Bruno Monguzzi Cinquant'anni di carta

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SpazioOfficina

19.05–24.07.

centro culturale chiasso


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Quando mia madre— nella mezza estate del 1941, nel lembo più meridionale della Svizzera—decise di farmi vedere la luce, mio padre era ancora italiano.Verrà naturalizzato, così si disse, qualche anno dopo. Mia madre il privilegio di essere svizzera lo aveva avuto da sempre, ancorché i suoi antenati materni, i “munsciana”, avessero stretti rapporti di lavoro—con il carretto—con Monza, dove c’era il macello. “Ul pesafüm”, parsimonioso macellaio, era appunto il nonno di mia nonna. Poco più a nord di Monza, all’inizio del Novecento, nascerà mio padre. Mio padre e mia madre erano tra loro molto diversi. E molto diversi rimasero per tutta la loro vita. Mio fratello era molto diverso da me. Lui non faceva disastri. Lui era più bravo in tutto. Eccetto in teatro. La mia prima pièce la recitai a quattro anni. Una storia tragica. Serviva un bambino. Il padre, in salotto, in piena notte, sta per strangolare la madre. Assonnato entro in scena. Due semplici battute inconsapevoli rivolte a mia madre, spalle rivolte al pubblico, dove c’è la crocetta segnata col gesso sul pavimento, così la luce dell’abat-jour mi disegna meglio. Non sbaglio nulla. Ma il pubblico scoppia in una fragorosa risata. Fuori copione mi giro, nel panico mi tocco il pigiama dietro, penso si sia scucito e che tutta Chiasso abbia visto il mio piccolo sedere. Il pigiama non è rotto, ormai sono nelle braccia di mia madre che da copione mi porta via. Dietro le quinte mi abbraccia la ragazza che si occupava di me. “Bravo, bravo Bruno”. Mi colano lacrime silenti, le chiedo in che cosa ho sbagliato. Nelle prove nessuno aveva mai riso. Non c’era il pubblico. Sono cresciuto—si fa per dire—tra due diverse concezioni del mondo, quella protoliberalcattolica di mia madre e quella veterosocialmarxista di mio padre. Antifascista precoce, a due anni e mezzo, avevo terrorizzato mia madre mandando in frantumi il grande ritratto di Mussolini che campeggiava nella sala d’attesa del Consolato italiano di Chiasso. Mio padre, al gerarca vero, aveva offerto anni prima inopinati pomodori volanti. Bambino permanente, non ho mai smesso di chiedere perché; ragazzo improvvisato che ha sognato di cambiare il mondo con la matita prima, con la “rivoluzione” poi, fui, natural mente, cambiato dal mondo. Ma è verosimilmente a causa di questi moralismi incrociati che la ricerca del senso divenne in me un naturale bisogno e che loro, mio padre e mia madre, inconsapevoli, divennero i miei primi maestri. Lei aveva la straordinaria umiltà di non capire quando non c’era nulla da capire. Tornavo allora alla mia tavoletta e ricominciavo da capo. Lui, piccolo artigiano, amava con le mani, con gli occhi, con la ragione tutto quello che faceva e non si fermava se non nella perfezione. Ingenuamente avevo voluto studiare grafica perché volevo appropriarmi del linguaggio universale. Naturalmente mi confrontai con i fallaci dogmi elvetici e gli apocrifi vangeli del momento, ma i miei perché rimanevano irrisolti e per un ragazzo che cercava l’esperanto la frustrazione si fece insopportabile. Mi sono allora interessato ai processi percettivi e ho continuato gli studi a Londra. È a Londra che scopro la tipografia delle avanguardie storiche e che i miei occhi cominciano a vedere, a cogliere il senso, al di là dell’apparenza, ed è lì che ho cominciato a fare una distinzione non dogmatica tra la tipografia oggettiva, dove l’interesse formale si eclissa per veicolare il messaggio in modo possibilmente neutrale e la tipografia espressiva, dove la ricerca formale si afferma invece di primo acchito per predeterminarne, o specificarne, il senso. È allora che ho cominciato a preoccuparmi di adeguatezza e pertinenza e che la spessa crosta di uno studente ritenuto brillante cominciò a fissurarsi, in un lento, lungo, faticato processo ancora in atto. È incredibile quanto radicale possa essere il danno prodotto da un’educazione formalistica. Ci si appropria di uno pseudo stile e si dimentica il messaggio, si forgia una forma e si azzera il contenuto. Il cordone ombelicale che lega l’occhio al cervello e il cervello alla nostra mano può essere tagliato allora, ancor prima di essere nati. È sempre a Londra, sul secondo numero della rivista “Neue Grafik”, che ho scoperto i lavori dello Studio Boggeri. Il giorno dei miei vent’anni volo a Milano. L’ascensore di piazza Duse 3 era minuscolo, molto lento e un poco traballante. Durante la lunga ascesa al quinto piano provavo un certo disagio, disagio che doveva perdurare nei successivi due anni. Mi ero innamorato dell’uomo, delle sue idee, dello studio col balcone rivolto verso i Giardini Pubblici di via Palestro. Un giorno, abbassando il suo metroeottantacinque e sollevando le scarne e lunghe mani, le più belle mani che io abbia mai toccato, mi aveva confidato una sua teoria sulla ragnatela. Come la ragnatela la grafica svizzera era perfetta, ma a volte di una


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perfezione inutile. Utile la ragnatela sarebbe divenuta soltanto quando la mosca ne avesse infranta la meticolosa costruzione. È così, su istigazione di Antonio Boggeri, che comincia per me all’inizio degli anni sessanta la lunga caccia, nell’asettico universo di un’educazione calvinista, a un’improbabile mosca. Desterilizzare il rigore era un insospettato problema in più.Alla formulazione dell’anonima informazione, così diligentemente appresa e perseguita, si trattava di mettere in atto quel cassandriano “spectacle dans la rue” che lui, raffinato borghese, con lieve accento pavese, costantemente esigeva. Una “mise en scène” invece di una “mise en page”. Di fronte a me, dietro lenti spessissime e circondato da un costante ronzio, sedeva Aldo Calabresi che, con mia grande ammirata invidia, lui così miope, faceva strage di mosche. Il suo lavoro—come già quello di Max Huber, chiamato a Milano da Boggeri nel 1940—segnava la fusione delle due culture, quella svizzera, logica e costruttiva, e quella italiana, poetica e libertaria. È soprattutto grazie a lui che qualche mosca cominciò a volare anche dalla mia parte, finendo finalmente coll’infrangere il mio faticato aereo tessuto. Lasciando ai freudiani il reticolo infranto, è questa mosca, sembra, l’identità che da allora sono andato cercando nel mio lavoro, identità, forse, connaturale a questo piccolo triangolo di terra elvetica insinuato in terra lombarda. Dieci anni dopo—eccezion fatta per Max Huber, Boggeri lamentava spesso la lentezza dei collaboratori svizzeri—mi innamoravo di Anna, sua figlia, questa volta in modo non propriamente platonico. Nel frattempo avevo tenuto corsi sulla Gestalt e sul progetto tipografico alla Fondazione Cini diVenezia, progettato per Dino Gavina—che aveva iniziato la riedizione dei pezzi storici di Marcel Breuer—pubblicizzato la prima macchina a sfera per IBM, disegnato nove padiglioni in Nord America per Expo ‘67 e dato immagine a un piccolo editore milanese. La modestia e l’onestà di questo lavoro tipografico furono, con mia grande sorpresa, onorate nel 1971 con il Premio Bodoni, premio che si rivelerà contagioso. Da allora mi sono ancora occupato di allestimenti, di grafica editoriale, di museografia—qui e a Parigi —ma soprattutto di insegnamento, soprattutto qui e in America, poi in giro per il mondo. All’università diYale, doveTom Strong aveva presentato una cinquantina di miei manifesti, uno studente mi aveva chiesto di definire il nostro mestiere. L’aspetto essenziale, gli dissi, è sempre quello di una forma di trascrizione e lo incitai a riflettere sulla natura di due professioni che lui certo conosceva bene e che reputo profondamente affini. Quella del traduttore e, come già aveva scritto El Lissitskij nel ‘25, quella del recitante, dell’attore. Naturalmente l’attore ha un corpo e una voce, ma se li “reinventa” onde poterli “prestare” al personaggio cui deve dare vita. Ovviamente ci possono essere ruoli che noi non siamo in grado di interpretare. E recite che non vogliamo recitare. L’ultima volta che vidi Antonio Boggeri fu a Santa Margherita Ligure, nel 1989, poco prima della sua morte. Era molto debole, steso sul letto, la stanza tagliata dall’ultimo sole. Ero seduto accanto a lui, si parlava del nostro mestiere. Gli dicevo che mi sentivo responsabile, ma soltanto per gli errori commessi. Per il resto era successo come doveva succedere, come conseguenza ineluttabile dell’atto progettuale, per una logica intrinseca che bisogna solo assecondare. Mi prese la mano che avevo appoggiato sul letto tra le sue mani—che mi parvero fredde—e chiese: “Bruno, qual è la cosa più bella che hai fatto?” Siccome era molto critico cercai un lavoro privo di errori sostanziali o formali e mi resi conto che ciò che ricordo dei miei lavori sono di fatto gli errori, e la mia risposta tardava. Rispose lui per me: “Sposare Anna”. Con lei ho fatto altre due cose molto belle. Un figlio di nome Nicolas, in onore di Cassandre tragicamente scomparso poco prima, e una figlia, di nome Elisa, in onore di HansWerner Henze che allora scoprivo. Ora sono grandi, e stanno lontano. Con Anna vivo appartato in una grande casa che guarda verso sud, la casa dove sono cresciuti e da dove, nei giorni tersi, si vede Milano. Di tanto in tanto la casa si rianima, le stanze si riempiono, le loro voci e quelle dei loro bambini si ri-rincorrono. Io mi diletto ancora, di tanto in tanto, a comunicare per altri, e a perpetuare quei linguaggi che il sistema della moda ostinatamente cancella. Come ha scritto Dieter Bachmann,“sono un uomo fortunato”. Bruno Monguzzi


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When my mother—it was the summer of 1941, at the very tip of southern Switzerland—finally decided to show the light to me, my father was still Italian. He was going to be “naturalized”, as one says, a few years later. My mother had had the privilege of being Swiss right from her conception, although her forefathers had had working connections—with a small cart—with Monza, because the slaughter-house was there.“Ul pesafüm”(the smokeweigher), a parsimonious butcher, was in fact the grandfather of my grandmother. It is close to Monza, at the very beginning of the past century, that my father was born. My father and my mother were very different from each other, and my brother was very different from me. He caused no disasters whatsoever and he was better than me at everything. Except at theater. My first performance (I was four years old), was in a tragic play. In the middle of the night “my” father is going to strangle “my” mother. Half asleep I enter the sitting-room: just a few unconscious words to “my” mother, exactly where the chalk cross is marked on the floor so that the dim light of the abat-jour will reveal my back. I make no mistakes but the audience bursts out laughing. I turn round immediately touching my bottom: I think that everybody has seen my buttocks.The pyjamas are not unsewn. I am now in “my” mother’s arms, she is taking me away. Behind the scenes the girl that was taking care of me whispers: “Bravo, bravo Bruno”. In silent tears I ask her what I did wrong. In the rehearsals no one had ever laughed. No audience was ever there. I grew up—so to speak—between two conceptions of the world: the proto-liberal-catholic vision of my mother, and the vetero-social-marxist creed of my father. A precocious antifascist (two and a half years old) I terrified my mother by making the huge Mussolini portrait in the Chiasso Italian consulate fall to pieces.To the actual leader, a few years before, my father had offered instead a few flying ripe tomatoes. An eternal child, I never ceased asking: why? An incautious adolescent who dreamed of changing the world—first with a pencil, later through revolution—it was the world that eventually changed me. But it is probably due to these interwoven moralisms that the search for meaning became a natural need to me, and that they, my father and my mother, unaware, became my first masters. She had the extraordinary humility not to understand when there was really nothing to be understood; I would therefore go back to my drawing table and start all over again. He, a small artisan, loved what he did with his hands, with his eyes, with his thought, and he wouldn’t stop until he had accomplished perfection. Very young, I ingenuously decided to study graphic design assuming that it was the universal language. Of course I had to face all the Swiss dogmas and a few private gospels, while all my whys were unanswered. For a kid in search of the Esperanto this became too frustrating, I moved to London, and became very involved in the study of visual perception. It is in London that I began to look at the typography of the avant-garde movements around the twenties and that my eyes began to grasp the meanings beyond the look. It is there that I began to make a nondogmatic distinction between objective typography—where the formal content fades out to pass on the message as neutrally as possible— and expressive typography—where instead the formal content sets itself immediately to predetermine, or to specify, the meaning. It is there that I began to worry about appropriateness and relevance and that the thick skin of an allegedly brilliant student began to peel off in a slow, long process, still in progress. It is surprising how radical the damage of a formalistic education can be.You learn a pseudo-style and you ignore the message, the scope, the receiver. The umbilical cord that links the eye to the brain, and the brain to your hand may be irreversibly cut then, before you are even born. It is still in London that, in the second issue of the Neue Grafik magazine, I was struck by the works of the Milanese Studio Boggeri.The day I was twenty I flew to Milan.The elevator of Piazza Duse 3 was tiny, slow and shaky. During the long ascent to the fifth floor I felt a bit uneasy.This sensation was to last for the following two years. I had fallen in love with the man, his ideas, the office overlooking the Giardini Pubblici. One day I was called into his room. Lowering his thin face (he was very tall) and lifting his lean, long hands (the most beautiful hands I have ever touched), he began to talk about spiders’ webs, all kinds of spiders’ webs, and finally he mentioned that Swiss graphic design was often as perfect as any spider’s web. But often of a useless perfection.The web, he stated, was useful only when broken by


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the entangled fly.It is so that, upon Boggeri’s instigation, began for me the slow, long, difficult hunt, in the sterilized universe of a Swiss education, for an improbable fly. Having to de-sterilize rigor was one more unexpected problem. Besides the anonymous information we should also integrate that Cassandrian “spectacle dans la rue” which he, a sophisticated middle class man, with a slight accent from Pavia constantly demanded. A “mise en scène” instead of a “mise en page”. In front of me, behind very thick glasses and in the midst of a permanent buzzing, sat Aldo Calabresi who, myopic as he was—to my great admiration and envy—was a master at catching flies. His work—like that of Max Huber, who had been called by Boggeri to Milan in 1940—sharply marked the fusion of the two cultures, the Swiss, logical and constructive, and the Italian, poetic and libertarian. It is mostly thanks to him that a little fly or two began to fly on my side, infringing eventually upon my painstakingly constructed web. Leaving to the Freudians the broken grid, it is this fly, apparently, the identity that I have been trying to achieve in my work ever since. Identity which is probably rooted in this little triangle of Swiss land invading Italian soil, where people seem to be too Italian to be Swiss, and too Swiss to be considered truly Italians. Ten years later—except for Max Huber Mr. Boggeri always complained about the slowness of his Swiss collaborators—I fell in love with Anna, his daughter, and this time my love was not in the least platonic. Meanwhile I had lectured on Gestalt psychology and typographic design at the Cini Foundation inVenice, I had designed for Dino Gavina (who had just started re-editing the Marcel Breuer classics), I had worked on the advertising for the new revolutionary IBM “golf ball” typewriter, planned nine pavilions for Expo ‘67 in Montréal and set the typographical standards for a small new publishing house in Milan.The modesty and honesty of this typographic work were, to my surprise, honored by the italians with the Bodoni Prize in 1971, a prize that was to prove contagious. Since then I have been busy with exhibit and book design, dealing with museums here and in Paris, but mostly with teaching, here, in the States and then around the world. AtYale University, whereTom Strong had presented some of my posters, a student asked for a definition of our profession. An essential aspect, I said, is the “transcription” of matters. I encouraged him to deeply analyze the nature of two professions he certainly knew well enough, significantly akin to ours: the one of the translator and, as Lissitskij had done in 1925, the one of the orator, of the actor. Naturally the actor has a body, a voice, but he needs to “re-invent” them in order to “lend” them to the character to which he is going to give life. Obviously there are roles that we are not able to play, and there are plays that we are not willing to interpret. The last time I saw Antonio Boggeri was in Santa Margherita Ligure, in 1989, shortly before his death. He was very weak, lying in bed, with the late sun cutting the room. I was sitting by him, we were talking about our profession. I was telling him that I was feeling responsible for the mistakes only, the rest had happened the way it was bound to happen, as the inevitable consequence of the design process, with its inner logic that we only have to comply with. He took my right hand in his hands—which seemed cold— and asked: “Bruno, what is the best thing you have ever done?” Since he was a lucid critic I was trying to find in my mind a piece of work without any substantial or marginal error and realized that what I do remember of my work are in fact the mistakes. So I was delaying the answer. He answered for me: “To marry Anna”. I have done two more beautiful things, with her. A son, whose name is Nicolas, in memory of Cassandre, who had tragically passed away two years before, and a daughter, named Elisa, in honour of Hans Werner Henze, whom I had just discovered. Now they are grown up, they live far away. I live with Anna in a large house looking South, the house where they grew up and from where, on clear days, one can see Milan. From time to time the house revives, the rooms get filled, their voices and the voices of their children chase each another. I still have fun, once in a while, in communicating for people, in perpetuating those languages that the fashion system systematically wipes away. As Dieter Bachmann once wrote: “I am a lucky man”. Bruno Monguzzi

Bruno Monguzzi Autoritratto, doppia esposizione Londra 1961


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Bruno Monguzzi Auto-portrait, double exposure London 1961

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1961. Dalla Svizzera, come già Max Huber e CarloVivarelli, venne un giorno da me Bruno Monguzzi a mostrarmi i suoi lavori e subito l’accomunai a loro per quel dono naturale di sorprendente abilità nel disegno di caratteri che presume una innata disposizione alla manualità in un mestiere in cui la tecnica s’antepone allo stile ed è tanta parte dei risultati. Dei collaboratori del mio studio molti uscivano dalle scuole di Zurigo e Basilea. Giovani che facendo diligentemente ricorso ai precetti e metodologie apprese in quelle scuole garantivano la corretta soluzione d’ogni ordine di problemi. Ma è privilegio di pochi la vocazione naturale che elegge e decide, in chi la possiede, la personalità, e l’adozione di un linguaggio insostituibile per la trascrizione, non naturalistica, di valori estetici d’intellettuale significato. Attorno ad ogni problema che esige una scelta estetica si estende infatti un campo di sensazioni individuali la cui natura e intensità dipendono dal grado emotivo e immaginativo del suo interprete. È permesso ai grafici di limitare il loro interesse al solo campo del proprio lavoro e alle effimere mode e ai suoi eccessi? Immersi nel mondo delle comunicazioni visive a cui apppartengono pochi hanno la forza d’uscire dal recinto della convenzionalità che adotta quelle mode accentuandone le stravaganze. Bruno Monguzzi è tra questi pochi. Appartiene al gruppo degli strenui difensori della grafica funzionale e costruttiva saldamente aggrappata ai modelli storici dei padri della grafica moderna di cui il tempo non ha scalfito l’attualità. Da quei modelli egli recupera quell’“esprit de géométrie” che più incisivamente segnò il volto e edificò le strutture della nuova tipografia. Nel suo lavoro si scopre l’intento di rimettere l’oggetto del compito nell’atmosfera ideale in cui lo colloca la memoria e di rivelarci visivamente la sua significazione essenziale. Non si tratta dunque di una figurazione realistica dell’oggetto che conta sull’effetto immediato ma d’una sua concettuale interpretazione. Si vuole dire che nella sua produzione non è il fine estetico che decide l’idea progettuale, suggerita invece dalla natura dell’oggetto o argomento in questione, in ordine s’intende ai fattori visuali: il carattere tipografico, il colore, le carte da utilizzare. Una posizione estetica che non potrebbe sostenersi e trovare suggestiva espressione senza un retroterra culturale al quale attingere i riferimenti, le idee, per tradurre in immagini la personale visione del mondo del suo interprete. Intime frequentazioni con Bruno mi hanno fatto conoscere le fonti d’informazione, l’intelligente curiosità, il vivo interesse, la ricca documentazione dei movimenti e delle opere della cultura da cui trae nutrimento il suo lavoro e vi trova giustificazione. Ammiro la parsimonia dei mezzi, la grande naturalezza con cui si esprime, il riserbo mentale con cui ne tiene a freno la temuta appariscenza.

Un giorno del 1961 di Antonio Boggeri Santa Margherita Ligure luglio 1980


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One day in 1961 by Antonio Boggeri Santa Margherita Ligure July 1980

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One day in 1961, Bruno Monguzzi arrived from Switzerland, as Max Huber and CarloVivarelli had done before him, to show me his work, and I at once classed him with them because of his surprising natural skill in the design of lettering, a proof of inborn craftsmanship in afield in which technique comes before style and greatly affects the results obtained. Many of the co-workers in my studio have emerged in schools in Zurich and Basel, young men who, by having recourse to the rules and methodologies taught in those schools, were able to find the right solutions to problems of all descriptions. But it is the privilege offew, this natural vocation that shapes the personality of those who possess it and leads them to the acquisition of an original language for the non-naturalistic transcription of aesthetic values. Around every problem demanding anaesthetic choice extends an area of personal feeling whose nature and intensity depend on the emotional and imaginative level of its interpreter. Is it permissible for graphic designers to limit their interest to their own work, to ephemeral fashions and their excesses? Immersed as they are in the world of visual communications, few of them have the strength to escape from the confines of a convention that embraces such fashions and accentuates their extravagances. Bruno Monguzzi is one of these few. He belongs to the group of keen defenders offunctional and constructive graphics so closely attached to the historical models of the fathers of modern graphic art, whose validity has not been impaired by the passage of time. From these models he recovers that geometric spirit that so strongly marked the essence and structures of the new typography. His productions display the intent to place the object concerned in an ideal atmosphere and to reveal to us by visual means its essential means. His work is consequently not a realistic portrayal of the object that depends on an immediate effect, but contains his own conceptual interpretation.This means that this is not the aesthetic end that decides his approach, which is suggested rather by the nature of the object or message involved and accordingly determines the visual factors: typeface, color, format, paper quality. This is an aesthetic position that will never be able to impose itself and find effective expression without a cultural background from which to draw its associations and ideas, and thus to translate into images its interpreter’s personal vision of the world. My close personal contact with Bruno has familiarized me with the founts of information, the inquiring intelligence, lively interest, and rich documentation of the works and movements of culture by which his work is nourished and justified. I admire the economy of his means, the very natural way in which he expresses himself, the mental reserve with which he keeps all mere show in check.


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Il modo in cui io interpreto una immagine grafica è lo stesso che ha portato il suo autore a delinearla? Come è possibile leggere in trasparenza il sistema di interconnessioni, di relazioni fra le parti e i dispiegamenti geometrici le cui regole di generazione hanno prodotto quel testo o quella immagine? E quali sono i gradi di libertà interpretativa? Bruno Monguzzi è un autore radicato nel moderno razionale e progettuale ed è dotato di una qualità assai rara che lo induce a esprimersi con spontanea chiarezza induttiva e deduttiva su ogni progetto, radicale o marginale. In ogni suo progetto traspare sempre il nucleo, il cuore dell’intuizione che ha prodotto la catena delle relazioni che “sono” quell’oggetto. Questo oggetto è ciò che è, per l’interconnessione fra regole di produzione, i processi estetici e l’esplicitazione delle norme interpretative, regola prima delle avanguardie storiche cui Bruno Monguzzi guarda con emozione non dissimulata e anche con una sorta di distacco scientifico. Del suo talento grafico si potrebbero comporre vasti arabeschi elogiativi. Giovanissimo, una sorta di enfant prodige nello studio Boggeri, esprime la sua vocazione accanto ad Aldo Calabresi, poi girovaga per il mondo, infine si chiude nell’eremo di Meride (Svizzera), professore dotto e amatissimo. Ma ciò che qui interessa, è capire come riesca a fare della composizione grafica un oggetto così intensamente poetico. Come può un “orario” ferroviario, oltre che rendere espliciti con diagrammatica chiarezza gli spostamenti sul territorio, essere più bello di tutti gli altri orari ferroviari? Può una mappa rappresentare un territorio senza riprodurlo, ma sottostando a una volontà di astrazione che restituisca un’idea dei flussi di materia e di informazione, attraverso una nuova logica formale? Di quale logica formale, di quale valore estetico, di quale bellezza si tratta? Una pagina appare in tutta la sua chiarezza quando è misurata da una griglia invisibile che fin dall’inizio ha striato la sua superficie e la si legge secondo uno schema definito rispetto al quale ogni rottura è devianza. Paradossalmente si può leggere la storia della grafica moderna come una successione di devianze necessarie. Nel lavoro di Bruno Monguzzi la devianza non è così palese ma non conosco lavoro più trasgressivo e nello stesso tempo così fermamente razionale. Monguzzi ha premeditato un’azione scandalosa dentro il conformismo del lavoro grafico. Ha rimesso in discussione l’autonomia della scrittura rispetto alla grafica. Non colloca al posto giusto pacchetti di caratteri, non ingabbia i testi ma li disegna, li interpreta, li fa appartenere al processo visivo, li manipola in “rigorosa dipendenza”, li dispiega sul foglio pensato come supporto che interagisce con la sua materialità, il suo colore, la sua “tattilità”. In questa fusione concettuale stanno i gradi di libertà compostiva di Bruno Monguzzi, e poi nella sua sapienza tecnica, nella sua capacità di indurre, in quella di sintetizzare ma, soprattutto, in quel territorio di confine dove si elabora la parte più misteriosa del progetto che gli fa rendere poetico anche il lato più insignificante del messaggio.

Un’azione scandalosa di Pierluigi Cerri Milano maggio 1998


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An outrageous act by Pierluigi Cerri Milan May 1998

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Is the approach I take when interpreting a graphic image the same approach the artist followed when he designed it? How is it possible to gain a clear insight into how the system of interconnections and interrelationships among the parts, the geometric arrangements, and the rules governing their creation have come together to produce that particular text or image? And what are the degrees of interpretive freedom? Bruno Monguzzi is a designer firmly rooted in modernism. He possesses a very rare quality that allows him to impart a spontaneous inductive and deductive clarity on every project, no matter how radical or marginal. In each of his projects, the core always shines through, the very heart of the intuition that created the chain of relationships that “are” that object.The realization of that object, via the interconnections among the rules of production, the aesthetic processes, and the manifestation of interpretive conventions, is in essence the first rule of the historical avant-gardes, which Bruno Monguzzi views with unconcealed emotion, as well as a certain scientific detachment. One could compose expansive arabesques in praise of his graphic talents.When he was very young he found his vocation alongside Aldo Calabresi, as somewhat of a child prodigy in the Boggeri studio. He then traveled widely throughout the world, ending up as a learned and much-loved professor in the hermitage-like setting of Meride (Switzerland). But what interests us here is how he manages to transform a graphic composition into an intensely poetic object. How can a railroad “timetable,”beyond its function of explicitly portraying the routes through the region with diagrammatic clarity, be more beautiful than every other railroad timetable? Can a map represent a territory without reproducing it, but rather by subjugating it to a will of abstraction that yields back conceptually the flow of matter and information via a new formal logic?What formal logic, what aesthetic value, what beauty does it entail? A page is communicated in all its clarity when measured by an invisible grid that partitions the surface, creating a foundation that allows it to be read according to a well-defined scheme, any breach of which stands out as a deviation. Paradoxically, the history of modern graphics can be read as a succession of necessary deviations.The deviations in the work of Bruno Monguzzi are not obvious, but I know of no other work that is more transgressive, while at the same time so resolutely rational. Monguzzi has contrived an outrageous act within the conformity of the graphic work. He has raised for discussion the autonomy of writing with respect to graphics. He doesn’t merely arrange columns of characters in the right positions. He doesn’t enclose his texts in cages, but rather designs them, interprets them, makes them part of the visual process, manipulates them in“rigorous dependence”. He composes them on the page after having thought through how the page serves as a foundation that interacts through its material composition, its color, its “tactility.” The compositional degrees of freedom of Bruno Monguzzi lie in this conceptual coalescence, in his technical knowledge, in his inductive capacity, in his ability to synthesize, and above all, in that frontier on which he realizes the most mysterious part of the project—that which creates poetry out of even the most insignificant aspect of the message.


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Il lavoro di Bruno Monguzzi, apprezzato da ogni pubblico, riscuote immediato consenso ma è solo apparentemente semplice. Come nella fruizione della grande musica, la percezione del profano risulta diversa da quella del musicologo. Il primo è sensibile alla musica fino a esserne commosso, ma è ignaro dei meccanismi in atto. La magia, le finezze, la comprensione e la contestualizzazione storica sono inaccessibili all’orecchio inesperto. La grandezza di Monguzzi è più apprezzata dal professionista; per un fine conoscitore il suo lavoro è profondo. Anzitutto l’opera arresta lo sguardo.Attrae l’occhio e lo cattura. Segnala immediatamente l’unicità della sua presenza. Possiede un senso di “correttezza” e sembra essere un perfetto significante per il soggetto cui fa riferimento. Dal primo sguardo si evince che questo lavoro è portatore di senso e che, nella sua splendida costruzione, è il risultato di scrupolo, di intelligenza e di profondo talento. Ciò che trovo particolarmente interessante nel lavoro di Bruno sono i costanti paradossi e contraddizioni. L’opera appare (come è tipico di molta grafica svizzera) meticolosamente ordinata, ogni cosa al suo posto, ogni elemento nella giusta misura, ogni dettaglio controllato, nulla è lasciato al caso. Eppure ogni lavoro risulta così espressivo, così poetico, così radicato nell’ineffabilità del soggetto. Come nella più misteriosa scultura africana si avverte qui una presenza coinvolgente. Più guardi, più vedi. La sua opera è al contempo ordinata e spontanea, sensuale e cerebrale.Trovo il suo lavoro affascinante. Ho cercato spesso di capire cosa succede, come ci riesce? Penso abbia a che fare con una risposta viscerale al tema posto, sia esso un prodotto industriale, un’opera d’arte, o l’immagine di una donna affranta. È tutto empatia, poi procede con intelligenza e tecnica nella manifestazione di questi sentimenti dando loro presenza visiva. Non è soltanto il significato del contenuto che egli intende rappresentare, questo è scontato, deve pur essere comunicato, ma per lui questo non basta se non riesce a toccarti con l’espressione profonda dei suoi sentimenti relativi al tema. È così umano, un miscela di testa e cuore. È per questo che amo il suo lavoro e che naturalmente gli voglio un gran bene.

Più guardi, più vedi di Louis Danziger Los Angeles giugno 1998


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The more you look, the more you see by Louis Danziger Los Angeles June 1998

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Bruno Monguzzi’s work is immediately successful and is appreciated by all audiences, but it is deceptively simple. As in the appreciation of great music, the layman’s perceptions are different than those of the skilled musician.The layman responds and is moved by the music, but is unaware of what is going on.The magic, the subtleties, the understanding, and the historical contextual knowledge is unavailable to the untrained ear. Monguzzi’s greatness is most appreciated by the design practi tioner; to the connoisseur the work is profound. First, the piece is always visually arresting. It attracts and captures the eye. It immediately signals its unique presence. It has a sense of “rightness” about it. It seems to be a perfect fit for the subject it deals with.The very first glance tells you that this piece holds the promise of meaning, that this beautifully structured work is a product of care, of intelligence and unfathomable talent. What I find particularly interesting in Bruno’s work are the constant paradoxes and contradictions. It appears to be (as is typical of much Swiss work) meticulously orderly, everything in its place, everything at just the right size, every hair in place, nothing left to chance.Yet it is so expressive, so poetic, so rooted in the ineffabilities of the subject. Like mysterious African sculpture there is some moving presence in there.The more you look, the more you see. His work is simultaneously orderly yet spontaneous, sensuous yet cerebral. I find it fascinating. I often try to figure out what is going on, how does he do it? I think it has something to do with his visceral response to the subject, be it furniture, work of art, or a photograph of a weeping women. He is all empathy and then he proceeds to use his intelligence and craft to manifest these feelings for the viewer, to give them a visual presence. It is not just the meaning of content which he wishes to manifest, that is always a given—it must communicate, but for him that is insufficient if it does not also touch you with the expressive feelings, his sensitivities to the subject. It is so human, a mix of head and heart. It is why I like his work and of course that’s why I like him so much.


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Anwesenheit bei Abwesenheit. Fotogramme und die Kunst im 20. Jahrhundert (Presenza e assenza. Il fotogramma e l’arte del XX secolo), premiato allaTriennale diToyama nel 1991, fu il mio primo incontro con un manifesto di Bruno Monguzzi. Mi colpì la purezza dell’immagine, c’era una dignità che rendeva l’opera inavvicinabile. I lavori di Monguzzi sono profondamente radicati nella tradizione svizzera della tipografia moderna, ma non appaiono per nulla vecchi o datati. Ogni pezzo è un capolavoro di espressione, di freschezza e di emozione mediate da una grande intelligenza. Strutture forti e avvincenti si fondono in intrecci incredibili a comporre una musica bellisssima. Esaminati da vicino i suoi lavori risultano privi di ridondanza. Egli identifica gli elementi fondanti del messaggio per dar loro corpo in una forma splendida e forte, e si può notare come nessuno sforzo venga risparmiato per comunicare il tema stesso, evitando l’intrusione di inopportuni personalismi. Si può apprezzare, ad esempio, l’estrema cura nel selezionare i caratteri tipografici, evidente addirittura per un grafico come me, appartenente a una cultura che usa il kanji. Lontani un mondo dal trambusto e dal frastuono diTokyo, nei lavori di Monguzzi traspare l’aria limpida subalpina, ma forse anche un pizzico di follia. Come nei manifesti per il Museo Cantonale d’Arte di Lugano, dove intesse frammenti di comuni fotografie, di opere e di lettere come se fosse un mago. È un progettista straordinario i cui lavori emanano poesia.

Come se fosse un mago di IkkoTanaka Tokyo luglio 1998


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As if he were a magician by IkkoTanaka Tokyo July 1998

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Anwesenheit bei Abwesenheit. Fotogramme und die Kunst im 20. Jahrhundert (The Presence of Absence:The Photograms in 20th Century Art), a prize winner at the 1991Toyama PosterTriennal, was my first encounter with a poster by Bruno Monguzzi.The first impression I had was of the cleanness of the image.There was a dignity that made it unapproachable. Monguzzi’s works are deeply rooted in the Swiss tradition of modern typography, but they don’t look old or dated in the least. Each piece is a masterwork of expression, imparting a sense of freshness and emotion combined with intelligence. Bold and powerful structures blend with incredible intricacy to create beautiful music. When examined closely, Monguzzi’s design style is free of waste. He identifies the core elements of the message and embodies it in a splendid and powerful form. One can see that no effort was spared in communicating the theme itself without allowing the personality of the artist to intrude on the work itself. For example, one can appreciate the careful attention given by the artist to the selection of the typefaces, which is obvious even to a designer like myself from a country that uses kanji. A world away from the hustle and bustle ofTokyo, Monguzzi’s works carry with them the clean air of the lake of Lugano.Yet they also express just a hint of lunacy. As in the posters of Museo Cantonale d’Arte, he weaves together a collage from pieces of ordinary photos, pictures, and letters into an art work as if he were a magician. He is an amazing artist whose designs emanate poetry.


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[…] Egli stesso, quando glielo si chiede, menziona subito il nome di El Lissitskij (1890-1941), del quale ammira la capacità di presentare nell’esecuzione della costruzione tipografica la narrazione dell’oggetto, l’unità di contenuto e comunicazione grafica. A differenza del grafico di successo così di moda (…più chiassoso possibile al ritmo di Quark Express…), l’opera di Monguzzi non si realizza nell’estetica, ma nella sostanza e cerca poi da questa di liberare la relativa inevitabile estetica. Bruno Monguzzi dice che il suo lavoro, il lavoro della comunicazione, consiste nel portare “dei contenuti il più possibile intatti al maggior numero di persone”; chi lo conosce sa che in questa frase l’enfasi si trova sulla parola “contenuti”. Un tale pensiero viene anche descritto con la parola “Bauhaus”; più tardi a Ulma, spiega Bruno, alla Scuola Superiore di Design ha avuto luogo tuttavia una pietrificazione di tale tradizione. Si presume che, esattamente per questa ragione, Bruno Monguzzi preferisca collegarsi ai russi e al costruttivismo: l’estetica come espressione dell’impegno sociale. L’aspetto svizzero di una tale posizione sarebbe il preservare il contegno. Sarebbe il tentativo, considerato il diluvio di inutili esercizi di stile—esempio perfetto: la circolante estetica da rotocalco, con tanti più luccichii di computer quanto più esiguo il contenuto—di mostrare non lo stile, ma il contegno. Questo ci porta direttamente alla domanda sul modo di lavorare. Effettivamente in Bruno Monguzzi non si vede alcun influsso dell’elaborazione elettronica dei dati. È uno degli ultimi abitanti della regione della matita. Se mai esibisce il suo modo di lavorare, magari una volta a una mostra, si può vedere come maneggia matite, forbici, carta, materiali comunque. L’aspetto immateriale del computer non fa per lui, dal che consegue d’altra parte che le sue opere, ad esempio i suoi manifesti, lasciano sempre trasparire qualcosa di fortemente tattile. Ciò diventa tangibile in senso letterale con i cataloghi, quando Bruno Monguzzi ordina o piega le pagine in modo da creare una sorta di leporello di pagine stampate e non stampate, così che il veicolo dell’informazione, la carta, si fa manifestazione essa stessa. O quando fa risaltare chiaramente il materiale come tale di un imballaggio, ad esempio il cartone per gli utensili da cucina della serie RStset. Penso che questo si potrebbe definire svizzero nel senso che Monguzzi lo prepara, alla fine dell’era industriale e mentre parte della produzione industriale rende l’artigianato sempre più visibile. Potrebbe essere che in questo modo l’inerzia svizzera, l’estremo conservatorismo di valori di questa terra per una volta non sia ostruttivo e preventivo, ma abbia un effetto stabilizzante e perfino produttivo? Che ancora una volta la “buona” comunicazione grafica e la presenza—qui deliberatamente un termine morale—prevalga, prima di tutto alla fine sul cammino di minor resistenza: quello della perdita della responsabilità e della memoria? Oppure potrebbe essere che il conservatorismo in questo caso abbia sempre più l’aspetto dell’avanguardia? E che non sia solo un sopravvivere del costruttivismo, ma piuttosto una presenza costruttiva? Comunque si voglia rispondere a queste domande, Bruno Monguzzi ha, oltre a un intelletto vivace, anche fortuna. La qualità dei suoi compiti non è così scontata—Museo Cantonale d’Arte! E che uomo fortunato, che poi a sua volta capisce di rispondere con la qualità! E fortuna ha Bruno Monguzzi con la sua posizione. Sì, esattamente qui, sotto la loggia della sua venerabile casa e in un villaggio del resto, che nel suo museo locale custodisce i fossili di prima del grande diluvio, cioè lucertole, dinosauri e rettili del Mare Giurassico… Nella trafficata area metropolitana nel nord della Lombardia, anche nella culturalmente addormentata Svizzera italiana, ecco qui una nicchia, dove si può vivere con le proprie contraddizioni. Anche più di così: dove si può essere radicali, mentre si è conservatori.

Prima del diluvio universale Bruno Monguzzi e la Svizzera di Dieter Bachmann Arzo agosto 1998


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Before the Great Flood Bruno Monguzzi and Switzerland by Dieter Bachmann Arzo August 1998

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[…] If he is asked, he immediately mentions the name of El Lissitzky, in whom he admires the ability to present the story of his subject in the manner in which he implements the typographic construction, his unity of content and graphic communication, Unlike the popular, successful graphics products (... as much noise as possible at the speed of Quark Express…), Monguzzi’s work does not initially focus on the aesthetics but rather on the substance at issue, and then he tries to elicit from it the appropriate aesthetics required for it. Bruno Monguzzi has said that his work, the work of communication, is to “present contents with as little distraction as possible to as many people as possible.”Those who know him know that the emphasis in the sentence rests on the word “contents.”These ideas have also been described by the term “Bauhaus.” Bruno has said that later this tradition had, however, become petrified at the Hochschule für Gestaltung (Academy for Design) in Ulm. It may be surmised that this is precisely the reason Bruno Monguzzi prefers a connection to the Russians, to constructivism: aesthetics as the expression of a societal obligation. The Swiss in such an approach would be typified by the aspect of preservation. In light of the great flood of vainglorious exercises in style (exemplified by the prevailing aesthetics of magazines, i.e., as much computer noise as possible with as little content as possible) it would be an attempt not to exhibit style but attitude!This immediately takes us to the question of his working method. In fact, we see no influence of electronic data processing in Bruno Monguzzi’s work. He is the last inhabitant of the world of pencils. If he shows his method of working at all, perhaps during an exhibition, one can see how he continues to handle his pens, scissors, papers, and materials in general.The immaterial aspect of the computer apparently does not suit him, which in turn has the consequence that his work, for example his posters, always exudes a very tactile quality. It becomes literally graspable in catalogues, when Bruno Monguzzi has the pages arranged and folded in such a way that a type of Leporello is created of printed and unprinted pages, so that the carrier medium of information, the paper itself, becomes apparent. Or when he makes the material used for packaging, for example the carton for kitchen utensils of the RStset company, clearly become apparent as such. I think that this characteristic could be called Swiss in the sense that at the end of the industrial age and as part of industrial production Monguzzi is able to draw our attention to the skilled artisanship. Is it possible that in this way the Swiss ability to persevere, the country’s extreme conservatism of values, would appear not as a handicap, a hindrance, for once, but instead as stabilizing, even productive?That one more time “good” graphic communication and presence (a moral term used here intentionally) wins before everything ultimately takes the path of least resistance: of complete loss of responsibility and remembering? Or that in this case that which is conservative still has the appearance of the avant-garde? And is not merely a continuation of constructivism, but is a constructive here and now? Irrespective of how these questions may be answered, Bruno Monguzzi not only has a flexible mind, he also has been lucky.The quality of his assignments is not commonplace—Museo Cantonale d’Arte! And what a lucky man he is who understands to respond in turn with quality. And Bruno Monguzzi is lucky in his choice of where to live.Yes, precisely here, under the loggia of his venerable house and in a village, which in its local museum has preserved the fossils from before the great flood, i.e. lizards, dinosaurs, and reptiles from the Jura Sea... Here, in the bustling region of northern Lombardy, within the culturally sleepy Svizzera Italiana, there is a niche where one can live with one’s contradictions. More than that: where one can be a radical by being a conservator.


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Guardatevi intorno in questa mostra e fatevi questa domanda: “Cosa distingue quasi tutti gli altri esempi di design grafico che avete visto oggi dal lavoro di Bruno Monguzzi?”. Mi sembra che si tratti della differenza tra formulare un’idea ed esprimerla, tra i limiti e le potenzialità, tra l’economia e l’efficienza, tra l’essere abili e essere intelligenti, tra un manifesto che si usa (ma non si conserva) e una ricercata icona culturale. Cerchiamo di essere un po’ più specifici. Molti scrittori hanno contestualizzato il lavoro di Monguzzi all’interno del modernismo e vedono in esso una continuazione non dogmatica degli stessi obiettivi essenziali. Questo, però, non ci aiuta molto. Modernismo è diventato un termine talmente frusto che non ha mordente, manca di precisione. Per qualcuno si tratta di design con un programma sociale, per altri è solo una bandiera (sans serif) di comodo. Ciò che è evidente nell’opera di Monguzzi è che mentre si rifà agli aspetti funzionali e razionali del modernismo, non ne condivide l’approccio prescrittivo-estetico. L’opera unisce la funzionalità con un uso molto più suggestivo, e spesso espressivo, dei caratteri tipografici mediante una disposizione più libera degli elementi all’interno della composizione. L’opera di Monguzzi spesso fonde la semplicità e la complessità. La riduzione fa la sua parte, in particolare nei marchi per il Musée d’Orsay, per la Pirelli o per il Museo Cantonale d’Arte; ma in tale riduzione, al marchio stesso viene dato risalto dal suo uso libero all’interno di un disegno complessivo. Queste firme non sono sempre utilizzate in maniera puramente statica, ma cambiano colore, configurazione e posizione come parte di un sistema più ampio di elementi. Certi progetti di Monguzzi, come la serie di manifesti prodotti per un lungo periodo per il Museo Cantonale d’Arte, esemplificano strategie che possono essere definite “orientate al soggetto”. A differenza delle istituzioni artistiche inglesi, ad esempio, che tendono a promuovere il luogo o l’istituzione come l’elemento dominante di un manifesto, per il Museo Cantonale d’Arte il tema di ogni mostra costituisce sempre il punto chiave. Ogni manifesto assume una veste visiva diversa secondo l’occasione: l’uso di caratteri con “grazie” o senza, una forma fotografica o tipografica, moderna o postmoderna. E l’ampiezza della competenza di Monguzzi è di tale respiro che raramente la forma sembra meno che perfetta. Un’altra differenza tra l’approccio di Monguzzi e quello che viene privilegiato in Inghilterra si rivela nell’uso che fa dell’idea. La maggiore parte del disign inglese basato sulle idee rappresenta delle parole che servono per evocare un’idea nell’occhio della mente. Un manifesto è quindi da “leggere”, e da leggere in un istante; ma non ha molto da offrire dopo quella rivelazione iniziale. Monguzzi utilizza un’idea come punto di partenza per creare una composizione visiva ricca di significato. I colori, il carattere e le forme tipografiche, l’uso di fotografie, la storia, gli angoli, il taglio, la scala: tutti questi aspetti vengono amorevolmente utilizzati e gestiti con un tocco da artigiano. L’idea viene espressa, il soggetto viene comunicato, i sensi visivi dello spettatore sono coinvolti, e c’è sempre qualcosa da vedere.

Un tocco da artigiano di Phil Baines Londra ottobre 2003


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A craftsman’s touch by Phil Baines London October 2003

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Look around this exhibition and ask yourself this question, “What is different about virtually every other piece of graphic design you’ve seen today compared to the work of Bruno Monguzzi?” It seems to me that it’s the difference... between stating an idea and expressing it; …between limitations and possibilities; …between economy and efficiency; between being clever and being intelligent; …between a poster which is used (but never kept) and a sought-after cultural icon. To be a little more specific. Many writers have located the work of Monguzzi within Modernism and see in that a non-dogmatic continuation of its essential aims. But this is not helpful. Modernism has become such a widely-used term it has no bite, no exactness. For some it is design with a social agenda, to others no more than a (sans serif) flag of convenience. What is clear in Monguzzi’s work, is that while it draws on the functional and rational aspects of Modernism, it has little time for the prescriptive aesthetic approach. It allies function with a far more suggestive, and often expressive use of typefaces, and a freer disposition of elements within a composition. His work often fuses both the simple and the complex. Reductiveness has a part to play, notably in the marks for Musée d’Orsay, Pirelli or Museo Cantonale d’Arte, but this reductiveness in the mark itself is offset against its free use within a total design.These signatures are not always used in a pure static manner, but change colour, configuration and position as part of a greater scheme of things. Certain of Monguzzi’s designs, such as the long-running poster series for Museo Cantonale d’Arte, exemplify graphic strategies which may be termed ‘subject orientated’.Whereas British art institutions, for instance, tend to promote the place or organisation as the dominant element of a poster, for Museo Cantonale d’Arte it is the subject of each exhibition which is always the focus. Each poster takes on a different visual dress according to each occasion, serif or sans serif, photographic or typographic,‘modern’ or post-modern, and such is the breadth of Monguzzi’s skill that rarely does the dress seem anything other than perfect. Another difference between Monguzzi’s approach and that favoured in this country is in his use of the idea. Much British ‘idea’-based design concerns words which are used to conjure up an idea in the mind’s eye. A poster is thus ‘read’, and read instantaneously but beyond that initial recognition little more is offered. Monguzzi uses an idea as a starting point to create a rich visual composition full of meaning. Colour, typefaces and typeforms, photographs, history, angles, cropping, scale, these are all lovingly used and handled with a craftsman’s touch.The idea is expressed, the subject communicated, the spectator’s visual senses are engaged and there is always something to see.


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1 il primo incontro è acustico: 3 gennaio 1991, la voce affilata di Bruno Monguzzi alla radio 2 lezione di composizione: parla di grafica ma alle mie orecchie parla di musica 3 che lucidità di pensiero! che capacità di descrivere il processo creativo! 4 istinto e ragione 5 MOnguZzi e MOZart 6 poi l’incontro in carne e ossa, a un concerto: suonano uno dei miei pezzi preferiti, Viola in my life di Morton Feldman 7 Bruno in my life 8 la sua musica silenziosa 9 chi l’avrebbe mai detto che assomiglia a un folletto?! 10 però un po’ anche a Garibaldi 11 antecedente: nel 1988,in una recensione della mostra Oskar Schlemmer e Les Noces scrivevo: “La mostra è annunciata dal manifesto dell’infallibile Bruno Monguzzi”12 fa Stravinsky come Stravinsky fa Pergolesi 13 come un attore: entra nel personaggio, entra nel messaggio 14 BM Zelig! 15 mi invita a tenere un corso di musica al Dipartimento di comunicazione e design 16 propongo una lettura in chiave musicale delle Lezioni americane di Italo Calvino 17 intesa immediata 18 la leggerezza di Calvino e la leggerezza di Monguzzi 19 questione di volo (come nel manifesto del Musée d’Orsay) 20 entra inaspettatamente all’ultima lezione mentre ascoltiamo il Poème électronique diVarèse 21 Bruno in ascolto 22 Dowland eWebern (i suoi compositori preferiti) 23 “a little silence” 24 i suoi manifesti per le strade delTicino: quanti incidenti ho rischiato in automobile! 25 quella notte in cui mi apparve il trittico dei Buchi neri 26 l’attesa del manifesto che verrà 27 come mi mancano i suoi manifesti per le strade di Lugano e di Chiasso! 28 (però così le strade sono più sicure…) 29 trans-ticinese, meta-ticinese (in fondo non ce lo meritiamo) 30 le banconote disegnate da Bruno Monguzzi mai realizzate: la Svizzera ha perso le banconote più belle del mondo! 31 nel 2005 devo creare per la Radio svizzera la nuova immagine sonora di Rete Due: traduco in suono il metodo Monguzzi 32 dai vincoli nasce l’invenzione 33 lo stile è il frutto, non il seme 34 BM zen:“l’architettura non sta nelle pareti ma nello spazio fra le pareti”35 maestro di vita: lascia il successo, lascia l’America, smette sempre al momento giusto 36 profeta? 37 sceglie il silenzio di Meride 38 “leben heisst, eine Form zu verteidigen” (vivere è difendere una forma), Hölderlin 39 Bruno che fa l’orto 40 nonno sui manifesti del Primo d’agosto 41 patria e famiglia 42 il Quartetto Monguzzi di profilo: Anna, Bruno, Nicolas, Elisa 43 figlio di una sarta e di un marxista 44 precisione e utopia 45 più giovane dei giovani, più originale, più coraggioso, più libero 46 sempre diverso, sempre inconfondibile 47 artista malgré lui 48 Bruno e il tempo che scorre: i giorni della settimana sulla testata del Quotidiano, i mesi dell’anno sulla copertina di Abitare 49 “non andare più in fretta del tempo” (frase appesa accanto al suo tavolo di lavoro) 50 andiamo, è tempo di voltare pagina:

50 Sequenza per Bruno Monguzzi di Mario Pagliarani Vacallo marzo 2011


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50 Sequence for Bruno Monguzzi by Mario Pagliarani Vacallo March 2011

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1The first encounter is acoustic: January 3, 1991, the sharp voice of Bruno Monguzzi on the radio 2 lesson of composition: he speaks of graphics but to my ears he speaks of music 3 what lucidity of thought! what an ability to describe the creative process! 4 instinct and reason 5 MOnguZzi and MOZart 6 then the meeting in the flesh at a concert: they play one of my favourite pieces, TheViola in My Life by Morton Feldman 7 Bruno in my life 8 his silent music 9 who would have thought he looks like an elf?! 10 but a bit like Garibaldi too 11 background: in 1988, in a review of the exhibition Oskar Schlemmer and Les Noces, I wrote: “The exhibition is announced by the poster of the infallible Bruno Monguzzi”12 he does Stravinsky the way Stravinsky does Pergolesi 13 like an actor: he enters into the character, into the message 14 BM Zelig! 15 he invites me to hold a music course at the Department of Communication and Design 16 I propose a reading in a musical key of Italo Calvino’s Six Memos for the Next Millennium 17 immediate agreement 18 the lightness of Calvino and the lightness of Monguzzi 19 question of flight (as in the Musée d’Orsay poster) 20 enters unexpectedly in the last lesson while we listen toVarèse’s Poème électronique 21 Bruno listens 22 Dowland andWebern (his favourite composers) 23 “a little silence” 24 his posters in the streets ofTicino: how many car accidents I’ve risked! 25 that night when the Buchi neri triptych appeared to me 26 waiting for the poster to come 27 how I miss his posters on the streets of Lugano and Chiasso! 28 (but then the roads are safer ...) 29 trans-Ticino, meta-Ticino (we don’t really deserve him) 30 banknotes designed by Bruno Monguzzi and never issued: Switzerland has lost the world’s most beautiful banknotes! 31 in 2005 I have to create the new sound image for Rete Due of Swiss Radio: I translate the Monguzzi method into sound 32 invention grows out of constraints 33 style is the fruit, not the seed 34 BM Zen: “architecture lies not in the walls but the space between the walls” 35 master of life: he leaves success, leaves America, always stops at the right moment 36 prophet? 37 he chooses the silence of Meride 38 “leben heisst, eine Form zu verteidigen” (living means defending a form), Hölderlin 39 Bruno growing vegetables 40 grandfather on the posters for the First of August 41 homeland and family 42 the Monguzzi Quartet in profile: Anna, Bruno, Nicolas, Elisa 43 son of a seamstress and a Marxist 44 precision and utopia 45 younger than the youngest, more original, more courageous, freer 46 always different, always unmistakable 47 an artist despite himself 48 Bruno and time passing: the days of the week on the masthead of Quotidiano, the months of the year on the cover of Abitare 49 “don’t go faster than time” (a phrase hung next to his desk) 50 come on, it’s time to turn over a new leaf:


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Il testo di Antonio Boggeri è stato pubblicato in “Graphis”, 209, vol. 36, Zürich 1980; il testo di Pierluigi Cerri in Bruno Monguzzi, Design à la maison du livre, de l’image et du son, Villeurbanne 1992; i testi di Lou Danziger, Ikko Tanaka e Dieter Bachmann in Franc Nunoo-Quarcoo, Bruno Monguzzi. A Designer’s Perspective, in “Issues in Cultural Theory”, 2, University of Maryland, Baltimore 1998; il testo di Phil Baines in Michele Jannuzzi, The Naked Word, Posters by Bruno Monguzzi for Museo Cantonale d’Arte, Lugano at Central Saint Martins College of Art and Design, Jannuzzi Smith Editions, London 2003; la citazione di Gene Federico è tratta da Gene Federico Bruno Monguzzi, in “Creation”, 13, Tokyo 1992.

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The text by Antonio Boggeri was published in Graphis, 209, vol. 36, Zurich, 1980; the text by Pierluigi Cerri in Bruno Monguzzi, Design à la maison du livre, de l’image et du son,Villeurbanne, 1992; the texts by Lou Danziger, Ikko Tanaka and Dieter Bachmann in FrancNunooQuarcoo, Bruno Monguzzi. A Designer’s Perspective, in Issues in Cultural Theory, 2, University of Maryland, Baltimore, 1998; the text by Phil Baines in Michele Jannuzzi, The Naked Word, Posters by Bruno Monguzzi for Museo Cantonale d’Arte, Lugano at Central Saint Martins College of Art and Design, Jannuzzi Smith Editions, London, 2003; the quotation from Gene Federico comes from Gene Federico, Bruno Monguzzi, in Creation, 13, Tokyo, 1992.

Monguzzi si impossessa del vostro occhio con un iniziale assalto di bellezza, poi il senso e il regalo della comunicazione intellettuale. Ma la coerenza del suo metodo di lavoro evita le trappole insite nello “stile” personale. Ogni lavoro regge sulla propria intelligenza, chiarezza e grazia. Quando guardo un lavoro di Monguzzi arrivo preparato con ciò che so. So che arrivo preparato a imparare. Più so, più imparo.

Monguzzi grasps you eye with an initial onslaught of beauty, then sense, then the gift of intellectual communication. But the consistency of his working method avoids the pitfalls of personal “style”. Each work stands on its own in intelligence, clarity and grace. When viewing a Monguzzi work I come prepared with what I know. I know to come prepared to learn. The more I know, the more I learn.

Gene Federico

Gene Federico

Gene Federico Bruno, Nicolas, Anna, Elisa Monguzzi Sils Maria 1980

Gene Federico Bruno, Nicolas, Anna, Elisa Monguzzi Sils Maria 1980


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•m.a.x. museo e Spazio Officina

•m.a.x. museo and Spazio Officina

Chiasso, Svizzera 19 maggio–24 luglio, 2011

Chiasso, Switzerland 19 May–24 July, 2011

•Vignelli Center for Design Studies •Vignelli Center for Design Studies Bevier Gallery e University Gallery Rochester Institute ofTechnology Rochester, NewYork 9 settembre–5 ottobre, 2011

Bevier Gallery and University Gallery Rochester Institute ofTechnology Rochester, NewYork 9 September–5 October, 2011

•Four Zero Art Space

•Four Zero Art Space

Phoenix Creative Park 1 Chungyi Rd. Zhuantang town Hangzhou, Cina 24 ottobre–25 novembre, 2011

Phoenix Creative Park 1 Chungyi Rd. Zhuantang town Hangzhou, China 24 October–25 November, 2011

Comune di Chiasso City of Chiasso Sindaco Mayor Moreno Colombo Dicastero cultura Cultural Office Capo Dicastero Cultura Head of the Cultural Office Fabio Bianchi Centro Culturale Chiasso m.a.x. museo Spazio Officina Direttrice Director Nicoletta Ossanna Cavadini


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La plastica tipografica deve fare attraverso l’ottica ciò che la voce e il gesto dell’oratore fanno per l’espressione dei suoi pensieri.

Plastic typography must do for optics what the speaker’s voice and gestures do for the expression of his thoughts.

El Lissitzkij

El Lissitzky

Se si continua a strillare non si migliora la comunicazione. Si rimuovono semplicemente la parola e il bisbiglio dal sistema. Trovo la nostra società un poco rumorosa. Vorrei contribuire con un piccolo silenzio.

If you keep shouting you are not making communication any better. You are only removing talking and whispering from the system. I find our society a bit noisy. I just would like to contribute a little silence.

Bruno Monguzzi

Bruno Monguzzi

Bruno Monguzzi

Cinquant’anni di carta

Fifty years of paper


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All’interno del terzo filone espositivo riferito alla grafica contemporanea, il Comune di Chiasso propone un’esposizione antologica dedicata al celebre grafico svizzero Bruno Monguzzi che nella città di confine, oltre ad aver avuto i natali, ha ricevuto la sua prima formazione. L’occasione prende spunto dalla ricorrenza dei cinquant’anni di lavoro professionale 1961-2011, ironicamente dallo stesso definiti “cinquant’anni di carta”. Non solo Monguzzi è fra i sette grafici svizzeri insigniti del titolo di Honorary Royal Designer for Industry— il più prestigioso riconoscimento internazionale nel settore della grafica—, ma è anche il più “giovane” e vivente fra questi, assieme ad Armin Hofmann e Karl Gerstner. La mostra—proposta dal Centro Culturale Chiasso—è la più completa fra le molte finora dedicate a Bruno Monguzzi, presenta lavori, alcuni dei quali esposti al pubblico per la prima volta, capaci di attrarre per innovazione e creatività e trova come sedi espositive istituzionali il m.a.x. museo e lo Spazio Officina. L’articolato percorso antologico proposto parte dagli esordi londinesi e poi milanesi svolti nel mitico Studio Boggeri degli anni sessanta—dove vent’anni prima era arrivato dalla Svizzera il grafico Max Huber—, per giungere all’indagine dei momenti più significativi del linguaggio monguzziano, che ha caratterizzato in maniera rigorosa e originale la grafica internazionale. Oltre agli elaborati finali quali stampati, annunci pubblicitari, locandine, pieghevoli, opuscoli, cataloghi e collane editoriali, vengono esposti al m.a.x. museo anche schizzi e bozzetti originali del complesso iter che accompagna i vari progetti grafici. Presso l’attiguo Spazio Officina è invece esposta—in maniera del tutto suggestiva—una selezione di un centinaio di manifesti. L’esposizione, in una versione ridotta, andrà alVignelli Center for Design Studies del Rochester Institute ofTechnology, NewYork, dove Monguzzi ha insegnato. Dopo gli Stati Uniti la mostra verrà allestita in Cina, ospite delle sedi universitarie di Hangzhou, Shenzhen, Pechino e Shanghai. Sottolineo con orgoglio l’importante sinergia intercorsa fra prestigiose sedi espositive internazionali e la significativa missione culturale che il catalogo, in italiano e in inglese sancisce, portando per la prima volta in altri continenti il messaggio del Centro Culturale Chiasso.

As part of the third strand of its exhibitions of contemporary graphics, the City of Chiasso is presenting a retrospective exhibition devoted to the famous Swiss graphic designer Bruno Monguzzi, who was born and received his early training in this frontier town. The occasion is provided by the celebrations for his fifty years of his professional work, 1961–2011, which he himself ironically describes as “fifty years of paper”. Monguzzi is not only one of the seven Swiss graphic designers to have been awarded the title of Honorary Royal Designer for Industry — the most prestigious international recognition in the sector of design — but is also among the most youthful and vital of them, together with Armin Hofmann and Karl Gerstner. The exhibition, presented by the Centro Culturale Chiasso, is the most comprehensive so far of the many dedicated to Bruno Monguzzi and presents a number of highly interesting works, attractive by their innovativeness and creativity. Some of these are here being exhibited to the public for the first time, on the institutional premises of the m.a.x. museo and Spazio Officina.The articulated layout of this anthological exhibition begins with Monguzzi’s early works in London and then Milan, in the legendary Studio Boggeri in the sixties, where the graphic designer Max Huber had arrived from Switzerland twenty years earlier. It then surveys Monguzzi’s outstanding achievements, with his rigorous and original approach to international graphic design. In addition to the final printed works such as advertisements, posters, leaflets, brochures, catalogues and series of books, the m.a.x. museo also displays sketches and original models reflecting the complex process of developing the various graphic designs.The adjacent Spazio Officina further presents a selection of some one hundred posters. The exhibition, in an abridged form, will then travel to theVignelli Center for Design Studies at the Rochester Institute ofTechnology, NewYork, where Monguzzi taught. After the United States, the exhibition will be presented in China at universities in Hangzhou, Senzhen, Beijing and Shanghai. With some pride I would like to point out the important synergy between these prestigious international venues and the significant cultural mission entrusted to the catalogue, in English and Italian, for the first time bearing this message from the Centro Culturale Chiasso to other continents.

Fabio Bianchi Capo Dicastero Cultura Chiasso

Fabio Bianchi Head of the Cultural Office Chiasso


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Bruno Monguzzi Un giorno del 1961

One day in 1961

Antonio Boggeri

Un’azione scandalosa

An outrageous act

Pierluigi Cerri

Più guardi, più vedi

The more you look, the more you see

Louis Danziger

Come se fosse un mago

As if he were a magician

IkkoTanaka

Prima del diluvio universale

Before the Great Flood

Dieter Bachmann

Un tocco da artigiano

A craftsman’s touch

Phil Baines

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Mario Pagliarani

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La mano di Bruno Monguzzi: la presenza dell’assenza

Bruno Monguzzi’s hand: the presence of absence

Nicoletta Ossanna Cavadini

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La carta e il suo spessore

Into the depth of paper

Claude Lichtenstein

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Monguzzi indefinibile

Indefinable Monguzzi

Giovanni Anceschi

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Tavole a colori

Color plates

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Cinquant’anni di “funzionalismo magico”

Fifty years of “magic functionallism”

Franc Nunoo-Quarcoo


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Bruno Monguzzi non ama parlare di sé, ma del suo lavoro. Un lavoro creativo condotto con molto rigore e coerenza che trova le sue più profonde radici nella biografia familiare. Secondogenito, di carattere introspettivo e ribelle, Monguzzi si interroga fin da ragazzo sul suo futuro. Le due figure di riferimento sono il padre, abilissimo lucidatore e restauratore di mobili, di carattere intransigente e convinto militante marxista, e la madre, donna dedita alla famiglia e alla fede cattolica. Due mondi culturali opposti che continueranno a proporsi con forte dualità nella coscienza critica del giovane, due personalità fondanti che antepongono i dogmi del loro credo alla progettualità del fare. In questa situazione del quotidiano, caratterizzata dal crescere all’interno di due verità contrapposte, Monguzzi sviluppa la decodificazione della complessità, matrice questa che rimarrà come elemento generatore del suo modo di essere. A tale particolarità si aggiunge la perfetta consapevolezza di appartenere a una minoranza linguistica che per comunicare necessita di maggiori conoscenze atte a decodificare i diversi linguaggi. Negli anni della scuola dell’obbligo la frequentazione del laboratorio paterno lo avvicina alla passione estetica e artistica, e al “profumo” delle vernici e dei colori. Monguzzi inizia a sviluppare il desidero di fare l’architetto perché questa scelta significa, a suo modo di vedere, poter creare, poter esercitare una forte progettualità. Da subito egli abbandona quest’idea in quanto crede di dover in prima istanza diventare ingegnere, e la matematica in quel periodo giovanile non era una materia da lui amata. Fondamentale risulta il contatto con la nonna materna, che abita nella stessa casa della città di confine, e con la cugina della stessa nonna, che abita a Roma ma trascorre l’estate a Meride: la loro vicinanza introduce Monguzzi alla conoscenza e al fascino dell’esperanto. Il giovane trova geniale l’idea di creare una lingua universale, e rimane fortemente deluso dopo aver appreso del fallimento del progetto. Nel contempo sviluppa il desiderio di dedicarsi alla grafica, che per lui rappresenta simbolicamente la comunicazione non verbale a livello universale. E il linguaggio universale per antonomasia è per il giovane Monguzzi la fotografia: la successione dei vari fotogrammi costituiscono la grammatica visiva paragonabile a un nuovo esperanto. Terminata la scuola dell’obbligo, il percorso è segnato con convinzione: si iscrive alla Scuola di Arti Decorative di Ginevra, dove studia in particolare il graphic design. Gli esiti scolastici sono eccellenti, tuttavia Monguzzi si scontra con i dogmi e i paradossi della didattica dei vari docenti, la cui apertura al dialogo e coerenza non sono adeguatamente stimolanti. In questo contesto Monguzzi sviluppa insofferenza e trova nel grande fotoreporter svizzeroWerner Bischof (1916-1954)1 il maestro da cui prendere spunti di riflessione. Lo interessano in particolare le sue immagini di semplice vita quotidiana, colte con grande serenità e dolcezza, capaci di evidenziare profonde tematiche sociali. Nel suo valore di riproduzione “oggettiva” la fotografia può considerarsi una lingua universale, e tale fascino esercita sul giovane studente il “disegno con la luce”, tanto da allontanare il suo interesse per la grafica. L’occasione di poter frequentare i corsi di tipografia, fotografia e Gestalt a Londra riaccende l’animo di Monguzzi verso la ricerca, e specialmente verso lo studio dei processi percettivi; questi aspetti saranno poi ampliati e messi in relazione con l’ambiente milanese—in particolare nell’esperienza allo Studio Boggeri— e negli anni sessanta si consolideranno nel metodo rigoroso della costruzione concettuale dell’immagine e della relativa forma simbolica. Il riferimento più puntuale all’interno dell’iter progettuale grafico di Bruno Monguzzi è senza dubbio Lazar El Lissitskij (1880-1941) 2, straordinario inventore di un nuovo linguaggio astratto, nonché teorico e fondatore del moderno stile tipografico, capace di sperimentare diverse tecniche e raggiungere una grande “sintesi visiva” attraverso il fotomontaggio, la fotografia e il collage. La ricerca volta a costruire un linguaggio innovativo, pronto a superare le tradizionali barriere disciplinari basandosi sui fondamenti della cultura del Moderno e sul concetto comunicativo, è l’approccio metodologico seguito da Monguzzi. Per comprendere appieno il suo modus operandi è importante analizzare il processo concettuale relativo alla costruzione di un’opera grafica. Il manifesto che meglio lo rappresenta è quello creato nel 1990 per l’esposizione zurighese tenutasi al Kunsthaus: Anwesenheit bei Abwesenheit 3, dedicata ai fotogrammi delle avanguardie storiche fino alla contemporaneità. Come spesso accade la scelta è determinata da eventi eccezionali: Monguzzi, infatti, viene chiamato—

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1. M. Bischof, S. Maurer, P. Zimmermann, Werner Bischof immagini, Federico Motta Editore, Milano 2007. 2. Cfr. El Lissitzky, Our Book, in El Lissitzky: Life, Letters,Text, a cura di Sophie LissitzkyKüppers,Thames and Hudson, London 1968, p. 356. Sophie Lissitzky-Küppers

(a cura di), El Lissitsky, pittore, architetto, tipografo, fotografo. Ricordi, lettere, scritti, II ed., Editori Riuniti, Roma 1992. 3. Anwesenheit bei Abwesenheit: Fotogramme und die Kunst des 20. Jahrhunderts, catalogo della mostra (Kunsthaus Zürich, 31 marzo - 27 maggio 1990), Zürich 1990.

La mano di Bruno Monguzzi: la presenza dell’ assenza di Nicoletta Ossanna Cavadini

“Ogni invenzione in arte è un evento unico, non ha evoluzione. Con il passare del tempo differenti variazioni dello stesso tema si sviluppano attorno all’invenzione, a volte più acute, a volte più piatte, ma raramente raggiungono il potere della forza creatrice originaria. Così si va avanti e dopo la presenza in un lungo periodo, quest’opera d’arte diventa così meccanicamente automatica nella sua performance che la mente cessa di essere stimolata e il tema esaurito; questo è il momento perché avvenga una nuova invenzione.” El Lissitskij, Our book, 1926


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The hand of Bruno Monguzzi: the presence of absence by Nicoletta Ossanna Cavadini

“Every invention in art is a single event in time, has no evolution.With the passage of time different variations of the same theme are composed around the invention, sometimes more sharpened, sometimes more flattened, but seldom is the original power attained. So it goes on till, after being performed over a long period, this work of art becomes so automatic-mechanical in its performance that the mind ceases to respond to the exhausted theme; then the time is ripe for a new invention.” El Lissitzky, Our Book, 1926

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Bruno Monguzzi never liked to speak about himself, but his work. Highly creative work, carried out with rigor and coherence, with its deepest roots in his biography. A second son, with an introspective, rebellious character, Monguzzi already questioned himself about his future in boyhood. Of the two figures who framed his childhood, his father was a skilled furniture restorer and French polisher, intransigent in character and a convinced Marxist militant. His mother was dedicated to her family and a devout Catholic.Two contrasting cultural worlds that created an enduring duality in the young man’s critical awareness, two formative personalities who placed the tenets of their faiths before the purposefulness of their work. In this everyday situation, growing up within two opposing creeds, Monguzzi developed an ability to decode complexity, a matrix that was to remain a generator of his own being. To this was added his distinctive awareness of belonging to a linguistic minority who to communicate required a broader knowledge capable of decoding different languages. During the years of compulsory education his experience of his father’s workshop introduced him to aesthetic and artistic passion, the fragrance of paints and colors. In his mind Monguzzi began to feel an urge to become an architect, because he believed it would enable him to create, to engage strongly in design. But he immediately turned away from this life choice because he believed it would entail first training as an engineer, and maths was not a subject he cared for at the time. Also of fundamental importance was his relationship with his maternal grandmother, who lived in the same block of flats in the border town, and her cousin, who lived in Rome but used to summer at Meride.Through her Monguzzi fell under the spell of Esperanto.The young man was inspired by the idea of creating a universal language, but he soon saw its shortcomings and was deeply disappointed. At the same time he began to turn to graphic design, because in his mind it symbolically represented non-verbal communication on a universal level.The young Monguzzi saw photography as the universal language par excellence: the succession of the various photograms constituted a visual grammar comparable to a new Esperanto. So on leaving school he chose his path with conviction. He enrolled in the School of Decorative Arts in Geneva, majoring in Graphic Design. His academic results were excellent but Monguzzi came into conflict with the dogmas and paradoxes in the teaching of the various faculty members.There was also a lack of openness to dialogue and coherence, and he never felt adequately stimulated.With a sense of frustration he turned to the work of the great Swiss photographerWerner Bischof (1916–1954) 1 as one of the masters capable of nurturing his mind. He was particularly interested in the way Bischof’s images of everyday life, depicted with great serenity and gentleness, also revealed profound social issues. Photography in its value as an “objective” form of reproduction can be considered a universal language, and the fascination of “drawing with light” was so great that it distracted the young student from his interest in graphic design. He seized the opportunity to attend courses in typography, photography and Gestalt in London, which rekindled his interest in research and in particular the study of perceptual processes.These concerns were then expanded and related to the Milanese milieu, and the Studio Boggeri in particular. Finally, in the sixties they were consolidated into a rigorous method of conceptual construction of the image and its symbolic form. The most evident influence on Bruno Monguzzi’s development as a graphic designer was Lazar El Lissitzky (1880–1941).2 The extraordinary inventor of a new abstract language, as well as a theorist and founder of modern typographic design, Lissitzky experimented with a wide range of techniques and achieved a great visual synthesis through photomontage, photography and collage. Research into the creation of an innovative language, capable of overcoming traditional boundaries between disciplines by drawing on the foundations of modern culture and the concept of communication became Monguzzi’s own working method.To fully understand his modus operandi it is important to analyze the conceptual process involved in the construction of his graphic work.The poster that best represents it is the one he created in 1990 for the exhibition held at the Kunsthaus Zurich: Anwesenheit bei Abwesenheit,3 devoted to photograms by the historical avant-gardes as well as contemporary examples. As often happens, the design was affected by unforeseen events. As the exhibition loomed,

1. M. Bischof, S. Maurer, P. Zimmermann, Werner Bischof immagini, Milan: Federico Motta, 2007. 2. See El Lissitzky, “Our Book”, in El Lissitzky: Life, Letters,Text, edited by Sophie Lissitzky-Küppers. London:Thames and Hudson, 1968, p. 356. Sophie Lissitzky-

Küppers (ed.), El Lissitzky, pittore, architetto, tipografo, fotografo. Ricordi, lettere, scritti, II ed., Rome: Editori Riuniti, 1992. 3. Anwesenheit bei Abwesenheit: Fotogramme und die Kunst des 20 Jahrhunderts, exhibition catalog (Kunsthaus Zürich, 31 March – 27 May 1990, Zürich, 1990.


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in tempi assai prossimi all’inaugurazione—dal curatore dell’esposizione,Walter Binder, a trovare una soluzione capace di rappresentare in un manifesto la complessità del tema. L’idea è quella di usare un fotogramma rappresentativo che tuttavia non sia un riferimento troppo diretto a un’opera esposta. In un primo momento Monguzzi sceglie un fotogramma ritenuto simbolico tra quelli in esposizione, e precisamente quello eseguito da Man Ray, raffigurante i due profili affrontati e speculari di Man e Kiki: un’immagine estremamente forte e suggestiva. Era però necessario ruotarlo e inserire delle scritte riferite all’esposizione, un’operazione che il MoMA, proprietario dell’immagine e detentore del copyright, non autorizza. A questo punto Monguzzi decide di rappresentare il concetto di fotogramma a livello visivo, e cioè di “ridurre” il valore della disciplina a una icona simbolica. Il compito non è semplice. L’analisi parte dalla definizione concettuale, in quanto il fotogramma è quell’elemento che raccoglie la luce e va a sensibilizzare direttamente l’emulsione. Non c’è dunque un’operazione intermedia fra la sensibilizzazione e la luce esterna; in altre parole non c’è l’obiettivo della macchina fotografica che riprende la luce e la concentra sulla pellicola. Dovendo rappresentare questo processo, Monguzzi propone una lente, poiché questa concentra la luce in un punto; in particolare egli ha in mente il “lentino”, usato abitualmente dai grafici. Il problema concettuale, tuttavia, non è risolto, perché la lente è un oggetto, e se si propone un oggetto sulla carta si ricade nella rappresentazione del fotogramma reale e non simbolico: ci sarà quindi il fotogramma della lente ma non il concetto del fotogramma. Monguzzi si pone l’obiettivo di raggiungere il principio concettuale usando una sfera di cristallo, che simboleggia la lente, ma in realtà non la rappresenta fedelmente. Anna Boggeri, sua moglie e fidata collaboratrice di studio, gli procura una grossa biglia di vetro. L’oggetto è trovato! Adesso, muovendo la mano per ottenere un effetto flou con la biglia, si può realizzare il fotogramma. Monguzzi ne crea diversi, li appende osservandoli attentamente e riflettendo sull’evento ricorda di essere stato soddisfatto solo per pochi secondi. Il fondo, infatti, è troppo scuro e poi ne risulta un’immagine surrealista e concettuale ove manca completamente la ricerca del costruttivismo. Gli viene in aiuto l’immagine dell’autoritratto di Lissitskij, in cui compaiono il volto, la mano, il compasso e la carta millimetrata come sottofondo. Da qui la ricomposizione del fotogramma, la cui base è la carta millimetrata: ma non un foglio qualsiasi, bensì quello fotocopiato su velina, che rimane così un po’ sfuocato e ondulato. Ripreso l’iter di realizzazione del fotogramma, Monguzzi colloca con particolare attenzione la biglia sotto l’ingranditore nel punto in cui la luce è esattamente all’incrocio della carta millimetrata. Questo manifesto sarà premiato alla triennale diToyama del 1991. L’anno successivo Blandine Bardonnet, direttrice della Maison du Livre de l’Image et du Son, invita Bruno Monguzzi aVilleurbanne a tenere una mostra sul proprio lavoro. Egli si impegna alacremente per preparare l’esposizione, ma non pensa minimamente all’immagine da mettere in copertina del catalogo. Questo aspetto non lo preoccupa, perché il suo modo di lavorare a un’opera editoriale—a differenza di quello di molti altri grafici—prevede nella prima fase di pensare al contenuto del progetto grafico dell’interno del libro avendo capito la complessità dell’argomento trattato, secondariamente di risolvere il soggetto di copertina. Ma in questo suo primo catalogo monografico Monguzzi esita, trova difficoltà a scegliere un’immagine che lo rappresenti. Riflettendo ricorda il manifesto con il fotogramma realizzato nel 1990, che raffigura la sua mano, rappresentata con “la presenza dell’assenza”. L’immagine verrà da lui riproposta ogni volta che realizza una mostra e un catalogo che lo riguarda 4, come anche in questo caso. Parafrasando Lissitskij, l’invenzione in arte è unica e fintanto che rappresenta questa unicità ha valore evocativo. In tale quadro di lettura concettuale si percepisce chiaramente il meticoloso lavoro analitico svolto da Monguzzi, consolidato nel rigoroso metodo della costruzione concettuale dell’immagine che appartiene alla scuola svizzera, del quale elabora una sintesi basata sulla profonda conoscenza delle regole del mestiere e delle sue possibili varianti. Sintesi del tutto personale, che è sempre espressione di un linguaggio visivo capace di comunicare un messaggio culturale in maniera estetica e poetica.

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4. AA.VV., Bruno Monguzzi, Maison du Livre de l’Image et du Son,Villeurbanne 1992; F. Nunoo-Quarcoo, Bruno Monguzzi. A Designer’s Perspective, Fine Arts Gallery,

Baltimore 1998; Jianping He, Bruno Monguzzi, Lingnan Publishing House, Tokyo 2000.

2 El Lissitzkij, Vchutemas, copertina, 1924/1927.


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2 El Lissitzky, Wchutemas, cover, 1924/1927.

Monguzzi was commissioned by the curator,Walter Binder, to design a poster expressing the complexity of the theme. Ideally the purpose was to avoid using an image that could be identified with any of the works on display while conceptually representing the idea of the photogram. At first Monguzzi had carefully selected a photogram which he felt was representative from among the exhibits. By Man Ray, it depicted the two facing and mirrored profiles of Man and Kiki: an extremely forceful and evocative image.This would have entailed rotating the image and adding text providing information about the exhibition, but the MoMA, as the owner of the image and the copyright, refused authorization. At this point Monguzzi decided to represent the concept of the photogram visually, to epitomize its value in a symbolic icon.The task was not simple. His analysis began from a conceptual definition: a photogram is an image created by directly exposing objects to light and capturing the image with a sensitive emulsion. Hence there is no intermediate operation between the external light and the exposure of the image, no camera shutter that captures the light and focuses it on the film.To represent this process, Monguzzi chose to depict a lens because it focuses light on a point. In particular, he had in mind the lens widely used by designers. But the conceptual problem was still unsolved because the lens is an object, and if an object had been represented on paper it would again have fallen into the representation of the real and not a symbolic photogram, hence the photogram of a lens and not the concept of the photogram. Monguzzi set out to achieve the conceptual principle by using a glass sphere.This symbolizes the lens but does not really represent it faithfully. Anna Boggeri, his wife and a trusted partner in his work, gave him a large glass marble.The object was found! By moving his hand holding the marble so as to create a “flou effect”, he was able to create the photogram. Monguzzi produced a number of photograms and posted them up and studied them carefully. Reflecting later on the operation, he said was satisfied for only a few seconds.The ground was too dark and the result looked like Surrealist and conceptual image, completely lacking the sense of Constructivist research. He then turned to El Lissitzky’s self-portrait, in which the face, hand and compass appear with graph paper as a backdrop. Hence the recomposition of the photogram with graph paper as its ground: and not just any sheet but one photocopied on tracing paper, which came out slightly blurred and wavy.Then returning to the creation of the photogram, Monguzzi took special care to place the marble under the enlarger at the point where the light exactly intersects the graph paper.This poster was a prize-winner at the 1991ToyamaTriennial. The following year Blandine Bardonnet, director of the Maison du Livre de l’Image et du Son atVilleurbanne, invited Bruno Monguzzi to hold an exhibition of his work. Monguzzi readily agreed to the exhibition, but did not get round to designing the image for the cover of the catalogue. He was not worried about this, because of the way he worked on editorial projects. Unlike many other graphic designers, he first concentrated on the content and only after understanding its full complexity did he turn his attention to the cover design. But in this first monographic catalogue Monguzzi hesitated; he found it difficult to choose an image that represented him. As he thought about it, he recalled the 1990 poster with the photogram of his hand, a hand represented by the “presence of absence”. He always presented this image whenever he planned an exhibition and a catalogue about his work,4 as in this case. To paraphrase El Lissitzky, invention in art is unique and as long as it represents this uniqueness it possesses an evocative value. In this conceptual framework we can clearly perceive the meticulous analytical work conducted by Monguzzi, consolidated in the rigorous method of the conceptual construction of the image characteristic of the Swiss school, of which he developed a synthesis based on a profound knowledge of the rules of the profession and its possible variations. A wholly personal synthesis which is always the expression of a visual language capable of aesthetically and poetically conveying a cultural message.

4. SeeVarious Authors, Bruno Monguzzi, Maison du Livre de l’Image et du Son, Villeurbanne, 1992; F. Nunoo-Quarcoo, Bruno Monguzzi. A Designer’s Perspective,

Fine Arts Gallery, Baltimore, 1998; Jianping He, Bruno Monguzzi,Tokyo: Lingnan Publishing House, 2000.


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Ascoltare Bruno Monguzzi mentre parla del suo lavoro è come ascoltare un rapsodo mentre recita un canto. Progettare è portare alla luce qualcosa che non esiste ancora, e solo chi non sa quel che fa agisce con disinvoltura: non è certo il caso di Monguzzi. Significato, fatti forma! E ancora prima: significato, dove sei? Senza la pretesa di risolvere queste domande, qualunque sforzo progettuale rimane privo del punto di fuga. Le forme sono entità visuali, ma solo apparentemente si spiegano da sé. Se fossero fini a sé stesse, il loro potenziale espressivo resterebbe limitato a un minimo. Ma quali forme, e perché proprio quelle forme? È qui che il vero progetto si distingue dal gesto irrilevante: non si tratta semplicemente di dare forma a un contenuto predeterminato. Per Bruno Monguzzi, la progettazione non può che nascere da un atto di conoscenza. Ma da quale tipo di conoscenza? Il significato di questa domanda è l’argomento che questo contributo si propone di approfondire 1. L’atto progettuale è la ricerca di una soluzione a un problema dato, ma affinché qualcosa possa essere risolto in quanto problema deve prima essere riconosciuto come tale. La vena di piacere che Monguzzi prova nel raccontare la genesi dei propri lavori lascia intendere molte cose. In primo luogo, il fatto che la ricerca di una soluzione richiede tempo. Nelle vesti di progettista, ci si sente come Dedalo nel labirinto delle proprie ambizioni. In secondo luogo, Monguzzi conduce i suoi interlocutori nel bel mezzo della drammatica ricerca di risoluzione di un problema—una ricerca che come ogni arte nasce nella sfera personale per oggettivarsi infine in una dimensione impersonale. Vedere è più che guardare: esige un confronto più approfondito. La soluzione di un compito progettuale si manifesta come s-viluppo o s-volgimento di qualcosa che fino a quel momento si sottraeva allo sguardo. I racconti di Monguzzi ci rivelano, in terzo luogo, che di fronte a un nuovo progetto si tratta ogni volta di ricominciare da zero: dalla disponibilità a cercare il problema, prima ancora di affrontarne la risoluzione. Il punto, infatti, è proprio che all’inizio il tema da affrontare non si presenta come tale, poiché si nasconde ancora nel compito progettuale. Per individuare il problema, bisogna prima scandagliare il compito. Ed è il passo più difficile. Superato questo scoglio, si è già a metà strada verso la soluzione. Credo che il modo di lavorare di Monguzzi si avvicini molto al concetto aristotelico di “entelechia”: nel senso di un’attività che si svolge attraverso l’azione a livello mentale della forza di gravità operante in un “oggetto” (problema), per giungere così alla meta (alla soluzione). Il design come progetto è espressione di un processo di conoscenza. In aperta contrapposizione con l’opinione corrente, che intende la progettazione grafica come creazione di una confezione seducente, Monguzzi è convinto che la posta in gioco sia esattamente il contrario: che si tratti, cioè, di svelare qualcosa. Che cosa? Il senso, il significato, la ragione del progetto. In conversazione conValentina Boffa (1990), Monguzzi si è espresso in termini critici sullo stato delle cose nelle scuole di grafica: “Credo che il problema sia ancora lo stesso, e cioè che le scuole di grafica sembrano più interessate alla costruzione o distruzione di dogmi formali piuttosto che alla costruzione del senso. Si preoccupano dell’apparenza più che della sostanza, dell’impaginazione più che della comunicazione”2. Con queste parole, Monguzzi prende posizione contro il ricettario professionale, a favore della “recherche patiente”: contro ogni avventata demarcazione della propria posizione, a favore di un approccio incentrato sui contenuti. La dichiarazione fondamentale di Paul Klee “l’arte non riproduce il visibile bensì rende visibile” vale anche per l’arte cosiddetta “applicata” della grafica (intesa come arte— applicata e quindi finalizzata a uno scopo—del rendere visibile). Da qui il piacere che Monguzzi prova nel ripercorrere, anche a distanza di anni, le sue esperienze progettuali. Egli sa fin troppo bene che senza una certa insicurezza iniziale non si può ottenere un risultato “compiuto”, dotato di un suo spessore e di una sua densità. Una simile attitudine, però, non è in contraddizione con la funzione della comunicazione visiva? Cosa vede il pubblico se non ha modo di ascoltare la voce del progettista?Vede un lavoro: un manifesto nella strada, una collana di libri nello scaffale o un libro sul tavolo, un logo sulla confezione di un prodotto, un’immagine, un annuncio pubblicitario nel giornale, il programma di una manifestazione… Nell’oggetto che guardiamo, forse non cogliamo immediatamente il lavoro progettuale che gli è sotteso, ma certo riconosciamo la qualità del pensiero che a esso presiede e che ha reso possibile il felice esito artistico. Lo capiamo meglio se guardiamo con attenzione i lavori di Bruno Monguzzi. La precisione

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1. Sono estremamente grato a Bruno Monguzzi per la sua accurata, partecipe ed esaustiva descrizione del cammino progettuale che lo ha portato alla realizzazione di alcuni dei lavori menzionati in questo testo.

2. Cfr.Valentina Boffa, Bruno Monguzzi (intervista con Bruno Monguzzi), in “Eye. The International Review of Graphic Design”, vol. 1, n. 1, London 1990, p. 13.

La carta e il suo spessore di Claude Lichtenstein Zurigo aprile 2011

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1,2 Stephen Coates. Doppia pagina dal primo numero della rivista “Eye”e copertina del bollettino di abbonamento con il dettaglio dell’occhio di Bruno Monguzzi. Fotografia di Phil Sayer.


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Into the depth of paper by Claude Lichtenstein Zurich April 2011

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1,2 Stephen Coates. Double spread from the first issue of Eye magazine and cover of the subscription application form with a detail of the portrait of Bruno Monguzzi by Phil Sayer.

Listening to Bruno Monguzzi talk about his work is like listening to a rhapsode reciting a story. Designing means bringing to light something that does not yet exist, and only someone who did not know what he was doing would go about it confidently.This is hardly the case with Monguzzi. Significance: become form! And even before this: significance, where are you? Unless one tries to answer these questions, any effort at design will be devoid of its focal point. Forms are visual entities, but only apparently self-explanatory. If they were ends in themselves, their expressive potential would be limited to a minimum. But what forms, and why those forms?This is where real design is distinguished from the irrelevant act: it is not simply a question of giving shape to a predetermined content. Bruno Monguzzi believes design can only be born from an act of recognition. But what kind of recognition?The significance of this question is the question that this contribution seeks to explore.1 The act of design is the quest for a solution to a given problem. But for something to be solved as a problem it has first to be seen as one.The vein of pleasure which Monguzzi feels in recounting the genesis of his work suggests many things. First, the fact that the search for a solution takes time. A designer feels rather like Daedalus in the labyrinth of his own ambitions. Secondly, Monguzzi leads his interlocutors into the thick of the dramatic quest for a solution to a problem— a quest that, as in all art, stems from the personal sphere and is finally objectified in a more-than-personal dimension. Seeing is more than looking: it requires a more profound examination.The solution to a design task is manifested as the development or unfolding of something that previously evaded the gaze. Monguzzi’s accounts reveal, thirdly, that faced with a new project he had to start from scratch every time: from the willingness to look at the problem, even before looking for a solution.The point, in fact, is that at the start the theme to be addressed does not present itself as such, because it is still concealed in the design task.To identify the problem, one first has to probe the task. And this is the most difficult step. If you can overcome this hurdle, you are already halfway to the solution. I think Monguzzi’s way of working approximates closely to the Aristotelian concept of “entelechy”: i.e. an activity performed on the mental level by the force of gravity acting in an “object” (problem), so as to reach the goal (the solution). Design as a verb, not as a noun, is an expression of a process of knowledge. In clear disagreement with the current opinion, which holds that graphic design is the creation of an attractive package, Monguzzi is convinced that the stakes are just the opposite: that it means revealing something.What? The significance, the meaning, the reason for the project. In conversation withValentina Boffa (1990), Monguzzi was critical of the state of things in schools of design. “I think the problem is still the same, namely that graphic design schools seem more interested in the construction or destruction of formal dogmas rather than the creation of significance.They are more concerned with appearance than substance, layout than communication.”2 With these words, Monguzzi took a stand against professional prescriptions and in favor of “patient research”, against any hasty demarcation of his position in favor of an approach that focuses on content. Paul Klee’s fundamental statement, “Art does not reproduce the visible but makes it visible,” also holds good for so-called “applied” graphics (understood as an art— applied and hence serving a purpose —namely to make visible). Hence the pleasure Monguzzi experiences in retracing his experiences in design, even at a distance of years. He knows all too well that without some initial insecurity it is impossible to produce an accomplished result, with its own depth and richness. But isn’t an attitude of this kind inconsistent with the function of visual communication?What does the public see if it is unable to hear the designer’s voice? It sees a work: a poster in the street, a series of books on the shelf or a book on a table, a logo on the packaging of a product, an image, an advertisement in a paper, the program of an event… In looking at an object we may fail to immediately grasp the design work underlying it, but we certainly recognize the quality of thought that pervades it and which has made the successful artistic result possible.We will understand this better if we look closely at Bruno Monguzzi’s work.The precision and strength of conviction in a design are never created directly on the formal level.The forms are the means, not the end.They are not given factors; they have to be sought. Formal quality implies mental interaction. Reasoning and reflection are included in the

1. I am extremely grateful to Bruno Monguzzi for his careful and comprehensive description of the design path that led him to the creation of some of the works mentioned in this text.

2. SeeValentina Boffa, Bruno Monguzzi (interview with Bruno Monguzzi), in Eye. The International Review of Graphic Design, vol. 1, no. 1, London, 1990, p.13.


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e la forza di convinzione di un lavoro non nascono mai direttamente sul piano formale. Le forme sono il mezzo, non il fine; vanno cercate, non sono date. La qualità formale sottintende l’interazione mentale. I ragionamenti e le riflessioni confluiscono nella soluzione formale, diventandone parte integrante. Lo dimostrano gli esempi evocati qui di seguito. Nell’ambito dei manifesti, il gruppo numericamente più importante è costituito da quelli realizzati per il Museo Cantonale d’Arte di Lugano tra il 1987 e il 2004. Il metodo di lavoro e di pensiero di Monguzzi si rivela in modo particolarmente esplicito nei trittici (formato F12). Il primo di una cospicua serie è nato in occasione dell’inaugurazione del museo ( 1987), con lo scopo di conferire alla nuova istituzione una presenza marcata nello spazio pubblico. Fra i trittici successivi si ricordano, a titolo indicativo, quelli delle mostre “IlTicino e i suoi fotografi” (1987) e “SophieTaeuber-Arp” (1989), o ancora quelli per mostre parallele, tra cui il trittico “Paolucci/Flammer” (1988). In un caso come nell’altro, per Monguzzi era questione di convertire la maggiore quantità di superficie cartacea disponibile in un corrispondente grado di qualità. Uno degli esempi più avvincenti è il trittico per la doppia mostra “Pier Francesco Mola/ Maestri del XX secolo nella collezione permanente del Museo Cantonale d’Arte”. La maggior parte dei grafici avrebbe trattato le due rassegne come manifestazioni indipendenti l’una dall’altra. Monguzzi, al contrario, ha trasformato l’autonomia delle due esposizioni in una compenetrazione reciproca, cercando un legame più profondo fra i due temi e trovandolo infine nelle sorprendenti affinità strutturali tra un dipinto seicentesco del Mola e un’opera su carta dell’ultimo Paul Klee. Monguzzi rievoca il prezioso momento in cui nei depositi del museo luganese scoprì l’opera di Klee intitolata Pathos, in cui riconobbe subito stupefacenti somiglianze con il dipinto del Mola. Si tratta di uno di quei momenti in cui la supposizione intuitiva si trasforma in appurata conferma. Ed ecco che la scelta di riprodurre entrambe le opere senza tagli non è un particolare irrilevante: essa esprime propriamente il peso specifico di quella scoperta di corrispondenze. Un simile momento, quando si verifica, costituisce una rivelazione, l’indizio inequivocabile di una felice conferma che si rende manifesta nel qui e ora (l’autocertezza è il complemento dell’autocritica che presiede a un simile momento prezioso e in esso trova la sua verifica).Tornando al trittico—quale esempio specifico e quale categoria peculiare dei manifesti di Monguzzi—occupa un ruolo chiave anche l’elemento centrale, che quale tertium comparationis correla due mostre (o perlomeno due distinte immagini): un altro problema da risolvere ogni volta in modo diverso, scoprendo e s-viluppando la soluzione nascosta nel problema. Per Monguzzi esiste sempre una soluzione: una soluzione deve necessariamente esistere, come in fisica, dove perfino da forze divergenti si ottiene sempre una risultante 3. Con i trittici (ma anche con i formati F4), Monguzzi ha proposto al Museo Cantonale d’Arte una cultura espositiva animata dalla convinzione che una mostra non si esaurisce nell’esposizione di oggetti od opere d’arte, ma costituisce un luogo di confronto tra opere nate a distanza di tempo e di luogo; un luogo di incontro che attraverso lo sguardo attento alle affinità e alle differenze genera molteplici connessioni. I trittici rivelano peraltro un interesse universale e generale di Monguzzi: l’interesse per le corrispondenze, in cui il diverso e l’uguale si correlano in modo dialettico. Il manifesto della mostra “Photographie aus der Sowjetunion” (Kunsthaus, Zurigo, 1989) instaura un rapporto sorprendente tra due gruppi di tre persone. L’immagine in alto riproduce tre giovani contadine in abiti festivi, con lo sguardo fisso rivolto verso l’obiettivo. L’aspetto delle donne e la tonalità seppia della fotografia situano l’immagine nel periodo della Russia zarista. L’immagine in basso propone tre soldati a cavallo dell’Armata Rossa. Entrambe le immagini sono dei particolari rispetto agli originali da cui Monguzzi li ha desunti: quella dei soldati è tagliata di poco, quella delle donne molto di più. Il gruppo femminile è tratto da un’immagine di grande formato, nitida nei particolari, che ritrae una piccola comunità rurale vestita a festa4. L’accostamento dei due particolari pone in luce i contrasti: da un lato, la posa in abiti festivi di fronte all’autorità del fotografo nascosto sotto il telo nero, dall’altro, lo scatto istantaneo della fotografia di reportage, ripresa forse addirittura da un servizio di guerra.Tre donne in contrapposizione a tre uomini, tre volte tradizione e tre volte rivoluzione, la Russia zarista e l’Unione sovietica bolscevica. Eppure, le due immagini denotano delle somiglianze: le contrapposizioni e le differenze sono poste ulteriormen-

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3. A proposito di questo trittico cfr. le osservazioni dettagliate di Monguzzi in conversazione con Franc Nunoo-Quarcoo, qui a p. 228.

4. Cfr. Leben im zaristischen Russland, catalogo della mostra, Kunsthaus, Zürich 1989, p. 4.

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formal solution, becoming an integral part of it.This is shown by the examples described below. Among the posters, the largest single group was the ones designed for the Museo Cantonale d’Arte between 1987 and 2004. Monguzzi’s method of working and thinking emerges particularly clearly in the triptychs (F12 format).The first of a long series was designed for the museum’s opening (1987), in order to give the new institution a strong presence in the public space. Among the later triptychs are mentioned those for the exhibitions IlTicino e i suoi fotografi (1987) and SophieTaeuber-Arp (1989), or those for parallel exhibitions, including the triptych Paolucci/Flammer (1988). In both cases, Monguzzi had to convert the increased surface area of the paper into a corresponding degree of quality. One of the most compelling is the triptych for the double exhibition Pier Francesco Mola / Maestri del XX secolo nella collezione permanente del Museo Cantonale d’Arte. Most graphic designers would have dealt with the two exhibitions as independent events. Monguzzi transformed their independence into an interlinkage, looking for a closer tie between the two themes and finding surprising structural similarities between a seventeenth-century painting by Mola and a late work on paper by Paul Klee. Monguzzi evokes the precious moment when he discovered Klee’s work entitled Pathos in storage at the Museo Comunale, immediately recognizing striking correspondences with Mola’s painting.This is one of those moments when the intuitive assumption finds confirmation. Hence the decision to reproduce both works without being obliged to crop them is not an irrelevant detail: it expresses exactly the specific weight of the match discovered.When such a moment occurs it is a revelation, the unmistakable evidence of a confirmation made manifest in the here and now. (Self-certainty is the complement of the self-criticism presiding over such a precious moment and finds verification in it.) Returning to the triptych— as an example of a specific category of Monguzzi’s posters— a key role is also played by the central element which, as a tertium comparationis, correlates the two exhibitions (or at least the two separate images). Another problem to be solved, each time in quite different ways, by discovering and developing the solution to the problem. Monguzzi is convinced there is always a solution: a solution must necessarily exist, as in physics, where a resultant will always be obtained, even from divergent forces.3 In triptychs (and also F4 formats), Monguzzi proposed to the Museo Cantonale d’Arte a culture of displaying inspired by the belief that an exhibition does not end with the display of objects or artworks, but is a place for relating works created in very different periods and places, a meeting place where careful looking elicits multiple connections through similarities and differences. The triptychs, however, reveal a universal and general interest of Monguzzi’s: a concern for correspondences, where difference and similarity are dialectically related.The poster for the exhibition Photographie aus der Sowjetunion (Kunsthaus, Zurich, 1989) elicits a surprising affinity between two groups of three people.The image above reproduces three young peasants in holiday dress, their eyes gazing into the camera.The women’s appearance and the sepia-toned photograph place the three in Tsarist Russia.The image below has three Red Army cavalry soldiers. Both images are details excerpted by Monguzzi from the originals.The picture of the soldiers has been cropped slightly, that of the women much more.The female group is taken from a large-format picture, crisp in detail, depicting the members of a small rural community dressed in festive finery.4 The combination of the two details brings out the contrasts. On the one hand, figures posed in their holiday clothes before the authority of the photographer hidden under his black cloth. On the other, the snapshot of a photo reporter, perhaps even in wartime.Three women contrasted with three men, three times tradition and three times revolution;Tsarist Russia and the Bolshevik Soviet Union.Yet there are similarities between the two images. The contrasts and differences are further brought out through formal parallels between them. Both the women and the soldiers at the sides wear triangular headgear, while the heads of the central figures appear in their roundedness. Differences and affinities—in fact differences through affinities. Between the two images runs the printed text providing information about the exhibition, laid out as an orthogonal arrangement of linear

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3. On this triptych see the detailed commentary by Monguzzi in an interview with Franc Nunoo-Quarcoo, in the present volume on p. 229.

4. See Leben im zaristischen Russland, exhibition catalogue, Kunsthaus, Zürich, 1989, p. 4.


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te in risalto attraverso i parallelismi formali tra le due fotografie. Sia le donne sia i soldati situati ai lati indossano un copricapo triangolare, mentre le teste delle figure centrali appaiono nella loro rotondità. Differenze e affinità, anzi: differenze attraverso le affinità.Tra le due immagini, strappate da Monguzzi, sono inserite le coordinate tipografiche della mostra, articolate secondo una scansione ortogonale di elementi lineari neri, interpretabile come elemento meccanico o griglia brutale che ha effettuato con forza uno scambio di binari nel corso della storia (la storia è un accadere di eventi: quando la mostra fu presentata al Kunsthaus, nulla sembrava ancora annunciare l’imminente caduta dell’Unione sovietica. Chi parla di “musealizzazione” dimentica che il museo non è solo un luogo di celebrazione di sguardi retrospettivi in sé compiuti, ma anche un luogo di una più acuta acquisizione di consapevolezza. Per Monguzzi, il mondo non si articola semplicemente in “storia” e “attualità”, come vorrebbe il luogo comune, corrente, purtroppo, anche fra molti addetti ai lavori nei musei). A volte Monguzzi dilata al massimo la polarità degli elementi impiegati, giungendo così a individuarne i denominatori comuni. Oppure, al contrario, trae spunto dalle analogie per approdare alle differenze (cosa viene prima? Poco importa. Nel manifesto appena descritto riconosciamo entrambi i procedimenti ed entrambi si convalidano nella loro simultaneità). Ogni volta, la ricerca si sviluppa in modo diverso. Ma in nessun caso l’analogia formale rimane fine a sé stessa: essa si basa sempre su un fondamento semantico. Un altro esempio rivelatore del modo distintivo di Monguzzi di lavorare con le immagini è il manifesto disegnato nel 1993 per un’altra doppia mostra presentata al Museo Cantonale d’Arte a Lugano: “Da Dürer a Klee. La rappresentazione dell’Ignoto/Roberto Donetta pioniere della fotografia nelTicino di inizio secolo”. In questo caso, il confronto tra i contenuti si svolge in un singolo manifesto monocromo di formato F4. L’impostazione complessiva ha preso spunto dalla constatazione che oltre alla bipolarità espositiva vi era anche la “binarietà” implicita alla mostra principale (Dürer/Klee). Anziché esprimere quest’ultima ricorrendo a un’opera di ciascuno dei due artisti, Monguzzi ha lavorato sui loro volti: ha scelto il noto ritratto fotografico del giovane Klee con barba lanuginosa, ripreso in un’inquadratura frontale, e un autoritratto a tre quarti di Dürer (1498, Prado), sovrapponendoli in modo che l’occhio sinistro di Klee diventasse quello destro di Dürer. Una lettura superficiale identificherebbe questo montaggio come una citazione del famoso manifesto di El Lissitskij del 1929 (“Russische Ausstellung”, Kunstgewerbemuseum, Zurigo); di fatto, Monguzzi non si avvale di alcuna citazione. Né avrebbe peraltro potuto farlo. Dürer e Klee non sono la coppia di pionieri di Lissitskij che sullo sfondo della rivoluzione si fondono l’uno nell’altro sorridendo verso un nuovo futuro, ma si ritrovano uniti, a quattro secoli di distanza l’uno dall’altro, per una scelta operata da Monguzzi. Il suo gesto focalizza quell’“occhio interiore” che cerca dentro di sé le “rappresentazioni dell’Ignoto” (per riprendere il sottotitolo della mostra): l’occhio in cui nasce l’arte e l’occhio che sa in cosa essa consiste e cosa la definisce. È questo il messaggio. Ed è un messaggio sostanzialmente diverso da quello di Lissitskij: il “motivo”, quindi, non è lo stesso, poiché le ragioni (il “motivo”) di Monguzzi sono del tutto diverse. Il manifesto costruito su questo nucleo semantico è accuratamente sviluppato anche nella parte inferiore: la fotografia di Donetta e gli elementi tipografici, articolati in riquadri, si richiamano, con sottili sfumature a livello compositivo, all’asse mediano definito da questo “terzo” occhio. Si potrebbe affermare che il modo di lavorare di Monguzzi si basa su un proprio metodo di progettazione? No, se per metodo si intende l’applicazione di una regola. Nel suo caso, mi sembra legittimo parlare di metodo solo in relazione al suo modo specifico di porsi delle domande. Riconosciamo infatti una “metodicità” dell’incertezza e della sua risoluzione. Ovvero: progettare è per Bruno Monguzzi una ginnastica mentale. E ciò significa che individuare il compito è più arduo che risolverlo (chi lo risolve, sa che esiste una soluzione; chi lo inventa, deve prima incontrare il problema e questo è molto più difficile). A questo punto, occorre però spiegare perché Monguzzi è talora considerato un “funzionalista”— forse lui stesso non esita a riconoscersi tale— o almeno perché i suoi lavori sono ritenuti “funzionali”. Funzionalità non significa “meno forma”, bensì “più forma”—più “forma progettata”. La funzione è raramente nota fin dall’inizio. Se in architettura e nel disegno industriale il detto “la forma segue la

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black elements, which can be interpreted as a mechanical element or a switch, which has brutally jumped tracks in the course of history. (History being events unfolding, history happens: when the exhibition was presented at the Kunsthaus, nothing seemed to presage the imminent fall of the Soviet Union.Those who speak of “museumification” forget that the museum is not just a place to celebrate retrospective views complete in themselves, but also a place heightening awareness for the presence. To Monguzzi, the world is not divided simply into “history” and “actuality”, as in the commonplace, unfortunately current even among many museum professionals.) At times Monguzzi dilates to the utmost the polarity between the elements used, and so comes to identify their common denominators. Or, conversely, he is inspired by analogies to grasp the differences. (Which comes first? It hardly matters. In the poster described above we recognize both procedures and both are valid in their simultaneity.) In each case his research develops in different ways. But in no case is the formal analogy an end in itself: it always has a semantic basis. Another revealing example of the distinctive way Monguzzi’s works on images is the manifesto drawn up in 1993 to another double exhibition presented at the Museo Cantonale d’Arte in Lugano: Da Dürer a Klee. La rappresentazione dell’Ignoto/Roberto Donetta pioniere della fotografia nelTicino di inizio secolo. In this case, the representation of the contents is combined in a single monochrome F4 poster.The overall arrangement was inspired by Monguzzi’s observation that in addition to the bipolarity of the two exhibitions there was also the Dürer/Klee pairing in the principal exhibition. Instead of expressing this by using artworks to represent each of the two artists, Monguzzi worked on their faces. He took the well-known frontal photo portrait of the young Klee with a wispy beard, and a self-portrait in threequarter profile of Dürer (1498, Prado), and overlaid them, so that Klee’s left eye became Dürer’s right. Superficially one might interpret this montage as a quotation from the famous El Lissitzky poster of 1929 (Russische Ausstellung, Kunstgewerbemuseum, Zurich). But actually Monguzzi does not use quotations, nor could he have done so. Dürer and Klee are not Lissitzky’s couple of pioneers who, against the backdrop of the revolution are blending into each other, smiling into a new future.They are united, four centuries apart, by Monguzzi’s decision. His act focuses on that inner eye that seeks within itself for “representations of the Unknown” (to borrow the exhibition’s subtitle).The eye in which art is born and the eye that knows what it consists of and what defines it.This is the message. It is substantially different from Lissitzky’s message.The motive, then, is not the same, because Monguzzi’s reasons (his “motive”) are completely different.The poster built on this semantic core is carefully developed in the lower part. Donetta’s photograph and the printed text, divided into panels, are related, with subtle nuances in the composition, to the median axis defined by the “third” eye. Could it be argued that Monguzzi’s working method is based on his design method? No, if by method we mean the application of a rule. In his case, it seems legitimate to speak of a method only in relation to his specific way of posing questions.We do recognize a “method” in uncertainty and its resolution. To Bruno Monguzzi designing is a mental exercise. And this means that identifying the task is harder than solving it. (If a person solves it, he knows there is a solution. If he invents it, he must first identify the problem, and this is much more difficult.) At this point, one needs to explain why Monguzzi is sometimes considered a Functionalist—perhaps he himself does not hesitate to see himself in the term— or at least why his works are considered Functionalist. Functionality does not mean less form but more form—more designed form.Why? Because the function is rarely known at the start. If the saying “form follows function” is of limited validity in architecture and industrial design, it is no more valid in graphics. In every field of design, the search for the best interpretation of the function occupies a space and time that are as important as those invested in the definition of form. In fact the study of form is inseparable from the search for a function. Often the function becomes clear only in the presence of unsuccessful forms, which can point the way toward a solution. All this complicates the question, but at the same time legitimates it. In Monguzzi’s own words: “I am convinced that our work is rather like that of the translator. A good translator enjoys reading, loves writing, and perhaps rewrites a single phrase by Shakespeare fifty times till it finally sounds

5. Bruno Monguzzi, Bruno Monguzzi, Visual Communication as a Question of Translation, in Claude Lichtenstein, Playfully Rigid. Swiss Architecture, Graphic Design and Product Design 1950-2006, Lars Müller Publishers, Baden 2007, p. 141.


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funzione” ha una validità limitata, vale altrettanto poco nella grafica. In ogni settore di progettazione, la ricerca della migliore interpretazione della funzione occupa uno spazio e un tempo altrettanto importanti di quelli investiti nella definizione della forma. Anzi: la ricerca della forma è inscindibile dalla ricerca della funzione. Spesso la funzione si chiarisce solo al cospetto di forme non riuscite, che forse indicheranno la via verso la soluzione giusta.Tutto ciò complica il discorso, ma nel contempo è anche ciò che lo legittima. Nelle parole dello stesso Monguzzi: “Sono convinto che il nostro lavoro sia un po’ quello del traduttore. Un buon traduttore ama leggere, ama scrivere, e riscrive magari la medesima frase di Shakespeare cinquanta volte affinché gli appaia finalmente di Shakespeare. Non è Monguzzi, è Shakespeare, in italiano. Ci è voluto tutto il sapere, l’intelletto, tutta la sensibilità, la cultura, ci è voluto tutto Monguzzi affinché quel testo diventasse Shakespeare”5. Nel suo caso, l’attività di traduzione non si svolge nell’ambito della letteratura, ma parte da un tema prestabilito e approda al campo della comunicazione visiva, per poi tornare, attraverso il pubblico di destinazione, al tema di partenza. Ecco perché Monguzzi considera fondamentale questa dichiarazione di Lissitskij: “Perciò la plastica tipografica deve fare attraverso l’ottica ciò che la voce e il gesto dell’oratore fanno per l’espressione dei suoi pensieri”6. La comunicazione è peraltro una forma di scambio in cui non ci si scambia dei dati preesistenti, ma si trasmette un contenuto. E inoltre: il grafico (analogamente a qualsiasi progettista) svolge un’attività di traduzione fra l’incarico, il problema, la base concettuale, la soluzione formale e la realizzazione materiale. In generale, il flusso di lavoro non si svolge in un’unica direzione, ma con ripetuti passi indietro e continue ri-traduzioni, fino a quando la soluzione è convincente. Talvolta questa attività di traduzione si compie attraverso interventi minimi, ma precisi. Nel 1988 Monguzzi ha realizzato il manifesto del documentario di Heinz Bütler dedicato agli ospiti di una casa per anziani ebrei aVienna. Il titolo del film era stato suggerito dalla risposta sfuggente della signora Azderbal, quando il regista le disse che finalmente stava arrivando la primavera: “E cosa me ne importa della primavera” (“Was geht mich der Frühling an”). Per prima cosa, Monguzzi chiese a Bütler delle fotografie della signora Azderbal—ne esistevano due, a figura intera— e constatò sollevato che la donna aveva un viso molto espressivo. Si fece quindi dare anche il negativo e nella sua camera oscura ingrandì il particolare della testa. Durante l’esposizione coprì una parte del viso della donna con una striscia di cartoncino, in modo da ottenere, nell’immagine in positivo, l’effetto di un raggio di luce sul volto. Rifece la medesima cosa con una seconda stampa, spostando leggermente la posizione del raggio luminoso. Sul manifesto le due fotografie sono allineate in verticale e separate da una fascia orizzontale a sfondo colorato con il testo. Lo scarto minimo del raggio di luce e una quasi impercettibile sfasatura laterale tra le due immagini pongono in risalto non solo il carattere transitorio della luce e, attraverso il movimento appena accennato del raggio luminoso, il mezzo filmico, ma anche il peso esistenziale che grava sulla vita della signora Azderbal. Nel 1991 Monguzzi fu invitato a partecipare al concorso per la creazione di una nuova serie (tuttora in uso) di banconote della Banca nazionale svizzera. Il progetto era per sua natura vincolato a una serie di premesse. Ai valori di 10, 20, 50, 100, 200 e 1000 franchi erano associati rispettivamente Le Corbusier, Arthur Honegger, SophieTaeuber-Arp, Alberto Giacometti, Charles Ferdinand Ramuz e Jacob Burckhardt. Per Monguzzi, Burckhardt (1818-1897) esulava dal novero degli altri personaggi vissuti nel XX secolo. Egli propose quindi di sostituirlo con Robert Maillart (1872-1940), illustre pioniere del cemento armato e costruttore di ponti, ma il suggerimento fu rifiutato dall’ente banditore del concorso. Monguzzi cercò quindi un altro approccio logico al compito progettuale. Scelse di intrecciare i valori delle singole banconote con l’anno di nascita dei personaggi riprodotti: più la data si avvicinava al presente, più il valore era basso; più la data era remota, più il valore era alto. Burckhardt appariva così associato alla banconota da 1000 franchi e via dicendo per Ramuz (1878), SophieTaeuber-Arp (1889) e Honegger (1892), in conformità alle associazioni prefissate dal bando di concorso. Per Giacometti (1901) e Le Corbusier (1887), tuttavia, la successione logica di Monguzzi esigeva uno scambio di posto

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5. Bruno Monguzzi, Visuelle Kommunikation als Übersetzungsproblem, in Claude Lichtenstein, Spielwitz und Klarheit. Schweizer Architektur, Grafik und Design 1950-2006, Lars Müller Publishers, Baden 2007, p. 141.

6. El Lissitzkij, Fatti tipografici, da Scritti in onore di Gutenberg, Mainz 1925, in Sophie Lisitskij-Küppers, El Lisitskij, Pittore, Architetto,Tipografo, Fotografo, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 349.


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Shakespearean. It is no longer Monguzzi, but Shakespeare in Italian. It took all knowledge, understanding, sensibility and culture. It took all of Monguzzi for that text to become Shakespeare.”5 In his case, the activity of translation is not conducted in the literary field, but starts from a set theme and moves into the field of visual communication, then returning through its intended public to the theme from which it set out.This is why Monguzzi considers Lissitzky’s statement fundamental: “Hence plastic typography must do for optics what the speaker’s voice and gestures do for the expression of his thoughts.”6 Communication is also a form of exchange in which there is no exchange of pre-existing data, but the transmission of a content. And the graphic designer (like any other kind) is engaged in the translation between the commission, the problem, the conceptual basis, the formal solution and the material creation. In general, the workflow does not move in just one direction, but meets with repeated setbacks and produces constant retranslations until the solution is convincing. Sometimes this work of translation is performed by small but precise interventions. In 1988 Monguzzi designed the poster for Heinz Bütler’s documentary for guests in a home for elderly Jews inVienna. The film’s title was suggested by the elusive reply of one of the residents, Frau Azderbal to the director, who had remarked that spring was coming at last: “And what is spring to me?” (Was geht mich der Frühling an). First, Monguzzi asked Bütler for some photographs of Frau Azderbal— there were two fulllength shots— and was relieved to see she had a very expressive face. He took the negative to his darkroom and enlarged the detail of her head. During exposure he covered part of her face with a strip of cardboard, so creating the effect of a beam of light falling across her face in the positive image. He did the same with a second print, slightly altering the position of the beam of light. In the poster the two pictures are aligned vertically and separated by a horizontal band with a colored background and the text.The slight shift in the ray of light and almost imperceptible lateral staggering of the two images brought out not only the transitional nature of light and, through the shift, the film medium, but also the existential weight resting on Frau Azderbal’s life. In 1991 Monguzzi was invited to take part in the contest for the creation of a new series (still in circulation) of Swiss National Bank notes. By its nature the project was subject to a set of guidelines.Values of 10, 20, 50, 100, 200 and 1000 francs, respectively, were associated with Le Corbusier, Arthur Honegger, SophieTaeuber-Arp, Alberto Giacometti, Charles Ferdinand Ramuz and Jacob Burckhardt. Monguzzi felt that Burckhardt (1818-1897) fell outside the category of the other figures, who had all lived in the twentieth century. He proposed to replace him with Robert Maillart (1872-1940), a celebrated pioneer of reinforced concrete and bridge builder, but the competition organizers rejected the suggestion. Monguzzi then sought a more logical approach to the design task. He chose to relate the values of the individual notes to the year of birth of the figures depicted.The closer the date came to the present, the lower the value of the note; the more distant the date, the higher the value. In this way Burckhardt was associated with the 1000 franc note, and so forth for Ramuz (1878), SophieTaeuber-Arp (1889) and Honegger (1892), in keeping with the pairings in the competition brief. In the case of Giacometti (1901) and Le Corbusier (1887), however, Monguzzi’s logical sequence called for a departure from the specified pairing. Monguzzi designed Giacometti on the 10-franc note and Le Corbusier on the 100 franc. In this way the relative attributions preserved their logic. Monguzzi’s proposal responded to his urge for a system, his need for a concept and at the same time a clarity that was as intellectual as it was a question of design. And if we are to offer an interpretation: with his project, Monguzzi drew attention to the remunerative power of money and the increase of value over time, the backbone of the banking system in modern times. Another similar example is the invitation he received in 1988 to design the image of a newTicinese paper with a progressive editorial policy to be called Quotidiano (“daily paper”). Monguzzi devised a masthead giving the date in full in the same character and font as the paper’s name (e.g. “Quotidiano del 19 Gennaio ‘88”), with the day of the week clearly visible in a panel with a black ground.The project was approved and gave the newspaper a fresh look.The small circulation inTicino, however, did not allow the paper to establish itself.

6. El Lisitzkij, Fatti tipografici, da Scritti in onore di Gutenberg, Mainz, 1925, in Sophie Lisitzkij-Küppers, El Lisitzkij, Pittore, Architetto,Tipografo, Fotografo, Editori Riuniti, Rome, 1967, p. 349.


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rispetto alla collocazione prescritta. Per la banconota da 10 franchi Monguzzi prevedeva Giacometti, mentre per quella da 100 Le Corbusier. Solo così le relative attribuzioni osservavano una loro logica. La proposta di Monguzzi rispondeva alla sua esigenza di sistematicità, alla sua necessità di un concetto e nello stesso tempo a una chiarezza tanto intellettuale quanto progettuale. E volendo formulare un’interpretazione: con il suo progetto, Monguzzi richiamava l’attenzione sul potere remunerativo del denaro e sull’aumento di valore nel tempo, ossia sulla colonna portante del sistema bancario nell’epoca moderna. Un altro esempio simile è l’invito ottenuto nel 1988 a disegnare l’immagine di un nuovo quotidiano ticinese di orientamento progressista, intitolato “Quotidiano”. Monguzzi elaborò una proposta che vedeva nella testata la data per esteso nello stesso carattere e corpo del titolo (ad esempio: “Quotidiano del 19 Gennaio’88”), con il giorno della settimana ben leggibile in un riquadro a sfondo nero. Il progetto fu approvato e conferì al giornale un aspetto innovativo. L’esiguo mercato ticinese, tuttavia, non consentì al quotidiano di affermarsi a lungo termine. L’architetto americano Louis I. Kahn amava distinguere l’ordine dalla sua apparenza (“order does not mean orderliness”). L’uno è interiore, l’altra esteriore; inutile precisare a quale dei due termini egli desse maggiore importanza. Lo stesso vale per Monguzzi. In più di un’occasione ha evocato la sua lenta emancipazione dal rigore e dall’ortodossia “calvinista” che caratterizzavano la cosiddetta nuova grafica in Svizzera: un processo di distacco influenzato in misura determinante dai periodi trascorsi a Londra e più tardi a Milano. La raccomandazione di Antonio Boggeri di non proporsi quale obiettivo la perfetta geometria della tela del ragno, bensì la sua funzione di catturare la mosca, costituì per Monguzzi un episodio decisivo nella sua biografia7. La sua riluttanza non era del resto rivolta tanto all’operato di Josef Müller-Brockmann, Herbert Matter, Richard Paul Lohse o Armin Hofmann, quanto ai dogmi in voga durante il periodo della sua formazione. L’applicazione deduttiva di un canone non trovò mai riscontro nella sua attività. Perfino nella ricerca di sistematicità Monguzzi— da artista quale è— si è sempre comportato in maniera induttiva. Ricorrendo a un’immagine analogica, potremmo dire che molti dei lavori di Monguzzi possono essere letti come un’equazione differenziale. La sua ricerca di una soluzione grafica consiste infatti nella ricerca dello specifico andamento dei singoli componenti. Se questa analogia risultasse troppo astratta, si potrebbe evocare l’immagine di un ingranaggio epicicloidale o quella del differenziale di un’automobile, che tramite un meccanismo semplice ma raffinato compensa la diversa velocità di rotazione delle ruote nella percorrenza di una curva. Il funzionamento dei lavori di Monguzzi suggerisce immagini di questo tipo. Nel 1990 la Fondazione svizzera per la fotografia invitò Monguzzi a disegnare il manifesto dell’esposizione “Anwesenheit bei Abwesenheit. Fotogramme und die Kunst des 20. Jahrhundert.” (Presenza e assenza. Il fotogramma e l’arte del XX secolo). Cos’è un fotogramma? Un lavoro fotografico realizzato nella camera oscura, senza negativo, direttamente sulla carta fotosensibile. Quale risultato dell’incontro tra oggetto, carta sensibile, fascio di luce, ombra, tempo di esposizione e tempo di sviluppo, il fotogramma può essere considerato, in ultima analisi, un’opera unica dovuta in ampia misura all’azione del caso. Dal momento che gli venne chiesto di non utilizzare un soggetto di un illustre inventore del fotogramma (Man Ray, Lissitskij o Moholy-Nagy), Monguzzi cercò di individuare la chiave giusta per sintonizzarsi con il carattere del genere fotografico in questione. Giunse all’idea di collocare una biglia di vetro nel fascio di luce dell’ingranditore, in modo che i raggi luminosi convergessero in una macchia chiara (chiara nella realtà, ma nera nell’inversione sulla carta sensibile). L’idea sottintendeva il concetto della lente: riprodurre la lente nei termini di un fotogramma sarebbe stato banale e fuorviante, mentre la biglia ne costituiva un’astrazione, ne rappresentava il concetto. Monguzzi pose la mano in controluce, muovendo leggermente le dita e simulando di trattenere la biglia. La combinazione di un anello di luce, statico, e di una mano sfuocata, in leggero movimento, portò a un’immagine quasi surrealista, un segno dell’intervento manipolatore dell’uomo nel dispositivo dell’immagine. Per evocare la componente costruttivista, Monguzzi si richiamò al noto autoritratto fotografico di El Lissitskij (1924) con la carta

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7. Cfr. qui p. XXX.

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10 Man Ray, rayogramma,1923. 11 El Lissitskij, manifesto per inchiostro Pelikan,1924. 12 Laszlo Moholy-Nagy, fotogramma,1926. 13 El Lissitskij,“Der Konstrukteur”,1924.


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The American architect Louis I. Kahn liked to say: “Order does not mean orderliness.” One is inward, the other outward.There was no need to specify which of the two terms he laid greater stress on.The same is true of Monguzzi. On various occasions has recalled his slow emancipation from the rigor and “Calvinist” order characteristic of the “new graphic design” in Switzerland: a process of detachment decisively influenced by the time he spent in London and later Milan. Antonio Boggeri’s advice not to aim at the perfect geometry of the cobweb but its function of catching flies made a decisive impression on Monguzzi.7 He was not averse to the work of Josef Müller-Brockmann, Herbert Matter, Richard Paul Lohse or Armin Hoffmann, but rather the orthodox doctrines in vogue when he trained.The deductive application of a canon was never reflected in his work. Even in the search for system, like the artist he is, Monguzzi always behaved inductively. To use an analogy, we could say that many of Monguzzi’s works can be read like differential equations. His quest for a graphic solution consists in searching for the specific rendering of the individual components. If this analogy is too abstract, we could evoke the image of a epicyclic gearing or the differential of a car, which use a simple but elegant mechanism to compensate for the different speeds at which the wheels turn in cornering.The functioning of Monguzzi’s work suggests images of this type. In 1990, the Swiss Photography Foundation asked Monguzzi to design the poster of the exhibition Anwesenheit bei Abwesenheit. Fotogramme und die Kunst des 20. Jahrhundert. (“Presence and Absence. The Photogram and Art in theTwentieth Century”).What is a photogram? A photographic work produced in the darkroom, without a negative, directly on photosensitive paper. As a result of the combination between the object, sensitive paper, a beam of light, shade, exposure time and development time, the frame can be considered ultimately a unique work largely due to the action of chance. Since he was asked not to use an image by a celebrated inventor of photogram (Man Ray, Moholy-Nagy or Lissitzky) Monguzzi tried to identify the key to eliciting the character of the photographic genre in question. He got the idea of placing a glass marble in the light beam of the enlarger, so that the light rays converged in a spot of light (bright in reality, but black in its inversion on sensitive paper).The idea rested on the concept of the lens: to reproduce the lens in terms of a frame would have been trivial and misleading, while the marble was an abstraction, it represented the concept. Monguzzi posed his hand against the light, moving his fingers slightly and simulating the act of holding the marble.The combination of a static ring of light and a hand out of focus, in slight movement, produced an almost surreal image, a sign of the human manipulatory intervention in the creation of an image.To evoke the Constructivist component, Monguzzi drew on El Lissitzky’s famous photographic self-portrait (1924) with graph paper superimposed on the head, and photocopied the pattern of graph paper onto heat-sensitive tracing paper. The slightly corrugated photocopy responded exactly to the need to obtain an image that would not be perfectly even.The film frame is always the result of manipulation. In this respect the image created by Monguzzi is an emblematic condensate, as well as a symbol of the task of the graphic designer as Monguzzi understands it. Unfortunately here we lack the space to examine Monguzzi’s work in the field of editorial graphics in the depth it deserves. His book devoted to the Studio Boggeri (Electa, Milan, 1981) is a scrupulous tribute to his father-in-law’s work, laid out with great sensitivity and very carefully and coherently designed. The same can be said of his catalogue on Florence Henri and the small, 32-page catalogue of products designed by Roberto Sambonet.The publication presents home products— crockery, cutlery and other table accessories— with very fine objective photographs by Sergio Libis, combined with technical drawings and photographs of foodstuffs (a fish, a chicken, spaghetti) shot by Monguzzi and printed in purple. Is there a more compelling way to communicate that the product is intended for use and is not a mere fetish, and at the same time that it is an object of outstanding quality which does not disappear in use? His work for Edizioni Alice also deserves more detailed attention.The definition of the identity and distinctive features of the various series of publications (a surprisingly rich typology of textual categories for a small publishing house: Autografie, Cartografie, Arcipelaghi, Corbaro, Sconfini, Quaderni) is a fur-


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millimetrata proiettata in sovrimpressione alla testa e fotocopiò la trama millimetrata su carta da lucido sensibile al calore. La fotocopia leggermente ondulata rispondeva esattamente all’esigenza di ottenere un’immagine che non fosse del tutto omogenea. Il fotogramma è sempre l’esito di una manipolazione: in questo senso, l’immagine ottenuta da Monguzzi ne rappresenta un condensato emblematico — oltre che un simbolo del compito del grafico nei termini in cui lo intende Monguzzi. Manca purtroppo in questa sede lo spazio per esaminare con il giusto apprezzamento l’attività di Monguzzi nel campo della grafica editoriale. Il suo libro dedicato allo Studio Boggeri (Electa, Milano 1981) è un omaggio scrupoloso all’attività di suo suocero, articolato con molta sensibilità e concepito con grande attenzione e coerenza. Lo stesso si può dire del catalogo su Florence Henri. O ancora del piccolo catalogo di 32 pagine sui prodotti disegnati da Roberto Sambonet. La pubblicazione illustra gli oggetti per uso domestico—stoviglie, posate e altri accessori da tavola—per mezzo di eccellenti fotografie oggettive di Sergio Libis, combinate con disegni tecnici e fotografie di alimenti (un pesce, un galletto, degli spaghetti) scattate da Monguzzi e stampate in viola. Esiste un modo più convincente di comunicare che il prodotto è destinato all’uso e non è un mero feticcio e, nello stesso tempo, che è un oggetto di prima qualità che non “scompare” nell’uso? Anche le collaborazioni con le Edizioni Alice meriterebbero un’attenzione più circostanziata. La definizione degli elementi identitari e distintivi delle singole collane (una tipologia sorprendentemente ricca di categorie testuali per una piccola casa editrice: Autografie, Cartografie, Arcipelaghi, Corbaro, Sconfini, Quaderni) è un esempio ulteriore dell’elevata sensibilità monguzziana (con ottima preparazione in materia di teoria gestaltica) per l’“interplay” tra affinità e differenze. Nell’autunno del 2009, dopo lunghi e accurati lavori di restauro, è stato riaperto ad Ascona ilTeatro San Materno, progettato nel 1928 dall’architetto CarlWeidemeyer per la danzatrice Charlotte Bara e dopo la morte di quest’ultima (1986) abbandonato a sé stesso per venticinque anni. L’edificio, straordinario sul piano architettonico, è inoltre di spiccato interesse storico-culturale nel contesto della controcultura internazionale dei primi decenni del XX secolo, che ad Ascona, allora un villaggio di pescatori, aveva dato vita a un fenomeno epocale. Monguzzi ha realizzato finora tre locandine e due manifesti per il piccolo teatro di cento posti. I manifesti sono dedicati a due stagioni teatrali con il rispettivo programma degli spettacoli (autunno/inverno 2010-2011, primavera/estate 2011). Un quadrato e un rettangolo in colori trasparenti si sovrappongono in modo da lasciare a vista, ai margini, lo sfondo bianco della carta. Due ingrandimenti fotografici rispettivamente di una scena di danza e una di teatro, riferiti a spettacoli in programma, generano un’atmosfera “teatrale”. Il secondo manifesto coniuga una scena tratta da Aspettando Godot di Beckett (Teatro Out Off, Milano) e una fotografia di “Attesa ni-na-na” della CompagniaTeatrodanzaTiziana Arnaboldi. Anche in questo caso è stupefacente come Monguzzi, servendosi di mezzi grafici, sia riuscito a porre in relazione la geometria vincolante dell’architettura razionalista diWeidemeyer (si veda anche il logo!) con il carattere effimero dell’azione teatrale. I loghi degli sponsor sono inoltre posizionati con rara cura, in modo da diventare parte integrante della struttura del manifesto. La carta è superficie, i colori di stampa sono superfici campite. Un grafico come Bruno Monguzzi conosce la successione con cui vengono stampati i colori. E sa che tra una superficie e l’altra vi è uno “spazio”. Quando progetta la grafica di un libro, lo pensa come un oggetto tridimensionale, anzi: include il gesto che sfoglia le pagine, ossia pensa a quel che succede nell’arco di tempo che separa una doppia pagina da quella successiva. Egli ragiona, cioè, in termini quadrimensionali.Tridimensionali, anzi quadridimensionali sono anche i suoi manifesti nel momento in cui vengono letti dal pubblico. Se infatti la definizione del problema è una questione di tempo e la ricerca della soluzione è anch’essa una questione di tempo, tutto quel tempo resta custodito nel risultato finale come una mosca nell’ambra.Tutto quel tempo è con noi quando guardiamo i lavori di Bruno Monguzzi.

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ther example of his outstanding sensibility (with an excellent preparation in Gestalt theory) to the interplay between affinities and differences. In autumn 2009, after long and careful restoration, theTeatro San Materno reopened in Ascona. It was designed in 1928 by CarlWeidemeyer for the dancer Charlotte Bara and after her death (1986) stood derelict for twenty-five years.The building is also remarkable architecturally and of outstanding historical and cultural interest in the context of the international counterculture in the early decades of the twentieth century, which in Ascona, then a fishing village, gave rise to an epoch-making phenomenon. To date Monguzzi has produced three playbills and two posters for the small 100-seat theatre. The posters are devoted to two seasons with their program of theatrical performances (autumn/winter 2010-11, spring/summer 2011). A square and a rectangle in transparent colors overlap so as to leave the white ground of the paper exposed at the edge.Two photographic enlargements, respectively of a dance scene and a dramatic scene, refer to events on the program and create a theatrical atmosphere. The second poster combines a scene from Beckett’s Waiting for Godot (Teatro Out Off, Milan) and a photograph of Attesa ni-na-na by the CompagniaTeatrodanzaTiziana Arnaboldi. Again it is astonishing how Monguzzi, using graphic media, has managed to relate the strict geometry ofWeidemeyer’s Rationalist architecture (see the logo, too!) with the ephemeral character of the theatrical action. The logos of the sponsors are also positioned with unusual care, making them an integral part of the poster’s graphic structure. Paper is a surface, the colors of the print are surface fields. However, a graphic designer like Bruno Monguzzi understands the sequence in which colors are printed. And he knows there is some kind of space between one surface and the other.When he designs the graphics of a book, he conceives it as a three-dimensional object. In fact, as to the book, he includes the gesture of turning the pages or thinking of what will happen in the time span separating one double page from the next. He reasons in terms of a “fourth dimension”. His posters are three-dimensional, or rather four-dimensional when they are viewed by the public. If the search for the problem is a conceptual activity and the quest for the solution is a question commingled with the need for time, all this remains enshrined in the end result like a fly in amber. All that time is with us when we view the work of Bruno Monguzzi.


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0. Quello che mi accingo a scrivere non è un diligente saggio (con le note e tutto, come si dice). No, sarà un libero essay, disponibile ad accogliere di tutto, anche le mie o forse le nostre idiosincrasie. E questo avviene perché Bruno Monguzzi è imprendibile. È una persona (ancor più che una personalità) troppo complessa e troppo ricca di sfaccettature. Obbligato dalla variabilità metamorfica del fenomeno Monguzzi, per parlare di lui mi ero prefigurato nella mente, molte, forse troppe linee di attacco. 1.Visto che i libri sono—in molti sensi—una parte importantissima della sua vita e visto che lui è una persona affetta da febbre epistemica e cioè da una sterminata sete di conoscenza, insomma poiché Bruno è malato di curiosità compulsiva, avevo pensato di partire dalla sua biblioteca. Intendevo costruire su di lui quella manovra conoscitiva che nel caso di un determinato pensatore o intellettuale consiste nel generare l’elenco dei suoi libri e nel commentarne la struttura concettuale e identitaria. Si pensi a La biblioteca di Marx curata da Siegbert S. Prawer, per esempio, o la biblioteca di Darwin che è stata messa on line dall’Università di Cambridge, o La Bibliothèque de Ferdinand de Saussure stabilito da Daniele Gambarara. Ma quanto lavoro ci sarebbe voluto? Quanti sono i libri che Monguzzi conserva nella sua bella casa bianca di Meride? 10.000, 20.000, 40.000? E l’esplorazione dei cassetti dove sono conservate con la complicità di splendide veline protettive i volumi più rari e più curiosi. Un lavoro di mesi. E poi da un punto di vista tematico il connubio tra voglia di onniscienza e ossessione bulimica di Monguzzi più che uno scarno profilo intellettuale avrebbe prodotto una barocca Biblioteca di Babele à la Borges, e allora sì che poi il lavoro ermeneutico si sarebbe dovuto addentrare nell’esplorazione di infinite radici e radichette, come ci insegna Bibliofollia, lo spiritoso portolano librario di Alberto Castoldi. Che Monguzzi vada considerato anche un pensatore, oltre a tutto il resto, o forse ancora più precisamente un “intellettuale tecnico”, come potrebbe direTomás Maldonado, lo si può constatare peraltro anche imbattendosi continuamente in quelle che io—forzando un poco la terminologia dei filosofi— chiamo “mosse teoriche”. In altre parole il suo ripetuto scoprire nuove “istituzioni del progetto”. E con “istituzione” voglio dire qualcosa di simile a quello che si intende con “istituzioni letterarie”, come potrebbe essere il sonetto con i suoi vincoli e le sue costrizioni numeriche e di rima. Le mosse teoriche di Monguzzi, insomma, sono appunto le infinite volte in cui, progettando, avanza una soluzione esemplare, un nuovo paradigma, anche se a questa teoria in azione non è stata ancora data la formulazione verbale (magari toccherà a quelli come me di tradurre la mossa intellettuale in parole). E fra tutti, scegliamo qui un solo gruppo di esempi, il più emblematico di tutti, che è stato (ed è) la sofisticata gestione proprio dei vincoli e delle costrizioni progettuali generati dalTrittico di manifesti che caratterizza il sistema F4/F12 delle affissioni svizzere. Monguzzi ha trasformato le costrizioni in atouts vantaggiosi per i processi comunicazionali.

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2. Ma Monguzzi non è tanto, o non soltanto un intellettuale tecnico. Bruno Monguzzi è una figura a tutto tondo, un protagonista se non forse un pilastro della scenery internazionale del design della comunicazione. E la seconda strategia d’attacco dovrebbe essere quindi, secondo me, lo sforzo di collocarlo nel grande panorama internazionale della disciplina e della professione, e nel flusso della storia. Monguzzi occupa saldamente il suo posto nella grande corrente di quello che (anche per l’architettura e il product design) è stato definito l’International Style. Non appartiene alla prima sua fase pionieristica, delle avanguardie e del primo affermarsi della professione nella cultura del progetto. Non appartiene alla fase della modernità industriale e commerciale, quella della tipografia funzionale; per intenderci quella degli El Lissitskij, degli Herbert Bayer, degli JanTschichold e dei Piet Zwart; ma quella anche del filone pragmatico che dai Beggars Brothers e da Ludwig Hohlwein arriva a Otto Baumberger. Monguzzi appartiene alla generazione di mezzo, all’era dell’affermarsi universale dell’International Style, con i Max Bill, gli Adrian Frutiger, i Paul Rand e i MassimoVignelli. Ma forse, con più precisione, Monguzzi appartiene alla sua fase più recente, quella dei Karl Gerstner e Markus Kutter, e da noi dei Pierluigi Cerri e degli Italo Lupi, che precede la fase del computer e della grafica cosiddetta alternativa.

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Monguzzi indefinibile di Giovanni Anceschi Milano aprile 2011 1

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El Lissitskij, manifesto politico1918 Herbert Bayer, manifesto 1926 JanTschichold, manifesto 1924 Piet Zwart, logo 1927 Max Bill, manifesto 1932 Karl Gerstner, annuncio 1959


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Indefinable Monguzzi

0.What I’m about to write is not a formal essay (with footnotes and all, as they say). No, it will be a free essay, capable of including anything, even my own, or perhaps our own, idiosyncrasies.This is because Bruno Monguzzi is impregnable. As a person (even more than a personality) he is too complex and many-sided. Constrained by the metamorphic variability of the phenomenon Monguzzi, in order to speak of him I had envisioned many, perhaps too many, lines of attack.

by Giovanni Anceschi Milan April 2011

1. Since his books are, in many ways, a very important part of his life, and since he is a person who suffers from epistemic fever, in other words a boundless thirst for knowledge, in short, since Bruno suffers from compulsive curiosity, I decided to start from his library. I intended to work that cognitive manoeuvre on him which, in the case of a given thinker or intellectual, consists of drawing up a list of his books and commenting on their conceptual structure and identity.Think of Karl Marx and World Literature by Siegbert S. Prawer, for instance, or Darwin’s library, now placed online by the University of Cambridge, or La Bibliothèque de Ferdinand de Saussure compiled by Daniele Gambarara. But how much work would it take? How many books did Monguzzi keep in his beautiful white house at Meride? 10,000, 20,000, 40,000? And the need to explore the drawers where the rarest and most curious volumes are laid in a beautiful protective tissue. A labour of months. And then from a thematic point of view, the combination between Monguzzi’s craving for omniscience and his bulimic obsession would have produced not a slim intellectual profile but a baroque Library of Babel à la Borges, and the hermeneutic work would have had to explore endless roots and radicles, as we learn from Bibliofollia, Alberto Castoldi’s witty guide to books. That Monguzzi should be considered a thinker, as well as everything else, or perhaps more accurately a “technical intellectual” asTomás Maldonado would say, can be observed by the fact that we constantly come across what I—rather forcing the terminology of the philosophers— call “theoretical moves.” In other words, Monguzzi’s repeated discovery of new “design conventions.” And by “conventions” I mean something similar to what is meant by a “literary convention”, such as the sonnet with its constraints and its restrictions on the number of lines and rhymes. Monguzzi’s theoretical moves are precisely the countless exemplary solutions or new paradigms he devises while designing, though this theory in action has not yet received a verbal formulation. (Perhaps it is up to people like me to translate the intellectual move into words.) From them all, I have here chosen one group of examples, the most emblematic of all, which was (and is) the sophisticated management of the constraints and design restrictions generated by the triptych posters characteristic of the Swiss F4/F12 system. Monguzzi turns these constraints into strong points that enhance the communication processes.

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2. But Bruno Monguzzi is not just a technical intellectual. He is an all-rounder, a protagonist and perhaps a pillar of international communication design. So the second strategy of attack should therefore be, in my opinion, the effort to place him in the larger international panorama of design as a discipline and a profession, and in the flow of history. Monguzzi belongs firmly to the great current of what has been called the International Style (which covers architecture and product design). He does not belong to its first pioneering phase, with the avantgardes and the first emergence of the profession in design culture. He does not belong to the phase of industrial and commercial modernity, of functional typography, meaning the work of El Lissitzky, Herbert Bayer, JanTschichold and Piet Zwart, or the pragmatic strand running from the Beggars Brothers and Ludwig Hohlwein down to Otto Baumberger. Monguzzi belongs to the in-between generation, the period that saw the universal spread of the International Style, with Max Bill, Adrian Frutiger, Paul Rand and MassimoVignelli. But perhaps, more accurately, Monguzzi belongs to its more recent phase, that of Karl Gerstner and Marcus Kutter, and in Italy of Pierluigi Cerri and Italo Lupi, before CAD and what is called alternative graphics. Actually, I feel the term “style” hardly applies to Monguzzi, who is the opposite of a stylist. And the neu-


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A dire il vero però, già il termine style sono convinto che non vada bene a Bruno Monguzzi, che è tutto l’opposto di uno stylist; ma anche l’aggettivo neutro international non è in vera consonanza con il fare e con l’appartenenza di Bruno Monguzzi a quella che— civettando con l’espressione “società letteraria” —definirei invece come la “società progettuale” dell’architettura, del design e della grafica, contigui al settore della ricerca artistica. Un aggettivo che mi pare più adeguato e più saporoso sarebbe “cosmopolita”, che porta con sé tutto uno spessore storico (e ancor peggio andrebbe il trendystico “planetario”, che fa pensare soltanto a science fiction e new age). E così, farò un piccolissimo carotaggio sperimentale, elencherò tutti i nomi propri citati da Monguzzi nella sua (brevissima) prefazione al contributo fotografico di Florence Henri che appare sul numero 10 di “rMH rivista per le Medical Humanities”, di cui Monguzzi è stato nel 2009 il designer del sistema grafico, ma anche un collaboratore essenziale per il complessivo progetto editoriale. I nomi sono Georgia O’Keeffe, Alfred Stieglitz e Florence Henri, Antonio Boggeri, El Lissitskij, JanTschichold... e poi (oltre a Gianni Martini e Alberto Ronchetti), Alberto Sartoris e JeanneTafforeau, nonché Max Ernst. E sono convinto che di questo gruppo di americani, di franco-tedesco-americani, di italiani, russi, tedeschi, francesi— di tutti o di quasi tutti, direttamente o indirettamente—Bruno ha conosciuto la voce o la casa, e forse i gusti, magari alimentari. Munito di un marker giallo ho cominciato a ripetere lo stesso esperimento evidenziando tutti i nomi propri chiamati in causa da Bruno nella lunga intervista che gli ha fatto Franc Nunoo-Quarcoo. E ha cominciato a profilarsi una lista sterminata, un vortice universale, che Umberto Eco potrebbe chiamare davvero vertiginoso. Del resto, l’aggettivo “cosmopolita” mi sembrerebbe adeguato (e potrebbe differenziare dalle altre istituzioni del Design Discourse), la sostanza relazionale, umana e culturale, dell’AGI, che si chiama invece proprio Alliance Graphique Internationale e di cui Bruno è un membro di grande rilievo. Alla prima generazione dei fondatori, pionieri e predecessori, Monguzzi è però legato da una relazione fortissima, da un atteggiamento di autentica venerazione. Le vicende che lo legano a Zwart (si veda il numero monografico della rivista “Rassegna”, e il saggio, dottissimo, dedicato al pioniere olandese: Piet Zwart, L’opera tipografica 1923-1933, in “Rassegna”, n. 30/2, giugno 1987), fanno pensare, per il grado di identificazione, quasi a un caso di trasmigrazione delle anime. Quella con i predecessori, tuttavia, è anche una relazione assolutamente priva di complessi di inferiorità. Due sono gli esempi che ce lo dimostrano: e in entrambi questo sentirsi perfettamente alla pari con i mostri sacri del passato passa attraverso uno strumento progettuale, o meglio “configurativo”, essenziale per la comunicazione, e cioè una “citazione”—filologicamente fedelissima— di motivi iconografici, che in entrambi i casi avevano raggiunto lo statuto di stereotipi definitivi: l’astratto pittogramma che campeggia sul manifesto di Max Bill per la mostra della “Negerkunst/Prähistorische Felsbilder Südafrikas”, e che ormai per un pubblico di interessati sta per negritudine e africanità, viene inserito, direi interpolato nel manifesto per la mostra della Collezione di arte africana Han Coray. Ma ancora più esplicito è l’impiego citazionista del profilo della strada di alta montagna che si staglia fra cielo e terra nel manifesto per il turismo in Svizzera di Herbert Matter (1934), che Monguzzi integra con la massima scioltezza, nella parte alta del manifesto per la mostra della Swiss Poster Art in Giappone (2005).

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3. Un autentico riferimento esistenziale, culturale, professionale per Bruno Monguzzi è stato Antonio Boggeri, che il giovane svizzero aveva incontrato a Milano nel 1961. Monguzzi ha riconosciuto il proprio maestro e non l’ha poi lasciato più. Un altro punto d’attacco poteva insomma essere la rievocazione del fondatore dello Studio che ha marcato— o meglio ha determinato il riconoscimento internazionale e la sensibilità cosmopolita di quella che è riconosciuta come la Scuola della Grafica Italiana. Una scuola che non è mai stata praticamente affiancata da vere istituzioni dell’insegnamento e che eppure è stata davvero una scuola che ha insegnato con l’esempio. 11

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8,9 Due doppie pagine della rivista “Rassegna”, 30, Bologna 1987, numero monografico su Piet Zwart curato e disegnato da Bruno Monguzzi. 12 Ugo Mulas. Antonio Boggeri davanti al pannello dello Studio Boggeri alla mostra dell’AGI, Milano 1961.


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8,9 Two double-spreads of the magazine Rassegna, 30, Bologna 1987; monographic issue on Piet Zwart, edited and designed by Bruno Monguzzi. 12 Ugo Mulas. Antonio Boggeri in front of the Studio Boggeri panel at the AGI exhibition, Milan 1961.

tral word “international” fails to evoke his real affinity with what—flirting with the term “literary society”—we might call the “design society” of architecture, design and graphics, which adjoins the field of artistic experimentation. An adjective that seems more appropriate and expressive is “cosmopolitan”, bringing with it a historical depth. (While the trendy “planetary”would be much worse, with its Sci-Fi and New Age overtones.) So I will probe this approach experimentally, listing all the names mentioned by Monguzzi in his (brief) preface to the photographic contribution by Florence Henri in the issue 10 of rMH rivista per le Medical Humanities, for which Monguzzi was graphic designer in 2009 as well as a key contributor to the overall editorial project.The names are Georgia O’Keeffe, Alfred Stieglitz and Florence Henri, Antonio Boggeri, El Lissitzky, JanTschichold. And then (in addition to Gianni Martini and Alberto Ronchetti), Alberto Sartoris, JeanneTafforeau and Max Ernst. And I am convinced that Bruno knew this group of Americans, French-German-Americans, Italians, Russians, Germans and French, directly or indirectly; knew their voices or homes, and perhaps their tastes, even their tastes in food. Equipped with a yellow marker I began to repeat the experiment byhighlighting all the names Bruno mentioned in his long interview with Franc Nunoo-Quarcoo. And an endless list began to appear, a universal vortex, one that Umberto Eco would have described as truly vertiginous. Besides, the adjective “cosmopolitan” strikes me as appropriate (as suggesting a distinction from other institutions of the Design Discourse) to the relational, human and cultural substance of the AGI (Alliance Graphique Internationale), of which Bruno is a prominent member. Monguzzi has close ties, stemming from an attitude of authentic veneration, with the first generation of founders, pioneers and predecessors.The events that relate him to Zwart (see the special issue of the periodical Rassegna and the erudite essay devoted to the Dutch pioneer in “Piet Zwart, L’opera tipografica 1923-1933”, Rassegna, no. 30/2, June 1987) suggest a degree of identification which is almost a case of the transmigration of souls. But his relationship to his predecessors is absolutely devoid of any sense of inferiority.There are two examples that show this, both of which reveal his feeling of perfect equality with the giants of the past through an instrument of design, or rather “configuration” essential to communication.These are philologically accurate quotations of iconographic motifs, which in both cases had reached the ultimate status of stereotypes: the abstract pictogram that appears in Max Bill’s poster for the exhibition Negerkunst/Prähistorische Felsbilder Südafrikas, which for an interested public stands for negritude and Africanness, is inserted, I would say interpolated, into the poster for the exhibition of the Han Coray Collection of African Art. Even more explicit is his quotation of the profile of the high mountain road that stands between heaven and earth in the poster for tourism in Switzerland by Herbert Matter (1934), which Monguzzi incorporated with the utmost ease into the top of the poster for the exhibition of Swiss Poster Art in Japan (2005). 3. A genuine existential, cultural and professional influence on Bruno Monguzzi was Antonio Boggeri, whom the young Swiss designer met in Milan in 1961. Monguzzi recognized his master and never abandoned him. Another approach could be an evocation of the founder of the design office which won international recognition and was responsible for the cosmopolitan sensibility of what is known as the Italian school of graphic design. A school that was never supported by proper educational institutions, and yet it was truly a school that taught by example. The community of intents between the august Italian principal and the young Swiss designer verged on the ineffable. I believe the directorial attitude of Boggeri, who described the sequence of double pages of printed matter as a series of coups de théâtre, was a conceptual approach which Monguzzi has always been faithful to, since it has always been present, if not dominant, in all his designs. And it is particularly evident in his media design for Quotidiano.This consisted of giving theTicinese newspaper a masthead that would vary day by day because the date would be incorporated, in fact displayed, in it.


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La comunità di intenti fra l’augusto patron italiano e il giovane grafico svizzero rasenta l’ineffabile. Io credo che il pensiero registico di Boggeri, che parlava della sequenza delle doppie pagine di uno stampato come di una sequenza di coups de théâtre, sia stato un binario concettuale al quale Monguzzi è stato sempre fedele, in quanto in tutti, ma proprio in ciascuno dei suoi progetti la componente temporale è sempre stata presente se non protagonista. Ed è particolarmente facile osservarla nell’intervento di media-design sul “Quotidiano”. Un intervento che consiste nell’attribuire al giornale ticinese una testata “in variazione”, che integra, anzi esibisce, la data giornaliera. Tuttavia sono convinto che anche la caparbietà critica e discorsiva che caratterizza il Monguzzi che parla di graphic design sia sì, un fatto caratteriale ma che sia stato via via affilato dall’esempio—sempre nemico di ogni pregiudizio consolidato— che si dice fosse tipico di Boggeri.

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4. Io intendevo avviare tutte queste linee di attacco, ma sono stato travolto da Bruno Monguzzi. Avrei dovuto aspettarmelo, io che lo conosco non da cinquant’anni, ma da quasi quaranta sì. Da quando cioè, per realizzare con Pierluigi Cerri Il campo della grafica italiana, il numero di “Rassegna” n.18/3, settembre 1984, ho preso contatto con Antonio Boggeri e con il suo favoloso Studio, che nella pubblicazione svolgeva il dovuto ruolo di protagonista. Adesso, in occasione dei cinquant’anni di attività di Bruno, sono salito da Milano a trovarlo—nella prospettiva di scrivere questo testo—nella casa di Meride, e sotto il portichetto che ci proteggeva dal sole ho trascorso una delle giornate più stimolanti e vitali degli ultimi anni, tanto che sono tentato —io che sono tendenzialmente un razionalista— di parlare di carisma. Bruno Monguzzi in generale, ma quando parla di graphic design molto di più, è uno straordinario affabulatore, un efficace cantastorie. Lui racconta e tu hai la sensazione di essere un astante, un testimone presente all’evento.Ti mette davanti con estrema chiarezza chi sono gli attori, qual è la scena e ti rende presente alla perfezione qual è la scrittura coreografica o la trama che funziona come spina dorsale dell’aneddoto.Ti conduce per mano verso il senso. Ma non è tutto qui; Monguzzi non è solo uno splendido narratore, è anche un raffinato analista concettuale delle situazioni e dei contenuti culturali e delle competenze e delle pratiche per progettare gli eventi e i flussi comunicativi. E dispone di una concezione epistemologica precisa: sembra avere elaborato una versione, specifica per il progettista, della teoria della conoscenza. E cioè del problem setting. Ma anche e soprattutto dei meccanismi teleologici. Bruno— e ce lo fa capire con grande agio—ha sempre molto chiaro quali sono i risultati e gli effetti da ottenere. Pensa sempre con grande e prudente anticipo quali sono i mezzi da impiegare.Tuttavia, dotato anche com’è di un robusto senso critico, è capace di smontare errori e difficoltà, ma anche di adattarsi in modo duttile agli sviluppi delle circostanze. Questo è stato quanto mi ha fatto capire e quasi toccar con mano, attraverso il combinato di narrazioni e documenti. E fin qui sembrerebbe che stiamo parlando di un Monguzzi consacrato alla metodologia progettuale, anche se a una versione molto flessibile degli approcci possibili e delle procedure. Ma se c’è invece una persona davvero innamorata della specificità della “cosa”, dal particolare tecnico al contenuto informativo, dalla capacità di disporre in relazione gli elementi figurali e scrittorii a quella di attribuire loro un valore gerarchico vantaggioso, se c’è una persona che gode davvero nel conferire al tutto la forma intenzionale e la configurazione finale e che di queste intenzioni e competenze fa il vero motore del processo complessivo, questa è Bruno Monguzzi. E Monguzzi davvero si appassiona quando parla della sua “cosa”. Sembra che—proprio come io penso da un po’ di tempo—Monguzzi creda all’importanza conoscitiva della forma aneddotica. Gli storici sono in generale dubbiosi sulla veridicità delle testimonianze dirette e soprattutto proprio del racconto dei protagonisti, in quanto temono un processo di aggiustamento auto-cosmetico dei ricordi. Ma in questo caso non ha nessuna importanza: anche se fosse il risultato di una semplificazione idealizzata, il grande risultato è che noi testimoni capiamo perfettamente qual è il punto.

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13 Doppia pagina della rivista “Rassegna”, 6, Bologna 1981, a sinistra fotografia di Antonio Boggeri, 1934. 14 Xanti Shawinsky, particolari costruttivi del negozio Olivetti aTorino, 1934. 15 Max Huber, pannello per lo Studio Boggeri, 1940.


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But I am convinced that the critical and discursive tenacity characteristic of Monguzzi when he talks about graphic design is certainly a character trait, but one that has been gradually sharpened by the example—always an enemy to every consolidated prejudice—said to have been typical of Boggeri.

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4. I meant to adopt all these lines of attack, but was overwhelmed by Bruno Monguzzi. I should have expected it after knowing him, not for fifty years, but certainly almost forty. Ever since Pierluigi Cerri and I worked on Il campo della grafica italiana for Rassegna no. 18/3, September 1984, and I made contact with Antonio Boggeri and his fabulous design office, prominently featured in the publication, as was its due. Now, to mark the fiftieth year of Bruno’s work, I travelled up from Milan with the prospect of writing this text.There, at his house at Meride, in the portico sheltering us from the sun, I spent one of the most stimulating and vital days of recent years. Despite a tendency towards rationalism, I am tempted to speak of charisma. Bruno Monguzzi is in general an extraordinary storyteller and effective conversationalist, but even more so when it comes to graphic design. He recounts things and you see them clearly, an eye-witness to the event. He clearly visualizes the actors, the scene and the choreography or series of events that serves as the backbone to an anecdote. He leads you by the hand towards the meaning. But there is more to it than this. Monguzzi is not just a wonderful storyteller, he’s a refined conceptual analyst of situations and cultural questions and skills and practices in designing events and communication flows. And he has a clear conception of epistemology: he seems to have produced a version of the theory of knowledge specific to the designer, namely problem setting, but above all the teleological mechanisms. Bruno—and he shows this easily—is always very clear about the results and effects to be obtained. He always decides prudently and well in advance what resources to use. He is also endowed with a strong critical sense, being capable of removing errors and difficulties but also of adapting flexibly to changing circumstances.This was what I came to understand, almost palpably, through the combination of narratives and documents. So far it seems that we are talking about a Monguzzi devoted to a method of design, though with a very flexible attitude to possible approaches and procedures. But if there is a person truly enamored of the specifics of design, from the technical detail to the informational content, from the ability to order the figural and written elements so as to give them an effective hierarchical value, if there is a person who really enjoys endowing the whole with intentional form and a final configuration, and makes these intentions and skills the true motive force behind the overall process, this is Bruno Monguzzi. And Monguzzi is filled with passion when he talks about design. It seems, as I have long thought, that Monguzzi believes in the cognitive importance of the anecdotal form. Historians are generally sceptical about the veracity of direct testimony, especially eyewitness accounts, because they fear a cosmetic process of manipulating memories. But in this case it does not matter: even if it were the result of an idealized simplification, the overall result is that we witnesses perfectly get the point. 5. I was overwhelmed, as I was saying, and a little frightened by the avalanche of Bruno Monguzzi’s one hundred and one impassioned ideas. I was really afraid I would be unable to grasp and render the multiplicity and variety and sophisticated nuances of the issues raised. But I now find that as witnesses we can perhaps say we have made some progress in understanding. It appears—putting two and two together—that Monguzzi is a forerunner of strategic design. (Besides, graphic designers and admen, as eternal rivals and brothers, have always spoken of strategy. It should be added, however, that they also deal with communication, though with different and sometimes rather perverse methods. And Monguzzi himself is careful not to represent advertising as evil and graphic design sacred.) Moreover, in more than one passage of the interview with Franc Nunoo-Quarcoo, we sense Bruno Monguzzi uses pragmatic and subtle adaptations of Lasswell’s Formula of the theory of communication both in the examples and in the more general observations. Before communicating, we have to ask various questions:Who to,What, and How do we want to communicate?Then he specifies that the “how”

13 Double-spread of the magazine Rassegna, 6, Bologna 1981, the photograph to the left is by Antonio Boggeri, 1934. 14 Xanti Shawinsky, construction details of the Olivetti shop inTurin, 1934. 15 Max Huber, pannel for Studio Boggeri, 1940.


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5. Sono stato travolto— dicevo— e un poco spaventato, dalla carica dei centoeuno pensieri appassionati di Bruno Monguzzi. Ho davvero temuto di non essere in grado di cogliere e di restituire, soprattutto la molteplicità e la varietà e la sofisticata sfumatura delle tematiche. Ma scopro ora che qualche passo noi testimoni possiamo forse dire di averlo fatto, almeno nel senso della comprensione. Emerge—incrociando qualche indizio— che Monguzzi è un antesignano del design strategico (del resto di strategy parlano da sempre gli eterni avversari/fratelli disciplinari dei grafici e cioè i pubblicitari; va detto peraltro che, sia pure con metodologie diverse e a volte un po’ perverse, si occupano anch’essi di comunicazione. E lo stesso Monguzzi si guarda bene dal considerare l’advertising evil e il graphic design holy). Del resto, in più di un passaggio dell’intervista di Franc Nunoo-Quarcoo, sentiamo in filigrana Bruno Monguzzi impiegare, sia negli esempi sia nelle riflessioni più generali, adattamenti pragmatici e sottili della Lasswell Formula della teoria della propaganda. Prima di comunicare bisogna domandarsi a chi? (whom), che cosa? (what) e come? (how) si vuole comunicare. Specificando poi che il “come” si articola in un “come”—diciamo così—retorico o che, più in generale, si preoccupa dell’effetto sperato e in un “come” determinato invece dai vincoli delle tecnologie e dei media, e in ultima istanza dalle disponibilità di budget. Insomma, incrociando un’infinità di spunti che abbiamo via via raccolto, una cosa emerge con chiarezza, e cioè che Monguzzi non corrisponde al “profilo del Grafico” ma decisamente promuove una Designer perspective. Un designer il quale, pur padroneggiando i meccanismi astratti della simbolizzazione e anche quelli illusionistici della raffigurazione, predilige i sistemi che potremmo definire concretisti della notazione e della composizione. In questo senso, un esemplare lavoro di sintesi, dal sapore appunto “concretista”, è stato realizzato da Bruno Monguzzi per l’immagine grafica della Repubblica del CantoneTicino. Secondo le regole araldiche, nella versione in bianco e nero, lo scudo rosso e blu sarebbe costituito da linee verticali, nella metà sinistra, e da linee orizzontali nella metà destra. È come se Monguzzi, intervenendo, ingigantisse lo scudo allargandolo al massimo del formato, riducendolo però al contempo all’estremo in verticale. Rimane così, a destra, un’unica barra orizzontale, mentre delle barre verticali rimane, a sinistra, un dinamico susseguirsi di quadratini neri. Quadratini e barra si fanno elementi costitutivi di un sistema di grande flessibilità. E questa virtualità dinamica aggiunge al sistema tipografico accanto al tratto “concreto” un complementare carattere “programmato”. Sono convinto, infatti, che Monguzzi sarebbe più contento di definirsi un tipografo piuttosto che un grafico. E comunque—seguendo El Lissitskij—afferma più di una volta di sentirsi più un “traduttore” che un autore, che è un’affermazione la quale coincide proprio quasi alla lettera con il dire che si sente un designer, e non un artista. 6. Intenderei concludere—a malincuore, però, perché bisognerebbe andare avanti e ancora avanti— con un approfondimento di questo discorso che vede Bruno Monguzzi con l’habitus del designer. Ma, come ci ha insegnato Boggeri, è un Monguzzi “designer registico” (director, dicono gli anglosassoni nell’espressione art director). E in più è un designer che progetta artefatti comunicativi in tutti i loro risvolti tecnici e tecnologici. Nelle nostre chiacchiere mi ha raccontato come, da ragazzino, fosse convinto che l’architettura (e noi aggiungiamo il design) fosse una sorta di master conseguito a partire da un bachelor di ingegneria. Ma sul versante che noi chiamiamo—appunto—registico Monguzzi è anche un consulting designer che sta di supporto al committente in quanto entrepreneur. Infatti interviene sovente in modo risolutivo nelle questioni di budget e cioè di economia. Del resto lo abbiamo già conosciuto come quel particolare caso di product designer che progetta artefatti editoriali e graphic systems, ma anche come consulente registico del progetto editoriale. Ma—ancor meglio—Monguzzi non tratta budget e tecnologia separatamente, ma opportunamente intreccia ingegneria e economia.

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is divided into a—so to speak—rhetorical “how” and a more general “how” determined by the constraints of technology and the media, and ultimately by the budget. In short, by combining the multitude of pointers that we have gradually collected, one thing is clear, namely that Monguzzi hardly corresponds to the “profile of the graphic designer”, but definitely promotes a designer’s perspective. A designer who has even mastered the abstract mechanisms of symbolization and the illusion of representation, favoring systems that concretely define notation and composition. In this respect, an exemplary work of synthesis, with “concretist” overtones, was produced by Bruno Monguzzi for the graphic image of the Republic of CantonTicino. In keeping with the rules of heraldry, in the black and white version, the red and blue shield would consist of vertical lines in the left half and horizontal lines in the right half. And in working on the design, it was as if Monguzzi enlarged the shield by expanding the format to the utmost, but at the same time reduced it to the vertical extreme. The result is that on the right there remains a single horizontal bar, while of the vertical bars on the left there remains a dynamic series of black squares.The squares and bars become elements of a very flexible system. And this dynamic virtuality enhances the typographic system not only with the “concretist” trait but also with a complementary “programmatic” character. In fact I am convinced that Monguzzi would be happiest to call himself a typographer rather than a graphic artist. And anyway, following El Lissitzky, he says more than once that he feels he is a “translator” rather than an author, a statement which coincides almost to the letter with saying that he feels he is a designer and not an artist. 6. I would like to conclude, though reluctantly, because we should really go on much longer, with a discussion of this discourse that sees Bruno Monguzzi in the guise of the designer. But, as Boggeri taught us, he is a “design director” (on the model of the term “art director”). And then he is a designer who designs communicational artefacts in all their technical and technological aspects. In our conversation he told me that as a boy he was convinced that a qualification in architecture (and, we might add, design) was a kind of Master’s degree gained after a Bachelor in Engineering. But on the side that we call directing, Monguzzi is also a consulting designer who supports the client as entrepreneur. In fact he often intervenes decisively in budgetary and hence financial issues. After all we have already seen him as that particular kind of product designer who designs editorial artefacts and graphic systems, and also as a consultant director in the publishing project. Even better, Monguzzi does not treat budgeting and technology as separate factors, but appropriately combines engineering with economics. More precisely he transforms the budgetary constraints, or rather the intrinsic poverty (goodness knows why interesting clients are always poor) into an idea, even into an original and attractive key motif. And he does so by exploring the very structure of the machinery and the flow of the production process, with his stratagems that leave the usual technicians flabbergasted. Here, too, there are various examples. For Andres Pfaeffli’s film Terra bruciata, Monguzzi invented a single solution to be used for two key artefacts: the flier and the cover to be inserted in the cartridge of the recording tape.The band packed with information (the title and all the data) was presented horizontally in the flier and vertically on back of the case. But the economy, the less is more, which also cuts costs, was really complete in this case. The project, conceived for the dimensions of the case, then also became the flier: without changing a single detail it was expanded up to the large poster size. And again the small posters for Simposi clinici andTeatro San Materno.These projects present a similar approach to printing, the intention is to produce a poster and a concertina leaflet at the same time. The cleverness consists in arranging the content in two separate vertical strips: the front and the back of the leaflets.The layout is organised to allow for the two strips to be combined into a single poster.1 The last of these examples is a virtuoso development of a similar strategy. It was a triptych devoted to “Free Freedom, Festival di cultura e musica jazz” (2008). Here too, Monguzzi used allusions.To express “Freedom” figuratively he mounted at the lower right an image ofTommie Smith and John Carlos with

1. Let’s assume we need 100 posters and 1000 concertina leaflets: we print the initial 100 sheets only on one side, then carry on printing the same plates recto and verso onto an additional 500 sheets. For this second set the result will be identical on both sides.

At this point we’re left with cutting the double-sided prints in half and to fold them to our requirements. In so doing we have obtained 100 posters and 1000 concertina leaflets with only 600 sheets—all printed within the same press-pass.


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E più precisamente trasforma il vincolo budgetario, o piuttosto la intrinseca povertà (chissà perché i committenti interessanti sono sempre poveri?), in spunto, anzi in motivo chiave, originale, attraente. E lo fa, interrogando proprio con astuzie che lasciano a bocca aperta i tecnici abituali, proprio la struttura dei macchinari e il flusso del processo produttivo. Anche qui ci sono vari casi: per il film Terra bruciata, di Andres Pfaeffli, Monguzzi inventa un solo impianto offset da impiegare per due artefatti chiave: per il volantino e per lo stampato da inserire nel cartridge del nastro di registrazione. La fascia gremita di informazioni (il titolo e tutti i dati ) si presenta orizzontale nel volantino e verticale come dorsino della custodia. Ma l’economia, il less is more che riguarda anche i costi, è qui davvero completa. Il progetto, pensato per il formato della custodia, diventato poi anche volantino, senza cambiare di una virgola si espande fino al grande formato del manifesto. E ancora la locandina per i Simposi clinici (e quella per ilTeatro San Materno): un unico progetto e il medesimo impianto offset per produrre pieghevole e locandina. L’astuzia consiste nel distribuire il materiale informativo in due “fasce” verticali distinte: il fronte e il retro del pieghevole. Ma l’impostazione grafica è tale da poter affiancare queste due fasce per ottenere la locandina1. L’ultimo caso rappresenta uno sviluppo virtuosistico di questa strategia cartotecnica. Si tratta di un trittico, dedicato a Free Freedom, Festival di cultura e musica jazz (2008). Anche qui Monguzzi pratica il citazionismo, infatti per dire figuralmente Freedom monta in basso a destra l’immagine diTommie Smith e John Carlos saliti col pugno guantato alzato sul podio delle Olimpiadi di Città del Messico ’68, che si sovrappone, all’ombra del sassofonista, il quale enuncia invece “jazz”, tratta da una pagina realizzata da Franco Grignani per Alfieri & Lacroix negli anni sessanta. La procedura, o meglio il trucco tecnico-produttivo che genera risparmio nei costi materiali, è la seguente: per la stampa del trittico verranno impiegate sei lastre offset in tutto. Per la tiratura del poster F4 singolo se ne sono impiegate per intanto cinque: le lastre per quadricromia ciano, magenta, giallo e nero, più una lastra per il colore speciale grigio freddo, Pantone 536. E poi, nella versione-trittico, il poster singolo prende posto all’estrema destra. A esso si congiunge, andando verso sinistra, il poster di mezzo che necessita della sesta lastra (non con le bande nere frammentate, ma con bande nere lunghe che attraversano il formato). E da qui in poi il nero si combina con le lastre ciano, magenta e giallo. Quest’ultimo poster verrà però affisso capovolto per mascherare la noia della ripetizione. Letta così, la descrizione appare un poco ostica e criptica nella sua aderenza alle astuzie funzionali. Ma voi lettori non curatevene, e fatevi travolgere dalla magia del ritmo sincopato degli strike, i quali determinano un ambiente, uno spazio-tempo sonoro, o meglio sinestesico, dove affiorano note cromatiche timbriche, che sbocciano dal fondo, si fanno avanti in stereofonia, fioriscono e svaniscono. Mi pare che rappresenti per questa festa del cinquantenario il perfetto finale pirotecnico.

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1. Servono, poniamo, 100 locandine e 1000 pieghevoli. Si stampano 100 locandine e si prosegue la stampa per altri 500 fogli. Si gira la mazzetta di 500 fogli, e si rimette in macchina. In altre parole si ristampa sul retro ciò che si è appena stampato sul

fronte. A questo punto si tagliano i 500 fogli a metà sul lato corto e si piega a fisarmonica. In questo modo abbiamo ottenuto 100 locandine e 1000 pieghevoli con solo 600 fogli, stampati con un unico avviamento.


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gloved fists raised on the podium at the ‘68 Olympics in Mexico City and superimposed it on the shadow of the saxophonist, who enunciates “jazz”, taken from a page created by Franco Grignani for Alfieri & Lacroix in the sixties. But the procedure, the technico-productive stratagem that yields savings in material costs, was the following. Six offset plates were used to print the triptych. So five were used to print the single F4 poster: the four-color plates for cyan, magenta, yellow and black, plus a plate for cool grey, Pantone 536. And then, in the triptych version, the single poster took its place on the far right. It was joined, reading from the left, to the middle poster which required the sixth plate (not with the broken black bands but long black bands running across the format). And from here on the black was combined with the cyan, magenta and yellow plates. And finally, on the far left, again the second black, with only cyan and yellow, which was, however, placed upside down, to avoid the tedium of repetition. Read in this way the description may sound rather daunting and cryptic in its adoption of functional devices. But you should study it and let it sweep you away with the magic of the syncopated rhythm of the strikes, which determine an environment, a space-time audio, or better synaesthesia, in which tonal color notes appear, unfurling from the bottom and moving forward stereophonically, blooming and vanishing. This strikes me as the perfect final fireworks display for this fiftieth anniversary celebration.


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24 Repubblica e CantoneTicino. Immagine coordinata, 1991.

24 Republic of CantonTicino. Corporate identity, 1991.


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Tavole a colori

Color plates


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1961

1, 2 Worshipful Company of Goldsmith, Londra ‘International Exhibition of Modern Jewellery’ con Alan Irvine e Dennis Bailey 3 –7 Cataloghi, 21 x 14,8 cm

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Worshipful Company of Goldsmith, London ‘International Exhibition of Modern Jewellery’ with Alan Irvine and Dennis Bailey Catalogs, 21 x 14.8 cm

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1961

1969

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8 Pirelli, Milano imballaggio per guanti satinati 10,6 x 33 cm 9 Logo Pirelli General cavi elettrici, primo schizzo 10 Imballaggio per tiralatte, primo studio 11 Logo

Pirelli, Milan Packaging for rubber gloves 10.6 x 33 cm Logo Pirelli General electrical cables, first sketch Study for breast milk pump packaging Logo

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1962

12–14 ‘Ronicol, Ronicol Compositum’ Roche, Milano pieghevole 16, 3 x 97 cm 15 De Bortoli Arredamenti Varese logo

‘Ronicol, Ronicol Compositum’ Roche, Milan Fold-out brochure 16.3 x 97 cm De Bortoli Arredamenti Varese Logo

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1963 1962

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16 Gavina, Milano annuncio per riviste 31 x 24 cm 17 Tecnes, Milano logo

Gavina, Milan Magazine Advertisement 31 x 24 cm Tecnes, Milan Logo

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1963

18 IBM Italia, Milano annuncio per quotidiani 28,5 x 41,5 cm

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IBM Italy, Milan Newspaper Advertisement 28.5 x 41.5 cm

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1967

19–23 ‘Man the provider’ nove padiglioni tematici Expo ’67, Montréal

‘Man the provider’ Nine Theme pavilions Expo ’67, Montreal

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1967

24–25 Expo ’67, Montréal ‘Man the provider’ nove padiglioni tematici 26 Canadian Communication Center immagine aziendale

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Expo ’67, Montreal ‘Man the provider’ Nine Theme pavilions Canadian Communication Center Corporate identity

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27 ‘Amici di Brera’ manifesto, 140 x 100 cm 28 Pinacoteca di Brera, Milano ‘Raffaello’ manifesto, 100 x 70 cm

‘Amici di Brera’ Poster, 140 x 100 cm Pinacoteca di Brera, Milan ‘Raffaello’ Poster, 100 x 70 cm

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1974 1975 1972

29–32 Pizzi Editore, Milano collana‘progetto immagine’ 19 x 12, 4 cm 33 A.Tonolli & C., Milano logo 34 Pirelli, Milano annuncio per riviste 31,5 x 23 cm

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Pizzi Editore, Milan Collection‘progetto immagine’ 19 x 12.4 cm A.Tonolli & C., Milan Logo Pirelli, Milan Advertisement 31.5 x 23 cm

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1973

35–41 ‘Caravaggio’ Palazzo della Ragione Bergamo mostra didattica itinerante con Roberto Sambonet e Giancarlo Ortelli

‘Caravaggio’ Palazzo della Ragione Bergamo Didactic traveling exhibition with Roberto Sambonet and Giancarlo Ortelli

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1975

42–44 ‘Sacro e profano nella pittura di Bernardino Luini’ Luino mostra didattica con Roberto Sambonet e Giancarlo Ortelli

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‘Sacro e profano nella pittura di Bernardino Luini’ Luino Didactic exhibition with Roberto Sambonet and Giancarlo Ortelli

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1980

45 Città di Milano ‘di mano in mano...’ Per l’assistenza delle vittime del terremoto in Irpinia manifesto, 98 x 140 cm

City of Milan ‘di mano in mano...’ For the assistance of earthquake victims in Irpinia Poster, 98 x 140 cm

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1977

46 Pinacoteca di Brera, Milano ‘Processo per il Museo-Brera’ manifesto, 138 x 98 cm foto: Guia Sambonet 47 Allestimento con Roberto Sambonet e Giancarlo Ortelli

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Pinacoteca di Brera, Milan ‘Processo per il Museo-Brera’ Poster, 138 x 98 cm Photo: Guia Sambonet Exhibit design with Roberto Sambonet and Giancarlo Ortelli

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1975

48 Castello Sforzesco, Milano ‘Majakovskij, Mejerchol’d, Stanislavskij’ manifesto, 95 x 68,3 cm 49–52 Catalogo, 24 x 22 cm

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Castello Sforzesco, Milan ‘Majakovskij, Mejerchol’d, Stanislavskij’ Poster, 95 x 68.3 cm Catalog, 24 x 22 cm

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1968

1971

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53–60 Jaca Book, Milan Jaca Book, Milan ‘Piccola serie’ ‘Piccola serie’ 20,3 x 12,6 cm 20.3 x 12.6 cm 61–65 ‘Saggi, Saggi xxs’ ‘Saggi, Saggi xxs’ 23 x 14 cm 23 x 14 cm 66 Meroni Carte da parati, Milano Meroni Carte da parati, Milan logo Logo

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1977

67 Sambonet, Vercelli ‘RStset’ imballaggi con Roberto Sambonet e Mario Zachetti 68–71 Catalogo, 22 x 21 cm foto: Serge Libis e Bruno Monguzzi

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Sambonet, Vercelli ‘RStset’ Packaging with Roberto Sambonet and Mario Zachetti Booklet, 22 x 21 cm Photos: Serge Libis and Bruno Monguzzi

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1977

72 Sambonet, Vercelli ‘RStset’ catalogo, 22 x 21 cm foto: Serge Libis e Bruno Monguzzi

Sambonet, Vercelli ‘RStset’ Booklet, 22 x 21 cm Photos: Serge Libis and Bruno Monguzzi

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1978

73 Casa del Mantegna, Mantova ‘Della pazzia’ manifesto, 100 x 70 cm 74–77 M’Arte Edizioni, Milano ‘Della pazzia’ portfolio, 48 x 32,3 cm

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Casa del Mantegna, Mantova ‘Della pazzia’ Poster, 100 x 70 cm M’Arte Edizioni, Milan ‘Della pazzia’ Portfolio, 48 x 32.3 cm

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1979

78 ‘Leonardo’ Gabriele Capelli Editore Mendrisio libro per bambini 21 x 21 cm

‘Leonardo’ Gabriele Capelli Editore Mendrisio Children book 21 x 21 cm

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1981

79–85 Nidasio Arti Grafiche, Milano opuscolo promozionale 29,7 x 21,5 cm foto: Bruno Monguzzi

Nidasio Arti Grafiche, Milan Promotional brochure 29.7 x 21.5 cm Photos: Bruno Monguzzi

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1977 1969 1979

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86 Centro Macondo, Milano logo, con Roberto Sambonet 87 ‘Università: problemi e proposte’ cartelletta, 31 x 22 cm 88 Verreries Mécaniques Champenoises logo

Centro Macondo, Milan Logo, with Roberto Sambonet ‘Università: problemi e proposte’ Folder, 31 x 22 cm Verreries Mécaniques Champenoises Logo

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1969 1979 1980

89 Gamma Film, Milano logo 90 Iga 83, Internationale Gartenbauausstellung, Monaco logo 91 ‘Linea Grafica’, Milano copertina, 29,7 x 23,5 cm foto: Antonio Boggeri

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Gamma Film, Milan Logo Iga 83, Internationale Gartenbauausstellung, Munich Logo ‘Linea Grafica’, Milan Cover, 29.7 x 23.5 cm Photo: Antonio Boggeri

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1987

1991

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92 ‘Quotidiano’ Lugano con Ray Knobel, Sabina Oberholzer e Renato Tagli 93 Al Castello Produzioni Cinematografiche, Arzo immagine coordinata

‘Quotidiano’ Lugano with Ray Knobel, Sabina Oberholzer and Renato Tagli Al Castello Film Productions, Arzo Corporate Identity

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1986

94–96 Musée d’Orsay, Parigi segnaletica, con Gae Aulenti, Roberto Ostinelli, Gérard Plénacoste e Jean Widmer 97, 98 manifesti per l’apertura 300 x 400 cm, 120 x 180 cm foto: Jacques-Henri Lartigue

Musée d’Orsay, Paris Signage, with Gae Aulenti, Roberto Ostinelli, Gérard Plénacoste and Jean Widmer Posters for the opening 300 x 400 cm, 120 x 180 cm Photo: Jacques-Henri Lartigue

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1991

99–105 Banca Nazionale Svizzera Concorso su invito per una nuova serie di banconote

Federal Reserve of Switzerland Invited competition for a new banknote series

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L’abbinata tra il taglio della banconota e la personalità, data nel bando, è stata in parte cambiata onde rispettare una logica successione basata sulla data di nascita. La nuova sequenza proposta va dunque da Alberto Giacometti, nato nel 1901 e ritratto all’età di 21 anni, per concludersi con Jakob Burckhardt, nato nel 1818 e ritratto all’età di 74 anni.

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The given random pairing of personality and bill denomination was changed to create a logical sequence based on the date of birth.Thus the series begins with Alberto Giacometti, born in 1901 and photographed at the age of 21, and ends with Jakob Burckhardt, born in 1818 and photographed at the age of 74.

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1989–91 106–109 ‘Abitare’, Milan ‘Abitare’, Milan tre copertine e una doppia Three covers and a double pagina, 30 x 23,5 cm spread, 30 x 23.5 cm 110 ‘Il Ticino nella pittura europea’ ‘Il Ticino nella pittura europea’ Museo Cantonale d’Arte Museo Cantonale d’Arte Lugano Lugano manifesto, 128 x 90,5 cm Poster, 128 x 90.5 cm

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1987

111 Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Il Ticino e i suoi fotografi’ manifesto, 128 x 90,5 cm

Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Il Ticino e i suoi fotografi’ Poster, 128 x 90.5 cm

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1989

112, 113 Kunsthaus, Zurigo ‘Photographie aus der Sowjet Union’ invito, 21 x 14,8 cm 114 Manifesto, 128 x 90,5 cm foto: S.C. Raoult, Pjotr Orup

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Kunsthaus, Zurich ‘Photographie aus der Sowjet Union’ Invitation card, 21 x 14.8 cm Poster, 128 x 90.5 cm Photos: S.C. Raoult, Pjotr Orup

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1988

115, 116 Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Les Noces’ manifesto, 128 x 90,5 cm 117 ‘Sophie Taeuber-Arp’ trittico, 128 x 271,5 cm

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Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Les Noces’ Poster, 128 x 90.5 cm ‘Sophie Taeuber-Arp’ Triptych, 128 x 271.5 cm

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1988

118 Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Pier Francesco Mola/Maestri del XX secolo’ manifesto, 128 x 90,5 cm

Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Pier Francesco Mola/Maestri del XX secolo’ Poster, 128 x 90.5 cm

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1981

1987

119 Associazione Nazionale Ragionieri Commercialisti Roma progetto per simbolo 120 ‘Hauser Johann’ un film di Heinz Bütler manifesto, 70 x 50 cm

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Associazione Nazionale Ragionieri Commercialisti Rome Study for symbol ‘Hauser Johann’ a film by Heinz Bütler Poster, 70 x 50 cm

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1991 122–124 Locandina e volantini 126 per vari seminari clinici 63 x 42, 21 x 21, 63 x 21 cm 121, 125 ‘Was geht mich der Frühling an...’ un film di Heinz Bütler manifesto, 128 x 90,5 cm

Poster and leaflets for medical symposiums 63 x 42, 21 x 21, 63 x 21 cm ‘Was geht mich der Frühling an...’ a film by Heinz Bütler Poster, 128 x 90.5 cm

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1990

127 Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Fausto Melotti/Melotti e Mulas’ trittico, 128 x 271,5 cm foto: Ugo Mulas

Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Fausto Melotti/Melotti e Mulas’ Triptych, 128 x 271.5 cm Photos: Ugo Mulas

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1990

128 Kunsthaus, Zurigo ‘Anwesenheit bei Abwesenheit. Fotogramme und die Kunst im 20. Jahrhundert’ manifesto, 128 x 90,5 cm fotogramma: Bruno Monguzzi

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Kunsthaus, Zurich ‘Anwesenheit bei Abwesenheit. Fotogramme und die Kunst im 20. Jahrhundert’ Poster, 128 x 90.5 cm Photogram: Bruno Monguzzi

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1990

129 Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Fausto Gerevini’ manifesto, 128 x 90,5 cm foto: Bruno Monguzzi

Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Fausto Gerevini’ Poster, 128 x 90.5 cm Photo: Bruno Monguzzi

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1991

130 Progetto per simbolo, 131–134 pieghevole e locandine per seminari clinici 63 x 21 cm, 63 x 42 cm foto: Werner Bischof

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Medical Symposiums Study for symbol and fold-out brochures and posters 63 x 21 cm, 63 x 42 cm Photo: Werner Bischof

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1989

135 Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Alberto Flammer/Flavio Paolucci’ trittico, 128 x 271,5 cm foto: Alberto Flammer

Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Alberto Flammer/Flavio Paolucci’ Triptych, 128 x 271.5 cm Photo: Alberto Flammer

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1992

136 Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Museo d’arte e architettura’ manifesto, 128 x 90,5 cm

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Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Museo d’arte e architettura’ Poster, 128 x 90.5 cm

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1989 137, 140 Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Nando Snozzi’ manifesto, 128 x 90,5 cm 1991 138 ‘Lyonel Feininger’ catalogo, 28 x 25 cm 139 Manifesto, 128 x 90,5 cm

Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Nando Snozzi’ Poster, 128 x 90.5 cm ‘Lyonel Feininger’ Catalog, 28 x 25 cm Poster, 128 x 90.5 cm

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1991

141 Museo Cantonale d’Arte Museo Cantonale d’Arte Lugano Lugano ‘Florence Henri/Lucia Moholy’ ‘Florence Henri/Lucia Moholy’ manifesto, 128 x 90,5 cm Poster, 128 x 90.5 cm foto: Bruno Monguzzi Photo: Bruno Monguzzi

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1991 142–145 Museo Cantonale d’Arte Museo Cantonale d’Arte Lugano Lugano ‘Florence Henri/Lucia Moholy’ ‘Florence Henri/Lucia Moholy’ catalogo, 28 x 23 cm Catalog, 28 x 23 cm 146–148 Invito, 10,5 x 21 cm Invitation card, 10.5 x 21 cm

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1992

149 Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Gli anni Ottanta e Novanta nella collezione Panza di Biumo’ trittico, 128 x 271,5 cm 150–152 Invito, 10,5 x 21 cm

Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Gli anni Ottanta e Novanta nella collezione Panza di Biumo’ Triptych, 128 x 271.5 cm Invitation card, 10.5 x 21 cm

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1992 153, 154 Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Luciano Rigolini/Adriana Beretta’ manifesto, 128 x 90,5 cm foto: Bruno Monguzzi

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Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Luciano Rigolini/Adriana Beretta’ Poster, 128 x 90.5 cm Photo: Bruno Monguzzi

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1993 155, 157 Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Da Dürer a Klee/Roberto Donetta’ manifesto, 128 x 90,5 cm 1994 156 ‘Jean-Baptiste Camille Corot’ trittico, 128 x 271,5 cm

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Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Da Dürer a Klee/Roberto Donetta’ Poster, 128 x 90.5 cm ‘Jean-Baptiste Camille Corot’ Triptych, 128 x 271.5 cm

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1994

158 Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Botta/Cucchi’ manifesto, 128 x 90,5 cm 1995 159, 160 ‘Livio Bernasconi/ Hans Knuchel’ manifesto, 128 x 90,5 cm

Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Botta/Cucchi’ Poster, 128 x 90.5 cm ‘Livio Bernasconi/ Hans Knuchel’ Poster, 128 x 90.5 cm

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1996 161–163 Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Sguardi sulla Collezione’ 21 x 15 cm 1987 164–170 Alice Edizioni, Lugano sette collane 20,5 x 12,5 cm, 23 x 14 cm

Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Sguardi sulla Collezione’ series 21 x 15 cm Alice Edizioni, Lugano Seven collections 20.5 x 12.5 cm, 23 x 14 cm

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1995

171 Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Donazione Panza di Biumo’ manifesto, 128 x 90,5 cm

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Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Donazione Panza di Biumo’ Poster, 128 x 90.5 cm

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1998

172 Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Fragile’ manifesto, 128 x 90,5 cm 173–177 Catalogo con quartini sciolti, copertina, custodia e scheda di ordinazione 24 x 22 cm, 21 x 10,5 cm

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Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Fragile’ Poster, 128 x 90.5 cm Catalog with loose folders, cover, box and order form 24 x 22 cm, 21 x 10.5 cm

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1998

178 Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Kandinsky nelle collezioni svizzere’ trittico, 128 x 271,5 cm, 180 Manifesto, 128 x 90,5 cm 179 ‘Il Ticino e San Pietroburgo’ manifesto, 128 x 90,5 cm

Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Kandinsky nelle collezioni svizzere’ Triptych, 128 x 271.5 cm, Poster 128 x 90.5 cm ‘Il Ticino e San Pietroburgo’ Poster, 128 x 90.5 cm

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1996

181 Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Odilon Redon’ manifesto, 128 x 90,5 cm 182 ‘Itinerari sublimi’ manifesto, 128 x 90,5 cm

Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Odilon Redon’ Poster, 128 x 90.5 cm ‘Itinerari sublimi’ Poster, 128 x 90.5 cm

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1997

184 Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Rembrandt’ manifesto, 128 x 90,5 cm 2001 183, 185 ‘Buren, Chamberlain, Cragg, Merz, Paolini’ trittico, 128 x 271,5 cm

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Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Rembrandt’ Poster, 128 x 90.5 cm ‘Buren, Chamberlain, Cragg, Merz, Paolini’ Triptych, 128 x 271.5 cm

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2001

1998

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186 Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Ex voto’ trittico, 128 x 271,5 cm 187 ‘Rabisch’ manifesto, 128 x 90,5 cm

Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Ex voto’ Triptych, 128 x 271.5 cm ‘Rabisch’ Poster, 128 x 90.5 cm

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1998

189 Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Video Art 66-96’ manifesto, 128 x 90,5 cm

Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Video Art 66-96’ Poster, 128 x 90.5 cm

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2001 188, 190 Musée Toulouse-Lautrec Albi ‘Nouveau Salon des Cent’ manifesto, 100 x 70 cm

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Musée Toulouse-Lautrec Albi ‘Nouveau Salon des Cent’ Poster, 100 x 70 cm

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1999

191 Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Collezione permanente XIX e XX secolo’ trittico, 128 x 271,5 cm

Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Collezione permanente XIX e XX secolo’ Triptych, 128 x 271.5 cm

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1999

192 Museo Cantonale d’Arte Galleria Gottardo Lugano ‘Fotografie in una collezione privata’ manifesto, 128 x 90,5 cm

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Museo Cantonale d’Arte Galleria Gottardo Lugano ‘Fotografie in una collezione privata’ Poster, 128 x 90.5 cm

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2000

194 Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Consonanze’ manifesto, 128 x 90,5 cm 193, 195 ‘Domela’ trittico, 128 x 271,5 cm

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Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Consonanze’ Poster, 128 x 90.5 cm ‘Domela’ Triptych, 128 x 271.5 cm

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2005 196–199 Edizioni dell’acero blu Modino ‘Ruth Moro’ catalogo, 22,3 x 22,3 cm

Edizioni dell’acero blu Modino ‘Ruth Moro’ Catalog, 22.3 x 22.3 cm

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verità monte

2005 200–206 Manoir de la ville de Martigny ‘Ruth Moro, Giancarlo Moro’ due cataloghi, 22,3 x 22,3 cm 207 Fondazione Monte Verità logo con Ray Knobel, Sabina Oberholzer e Renato Tagli

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Manoir City of Martigny ‘Ruth Moro, Giancarlo Moro’ Two catalogs, 22.3 x 22.3 cm Fondazione Monte Verità Logo with Ray Knobel, Sabina Oberholzer and Renato Tagli

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2001

208 Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Da Kandinsky a Pollock. La vertigine della non-forma’ trittico, 128 x 271,5 cm

Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Da Kandinsky a Pollock. La vertigine della non-forma’ Triptych, 128 x 271.5 cm

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2001 1996

209 Foto Forum, San Gallo ‘Luciano Rigolini’ manifesto, 87 x 62 cm 210 Virginia Tech, Blacksburg ‘Ferrari Symposium’ manifesto, 80 x 54 cm

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Foto Forum, St. Gallen ‘Luciano Rigolini’ Poster, 87 x 62 cm Virginia Tech, Blacksburg ‘Ferrari Symposium’ Poster, 80 x 54 cm

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2002

211 Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Arte africana/Han Coray’ trittico, 128 x 271,5 cm 212 Pieghevole, 21 x 10,5 cm

Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘Arte africana/Han Coray’ Triptych, 128 x 271.5 cm Leaflet, 21 x 10.5 cm

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2002

213 Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘L’immagine ritrovata’ pieghevole, 21 x 10,5 cm 214 Manifesto, 128 x 90,5 cm

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Museo Cantonale d’Arte Lugano ‘The image regained’ Leaflet, 21 x 10.5 cm Poster, 128 x 90.5 cm

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2002 215, 216 ‘Chiasso Teatro’ gennaio–giugno ’02 manifesto, 128 x 90,5 cm 217 ‘Chiasso Cultura’ gennaio–giugno ’02 trittico, 128 x 271,5 cm

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‘Chiasso Teatro’ January­– June ’02 Poster, 128 x 90.5 cm ‘Chiasso Cultura’ January­– June ’02 Triptych, 128 x 271.5 cm

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2003

218 ‘Chiasso Cultura’ gennaio–giugno ’03 trittico, 128 x 271,5 cm 219 ‘Chiasso Danza’ manifesto, 128 x 90,5 cm

‘Chiasso Cultura’ January–June ’03 Triptych, 128 x 271.5 cm ‘Chiasso Danza’ Poster, 128 x 90.5 cm

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2005

2003

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220 GGG Gallery, Tokyo ‘Swiss Poster Art’ manifesto, 103 x 72,8 cm foto: Herbert Matter 221 Sala Diego Chiesa, Chiasso ‘La luce incisa’ manifesto, 128 x 90,5 cm foto: Paul Strand

GGG Gallery, Tokyo ‘Swiss Poster Art’ Poster, 103 x 72.8 cm Photo: Herbert Matter Sala Diego Chiesa, Chiasso ‘La luce incisa’ Poster, 128 x 90.5 cm Photo: Paul Strand

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2005

222 Spazio Officina, Chiasso ‘Flor Garduño’ manifesto, 128 x 90,5 cm foto: Flor Garduño 223 ‘Chiasso Cultura’ settembre–dicembre ’05 trittico, 128 x 271,5 cm

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Spazio Officina, Chiasso ‘Flor Garduño’ Poster, 128 x 90.5 cm Photo: Flor Garduño ‘Chiasso Cultura’ September–December ’05 Triptych, 128 x 271.5 cm

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2008 2006

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224 ‘Chiasso Cultura’ gennaio–giugno ’08 trittico, 128 x 271,5 cm 225 Città di Chiasso ‘Festa nazionale’ manifesto, 128 x 90,5 cm foto: Nicolas Monguzzi

‘Chiasso Culture’ January–June ’08 Triptych, 128 x 271.5 cm City of Chiasso ‘Festa nazionale’ Poster, 128 x 90.5 cm Photo: Nicolas Monguzzi

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2005 2007

226 Città di Chiasso ‘Festate’ manifesto, 128 x 90,5 cm 227 ‘Festate’ trittico, 128 x 271,5 cm

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City of Chiasso ‘Festate’ Poster, 128 x 90.5 cm ‘Festate’ Triptych, 128 x 271.5 cm

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2006 228–233 Città di Chiasso Casagrande Editore Bellinzona ‘Jean-Pierre Pedrazzini URSS–Budapest 1956’ catalogo, 28 x 28 cm

City of Chiasso Casagrande Editore Bellinzona ‘Jean-Pierre Pedrazzini URSS–Budapest 1956’ Catalog, 28 x 28 cm

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2006

234 Città di Chiasso Casagrande Editore Bellinzona ‘Jean-Pierre Pedrazzini URSS–Budapest 1956’ catalogo, 28 x 28 cm

City of Chiasso Casagrande Editore Bellinzona ‘Jean-Pierre Pedrazzini URSS–Budapest 1956’ Catalog, 28 x 28 cm

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2006 235–237 Città di Chiasso Casagrande Editore Bellinzona ‘Jean-Pierre Pedrazzini URSS–Budapest 1956’ catalogo, 28 x 28 cm

City of Chiasso Casagrande Editore Bellinzona ‘Jean-Pierre Pedrazzini URSS–Budapest 1956’ Catalog, 28 x 28 cm

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2007 238, 239 Ente Ospedaliero Cantonale ‘Rivista per le Medical Humanities’ 24 x 17 cm foto: Ferdinando Scianna 2010 240 Fondazione Donetta, Casserio ‘René Burri.Blackout-NewYork’ manifesto, 128 x 90,5 cm

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Ente Ospedaliero Cantonale ‘Rivista per le Medical Humanities’ 24 x 17 cm Photo: Ferdinando Scianna Fondazione Donetta, Casserio ‘René Burri.Blackout-NewYork’ Poster, 128 x 90.5 cm

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2008

2009

241 Chiasso Jazz Spazio Officina, Chiasso ‘Free Freedom’ manifesto, 128 x 90,5 cm 242 ‘Buchi neri’ trittico, 128 x 271,5 cm

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Chiasso Jazz Spazio Officina, Chiasso ‘Free Freedom’ Poster, 128 x 90.5 cm ‘Buchi neri’ Triptych, 128 x 271.5 cm

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2009 243, 246 Spazio Officina, Chiasso Spazio Officina, Chiasso ‘Bi6 Biennale dell’immagine’ ‘Bi6 Biennale dell’immagine’ trittico, 128 x 271,5 cm Triptych, 128 x 271.5 cm foto: Mimmo Jodice Photo: Mimmo Jodice 244 rivista ‘Chiasso_so’, 46 x 33 cm Magazine ‘Chiasso_so’, 46 x 33 cm con Gaia Bartolucci, CCRZ with Gaia Bartolucci, CCRZ foto: Giovanni Chiaramonte Photo: Giovanni Chiaramonte

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2007

245 Spazio Officina, Chiasso ‘Francine Mury’ trittico, 128 x 271,5 cm

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Spazio Officina, Chiasso ‘Francine Mury’ Triptych, 128 x 271.5 cm

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2011 247, 252 Teatro San Materno Ascona Stagione primavera/estate manifesto, 128 x 90,5 cm 248 Locandina, 32,5 x 65 cm foto: Agneza Dorkin, Edoardo Oppliger

Teatro San Materno Ascona Spring/Summer Programme Poster, 128 x 90.5 cm Playbill, 32.5 x 65 cm Photo: Agneza Dorkin, Edoardo Oppliger

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2010 249–251 Teatro San Materno Ascona Stagione primavera/estate pieghevole e locandina 16,25 x 65 cm, 32,5 x 65 cm foto: Lux Feininger

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Teatro San Materno Ascona Spring/Summer Programme Fold-out brochure and playbill 16.25 x 65 cm, 32.5 x 65 cm Photo: Lux Feininger

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Qual è la tua definizione di design? Il processo intellettuale e pragmatico atto a dare forma appropriata a una data funzione. E quella di tipografia? Il prodotto tipografico è semplicemente il veicolo attraverso il quale la parola può essere vista, letta e capita—se va bene—e possibilmente memorizzata. È la risposta che ho dato un paio di anni fa al redattore del numero speciale sulla tipografia della rivista giapponese Idea. Dieci anni fa, per il libro di Ruedi Rüegg BasicTypography: Design with Letters, avevo invece citato El Lissitzkij:“La plastica tipografica deve fare attraverso l’ottica ciò che la voce e il gesto dell’oratore fanno per l’espressione dei suoi pensieri”1, notando che l’assimilazione del lavoro del tipografo con quello del recitante mi sembrava la provocazione più rilevante e intelligente nei confronti dei giovani studenti, spesso smarriti nei meandri delle mode, oltre i confini del comunicare. Alcuni sostengono che ci sia un solo modo di fare tipografia e che questo “modo”, onde avere una “propria” personalità, debba conformarsi a un certo “stile” che i critici, eventualmente, etichetteranno con una o due parole. Il problema sorge quando lo spettro del messaggio è più grande della cruna dell’ago. Gli elementi basilari della comunicazione visiva sono la parola e l’immagine. Puoi descrivere il tuo pensiero in relazione all’utilizzo di parola e immagine nel tuo lavoro? Le parole e le immagini sono mezzi e i mezzi sono finalizzati al raggiungimento dello scopo. La mia prima considerazione è sempre relativa alla rilevanza dell’ipotetico significante, parola o immagine che sia.Non vedo molto senso nelle ricerche estetiche che non siano pertinenti con il messaggio e che spesso si appiattiscono su una sintassi preconcetta, reiterando la moda corrente. Il prodotto finale deve portare il “marchio” del designer? L’oggetto comunicazionale dovrebbe innanzitutto portare il “marchio” del committente, non quello del progettista. Associo il nostro lavoro al lavoro del traduttore, o, come ha fatto El Lissitzkij nel ‘25, a quello dell’attore. Naturalmente l’attore ha un corpo e una voce, ma li “presta” al personaggio cui deve dare vita. Le forti personalità sono spesso associate a uno specifico stile. Ora, in ogni forma di comunicazione, il “come” è imprescindibile dal “che cosa”; di fatto è proprio in relazione a questa connessione che viene a determinarsi l’eventuale qualità/originalità del messaggio. Nel lavoro dello sterminato gruppo dei seguaci—in Italia si potrebbe dire dei falsi discepoli—la connessione tra “cosa” e “come” è spesso debole, a volte inesistente, e scivola così nel mero formalismo. La forma deve derivare dall’analisi della funzione? Sì. Nella comunicazione visiva la forma dovrebbe derivare dal contenuto e dallo scopo del messaggio. Suppongo sia ciò che tu intendi con analisi della funzione. Questa “dipendenza” è un’attitudine molto produttiva.Ti porta spesso a risposte “indipendenti” che non si trovano nella scatola delle soluzioni preconfezionate. La disciplina del design deve preoccuparsi di stile e/o di risolvere i problemi? Naturalmente si tratta di una disciplina pratica. Lo stile, nel nostro caso, ha a che fare con la qualità della comunicazione che risulta da un uso particolare degli elementi linguistici. La doppia domanda è pleonastica; lo stile è implicito, come dicevo il come definisce il che cosa. Il design è un’espressione dell’arte? C’è una relazione tra arte e design? Il desing persegue obiettivi industriali? Di fatto è parte di un processo industriale. Se abbia una relazione con l’arte o no mi è difficile dirlo, il termine arte non sembra peraltro avere un significato univoco. In italiano, ad esempio, quando si parla

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1. El Lissitzkij, Fatti tipografici, da Scritti in onore di Gutenberg, Mainz 1925, in Sophie Lisitskij-Küppers, El Lisitskij, Pittore, Architetto,Tipografo, Fotografo, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 349.

Cinquant’anni di “funzionalismo magico” Una discussione con Bruno Monguzzi di Franc Nunoo-Quarcoo Meride e Baltimora 1997, 1998, 2011

Parti di questa intervista sono state pubblicate in FrancNunoo-Quarcoo, Word+Image: Swiss Poster Design 1955-1997, Baltimore 1997; Franc Nunoo-Quarcoo, Bruno Monguzzi. A Designer’s Perspective, Baltimore 1998; “Temporale”, 48-49, Lugano 1999.


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Fifty years of “magic functionallism” A discussion with Bruno Monguzzi by Franc Nunoo-Quarcoo Meride and Baltimora 1997, 1998, 2011

Parts of this interview have appeared in Franc Nunoo-Quarcoo, Word+Image: Swiss Poster Design 1955–1997, Baltimore, 1997; Franc Nunoo-Quarcoo, Bruno Monguzzi. A Designer’s Perspective, Baltimore, 1998; Temporale, 48–49, Lugano, 1999.

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What is your definition of design? The intellectual and pragmatic process aimed at giving an appropriate form to a given function. And what is your definition of typography? Typographic design is simply the vehicle through which words can be seen, read, and understood. Hopefully. And possibly memorized.This is what I had answered a couple of years ago to the editor of the Idea magazine special issue on typography.Ten years ago, for Ruedi Rüegg’s BasicTypography: Design with letters, I had quoted Lissitzky: “Typographical design should perform optically what the speaker creates through voice and gesture for the expression of his thoughts”,1 mentioning that this assimilation of the work of the typographer with that of the orator seemed to me the most relevant and intelligent provocation for young students, often sidetracked in the maze of fashion beyond the confines of communication. Some people think there is only one way to do typography. And this “way”, in order to have a “proper” personality, has to conform to a given “style” that design critics will eventually label, possibly in one or two words.The problem arises when the spectrum of the communication is wider than the eye of the needle. The basic elements of visual communication areWord and Image. Could you describe your thoughts and approach to the use of typography and photography/illustration in your work? Words and images are means, and the means are instrumental for the attainment of the scope. What I question first is the relevance of the signifier I am planning to use, word or image that it may be. I do not see much sense or value in the aesthetic efforts that are not pertaining to the message and that often conform to a preconceived syntax, most commonly a reiteration of the current trend. Ought the final product to bear the trademark of the designer? The communication product should primarily bear the trademark of the sender. In a way, I liken our role to the role of the translator, or as Lissitzky did in 1925, to that of the actor. Of course the actor has a voice and a body, but he lends them to the character to which he is giving life. Strong personalities are sometimes associated to a very strong personal visual style. In every form of communication the “how” is intrinsically connected to the “what”, in fact it is within this “connection” that lies the quality, the originality of the message. In the work of the vast group of “followers” the connection to the “what”is often weak, sometimes even absent, leading to mere formalism. Ought form to derive from the analysis of function? Yes. In visual communication, form should be derived from the content and the scope of the message. I suppose this is what you mean when you mention the “analysis of function”.This way of being “dependent”is a very productive attitude. It leads you to “independent” answers. Independent from the prefabricated solutions box. Is design a discipline that should concern itself with problem-solving and/or style? Naturally design is a discipline concerned with problem-solving. Style has to do with the quality of the communication resulting from a particular use of the linguistic devices. So the double question is pleonastic; style is implicit, as I said the how defines the what. Is design an expression of art? Is there a relationship between design and art? Is design a craft for industrial purposes? Yes, design is in fact a craft for industrial purpose.Whether it has a relationship with art or not is difficult to say since the term “art” does not seem to have a univocal meaning. In Italian, for example, when we talk about “l’arte del comunicare”, we simply refer to the capacity of achieving effective communication, which, I admit, is not very common, but whether it is art or not, I would not know.

1. El Lissitzky, “TypographischeTatsachen”, from Gutenberg-Festschrift, Mainz,1925, in Sophie Lissitsky-Küppers, El Lissitsky, Maler, Architect,Typograf, Fotograf,VebVerlag der Kunst, Dresden, 1967, pp. 360, 361.


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dell’arte del comunicare, ci si riferisce semplicemente alla capacità di produrre comunicazione efficace. Ammetto che non è un fatto molto comune, ma se si tratti di arte o meno non saprei. Il computer può sostituire il designer? È nella natura stessa di ogni utensile sostituire in qualche modo qualcosa o qualcuno. Ma è necessaria una decisione umana affinché lo strumento faccia ciò che può fare nel modo in cui è bene che lo faccia. Sembra, però, che molti grafici si sentano oggi sollecitati a dimostrare le fantastiche possibilità del mezzo. Quando Zwart, nel 1931, disegnò per le stamperieTrio dell’Aia quella bellissima pagina dissemi1 nata di caratteri e corpi diversissimi, l’unica riga di testo intellegibile recitava:“una piccola selezione dalla nostra collezione di caratteri”2. Qual è il ruolo del computer nel processo progettuale? Il computer è una macchina. Sono in qualche modo sorpreso dall’interesse che questo mezzo ha suscitato. Per anni non si è parlato tanto degli strumenti. Adesso che ce n’è uno nuovo sembra quasi che l’utensile sia più interessante del prodotto e del suo messaggio. Confrontato con i mezzi precedenti il computer è in grado di fare più cose e più in fretta. È una macchina fantastica, ma è solo una macchina. Stupida o intelligente, appropriata o inadeguata, tanto quanto il progettista che le sta seduto di fronte. E altrettanto vulnerabile. Può essere infettata da un virus e può entrare in un subitaneo coma per un’improvvisa interruzione di corrente. Il computer ha cambiato il tuo modo di progettare? Potrei rispondere sì, e no. Potrei dire no perché il processo si fonda sulla metodologia, e la metodologia si nutre sempre di concrete possibilità. Ogni strumento rientra nel processo, si tratta di scegliere di volta in volta il più appropriato. Potrei dire sì perché ogni mezzo comporta delle costrizioni, e le costrizioni rientrano nelle regole del gioco. C’è un’etica del design? Direi piuttosto del designer. I nostri “credi” personali definiscono i nostri valori, e questi valori il comportamento. Siccome sto parlando a un designer potrei rispondere che qesti valori “disegnano” il nostro fare. In ogni caso siamo di fronte a una triplice responsabilità: verso la committenza, verso l’utenza, verso l’ambiente. “Ci sono naturalmente ruoli che non sono in grado di interpretare, e ci sono recite che non sono disposto a recitare”. Questa è la risposta che hai dato aValentina Boffa nell’intervista per “Eye” a proposito di scelte etiche3. Sarò più diretto: cosa pensi della pubblicità? “La pubblicità è nel migliore dei casi una tesi sostenuta da argomenti e portata avanti in modo suggestivo. Nel caso peggiore è una forma lecita di truffa.Tra i due estremi stanno innumerevoli sfumature. Non rimpiangerei il fatto che in un altro ordine economico la pubblicità diventasse superflua. Anche allora ci sarebbe per noi abbastanza lavoro. I libri di scuola sono quasi tutti tipograficamente scadenti; la tipografia e la fotografia sono mezzi educativi più importanti di quanto si voglia riconoscere. Proprio nei libri didattici sarebbe di grande importanza l’ordinamento corretto del testo e l’accentuazione della sua struttura interna mediante i mezzi tipografici”4. Questa risposta è di Piet Zwart, è del 1934. Posso rubarla? Naturalmente. Benché lui abbia subito spostato l’attenzione sul libro didattico. Infatti. Neanch’io non voglio essere trascinato nell’ottuso moralismo secondo cui la pubblicità è peccaminosa e la grafica virtuosa. Nella Scuola universitaria professionale che si sta costruendo inTicino perseguiamo due priorità. La comunicazione didattica, facendo interagire la nostra scuola con la Scuola magistrale, e l’information

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2. Pagina da un catalogo per la tipografia Trio dell’Aia, mai stampato. 3. Rick Poynor,Valentina Boffa, Reputations: Bruno Monguzzi, in “Eye”, 1, London 1990, pp. 8-16.

4. J. Kasander, Fotografie, tipografie, reclame/Gesprek met architect Piet Zwart, in “Contact”, 11, 1934, pp. 525526; in Bruno Monguzzi, Piet Zwart: l’opera tipografica,1923-1933, in “Rassegna”, 30, Bologna 1987, p. 17.


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Can the computer substitute for the designer? It is the nature of any tool to substitute something or someone in some way, but it always takes a human decision to make the tool do what it can do in the way it is supposed to do it. It seems, though, that many graphic designers feel compelled to demonstrate the fantastic range of possibilities of the tool. When Piet Zwart designed his beautiful page covered with all kinds of typefaces in all possible body 1 sizes, the only line that was readable read: “A small selection from our type collection.”2

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What is the role of the computer in the design process? The computer is a tool. From a critical standpoint, I am somehow surprised at the interest that this machine has generated. Before, we never talked about tools, you know, for years and years, no one fussed much about tools. Now that there is a new one, it seems that the tool is more important than the artifact and its message. It’s a fantastic tool and that’s it. It is as stupid or as intelligent, it is as appropriate or as inappropriate, as the designer that is sitting in front of it. And as vulnerable. It may get a virus or even enter into a coma due to an instant electrical failure. Has the computer affected your design process? I could say yes and no. So I have to explain. I could say no, it hasn’t changed because I think the design process is based on methodology, and methodology is nourished by concrete possibilities. Any tool is implemented into the design process, but I have to decide which tool is appropriate. I could say yes, because any tool determines some kind of constraint, and the constraints, in fact, determine the rules of the game. Is there a design ethic? I would say, instead, a designer’s ethic. Our personal beliefs define our personal values, and these values determine our behavior. I should answer, since I am talking to a designer, that these values“design” the way we design. In any case we are confronted with a three-fold responsibility: towards the client, towards the receiver, and towards the environment. “There are naturally roles that I am not able to play, and there are plays that I am not willing to interpret.” This is the answer you gave toValentina Boffa in the Eye interview about ethical choices.3 I will be more direct.What do you think about advertising? “Advertising, in the best of all possible cases, is a thesis sustained by proof and carried along in a suggestive way. In the worst case, it is a legal form of fraud.There are innumerable shades of gray between these two extremes… I wouldn’t lament the fact that in another economic system, advertising would become superfluous… Even then, there would be enough work for us. Almost every schoolbook is typographically poor; typography and photography are educational methods which are more important than people care to recognize. In fact, proper arrangement of text and the accentuation of its internal structure through the use of typography would be very important for educational books.”4 This is what Piet Zwart answered in 1934. May I steal his answer? Of course. Although he quickly changed to the subject of educational books. And so do I. I do not want to be dragged down into the moralistic war between advertising being “evil” and graphic design being “holy”. At the new professional university that we are developing inTicino, I am giving priority to didactic communication by associating our school with the institute that trains teachers.This is not because I have something against advertising; good products, of course, deserve good communication. It has to do with choosing to face the real, actual, and meaningful problems with which education is confronted at all levels, and to have real factual control over the attempted answers through testing by the actual users in the classrooms. Finally, it is also a way to escape the waste of so much energy in so many design schools.

2. Piet Zwart’s design was a page for theTrio type specimen catalogue. This collection was never printed. Trio was a printer in the Hague. 3. Rick Poynor,Valentina Boffa, “Reputations: Bruno Monguzzi”, London, Eye, 1, London, 1990, p.8.

4. J. Kasander, “Fotografie, tipografie, reclame/Gesprek met architect Piet Zwart”, in Contact, 11, 1934, in Bruno Monguzzi, “Piet Zwart: l’opera tipografica,1923 -1933”, in Rassegna, 30,Bologna, 1987, p.17.


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design collaborando con la Facoltà di scienze della comunicazione. Non perché contrari alla pubblicità, buoni prodotti necessitano di una buona immagine, ma per concentrarci sui problemi reali con cui l’educazione si confronta a tutti i livelli e per consentire una reale verifica dei progetti didattici attraverso fattive verifiche nelle classi. È anche un modo per evitare l’enorme spreco di energie che accomuna tante scuole di grafica. Parlami ancora del tuo processo progettuale. Segui sempre lo stesso cammino? Cosa succede dall’inizio alla fine? Quando affronto un problema grafico il processo è quello della comunicazione. a. Chi; b. che cosa; c. come. a. A chi si parla? Chi è l’interlocutore? b. Che cosa dobbiamo dire? La comunicazione, in ultima analisi, ha sempre a che fare con ciò che si desidera far succedere nella testa di qualcuno. Che tipo di “risposta” si intende sollecitare? E/o che tipo di informazione è necessario veicolare? c. Quali sono gli strumenti adeguati? E come vanno organizzati onde raggiungere lo scopo? Questi sono i passi. Ricordi un progetto che ne possa esemplificare il processo? Prendiamo Fragile, il manifesto per una mostra collettiva itinerante che raggruppava diciotto artisti di 158 tre paesi: Svizzera, Francia e Gran Bretagna. Gli artisti, molto diversi tra loro, erano stati selezionati perché, in qualche modo, figure “a margine”, o “periferiche” nei loro stessi paesi. Dunque, per tornare al processo, il pubblico interessato è tendenzialmente colto, curioso e sollecitato dall’arte. Ciò che voglio fare è intrigare, provocare, informare. I mezzi che ho usato sono: un carattere stencil ovviamente relazionato al termine “fragile” e all’itineranza; l’introduzione delle sigle GB, F e CH per veicolare immediatamente lo scopo internazionale dell’evento; la distribuzione di tutti i testi lungo il perimetro del manifesto per alludere alla “marginalità” degli artisti. Quest’ultima scelta ha determinato un campo sostanzialmente vuoto, piccola provocazione di grande visibilità, anticipatrice delle diciotto “provocazioni” in mostra. Non hai temuto che qualcuno usasse questo bianco? È ciò che disse Anna quando vide il bozzetto. Ma l’eventuale “dissacrazione” sarebbe divenuta un ulteriore prolungamento nella strada dello spirito della mostra. La sera dell’apertura, i manifesti erano affissi da cinque giorni, un artista mi confidò di averne visto uno con una grande scritta tracciata a mano. Mi chiese di indovinare. Io non avevo proprio idea.“Bello”, disse, e sembrava felice. Marco Franciolli mi ha detto che avevi proposto anche altre soluzioni. Solitamente non mi fermo alla prima idea.Tento di considerare diversi aspetti e il più delle volte ho elementi a sufficienza per decidere io stesso. Spesso spingo più soluzioni a uno stadio relativamente avanzato prima di decidere. A volte porto approcci diversi al museo. In questo caso mi era stata esposta la filosofia della mostra e il lavoro degli artisti spiegato solo a parole. La maggior parte di essi avrebbe prodotto nuove opere per ogni luogo. Quando iniziai a lavorare sul manifesto avevo solo poche immagini. Indagai perciò strade diverse, ritrovandomi con due idee fotografiche e una puramente tipografica. Feci uno schizzo delle scritte in carattere stencil e un secondo della prima idea fotografica: un grande uovo appena suggerito dall’ombra a definirne il lato destro e un accenno di sfondo a disegnarne in minima parte il lato sinistro. L’idea era che l’uovo fosse ricostituito 2 nella sua totalità a livello mentale partendo dal minimo indispensabile, un concetto di fragilità insito nel soggetto e nell’ambiguità percettiva. Anche per la terza soluzione avevo fatto ricorso all’uovo, posto

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What is your design process? Does it follow a particular or specific set of steps?What happens from beginning to end? When I am dealing with a graphic design problem, the process is simply the communication process. a. whom; b. what; c. how. a. To whom are you talking to?Who is your audience? b. What do you have to say? Communication is ultimately dealing with what you wish to happen in someone else’s mind. What kind of response are you trying to achieve? And, or, what kind of information do you need to pass on? c. And which are the appropriate devices? And how do you have to organize them in order to achieve this scope? These are the steps. 2

Can you think of a project that exemplifies your process? Let’s take Fragile, a poster for a collective travelling exhibition of eighteen young artists from three 158 countries: Switzerland, France, and England.These artists, all very different from one another, were selected because they all are, in some respect, marginal figures. Additionally, they are peripheral even within their own countries. So, to come back to the process, the public I’m addressing has some cultivation, curiosity, and an interest in art.What I want to do is to intrigue, to provoke, and to inform. The devices I have used are: the large stencil lettering obviously related to the term “fragile” and to travelling; the introduction of the marks GB, F, and CH, which stand for Great Britain, France and Confederatio Helvetica (which means Switzerland).This was meant to immediately communicate the international scope of the exhibition.The last device was to lay all the type around the periphery, an allusion to the marginality of the artists.This makes an almost empty poster with a lot of white space in the middle, a small provocative introduction to the eighteen provocations that you will be confronted with if you go to see the exhibition. Weren’t you afraid someone would use this empty space? In fact, this is what Anna said when she saw the final project. I told her I didn’t really mind if this would happen. I would see it as a kind of further promulgation of the spirit of the exhibition in the street. The evening of the opening, when the posters had been in the street for five days, one of the artists told me that on the way to the museum he had seen a Fragile poster with a large handwritten word on it. I said that one could expect this to happen.“Guess what they wrote?” he asked. I had no idea.“Bello”, he said. And he seemed pleased. Marco Franciolli mentioned that you had other solutions. Usually, I do not stop at the first idea. I try to consider different possibilities, and most of the time I have enough information to decide on my own. I often push different solutions to an advanced stage, and then make a choice. In some cases, I take the different proposals to the museum. In this case, I was explained the philosophy of the collective exhibition and was introduced to the work of some of the artists by general descriptions.When I actually started to work on the poster, Marco had slides of only a few of the eighteen artists. So I didn’t have a clear vision of what the exhibition was going to look like. I therefore started in different directions, ending up with one idea based solely on text, and two photographic concepts. I made a little sketch of the typography as one solution and a small drawing for the first photographic solution. I was planning to use just an egg: a huge egg to be suggested by a little bit of shadow on the right side of the egg and a little bit of gray background defining its left side. The idea was to have your brain build up the egg out of two little areas, which was a concept of fragility. 2 Because of the subject, and because of the perceptual ambiguity. For the third idea, I built the setting on my table using my drawing lamp to cast the broken shadow of an egg across the mirror on which the egg was only partially sitting; the mirror therefore also breaking


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al limite e a cavallo di uno specchio collocato diagonalmente sul mio tavolo di lavoro; avevo poi proiettato verso l’esterno una precisa ombra che si rompeva sui due piani. I nomi degli artisti erano alternati su un foglio bianco posto sullo specchio a determinare un triangolo scaleno in opposizione alla ellittica trilogia dell’uovo, della sua ombra e del suo riflesso interrotto. Il titolo “Fragile”, pure riflesso, a lambire la parte rispecchiata dell’uovo. Feci una polaroid, ma preferii chiamare il curatore. Non avevo abbastanza elementi per decidere io stesso quale approccio approfondire. Marco Franciolli scartò immediatamente il primo uovo, troppo concettuale. Benché intrigato dalla seconda idea fotografica la scartò perché troppo sofisticata. Optò per la soluzione tipografica, la più diretta, trovando l’uso del carattere e l’aggiunta delle sigle perfettamente appropriati. Avendo poi visto la mostra devo dire che ha avuto ragione. Leggi e intervieni sui testi? Faccio fatica a lavorare con un cattivo testo o con un brief inadeguato. Con Roberto Sambonet, nel 1976, oltre a inventare il titolo della mostra “Processo per il Museo–Brera”, 83 incoraggiammo il conservatore Franco Russoli a chiudere le rimanenti sale della pinacoteca. La mostra divenne effettivamente un atto di denuncia, provocando sulla stampa e nella burocrazia romana quella reazione che Russoli aspettava da anni. Mi puoi parlare della grande X? La X prende spunto dal vocabolo “per”, la parola chiave nel titolo, che, in italiano, sta pure a denominare 3 il segno della moltiplicazione; il quale, a sua volta, ha pure un secondo significato, quello di negare, in questo caso la fatiscenza del museo. Un tour de force semantico. Per differenziare e rafforzare concettualmente e visivamente l’introduzione alla mostra avevo anche riscritto i titoli delle quattro sezioni iniziando con il nome della pinacoteca: Brera oggi, Brera e il quartiere, Brera e la società, Brera nella storia. La distribuzione dei testi in corpo minore è sorprendente. Sei partito dalla triste lampadina sospesa alla volta? E la foto l’hai trovata o è stata scattata appositamente? Sono partito dall’asse centrale della volta, dalla X e dalla lampadina tristemente sospesa come hai giustamente notato. Ho usato gli opposti orientamenti della X per distinguere i due settori della mostra collocati alla destra e alla sinistra dell’entrata. Non ho inventato nulla, ho solo esemplificato la pianta. A proposito della foto devi sapere che il manifesto della Pinacoteca di Brera in uso da parecchi anni mostrava un dettaglio quadrato dell’ultimo capolavoro di Piero della Francesca, noto come La Madonna 4 dell’ovo. L’uovo è appeso alla famosa volta in forma di conchiglia. L’analogia con la foto è straordinaria. Puoi immaginarti la mia sorpresa, quando, scorrendo i fogli di contatto di Guia Sambonet per selezionare le immagini della sezione Brera oggi, sono capitato su questa immagine. Il manifesto era fatto. Sono stato molto fortunato. Sono spesso fortunato.Trovo cose. Uso spesso materiale preesistente. Lo combino e lo lascio parlare. Cerchi le chiavi delle possibili soluzioni ai problemi posti, come nel caso del trittico per Mola. Come ti è venuta l’idea dei trittici? Quando il Museo Cantonale stava per aprire, la direttice Manuela Kahn, auspicando una forte visibilità, decise per una massiccia campagna stradale comprensiva, oltre ai manifesti F4, di un cospicuo numero di F12 5. L’idea di dover disegnare una versione verticale e una orizzontale del medesimo manifesto non mi parve convincente. Mi sembrò subito più razionale usare lo stesso manifesto F4 anche nella versione F12 e individuare ruoli complementari per gli altri due manifesti. Per introdurre il logo che la direttrice aveva insistentemente voluto lo resi gigantesco lasciando un po’

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5. In Svizzera i manifesti sono regolati da un sistema di misure standard. Il formati più diffusi sono: F4 (128 x 90,5 cm) e F12 (128 x 271,5 cm).

Il formato F12 è composto da tre F4 affiancati con 1cm di sormonto.


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the egg’s reflection.The names of the artists would lay on a white sheet of paper laid over the mirror, to form a scalene triangle to oppose the circular trilogy of the egg, its shadow, and its reflection.The title Fragile would be a reflected image in connection with the broken, mirrored image of the egg. I made a Polaroid, but it was so bad that I asked the curator to come over. I had not enough elements to decide myself which approach would be worth carrying on. Marco immediately rejected the first egg because its strong conceptual approach would not be a good introduction to the exhibit. Having now seen the exhibition, I think he was quite right. He liked very much the second photographic approach, but again, was afraid that the poster would be too sophisticated. He picked the typographical solution, the most direct, finding the use of stencil and the addition of CH, F, and GB very appropriate.

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Are you a designer that reads and intervenes in the text? Yes. I can’t work with a nonconvincing copy or a nonconvincing brief.With Roberto Sambonet, besides writing the title for the exhibition Processo per il Museo–Brera, which literally translates “Trial for 83 the Brera Museum”, we encouraged Franco Russoli (the museum director) to shut down the rest of the museum, as a protest against the Rome bureaucracy.This was, of course, illegal, but he did it anyway. The exhibition truly became an act of denunciation, provoking the great stir in the press that Russoli had been expecting for years. Could you tell me about the big X? The big X comes from the word “per”, the key word in the title. In Italian, as I said, it means “for”. 3 But it is also the symbol for multiplication.Which in its turn, has also another meaning, a universal one. It negates what’s underneath: in this case, the physical decay of the museum. A semantic “tour de force”. I also rewrote some of the exhibit titles.To achieve better clarity and to gain conceptual and formal strength, I made the titles of the four introductory exhibitions begin with “Brera”: BreraToday, Brera and the City, Brera and Society, Brera and History.

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The way you laid out the small text is quite effective. Did you start from the sad hanging bulb? And what about the photo? Did you find it, or was it shot specifically for the poster? I started from the central axis established by the vault, by the X, and by the sad hanging bulb, as you appropriately named it. I used the opposing orientations of the arms of the X to distinguish the two parts of the exhibition that were actually located to the right and to the left of the entrance. So I didn’t really invent anything. Conceptually, it is the plan of the exhibition. About the photo, you have to know that the existing poster for the Pinacoteca di Brera that had been around for several years showed a detail from Piero della Francesca’s last masterpiece, commonly known in Italy as La Madonna dell’Ovo.The egg is hanging from the famous vault in the shape of a shell. 4 The analogy is astounding.You can imagine me when I saw the hanging bulb in the contact sheets I was going through to select the images for the BreraToday introduction. The poster was done. I was very lucky. I am often lucky. I find things. I often use elements that are already there. I just combine them and let them talk. You search for clues in anticipation of possible solutions to problems, like you did in the Mola triptych. But tell me first about the triptych idea. How did it originate? When the Museo Cantonale d’Arte was going to open, Manuela Kahn, the director, wanting a strong visibility in the streets, decided for a massive poster campaign, including the F4 and the F12 sizes.5 For some reason, I did not like the idea of designing and printing a vertical and a horizontal version of the same poster. It seemed to me more reasonable to use the F4 poster also in the F12 format, and to develop complementary roles for the remaining two posters. Since Manuela had stubbornly wanted a logo for

5. Posters in Switzerland are governed by a standardized system of sizes.The smaller and the most widespread are the F4 (128 x 90.5 cm) and the F12 (128 x 271.5 cm).

The F4 is vertical, while the F12 is horizontal. The F12 is formed by three F4s, put together with one centimeter overlaps.


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di spazio per il nome del museo a sinistra e il titolo della prima mostra: “IlTicino nella pittura europea” sulla destra. Decisi di affiancare al manifesto tipografico il dettaglio di un volto dalla collezione permanente da una parte e il dettaglio di un paesaggio dall’altra. Grazie al finanziamento di una fondazione privata fummo in grado di stampare sei soggetti diversi che potevano essere liberamente scambiati nell’affissione e venduti singolarmente. Una nota didattica relativa all’autore e all’opera, con una piccola riproduzione del dipinto completo, furono stampate sul retro.

Denunciando l’assemblaggio del trittico hai inventato un sistema aperto. Mi piace la definizione di “sistema aperto”. Mi piacciono i sistemi complessi—non quelli complicati— perché consentono di evitare la ridondanza. Di fatto i due manifesti aggiuntivi possono comunque essere usati come prolungamento o lineare continuazione del primo. Come nel caso di Melotti. O come 132 “introduzione” al terzo manifesto, quello tipografico, come in Kandinskij. Le due giunture in questi casi 160 non sono espresse, determinando una unica grande composizione orizzontale. Naturalmente anche contenuti autonomi possono precedere il manifesto informativo; possono succedergli, come nel caso Flammer/Paolucci; o affiancarlo su ambo i lati, come in Corot. Avendo in questo 136 caso solo poche postazioni F12 feci serigrafare due fondi di colore piatto—la soluzione più economica— 149 per ottenere la bandiera francese. Astuzia che riproposi per la Collezione Panza di Biumo, dove il giallo 144 riprendeva il giallo della stanza Song of no mind di Allan Graham e il blu, il blu di Blue oval di Robert Therrien, due lavori complementari che si confrontavano nella medesima sala.

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Riesci a ribaltare i limiti in opportunità. Nel 1987Walter Binder, il conservatore della Fondazione svizzera per la fotografia, mi chiese di progettare il manifesto per una mostra storica sui fotografi inTicino che si sarebbe tenuta a Zurigo l’anno successivo. Era la prima volta che mi chiamava, e chiarì subito che la Fondazione aveva pochi soldi. Manuela Kahn, con la quale avevo appena iniziato a collaborare, mi disse che la mostra invernale del Museo Cantonale sarebbe stata sulla fotografia ticinese. Mi resi conto che si trattava della medesima mostra, proposi perciò di fare un solo manifesto per entrambi. Avrebbero risparmiato sul progetto e sulla stampa. Siccome in fotografia è insito il concetto di “doppio” positivo/negativo, luce/ombra, era ragionevole spaccare il manifesto a metà: a Zurigo lo avrebbero affisso capovolto. 7, 8 La vecchia con il messale in una mano e una rosa bianca appassita nell’altra in opposizione alla fiammata tra le rocce di Gerevini è scioccante. Dimmi di Fausto Gerevini, che non conosco. Fausto Gerevini è morto tragicamente, molto giovane, poco dopo l’esposizione di Lugano. Dunque 118 l’arco del suo lavoro non è molto ampio. Le fotografie scelte per la mostra erano tutte molto scure e in certi casi misteriose. Scatti diretti che possono sembrare montaggi o doppie esposizioni. Anche per il suo manifesto non ci sono schizzi iniziali. Ho cominciato subito a giocare con la luce della lampada sul tavolo da lavoro, cercando l’idea attraverso la manipolazione di pochi elementi.Volevo disegnare il suo nome “fotograficamente”, usando la luce. E avevo bisogno che il suo nome diventasse in qualche modo enigmatico, come appunto molte sue immagini. Stampai le parole “Fausto Gerevini” al negativo su un film trasparente. Il nome l’avevo composto su due righe, ma senza un’idea precisa, solo per prova, non avevo nemmeno pensato al carattere. Fissai il film su una lastra di vetro che appoggiai su due bottiglie di acqua minerale che avevo posto sotto la lampada.Tra le bottiglie incastrai un foglio A4 di cartoncino bianco, una specie di ponte sbilenco su cui proiettare il nome—sapevo di aver bisogno della curva per alludere al suo mondo organico—e cominciai a muovere la lampada e/o il cartoncino. Ma i risultati restavano deludenti. Mancava l’enigma. Ritagliai allora il lato frontale del cartoncino con un’ampia curva a rientrare e ricominciai a muovere la lampada e a variare l’inclinazione del cartoncino. Il miracolo si compì quando accidentalmente la parte superiore del testo proiettato oltrepassò la superficie del ponte finendo sul tavolo. L’idea aveva preso corpo. Lo scarto di cartoncino, leggermente ricurvo, stava sempre sul tavolo. Lo incurvai ancora un poco

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the museum, in order to introduce the logo, I made it gigantic.The poster was nearly filled. Just enough space was left for the name of the museum on one side, and the title of the first exhibition, IlTicino nella pittura europea (TheTicino Landscape in European Painting) on the other. I decided to flank the typographical poster with a close-up of a portrait from the museum’s permanent collection, and a detail of a landscape from the exhibition. Since the production of the posters was supported by a private foundation, I was able to select three different works from the museum collection and three more from the exhibition.They could be freely interchanged in the street and sold independently in the museum. A didactic note about the artist, a second note about the painting, and a small reproduction of the total work, were printed on the back of each poster.

By revealing its assemblage, you created an open system. I like your definition of “open system”. I like open systems. I like complex systems—not complicated systems—because they prevent too much repetition. As a matter of fact, the two remaining posters can still be used as a linear continuation of the first. Like I did in the Melotti poster. Or as an “introduction” 132 to the last, like I did with Kandinsky.The paper joints are, in these cases, not expressed, giving a single 160 large horizontal image. Independent statements can precede the informational poster; they can also follow it, as in the Flammer/Paolucci exhibition; or they can flank it, as in Corot, where, having only a few spaces for trip136 tychs, I simply silkscreened flat fields of color—which is very economical—to build the French flag. 149 Or, again the same trick, in the case of the Panza di Biumo Collection, where the yellow echoes the flat 144 yellow of the room Song of No Mind by Allan Graham and the blue echoes the blue of Blue Oval by RobertTherrien, two complementary works that were facing each other in the exhibition. You manage to turn limitations into possibilities. Walter Binder, the curator of the Swiss Foundation for Photography in Zurich, asked me to design the poster for a historical exhibition about photographers fromTicino. It was the first time he contacted me, and he immediately mentioned that the Foundation had very little money. Manuela Kahn, with whom I had just started working, told me that the winter exhibition was going to be on photography.When I realized that it was the same exhibition, I proposed to both to make only one poster.They would save money on the project and the printing. Since photography is “double”—positive/negative, light/shadow— it was reasonable to split the poster in half. In Zurich, they would just hang it upside down. 7, 8

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The old lady holding the missal in one hand and a faded white rose in the other, as opposed to Gerevini’s flash of white flame is shocking.Tell me about Fausto Gerevini, whom I do not know, and about his poster. Fausto Gerevini commited suicide very young, not long after the Lugano exhibition. His body of work is 118 therefore quite limited.The photographs chosen for the exhibition were all very dark and in some cases rather misterious. Straightforward photographs that may look like montages. There are no sketches of this poster. I started immediately on my table playing with light; I was looking for the idea while manipulating a few elements. I wanted to build his name photographically, using the light. And I needed his name to become in some way enigmatic, like most of the photographs in the show. I printed the words “Fausto Gerevini” on film.The name was set on two lines without a precise idea, just as a trial. I did not even think about the typeface. I taped the negative film on a small sheet of glass and laid the glass over two mineral water bottles sitting right under my drawing table lamp. Between the bottles I pushed a piece of thick white paper, a kind of tilted bridge, to get a bent projection surface for his name—I knew I needed curves to allude to his organic universe—and began to move the lamp and/or the paper.The results were quite deceiving. No enigma. In order to create a perceptual problem I cut the front straight side of the paper on a generous curve and started moving the light and the inclination of the paper again.The miracle happened when the top part of the projected type reached the table.The idea was there.


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e con attenzione lo infilai sotto il ponte a ricevere l’accidentale frammento di luce. Concavo contro convesso. Fausto arrivò con la sua Sinar, fu contento e scattammo la foto.

Vorrei tornare al trittico di Mola dal quale eravamo partiti. Sì, anche qui sono stato fortunato. Quando Manuela Kahn mi parlò la prima volta della mostra Mola mi resi conto che il museo sarebbe stato occupato quasi interamente. Solo una sala stretta e lunga nell’ala più antica dell’edificio sarebbe rimasta libera. Era possibile ridurre la collezione permanente a questo estremo? Decidemmo di contrapporre a Pier Francesco Mola una piccola mostra dei maestri del XX secolo presenti nella collezione. Avendo trovato intriganti i tagli estremi che avevo precedentemente proposto, Manuela Kahn mi raccomandò di usare per questo manifesto un dettaglio del Guerriero orientale, un’opera fondamentale che il Louvre avrebbe prestato. Quando sovrapposi alla cartolina del guerriero un acetato A4 con tracciata la diagonale scoprii che il quadro aveva la medesima proporzione del manifesto, potevo usarlo intero. Rinunciai a cercare possibili tagli, ne avrei deciso l’opportunità con le opere di qualche maestro del XX secolo tra le mani. Cercai invano in tutto il museo, passai poi una a una le opere nei depositi con il guerriero in testa e la cartolina in tasca. Quando vidi Pathos di Klee rimasi sconcertato. Continuavo a osservarlo, mi sembrava impossibile.Tolsi di tasca la cartolina. Erano identici. E il gioco dei rimandi iniziò. 124 Vedo reminiscenze barocche nel carattere scelto per Pier Francesco Mola; posso trovare una sottile analogia strutturale tra la M maiuscola e il gesto del guerriero, le relazioni cromatiche sono evidenti. Ma da dove sei partito? Considerando l’affinità strutturale tra le due opere sapevo che dovevo separarle. E considerando la loro complessità sapevo che un elemento di connessione forte e semplice avrebbe rafforzato le specifiche qualità pittoriche e cromatiche. La nerezza mi parve inevitabile. Per contrastare il carattere Caslon corsivo del titolo e la complessità compositiva delle due opere d’arte, cominciai a indagare figure ortogonali piane. Soddisfacenti nella versione del trittico, risultarono però tutte inadeguate nel manifesto singolo. Una maggiore allusione al barocco sembrava necessaria. Ricominciai partendo dalla cornice in stucco di un affresco del Mola: Il Padre Eterno benedicente sulla 9 volta della Madonna del Carmelo a Coldrerio, chiesa che ricordavo dall’infanzia. Un quadrato centrale, con, sopra e sotto, due lunette più piccole. Mi concentrai sulla congiunzione del quadrato con la lunetta inferiore a sinistra. Un angolo retto e un semicerchio. La sintesi che cercavo. Ma mancava ancora qualcosa. L’obliqua improvvisa a dialogare con la corda dell’arco e la freccia da un lato e con i segmenti di retta dall’altro; così come fa l’impellente curva con l’arco e la duplice piega tra le gambe del guerriero da un lato e l’alternanza dei sofferti colpi ricurvi del pennello di Klee dall’altra. E il gioco dei rimandi continuò. La ricerca di connessioni è pure evidente nel trittico per la mostra Flammer/Paolucci. Tutti gli elementi sembrano interconnessi in modo inestricabile. Anche qui cominciai selezionando due opere chiave che reggessero la confusione della strada. I lavori 136 individuati avevano in comune la verticalità, ma erano al contempo opposti: scuro e chiaro, pieno e vuoto. Scelsi dunque due opposte figure simboliche: il disco azzurro, originato dall’ameba azzurro cielo nella scultura di Paolucci e il rettangolo nero, suggerito dal lavoro di Flammer basato sul Libro dei morti degli antichi egizi. Sotto ogni fotografia Flammer aveva scritto a mano il frammento di testo che l’aveva ispirato. Le ventidue immagini erano esposte in uno spazio ovale dipinto di nero che avevo progettato per evitare angoli nello sviluppo della narrazione. I colpi di luce sulle colonne egizie e la snellezza dell’Oggetto di Paolucci determinarono le bande verticali con i nomi degli artisti. Per attenuare la loro associazione con le due figure simboliche sovrapposte e per rafforzare l’allusione ai colpi di luce avevo addolcito i lati di ogni barra retinandone i bordi verticali.

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The piece of paper I had cut off, still slightly bent, was still on the table. I moved it carefully under the bridge to receive the accidental fragment of light. Concave versus convex. Fausto came with his Sinar, he liked it and we shot it.

I would like to come back to the Mola triptych. Yes, here too, I was pretty lucky.When Manuela first introduced me to the Mola exhibition, I realized that the museum would be occupied almost in its entirety. Only a separate elongated room in the oldest wing of the museum would be left free.Was it possible, was it meaningful to reduce the collection to that extreme?We decided to juxtapose a small exhibition of the twentieth-century masters from the museum collection to the Mola exhibition. Before leaving, Manuela asked me to investigate the possibility of using a detail of Mola’s Oriental Warrior, a fundamental piece she was going to get from the Louvre. Although the use of details was not a rigid rule, she had found intriguing the few extreme croppings I had previously attempted. I took home a postcard of the Warrior, laid over it an A4 acetate with a fine scratched diagonal, and discovered that the painting had exactly the same proportion as the poster. I could use it in its entirety. I did not start cropping. I would decide later with a twentieth-century master work in my hands. I looked through the entire museum, but nothing struck me. So the following week I went slowly through the museum storage rooms with the Warrior in my mind, and the postcard in my pocket.When Pathos by Klee appeared, I was bewildered. I kept staring at it. I couldn’t believe it. I finally took the card out.They were identical. Then the connecting game started. 124 I can see Baroque reminiscences in the typeface you chose for Mola; I can even find a subtle structural analogy between the ornate capital letter M and the gesture of the warrior.The chromatic relationships are also evident. Could you tell me how you started? Considering the structural affinity of the two works of art, I knew I had to set them apart. And considering their structural complexity, I knew that a simple and strong connecting element would enhance their different pictorial and chromatic qualities. Black seemed inevitable. To contrast the italic type and the complexity of the two works of art, I played around with orthogonal plane figures. Satisfactory in the triptych version, they all failed when viewed as a single poster. A stronger allusion to Baroque was needed. I restarted with the shape of the articulated stucco frame of a Mola fresco: Eternal Father Blessing from the vault of the Coldrerio Madonna del Carmelo, a church 9 I knew from my childhood.A central square, linked at the top and at the bottom with two smaller lunettes. I focused on the conjunction of the square with the lower lunette. A right angle and a circle.This gave me the synthesis I needed. I now needed the fly to fly in, the abrupt diagonal stroke to dialogue with the bowstring and the arrow on one side, and with the many straight strokes of the brush on the other. Just as the impending curve does with the bow, with the double fold in the dress between the warrior’s legs, and with the alternatingly suffering, gentle, or powerful bending strokes of Klee’s brush. And the connecting game went on. The search for connection is also evident in the Flammer/Paolucci triptych. All the elements seem interwoven in an inextricable way. Again, I started with the selection of two significant works that would stand the bustle of the street. 136 The works I used bear in common the strong verticality of their structure. But at the same time, they are totally opposed: dark vs. light, and full vs. empty. I therefore chose two opposed symbolic figures to become the skeleton of the informational poster. The blue disk was originated by Paolucci’s sky blue amoeba.The black rectangle was in connection with Flammer’s photographic work based on the ancient Egyptian Book of the Dead. Under each photograph Flammer handwrote the quote from the Book of the Dead that had guided him.The twenty-two photographs were exhibited in a painted black oval space I had designed to avoid corners in the development


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A questo punto fui indotto a commettere un errore tipografico: comporre le quattordici lettere di ogni nome una lettera sotto l’altra. Devo ammettere che il mio lato svizzero è ancora recalcitrante. I testi non potevano che attraversare tranquillamente la testa del manifesto, con cinque barre contrappuntistiche a scandirne i contenuti. Si vede che ami la musica. Parliamo ancora di tipografia. La resistenza di cui parli non si nota nel tuo lavoro. Sembri passare con garbo dalla stretta ortodossia tipografica alla totale anarchia. Da Bakunin a Calvino. Mi piace, purché non sia un viaggio di sola andata. Per motivi diversi sono attratto da entrambi. Ma questo non è il punto. Nel mio lavoro per il museo mi si chiede di attraversare la storia. E a volte non so nemmeno se mi piace come Bruno quello che trovo corretto come Monguzzi. La metodologia rimane la stessa. Se il problema è altro, altra sarà naturalmente la risposta. Guardo dentro il problema alla ricerca del suo cuore, del suo specifico. È da questa specificità che la risposta prende corpo. Puoi fare un esempio? Nel caso di “Itinerari sublimi”6, una mostra di paesaggi dal XVIII al XIX secolo, ho usato la superficie 165 come un territorio dislocando le cinque sillabe I-ti-ne-ra-ri lungo un viaggio immaginario. Si tratta di una ovvia trascrizione visiva del titolo: si fa viaggiare lo sguardo. Il “ne”, collocato in testa al manifesto, è stato strappato per svelare un secondo “ne”, composto in Fraktur 7 in opposizione ai tre bodoniani che ho usato sotto. Si introduce così una seconda lettura che allude al passaggio tra le culture, la tedesca al nord, la latina al sud. Lo strappo come metafora della barriera creata dalle Alpi. Una lettura selettiva basata sulla conoscenza. Sensibilità e cultura che voglio sempre sollecitare quando comunico l’arte. Per sublimare “sublimi” ho scelto un corsivo usato da raffinati litografi e incisori dell’Ottocento. Sono stato fortunato nel trovare addirittura un alfabeto maiuscolo con frecce. Con un titolo iperbolico e l’esuberanza dei riferimenti storici, il tutto mi sembrava troppo controllato. Così ho sdoppiato il titolo in un sinuoso viaggio colorato. Come hai fatto? Volevo far compiere al testo un vero movimento. Feci vari tentativi spostando le due parole sul vetro della fotocopiatrice durante la copiatura. Il caso è spesso migliore del Monguzzi. Ma rimane pur sempre la scelta finale. Suppongo tu abbia poi seguito la stessa procedura per il titolo “Swiss Poster Art”. Esattamente. Ma in questo caso ho iniziato i tentativi di spostamento in fotocopiatrice usando subito 10 due diverse combinazioni delle medesime tre parole. Del titolo mi serviva una seconda versione 194 sottotono e minimamente discorde. L’esatta ripetizione avrebbe costretto il libero e imprevedibile sorvolare che avevo in mente. Anche nel caso di Melotti hai sdoppiato il titolo. Cosa ti ha spinto a ripetere il suo nome in un gioco così rigoroso dei contrari? Positivo/negativo, nero/chiaro, largo/stretto, maiuscolo/minuscolo? Disegnai il doppio logotipo per evocare il radicale cambiamento avvenuto nel suo lavoro. Fino al 1937 la scultura di Melotti era elementare e costruita secondo semplici griglie geometriche o basata su volumi primari. Quando riprese a fare scultura verso la fine degli anni cinquanta introdusse l’uso del tondino di ferro e le garze metalliche. Gli elementi giocosamente assemblati erano a volte così leggeri da rendere la scultura cinetica. Ho tentato di ritrovare questa qualità con l’introduzione della campitura argentea. Quando l’osservatore si sposta la relazione tra i due nomi è in continua trasformazione, mutando la scala dei valori tonali. La griglia di quadrati su cui è costruito il primo logo, ispirato dalla Scultura 21 del 1935, contiene anche 11 il secondo nome e si prolunga nella metà bassa del manifesto a regolare il gioco di date e orari.

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6. “Itinerari sublimi: viaggi d’artisti tra il 1750 e il 1850”. L’area interessata dalla mostra va dal braccio meridionale del lago di Lucerna, al nord delle Alpi, alla regione dei Laghi nell’Italia settentrionale.

7. Tipico carattere germanico usato nella Svizzera tedesca fino alla fine del XIX secolo.


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of the narration.The strokes of light over the Egyptian columns and the slenderness of Paolucci’s Object, generated the vertical bars containing the names of the artists.To weaken their integration with the superimposed symbolic figures, and to strengthen the allusion to a stroke of light, I softened the right and left sides of each bar by screening the edges. At this point, I was compelled to perpetrate a typographical capital sin: setting the fourteen letters of each name, one letter under the other. But, I must admit, my Swiss side is still recalcitrant. All the texts could only quietly run along the top.With five contrapuntistic black bars to structure the information.

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I can see you love music. But let’s talk more about typography. The recalcitrance you mention does not really show in your work.You seem to shift with graceful nonchalance from strict typographical orthodoxy to total anarchy. From Bakunin to Calvin.That’s nice, as long as it isn’t a one-way journey. For different reasons, I like them both, but this is not the point. In my work with the museum, I am asked to jump through history. And sometimes I do not even know if I like, as Bruno, what I find correct as Monguzzi. My methodology remains the same. If the problems differ, the answers are naturally bound to change. I look into a problem, searching for its core, its specificity. It is from this specificity that the answer is generated. Can you give an example? In the case of Itinerari sublimi 6 —an exhibition of landscapes from the eighteenth and nineteenth 165 centuries—I used the surface as a territory and dislocated the five syllables of “I-ti-ne-ra-ri” along an imaginary journey.This is an obvious visual translation of the title’s meaning. It makes your eye travel. The “ne”, located at the top of the poster, was torn in order to reveal the second “ne”, set in Fraktur,7 in opposition to the three Roman neoclassical faces I used below. A second reading was therefore proposed, alluding to the crossing of the cultures—the German to the north and the Latin to the south. The tear being a metaphor of the Alps as a cultural barrier. A selective reading, based on knowledge and visual sensitivity. Sensitivity and culture that I always solicit from the receiver when I am communicating art.To sublimate “sublimi”, I picked a nineteenth-century italic face used by elegant lithographers and engravers. I was even lucky enough to find caps with arrows. But with a hyperbolic title and the exuberance of the historical references, this seemed still too plain. So I doubled the title into a Baroque double-colored path.

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How did you do it? I wanted the lettering to actually go through a true uneven movement. I made several attempts by moving the two words on the glass of the photocopier as it was copying. Chance is often better than Monguzzi is. But I still had to make the final choice. I assume you followed the same procedure for the Swiss Poster Art title. Exactly. But in this case I started the photocopying attemps using two different arrangements of the 10 same three words because I needed a subdued and uneven second version of the title. A perfect repeti194 tion would have weakened the free floating of the words I was envisioning. In the case of the Melotti poster, you also doubled the title.What made you repeat Melotti’s name in such a rigorous play of the opposites: positive vs. negative, bold vs. light, extended vs. compressed, uppercase vs. lower case letters? The two Melotti logos were designed to evoke the radical change that occurred in his sculptural work. Melotti sculptures up to 1937 were elementary and were constructed according to simple geometric grids or based on primary volumes.When he goes back to sculpture at the end of the fifties, he begins to use thin steel rods and metallic gauze.The elements he playfully assembles are often so light that the sculpture becomes kinetic. I tried to suggest this kinetic quality with the introduction of the silver back-

6. Sublime itineraries: travels by artists, 1750-1850.The area covered by the exhibition goes from the southern tip of the Lake of Luzern, just north of the Alps, to the Lakes Region of Northern Italy.

7. Typical German typeface of general use in Northern Switzerland until the end of the nineteenth century.


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Di fatto tutto il trittico è costruito su una griglia quadrata molto semplice. L’altezza del manifesto determina il lato del ritratto quadrato, orientato e posto sulla destra, nonché l’altezza del rettangolo, formato da due quadrati, che contiene la scultura al centro del trittico. Lo stesso rettangolo, posto orizzontalmente e a sinistra, contiene titoli e scritte. 12

Nel progetto del logo per il Museo Cantonale d’Arte mi sembra che tu abbia preso in considerazione il percorso storico della collezione. Le tre figure base, cerchio, triangolo e quadrato, sono state integrate nella sigla MCA così come il periodo storico interessato dalla collezione permanente, dal XIX secolo all’arte contemporanea. Una A maiuscola bodoniana a contenere una M razionalista, ispirata a un carattere disegnato daTheo van Doesburg e costruito su una griglia di quadrati intorno al 1920. Non volevo un segno univoco, ma un segno in grado di visualizzare la complessità dell’evoluzione artistica a cavallo del secolo. Il terzo elemento era originariamente una C in forma di spirale. Provai svariate forme, ma il logo risultava complicato, non complesso. L’assolutezza del cerchio perfetto realizzò infine la giusta trilogia. 12 Più tardi, quando mi fu chiesto di progettare il trittico per la collezione permanente, ingigantii libera176 mente queste tre figure basilari e le ruotai in orizzontale facendo diventare la A un sorprendente segno indicatore. Per evocare l’arco storico della collezione sovrapposi parzialmente le Impronte di pennello N. 50 (1987) diToroni a un taglio estremo della Giovane onsernonese (1847) di Meletta. Parlami ancora di concetti tipografici. Il più semplice in termini visivi, ma forse il più intrigante, è quello relativo alla mostra “Gli anni Ottanta 144 e Novanta nella collezione Panza di Biumo”. Siccome l’esposizione presentava arte minimalista e concettuale, mi chiesi come rendere i numeri 80 e 90 minimali senza cadere in un concetto banale. Un approccio minimalista poteva essere quello di usare un solo zero essendo la cifra comune ai due numeri. E uno zero minimalista è un cerchio. Sul piano visivo era una partenza molto forte. Riconsiderai il numero 80 e il numero 90 dal punto di vista concettuale. Eravamo nel 1992. Gli anni ottanta avevano concluso il loro ciclo. Gli anni novanta ne stavano aprendo un altro. La risposta era ancora nello zero. Adesso avevo un concetto visivo. Sommai le due cose. Naturalmente ci sono dei casi dove il concetto può essere veicolato più direttamente e altri in cui l’espressione tipografica diventa l’esatta visualizzazione del testo. Puoi fare un paio di esempi? Nel catalogo per la mostra “Italienisches Möbel Design” a Colonia il titolo era: Entwurf, Gegenstand, Bild. “Entwurf” significa progetto. (2D) “Gegenstand” significa oggetto. (3D) “Bild” significa immagine. (2D) Facendo iniziare “Gegenstand” sul dorso e piegandolo sul piatto di copertina resi di fatto il termine tridi13, 14 mensionale. 105

Gamma film fu molto facile. Ci sono quattro lettere che non si ripetono: g, f, i, l. Una lettera si ripete due volte: a. Una lettera si ripete tre volte: m. Resi visibile la ripetizione della “m”. Trattandosi di cinema cos’altro potevo fare? Il carattere Franklin Gothic fu scelto a causa della “g” ricurva. L’assenza di verticalità in questa lettera evitava la competizione con la parola “film” e con la ripetizione della lettera “m”, inoltre la diversità rispetto alle altre lettere la rafforzava in quanto punto d’inizio della lettura. Il fatto che “gam” risultasse più largo di “film” mi consentì di reiterare il tutto.

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ground.The relationship between the two logos keeps changing as you move along, causing a constant shift in the tonal hierarchies.The square grid of the first logo, inspired by the 1935 Scultura 21, tightly holds the second logo and continues in the lower half of the poster, integrating the typographical play of dates and timetables. Actually, the total triptych is constructed on a very simple square grid. The height of the poster determines the side of the square portrait, facing and located to the right, and the height of the rectangle, formed by two squares that contains the sculpture in the center of the triptych.The same rectangle, laying horizontally in the upper left, contains the logos and the two titles.

In your design of the logo for the Museo Cantonale d’Arte, you seem to have given consideration to the span of historical time and evolution as well. Yes.The three basic shapes, commonly recognized as the fundamental shapes in form making—the circle, the triangle, and the square—were related to the acronym MCA and to the historical span of the Museum’s collection, from nineteenth century to contemporary art. I designed a neoclassical Bodoni capital letter A to contain a rationalistic M, based on a square grid alphabet developed byTheo van Doesburg around 1920. I wanted a visually complex mark to express the complexity of art evolution across the turn of the century.The third element was originally a C in the form of a spiral. I tried several simpler C forms, but the logo still looked complicated instead of complex. The absoluteness of the perfect circle finally expressed the historical trilogy. 12 Later, when I was asked to design the triptych for the museum’s permanent collection, I freely blew up 176 these three basic elements and turned them horizontally to become an arresting pointing device. To evoke the historic span of the collection I partially overlappedToroni’s Impronte di pennello n. 50 (1987) to the extreme cropping of Meletta’s Giovane onsernonese (1847). Let’s come back to typographical concepts. The simplest in visual terms, but perhaps the most intriguing, is in relation to the exhibition Gli anni 144 Ottanta e Novanta nella collezione Panza di Biumo (The Eighties and Nineties from the Panza di Biumo Collection). Since the collection was dealing with minimal and conceptual art, I asked myself how I could make the number eighty and the number ninety become minimal, and at the same time be conceptual. A minimal approach could have been to use only one zero, since it is common to both numbers. And a minimalistic zero is a circle.This seemed visually very strong. I looked again into the number eighty and the number ninety from a conceptual standpoint.We were in 1992.The eighties had completed their cycle.The nineties were opening a new one.The answer was again in the zero. I now had a visible concept. I sandwiched the two. Of course, there are cases where the concept can be relayed more directly, or even cases where typography becomes the direct visualization of the text. Can you think of a couple of cases? In the catalogue for the Italienisches Möbel Design exhibition in Cologne, the title was Entwurf, Gegenstand, Bild. “Entwurf” means project. (2D) “Gegenstand” means object. (3D) “Bild” means image. (2D) Beginning on the wide spine and bending around onto the cover actually made “Gegenstand” three 13, 14 dimensional. 105

Gamma Film was very easy. You have four letters that do not repeat: g, f, i, l. One letter repeats twice: a. One letter repeats three times: m.


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Temevo che Boggeri trovasse l’idea troppo ovvia.“È ovvia, non troppo ovvia”, sentenziò. La “a” sulla destra mi aveva salvato. Per inciso, com’era lavorare con Boggeri? Boggeri sviscerava il problema con noi, ma non ci diceva mai come fare: ci lasciava invece tutto il tempo 15 per provare, magari per sbagliare. Da soli. E poi per ascoltare, perché l’errore non è mai muto. Boggeri non amava i compromessi, le cose adattate o “raffazzonate”. Bastava ricominciare. Boggeri non amava accettare scadenze. Come poteva sapere in quanto tempo la giusta idea, la giusta risposta, si sarebbe rivelata e compiuta? Anche noi non lo sapevamo. Per tornare alla tua domanda precedente ti faccio un altro esempio, molto amato da Boggeri. È una pagina della serie per le Arti Grafiche Nidasio. In questo caso ho seguito letteralmente il testo 8. Il testo recita:“Circonlocuzione. Molto usata nel linguaggio politico, nel linguaggio letterario, nel lin101 guaggio giuridico, è il giro di parole con cui…”. La spiegazione continua con un esempio per ogni tipo di linguaggio concludendo che se in questi casi “la circonlocuzione è un utile artificio… nel linguaggio pratico essa appare rischiosa”. È in concomitanza appunto con le parole “è il giro” che prende avvio il grande cerchio tipografico. Anna mi ha detto che, siccome non eri soddisfatto del risultato di un fotografo professionista, hai rifotografato il tutto, improvvisando uno studio fotografico con abat-jours e lampade da tavolo. Una lezione di composizione fotografica. Mi ha colpito come hai posizionato la pastiglia rispetto all’imballaggio e al bicchiere; la progressione dei tre dischi: pastiglia, logo e circonlocuzione tipografica; la diagonale del cucchiaio che ci riporta alla pastiglia. Ma cosa c’entra l’aspirina con la circonlocuzione? Oltre a essere lei stessa circolare, scopri la risposta proprio alla fine del testo, nell’ultimo esempio, un esempio comparato riferito al linguaggio pratico. È la storia del marito di Maria che, attraverso una ridicola circonlocuzione, riesce a riempire quattordici righe di testo invece di tre:“Maria, dammi un’aspirina che ho mal di testa”. Anche qui, sulla copertina, ritroviamo un altro sdoppiamento. Sì, un logotipo piatto e uno ricurvo. Perché questa industria stampava in tipografia, un’attività allora ancora molto importante, e in offset. Ho fotografato il logo bianco sul fustino di un detersivo per simulare il cilindro litografico.

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C’è sempre un senso di pertinenza, un’assenza di ostentazione nel tuo lavoro. In certi casi anche una disarmante immediatezza. Come ci riesci? Quando hai un problema, la buona soluzione sembra sempre inevitabile. Il problema è sapere qual è il problema. Porsi le giuste domande è più difficile che trovare le giuste risposte. Quando curvai la P di Pirelli, era l’unica cosa che si potesse fare. 61 Avevano un logo e volevano anche un marchio. Qual è la migliore possibile relazione tra il logo esistente e il nuovo segno? E cosa deve dire? 106

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Nel caso del “Quotidiano” suggerii di integrare la data nella testata. “Quotidiano del 19 Gennaio ‘88, Quotidiano del 20… Quotidiano del 21…” e siccome il diciannove gennaio era martedì e il venti mercoledì, lo dissi, ogni giorno, su una etichetta nera che correva lungo la testa del giornale. Una metodica visualizzazione dell’intera settimana. Cosa si cerca spesso in una testata di giornale? Nel 1986 la rivista “Abitare” avrebbe compiuto venticinque anni. La sola cosa da fare era dipingere la testata d’argento. Ci impiegammo tutto l’anno. Come si fa a far durare una festa di anniversario tutto l’anno senza spendere una lira?

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8. La tipografia milanese Nidasio aveva chiesto a Bruno Monguzzi una proposta per una promozione che non avesse un esplicito taglio pubblicitario. Con un giovane copywriter Monguzzi propose un abbecedario dove ogni lettera

dell’alfabeto era legata a un termine relativo al mondo della comunicazione. Solo alcine pagine giunsero allo stadio conclusivo e la pubblicazione completa non venne mai stampata.


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I made visible the repetition of the “m”. What else could I do? I picked Franklin Gothic because of the rounded“g”.The lack of verticality would keep it from competing with “film” and with the reiterated “m”; its distinctiveness from the other letters would also strengthen the reading starting point. And I was lucky enough that “gam” was wider than “film”. I could, therefore, reiterate the whole thing further. Endlessly. I was afraid Boggeri would find it too obvious. “It’s obvious, but not ‘too obvious’”was his verdict.The “a” on the right had saved me.

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By the way, how was it to work with Boggeri? Boggeri would examine the question thoroughly with us but would never tell us how to do anything. 15 He always gave us all the time we needed to try things out, make our own mistakes, learn from them, and start again. A Boggeri’s lesson is not to compromise, not to adapt or to “patch up” things, but to start from scratch. Boggeri did not like accepting deadlines. How could he know how much time it would take to come up with the right idea?We didn’t know either.

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Coming back to your previous question I have a further example, much loved by Boggeri. A page from the Arti Grafiche Nidasio series. In this case I literally followed the text.8 The text reads: “Circumlocution, much in use in political language, in literary language, in juridical language, is the circle of words with which one wishes…” and the explanation goes on to give an example for each case, concluding that “if circumlocution in these cases can be a useful artifice… in practical language, it can be risky.”It is in collaboration with the words “è il giro” (it is the circle) that the large typographical circle builds up.

In a conversation, Anna told me that, not being happy with the results of a professional photographer, you reshot the whole thing in your house, improvising a photographic studio with drafting and bedside lamps.Yet it is a photographic and layout lesson. I am intrigued by how you placed the pill in respect to the package and to the glass, the progression of the three perfect circles, the pill, the logo, the typographic circumlocution. And the diagonal of the spoon that brings you back to the pill. But what does the aspirin have to do with circumlocution? Aside from being circular itself, you discover the answer at the very end of the text, in the last example, a comparative example, that refers to the practical language. It is the story of Maria’s husband who, through a ridiculous circumlocution, manages to fill fourteen lines of text instead of three: “Maria, give me an aspirin. I have a headache.” Here too, on the Nidasio cover, you felt the need for a juxtaposition. Yes. A flat black logo and a white bent logo. Because they were letterpress printers—an activity still important for them at the time—and lithographic printers. I shot the white logo on a large cardboard tube to fake a lithographic cylinder.When I don’t need four-by-five-inch negatives, I often prefer to do my own photography.

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There is always a sense of rightness, a lack of affectation in your work. In some cases, even a disarming directness. How do you apply these qualities? When you have a problem, the right solution always seems inevitable.The problem is to know what the problem is. Asking the right questions is more difficult than finding the right answers. When I bent the Pirelli P, I thought this was the only possible thing to do. 61 They already had a logo and wanted a trademark. What is the best possible relationship between the existing logo and the second device? What should it say?

8. The Milanese printing firm Nidasio had asked Monguzzi for an idea for a form of promotion that would not be seen as an advertisement.With a young copywriter, Monguzzi invented an alphabet book with only one word for each letter.

Each word had to bear some sort of connection with communication. Only a few pages got to the final stage, and the collection was never printed.


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A volte preferisci scattare le fotografie tu stesso. Ci sono idee fotografiche che non sono in grado di spiegare a un fotografo, perché sono solo vaghe intuizioni. E siccome non so quanto tempo ci vorrà per precisarle, preferisco lavorare da solo. Quando il processo è concluso, a volte l’unica cosa che rimane da fare è schiacciare sull’otturatore. Suppongo sia il caso dell’immagine per il catalogo e il manifesto Florence Henri. Infatti. Sapevo che volevo usare gli specchi. Sapevo che avrei lavorato con il ritratto scattato da Lucia 142 Moholy. Sapevo che mi sarebbe piaciuto integrare il nome.Volevo integrare il nome per fare della foto il manifesto, volevo usare quel ritratto perché i ritratti di Lucia Moholy al Bauhaus erano un’appendice della mostra, volevo lo specchio perchè fondamentale nel lavoro fotografico di Florence Henri. Ma quando cominciai a muovere gli specchi non avevo nemmeno uno schizzo mentale. L’idea prese forma quando, dopo ore di infruttuoso lavoro, ebbi l’intuizione di introdurre un secondo ritratto sul retro del primo, che si sarebbe riflesso ribaltato su un secondo specchio, e da questo su un terzo specchio, ribaltando nuovamente il volto nello stato originale su di un piano più lontano. Il tuo ricorso alla fotografia varia in funzione della risposta più appropriata. So che nel manifesto per il Criterium nazionale giovani hai “rubato” un’anonima fotografia da una rivista di scherma per poi muovere semplicemente la carta fotografica durante l’esposizione. Anche per il manifestoWas gehtmich der Frühling an… (Cosa c’entra con me la primavera…) la soluzione è arrivata attraverso un ingegnoso lavoro in camera oscura. Nel 1987, quando stavo lavorando con Heinz Bütler sui titoli e sul manifesto per un suo film che aveva 17 appena finito di girare in un ospizio per anziani ebrei fuoriVienna, mi furono date molte fotografie scattate durante le riprese. Il titolo del film Was geht mich der Frühling an… era la citazione di una risposta 129 data al regista da Frau Adzerbal, un’ospite ottuagenaria.Trattenni solo le fotografie che la ritraevano, e siccome non trovai primi piani chiesi in prestito i negativi. Fatto un ingrandimento, cominciai a lavorare sul taglio. Avevo finalmente un buon ritratto, ma non avevo un buon manifesto. Ciò di cui avevo bisogno era un volto che raccontasse una storia. Un’immagine con la forza di un simbolo. Tornai in camera oscura, riesposi il primo piano del volto, appoggiai una striscia di cartoncino tra due scatolette di film onde ottenere un’ombra flou, e riesposi senza negativo. L’esile diagonale di luce che attraversava il suo volto nell’ombra adesso raccontava la storia. Le parole e i colori della primavera potevano assecondarla. Dimmi ora del fotogramma della mano. Come sai, ho fatto questo fotogramma per il manifesto di una mostra fotografica a Zurigo, nel 1990: 133 il fotogramma dalle avanguardie storiche degli anni venti fino ai contemporanei. Siccome i due curatori non volevano che usassi un fotogramma in mostra, ho dovuto inventarmi qualcosa. Cosa poteva simbolicamente rappresentare il processo della luce che sensibilizza l’emulsione del supporto fotografico? Una mano con una biglia di vetro, che concentra la luce in un punto. Durante l’esposizione, per rendere la mano flou, cercavo di muovere le tre dita libere, ma, ogni volta, inavvertitamente muovevo anche la biglia. Allora, per avere il cerchio perfetto, ho imbrogliato: il pollice e l’indice non tenevano più la biglia, ma stavano appena sopra, consentendo così di muovere liberamente tutta la mano. Il risultato era forte, sia visivamente sia concettualmente, c’era anche la componente surrealista. Ma mancava il costruttivismo. Memore dell’autoritratto di Lissitskij, infilai sotto 39 la biglia un millimetrato trasparente. Siccome il titolo della mostra era “Anwesenheit bei Abwesenheit”, che significa “La presenza dell’assenza”, feci in modo che il testo apparisse soltanto a mano a mano che ci si avvicinava. Poi, più tardi, questo fotogramma lo hai usato di nuovo. Infatti, dopo pochi mesi, un curatore francese mi chiese di progettare manifesto e catalogo per una

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Since Quotidiano means “daily”, I suggested to rename it, everyday, with the date of that day. “Quotidiano del 19 Gennaio ‘88, Quotidiano del 20 Gennaio ‘88, Quotidiano del 21…”. And since the nineteenth was aTuesday and the twentieth aWednesday, I had it clearly stated on labels that moved across the top. A visualization of the week. What are you often looking for in a newspaper heading? In 1986, Abitare magazine was going to be twenty-five.The only thing to do was to paint the masthead silver. It took the whole year to do it. How do you make a anniversary party last one year without spending any money?

You mentioned that sometimes you prefer to do your own photography. There are photographic ideas that I cannot explain to a photographer, because they are just vague intuitions. And since I do not know how much time it’s going to take to find it, I just work alone.When the search is through, I am sometimes in a situation where the only thing left is to press the shutter, as in the case of the Gerevini poster. I assume this was also the case with the Florence Henri poster . Yes. I knew I wanted to use mirrors. I knew I was going to use her portrait by Lucia Moholy. I knew I wanted 142 her name to be integrated. I wanted integration of the name to make the photograph the poster. I wanted to use that portrait because Lucia Moholy’s portraits at the Bauhaus were an appendix to the exhibition. I wanted the mirrors because they were fundamental in Florence Henri’s work. But when I started playing with the mirrors, I had not even a mental sketch.The idea only began to take form when, after fruitless hours, I had the intuition to introduce a second portrait that would reflect a reversed face from the back of the first mirror into a second mirror, and from that into a third mirror, reversing the face back to its original state, on a distant plane.

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Your use of photography in solving communications problems is varied. I know that for the Criterium poster you “stole” an anonymous photograph from a fencing magazine and simply moved the photographic paper while exposing. For the poster Was geht mich der Frühling an… (What has Spring got to do with me…), the solution was also derived from imaginative darkroom work. When Heinz Bütler and I worked on the titles and the poster for a documentary he had filmed in a Jewish 17 home for the elderly outsideVienna, he brought a bunch of photographs taken during the shooting. The title of the film, Was geht mich der Frühling an…, was taken from a conversation between Bütler and 129 one of the residents, Frau Azderbal. I therefore kept only the pictures she was in, and since no close-ups were available, I asked for the negatives. Picked a frame, blew up a small portion, and began to work on the framing of her face. I now had the portrait, but not the poster.What I needed was an image that could tell the story. A picture with the strength of a symbol. I went back to the darkroom, exposed the strong face, laid a narrow strip of card board between two film boxes and exposed again without negative.The diagonal strip of light crossing her face was now telling the story.Words and the colours of spring could follow. Now tell me about the photogram of the hand. As you know, I created this photogram for a poster I had to design for a photographic exhibition in Zurich, 133 in 1990: the photogram from the avant-garde movements of the twenties to contemporary art. Since the two curators did not want me to use a photogram from the exhibition, I had to come up with an idea.What could represent the process of the light directly sensitizing the emulsion of the photographic paper?The hand holding a marble, the marble centering the light in one spot. While exposing, in order to have the hand blurred, I kept moving the three fingers that I was not using, but, accidentally, I would also move the marble. So, in order to achieve the perfect circle, I cheated:


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mia personale. Per la prima volta diventavo cliente di me stesso. E per la prima volta mi sentii smarrito. Non sapevo come rappresentare me stesso. Usai di nuovo il fotogramma della biglia tra le dita della mano perché quella mano è la mia mano. E, da allora, l’ho sempre usato sui manifesti per le mie mostre personali e sulle copertine delle monografie sul mio lavoro. Ma ogni volta riesci a variare il contesto, introducendo nuovi elementi iconici o tipografici relativi a quello specifico scopo. Nel manifesto per Chaumont alludi alla bandiera francese e per contrapporti ai campi colorati usi il fotogramma in verticale, rafforzando così “l’occhio” che sta al centro. Tre anni fa, per la tua retrospettiva a Cieszyn, in un sensibile omaggio, hai invece strizzato l’occhio alla tipografia di Strzeminski e di Szcuka. Per tornare al fotogramma, nella copertina della tua ultima monografia, risulta sdoppiato. Mi piace molto che tu abbia definito “occhio” il disco al centro del fotogramma, è proprio questo aspetto 18, 19 surrealista che mi aveva affascinato. Per il mio manifesto polacco, è vero, avevo guardato ai due capolavori del loro costruttivismo, Europa 20, 21, 22 e Z Ponad, del 1929 e 1930, perché pubblicati aVarsavia e Cieszyn, le due città che mi ospitavano. La mia ultima monografia è pubblicata in occasione del quinto anniversario della morte di Morteza Momayez, il padre della grafica moderna iraniana e grande educatore. La lingua farsi si legge da destra a sinistra. I loro libri iniziano dove i nostri finiscono, e naturalmente la nostra quarta di copertina è per loro la prima. È per questo che ho sdoppiato il fotogramma.A marcare i due sensi di lettura ho introdotto, nella nostra prima doppia pagina, il ritratto di quattro giovanissimi Monguzzi che guardano verso destra, dall’altra parte, nella loro prima doppia pagina, ancora noi di profilo, ma in un’immagine di oggi, che guardiamo a sinistra. Ovviamente i miei lavori, che, come in questo libro, avevo ordinato in senso sostanzialmente cronologico, stanno nel mezzo.

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So che hai anche lavorato con Serge Libis. Per i lavori difficili. È così bravo. Sfortunatamente non vuole più fare fotografia. Preferisce fare il suo vino. Per il catalogo RSt set ha fatto la parte difficile, tutti gli oggetti disegnati da Roberto Sambonet, io ho fatto la parte semplice, tutte le immagini stampate in viola. 23

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Ricordo ancora le continue sorprese quando per la prima volta sfogliai queste trentadue pagine nell’ufficio di Rudy de Harak a NewYork. Il pollo, gli spaghetti, la melanzana, il branzino, poi improvvisamente il divertimento tipografico dei sei logotipi. Un viaggio essenziale attraverso il disegno della lettera. Parliamo un po’ di caratteri tipografici. Lou Danziger ha definito Gene Federico “il principe del Lightline Gothic”. È difficile associarti a uno specifico carattere. Il confronto tra passato e presente ricorre spesso nelle tue scelte tipografiche. Nel mio lavoro per il museo ho sovente usato il carattere tipografico come significativa testimonianza culturale del momento storico. I casi di Les Noces e di Lyonel Feininger sono emblematici. 122, 139 Schlemmer lavorò nel 1927 con il direttore d’orchestra Hermann Scherchen sul progetto delle scene per il balletto Les Noces, l’ultimo lavoro del cosiddetto periodo russo di Igor Strawinskij. Al Bauhaus dal 1920, Schlemmer aveva tentato in questo caso di sviluppare uno specifico linguaggio che integrasse, come Strawinskij aveva già fatto nella musica, memorie dalla tradizione popolare russa. Il lasso temporale che interessava la mostra era molto breve. Strawinskij aveva lavorato sulle Noces dal 1914 al 1923, Schlemmer, come detto, nel 1927. Nel caso di Feininger, anche lui chiamato da Gropius al Bauhaus, ma nel 1919, quando aveva già quarantotto anni, il lasso temporale coperto dall’esposizione era molto più lungo: da fine secolo alla morte di Feininger nel 1956. In entrambi i casi la tipografia del Bauhaus, nel suo ricco sviluppo, costituiva una fonte preziosa, ma in nessun caso un approccio elementare o strettamente funzionale sarebbe stato appropriato: in Schlem-

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I didn’t actually touch the marble while moving my hand.The result was strong, visually and conceptually. Surrealism was there, but constructivism was missing. So I added the grid paper, a memory from Lissitzky’s autoportrait. Since the title of the exhibition was Anwesenheit bei Abwesenheit, which means “The Presence of Absence”, I made the text disappear at a distance.

Later you used this photogram again. In fact, just a few months later, a French curator asked me to design the poster and the catalogue for an exhibition of my work. For the first time I was going to be my own client. And for the first time I felt lost. I did not know how to “represent” myself. I used again the photogram of the hand holding a marble because the hand holding the marble is my own hand. And, ever since, I have been using it on the posters for my solo exhibitions and on my own monographs’s covers. 19

But each time you seem to manage to vary the context, introducing new iconic or typographic elements specific to every scope. In the poster for your Chaumont exhibition you allude to the French flag and to structurally contrast the color diptych you turn the photogram vertical, strengthening, as a result, the “eye” at the center. Three years ago, for your show in Poland, your typography paid a sensitive homage to the typography of Strzeminski and Szcuka. To come back to your photogram, on the cover of your last monograph, you even doubled it. I am glad you saw the marble as an “eye”, it is precisely this surrealistic aspect that fascinates me. 18, 19 For my Polish poster you are right, I paid attention to Europa (1929) and Z Ponad (1930), two masterpieces 20, 21, 22 of Polish constructivism, since I knew they had been published inWarsaw and in Cieszyn, the two cities that were hosting me. My last monograph is published to mark the occasion of the fifth anniversary of Morteza Momayez’s death. As you know he was the father of modern Iranian graphic design and a great educator.The Farsi language reads from right to left, their books start where our books end. And of course our back cover is their front cover.This is the reason I doubled the photogram.To mark the two reading directions I introduced, on our first double spread, a portrait of the four Monguzzis looking very joung, looking to the right, 21 while on their first double spread, again our profiles, but in an image of today, looking to the left. Obviously my works, arranged chronologically, sit in the middle.

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I know you also worked a lot with the photographer Serge Libis. Yes, for complex problems I used to go to Serge. He was so good. Unfortunately he doesn’t want to work anymore. He makes his own wine instead. On the RSt set catalogue, he did the difficult part, the stain91-93 less steel objects; I did the easy part, the chicken, the bass, everything printed in violet. 23 I remember the constant surprises when I first turned those thirty-two pages in the de Harak office. The chicken, the spaghetti, the eggplant, the fish, suddenly the typographical divertissement of the six logos. An essential journey through type design. Let’s talk about typefaces. Lou Danziger talked about Gene Federico as being “The prince of Lightline Gothic”. It is difficult to associate you with a specific typeface.The confrontation between past and present occurs often in your choices. In my posters for the museum, I have often used the typeface as a significant cultural witness of the time. The cases of Les Noces and of Lyonel Feininger are emblematic. 122, 139 Oskar Schlemmer worked in1927 with the director Hermann Scherchen on a project for the setting of the ballet Les Noces. It is the last work of the so-called Russian period of Igor Stravinsky. At the Bauhaus since 1920, Schlemmer attempted in this case to develop a specific language, integrating, as Stravinsky had done in his music, remembrances from the Russian popular tradition. In this case, the time span covered by the exhibition was very limited. Stravinsky had worked on Les Noces from 1914 to 1923. Oskar Schlemmer, as I said, in1927.

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mer dovevo integrare le dissonanze stravinskiane, in Feininger la complessità del suo iter formativo, cubismo in particolare e futurismo. Nel primo caso, delle trentasei lettere necessarie, ventidue furono “rubate” da alfabeti di Herbert Bayer, soprattutto dalle varianti dell’UniversalType disegnato al Bauhaus nel 1925. Una lettera l’ho presa daTheo van Doesburg. Quattro furono “assemblate”, una pratica corrente all’epoca. I tre dischi, giallo, rosso e blu li ripresi direttamente dalla Preghiera dello sposo di Schlemmer. Nel caso di Feininger, la scoperta delle dieci straordinarie pagine tipografiche di Itten pubblicate nel 1921 in Utopia 9 fu decisiva per la scelta del carattere principale. È qui che trovai, non senza sorpresa, il Bernhard Roman usato in un ibrido contesto funzional-futurista, spesso combinato con il Fraktur, carattere solitamente adoperato nelle didascalie delle caricature di Feininger, un carattere che sapevo di dover usare. Altri elementi tipografici furono “rubati” o adattati: il “pettine” dalla copertina di Junge Menschen 10, la campitura con la progressione dei filetti da Farben Licht Spiel 11, perfetta variante tipografica delle ossessive progressioni che il bulino di Feininger aveva inferto ai legni delle sue xilografie. La cornice a mo’ di onda—sai della sua passione per l’acqua e le barche—la presi da un vecchio campionario di caratteri. Per ampliare i riferimenti culturali introdussi anche il Didot, un omaggio ai suoi soggiorni parigini e, in antitesi, lo Stevens Shanks, un carattere grottesco forte e nervoso. Il “clash” tra la grande F senza grazie e il carattere romano di Lucien Bernhard del nome—nome e cognome che avevo scomposto tridimensionalmente secondo le leggi del cubismo—dava inizio al complesso viaggio tipografico tra la geometria delle allusive forme nere. Questa è stata l’unica volta che ho usato il Bernhard Roman.

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Ti ricordi di altri caratteri che hai usato una sola volta? 174 Il primo che mi viene in mente è il carattere Industria. L’ho usato nel manifesto VideoArt. Il periodo interessato dalla mostra andava dal 1966 al 1996. Avevo bisogno di un carattere grottesco stretto contemporaneo, dal ritmo ossessivo. Ho cambiato la A maiuscola, perché arrotondata e in un certo senso decadente; ho usato invece laV maiuscola capovolta per rafforzare la connessione visiva tra “Video” e “Art”e per non indebolire il ritmo auspicato. Ho anche tagliato la parte inferiore delle parole per rafforzare l’orizzontalità della distribuzione dei testi, accostandovi, sfalsandolo, il Bodoni chiaro—il Bodoni è il carattere istituzionale del museo—per suggerire il movimento ed evocare gli “incidenti” deliberati che ricorrono in molti video d’arte. Dettagli che diventano aspetti fondamentali. “È come un sorprendente e disciplinato circo, dove tutto è controllato fin nel minimo dettaglio dalla regia di Bruno Monguzzi. Una sequenza filmica nello spazio e nel tempo”12. Quando F.H.K. Henrion scrisse questo si riferiva al tuo catalogo per Majakovskij, Mejerchol’d, Stanislavskij. Hai parlato di questo catalogo nell’intervista su “Eye”. Dimmi ora della serie Milano Zone e dell’utilizzo della griglia nei tuoi libri. Farò riferimento a tre casi paradigmatici. In Milano Zone ho usato una griglia di trenta moduli. Cinque colonne con sei moduli per colonna. 28-32 La colonna si compone di settantasette righe in corpo 9: dodici righe per modulo e una riga tra i moduli. Siccome il libro alternava saggi a interviste, per marcarne differenze e specificità avevo opposto tre fasce orizzontali, contenenti il flusso delle testimonianze orali, alla struttura verticale dei saggi. Le interviste molto lunghe potevano svilupparsi su doppia altezza. I saggi erano tutti composti a blocco, sempre nella stessa giustezza di una colonna e sempre in Bodoni chiaro. Le interviste erano composte a bandiera e, per poter differenziare le varie voci presenti in una doppia pagina, avevo introdotto cinque diversi caratteri in due pesi, escludendo ovviamente il Bodoni. La giustezza era pure una variabile passando da una colonna, a una colonna e mezza o a due. Ogni intervista era marcata in testa da un filetto, filetto che poteva smarginare qualora l’intervista fosse proseguita nella pagina successiva. Per accentuare questa continuità avevo previsto la smarginatura in senso orizzontale anche per le immagini.

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9. Johannes Itten era stato chiamato al Bauhaus nel 1919. Queste pagine sono riprodotte in Bauhaus typografie, Edition Marzona, Düsseldorf 1984, pp. 50-54.

10. Ibid., p. 91. 11. Ibid., p. 88. 12. F.H.K., Henrion Top Graphic Design, ABCVerlag, Zürich 1983, p. 102-09.

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In the case of Feininger, who had also been called to the Bauhaus, but in 1919 when he was already fortyeight, the time span covered by the exhibition was much wider, beginning before the turn of the century and continuing until Feininger’s death in the fifties. In both cases, Bauhaus typography, in its rich development, could have been a source. But in no way would a puristic or strictly functional typographic approach have been appropriate: in Schlemmer, I had to implement Russia and Stravinsky’s dissonances; in Feininger, the complexity of his previous artistic itinerary, Cubism in particular, and Futurism. In the first case, of the thirty-six letters I needed, twenty-two were “stolen” from Herbert Bayer’s alphabets, mostly from the Bauhaus UniversalType variations of 1925. One letter I took fromTheo van Doesburg. Four letters were “assembled”, a common practice at the time.The three disks were directly taken from Schlemmer’s The Husband’s Prayer. In the case of Feininger, the discovery of the ten incredible Itten typographical pages published in Utopia,1921,9 was decisive for the choice of the main typeface. It is here that I saw Bernhard Roman used in a Futurist/functional context, often combined with Fraktur, a typeface that had been used for the captions of Feininger’s caricatures. A typeface I knew I was going to use. Other typographical elements were stolen or adapted: the “comb” from the Bauhaus cover of Junge Menschen,10 and the “rule progression” from the Farben-Licht-Spiel cover,11 a perfect typographical variation on the obsessive progressions Feininger imposed on the wood in his xylographies.The typographical wave border—you know about his passion for water and sailboats—was found in an old typographer’s sample book.To widen the cultural references, I introduced Didot, an hommage to his Parisian sojourns, and Stevens Shanks, a sharp, bold sans-serif. The clash between the big assembled sans-serif F and the Bernhard Roman of the name—a name that I had decomposed three dimensionally according to the laws of cubism—was going to commence the complex tipo-cultural journey among the allusive geometric black forms.This was the only time I used Bernhard Roman.

Do you recollect any other typeface you have used only once? 174 The first that comes to my mind is Industria. I used it in the Video Art poster.The time span of the exhibition was from1966 to1996. I wanted a condensed contemporary sans-serif with an obsessive rhythm. I just changed the rounded, and in some ways decadent, capital letter A. I used theV upside down to strengthen the visual connection between “Video” and “Art”. I also chopped off the bottom part to strengthen the horizontality of the text arrangement, and juxtaposed and shifted Bodoni Light—Bodoni is the corporate typeface of the museum—to suggest movement and to allude to the deliberate accidents that often occur in art videos. Details that become fundamental. “It is like an amazing, well-rehearsed and disciplined circus, all controlled down to the minutest details by ringmaster Bruno Monguzzi… A film sequence in space and time.” 12 When F.H.K. Henrion wrote this, he was referring to your Mayakovsky catalogue.You talked about this in the Eye interview. Tell me about the Milano Zone series and the use of grids in your book design. I will try to explain three paradigmatic cases. In Milano Zone, I used a thirty modules grid. Five columns, with six modules per column.The column 28-32 was composed of seventy-seven lines of nine point text.Twelve lines per module, one line in between modules. Since the books mixed essays and interviews, I opposed three horizontal bands to the vertical structure of the written essays to receive the verbal flow of the personal accounts.The very long interviews could run over a double band height. The essays were always set on a single column width, always justified, and always in Bodoni.The interviews were set flush left-ragged right, and in order to differentiate each person within a given double spread, five different typefaces were introduced in two different weights.The width of the column could

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9. Johannes Itten had also been called to teach at the Bauhaus in 1919. These pages are reproduced in Bauhaus typografie,Edition Marzona, Düsseldorf, 1984, pp. 50-54.

10. Ibid., p. 91. 11. Ibid., p. 88. 12. F.H.K.Henrion, Top Graphic Design, ABC Verlag, Zurich, 1983, p. 102-09.


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Nel secondo caso la griglia è più complessa, non necessariamente nelle sue possibilità di utilizzo, ma nella sua genesi. Il dimensionamento delle immagini non si basa su un sistema elementare di multipli; la pagina viene strutturata in funzione di specifici contenuti e di precisi bisogni dimensionali. Il catalogo Lo Studio Boggeri, 1933-1981 rientra in questa categoria. Per la parte dei testi disegnai una semplice griglia di quattro colonne i cui margini furono conservati nella parte iconografica. Il discorso delle immagini si articolava a partire da un percorso centrale su due altezze, originate dai formati A5 e A4, che attraversava tutta la pubblicazione a marcare la grande continuità dei progetti dagli anni trenta fino agli anni ottanta. Due ulteriori analoghe doppie bande, in testa e al piede della pagina, potevano essere integrate. Le immagini potevano essere ingrandite a partire dalle bande centrali raggiungendo la testa o il piede della pagina, oppure sfruttarne tutta l’altezza. Lo spazio di separazione tra le immagini accostate non era qui costante, come necessariamente avviene nel tipo di griglia considerato prima, ma aumentava in relazione al dimensionamento delle opere. Le didascalie concordavano con la griglia tipografica della prima parte, erano raggruppate nell’angolo in alto a sinistra nella pagina di sinistra, nella pagina di destra quando l’altra era occupata da un’immagine a tutta altezza. Nel terzo caso, funzioni, dimensioni e posizionamento appartengono a un sistema aperto dove l’auspicata continuità è realizzata attraverso altri fattori; le eventuali concordanze determinate dalla griglia assumono tutt’al più un ruolo marginale. L’opuscolo RSt set al quale accennavi prima è in questo caso esemplare. Il carattere tipografico e il corpo sono costanti, ma non la giustezza e nemmeno la collocazione. La sola altra costante tipografica, quella fondamentale, è costituita dalla caratterizzazione dei titoli per mezzo della forte barra di sottolineatura che cambia la sua giustezza ma è sempre in testa alla pagina, smarginando a sinistra nelle pagine di sinistra, a destra nelle pagine di destra. Una vera “anafora” di un discorso visivo in continua trasformazione.

Negli ultimi trittici per Chiasso, che hai disegnato per presentare il programma delle stagioni culturali, hai usato una griglia basata su un sistema elementare di multipli. Infatti. Sono partito dal formato del manifesto cosiddetto mondiale (F4), sette moduli quadrati per dieci. Ho dunque sviluppato un sistema che si basa su una griglia di settanta moduli. Questi trittici hanno una finalità essenzialmente informativa. La programmazione è sempre complessa 197, 198 e diversificata, quattro discipline con proposte che spaziano dal classico alle ricerche più sperimentali. L’eterogeneità del referente, per raggiungere un corretto ordine espositivo, costringe a essere “neutrali”, a privilegiare l’approccio informativo. Sul piano visivo si esplicita allora l’identità dell’ente e non la specificità di ogni singola proposta, approccio opposto a quello usato per il Museo Cantonale d’Arte. Qui mi limito a un unico carattere istituzionale, l’Akzidenz Grotesk, in due pesi soltanto: il chiaro e il nero. La ristrettezza del budget e dei tempi richiedeva inoltre un approccio sistematico che garantisse immediata riconoscibilità e tempi di realizzazione contenuti. Ciò nonostante, il gioco insito nell’elementare sistema geometrico dei bolli per i singoli spettacoli, dei campi rettangolari per le singole discipline (teatro, musica, danza, cinema) e dello “scarto” prodotto dalla presenza iconica e dai tagli radicali, lascia spazio per la componente emotiva o spettacolare e consente di evitare troppa rigidità e ridondanza. Hai ancora usato una griglia elementare nel trittico della Biennale Bi6. Mi parli delle scelte tipografiche? Ovviamente la griglia era indispensabile nel manifesto a sinistra. Un’informazione così complessa 210 richiedeva di essere chiaramente strutturata. Ciò che è interessante qui è che l’apparentemente gioco212, 213 sa distribuzione delle nove sedi espositive è di fatto geograficamente corretta. Una vera e propria pianta concettuale. L’anomala struttura verticale della mostra posta in alto corrisponde all’orientamento della valle, dove gli ingrandimenti fotografici erano esposti a lato della strada, lungo la salita. È per un caso fortunato che la mostra principale, l’unica ad allargarsi su un doppio modulo, sia venuta a collocarsi al centro. Nel manifesto a destra, l’identica struttura verbale della doppia titolazione, Biennale dell’immagine.

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also vary from one, to one and one-half, to two columns. Each interview was marked on the top by a rule. The rule would bleed off the page when the interview was continued on the following page.To strengthen continuity, the horizontal bleeding of images was also allowed. In the second case, the grid is more complex, and the sizes to be used for the images are not based on an elementary system of multiples.The page is structured in accordance with specific functions and dimensional needs.The Boggeri catalogue fits in this category. For the text section, a simple four column grid was designed, establishing the four margins that were kept in the illustrated section.The catalogue developed from a central row that provided two different heights relating to the A4 and A5 basic formats, stressing horizontal continuity. Complementary mirrored rows could be used at the top and at the bottom of the page. From the central row, images could be enlarged to reach the top or the bottom line. The full height could also be used.The space separating the juxtaposed images along the rows would increase in accordance with their size.The captions, set in accordance with the typographical grid of the first section, were all grouped in the upper left corner of the lefthand page, the righthand page whenever the left was used with a full image. In the third case, functions, dimensions, and positioning belong to an open system where continuity is achieved through other devices, grid constants assuming a marginal role.The RSt set booklet you had mentioned before is exemplary in this respect.Typeface and body size are constant, but not the width of the column, nor its positioning.The only other constant—the fundamental one—is the strong, essential treatment of each title: the black underlining bar. It changes length, but is always placed at the top, bleeding off to the left on the lefthand pages, to the right on the righthand pages. A true “anaphora” of a visual discourse in continual transformation.

In the last Chiasso triptychs, designed to present the programme of the cultural seasons, you used a very simple grid, based on a square module. Yes, here I took advantage of the swiss F4 size: seven by ten square modules.The design system is therefore based on a seventy modules grid. These triptychs are essentially informative.The programme of the season is always complex and quite 197, 198 diversified, four disciplines that range from classic to experimental performances.The heterogeneity of the referent, in order to achieve visual clarity, called for a substantial “information design” approach. The visual identity relates here to the public institution rather than to the specificity of every single event, exactly the opposite approach of the one I applied for the Museo Cantonale d’Arte. Here I am limiting myself to a single corporate typeface: Akzidenz Grotesk in two weights only, Light and Bold. Besides, the small budget and the critical timing asked for a systematic approach that would guarantee immediate recognition and fast and easy production. Nevertheless, the rich play of the elementary geometric system of the discs (to present each performance), of the rectangles (to present each discipline: theater, music, dance, cinema) and the swerve of the iconic language with its radical croppings allows for visual emotion, avoiding too much rigidity and redundancy. Again you used a simple grid in the triptych for the Bi6 Biennial. Tell me about the typographic decisions. Obviously the grid is fundamental in the poster to the left. Such a complex information needed to be 210 clearly structured.What is interesting here, is that the apparently playful positioning of the nine exhibit 212, 213 locations is in fact geographically correct.Truly a conceptual map.The exceptional vertical structure of the exhibition at the top refers to the orientation of the valley, in which the photographic blow-ups were exhibited along the road. I was lucky enough that the main exhibition, the only one with the title running over two modules, sits right in the middle. In the poster to the right the identical structure in the wording of the double title Biennale dell’immagine.Geografie dell’invisibile (Biennial of the image. Geography of the invisible) suggested a double specular simmetry: left-right, top-bottom, and of course “Geography of the invisible” demanded to be less and less visible.The contrapuntistic play of the logo


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Geografie dell’invisibile, ha suggerito una doppia simmetria speculare: sinistra-destra, alto-basso. Poi, naturalmente, “Geografie dell’invisibile” ha richiesto di essere sempre meno visibile. Il gioco contrappuntistico tra verticale e orizzontale del logo dialoga sottilmente con le strutture composite del doppio titolo, con gli affascinanti piani e ritmi dell’immagine di Mario Cresci al centro e con la rigorosa composizione tipografica sulla sinistra. Qui la danza dei nove rettangoli neri, nel gioco ritmico di barre, titoli e testi, si contrappone al gioco bianco dei dodici riflessi danzanti sulla strada. Hai parlato di ristrettezza del budget. Ricordo che una volta mi dicesti che le idee migliori nascono spesso dalle restrizioni, anche dalla necessità di contenere i costi. Nel caso delle campagne per Festate, un piccolo festival dove quasi tutti gli eventi sono gratuiti, sono 201 sempre riuscito a produrre il manifesto F4 e il trittico al costo di un singolo manifesto. Nel trittico il secondo e il terzo manifesto sono infatti ottenuti continuando a stampare uno o più soggetti presenti nel primo. Il gioco della ripetizione è qui esplicito. Per la mostra di Francine Mury il trittico, che prevedeva anche in questo caso una tiratura minima, 211 è ottenuto interrompendo la stampa di titolo e testi sull’opera d’arte, per stamparli successivamente sui due manifesti laterali. Nel manifesto Free Freedom la procedura che consente il contenimento del costo non viene invece 50 svelata. In totale servono sei lastre. Per il manifesto F4 cinque: quelle del cyan, magenta, giallo, nero e di 208 un quinto colore, il Pantone 536, per il sassofonista. Questo manifesto nel trittico viene posto a destra. Per il manifesto centrale serve la sesta lastra (un secondo nero), poi uso ancora quelle del cyan, magenta e giallo; per l’ultimo manifesto uso nuovamente quelle del secondo nero, del cyan e del giallo. Nascondo la ripetizione affiggendo quest’ultimo manifesto sottosopra. È incredibile. Mi viene in mente la definizione che MichelWlassikoff aveva dato del tuo lavoro: “Funzionalismo magico”13. Si addice perfettamente. L’anno successivo il titolo Black holes ti consentì di stampare il trittico con quattro lastre, senza ripetizioni. I tuoi buchi neri sono magici, come li hai fatti? Con una matita, in un foglio di carta. Poi ho proiettato la luce attraverso i buchi su una parete bianca 209 muovendo lentamente e in continuazione sia la lampada sia il foglio mentre Nicolas scattava. Scelti alcuni scatti, li ho girati al negativo, poi ho cominciato a “comporre”. Ma d’altronde sembri avere, giustamente, il coraggio di disubbidire ai cattivi brief. Come nel caso del manifesto per il Musée d’Orsay. Raccontami di nuovo tutta la storia. Nella primavera del 1986, pochi mesi prima dell’inaugurazione del nuovo museo, fu bandito un concorso 109 per il manifesto che ne annunciava l’apertura. Ci furono diverse centinaia di proposte. La maggior parte mostrava un dipinto, oppure un dettaglio di un dipinto; altri mostravano l’edificio, o un dettaglio dell’edificio: la testa di Nettuno, il grande orologio, la straordinaria volta. Ma c’erano anche alcuni grafici avanguardisti che avevano giocato con le parole, trame, triangoli e stratificazioni varie. Il logo era quasi sempre minuscolo, spesso cacciato in strani posti, probabilmente perchè ad alcuni era sembrato un pò antiquato o forse perchè d’impiccio nella loro composizione. Il capo dei conservatori decise che non voleva vedere nessun quadro, nemmeno un dettaglio di un quadro, mentre il direttore si accorse di non voler vedere l’edificio, nemmeno un dettaglio dell’edificio. Entrambi, non essendo introdotti nei meandri della grafica contemporanea, ignorarono le conquiste degli avanguardisti. Così la giuria aggiudicò due secondi premi, un terzo e nessun primo premio. Siccome il manifesto doveva annunciare l’apertura lo volevano a tutti i costi, e subito. Avendo disegnato il logo e la segnaletica del museo, ma non avendo partecipato al concorso, fui chiamato a Parigi. In un breve incontro con Jean Jenger, il direttore, e Léone Nora, responsabile per le pubbliche relazioni, emerse che gli unici elementi necessari erano il logo e la data. E così mi ritrovai a Meride con un nuovo coraggioso brief a comporre e ricomporre logo e data, data e logo senza giungere da nessuna parte. Non succedeva nulla, non apriva nulla, non iniziava nulla. Mi avvicinai ai miei libri di fotografia,

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13. MichelWlassikoff, Bruno Monguzzi: Exposition à la Maison du Livre de l’image et du son,Villeurbanne, “Signes”, 7, 1992, p.45.


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(vertical versus horizontal) establishes a subtle dialogue with the inner structures of the double title, with the fascinating planes and rhythms in Mimmo Jodice’s image at the center and with the rigorous tipographical composition on the left. Here the dance of the nine black rectangles, with the rhythmic play of bars, titles and texts opposes the orderly white play of the twelve dancing reflections on the street.

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You mentioned small budgets. Once you told me that the best ideas often come from the constraints, even from the necessity to restrain the cost. In the case of Festate, a small summer festival where most of the events are free, I always managed to 201 produce the F4 poster and the triptych at the cost of a single poster. In the triptych the second and the third posters are in fact obtained by continuing the printing of one or more subjects belonging to the first poster. A play on repetitions. For the exhibition of Francine Mury’s work, the triptych, again with a very limited run, is produced by 211 continuing the printing of the F4 poster without the information, and by printing successively the title and the texts on the flanking posters. In the jazz poster Free Freedom the procedure that restrains the cost is instead unrevealed. 50 Six plates are used in total. Five for the F4 poster: the cyan, magenta, yellow and black plates plus a fifth 208 one for Pantone 536. In the triptych version this poster goes to the right.The middle poster needs the sixth plate (a second black) and again the cyan, magenta and yellow plates, the last poster, the second black, cyan and yellow plates again. I hide the repetition by hanging this last poster upside down. It’s amazing.The definition of your work as “Magic functionalism”,13 given by MichelWlassikoff, is perfect. The following year, taking advantage of the Black holes title, you managed to print the jazz triptych with four plates only. Again, your black holes are magic, how did you actually made them? With a pencil, and a sheet of paper.Then I projected light through the holes on a white wall and kept 209 moving the light and the paper slowly while Nicolas was shooting. I picked several frames, turned them into negative and the “music” started. On the other hand you seem to have the courage to appropriately disobey the wrong briefs. A good case in point is the poster competition for the Musée d’Orsay.Tell me again the full story. In the spring of 1986, a few months before the opening of the new Musée d’Orsay in Paris, a competition 109 to design a poster for the opening was organized, so that a show of the best projects could be held, and the press could talk once more about this impending birth. As you know there were several hundred entries. Most of them were showing a painting, or a detail from a painting. Others were showing the building, or a detail from the building: the head of Neptune, the great clock, the huge vault. But there were also some avant-gardist designers playing with words, textures, layers, and triangles.The logo was mostly very small, and often pushed in a funny place, probably because to some it looked old fashioned, and to others it would disrupt their compositions.The head of the curators realized that he did not want to see a painting, not even a detail from a painting; the director did not want to see the building, not even a detail from the building. Both, not knowing anything about graphic design, disregarded the avantgardists achievements. So the jury ended up with two second prizes, one third, and no first prize to be printed. Since the poster was to announce the opening, they needed it badly. Fast. Having designed the logo and the signage, but not having entered the competition, I was called to Paris. In a rather short meeting with Jean Jenger, the director, and Léone Nora, in charge of public relations, we realized that the only necessary elements were the logo and the date. So here I was at home in Meride with a new brief and began to endlessly play around with the date and the logo, the logo and the date, getting nowhere. Nothing was happening, nothing was opening, nothing was beginning. I walked over to my photography books, picked a Lartigue’s album, and slowly began to go through the pages.When I came to the image of his brother taking off with a glider that their uncle had constructed at the chateau of Rouzat, I knew I had the answer.The fly had broken the web. 38

13. MichelWlassikoff,“Bruno Monguzzi: Exposition à la Maison du Livre de l’image et du son,Villeurbanne”, Signes, 7, 1992, p. 45.


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scelsi un album di Lartigue, e cominciai, lentamente, a scorrere le pagine. Quando arrivò l’istantanea di suo fratello che, con l’aliante costruito dallo zio nel castello di Rouzat, tentava ostinatamente di staccarsi da terra, seppi che quella era la risposta. La mosca aveva infranto la ragnatela. Ed eccomi nuovamente a Parigi con Jean Jenger e Léone Nora, sapendo di avere disubbidito. Usavo una fotografia allorquando le immagini erano state bandite. Jenger si arrabbiò: disse che avevamo concordato di non utilizzare un’opera d’arte. E che comunque non si trattava del museo dell’aviazione. Replicai che si trattava evidentemente di una metafora, e che i parigini, che ormai conoscevano il logo, ben sapevano di che museo si trattasse; aggiunsi nondimeno che era il “suo” manifesto e che il suo gruppo di lavoro vi si doveva riconoscere. Ma Jenger già non mi stava più ascoltando e aveva cominciato a camminare nervosamente su e giù per la stanza, ragionando a bassa voce. Cercai di interromperlo, asserendo che non mi doveva convincere, ma mi zittì dicendo che stava pensando. I miei occhi incrociarono gli occhi di Madame Nora, un po’ perplessi, ma molto belli, e ci sedemmo. Jenger ogni tanto si fermava, guardava il bozzetto, per poi riprendere la sua ginnastica. Penso stesse immaginando le possibili reazioni di tutte le persone a lui note, reali o virtuali che fossero, una specie di commedia umana dal finale sorprendente.“Monguzzi”, disse,“sono così sicuro che il manifesto è giusto che lo voglio portare io stesso da Rigaud” (il presidente). Il giorno successivo mi chiamò Madame Nora, preoccupatissima. La Fondazione Lartigue non consentiva il taglio delle fotografie. Non sapendo che pesci pigliare le chiesi di provare a mostrare comunque il progetto. Non solo fummo autorizzati a usare l’immagine tagliata, ma una stampa d’epoca di questo scatto fu regalata al museo. Era il quarto Lartigue a entrare nella loro collezione. Dieci giorni dopo, il venerdì 12 settembre, all’età di novantadue anni, moriva Jacques-Henri Lartigue. Il manifesto divenne un omaggio postumo. Dopo l’apertura Florette Lartigue scrisse a Jacques Rigaud quanto suo marito sarebbe stato felice nel vedere il suo aliante planare titubante sopra tutta Parigi. Presumo che qualche studente o giovane grafico si troverà tra le mani questo libro: anche loro devono trovare il coraggio della disubbidienza. Disubbidire ai cattivi brief; disubbidire alle regole quando impediscono il raggiungimento dello scopo; disubbidire alle mode, alle tendenze, agli pseudo stili, perché riducono il ventaglio delle soluzioni possibili. Non devono consentire alle mode, alle tendenze, agli “stili” di strappare pagine dal dizionario della comunicazione visiva.

Rick Poynor ha scritto che tu hai “sviluppato un linguaggio grafico incontaminato dai capricci delle mode”14. Qual è la relazione trail design e il mondo delle mode? All’inizio degli anni sessanta diversi grafici milanesi chiesero a Grisetti, un piccolo tipografo con il quale Boggeri lavorava, di buttare il Cairoli o l’Etrusco, due caratteri bastone di grande forza, per far posto all’Helvetica. Nel dubbio Grisetti decise di consultare “i due svizzeri di Boggeri”. Aldo e io concordammo che avremmo potuto fare a meno dell’Helvetica. La lezione di Boggeri era di ribaltare i limiti in vantaggi e di concentrarci sulla sostanza delle cose, comunque Grisetti aveva già l’Akzidenz Grotesk, dal corpo 6 al 60 in due pesi. Quando lasciò l’ufficio il buon Grisetti ci parve un po’ perplesso. I grafici italiani erano più svizzeri degli svizzeri. Improvvisamente era sembrato a molti che non fosse più possibile fare buona grafica senza l’Helvetica. Forse non è così strano che coloro che detestavano il Gill Sans nel sessanta se ne innamorarono nell’ottanta, trovando peraltro l’Helvetica noioso. Che cosa vedevano di fatto? Qual’è la relazione tra le caratteristiche fondamentali di un carattere, il suo peso, il suo ritmo, come si compone, come si legge, e i fugaci capricci delle mode? Ma il termine moda è fuorviante. Perché il sistema della moda, nella moda, non intacca realmente la natura del prodotto. Paradossalmente potremmo dire che in realtà non cambia mai nulla. Una scarpa rimane una scarpa, un cappello rimane un cappello. È come nel design dell’automobile, la carrozzeria cambia ogni anno ma l’automobile rimane automobile, non diventa cavallo o bicicletta. Un bikini rimane un costume da bagno anche in un tessuto leopardato. Non pretende di diventare una pelliccia. Il designer di moda disegna il costume in varie misure e in diversi colori. Potremmo dire che disegna ma non applica. La scelta decisiva, combinare il giusto sotto con il giusto sopra, cioè l’applicazione della

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14. Rick Poynor,Valentina Boffa, Reputations: Bruno Monguzzi, in "Eye", 1, London 1990, p. 8.


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And here I was, back in Paris again, with Jean Jenger and Léone Nora, knowing I had disobeyed. I was using a photograph, and no image was to be used. Jenger got very upset. He said that we had all agreed that no work of art should appear on the poster, and that anyway it was not “le musée de l’aviation”. I said that it was a metaphor and that the people that knew the logo knew what the museum was all about. I nevertheless added that the poster had to be their poster.That it should belong to them. But Jenger had stopped listening and began to talk to himself pacing nervously up and down the room. I tried to interrupt him, asserting that he did not have to convince me. He said he was thinking. My eyes met the eyes of Madame Nora, which were a bit perplexed, but very beautiful, and we sat down.Jenger would sometimes stop, look at the poster, and then start his gymnastics all over again. I think he was trying to imagine the possible reactions of all the people he really or virtually knew. A kind of French human comedy with an unexpected end. “Monguzzi”, he said, “I am so convinced that the poster is right, that I will bring it myself to Rigaud” (the president of the museum). The following day a worried Madame Nora was on the phone.The Lartigue Foundation does not allow the cropping of Lartigue’s photographs. Not knowing which way to turn I asked her to try showing the project to the Foundation anyway. Not only were we allowed to use the photograph as planned, but a vintage print of that shot was given to the museum. It was the fourth Lartigue to enter the collection. Ten days later, on Friday the 12th of September, at the age of ninety-two, Jacques-Henri Lartigue died. The poster became a posthumous homage. After the museum’s opening Florette Lartigue wrote a touching letter to Jacques Rigaud, expressing how “heureux” her husband had been, and how happy he would have been seeing his glider all over Paris. I assume some students will read this book: you also have to learn to have the courage to disobey. Disobey the wrong briefs; disobey the rules when they don’t allow you to reach the proper goal, disobey fashion and trends because they limit the range of the possible solutions. Don’t let fashion, “style”, and trends tear off pages from the dictionary of visual communication. Rick Poynor wrote that you have developed a graphic language untouched by the passing whims of fashion. What is the relation of design to the world of fashion (current trends)?14 At the beginning of the sixties, in Milan, several Italian designers asked Grisetti, a small typographer Boggeri used to work with, to throw away Cairoli or Etrusco, two strong and beautifully designed sansserifs, to buy Helvetica. Having no room for another case, one had to go. He therefore decided to consult with “the two Swiss” at Boggeri’s. Aldo and I told him that we could do well enough even without Helvetica. Because Boggeri’s lesson was to turn limitations into advantages, to look for the substance of things—and Grisetti already had Akzidenz Grotesk. Six point to sixty point in two weights.When he left, he seemed perplexed. His Italian designers were more Swiss than the Swiss. Suddenly it seemed to many that without Helvetica, no good design could be achieved any more. What perplexes me is that some of these people, who hated Gill Sans in the sixties, fell in love with it in the eighties, and found Helvetica, instead, pretty boring.What were they actually seeing? What is the relationship between the fundamental characteristic of a typeface, its weight, its rhythm, how it sets, how it reads, and the passing whims of fashion? But fashion is a misleading word. Because the fashion system, in fashion, never truly affects the nature of the product. Paradoxically, we could say that nothing really changes. A shoe remains a shoe, a hat remains a hat. It’s like in automobile design, what you call the body (in fact, it is the dress) changes every year. But a car remains a car. It doesn’t become a horse or a bicycle. A bikini remains a bathing suit, even in a leopard print fabric. It does not pretend to become a fur coat to warm you up. The fashion designer designs the bikini in different sizes and various colors.We could say that he designs, but does not apply, the suit.The decisive choice is the consumer choice, putting together form and content—the bottom with the bottom, the bra with the breasts. The graphic designer designs and applies. He inevitably puts a form over a content. In graphic design, we keep going from bikini to fur coats. Often irrespective of the season. But since we do not catch

14. Rick Poynor,Valentina Boffa, “Reputations: Bruno Monguzzi”, in Eye, 1, London,1990, p. 8.


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“forma” al “contenuto”, la fa l’acquirente. Il grafico disegna e applica. Mette inevitabilmente una forma su un contenuto. In grafica passiamo spesso dal bikini alla pelliccia prescindendo dalla stagione. E siccome non becchiamo mai un raffreddore non ce ne accorgiamo nemmeno. Introduciamo in continuazione nuovi segni ripetuti massicciamente ma slegati dal contenuto, dal referente, dal problema. Nella ricerca della libertà, molti grafici sembrano di fatto adeguare il loro “personale” linguaggio a quei modelli visivi che presto diventano abusati, superati e poi rigettati in una specie di contagiosa bulimia visiva. Il sistema delle mode grafiche corrisponde ad un minuscolo dizionario tascabile che subisce continue revisioni. L’unica costante nelle continue riedizioni è l’assenza di una grande quantità di vocaboli. Penso che i cambiamenti nel design debbano essere dettati dai contenuti, non dalle mode. Il nuovo design, diceva Charles Eames, trova origine nei nuovi problemi.Vorrei citare un altro maestro: Achille Castiglioni. “Non c’è uno stile Castiglioni. C’è un metodo Castiglioni”, ha asserito in un’intervista per la sua mostra al MoMA di NewYork. Il metodo di un “designer fuori moda”15 . Raccontami di Leonardo. So che Gabriele Capelli ha deciso di pubblicarlo nella versione originale di quarantotto pagine. Anna mi ha anche detto che Rosellina Archinto ti aveva chiesto una seconda versione ridotta a trentadue pagine e che però, poco dopo, Emme Edizioni aveva dovuto chiudere. So che allora era tuo compito, la sera, raccontare storie a Elisa e Nicolas. È vero, per alcuni anni racconto loro storie. Quelle che invento nascono generalmente da una parola scelta da loro e per alcuni anni non mi passa per la testa di disegnarne loro una. Un giorno, siamo all’inizio del 1979, Rosellina Archinto mi dice che le sarebbe piaciuto fare un libro dove anche il testo sia immagine e allora “immagino” Leonardo, raccontato un anno prima. È la storia di un cavallo—Leonardo, appunto—in omaggio al grande cavallo modellato da Leonardo da 96, 97 Vinci per Ludovico il Moro e mai fuso poiché quel bronzo aveva preso la strada delle fonderie di cannoni. Di un cavallo, ti dicevo, su cui accumulo le cose più disparate finché Elisa si irrita preoccupandosi 39 per il povero animale. Allora, a una a una, seguendo destini diversi, queste improbabili cose lasciano 40 il cavallo stanco, il quale,“per portento, si fa in quattro e diventa un monumento”. È una rivisitazione di cose amate, di soggetti eterogenei eterogeneamente rappresentati: il Colleoni di Andrea delVerrocchio, il cappello di Magritte, l’uccello preromanico di San Pietro a Biasca, un uccellino molas, un ombrellone di carta giapponese, il calabrone del dizionario di scuola, un calamaio liberty, la calamita rosso e nera, la formica del Neocid, la mosca tze-tze, un pennino a manina, il branzino disegnato dall’evoluzione della specie, la pescera disegnata da Roberto Sambonet, un anonimo generale, la marcia dei marsigliesi, la stufa della bisnonna, il Re Gaspare di Navasa, un ideogramma giapponese, il Blumenmythos di Paul Klee, l’orante di Pedret, l’orologio cipolla, l’uomo che guarda l’ottavo di luna di Magritte, il cavaliere nudo di Muybridge, la segnaletica bodoniana diVenezia, i cavalli di San Marco. Quello che mi intriga è intrigare il bambino con linguaggi figurativi diversi e diversi dai propri. Di farlo giocare con divaricazioni visive e connessioni fonetiche, con rime interrotte e associazioni di icone. Di sorprenderlo ad ogni foglio, dove il voltare pagina sia sipario che si alza, e lo spettacolo, ogni volta, si reinventa. Dove, per esempio,“grande” diventa grande,“ombrellone” ombrato, la “A” di “Allora il generale mise in tasca il suo giornale per marciar sull’arsenale” segno direzionale in una didattica connessione tra referenza e significanza.Ti dicevo di modalità figurative diverse da quelle del bambino e lontane da certi stereotipi dell’editoria per l’infanzia. Qualcuno mi chiedeva se questo non avesse reso il libro “adulto”. Credo che i bambini siano solo “infantili” nella testa degli adulti e ricordavo a questo amico uno studio riportato da Metzger in Education of Vision di Kepes, che certo tu conosci. I linguaggi che ci sembrano più prossimi a quelli del bambino sarebbero di fatto quelli che lo interessano meno, risultando, per il suo sviluppo mentale i meno utili. Nel 2000 sei stato il primo grafico non giapponese a ricevere il PremioYusaku Kamekura. Quando nel 1989Yusaku Kamekura decise di dirigere il quadrimestrale “Creation”, aveva pianificato un numero limitato di uscite, venti, per pubblicare i progettisti da lui ritenuti particolarmente significativi.

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15. Gianluigi Nicolin, Castiglioni: io designer fuori moda, in "Corriere della Sera", 20 dicembre 1997, p. 33.


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a cold, we are not even aware.We keep introducing visual elements repeated massively, but disorganically related to the reference, to the content, to the problem. In the hope of freedom, many graphic designers seem in fact to adapt their “personal” language to visual models that immediately become abused, overused, and then rejected in a kind of contagious visual bulimia. The fashion system is like a pocket dictionary with continuous revised editions.The only constant in the constant changes is that a lot of words are missing. I think that changes in design should be dictated by the content, not by the fashion system. “New design”, as Charles Eames stated, “comes from new problems.”And I would like to quote another master, Achille Castiglioni.“There is not a Castiglioni style. There is a Castiglioni method”, he asserted in an interview for his MoMA exhibition in NewYork, a method, he added, of a “designer out of fashion.”15

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Tell me about Leonardo. I know that Gabriele Capelli is going to publish it in the original forty-eight-page version. Anna mentioned that Rosellina Archinto had asked you to reduce it to thirty-two pages but that shortly after, unfortunately, her publishing house had to close. At that time it was your duty, before they would sleep, to tell stories to Elisa and Nicolas. It’s true, I did it for several years.The stories were usually inspired by a word of their choosing and for several years it never occurred to me to illustrate one for them. One day, at the beginning of 1979, Rosellina Archinto told me she would like to publish a book in which the texts are designed as the images, and so I “imagine” Leonardo, a story I had told them a year earlier. It is the story of a horse—Leonardo, actually—in homage to the large equestrian statue modelled by 96, 97 Leonardo daVinci for Ludovico il Moro but never cast; the bronze was sent to the cannon foundries. A horse, as I was saying, upon which I was heaping the most disparate objects until Elisa got very upset, 39 worrying for the poor animal.Then, one by one, these improbable objects, headed for different destinies, 40 were removed from the tired horse, which, by magic, was transformed into an amazing monument. It is the revisiting of things loved, of heterogeneous objects heterogeneously represented: the Colleoni of Andrea delVerrocchio, the bowler hat of Magritte, the pre-Romanesque bird of San Pietro in Biasca, a little Molas bird, a Japanese paper umbrella, the hornet from a school dictionary, a Liberty inkwell, a red magnet, a Neocid ant, a tzetze fly, a nib in the shape of a hand, a sea bass designed by the evolution of the species, the fish kettle designed by Roberto Sambonet, an anonymous general, an old print of marching soldiers, my grand-grandmother’s stove, King Gaspare of Navasa, a Japanese ideogram, Paul Klee’s Blumenmythos, a small praying figure from Pedret, a large round pocket watch, the man watching the octave of the moon by Magritte, the naked horseman by Muybridge, the Bodoni street signs of Venice, the golden horses of San Marco. What intrigues me is to intrigue the child with different figurative vocabularies that are also different from his own; to have him play with visual breaks and phonetic links, with interrupted rhymes and iconic associations; to surprise him on every page, so that turning the page becomes like raising the curtain upon a show that is reinvented each time.Thus, for example, the word “large” becomes large, “umbrella” appears shadowed, the “A” (in “Allora il generale…”— the general marching to the arsenal) becomes a directional sign of a didactic connection between reference and meaning. I talked about using different figurative modalities than those of a child. A friend once asked me whether this approach doesn’t make it more of an “adult” book. But perhaps children are only “childish” in the minds of adults. I reminded this friend of a study reported by Metzger in Kepes’s Education ofVision that struck me years ago.The vocabularies that we might think would be close to that of the child are in fact those that interest him the least, and they are consequently the least instrumental in his mental development. In 2000 you were the first non Japanese designer to receive theYusaku Kamekura Design Award. When Kamekura, in 1989, decided to edit the quarterly Creation, he had planned a limited number of issues, twenty, to feature the creators he considered meaningful. A few friends around the world would

15. Gianluigi Nicolin, “Castiglioni: io designer fuori moda”, in Corriere della Sera, 20 December1997, p. 33.


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Alcuni amici lontani lo avrebbero aiutato a raccogliere i materiali nel mondo e fui sorpreso quando ShizukoYoshikawa, moglie di Joseph Müller-Brockmann, mi chiamò chiedendomi alcune diapositive. Ancora più sorpreso fui l’anno successivo quando daTokyo arrivò il numero 13 di Creation, con un lucido testo di Gene Federico. Otto anni dopo, un mattino molto presto, era piena estate, MasamiTanaka-Kikuchi, che era stata assistente diYusaku Kamekura, è al telefono. Chiama dallaTriennale del manifesto diToyama. È molto felice, così dice,di informarmi che ho vinto una medaglia d’oro e… piccola pausa, loYusaku Kamekura Design Award. E la sua voce sembra veramente felice. Sono esterrefatto. A toccarmi profondamente è proprio la notizia del premio Kamekura. Masami mi prega di saltare sul primo aereo. Il volo è in ritardo. Sono tutti lì ad aspettarmi.Tra i funzionari giapponesi vedo IkkoTanaka, Shigeo Fukuda, Kazumasa Nagai. C’è anche Uwe Loesh. Come sempre porta una giacca nera su una camicia nera, pantaloni neri, una lunga scarpa nera su un calzino nero sul piede sinistro e una lunga scarpa bianca su un calzino bianco sul piede destro. NiklausTroxler porta la sua tonda faccia rossa ridente. Masami è la prima a salutarmi. È così bella. Io sono felice. Io so che non lì non si può fare, ma prendo il suo volto tra le mie mani e bacio, con orientale dolcezza, la sua fronte. Perfettamente liscia. ImmaginoYusaku Kamekura, con il suo sorriso nascosto, che guardandoci dal cielo sta pensando: “Sapevo che sarebbe successo”. Io so che Paul Rand era molto legato a Kamekura, forse tu sai che Kamekura gli aveva pubblicato un grande servizio, con un testo di Fukuda, sul primo numero di “Creation”. Nell’articolo su di te ricordo che c’è una doppia pagina sul tuo portfolio Della Pazzia. Gene Federico, nel suo testo, ne parla lungamente. Immagino tu sappia che anche a Paul Rand era piaciuto tantissimo, mi aveva detto di averlo appunto visto a casa dei Federico. È vero che sei stato invitato nell’AGI subito dopo il congresso di Bath del 1978, dove Roberto Sambonet lo aveva presentato? Sì, sono stato invitato l’anno successivo. A proposito di Della Pazzia Valentina Boffa mi ha raccontato 95 anni dopo che Alan Fletcher aveva portato il portfolio in studio per mostrarlo ai collaboratori. Colin Forbes, socio di Alan a Pentagram, era allora presidente dell’AGI. Conoscevo il lusinghiero giudizio di Paul Rand perché Gene me ne aveva parlato, poi Paul mi aveva mandato una lettera molto cara. Paul Rand è stato nominato Honorary Royal Designer for Industry nel 1973, il riconoscimento di una vita. Tu sei stato eletto trent’anni dopo, nel 2003. È stata una sorpresa? Qual è stata la tua prima sensazione? Certo che è stata una sorpresa.All’inizio degli anni ottanta, quando stavo scrivendo un libro su Piet Zwart 41 avevo trovato nel suo studio—dopo la sua morte nulla era più stato toccato in quella stanza, le sue matite erano ancora ben ordinate sul tavolo, come se lo stessero aspettando—una lettera di JanTschi42 chold del 1966 in cui si rallegrava di poterlo incontrare presto alla Royal Society of Arts di Londra. Zwart sarebbe appunto diventato un nuovo membro onorario quell’anno, mentreTschichold era stato eletto l’anno prima. Avevo poi scoperto che quasi tutti i miei altri “grandi” erano, o sarebbero finiti, su quella lista. Da Gropius ad Alvar Aalto, da Herbert Bayer a Sandberg, da Herbert Matter ad Armin Hofmann, da Müller-Brockmann a Karl Gerstner, da Marcello Nizzoli a Franco Albini, da Charles Eames a Paul Rand, da Saul Bass a Saul Steinberg, da André François a HenrykTomaszewski, da Carlo Scarpa ad Achille Castiglioni. E dunque ti puoi immaginare quando ho ricevo la telefonata da Londra! Più che una sensazione fu un vortice di emozioni. La meno ovvia fu un senso di estraneazione, sentirmi ancora più parte di qualcosa di diverso, lontano, sconnesso da quel mondo che mio malgrado rimaneva il mio mondo, e lungo l’ineluttabile pesantezza affiorava, come velata, una sensazione quasi opposta, come di leggerezza. Forse ciò che Gene Federico, senza avere mai letto SimoneWeil, aveva definito “grazia”.

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help him to gather the materials for the final selection and I was surprised when ShizukoYoshikawa, wife of Joseph Müller-Brockmann, called to ask for a bounch of slides. Even more surprised I was the following year when the 13th issue of Creation, with a beautiful text by Gene Federico, arrived fromTokyo. Eight years later, it was a full summer day, very early in the morning, MasamiTanaka-Kikuchi, who used to be Kamekura’s assistant, was on the phone. She was calling from theToyama PosterTriennial and was very happy to inform me that I had won a Gold Medal and… theYusaku Kamekura Design Award. Her voice, indeed, seemed happy. I was astounded.What really touched me deeply was the news about the Kamekura Award. Masami urged me to jump on a plane. The plane was late.They were all there waiting for me. Among the Japanese officials I recognize Ikko Tanaka, Shigeo Fukuda, Kazumasa Nagai. Uwe Loesh was also there, wearing, as always, a black shirt, a black jacket, a pair of black trousers, and a long white shoe on a white sock on his left foot, and a long black shoe on a black sock on his right foot. NicklausTroxler was wearing his smiling Swiss red face. Masami welcomed me first. She was so beautiful. I was so happy. I knew I was not supposed to do so, but I held her face in my hands and gently, very gently, kissed her forehead. Perfectly smooth. I imagine Yusaku Kamekura with his hidden smile, looking down on us, thinking: “I knew this would happen.” I know that Paul Rand was a good friend of Kamekura.You problably know that Kamekura edited a generous selection of Rand’s work in the first Creation issue, with a text by Fukuda. In your issue I remember he selected eight pages from the portfolio Della Pazzia, Gene Federico talks at lenght about this piece in his article. I guess you know that Paul Rand too liked your portfolio a lot, he told me he saw it first at the Federico’s house. Is it true that the invitation to join AGI came after the 1978 AGI congress in Bath, where Roberto Sambonet had presented it? Yes, I was invited into AGI the following year. In relation to Della Pazzia Valentina Boffa told me years 95 later that Alan Fletcher brought the portfolio to the office to show it to all the assistants. Colin Forbes, one of Alan’s partners at Pentagram, was the AGI president at the time. I knew from Gene that Paul Rand was quite impressed by the portfolio, successively Paul even wrote a very touching letter to me.

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Paul Rand was nominated Honorary Royal Designer for Industry in 1973, a lifetime achivement recognition. You were elected thirty years later, in 2003.Was it a surprise? Do you remember your first feeling? Indeed it was.When I was writing a book on Piet Zwart, in the early eighties, I found in his studio a letter 41 fromTschichold, dated1966, mentioning how happy he woud be to see him soon at the Royal Society 42 of Arts in London. Zwart was going to be elected Honorary Royal Designer for Industry that same year, whileTschichold had been elected the year before. I then found out that all my other “Gods” were, or would be later, on that list. Gropius and Alvar Aalto, Herbert Bayer and Sandberg, Herbert Matter and Armin Hofmann, Müller-Brockmann and Karl Gerstner, Marcello Nizzoli and Franco Albini, Charles Eames and Paul Rand, Saul Bass and Saul Steinberg, André François and HenrykTomaszewski, Carlo Scarpa and Achille Castiglioni. So you can imagine when I received the London phone call! My first feeling was in fact a turbulent mix of emotions.The least obvious was to feel even more estranged, to suddenly feel part of something that was different, distant, disconnected from the present world—and along the eneluctable sense of gravity, appeared, as through a veil, an almost opposite sensation, a sort of lightness. Perhaps what Gene Federico, without knowing SimoneWeil, used to define as “grace”.


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In associazione con In association with 3-7

Dennis Bailey London

1,2

Alan Irvine London

9-15, 17, 33, 66, 87, 89-91

Studio Boggeri Milano

16, 18

Studio Bighi Milano

19-26

Gagnon/Valkus Montréal NewYork

27-32, 34-44, 46-52, 67-73, 86, 88 94-96

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Studio Sambonet Milano

Visuel Design JeanWidmer Paris Ray Knobel Sabina Hoberholzer RenatoTagli Cevio

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Mostre personali Solo exhibitions 1997 ‘Della pazzia’, Galleria M’Arte, Milano 1982 ‘Bruno Monguzzi, Della pazzia’, Public Library, Pound Ridge, NewYork 1992 ‘Bruno Monguzzi’, Maison du livre, de l’image et du son,Villeurbanne 1993 ‘Plakate von Bruno Monguzzi’, Migros Hochhaus, Zürich 1997 ‘Bruno Monguzzi. L’immagine del museo’, Museo Cantonale d’Arte, Lugano 1998 ‘Bruno Monguzzi. A Designer’s Perspective’, Fine Arts Gallery, University of Maryland, Baltimore 2000 ‘Bruno Monguzzi. A poet of Form and Function’, ggg Gallery,Tokyo 2001 ‘Bruno Monguzzi. Eine Retrospective 1961-2001’, Gewerbemuseum, Winterthur 2002 ‘L’image de l’art. L’identité visuelle du Museo Cantonale d’Arte, Lugano’, Le mois du graphisme, Echirolles 2006 ‘Bruno Monguzzi. Une rétrospective’, Les silos, Chaumont 2008 ‘Bruno Monguzzi. Retrospektywa’, The Silesian Castle, Cieszyn 2010 ‘Bruno Monguzzi. Maestro of Form and Function’,The House of Artists, Tehran

Studio CCRZ Balerna

Monografie Monographs 1992 1998

2003

2004

Bruno Monguzzi, Maison du livre, de l’image et du son,Villeurbanne Franc Nunoo-Quarcoo, Bruno Monguzzi. A Designer’s Perspective, Issues in CulturalTheory, 2, University of Michigan, Baltimore Michele Jannuzzi, The Naked Word, Posters by Bruno Monguzzi for Museo Cantonale d’Arte, Lugano Jannuzzi Smith Editions, London Jianping He, Bruno Monguzzi, Design+Life, Lingnan Art Publishing House, Beijing

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Giovanni Anceschi Nato a a Milano nel 1939, è designer, artista, saggista e critico. È professore ordinario allo IUAV diVenezia, dove dirige il Dottorato in Scienze del Design. Ha studiato alla HfG di Ulm e ha insegnato in molte istituzioni universitarie, tra cui il Dams di Bologna e il Politecnico di Milano. Lavora al progetto di una revisione della disciplina del design della comunicazione in direzione di una registica multimodale.Tra le sue molteplici pubblicazioni si ricordano in particolare Monogrammi e figure (La Casa Usher, 1988) e L’oggetto della raffigurazione (Etas, 1992). Dieter Bachmann Nato nel 1940 nell’altra estremità della Svizzera, a Basilea, è romanziere, saggista e giornalista.Tra i suoi ultimi libri DieVorzüge der Halbinsel, un approccio critico all’Italia, e UnterTieren, un saggio narrativo sull’umanità e gli animali. È stato caporedattore della rivista culturale europea “du”dal 1988 fino al 1998 e direttore dell’Istituto Svizzero di Roma.Vive tra l’Italia, vicino ad Assisi, e Zurigo. Phil Baines Nato nel 1958 a Kendal (Cumbria), ha lavorato come disegnatore grafico dopo aver lasciato la RCA nel 1987, e collabora con “Eye” e altre pubblicazioni. È professore di tipografia presso la Central Saint Martins, University of the Arts London, dove è anche curatore del Central Lettering Record con Catherine Dixon. La loro collaborazione di lavoro include anche il sito web publiclettering.org.uk e il libro Signs: lettering in the environment (Laurence King, 2003). Baines ha scritto tre altri libri: Type & typography (con Andrew Haslam, seconda edizione, Laurence King, 2005); Penguin by design: a cover story 1935 – 2005 (Allen Lane, 2005); Puffin by design: 70 years of innovation 1940 – 2010 (Allen Lane, 2010). Antonio Boggeri (Pavia, 1900 –Santa Margherita Ligure, 1989) Violinista, fotografo e pubblicitario. La nascita della grafica moderna italiana si deve fondamentalmente a Boggeri il quale, dopo l’esperienza acquisita a partire dal 1924 presso la stamperia Alfieri & Lacroix e prendendo come punto di riferimento i modelli del Bauhaus, nel 1933 apre a Milano lo Studio Boggeri. Fin dall’inizio collabora con grafici che sono (o diventeranno) professionisti di fama internazionale. Medaglia d’oro dellaTriennale nel 1957, nel 1967 viene insignito del premio “Vita di pubblicitario” e, nel 1970, nominato membro onorario dell’Art Directors Club di Milano.


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Louis Danziger Nato nel 1923 a NewYork, è stato direttore artistico, designer e consulente e ha lavorato a Los Angeles dal 1949.Tra i clienti di lunga data ricordiamo la Atlantic Richfield Company, il National Endowment for the Arts Federal Design Improvement Program, il NEA’s Design Arts Awards Panel, la Dreyfus Agency e il Los Angeles County Museum of Art. Danziger ha insegnato per lungo tempo presso il Chouinard Art Institute, il California Institute of the Arts, la Harvard University e l’Osaka andTokyo Communication Arts. Le sue opere si trovano al Museum of Modern Art (NewYork), alla Library of Congress (Washington), e presso il Los Angeles County Museum of Art.

Nicoletta Ossanna Cavadini Nata a Rovereto (Trento), si è laureata all’Università diVenezia, ha conseguito il dottorato di ricerca in storia dell’architettura e dell’arte presso il Politecnico Federale di Zurigo conWerner Oechslin, e il postdottorato –sostenuto dal FNSRS –presso la University of California di Los Angeles. Attualmente è direttrice del m.a.x. museo di Chiasso e professore a contratto presso l’Università dell’Insubria SBAC–sede di Como –, nonché presso l’Università Cattolica di Milano. Nel corso di questi anni ha svolto ricerche riguardanti l’architettura, l’arte e la grafica pubblicando molti saggi e libri sull’argomento e partecipando a convegni internazionali.

Pierluigi Cerri Nato a Orta San Giulio (Novara) nel 1939, si è laureato al Politecnico di Milano. Nel 1974 è stato socio fondatore della Gregotti & Associati, con cui ha vinto numerosi concorsi d’architettura. Membro dell’Alliance Graphique Internationale, nel 1976 ha diretto l’immagine della Biennale diVenezia; è stato responsabile dell’immagine della Kunst-und Ausstellungshalle di Bonn e di Palazzo Grassi aVenezia. Ha vinto numerosi premi, fra cui il Compasso d’Oro nel 1995, 2001 e 2004; nel 1994 il premio Art Director Club alla Carriera, l’Award for Good Industrial Design e l’InternationalSuperYacht Design Award; nel 2006 il Premio Nazionale Ance-In/Arch. Nel 1998 fonda con Alessandro Colombo lo Studio Cerri & Associati.

Mario Pagliarani Compositore e “agitatore” culturale, è nato a Mendrisio nel 1963. Ha studiato composizione, violoncello e musica elettronica al Conservatorio di Milano.Tra i suoi maestri, Salvatore Sciarrino e Gérard Grisey. Sue composizioni sono state eseguite in Svizzera e all’estero, ottenendo vari riconoscimenti (Premio MusicaTicinensis, Concurso para obras radiofonicas della Radio National de España,Tribune internationale des compositeurs dell’UNESCO di Parigi). Nel 2001 fonda il “Teatro delTempo”, con cui realizza vari progetti di teatro musicale. Dal 2003 è ideatore dellaVia Lattea, pellegrinaggio ecologico fra le arti per il quale nel 2008 ha ricevuto il Premio Meret Oppenheim.

Claude Lichtenstein Nato nel 1949 a Zurigo, ha studiato architettura al Politecnico Federale di Zurigo. È attivo come curatore, docente e autore. Dal 1985 al 2001 ha realizzato mostre e pubblicazioni presso il Museum für Gestaltung a Zurigo. Nel 2006 ha curato l’importante mostra e catalogo “Spielwitz und Klarheit. Schweizer Architektur, Grafik und Design 1950 – 2006”. È autore di molti saggi sull’architettura, il disegno industriale e il graphic design, nonché su Max Bill, ChristianWaldvogel e Reinhardt Morscher.Vive e lavora a Zurigo. Franc Nunoo-Quarcoo Nato nel 1959 a Baltimora nel Maryland. Designer, educatore, scrittore e curatore nell’ambito del design. È professore di Art & Design presso la School of Art & Design alla University of Michigan. Il suo lavoro è rappresentato nelle collezioni permanenti di musei, archivi e biblioteche, in particolare gli American Institute of Graphic Arts Design Archives; CooperHewitt, National Design Museum, Smithsonian Institution; la American Association of Museums; il Denver Art Museum; e la Library of Congress Permanent Collection of Design and Rare Book Collections.

IkkoTanaka (Nara City, 1930–Tokyo, 2002) Si è laureato al Kyoto City College of Fine Arts nel 1950. Dopo il lavoro di design per Kanebo Co., Ltd., per Osaka Sankei Shimbun Co., Ltd, e per il Nippon Design Center, ha fondato lo IkkoTanaka Design Studio nel 1963. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti in Giappone e in tutto il mondo, compresi Polonia, Francia, Italia, Messico e Stati Uniti. È stato presidente delTokyo Art Directors Club. L’opera diTanaka è rappresentata, tra gli altri, nelle collezioni dello Stedelijk Museum nei Paesi Bassi, al Museum of Modern Art (NewYork), e al Kyoto Institute ofTechnology.

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Giovanni Anceschi Born in Milan in 1939, is a designer, artist, essayist and critic. He is professor at the Venice IUAV, where he directs the PhD course in Design. He studied at the HfG in Ulm and has taught at many universities including the DAMS in Bologna and the Milan Polytechnic. He is working on the project of revising the discipline of communication design to develop multimodal direction. Notable among his many publications is Monogrammi e figure (La Casa Usher, 1988) and L’oggetto della raffigurazione (Etas, 1992). Dieter Bachmann Born in 1940 at the other extreme end of Switzerland, in Basel, is a novel writer, essayist and journalist. Among his last books, DieVorzüge der Halbinsel, a critical approach to Italy and UnterTieren, a narrative essay about mankind and animals. He was editor in chief of the European cultural magazine du from 1988 until 1998 and director of the Swiss Institute in Rome. He lives in Italy near Assisi and in Zurich. Phil Baines Born in 1958 in Kendal (Cumbria), has worked as a graphic designer since leaving the RCA in 1987, and is a contributor to Eye and other publications. He is Professor ofTypography at Central Saint Martins, University of the Arts London, where he also curates the Central Lettering Record with Catherine Dixon.Their collaborative work includes the website publiclettering.org.uk and the book Signs: lettering in the environment (Laurence King, 2003). He has written three other books:Type & typography (with Andrew Haslam, 2nd edition, Laurence King, 2005); Penguin by design: a cover story 1935 –2005 (Allen Lane, 2005); and Puffin by design: 70 years of innovation 1940 – 2010 (Allen Lane, 2010). Antonio Boggeri (Pavia, 1900 –Santa Margherita Ligure, 1989) Musician, photographer and advertising executive.The creation of modern Italian graphic design is fudamentally due to Boggeri. After the experience gained from 1924 in the Alfieri & Lacroix print works and with the Bauhaus models as a frame of reference, in 1933 he opened the Studio Boggeri in Milan. From the start he worked with graphic designers who are (or became) internationally acclaimed professionals. He won the Medaglia d’oro at theTriennale in 1957; in the 1967 he was awarded the “Vita di pubblicitario”prize and in 1970 was made an honorary member of the Art Directors Club of Milan.

Louis Danziger Born in 1923 in NewYork, has been an art director, designer, and consultant working out of Los Angeles since 1949. Long-term clients include the Atlantic Richfield Company, the National Endowment for the Arts Federal Design Improvement Program, the NEA’s Design Arts Awards Panel, the Dreyfus Agency, and the Los Angeles County Museum of Art. Danziger has taught extensively at the Chouinard Art Institute, the California Institute of the Arts, Harvard University, and the Osaka andTokyo Communication Arts. His work is in the collections of the Museum of Modern Art (NewYork), the Library of Congress (Washington), and the Los Angeles County Museum of Art. Pierluigi Cerri Born in Orta San Giulio (Novara) in1939, graduated from the Milan Polytechnic. In 1974 he was a founding member of Gregotti & Associati, with whom he won several architectural competitions. A member of the Alliance Graphique Internationale, in 1976 he directed the image of theVenice Biennale; he was responsible for the image of the Kunst- und Ausstellungshalle in Bonn and Palazzo Grassi inVenice. He has won numerous awards including the Compasso d’Oro in 1995, 2001 and 2004 and in 1994 the Art Directors Club Award for Lifetime Achievement, the Award for Good Industrial Design, the International SuperYacht Design Award and the 2006 Premio Nazionale Ance-In/Arch. In 1998 he founded Studio Cerri & Associati with Alessandro Colombo. Claude Lichtenstein Born in Zurich in 1949, studied architecture at the ETH Zurich. He is active as curator, lecturer and author. From 1985 to 2001 he produced exhibitions and publications at the Museum für Gestaltung in Zurich. In 2006 he curated the major exhibition Spielwitz und Klarheit. Schweizer Architektur, Grafik und Design 1950 – 2006, and edited its catalog. He is the authorofmany essays on architecture, industrial design and graphic design, as well as Max Bill, ChristianWaldvogel and Reinhardt Morscher. He lives and works in Zurich. Franc Nunoo-Quarcoo Born in Baltimore in 1959, designer, educator, writer and curator on design. He is Professor of Art & Design in the School of Art & Design at the University of Michigan. His work is represented in the permanent collections of museums, archives and libraries, most notably the American Institute of Graphic Arts Design Archives; Cooper-Hewitt, National Design Museum, Smithsonian Institution; the American Association of Museums;The Denver Art Museum; and the Library of Congress Permanent Collection of Design and Rare Book Collections.

Nicoletta Ossanna Cavadini Born in Rovereto (Trento) graduated from the University ofVenice, received a PhD in history of art and architecture from the ETH Zurich underWerner Oechslin, and conducted postdoctoral research, supported by the FNSRS, at the University of California in Los Angeles. Currently she is director of the m.a.x. museo in Chiasso and professor at the University of Insubria in Como SBAC, and at the Catholic University in Milan. She has conducted research into architecture, art and graphics, publishing numerous essays and books on the subject and taking part in international conferences. Mario Pagliarani Composer and cultural “agitator”, born in 1963 in Mendrisio. Studied composition, cello and electronic music at the Milan Conservatory. His teachers included Salvatore Sciarrino and Gérard Grisey. His compositions have been performed in Switzerland and abroad, receiving various awards (Premio MusicaTicinensis, Concurso para obras radiofonicas of the Radio National de España,Tribune internationale des compositeurs of UNESCO in Paris). In 2001 he founded the “Teatro delTempo”, producing various musical theatre projects. Since 2003 he has created LaVia Lattea, an ecological pilgrimage through the arts, awarded the Prix Meret Oppenheim in 2008. IkkoTanaka (Nara City, 1930 –Tokyo, 2002) Graduated from the Kyoto City College of Fine Arts in 1950. After design work for the Kanebo Co., Ltd., the Osaka Sankei Shimbun Co., Ltd, and the Nippon Design Center, he founded the IkkoTanaka Design Studio in 1963. He has received numerous awards in Japan and throughout the world, including Poland, France, Italy, Mexico, and the U.S. He was chairman of theTokyo Art Directors Club.Tanaka’s work is represented in the collections of the Stedelijk Museum in the Netherlands, the Museum of Modern Art (NewYork), and the Kyoto Institute of Technology, among others.


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Produzione, organizzazione, realizzazione Production, organization, execution m.a.x. museo, Chiasso Catalogo a cura di Catalog edited by Bruno Monguzzi Nicoletta Ossanna Cavadini Progetto grafico Graphic design Bruno Monguzzi Copertina Cover Alberto Bianda Art director Centro Culturale Chiasso Crediti fotografici Photo credits Thomas Banfi Alberto Flammer Franco Mattei Fotolito e impaginazione Photolithography and prepress PrestampaTaiana, Muzzano Art Director Skira Marcello Francone Editing Anna Albano Traduzioni Translations Richard Sadleir Maddalena Disch Progetto di allestimento Exhibit design Bruno Monguzzi Alberto Bianda Art director Centro Culturale Chiasso Allestimento Installation UTC Chiasso Realizzazione grafica Graphics Chiara Bertanza Assicurazione Insurance AXA Art Assicurazioni

4.5.2011

Ufficio stampa Press office Uesse Arte Relazioni con la stampa Media relations m.a.x. museo e Spazio Officina Serenella CostaValle Si ringraziano per il contributo Our thanks are due for the contribution Banca Stato Age, Chiasso Repubblica e CantoneTicino Fondo Swisslos Si ringraziano inoltre Acknowledgments Giovanni Anceschi Dieter Bachmann Phil Baines Umberto Balzaretti Blandine Bardonnet Gabriella Belli Susanne Bieri Walter Binder Roberto Borioli Francesco Paolo Campione Francesco Casetti Claudia Cattaneo Rudy Cereghetti Pierluigi Cerri Lou Danziger Sara Fanelli Marco Franciolli Jianping He Aoi Huber Kono Egidio Insabato Michele Jannuzzi Carsten Juhl Manuela Kahn Rossi Christelle Kirchstetter Claude Lichtenstein Domenico Lucchini Roberto Malacrida Graziano Martignoni Anna Monguzzi Boggeri Elisa Monguzzi Nicolas Monguzzi Claudio Moro Valentino Müller Franc Nunoo-Quarcoo Mario Pagliarani Sergio Polano Roger Remington Luigi Sansone Franca Santi MassimoVignelli Stefano Zollinger

Repubblica e Cantone Ticino

15:42

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First published in Italy in 2011 by Skira Editore S.p.A. Palazzo Casati Stampa viaTorino 61 20123 Milano Italy www.skira.net Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore © 2011 Bruno Monguzzi per le immagini © 2011 Comune di Chiasso, m.a.x. museo © 2011 Skira editore, Milano Tutti i diritti riservati All rights reserved under international copyright conventions. No part of this book may be reproduced or utilized in any form or by any means, electronic or mechanical, including photocopying, recording, or any information storage and retrieval system, without permission in writing from the publisher Printed and bound in Italy. First edition ISBN 978-88-5779565-2 Comune di Chiasso, m.a.x. museo ISBN 978-88-572-1105-3 Skira editore Distributed in USA, Canada, Central & South America by Rizzoli International Publications, Inc., 300 Park Avenue South, NewYork, NY 10010, USA Distributed elsewhere in the world by Thames and Hudson Ltd., 181A High Holborn, LondonWC1V 7QX, United Kingdom Finito di stampare nel mese di maggio 2011 a cura di Skira, Ginevra-Milano Printed in Italy



Monguzzi si impossessa del vostro occhio con un iniziale assalto di bellezza, poi il senso e il regalo della comunicazione intellettuale. Ma la coerenza del suo metodo di lavoro evita le trappole insite nello “stile” personale. Ogni lavoro regge sulla propria intelligenza, chiarezza e grazia. Quando guardo un lavoro di Monguzzi arrivo preparato con ciò che so. So che arrivo preparato a imparare. Più so, più imparo.

Monguzzi grasps you eye with an initial onslaught of beauty, then sense, then the gift of intellectual communication. But the consistency of his working method avoids the pitfalls of personal “style”. Each work stands on its own in intelligence, clarity and grace. When viewing a Monguzzi work I come prepared with what I know. I know to come prepared to learn. The more I know, the more I learn.

Gene Federico

Gene Federico

CHF 40.-

€30.-


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