorella povera della Margherita; la mia scelta in modo istintivo era caduta sulla pizza meno
La sua missione è quella di far innamorare tutti della sua pizza fritta. E pare ci riesca senza troppi sforzi. La sua pizza piace al primo morso. “Faccio un impasto con metodo diretto che matura e lievita a temperatura ambiente complessivamente dalle 36 alle 48 ore circa. Ne viene fuori una pizza sottile, elastica e leggera che passa in frittura senza lasciare odore di olio o tracce di unto. E poi ho anche la versione vegan e gluten free per non scontentare nessuno”.
Quando le chiedi cos’è la pizza, la sua risposta è immediata e carica di emozione: “Per me la pizza è felicità, mi ha cambiato la vita, la personalità. Quando sento i miei clienti dire wow, godere di ciò che hai fatto, mi emoziono come se fosse la mia prima pizza. È una sensazione indescrivibile. E poi nella mia pizza provo a trasmettere ciò che ho imparato nella vita, ciò che mi ha insegnato la famiglia, ci metto dentro le cose in cui credo. La mia pizza ha una carica di empatia e sensibilità”.
E poi aggiunge nel suo racconto: “Ho voluto circondarmi di donne perché in questo mestiere, seppur di donne ce ne sono, queste sono sempre poche e non riconosciute. Facciamo un lavoro maschilista ma a mio avviso lo fac-
Mentre quella super richiesta è la pizza fritta con il polpo: Polpo appena scottato al profumo di kerner (vitigno aromatico bianco), scarola appena passata in padella, porro e dello Stilton.
“Secondo me la pizza è — e deve essere — valorizzazione del terrtiorio, è un’espressione personale, non ci devono essere né leggi né tantomeno tabù. È necessario conoscere e guardare alla tradizione ma allo stesso tempo provare qualcosa di nuovo, ricercare tra ingredienti, abbinamenti, spingersi un po’ più in là. Solo in questo modo cresciamo noi e si evolverà la pizza. E spesso sono i clienti che ti chiedono qualcosa di nuovo. Bisogna invece stare attenti a non andare oltre certi standard economici; la pizza, specie quella fritta, è sempre stata un pranzo popolare, veloce, economico e non può arrivare a costare tanto; qui da me ci teniamo sotto i 7 euro, per esempio”.
E prima di chiudere la nostra chiacchierata anche a Isabella, sostenitirce del “girl power”, chiediamo il solito consiglio, a cui lei risponde con la forza e la sicurezza che la contraddistinguono: “Tutto arriva se sai aspettare; ci vuole pazienza e la volontà di fare le cose che si vogliono fare. E, quando le fai, devi dare il massimo, devi correre, devi dimostrare che sei forte”.
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PLATEA ROTANTE ORAANCHECON FATTO IN ITALIA, AMATO NEL MONDO.
Salerno SUL TETTO DEL MONDO
Intervista a Vincenzo Mansi, Campione del mondo di pizza napoletana Stg
di Alfonso Del Forno
Vincenzo Mansi è il campione del Mondo della Pizza Stg. In occasione della trentesima edizione del Campionato Mondiale della Pizza, che si è svolta a Parma dal 18 al 20 aprile 2023, il quarantunenne pizzaiolo salernitano è stato il protagonista della categoria pizza napoletana Stg, la più prestigiosa del mondo pizza. La pizza napoletana Stg (Specialità Garantita Tradizionale) è un prodotto tipico della tradizione culinaria campana, la cui preparazione segue un disciplinare approvato dall’Unione Europea. Esso stabilisce i requisiti e le caratteristiche che una pizza deve possedere per poter essere definita “napoletana Stg”.
Il riconoscimento a Vincenzo Mansi è il coronamento di una vita dedicata alla pizza, entrata nel quotidiano del pizzaiolo salernitano quando quest’ultimo aveva otto anni.
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“Ero molto piccolo, avevo otto anni, quando ho cominciato a dare una mano a mio padre, che lavorava in un campeggio sulla litoranea di Pontecagnano”
“ma è all’età di dieci anni che mio padre, Rosario, comincia ad insegnarmi l’arte della pizza. In quel periodo ero ancora piccolo e per raggiungere il piano di lavoro dovevo salire su una cassetta”.
MLa figura di Rosario Mansi è centrale per la famiglia, non solo per aver trasmesso la passione per la pizza ai suoi sette figli (quattro maschi e tre femmine), ma soprattutto per aver insegnato ai suoi cari l’importanza della parola famiglia, intesa come struttura fondamentale per il supporto e il confronto quotidiano.
“Io, i miei fratelli e le mie sorelle siamo tutti impegnati nel mondo della ristorazione”
continua Vincenzo “uniti da questa passione per la pizza e viviamo in simbiosi, tanto da radunarci ogni sera, quando finiamo il lavoro, nella mia pizzeria o in quelle dei miei fratelli, per confrontarci e sostenerci a vicenda”.
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esordisce Vincenzo Mansi
La prima volta...
Torniamo al Mondiale di Parma e alla consolidata presenza di Vincenzo in questo concorso.
“La prima volta che sono andato al Mondiale era il 2002 ed ero lì come spettatore, incuriosito dal mondo delle gare nel settore pizza” afferma Vincenzo “la mia prima gara l’ho fatta nel 2003 e vinsi nella categoria del Freestyle portando qualcosa di nuovo: un ballo di salsa e merengue durante l’esibizione del Freestyle. Nel 2003 era una novità asso-
luta e da quel momento i partecipanti hanno continuato a introdurre il ballo e le coreografie in questa disciplina”.
L’appuntamento con la vittoria nella categoria Stg era già arrivato in passato.
“Nel 2015 mi ero classificato primo nella Stg, ma sono stato squalificato perché la cottura era stata fatta in 95”, cinque secondi in più rispetto a quanto previsto dal disciplinare.”
racconta con non poca emozione Vincenzo Mansi.
“Dopo quell’episodio sono stato davvero male. Non riuscivo ad accettare che per soli cinque secondi ero stato squalificato, perdendo l’opportunità di poter vincere quel titolo tanto ambito. Un pizzaiolo che gareggia al Mondiale deve essere bravo, preparato, tecnico, deve trasmettere una bella energia alla giuria, ma deve essere anche fortunato” ammette Mansi “il forno deve trovarsi alla temperatura giusta, l’impasto deve essere lievitato il giusto e la giuria deve essere concentrata per apprezzare al meglio il lavoro fatto dal pizzaiolo”.
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Il Campionato del Mondo più importante, probabilmente, è quello che si gioca nella propria pizzeria ogni giorno. Chiedo a Vincenzo Mansi di parlarci della sua pizza e della filosofia del suo locale.
“La mia pizza non può annoverarsi né tra le contemporanee né tra quelle definite a ruota di carro. La mia pizza si trova nel mezzo ed è espressione di quella energia che voglio trasmettere ai miei clienti” esordisce Vincenzo.
“Parto da un’autolisi e lavoro l’impasto con il 65% di idratazione, arrivando a 40 ore tra lievitazione e maturazione. La mia pizza ha un diametro di 32 cm e la cuocio nel forno tra i 380 e i 390 gradi centigradi. Mi piace molto lavorare con le miscele di cereali e propongo impasti alternativi con farina semintegrale o Riso Venere”.
"La mia pizza..."
Cosa si aspetta il cliente tipo, quando entra nella pizzeria e si siede per ordinare la pizza. “I miei clienti sono molto curiosi e tornano spesso da me per poter provare i vari impasti disponibili, con un occhio di riguardo alle virtù salutistiche di alcuni ingredienti che vengono utilizzati sia nell’impasto che nelle materie prime del topping” continua Vincenzo “i miei clienti sono ammaliati dalla leggerezza e dal gusto dei miei impasti, indipendentemente dalla guarnizione con cui si completa la pizza”. Oltre alle pizze è possibile assaggiare il classico crocchè con la nduja calabrese, la frittatina podolica (cacio, pepe e salame), la frittatina a scarpariello, i timballi di pasta, le montanare, la graffa napoletana con le creme, la cheesecake e il tortino al cioccolato, tutto fatto in casa. “Grande attenzione viene prestata anche alla stagionalità e alla ri-
cerca di materie prime del territorio, che ci permettono di essere ambasciatori di queste terre, nel settore della pizza”, sottolinea Vincenzo Mansi. “Siamo ormai stabilmente, dal 2018, all’interno della Guida alle Osterie d’Italia di SlowFood, riconoscimento a cui tengo tantissimo”.
Al momento la pizzeria di Vincenzo Mansi conta cinquanta posti a sedere, ma in autunno i locali saranno ampliati, fino ad arrivare a circa cento posti. Con l’ampliamento delle sedute ci sarà anche un ampliamento dell’offerta, con l’introduzione di una selezione di salumi e formaggi, che daranno vita a taglieri che si aggiungeranno al menu attuale. Grande cura nei dettagli, dai colori utilizzati per le tinteggiature, alle sedie, che regaleranno benessere agli avventori che saranno presenti in sala.
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storie di pizza
LA VITA È BELLA. STORIE DI PIZZA
A CASAL DI PRINCIPE
di Giusy Ferraina
Più che il nome di una pizzeria, “La vita è bella” è un’esortazione, uno slogan o una filosofia di vita. Ed è proprio questo il messaggio che Antonio Della Volpe vuole dare. Il suo è un invito a vivere la vita in modo positivo, con il sorriso, con passione, perché la vita è bella e va vissuta intensamente. E lui tutta questa voglia e fame di vita la mette nel suo lavoro, ogni giorno nella quotidianità degli impasti, della ricerca, di un mestiere che dopo anni di gavetta è consapevole di amare e di fare bene. La pizza per Antonio è tutto, non solo un mestiere, ma un’arte. È bellezza. E, se la vita è bella, secondo Antonio Della Volpe la pizza è bella quanto la vita stessa.
Anche e soprattutto in un paese come Casal di Principe, dove due anni fa apre la seconda sede (la prima è a Trentola-Ducenta) che oggi vive, grazie ad una cultura agroalimentare importante, il suo riscatto sociale da una storia passata poco felice che tutti conosciamo.
Il locale vuole dare subito un’idea di eleganza e di bellezza, colori scuri e materiali ricercati: marmo nero, ottone, velluti verdi e arredamento di design, i forni visibili ai commensali da dietro una grande vetrata. Mise en place curata in ogni dettaglio per tutti i cento coperti disponibili. E, al centro della sala, ci attende un’imponente drink station. Qui vengono a mangiare la pizza firmata da Della Volpe da tutte le parti, spinti dalla fama e dai premi che il nostro pizzaiolo si è guadagnato nel tempo. E, in questo flusso di energia positiva, si svolge la nostra intervista per conoscere meglio Antonio e la sua pizza gourmet, il suo pensiero di pizzaiolo e la ricerca del gusto e della creatività.
Antonio, quando ti avvicini alla pizza e che tipo di percorso hai fatto?
Mi sono innamorato della cucina e della pizza a 14 anni. Ho frequentato l’alberghiero di Castel Volturno e, subito dopo il diploma, ho iniziato a fare esperienza nelle cucine del territorio campano e non solo. Ho fatto poi dei corsi di formazione all’Accademia Polselli, ho imparato la tecnica dell’autolisi che mi ha conquistato e che ho cominicato a usare. Dai primi corsi, era ben definito il mio rapporto d’amore con l’arte bianca. Ovviamente, nel tempo, ho provato altre cose e ho studiato un impasto tutto mio. Insomma, dall’adolescenza in poi, ho passato la mia vita al banco di una pizzeria. Nel 2017 ho vinto anche la Pizza World Cup con la pizza che prende il nome proprio dal mio locale “La Vita è bella”, realizzata con fior di latte di Agerola, datterino rosso, datterino giallo e, all’uscita dal forno, guanciale di maialino nero casertano, perline di bufala, scaglie di caciocavallo, provolone del Monaco, olio extravergine e basilico.
accanto antonio
Della Volpe
Che tipo di impasto fai e com’è la tua pizza?
La mia pizza è contemporanea, la considero un’evoluzione di una classica pizza, sia come impasto, elasticità, lavorazione che come condimento. Oltre alle pizze dai gusti tradizionali, visto il mio passato di cuoco, mi piace giocare molto con abbinamenti di ingredienti e ricette di vario tipo, anche più estrose e gourmet. Alla base, c’è sempre una parte degli ingredienti che vanno in cottura, per poi completare con altri in uscita. Il mio impasto si basa su un pre-fermento finito con una maturazione di circa 24 ore e almeno 12 ore di lievitazione, lavoro con farina di grani tutti italiani di tipo 0; nello specifico, ho scelto quella di Progeo Molini di cui sono testimonial. Il risultato è una pizza leggera, idratata e digeribile, con una cottura ben eseguita, cornicione alto e perfettamente asciutto all’interno; al morso, è delicata e scioglievole.
storie di pizza
Qual è la tua filosofia per la pizza?
La pizza per me è specchio del territorio. Questo è un punto fondamentale su cui ho incentrato la mia ricerca e creatività di pizzaiolo. Il territorio è il nostro tratto distintivo, quell’unicum che fa la differenza tra un pizzaiolo e un altro. È la nostra firma, l’identità. Se vogliamo distinguerci e non massificarci, come invece succedeva anni fa con prodotti già pronti e uguali per tutti, da nord a sud, dobbiamo ricercare le materie prime, capire come usarle, trovare i nostri fornitori di fiducia e proprio quelli vicino casa.
Io mi reputo fortunato perché qui a Casal Di Principe – al di là delle sue difficoltà sociali e della reputazione che si porta dietro – c’è un territorio ricco di produttori e di prodotti di ogni genere: pensate ai latticini o al pomodoro. Negli ultimi anni, vivendo a contatto con questi luoghi e le persone, osservo e noto che si è avviato un percorso di rivalsa territoriale e il settore agroalimentare è in gran fermento ed è il motore di questo processo positivo.
Perché hai deciso di aprire la tua seconda sede de “La vita è bella”
a Casal di Pricincipe?
La prima sede risale al 2007 e prima di arrivare qui mi ci sono voluti ben 14 anni di lavoro. 14 anni per farmi conoscere, per far crescere la mia pizza, migliorarla e farla apprezzare dal pubblico. Sono stati anni di studio e ricerca in cui mi sono fatto conoscere nell’ambiente, portando a casa diversi trofei di concorsi nazionali e internazionali. Ecco, quando ho deciso che era giunto il momento di una seconda sede, ho voluto che la stessa location desse l’idea della bellezza e della bontà della mia pizza.
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Casal di Principe oggi sta vivendo il suo riscatto grazie anche ad una cultura del food e dell’agrolimentare e mi sento nel mio piccolo fautore di questa nuova vita. E mi accorgo che le cose stanno cambiando, notando come tanti colleghi hanno introdotto pizze di nuovo genere e formato rispetto alla tradizionale “ruota di carro”, nuovi impasti, nuovi condimenti. E questa crescita fa bene a tutti. Questa apertura, inoltre, vuole essere anche un messaggio di speranza per i giovani: bisogna far capire loro che la strada giusta è sempre quella di seguire le proprie passioni, nonostante le difficoltà.
La pizza più richiesta a La Vita è Bella e
la tua pizza del cuore?
Quella che in questo periodo è la più richiesta è la cosacca cilentana, con una base di San Marzano Dop dell’Agro nocerino sarnese, datterino rosso saltato in padella, cacioricotta del Cilento Presidio Slow food. Per quanto riguarda la mia pizza preferita, non è facile dirlo, sono sempre alla ricerca di nuovi gusti e abbinamenti ma posso dire che per me la pizza è tradizione e i sapori semplici e diretti sono quelli che mi conquistano. Anzi, più è semplice, più i sapori degli ingredienti sono riconoscibili anche nella loro qualità. La Marinara è la mia pizza del cuore: pomodoro, olio, origano e aglio; qui trovi gusto, profumo e anche dei buoni valori nutritivi.
Antonio, secondo te dove si sta dirigendo il mondo pizza?
E cosa manca?
Da cinque ani a questa parte stiamo vivendo un importante percorso di evoluzione del prodotto pizza e sono orgoglioso di farne parte ma, a mio avviso, bisogna saper rispettare e non dimenticare quale sia la natura della pizza e le sue origini. Non dobbiamo scordare come nasce la pizza e quali sono gli ingredienti fondamentali che hanno portato la pizza a essere identitaria per l’Italia e rinosciuta in tutto il mondo, per non parlare del riconoscimento Unesco per il mestiere di pizzaiolo. Vanno rispettati i principi fondamentali: gusto, salute, qualità, senza dimenticare le tradizioni, la tecnica, la manualità, la gestualità che rendono una pizza unica nel suo genere, come mettere il basilico all’uscita del forno o schiacciare un pomodoro a mano.
E questo lo dice uno a cui piace giocare con impasti di pizza fritta, proprio come se stesse preparando una cotoletta alla milanese, pizze al padellino con topping di diverso tipo e tanta cucina per non tradire il suo passato di cuoco e quella sua indole visionaria anche davanti ad un forno.
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Dolce Costiera
di Noemi Caracciolo
Parole di Sal De Riso, pasticciere nato e cresciuto in Costiera Amalfitana, che ha voluto da sempre valorizzare la propria terra, enfatizzandone i prodotti.
La Costiera è una delle zone del Sud Italia più sfavillanti, celebre per la bellezza dei suoi pittoreschi paesini, le acque cristalline, i colori e i profumi. Parte di questa meraviglia è sicuramente attribuibile anche ai frutti che questa terra dà alla luce e che Sal De Riso ha saputo sfruttare
al meglio diventando ambasciatore dei dolci sapori mediterranei nel mondo. Recentemente, alla dolcezza delle sue preparazioni, il pasticciere minorese, ha affiancato la sapidità dei piatti campani più tipici aprendo un ristorante dedicato alla sua terra: “Sal De Riso Gourmet”.
Mi racconti come e quando nasce la sua passione per la pasticceria e del primissimo dolce che ha preparato.
In realtà nasco come cuoco, ho frequentato l’alberghiero e negli anni ‘80 ho iniziato a lavorare nei grandi alberghi della Costiera Amalfitana, tra Ravello, Amalfi e Minori. Ho lavorato in cucina per sette anni, avevo una grande passione. In estate, facevo sempre stagioni di lavoro; a 21 anni, ho deciso di mettermi in proprio e aprire, però, un laboratorio di pasticceria. Era il 1988, a Minori. Il tempo trascorreva e io mi appassionavo sempre di più alla pasticceria d’albergo, ai dolci al piatto e a tutte le cose che vi si facevano. Guardandomi intorno, mi resi conto del fatto che tutte le pasticcerie producevano le medesime cose, c’era una gran concorrenza sui prezzi e una qualità molto bassa. Così ebbi un’intuizione: trasformare il profiterole al cioccolato in profiterole al limone, preparato con i limoni di Amalfi.
La sublimazione del “pop” nel nuovo ristorante di Sal De Riso
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“La formazione non è importante, è fondamentale. La passione serve ma non basta.
Tutti possiamo avere passione, ma senza la conoscenza – soprattutto quella tecnica – è impossibile realizzare qualcosa”.
Un’intuizione che mi ha cambiato la vita. Arrivavano persone da tutta la Campania e anche da fuori per assaggiare questa grande novità. È allora che ho capito: la giusta strada da intraprendere era quella di usare al meglio gli ingredienti della Costiera e della Campania. Ho iniziato a sperimentare e, in ogni dolce, introducevo un ingrediente della nostra terra, spiegandolo e raccontandolo a chi comprava. Il famoso storytelling di cui oggi si parla tanto, io lo facevo inconsciamente già a fine anni ‘80. Ho tirato fuori una linea di dolci nella quale ogni torta e ogni monoporzione rappresentava e rappresenta sempre qualcosa di nostro.
Oggi è un ambasciatore mondiale dei sapori della sua terra, la Costiera Amalfitana: cosa rappresentano quei sapori per lei?
Ho creato una forte identità, un’appartenenza al territorio molto salda che mi ha fatto conoscere al pubblico attraverso le mie creazioni dolciarie. Ho capito che quando la gente arrivava, soprattutto da fuori regione, aveva voglia di scoprire i nostri sapori e i nostri prodotti. Questo è stato motivo di grande successo. Poi ovviamente sono arrivati una serie di dolci come la delizia al limone, le linee di torte nuziali ecc. Già all’inizio del 1989 ho iniziato a fare panettoni, colombe e tanti dolci legati proprio al limone di Amalfi. Ho usato ingredienti nuovi, con una storia che raccontava il nostro territorio come: fichi bianchi, mela annurca, nocciole di Giffoni… una serie di ingredienti nostri che la gente scopriva attraverso il dolce. Il successo è arrivato proprio così, raccontando alle persone i nostri prodotti e con quali ingredienti fossero fatti.
È chiaro che il limone di Amalfi è uno dei suoi ingredienti del cuore, ma in realtà lei crea una miriade di dolci buonissimi e diversi tra loro; ogni artista ha bisogno di trarre ispirazione da un qualcosa che tenga anche viva la sua immaginazione; lei da dove prende la sua?
No. Io sono nato in casa, a Minori, dove sono anche cresciuto, ho lavorato sempre tra lì e Tramonti. Mio padre aveva un piccolo bar-
Per me è stato abbastanza facile. Guardandomi intorno, nella nostra regione ho avuto tante possibilità di usare al meglio i nostri ingredienti. L’ispirazione la prendo in base alla stagionalità, a un ingrediente, ma anche durante un viaggio di piacere. Ogni volta che ho la mente un po’ più libera, il tempo di pensare e riflettere, mi viene naturale pensare a un nuovo prodotto. Ne ho fatti tanti, realizzati per lunghi o brevi periodi, anche in esclusiva. Prodotti inediti anche solo per la Rai ad esempio. Nel ‘91 ho avuto la fortuna di approdare al programma “I Fatti Vostri” condotto da Giancarlo Magalli e anche lì presentai un dolce con limone d’Amalfi. Poi sono arrivato a partecipare di tanto in tanto a programmi come “Domenica In”, “Uno Mattina”, al programma di Luca Sardella “La Vecchia Fattoria”, dove andavo tre volte a settimana e preparavo una specialità. Nel 2002 poi sono approdato a “La prova del cuoco” e, ancora oggi, dopo 21 anni collaboro con Antonella Clerici e ogni settimana, per una rubrica, presento un nuovo dolce.
Non ho ben capito se proviene da una famiglia di pasticcieri…
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Avrebbe mai immaginato che da cuoco sarebbe passato a fare il pasticcere?
Assolutamente no. Non avrei mai immaginato nulla di quello che sono riuscito a fare. Nel 1988 ero solo, poi ho preso un dipendente che lavora ancora con me e oggi nel laboratorio siamo 87 persone. Produciamo dolci artigianali e siamo organizzati in modo tale da poter mandare quei prodotti anche oltre la Campania, facciamo eventi di ogni tipo e serviamo anche i ristoranti. Quando ho iniziato, in inverno, in Costiera si lavorava molto poco e così distribuivo i dolci anche a Milano, in Brianza e in altri posti tramite ristoratori della nostra zona.
In un certo qual modo però ha ripreso la strada che aveva iniziato, nel senso che ha da poco inaugurato il suo ristorante “Sal De Riso Gourmet”: quando e com’è nata l’idea?
L’idea è nata nel 2016 quando ho aperto la pasticceria sul lungomare di Minori. Una pasticceria bellissima, alla quale ho dato un segno distintivo che mi potesse rappresentare e all’interno ho creato anche una cucina. Volevo riportare alcuni piatti della tradizione napoletana come la parmigiana o la caprese. Di fianco a questo mio locale attuale, ce n’era uno in vendita che era chiuso da molti anni, così ho pensato di aprire un ristorante vero e proprio. Abbiamo una bellissima cucina a vista: l’inaugurazione c’è stata il 21 aprile e devo dire che stiamo lavorando bene e sono molto contento.
È chiaro. In pratica ha deciso di puntare su una qualità molto alta per piatti che siano sì particolari ma che comunque rispecchino i gusti più popolari.
Abbiamo un’incredibile brigata di cucina, una serie di giovanissimi che arrivano da Pompei, dalla provincia di Napoli e dalla Costiera: nove cuochi e tre pizzaioli che si alternano tra loro. Il servizio parte alle 12:00 e chiude alle 23:30. Facciamo sia pizza tradizionale che gourmet. Inizialmente lo chef voleva alzare parecchio il livello arrivando a quelli dei ristoranti stellati; non a caso lui ci ha lavorato e voleva spingere a una cucina di questo genere. Io però gli ho fatto capire che la gente mi riconosce per una cucina un po’ più “pop”, popolare ma di grandissimo livello. “Sal De Riso Gourmet” per me non significa stellato. Voglio fare una cucina tradizionale, ben presentata, ben servita, con ingredienti particolari in abbinamento ma non una cucina complicata. Un menù “riconosciuto e riconoscibile” mettiamola così, dei piatti molto riconoscibili che però fanno la differenza. Per esempio, facciamo il “risotto alla pescatora” tradizionale, ma, oltre a utilizzare un riso di altissima qualità, un olio extravergine di oliva DOP con olive salernitane, in superficie mettiamo del pesce crudo: gamberi e scampi. Questo per me è gourmet, significa “buongustaio” e chi vuole mangiare e bere bene sa di poter venire da “Sal De Riso Gourmet”. Questa è la nostra proposta.
Esattamente. La trilogia di caprese che facciamo, per esempio, è preparata con i classici pomodori sorrentini, un fior di latte di Tramonti, una crema di ricotta di bufala, un coulis di pomodoro crudo e crema di basilico; i datterini gialli e rossi con una mozzarella di bufala affumicata. Un piatto super conosciuto, che fanno tutti, ma che è particolare per la trilogia in sé. Poi, naturalmente, abbiamo pesce freschissimo, come il rombo proposto al limone o i fusilli fatti a mano al ferretto con la semola, una pasta tipica di Minori, servita con astice e vongole. Un sacco di cose particolari, vedo che la gente è contenta. Ovviamente proponiamo grigliate sia di pesce che di carne e una pagina del menù tutta dedicata alla tradizione napoletana che per me è intoccabile. Sai, piatti come la parmigiana, il “gattò” di patate o la caponata.
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Mi parli della filosofia che guiderà questa nuova avventura soffermandosi particolarmente sulla proposta gastronomica
E, invece, riguardo la carta dei dolci? Ce n’è una particolare pensata ad hoc per il ristorante?
Sì, certo. A parte la selezione di quasi 100 referenze della pasticceria, che si possono scegliere direttamente da lì, propongo una carta con cinque dolci pensati appositamente per il ristorante. Sono dolci al piatto e fatti al momento. In primis, stiamo proponendo il soufflé al limone, un dolce che facevo nel 1983 nei grandi alberghi di Ravello. Poi, un girotondo di frutta: un anello di pasta frolla con dei pezzi di frutta fresca di stagione, un coulis di lampone al centro, crema pasticcera e un anello di cioccolato bianco, molto fresco. Ancora, una millefoglie con zabaione di liquore Strega con cioccolato, abbinato a una gelatina di fragole. Insomma, vari dolci proposti solo per il ristorante.
Lei mi ha fatto intendere che dà importanza alla stagionalità per i dolci: anche per il menù sarà così?
Assolutamente sì. Soprattutto in termini di verdure, ortaggi e pesce. Per esempio, a ottobre punteremo su porcini e tartufi.
Se potesse propormi un solo dolce che non sia la Delizia al limone, quale sarebbe?
Ne ho tanti da poter proporre, però devo dire che questo soufflé al limone sta spopolando. Fa la differenza. Esce al momento, caldo dal forno, ha questa leggerezza meravigliosa. È un albume montato con zeste di limone, succo di limone, pochissimo zucchero; a parte si fa uno zabaione
di tuorlo d’uovo sempre con buccia di limone e, sul fondo del contenitore in porcellana, mettiamo una crema pasticcera al limone con zeste candite e sopra adagiamo questo albume montato con il tuorlo. Viene messo in forno a 200°, cottura 10 minuti. Il prodotto sviluppa ed è leggerissimo. Quando arriva a tavola sembra grande, ma poi tutti lo finiscono: lo apprezzano perché a fine pasto risulta davvero molto leggero.
Io sento la leggerezza dalle sue parole (sorridiamo)…
Poi naturalmente abbiamo i grandi must come la Ricotta e pera, uno dei più apprezzati dal pubblico. Comunque, anche in questo caso seguiamo molto la stagionalità. Adesso abbiamo “La dolce passione cilentana” con i fichi bianchi del Cilento, i dolci con le albicocche o le pesche. Proprio stamattina ho preparato le pesche sciroppate per uno dei dolci del ristorante che è “La pesca melba”, un dolce se vogliamo antico, perché nessuno lo fa più: una mezza pesca gialla sciroppata, con zucchero, vaniglia e un po’ di amaretto, in forno a vapore si cuoce nel suo sciroppo di cottura. È un dolce fresco e particolare che la gente non conosce. Lo studiavamo alla scuola alberghiera, all’epoca era molto famoso. L’ho voluto riproporre perché a mio parere alcuni dolci devono essere riscoperti e riportati alla luce, non devono essere dimenticati.
Poi anche la tradizione è importante
Sì, è fondamentale. La nostra sfogliatella viene servita calda, con gelato alla sfogliatella, salsa di amarene e amarene candite da noi. Sono preparazioni che permettono al turista di assaggiare la tipicità, la tradizione ma con una presentazione moderna che dia un aspetto bello ed elegante.
Dev’esserci un connubio abbastanza perfetto tra tradizione e innovazione anche da un punto di vista visivo
Esatto, l’equilibrio è proprio quello. Bisogna far capire che c’è sostanza. Per esempio, non mi piacciono molto le schiume o queste “arie” che molti propongono nei dolci e nelle pietanze… “aria di baccalà”, “aria di mozzarella” ecc. Se vengo in Campania voglio assaggia’ la mozzarella o il baccalà alla napoletana, non posso avere la schiuma di baccalà nel piatto e pensare di mangiare il baccalà. Non esiste, questa è un po’ la mia filosofia. (ridiamo)
Da napoletana glielo dico, è una bella filosofia.
Come il ragù napoletano! Prima o poi lo proporrò, siamo tutti bravi a farlo a casa, genitori, nonne… ma molti giovani non lo fanno...
Io lo faccio!
Ecco, brava! Il ragù fatto bene è un grande piatto della tradizione napoletana e proporlo agli americani, ai giapponesi o ai turisti in genere, servendolo insieme a una costina – la famosa “tracchiulella” – con un involtino, un pezzo di salsiccia nostrana cotti nel pomodoro, insieme alla pasta e a un pezzo di pane a parte per fare la scarpetta, secondo me è un piatto che spacca!
Concordo, deve assolutamente inserirlo!
(continuiamo a ridere)
Adesso siamo partiti con questo menù e non voglio scombinare le cose. Sai, anche con gli chef bisogna essere molto equilibrati: la stagione ormai è partita. Anche perché diciamocelo, il ragù d’estate è un po’ pesantuccio...Esatto! Pian piano però inseriremo tutto.
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pasta italiana settembre
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L’ARTE
DEL PIZZAIUOLO DI POMPEI Storia tragicomica di una notizia
È il 27 giugno quando il Direttore del Parco archeologico di Pompei, Gabriel Zuchtriegel, fa diramare all’ufficio stampa del sito culturale tra i più visitati del mondo un comunicato che fa rapidamente il giro del mondo. Il titolo è apparentemente innocuo: «Pompei: emerge una natura morta dai nuovi scavi della Regio IX». Ciò che però scatenerà i “soliti tifosi” della squadra “la pizza è nata a Napoli” contro quelli de “la pizza è ovunque e Napoli non ne è la capitale” è il contenuto della prima riga: «Sembra una pizza, quello che si vede su un dipinto pompeiano di 2000 anni fa». Quel “sembra”, tipico del dubbio delle discipline umanistiche è tuttavia seguito da una specifica: «Sembra una pizza […] ma ovviamente non lo può essere, a rigore, dato che mancavano alcuni degli ingredienti più caratteristici, ovvero pomodori e mozzarella». Ed è da questa frase che vogliamo aprire la nostra riflessione.
Cos’è una pizza? È vero che senza l’introduzione di pomodoro e mozzarella sulla tavola mediterranea non possiamo parlare di pizza? Ma andiamo con ordine e proveremo a rispondere a questo più avanti. Lo stesso comunicato stampa risolve infatti subito una questione: «Si suppone che accanto a un calice di vino, posato su un vassoio di argento, sia raffigurata una focaccia di forma piatta che funge da supporto per frutti
di Antonio Puzzi
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vari (individuabili un melograno e forse un dattero), condita con spezie o forse piuttosto con un tipo di pesto (moretum in latino), indicato da puntini color giallastro e ocra». Siamo dunque in presenza di qualcosa di nuovo? Assolutamente no: è tuttavia la riprova figurata di quanto ci ha consegnato a imperitura memoria il grande vate, Virgilio. Si legge infatti ancora nel comunicato stampa: «Da un passo nell’Eneide di Virgilio (libro VII, v. 128 sgg.), si può dedurre il posizionamento di frutta e altri prodotti dei campi su pani sacrificali che fungono da “mense”: nel momento in cui gli eroi troiani mangiano dopo la frutta, anche i pani usati come contenitori (mense), si accorgono nell’epos virgiliano, che si è verificata la profezia secondo la quale avrebbero trovato una nuova patria, quando “spinto a lidi sconosciuti, esaurito
ogni cibo,” la fame li avrebbe portati a “divorare anche le mense”». E, a specificare questa associazione, è proprio Zuchtriegel stesso: «Oltre all’identificazione precisa dei cibi rappresentati – commenta il direttore del Parco Archeologico di Pompei – ritroviamo in questo affresco alcuni temi della tradizione ellenistica, elaborata poi da autori di epoca romana-imperiale come Virgilio, Marziale e Filostrato. […] Come non pensare, a tal proposito, alla pizza, anch’essa nata come un piatto ‘povero’ nell’Italia meridionale, che ormai ha conquistato il mondo e viene servito anche in ristoranti stellati”». Il problema non è dunque se quella è una pizza o una mensa ma da quando la mensa finisce di essere tale e diventa una pizza. Potremmo dire che ciò accade proprio nel già citato passo dell’Eneide:
“Enea, i capi supremi e Iulo si distendono sotto i rami d’un albero altissimo: preparano i cibi, mettendo sull’erba larghe focacce di farro come fossero tavole (consigliati da Giove), e riempiono di frutta i deschi cereali. Allora, consumati quei poveri cibi, la fame li spinse ad addentare le sottili focacce spezzandone l’orlo. Ahimè – fece Iulo, scherzando – noi mangiamo anche le nostre mense”.
Oppure addentrarci in una questione tutta filosofica e rispondere come Giordano Bruno: “Se il punto non differisce dal corpo, il centro da la circonferenza, il finito da l’infinito, il massimo dal minimo, sicuramente possiamo affirmare che l’universo è tutto centro, o che il centro de l’universo è per tutto, e che la circonferenza non è in parte alcuna per quanto è differente dal centro, o pur che la circonferenza è per tutto, ma il centro non si trova in quanto che è differente da quella”. In parole povere, vuol dire che la verità è negli occhi di chi la scrive. Per comprendere ciò che intendo, vi faccio alcuni esempi: l’edizione online del celebre magazine Focus pubblica al momento della scoperta un articolo firmato da Elisabetta Intini con il titolo “È una pizza, quella raffigurata in questo affresco scoperto a Pompei?”. Poi, però, ripensandoci, corregge il tiro e oggi la notizia è in rete titolata come: “Non può essere una pizza, quella raffigurata in questo affresco scoperto a Pompei”. Decisamente più salomonica è la scelta di Sky Arte che punta su un “Da un affresco di Pompei emerge un antenato della pizza”. Euronews, la prima testata giornalistica comunitaria, è invece affetta da indecisione. Il titolo è, infatti, vicinissimo a quello di Sky (Pompei, l’antenato della pizza raffigurato in un affresco) mentre nella didascalia alla foto si parla di
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“proto-pizza” e in calce, sotto l’ultima foto, prima delle pubblicità si legge: «Offerte simili sono raffigurate in circa 300 altri affreschi e opere d’arte nell’area di Pompei, nella provincia meridionale di Napoli». Un pentimento tardivo dell’autore, forse, che, nel corso del testo, ha affidato un commento all’archeologo Alessandro Russo che lavora presso il sito culturale di Pompei, sottolineando che “sebbene nel parco archeologico esistano dipinti di focacce e altre focacce con condimenti, questo ha una strana somiglianza con quella che oggi conosciamo come pizza”. Fin qui dunque l’informazione generalista, che prova
tuttavia a entrare nel dettaglio quando vuole insegnarci cos’è una pizza: «La classica pizza come la conosciamo oggi è fatta con due ingredienti principali che non erano disponibili 2000 anni fa, quando è stato realizzato questo dipinto: i pomodori, che sono stati portati in Italia dopo la colonizzazione spagnola delle Americhe nel 1500, e la mozzarella, che sarebbe diventata popolare intorno al 1200 nella stessa regione di Pompei». Così scrive Euronews, così pensano in molti. Ai giornalisti che non si occupano di gastronomia, insomma, non la si fa: la pizza è col pomodoro! Con buona pace di Alexandre Dumas che ci parla
della pizza con pesce e formaggio e delle tante testimonianze di Mastunicola, ben più datata delle nostre pizze “rosse” che – secondo alcuni – addirittura sarebbero novecentesche. Tempo perso. L’articolo più divertente resta però quello di Tiscali News: alla Sardegna questa storia non è proprio andata giù, a dire il vero. E così, in un articolo senza firma, si legge nel titolo: “La bufala della pizza millenaria di Pompei”. Il sommario recita poi senza mezzi termini: “In molti l’hanno descritta così esagerando e sbagliando”. Incuriositi, siamo andati fino alla fine dell’articolo per capire i motivi di tanta sicumera ed ecco che troviamo quanto segue: «A prendere le distanze dalla faciloneria di certi titoli è stata la stessa gestione del sito archeologico di Pompei che ha emanato una nota ufficiale in cui si legge: “Sembra una pizza, quello che si vede su un dipinto pompeiano di 2000 anni fa, ma ovviamente non lo può essere, a rigore, dato che mancavano alcuni degli ingredienti più caratteristici, ovvero pomodori e mozzarella”». Piccola svista o scivolone voluto? Tutto è partito proprio da quella nota, infatti e non il contrario… basta cercare date e orari delle pubblicazioni per capirlo. Quella del parco non è dunque una nota “riparatrice”. L’autore/autrice dell’articolo chiosa, poi: «Tradotto: diamoci tutti una calmata ed evitiamo paragoni impropri». Ma forse qui a darsi una calma-
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ta dovrebbe essere proprio Tiscali che si è fatta prendere un po’ troppo dall’impeto e dalla diffusa “anti-Sorbilleria”, intesa come attacco indiscriminato costante a uno dei protagonisti della comunicazione della pizza, Gino Sorbillo, al quale è dedicato tutto il brutto di quell’articolo perché ha avuto l’ardire di celebrare questo ritrovamento. Chiudiamo allora la carrellata delle narrazioni con due articoli d’eccellenza, quello de Il Sole 24 Ore che titola “La pizza (o almeno un suo antenato) si mangiava già nell’antica Pompei” affidando poi la lettura economica all’onnipresente “statisticheria” di Coldiretti e quello di Artribune che, per la verità, dovrebbe essere la testata maggiormente titolata a parlare di arte e archeologia. Gloria Vergani scrive per questo magazine online un articolo che ha per titolo “Pompei continua a stupire: scoperto un nuovo affresco che ritrae una pizza” (sic!) e nel sommario si legge: “La natura morta dipinta rappresenta una tavola imbandita, e inganna l’occhio con l’immagine di quella che sembra proprio una pizza. E la domus della scoperta un tempo era proprio un panificio”. Ecco, dunque, la chiave di volta: lì c’era un panificio e – guarda caso – la pizza è un impasto di acqua e farina e nasce come diversificazione del pane. Così ce l’hanno raccontata dal Seicento in poi, così pare fosse (ora ancor di più dopo la scoperta di Pompei che conferma i testi virgiliani) 2000 anni fa.
Eppure, era così semplice capirlo…
IL FUTURO DELLA PIZZA? IL LEGAME CON LA TRADIZIONE
Cosa accadrebbe se E.T arrivasse oggi non in una villa suburbana della California ma a Napoli, per scoprire cos’è la pizza napoletana?
Sentirsi un extraterrestre è ciò che capita a chiunque entri a contatto con il mondo pizza in Campania perché spesso si “scontra” con diverse scuole di pensiero riguardo a cosa sia definibile “pizza napoletana” e cosa no.
In Campania sussiste un acceso dibattito circa la diffusione e il fascino delle nuove generazioni verso la cosiddetta - più casertana ma ormai ampiamente diffusa - “pizza contemporanea”, “a canotto” o “diversamente napoletana”. Ci si interroga su questioni spesso “mistiche”: l’uso dell’acqua di Napoli, l’esecuzione di un impasto diretto, il forno a legna, lo spessore del cornicione, l’esecuzione secondo disciplinare (che sia l’Stg o quello rivisto dell’Associazione Verace Pizza Napoletana) e, addirittura, se il pizzaiolo è nato e vissuto a Napoli. All’inizio del mio percorso, come un extraterrestre proveniente da un altro pianeta, ho fatto la celebre gavetta in una pizzeria di Napoli. Nei primi mesi la formazione consisteva nella preparazione e nell’organizzazione delle materie prime, nello staglio e, solo dopo, nella gestione degli impasti, del forno e della stesura. È stato per certi versi come compiere un’iniziazione religiosa. Credo tuttavia che l’acceso dibattito in Campania su cosa sia la “pizza napoletana” abbia ragione di esistere proprio nel rispetto della tradizione. Questa, oggi, resta un traino imprescindibile per le diverse varianti diffuse in Campania (e non solo), come la riscoperta “pizza nel ruoto” o la più tradizionale “pizza fritta” che io stessa ho rivisitato con il progetto “Montanarina Story”. A dirla tutta, però, le “nuove leve” del mondo pizza hanno oggi un accesso alle nozioni più veloce: di pari passo con la gavetta, possono frequentare corsi di alta formazione e magari lasciarsi affascinare dal modello della Cyrcular Pizza dell’Università di scienze Gastronomiche di Pollenzo; possono poi decidere consapevolmente la propria identità, professionale e di prodotto. Dire pizza napoletana, insomma, è parlare di qualcosa in pieno fermento. “Pizza Napoletana” è dunque un concetto tutt’altro che statico e immobile.
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di Federica Mignacca, Master Istruttore Scuola Italiana Pizzaioli
La Teglia contemporanea
Cos’è per te la pizza contemporanea?
Quando sento parlare di pizza contemporanea, penso immediatamente a un connubio tra tradizione e innovazione. È una rappresentazione culinaria che si ispira alla ricca storia della pizza, ma al contempo abbraccia le sfide e le tendenze attuali. Oggi la pizza contemporanea non è altro che una pizza cosiddetta “a canotto”, con un cornicione molto più pronunciato rispetto alla tradizionale pizza napoletana e con un’attenzione molto più peculiare alla natura dell’impasto.
Gli artigiani pizzaioli contemporanei stanno infatti esplorando nuovi approcci proprio nella lavorazione degli impasti, aumentando le idratazioni, prolungando i tempi di lievitazione e sperimentando metodi indiretti per ottenere risultati di straordinaria leggerezza e digeribilità.
Tuttavia, l’idea di pizza contemporanea è un concetto aperto a molteplici interpretazioni e sperimentazioni. A partire dalla "pinsa", una variazione moderna che ha recentemente fatto la sua comparsa e che sta riscontrando sempre più successo, fino alle pizze in teglia che stanno vivendo anch’esse una trasformazione, adattandosi alle preferenze e alle esigenze dell'epoca attuale. Questo processo di rinnovamento è guidato da un obiettivo comune: migliorare la digeribilità, la qualità nutrizionale e la leggerezza complessiva della pizza.
Concludendo, la pizza contemporanea incarna la ricerca dell'equilibrio tra il gusto tradizionale e l'adattamento alle richieste di oggi. È un'ode alla creatività culinaria, alla sperimentazione con gli ingredienti e alle tecniche di preparazione avanzate, il tutto con l'obiettivo di offrire un prodotto che sia al passo con i tempi e risponda alle esigenze di una società sempre più consapevole della qualità del cibo che consuma.
82 pizza e pasta italiana settembre 2023
Con questa intervista a Marco Montuori prende il via il primo di una serie di appuntamenti in occasione dei quali il famoso pizza chef ci accompagnerà alla scoperta di tecniche di lavorazione e di utili nozioni legate alla tradizione ma rivisitate in chiave contemporanea
La scelta tra impasto diretto e indiretto è un dibattito frequente nel mondo della pizza e riflette l'approccio artigianale e la ricerca di qualità. Personalmente, ritengo che entrambi gli approcci abbiano vantaggi e sfide distinti. Tuttavia, preferisco sempre utilizzare un impasto indiretto poiché offre un'opportunità unica per sviluppare complessità aromatiche che spesso non si riscontrano nell'impasto diretto.
L'impasto indiretto, che coinvolge una fase preliminare di preparazione con lievito, acqua e farina, permette infatti ai sapori di evolvere gradualmente nel tempo, contribuendo a una maggiore profondità del gusto. Questa tecnica richiede però un'eccellente padronanza nella gestione dell'impasto: se non gestito correttamente, infatti, potrebbe diventare troppo acido, compromettendo così la consistenza e la qualità della pizza finale. Pertanto, è fondamentale essere dei veri maestri nell'arte dell'impasto indiretto per ottenere risultati eccezionali. Per i pizzaioli alle prime armi consiglio quindi di utilizzare un impasto diretto, che ha comunque i suoi vantaggi. È più semplice da gestire e può dare vita a un prodotto di alta qualità, soprattutto quando si lavora con tempi di lievitazione appropriati ad esempio a 48 ore.
La farina 00 è quasi scomparsa dai radar dei pizzaioli contemporanei:
è solo una moda?
La diminuzione dell'uso della farina 00 tra i pizzaioli contemporanei non è semplicemente una moda passeggera, ma riflette un dibattito molto più complesso che coinvolge anche aspetti nutrizionali, di percezione del gusto e di marketing.
La farina 00 è stata stigmatizzata in parte a causa di una crescente attenzione alla salute da parte del consumatore finale. Anche le campagne di marketing e i messaggi mediatici hanno spesso enfatizzato
gli aspetti negativi delle farine raffinate e le preoccupazioni per la salute hanno così portato alla percezione che il cibo integrale sia intrinsecamente migliore, spingendo i consumatori a scegliere prodotti etichettati come "integrali" a prescindere dai benefici reali o dalle necessità nutrizionali individuali.
Nel mondo della pizza, per esempio, la scelta tra farina 00 e farina integrale dipende dalla prospettiva del pizzaiolo e dalle esigenze del prodotto finale. La farina 00, grazie alla sua lavorabilità e alle proprietà panificatorie, è spesso preferita dagli artigiani pizzaioli che cercano una consistenza uniforme, un'ottima struttura e una maggiore leggerezza nell'impasto.
a cura della redazione
Spesso ci si interroga su cosa sia meglio scegliere tra un impasto diretto e indiretto: tu cosa ne pensi?
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Questa farina ha meno fibre rispetto alle farine integrali, il che può contribuire alla sua versatilità in termini di lavorazione. D'altra parte, le farine integrali offrono una maggiore quantità di fibre e nutrienti essenziali, ma possono rappresentare una sfida nella gestione della lavorazione: la crusca, infatti, infastidisce la maglia glutinica che non è più così stabile e non sigilla più bene. L’aria fuoriesce con più facilità rendendo difficile la creazione di impasti alveolati e gonfi. L'uso di farine integrali richiede quindi competenze specifiche per ottenere risultati soddisfacenti, poiché la crusca può influenzare in maniera importante la consistenza dell'impasto e la struttura della pizza.
La scelta della farina giusta riflette quindi un approccio oculato che valuta attentamente i vantaggi e gli svantaggi di entrambe le opzioni e tiene conto dell'equilibrio nutrizionale complessivo dell'intera dieta.
Lievito madre o di birra? Perché?
La scelta tra lievito madre e lievito di birra dipende semplicemente dalle competenze, dalle preferenze e dagli obiettivi del pizzaiolo, nonché dal risultato desiderato per la pizza.
Il lievito di birra è più accessibile e più semplice da utilizzare, simile a guidare un motoscafo. È un lievito stabile e prevedibile che offre un maggiore controllo sulle lievitazioni. Questo tipo di lievito è un microrganismo naturale, anche se spesso viene associa-
to al termine "lievito chimico", che non è corretto. Il lievito di birra è usato ampiamente nell'industria alimentare e nella produzione di pane e pizza, garantendo risultati costanti e tempi di lievitazione più rapidi.
Il lievito madre è invece più complesso da gestire, come navigare con una barca a vela. Richiede esperienza e pratica per capire quando rinfrescarlo e come mantenere l'equilibrio giusto. Il lievito madre sviluppa aromi unici durante la fermentazione, conferendo profumi e sapori caratteristici alla pizza. Questa scelta richiede un impegno maggiore, ma può portare a un prodotto finale molto più aromatico e gustoso.
Per chi è alle prime armi o desidera una soluzione più pratica, il lievito di birra potrebbe essere la scelta migliore. C'è però un'alternativa che combina elementi di entrambe le opzioni, ovvero utilizzare la farina Di Marco, che incorpora una biga con un impasto indiretto realizzato con lievito naturale. Questa opzione offre l'aromaticità sia dalla biga che dal lievito naturale, consentendo di ottenere un prodotto di alta qualità senza la complessità del lievito madre.
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13-17 OCTOBER 2023 fieramilano • • • • • • •
condimento:
Condisci i crostini con dello yogurt greco che dona una leggera acidità. Pulisci i gamberi rossi e saltali in padella con alcune foglie di menta, pepe e un filo d'olio (ricorda di cuocerli per breve tempo, circa 30 secondi, poiché la cottura veloce preserverà la delicatezza del pesce). Distribuisci infine i gamberi con la menta sopra la crema di yogurt greco e aggiungi in cima una spolverata di tartufo.
Ricetta a cura di Marco Montuori
impasto:
Prepara l’impasto per la pizza e stendilo fine fine in una teglia. Cuocilo a 200° invece che a 300°: la temperatura più bassa garantirà una cottura più lenta ritardando la colorazione dell’impasto. Così facendo la pizza si asciugherà e assumerà una consistenza croccante, simile al cristallo. Una volta cotta, ricava dei piccoli trancetti pronti per essere farciti, come quelli che vedi nella foto.
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Questa ricetta è estremamente sfiziosa e si presta perfettamente a occasioni di condivisione, come aperitivi, finger food o antipasti.
LA TERRA DI MEZZO. Pizza e Pasta in Molise e Sardegna
di Domenico Maria Jacobone
“La Terra-di-mezzo, comunque, non è una terra che non c’è, senza relazione con il mondo in cui viviamo […]. Deriva solo dall’uso del termine medio inglese middel-erde (o erthe), modificazione del termine dell’antico inglese middangeard: il nome per le terre abitate dagli uomini «in mezzo ai mari»”.
J.R.R. Tolkien, lettera 165 all’Houghton Mifflin Co.
Questo viaggio gastronomico non si svolge in un’ambientazione fantastica come quella de “Il Signore degli Anelli” di Tolkien ma la citazione della descrizione che il noto autore fa di questo territorio protagonista del suo libro è assolutamente calzante alle due splendide regioni di cui vi racconterò qualche segreto nascosto e piatti meno noti. Sardegna e Molise condividono la selvaggia bellezza dei territori che, per quanto si vogliano girare e conoscere, manterranno sempre un’aura di mistero. Entrambe le regioni sono caratterizzate da una viabilità non proprio scorrevole: i capoluoghi di regione — Cagliari e Campobasso — non sono collegati da alcuna autostrada e quindi sono visitabili a
patto di avere la pazienza di condurre un avvicinamento meno frettoloso del solito alla meta. La Sardegna è l’unica regione d’Italia a non avere nemmeno un km di autostrada ma quello che sembra apparentemente uno svantaggio rende i viaggi un po’ più avventurosi e romantici, quasi come fatti in un altro tempo. L’andatura forzatamente più lenta consente di ammirare scorci paesaggistici ed architettonici
che non ti aspetti, la lentezza aiuta a rendersi conto meglio di quanto la natura si vada a declinare dalle infinite sfumature del mare agli impenetrabili boschi di montagna, senza soluzione di continuità. La cucina di queste due regioni presenta analogie sorprendenti, fatte di latticini, insaccati e prodotti ittici che si mescolano con grani antichi, carni, spezie e sapori di origine lontana ed esotica che danno origine a piatti sorprendenti.
88 pizza e pasta italiana settembre 2023
Molise
Il Molise è un’isola felice in pieno Sud Italia, un piccolo scrigno di bellezze poco conosciute ed accessibili come la stupefacente Basilica Minore dell'Addolorata a Castelpetroso, che compare dal nulla e sembra una piccola Notre Dame in mezzo ad una amena vallata. Senza ulteriori divagazioni si può affermare che questa regione esprime un unicum culinario caratterizzato da un’ampia varietà e biodiversità, nel quale si possono trovare in pochi chilometri le prelibatezze dei tartufi bianchi e neri e i pregiati pesci dell’Adriatico: meraviglioso è, ad esempio, il Brodetto alla Termolese; inoltre si allevano ovini, suini e bovini che danno carni pregiatissime e salumi unici come la Ventricina Molisana, il capocollo e le salsicce dolci e piccanti. Non si possono poi dimenticare i latticini tipici come il Caciocavallo di Agnone DOP, la stracciata di Agnone DOP, il Pecorino con le due famose declinazioni: del Matese e di Capracotta. Quando si parla di pasta nei paesi molisani, non si può prescindere dalla classica ricetta del fusillo alla molisana. Si tratta di un vero e proprio caposaldo della cultura regionale, caratterizzato da un sugo che si arricchisce del sapore delle carni di agnello che, a seconda della zona, vengono arricchite di vitello e salsiccia di maiale, odori e verdure che cuociono almeno due ore prima di essere serviti insieme alla pasta, con l’immancabile spolverata di pecorino ad insaporire ulteriormen-
te il piatto. Altri formati tipici sono i “cavatiell”, cavatelli tirati a mano che vengono conditi spesso con un sugo di pomodoro e straccetti di maiale. Seppur condivise con Abruzzo e Lazio, le sagne sono altre immancabili protagoniste di questa parata. Possono essere di forma romboidale, nella loro versione classica, oppure si presentano in taglio a listarelle piatte, piccoli quadrati o rettangoli. Le sagne sono inscindibilmente legate al consumo dei legumi e nella declinazione molisana si preparano con cicerchie al pomodoro, arricchite da lardo di prosciutto, peperoncino e basilico. Concludono le tipicità regionali i crioli, simili agli spaghetti alla chitarra ma con un profilo più arrotondato, perché si lavorano da una sfoglia di pasta abbastanza sottile che viene arrotolata e tagliata strettissima al coltello. Si possono accompagnare a sughi di carne o con una preparazione bianca a base di noci e baccalà. Passando dalla pasta alla pizza, è impossibile non citare la cucina antica con il piatto Pizza e Minestra o “pizza e foje”. Questa arriva direttamente dalla storia contadina più antica ed è un piatto realizzato con erbe di campo scottate in acqua e ripassate in padella con olio ed aglio, accompagnate da una “pizza” di mais fragrante che si spezza e si ammolla nell’acqua di cottura delle erbette. Il tutto viene servito insieme, rendendo questo piatto povero molto gustoso. Nei periodi di festa, la zuppa veniva arricchita da guan-
ciale o salsiccia per dare più gusto e maggior apporto calorico. Concludiamo questo viaggio molisano con le pizze, che non possono prescindere dagli ingredienti del territorio e quindi dalle farine di grani antichi sanniti: solina, saragolla, marzuolo, farro e romanella che costituiscono la base di molti impasti. Lo stile della pizzeria molisana risente della zona geografica: sulla costa si predilige quello romano, mentre nell’interno l’influenza della scuola napoletana genera pizze ben più corpose. I condimenti richiamano le gustose ricette locali: la margherita con aggiunta di ventricina molisana (da non confondere con la Diavola, con la salsiccia piccante), oppure la pizza a base bianca con stracciata di Agnone, cicoria, peperoncino e la soppressata molisana. Non può mancare la proposta gourmet, con scamorza di Bojano, salsiccia fresca e scaglie di tartufo fresco.
89 MOLISE
Sardegna
Cambiando scenario, l’esportazione dei sapori della Sardegna ci apre uno scenario culinario vasto quanto la sua meravigliosa geografia incastonata nel Mediterraneo: ogni quadrante ha una sua particolarità e troviamo nuovamente mare e terra che si contrappongono per fondersi in sapori indimenticabili. In Sardegna la pasta si esprime in formati diversi, con condimenti che si susseguono attraverso le varie zone geografiche. Cominciamo con i Maccarrones de busa a sa sarda che nascondono nel loro Dna la tecnica araba della lavorazione a ferretto e si condiscono con il mix di sugo di zafferano, spezie, polpa di maiale e funghi. Non può mancare inoltre la fregola sarda, particolarissimo formato di pasta di grano, sbriciolata ed essiccata in piccolissime palline, che usualmente si prepara con il pesce, specialmente con il sughetto di Arselle.
Una delle pietre angolari della cucina sarda e forse uno dei formati di pasta che meglio accomuna tutta l’isola sono gli gnocchetti sardi, i cosiddetti Malloreddus, considerati un po’ la pasta delle feste. Li troviamo conditi tipicamente alla Campidanese, con sugo di pomodoro con salsiccia, zafferano e un’abbondante spolverata di pecorino. Una particolarità da gustare almeno una volta nella vita, prima con gli occhi che con l’assaggio, sono i Filindeus Detti anche “filindeu" o "su filindeu", sono un rarissimo formato di pasta tipico della Barbagia nuorese, che si ottiene con una liturgica sovrapposizione di sottilissimi fili di pasta di grano duro ed acqua, tirati rigorosamente a mano. Una volta ottenuti questi impalpabili “fili”, si dispongono a reticolo sul tipico cesto di Asfodelo circolare, stratificandoli pian piano, per poi successivamente farli essiccare al sole.
Il disco di pasta così ottenuto dalla sovrapposizione dei molteplici sottilissimi strati viene tagliato in pezzi disomogenei ed immerso nel brodo di pecora. Il piatto viene servito con una spolverata leggera di pecorino a fine cottura e rappresenta sicuramente un’estasi di semplicità. La panificazione in Sardegna ha una storia che parla lingue mediterranee, fatta di farine, orzo ed addirittura ghiande (in mancanza d’altro…), acqua, sale, lievitazioni accennate o lunghe che declinano prodotti diversissimi che si producevano spesso una sola volta a settimana o al mese e sono diametralmente opposti nel gusto e nella forma.
Nel Nord dell’isola troviamo la spianada, un disco di pasta lievitata morbido e flessibile, di sapore abbastanza neutro, che veniva infornata dopo il pane carasau perché non ha bisogno di temperature molto elevate per la cottura. Un’analogia con il Molise: spesso questa preparazione veniva fatta seccare e messa nelle minestre per “rinforzarle”.
90 pizza e pasta italiana settembre 2023 SARDEGNA
Il pane carasau è forse il più famoso dei prodotti sardi nel mondo e viene dalla zona centrale verso il sud arrivando sino alla Barbagia, una sfoglia di pane croccante e sottilissimo che si presta a moltissimi utilizzi.
Chiudono i pani lievitati con mollica, i civraxiu, che oggi si trovano in tutta l’isola ma sono frutto di una tradizione del sud Sardegna. Per i condimenti, c’è l’imbarazzo della scelta perché l’isola offre verdure, carni, ha un clima ideale per la stagionatura di salumi e formaggi, è ricca di tradizione casearia ed offre i prodotti del mare più disparati. Impossibile stabilire una classifica delle pizze tipiche ma si possono assaggiare gusti che si contrastano come la pizza bianca con fior di latte sardo, lardo al mirto, miele e noci.
Oppure si salta dai prodotti di terra al mare come nel caso dell’abbinamento della pizza con la dolcezza del fior di latte, i famosi carciofi sardi e una grattata di bottarga di muggine. Non basterebbe un’intera pagina per descrivere le differenti fantasie di gusto che si possono assaggiare in questi territori ma non sbaglio se vi confesso che ogni volta che capi-
to in una di queste trovo qualcosa di nuovo ed inaspettato. A parte il gusto, meritano un approfondito ascolto i racconti delle anziane signore che stendono la pasta e, magari, anche una chiacchierata di confronto con il punto di vista di colleghi che ogni giorno portano fieramente nei piatti le prelibatezze di queste due meravigliose e selvagge regioni.
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per la tua
92 pizza e pasta italiana settembre 2023 di A.P.
Impastatrice: quale scelgo per la mia pizzeria?
Se fate l’impasto a mano, questo articolo potete tranquillamente saltarlo a piè pari ma… poiché oggi l’ausilio delle strumentazioni tecniche più evolute ci consente di raggiungere risultati insperati fino a qualche anno fa, forse è il caso di chiedersi: quale impastatrice mi aiuta a ottenere l’impasto migliore?
Ecco, sfatiamo subito un mito: una risposta univoca non c’è, perché molto dipende da quello che intendete fare. Per fornirvi una riflessione il più accurata possibile, abbiamo chiesto aiuto a due tecnici d’eccezione: Aurora Napolitano, responsabile della formazione delle scuole dell’Associazione Verace Pizza Napoletana e Tiziano De Filippis, direttore tecnico della Scuola Italiana Pizzaioli.
Quali sono gli effetti delle temperature sugli impasti?
Aurora: Ogni impasto lievitato contiene microrganismi viventi (lieviti e batteri). Di conseguenza, la temperatura dell’impasto deve essere idonea al loro metabolismo. La temperatura è un fattore determinante nella vita di tutti gli esseri viventi, capace di accelerare e rallentare il metabolismo cellulare. Il valore della temperatura finale dell’impasto dipende da più fattori: la temperatura dell’ambiente di lavorazione, la temperatura delle materie prime impiegate (farina e acqua) e dal riscaldamento provocato dall’impastatrice. La temperatura della farina, dell’ambiente, quella dell’acqua e quella generata dall’azione della macchina impastatrice
sono fattori determinanti nella gestione dell’impasto. I primi tre sono facilmente misurabili con un termometro, mentre l’ultimo dipende dal tipo di impastatrice usata. In commercio ne troviamo di tre tipi: l’impastatrice a forcella, più lenta, che genera un riscaldamento dell’impasto in media di 3°C; quella a braccia tuffanti che crea un riscaldamento attorno ai 6°C e la spirale, che alza la temperatura dell’impasto in media di circa 9°C.
Quali sono gli effetti sugli impasti dovuti al surriscaldamento della macchina impastatrice?
Tiziano: L’impasto si forma grazie a vari passaggi ed elementi che, combinati fra loro, facilitano il lavoro dell’impastatrice stessa. Ogni tipologia di impasto ha una meccanica diversa, che condiziona il tempo di impiego per ottenere un determinato prodotto; alcune discriminanti ad esempio sono la vasca, il piantone di contrasto, la spirale e la struttura, che solitamente è in acciaio. Ciascun elemento ha un coefficiente di surriscaldamento diver-
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so, dovuto all’attrito che l’impasto subisce durante la sua formazione. Il surriscaldamento trasmesso all’impasto non deve essere basso e neppure troppo alto perché penalizzerebbe la temperatura ideale finale che si vuole ottenere. La stessa che permetterà all’impasto di avere il corretto equilibrio per una buona maturazione. Se l’impasto viene lavorato troppo a lungo e quindi il surriscaldamento risultasse eccessivo, avremo un impasto molto rigido e stressato, che causerà una masticazione del prodotto più lunga e una tenuta minore della pallina (o panetto) in fase di lavorazione. Viceversa, con un surriscaldamento più basso, la maglia glutinica sarà poco strutturata penalizzando lo sviluppo che l’impasto dovrebbe avere.
Quale macchina impastatrice è più adatta per la vera pizza napoletana?
Aurora: L’impastatrice a forcella rimane sinonimo di tradizione ed è quella preferita dai pizzaioli storici. L’impastatrice a spirale che inizialmente comportava un eccessivo riscaldamento dell’impasto, con l’avvento delle tecnologie e delle modifiche tecniche al verme e alla vasca arrotondata è entrata a far parte ormai a pieno titolo dell’utilizzo nelle pizzerie napoletana. A mio avviso, però, l’impastatrice a braccia tuffanti rimane la più vicina alla simulazione della manualità e preserva la delicatezza dell’impasto.
Immaginiamo di non volere fare la pizza napoletana: quale macchina impastatrice possiamo consigliare ai pizzaioli “non napoletani”?
Tiziano: Esistono tante tipologie di impastatrici in commercio. Solitamente, per il mondo pizza la più consigliata è quella a spirale, in quanto permette di gestire ricette più complesse o comunque diverse tipologie di impasti. Ogni meccanica conferisce una caratteristica ben precisa, soprattutto nella consistenza dell’impasto, ovviamente con surriscaldamenti differenti. Quella a forcella, per esempio, è quella che registra un surriscaldamento più basso, quindi il tempo di impiego sarà medio-lungo, senza stressare troppo la formazione dell’impasto e si rivela dunque molto adatta anche per la pizza napoletana. Quella a braccia tuffanti permette invece di fare impasti che necessitano di rimanere più a lungo durante la loro formazione ed è dunque ideale per la pasticceria e per i grandi lievitati. Quella a spirale ha un surriscaldamento medio e quindi in base alle caratteristiche di come è strutturata permette di fare qualsiasi
tipo di impasto (anche quelli ad alte idratazioni). Non voglio però dimenticare di citare la planetaria utilizzata tanto a livello domestico, quanto in ambito ristorativo e in pasticceria, la quale permette di fare molte lavorazioni ma con una meccanica molto più energica ed aggressiva.
94 pizza e pasta italiana settembre 2023
A voi dunque l’ardua sentenza.
Napoli: ALLA SCOPERTA DELLE birre ARTIGIANALI CHE CELEBRANO l'anima
VIBRANTE DELLA CITTÀ
96 pizza e pasta italiana settembre 2023
di Alfonso Del Forno
BIRRA
LA
La città di Napoli, con la sua ricca storia, la cultura vivace e il panorama mozzafiato, sta vivendo una rinascita entusiasmante che sta attirando sempre più turisti da tutto il mondo. Oltre alle sue attrazioni culturali e paesaggistiche, Napoli è diventata una mecca per gli amanti della birra artigianale, grazie ai tanti locali che hanno selezionato le migliori birre italiane e straniere, presenti
LA RINASCITA DI NAPOLI E L'ATTRAZIONE TURISTICA LE BIRRE DI KBIRR
Tra i birrifici che hanno catturato l'anima
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Illustrazioni di Giulia Serafin
BIRRIFICIO INCANTO: UN OMAGGIO A NAPOLI
Il birrificio Incanto, con sede a Casalnuovo di Napoli, è profondamente legato all'identità di Napoli. Le etichette delle sue birre richiamano la città, con il golfo di Napoli e il Vesuvio che dominano il logo. Una delle birre più celebrate di Incanto è la 21 12, una birra di Natale che commemora la data di nascita della città, il 21 dicembre. Questa birra, con il suo gusto complesso e ricco, rappresenta un autentico omaggio alla storia e alla tradizione di Napoli ed è una delle birre campane più premiate in Europa.
UN VIAGGIO NEL GUSTO E NELLA CULTURA DI NAPOLI
Le birre artigianali dedicate a Napoli of frono un viaggio unico nel gusto e nella cultura di questa città straordinaria. Ogni sorso è un'opportunità per immergersi nelle tradizioni locali e sperimentare la passione che Napoli evoca. Inoltre, le bir re create per celebrare i successi sportivi del Napoli Calcio dimostrano il legame profondo tra la città e il suo amato club, creando un'atmosfera di festa e di gioia.
Assaggiare queste birre è un modo unico per immergersi nella cultura e nel gusto di Napoli, portando a casa un ricordo indimenticabile della vibrante scena birraria della città. Quindi, la prossima volta che visitate Napoli, assicuratevi di scoprire queste deliziose birre artigianali che celebrano l'anima di una delle città più affascinanti del mondo.
98 pizza e pasta italiana settembre 2023 LA BIRRA
a cura della Dott.ssa Marisa Cammarano, biologa nutrizionista
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Rispetto a quelli “moderni”, questi cereali differiscono nell’aspetto, nella genetica e per la loro produttività, sia in termini quantitativi che qualitativi. Prima di descriverne i pregi, bisogna precisare le differenze sostanziali che distinguono i grani antichi da quelli moderni, dal punto di vista genetico e produttivo. I punti fondamentali per identificarli sono due. La taglia alta è la caratteristica più immediata per riconoscerli in campo. I grani moderni, infatti, hanno subito un processo selettivo, detto di nanizzazione, riducendone notevolmente le dimensioni delle piante. I grani antichi, diversamente da quelli moderni, non sono stati selezionati per la composizione in gliadine e glutenine, per questo motivo, dunque, hanno un glutine “debole” ed un valore di capacità panificabile (W) intorno a 100.
Ciò significa che le farine da essi ottenute possono assorbire meno del 50% del loro peso in acqua e la realizzazione dei prodotti lievitati, quindi, risulta essere più complessa. Per questo motivo, il pane fatto con i grani antichi tende molto di più a sbriciolarsi, perché la rete del glutine è meno elastica ed anche meno compatta. Gli enzimi intestinali, però, riescono a digerirla più facilmente. Le differenze non si fermano solo a questi aspetti, infatti, importanti studi clinici condotti su pazienti affetti da sindrome dell’intestino irritabile, patologie cardiovascolari, diabete di tipo 2 e steatosi epatica, hanno dimostrato un’azione infiammatoria notevolmente inferiore per i grani antichi. A determinare queste differenze, innegabili, è un insieme di peculiarità nutrizionali che genera un profilo nettamente più salutare rispetto a quello dei grani moderni. Soprattutto sui grani teneri, la selezione genetica della seconda metà del Novecento ha determinato, infatti, cambiamenti enormi, con selezioni molto spinte sulla forza del glutine. I grani duri, invece, non hanno vissuto la stessa evoluzione, conservando in molti casi una parte del genoma della varietà antica Senatore Cappelli. Di conseguenza, la diversa struttura di questa proteina determina una migliore digeribilità. Le proprietà nutrizionali dei grani antichi sono numerose.
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È di uso comune definire “grani antichi” le varietà coltivate prima dell’industrializzazione della nostra agricoltura ovvero fino alla prima metà del Novecento, e recentemente riscoperte in chiave salutistica e gastronomica.
Il loro amido è diverso e l’indice glicemico è più basso, anche a parità di molitura; aspetto, questo, molto importante per ridurre l’impatto glicemico dei pasti ed i picchi di insulina. La densità dei micronutrienti è superiore e la qualità dei polifenoli risulta molto più variata, pur avendo quantitativi complessivamente simili. Spiccano anche i livelli e la gamma degli antiossidanti, tra i quali il selenio, presente in dosi 2-3 volte superiori a quelle dei grani moderni.
I grani antichi sono ricchi, inoltre, di carotenoidi, che, anche in questo caso, sono espressi in una grande variabilità, in particolare, la luteina, sostanza importante per la salute degli occhi e largamente impiegata nella produzione di integratori specifici. Non a caso, la si utilizza nella terapia delle degenerazioni maculari senili che rappresenta la forma più frequente di degradazione della retina. inoltre, essendo termostabile, la luteina si mantiene anche dopo la panificazione e la cottura. Sulla pizza, tra i prodotti da forno più “difficili” da digerire, pesano due fattori dall’impatto negativo. Oltre ad utilizzare farine raffinate di grani scadenti, con valori di W altissimi, spesso, nella ristorazione, gli impasti vengono lasciati “lievitare” solo parzialmente. Questo aspetto grava ulteriormente sulla digeribilità, perché il lievito, almeno in parte, nei tempi opportuni, aiuta la metabolizzazione del glutine e delle proteine anti digestive, che, al contrario, arrivando integre nello stomaco nuocciono ancor di più.
102 pizza e pasta italiana settembre 2023
Il contenuto proteico è superiore rispetto a quello dei grani moderni.
Se, quindi, i tempi di lievitazione non sono troppo compressi e si utilizzano farine integrali o semi integrali, soprattutto se da grani antichi, la pizza risulterà più digeribile e complessivamente migliore sul piano nutrizionale. Nel caso del pane, invece, quando si cerca quello integrale da grani antichi bisogna sempre leggere attentamente la lista degli ingredienti, che i fornai devono obbligatoriamente esporre. Spesso, infatti, con questa denominazione vengono venduti prodotti che contengono percentuali ridotte delle farine desiderate, oppure macinati, raffinati e poi addizionati con cruschello. In questo caso, l’indice glicemico è analogo a quello del pane bianco e vengono a mancare le proprietà nutrizionali sopra elencate, delle quali invece può fregiarsi un pane di farine integrali di grani antichi molite a pietra.
L’Organizzazione mondiale della Sanità consiglia una dose giornaliera di almeno 30 gr di fibra, ma l’italiano medio in genere fatica a raggiungere la metà di questo valore. I grani antichi incontrano, ancora, una certa difficoltà ad entrare nelle abitudini di massa, a causa di una lavorazione meno semplice rispetto a quella dei grani moderni, e soprattutto di un’abitudine a quel determinato gusto consolidata ormai da decenni. Per fortuna, il futuro riserverà una progressiva diffusione di questi cereali, favorendo anche un nuovo modello selettivo, incentrato sia sul valore nutrizionale che sul rispetto dell’ambiente. Nel secolo scorso, invece, gli obiettivi della selezione erano incentrati unicamente sulla facilitazione delle lavorazioni industriali e sulla produttività per ettaro, trascurando la qualità dei prodotti ed i costi ambientali, dovuti all’uso di pesticidi, antimicotici e concimi.
104 pizza e pasta italiana settembre 2023
MOLINO NALDONI
Faenza (PR)
T. 0546 40002
M. naldoni@molinonaldoni.it
Qual è il nostro impatto ambientale?
Per rispondere a questa domanda in Molino Naldoni ci concentriamo su: salvaguardia delle risorse naturali del Pianeta, offerta di prodotti sani e costruzione di filiere nel territorio. Partiamo con la selezione delle aree di provenienza del grano in base a rigidi disciplinari restrittivi in merito all’utilizzo di fertilizzanti, pesticidi, erbicidi e tutto ciò che causa disequilibrio negli ecosistemi naturali e compromissione delle falde. Ci assicuriamo inoltre che i campi siano soggetti a rotazione colturale e a divieto di OGM. Oltre l’85% del grano in ingresso nei nostri mulini è italiano, di questo quasi il 40% proviene dalle province di Ravenna e Forlì Cesena: si chiama “Le Farine del Passatore” ed è il nostro progetto di filiera certificata, costituito ben 20 anni fa. Siamo un’azienda familiare, maciniamo grano da 7 generazioni producendo farina 100% naturale, senza l’aggiunta di enzimi o additivi.
www.molinonaldoni.it
Possiamo macinare fino a 450 tonnellate di grano tenero al giorno con 2 impianti a cilindri, 1 impianto a pietra dedicato alla molitura esclusiva di grano biologico italiano a km zero ed 1 mulino storico del 1398 alimentato ad acqua. Passione e senso di appartenenza caratterizzano le persone in azienda, costruire un solido rapporto umano è il nostro valore fondante: siamo 34 dipendenti e circa 50 collaboratori a sostegno del made in Italy di qualità per industrie, professionisti e retail.
A breve potremo contare sul logo “Green label” e avremo a disposizione il toolkit per la comunicazione.
Tra le certificazioni che Molino Naldoni annovera: EcoVadis sulla sostenibilità (ultima ottenuta), BRCGS AA (per i due stabilimenti di Faenza e Marzeno), CCPB Certificazione alla produzione biologica ed etichettatura dei prodotti del Biologico (per Marzeno), UNI EN ISO 22005, UNI
LE AZIENDE INFORMANO
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Ti piace? E Prov la
di Caterina Vianello
Ogni formaggio che si rispetti lega la sua storia ad un luogo identitario, fatto di una geografia e di un contesto ambientale ben preciso. La Provola dei Monti Lattari e il Provolone del Monaco ovviamente non sfuggono a questa legge: prima di assaggiare quindi due delle paste filate più rappresentative della Campania, è bene allora visitare i Monti Lattari, punto di partenza imprescindibile per queste due eccellenze casearie.
I Monti Lattari
I Monti Lattari si trovano nella Penisola Sorrentina: in queste montagne l’allevamento dei bovini risale al 264 a.C., epoca in cui i Picentini – primi abitanti – vinti dai Romani, furono costretti dalle Marche a spostarsi qui. Progressivamente, trasformarono lo spazio sottratto ai boschi in terreni coltivabili affiancando attività agricola e allevamento di animali, in particolare appunto bovini ad attitudine lattifera: furono proprio loro, con le loro eccezionali produzioni e qualità del latte, a dare alle alture il nome di “Lactaria Montes”. Nel corso del tempo, a seguito dei numerosi incroci con razze introdotte nei secoli successivi (Bretonne, Bruna Alpina, Jersey e
Pezzata Nera Olandese) e grazie sia all’opera dei Borboni, che favorirono il miglioramento genetico, sia a quella del militare di ventura Avitabile – la cui figura è una storia nella storia – si arrivò ad ottenere esemplari di una nuova razza, l’Agerolese. La prima descrizione dettagliata della razza risale al 1909, a cura del dottor Mollo, che parla degli allevamenti nella zona di Castellammare e nella Penisola Sorrentina e riporta una descrizione dettagliata sul bovino allevato in questo territorio: oltre alle “mammelle sviluppatissime”, sottolinea la produttività della vacca da latte: “una buona lattaia dà dai diciassette ai diciotto litri di latte al giorno […] nella buona stagione, quando
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abbonda il foraggio verde ed il clima incomincia a diventar più mite il latte diventa più aromatico”. Bisognerà però aspettare il 1952 per il riconoscimento ufficiale, per standard della razza, del nome “Agerolese”, che appunto in quell’anno venne presentato al Ministero dell’agricoltura e delle foreste. Una razza unica, dunque, per caratteristiche fisiche e resa alla quale si devono appunto, prodotti come il Provolone del Monaco Dop, la Provola di Agerola, caciocavallo, scamorza, burro e fiordilatte.
Che cos’è una provola
La forma tipica di una “provola” in Italia è assimilabile a quella di tutte le paste filate tipiche del Sud: a forma di pera, con una piccola testina legata da un cappio nella parte superiore. Ha crosta liscia, di colore bianco, così come la pasta, che ha consistenza morbida, compatta ed elastica. Il sapore è dolce e leggermente acidulo, e l’aroma molto delicato. La stagionatura varia da un minimo di 24 ore fino a 10 giorni, ma nei prodotti più stagionati può arrivare addirittura fino a 6 mesi. La provola è però uno tra i più antichi formaggi del Sud Italia. Le origini del suo nome sono controverse: c’e’è chi lo fa derivare da “prova”, perché in origine veniva fatta appunto una prova relativa alla lavorazione del formaggio, prelevando dalla vasca un pezzetto di pasta per verificarne lo stato di filatura. C’è invece chi lo ricollega al termine “Pruvatura” o “Pruvula”, che stava ad indicare il pezzo di pasta di formaggio fatto assaggiare ai fedeli, componenti del Capitolo, che andavano in processione verso il monastero di San Lorenzo in Capua, in provincia di Caserta. Se in generale la provola si produce anche in Puglia, Molise, Sicilia (in particolare per quanto riguarda quella con latte vaccino), la Campania è terra d’elezione, sia per la peculiarità del prodotto agerolese, sia perché qui se ne produce anche la versione bufalina, sia anche per la versione affumicata.
È la pasta filata campana della quale si ha la documentazione più antica, presente nei presepi napoletani dal 1600, ben prima della mozzarella, prodotto di minore importanza perché più facilmente deperibile. Se di latte di bufala, la provola ha forma sferica, particolarità che oggi è passata anche alle provole fresche fatte con latte vaccino.
Provola e Mozzarella
Spesso si dice che la provola sia una sorta di mozzarella stagionata: in effetti il procedimento di lavorazione è uguale fino all’ultima fase, cioè la stagionatura, che nella produzione della mozzarella è assente. In generale, può essere prodotta sia con latte vaccino, sia con latte di bufala e tanto nella versione naturale quanto in quella affumicata. Come si diceva, la tecnica di lavorazione è simile a quella della mozzarella, dalla quale si differenzia per la fase della filatura – leggermente più lunga a fatta in modo che la pasta assorba una minore quantità di acqua e sia più consistente – la stagionatura, che – come abbiamo detto – può avere durate molto variabili.
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La Provola di Agerola
La Provola di Agerola trova il suo tratto di specificità nell’affumicatura, che viene realizzata sistemando il formaggio su delle griglie ed esposto al fumo naturale che proviene dalla combustione di paglia e trucioli di legno. Ottiene così una superficie dal colore più marcato, brunito, un odore caratteristico ed un delicato retrogusto di fumo. Nella Penisola Sorrentina, in particolare, la provola affumicata di Agerola viene realizzata unicamente grazie alla trasformazione del latte crudo vaccino. Una variante è poi quella fatta con latte di bufala intero crudo: viene realizzata con caglio di vitello e fatta filare a una temperatura che sfiora il bollore. In Campania molto comune è quella affumicata, per il sapore intenso e deciso.
Provolone del Monaco
Con origini che guardano anche in questo caso alla produzione casearia dei Monti Lattari e della Penisola Sorrentina è anche il Provolone del Monaco. Deve il nome alla sua commercializzazione: con l’obiettivo di trovare sbocchi commerciali più ampi, i contadini che lo producevano si spinsero progressivamente dalle varie località della Penisola Sorrentina ai mercati della città di Napoli. Per proteggersi dal freddo e dall’umidità, raggiungevano la città via mare coperti da un mantello simile a un saio, assumendo così un aspetto che li faceva assomigliare a dei monaci. “Monaco” divenne quindi il soprannome con cui la gente del porto si abituò a chiamarli, finendo per battezzare il loro formaggio “Provolone del Monaco”.
Il Provolone del Monaco DOP è un formaggio semiduro, a pasta filata, prodotto esclusivamente con latte crudo vaccino ottenuto per almeno il 20% da bovine di razza Agerolese e per la quota restante da razze diverse (Frisona, Brunalpina, Pezzata Rossa, Jersey, Podolica) che siano allevate esclusivamente nella zona di produzione. Il territorio di riferimento è quello della provincia di Napoli, in particolare la Penisola Sorrentina ed il territorio dei Monti Lattari. Nel dettaglio, i comuni sono 13: Agerola, Casola di Napoli, Castellammare di Stabia, Gragnano, Lettere, Massa Lubrense, Meta, Piano di Sorrento, Pimonte, Sant’Agnello, Sorrento, Santa Maria La Carità, Vico Equense. La lavorazione prevede che il latte venga fatto coagulare per 40-60 minuti con aggiunta di caglio in pasta di capretto o caglio naturale liquido di vitello. Una volta raggiunta la consistenza desidera-
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ta, la cagliata viene rotta in grani grandi quanto un chicco di mais e lasciata riposare per 20 minuti, quindi riscaldata fino a 48-52°C e lasciata riposare per altri 30 minuti. Viene quindi estratta dal siero e trasferita in teli di canapa o cestelli forati. Quando ha raggiunto una consistenza sufficientemente elastica, si procede al taglio in fettucce e poi alla filatura a mano, con acqua alla temperatura di 85-95°C. Le forme ottenute, una volta fatte rassodare in acqua fredda e salate in salamoia, vengono legate a coppie e appese su incastellature dove rimangono ad asciugare per 10-20 giorni. Vengono poi messe a stagionare tra 8 e 15°C per non meno di sei mesi (ma già a nove ha raggiunto la sua eccellenza), periodo in cui vengono lavate e pulite ed eventualmente oliate (con olio extravergine di oliva Penisola Sorrentina DOP). Il risultato è un formaggio che ha una forma simile a quella di un melone allungato o di pera senza testina, suddiviso in un minimo di sei facce, di peso compreso tra i 2,5 e gli 8 kg. La pasta è elastica, di color crema con toni giallognoli, compatta, uniforme e senza sfaldature, con occhiature di diametro variabile sino ai 5 mm. La crosta è sottile e quasi liscia, di colore giallognolo con toni leggermente scuri e ha leggeri solchi longitudinali in corrispondenza dei legacci di rafia usati per il sostegno; tende a diventare più gialla e spessa quando la stagionatura supera i 7-8 mesi, con la pasta che diventa più consistente. Il sapore è dolce e burroso, con note variamente piccanti che si fanno più penetranti e intense con il protrarsi della stagionatura. La ricetta più rappresentativa dell’uso gastronomico del Provolone del Monaco è la “pasta e patate”, piatto di origine povera in cui il Provolone, sia grattugiato che aggiunto a scaglie sottili, diventa protagonista assoluto, conferendo profumi e sapori ad ingredienti semplicissimi.
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IL VERO TRONCHETTO DI FAGGIO
Dite Cheese!
Appuntamento in Piemonte con i migliori formaggi del mondo
a
cura
di Silvia Ceriani www.slowfood.it
Tra format storici ed eventi inediti, ecco tutte le esperienze da vivere a Cheese, dal 15 al 18 settembre 2023, nella quattro giorni braidese più verde di sempre. Ecco la top ten di #Cheese2023.
110 pizza e pasta italiana settembre 2023
1. Provare originali abbinamenti con i Laboratori del Gusto
I Laboratori del Gusto di Cheese ci permettono di esplorare un universo di pascoli e prati, risorse animali e savoir faire artigianali, ma anche di sperimentare inusuali abbinamenti, come quelli che vedono protagoniste le grappe e il caffè.
2. Partecipare agli Appuntamenti a tavola e alle lezioni di In cucina con Slow Food insieme ai cuochi dell’Alleanza
A Cheese i cuochi dell’Alleanza sono i ponti tra il mondo di pastori, casari e affinatori e i consumatori consapevoli. Li troviamo, oltre che in molti Laboratori del Gusto, negli Appuntamenti a Tavola, in cui si alternano cuochi italiani e internazionali, giovani promesse e chef stellati. Ma anche nelle lezioni di In Cucina con Slow Food, il progetto di Slow Food e Pastificio di Martino in cui tradizioni locali e tecniche culinarie permettono di approfondire origini, storia ed ecologia di ingredienti e ricette.
3. Conoscere ricette, storie e tradizioni da tutto il mondo con gli alunni dell’Università di Scienze Gastronomiche
Dalla colazione all’aperitivo, dalle esperienze di tasting and pairing ai personal shopper fino alle conferenze. In Casa Unisg a Bra, alunni, cuochi e ricercatori mettono in campo tutta la loro inventiva. Li troviamo anche in Casa Battaglino, dove uniscono differenti culture ed esperienze per dare vita a inedite combinazioni.
4. Fare un giro nel grande Mercato italiano e internazionale, tra produttori dei Presìdi Slow Food e Affinatori
Passeggiare per Cheese vuol dire innanzitutto scambiare quattro chiacchiere con chi, i caci, li crea e cura ogni giorno. Tutti i giorni, dalle 10 alle 20, nelle piazze e nei cortili di Bra, il Mercato italiano e internazionale espone i migliori prodotti dei casari, dei pastori, dei formaggiai e degli affinatori di tutto il mondo.
5.
Esplorare il percorso sensoriale dedicato a Il sapore dei prati
Che profumo emanano essenze erbacee e floreali? Quali caratteristiche organolettiche presentano i formaggi rispettosi dell’ambiente, degli animali e della nostra salute? Nella piazzetta Valfrè di Bonzo i visitatori possono scoprirlo in un percorso sensoriale adatto a tutte le età: cinque tappe in cui mettere alla prova olfatto, udito, vista, tatto e gusto e scoprire tutta la bontà, la bellezza e la vitalità di prati e pascoli alpini.
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6. Approfondire il mondo delle terre alte nelle Conferenze
Nelle Conferenze di Cheese ci spostiamo sulle terre alte e ne esploriamo problematiche e opportunità da molteplici punti di vista. Conosciamo le tante sfide che pastori e produttori devono affrontare, scopriamo come i consumatori possono sostenere la pastorizia e l’allevamento sostenibili e guardiamo al futuro insieme alle giovani e ai giovani che stanno costruendo il loro proprio negli ambienti montani. Sono alcuni dei temi trattati nelle conferenze ospitate nella Casa della Biodiversità allestita con il supporto di Reale Mutua, main partner della manifestazione e sostenitore di Slow Food Italia.
7. Visitare la Gran Sala dei formaggi e l’Enoteca
L’Enoteca di Cheese propone 400 etichette selezionate dalla Banca del Vino. In abbinamento i formaggi italiani e internazionali proposti dalla Gran Sala. Qui ogni giorno viene proposta una scelta di quattro diversi plateau studiati come viaggi avvincenti tra razze, tipologie e pascoli e prati.
8.
Scoprire
gli Aperò sul’herbe, nuove esperienze di degustazione
Un aperitivo, ma anche un racconto che permette di scoprire tutto il bello e il buono dei prodotti da prato e da pascolo: dai formaggi ai gelati, dai salumi naturali, ai mieli fino ai liquori di erbe.
9. Assaggiare le specialità regionali proposte da Food Truck e Cucine di Strada, da abbinare alle etichette dei birrifici artigianali
Che sia il pranzo, la cena o uno spuntino, a Cheese sono molteplici le possibilità di trovare il posto giusto dove mangiare e bere qualcosa di buono.
10. Guardare le proiezioni di Cheese on the screen
A Cheese 2023 non ci limitiamo a raccontare prati e pascoli in approfondimenti e degustazioni, ma ve li mostriamo attraverso le immagini e la voce dei loro custodi nei documentari di Cheese on the screen.
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IMMAGINI da archivio Slow Food e Vincenzo Savino.
MOLINO
GRASSI
T. 0521 662511
M. info@molinograssi.it
Quando la pizza parla un linguaggio nobile
Diego Vitagliano racconta la Napoletana di Molino Grassi
Una farina facile per la ‘vera’ pizza della tradizione partenopea, pensata per un utilizzo anche da parte delle leve più giovani grazie alla sua resa molto stabile.
“La pizza parla un linguaggio nobile: deve essere coraggiosa e puntare in alto”. È così che la pensa Diego Vitagliano, uno dei volti più promettenti della nuova generazione di pizzaioli, titolare di due pizzerie nel napoletano, una a Roma e un’altra nientemeno che in Qatar, precisamente a Doha.
“Oggi il nostro lavoro ha cambiato volto: il business della pizza è una vera e propria azienda, e il prodotto deve essere conciliabile con le esigenze odierne. L’obiettivo è far star bene il cliente, oltre la ‘buona pizza’ è questo che fa la differenza”. Ingredienti e partner giusti diventano dunque una leva fondamentale. “Ecco perché lavoro con Molino Grassi: lato farine, ma anche a livello di supporto tecnico con Cristian Zaghini e Nicola Ascani, offre un servizio unico”.
Ed è proprio per agevolare le esigenze della pizzeria di oggi che Molino Grassi, con Diego e i tecnici Zaghini e Ascani, ha lanciato la Napoletana, “una farina facile per la ‘vera’ pizza della tradizione partenopea: è utilizzabile anche dalle leve più giovani, per la sua resa molto stabile. Io ho 130 collaboratori: l’ingrediente affidabile è la base di un progetto serio”.
La Napoletana è una farina tipo 0 con germe di grano, studiata per le esigenze della tradizione partenopea e disponibile in due versioni, Napoletana Midi, adatta a corte/medie lievitazioni e impasti diretti; Napoletana Extra, adatta a medie/lunghe lievitazioni e impasti indiretti.
“Le farine Molino Grassi, oltre che stabili e costanti, sono ‘serie’ - continua Diego – e provengono da grani selezionati. Tra gli altri miei prodotti preferiti, sicuramente la Farina Bio Tipo 1 Macinata a Pietra Forte, per me è un grande prodotto in pizzeria. Ha una marcia in più, io personalmente la uso nel prefermento”.
LE AZIENDE INFORMANO
www.molinograssi.it
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Se ti chiamano friariello non offenderti
di Caterina Vianello
Friarielli, broccoli, broccoletti, cime di rapa. E ancora cavoli broccoli, broccoli ramosi, broccoli con infiorescenze, infiorescenze da mangiare, foglie da mangiare… Quando si parla di questa tipologia di verdure, la confusione è davvero notevole. I motivi sono molteplici: da un lato forse la scarsa conoscenza delle famiglie botaniche (comprensibile), certamente appannaggio degli studiosi
e molto meno di noi consumatori; dall’altro il dialetto, o meglio i dialetti e – con essi – le tradizioni locali, che tuttavia sono quelle che restituiscono la parte più viva e culturalmente (oltre che gastronomicamente) stimolante di questi versatili e golosissimi vegetali. Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza allora e poi passiamo in rassegna le tipologie meno note di questa grande famiglia.
pizza e pasta italiana p. 114 ott. 2016 114 pizza e pasta italiana settembre 2023
Friarielli
Dici friarielli e la mente – ma soprattutto il palato – corre immediatamente in Campania, declinando localmente una varietà che in realtà è coltivata in molte altre regioni del Sud: Lazio, Puglia, Basilicata, Molise e Calabria. Il dialetto, tuttavia, qui rappresenta un discrimine importante oltre che un tratto identitario fondamentale, vestendo in modo diverso e tipico un prodotto trasversale. Ecco allora, appunto i friarielli in Campania, i broccoletti a Roma, i broccoli di rapa in Calabria, le cime di rapa in Puglia, i rapini (o rapi) in Toscana o pulezze nell’Aretino e in Valdichiana. E, parimenti, per ogni variazione dialettale, c’è una ricetta corrispondente.
Dal punto di vista botanico, si tratta delle infiorescenze appena sviluppate della cima di rapa: la pianta è la Brassica rapa, appartenente alla famiglia delle Brassicacee. Si tratta di verdure invernali, il cui periodo di semina è per lo più estivo: in genere si consumano da settembre fino a marzo. L’ideale è raccoglierle quando le infiorescenze sono ancora giovani perché si ha la massima qualità del prodotto. Il sapore è inconfondibile, amarognolo, capace di valorizzare primi e secondi in cucina. La Campania è l’unica regione che ha saputo trasformare il nome di questa verdura direttamente in un piatto, con un
capolavoro etimologico: il nome friarielli deriva infatti dal verbo napoletano frìjere (friggere), che li vuole soffritti in padella con olio, aglio e peperoncino rendendoli un contorno ma soprattutto un condimento dal sapore deciso. Così, prima ancora di assaporarli, ecco che i friarielli si “sentono” già all’udito, grazie alle note vivaci che salgono dalla padella calda. I friarielli sono coltivati prevalentemente nelle aree interne della Campania, soprattutto nella zona nord-est di Napoli, in particolare nei comuni di Acerra, Afragola, Caivano, Cardito, Casoria e Sant'Antimo, nella fascia appenninica (province di Avellino, Benevento), nell’agro nocerino-sarnese, nella provincia di Caserta e, in particolare, ad Aversa, Mondragone e nella piana del Sele, nel Salernitano. Un tempo erano coltivati anche nel capoluogo, in particolare nel quartiere collinare del Vomero, che era infatti noto come “il colle dei friarielli”. Nella cucina napoletana formano un binomio quasi indissolubile con la salsiccia: dal cibo da strada (panini farciti al momento) – tra rosticcerie, panifici e friggitorie – alle pizzerie, i friarielli dominano incontrastati. Il successo dell’accostamento, unito all’abilità dei pizzaioli campani di comunicare pizza e condimenti al di fuori dei confini regionali, è tale da aver trasformato la
pizza con salsiccia e friarielli in un piatto dalla fortissima connotazione identitaria. Non è da meno la Puglia: qui le cime di rapa, più carnose e grosse rispetto a quelle più fini della “scuola Campana”, diventano immediatamente orecchiette per un piatto che è anch’esso divenuto ormai celebre in tutto il mondo ma anche “strascinati e cime di rapa”, le “rape stufate col peperoncino”, “fave e rape” o la puccia con rape e salsiccia del tarantino. Nel Lazio centromeridionale ecco i “broccoletti”, che qui però vedono anche il consumo di foglie e fiori della pianta: particolarmente rinomati quelli provenienti dai terreni della fascia pedemontana dei Lepini (comuni di Sezze e limitrofi). In Provincia di Frosinone, vengono consumati anche con la polenta, accompagnando il sugo di spuntature e salsicce che la condisce.
L’abbinamento con la salsiccia ritorna in Calabria, per i “vruacculi i rapi e sazizza piccante” e poi sale fino in Toscana dove nella zona della Valdichiana aretina un piatto tipico è rocchi (salsicce) e pulezze, dove quest’ultime, una volta bollite, vengono sminuzzate e saltate in padella con aglio e olio. Nella provincia di Lucca, sono noti con il nome di rapini; dopo averli lessati, vengono soffritti con aglio e salsiccia sbriciolata e serviti come contorno di piatti a base di maiale (la rosticciana con i rapini), oppure, se soffritti con aglio e salsicce intere, formano un piatto unico (i rapini con la salsiccia). Vengono anche chiamati gallonzori.
Attenzione, però: le differenze ci sono!
Le varietà di brassica rapa fanno capo a ecotipi diversi il cui nome è un rimando alle località di coltivazione (esempio: Cima di rapa Cassanese) alla lunghezza del ciclo (quarantina, sessantina) o il periodo di raccolta (natalina, marzaiola) o infine una combinazione tra i due caratteri (maggiaiola di Sala Consilina, tardiva di Fasano, di aprile di Carovigno, di marzo di Mola di Bari). Le diverse varietà sono caratterizzate da cespi più o meno grossi o da una diversa posizione dell’infiorescenza rispetto alle foglie più grandi. Vale la pena ricordare che l’apertura dei fiori deprezza la qualità del prodotto.
Nonostante sia dei friarielli/cime di rapa che dei broccoli si mangino le infiorescenze, le due verdure non sono le medesime ma si ricavano da piante diverse. Se i friarielli rappresentano, come visto, le infiorescenze della Brassica rapa, i broccoli, anche chiamati cavoli broccoli, sono una varietà di Brassica oleracea. La famiglia botanica dei broccoli insomma è riconducibile a quella dei cavolfiori, di cui è una delle due sottovarietà. La prima è quella, più nota, del cavolo bianco, giallognolo, avorio, verde, violetto, “grosso romanesco”. La seconda è il cavolo broccolo ramoso, di cui vengono mangiate le infiorescenze laterali, una volta tagliate (i broccoli, insomma).
Una volta fatta chiarezza sulla differenza botanica e anche gastronomica, vale tuttavia la pena dare uno sguardo a quelle varietà di broccolo che, per forma simile alle cime di rapa o ai friarielli, potrebbero ingenerare qualche confusione. Un’occasione per parlare di tipologie di ortaggi poco note, vere eccellenze locali e da valorizzare.
Broccolo fiolaro di Creazzo
Tipico del Veneto, è un Pat della Provincia di Vicenza, coltivato sulle colline che sorgono intorno a Creazzo. Deve il nome alla presenza, lungo il fusto, di infiorescenze che in dialetto sono chiamate fioi ovvero figli. Si raccoglie da novembre a febbraio. La coltivazione risale agli antichi Romani: già Catone il Vecchio ne parla, riconoscendo alla pianta proprietà medicamentose. Pare addirittura che Goethe nel 1786 ebbe modo di ammirarne delle ceste, rimanendone colpito. Nel 1800 ne erano coltivate 150.000 piante ma progressivamente si è assistito a una contrazione della produzione. Negli ultimi decenni eccone invece la ricomparsa sulle tavole dei vicentini, visto anche l’interesse dei ristoratori.
pizza e pasta italiana p. 116 ott. 2016
116 pizza e pasta italiana settembre 2023
Forno con alimentazione elettrica, dalle dimensioni contenute, concepito per la cottura di 1 o 2 pizze da 33 cm.
Broccoletto di Custoza
Presidio Slow Food del Veneto, è broccoletto molto particolare: ha dimensioni medio-piccole con foglia lunga, espansa e sottile, una nervatura centrale non filamentosa e rami laterali appena abbozzati. La peculiarità sta nel fatto che sviluppa un piccolo cuore centrale di foglie: al momento della raccolta, si eliminano solo le foglie basali grossolane e con 5 cespi (secondo la tradizione locale) si confezionano i mazzi pronti per la vendita. Si mangia tutto il cespo, compresa la costola: scottato in acqua bollente e condito con olio extravergine di oliva, è accompagnato da un uovo sodo e salame. Il gusto è inconfondibile, molto delicato e leggermente dolce.
Forno elettrico a due camere concepito per la cottura di pizze e pinsa, in teglia e a pala.
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Forni tradizionali costruiti in materiale refrattario di alto spessore. Disponibile in varie dimensioni e nella versione a legna o con bruciatore a gas.
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M A D E I N I T A L Y La scelta definitiva
Broccolo aprilatico di Paternopoli
Presidio Slow Food della Campania. Il territorio di Paternopoli è da secoli legato alla tradizione delle coltivazioni orticole legata alla fertilità del suolo derivante dalle numerose sorgenti d’acqua. La qualità degli ortaggi superava i confini regionali per arrivare fino a Roma. L’aprilatico è broccolo primaverile dal colore verde scuro intenso e cime croccanti da crude, che diventano succose e gradevoli dopo la cottura. La raccolta avviene a primavera: la pianta però deve aver sviluppato uno scapo fiorale abbastanza grande che viene tagliato in modo da permettere la crescita dei ricacci a lato. Ad essere raccolte sono proprio queste cimette laterali, che devono essere prese quando ancora il fiore è chiuso. La raccolta è manuale, prendendo gli scapi e parte delle foglie, le più tenere e formando dei mazzi. È un ottimo ingrediente per primi piatti di pasta fatta in casa (tipo fusilli arrotolati a mano) o per il pancotto o come semplice contorno abbinato alla carne di maiale.
Mùgnulo
Andiamo in Campania, Puglia e Abruzzo per un ortaggio chiamato anche “cavolo povero” che è di fatto un cavolo broccolo anche se molto simile alla cima di rapa. Presenta infatti un’infiorescenza molto più piccola e meno compatta mentre i fiori sono di colore bianco, più grandi rispetto a quelli del cavolo broccolo. La raccolta inizia in un periodo compreso fra la metà di novembre e marzo/ aprile: si tagliano le infiorescenze che si formano, prelevando le “spuntature”.
In Campania, che ha inserito il mugnulo nell’elenco dei Pat, si coltiva nelle province di Napoli e Caserta, in Abruzzo a Pettorano sul Gizio in provincia dell’Aquila e in Puglia è il Salento con Lecce a rappresentare la terra d’elezione. Si consuma la parte costituita dell’infiorescenza con una porzione di stelo, sul quale ci sono le foglie tenere che si mangiano ugualmente: il sapore è dolciastro e l’aroma inconfondibile. Le denominazioni dialettali sono un campionario: mùgnulu (Galatina), spuntature leccesi (Lecce), còvulu povareddhu o pezzenti (Alessano), càulu paesanu (Diso), còvulu scattunaru o brocculeddhi (Tricase), pezzenteddhi (Martano), càulu a campanella (Alezio). Nella cucina popolare leccese, sono molte le ricette tradizionali che lo vedono protagonista, su tutti la “ massa e cauli ”, una minestra molto saporita, tipica della città di Otranto e la “ trya cu li mùgnuli ”, una specie di tagliatella fatta con acqua e farina.
pizza e pasta italiana p. 118 ott. 2016
118 pizza e pasta italiana settembre 2023
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Figli d'Arte Bianca: sviluppiamo il talento
La panificazione è un mestiere di lunga tradizione, che affonda le sue radici in epoche e culture storiche diverse. È un lavoro in continua evoluzione, un sapere tramandato di generazione in generazione, dai padri ai figli. Rappresenta il connubio perfetto tra la conoscenza scientifica e l’identità culturale di chi porta avanti la sua attività sfornando prodotti buoni e profumati ogni giorno. La panificazione è un lavoro autentico e, per tale motivo, è importante trasferirlo alle nuove generazioni di modo che possano diventare i custodi di questa consapevolezza e garantirne la continuità in futuro. Grandi Molini Italiani, primo gruppo molitorio italiano, appoggia questa filosofia con “Figli d’Arte Bianca”, progetto che ha l’obiettivo di trasmettere un insegnamento pratico, tecnico e scientifico ai giovani
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professionisti della panificazione e della pasticceria. La prima edizione di questa iniziativa ha visto la partecipazione di ragazzi under-30 provenienti da diverse regioni d’Italia, giunti agli stabilimenti di Venezia e Livorno per un percorso di formazione gratuita sulla teoria e tecnica degli impasti, delle lievitazioni e del processo molitorio. Guidati dagli esperti tecnologi Antonio Crepaldi e Gabriele Marrucci, i giovani hanno avuto l’opportunità di apprendere e acquisire competenze attraverso la produzione di svariati prodotti da forno come pani, focacce e pizza. Le attività svolte hanno permesso di creare un ambiente educativo e stimolante per i partecipanti, permettendo loro di conoscersi a vicenda e condividere idee, esperienze e ispirazioni.
LE AZIENDE INFORMANO
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La parola ai pizzaioli Il “segnalatore”
Nome: Roberto Susta
Pizzeria: Sustable
Indirizzo: Via Filichito 102, Volla (NA)
che tecnicamente è di sua proprietà e io ci lavoro. L’idea è stata sua. Nel 2013 ci siamo iscritti ad un corso di cucina. Era un master e lì abbiamo appreso tutte le basi della cucina italiana: la conoscenza dei processi, l’uso dell’abbattitore, della macchina sottovuoto ecc. Ho sempre sostenuto che la pizza vada fatta con prodotti naturali e non con le cose in scatola.
Cos’è la pizza per te e qual è la filosofia che ti guida nel farla?
Nella scuola che abbiamo frequentato siamo migliorati molto. Il proprietario ammirava il fatto che due pizzaioli già affermati fossero lì per fare un corso di cucina: molti fanno consulenza per poi far credere ai clienti che sia tutta farina
Raccontami la tua storia professionale
La mia storia inizia quando avevo 14 anni: sbarazzavo i tavoli e portavo i piatti sporchi in cucina.
Un giorno mentre lavoravo mi venne la voglia di farmi una pizza ma quando stavo per stendere il panetto la proprietaria mi sgridò. Trent’anni fa, c’era la gelosia del mestiere: “ehi tu che ci fai lì, scendi subito dal banco”. Quella proibizione mi creò tanta rabbia e mi diede tanta energia per imparare a fare la pizza. È iniziata così. Negli anni, i miei fratelli aprirono una sala giochi: io facevo pizze nel forno di casa e qualche panino per i clienti. Un giorno, il primogenito della famiglia, che era già pizzaiolo, si fece costruire un forno, così, dalla mattina alla sera. La sala giochi divenne una pizzeria. Il mestiere del pizzaiolo segue una scaletta, è uno step by step, coprendo dapprima ruoli meno pregiati e dignitosi. Mi son fatto un po’ di anni vicino al forno e nel frattempo imparavo a fare la pizza. Inizialmente, la preparavo per me e la mangiavo: sai, quando fai una cosa per te stesso c’è una leva emotiva molto gratificante. Io e Salvatore abbiamo aperto Sustable,
120 pizza e pasta italiana settembre 2023 a cura della redazione
del proprio sacco. Vedendoci lungo, ci chiese se ce la sentissimo di fare i docenti della Scuola Pizzeria e noi accettammo la sfida. Il corso contava due, massimo tre iscritti: con la nostra dedizione lo abbiamo portato anche a venti iscritti. Aveva anche un costo abbastanza alto. Abbiamo portato su un qualcosa che stava molto giù e alla fine siamo stati gentilmente scaricati. I rapporti si inasprirono, oggi abbiamo fatto pace ma noi non siamo più comunque docenti di quella scuola. La pizza per me è un percorso enogastronomico, ragion per cui il mio obiettivo è quello di stimolare i cinque sensi. Ho collaborato anche con uno youtuber italo-americano, Vito Iacopelli e i turisti arrivano a Volla per mangiare la nostra pizza: vengono anche tanti pizzaioli e cuochi. Visto che mi piace capire di cosa hanno bisogno i clienti, li interrogavo e chiedevo: “quando vuoi mangiare una buona pizza e non vieni da me, dove vai?”. Ognuno mi elencava feedback positivi e negativi dei posti in cui andava. Per esempio, mi dicevano che per la pizza fritta andavano dalle Figliole, per la Margherita da Michele e via dicendo. Tutti si concentravano sul monoprodotto, oggi naturalmente non è più così. Tutto dev’essere impeccabile: la pizza, la frittura e anche il dolce, che noi facciamo artigianalmente grazie alla scuola di cucina; devono essere il “lieto fine”. Quest’ultimo però dev’esserci anche in termini di digeribilità per il giorno dopo e inoltre, dò molta importanza alla stagionalità.
So che il tuo cavallo di battaglia è la Pizza Fiocco, quale storia si cela dietro la sua ideazione?
Io credo molto nei gusti primordiali: le persone non amano i gusti che non ci appartengono. Io mi sono ispirato al gattò di patate. Ho pensato a quando le mamme, le nonne lo preparano e si crea quella crosticina sopra che fuoriesce dal tegamino e che hai voglia di rubare quando hai fame ma non puoi, perché la mamma ti dice che bisogna aspettare il papà per la cena! Allora, sai, quella ricetta goduriosa, un po’ proibita… in realtà non è altro che un fondo di panna, prosciutto cotto e granelli di patata con formaggio e pepe che in cottura caramellizzano, così la pizza diviene croccante. Per farla conoscere, ho fatto delle vere e proprie campagne. Quando i papà venivano a comprare
le solite 4 Margherite io gli regalavo una Fiocco intera. La volta successiva tornava e mi riferiva che i figli avevano litigato per quella pizza, così iniziai a darla tagliata a spicchi. Poi facevo le degustazioni in strada personalmente, uscivo e mi buttavo avanti alle auto. Le prime volte la situazione mi imbarazzava ma poi la cosa diventava sempre più piacevole. Le persone familiarizzavano e addirittura i vigili urbani mi dicevano: “ma stasera non esce la pizza?”. Gli esseri umani però si annoiano facilmente. Un cliente una volta mi disse che se non avessi fatto una nuova pizza non sarebbe più venuto: panico. In quel momento, la cuoca stava preparando le fettuccine alla bolognese, ne presi un mestolo e così nacque la “Bolognese”. La formazione da cuoco a mio parere dovrebbero farla tutti i pizzaioli del mondo.
Proponimi una sola pizza che non sia la Fiocco e spiegami com’è fatta.
Se venissi adesso, ti proporrei la Giallo Fiume: salsa di pomodoro giallo cotta, peperoncini verdi saltati in padella, provola e pancetta tesa. Questo abbinamento mi
consente di stimolare il palato con la dolcezza del pomodoro, la sapidità e la croccantezza della pancetta e la morbidezza del peperoncino. È prettamente estiva. La proposta però è molto vasta, in ogni senso. Portiamo avanti un progetto che si chiama “Nessuno escluso”, perché per noi è importante che tutti i clienti siano felici di venire qui. La parola ristorante racchiude il significato di “ristoro” e bisogna poter ristorare tutti. Proponiamo menù vegetariani, vegani, senza glutine e senza lattosio: un servizio completo dalla A alla Z. Non parliamo della semplice pizza ma anche della frittura e dei dolci: un percorso completo.
Consigliami un professionista del settore e dimmi perché proprio lui/lei.
Michele Fuccio. Quando ha iniziato, non conosceva questo mondo: il suo papà lo instradò. Fece il corso con noi, è testimonianza del nostro lavoro e del nostro percorso. Lui ha fatto una bella strada, una buona crescita e fa una valida pizza.
La parola ai pizzaioli
Il “segnalato”
Nome: Michele Fuccio
Pizzeria: Di Stora
Indirizzo: Via Roma 205 - Arpaia
(BN)
Qual è la tua storia professionale?
I miei genitori avevano un ristorante, facevano cucina e cerimonie. Dieci metri quadri erano dedicati alla pizzeria, era una cosa secondaria. Finita la scuola, a 18 anni avrei voluto fare altro; a dirti il vero, questo lavoro a me non piaceva, volevo continuare gli studi. Su proposta dei miei, decisi di frequentare la scuola “Dolce e Salato” a Maddaloni dove ho conosciuto i fratelli Susta. Mi appassionai. Questo perché iniziai a rendermi conto dei pesi, delle tecniche e del fatto che il lavoro veniva fatto in un certo modo, a differenza del passato quando si faceva tutto “a occhio”. Attraverso la scuola, capii che fare la pizza era tutt’altro, grazie soprattutto a Roberto. Nel corso degli anni, iniziai a preparare le pizze nel ristorante dei miei ma ristorazione e pizzeria andavano in collisione. Quattro anni fa abbiamo deciso di fare solo pizza, abbiamo ristrutturato e creato un qualcosa di moderno e bellissimo che ci sta dando tante soddisfazioni. È stata la scelta giusta.
Quindi non ti sei pentito di aver abbandonato il percorso prefissatoti...
No, assolutamente. Mio padre è cuoco e mi ha aiutato molto nel trovare i giusti topping, le farciture e nuove ricette per le pizze. Molte sono proprio cucinate, nel senso che abbiamo portato la tipica cucina della zona rivisitata sulla pizza; la cosa è stata vincente. Comunque, per iniziare, consiglio assolutamente la formazione. Attraverso di essa, è più facile “partire”, senza stare “sott o masto” è più semplice avviarsi con una propria idea e senza influenze. Ognuno deve trovare la propria strada è vero, però servono delle basi.
Qual è il tuo concetto di pizza?
La mia è una pizza contemporanea, non tradizionale napoletana a ruota di carro. Avendo appreso tecniche moderne, ho potuto portare avanti la pizza casertana
122 pizza e pasta italiana settembre 2023
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E i clienti prediligono ruoto o classica?
Il ruoto ci sta dando soddisfazione, però in realtà vanno entrambe. Le persone amano cambiare e anche per questo uso prodotti stagionali. Ogni tre mesi cambiamo il menù in base a ciò che c’è, solo prodotti freschi. Chi si siede a tavola lo percepisce se una cosa è cucinata o viene dal barattolo, per quanto possa essere buono.
E quali ingredienti non devono mancare?
con il cornicione un po’ più pronunciato, alta idratazione, soffice e digeribile. Grazie allo studio, ho portato un impasto innovativo. Ogni volta che mi posiziono sul banco, è sempre come se fosse la prima. Per fare questo lavoro, deve innanzitutto piacerti, altrimenti non puoi farlo o ti emoziona o è meglio fare altro e io ne sono emozionato.
E invece riguardo agli ingredienti?
Hai detto che fate anche un po’ cucina, spiegami meglio.
Cerchiamo di valorizzare i prodotti della zona, per esempio i salumi della Valle Caudina. Prendiamo poi ricette e ingredienti tradizionali e li mettiamo sulla pizza valorizzando il territorio. Tutto parte dalla tradizione: la rivisitiamo, sì; la facciamo a modo nostro ma partiamo sempre da un’idea tipica che poi scomponiamo e riproponiamo a nostra immagine.
Il nostro payoff è “pizza tra innovazione e tradizione”. Facciamo anche la pizza nel ruoto come si faceva una volta, nei ruotini di alluminio e da poco abbiamo iniziato a proporre anche la pala: una pizza croccante presentata in otto spicchi. Ci piace variare perché così i nostri clienti possono variare, cambiare e divertirsi.
Come vedi l’evoluzione della pizza?
Molte cose sono già state fatte, viste e riviste, penso che evolvere ancora di più sia difficile.
Assolutamente prodotti di qualità: pomodoro San Marzano Dop, fior di latte di un’azienda locale… tutti dicono “di Agerola”, ma quanto fior di latte si dovrebbe produrre lì per fornire tutti? Noi restiamo nella nostra zona. Prendiamo anche qualche eccellenza campana ma cerchiamo di trasformare i nostri prodotti tipici.
Quindi prediligi il km zero.
Sì. Infatti, vorrei fare un orto proprio alle spalle del locale, abbiamo molto buon terreno, in futuro vorrei coltivare personalmente gli ortaggi e tutto ciò che ci serve.
Consigliami una pizza nel ruoto e una pizza contemporanea
Come ruoto proporrei una Patanè: porcino fresco, patate al forno, fior di latte e prosciutto cotto arrosto, non classico ma affumicato che dà un ottimo sapore. Tra le classiche ti proporrei la Pasta e patate rivisitata, una ricetta tipica: patate al forno, provola e, in uscita, crema di sedano, crema di carote, cipolla fritta croccante e delle cialde di parmigiano croccante. Al morso ti sembrerà davvero di mangiare la pasta e patate.
I pizzaioli hanno già dato ogni alternativa possibile, non so fino a che punto possiamo spingerci oltre. Questo mondo credo sia completo, ovunque si vada è possibile trovare una novità. A meno che non lancino i robot al posto dei pizzaioli e spero proprio di no (ridiamo), non credo si possa fare molto altro. Però bisogna sempre evitare l’esagerazione, non è possibile sforare il limite di equilibro. Noi partiamo dal presupposto che un piatto tradizionale bisogna rispettarlo, si può leggermente modificare, ma partendo da quella tradizione. Quando parlano di “aria di qualcosa” sulla pizza, per esempio, per me si sfiora il ridicolo onestamente. Noi nella Valle Caudina siamo cresciuti con carne, baccalà: siamo un paese sostanzioso che mangia sostanzioso… queste cose non esistono proprio. Che poi, a mio parere, le cose semplici risultano sempre le più difficili. Sono quelle che ricordano i tempi antichi, i nonni e i sapori genuini, sensazioni che non devono assolutamente andare perse ed è proprio per questo che non bisogna strafare.
124 pizza e pasta italiana settembre 2023
INTERNATIONAL HOSPITALITY EXHIBITION
TRA DIGITALIZZAZIONE E SOSTENIBILITÀ
HOST 2023 PRESENTA I TREND PIÙ PROMETTENTI
Si avvicina l’appuntamento con Host 2023, a Fieramilano a Rho dal 13 al 17 ottobre prossimi, che come ogni due anni diventa anche l’occasione per fare il punto sullo stato dell’arte e i trend futuri prossimi dell’ospitalità professionale, il fuoricasa e il retail.
L’ultimo biennio, in particolare, ha portato grandi cambiamenti nelle abitudini di consumo, cui le aziende del settore stanno rispondendo con prodotti innovativi e progetti multisensoriali ed esperienziali, accomunati dalla ricerca della sostenibilità. Grazie al dialogo diretto e costante con tutti gli attori delle filiere, l’Osservatorio di HostMilano ha identificato alcune tra le tendenze più interessanti.
Per informazioni aggiornate: host.fieramilano.it; @HostMilano
Fiera Milano Spa
T. 02 49977134
M. fieramilano@fieramilano.it www.fieramilano.it
IL DIGITALE SI PREPARA ALLA PROSSIMA GENERAZIONE
La transizione digitale è uno dei grandi motori del cambiamento: non si tratta più semplicemente di fotografare un piatto al ristorante, ma di vivere una vera e propria Digital Out Of Home experience (DOOH): un’esperienza immersiva e integrata, che coniuga tecnologie di intelligenza artificiale, realtà aumentata e uso avanzato dei social media.
I QR Code non saranno utilizzati più solo per i menu, ma diventeranno un canale per trasmettere i valori e i fattori caratterizzanti di una location e fornire tracciabilità sui prodotti, anche con informazioni salutistiche e nutrizionali.
In parallelo continueranno a svilupparsi le soluzioni tecnologiche cui abbiamo assistito negli ultimi anni: interfacce utente sempre più intuitive, sistemi connessi e gestibili anche da remoto, automazione dei processi di routine per liberare risorse umane, macchine versatili e multifunzione, dispositivi a basso consumo energetico con parti riutilizzabili o in materiali riciclati o riciclabili, in un’ottica di economia circolare.
A Host 2023 le nuove tendenze saranno protagoniste tanto lungo il percorso espositivo, con le proposte di oltre 1.800 aziende da 50 Paesi, come nel palinsesto di oltre 800 eventi.
LE AZIENDE INFORMANO
127
Frammenti di storia delle civiltà del grano
e del pane nel Mediterraneo
Autore: Gianfranco Nappi
Pagine: 160
Edizioni: Associazione
Infinitimondi, Nola (Napoli)
Prefazione: Piero Bevilacqua
Anno di edizione: 2023
Costo: 15 euro
128 pizza e pasta italiana settembre 2023 UN LIBRO AL MESE
a cura della redazione
Uno Zibaldone che passa dall’economia alla storia, un manuale di geopolitica che, attraverso il prodotto simbolo dell’agricoltura stanziale, quello che ci ha resi “mangiatori di pane” ossia “uomini” secondo Omero, ripercorre le tappe più importanti delle comunità del Mediterraneo e soprattutto ci consente di capire perché siamo arrivati al punto dove siamo, tra guerre e pandemie ma anche tanta ricchezza di biodiversità culturale.
Questo e molto altro è racchiuso nei “Frammenti di storia delle civiltà del grano e del pane nel Mediterraneo” edito da Infinitimondi e scritto da Gianfranco Nappi, punta di diamante della storia agricola del Mezzogiorno italiano.
Il libro è dedicato, a riprova di quanto fin qui scritto, “a tutti gli oscurati alla ricerca di futuro, dispersi nel Mediterraneo e di cui non conosceremo mai nomi e volti”. Nappi fa partire le sue riflessioni dalle recenti vicende del blocco del grano nel conflitto russoucraino, mettendole in relazione a quelle che, in epoca alessandrina, si vivevano a Pozzuoli, in attesa del grano per Roma, capitale dell’Impero. Il grano e la guerra – come abbiamo anche avuto modo di scrivere più volte sulle pagine di questa rivista –sono intrinsecamente legati a doppio nodo, al punto che, come ricorda Nappi, l’abate Ferdinando Galiani a metà del 1700 nel suo celeberrimo Dialoghi sul commercio dei grani ebbe a scrivere: “La guerra è il lusso delle nazioni”. E Nappi commenta: «La guerra come spreco quindi. E Stati che usano politicamente il controllo che hanno su quote rilevanti di cibo». Ripercorrendo poi la storia, che per Nappi appare evidentemente “magistra vitae” secondo gli insegnamenti di Cicerone, l’autore procede narrandoci i porti del grano nel corso del tempo che sono straordinariamente sovrapponibili alla situazione contemporanea. Il cuore del volume è tuttavia rappresentato dal ragionamento intorno alle tecnologie sviluppatesi intorno al grano: da Archimede, che consentì con le sue scoperte il sollevamento dei pesi alla macina girevole grazie a cui ebbe origine il mulino ad acqua, diffusi da oltre 1000 anni nel Regno delle Due Sicilie, come racconta il geografo
di Ruggiero il Normanno, Al-Idrisi. Gianfranco Nappi, che ha militato a lungo tra le file della Sinistra italiana e che è stato più volte deputato e ha anche ricoperto il ruolo di Assessore all’Agricoltura della Regione Campania durante il doppio mandato di Antonio Bassolino, non trascura però una ricostruzione delle più celebri leggi agrarie, strumento per gestire i rubinetti della ricchezza dei popoli, al fine di tenerli buoni o viceversa creare sommosse. Uno degli autori di riferimento di Nappi in questo libro è Predrag Matvejevic, lo scrittore jugoslavo che ha attraversato il Mediterraneo col suo breviario poeticofilosofico e che celebra il pane come cibo della vera civilizzazione umana. Per Matvejevic «è stato lungo il cammino dal chicco crudo a quello cotto, dalla farina alla focaccia. L’uomo che preparò il pane era diverso dai suoi antenati. Si era affacciato alla soglia della storia».
Le citazioni però sono molteplici: vanno dal Talmud alla Scuola Medica Salernitana, da Sofocle alla Bibbia, fino ai testi della grande cultura indiana.
Nelle battute di chiusura, Nappi scrive: «Forze potenti, intimamente legate alla natura del capitalismo contemporaneo, alimentano un modello di società, di sviluppo, di cultura nel quale il legame tra cibo e vita è già in larga misura spezzato». E si chiede: «Cosa è se non questo l’affermazione come modello dominante e prevalente appunto quello di un cibo, e di una terra, inondati di chimica di sintesi, di pesticidi, di fertilizzanti artificiali, di OGM; di promotori della crescita, di ormoni e antibiotici per gli animali; di fake food, come dice Vandana Shiva, prodotto nei laboratori e che quindi diventa ancor più junk food? E per chi è questo cibo che attraverso i marchi globali, si esporta con lo stile di vita che propugna dalle vecchie metropoli alle nuove megalopoli del mondo, a tutte le latitudini?». La risposta è insita nella domanda stessa: «Questo sistema di produzione del cibo viene giustificato dai bisogni di una popolazione crescente, 8 miliardi di abitanti
della terra. In verità esso è invece per i suoi più poveri e per quelli che pur non essendo poveri non hanno ancora guadagnato la consapevolezza necessaria della posta in gioco. […] Ed ecco anche dove la modernità si incontra con il passato mai superato, dei signori della terra, dei novelli grandi latifondisti rappresentati da singole famiglie, da società globali, perfino da Stati: land grabbing si chiama, rapina di terra di cui l’Africa è fatta oggetto da parte di chi in questo modo a quel continente non vuol lasciare niente, neanche la terra».
Un libro da leggere, dunque, per saper leggere il mondo che ci circonda, soprattutto quando pensiamo che quello che stiamo per addentare è “solo pane”.
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16—17 ottobre 2023
Protagonista ad Host 2023 il Campionato
Europeo della Pizza
Milano, in occasione del salone Host, sarà la cornice per l’edizione 2023 del Campionato Europeo della Pizza, la manifestazione organizzata da “Pizza e Pasta Italiana” che trova in questa fiera mondiale dedicata al settore della ristorazione e dell’accoglienza, un palcoscenico di livello internazionale, con pizzaioli provenienti da tutta Europa. Sono già numerose le richieste pervenute per questa competizione che ogni due anni celebra la pizza. I requisiti per partecipare sono i seguenti: essere pizzaioli in attività e provenire da uno dei paesi dell’Unione europea. Oggetto del contendere sarà la pizza tonda classica, cotta su piano refrattario, con impasto e ingredienti a scelta del pizzaiolo.
La manifestazione si svolgerà in due giornate, rispettivamente lunedì 16 e martedì 17 ottobre 2023, all’interno del padiglione 3 della fiera di Rho, a Milano.
Per ricevere informazioni e iscriversi alla gara è possibile contattare la redazione di Pizza e Pasta Italiana al numero +39 0421 83148.
Attenzione: le iscrizioni saranno attive fino ad esaurimento dei posti disponibili.
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130 pizza e pasta italiana settembre 2023 SAVE THE DATE!
2023
2023
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