Francesco Giambonini - Indagine sul testo

Page 1

Csingola:«L'IndagineSulTesto»

27.4.2012

11:54

Pagina 1

Francesco Giambonini

L’indagine sul testo Analisi di racconti italiani del Novecento

Q Quaderni per l’insegnamento Centro didattico cantonale


Csingola:«L'IndagineSulTesto»

27.4.2012

11:54

Pagina 4


01_IndaginesulTesto_Introduzione:«L'IndagineSulTesto»

Quaderni per l’insegnamento

13.4.2012

13:42

Pagina 1


01_IndaginesulTesto_Introduzione:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:42

Pagina 2

Repubblica e Cantone Ticino Dipartimento dell’istruzione e della cultura

©

2012 Divisione della Scuola Centro didattico cantonale

ISBN 978-88-86486-84-2


01_IndaginesulTesto_Introduzione:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:42

Pagina 3

Francesco Giambonini

L’indagine sul testo Analisi di racconti italiani del Novecento

Quaderni per l’insegnamento

Centro didattico cantonale


01_IndaginesulTesto_Introduzione:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:42

Pagina 4


01_IndaginesulTesto_Introduzione:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:42

Pagina 5

Indice Avvertenza

9

Premessa I Per gli studenti

11

Premessa II Per gli insegnanti

15

I.

II.

III.

IV.

V.

VI.

VII.

La parola Torino Gianni Rodari (1920-1980)

19

Analisi del testo

23

Marcovaldo al supermarket Italo Calvino (1923-1985)

27

Analisi del testo

31

La notte dei numeri Italo Calvino (1923-1985)

37

Analisi del testo

44

L’avventura di due sposi Italo Calvino (1923-1985)

51

Analisi del testo

54

Pesci grossi, pesci piccoli Italo Calvino (1923-1985)

61

Analisi del testo

67

Il giardino incantato Italo Calvino (1923-1985)

73

Analisi del testo

76

Arrivederci Alberto Moravia (1907-1990)

81

Analisi del testo

86


01_IndaginesulTesto_Introduzione:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:42

Pagina 6

L’indagine sul testo VIII.

IX.

X.

XI.

XII.

XIII.

XIV.

XV.

XVI.

Pioggia di maggio Alberto Moravia (1907-1990)

91

Analisi del testo

95

La rivincita di Tarzan Alberto Moravia (1907-1990)

101

Analisi del testo

105

L’acqua verde Beppe Fenoglio (1922-1963)

113

Analisi del testo

116

Giovedì, in settembre Francesco Jovine (1902-1950)

123

Analisi del testo

127

Tranvai Elio Vittorini (1908-1966)

133

Analisi del testo

137

Cinci Luigi Pirandello (1867-1936)

143

Analisi del testo

148

Spunta un giorno Luigi Pirandello (1867-1936)

155

Analisi del testo

159

Il coppo Luigi Pirandello (1867-1936)

165

Analisi del testo

170

Pallottoline! Luigi Pirandello (1867-1936)

177

Analisi del testo

183


01_IndaginesulTesto_Introduzione:ÂŤL'IndagineSulTestoÂť

13.4.2012

Indice XVII.

XVIII.

XIX.

XX.

XXI.

Indici

13:42

Pagina 7

7 Il cieco Federigo Tozzi (1883-1920)

191

Analisi del testo

196

Miseria Federigo Tozzi (1883-1920)

203

Analisi del testo

208

La serpe Emilio Cecchi (1884-1966)

215

Analisi del testo

218

Le bestie sacre Emilio Cecchi (1884-1966)

225

Analisi del testo

229

Commiato di un fabbricante di novelle Massimo Bontempelli (1878-1960)

235

Analisi del testo

241 249


01_IndaginesulTesto_Introduzione:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:42

Pagina 8


01_IndaginesulTesto_Introduzione:«L'IndagineSulTesto»

L’indagine sul testo

13.4.2012

13:42

Pagina 9

9

Avvertenza

Questa raccolta di analisi testuali è il risultato del lavoro svolto da Francesco Giambonini, docente di letteratura italiana presso il Liceo di Lugano di Viale Cattaneo, tra il settembre 1994 e l’agosto 1995, secondo il progetto approvato per il cosiddetto «sabbatico» concesso dal Dipartimento dell’istruzione e della cultura del Canton Ticino. Da allora questi esercizi di lettura di testo sono stati oggetto di una continua riflessione dell’autore volta a chiarire se essi mantenessero o perdessero la necessità per la quale erano stati scritti (nei programmi di studio vigenti è previsto almeno un semestre di avviamento allo studio del testo in prosa). Verso il 2005, Giambonini aveva pregato uno di noi di appoggiare la sua intenzione di collocare il libro presso un editore in Italia. Malgrado vari tentativi, la cosa non è riuscita, con dispiacere dell’autore e di chi lo aveva sostenuto nella ricerca di uno sbocco editoriale. A quell’altezza cronologica, ritenendo che le competenze linguistiche e le capacità analitiche degli studenti quindicenni-sedicenni, in merito all’italiano, fossero diminuite rispetto a quelle dei loro coetanei del 1995, Giambonini giudicava questo lavoro ancora più necessario di allora quale sussidio «nell’anno propedeutico» all’imminente studio della storia letteraria (nei tre anni successivi di liceo). Non è questo il momento di sottoporre a valutazione tale giudizio; potrà maturare nei docenti che accosteranno le analisi e le vorranno fare oggetto di discussione, singolarmente o in comune; né riteniamo necessario premettere indicazioni che illustrino la scelta dei testi e il metodo di analisi: le due avvertenze ai destinatari primi del libro, studenti e docenti, rispondono perfettamente al riguardo; e le analisi dei ventun testi scelti da Giambonini danno concreta applicazione delle tecniche di indagine impiegate. Possiamo almeno suggerire, a chi voglia riflettere sulla didattica dell’italiano nelle scuole del Ticino, di considerare il lavoro di Giambonini come un frutto, accanto a quelli di impianto strettamente filologico, della scuola di Giovanni Pozzi, che nella sua ricerca ha dato spazio ad analisi di testi per la scuola media, seguìto anche in questo da altri allievi, Giulia Gianella, Bruno Beffa, Guido Pedrojetta. La scomparsa dell’amico e collega, nel febbraio del 2011, inattesa e perciò tanto più dolorosa per tutti noi, ha riportato l’attenzione su quei testi, fortunatamente


01_IndaginesulTesto_Introduzione:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:42

Pagina 10

Avvertenza conservati su supporto informatico. Il miglior modo per ricordarlo e onorarlo è sembrato quello di mandare il libro a stampa. Occorreva ricomporre il tutto, affidato a decine di documenti, ricostruire il sommario e adeguare i moltissimi rinvii delle analisi alla nuova impaginazione del testo, ovviamente diversa da quella originaria. Nel dattiloscritto, Giambonini aveva previsto un’Avvertenza, della quale riproduciamo un passo che ci sembra illuminante: Per preparare l’edizione di questa raccolta ho dovuto rileggere, a distanza di non pochi anni, tutti i testi e le analisi. Se è vero, come si pretende, che dietro la scelta di un regalo si nasconde con più o meno credibilità qualche aspetto non secondario del carattere dell’offerente, non posso sottrarmi alla preoccupazione della scelta di questi ventun racconti, dal momento che in essi si trova un numero molto elevato di morti, anche legate a vicende di cruda violenza fisica, e un numero inquietante di protagonisti sconfitti e sconvolti che testimoniano dolorosamente un manifesto e in certi casi irreversibile fallimento esistenziale di cui per lo più sono responsabili solo indirettamente; di fronte al quale non resta loro che cercare un nuovo assetto per una rassegnata convivenza con quel brandello di vita superstite a cui pateticamente si aggrappano, in attesa di qualcuno o di qualcosa o di nessuno o del nulla: conformemente alla sete di eternità di ciascuno. Non attenua la mia preoccupazione della scelta di cui ho detto, il sapere che un simile male di vivere caratterizza endemicamente la parte migliore del nostro Novecento letterario, sia pure con una concentrazione un poco più diluita di quella che è propria delle punte più avanzate della sensibilità mitteleuropea coeva. Mi consola però almeno credere che il male del mondo non pesi ancora sulle spalle dello studente quindicenne quanto sulle mie, anche se egli fosse già dedito precocemente all’esercizio difficile dell’introspezione. Rinuncio perciò (dovrei tentare l’operazione con l’incertezza della riuscita) a modificare la scelta fatta nel 1995; e a questo così fatto studente affido dunque, consegnandogli questa raccolta, un carico verosimilmente ancora sostenibile di disagio che con gli anni però diventerà quasi certamente preoccupazione seria e forse angosciosa (nei più attenti alle «magnifiche sorti e progressive»). Sono trascorsi altri anni dal 2005, e molte cose sono di nuovo mutate, nella nostra scuola e fuori. Ciononostante, agli studenti e ai docenti di oggi e di domani crediamo ancora opportuno offrire la proposta di Francesco Giambonini, non solo per il suo valore scientifico, ma anche perché efficacemente marcata dalla sensibilità letteraria e didattica dello studioso e docente che l’ha prodotta, esemplarmente espressa dalla riflessione appena citata. Ringraziamo Diego Erba, direttore della Divisione della scuola ticinese, per la sensibilità con cui ha accolto la proposta di affidare il libro alle cure del Centro didattico, e al suo direttore Stelio Righenzi.

I curatori di questo volume: Ottavio Besomi, Giordano Castellani, Flavio Catenazzi, Fernando Lepori, Alessandro Martini, Aurelio Sargenti, Fabio Soldini, Biancamaria Travi


01_IndaginesulTesto_Introduzione:«L'IndagineSulTesto»

L’indagine sul testo

13.4.2012

13:42

Pagina 11

11

Premessa I Per gli studenti

1. Mettiamo questa situazione iniziale: genitori assenti. Tocca a voi preparare la cena. Aprite il frigo e l’armadio: c’è roba. Nello spazio circoscritto della cucina stanno le vostre potenzialità. Ora bisogna esprimerle, e non è facile: si deve selezionare, combinare, tagliare, inserire, cuocere, condire, allestire. Forse si finirà anche col mangiare qualcosa. C’è una torta di fragole già pronta: bene; le cosce di pollo si possono cuocere alla griglia: bene. Non potete però servire prima la torta e poi il pollo. Farebbe schifo (è la vostra collaudata espressione). Potete anche preparare un’insalata di riso (vi sembra adeguata a questo cocente dieci luglio) e divertirvi a mettere molti ingredienti. Sì, ma quali? Anche i dadini di formaggio? E le rotelline di Würstel? No, quelle non vanno bene col sapore del pollo (avete certe esigenze). E se fosse troppo ingombrante? Ripiegate su un’insalata verde che potete mangiare prima del pollo (siete aggiornati in dietetica) o con il pollo (facevano così anche i nonni) o dopo il pollo (non siete certi se sia opportuno). Com’è andata? Sazi? Non troppo, e per di più con una sete insopportabile. Per forza: avete messo troppo sale sul pollo e la paprica potevate risparmiarvela…

2. Siete intelligenti e sospettosi (intelligenti perché sospettosi) e avete già capito: è così anche con la scrittura. Scrivere è come cucinare. E leggere? In parte come mangiare. Bisogna non solo fidarsi delle proprie papille gustative, ma anche conoscere il cuoco e capire che cosa aveva intenzione di fare, e perché, e come. I cuochi migliori sono sempre quelli che «vogliono» fare qualcosa, non quelli che fanno qualcosa e basta. Siete abituati a mangiare male (diciamo: Hamburger con patate fritte e cocacola; certo, anche salsa di pomodoro concentrato); non ve ne accorgete (dopotutto i vostri amici mangiano come voi) e siete contenti così, anzi orgogliosi del vostro comportamento e indispettiti se viene messo in discussione. Ma io non posso lasciar perdere, devo cercare di correggervi; ho dato forma a questo libro apposta per proporvi una cucina alternativa. Siccome però siete intossicati e dipendenti (qualcuno è anoressico), non sarà facile convincervi.


01_IndaginesulTesto_Introduzione:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:42

Pagina 12

L’indagine sul testo Per leggere con piacere bisogna abituarsi a leggere. Ci vuole tempo. Il bello è che questo piacere cambia leggendo. Mai provato a rileggere qualche passo di un libro letto qualche anno prima e provare un senso di disgusto per ciò che una volta sembrava la fine del mondo? No? Brutto segno. Dovrebbe già esservi accaduto. Ad ogni modo sarà questa una spia del vostro cambiamento. Qui vi si propone di imparare a leggere meglio, con una più agguerrita coscienza che permetta di vedere nel testo «cose» prima non viste; e ammirarle e cercarne altre setacciandolo con curiosità crescente; e trovare risposte alle domande e nuove domande magari senza risposta.

3. Ho scelto testi narrativi perché avete un’età affamata di azione, di corposi avvenimenti, d’intense avventure; amate il giallo, il poliziesco, la violenza (ne troverete anche qui), senza disprezzare qualche rosea tenerezza (ne troverete anche qui). Ho scelto il Novecento perché è il secolo in cui vivete e che quindi fa più presa (con le sue tematiche e il suo linguaggio) sui vostri interessi in formazione. Ho scelto autori italiani perché insegno letteratura italiana e sento il bisogno di rispettare le competenze di ognuno. Gli studiosi di racconti (si chiamano «narratologi» perché affrontano con rigore scientifico la loro materia) in questi ultimi venti-trenta anni ci hanno insegnato molte cose importanti quanto al modo di definire e capire i testi narrativi. Esprimono però concetti difficili, a volte sono in disaccordo, non sempre si capisce chi abbia ragione. Non possiamo occuparci di loro.

4.

Procederemo stando attenti ad alcuni passaggi obbligati:

4.1. Fare sempre un riassunto dell’intreccio, cioè di ciò che accade nel testo nell’ordine con cui è scritto. L’autore potrebbe anche narrare certe vicende prima del tempo del loro accadimento o dopo di esso; seguire l’ordine cronologico potrebbe anche sembrargli noioso, specie quando è troppo facile (i bravi scrittori si stufano di ciò che è facile); se dunque riassumete senza rispettare l’ordine dell’autore, preoccupati di potere così ricostruire l’ordine cronologico dei fatti, fornite un riassunto della fabula (sono i termini dei narratologi), anch’esso utile per capire certi segreti del racconto. Sarà ben difficile che riassumiate tutti allo stesso modo (provare per credere), ma ciò non significa necessariamente che qualcuno commetta errori. Il fatto è che facciamo fatica a liberarci della nostra soggettività di lettori, così che l’oggettività del testo tende a sfuggirci e del testo vediamo e apprezziamo specialmente ciò che corrisponde a quello che siamo o vogliamo. Non è questo però il nostro compito di apprendisti: il testo non deve diventare un pretesto. Queste differenze nel riassumere non importano molto; ciò che conta è la volontà di attenersi oggettivamente al testo senza aggiungere, omettere, alterare. A furia di imporselo si riesce abbastanza bene a conseguirlo. Del resto anche i narratologi non hanno avuto vita facile nel tentativo di definire le sequenze narrative (i segmenti della narrazione), con le quali ottenere una segmentazione del testo: come se volessimo contargli tutte le ossa per capirne rigorosamente la costituzione. 4.2. Riflettere sul riassunto e cercare di capire se l’autore ha elaborato un particolare montaggio delle varie sezioni (proprio come un regista cinematografico sce-


01_IndaginesulTesto_Introduzione:«L'IndagineSulTesto»

Premessa I

13.4.2012

13:42

Pagina 13

13

glie il meglio del materiale filmato: tagliando, spostando, gettando via). Può darsi che questa riflessione non conduca a nulla di buono. Dopo altre considerazioni, però, può sopraggiungere qualche illuminazione: càpita che ci voglia anche molto tempo per capire certe cose, che poi ci sembrano così chiare e immediate da quasi vergognarci di non averle comprese lì per lì. 4.3. Considerare le tematiche del testo per capire se l’autore se ne serva secondo una sua logica, se voglia comunicarci un messaggio, rassicurarci nelle nostre convinzioni, tradire le nostre aspettative, o altro ancora. L’individuazione delle tematiche richiede una concettualizzazione e non è semplice come sembra. Ricordo una classe che, alle prese con un racconto dove è narrata una raccapricciante uccisione (lo troverete anche qui), non riusciva a dire che in esso la tematica dominante è la violenza. 4.4. Prestare attenzione alle componenti non narrative. Quando uno scrittore non narra, nelle maggior parte dei casi descrive o riflette o teorizza. Questi atteggiamenti, raramente tutti assieme, possono intrufolarsi anche lungo la narrazione. È opportuno non lasciarli passare inosservati e chiedersi quale funzione rivestano, dove siano collocati, se magari non assumano maggior importanza della stessa narrazione. Narrando, uno scrittore fa sempre i conti con lo spazio (luoghi dell’azione) e col tempo (momenti dell’azione). È bene interrogarsi anche su queste componenti, e parlarne se si scopre che hanno importanza in rapporto alle azioni e ai ruoli dei personaggi. 4.5 Soffermarsi su problemi di stile, specialmente ragionando con le categorie della retorica relative all’elocuzione (cioè in pratica le figure retoriche) e con le categorie del linguaggio relative alla sintassi e al lessico. Per agire in questa direzione è inutile studiare a memoria una serie di definizioni di figure per poi dire, ad esempio, che un testo contiene otto metafore, due sineddochi e un’epanalessi. Fornendo un elenco ampio di figure retoriche si finisce quasi sempre col trovarsi di fronte ad una lista morta e inutilizzabile di fenomeni. Certo non è inutile riconoscere un grande numero di figure, purché si sappia servirsene per capire qualcosa del testo e del suo autore; in genere si verifica purtroppo il contrario: il testo diventa la riserva di caccia per fare del nozionismo in ambito retorico. Quanto alle categorie del linguaggio è la stessa cosa.Tutti possedete una grammatica della lingua italiana e negli anni della scuola media vi siete confrontati con buona parte di quelle nozioni; qualche regola l’avete studiata (speriamo non abbiate dato troppo peso alle eccezioni): basta quel poco per cominciare, purché lo abbiate assimilato. Lo scopo, anche qui, non è di saper riconoscere decine di complementi indiretti e subordinate, ma di capire che alcuni sono importanti per la funzione che rivestono. In merito al lessico, poi, è utile conoscere e utilizzare i concetti espressi nei vocabolari linguistici con abbreviazioni diffuse (quasi sempre però misteriose per i lettori): lett., ant., arc., dial., neol., angl., franc., scient., fil., bot., att., pass., intr., trans.... La serie è lunghissima, ma anche soltanto con questi concetti potete fare molte considerazioni. (Ecco svelati gli enigmi: letterario, antiquato, arcaico, dialettale, neologismo, anglismo, francesismo, scientifico, filosofico, botanico, attivo, passivo, intransitivo, transitivo). 4.6. Bisogna mettersi nella giusta prospettiva: lo scopo è cercare di capire il significato delle scelte fatte dall’autore. La tendenza del lettore comune è invece l’im-


01_IndaginesulTesto_Introduzione:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:42

Pagina 14

L’indagine sul testo medesimazione con un personaggio: specialmente con quello che per la sua ricchezza o notorietà o fascino fisico o vanità o coraggio è chiamato «eroe», ma anche con quello che al contrario ha caratteristiche di «antieroe» e che può muovere nel lettore sentimenti di compassione e di protezione; meno comunemente (ma non ci sono statistiche in proposito) il lettore si identifica con situazioni, luoghi, oggetti che corrispondono ai suoi desideri, alle sue frustrazioni. Tutti questi comportamenti sono rispettabili perché necessari; spesso gli scrittori ne tengono accuratamente conto per dare al loro scritto quella fisionomia che ritengono opportuna. Il punto sta proprio qui: noi (che aspiriamo ad essere lettori migliori di quelli comuni) dobbiamo immedesimarci con lo scrittore e cercare di capire cosa egli voleva fare e perché, cosa riteneva importante e perché. Tutti intuiscono quanto sia difficile una simile valutazione, nella gran quantità di presenze apparentemente indifferenziate che un testo offre e nell’assenza dello scrittore a cui chiedere le proprie intenzioni. Quando siamo alla ricerca di che cosa sia essenziale e cosa trascurabile in un testo, ci sembra o di capirlo subito (ottimismo pernicioso) o di non poterlo capire mai (pessimismo inopportuno); ma non abbiamo scampo: per riuscire a capire bisogna provare e riprovare a capire.

5. L’indagine sul testo, proprio come la consorella poliziesca, parte da quelli che l’investigatore ritiene essere gli indizi e procede raccogliendo testimonianze, cercandone il nesso, ordinandole secondo una logica che permetta di ricostruire e valutare l’accaduto. Basta dire così, per capire che gli strumenti e l’atteggiamento di ricerca appena indicati al punto 4 si applicano al testo non in un ordine prestabilito, né in una misura costante. È il testo che comincia a suggerire sé stesso, e il lettore deve assecondarlo per proseguire a carpirgli segreti che non dice. Il lettore più agguerrito è perciò tanto un tecnico rigoroso quanto un inventore creativo. È sì indispensabile raccogliere prove (sempre interrogandosi sul come raccoglierle) ma non basta: ci vuole anche un guizzo mentale di altro tipo, scagliato contro l’inerzia della realtà. Bisogna soffiare sull’Adamo di creta per farlo vivere. Tutti capiscono che le nostre indagini testuali (prime le mie che qui propongo) sono destinate a restare ben al di sotto di quella soglia ottimale; ma il segno della nostra mediocrità non rappresenta una sconfitta nei confronti della perfezione, quanto piuttosto una vittoria sul nulla ghermitore al quale vogliamo sottrarci.


01_IndaginesulTesto_Introduzione:«L'IndagineSulTesto»

L’indagine sul testo

13.4.2012

13:42

Pagina 15

15

Premessa II Per gli insegnanti

1. Lo studente del primo anno del Medio Superiore porta oggi con sé, dalle scuole precedenti, un bagaglio di letture disorganico e scarso dove al testo letterario in prosa si affiancano testi prosastici non letterari, spesso di attualità (droga, ecologia, razzismo, musica, sport), e perciò spesso anche meno impegnativi. Egli è dunque chiamato a compiere un difficile salto qualitativo perché ha poca dimestichezza con un prodotto artificioso (è il termine retorico pertinente) che ha letto quasi sempre con il criterio dei «brani scelti», dunque raramente nella sua completezza, e perché si trova confrontato con tematiche e formalizzazioni più complesse di quelle affrontate nel Medio Inferiore.

2. Per questa nuova educazione, il testo letterario in prosa preferibile è quello narrativo, cioè (e ci intendiamo senza discuterne i termini) romanzo, racconto, novella. Il patrimonio italiano relativo a questo genere è cospicuo, tuttavia la scelta di testi con cui operare è difficile perché, mi pare, deve tener conto di tre requisiti: la brevità, la ricchezza di situazioni narrative, una certa pluralità di tematiche. La misura adatta che ho sperimentata nell’insegnamento mi pare essere quella del racconto di sette-dieci pagine. Solo così lo studente ha buone probabilità di tenere sotto controllo l’intera opera. La ricchezza di situazioni narrative è anch’essa elemento di grande utilità perché quante più cose accadono tanto più lo studente è attratto dal racconto; viceversa si sente respinto da narrazioni troppo statiche e uniformi. La pluralità di tematiche movimenta il racconto sul piano del contenuto, con lo stesso effetto accattivante. Altra preferenza, imposta dalle esigenze del destinatario, è bene accordare ai racconti novecenteschi. E così facendo, il campo delle scelte si restringe ulteriormente.

3. In questa raccolta di analisi di testi narrativi figurano dunque soltanto testi in prosa del Novecento italiano. La scelta degli autori rappresentati dipende dalle considerazioni appena espresse e comporta l’esclusione di grandi scrittori: da non intender-


01_IndaginesulTesto_Introduzione:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:42

Pagina 16

L’indagine sul testo si come dimenticanza o condanna. In conseguenza di ciò è appena necessario enunciare il corollario secondo cui, a queste condizioni, con le scelte fatte non è possibile delineare un percorso storico-letterario, così che la raccolta non può costituire un capitolo della storia della prosa narrativa italiana. Siamo di fronte ad analisi destinate ad un uso per così dire privato: esercizi scolastici ai quali non spetterà in modo alcuno il diritto di cittadinanza nel mondo della ricerca letteraria. I testi analizzati sono stati ordinati (senza rigore assoluto) dal più recente al più lontano nel tempo, percorrendo così a ritroso le esperienze novecentesche degli scrittori e dando per scontato (anche se non sempre lo è) che nella pratica di questa risalita si incontrano via via maggiori difficoltà. Questo ordinamento sottende perciò un percorso, al quale vorrebbe sottrarsi (con la casuale giustapposizione di testi: a cui dunque non aderisce). A complicare la faccenda stanno i due racconti analizzati in apertura e chiusura di raccolta; il primo dei quali, a noi vicinissimo nel tempo, ci mette di fronte alla gestazione del racconto e quasi ci convince della sua immortalità come genere: per il modo facile e fertile con cui ne guida al concepimento; il secondo dei quali (a rovescio) ci presenta l’aborto del racconto, decretandone la morte imminente. Due officine, due fabbriche di racconti, quelle dei testi di Bontempelli e Rodari, agli estremi cronologici del secolo. Altri scrittori, come loro e meglio, potrebbero sostituirli nel rappresentare, con sfiducia e fiducia, il medesimo problema del farsi del racconto? Consegno ai lettori l’interrogativo. Ad essi non voglio però nascondere che nel mio compito di fabbricante di questa raccolta di analisi non ho rifiutato di concedere proprio a quei due scrittori l’incipit e l’explicit del libro, quando mi sono accorto che in tal modo venivo a chiudere il cerchio anche geograficamente: partendo da Novara e arrivando a Como, in terra lombarda, a due passi da dove scrivo. E così ognuno vede come il problema storico sia rientrato dalla finestra; tuttavia, dentro la scorza dei due incriminati racconti liminari, la pianta cresce senza piegarsi ad un percorso storico-letterario, che riesco ad evitare.

4. L’antologia fornisce sempre il testo integrale del racconto nella sua redazione originale (salvo qualche minimo adeguamento ortografico, come -j intervocalica resa con -i), seguìto dall’analisi. La presenza del testo, pur se noto e facilmente reperibile altrove, è essenziale per la lettura dell’analisi: la quale puntualmente rinvia a zone, brani, sequenze, parole del testo, reperibili con la numerazione delle linee. I testi sono analizzati in prospettiva sincronica; rarissime sono le considerazioni storiche (ridotte a cenni fugaci per Bontempelli); e perciò quasi inesistente è l’aggancio del testo con altri dello stesso autore o di autori diversi; neppure viene affrontato il problema delle fonti (se non, sbrigativamente, per Cecchi). Le preoccupazioni maggiori sono di ordine tematico. Partendo sempre dalla redazione di un riassunto dell’intreccio (operazione difficile per lo studente anche quando non sia condotta con rigore narratologico, ma necessaria a chiarire lo sviluppo narrativo del testo), lo studente familiarizza con le azioni e i ruoli dei personaggi e perciò con le tematiche ad essi collegate. Ho sperimentato che il centro di interesse di tutta l’analisi del racconto è proprio dato dalle tematiche. Continue saranno pure le considerazioni di tipo strutturale (l’interazione delle parti del testo, così come si sono venute configurando attraverso il lavoro di regia dell’autore), di tipo retorico-stilistico (specie nel caso di figure chiave per la


01_IndaginesulTesto_Introduzione:«L'IndagineSulTesto»

Premessa II

13.4.2012

13:42

Pagina 17

17

decodificazione del messaggio) e, ma molto meno intensamente, di tipo linguistico. Non faccio mio l’approccio narratologico che, pur dando un’immagine rigorosa e persuasiva del testo, presenta l’inconveniente di far convergere l’attenzione dello studente sulla teoria e sulla terminologia. Mi pare che la narratologia non si addica all’odierno studente quindicenne. Va da sé che alla comprensione globale del testo (un sistema di interrelazioni) si giunge attraverso una lenta e progressiva messa a fuoco dei vari elementi considerati. In questo approccio si può correre il pericolo di prendere in considerazione anche le briciole. È una tentazione da evitare. L’insegnante ha il compito di non eccedere, di limitarsi ai fatti principali, di rinunciare: in nome di finalità didattiche imprescindibili; ormai si è accettato che non tutti i dati si correlano in modo organico in un testo, così che pur credendo al principio del «tout se tient» l’insegnante deve, nella pratica, proporsi traguardi più modesti e sfrondare una serie di elementi che illuminerebbero il testo di luce più intensa senza però migliorare l’angolatura dell’approccio.

5. Completano il volume due «Indici», che hanno scopo didattico e contano per l’impostazione di tipo filologico verso cui vogliono indirizzare gli studenti; i quali, se resi attenti, possono già capire che lo studio della letteratura abbisogna di un simile corredo di strumenti di lavoro, atto a promuovere la conoscenza di fatti e non (come ancora troppo si crede) capestro, zavorra o inciampo al piacere del testo. In anni poi di divulgazione informatica come quelli che stiamo vivendo, gli studenti afferrano senza esitare che indici, lessici e concordanze si allestiscono prima e meglio servendosi dell’elaboratore. Bisogna però farglielo capire.


01_IndaginesulTesto_Introduzione:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:42

Pagina 18


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

I.

La parola Torino

I.

La parola Torino

13:44

Pagina 19

19

Gianni Rodari (1920-1980)

Tra qualche giorno andrò a Torino per incontrarvi un gruppo di ragazzi, con il patto che io racconterò loro una storia ed essi la illustreranno con i loro disegni. Vorrei portare loro una storia nuova, ma quale? Cerco nei cassetti, scartafacci, quaderni in cui raccolgo spunti, progetti, mezze idee. Intanto prendo un foglio bianco e quasi automaticamente scrivo in alto, in stampatello, la parola TORINO. Secondo una vecchia abitudine comincio a scomporla, a giocare con le sue sillabe, a deformarla, a sbagliarla… TORI, NO… non mi dice nulla. TO’, RINO… nemmeno. Chi è questo Rino? Che cosa vuole? Compare sul foglio un OTORINO, che sarebbe l’abituale abbreviazione di OTORINOLARINGOIATRA (lo specialista che cura le malattie dell’orecchio, del naso, della gola). Accanto a lui già romba, grazie alla semplice aggiunta di una consonante, un MOTORINO. Se avessi voglia e tempo di fare una filastrocca, questo sarebbe forse un buon punto di partenza: Un Otorino di Torino andava solo in motorino… Sarebbe già quasi un personaggio. In una città dove tutti vanno in automobile, lui no… Un originale. Gli altri parlano TORINESE: lui, forse, parla OTORINESE… oppure MOTORINESE. Dev’essere un dialetto rumoroso. Mentre inseguo 1’OTORINO, quasi senza accorgermene scrivo: TUTTI IN AUTO. Ma intendo proprio TUTTI. Anche i cani randagi. Anche i gatti sperduti. Anche gli oggetti smarriti. Vedo chiaramente un ombrello alla guida di una rombante fuori serie. Ma non è un semplice ombrello: è un investigatore privato travestito da ombrello di seta nera con il manico di legno. Sta inseguendo una caffettiera che fugge, naturalmente in automobile, a tutta birra, violando i semafori rossi. Forse ha commesso una rapina, un omicidio. Domani leggeremo nei giornali un titolo strabiliante: «IL DELITTO DI UNA CAFFETTIERA».

5

10

15

20

25


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:44

Pagina 20

Gianni Rodari Buono. Lo metto da parte. Anzi, il titolo me ne suggerisce altri. Prendo nota di tutti: non si sa mai… «GLI AMORI DI UN FRIGORIFERO» «LO SCIOPERO DELLE PUNTINE DA DISEGNO» «FUGGE IN DANIMARCA UN COLTELLO D’ARGENTO». Intorno a me impazzano giraffe in automobile, un elefante che guida un autotreno, una tartaruga che conduce un tram, scampanellando. Ora la mano corre avanti, continuando la sua ricerca sulle sei lettere dell’illustre nome di TORINO. Vi introduce una seconda erre. Ecco un TORRINO. Forse una torre piccola? Le torri alte sono torri cresciute e maturate col tempo? Scrivo: TORRINO, TORRONE, TORREADOR. Anche questo personaggio mi stimola. Se il toreador, con una sola erre, combatte nell’arena con i tori, forse il TORREADOR, con due erre, combatterà con le TORRI, scambiandole per giganti maligni? Ma allora non è un qualunque TORREADOR: è Don Chisciotte in persona. Il famoso hidalgo spagnolo, noto per i suoi duelli con i mulini a vento, dormiva da secoli in chi sa quale caverna. Si è destato. È capitato nottetempo a Torino. La vista della Mole Antonelliana lo eccita. Egli sfida a duello l’altissima guglia. Scambia le automobili per mostri al servizio di un mago malvagio. Trafigge con la spada gli autocarri, i TIR che gli tagliano minacciosi la strada. Nobile e caro Don Chisciotte! Qualcuno deve avergli detto che nelle acque del Po si annida un drago crudele, al quale ogni anno, per tenerlo buono, la città deve offrire in omaggio… una Seicento? Una bella fanciulla? Un gianduiotto che pesi quanto il Monte Bianco? Basterà scegliere tra queste immagini, immaginare l’avventura, raccontarla. Ma… Ma da qualche secondo la parola TORRINO, che avevo lasciato in disparte, sta scavando una galleria nella mia immaginazione, e scava, e scava, e ronza… È come se una piccola torre stesse spuntandomi in testa, emergendo dalla nebbia delle fantasticherie. Però non è una torre. È una TORRETTA (scrivo anche questa parola). È la torretta di un sommergibile che sta facendo capolino, piena di mistero e di minaccia, dalle acque del Po, tra ponte Vittorio Emanuele Primo e ponte Umberto Primo. In cima alla torretta un periscopio si guarda intorno curioso, inquieto, inquietante. Che ci fa un sommergibile a Torino? È sceso dalla sorgente del fiume o è salito dalla lontana foce nell’Adriatico? La gente che si va affollando sulle due rive sussurra commenti e punti interrogativi. – Sarà la reclame del dentifricio. – E se fossero criminali? – Già, vorranno rapinare i pesci. – I pesci forse no, forse i torinesi. Io non mi meraviglierei troppo se tra un momento minacciassero di bombardare la città se non gli verranno consegnate dieci tonnellate d’oro. – Sì, e un chilo di gianduiotti.

30

35

40

45

50

55

60

65

70


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

I.

13.4.2012

La parola Torino

13:44

Pagina 21

21

– Sì, e il segreto per fabbricare i grissini. – Qualcuno corra a chiamare i vigili urbani! – Pensa che il sommergibile scapperà per non pagare la multa per la sosta vietata?

75

– Secondo me è la banda del buco. Scava, scava, ha fatto un buco nell’acqua. – Rida, rida pure, lei. – Ma no, parlo sul serio: è un pesce persico travestito da sottomarino. – È il Nautilus del Capitano Nemo. Dopo aver fatto ventimila leghe sotto i mari, ha voluto fare anche qualche chilometro sotto il Po… Insomma, le ipotesi sono tante. Ma non dimentichiamo Don Chisciotte. Il vecchio cavaliere borbotta tra sé: «Non avevo torto! Ecco il mostro, ecco l’odioso drago che si presenta per esigere dalla città il suo tributo. È proprio vero che non c’è pace per nessuno fin che i mostri sono in circolazione. Ma l’avrà a che fare con me… » Don Chisciotte dà di sprone al suo fido destriero Ronzinante, scende dall’argine, stuzzica con la punta della sua lancia la prua del sommergibile, mentre gli astanti, dopo aver fatto «Ooooh» per la sorpresa, si scostano di qualche passo, come se non volessero intralciare il duello che si prospetta. Sulle prime non succede niente. Si sente solo il «toc toc» della lancia contro la chiglia metallica. Si sente la voce stentorea del cavaliere dalla trista figura: – Olà, mostro! Ritirati nel più profondo del mare! Nasconditi nelle fogne dell’Oceano! Non sarai più il padrone di questa bellissima città. Finalmente si apre il portello. Qualcuno che non si vede fa sporgere qualcosa che sembrerebbe la tromba di un altoparlante. Difatti subito dopo si ode una voce che dice: . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ecco, basta. A questo punto ciascuno dovrà immaginare liberamente il messaggio che esce dal misterioso sommergibile e costruire il seguito della storia. Temo purtroppo che molti, troppi, quasi tutti faranno uscire dall’altoparlante un messaggio di minaccia e faranno abitare nella pancia dell’imbarcazione bellicosi extraterrestri, mostri spaziali, banditi interplanetari, guerrieri cosmici e simili. Pare che siamo obbligati a immaginare gli esseri di altri mondi come nemici dai quali dobbiamo aspettarci solo guerre, massacri e catastrofi: nel migliore dei casi, dei «diversi» con i quali è impossibile la comunicazione, impensabile la comprensione, vietata l’amicizia. Bisognerà che anch’io dica la mia, per non sottrarmi alle mie responsabilità. Mentre così rifletto la mano, distrattamente, ha tracciato le lettere di una parola strana, eppure oscuramente familiare… ONIROT. Non ho mai sentito questa parola, non l’ho mai letta su un cartello stradale, su una stazione ferroviaria, su una cartolina illustrata, eppure mi sembra di conoscerla.

80

85

90

95

100

105

110

ONIROT La guardo e ben presto mi do dello stupido. ONIROT è TORINO, scritto al contrario… È la parola TORINO vista in uno specchio.

115


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:44

Pagina 22

Gianni Rodari Finalmente tutto mi è chiaro: il sommergibile che galleggia nel Po tra i ponti di Torino proviene da un lontano pianeta, che è il «doppio» della Terra, uguale alla Terra, ma come una Terra vista in uno specchio cosmico… Su quel pianeta c’è la città di ONIROT, che è l’immagine specchiata, il «doppio» di Torino… Vi abitano gli ONIROTESI… Vi si parla il dialetto ONIROTESE… La città è attraversata dal gemello spaziale del fiume PO, che si chiama OP… Queste sono le notizie che diffonde l’altoparlante. Sono notizie rassicuranti, che invitano i torinesi a far festa ai loro gemelli, tutti i terrestri a fare amicizia con i loro «doppi». La situazione è curiosa, interessante… Ci sono i gianduiotti su a ONIROT? C’è una fabbrica d’automobili? E le automobili, forse, corrono per le strade a marcia indietro? Anche nella parola ONIROT, come nella parola TORINO, sono nascoste tante domande e tante storie, una diversa dall’altra, tutte belle da scoprire e da raccontare.

Testo di riferimento G. RODARI, Il gioco dei quattro cantoni, Torino, Einaudi, 1980, pp. 127-132.

120

125


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

I.

La parola Torino - Analisi del testo

I.

Analisi del testo

1.

Riassunto dell’intreccio

13:44

Pagina 23

23

1. Il protagonista deve inventare un racconto per una scolaresca (1-4). 2. Partendo dalla parola «Torino» inventa il racconto dell’inseguimento di un otorino che fugge in motorino (4-34). 3. Modificando la parola base trova spunti per un secondo racconto con Don Chisciotte a Torino (35-57). 4. Con altre modifiche inventa una terza trama con un sottomarino nel Po (58-81). 5. Elabora un racconto con Don Chisciotte e il sottomarino del Po, lasciandolo incompiuto (82-97). 6. Immagina come la scolaresca concluderà il racconto (98-105). 7. Con altra modifica della parola base gli si chiarisce parte del seguito del racconto rimasto incompiuto (106-126). 8. Riflette sulle potenzialità narrative delle parole (127-129).

2.

La parola generatrice e il racconto generato

Il titolo del racconto non indica un personaggio o un avvenimento o un oggetto o altro facente parte del testo, bensì una parola che è alla base dell’invenzione e della narrazione, dalla quale dunque si genera tutto quanto segue. È vero che proprio a Torino si ambientano le vicende dei tre racconti inventati; è però anche vero che il titolo non indica la città piemontese in quanto tale ma la parola, la forma grafica e fonica che significa quel concetto. Quello che conta non è «Torino» ma la «parola» Torino, tanto che anche una qualsiasi altra parola avrebbe potuto adempiere al compito di generare il racconto. Il narratore scrive quasi automaticamente (4-5) la parola Torino sul foglio bianco che ha davanti a sé; la scrive in stampatello (5), mettendosi così nella condizione migliore per distinguerne le componenti e poter scomporla (6). Queste com-


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:44

Pagina 24

Gianni Rodari ponenti sono di due tipi: quelle senza significato (fonemi, sillabe) e quelle con significato (altre parole nascoste nella parola di partenza o da essa derivate). L’autore dice che comincia a giocare con le sue sillabe (6), cioè con le componenti senza significato, ma lo fa in vista del significato. Il primo intervento sulla «parola» consiste in una scomposizione (comincio a scomporla 6) con un taglio in due parti; si hanno due esiti: 1) TORI, NO (non ci sono tori); 2) TO’, RINO (= guarda, c’è Rino). L’esplorazione della parola, con questo metodo, è quasi completa; se proviamo ad operare tutti gli altri tagli possibili, vediamo che solo una volta ancora possiamo creare qualcosa avente un senso compiuto (che non è stato indicato forse perché inadatto ad un racconto per una scuola). I due accostamenti che si sono così venuti a creare sono dei potenziali temi di racconto; del primo l’autore constata: non mi dice nulla (7), del secondo: nemmeno (8). È però interessante vedere come, nell’esito 2, il racconto è lì lì per mettersi in moto: Chi è questo Rino? Che cosa vuole? (8); c’è insomma già pronto un protagonista Rino che avanza qualche pretesa. La partenza è dunque stata, come si è visto, fallimentare. Il narratore prova allora con un altro metodo (comincio… a deformarla 6) ed ottiene: 3) OTORINO; 4) MOTORINO. La deformazione della parola può avvenire in più modi, ma quello privilegiato dal narratore e la pròtesi (aggiunta, all’inizio di una parola, di fonemi o sillabe). Gli esiti 3 e 4 hanno valore non tanto ciascuno in sé (un racconto dove ci sia un otorino o un motorino potrebbe essere banale) ma nella loro correlazione; si viene a creare un «binomio fantastico» (così lo chiama Rodari quando discute sul modo di inventare racconti nel suo libro Grammatica della fantasia); esso è di una grande fertilità inventiva perché grazie agli «accostamenti strani», alle «interferenze capricciose», alla «parentela imprevedibile» fra i due elementi del binomio si genera un senso di «straniamento» che è fondamentale per un racconto assurdo, surrealista. Ecco dunque che a partire dal binomio di 3 e 4 il racconto si mette in moto, nella forma della filastrocca (Un Otorino di Torino / andava solo in motorino 15-16); poi con altre alterazioni sul materiale già esplorato (TORINESE; OTORINESE; MOTORINESE 18-19) e con la nuova scritta TUTTI IN AUTO (20-21) venutagli sotto la penna quasi senza accorgermene (20), il racconto si delinea nella sua trama e nei suoi imprevedibili sviluppi (riassunto 2). Ci troviamo ormai lontani dal punto di partenza: la parola ha generato il racconto. Successivamente il narratore riprende le mosse dalla parola Torino (comincio… a sbagliarla 6), ed ottiene: 5) TORRINO (Forse una torre piccola? 36-37); 6) TORRONE; 7) TORREADOR. Con accostamenti analogici afferma che il TORREADOR con due erre non può essere altri che Don Chisciotte in persona (42). Si viene allora a formare un racconto grottesco con Don Chisciotte che combatte a Torino (riassunto 3): una fiaba trasposta nel tempo per modernizzazione (così Rodari teorizza nella Grammatica). In seguito, dall’esito 5, il narratore elabora: 8) TORRETTA, che associa all’immagine del sommergibile per dare origine ad un altro racconto fantasioso con un sottomarino che emerge dal Po a Torino (riassunto 4). Fino a questo punto è accaduto che il primo racconto è stato soppiantato dal secondo e il secondo dal terzo, seguendo una tecnica per cui «Gli avvenimenti narrativi si moltiplicano spontaneamente all’infinito» (l’affermazione è nella Grammatica); ma ecco che ora interviene una combinazione di racconti (contemplata nella


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

I.

13.4.2012

13:44

Pagina 25

La parola Torino - Analisi del testo

25

Grammatica), così che Don Chisciotte e il sottomarino (altro «binomio fantastico») si vengono a mescolare in un nuovo racconto (riassunto 5). Da ultimo, ancora per deformazione della parola base, il narratore scrive il palindromo: 9) ONIROT (che è privo di senso compiuto), e delinea parte del seguito del racconto precedente (riassunto 7).

3.

Il racconto nel racconto

Nel racconto vero e proprio (che chiamiamo racconto I), consistente nella narrazione delle peripezie attraversate durante l’invenzione di un racconto per una scolaresca, si inseriscono dunque altri racconti (racconto II 1-3). La tecnica è quella del racconto nel racconto, sperimentata anche da altri scrittori (si veda l’ultima analisi di testo di questa raccolta). Nel caso concreto si ha (con riferimento ai numeri del riassunto): 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

racconto racconto II 1 racconto II 2 racconto II 3 racconto II 3 (combinazione e seguito di II 2 + II 3) racconto II 3 (ipotetica conclusione di II 2 + II 3) racconto II 3 (seguito di II 3 come al punto 5) racconto I

La parola generatrice ha dunque generato tre racconti (riassunto 2, 3, 4); eliminato il primo di essi, gli altri due si sono fusi in un solo racconto (riassunto 5, 7). Tutti i racconti sono rimasti inconclusi allo stato di abbozzo, per necessità inderogabile: solo così si può cogliere pienamente lo «sviluppo fino alle conseguenze più tragiche di un’ipotesi del tutto fantastica» (sempre nella Grammatica della fantasia), si lascia aperta fiduciosamente la porta dell’invenzione, si crea nel lettore l’attesa del seguito e la soddisfazione di poter essere inventore compartecipe.

4.

Destinatari e mittente del racconto

Il racconto ha due destinatari: la scolaresca e il lettore. La scolaresca ascolterà il racconto nella versione definitiva, non verrà messa al corrente delle fasi elaborative (successive invenzioni, modifiche, mancato utilizzo di parti inventate) e sarà chiamata a collaborare al racconto inventandone possibili conclusioni e cercando di riconoscervi la preferibile (purché sia possibile). La scolaresca è il destinatario vero e proprio del racconto. Il lettore legge il racconto proprio attraverso quelle fasi di elaborazione che gli scolari non sentiranno, e non è coinvolto nell’invenzione del finale. Ha però un compito più impegnativo: imparare alcune tecniche per inventare racconti. Il lettore è un destinatario intermedio tra scrittore e scolari ma è chiamato a diventare mittente di racconti per altri destinatari (forse altre scolaresche, nella migliore delle ipotesi).


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:44

Pagina 26

Gianni Rodari Rodari, il mittente del racconto, ci consegna dunque un testo didattico all’origine del quale sta una ammirevole completa fiducia che sia possibile e utile scrivere racconti. La possibilità è legata a tecniche razionali e a doti creative (indicate nel 1973 nella Grammatica della fantasia); l’utilità è legata a una certa concezione del mondo (ad una cultura) secondo cui ogni apprendimento (a ogni età e preferibilmente da subito) implica una partecipazione attiva. Nel caso concreto il racconto migliore sarà quello elaborato contemporaneamente dal mittente e dal destinatario. Gli studenti-lettori di questa mia raccolta di analisi di testi non sono chiamati a diventare scrittori (potranno anche diventarlo ma non è questo lo scopo primo del libro); il racconto di Rodari serve loro per entrare nell’officina dello scrittore, a contatto col materiale primario della parola e col destinatario vergine dell’infanzia. Frequentare un simile laboratorio è operazione non asettica, di neutra osservazione tecnica, ma morale: A questo punto ciascuno dovrà immaginare liberamente il messaggio che esce dal misterioso sommergibile e costruire il seguito della storia. Temo purtroppo che molti, troppi, quasi tutti faranno uscire dall’altoparlante un messaggio di minaccia e faranno abitare nella pancia dell’imbarcazione bellicosi extraterrestri, mostri spaziali, banditi interplanetari, guerrieri cosmici e simili. Pare che siamo obbligati a immaginare gli esseri di altri mondi come nemici dai quali dobbiamo aspettarci solo guerre, massacri e catastrofi: nel migliore dei casi, dei «diversi» con i quali è impossibile la comunicazione, impensabile la comprensione, vietata l’amicizia. / Bisognerà che anch’io dica la mia, per non sottrarmi alle mie responsabilità (98-107). Questa moralità, questa non indifferenza alle cose, dà il senso all’agire sia dello scrittore che del critico. L’ottimismo di Rodari ci insegna che scrivere racconti (e perciò anche analizzare quelli che altri hanno scritto) è un esercizio da cui si genera la comunicazione, la comprensione e l’amicizia. Comunicare e comprendere sembra oggi, in certi casi, paradossalmente impossibile (proprio quando la comunicazione di massa è riuscita a farci sapere tutto di tutti in ogni istante). È bello invece costatare che se ne affermi la possibilità, ed è commovente rilevare che per quella via si giunge all’amicizia: parola logora e sbiadita, dietro la quale però ciascuno di noi percepisce, magari solo confusamente, che si nasconde una parte non trascurabile del nostro agire: pur sempre bisognoso di vivere senza guerre, massacri e catastrofi di qualunque tipo esse siano.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:44

Pagina 27

II.

Marcovaldo al supermarket

II.

Marcovaldo al supermarket

27

Italo Calvino (1923-1985)

Alle sei di sera la città cadeva in mano dei consumatori. Per tutta la giornata il gran daffare della popolazione produttiva era il produrre: producevano beni di consumo. A una cert’ora, come per lo scatto d’un interruttore, smettevano la produzione e, via!, si buttavano tutti a consumare. Ogni giorno una fioritura impetuosa faceva appena in tempo a sbocciare dietro le vetrine illuminate, i rossi salami a penzolare, le torri di piatti di porcellana a innalzarsi fino al soffitto, i rotoli di tessuto a dispiegare drappeggi come code di pavone, ed ecco già irrompeva la folla consumatrice a smantellare a rodere a palpare a far man bassa. Una fila ininterrotta serpeggiava per tutti i marciapiedi e i portici, s’allungava attraverso le porte a vetri nei magazzini intorno a tutti i banchi, mossa dalle gomitate di ognuno nelle costole di ognuno come da continui colpi di stantuffo. Consumate! e toccavano le merci e le rimettevano giù e le riprendevano e se le strappavano di mano; consumate! e obbligavano le pallide commesse a sciorinare sul bancone biancheria e biancheria; consumate! e i gomitoli di spago colorato giravano come trottole, i fogli di carta a fiori levavano ali starnazzanti, avvolgendo gli acquisti in pacchettini e i pacchettini in pacchetti e i pacchetti in pacchi, legati ognuno col suo nodo a fiocco. E via pacchi pacchetti pacchettini borse borsette vorticavano attorno alla cassa in un ingorgo, mani che frugavano nelle borsette cercando i borsellini e dita che frugavano nei borsellini cercando gli spiccioli, e giù in fondo in mezzo a una foresta di gambe sconosciute e falde di soprabiti i bambini non più tenuti per mano si smarrivano e piangevano. Una di queste sere Marcovaldo stava portando a spasso la famiglia. Essendo senza soldi, il loro spasso era guardare gli altri fare spese; inquantoché il denaro, più ne circola, più chi ne è senza spera: «Prima o poi finirà per passarne anche un po’ per le mie tasche». Invece, a Marcovaldo, il suo stipendio, tra che era poco e che di famiglia erano in molti, e che c’erano da pagare rate e debiti, scorreva via appena percepito. Comunque, era pur sempre un bel guardare, specie facendo un giro al supermarket. Il supermarket funzionava col self-service. C’erano quei carrelli, come dei cestini di ferro con le ruote, e ogni cliente spingeva il suo carrello e lo riempiva di ogni bendidio. Anche Marcovaldo nell’entrare prese un carrello lui, uno sua moglie e

5

10

15

20

25


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:44

Pagina 28

Italo Calvino uno ciascuno i suoi quattro bambini. E così andavano in processione coi carrelli davanti a sé, tra banchi stipati da montagne di cose mangerecce, indicandosi i salami e i formaggi e nominandoli, come riconoscessero nella folla visi di amici, o almeno conoscenti. – Papà, lo possiamo prendere questo? – chiedevano i bambini ogni minuto. – No, non si tocca, è proibito, – diceva Marcovaldo ricordandosi che alla fine di quel giro li attendeva la cassiera per la somma. – E perché quella signora lì li prende? – insistevano, vedendo tutte queste buone donne che, entrate per comprare solo due carote e un sedano, non sapevano resistere di fronte a una piramide di barattoli e tum! tum! tum! con un gesto tra distratto e rassegnato lasciavano cadere lattine di pomodori pelati, pesche sciroppate, alici sott’olio a tambureggiare nel carrello. Insomma, se il tuo carrello è vuoto e gli altri pieni, si può reggere fino a un certo punto: poi ti prende un’invidia, un crepacuore, e non resisti più. Allora Marcovaldo, dopo aver raccomandato alla moglie e ai figlioli di non toccare niente, girò veloce a una traversa tra i banchi, si sottrasse alla vista della famiglia e, presa da un ripiano una scatola di datteri, la depose nel carrello. Voleva soltanto provare il piacere di portarla in giro per dieci minuti, sfoggiare anche lui i suoi acquisti come gli altri, e poi rimetterla dove l’aveva presa. Questa scatola, e anche una rossa bottiglia di salsa piccante, e un sacchetto di caffè, e un azzurro pacco di spaghetti. Marcovaldo era sicuro che, facendo con delicatezza, poteva per almeno un quarto d’ora gustare la gioia di chi sa scegliere il prodotto, senza dover pagare neanche un soldo. Ma guai se i bambini lo vedevano! Subito si sarebbero messi a imitarlo e chissà che confusione ne sarebbe nata! Marcovaldo cercava di far perdere le sue tracce, percorrendo un cammino a zig zag per i reparti, seguendo ora indaffarate servette ora signore impellicciate. E come l’una o l’altra avanzava la mano per prendere una zucca gialla e odorosa o una scatola di triangolari formaggini, lui l’imitava. Gli altoparlanti diffondevano musichette allegre: i consumatori si muovevano o sostavano seguendone il ritmo, e al momento giusto protendevano il braccio e prendevano un oggetto e lo posavano nel loro cestino, tutto a suon di musica. Il carrello di Marcovaldo adesso era gremito di mercanzia; i suoi passi lo portavano ad addentrarsi in reparti meno frequentati; i prodotti dai nomi sempre meno decifrabili erano chiusi in scatole con figure da cui non risultava chiaro se si trattava di concime per la lattuga o di seme di lattuga o di lattuga vera e propria o di veleno per i bruchi della lattuga o di becchime per attirare gli uccelli che mangiano quei bruchi oppure condimento per l’insalata o per gli uccelli arrosto. Comunque Marcovaldo ne prendeva due o tre scatole. Così andava tra due siepi alte di banchi. Tutt’a un tratto la corsia finiva e c’era un lungo spazio vuoto e deserto con le luci al neon che facevano brillare le piastrelle. Marcovaldo era lì, solo col suo carro di roba, e in fondo a quello spazio vuoto c’era l’uscita con la cassa. Il primo istinto fu di buttarsi a correre a testa bassa spingendo il carrello davanti a sé come un carro armato e scappare via dal supermarket col bottino prima che la cassiera potesse dare l’allarme. Ma in quel momento da un’altra corsia lì vicino s’affacciò un carrello carico ancor più del suo, e chi lo spingeva era sua moglie Domitilla.

30

35

40

45

50

55

60

65

70

75


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

II.

13.4.2012

Marcovaldo al supermarket

13:44

Pagina 29

29

E da un’altra parte se n’affacciò un altro e Filippetto lo stava spingendo con tutte le sue forze. Era quello un punto in cui le corsie di molti reparti convergevano, e da ogni sbocco veniva fuori un bambino di Marcovaldo, tutti spingendo trespoli carichi come bastimenti mercantili. Ognuno aveva avuto la stessa idea, e adesso ritrovandosi s’accorgevano d’aver messo insieme un campionario di tutte le disponibilità del supermarket. – Papà, allora siamo ricchi? – chiese Michelino. – Ce ne avremo da mangiare per un anno? – Indietro! Presto! Lontani dalla cassa! – esclamò Marcovaldo facendo dietrofront e nascondendosi, lui e le sue derrate, dietro ai banchi; e spiccò la corsa piegato in due come sotto il tiro nemico, tornando a perdersi nei reparti. Un rombo risuonava alle sue spalle; si voltò e vide tutta la famiglia che, spingendo i suoi vagoni come un treno, gli galoppava alle calcagna. – Qui ci chiedono un conto da un milione! Il supermarket era grande e intricato come un labirinto: ci si poteva girare ore ed ore. Con tante provviste a disposizione, Marcovaldo e familiari avrebbero potuto passarci l’intero inverno senza uscire. Ma gli altoparlanti già avevano interrotto la loro musichetta, e dicevano: – Attenzione! Tra un quarto d’ora il supermarket chiude! Siete pregati d’affrettarvi alla cassa! Era tempo di disfarsi del carico: ora o mai più. Al richiamo dell’altoparlante la folla dei clienti era presa da una furia frenetica, come se si trattasse degli ultimi minuti dell’ultimo supermarket in tutto il mondo, una furia non si capiva se di prendere tutto quel che c’era o di lasciarlo lì, insomma uno spingi spingi attorno ai banchi, e Marcovaldo con Domitilla e i figli ne approfittavano per rimettere la mercanzia sui banchi o per farla scivolare nei carrelli d’altre persone. Le restituzioni avvenivano un po’a casaccio: la carta moschicida sul banco del prosciutto, un cavolo cappuccio tra le torte. Una signora, non s’accorsero che invece del carrello spingeva una carrozzella con un neonato: ci rincalzarono un fiasco di barbera. Questa di privarsi delle cose senz’averle nemmeno assaporate era una sofferenza che strappava le lacrime. E così, nello stesso momento che lasciavano un tubetto di maionese, capitava loro sottomano un grappolo di banane, e lo prendevano; o un pollo arrosto invece d’uno spazzolone di nylon; con questo sistema i loro carrelli più si vuotavano più tornavano a riempirsi. La famiglia con le sue provviste saliva e scendeva per le scale rotanti e ad ogni piano da ogni parte si trovava di fronte a passaggi obbligati dove una cassiera di sentinella puntava una macchina calcolatrice crepitante come una mitragliatrice contro tutti quelli che accennavano a uscire. Il girare di Marcovaldo e famiglia somigliava sempre più a quello di bestie in gabbia o di carcerati in una luminosa prigione dai muri a pannelli colorati. In un punto, i pannelli d’una parete erano smontati, c’era una scala a pioli posata lì, martelli, attrezzi da carpentiere e muratore. Un’impresa stava costruendo un ampliamento del supermarket. Finito l’orario di lavoro, gli operai se n’erano andati lasciando tutto com’era. Marcovaldo, provviste innanzi, passò per il buco del muro. Di là c’era buio; lui avanzò. E la famiglia, coi carrelli, gli andò dietro. Le ruote gommate dei carrelli sobbalzavano su un suolo come disselciato, a tratti sabbioso, poi su un piancito d’assi sconnesse. Marcovaldo procedeva in equilibrio su di un asse; gli altri lo seguivano. A un tratto videro davanti e dietro e sopra e sotto tante luci seminate lontano, e intorno il vuoto.

80

85

90

95

100

105

110

115

120


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:44

Pagina 30

Italo Calvino Erano sul castello d’assi d’un’impalcatura, all’altezza delle case di sette piani. La città s’apriva sotto di loro in uno sfavillare luminoso di finestre e insegne e sprazzi elettrici dalle antenne dei tram; più in su era il cielo stellato d’astri e lampadine rosse d’antenne di stazioni radio. L’impalcatura tremava sotto il peso di tutta quella merce lassù in bilico. Michelino disse: – Ho paura! Dal buio avanzò un’ombra. Era una bocca enorme, senza denti, che s’apriva protendendosi su un lungo collo metallico: una gru. Calava su di loro, si fermava alla loro altezza, la ganascia inferiore contro il bordo dell’impalcatura. Marcovaldo inclinò il carrello, rovesciò la merce nelle fauci di ferro, passò avanti. Domitilla fece lo stesso. I bambini imitarono i genitori. La gru richiuse le fauci con dentro tutto il bottino del supermarket e con un gracchiante carrucolare tirò indietro il collo, allontanandosi. Sotto s’accendevano e ruotavano le scritte luminose multicolori che invitavano a comprare i prodotti in vendita nel grande supermarket.

Testo di riferimento I. CALVINO, Romanzi e racconti, edizione diretta da C. Milanini, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, Mondadori («I Meridiani»), vol. I, 1991, pp. 1146-1151.

125

130


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:44

Pagina 31

II.

Marcovaldo al supermarket - Analisi del testo

II.

Analisi del testo

1.

Riassunto dell’intreccio e articolazione del testo 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

31

Acquisti al supermercato (1-20). Comportamento degli acquirenti (21-42). Riempimento dei carrelli (43-67). Fuga impossibile con la merce (68-87). Svuotamento impossibile dei carrelli (88-112). Fuga con la merce (113-126). Restituzione della merce (127-134).

La prima parte è introduttiva e mostra il supermercato in funzione prima che giunga Marcovaldo. La seconda è ancora introduttiva: al mondo nuovo in cui Marcovaldo si trova ad agire. La terza è intesa come un furto. La quarta dice che, provato un senso di colpa, non si può fuggire. La quinta dice che non si può occultare la refurtiva. Allora, con la sesta parte, è necessario fuggire con la refurtiva. L’obbligo della fuga, dice la settima, conduce alla restituzione obbligatoria della refurtiva. Dopo le parti quarta e quinta, Marcovaldo sembra preso con le mani nel sacco, pronto per l’arresto. Ma è il supermercato stesso che gli offre la fuga dal pertugio e lo obbliga a una restituzione anomala che avviene col sacrificio del maltolto.

2.

Consumismo, consumi, consumatori

Attorno a questo argomento ruota tutto il racconto. Calvino lo affronta polemicamente in un tono che varia tra satira e comicità; la sua presa di posizione è solo secondariamente politica. Si direbbe anzi che quel grave problema sociale sia scelto solo per il divertimento dei suoi giovanissimi lettori (con il passaggio obbligato, però, di un forte impegno stilistico). Lo si vede fin dall’inizio: il gran daffare della popolazione produttiva era il produrre: producevano beni di consumo (2-3), dove il verbo


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:44

Pagina 32

Italo Calvino e il corrispondente aggettivo perdono la serietà del loro contenuto e diventano elementi ritmici di una operazione ripetitiva e inarrestabile, che ammette solo qualche pausa grazie alla quale però prende nuova forza: smettevano la produzione e, via!, si buttavano tutti a consumare (3-4). Anche la triplice esortazione Consumate! (11, 12, 13) è solo sarcastica, priva di drammaticità. Il racconto, pubblicato nel 1963 ma probabilmente ambientato qualche anno prima, prende in considerazione un fenomeno, proveniente dagli Stati Uniti d’America, che stava affermandosi in un’Italia in via di sviluppo industriale e di benessere sociale e finanziario. Il supermercato faceva in quegli anni una grande impressione: positiva, perché metteva alla portata di molti un benessere fino allora di pochi; negativa, perché nelle sue inusitate dimensioni di spazio concentrava quello che fino allora era distribuito in luoghi diversi e cominciava a mettere in difficoltà il piccolo negozio. Di questi due aspetti Calvino considera solo il primo: rossi salami (5), piatti di porcellana (6), rotoli di tessuto (6), biancheria e biancheria (13), gomitoli di spago colorato (1314), fogli di carta a fiori (14), lattine di pomodori pelati, pesche sciroppate, alici sott’olio (41-42), una scatola di datteri (47), una rossa bottiglia di salsa piccante, e un sacchetto di caffè, e un azzurro pacco di spaghetti (49-50), una zucca gialla e odorosa o una scatola di triangolari formaggini (56-57), carta moschicida (99), prosciutto (99), cavolo cappuccio (99), torte (99), un fiasco di barbera (101), un tubetto di maionese (103-104), un grappolo di banane (104), un pollo arrosto (104-105), uno spazzolone di nylon (105). L’elencazione è abbondante e disordinata per creare un senso di disorientamento e di stordimento, riassunto del resto nell’affermazione: Il supermarket era grande e intricato come un labirinto (88). Ma nel disordine si riconosce una tensione crescente (non sono coinvolte le parti 2 e 5 del riassunto) con due apici: uno relativo alla folla in genere (16-20) e l’altro a Marcovaldo (63-66). Calvino, forse come tutti coloro che allora riflettevano sul fenomeno, sente che il nuovo benessere comporta un livellamento, un appiattimento, una perdita di valore. Questa sensazione è espressa con considerazioni di ordine non economico ma sentimentale. Domina la paura, esorcizzata dal comico ottenuto coll’imprevisto (tutti i familiari si ritrovano col loro carrello pieno, smascherandosi a vicenda), con la sproporzione (il neonato e il fiasco di vino) e specialmente con la caricatura dell’oggetto. Marcovaldo appartiene poco più che al proletariato, è in difficoltà economiche, è preso nel giro consumistico con tutta la sua famiglia, passa dal piacere (47) alla sofferenza (102-103); non è un dominatore e termina la sua avventura dominato, sopraffatto. Il supermercato (metafora della società dei consumi) è una macchina inumana, priva di sentimenti, nel cui ventre si agita una folla mercificata (il neonato è equiparato al fiasco) di frenetici compratori nell’atto di comperare, tra i quali si muove a disagio Marcovaldo, compratore potenziale, in grado soltanto di vedere gli altri comperare o di fingersi compratore per mancanza di soldi. La povertà di Marcovaldo non è mai vista tragicamente ed è anzi definita col registro della comicità, nonostante la riflessione (collocata appena il protagonista entra in scena): inquantoché il denaro, più ne circola, più chi ne è senza spera: «Prima o poi finirà per passarne anche un po’ per le mie tasche» (22-24); riflessione dal tono serio anche se fa ricorso (per esigenze tardo-neorealiste) ad un vistoso anacoluto e al discorso diretto.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:44

II.

Marcovaldo al supermarket - Analisi del testo

3. 3.1.

Deformazione della realtà Ripetizioni, binomi, polinomi

Pagina 33

33

L’inizio del racconto, con il succedersi delle voci produttiva, produrre, producevano, consumo, produzione, consumare (2-4), ricorre alla figura etimologica e al polyptoton per sottolineare, attraverso la ripetizione, il fenomeno considerato. Con lo stesso scopo si trovano anche altre forme di ripetizione: dalle gomitate di ognuno nelle costole di ognuno (10), Consumate! (11-13 tre volte), biancheria e biancheria (13), avvolgendo gli acquisti in pacchettini e i pacchettini in pacchetti e i pacchetti in pacchi (15-16, dal piccolo al grande), pacchi pacchetti pacchettini (16, a ritroso rispetto al precedente), carrelli, carrello, carrello, carrelli (27-30, i primi due in genere, gli altri due in specie; e con il chiasmo del numero). Due casi vanno oltre la ripetizione, con un procedimento dalla causa all’effetto: mani (a) che frugavano nelle borsette (b) cercando i borsellini (c) e dita (a1) che frugavano nei borsellini (b1) cercando gli spiccioli (c1) (17-18); non risultava chiaro se si trattava di concime per la lattuga o di seme di lattuga o di lattuga vera e propria o di veleno per i bruchi della lattuga o di becchime per attirare gli uccelli che mangiano quei bruchi oppure condimento per l’insalata o per gli uccelli arrosto (6366). In entrambi i casi l’azione e l’oggetto sono esasperati e deformati per eccesso di analisi e di ipotesi. Un effetto vicino a quello della ripetizione si ha con l’organizzazione della materia in binomi e polinomi (che sfruttano anche il chiasmo): Questa scatola (a), e anche una rossa (b’) bottiglia di salsa piccante (b), e un sacchetto di caffè (a), e un azzurro (b’) pacco di spaghetti (b) (49-50); ora indaffarate (a) servette (b) ora signore (b) impellicciate (a) (55-56); una zucca (a) gialla e odorosa (b) o una scatola di triangolari (b) formaggini (a) (56-57); per rimettere (a) la mercanzia sui banchi (b) o per farla scivolare (a) nei carrelli (b) d’altre persone (97-98); lasciavano (a) un tubetto (b) di maionese (c) … un grappolo (b) di banane (c), e lo prendevano (a) (103-104); di bestie (a) in gabbia (b) o di carcerati (a) in una luminosa prigione (b) (111); La città (a) s’apriva sotto (b) di loro in uno sfavillare luminoso di finestre e insegne (c) e sprazzi elettrici (d) dalle antenne dei tram (e); più in su (b) era il cielo (a) stellato d’astri (c) e lampadine rosse (d) d’antenne di stazioni radio (e) (123-125). Questa tecnica espressiva domina il racconto a partire dal momento dell’azione di Marcovaldo, e in un crescendo esasperato accompagna la vicenda fino allo scioglimento. 3.2.

Metafore e paragoni

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Ecco il materiale, nell’ordine con cui si presenta nel testo: Alle sei di sera la città cadeva in mano dei consumatori (1) una fioritura impetuosa [di merci] faceva appena in tempo a sbocciare (4-5) le torri di piatti (6) rotoli di tessuto a dispiegare drappeggi come code di pavone (6-7) gomitate … come … colpi di stantuffo (10-11) i gomitoli di spago colorato giravano come trottole (13-14) i fogli di carta a fiori levavano ali starnazzanti (14)


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:44

Pagina 34

Italo Calvino 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17.

foresta di gambe (19) piramide di barattoli (40) tambureggiare (42) siepi alte di banchi (68) il carrello … come un carro armato (72-73) trespoli carichi come bastimenti mercantili (78-79) piegato in due come sotto il tiro nemico (83-84) spingendo i suoi vagoni come un treno (85-86) supermarket … come un labirinto (88) puntava una macchina calcolatrice crepitante come una mitragliatrice (109) 18. Il girare di Marcovaldo … somigliava … a quello di bestie in gabbia o di carcerati in una luminosa prigione (110-111) 19. bocca enorme, senza denti … su un lungo collo metallico … la ganascia inferiore contro il bordo dell’impalcatura (127-129); fauci di ferro (130); richiuse le fauci (131); tirò indietro il collo (132). Queste scelte retorico-stilistiche interessano quasi tutte le parti messe in luce nel riassunto (esempi 1-8 per la prima; 9-10 per la seconda; 11-15 per la quarta; 1618 per la quinta; 19 per la settima). Nella prima parte gli esempi 2, 4, 6, 7, 8, si situano nel mondo della natura vegetale e animale e dell’infanzia; ad essi però si oppongono gli esempi 1, 3, 5 legati al tema della guerra, della lotta. La tensione tra piacere e dolore, che viene così a crearsi, tende a risolversi nel secondo, come dicono tanto il primo esempio (che apre il racconto e sembra uno stralcio da un bollettino di guerra) quanto smantellare (8), far man bassa (8), ingorgo (17). Gli esempi relativi alle parti 2 e 4 del riassunto mostrano l’accentuarsi del tema del combattimento (carro armato, mitragliatrice), verso cui si orientano anche tum! tum! tum! (40), bottino (73), allarme (74), dietrofront (83), nascondendosi (83), passaggi obbligati (108), una cassiera di sentinella (108109); in questo contesto sono attratti anche gli esempi 11, 13, 15, 16. L’esempio 18 (ultimo della quinta parte) dice che se l’avventura è stata vissuta da Marcovaldo come una guerra, l’esito è considerato (da altri?) come punizione di un furto mediante il carcere. Ma il carcere è il supermercato stesso (indicato anche con la metafora della gabbia da zoo), così che uscire da esso significa evadere: con le conseguenze del caso. 3.3.

Verso la favola

Marcovaldo, dopo aver assaporato l’ebbrezza dell’acquisto sfrenato mediante una simulazione, è costretto, per mancanza di soldi, alla restituzione della merce che non è in grado di pagare e che costituisce l’oggetto del flagrante furto nel momento in cui egli passa davanti alla cassiera-sentinella con la cassa-mitragliatrice. Arrivato a questo punto dell’invenzione, Calvino sembra scegliere la soluzione più banale per chiudere il racconto: far fare marcia indietro al suo protagonista. Egli inventa dapprima una restituzione possibile della merce, disordinata e comica per il gioco di antitesi che comporta: Le restituzioni avvenivano un po’a casaccio: la carta moschicida sul banco del prosciutto, un cavolo cappuccio tra le torte. Una signora, non s’accorsero che invece del carrello spingeva una carrozzella con un neonato: ci rincalzarono un fiasco


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

II.

13.4.2012

13:44

Marcovaldo al supermarket - Analisi del testo

Pagina 35

35

di barbera (98-101; si noterà anche qui un efficace anacoluto in funzione comica). Poi però l’autore cambia tattica e inventa una restituzione impossibile: Questa di privarsi delle cose senz’averle nemmeno assaporate era una sofferenza che strappava le lacrime. E così, nello stesso momento che lasciavano un tubetto di maionese, capitava loro sottomano un grappolo di banane, e lo prendevano; o un pollo arrosto invece d’uno spazzolone di nylon; con questo sistema i loro carrelli più si vuotavano più tornavano a riempirsi (102-106). Rifiutata così la via più facile e realistica, si viene a dire che nel labirinto del supermercato-carcere si diventa schiavi del potere consumistico, presi anche in trappola dalle musiche che gli altoparlanti, come fossero sirene incantatrici, diffondono persuasivamente tra i compratori. La difficile e poco realistica invenzione narrativa conduce, come si vede, ad una metafora facile e scontata e non libera il narratore dall’inventare una via d’uscita per il protagonista. La soluzione è il buco del muro (116), con la quale la realtà narrata è spinta verso la favola, nel cui territorio ci si può muovere liberi dalle giustificazioni realiste. Il fatto ha una debole verosimiglianza: non si esclude che un supermercato sia in funzione anche durante lavori di ampliamento, ma non è credibile che al settimo piano di un immobile si possa trovare il pertugio dell’evasione che porta sulle impalcature, dove per di più una salvezza è impossibile. Siamo insomma con Alice in un paese di nuove meraviglie. Nelle parti quinta e sesta, conclusive senza essere risolutive, tutto è in relazione ad un oggetto simbolo: un meccanico deus ex machina di nome gru. Quella macchina metallica ha un nome che è una metafora suggerita dal noto trampoliere col lungo becco; e tutte le metafore circostanti vanno nella direzione dell’animale: bocca, denti, collo, ganascia, fauci. L’animale gru è anche identificabile con la cicogna che, per tradizione, porta nel becco un fagotto contenente il neonato; qui la macchina gru porta un contenitore vuoto in cui Marcovaldo e famiglia versano il contenuto truffaldino dei loro carrelli da spesa, sacrificando nelle fauci del mostro l’immeritato bottino: unico modo per indicare il proprio pentimento, per ottenere la salvezza e per sorgere a nuova vita. L’operazione del sacrificio e del riscatto è, come di dovere, difficile: oltre il buco del muro c’era buio (117) e le ruote dei carrelli sobbalzavano su un suolo come disselciato, a tratti sabbioso, poi su un piancito d’assi sconnesse (118-119; con fonosimbolismo dovuto al consonantismo aspro e all’allitterazione), così che Marcovaldo procedeva in equilibrio (119-120); davanti e dietro e sopra e sotto (120-121) si vedevano poco rassicuranti luci seminate lontano, e intorno il vuoto (121); le luci aggressive sono quelle delle insegne al neon, dei bagliori elettrici prodotti dalle antenne dei tram, delle antenne radio: cioè di alcuni dei più tipici segnali della progredita civiltà industriale-consumistica che, in secondo piano e nell’ombra, attenta alla vita di Marcovaldo. Ma la bocca della gru invece di divorare Marcovaldo divora l’oggetto del suo desiderio proibito, qualificandosi come provvisoria salvezza del protagonista. A rito concluso è detto solo che: Sotto s’accendevano e ruotavano le scritte luminose multicolori che invitavano a comprare i prodotti in vendita nel grande supermarket (133134). Non si sa se Marcovaldo e famiglia rientrassero nel supermercato (forse nel frattempo già chiuso e vuoto) e se tornassero sui propri passi, felici e contenti per lo scampato pericolo. Soddisfare questa curiosità vorrebbe dire risolvere una vicenda che invece si conclude nel non finito: coi patetici personaggi sospesi sulle impalcature come in un limbo, nell’incertezza esistenziale notturna.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:44

Pagina 36


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

III.

La notte dei numeri

III.

La notte dei numeri

13:44

Pagina 37

37

Italo Calvino (1923-1985)

Il buio della sera s’infila nelle vie e nei corsi, riempie di nero gli interstizi tra le foglie degli alberi, punteggia di scintille la corsa delle antenne dei tram, s’apre in un cono sfumato sotto i puntuali lampioni, accende la festa delle vetrine, e più in su per le facciate delle case sottolinea il riserbo delle tendine alle finestre familiari. Ma agli ammezzati e ai primi piani, larghi rettangoli di luce senza schermi svelano i misteri degli uffici delle mille ditte della città. La giornata di lavoro è alla fine: dai rulli delle macchine da scrivere allineate in fila gli ultimi fogli si srotolano e separano dalla pesta cartacarbone; sulle scrivanie dei capuffici si posano i dossier della corrispondenza per la firma, le dattilografe incappucciano le macchine e s’avviano al guardaroba o già s’accodano al crocchio incappottato attorno all’orologio della timbratura. Tutto è presto deserto. Le finestre ora mostrano un seguito di sale vuote, immerse nel biancore di calce che dalle lampade a tubo riverbera sulle pareti ripartite in zone dai colori rallegranti, sulle scrivanie lucide e nude, sugli ordigni meccanografici che, smesso lo scalpitare dei loro accaniti sforzi di pensiero, dormono in piedi come cavalli. Ed ecco che questo scenario geometrico si popola tutt’a un tratto di donnette di mezz’età, infagottate in vestaglie a fiori verdi e scarlatte, con teste avvolte in fazzoletti o pettinate «all’impero» o col fisciù, con gonne troppo corte da cui escono gambe gonfie dentro calze di lana, piedi in ciabatte di pezza. La notte della contabilità genera streghe. Impugnano scope e spazzoloni e si buttano per quelle lisce superfici a tracciare le loro cabale. Nel quadro d’una finestra, una faccia di ragazzo lentigginosa, con una cresta ispida di capelli neri, appare e trascorre via, riappare alla finestra seguente, alla prossima, a quell’altra ancora, come un pesce-luna in un acquario. Ecco, s’è fermato nell’angolo d’una finestra, e in quel momento di schianto si srotola la persiana, e il rettangolo luminoso dell’acquario sparisce. Una due tre quattro, su tutte le finestre cala il buio e in ognuna l’ultima cosa che si vede è la smorfia da pesce-luna di quella piccola faccia. – Paolino! Hai calato tutte le persiane? Sebbene la mattina Paolino abbia da alzarsi presto per la scuola, sua madre lo porta con sé tutte le sere, perché aiuti un po’ e impari a lavorare. Una soffice nuvola di sonno gli comincia a pesare a quell’ora sulle palpebre. Entrando dalle vie già

5

10

15

20

25


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:44

Pagina 38

Italo Calvino buie, quelle stanze deserte e piene di luce dànno come uno stordimento. Anche le lampade da tavolo sono rimaste accese, chinando i paralumi verdi sui lunghi colli pieghevoli verso il piano lucido delle scrivanie. Paolino, passando, preme il pulsante d’ognuna per spegnerle e attenuare quel chiarore. – Che fai? Ti pare l’ora di giocare? Vieni a darci una mano! Hai tirato giù le persiane? Paolino con una mossa brusca lascia srotolare le persiane tutte d’un colpo. Sparisce il buio della notte là fuori, l’alone dei lampioni, l’attutito chiarore delle finestre lontane di là del corso, e non c’è più altro mondo che questa scatola di luce. A ogni scroscio di persiana Paolino si va come risvegliando dal suo torpore: ma è come quando in sonno si sogna di svegliarci e non si fa che entrare in un altro sogno, più profondo ancora. – Mamma, posso andare a fare il giro dei cestini? – Sì, bravo, prendi il sacco, va’! Paolino prende il sacco e va a fare il giro degli uffici per vuotare i cestini della carta straccia. Il sacco è più grande di lui e Paolino se lo trascina dietro facendolo scivolare sul pavimento. Cammina piano per far durare il giro più a lungo che può: di tutta la serata, è il momento migliore, per Paolino. Gli si aprono davanti saloni con file di macchine calcolatrici e di classificatori tutti uguali, stanze con scrivanie autorevoli cariche di telefoni e citofoni e tastiere. Gli piace girarci da solo, fino a immedesimarsi in quelle suppellettili metalliche, in quegli spigoli ad angolo retto, fino a dimenticare tutto il resto, e soprattutto non avere più negli orecchi il chiacchierio di sua madre e della signora Dirce. La differenza tra la signora Dirce e la madre di Paolino è che la signora Dirce è molto compresa del fatto di far pulizia negli uffici della «Sbav», mentre la madre di Paolino non fa nessun conto se sta pulendo una ditta o una cucina o un retrobottega. La signora Dirce sa la denominazione di tutti gli uffici. – E adesso andiamo in contabilità, signora Pensotti, – dice alla mamma di Paolino. – Cos’è che l’è? – chiede la signora Pensotti, che è una donnetta bassa e grassa, venuta da poco dal paese. La signora Dirce invece è magra e lunga, tutta sussiegosa, e veste una specie di chimono. Della ditta conosce tutti i segreti, e la madre di Paolino la sta a sentire a bocca aperta. – Vede il dottor Bertolenghi com’è disordinato, pare impossibile, – dice, – sfido io che vanno male le esportazioni, con questa confusione… La madre di Paolino la tira per una manica: – Ma chi è che l’è…? Ma che lasci stare… Cosa l’è che tocca, signora Dirce? Non lo sa che sui tavoli se non c’è pulito noi non ci dobbiamo pulire? Giusto un colpo di piumino così sul telefono, per togliere via la più grossa… La signora Dirce mette anche il naso nelle carte, prende una lettera, l’avvicina al naso perché è miope, e dice: – Di’, senta un po’, trecentomila dollari, dice qui… Lo sa quanto fa trecentomila dollari, signora Pensotti? A Paolino le due donne appaiono come una stonatura, un’offesa alla compostezza dell’ufficio. Gli dànno ai nervi sia l’una che l’altra: la signora Dirce è una petulante, ridicola quando per spolverare le tastiere del citofono o le maniglie dei cassetti si siede sulla poltrona d’un capufficio, e lì, muovendo il suo strofinaccio, le viene da prendere un’espressione da capufficio che sbriga una pratica importante; e sua ma-

30

35

40

45

50

55

60

65

70

75


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

III.

La notte dei numeri

13.4.2012

13:44

Pagina 39

39

dre poi, è rimasta sempre la stessa donna di campagna che quando spolvera le macchine calcolatrici pare governi le bestie nella stalla. Più Paolino s’allontana da loro, e s’inoltra per gli uffici deserti, più i suoi occhi rimpiccioliti dal sonno dilatano quell’orizzonte nudo e squadrato, e gli piace di pensarsi come una formica, un essere quasi invisibile che percorre una terra deserta e liscia di linoleum, tra lucide montagne tagliate a picco e sotto un cielo piatto e bianco. Allora gli prende sgomento: e per rincuorarsi va a rintracciare intorno i segni della vita umana, sempre varia e disarmonica. Sotto il vetro d’un tavolo – certo d’un’impiegata – c’è una fotografia di Marlon Brando; su un davanzale un’altra tiene un vasetto di bulbi di narciso; in un cestino c’è un giornale illustrato; in un altro un foglio di block-notes pieno di pupazzi a matita; lo sgabello d’una dattilografa odora di violetta, in un portacenere ci sono dei bicchierini di stagnola di cioccolatini col liquore. Ecco, basta attaccarsi a questi particolari e lo sgomento di quel deserto geometrico scompare, ma Paolino se ne sente quasi umiliato, come per una sua viltà, perché è proprio quel che dà più sgomento che lui vuole e deve fare suo. Una sala è piena di macchine. Adesso sono ferme, ma Paolino una volta le ha viste lavorare, con un continuo ronzio e scattar su e giù di spessi fogli traforati, come d’elitre d’insetti; e un uomo in camice bianco da chirurgo che manovrava le macchine s’era fermato a parlare con Paolino. – Verrà il giorno in cui gli uffici andranno avanti solo così, – gli aveva detto, – senza bisogno di nessuno, neppure di me. Paolino era subito corso dalla signora Dirce. – Lo sa che cosa fabbricano, quelle macchine? – le aveva chiesto, sperando di coglierla in fallo; l’uomo col camice bianco gli aveva spiegato proprio allora che quelle macchine non fabbricano niente, ma dirigono tutti gli affari della ditta; controllano i conti, sanno tutto quel che è successo e quel che deve succedere. – Quelle lì? – aveva detto la signora Dirce, – quelle lì non servono nemmeno da trappole per i topi, ve lo dico io. Volete saperne una? La rappresentanza di quelle macchine ce l’ha il cognato del commendator Pistagna, e così lui le ha fatte comprare alla ditta. Proprio così… Paolino aveva alzato le spalle: era chiaro una volta di più che la signora Dirce non capiva niente: non sapeva nemmeno che quelle macchine conoscono il passato e il futuro, e faranno funzionare gli uffici da soli, deserti e vuoti come ora di notte. Ora, tirandosi dietro il sacco della cartaccia, Paolino cerca d’immaginarsi come sarà, di concentrarsi in quell’idea, il più lontano possibile da sua madre e dalla signora Dirce, ma c’è sempre qualcosa che glie lo impedisce, come una presenza stonata. Cos’è? Sta entrando in un ufficio per prendere i cestini, quando s’ode un «Ah!» di spavento. Un impiegato e un’impiegata, rimasti a fare lo straordinario, hanno visto la sua zazzera irsuta come un istrice far capolino nel vano della porta, e poi venire avanti il ragazzetto col maglione a strisce rosse e verdi, che si trascina dietro un grosso sacco. Paolino con dolore comprende che quella presenza fuori di posto lì in mezzo è proprio la sua. Gli impiegati invece paiono intonati all’ambiente. Di questi due rimasti a far lo straordinario, lei è rossa, con gli occhiali, lui coi capelli lucidi di brillantina. Lui detta dei numeri a lei e lei li batte. Paolino si ferma a guardarli. L’impiegato dettando sente il bisogno di camminare, ma i suoi movimenti in mezzo ai tavoli sono come in un labirinto, tutti ad angoli retti. Torna ad avvicinarsi alla signorina, si riallontana; i nu-

80

85

90

95

100

105

110

115

120


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 40

Italo Calvino meri piovono come una secca gragnuola, i tasti alzano e abbassano i martelletti della macchina, le mani dell’impiegato nervose toccano il calendario da tavolo, i cestini portacarte, le spalliere delle sedie, e ogni cosa che incontrano è ferro. A un certo momento la signorina fa uno sbaglio, si ferma a cancellare sul rullo, e per un momento allora tutto prende un’aria più dolce, quasi carezzevole; l’impiegato ripete la cifra piano, posa una mano sulla spalliera della sedia di lei, e lei arcua la schiena fino a sfiorare la mano di lui, e i loro sguardi attenuano la fissità della continua attenzione e si soffermano un momento l’uno nell’altro. Ma la cancellatura è finita; lei riprende a tambureggiare sui tasti, lui a mitragliare cifre; si staccano, tutto torna come prima. Paolino deve andare a prendere il cestino; per darsi un contegno si mette a fischiare. I due s’interrompono, alzano lo sguardo. Paolino indica il cestino. – Fa’, fa’pure –. Paolino s’avvicina con la bocca atteggiata a fischio, ma senza emettere alcun suono. Involontariamente i due mentre lui va verso il cestino hanno un momento di pausa, e in questa pausa si vanno riavvicinando, le loro mani si sfiorano, i loro sguardi invece di saettare in qua e in là si volgono fino a incontrarsi. Paolino apre lentamente la bocca del sacco, solleva il cestino; il giovanotto e la ragazza stanno per sorridersi. Paolino con un gesto secco rovescia il cestino, dà una manata sul fondo per far cascare la cartaccia nel sacco: l’impiegato e la signorina si sono già rimessi a lavorare furiosamente, lui a dettare fitto fitto, lei curva sulla macchina coi capelli rossi che le coprono il viso. – Paolino! Paolino! Vieni a reggermi la scala! La madre di Paolino sta pulendo i vetri sulla scala a triangolo. Paolino va a reggerle la scala. La signora Dirce, muovendo la galera per terra avanti e indietro, trova da ridire sulla mancanza di zerbini: – Una ditta come questa, cosa gli costava metter giù quattro zerbini, per non farli entrare negli uffici con le scarpe infangate… Macché, tanto a sgobbare siamo sempre noi, e guai poi se non c’è lucido per terra… – Eh, sabato poi tanto ci diamo la cera, signora Dirce, vedrà come vien bene… – dice la signora Pensotti. – Oh, non me la prendo mica col cavalier Uggero, sa, signora Pensotti, è il commendator Pistagna che dico, in confidenza… Paolino non le sta a sentire. Pensa a quel giovanotto e quella signorina di là. Quando vanno a fare gli straordinari dopo cena, tra uomini e donne si crea un’atmosfera come se passassero insieme una prova fuori del comune. Lavorano forte, si direbbe, ma ci mettono qualcosa di teso, di segreto. Paolino non saprebbe dirlo a parole, ma è qualcosa che ha notato negli occhi di quei due, e vorrebbe tornare a vederli. – E tienimi la scala, sei addormentato? O vuoi farmi cascare? Paolino si mette a osservare i grafici appesi alle pareti. Su, giù, su, su, un po’ giù, di nuovo su. Cosa rappresentano? Forse li si può leggere fischiando: una nota che sale, poi una nota bassa, poi una alta più lunga. Prova a fischiare il disegno d’un grafico: – Fi-fii-fii… – poi d’un altro, d’un altro ancora. Ne viene fuori un bel motivo. – Cosa fischi, sei scemo? – grida la madre. – Vuoi uno schiaffo? Paolino adesso va con la pattumiera a vuotare tutti i portacenere. Ritorna nell’ufficio di quei due. Non si sente più il ticchettio della macchina. Che se ne siano andati? Paolino sporge il capo. La signorina è alzata, protende verso il giovanotto imbrillantinato una mano curva ad artiglio con le aguzze unghie laccate; lui avanza un braccio come volesse prenderla alla gola. Paolino si mette a fischiare: gli viene alle labbra quel motivo inventato poco prima. Si ricompongono. – Oh, sei sempre tu? – Sono

125

130

135

140

145

150

155

160

165


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

III.

La notte dei numeri

13.4.2012

13:45

Pagina 41

41

già in cappotto e stando in piedi si mostrano certe carte d’un lavoro per l’indomani. – Il portacenere! – fa Paolino. Ma loro non gli badano, ripongono le carte e se ne vanno. In fondo al corridoio, lui la prende a braccetto. A Paolino dispiace che se ne siano andati. Ora non c’è proprio più nessuno: si sente solo il ronzio della lucidatrice e la voce di sua madre. Paolino attraversa il salone del consiglio d’amministrazione col tavolo di mogano, lucido da potercisi specchiare, e le poltrone di cuoio tutt’intorno. Gli piacerebbe prendere la rincorsa, buttarsi a pesce sul piano del tavolo, attraversarlo da un capo all’altro con una scivolata, sprofondare in una poltrona e addormentarcisi. Invece si limita a farci strisciare sopra un dito e a vedere l’impronta umida come la scia d’una nave, poi a cancellarla col maglione fregandoci il gomito. Il grande salone della contabilità è diviso in tanti box. Si sente un ticchettio, dal fondo. Ci dev’essere ancora qualcuno che fa lo straordinario. Paolino gira da un box all’altro, ma è come un labirinto di anditi tutti uguali e il ticchettio sembra venga sempre da un posto diverso. Alla fine, nell’ultimo box scopre, curvo su di una vecchia addizionatrice, un ragioniere allampanato, in pullover, con una visiera di celluloide verde a metà d’un oblungo cranio calvo. Il ragioniere per battere sui tasti alza i gomiti col movimento d’un uccello che sbatte le ali: pare proprio un grosso uccello appollaiato lì, con quella visiera che sembra un becco. Paolino fa per vuotare il portacenere, ma il ragioniere sta fumando e posa la sigaretta sull’orlo proprio allora. Ciao, – fa il ragioniere. – Buonasera, – dice Paolino. – Che fai in giro a quest’ora? – Il ragioniere ha una lunga faccia bianca, dalla pelle secca, come se non vedesse mai il sole. – Vuoto i portacenere. – I ragazzi la notte devono dormire. – Sono con mia madre. Siamo quelli della pulizia. Cominciamo adesso. – Fino a che ora ci state? – Le dieci e mezzo, le undici. Alle volte poi facciamo lo straordinario, alla mattina. – Il contrario di noialtri, lo straordinario alla mattina. – Sì, ma solo una volta o due la settimana, quando si dà la cera. – Invece io sempre, lo straordinario. Io non finirò mai. – Che cosa? – Di far tornare i conti. – Non tornano? – Mai. Fermo, impugnando la manovella dell’addizionatrice, con l’occhio sullo stretto foglio che si srotola fino a terra, il ragioniere sembra aspetti qualcosa dalla fila dei numeri che sale fuori dal rullo, come sale il fumo dalla sigaretta tenuta stretta tra le labbra in un filo diritto davanti al suo occhio destro e incontra la visiera, devia, sale ancora fino al globo della lampadina e s’annuvola sotto il paralume. «Adesso glie lo dico», pensa Paolino. E chiede: – Ma non ci sono le macchine elettroniche che fanno tutti i calcoli da sole, scusi? Il ragioniere strizza l’occhio irritato dal fumo. – Tutti sbagliati, – dice.

170

175

180

185

190

195

200

205

210


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 42

Italo Calvino Paolino ha posato lo straccio e la pattumiera e s’appoggia al tavolo del ragioniere. – Sbagliano, quelle macchine? L’uomo con la visiera scrolla il capo. – No, è da prima, è tutto sbagliato già da prima – . S’alza, il pullover è troppo corto e la camicia gli fa uno sbuffo torno torno alla cintura. Prende la giacca dalla spalliera della sedia e se la mette. – Vieni con me. Paolino e il ragioniere camminano tra i box. II ragioniere ha il passo lungo e Paolino deve trotterellargli dietro. Percorrono tutto il corridoio; arrivati in fondo il ragioniere solleva una tenda: c’è una scala a chiocciola che scende. C’è buio, ma il ragioniere sa dov’è un interruttore e accende una fioca lampadina là sotto. Ora scendono per la scaletta a chiocciola, giù nei sotterranei della ditta. Nei sotterranei c’è una porticina chiusa con un catenaccio: il ragioniere ha la chiave, apre. Dentro non ci dev’essere impianto elettrico, perché il ragioniere accende un fiammifero e a colpo sicuro trova lì una candela e l’accende. Paolino non distingue bene, ma capisce d’essere allo stretto, in una specie di celletta, e tutt’intorno, ammucchiati in pile che arrivano fino al soffitto, ci sono degli scartafacci, dei registri, carte polverose, ed è certo di lì che promana quell’odore di muffa. – Questi sono tutti i vecchi libri mastri della ditta, – dice il ragioniere, – nei cent’anni della sua esistenza –. S’è issato a sedere in cima a uno sgabello, e apre un quaderno stretto e lungo, di su un alto banco inclinato a leggio. – Vedi? Questa è la calligrafia di Annibale De Canis, il primo ragioniere della ditta, il ragioniere più diligente che ci sia mai stato: guarda come teneva i registri. Paolino scorre con lo sguardo le colonne di numeri in bella calligrafia oblunga, con piccoli svolazzi. – A te solo faccio vedere queste cose: gli altri non capirebbero. E qualcuno bisogna pur che lo veda: io sono vecchio. – Sì, signor ragioniere, – fa Paolino, con un filo di voce. – Non c’è mai stato un ragioniere come Annibale De Canis, – e l’uomo con la visiera verde sposta la candela, illuminando, sopra una pila di registri, accanto a un vecchio pallottoliere dalle stecche sgangherate, la fotografia d’un signore coi baffi e il pizzo, in posa accanto a un cane volpino. – Eppure, quest’uomo infallibile, questo genio, vedi, il 16 novembre 1884, – e sfoglia le pagine del libro mastro, apre dove c’è per segno una penna d’oca rinsecchita, – ecco: qui, un errore, un grossolano errore di quattrocentodieci lire in una somma –. Al fondo della pagina, la cifra della somma è contornata da un fregaccio a matita rossa. – Nessuno se n’è mai accorto, io solo lo so, e sei la prima persona cui lo dico: tientelo per te e non lo dimenticare! E poi, se anche lo andrai a dire in giro, sei un ragazzo e nessuno ti darà retta… Ma adesso sai che tutto è sbagliato. In tanti anni, quell’errore di quattrocentodieci lire sai quant’è diventato? Miliardi! Miliardi! Hanno un bel girare le macchine calcolatrici, i cervelli elettronici e tutto il resto! L’errore è al fondo, al fondo di tutti i loro numeri, e cresce, cresce, cresce! – Avevano rinchiuso lo stanzino, risalivano per la scaletta a chiocciola, ripercorrevano il corridoio. – La ditta è diventata grande, grandissima, con migliaia d’azionisti, centinaia di ditte consociate, rappresentanze estere a non finire, e tutti macinano soltanto cifre sbagliate, non c’è nulla di vero in nessuno dei loro conti. Mezza città è costruita su questi sbagli, che dico mezza città: mezza nazione! E le esportazioni e le importazioni? Tutte sbagliate, tutto il mondo si porta dietro quest’errore, l’unico errore

215

220

225

230

235

240

245

250

255


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

III.

La notte dei numeri

13.4.2012

13:45

Pagina 43

43

compiuto in vita sua dal ragionier De Canis, quel maestro, quel gigante della contabilità, quel genio! L’uomo è andato all’attaccapanni e s’è messo il cappotto. Senza più la visiera verde, la sua faccia appare per un momento ancora più slavata e triste, poi torna in ombra sotto l’ala del cappello calata sugli occhi. – E sai cosa ti dico? – fa, chinandosi, a voce bassa, – io sono sicuro che lui l’aveva fatto apposta! Si alza, caccia le mani in tasca. – Noi due non ci siamo mai visti né conosciuti, – dice a Paolino, tra i denti. Si volta, si dirige verso l’uscita con un’andatura che volendo parere impettita riesce sbilenca, canterellando: – La donna è mobile… Squilla un telefono. – Pronto! Pronto! – si ode la voce della signora Dirce. Paolino corre là. – Sì, sì, la ditta «Sbav». Come dice? Come dice? Do Brasil? Di’: telefonano dal Brasile. Sì, ma cosa cerca? Non capisco… Sa, signora Pensotti? Stanno parlando brasiliano, vuole sentire un po’ anche lei? Doveva essere un cliente dall’altra parte del mondo che s’era confuso nel calcolo dei fusi orari e telefonava a quell’ora. La mamma di Paolino strappa il ricevitore di mano alla signora Dirce: – Qui non c’è nessuno, non c’è nessuno, sa? – prende a gridare. – Che telefoni domattinaaa! Ci siamo solo noiii, siamo quelle della pulissia, sa? quelle della pulissia!

Testo di riferimento I. CALVINO, Romanzi e racconti, edizione diretta da C. Milanini, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, Mondadori («I Meridiani»), vol. II, 1992, pp. 1051-1062.

260

265

270

275


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 44

Italo Calvino

III.

Analisi del testo

1.

Riassunto dell’intreccio 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

Fine di una giornata di lavoro in ufficio (1-14). Arrivo delle donne della pulizia (14-19). Paolino chiude le persiane (20-41). Paolino vuota i cestini della carta (42-52). La signora Dirce e la signora Pensotti al lavoro (53-77). Paolino cerca segni di vita umana in ufficio (78-90). Paolino ricorda un colloquio con un impiegato (91-110). Paolino e i due impiegati che fanno gli straordinari (111-140). Paolino regge la scala alle due donne e pensa agli impiegati che fanno gli straordinari (141-161). 10. Paolino ancora con i due impiegati (162-178). 11. Paolino con il ragioniere (179-269). 12. Le due donne e la telefonata dal Brasile (270-279).

2.

L’organizzazione del contenuto

L’organizzazione del contenuto risponde a un calcolo sapiente. A parte 1 e 2 (che sono una introduzione generale da cui restano esclusi i protagonisti della vicenda), e a parte 3 (che è una introduzione specifica alla vicenda), la narrazione si snoda in tre momenti analoghi, in ciascuno dei quali c’è la presenza di Paolino prima e delle donne poi: a. Paolino vuota i cestini (4). Le donne attorno alle scrivanie (5). b. Paolino vuota i cestini (7-8). Le donne puliscono i vetri (9). c. Paolino vuota i portacenere (10-11). Le donne ricevono la telefonata (12).


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

III.

13.4.2012

La notte dei numeri - Analisi del testo

13:45

Pagina 45

45

Da questa rigida alternanza delle fasi del lavoro resta escluso il punto 6, cioè il momento in cui Paolino non esercita più il suo lavoro ma riflette e capisce che gli esseri umani (impiegati) e le macchine (calcolatrici, macchine da scrivere) sono realtà diverse fra loro: pregevoli i primi, spregevoli le seconde.

3. 3.1. 3.1.1.

Il luogo della vicenda Gli uffici Spazio

Nell’introduzione generale (riassunto, 1) lo spazio dell’ufficio a lavoro ultimato è visto come un seguito di sale vuote (11) ed è definito uno scenario geometrico (15). Si tratta di due elementi fondamentali che individuano il luogo della vicenda (ad essi si accompagna il contrasto fra luce e buio, di cui si dirà in seguito). Il vuoto e i confini geometrici ritornano continuamente nel racconto: quadro d’una finestra (20), angolo d’una finestra (23), rettangolo luminoso (23-24), stanze deserte (30), piano lucido delle scrivanie (32), scatola di luce (38), spigoli ad angolo retto (50), uffici deserti (78), orizzonte nudo e squadrato (79), terra deserta e liscia di linoleum, tra lucide montagne tagliate a picco e sotto un cielo piatto (80-81), deserto geometrico (88), deserti e vuoti come ora di notte (107), i suoi movimenti in mezzo ai tavoli sono come in un labirinto, tutti ad angoli retti (120-121), scala a triangolo (142), gira da un box all’altro, ma è come un labirinto di anditi tutti uguali (180-181). Sempre lo spazio e la geometrizzazione sono visti come una presenza opprimente e sono indicative a tal proposito le immagini del labirinto e del deserto. Mancano cenni allo spazio geometrico o al vuoto nei punti 5, 9, 12, cioè in quelli dove sono protagoniste le donne (il cui lavoro prescinde dalla consapevolezza – che esse non hanno – di trovarsi in uno spazio), salvo nel punto centrale 9, diverso da 5 e 12. Lì il cenno alla scala a triangolo (142) è fatto nella prospettiva di Paolino (per le donne la scala è solo uno strumento di lavoro); ma il fatto più rilevante si ha quando il ragazzo, reggendo la scala di cui ha percepito la forma a linee spezzate, si estrania dal lavoro delle donne e guarda un grafico alla parete traducendone le linee in suono, fischiando: Su, giù, su, su, un po’giù, di nuovo su. Cosa rappresentano? Forse li si può leggere fischiando: una nota che sale, poi una nota bassa, poi una alta più lunga. Prova a fischiare il disegno d’un grafico: – Fi – fii – fii … – poi d’un altro, d’un altro ancora. Ne viene fuori un bel motivo (157-160). L’invenzione di Calvino è notevole perché la geometrizzazione dello spazio, che è un non-valore, si trasmette a quella del grafico: segno di un rapporto stretto tra architettura dell’ufficio e finanze della ditta, come più oltre il racconto stesso chiarirà. Notevole poi, perché il fischio trasforma in arte la scienza ed è il solo mezzo che l’autore concede al protagonista per intervenire in una situazione e modificarla, come gli succede nei confronti dei due impiegati del lavoro straordinario, che, quando egli si mette a fischiare […] quel motivo inventato poco prima (166-167), sentendosi osservati, Si ricompongono (167) e riprendono il lavoro cercando di nascondere che si amano. Il fischio di Paolino, dunque, in uno spazio ostile come quello dell’ufficio è inutile (nel caso del grafico) o causa effetti negativi (nel caso degli impiegati). Davvero nella compostezza dell’ufficio (72) Paolino con dolore comprende che quella presenza fuori di posto lì in mezzo è proprio la sua (115-116). Aggredito dallo spazio circostante, col sentore che gli nasconda frammenti di umanità (tutto il punto 6 ne è la ricerca


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 46

Italo Calvino e il ritrovamento), Paolino si vedrà concesso il privilegio (proprio a lui perché è un ragazzo) di conoscere un segreto che non sarà concesso ad altri sapere; la rivelazione (riassunto, 11) avverrà in uno spazio diametralmente opposto a quello insidioso degli uffici, nel quale perciò si cercheranno invano cenni di geometrizzazione e di vuoto angoscianti. 3.1.2.

Luce

Nell’introduzione generale (riassunto, 1) la prima parola del testo, buio (1), determina il senso di tutto il brano: l’opposizione di luce e ombra. Il buio esterno della notte si oppone alla luce dei lampioni sulla strada e alle lampade che si accendono negli uffici, all’interno dei quali larghi rettangoli di luce senza schermi svelano i misteri degli uffici delle mille ditte della città (5-6), mentre le sale vuote sono immerse nel biancore di calce che dalle lampade a tubo riverbera sulle pareti (11-12). La luce, dunque, svela misteri e delimita spazi. La presenza o assenza di luce si trova altrove nel testo: rettangolo luminoso (23-24), su tutte le finestre cala il buio (24), vie già buie (2930), stanze deserte e piene di luce (30), lampade […] rimaste accese (30-31), spegnerle e attenuare quel chiarore (33), Sparisce il buio della notte là fuori, l’alone dei lampioni, l’attutito chiarore delle finestre lontane (37-38), scatola di luce (38). I casi sono numerosi ma si limitano ai punti 1-3 del riassunto. Ricompaiono con insistenza, ma in maniera diversa, relativamente al sotterraneo, come si vedrà in seguito. 3.2. 3.2.1.

Il sotterraneo Spazio

Paolino accede al sotterraneo in via eccezionale, come non manca di dirgli il ragioniere: – A te solo faccio vedere queste cose: gli altri non capirebbero. E qualcuno bisogna pur che lo veda: io sono vecchio (238-239); io solo lo so, e sei la prima persona cui lo dico: tientelo per te e non lo dimenticare! E poi, se anche lo andrai a dire in giro, sei un ragazzo e nessuno ti darà retta… (248-250); – Noi due non ci siamo mai visti né conosciuti, – dice a Paolino, tra i denti (266-267). Il ragioniere parla a voce bassa (265) e Paolino con un filo di voce (240), segno del momento particolare. Si tratta di una vera e propria iniziazione ai segreti della ditta, come fa ben capire il momento del passaggio dall’ufficio al piano inferiore: Percorrono tutto il corridoio; arrivati in fondo il ragioniere solleva una tenda (221-222). La tenda è una parete molle e mobile, proprio il contrario delle pareti e delle finestre degli uffici; sollevarla significa quasi aprire un sipario, ma lo spettacolo che Paolino si appresta a vedere non è finzione teatrale bensì realtà. Paolino, al punto 3, comincia il suo lavoro in ufficio con l’operazione della chiusura delle persiane: è cioè a lui che spetta il compito di isolare lo spazio esterno da quello interno, in modo da lavorare entro una realtà-scatola, illuminata di luce artificiale. Ora dentro quella scatola si apre un nuovo spazio, nelle viscere della terra, come un ventre materno; lì infatti è depositato l’errore nato molti anni prima e ormai consegnato alla storia. Dietro la tenda c’è una scala a chiocciola (222), fondamentale per indicare il mutamento in corso: dal momento che delimita uno spazio curvilineo, in totale antitesi con la geometrizzazione ad angoli retti e a spigoli del piano superiore; ne è subito ribadita l’esistenza con la ripetizione scaletta a chiocciola (224).


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

III.

13.4.2012

13:45

La notte dei numeri - Analisi del testo

Pagina 47

47

Aperta una porticina chiusa con un catenaccio (225), che ricorda, anche nel diminutivo, esperienze analoghe in racconti fiabeschi, si apre una celletta (228) che colpisce non tanto per lo spazio quanto per il cumulo degli scartafacci, dei registri, carte polverose (229) che sanno odore di muffa (230). Il libro mastro che testimonia l’errore segreto è in relazione con quello spazio mutato, dal momento che la bella calligrafia oblunga, con piccoli svolazzi (236-237) riflette le forme curvilinee della scala e la mobilità della tenda. Perfino l’aggettivo oblunga è correlato con l’oblungo cranio calvo (184) del ragioniere, che anticipa dunque l’esperienza iniziatica. E sempre con valore di anticipazione è il foglio che si srotola fino a terra (206) e il fumo della sigaretta (207) che prima sale in un filo diritto (208) ma poi devia (208) e s’annuvola sotto il paralume (209) disgregando la sua forma rettilinea. Nel sotterraneo c’è anche un vecchio pallottoliere dalle stecche sgangherate (243) che conferma un mondo curvilineo preesistente a quello rettilineo, e un calcolo manuale precedente a quello meccanico. Svelato il segreto, i due compiono il tragitto a rovescio, attentamente descritto: Avevano rinchiuso lo stanzino, risalivano per la scaletta a chiocciola, ripercorrevano il corridoio (254255). Lo spazio ritorna inaccessibile, ma il segreto è svelato, come lascia capire il mancato cenno alla chiusura della tenda durante il percorso di ritorno. 3.2.2.

Luce

Anche il mondo del sotterraneo riceve significato dall’opposizione di buio e luce. Al momento di scendere la scala a chiocciola è buio (222) ma il ragioniere accende una fioca lampadina (223). L’aggettivo attenua il fatto che la luce sia elettrica e prepara la luce completamente diversa che illumina il segreto nello stanzino: Dentro non ci dev’essere impianto elettrico, perché il ragioniere accende un fiammifero e a colpo sicuro trova lì una candela e l’accende (225-227). È ancora la candela che illuminerà la fotografia del ragionier De Canis: sposta la candela, illuminando […] la fotografia d’un signore coi baffi e il pizzo (242-244).

4.

Paolino e le donne della pulizia: il disaccordo

Le donne interrompono il lavoro di Paolino (riassunto, 9) e lo richiamano a reggere la scala; sono invece attive indipendentemente da Paolino quando egli (riassunto, 5 e 12) si allontana infastidito dalla loro presenza e ascolta la telefonata senza intervenire. Inoltre nelle parti laterali del trittico (riassunto, 5 e 12) le donne, stando vicine alle scrivanie, danno giudizi negativi sui superiori e rispondono al telefono: tanto che per la loro petulanza Paolino le definisce una stonatura, un’offesa alla compostezza dell’ufficio (71-72). La costruzione tripartita della vicenda, in cui Paolino e le donne si alternano come protagonisti, mostra dunque una incompatibilità di fondo tra lui e loro, sia quando egli le ignora come quando deve aiutarle. Esse parlano e giudicano senza capire nulla della ditta. Dirce sa la denominazione di tutti gli uffici (56) ma è sterile nozionismo; conosce tutti i segreti (61), ma non quello determinante, senza che ciò serva a qualcosa; afferma che vanno male le esportazioni (63) perché c’è confusione (63) sulle scrivanie, suggerendo un falso rapporto di causa-effetto; pretende di conoscere quanto fa trecentomila dollari (70) in lire ma non sappiamo se sia in grado di fare cor-


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 48

Italo Calvino rettamente il cambio; risponde al telefono ma deve ammettere: Non capisco (273) perché stanno parlando brasiliano (273-274). A loro si oppone Paolino, che della signora Dirce sostiene che non capiva niente (106) e che col suo discreto silenzio o col fischiettare imbarazzato non fa altro che capire e conoscere cose a lui prima ignote ed è messo al corrente dei segreti della ditta.

5. 5.1.

Paolino e la conoscenza della realtà Conosce gli impiegati

Paolino, abbassate le serrande, vive in uno spazio e in una luce ostili e cerca di sfuggire il contatto con le donne delle pulizie, il comportamento delle quali sente come un’offesa alla compostezza dell’ufficio (71-72). È proprio in quella compostezza che egli si aggira tentando di capire, anche se con paura, com’è fatta la vita: Allora gli prende sgomento: e per rincuorarsi va a rintracciare intorno i segni della vita umana, sempre varia e disarmonica (82-83). Il passo è fondamentale: l’ufficio è senza vita ma ne conserva tracce documentabili, anche se difficilmente percepibili, attraverso un’indagine tra poliziesca e archeologica. L’indagine costituisce il punto 6 del riassunto. I reperti sono: una fotografia di Marlon Brando (84), un vasetto di bulbi di narciso (84-85), un giornale illustrato (85), un foglio di block-notes pieno di pupazzi a matita (85-86), uno sgabello che odora di violetta (86), dei bicchierini di stagnola di cioccolatini col liquore (87). La serie rappresenta diverse percezioni sensoriali: vista (foto), olfatto (narcisi), vista (giornale, disegno), olfatto (violetta, liquore). Tutti gli oggetti toccano la componente affettiva della persona umana, probabilmente sempre una donna: e sembra si passi dal desiderio irraggiungibile di Marlon Brando al desiderio appagato del cioccolatino, sostitutivo di quell’inappagabile voglia. L’osservazione di quella realtà minuta elimina la paura iniziale, ma a caro prezzo: basta attaccarsi a questi particolari e lo sgomento di quel deserto geometrico scompare, ma Paolino se ne sente quasi umiliato, come per una sua viltà, perché è proprio quel che dà più sgomento che lui vuole e deve fare suo (87-90). Resta da capire perché la vita umana sia definita disarmonica (83), dal momento che la serie dei reperti è strutturata armonicamente e che, in opposizione al deserto geometrico (88), la vita umana dovrebbe avere i connotati dell’armonia. Paolino, dopo aver conosciuto per via indiretta la vita umana, si imbatte in essa anche direttamente quando incontra i due impiegati. Si tratta di un incontro non normale, dal momento che i due fanno gli straordinari, e affrontano una prova fuori del comune (153). Quando i due lavorano accanitamente restano estranei; quando invece il lavoro è interrotto per un errore di battitura, i due si corteggiano. Il contrasto è ben sottolineato da una serie di metafore di tema guerresco per indicare la negatività del lavoro; e dalla presenza del senso del tatto e della vista per indicare il nascere dell’affetto e l’intesa raggiunta. Il materiale è distribuito in due serie corrispondenti: a. metafore: gragnuola (122), martelletti (122); tatto + vista: posa una mano sulla spalliera della sedia di lei, e lei arcua la schiena fino a sfiorare la mano di lui, e i loro sguardi […] si soffermano un momento l’uno nell’altro (126-129);


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

III.

13.4.2012

13:45

Pagina 49

La notte dei numeri - Analisi del testo

49

b. metafore: tambureggiare (129), mitragliare (130); tatto + vista: le loro mani si sfiorano, i loro sguardi […] si volgono fino a incontrarsi (135-136). La forte geometrizzazione del contenuto induce a credere che si tratti di una vera lotta tra mondo dell’ufficio e mondo esterno; essa si placa momentaneamente quando i due tornano a lavorare furiosamente (139), ma riprende quando Paolino torna da loro: La signorina è alzata, protende verso il giovanotto imbrillantinato una mano curva ad artiglio con le aguzze unghie laccate; lui avanza un braccio come volesse prenderla alla gola (164-166). Come si vede, l’impressione di lotta trova qui piena conferma e indica che in ufficio un amore nascente non può fiorire ma anzi si trasforma in odio; l’ambiente ha la meglio sui suoi occupanti. 5.2.

Conosce il segreto della ditta

Si è già detto, al punto 3, dell’importanza dei luoghi nella vicenda. Nello spazio curvilineo del sotterraneo Paolino viene a sapere che il ragionier De Canis commise molti anni prima un errore di calcolo che nessuno corresse. Le quattrocentodieci lire (251) dell’errore iniziale si sono nel tempo trasformate in Miliardi (252) e continuano a crescere, al punto che, per lo sviluppo internazionale della ditta, tutto il mondo si porta dietro quest’errore (259). La valutazione dei fatti che Calvino dà è economicamente falsa, ma ciò non importa. Quello che conta è l’idea che nel mondo tutto sia erroneo e che tale conseguenza derivi da una causa intenzionale: De Canis l’aveva fatto apposta (265). La perfezione delle macchine è dunque illusoria visto che non fa altro che perpetuare un errore; l’errore umano voluto costituisce invece un intervento liberatorio in una realtà numerica asfissiante. Così Calvino alla fine degli anni ’50 esprime la sua posizione in merito alla diatriba di quegli anni tra le «due culture», quella del mondo scientifico e quella del mondo umanistico.

6.

Metafora e paragone: due segnali di trasfigurazione del reale

Gli impiegati e gli oggetti dell’ufficio sono connotati anche attraverso l’uso di metafore e paragoni: le macchine smesso lo scalpitare […] dormono in piedi come cavalli (13-14), le lampade hanno lunghi colli pieghevoli verso il piano lucido delle scrivanie (31-32), le macchine lavorano con un continuo ronzio e scattar su e giù di spessi fogli traforati, come d’elitre d’insetti (92-93), il ragioniere alza i gomiti col movimento d’un uccello che sbatte le ali: pare proprio un grosso uccello appollaiato lì, con quella visiera che sembra un becco (184-186). Anche Paolino è coinvolto in questo procedimento stilistico-espressivo: con una cresta ispida di capelli neri, appare e trascorre via […] come un pesce-luna in un acquario (21-22); ha una zazzera irsuta come un istrice (113); vorrebbe buttarsi a pesce sul piano del tavolo (175); ma si limita a farci strisciare sopra un dito e a vedere l’impronta umida come la scia d’una nave (176-177); gli piace di pensarsi come una formica, un essere quasi invisibile che percorre una terra deserta e liscia di linoleum, tra lucide montagne tagliate a picco e sotto un cielo piatto e bianco (79-81).


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 50

Italo Calvino Il mondo dei figuranti è interamente e ossessivamente zoologico e sottolinea il grottesco della realtà con forza corrosiva; ma forse rappresenta anche il tentativo di dare vita biologica a chi ne è o sembra esserne privo. Conta più di tutti Paolino, inopportuno pesce-luna se visto dall’autore o da estranei, istrice se visto dagli impiegati, pesce e formica se visto da sé stesso. L’immagine della formica comporta il desiderio di un viaggio impossibile sotto i tavoli degli impiegati e lungo il pavimento: cioè la quasi scomparsa, per via di metamorfosi, allo scopo di poter conoscere e quindi poter esistere. Anche il viaggio a pesce sul piano dei tavoli è impossibile, e viene sostituito col segno umido lasciato dal dito-nave sul tavolo-mare, a sua volta annullato strofinandovi il maglione. La metafora della nave è l’unica non animale e identifica il tema del viaggio. Purtroppo il viaggio di Paolino-pesce è circoscritto all’ufficio-acquario e la straordinaria rivelazione che gli è concessa (sapere che il mondo è un immenso errore) oscilla tra il credibile e l’incredibile: come quando in sonno si sogna di svegliarci e non si fa che entrare in un altro sogno, più profondo ancora (39-41).


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

IV.

L’avventura di due sposi

IV.

L’avventura di due sposi

Pagina 51

51

Italo Calvino (1923-1985)

L’operaio Arturo Massolari faceva il turno della notte, quello che finisce alle sei. Per rincasare aveva un lungo tragitto, che compiva in bicicletta nella bella stagione, in tram nei mesi piovosi e invernali. Arrivava a casa tra le sei e tre quarti e le sette, cioè alle volte un po’ prima alle volte un po’ dopo che suonasse la sveglia della moglie, Elide. Spesso i due rumori: il suono della sveglia e il passo di lui che entrava si sovrapponevano nella mente di Elide, raggiungendola in fondo al sonno, il sonno compatto della mattina presto che lei cercava di spremere ancora per qualche secondo col viso affondato nel guanciale. Poi si tirava su dal letto di strappo e già infilava le braccia alla cieca nella vestaglia, coi capelli sugli occhi. Gli appariva così, in cucina, dove Arturo stava tirando fuori i recipienti vuoti dalla borsa che si portava con sé sul lavoro: il portavivande, il termos, e li posava sull’acquaio.Aveva già acceso il fornello e aveva messo su il caffè. Appena lui la guardava, a Elide veniva di passarsi una mano sui capelli, da spalancare a forza gli occhi, come se ogni volta si vergognasse un po’ di questa prima immagine che il marito aveva di lei entrando in casa, sempre così in disordine, con la faccia mezz’addormentata. Quando due hanno dormito insieme è un’altra cosa, ci si ritrova al mattino a riaffiorare entrambi dallo stesso sonno, si è pari. Alle volte invece era lui che entrava in camera a destarla, con la tazzina del caffè, un minuto prima che la sveglia suonasse; allora tutto era più naturale, la smorfia per uscire dal sonno prendeva una specie di dolcezza pigra, le braccia che s’alzavano per stirarsi, nude, finivano per cingere il collo di lui. S’abbracciavano. Arturo aveva indosso il giaccone impermeabile; a sentirselo vicino lei capiva il tempo che faceva: se pioveva o faceva nebbia o c’era neve, a secondo di com’era umido e freddo. Ma gli diceva lo stesso: – Che tempo fa? – e lui attaccava il suo solito brontolamento mezzo ironico, passando in rassegna gli inconvenienti che gli erano occorsi, cominciando dalla fine: il percorso in bici, il tempo trovato uscendo di fabbrica, diverso da quello di quando c’era entrato la sera prima, e le grane sul lavoro, le voci che correvano nel reparto, e così via. A quell’ora, la casa era sempre poco scaldata, ma Elide s’era tutta spogliata, un po’ rabbrividendo, e si lavava, nello stanzino da bagno. Dietro veniva lui, più

5

10

15

20

25


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 52

Italo Calvino con calma, si spogliava e si lavava anche lui, lentamente, si toglieva di dosso la polvere e l’unto dell’officina. Così stando tutti e due intorno allo stesso lavabo, mezzo nudi, un po’ intirizziti, ogni tanto dandosi delle spinte, togliendosi di mano il sapone, il dentifricio, e continuando a dire le cose che avevano da dirsi, veniva il momento della confidenza, e alle volte, magari aiutandosi a vicenda a strofinarsi la schiena, s’insinuava una carezza, e si trovavano abbracciati. Ma tutt’a un tratto Elide: – Dio! Che ora è già! – e correva a infilarsi il reggicalze, la gonna, tutto in fretta, in piedi, e con la spazzola già andava su e giù per i capelli, e sporgeva il viso allo specchio del comò, con le mollette strette tra le labbra. Arturo le veniva dietro, aveva acceso una sigaretta, e la guardava stando in piedi, fumando, e ogni volta pareva un po’ impacciato, di dover stare lì senza poter fare nulla. Elide era pronta, infilava il cappotto nel corridoio, si davano un bacio, apriva la porta e già la si sentiva correre giù per le scale. Arturo restava solo. Seguiva il rumore dei tacchi di Elide giù per i gradini, e quando non la sentiva più continuava a seguirla col pensiero, quel trotterellare veloce per il cortile, il portone, il marciapiede, fino alla fermata del tram. Il tram lo sentiva bene, invece: stridere, fermarsi, e lo sbattere della pedana a ogni persona che saliva. «Ecco, l’ha preso», pensava, e vedeva sua moglie aggrappata in mezzo alla folla d’operai e operaie sull’«undici», che la portava in fabbrica come tutti i giorni. Spegneva la cicca, chiudeva gli sportelli alla finestra, faceva buio, entrava in letto. Il letto era come l’aveva lasciato Elide alzandosi, ma dalla parte sua, di Arturo, era quasi intatto, come fosse stato rifatto allora. Lui si coricava dalla propria parte, per bene, ma dopo allungava una gamba in là, dov’era rimasto il calore di sua moglie, poi ci allungava anche l’altra gamba, e così a poco a poco si spostava tutto dalla parte di Elide, in quella nicchia di tepore che conservava ancora la forma del corpo di lei, e affondava il viso nel suo guanciale, nel suo profumo, e s’addormentava. Quando Elide tornava, alla sera, Arturo già da un po’ girava per le stanze: aveva acceso la stufa, messo qualcosa a cuocere. Certi lavori li faceva lui, in quelle ore prima di cena, come rifare il letto, spazzare un po’, anche mettere a bagno la roba da lavare. Elide poi trovava tutto malfatto, ma lui a dir la verità non ci metteva nessun impegno in più: quello che lui faceva era solo una specie di rituale per aspettare lei, quasi un venirle incontro pur restando tra le pareti di casa, mentre fuori s’accendevano le luci e lei passava per le botteghe in mezzo a quell’animazione fuori tempo dei quartieri dove ci sono tante donne che fanno la spesa alla sera. Alla fine sentiva il passo per la scala, tutto diverso da quello della mattina, adesso appesantito, perché Elide saliva stanca dalla giornata di lavoro e carica della spesa. Arturo usciva sul pianerottolo, le prendeva di mano la sporta, entravano parlando. Lei si buttava su una sedia in cucina, senza togliersi il cappotto, intanto che lui levava la roba dalla sporta. Poi: – Su, diamoci un addrizzo, – lei diceva, e s’alzava, si toglieva il cappotto, si metteva in veste da casa. Cominciavano a preparare da mangiare: cena per tutt’e due, poi la merenda che si portava lui in fabbrica per l’intervallo dell’una di notte, la colazione che doveva portarsi in fabbrica lei l’indomani, e quella da lasciare pronta per quando lui l’indomani si sarebbe svegliato. Lei un po’ sfaccendava un po’ si sedeva sulla seggiola di paglia e diceva a lui cosa doveva fare. Lui invece era l’ora in cui era riposato, si dava attorno, anzi vo-

30

35

40

45

50

55

60

65

70


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

IV.

L’avventura di due sposi

13.4.2012

13:45

Pagina 53

53

leva far tutto lui, ma sempre un po’ distratto, con la testa già ad altro. In quei momenti lì, alle volte arrivavano sul punto di urtarsi, di dirsi qualche parola brutta, perché lei lo avrebbe voluto più attento a quello che faceva, che ci mettesse più impegno, oppure che fosse più attaccato a lei, le stesse più vicino, le desse più consolazione. Invece lui, dopo il primo entusiasmo perché lei era tornata, stava già con la testa fuori di casa, fissato nel pensiero di far presto perché doveva andare. Apparecchiata tavola, messa tutta la roba pronta a portata di mano per non doversi più alzare, allora c’era il momento dello struggimento che li pigliava tutti e due d’avere così poco tempo per stare insieme, e quasi non riuscivano a portarsi il cucchiaio alla bocca, dalla voglia che avevano di star lì a tenersi per mano. Ma non era ancora passato tutto il caffè e già lui era dietro la bicicletta a vedere se ogni cosa era in ordine. S’abbracciavano. Arturo sembrava che solo allora capisse com’era morbida e tiepida la sua sposa. Ma si caricava sulla spalla la canna della bici e scendeva attento le scale. Elide lavava i piatti, riguardava la casa da cima a fondo, le cose che aveva fatto il marito, scuotendo il capo. Ora lui correva le strade buie, tra i radi fanali, forse era già dopo il gasometro. Elide andava a letto, spegneva la luce. Dalla propria parte, coricata, strisciava un piede verso il posto di suo marito, per cercare il calore di lui, ma ogni volta s’accorgeva che dove dormiva lei era più caldo, segno che anche Arturo aveva dormito lì, e ne provava una grande tenerezza.

Testo di riferimento I. CALVINO, Romanzi e racconti, edizione diretta da C. Milanini, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, Mondadori («I Meridiani»), vol. II, 1992, pp. 1161-1165.

75

80

85

90


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 54

Italo Calvino

IV.

Analisi del testo

1.

Riassunto dell’intreccio 1. 2. 2.1. 2.2. 2.3. 2.4. 2.5. 2.6. 3. 4. 4.l. 4.2. 5. 6. 7. 7.1. 7.2. 7.3. 7.4. 8. 9. 9.1. 9.2. 9.3.

Arturo torna dal lavoro (1-5). Arturo e Elide riuniti (6-35): Elide si alza dal letto (6-10), Arturo vuota la borsa e prepara la colazione (10-13), Elide si vergogna del proprio aspetto (13-17), Arturo sveglia Elide, le porta il caffè, l’abbraccia (18-21), Arturo racconta le vicende della nottata (21-27), Arturo e Elide si lavano in intimità (28-35). Elide va al lavoro (36-42). Arturo resta in casa solo (43-55): Arturo segue col pensiero Elide (43-48), Arturo va a letto (48-55). Arturo aspetta Elide (56-63). Elide torna dal lavoro (64-66). Elide e Arturo riuniti (67-84): Elide si mette a proprio agio (67-69), Elide e Arturo preparano da mangiare (69-72), Elide e Arturo procedono con poca intesa (73-80), Elide e Arturo mangiano in intimità (81-84). Arturo va al lavoro (85-88). Elide resta in casa sola (89-94): Elide riordina la casa (89-90), Elide segue col pensiero Arturo (90-91), Elide va a letto (91-94).


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

IV.

L’avventura di due sposi - Analisi del testo

2.

Struttura del racconto

Pagina 55

55

Il riassunto può essere visualizzato come segue: 1 2 3 4 5 6 7 8 9

} }

A

B

Esso mette in evidenza una struttura bipartita (A-B) ripetitiva, in cui i punti 1-4 corrispondono rispettivamente ai punti 6-9. Resta indipendente da questa rigida impalcatura il punto 5 del riassunto, che è punto chiave, a causa della sua posizione centrale (quasi uno snodo, una giuntura), ma anche perché Calvino dopo A vuole uno stacco tipografico; poi specialmente perché contiene la voce rituale (60) che è parola chiave (non più usata in altro luogo del testo), la quale suggerisce che il racconto è la celebrazione di un rito laico: destinato non a rappacificare l’uomo con la società, bensì ad insinuare il dubbio che alle spalle della vita dei due protagonisti sta un lavoro (quello industriale) inteso come un pericolo e un non-valore. Bisogna precisare che i punti 2.4, 2.5, 2.6 del riassunto sono una variante (una vicenda precedentemente verificatasi, ma non sappiamo quando) dei punti 2.1, 2.2, 2.3; con la presenza di questa variante si fa ancora più sensibile il bisogno dell’autore di fondare la vicenda sulla monotonia.

3.

Una giornata tipo

La vicenda narrata si svolge dalle sei e tre quarti (3) circa del mattino (quando Arturo torna a casa dopo il lavoro notturno) ad un’ora imprecisata della sera (probabilmente verso le nove, quando le strade sono buie e Elide, dopo aver cenato, va subito a letto stanca del lavoro). La prima parte (1-55) narra del breve momento in cui i due sposi sono assieme, cioè meno di un’ora, dalle sette alle sette e trenta circa (quando Elide prende il tram). Il tempo in cui Arturo è solo in casa (dalle sette al rientro serale di Elide), che il protagonista passa buona parte dormendo, non è narrato. C’è dunque un vuoto di molte ore, riassunto con poche parole all’inizio della seconda parte: Quando Elide tornava, alla sera, Arturo già da un po’girava per le stanze: aveva acceso la stufa, messo qualcosa a cuocere. Certi lavori li faceva lui, in quelle ore prima di cena, come rifare il letto, spazzare un po’, anche mettere a bagno la roba da lavare (56-59). La seconda parte (56-94), separata dalla prima da un breve stacco tipografico, narra dell’altro breve momento in cui i due sposi sono assieme, cioè poco più di un’ora, dalle venti alle ventuno circa (quando Arturo riparte). Si tratta dunque di un tempo di dodici ore circa, durante il quale i due sposi restano assieme grossomodo due ore soltanto.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 56

Italo Calvino Calvino disegna con attenzione questa giornata tipo ed accenna appena alla possibilità che qualcosa cambi in quella vita regolare e monotona, mediante le sezioni 2.4, 2.5, 2.6 (variante dell’insieme delle 2.1, 2.2, 2.3). Ma il lettore si accorge che è un mutamento da poco, il quale anzi rafforza la certezza che tutto resti immutato. Calvino inventa un ingranaggio che imprigiona, una forza a cui non ci si può ribellare; e il lettore ne è talmente convinto da neppure riflettere che, ad esempio, il sabato e la domenica la vita dei due sposi sarà certamente diversa: più distesa e vivibile, forse quasi felice. Calvino dunque è vistosamente tendenzioso e sfrutta il concetto di ripetitività per trasmettere il suo messaggio polemico e politico: il lavoro in fabbrica è alienante e conduce ad una vita di famiglia dominata dalla solitudine.

4.

La ripetitività: tempo e azioni

In maniera poco appariscente Calvino dà una serie di indicazioni cronologiche che fanno capire come la giornata tipo si ripeta nel tempo: almeno per il corso di un anno, come dice la prima delle seguenti indicazioni: il tragitto casa-lavoro e compiuto da Arturo in bicicletta nella bella stagione, in tram nei mesi piovosi e invernali (2-3); Elide si vergogna ogni volta (14) di essere trasandata; Alle volte (18) è Arturo ad entrare per primo in camera; la casa era sempre poco scaldata (28); Arturo ogni volta (40) è impacciato nei confronti di Elide; Elide prende il tram come tutti i giorni (48); Elide e Arturo alle volte (76) stanno per litigare. Queste informazioni, sempre molto generiche, più fitte all’inizio, diradano man mano che il racconto procede e sono scarse nella seconda parte, quando ormai il lettore ne e informato a sufficienza. Il meccanismo d’orologio del racconto scandisce il tempo delle azioni dei protagonisti in modo che se ne colgano le somiglianze, a distanza però di ore. I fatti della prima parte non si ritrovano necessariamente nella seconda, ma l’impalcatura è la stessa per entrambe. Si corrispondono infatti le sezioni indicate nello schema; solo la parte 5 è irrelata: si tratta di alcune ore in cui Arturo, già svegliatosi, gironzola per casa in attesa di Elide e compie alcuni lavori domestici in una sorta di rituale (60). La parola indica non solo che si tratta di azioni ripetute nel tempo (soltanto cosi acquistano valore di rito) ma anche che il momento privilegiato del testo sta nell’attesa dell’incontro reciproco; nel desiderio forse più che nell’appagamento, dal momento che incontrarsi significa sentire il dispiacere di doversi lasciare. Solo la fine della prima parte (4.1, 4.2) somiglia completamente alla fine della seconda (9.2, 9.3). Si tratta dell’episodio del letto, che è il fulcro della vicenda narrata. Per Arturo si legge: Spegneva la cicca, chiudeva gli sportelli alla finestra, faceva buio, entrava in letto (48-49); per Elide: andava a letto, spegneva la luce (91-92). Entrambi compiono due medesime azioni, ma in ordine inverso, per sottolineare la meccanicità del comportamento. Una volta a letto le corrispondenze sono continue: si coricava (51) e coricata (92); allungava una gamba (52) e strisciava un piede (92); dov’era rimasto il calore di sua moglie (52-53) e per cercare il calore di lui (92); in quella nicchia di tepore che conservava ancora la forma del corpo di lei (54-55) e segno che anche Arturo aveva dormito lì (93-94).


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

IV.

L’avventura di due sposi - Analisi del testo

5.

Solitudine e lavoro

Pagina 57

57

La sproporzione tra i difficili incontri e le facili separazioni dei due protagonisti è netta; essa mette in evidenza uno stato di solitudine che pesa su entrambi i giovani coniugi e che ciascuno di essi percepisce quando si corica nel letto vuoto, dove sopravvive soltanto il calore lasciato dal partner che prima vi aveva dormito. È nella solitudine che ciascuno dei due sposi pensa con più intensità all’altro: Arturo restava solo. Seguiva il rumore dei tacchi di Elide giù per i gradini, e quando non la sentiva più continuava a seguirla col pensiero, quel trotterellare veloce per il cortile, il portone, il marciapiede, fino alla fermata del tram. Il tram lo sentiva bene, invece: stridere, fermarsi, e lo sbattere della pedana ogni persona che saliva. «Ecco, l’ha preso», pensava, e vedeva sua moglie aggrappata in mezzo alla folla d’operai e operaie sull’«undici», che la portava in fabbrica come tutti i giorni (42-48); da parte sua Elide pensa che lui correva le strade buie, tra i radi fanali, forse era già dopo il gasometro (90-91). Una volta riuniti, il loro rapporto sentimentale non è cosi intenso, perché sempre insidiato dai malintesi (7.3) e avvelenato dalla fretta: Si tirava su dal letto di strappo (9); correva a infilarsi il reggicalze,la gonna, tutto in fretta (36-37); la si sentiva correre giù per le scale (42); stava già con la testa fuori di casa, fissato nel pensiero di far presto perché doveva andare (79-80); non era ancora passato tutto il caffè e già lui era dietro la bicicletta a vedere se ogni cosa era in ordine (85-86); lui correva le strade buie (90). Nella vita sentimentale dei due sposi c’è dunque una contraddizione che non dà tregua; essa è causata da un lavoro che può dirsi alienante dal momento che entrambi non lavorano per vivere ma vivono per lavorare. Il lavoro dovrebbe dare loro un guadagno in danaro con cui organizzare la qualità della loro vita, ma quando Elide, la sera, ritorna stanca dalla giornata di lavoro e carica della spesa (65-66) sono gli acquisti che mettono in moto l’insopportabile ingranaggio esistenziale: Cominciavano a preparare da mangiare: cena per tutt’e due, poi la merenda che si portava lui in fabbrica per l’intervallo dell’una di notte, la colazione che doveva portarsi in fabbrica lei l’indomani, e quella da lasciare pronta per quando lui l’indomani si sarebbe svegliato (69-72). È un vero incubo. I due, sembra dire Calvino, spendono tutte le loro energie e i loro soldi per sopravvivere: la tensione e il desiderio frustrato regnano al posto della tranquillità e della soddisfazione. Nonostante ciò il lavoro non è descritto né narrato, come potremmo aspettarci, ma è solo sommariamente indicato da pochi cenni, come se l’autore volesse esorcizzarlo, rimuoverlo: stava tirando fuori i recipienti vuoti dalla borsa che si portava con sé sul lavoro (11); le grane sul lavoro, le voci che correvano nel reparto (27); si toglieva di dosso la polvere e l’unto dell’officina (30-31); Elide si reca in fabbrica (48); anche Arturo lavora in fabbrica (70). Come si vede i dati oggettivi sono pochi, così che il mondo del lavoro resta fantomatico e soggettivo; di esso si vedono solo gli effetti subiti dai due protagonisti. Siamo nel 1958. Nell’Italia del dopoguerra l’industrializzazione e la produzione aprono la strada al benessere. Calvino è tra i primi narratori ad accorgersi che dietro i facili entusiasmi della dolce vita si profilano grandi insidie; ma sa anche che sono ancora pochi a beneficiare di quelle mutate condizioni, e che i più poveri faticano per raggiungere una posizione sociale più elevata. Il racconto non è una denuncia violenta e il mondo operaio è visto più nell’ottica sentimentale-esistenziale che non politica. Quella dei due sposi è dunque più un’avventura che non una cronaca. Così dice il titolo, anche se in un mondo ripetitivo e oppressivo,


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 58

Italo Calvino dove tutto è programmato, nessuno spazio è concesso all’improvvisazione, all’avventura verso l’ignoto. Sono i sentimenti ad essere avventurosi, non i fatti.

6.

Interno ed esterno

Il racconto è giocato anche sulla contrapposizione tra interno (l’appartamento) ed esterno (la strada che conduce alla fabbrica). L’appartamento dove abitano i due sposi è presentato in modo così sfocato, dal punto di vista descrittivo, che non sappiamo se si componga di più di tre spazi abitativi (di certo: cucina, camera da letto, bagno), se sia situato al primo piano o più su (Elide scende giù per i gradini 43-44; sale per la scala 64; Arturo scendeva attento le scale 88), se appartenga ad una grande costruzione (c’è un cortile 45), in che zona sia situato (oltre il portone 45 c’è solo la fermata del tram 45), e, più di ogni altra cosa, non sappiamo in che città si svolga la vicenda. Tutto questo avviene per scelta deliberata dell’autore, così che molti lettori possano identificarvi la propria città e sentire il racconto come qualcosa che appartenga loro strettamente. Se da un lato la casa è poco qualificata e la fabbrica non lo è affatto, dall’altro si contrappone a questi spazi chiusi uno spazio aperto (la strada che li collega), osservato con più attenzione. Si tratta di un lungo tragitto (2), indicato più oltre con percorso (25) e poi specificato nelle sue strade buie, tra i radi fanali (90), dove si erge un gasometro (91): quando si parla di Arturo; si tratta invece di un percorso dove passa il tram (45) carico di operai e lungo il quale si trovano botteghe (62) animate da compratori: quando si parla di Elide. Come si vede, quando è di scena Arturo lo spazio è vuoto; quando è in gioco Elide lo spazio è movimentato. Il viaggio di Elide tra casa e lavoro è vivacissimo e ricco di persone e di cose. Elide viaggia su un tram affollato di cui si sente lo stridere (46) e lo sbattere della pedana (46); Arturo si sposta con la bicicletta, da solo e nel silenzio. Lo spazio aperto tra casa e fabbrica è dunque chiamato a qualificare i due personaggi in opposizione tra loro. Questa diversa qualifica si ripercuote sul comportamento analogo entro casa: Elide quando va a letto spegneva la luce (91); Arturo invece per fare buio chiudeva gli sportelli alla finestra (49). È questa l’indicazione chiara che ad Arturo il mondo fuori casa è ostile al punto da doversene difendere.

7.

Il primato di Elide

Elide fa la spesa, è la maggior responsabile nella preparazione di pranzo e cena, deve rifare i lavori domestici mal fatti da Arturo, va e viene dal lavoro assieme ad altra gente. Elide è anche la sola che prenda la parola, col discorso diretto; interviene tre volte: Che tempo fa? (24), Dio! Che ora è già! (36), Su, diamoci un addrizzo (68), dimostrando una sempre maggior autonomia e padronanza della situazione, con una domanda, un’affermazione e un’esortazione. La conduzione della famiglia è dunque più sulle spalle di lei che su quelle di lui. Inoltre è Arturo che, a letto, si sposta verso il posto di lei; Elide vorrebbe fare altrettanto ma si accorge che si troverebbe al freddo e perciò resta al suo posto, in un doppio calore. Tutto questo non basta però per parlare


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

IV.

13.4.2012

13:45

L’avventura di due sposi - Analisi del testo

Pagina 59

59

di un racconto femminista; per questa definizione sarebbero necessari argomenti ben diversi; si tratta solo di una caratteristica sociale di molte famiglie del ceto operaio (e non solo) come quella qui rappresentata, così che il racconto si inserisce, con un certo ritardo rispetto agli iniziatori, nell’ambito del neorealismo.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 60


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

V.

Pesci grossi, pesci piccoli

V.

Pesci grossi, pesci piccoli

Pagina 61

61

Italo Calvino (1923-1985)

Il padre di Zeffirino non si metteva mai in costume da bagno. Stava in calzoni rimboccati e maglietta, con in capo il berretto di tela bianca, e non si staccava mai dalla scogliera. La sua passione erano le patelle, i piatti molluschi che stanno appiccicati allo scoglio, e fanno col loro durissimo guscio quasi tutt’uno con la pietra. Per staccarle il padre di Zeffirino adoperava un coltello, e ogni domenica col suo sguardo occhialuto passava in rassegna una per una le rocce della punta. Continuava finché la sua piccola cesta non era piena di patelle; qualcuna la mangiava appena colta, succhiandone la polpa umida ed agra come da un cucchiaio; le altre le metteva in una cesta. Ogni tanto alzava gli occhi, li girava un po’ spersi sul mare liscio e chiamava: – Zeffirino! Dove sei? Zeffirino passava in acqua pomeriggi interi. Venivano alla punta tutti e due, e il padre lo lasciava lì e subito si metteva dietro ai suoi molluschi. Così ferme e testarde, le patelle non potevano attirare Zeffirino; furono dapprima i granchi, a interessarlo, poi i polpi, le meduse, e poi via via tutte le qualità di pesci. D’estate le sue cacce erano sempre più difficili e ingegnose: e adesso non c’era ragazzetto della sua età che col fucile subacqueo andasse così bene come lui. In acqua chi va meglio sono i tipi un po’ tracagnotti, tutti fiato e muscolo; e Zeffirino veniva su così. Visto a terra, per mano a suo padre, era uno di quei ragazzi rapati e a bocca aperta da far andare avanti a scappellotti; invece in acqua dava punti a tutti; sott’acqua meglio ancora. Quel giorno Zeffirino era riuscito a mettere insieme tutto l’armamento per la caccia subacquea. La maschera l’aveva già dall’anno scorso, regalo di sua nonna; una cugina che aveva i piedi piccoli gli prestò le pinne; il fucile lo prese a casa di suo zio senza dir niente e al padre disse che gliel’avevano prestato. D’altronde era un bambino attento, che sapeva usare e tener di conto tutto, e ci si poteva fidare a dargli roba in prestito. Il mare era una bellezza, così limpido. Zeffirino disse: – Sì, papà, – a tutte le raccomandazioni e andò in acqua. Con quel muso di vetro e l’antenna per respirare, le gambe che finivano da pesce, e in mano quell’arnese un po’ lancia un po’ fucile e un po’ forchetta, non somigliava più a un essere umano. Invece, appena in mare, benché

5

10

15

20

25


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 62

Italo Calvino filasse via mezzo sommerso, subito si riconosceva che era lui: dal colpo che dava con le pinne, dal modo in cui il fucile gli sporgeva sottobraccio, dall’impegno che metteva ad andare avanti con la testa giù a fior d’acqua. Il fondo dapprincipio era di sassi, poi di rocce, alcune nude e corrose, altre barbute di fitte alghe brune. Da ogni piega di scoglio, o tra le tremule barbe librate alla corrente, poteva a un tratto apparire un grosso pesce; dietro il vetro della maschera Zeffirino muoveva attento intorno gli occhi ansiosi. Un fondo marino è bello la prima volta, quando lo si scopre: ma il più bello, come in ogni cosa, viene dopo, a impararlo tutto, bracciata per bracciata. Pare di berli, i paesaggi acquatici: si va si va e non si finirebbe mai. Il vetro della maschera è un enorme unico occhio per ingoiare le ombre e i colori. Ora lo scuro finiva e s’era fuori da quel mar di scoglio; sulla sabbia del fondo si distinguevano le sottili crespe disegnate dal muoversi del mare. I raggi del sole arrivavano fin giù con luminelli occhieggianti e luccichii di branchi di rincorri-gli-ami: minutissimi pescetti che filano dritti dritti e a un tratto svoltano ad angolo retto tutti insieme. Si levò una piccola nuvola di sabbia ed era il colpo di coda di un sarago sul fondo. Non s’era accorto d’avere puntata contro quella fiocina. Zeffirino già nuotava immerso; e il sarago, dopo poche mosse distratte dei fianchi striati, di soprassalto filò via a mezz’acqua. Tra scogli irti di ricci il pesce e il pescatore nuotarono fino a una cala di roccia porosa e quasi nuda. «Qui non mi scappa», pensò Zeffirino; e in quel momento il sarago sparì. Da buchi e incavi si levava un filo di bollicine d’aria, poi subito smetteva e riprendeva altrove; gli anemoni marini brillavano in attesa. Il sarago fece capolino da una tana, sparì in un’altra e sbucò subito da un pertugio distantissimo. Bordeggiò uno sperone di roccia, puntò in basso e Zeffirino vide verso il fondo una zona d’un verde luminoso. Il pesce si perdette in quella luce, e Zeffirino gli andò dietro. Traversò un basso arco al piede della roccia e riebbe sopra di sé l’acqua alta e il cielo. Ombre di pietra chiara circondavano il fondo tutt’intorno e verso il largo s’abbassavano in una scogliera mezzo sommersa. Con un colpo di reni ed una spinta delle pinne Zeffirino riemerse a respirare. Il tubo dell’aria affiorò, soffiò via qualche goccia infiltrata nella maschera, ma la testa del ragazzo restò in acqua. Aveva ritrovato il sarago; anzi: due! Già lui mirava quando ne vide tutta una squadra navigare tranquilla alla sinistra, ed a destra brillare un altro branco. Era un posto ricchissimo di pesca, quasi uno specchio chiuso, e dovunque Zeffirino guardasse incontrava un guizzare di pinne sottili, luccichii di squame, tanto che dallo stupore e dalla gioia non gli venne di far partire neanche un colpo. Bisognava non aver fretta e studiare le botte migliori senza seminare intorno lo spavento. Zeffirino sempre a testa sotto si diresse verso lo scoglio più vicino; e nell’acqua, lungo la parete, vide una bianca mano penzolante. Il mare era immobile; sulla superficie tesa e tersa s’allargavano circoli concentrici come a un gocciolio di pioggia. Il ragazzo alzò il capo e guardò. Bocconi sull’orlo dello scoglio, una donna grassa in costume da bagno stava prendendo il sole. E piangeva. Le lagrime scendevano una dopo l’altra per le guance e cadevano nel mare. Zeffirino alzò la maschera sulla fronte e disse: – Scusi. La donna grassa disse: – Figurati, ragazzo, – e continuava a piangere. – Pesca pure. – È un posto pieno di pesci, – spiegò lui. – Ha visto quanti?

30

35

40

45

50

55

60

65

70

75


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

V.

Pesci grossi, pesci piccoli

13.4.2012

13:45

Pagina 63

63

La donna grassa restava col viso sollevato, gli occhi fissi davanti a sé pieni di lagrime. – Non ho visto proprio. Come faccio? Non riesco a smettere di piangere. Zeffirino finché si trattava di mare e di pesci era il più in gamba; invece, in presenza di persone, riprendeva quella sua aria a bocca aperta e balbuziente. – Mi dispiace, signora… – e avrebbe voluto tornarsene ai suoi saraghi, ma una donna grassa piangente era una vista così insolita che lui restava incantato a guardarla suo malgrado. – Non sono signora, ragazzo, – disse la donna grassa con quella sua voce nobile e un po’ nasale. – Chiamami signorina. Signorina De Magistris. E tu come ti chiami? – Zeffirino. – Bravo, Zeffirino. Hai fatto buona pesca? O buona caccia, come si dice? – Non so come si dica. Non ho ancora preso niente. Qui però è un buon posto. – Sta’ attento con quel fucile, però. Non per me, poveretta me. Ma per te, a non farti male. Zeffirino la assicurò che poteva star tranquilla. Si sedette sullo scoglio accanto a lei e la guardò un po’ piangere. C’erano momenti in cui sembrava che smettesse, e allora aspirava dal naso arrossato, alzando e scotendo il capo. Ma intanto agli angoli degli occhi e sotto le palpebre era come si gonfiasse una bolla di lagrime e l’occhio subito ne traboccava. Zeffirino non sapeva bene che pensare. Vedere una signorina che piangeva era una cosa che stringeva il cuore. Ma come si faceva ad essere tristi davanti a quel recinto marino colmo di tutte le varietà di pesci, che riempiva il cuore di gioia e di voglia? E a tuffarsi in quel verde e ad andare dietro ai pesci, come si faceva con vicino una persona grande tutta in lagrime? Nello stesso momento, nello stesso posto esistevano insieme due struggimenti così opposti e inconciliabili. Zeffirino non riusciva a pensarli entrambi insieme; né a lasciarsi andare all’uno o all’altro. – Signorina, – chiese. – Dimmi. – Perché piange? – Perché sono sfortunata in amore. – Ah! – Tu non puoi capire, sei un ragazzo. – Vuol provare a nuotare con la maschera? – Grazie, volentieri. È bello? – È la cosa più bella che ci sia. La signorina De Magistris si alzò e s’abbottonò le bretelline del costume sulla schiena. Zeffirino le diede la maschera e le spiegò bene come metterla. Lei mosse un po’ il capo tra scherzosa e vergognosa con la maschera sul viso, ma in trasparenza si vedevano gli occhi che non smettevano di piangere. Scese in mare senza grazia, come una foca, e prese ad annaspare tenendo il viso giù. Zeffirino col fucile sottobraccio si buttò a nuoto anche lui. – Quando vede un pesce m’avverta, – gridò alla De Magistris. In acqua lui non scherzava; e il privilegio di venire a pescare con lui lo concedeva raramente. Ma la signorina alzava il capo e faceva segno di no. Il vetro era diventato

80

85

90

95

100

105

110

115

120


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 64

Italo Calvino opaco e non si vedevano più i tratti del suo viso. Si tolse la maschera. – Non vedo niente, – disse, – le lagrime mi appannano il vetro. Non posso. Mi dispiace -. E restava lì, piangente, in acqua. – È un guaio, – disse Zeffirino. Non aveva con sé la mezza patata da sfregare sul vetro per farlo ritornare limpido, ma s’arrangiò alla meglio con un po’ di saliva e indossò lui la maschera. – Guardi come faccio io, – disse alla grassa. E avanzarono insieme per quel mare, lui tutto di pinne con la testa giù, lei nuotando su un fianco, con un braccio disteso e l’altro piegato, e il capo amaramente eretto e inconsolabile. Nuotava male, la signorina De Magistris, tutto di fianco, con un goffo slancio di bracciate. E sotto di lei per metri e metri i pesci correvano il mare, navigavano stelle marine e seppie, s’aprivano le bocche delle attinie. Ecco che allo sguardo di Zeffirino si facevano incontro paesaggi da lasciarcisi smarrire. L’acqua era alta e il fondo sabbioso era cosparso di piccoli scogli tra i quali dondolavano matasse d’alghe al moto appena sensibile del mare. Ma a guardare di lassù, sulla distesa uniforme della sabbia sembrava fossero gli scogli ad ondeggiare in mezzo all’acqua ferma e densa d’alghe. A un tratto la De Magistris se lo vide sparire a testa in giù, affiorare un istante col sedere, poi con le pinne e poi la sua ombra chiara era sott’acqua, che calava verso il fondo. Fu troppo tardi quando il lupaccio s’accorse del pericolo: la fiocina scattata già l’aveva colto di sbieco e il dente di mezzo gli si conficcò verso la coda e lo passò da parte a parte. Il lupaccio drizzò le pinne spinose e s’avventò battendo l’acqua, gli altri denti della fiocina non l’avevano preso e lui sperava ancora di fuggire a costo di scodarsi. Ma quel che ci guadagnò fu di infiggersi una pinna su uno dei denti liberi, e fu perso. Il rocchetto ritirava già il filo e l’ombra rosea e contenta di Zeffirino gli era sopra. La fiocina apparve fuori dall’acqua col lupaccio infilzato, poi il braccio del ragazzo, poi la testa mascherata e un gorgoglio d’acqua dalla canna. E Zeffirino si scoperse il viso: – Visto che bello? Visto, signorina? – Era un grosso lupaccio argenteo e nero. Però la donna continuava a piangere. Zeffirino si arrampicò sulla punta di uno scoglio; la De Magistris lo seguì a fatica. Per posare il pesce in fresco il ragazzo scelse una piccola conca piena d’acqua. E ci si accoccolarono vicino. Zeffirino contemplava i cangianti colori del lupaccio, carezzava le scaglie e voleva che la De Magistris lo imitasse. – Vede che bello? Vede come punge? – Quando gli parve che un filo d’interessamento per il pesce si facesse largo nello sconforto della donna grassa, disse: – Io vado a vedere un momentino se ne piglio un altro, – e, bardato di tutto punto, si tuffò. La donna restò col pesce. E scoperse che non v’era mai stato pesce più infelice. Ora lei passava le dita sulla bocca ad anello, sulle branchie, sulla coda; ecco vedeva aprirsi, nel bel corpo d’argento, mille fori minutissimi. Pulci acquatiche, minuscoli parassiti dei pesci, s’erano da tempo impadronite del lupaccio e rodevano le loro vie nella sua carne. Ignaro di queste cose, Zeffirino già riemergeva con sulla forchetta un’ombrina dorata, e la porgeva alla signorina De Magistris. Così già i due si erano divisi i compiti: la donna toglieva il pesce dalla fiocina e lo metteva in fresco nella conca; e Zeffirino si ficcava di nuovo a testa in acqua per cacciarne un altro. Ma prima guardava ogni volta se la De Magistris aveva smesso di piangere: se non smetteva a vedere un lupaccio, un’ombrina, cosa mai avrebbe potuto consolarla?

125

130

135

140

145

150

155

160

165


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

V.

Pesci grossi, pesci piccoli

13.4.2012

13:45

Pagina 65

65

Strie dorate traversavano i fianchi dell’ombrina. Due pinne in fila percorrevano il suo dorso. E nell’intervallo tra queste pinne, la signorina vide una ferita stretta e profonda più antica di quelle della fiocina. Un colpo di becco di gabbiano doveva aver picchiato sul dorso del pesce con tanta forza che non si capiva come non l’avesse ucciso. Chissà da quando l’ombrina portava con sé questo dolore. Più veloce della fiocina di Zeffirino, sopra un branco di zerli piccoli e incerti, s’abbatteva il dentice. Fece in tempo a inghiottire uno zerlo e la forchetta gli s’incastrava in gola. Mai Zeffirino aveva fatto un colpo tanto buono. – Un dentice mondiale! – gridò, togliendosi la maschera. – Io ero dietro agli zerli! Ne inghiotte uno ed io… – e spiegava la scena esprimendo la commozione a balbettii. Un pesce più grosso e bello era impossibile cacciarlo: e Zeffirino avrebbe voluto finalmente che la De Magistris prendesse parte alla sua soddisfazione. Lei guardava il grasso corpo argentato, quella gola che aveva or ora inghiottito il pesciolino verdastro a sua volta sbranata dai denti della fiocina: e così era la vita in tutto il mare. Zeffirino pescò ancora un rocché grigio e un rocché rosso, un sarago a strisce gialle, un’orata grassotta ed una piatta boga; perfino un baffuto e spinoso pescerondine. Ma in tutti, oltre alle ferite della fiocina, la signorina De Magistris scopriva la puntura della pulce che li aveva rosi, o la macchia d’una peste sconosciuta, o l’amo conficcato da tempo nella gola. Quella cala scoperta dal ragazzo, dove tutte le specie di pesci si davano convegno, era forse un rifugio d’animali condannati a una lunga agonia, un lazzaretto marino, un’arena di duelli disperati. Ora Zeffirino armeggiava tra gli scogli: i polpi! Ne aveva scoperto una colonia appiattata al piede di un masso. Sulla forchetta già affiorava un grosso polpo violaceo stillando dalle ferite un liquido simile ad inchiostro annacquato; ed una strana ansia s’impadronì della signorina De Magistris. Per contenere il polpo fu trovata una conca appartata e Zeffirino non si sarebbe più mosso di lì, ad ammirare la pelle grigiorosa che cambiava lentamente sfumature. Era anche tardi e al ragazzo cominciava a venire un po’ di pelle d’oca, tanto era stato lungo quel suo bagno. Ma non era certo Zeffirino che rinunciava a una famiglia di polpi già scoperta. La signorina osservava il polpo, la sua carne viscida, le bocche delle ventose, l’occhio rossiccio e quasi liquido. Ed ecco che il polpo, unico tra gli esseri pescati, a lei sembrava senza macchia né tormento. I tentacoli d’un roseo quasi umano, così molli e sinuosi, e pieni d’ascelle segrete, richiamavano pensieri di salute e vita, e ancora qualche torpida contrazione li faceva volgere con un lieve dilatare di ventose. La mano della signorina De Magistris accennava a mezz’aria una carezza sulle spire del polpo e muoveva le dita imitandone il contrarsi, e poi sempre più avvicinandosi arrivò a sfiorarle. Scendeva la sera, un’onda incominciava a battere sul mare. I tentacoli vibrarono in aria come fruste e subito il polpo era avvinghiato con tutta la sua forza al braccio della signorina De Magistris. In piedi sullo scoglio, come fuggendo dal suo stesso braccio prigioniero, lanciò un grido che suonò come: – È il polpo! È il polpo che mi strazia! Zeffirino, che era proprio allora riuscito a stanare un calamaro mise il capo fuori dell’acqua e vide la donna grassa con il polpo che dal braccio allungava un tentacolo e la prendeva per la gola. Sentì la fine del grido, anche: era un urlo alto e continuo, ma – così parve al ragazzo – senza lagrime.

170

175

180

185

190

195

200

205

210


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 66

Italo Calvino Accorse un uomo armato di un coltello e prese a sferrare colpi contro l’occhio del mollusco: lo decapitò quasi di netto. Era il padre di Zeffirino che riempita la sua cestina di patelle veniva a cercare il figlio per gli scogli. Udito l’urlo, appuntando il suo sguardo occhialuto aveva visto la donna ed era corso con la lama che usava per le patelle a darle aiuto. I tentacoli si afflosciarono subito; la signorina De Magistris svenne. Quando ritornò in sé trovò il polpo tagliato a pezzi e Zeffirino e il padre glielo regalarono per cucinarlo fritto. Era sera e Zeffirino si era messo la maglietta. Il padre con gesti precisi le spiegò come si faceva un buon fritto di polpo. Zeffirino la guardava e diverse volte credette che fosse lì lì per ricominciare; invece, non le uscì più neanche una lagrima.

Testo di riferimento I. CALVINO, Romanzi e racconti, edizione diretta da C. Milanini, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, Mondadori («I Meridiani»), vol. II, 1992, pp. 983-992.

215

220


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

V.

Pesci grossi, pesci piccoli - Analisi del testo

V.

Analisi del testo

1.

Riassunto dell’intreccio 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10.

2. 2.1.

Pagina 67

67

Presentazione del padre di Zeffirino (1-10). Presentazione di Zeffirino (11-19). Zeffirino si procura gli attrezzi da pesca (20-25). Zeffirino perlustra il fondo marino (26-69). Zeffirino incontra la De Magistris e fa conoscenza (69-96). Zeffirino guarda la De Magistris che piange e glie ne chiede il motivo (97-109). Zeffirino nuota con la De Magistris (110-136). Zeffirino cattura vari pesci che la De Magistris osserva (137-204). La De Magistris è aggredita da un polpo (205-213). Il padre di Zeffirino uccide il polpo e lo offre alla De Magistris (214-224).

Mondo infantile e mondo adulto a confronto Zeffirino e la De Magistris

Il protagonista è Zeffirino, un ragazzetto (15) di cui non è detta l’età; siccome però è definito uno di quei ragazzi rapati e a bocca aperta da far andare avanti a scappellotti (18-19) e si sottolinea quella sua aria a bocca aperta e balbuziente (80), si può supporre che abbia dai dieci ai dodici anni. L’autore lo chiama anche bambino (23-24), ma per lo più ragazzo (59, 68, 147, 151, 186, 194, 213), che è il modo con cui lo definisce anche la De Magistris (73, 83, 109). Nulla sappiamo delle fattezze fisiche di Zeffirino, che non è descritto, a parte la sua appartenenza ai ragazzi rapati e a bocca aperta (18); segno che queste caratteristiche sono irrilevanti ai fini del racconto. Conosciamo invece abbastanza bene le sue qualità: non c’era ragazzetto della sua età che col fucile subacqueo andasse così bene come lui (15-16); in acqua dava punti a tutti; sott’acqua meglio ancora (19); è attento (24) e di lui ci si poteva fidare (24); finché si


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 68

Italo Calvino trattava di mare e di pesci era il più in gamba (79); In acqua lui non scherzava (119120). Si tratta sempre, a parte un caso, di considerazioni sulla destrezza in acqua, che dicono come Zeffirino non abbia altra vita fuori del suo elemento preferito. Il racconto dipende interamente da Zeffirino (che non esce mai di scena neppure nel finale quando l’azione risolutiva dipende dal padre di lui) e la realtà è vista attraverso gli occhi del ragazzo; è dunque corretto credere che il messaggio del testo vada cercato a partire da Zeffirino. A Zeffirino si oppone la coprotagonista Signorina De Magistris (84), come essa si definisce; l’autore la chiama anche con insistenza donna grassa (69, 73, 76, 81, 211), poi foca (117) mediante paragone, e anche semplicemente grassa (127), sempre a indicarne la goffaggine nei confronti del ragazzo: Nuotava male, la signorina De Magistris, tutto di fianco, con un goffo slancio di bracciate (130-131). Non ne conosciamo l’età, ma sappiamo che piange perché si sente sfortunata in amore (107). La De Magistris ha un passato che non conosciamo e compare in scena solo quando Zeffirino ne vede, stando sott’acqua, una mano che da uno scoglio si immerge nel mare: Zeffirino sempre a testa sotto si diresse verso lo scoglio più vicino; e nell’acqua, lungo la parete, vide una bianca mano penzolante (66-67). Quando riemerge, il ragazzo vede che Bocconi sull’orlo dello scoglio, una donna grassa in costume da bagno stava prendendo il sole. E piangeva. Le lagrime scendevano una dopo l’altra per le guance e cadevano nel mare (69-71). La presentazione, abbastanza anomala, della donna avviene nella prospettiva di Zeffirino e sottolinea il doppio contatto di lei con l’acqua attraverso la mano e le lacrime. In tal modo la donna ci appare in relazione stretta (sebbene involontaria) col mondo acquatico di Zeffirino, mondo che sarà la causa della guarigione del suo dolore. È questo contatto col mare che conta (non il fatto che la donna stia prendendo il sole sullo scoglio), come Calvino dice trovando a fatica una giustificazione razionale per una posizione e un comportamento poco consueti. I due protagonisti fanno conoscenza e constatano le divergenze che li separano. Quando la De Magistris comunica a Zeffirino la sua delusione amorosa si affretta a dirgli: – Tu non puoi capire, sei un ragazzo (109), mentre Zeffirino (a riprova della verità di quanto lei dice) non fa altri passi verso il mondo della donna ma ripiega sul suo: – Vuol provare a nuotare con la maschera? (110). Facendolo agire così, Calvino ci dà due indicazioni: da un lato l’estraneità del mondo infantile a quello degli adulti, dall’altro la necessità che l’adulto sofferente si accosti al ragazzo felice. Nel corso della vicenda, però, le cose andranno altrimenti, e sarà il ragazzo a muovere verso la donna cercando di risolverne il problema. 2.2.

Zeffirino e il padre

Il padre di Zeffirino è figura marginale nel racconto, anche se gli spetta il salvataggio della De Magistris; compare all’inizio e alla fine ma per il resto è dimenticato. È l’opposto del figlio perché non si metteva mai in costume da bagno (1) e non si staccava mai dalla scogliera (2-3), ma specialmente perché raccoglie patelle, che per essere ferme e testarde (12-13) non potevano attirare Zeffirino (13). Tanto il padre è adulto, statico e legato allo scoglio, altrettanto il figlio è giovane, si sposta continuamente e non può fare a meno dell’acqua. Qualcosa unisce apparentemente padre e figlio: il primo è miope e osserva la realtà col suo sguardo occhialuto (5-6), il secondo


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

V.

13.4.2012

13:45

Pagina 69

Pesci grossi, pesci piccoli - Analisi del testo

69

ha gli occhi ansiosi (36) e scruta il mondo marino con la maschera che è un enorme unico occhio (40). Le lenti riconducono la vista del padre alla norma; la maschera dà al figlio una percezione quasi abnorme della realtà, o perlomeno gli permette di vedere quello che gli altri non vedono.

3.

Maturità morale e complessità psicologica di Zeffirino

La reciproca conoscenza dei protagonisti non ha effetto immediato sulla De Magistris, intatta nel suo dolore e incapace di ogni riflessione su sé stessa, mentre coinvolge Zeffirino: Zeffirino non sapeva bene che pensare. Vedere una signorina che piangeva era una cosa che stringeva il cuore. Ma come si faceva ad essere tristi davanti a quel recinto marino colmo di tutte le varietà di pesci, che riempiva il cuore di gioia e di voglia? E a tuffarsi in quel verde e ad andare dietro ai pesci, come si faceva con vicino una persona grande tutta in lagrime? Nello stesso momento, nello stesso posto esistevano insieme due struggimenti così opposti e inconciliabili. Zeffirino non riusciva a pensarli entrambi insieme; né a lasciarsi andare all’uno o all’altro (96-103). Il brano, situato immediatamente prima che i due si parlino, è fondamentale perché dà una chiave di lettura del testo. Si articola in due parti: la prima è quella dei due interrogativi, divisa dunque in due sottoparti; la seconda è quella della conseguente riflessione, divisa anch’essa in due sottoparti. Le prime due sottoparti si reggono su un’antitesi in chiasmo: tristi (a) … quel recinto marino (b) … quel verde (b) … in lagrime (a). Le seconde due sottoparti non fanno che ribadire l’antitesi: opposti ed inconciliabili si radicalizza in insieme e all’uno o all’altro. Il binarismo che caratterizza le scelte sintattiche è l’espressione formale del contenuto: Zeffirino mostra una complessità morale da adulto e analizza la sofferta realtà che ha di fronte da due punti di vista, quello della donna e il suo, constatando l’impossibilità di trovare una via d’uscita. La maturità (poco realistica) che Calvino gli attribuisce è intesa come capacità di valutazione problematica del reale. Da quel momento Zeffirino è consapevole che, attraverso la conoscenza del dolore altrui, il mondo reale è più complesso del suo solo mondo sottomarino, e che il suo mondo e quello degli altri sono in tensione dialettica. Zeffirino, vivendo l’esperienza di antitesi inconciliabili, non fa altro che attuare le potenzialità che ha in sé e che Calvino con abilità ha espresso due volte quasi all’inizio del racconto: la prima alla fine della presentazione del ragazzo: Visto a terra, per mano a suo padre, era uno di quei ragazzi rapati e a bocca aperta da far andare avanti a scappellotti; invece in acqua dava punti a tutti; sott’acqua meglio ancora (1719); la seconda mentre il ragazzo si appresta a tuffarsi nelle vesti di subacqueo: Con quel muso di vetro e l’antenna per respirare, le gambe che finivano da pesce, e in mano quell’arnese un po’ lancia e un po’ fucile e un po’ forchetta, non somigliava più a un essere umano. Invece, appena in mare, benché filasse via mezzo sommerso, subito si riconosceva che era lui: dal colpo che dava con le pinne, dal modo in cui il fucile gli sporgeva sottobraccio, dall’impegno che metteva ad andare avanti con la testa giù a fior d’acqua (27-32). Il secondo brano è più importante e si articola in due parti: quella fuori dall’acqua e quella in acqua; ma si ha l’inversione della realtà perché Zeffirino fuori acqua è pesce, in acqua è uomo. Zeffirino è dunque un’antitesi vivente, ed è proprio per questo che può capire (nel brano di 96-103) che anche l’esistenza (di cui egli


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 70

Italo Calvino è parte) è fondata sull’antitesi. Ma l’antitesi è anche contraddizione, tanto che, quando Zeffirino è a pesca, dopo essersi posti gli interrogativi che sappiamo (96-103), perfino il fondo marino si capovolge nell’illusorietà: L’acqua era alta e il fondo sabbioso era cosparso di piccoli scogli tra i quali dondolavano matasse d’alghe al moto appena sensibile del mare. Ma a guardare di lassù, sulla distesa uniforme della sabbia sembrava fossero gli scogli ad ondeggiare in mezzo all’acqua ferma e densa d’alghe (133-136).

4. 4.1.

Zeffirino terapeuta L’uccisione dei pesci come «éducation sentimentale»

Il primo tentativo che Zeffirino fa di condurre la De Magistris nel suo mondo sottomarino non riesce: la donna indossa la maschera del ragazzo ma il pianto le impedisce di vedere, segue lui in acqua ma desiste e torna sullo scoglio. Allora Zeffirino (si direbbe inconsciamente, anche se il brano di 96-103 dice altrimenti sulla lucidità del subacqueo) rovescia il proprio comportamento e trasferisce parte del suo mondo a quello della donna, portandole sullo scoglio una ricca messe di pesci. L’operazione avviene per fasi successive: cattura un lupaccio (139-161), un’ombrina (162172), un dentice (173-181), altri pesci (182-188), sempre oggetto di attenzione da parte della donna che resta in attesa della pesca successiva. L’osservazione del lupaccio è dettagliata: La donna restò col pesce. E scoperse che non v’era mai stato pesce più infelice. Ora lei passava le dita sulla bocca ad anello, sulle branchie, sulla coda; ecco vedeva aprirsi, nel bel corpo d’argento, mille fori minutissimi. Pulci acquatiche, minuscoli parassiti dei pesci, s’erano da tempo impadronite del lupaccio e rodevano le loro vie nella sua carne (157-161). Non lo è meno quella dell’ombrina: Strie dorate traversavano i fianchi dell’ombrina. Due pinne in fila percorrevano il suo dorso. E nell’intervallo tra queste pinne, la signorina vide una ferita stretta e profonda più antica di quelle della fiocina. Un colpo di becco di gabbiano doveva aver picchiato sul dorso del pesce con tanta forza che non si capiva come non l’avesse ucciso. Chissà da quando l’ombrina portava con sé questo dolore (168-172). Più sintetica ma non meno importante è l’osservazione del dentice: Lei guardava il grasso corpo argentato, quella gola che aveva or ora inghiottito il pesciolino verdastro a sua volta sbranata dai denti della fiocina: e così era la vita in tutto il mare (179-181). Anche per gli altri pesci l’indagine non cambia: in tutti, oltre alle ferite della fiocina, la signorina De Magistris scopriva la puntura della pulce che li aveva rosi, o la macchia d’una peste sconosciuta, o l’amo conficcato da tempo nella gola (184-186); e la conclusione non si fa attendere: Quella cala scoperta dal ragazzo, dove tutte le specie di pesci si davano convegno, era forse un rifugio d’animali condannati a una lunga agonia, un lazzaretto marino, un’arena di duelli disperati (186-188). Come si vede la De Magistris scruta con attenzione il mondo di Zeffirino attraverso le sue prede e ne mette in evidenza il dolore nascosto con efficace crescendo: dapprima le pulci acquatiche, poi il gabbiano, poi il pesce più grosso che mangia il più piccolo (da qui probabilmente il titolo del racconto), in una continua e feroce lotta per la sopravvivenza; tanto da concludere che Zeffirino stia pescando in un rifugio o un lazzaretto o un’arena di duelli disperati (anche qui con climax: i vivi, i malati inguaribili, i morti). Di tutto questo dolore Zeffirino non sa nulla (Ignaro di queste cose, 162) e, appena scorto un filo d’interessamento (154-155) della donna per il


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

V.

13.4.2012

13:45

Pesci grossi, pesci piccoli - Analisi del testo

Pagina 71

71

lupaccio, non esita a seminare la morte in quel mondo marino contro il quale all’inizio dallo stupore e dalla gioia non gli venne di far partire neanche un colpo (63-64); convinto che ciò possa giovare alla donna facendole cessare il pianto: guardava ogni volta se la De Magistris aveva smesso di piangere (165-166). 4.2.

Il polpo e la De Magistris: amore e morte

Quando Zeffirino porta a terra un polpo, una strana ansia s’impadronì della signorina De Magistris (191-192). Si tratta del segnale anticipatorio del momento culminante della vicenda. L’osservazione dell’animale si fa comprensibilmente più attenta del solito: La signorina osservava il polpo, la sua carne viscida, le bocche delle ventose, l’occhio rossiccio e quasi liquido. Ed ecco che il polpo, unico tra gli esseri pescati, a lei sembrava senza macchia né tormento. I tentacoli d’un roseo quasi umano, così molli e sinuosi, e pieni d’ascelle segrete, richiamavano pensieri di salute e vita, e ancora qualche torpida contrazione li faceva volgere con un lieve dilatare di ventose. La mano della signorina De Magistris accennava a mezz’aria una carezza sulle spire del polpo e muoveva le dita imitandone il contrarsi, e poi sempre più avvicinandosi arrivò a sfiorarle (197-204). Due i dati principali tra loro connessi: il polpo, senza macchia né tormento, diventa simbolo di salute e di vita (due coppie di sostantivi in antitesi, per richiamare la funzione di questo procedimento nei brani precedenti); e la scena è il surrogato di un corteggiamento amoroso. A quella offerta di amore il polpo reagisce d’istinto con quella che sembra un’aggressione ma che in realtà va letta come accettazione dell’offerta: I tentacoli vibrarono in aria come fruste e subito il polpo era avvinghiato con tutta la sua forza al braccio della signorina De Magistris (205-207). Zeffirino è sott’acqua ma riemerge facendo in tempo a vedere la donna grassa con il polpo che dal braccio allungava un tentacolo e la prendeva per la gola (211-212), dove non si tratterà di strangolamento ma di abbraccio. Le grida della donna fanno accorrere il padre di Zeffirino. È ovviamente a lui, non al figlio, che spetta il compito di finire il polpo: Zeffirino uccide solo in acqua e con altro scopo, come sappiamo. Col sacrificio dei pesci e con la morte del polpo amato-amante, la De Magistris guarisce dal suo male d’amore e smette di piangere (non le uscì più neanche una lagrima, 223-224). Zeffirino ha ottenuto lo scopo che si era prefisso: e così pure Calvino, che carica sulle spalle del suo protagonista il peso di un’allegoria dell’esistenza.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 72


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

VI.

Il giardino incantato

VI.

Il giardino incantato

13:45

Pagina 73

73

Italo Calvino (1923-1985)

Giovannino e Serenella camminavano per la strada ferrata. Giù c’era un mare tutto squame azzurro cupo azzurro chiaro; su, un cielo appena venato di nuvole bianche. I binari erano lucenti e caldi che scottavano. Sulla strada ferrata si camminava bene e si potevano fare tanti giochi: stare in equilibrio lui su un binario e lei sull’altro e andare avanti tenendosi per mano, oppure saltare da una traversina all’altra senza posare mai il piede sulle pietre. Giovannino e Serenella erano stati a caccia di granchi e adesso avevano deciso di esplorare la strada ferrata fin dentro la galleria. Giocare con Serenella era bello perché non faceva come tutte le altre bambine che hanno sempre paura e si mettono a piangere a ogni dispetto: quando Giovannino diceva: – Andiamo là, – Serenella lo seguiva sempre senza discutere. Deng! Sussultarono e guardarono in alto. Era il disco di uno scambio ch’era scattato in cima a un palo. Sembrava una cicogna di ferro che avesse chiuso tutt’a un tratto il becco. Rimasero un po’ a naso in su a guardare: che peccato non aver visto! Ormai non lo faceva più. – Sta per venire un treno, – disse Giovannino. Serenella non si mosse dal binario. – Da dove? – chiese. Giovannino si guardò intorno, con aria d’intendersene. Indicò il buco nero della galleria che appariva ora limpido ora sfocato, attraverso il tremito del vapore invisibile che si levava dalle pietre della strada. – Di lì, – disse. Sembrava già di sentirne lo sbuffo incupito dalla galleria e vederselo tutt’a un tratto addosso, scalpitante fumo e fuoco, con le ruote che mangiavano i binari senza pietà. – Dove andiamo, Giovannino? C’erano grandi agavi grige, verso mare, con raggere di aculei impenetrabili. Verso monte correva una siepe di ipomea, stracarica di foglie e senza fiori. Il treno non si sentiva ancora: forse correva a locomotiva spenta senza rumore e sarebbe balzato su di loro tutt’a un tratto. Ma già Giovannino aveva trovato un pertugio nella siepe. – Di là. La siepe sotto il rampicante era una vecchia rete metallica cadente. In

5

10

15

20

25


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 74

Italo Calvino un punto, s’accartocciava su da terra come un angolo di pagina. Giovannino era già sparito per metà e sgusciava dentro. – Dammi una mano, Giovannino! Si ritrovarono in un angolo di giardino, tutt’e due carponi in un’aiola, coi capelli pieni di foglie secche e di terriccio. Tutto era zitto intorno; non muoveva una foglia. – Andiamo, – disse Giovannino e Serenella disse: – Sì. C’erano grandi e antichi eucalipti color carne, e vialetti di ghiaia. Giovannino e Serenella camminavano in punta di piedi pei vialetti, attenti al fruscio della ghiaia sotto i passi. E se adesso arrivassero i padroni? Tutto era così bello: volte strette e altissime di foglie ricurve d’eucalipto e ritagli di cielo; restava solo quell’ansia dentro, del giardino che non era loro e da cui forse dovevano esser cacciati tra un momento. Ma nessun rumore si sentiva. Da un cespo di corbezzolo, a una svolta, s’alzò un volo di passeri, con gridi. Poi ritornò silenzio. Era forse un giardino abbandonato? Ma l’ombra dei grandi alberi a un certo punto finiva e si trovarono sotto il cielo aperto, di fronte ad aiole tutte ben ravviate di petunie e convolvoli, e viali e balaustrate e spalliere di bosso. E sull’alto del giardino, una grande villa coi vetri lampeggianti e tende gialle e arancio. E tutto era deserto. I due bambini venivano su guardinghi calpestando ghiaia: forse le vetrate stavano per spalancarsi tutt’a un tratto e signori e signore severissimi per apparire sui terrazzi e grossi cani per essere sguinzagliati per i viali. Trovarono vicino a una cunetta una carriola. Giovannino la prese per le staffe e la spinse innanzi: aveva un cigolo, a ogni giro di ruota, come un fischio. Serenella ci si sedette sopra e avanzavano zitti, Giovannino spingendo la carriola con lei sopra, fiancheggiando le aiole e i giochi d’acqua. – Quello, – diceva Serenella a bassa voce di tanto in tanto, indicando un fiore. Giovannino poggiava e andava a strapparlo e glielo dava. Ne aveva già dei belli in un mazzetto. Ma scavalcando le siepi per scappare, forse li avrebbe dovuti buttar via! Così arrivarono a uno spiazzo e finiva la ghiaia e c’era un fondo di cemento e mattonelle. E in mezzo a questo spiazzo s’apriva un grande rettangolo vuoto: una piscina. Ne raggiunsero i margini: era a piastrelle azzurre, ricolma d’acqua chiara fino all’orlo. – Ci tuffiamo? – chiese Giovannino a Serenella. Certo doveva essere assai pericoloso se lui chiedeva a lei e non diceva soltanto: – Giù! – Ma l’acqua era così limpida e azzurra e Serenella non aveva mai paura. Scese dalla carriola e vi depose il mazzolino. Erano già in costume da bagno: erano stati a cacciar granchi fino allora. Giovannino si tuffò: non dal trampolino perché il tonfo avrebbe fatto troppo rumore, ma dall’orlo. Andò giù giù a occhi aperti e non vedeva che azzurro, e le mani come pesci rosa; non come sotto l’acqua del mare, piena d’ombre informi verdi-nere. Un’ombra rosa sopra di sé: Serenella! Si presero per mano e riaffiorarono all’altro capo, un po’ con apprensione. No, non c’era proprio nessuno ad osservarli. Non era bello come s’immaginavano: rimaneva sempre quel fondo d’amarezza e d’ansia, che tutto questo non spettava loro e potevano esserne di momento in momento, via, scacciati. Uscirono dall’acqua e proprio lì vicino alla piscina trovarono un tavolino col ping-pong. Giovannino diede subito un colpo di racchetta alla palla: Serenella fu

30

35

40

45

50

55

60

65

70

75


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

VI.

Il giardino incantato

13.4.2012

13:45

Pagina 75

75

svelta dall’altra parte a rimandargliela. Giocavano così, dando bòtte leggere perché da dentro alla villa non sentissero. A un tratto un tiro rimbalzò alto e Giovannino per pararlo fece volare la palla via lontano; batté sopra un gong sospeso tra i sostegni d’una pergola, che vibrò cupo e a lungo. I due bambini si rannicchiarono dietro un’aiola di ranuncoli. Subito arrivarono due servitori in giacca bianca, reggendo grandi vassoi, posarono i vassoi su un tavolo rotondo sotto un ombrellone a righe gialle e arancio e se ne andarono. Giovannino e Serenella s’avvicinarono al tavolo. C’era tè, latte e pandi-Spagna. Non restava che sedersi e servirsi. Riempirono due tazze e tagliarono due fette. Ma non riuscivano a stare ben seduti, si tenevano sull’orlo delle sedie, muovendo le ginocchia. E non riuscivano a sentire il sapore dei dolci e del tè e latte. Ogni cosa in quel giardino era così: bella e impossibile a gustarsi, con quel disagio dentro e quella paura, che fosse solo per una distrazione del destino, e che presto sarebbero chiamati a darne conto. Quatti quatti, si avvicinarono alla villa. Di tra le stecche d’una persiana a griglia videro, dentro, una bella stanza ombrosa con collezioni di farfalle alle pareti. E in questa stanza c’era un pallido ragazzo. Doveva essere il padrone della villa e del giardino, lui fortunato. Era seduto su una sedia a sdraio e sfogliava un grosso libro con figure. Aveva mani sottili e bianche e un pigiama accollato benché fosse estate. Ora, ai due bambini, spiandolo tra le stecche, si spegneva a poco a poco il batticuore. Infatti quel ragazzo ricco sembrava sedesse e sfogliasse quelle pagine e si guardasse intorno con più ansia e disagio di loro. E s’alzasse in punta di piedi come se temesse che qualcuno, di momento in momento, potesse venire a scacciarlo, come se sentisse che quel libro, quella sedia a sdraio, quelle farfalle incorniciate ai muri e il giardino coi giochi e le merende e le piscine e i viali, erano concessi a lui solo per un enorme sbaglio, e lui fosse impossibilitato a goderne, ma solo provasse su di sé l’amarezza di quello sbaglio, come una sua colpa. Il ragazzo pallido girava per la sua ombrosa stanza con passi furtivi, accarezzava i margini delle vetrine costellate di farfalle con le bianche dita, e si fermava in ascolto. A Giovannino e Serenella il batticuore spento riprendeva ora più fitto. Era la paura di un incantesimo che gravasse su quella villa e quel giardino, su tutte quelle cose belle e comode, come un’antica ingiustizia commessa. Il sole s’oscurò di nuvole. Zitti zitti Giovannino e Serenella se ne andarono. Rifecero la strada pei vialetti, di passo svelto, ma senza mai correre. E traversarono carponi quella siepe. Tra le agavi trovarono un sentiero che portava alla spiaggia, breve e sassosa, con cumuli d’alghe che seguivano la riva del mare. Allora inventarono un gioco bellissimo: battaglia con le alghe. Se ne tirarono manciate in faccia uno con l’altra fino a sera. C’era di buono che Serenella non piangeva mai.

Testo di riferimento I. CALVINO, Romanzi e racconti, edizione diretta da C. Milanini, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, Mondadori («I Meridiani»), vol. I, 1991, pp. 168-172.

80

85

90

95

100

105

110


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 76

Italo Calvino

VI.

Analisi del testo

1.

Riassunto dell’intreccio 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15.

2.

Giovannino e Serenella camminano lungo la strada ferrata (1-10). Sentono l’annuncio dell’arrivo del treno (11-27). Trovano un pertugio in una siepe ed entrano in un giardino (27-35). Camminano nel giardino sotto gli alberi (36-44). Camminano nel giardino a cielo aperto e vedono la villa (45-51). Giovannino trasporta Serenella su una carriola (51-58). Arrivano alla piscina (59-62). Fanno il bagno (63-73). Giocano a ping-pong (74-80). Vedono due camerieri che portano vassoi con vivande (80-82). Mangiano (83-89). Vedono un ragazzo nella villa (90-107). Ripercorrono a ritroso la strada del giardino (108-109). Escono dal giardino (109-110). Scendono al mare dove giocano a battaglia con le alghe (110-113).

Strutturazione del testo

Il testo è costruito su un percorso di andata (1-7) e di ritorno (13-15); al centro sta l’esperienza della villa nel parco (8-12). Si corrispondono: 1 e 15, 3 e 14, 47 e 13. Solo 2 è irrelato e costituisce il movente della ricerca del pertugio verso la villa. Il viaggio d’avvicinamento alla villa è lento e circostanziato (se ne distinguono quattro fasi, 4-7, da quando è varcata la siepe), quello di allontanamento è rapido (solo 13); l’uscita dal giardino e sintetizzata in meno di una linea di testo. Sono segni che il cerchio deve chiudersi ma anche che non c’è ormai più necessità di sviluppo narrativo nella zona del ritorno.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

VI.

Il giardino incantato - Analisi del testo

3. 3.1.

Gli ambienti e la loro funzione Il mare e la ferrovia

13:45

Pagina 77

77

All’inizio e alla fine del racconto c’è il mare, con ogni probabilità in Liguria: Giù c’era un mare tutto squame azzurro cupo azzurro chiaro: su, un cielo appena venato di nuvole bianche (1-3), Tra le agavi trovarono un sentiero che portava alla spiaggia, breve e sassosa, con cumuli d’alghe che seguivano la riva del mare (110111). I protagonisti, che erano stati a caccia di granchi (6-7), lo hanno però lasciato alle spalle; ed esso fa ormai da sfondo alla strada ferrata, il vero ambiente della prima parte del testo: Giovannino e Serenella camminavano per la strada ferrata (1). È qui che si decide il seguito inatteso della vicenda, quando i ragazzini, invece di entrare in galleria come previsto (avevano deciso di esplorare la strada ferrata fin dentro la galleria, 7), sentendo che sta per arrivare il treno (Sta per venire un treno, 15) cambiano direzione (Giovannino aveva trovato un pertugio nella siepe, 27-28). Entrare in galleria è un gioco piacevole proprio per il pericolo che comporta, e per i due bambini rappresenta l’attrazione verso il proibito; ma si frappone un ostacolo alla loro trasgressione: Deng! Sussultarono e guardarono in alto. Era il disco di uno scambio ch’era scattato in cima a un palo. Sembrava una cicogna di ferro che avesse chiuso tutt’a un tratto il becco. Rimasero un po’ a naso in su a guardare: che peccato non aver visto! Ormai non lo faceva più (11-14). Il paragone del disco dello scambio colla cicogna è importante, perché come quell’uccello, per tradizione consolidata, è portatore di neonati, cioè di vita, così lo scambio diventa portatore di aiuto per i due protagonisti, ai quali salva la vita. Se lo scambio è una cicogna, esso svolge però anche la funzione di angelo custode, e il Deng! che avverte i bambini è il suono di una campana, di poco deformato. Il treno è visto del resto come ipotetica minaccia: Sembrava già di sentirne la sbuffo incupito dalla galleria e vederselo tutt’a un tratto addosso, scalpitante fumo e fuoco, con le ruote che mangiavano i binari senza pietà (20-22); forse correva a locomotiva spenta senza rumore e sarebbe balzato su di loro tutt’a un tratto (26-27). Ha i connotati del drago perché è minaccioso, spietato, divoratore, scaltro e agisce con premeditazione; mangia solo i binari quando i due ostentano sicurezza di fronte al pericolo (Serenella non si mosse dal binario, 16), ma avrebbe mangiato anche loro non appena presi dalla paura. Calvino ostacola la salvezza dei protagonisti, offerta loro dallo scambio-cicogna, mediante antagonisti che trova nel mondo vegetale: C’erano grandi agavi grige, verso mare, con raggere di aculei impenetrabili. Verso monte correva una siepe di ipomea, stracarica di foglie e senza fiori (24-25). Tutto è significativo: le punture degli aculei delle agavi, quasi un contrappasso per aver avuto la meglio su quelle dei granchi; l’assenza di fiori in una pianta diventata ostile, che anticipa in antitesi l’episodio della raccolta idilliaca dei fiori nel parco; la posizione di queste due minacce: le agavi verso il mare dei granchi, la siepe verso il parco dei fiori. 3.2.

Il giardino e la villa

Il pertugio (27) nella siepe è, ovviamente, la salvezza, così come il buco nero (17-18) della galleria è la morte. Varcato il pertugio, proprio come Alice nella sua favola, siamo nel terzo ambiente, antitetico al precedente. Si tratta di un vero «luogo


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 78

Italo Calvino ameno», concesso a chi accetta il soccorso della cicogna-angelo custode, in cui la natura e l’arte concorrono a dar forma ad un Eden e ad un giardino di delizie. L’intero percorso ricognitivo dei bambini lo mostra continuamente (36-62); e ne fa stato anche la loro soddisfazione quando nuotano, giocano, mangiano (63-89). Tuttavia in quel paradiso c’è una fastidiosa paura che i due sembrano essersi portata dietro dal mondo esterno: E se adesso arrivassero i padroni? (39); restava solo quell’ansia dentro, del giardino che non era loro e da cui forse dovevano esser cacciati tra un momento (4142); I due bambini venivano su guardinghi (49); forse le vetrate stavano per spalancarsi tutt’a un tratto e signori e signore severissimi per apparire sui terrazzi e grossi cani per essere sguinzagliati per i viali (50-51); rimaneva sempre quel fondo d’amarezza e d’ansia, che tutto questo non spettava loro e potevano esserne di momento in momento, via, scacciati (72-73). L’insidia potrebbe uscire dalla villa, come il treno dalla galleria; e quella minaccia avvelena anche l’idillio, se perfino la carriola (sostitutivo proletario della nobile carrozza) aveva un cigolo, a ogni giro di ruota, come un fischio (53), dove ruota e fischio richiamano inequivocabilmente il treno-drago (forse mai sopraggiunto?). Anche i fiori raccolti in un mazzetto (58) potrebbero venir vanificati (scavalcando le siepi per scappare, forse li avrebbe dovuti buttar via!, 58), tanto che è meglio offrirli in dono propiziatorio alla piscina (l’acqua era così limpida e azzurra e Serenella non aveva mai paura. Scese dalla carriola e vi depose il mazzolino, 64-66): oggetto-simbolo di quel paradisiaco e minaccioso mondo borghese. Compiuto il rito, i due possono nuotare. È immediato l’accostamento, per antitesi, del nuoto in piscina (nuovo mondo) col nuoto in mare (vecchio mondo); sottolineato da una riflessione sul comportamento attuale e eccezionale rispetto a quello precedente e normale: – Ci tuffiamo? – chiese Giovannino a Serenella. Certo doveva essere assai pericoloso se lui chiedeva a lei e non diceva soltanto: – Giù! – (63-64). Il bagno in questa piscina-Gange cosparsa di fiori è scopertamente purificatorio, dunque preparatorio di un evento straordinario: la vista del ragazzo coetaneo. Ma il percorso iniziatico comporta ancora il gioco col tennis da tavola: gioco ben diverso da quelli soliti dei due protagonisti e che tuttavia trova un corrispondente nel mondo della ferrovia, perché la pallina che ribattuta va da campo a campo ricorda da vicino il saltare da una traversina all’altra senza posare mai il piede sulle pietre (5-6). Senza dire che quando, per poca dimestichezza col gioco, la pallina colpisce un gong sospeso tra i sostegni d’una pergola (78-79), Calvino correla gli avvenimenti anche sul piano fonico: Deng! (11), ping-pong (75), gong (78); ed obbliga il lettore a ricordare la minaccia salvifica del Deng! e ad associarla a quella del gong. Se il Deng! annuncia il treno, il gong annuncia i camerieri, che come muti manichini escono dalla villa coi vassoi delle vivande. La lustrazione in piscina ha dunque avuto esito positivo e i camerieri che portano da mangiare sono l’opposto dei temuti cani che, sguinzagliati, potrebbero azzannare gli estranei. Cani che sono, come si vede con facilità, l’equivalente nel parco del treno-drago fuori dello spazio privilegiato. Il giardino è davvero incantato. Mangiare significa immedesimazione a quel mondo, compartecipazione, assimilazione. È un’agape fraterna ma, per forza di cose, senza una delle due componenti che fraternizzano; si svolge nel silenzio, rotto soltanto dal rumore cupo che dura a lungo (79), causato inavvertitamente ma forse previsto dal destino. Nel momento in cui i due protagonisti sono all’apice della soddisfazione, Calvino con calcolo astuto fa notare il disagio morale di Giovannino e Serenella: Ogni cosa in quel giardino era così: bella e impossibile a gustarsi, con quel disagio dentro e quella paura,


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

VI.

13.4.2012

Il giardino incantato - Analisi del testo

13:45

Pagina 79

79

che fosse solo per una distrazione del destino, e che presto sarebbero chiamati a darne conto (86-89). È una osservazione intensa e necessaria a preparare l’incontro di due esseri umani con un altro essere umano.

4.

Il ragazzo coetaneo, o della diversità

Dal mare, alla strada ferrata, al giardino, alla villa si procede per spazi sempre più restringentisi. Al decrescere dello spazio cresce il senso di sicurezza, eliminate le minacce del treno, delle agavi, dei cani. Resta nell’aria un senso di disagio, che si placa solo quando i due vedono il pallido ragazzo (92) che manifesta più ansia e disagio di loro (97). Prima ancora di vedere il ragazzo, i due vedono collezioni di farfalle alle pareti (91). È il segno simbolico di una bellezza aristocratica priva di vita, che Calvino consegna ancora ad un essere animale. Il ragazzo (di cui si ignora il nome, che non pronuncia parola e non si accorge dei due estranei) sfogliava un grosso libro con figure (93-94); siccome Aveva mani sottili e bianche e un pigiama accollato benché fosse estate (94), è lecito credere che sia ammalato. In tal caso la sua lettura acquista nuovo significato: è il surrogato della vita, che il recluso vede indirettamente dalle illustrazioni (peraltro ignote al lettore) ma della quale non può godere. L’autore, attraverso gli occhi di Giovannino e Serenella, si fa interprete di questa infelice condizione: tutti quegli agi non goduti forse erano concessi a lui solo per un enorme sbaglio (100101), ed egli pareva provasse su di sé l’amarezza di quello sbaglio, come una sua colpa (101-102). La tesi è semplicistica e non nuova: poveri e felici è meglio che ricchi e infelici; ma nel racconto essa non si pone con forza polemica ed è priva di condanna politica, riallacciandosi se mai ad uno stereotipo ottocentesco di tipo sentimentale. Il punto di maggior tensione emotiva si ha quando il ragazzo accarezzava i margini delle vetrine costellate di farfalle con le bianche dita, e si fermava in ascolto (103-105), tanto che ai due protagonisti il batticuore spento riprendeva ora più fitto (105); forse perché inconsciamente percepiscono che la farfalla nella teca è metafora del ricco infelice nella villa, e che egli accarezzando quella vetrina non potrà mai trovare nel vetro un pertugio che gli apra la via ad una realtà diversa. È proprio in questo momento che nel testo compare il termine incantesimo (106) e il giudizio morale di antica ingiustizia (107).


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 80


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

VII.

Arrivederci

VII.

Arrivederci

13.4.2012

13:45

Pagina 81

81

Alberto Moravia (1907-1990)

Portolongone è un castello antico in cima ad una roccia sospesa sul mare. Il giorno che me ne andai, era libeccio, con un vento forte che tagliava il fiato e il sole accecava il cielo spezzato. Forse a causa di quel vento e di quel sole, forse per l’emozione della libertà, mi sentivo stordito. Così, quando passai per il cortile e vidi il direttore che se ne stava al sole, parlando ad un secondino, non potei fare a meno di gridare: «Arrivederci, signor direttore.» Subito mi morsi la lingua perché capii che quell’arrivederci non ci voleva: poteva sembrare che io avessi intenzione di tornare in galera o fossi convinto che ci sarei tornato. Il direttore, un brav’uomo, sorrise e corresse subito, facendomi un gesto di saluto: «Vuoi dire: addio.» E io ripetei. «Sì, addio, signor direttore»; ma ormai era troppo tardi; la sciocchezza l’avevo detta e non c’era più niente da fare. Quell’arrivederci mi continuò a risuonare nell’orecchio per tutto il viaggio e poi anche a Roma, come mi ritrovai in casa. Forse fu l’accoglienza: affettuosa, si capisce, da parte della mamma, ma da parte degli altri anche peggiore di come me l’ero immaginata. Mio fratello, ragazzino senza cervello, stava uscendo per andare alla partita di calcio e mi disse appena: «Oh, addio, Rodolfo»; mia sorella, quella sgrinfia infronzolata, addirittura scappò via dalla stanza gridando che se in casa ci restavo io, lei se ne andava. Quanto a mio padre, che non parla mai, si limitò a ricordarmi che alla falegnameria il mio posto non era occupato: se volevo, potevo incominciare a lavorare anche quel giorno stesso. Insomma, se ne andarono tutti; e io rimasi solo in casa con la mamma. Lei era in cucina, a lavare i piatti del pranzo. Ritta davanti all’acquaio, piccola e stracciona, i capelli grigi in disordine, i piedi infilati in due enormi pantofole di feltro per via dei reumatismi, pur risciacquando le scodelle, cominciò a farmi una predica che, a dire la verità, sebbene fosse bene intenzionata, per me era peggio degli strilli di mia sorella o dell’indifferenza di mio fratello e di mio padre. Che mi diceva? Le cose che dicono tutte le mamme, senza tener conto, al solito, che, nel caso, la ragione era dalla mia parte, e io avevo ferito per difendermi, come avrei potuto dimostrare al processo se non ci fosse stata quella testimonianza falsa di Guglielmo. «Figliol caro, lo vedi a che cosa ti ha portato la prepotenza? Da’ retta a tua madre che è la sola che ti vuol bene e che in tua assenza ha sofferto più della Madonna dei sette dolori, da’ retta:

5

10

15

20

25


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 82

Alberto Moravia lascia stare la prepotenza, nella vita è meglio subirne cento che farne una sola… non lo sai che chi di spada ferisce di spada perisce? Anche se sei dalla parte della ragione con la prepotenza ti metti dalla parte del torto… a Gesù gliela fecero la prepotenza, mettendolo in croce, ma lui perdonò a tutti i suoi nemici… e tu vorresti essere dappiù di Gesù!» E così via. Che potevo dirle ? Che non era vero; che la prepotenza l’avevano fatta a me; che la colpa era tutta di quella carogna di Guglielmo; che in galera avrebbe dovuto andarci l’altro? Preferii, finalmente, alzarmi e andarmene. Avrei potuto recarmi alla falegnameria, in via San Teodoro, dove mi aspettavano mio padre e gli altri lavoranti. Ma non me la sentivo, il giorno stesso del mio arrivo, come se nulla fosse stato, di riattaccare la giubba al chiodo e infilare la tuta con le macchie di colla e di grasso che mi ero fatto due anni prima. E poi volevo godermi la libertà, senza pensieri; riguardarmi Roma, riflettere sui casi miei. Così decisi che per quel giorno me ne sarei andato a spasso e avrei incominciato a lavorare la mattina dopo. Abitiamo dalle parti di via Giulia. Uscii e mi incamminai verso ponte Garibaldi. In prigione, avevo pensato che, una volta di nuovo a Roma, libero, le cose mi sarebbero apparse, almeno nei primi giorni, in una maniera particolare, secondo il sentimento che avrei provato rivedendole: allegre, nuove, belle, appetitose. Invece nulla, manco non fossi stato a Portolongone per tanto tempo, ma, poniamo, avessi passato qualche giorno ai bagni di Ladispoli. Era una delle solite giornate di scirocco romano, col cielo color strofinaccio sporco, l’aria greve, e la fiacca persino nelle pietre delle case. Camminando ritrovavo tutto come prima e come sempre, senza novità né allegria: i gatti sparsi intorno al cartoccetto, al canto del vicolo; i vespasiani con le frasche secche; le scritte sui muri con gli abbasso e gli evviva; le donne sedute a gambe larghe a chiaccherare fuori delle botteghe; le chiese col cieco o lo storpio sui gradini; i carrettini con i fichi secchi e le arance; i giornalai con le riviste illustrate piene di attrici americane. La gente, poi mi pareva che avesse delle facce proprio antipatiche; chi con un naso troppo lungo, chi con la bocca storta, chi con gli occhi pesti, chi con le guance cascanti. Insomma, era la solita Roma e i soliti romani: come li avevo lasciati, così li ritrovavo. Arrivato al ponte Garibaldi, mi affacciai al parapetto e guardai il Tevere: era sempre lo stesso Tevere, lustro, gonfio e giallo, con le baracche ormeggiate delle società di canottaggio, e il solito grassone in mutandine che si esercitava al remo fisso e i soliti sfaccendati che lo guardavano. Per tirarmi su, passai il ponte e andai in Trastevere al vicolo del Cinque, ad una certa osteria velletrana: l’oste, Gigi, era il solo amico che avessi al mondo. Ho detto che ci andai per tirarmi su; in realtà ero anche attirato dalla bottega di arrotino di Guglielmo che era poco distante dall’osteria. E infatti, come la scorsi di lontano, il sangue mi diede un tuffo; e mi sentii prima ardere e poi gelare, come se stessi per svenire. Entrai nell’osteria che a quell’ora era deserta, andai a sedermi in un angolo in ombra e chiamai a bassa voce Gigi che stava dietro il banco leggendo il giornale. Lui venne e, come mi riconobbe, subito mi abbracciò, con spontaneità, ripetendo che era tanto contento di vedermi; e io mi sentii rincuorato perché, salvo la mamma, questo era il primo cristiano che al mio ritorno mi avesse dimostrato un po’ di affetto. Sedetti senza fiato, gli occhi pieni di lagrime, e lui, dopo qualche frase di circostanza, incominciò: «Rodolfo, chi mi aveva detto che dovevi tornare? ah, sì, Guglielmo.» Non dissi nulla, ma a quel nome mi sentii tutto rimescolare. Gigi continuò: «Chissà come

30

35

40

45

50

55

60

65

70

75


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

VII.

Arrivederci

13.4.2012

13:45

Pagina 83

83

l’aveva saputo… certo che me lo venne a dire con una faccia… aveva paura: si vedeva.» Dissi, senza levare gli occhi: «Paura di che? Non ha forse detto la verità? Non ha fatto il suo dovere di testimonio? E poi non ci sono i carabinieri per proteggerlo?» Gigi mi batté sulla spalla: «Rodolfo sei sempre lo stesso, non sei cambiato per niente… beh, lui ha paura conoscendo il tuo carattere… dice che lui non credeva di danneggiarti: gli intimarono di dire la verità e lui la disse.» Non fiatai; e Gigi, dopo un momento, riprese: «Ma lo sai che proprio mi dispiace di vedere due persone come te e Guglielmo odiarsi e aver paura l’uno dell’altro? Di’, vuoi che lo rassicuri, che gli dica che non ce l’hai con lui e che l’hai perdonato?» Cominciai a capire dove volesse andare a parare e risposi: «Non dirgli nulla.» Lui si informò con precauzione: «Perché? Ce l’hai ancora con lui? Dopo tanto tempo?» «Il tempo non esiste», dissi, «sono arrivato oggi ed è come se fosse successo ieri… per i sentimenti il tempo non esiste.» «Ma via» insistette lui «via, non devi fissarti in questo modo… che t’importa?… non la conosci la canzone: quello che è stato è stato, chi ha avuto ha avuto, scordiamoci del passato; da’ retta, scordati del passato e bevici sopra.» Risposi: «Quanto a bere, questo sì: portami mezzo litro… asciutto.» Il tono era secco, e lui, senza più insistere, si alzò e andò a prendere il vino. Ma, come tornò, non volle versarmi subito e, tenendo il boccale da parte, come se avesse voluto mettermi qualche condizione, domandò con serietà: «Rodolfo, mica vorrai fare una pazzia?» Risposi: «Versa e non ti preoccupare.» Insistette: «E poi rifletti: Guglielmo è un pover’uomo, ci ha famiglia, quattro figli e moglie… ci vuole un po’ di comprensione.» Ripetei: «Versa… e non impicciarti degli affari miei.» Questa volta versò, ma pian piano, sempre guardandomi. Gli dissi: «Prendi il bicchiere… beviamo… tu sei il solo amico vero che io abbia al mondo.» Accettò subito, si riempì il bicchiere, sedette e riprese: «E appunto perché ti sono amico, voglio dirti quello che farei al tuo posto: andrei da Guglielmo, spontaneamente, e gli direi: quello che è stato è stato, abbracciamoci, da fratelli, e non parliamone più.» Teneva il bicchiere all’altezza delle labbra e mi guardava fisso. Risposi: «Fratelli, coltelli… non lo sai il proverbio?» In quel momento entrarono due clienti, e lui, dopo aver vuotato di un fiato il bicchiere, mi lasciò. Bevvi lentamente il mezzo litro, riflettendo. Il fatto che Guglielmo avesse paura non mi calmava, al contrario, mi accendeva non so che furore nell’animo. «Vigliacco, ha paura», pensavo; e stringevo forte il bicchiere di vetro grosso, come se fosse stato il collo di Guglielmo. Mi dicevo che era proprio un vigliacco e che, dopo avermi fatto condannare con la sua falsa testimonianza, adesso si raccomandava a Gigi affinché lo perdonassi. Così finii il mezzo litro e ne ordinai un secondo. Gigi me lo portò e disse: «Ti senti meglio? Ci hai ripensato?» Risposi: «Mi sento meglio e ci ho ripensato.» Gigi osservò, versandomi il vino: «In queste cose bisogna andarci piano… non lasciarsi trasportare dal sentimento… sei dalla parte della ragione, non si discute, ma appunto per questo devi mostrarti generoso.» Non potei fare a meno di notare, acido: «Te l’ha data l’imbeccata, Guglielmo.» Lui non si offese e rispose con sincerità: «che imbeccata? Sono amico di tutti e due… vorrei che faceste pace… ecco tutto.» Ripresi a bere e allora, da Guglielmo, forse per effetto del vino, il pensiero mi si rivolse a me stesso e cominciai a pensare a tutto quello che avevo passato in quei due anni, a quanto avevo sofferto, a tutte le angherie che mi erano state fatte; e gli occhi mi si riempirono di lagrime e mi venne una gran compassione di me stesso

80

85

90

95

100

105

110

115

120


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 84

Alberto Moravia e, di rimbalzo, di tutti quanti. Ero un disgraziato, senza torto né ragione, come tanti, come tutti; e anche Guglielmo era un disgraziato; e Gigi era anche lui un disgraziato; e mio padre e mio fratello e mia sorella e mia madre: tutti disgraziati. Adesso vedevo Guglielmo con occhi nuovi e pian piano mi convincevo che forse Gigi aveva ragione: mi conveniva mostrarmi generoso e perdonagli. A quest’idea mi sembrò di volermi bene il doppio di prima; e fui contento che mi fosse venuta perché, sebbene con la testa fossi quasi convinto che perdonare era meglio che vendicarsi, tuttavia non sarei mai stato capace di farlo se il cuore non me l’avesse suggerito. Però, adesso, avevo paura che questo impulso buono mi passasse; capivo che dovevo far presto. Il secondo mezzo litro era finito, chiamai forte: «Gigi, vieni un momento qui.» Venne e gli dissi subito: «Gigi, in fondo hai ragione tu: ci ho ripensato, se vuoi sono pronto, andiamo da Guglielmo.» Lui rispose: «Non te l’avevo detto? Un po’ di riflessione e di vino sincero e il cuore parla.» Non dissi nulla e, tutto ad un tratto, mi presi la faccia tra le mani e incominciai a piangere: mi ero riveduto a Portolongone, nell’officina della prigione, vestito del pigiama di galeotto, intento a piallare tavole per bare. In prigione tutti lavoravano e dal reparto falegnami uscivano tutte le casse da morto per Portoferraio e gli altri paesi dell’Elba. E io piangevo ricordandomi come, fabbricando queste bare, spesso mi ero augurato che una di esse fosse la mia. Intanto, Gigi mi batteva con la mano sulla spalla, ripetendo: «Su, non ci pensare, ormai tutto è passato.» Dopo un momento soggiunse: «Allora vogliamo andare da Guglielmo; vi abbracciate, da amici, e poi venite qui e bevete insieme il bicchiere della riconciliazione.» Mi asciugai le lagrime e dissi: «Andiamo da Guglielmo.» Gigi uscì dall’osteria e io lo seguii. Percorremmo un cinquanta metri e poi, dall’altra parte della strada, tra una panetteria e un marmista, mi apparve la bottega dell’arrotino. Guglielmo, pure lui, non era cambiato: piccoletto, grigio, grassoccio e calvo, con la faccia melliflua tra il Giuda e il sagrestano, lo riconobbi subito, ritto in piedi, di profilo, dentro la bottega, intento alla ruota. Arrotava, ed era così assorto a rifare il filo ad un suo coltello, voltandolo e rivoltandolo sotto la goccia, che non ci vide entrare. Appena lo scorsi, sentii che il sangue mi si rivoltava; e mi resi conto che non avrei potuto abbracciarlo come voleva Gigi: abbracciandolo, c’era il caso che gli staccassi l’orecchio con un morso, così, mio malgrado. Poi Gigi, con voce di festa, disse: «Guglielmo, c’è qui Rodolfo che è venuto a stringerti la mano… quello che è stato è stato…»; e lui si voltò e lo vidi tramortire in viso e fare come un gesto per rifugiarsi in fondo alla bottega. Allora, mentre Gigi ci incoraggiava: «Su… abbracciatevi e non se ne parli più,» qualche cosa mi saltò in petto, e gli occhi mi si oscurarono. Gridai: «Vigliacco, mi hai rovinato,» e mi slanciai contro di lui, tentando di prenderlo per il collo. Lui cacciò un urlo, da vero vigliacco, e scappò in fondo alla bottega. Fece male perché con tutte quelle rastrelliere piene di coltelli anche un santo sarebbe caduto in tentazione. Figuratevi io che aspettavo questo momento da anni. Gigi gridava: «Rodolfo, fermati… reggetelo»; Guglielmo urlava come il porco quando lo si scanna; e io, sfilato un coltello tra i tanti, mi avventai contro di lui. L’intenzione era di colpirlo nella schiena, ma lui si voltò per pararsi, e lo presi invece in cima al petto. Nello stesso momento qualcuno mi afferrò il braccio mentre l’alzavo per dargli un’altra botta; e poi mi ritrovai fuori della bottega, circondato da ogni parte da gente che gridava e, nella frenesia del tafferuglio, cercava di colpirmi in faccia e sulle spalle.

125

130

135

140

145

150

155

160

165


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

VII.

13.4.2012

13:45

Arrivederci

Pagina 85

85

Arrivederci. L’avevo detto al direttore di Portolongone e, infatti, quella sera stessa mi ritrovai in una cella di Regina Coeli, insieme a tre altri. Per sfogarmi, raccontai la cosa, e uno di loro, allora, che pareva più saputo, osservò: «Fratel caro quando hai detto arrivederci, era il tuo subcosciente che ti faceva parlare… tu già lo sapevi che l’avresti fatto.» Forse aveva ragione lui che parlava tanto difficile e sapeva persino che cosa fosse il subcosciente. Ma intanto ero dentro e l’arrivederci, questa volta, l’avevo detto alla libertà.

Testo di riferimento A. MORAVIA, Racconti romani, Milano, Bompiani, 1974, pp. 11-18.

170


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 86

Alberto Moravia

VII.

Analisi del testo

1.

Riassunto dell’intreccio 1. 2. 2.1. 2.2. 3. 3.1. 3.2. 3.3. 4. 4.1. 4.2. 4.3. 4.4. 4.5. 4.6. 5. 5.1. 5.2. 5.3. 5.4. 6.

2.

Rodolfo esce dal carcere (1-10). Rodolfo in famiglia (11-36): è accolto dal fratello, dalla sorella, dal padre (11-19); è accolto dalla madre (19-36). Rodolfo cammina per Roma (37-67): rinuncia al lavoro per gironzolare (37-44); descrizione di Roma e dei romani (45-62); si trasferisce a Trastevere (62-67). L’osteria e Gigi (68-143): Gigi cerca di convincere Rodolfo a perdonare a Guglielmo (68-92); gli suggerisce di recarsi a fare pace da Guglielmo (93-105); Rodolfo riflette sul da farsi (106-112); dice a Gigi che ci ha ripensato (112-117); si sente un disgraziato e vuole perdonare a Guglielmo (118-131); vuole recarsi da Guglielmo (132-143). La bottega e Guglielmo (144-167): Guglielmo al lavoro (144-154); Guglielmo vede Rodolfo (154-156); Rodolfo accoltella Guglielmo (156-164); è trascinato fuori e percosso (164-167). Rodolfo torna in carcere (168-174).

Tragedia e tragicommedia

Il racconto è tragico perché, dopo un lieto inizio, progredisce inesorabilmente fino ad un omicidio. Il dramma è annunciato in cinque momenti successivi,


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

VII.

13.4.2012

Arrivederci - Analisi del testo

13:45

Pagina 87

87

in cui viene capito con sempre maggiore chiarezza: I. dalla domanda profetica e proverbiale della madre a Rodolfo: non lo sai che chi di spada ferisce di spada perisce? (30-31); II. dalla domanda sospettosa di Gigi a Rodolfo: mica vorrai fare una pazzia? (94-95); III. dalla domanda di Rodolfo a Gigi: Fratelli, coltelli… non lo sai il proverbio? (103), che si ricollega a quella della madre perché in entrambe si cita un proverbio che fa riferimento a oggetti di offesa (spada; coltelli); IV. dal ricordo che Rodolfo ha della sua attività carceraria quale falegname costruttore di bare, quando pensava che una di esse potesse essere la sua (135-139); V. dal lavoro di Guglielmo: assorto a rifare il filo ad un suo coltello (149), cioè l’arma che lo uccide subito dopo. Quando Rodolfo afferra un coltello, immediatamente si chiarisce ciò che è stato anticipato in I e III, quasi con la solennità di una tragedia classica. E, del resto, la vicenda si articola in cinque fondamentali momenti, proprio come i cinque atti di una tragedia. Il succedersi dei momenti del dramma è attentamente soppesato in modo da stringere i fatti sempre più strettamente nel tempo e nel luogo: da 1 a 2 il tragitto è lungo (da Portolongone a Roma) e non è narrato; da 2 a 4 il tragitto è breve (entro Roma) ed è narrato in 3; da 4 a 5 il tragitto è brevissimo e non è narrato. Dopo il paragrafo 5, Moravia colloca un epilogo che rende circolare il racconto facendolo tornare quasi al punto di prima (il nuovo carcere e, questa volta, romano). Di per sé una simile scelta non comporta una tonalità comica o burlesca e potrebbe anzi essere il mezzo per rafforzare la dimensione tragica che lo svolgimento del racconto ha portato all’apice. Ma nel caso concreto Moravia sceglie un registro tragicomico perché nel paragrafo 1 la trovata dell’«arrivederci» lascia prevedere l’esito del paragrafo 6, tanto che lo svolgimento via via sempre più tragico non spegne nel lettore l’attesa che gli è stata offerta e che è stata confidata al titolo dello scritto. Il racconto assume dunque il sapore di tragicommedia e si conclude in modo leggero, col protagonista che racconta ai compagni di carcere la sua disavventura per sfogarsi, quasi indifferente alla persa libertà (il termine in 174 si ricollega a 4). Persino il problema del subcosciente (173) si svuota della sua serietà.

3. 3.1.

Roma La descrizione della città

La descrizione di Roma si fonda sull’affermazione iniziale che le cose mi sarebbero apparse, almeno nei primi giorni, in una maniera particolare, secondo il sentimento che avrei provato rivedendole: allegre, nuove, belle, appetitose. Invece nulla, manco non fossi state a Portolongone per tanto tempo, ma, poniamo, avessi passato qualche giorno ai bagni di Ladispoli (45-49); tale affermazione codifica l’immobilità delle cose nel tempo e trova conferma più avanti nell’altra, fondamentale: «Il tempo non esiste», dissi, «sono arrivato oggi ed è come se fosse successo ieri… per i sentimenti il tempo non esiste.» (86-87). In entrambe il discorso verte sul sentimento, immune dai cambiamenti di luogo e tempo, lontano dalla storia e dal suo farsi, vincolato ad una predestinazione senza scampo (che è la chiave del racconto, la cui matrice esistenziale realistica e laica è in Verga). Solo dopo l’affermazione iniziale si ha la canonica descrizione paesaggistica: Era una delle solite giornate di scirocco romano, col cielo color strofinaccio sporco, l’aria greve, e la fiacca persino nelle pietre delle


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 88

Alberto Moravia case (49-51). Bella per la rapidità con cui condensa l’idea ribadita di immutabilità (solite) e per il paragone (color strofinaccio sporco) di tono colloquiale e dimesso che attinge al contesto casalingo che Rodolfo si è appena lasciato alle spalle, con allusione sicura al ritratto fisico della madre (20-24); e bella anche per la presenza del topos, meridionaleggiante, della fiacca, e per quel mutare di tono dall’alto al basso, dall’aristocratico al banale. Poi viene la carrellata su cose e persone romane (51-59), anch’essa contrassegnata dal tutto come prima e come sempre (51), secondo una progressione dalle cose e persone viste come una «scena di genere» (52-56) alle persone viste come «ritratto» (56-58). È la Roma popolare degli anni Cinquanta, depressa ma in via di rinascita (seppure difficilmente) e già sensibile al vento d’oltre oceano: i giornalai con le riviste illustrate piene di attrici americane (55-56). Da ultimo vi è una conclusione (58-60), diligente come quella di una composizione in classe (perché pensata con la mente semplice di Rodolfo), che ribadisce il Leitmotiv dell’immobilità: Insomma, era la solita Roma e i soliti romani: come li avevo lasciati, così li ritrovavo (58-59). E non stupisce allora che Gigi dica a Rodolfo: sei sempre lo stesso, non sei cambiato per niente (79). Del resto, durante la sua lontananza dalla città, anche la tuta da lavoro è rimasta appesa al chiodo, con le macchie di colla e di grasso che mi ero fatto due anni prima (40). 3.2.

Collocazione della descrizione

Rodolfo, uscito dal carcere di Portolongone, rientra subito a Roma. Moravia non dice nulla della città in questa occasione; vi è solo un debole riferimento (al punto 2), come introduzione (non necessaria) all’incontro coi famigliari: Quell’arrivederci mi continuò a risuonare nell’orecchio per tutto il viaggio e poi anche a Roma, come mi ritrovai in casa (11-12). La mancanza di riferimenti alla città sembra un’occasione sprecata (gli eventi stessi ne giustificherebbero la presenza), ma risponde ad un calcolo preciso. Una descrizione di Roma in questo punto avrebbe rallentato il ritmo da tragedia per ottenere il quale è stato ritenuto invece più opportuno l’impatto diretto del protagonista coll’ostile ambiente famigliare; una descrizione di Roma in questo punto avrebbe potuto conferire alla pagina un aspetto solo decorativo e dare alla vicenda uno scadente taglio oleografico. Moravia però non rinuncia al brano descrittivo quasi scontato, che colloca (al punto 3) dopo il fallito incontro di Rodolfo colla famiglia, quando il protagonista cerca fuori casa ciò che in casa non può trovare. Spostato in quella nuova sede, il brano su Roma acquista valore particolare perché diventa funzionale alla vicenda drammatica. Dopo essere uscito di casa, egli deve ora uscire anche dal proprio quartiere (Abitiamo dalle parti di via Giulia 43), a tu per tu con la città immobile, dove i fatti non possono che ripetersi (come dice la descrizione che conosciamo), e attraversare il ponte Garibaldi per inserirsi in un nuovo ambiente: passai il ponte e andai in Trastevere al vicolo del Cinque (62-63). Il passaggio del Tevere assume allora un significato simbolico che sfugge al protagonista, abituato a quel tragitto quotidiano per recarsi al lavoro; egli sente solo confusamente la forza oscura che lo sta trascinando verso il delitto, e percorre meccanicamente quel tragitto come se stesse andando al lavoro e includesse nel viaggio una sosta all’osteria. Ma il lettore capisce che le cose stanno altrimenti; egli possiede una lucidità sul meccanismo del


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

VII.

13.4.2012

Arrivederci - Analisi del testo

13:45

Pagina 89

89

racconto diversa da quella del protagonista, che continua a non sapere nulla della parte che l’autore ha scelto per lui. Roma, nella sua immobilità, lo riconsegna al proprio carcere.

4.

La famiglia

Il clima familiare è insopportabile per Rodolfo, sia sul piano morale che su quello sociale. Il padre lavora in una falegnameria con pochi operai (37-38), ma nonostante ciò non è in grado di garantire alla famiglia una vita accettabile. Lo si vede, indirettamente, da come tutti reagiscono al ritorno di Rodolfo e, con più forza, dal ritratto della madre (20-34). Vista quando umilmente lava i piatti, l’occhio del figlio è spietato nel metterne in risalto lo squallore, muovendo dal generale (piccola e stracciona 20-21) al particolare (i capelli grigi in disordine, i piedi infilati in due enormi pantofole di feltro per via dei reumatismi 21-22). Il ritratto fisico si completa col ritratto morale, leggibile attraverso il predicozzo fatto al figlio, tutto improntato sull’amore cristiano e condito con un richiamo al proverbio popolare, al dolore di Maria e al perdono di Gesù. Rodolfo lo ascolta per amore materno, ma non può condividerlo e abbandona perciò la casa. Padre, fratello e sorella restano in posizione secondaria rispetto alla madre, per preciso calcolo di rapporti di forza: i primi se ne vanno alla vista di Rodolfo, la seconda è causa dell’allontanamento del figlio, scacciato da un amore materno inefficace per la superficialità con cui viene manifestato. Odio e amore, considerazione e indifferenza si equivalgono nell’identificare una famiglia dissestata, forse responsabile indirettamente della prima carcerazione di Rodolfo, con qualche probabilità della seconda. Ma il racconto non attribuisce colpe e perciò neppure addita rimedi per una situazione compromessa e senza via d’uscita alla violenza se non attraverso altra violenza, senza scampo alla solitudine se non subendo una solitudine più profonda.

5.

L’osteria: vino e violenza

Il Tevere taglia in due la Roma di Rodolfo: a quella asfittica dei rapporti incrinati e dei sentimenti alterati o spenti si sostituisce quella gradevole dei rapporti rinsaldati e dei sentimenti rinati. La privata abitazione cede il posto, una volta varcato il ponte sul fiume, alla pubblica osteria. Ma l’osteria a quell’ora era deserta (68), e quando entrarono due clienti (104) Gigi si allontanò da Rodolfo, segno di un rapporto privato a due che non ammette intrusi, che richiama quello precedente di madre e figlio. L’incontro tra Rodolfo e la madre, nato sotto il segno dell’affetto (affettuosa 12), si conclude con un nulla di fatto: Maria e Gesù sono inefficaci a ricondurre il protagonista al pentimento. L’incontro tra Rodolfo e Gigi nasce sotto lo stesso segno, ed è significativo che l’abbraccio fraterno fra i due richiami la figura della madre: e io mi sentii rincuorato perché, salvo la mamma, questo era il primo cristiano che al mio ritorno mi avesse dimostrato un po’di affetto (71-72). L’esito è però diverso perché Rodolfo lascia l’osteria deciso al perdono da sancire con un abbraccio e un bicchiere di vino: vi abbracciate, da amici, e poi venite qui e bevete insieme il bicchiere della riconciliazione (143-144). Sappiamo tuttavia che il perdono non sarà mai concesso e il bicchiere


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 90

Alberto Moravia di pace mai bevuto. Rodolfo beve invece vino in abbondanza prima di recarsi da Guglielmo, e fino a quel momento l’impressione e che ciò che non ha potuto la fede è reso possibile dal vino. Ma non sarà così. I momenti in cui si suddivide il paragrafo 4 del riassunto sono individuabili attraverso il cerimoniale del bere e tramite Gigi che va e viene portando il vino: si alzò e andò a prendere il vino (91-92; fine di 4.1), dopo aver vuotato di un fiato il bicchiere, mi lasciò (104-105; fine di 4.2), Così finii il mezzo litro e ne ordinai un secondo (111; fine di 4.3), Gigi me lo portò (111; inizio di 4.4), Ripresi a bere (118; inizio di 4.5), Il secondo mezzo litro era finito, chiamai forte (131; fine di 4.5). Il protagonista beve una prima volta in 4.3 (con effetto in 4.4: decide di perdonare) ed una seconda in 4.5 (con effetto in 4.6: è pronto a recarsi da Guglielmo). La costruzione della scena è fortemente teatrale, insistita più di quanto richiedano le necessità realistiche del bere un litro di vino; ma la dilatazione è ancora una volta un procedimento adottato in funzione della tensione tragica che si va accompagnando agli atti dei due amici. Per Rodolfo si tratta di una progressiva perdita di lucidità mentale, resa più forte dal continuo martellamento che le parole di Gigi operano nella mente di lui. È proprio questa alienazione mentale che conduce al pentimento; ma anche il vino (come già la fede) non è in grado di modificare Rodolfo: incapace di salire mentalmente a Dio e di scendere fisicamente al vino, egli resta fedele a sé stesso, in quella immutabilità che è già stata messa in evidenza. La casa e l’osteria non si sono rivelati luoghi di conversione, così che la bottega dove sta Guglielmo diventa luogo del delitto. Procedendo il protagonista verso l’irresponsabilità, il testo mette in luce tre momenti degni di nota, rispettivamente in 4.3, 4.5, 4.6 (dunque non in zone simmetriche). Si corrispondono i due estremi, contro la zona centrale: in 4.3 durante un accesso di furore (107) Rodolfo pensa alla morte dell’antagonista: stringeva forte il bicchiere di vetro grosso, come se fosse stato il collo di Guglielmo (108-109); in 4.6 quando ormai non può più fare a meno di piangere (135) Rodolfo pensa alla propria morte rievocando un aspetto della recente vita carceraria: mi ero riveduto a Portolongone, nell’officina della prigione, vestito del pigiama di galeotto, intento a piallare tavole per bare. […] E io piangevo ricordandomi come, fabbricando queste bare, spesso mi ero augurato che una di esse fosse la mia (135-140). In 4.5, cioè al centro di questi momenti dove la morte vuole prendere il sopravvento, sta un brano che è chiave di tutto il racconto: Ero un disgraziato, senza torto né ragione, come tanti, come tutti; e anche Guglielmo era un disgraziato; e Gigi era anche lui un disgraziato; e mio padre e mio fratello e mia sorella e mia madre: tutti disgraziati (122-124). Nel tono straziante di litania, ottenuto coll’uso dell’epifora, tutti i personaggi che agiscono nel racconto sono coinvolti nel medesimo giudizio: dapprima il protagonista, l’antagonista e l’intermediario (nucleo d’oltre Tevere), poi i membri della famiglia, con la madre ultima ma lei pure nel novero dei condannati. Agli anelli così ben congegnati di questa catena esistenziale non può che tener dietro l’omicidio: voluto coscientemente da Moravia e inconsciamente dal protagonista della vicenda, come appunto gli chiarisce un nuovo compagno di carcere (170-172).


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

VIII.

Pioggia di maggio

VIII.

Pioggia di maggio

13:45

Pagina 91

91

Alberto Moravia (1907-1990)

Uno di questi giorni tornerò a Monte Mario, all’Osteria dei Cacciatori, ma ci andrò con gli amici, quelli della domenica, che suonano la fisarmonica e, in mancanza di ragazze, ballano tra di loro. Solo, non ne avrò mai il coraggio. Di notte, talvolta, mi sogno le tavole dell’osteria, con la pioggia calda di maggio che ci batte sopra, e gli alberi aggrondati che gocciolano sulle tavole, e tra gli alberi, in fondo, le nuvole bianche che passano e, sotto le nuvole, il panorama della case di Roma. E mi pare di udire la voce dell’oste, Antonio Tocchi, come la udii quella mattina, che chiama dalla cantina, furiosa: «Dirce, Dirce»: e mi pare di rivedere lei che mi lancia lo sguardo d’intesa, prima di avviarsi giù in cantina, con quel suo passo duro che risuona sugli scalini. Ci ero capitato per caso, venendo dal paese; e quando mi offrirono di fare il cameriere alla pari, senza pagarmi, pensai: «Soldi non ne avrò, ma almeno starò in famiglia.» Sì, altro che famiglia, invece della famiglia trovai l’inferno. L’oste era grasso e tondo come una palla di burro, ma di una grassezza cattiva, acida. Aveva una faccia larga, grigia, con tante grinze sottili che gli giravano tutt’intorno il viso per il verso della grassezza e due occhietti piccoli, puntuti, simili a quelli dei serpi: sempre in farsetto e maniche di camicia, con un berrettino a visiera, grigio, calcato sugli occhi. La figlia Dirce, quanto a carattere, non era meglio del padre anche lei dura, cattiva, aspra; ma bella: di quelle donne piccole e muscolose, ben fatte, che camminano battendo l’anca e il piede, come a dire: «Questa terra è mia.» Aveva una faccia larga, con gli occhi neri e i capelli neri, pallida che sembrava una morta. Soltanto la madre, in quella casa, forse era buona: una donna che aveva sì e no quarant’anni e ne mostrava sessanta, magra, con un naso da vecchia e capelli penzolanti da vecchia; ma forse era soltanto scema, almeno c’era da pensarlo vedendola ritta davanti ai fornelli con tutta la faccia tirata in un suo riso muto; se si voltava, si vedeva che aveva un dente o due e basta. L’osteria si affacciava sulla strada con una insegna ad arco, colore sangue di bue, con la scritta: «Osteria dei Cacciatori, proprietario Antonio Tocchi,» a lettere gialle. Poi, per un viale, si arrivava alle tavole, sotto gli alberi, davanti al panorama di Roma. La casa era rustica, tutto muro e quasi senza finestre, col tetto di tegoli. D’estate era il tempo migliore; veniva su gente dalla mattina fino a mezzanotte: famiglie con bam-

5

10

15

20

25


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 92

Alberto Moravia bini, coppie di innamorati, gruppi di uomini, e sedevano ai tavoli e bevevano il vino e mangiavano la cucina di Tocchi guardando il panorama. Non avevamo il tempo di rifiatare: noi due uomini sempre a servire, le due donne sempre a cucinare e a risciacquare; e la sera eravamo stracchi e ce andavamo a letto senza neppure guardarci. Ma l’inverno oppure anche alla buona stagione, se pioveva, incominciavano i guai. Il padre e la figlia si odiavano, ma odiare è poco dire, si sarebbero ammazzati. Il padre era autoritario, avaro, stupido, e per ogni nonnulla allungava le mani; la figlia era dura come un sasso, chiusa, sempre lei ad avere l’ultima parola, proterva. Si odiavano, forse, soprattutto perché erano dello stesso sangue e, si sa, non c’è nulla come il sangue per odiarsi, ma si odiavano anche per questioni d’interesse. La figlia era ambiziosa: diceva che loro con quel panorama di Roma avevano un capitale da sfruttare e invece lo lasciavano ai cani. Diceva che il padre avrebbe dovuto costruirci una pedana di cemento per il ballo, e affittare un’orchestra e appendervi palloncini veneziani, e trasformare la casa in ristorante moderno, e chiamarlo Ristorante Panorama. Ma il padre non si fidava un po’ perché era avaro e nemico delle novità; un po’ perché era la figlia che glielo proponeva, e lui si sarebbe fatto scannare piuttosto che darla vinta alla figlia. Gli scontri tra il padre e la figlia avvenivano sempre a tavola: lei attaccava, con cattiveria, offendendo, su qualche cosa di personale, mettiamo sul fatto che il padre mangiando faceva un rutto; lui rispondeva a parolacce e bestemmie; la figlia insisteva; il padre le dava un ceffone. Bisogna dire che doveva provarci gusto a schiaffeggiarla, perché faceva una certa faccia acchiappandosi coi denti il labbro di sotto e strizzando gli occhi. Ma alla figlia quello schiaffo era come l’acqua fresca su un fiore: rinverdiva d’odio e di cattiveria. Allora il padre l’acciuffava per i capelli e menava giù botte. Cascavano piatti e bicchieri, la madre ne toccava anche lei, mettendosi in mezzo, ma da scema, con quel riso eterno sulla bocca sdentata; e io, il cuore gonfio di veleno, uscivo e me ne andavo a spasso sullo stradone che porta alla Camilluccia. Sarei andato via da un pezzo se non mi fossi innamorato della Dirce. Non sono tipo da innamorarmi facilmente, perché sono positivo e le parole e gli sguardi non m’incantano. Ma quando una donna, invece che parole o sguardi, dà se stessa, tutt’intera, in carne e ossa e, per giunta, di sorpresa, allora uno ci rimane preso, come in una tagliola, e più sforzi fa per liberarsi e più si fa affondare i denti della tagliola dentro la carne. La Dirce doveva avere l’intenzione prim’ancora di conoscermi, o io o un altro per lei era lo stesso, perché, il giorno stesso del mio arrivo, mi entrò di notte in camera che già dormivo; e così, tra il sonno e la veglia, che quasi non capivo se fosse sogno o realtà, mi fece trapassare di botto dall’indifferenza alla passione. Non ci furono insomma tra di noi né discorsi, né occhiate, né toccatine di mani, né tutti gli altri sotterfugi cui ricorrono gli innamorati per dirsi che si vogliono bene; fu invece come con una donna di malaffare, da pochi soldi. Soltanto la Dirce non era una donna di malaffare e anzi era conosciuta per virtuosa e superba, e questa differenza fu per me, appunto, la tagliola in cui rimasi preso. Sono di carattere paziente, ragionevole; ma sono anche violento e, se mi stuzzicano, il sangue mi monta alla testa facilmente. Lo si vede già nel fisico; biondo, con la faccia pallida, ma basta niente perché diventi scarlatto. Ora la Dirce mi stuzzicava e presto capii perché: voleva che mi mettessi contro suo padre. Diceva che ero un vigliacco a tollerare che in mia presenza suo padre la schiaffeggiasse e poi l’acciuffasse per i capelli e magari, come avvenne una volta, la buttasse a terra e la prendesse a calci.

30

35

40

45

50

55

60

65

70

75


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

VIII.

Pioggia di maggio

13.4.2012

13:45

Pagina 93

93

E non dico che non avesse ragione: eravamo amanti e dovevo difenderla. Ma io capivo che altro era il suo scopo; e tra la rabbia che mi faceva quell’insulto di vigliacco e la rabbia di sapere che lo diceva apposta, non campavo più. Poi, un bel giorno cambiò discorso: come sarebbe stato bello se avessimo potuto sposarci e metter su il Ristorante Panorama, io e lei, soli. Era diventata buona buona, gentile, amorosa, dolce. Fu quello il tempo migliore del nostro amore; ma io non la riconoscevo più e pensavo: gatta ci cova. E infatti, tutto ad un tratto, cambiò musica una terza volta e disse che, sposati o non sposati, non potevamo sperar nulla finché ci fosse stato il padre; e, insomma me lo disse francamente: dovevamo ammazzarlo. Fu come la prima notte che era entrata in camera mia, senza preparazione né infingimenti: buttò lì quella proposta e se ne andò lasciandomi a ripensarla da solo. Il giorno dopo le dissi che si sbagliava se credeva che l’aiutassi in una cosa come quella e lei mi rispose che in tal caso facessi conto di andarmene via subito perché per lei non esistevo più. E tenne parola perché da quel giorno manco mi guardava. Quasi non ci parlavamo e di rimbalzo presi ad odiare il padre perché mi pareva fosse colpa sua. Per una combinazione, in quel tempo, il padre ne faceva una ogni giorno e pareva che lo facesse apposta a farsi odiare. Si era di maggio che è la buona stagione e la gente sale all’osteria per bere il vino e mangiare la fava fresca; ma invece non faceva che piovere a rovesci su quella campagna verde e folta: all’osteria non ci veniva un cane e lui era sempre di malumore. Una mattina, a tavola, lui spinge indietro il piatto dicendo: «Lo fai apposta a darmi questa schifezza di minestra attaccata.» E lei: «Se lo facessi apposta, ci metterei il veleno.» Lui mi guarda e le dà un ceffone, forte, che le fa saltare via il pettine. Eravamo quasi al buio per via della pioggia e il viso della Dirce in quel buio era bianco e fermo come il marmo, con i capelli che da una parte, dove era caduto il pettine, si disfacevano lenti lenti, simili a serpenti che si sveglino. Io dissi al Tocchi: «Ma la vuoi piantare una buona volta?» Lui rispose: «Non sono fatti tuoi,» ma stupito perché era la prima volta che intervenivo. Io provai allora quasi un senso di vanità, come a difendere un essere debole, che non era proprio il caso; e pensai che così l’avrei riavuta e che era il solo modo per riaverla e dissi forte: «Piantala, hai capito, non te lo permetto.» Ero rosso di fuoco, col sangue agli occhi, e la Dirce sotto la tavola mi prese la mano e capii che ci ero cascato, ma ormai era troppo tardi. Lui si alzò e disse: «Vuoi vedere che te ne do uno anche a te?» Mi prese sulla guancia, un po’ di traverso, e io afferrai un bicchiere e gli tirai tutto il vino in faccia. A quel bicchiere e a quel vino, si può dire che ci pensavo da un mese, tanto mi piaceva il gesto e tanto odiavo il Tocchi. E ora lui il vino l’aveva sulla faccia e io il gesto l’avevo fatto e scappavo su per la scala. Lo udii gridare: «Ti ammazzo sai, vagabondo, pezzente»; allora chiusi la porta di camera mia e andai alla finestra a guardare la pioggia che cadeva e dalla rabbia presi un coltello che avevo nel cassetto e lo piantai nel davanzale con tanta forza che si ruppe la lama. Basta, eravamo lassù, su quel Monte Mario del malaugurio, e forse, se stavo a Roma, non avrei accettato, ma lassù tutto diventava naturale e quello che il giorno prima era impossibile, il giorno dopo era già deciso. Così io e la Dirce ci mettemmo d’accordo e stabilimmo insieme il modo e il giorno e l’ora. Tocchi, la mattina, scendeva in cantina a prendere il vino per la giornata, insieme con la Dirce che gli portava il bottiglione. La cantina era sottoterra e per scenderci c’era una scaletta montata su un telaio e appoggiata al muro: saranno stati sette scalini. Decidemmo che li avrei

80

85

90

95

100

105

110

115

120


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 94

Alberto Moravia raggiunti e, mentre il Tocchi si chinava a spillare il vino, gli avrei dato sulla testa con un paletto corto, di ferro, che serviva ad attizzare i carboni. Poi avremmo ritirato la scaletta e avremmo detto che lui era cascato e si era rotto la testa. Io volevo e non volevo; e dalla rabbia dissi: «Lo faccio per mostrarti che non ho paura… ma poi me ne vado e non torno più.» E lei: «Allora è meglio che non fai niente e te ne vai subito… io ti voglio bene e non voglio perderti.» Sapeva, quando voleva, fingere la passione: e così io dissi che l’avrei fatto e poi sarei rimasto e avremmo aperto il ristorante. Il giorno fissato Tocchi disse alla Dirce che prendesse il bottiglione e si avviò verso la porta della cantina, in fondo all’osteria. Pioveva, al solito, e l’osteria era quasi al buio. La Dirce prese il bottiglione e seguì il padre; ma prima di scendere, si voltò e mi fece un gesto d’intesa, chiaro. La madre, che stava davanti il fornello, vide il gesto e rimase a bocca aperta, guardandoci. Io mi alzai dalla tavola, andai al fornello e presi l’attizzatoio sotto il camino, passando davanti alla madre. Questa mi guardava, guardava la Dirce, e faceva tanto d’occhi, ma si capiva di già che non avrebbe parlato. Il padre urlò dalla cantina: «Dirce, Dirce» e lei rispose: «Vengo.» Ricordo che mi piacque fisicamente per l’ultima volta, mentre si avviava giù per la scala, con quel suo passo duro e sensuale, piegando il collo bianco e tondo sotto l’architrave. In quel momento, la porta che dava sul giardino si aprì ed entrò un uomo con un sacco bagnato sulle spalle: un carrettiere. Senza guardarmi, disse: «Giovanotto, mi dia una mano», e io, macchinalmente, quel ferro in mano, lo seguii. Lì accanto, in un podere, ci costruivano una stalla, e il carro carico di pietre si era interrato al passo del cancello e il cavallo non ce la faceva più. Questo carrettiere sembrava fuori di sé, un uomo storto e brutto, quasi una bestia. Posai il ferro sopra un paracarro, misi due pietre sotto le ruote e spinsi; il carrettiere tirava il cavallo per la cavezza. Pioveva a dirotto sulle siepi di sambuco verdi e folte e sulle acacie in fiore che odoravano forte; il carro non si muoveva e il carrettiere bestemmiava. Prese la frusta e menò il cavallo col manico; poi, inferocito, afferrò quel ferro che avevo posato sul paracarro. Si vedeva che era fuori di sé non per quel carro, ma per tutta la vita sua, e che odiava il cavallo come un persona. Pensai: «Ora l’ammazza» e feci per gridare: «No, lascia quel ferro.» Ma poi pensai che se lui avesse ammazzato il cavallo, io ero salvo. Mi pareva che tutta la mia furia stesse passando in corpo a quel carrettiere che sembrava un ossesso; e infatti lui si buttò sulle stanghe, spinse ancora e poi menò al cavallo, in testa, con il ferro. Io, al colpo, chiusi gli occhi e vidi che il cavallo era caduto sulle ginocchia e che lui sempre gli menava, ma ora non per farlo alzare, proprio per ammazzarlo. Il cavallo cascò giù di fianco, scalciò all’aria, ma debolmente e poi abbandonò la testa nel fango. Il carrettiere ansimante, la faccia sconvolta, gettò il ferro e diede uno strattone al cavallo, ma senza convinzione: sapeva di averlo ammazzato. Io gli passai accanto, senza neppure sfiorarlo, e presi a camminare per lo stradone. Passò il tram che andava a Roma e io ci salii di corsa e poi guardai indietro e vidi per l’ultima volta l’insegna: «Osteria dei Cacciatori, proprietario Antonio Tocchi,» tra il fogliame di maggio, lavato dalla pioggia.

Testo di riferimento A. MORAVIA, Racconti romani, Milano, Bompiani, 1974, pp. 19-26.

125

130

135

140

145

150

155

160


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

VIII.

Pioggia di maggio - Analisi del testo

VIII.

Analisi del testo

1.

Riassunto dell’intreccio

13:45

Pagina 95

95

1. Il cameriere dice che tornerà sul luogo della vicenda, al quale pensa (1-10). 2. Il cameriere all’osteria romana di Monte Mario: personaggi e ambiente (10-34). 3. Antonio Tocchi odia la figlia Dirce (34-55). 4. Il cameriere si innamora di Dirce (56-69). 5. Dirce aizza il cameriere ad ammazzare il padre (70-86). 6. Il cameriere rifiuta provocando il rancore di Dirce (87-91). 7. Antonio Tocchi litiga con Dirce (91-100) e il cameriere si intromette a difenderla (100-107) litigando col Tocchi (108-114). 8. Il cameriere si accorda con Dirce per uccidere il padre (115-128). 9. Il cameriere tenta di attuare l’omicidio (129-138). 10. Un carrettiere col proprio cavallo sopraggiunge e chiede aiuto al cameriere per disincagliare il carro dal fango (139-147). 11. Il carrettiere imbestialito uccide il cavallo (148-158). 12. Il cameriere lascia l’osteria e prende il primo tram che lo porta in città (158-161).

2.

Il contesto morale e sociale

Siamo in una Roma periferica dove è sensibile il degrado morale e sociale del periodo postbellico e la difficoltà della ripresa economica. Il cameriere è un inurbato da un paese della campagna romana e viene in città presso la famiglia dei suoi datori di lavoro, disposto a non percepire stipendio (mi offrirono di fare il cameriere alla pari, senza pagarmi 10-11), pur di recuperare un ambiente che gli sembra di aver perso (almeno starò in famiglia 11-12). Ma questo ambiente (il cameriere narra a vi-


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 96

Alberto Moravia cenda conclusa, lontano dall’osteria: Uno di questi giorni tornerò a Monte Mario, all’Osteria dei Cacciatori 1) è connotato dalla peggior qualifica (invece della famiglia trovai l’inferno 12). Si giunge al delitto attraverso l’amore dei due giovani, inteso però soltanto come sensualità: Non sono tipo da innamorarmi facilmente, perché sono positivo e le parole e gli sguardi non m’incantano. Ma quando una donna, invece che parole o sguardi, dà se stessa, tutt’intera, in carne e ossa e, per giunta, di sorpresa, allora uno ci rimane preso, come in una tagliola, e più sforzi fa per liberarsi e più si fa affondare i denti della tagliola dentro la carne (56-61). Il narratore, nonostante dica che Dirce era conosciuta per virtuosa e superba (68), sente che il rapporto con lei fu invece come con una donna di malaffare (66-67). È una dichiarazione che condiziona la valutazione di tutta la vicenda, e sembra significare che le doti di una persona non possono sopravvivere in presenza di un tessuto umano compromesso, come è quello del padre e della madre di Dirce: Il padre e la figlia si odiavano, ma odiare è poco dire, si sarebbero ammazzati (34-35). La nuova generazione, insomma, appena sfiorata dalla guerra, deve subire le conseguenze di chi nella guerra c’è stato fino al collo: le colpe dei padri ricadono sui figli. Dirce intravede la possibilità di modificare la sua situazione sociale solo innamorandosi del cameriere e coinvolgendolo nel delitto del padre al punto da farne l’esecutore materiale: disse che, sposati o non sposati, non potevamo sperar nulla finché ci fosse stato il padre; e, insomma, me lo disse francamente: dovevamo ammazzarlo (82-84). Amore e morte si tengono stretti, in chiave neorealistica, beninteso, non con raffinatezze decadenti: Fu come la prima notte che era entrata in camera mia, senza preparazione né infingimenti: buttò lì quella proposta e se ne andò lasciandomi a ripensarla da solo (84-86). Il cameriere si convince che deve uccidere il Tocchi assistendo alle liti di lui con la figlia. Una di queste è narrata in modo rapido; una seconda in modo meno veloce e col ricorso al dialogo serrato tra i due contendenti. Vi si intromette il cameriere, il quale capisce che difendendo Dirce l’avrebbe riavuta (104), ma sa anche che quello era il solo modo per riaverla (104). L’amore di Dirce è perciò un ricatto che colpisce nel segno perché il cameriere si mise ad odiare il padre (90); odio necessario per trovare la forza di ucciderlo. È proprio il cameriere a rompere ogni residuo rapporto di intesa col Tocchi, gettandogli teatralmente il vino in faccia, con azione premeditata: si può dire che ci pensavo da un mese, tanto mi piaceva il gesto e tanto odiavo il Tocchi (109-110).

3.

I ritratti dei personaggi

Il primo ritratto delineato è quello del Tocchi: L’oste era grasso e tondo come una palla di burro, ma di una grassezza cattiva, acida. Aveva una faccia larga, grigia, con tante grinze sottili che gli giravano tutt’intorno il viso per il verso della grassezza e due occhietti piccoli, puntuti, simili a quelli dei serpi: sempre in farsetto e maniche di camicia, con un berrettino a visiera, grigio, calcato sugli occhi (12-16). Su di esso si inserisce direttamente il ritratto di Dirce: La figlia Dirce, quanto a carattere, non era meglio del padre, anche lei dura, cattiva, aspra; ma bella: di quelle donne piccole e muscolose, ben fatte, che camminano battendo l’anca e il piede come a dire: «Questa terra è mia.» Aveva una faccia larga, con gli occhi neri e i capelli neri, pallida che sembrava una morta (16-20). Senza soluzione di continuità si innesta poi il


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

VIII.

13.4.2012

Pioggia di maggio - Analisi del testo

13:45

Pagina 97

97

ritratto della madre: Soltanto la madre, in quella casa, forse era buona: una donna che aveva sì e no quarant’anni e ne mostrava sessanta, magra, con un naso da vecchia e capelli penzolanti da vecchia; ma forse era soltanto scema, almeno c’era da pensarlo vedendola ritta davanti ai fornelli con tutta la faccia tirata in un suo riso muto; se si voltava, si vedeva che aveva un dente o due e basta (20-24). Il procedimento è consueto nei Racconti romani, ma non è comune la collocazione strettamente ravvicinata dei ritratti della maggior parte dei personaggi del racconto. La tecnica adottata è quella della descrizione grottesca. Nel ritratto dell’oste è ottenuta attraverso l’insistenza sulla bruttezza fisica che giunge fino al deforme; si fa un largo uso di aggettivi (grasso, tondo, cattiva, acida, larga, grigia, sottili, piccoli, puntuti, grigio), si ricorre al paragone (come una palla di burro; simili a quelli dei serpi) e alla ripetizione (grasso, grassezza, grassezza; grigia, grigio). Nel ritratto della figlia la descrizione è ottenuta attraverso un misto di avvenenza e repulsione; col ricorso di nuovo alla qualifica degli aggettivi (dura, cattiva, aspra, bella, piccole, muscolose, larga, neri, pallida), al paragone (sembrava una morta) e alla ripetizione (neri, neri); il sintagma faccia larga è ripreso tale e quale dal ritratto del padre. Nel ritratto della madre la descrizione è ottenuta attraverso la decadenza fisica e mentale; si ricorre ancora agli aggettivi e al paragone (poco significativo), ma in genere il ritratto della madre si stacca dai due precedenti. I dati fisici inerenti i tre ritratti sono disposti in climax ascendente: la grassezza del padre, il pallore da morta della figlia, il disfacimento della madre; i dati morali in climax discendente: cattiveria nel padre e nella figlia, bontà (messa però in dubbio) nella madre. A conti fatti un quadro desolato per tutti e tre. Un secondo ritratto di padre e figlia rincara la dose a poca distanza dal primo: Il padre era autoritario, avaro, stupido, e per ogni nonnulla allungava le mani; la figlia era dura come un sasso, chiusa, sempre lei ad avere l’ultima parola, proterva (35-37). A partire da queste considerazioni viene specificato l’odio tra i due a causa di divergenze di vedute e di interessi, in ultima analisi per questione di danaro. Solo più tardi troviamo il ritratto del narratore: Sono di carattere paziente, ragionevole; ma sono anche violento e, se mi stuzzicano, il sangue mi monta alla testa facilmente. Lo si vede già nel fisico; biondo, con la faccia pallida, mi basta niente perché diventi scarlatto (70-72). Via via, colla proposta dell’omicidio, si completa il carattere di Dirce (che tiene in pugno la situazione) e del cameriere (che è costretto a subire il ricatto). Nella seconda lite tra i due, poi, i capelli di Dirce, scioltisi con un ceffone, sono simili a serpenti che si sveglino (100), con riferimento all’animale per accentuare il disprezzo morale. Da ultimo, quando Dirce scende in cantina, il ritratto di lei si completa con riferimenti erotici: con quel suo passo duro e sensuale, piegando il collo bianco e tondo (137-138). Pertanto la figura di Dirce è quella su cui l’analisi è più accentuata; e a differenza di quella degli altri personaggi si rivela nella sua complessità solo man mano che la vicenda si snoda, fino ad assumere tratti stregoneschi: una Dirce-Circe. Anche il carrettiere, pur da ultimo conformemente alla tardiva entrata in scena, non si sottrae ad essere ritratto con toni affini a quelli degli altri: un uomo storto e brutto, quasi una bestia (144). Ma con lui si tocca il fondo e l’animalità è totale, non limitata ai soli capelli come è quella di Dirce.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 98

Alberto Moravia 4.

Il vino

Il vino, la materia prima dell’osteria (prelevato dalla cantina, il luogo sotterraneo dove dovrebbe compiersi segretamente il delitto), è il sigillo dell’odio, l’atto materiale di condanna del Tocchi, il surrogato dello spargimento di sangue umano che non si verificherà nonostante la macchina omicida si sia messa in moto proprio in quell’istante. La scena assume valore simbolico, quasi una rivisitazione blasfema del vino evangelico portatore di salvezza eterna. La conseguenza del gesto è tutta nella risposta del Tocchi al cameriere (Ti ammazzo sai, vagabondo, pezzente 111-112), drammatica perché chi la pronuncia è nelle vesti di prossimo ucciso, non di uccisore. Nella rete d’odio sono presi tutti: il Tocchi e il cameriere, entrambi come potenziali uccisori; Dirce, come perfida macchinatrice del delitto; la madre stessa di Dirce, muta nella sua mentecatta omertà. Da ultimo il carrettiere, che è l’uccisore quasi immotivato del proprio cavallo (cioè della propria ricchezza) e colui che dà sfogo alla brutalità che si compie come conseguenza (deviata e inattesa) del vino gettato in faccia.

5.

La pioggia

Il titolo Pioggia di maggio non dice nulla in merito ai personaggi della vicenda né alle loro azioni e specifica invece il momento stagionale-atmosferico in cui avvengono i fatti. L’insistenza del testo nel sottolineare l’evento porta però oltre il semplice realismo e l’acqua battente diventa simbolo di morte, avvolge il dramma umano isolandolo e rendendolo ineluttabile. Il momento più intenso è quello in cui il cameriere, dopo aver gettato il vino in faccia all’oste, si chiude in camera e sfoga la rabbia guardando l’acqua cadere. Certamente conta anche l’aspetto realistico della pioggia perché Roma conosce simili acquazzoni primaverili e perché l’acqua è funzionale alla narrazione, dal momento che il carro senza di essa non si sarebbe arenato nel fango, e perché grazie ad essa l’osteria è deserta, senza testimoni del delitto. La pioggia è pertanto un elemento di primaria importanza da ogni punto di vista; ed è per questo che l’autore ne parla più volte con un’insistenza alla quale il lettore non può sfuggire: le tavole dell’osteria, con la pioggia calda di maggio che ci batte sopra, e gli alberi aggrondati che gocciolano sulle tavole (4-5) è la prima segnalazione, così che la pioggia calda fa il suo ingresso nel racconto come qualcosa di piacevole; poi pero è messa in risalto l’insistenza nel piovere, e si suggerisce un’atmosfera di disagio e di ossessione: non faceva che piovere a rovesci su quella campagna verde e folta (93-94); e in seguito: andai alla finestra a guardare la pioggia che cadeva (112-113); e ancora: Pioveva, al solito, e l’osteria era quasi al buio (130-131); e inoltre: Pioveva a dirotto sulle siepi di sambuco verdi e folte e sulle acacie in fiore che odoravano forte (145-146): dove la ripetizione di «verde» e «folto», già prima segnalati, rende la situazione ferma, immutabile, e dove anche il profumo diventa sgradevolmente inebriante; e da ultimo: tra il fogliame di maggio lavato dalla pioggia (161), con cui termina il racconto nella stessa tonalità gradevole con cui era cominciato, dal momento che il cameriere lascia l’osteria (e con essa tutti i personaggi) con un senso di liberazione per non aver compiuto il delitto ed essersi sottratto all’oppressione di Dirce, verso la quale è svanita ogni forma di amore.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 99

VIII.

Pioggia di maggio - Analisi del testo

6.

La morte: il pre-omicidio, l’omicidio mancato, l’uccisione del cavallo

99

Nel racconto la morte domina incontrastata e si presenta tre volte. La prima quando i rapporti tra cameriere ed oste giungono all’esasperazione e la lite tra i due culmina col vino gettato in faccia all’oste. Si tratta di una provocazione che nasce però come effetto di cause precedenti, tanto che il gesto sembra quello conclusivo con cui si chiudono i conti mediante un omicidio; non per nulla quel vino ferisce a morte come un’arma. L’oste reagisce minacciando di morte il cameriere, il quale, chiusosi in camera, compie nuovamente un gesto omicida, questa volta piantando il coltello nel davanzale della finestra: e dalla rabbia presi un coltello che avevo nel cassetto e lo piantai nel davanzale con tanta forza che si ruppe la lama (113-114). L’arma dell’omicidio si è specificata (dal vino al coltello) ma il gesto omicida è ancora imperfetto (il davanzale in attesa dell’uomo). Queste due azioni col vino e col coltello costituiscono un pre-omicidio, una preparazione e una prova per l’omicidio vero e proprio. La tensione narrativa sale e il lettore a questo punto è persuaso che la storia avrà un suo possibile unico epilogo tragico con spargimento di sangue. Ne ignora il tempo d’attuazione ma ne percepisce l’ineluttabilità. È l’autore stesso che ne conferma l’intuizione, ponendola in bocca al cameriere: Così io e la Dirce ci mettemmo d’accordo e stabilimmo insieme il modo e il giorno e l’ora (117-118). Dirce muove abilmente le sue pedine, irretisce il cameriere, lo coinvolge nelle sue intenzioni finché egli accetta di essere l’esecutore materiale. Viene scelto il luogo (la cantina) e il momento (un travaso di vino), e non viene dimenticata la giustificazione dell’accaduto, da dare a cose fatte, come in ogni delitto premeditato. Il piano è accurato ma succede l’imprevisto: un personaggio fino allora assente dal racconto entra in campo per chiedere aiuto. Il cameriere, invece di scendere in cantina a portar morte, esce dal luogo del delitto e coll’arma del delitto in mano (un paletto di ferro) offre soccorso al richiedente. L’occasione fortuita è accolta dal cameriere sia per una bontà innata che lo spinge al soccorso, sia per la più o meno consapevole opportunità di sottrarsi al delitto. Il carrettiere, estraneo al contesto, è perciò l’inattesa salvezza dell’oste che, in cantina, non sospettando di dover morire non può neppure capire di essere salvato. Il racconto poteva terminare a questo punto, con un omicidio mancato. Ma l’autore non lascia cadere la possibilità di recuperare quell’atto di brutale violenza che egli stesso ha prima predisposto e poi disinnescato. In tal modo la macchina omicida può tornare a funzionare, anche se non come prevedibile. Il carro impantanato non può essere spostato neppure dal cavallo, anch’esso in difficoltà (non ce la faceva più 143), così che il carrettiere (un uomo storto e brutto, quasi una bestia 144, che bestemmiava 147, era inferocito 148, e odiava il cavallo come una persona 149-150) perde quel poco controllo di sé di cui dispone e percuote il cavallo sulla testa col paletto di ferro del cameriere. La scena è efficace nella sua brutalità e nei suoi momenti scanditi con precisione. Dapprima Prese la frusta e menò al cavallo col manico (147148); poi menò al cavallo (153), in testa, col ferro, e continuava a colpire anche quando il cavallo era caduto sulle ginocchia (154), e sempre gli menava (154-155) con precisa intenzione: proprio per ammazzarlo (155); poi Il cavallo cascò giù di fianco, scalciò all’aria, ma debolmente e poi abbandonò la testa nel fango (155-156). Solo allora il carrettiere mostra la faccia sconvolta (157) perché sapeva di averlo ammazzato (158). Man mano che la scena si snoda il cameriere sente che la situazione si capovolge: pensai che se lui avesse ammazzato il cavallo, io ero salvo. Mi pareva che tutta la mia fu-


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 100

Alberto Moravia ria stesse passando in corpo a quel carrettiere (151-153). Il cameriere riceve vita e liberazione dalla morte del cavallo, animale inconsapevolmente martire di un sacrificio oscuramente motivato. Ma è salvezza effimera perché conduce ad una fuga dall’osteria e da Dirce, senza che una sola parola esca da quelle bocche ammutolite né avvenga più alcun tipo di contatto tra i due: Io gli passai accanto, senza neppure sfiorarlo, e presi a camminare per lo stradone (158-159). Tutto si è concluso, niente di ciò che era atteso si è verificato. La bestialità atavica si è scatenata senza controllo e l’uomo-bestia uccide la bestia-quasi-uomo. L’oste, la moglie e Dirce restano sullo sfondo anch’essi nella loro bestialità. Il degrado è quasi totale e risparmia in parte solo il protagonista narratore, anch’egli però un vinto, un fallito, secondo la migliore tradizione che da Verga tramite Tozzi era giunta al Moravia neorealista.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

IX.

La rivincita di Tarzan

IX.

La rivincita di Tarzan

Pagina 101

101

Alberto Moravia (1907-1990)

Quell’estate, in mancanza d’altro lavoro più serio e degno di me, accettai di girare in bicicletta, in fila con altri cinque, per far la propaganda ai film di un cinema nuovo. Ciascuna bicicletta portava un cartellone colorato con una sillaba di due o tre lettere, e tutti e sei insieme, sfilando lentamente per le vie della città, componevano il titolo intero del film. Uomini sandwich su due ruote, insomma, eravamo. In fatto di mestieri ce n’è di meglio; tanto più che per renderci più visibili ci facevano indossare una tuta celeste nella quale sembravamo tanti angioli di quelli che portano in giro nelle processioni per le feste di Pasqua. Ma tant’è: se volevo mangiare, quel mestiere avevo da fare. Portai in giro «Amami stanotte», «Faimme sull’Arcipelago», «Due cuori nella tempesta», «La figlia del vulcano» e parecchi altri. Io stavo sempre sulla bicicletta di testa, perché avendo ormai cinquant’anni, con tutti i capelli bianchi, ero sempre il più vecchio e però l’agenzia affidava a me la responsabilità della carovana. Dietro di me veniva Poldino, ragazzetto biondiccio di diciassette anni, dal viso aguzzo come il muso di una faina, dagli occhi di vetro celeste; quanto al carattere, violento e insubordinato, proprio un discolo. Gli altri quattro erano anche loro ragazzi tra i quindici e i venti anni. Avrei potuto essere il padre di tutti e cinque, e loro, infatti per gioco, mi chiamavano zio. Erano tutti della stessa razza di Poldino: ragazzacci venuti su nel dopoguerra con la borsa nera, i negri americani e le segnorine. Su di loro non avevo alcuna autorità, come avvertii subito l’agenzia; e loro, ogni volta che potevano, facevano lega contro di me. Era d’estate, di luglio, e girare per le strade, piano piano, sotto il sole che scottava, era veramente una pena. Il percorso, poi, era lungo e senza soste: partivamo dal cinema, dietro Santa Maria Maggiore, percorrevamo a passo d’uomo via Cavour, piazza della Stazione, via Volturno, via Piave, via Salaria, via Po, via Veneto, via Bissolati, via Nazionale, via Depretis e poi finalmente, di nuovo, Santa Maria Maggiore. Questo giro lo facevamo varie volte, la mattina e il pomeriggio, secondo i patti con l’agenzia. Di squadre, poi, ce n’erano due: una di uomini, vestiti, come ho detto, di celeste: e una di donne, vestite loro, anche peggio di noialtri, con le tuniche bianche coperte di lustrini d’argento e i pantaloni alla zuava gialli oro.

5

10

15

20

25


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 102

Alberto Moravia Una di quelle mattine, partimmo, al solito, dal cinema, con un cielo rannuvolato che, dapprima, mi fece sperare che il caldo degli altri giorni fosse finalmente diminuito. Ma come ci mettemmo in marcia, mi accorsi subito che l’afa, proprio a causa di quelle nuvole scure che annunziavano il temporale, era aumentata. Sudavo, nella mia tuta chiusa, peggio che se ci fosse stato il sole; e in quell’aria greve mi pareva che ad ogni giro di pedale mi si gonfiassero le mani, i piedi e la faccia come se il sangue stesse per schizzarmi fuori della pelle. Il titolo del film quel giorno era «La rivincita di Tarzan», in technicolor. Io avevo la sillaba La Ri; poi veniva Poldino con Vinci; poi in ordine, Ta, Di, Tar, Zan. Sui cartelloni si vedeva Tarzan, vestito di pelli come un selvaggio che lottava contro uno scimmione e, in disparte, spaventata, una bella ragazza anche lei mezza nuda. Ora, come ci movemmo, lenti lenti, in quell’aria afosa da terremoto, mi accorsi subito che, dietro di me si era formata la solita lega. L’agenzia pubblicitaria ci raccomandava soprattutto che non facessimo chiasso, non fumassimo, non parlassimo. Dovevamo, insomma, dar l’impressione di essere quasi delle macchine, come le biciclette: muti, lenti, apatici, senza espressione. Così la pubblicità, dicevano, era veramente efficace, perché la gente non si occupava di noi e guardava ai cartelloni. Ho detto che gli altri cinque avevano fatto lega e mi spiego. Appena fummo nel piazzale della Stazione sentii i cinque dietro di me che si facevano l’uno con l’altro il verso di Tarzan, così come si ode al cinema; non tanto forte, è vero, ma abbastanza perché i passanti lo sentissero. Io non potevo voltarmi perché dovevo guidarli e, se mi voltavo, c’era il caso in un luogo come il piazzale della Stazione, che tutta la carovana andasse a finire sotto le ruote di un autobus; ma come entrammo in via Volturno, mi girai e dissi forte: «Ma che è questa buriana?» Sapete cosa mi rispose Poldino? Un versaccio osceno. Non dissi nulla e proseguii verso il Ministero delle Finanze. Passammo il Ministero; imboccammo via Piave; a piazza Fiume, la guardia, in cima alla sua torretta strisciata di bianco e di nero, fermò il traffico e anche noi dovemmo sostare. Ne approfittai per mettere i piedi a terra e voltarmi per vedere come andavano le cose. Mi accorsi subito che andavano malissimo: o che ci avessero l’appuntamento o che le avessero incontrate per caso, Poldino e gli altri avevano trovato due ragazzotte, di quelle che vanno in giro a vendere i fiori per i ristoranti, basse e storte, l’una bionda e l’altra bruna, e ci scherzavano come se la carovana pubblicitaria non fosse esistita. Poi, come la guardia levò il bastone, ecco le due ragazze saltare in canna, la bruna a Poldino e la bionda a quello dopo Poldino. Questa volta mi arrabbiai perché ho il senso del dovere e questo era troppo. Smontai, mi avvicinai a Poldino e gli dissi, senza alzar la voce: «Falla scendere, andiamo… e non far storie.» Lui forse, ringalluzzito da quella scorfana che gli si aggrappava al manubrio, rispose: «Ma che vuoi? chi ti conosce?» «Andiamo,» dissi e presi la ragazza per un braccio. «Giù le mani,» gridò lei. E Poldino: «Guarda un po’ quel vecchiaccio, mette le mani addosso alla mia ragazza.» Intanto tutto il traffico si era fermato, le automobili dietro di noi strombettavano, e la gente ci circondava e commentava il fatto: manco a dirlo, erano tutti contro a me. Capii che non c’era niente da fare, risalii in bicicletta e, il cuore pieno di veleno, presi per via Salaria. All’incrocio di via Salaria con via Po, girai in direzione del corso d’Italia ma subito mi accorsi che giravo solo, perché Poldino e gli altri si dirigevano verso piazza Quadrata. Mi fermai, sperduto, gridai: «Dove andate? di qui.» Poldino si fermò anche lui e rispose: «Andiamo al Tevere, a fare un bagno.» «Ma che, siete matti?» E

30

35

40

45

50

55

60

65

70

75


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

IX.

La rivincita di Tarzan

13.4.2012

13:45

Pagina 103

103

lui, con disprezzo: «Il matto sei tu con quei capelli bianchi, vestito tutto di celeste, come un pagliaccio.» Le ragazze ridevano e io mi vergognai, e, sebbene dalla rabbia mi sentissi anche di ammazzarlo, mi rassegnai una volta di più. Prendemmo per via Po, facemmo tutto viale Liegi, piazza Ungheria, tutto viale Parioli. Ormai era Poldino a condurre la carovana e io venivo per ultimo, anche perché ci ho il fiato corto e loro adesso andavano di volata. Adesso il titolo del film si leggeva in questo modo: «Vinci Tatarzan Di Lari» che non significa proprio niente; e i passanti sui marciapiedi, si fermavano a guardare quei cinque ragazzi con quelle due sgualdrinelle in canna che correvano a perdifiato, vestiti di celeste e inseguiti da un vecchio anche lui vestito di celeste; e scuotevano la testa e ridevano. Loro, poi, adesso urlavano il verso di Tarzan come se fossero stati davvero in una foresta e non sotto i platani di una strada di Roma. Da piazza Santiago del Cile, comincia la discesa, e mi distaccarono, così che, alla fine, giunsi solo all’Acquacetosa. Persi strada un paio di volte, tornai indietro, finalmente mi parve di vederli lontano, che sfilavano per un sentiero, lungo la sponda del fiume. Furente, fradicio di sudore, mi slanciai in quella direzione. Avevano scelto un punto dove la sponda del Tevere si allarga come una piattaforma naturale, sabbiosa e tutta coperta di cespugli. Il Tevere, lì, fa una svolta che sembra un serpe, e sull’altra sponda si vede una di quelle reti a ruota che vanno su e giù per forza di corrente. Li trovai che avevano gettato in terra biciclette, cartelloni e ogni cosa e già si spogliavano. Le due ragazze, almeno, si erano nascoste dietro un cespuglio, loro neppure si nascondevano. Saltai giù dalla bicicletta e, furioso, corsi addosso a Poldino che stava levando le gambe fuori dai pantaloni e gli gridai: «Mascalzone, questa è la tua coscienza, eh?» Ma lui arrogante: «Ma che vuoi? Si può sapere che vuoi? Me lo dici che vuoi? Ad ogni «che vuoi» mi dava una manata al petto, proprio sotto la gola, con una sola mano perché con l’altra si reggeva le mutande; e io, un po’ per l’affanno della corsa, un po’ per l’età, mi sentivo vacillare sulle gambe, e alla fine, ad un quarto urtone, andai a terra. Subito, come ad un segnale, si sfrenarono. Le ragazze vennero fuori dal loro cespuglio tenendosi per mano, in sottoveste bianca di cotone, poco belle a dire il vero, perché, come ho già detto, erano basse e tarchiate, strette di petto ma di fianchi robusti, come appunto tutte le mendicanti e vagabonde che mangiano poco e camminano molto; e gli altri cinque, come a un ballo, vennero loro incontro reggendosi le mutande con le mani. Cominciarono a ballare tra i cespugli poi presero a correre e ad inseguirsi. Poldino gridava: «Sono Tarzan… ora ti acchiappo e ti porto via», e ruggendo come Tarzan rincorreva la bruna che era una pietà vederlo, la metà giusta di lei, bianco, sparuto, gracile. Finalmente a salti e a corse, andarono al fiume e si gettarono tutti nell’acqua, uno dopo l’altro. Sulla riva non ci rimasi che io, a sorvegliare le tute azzurre e i cenci femminili, io, vestito di celeste e coi capelli bianchi, come un pagliaccio, e la faccia di disoccupato cronico e la sigaretta nazionale mezza vuota tra le labbra che mi tremavano. Ero mortificato, quasi da piangere; e se da una parte odiavo loro per avermi trattato in quel modo, all’altra odiavo me stesso per non aver avuto il coraggio di liberarmi del senso del dovere. Ancora adesso, che non c’era più niente da fare, guardandoli che nuotavano felici in mezzo al Tevere, non potevo fare a meno di domandarmi ansioso: «Che diranno all’agenzia?»; e mi arrabbiavo di provare questo timore e al tempo stesso non potevo fare a meno di provarlo. Avrei voluto essere come loro e get-

80

85

90

95

100

105

110

115

120


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 104

Alberto Moravia tarmi anch’io nell’acqua, e fare anch’io il verso di Tarzan, scherzando con le due ragazze. Ma ero vecchio e avevo il senso del dovere e non c’era più niente da fare. Fortunati in tutto, sguazzavano nell’acqua finché il cielo non si fece nero e le prime gocciole non accapponarono le acque gialle del Tevere. Allora uscirono dall’acqua e Poldino gridò che quella pioggia ci voleva: così, se gli avessero fatto osservazione, avrebbero potuto dire che erano stati costretti a ripararsi. Una delle ragazze, come si fu vestita, si avvicinò a me e mi domandò una sigaretta. Gliela diedi e allora anche la bionda ne volle una, e poi tutti e cinque i ragazzi anche loro e così rimasi senza sigarette, ma facemmo pace. Intanto le nuvole, dopo quelle poche gocciole, erano passate sul Tevere e si erano allontanate verso la campagna. Ci rimettemmo in fila, secondo il titolo del film, e ci avviammo lungo l’argine, verso l’Acquacetosa. Qui le due ragazze presero l’autobus e noi risalimmo per viale Parioli. Poco più tardi, a passo di funerale, sfilavano tra le macchine di lusso e i caffè, nel mezzo di via Veneto.

Testo di riferimento A. MORAVIA, Racconti romani, Milano, Bompiani, 1974, pp. 415-421.

125

130

135


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

IX.

La rivincita di Tarzan - Analisi del testo

IX.

Analisi del testo

1.

Riassunto dell’intreccio 1. 1.1. 1.2. 1.3. 1.4. 1.5. 2. 2.1. 2.2. 2.3. 2.4. 2.5. 2.6. 2.7. 2.8. 3. 3.1. 3.2. 3.3. 3.4. 4.

13:45

Pagina 105

105

Introduzione al viaggio (1-29): il lavoro degli uomini sandwich (1-8); i titoli dei film (9-10); presentazione del protagonista e dei cinque ragazzi (10-20); il percorso in città (21-28); il gruppo delle donne sandwich (28-29). Il viaggio d’andata (30-97): il protagonista suda per il caldo (30-36); il titolo del film (36-40); i ragazzi complottano contro il protagonista (40-57); i ragazzi incontrano due ragazze e litigano col protagonista (57-71) i ragazzi, sotto la guida di Poldino, scelgono un nuovo percorso e il protagonista deve seguirli (72-78); il gruppo si scompone (79-87); il protagonista è distanziato (87-91); il protagonista raggiunge i ragazzi in riva al Tevere (92-97). La meta imprevista (97-130): il protagonista litiga con Poldino (97-103); i ragazzi e le ragazze fanno il bagno (103-112); il protagonista resta sulla riva del fiume da solo (113-123); i ragazzi e le ragazze escono dall’acqua e fanno pace col protagonista (124-130). Il viaggio di ritorno (131-135).


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 106

Alberto Moravia 2.

Due generazioni a confronto

Il protagonista, di cui ignoriamo il nome e che parla in prima persona, si presenta come un uomo che ha ormai cinquant’anni, con tutti i capelli bianchi (11), destinato ad essere sempre il più vecchio (11-12) del gruppo, con la responsabilità della carovana (12) della quale sta alla testa. A lui si oppongono i cinque ragazzi, nel gruppo dei quali spicca Poldino, l’unico di cui si conosca il nome, ragazzetto biondiccio di diciassette anni, dal viso aguzzo come il muso di una faina, dagli occhi di vetro celeste; quanto al carattere, violento e insubordinato, proprio un discolo (13-15). Gli altri ragazzi sono delineati sommariamente e solo come gruppo: Gli altri quattro erano anche loro ragazzi tra i quindici e i venti anni (16); tutti ragazzacci venuti su nel dopoguerra con la borsa nera, i negri americani e le segnorine (18-19). La differenza tra i ragazzi e il protagonista è già compiutamente espressa nel contrasto tra l’insubordinato (14-15) Poldino e la responsabilità (12) del loro capo, ma si specifica subito dopo quando il protagonista dichiara: Su di loro non avevo alcuna autorità, come avvertii subito l’agenzia; e loro, ogni volta che potevano, facevano lega contro di me (19-20). I rapporti si logorano poco dopo, quando la carovana non rispetta il silenzio e, al rimprovero del protagonista, Poldino risponde con un versaccio osceno (52-53). Successivamente il protagonista sta per venire alle mani con Poldino, che ha fatto salire una ragazza sulla bicicletta e che chiama vecchiaccio (67) il protagonista. Poi, quando i ragazzi lasciano il gruppo, Poldino si rivolge al protagonista con maggior cattiveria: «Il matto sei tu con quei capelli bianchi, vestito tutto di celeste, come un pagliaccio» (7677). Nei tre casi, in cui la situazione non fa che deteriorarsi, il protagonista, pur controllandosi a fatica, non reagisce alla provocazione: sebbene dalla rabbia mi sentissi anche di ammazzarlo, mi rassegnai una volta di più (77-78). Dopo questa dichiarazione sappiamo (e la cosa non ci sorprende) che il protagonista perde definitivamente il suo prestigio e deve cedere a Poldino la conduzione della carovana, retrocedendo all’ultimo posto, anche perché ha il fiato corto (81). Arrivati sulla sponda del Tevere, la gioia e la sfrenatezza dei ragazzi raggiunge l’apice, mentre il protagonista, urtato da Poldino, cade a terra. In questo stato di umiliazione egli riflette sulla sua condizione, con lucida autocritica, mentre i ragazzi e le ragazze fanno il bagno felici.

3.

L’autocritica del protagonista

Il protagonista, restato solo sulla riva del Tevere, dà un secondo ritratto di sé stesso: vestito di celeste e coi capelli bianchi, come un pagliaccio, e la faccia di disoccupato cronico e la sigaretta nazionale mezza vuota tra le labbra che mi tremavano (114-115). Il colore del vestito riprende l’osservazione sulla tuta celeste (6-7) dell’inizio; ma là l’abbigliamento suggerisce l’immagine di tanti angioli di quelli che si portano in giro nelle processioni per le feste di Pasqua (7-8), qui quella ben diversa del pagliaccio, espressa da Poldino con disprezzo (76) al momento della decisione di fare il bagno. Ed è proprio l’osservazione sprezzante di Poldino che il protagonista fa sua in questo momento decisivo, riprendendola nei suoi tre elementi (capelli bianchi, vestito celeste, pagliaccio) anche se in ordine diverso. Il primo ritratto del protagonista (10-12), che insiste sull’età, è dunque molto diverso dal secondo ritratto, che mette in


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

IX.

13.4.2012

La rivincita di Tarzan - Analisi del testo

13:45

Pagina 107

107

ridicolo la vecchiaia non in sé stessa ma quanto al contesto che non le si addice. Il secondo ritratto si completa con altre considerazioni (disoccupazione, fumo, labbra tremanti) che poco hanno a che vedere con le osservazioni sprezzanti di Poldino; esse costituiscono la parte morale del ritratto e, in crescendo, terminano con un dato fisico (il tremore) che è effetto dell’umiliazione subita. Quando però il protagonista specifica: Ero mortificato, quasi da piangere (116), si vede bene che il tremore delle labbra è effetto di una causa più profonda: se da una parte odiavo loro per avermi trattato in quel modo, dall’altra odiavo me stesso per non aver avuto il coraggio di liberarmi del senso del dovere. Ancora adesso, che non c’era più niente da fare, guardandoli che nuotavano felici in mezzo al Tevere, non potevo fare a meno di domandarmi ansioso: «Che diranno all’agenzia?»; e mi arrabbiavo di provare questo timore e al tempo stesso non potevo fare a meno di provarlo. Avrei voluto essere come loro e gettarmi anch’io nell’acqua, e fare anch’io il verso di Tarzan, scherzando con le due ragazze. Ma ero vecchio e avevo il senso del dovere e non c’era più niente da fare (116-123). Il protagonista vede in sé stesso fin troppo lucidamente, e tocca tutti i punti deboli della sua personalità (odio, mancanza di coraggio, senso del dovere, desiderio irrealizzabile), costatando due volte come ormai non c’era più niente da fare. In preda ad un senso di profonda frustrazione, egli non istrada i suoi problemi esistenziali sulla via del dramma, ma gli basta fare pace con i suoi sei antagonisti dando a ciascuno una sigaretta. Il racconto, dunque, pur così ricco di spunti narrativi, trova il suo pieno significato in questa dimensione introspettiva che mette in luce la crisi di una persona di mezza età, vissuta in un momento esso stesso di crisi (il passaggio dal dolore della guerra alle prime manifestazioni di rinascita sociale), identificato nella disoccupazione e nello svago cinematografico.

4.

Il senso del dovere

Il protagonista, nella lucida autocritica, dichiara di odiarsi per non avere avuto il coraggio di liberarmi del senso del dovere (117-118). All’inizio egli è orgoglioso del suo senso del dovere (l’agenzia affidava a me la responsabilità della carovana (12), che gli viene dall’età e perciò dall’esperienza. E anche quando vede le ragazze salire sulle biciclette dei ragazzi si arrabbia perché ho il senso del dovere (62-63); a Poldino rinfaccia di non avere coscienza (99); e quando tutti si gettano nel fiume egli sente ancora il compito di sorvegliare le tute azzurre e i cenci femminili (113-114). Egli sente, per contrasto, che Poldino è un insubordinato (14-15) e che gli altri sono ragazzacci venuti su nel dopoguerra con la borsa nera, i negri americani e le segnorine (1819), e identifica quindi il dovere coll’ordine. Ritiene che l’ordine comporti autorità e rispetto, doti che i ragazzi non hanno nei suoi confronti, al punto che avvertii subito l’agenzia (19-20). Ma quella che all’inizio è una virtù diventa, proseguendo, un difetto: non potevo fare a meno di domandarmi ansioso: «Che diranno all’agenzia?»; e mi arrabbiavo di provare questo timore e al tempo stesso non potevo fare a meno di provarlo (119-121). Per accorgersene è stato necessario scontrarsi con una generazione diversa; insubordinata ma proprio per questo invidiabile.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 108

Alberto Moravia 5.

La trasgressione

Tanto il protagonista è ligio al lavoro, professionalmente responsabile e assillato oltre misura dal senso del dovere vissuto in forma di paura da cui vorrebbe liberarsi lucidamente senza poterlo fare; altrettanto il gruppo dei ragazzi, una generazione ormai diversa e condizionata dal clima difficile del dopoguerra, è continuamente spinto alla trasgressione delle regole, alla violazione del codice, all’insubordinazione; manifestata più con una carica giovanile di vitalità quasi aggressiva, che non con atteggiamenti di pericolosa eversione come il contesto in cui vivono lascerebbe supporre. All’inizio del viaggio la carovana si mette in moto nell’ordine, ma coll’allontanarsi dal centro di Roma la spinta della ribellione aumenta in modo tale che il lettore è convinto dell’impossibilità di un rientro nei ranghi e si aspetta solo di vedere come vada a finire. La trasgressione è tanto più forte perché nasce da una lunga serie di soli divieti: L’agenzia pubblicitaria ci raccomandava soprattutto che non facessimo chiasso, non fumassimo, non parlassimo. Dovevamo, insomma, dar l’impressione di essere quasi delle macchine, come le biciclette: muti, lenti, apatici, senza espressione (4144). Al trinomio dei verbi al negativo (tre comandamenti nella loro grigia formulazione da contratto di lavoro) tiene dietro il quadrinomio degli aggettivi, elegante nel suo climax e nel suo andamento ritmico cadenzato e in crescita quanto a misura di sillabe (due bisillabi, un quadrisillabo, da ultimo un sintagma pentasillabo dall’andamento del quinario; così che da apatici in poi si sente un novenario). Sono due momenti distinti: prima, per così dire, parla l’agenzia (ed è prosa martellante di imposizione), poi parla la mente del protagonista, che accetta quelle regole (è ligio al dovere) ma percepisce inconsciamente l’impossibilità di metterle in pratica (come dice bene lo scatto ritmicometrico degli aggettivi). Si va dal chiasso proibito, alla mancanza di espressione richiesta dalla società pubblicitaria. Lo sviluppo del racconto mostra proprio l’esigenza del chiasso quale componente dell’espressività. Certo è di grande importanza, in questa violenza che la personalità deve subire, l’identificazione dell’uomo con la macchina: quasi delle macchine, come le biciclette (43-44). Il lavoro è visto come alienante ed è indicata da subito la reificazione a cui esso conduce. È la legge della pubblicità, a quanto pare: Così la pubblicità, dicevano, era veramente efficace, perché la gente non si occupava di noi e guardava ai cartelloni (44-45). L’uomo scompare per fare apparire il messaggio pubblicitario. Questa concreta situazione dei personaggi (viene in mente a tutti) richiama il Calvino di Marcovaldo. Quando la carovana giunge a piazza Fiume (54) i ragazzi incontrano due ragazze. Sono loro la causa dell’andamento successivo della vicenda; assieme ad esse i ragazzi decidono di trasgredire definitivamente gli impegni assuntisi e di recarsi al Tevere per un bagno. Sembra che Moravia abbia voluto, proprio col toponimo di piazza Fiume, anticipare il fiume Tevere che verrà raggiunto entro poco (il richiamo si colloca sul piano esclusivamente fonico: Fiume è città, non corso d’acqua). Il bagno è l’atto liberatorio e la scena si presenta come un vero rito. Il Tevere in quel punto fa una svolta che sembra un serpe (93-94): dove il paragone del serpente ricorda che siamo scesi in riva al luogo delle tentazioni, e che esse saranno appagate. Proprio sulla riva del fiume, ma sull’altra sponda (94), Moravia ci dice che è collocata una di quelle reti a ruota che vanno su e giù per forza di corrente (94-95). Tutti gli oggetti, gli atteggiamenti, le situazioni in questo racconto hanno una loro funzione; tanto che ci si deve interrogare su


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

IX.

13.4.2012

La rivincita di Tarzan - Analisi del testo

13:45

Pagina 109

109

questa presenza apparentemente priva di scopo. Sembra che si tratti di un segnale simbolico: una macchina (come le biciclette dei protagonisti i quali come sappiamo dovevano dare l’impressione di esser quasi delle macchine 43), considerata in un momento morto quando la rete da pesca non sta prendendo pesci ed è privata della sua funzione. Una macchina, dunque, che in quel momento non adempie al proprio compito. Essa sta sulla riva opposta a quella dove si trovano i ragazzi, segno di un oggetto, e perciò di una condizione umana, esautorato e inutile ma ancora visibile (e sembra che sia il protagonista ad accorgersene, non i ragazzi). Tentazione (alla trasgressione) e obbligo (verso i propri doveri) accompagnano quindi emblematicamente il bagno sulle due sponde del fiume. Il rito balneare verte inizialmente e principalmente sulla spogliazione: avevano gettato in terra biciclette, cartelloni e ogni cosa e già si spogliavano (95-96). Prima i ragazzi si liberano di tutto ciò che concerne il lavoro, in particolare di quei costumi celesti con cui sembravano tanti angioli (7); poi dei loro abiti personali: corsi addosso a Poldino che stava levando le gambe fuori dai pantaloni (97-98); e si noterà l’efficace immagine che rovescia quella più tradizionale: non levare i pantaloni ma levare le gambe dai pantaloni, segno che l’importanza sta nelle gambe, cioè nel corpo e nella possibilità di liberarlo da un condizionamento. Poldino, poi, colpisce il protagonista con una sola mano perché con l’altra si reggeva le mutande (101); le ragazze appaiono in sottoveste bianca di cotone (104); e ancora gli altri cinque, come a un ballo, vennero loro incontro reggendosi le mutande con le mani (107-108). Questa scena ricorda da vicino quelle del Pasolini di Ragazzi di vita. Le altre fasi sono più rapidamente delineate. La seconda è quella dell’identificazione con Tarzan e della sua imitazione (109111); la terza è quella del bagno vero e proprio (111-112); la quarta (preceduta dall’autocritica del protagonista di cui si è già detto) è quella dell’uscita dal fiume (125-126); la quinta è quella della pace ristabilita con le sigarette (127-130). Ma la pace non è causata dalle sigarette: esse sono solo il suggello di una condizione acquisita. È stato il bagno liberatorio la causa della riappacificazione. Ci sono volute 130 linee di testo per il percorso Roma-Tevere (con bagno); ce ne vogliono ora 5 soltanto per il percorso rovescio fino a Roma. Il bagno purtroppo è servito a poco (è stato solo momentaneamente liberatorio e non purificatorio), se il gruppo transita in via Veneto a passo di funerale (134). La tradizione ha la meglio sulla rivoluzione; la trasgressione è stata solo un rapido soffio di primavera.

6.

Le ragazze

Nel corso della zona introduttiva del racconto (riassunto 1) Moravia, definendo il carattere dei ragazzi, attribuisce la loro violenza e insubordinazione a due cause sociali: denaro e sesso: ragazzacci venuti su nel dopoguerra con la borsa nera, i negri americani e le segnorine (18-19). È un breve cenno; quanto basta però a presentare la figura femminile legata alla prostituzione e, quindi, a vedere nella donna una causa di traviamento dell’uomo. Alla fine della zona introduttiva Moravia accenna al fatto che esistono anche le donne sandwich: Di squadre, poi, ce n’erano due: una di uomini, vestiti, come ho detto, di celeste: e una di donne, vestite, loro, anche peggio di noialtri,con le tuniche bianche coperte di lustrini d’argento e i pantaloni alla zuava,


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 110

Alberto Moravia gialli oro (27-29). La squadra femminile non ha parte nella narrazione e il cenno che se ne fa (dicendo che è peggiore della squadra maschile) non serve all’andamento della vicenda. La sua funzione è soltanto contrastiva (i maschi sono migliori) e anticipatoria (verrà messa in cattiva luce la figura femminile). Il rapporto tra il protagonista e i ragazzi è compromesso quando i ragazzi (riassunto 2.4) incontrano le due ragazze e se le caricano sulle biciclette per portarle in riva al Tevere. Il ritratto che il protagonista ne dà è tagliente: Poldino e gli altri avevano trovato due ragazzotte, di quelle che vanno in giro a vendere i fiori per i ristoranti, basse e storte, l’una bionda e l’altra bruna (5860). Egli non esita a chiamare scorfana (65) la ragazza di Poldino; e più oltre entrambe sono dette sgualdrinelle (84). Quando, dopo essere stato distanziato, raggiunge la comitiva in riva al Tevere ed assiste allo svestimento per il bagno, ci dà un secondo ritratto impietoso delle ragazze: Le ragazze vennero fuori dal loro cespuglio tenendosi per mano, in sottoveste bianca di cotone, poco belle a dire il vero, perché, come ho già detto, erano basse e tarchiate, strette di petto ma di fianchi robusti, come appunto tutte le mendicanti e vagabonde che mangiano poco e camminano molto (103-107). Egli capisce che quelle ragazze portano disordine e mentre attende che tutti abbiano fatto il bagno sorveglia le tute azzurre e i cenci femminili (113-114), indicando ancora una volta coll’uso dell’antitesi (e nella forma di un commovente endecasillabo) quanto quelle tute azzurre (oggetto di condanna da parte sua e di Poldino) siano preferibili agli spregevoli cenci femminili. Quando però veniamo a sapere (dall’autocritica) che il protagonista invidia quei ragazzi giovani e insubordinati, ci viene detto che egli avrebbe voluto scherzare con le due ragazze ma che gli era stato impedito dall’età (121-123). L’ostilità con cui nel racconto è presentata la donna non è, quindi, un tratto di misogenia; il protagonista ama le donne, purché non intacchino il suo quasi morboso senso del dovere.

7.

Tarzan

Tarzan, alla luce di quanto si è detto, si qualifica come personaggio allegorico nell’economia del racconto. Moravia non può giustificare questa scelta, che anzi lascia credere casuale (e perciò realistica, non simbolica): un film come molti, dei quali dà una serie di quattro titoli, tra quelli che sono già stati oggetto di pubblicità da parte del protagonista. Si tratta di quattro pellicole che alternano amore tormentato e avventura esotizzante: gli ingredienti della cinematografia commerciale di facile successo, così come faceva presa nella Roma del dopoguerra. Tarzan concentra in sé quei due ingredienti, ma rappresenta un protagonista identificato, non anonimo come gli altri. Tarzan è il richiamo della foresta, della primitività, della forza a fin di bene, dell’amore selvaggio; insomma attrae per quel senso di libertà che gli è connaturata. Facile, perciò, l’identificazione in esso dei ragazzi, primo fra tutti Poldino, anch’egli l’unico protagonista qualificato dal nome. Gli uomini sandwich portano dei cartelloni su cui si vedeva Tarzan, vestito di pelli come un selvaggio che lottava contro uno scimmione e, in disparte, spaventata, una bella ragazza anche lei mezzo nuda (38-40). Non è detto se si tratti sempre della stessa immagine su ogni cartellone, oppure di immagini diverse ma sempre coi due amanti della giungla; del resto ciò conta poco rispetto al fatto che tutti i mem-


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

IX.

13.4.2012

La rivincita di Tarzan - Analisi del testo

13:45

Pagina 111

111

bri della carovana possano identificarsi coll’eroe generoso e forzuto. Diverso, invece, il caso della scritta (il titolo del film), distribuita a sillabe cartellone dopo cartellone: Io avevo la sillaba La Ri; poi veniva Poldino con Vinci; poi in ordine Ta, Di, Tar, Zan (37-38). In questa descrizione Moravia compie un errore e un’incongruenza: chiama sillaba il gruppo La Ri e forse Vinci; scrive ogni sillaba separata dalle altre e con l’iniziale in carattere maiuscolo, salvo per Vinci. L’errore è trascurabile (è una scelta stilistica di sapore neorealista: sa poco di grammatica il protagonista), l’incongruenza è significativa. Unendo le sillabe Vin e Ci a formare Vinci, Moravia combina una parola di senso compiuto (una forma verbale che sembra una esortazione) e la attribuisce al cartellone di Poldino. Anche il protagonista, come Poldino, reca sul suo cartellone due sillabe, ma staccate e senza che formino una parola di senso compiuto. Dunque le due sillabe connotano i due personaggi principali; le sillabe Vinci sono il nuovo emblema della vittoria imminente, anche se non definitiva, che Poldino sta per conseguire sul protagonista, esautorandolo; la trasgressione vuole vincere sull’ordine, in uno sforzo liberatorio. La goliardica sommossa dei ragazzi avviene nel nome di Tarzan, sin dall’inizio del viaggio: Appena fummo nel piazzale della Stazione, sentii i cinque dietro di me che si facevano l’uno con l’altro il verso di Tarzan, così come si ode al cinema (4648). In fondo a viale Parioli (80) le forze eversive hanno ormai disgregato l’ordine costituito, e la scritta suona: «Vinci Tatarzan Di Lari» che non significa proprio niente (82); con Poldino in testa, il protagonista in coda e la retrocessione al penultimo posto di un altro ciclista. In questo dissesto non stupisce che i ragazzi urlavano il verso di Tarzan come se fossero stati davvero in una foresta e non sotto i platani di una strada di Roma (85-87); ed è significativo che lo scatenarsi della primordialità avvenga lungo la strada alberata, surrogato dell’habitat di Tarzan. L’ultimo riferimento a Tarzan si ha al momento del bagno: Poldino gridava: «Sono Tarzan… ora ti acchiappo e ti porto via», e ruggendo come Tarzan rincorreva la bruna che era una pietà vederlo, la metà giusta di lei, bianco, sparuto, gracile (109-111). Poldino si sente Tarzan ma non potrà mai esserlo veramente per il grottesco squilibrio tra la robustezza dell’eroe e la sua gracilità, ed anche tra le sue fattezze e quelle della ragazza che corteggia. Ad ogni modo la scena che si svolge nei pressi del Tevere è la copia di quella rappresentata sui cartelloni, anche se reinterpretata: Poldino è Tarzan, il protagonista è il nemico da combattere perché insidia la ragazza, la ragazza salita sulla bicicletta di Poldino è Jane. Ma Poldino è fisicamente il rovescio di Tarzan, come pure la sua momentanea ragazza lo è di Jane. I personaggi di questa sceneggiata romana popolare sembrano usciti dal film di cui portano la pubblicità sulle spalle. Avrebbero dovuto passare inosservati, rispettando ordine e silenzio, per lasciare libera strada al messaggio pubblicitario; in realtà il messaggio non può essere trasmesso perché la scritta col titolo è scomposta e ricomposta in un assieme nuovo che non significa proprio niente (82). A ben guardare, però, proprio dalla dissoluzione del significato primo viene a configurarsi un significato secondo, altrettanto se non più importante.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 112


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

X.

L’acqua verde

X.

L’acqua verde

13.4.2012

13:45

Pagina 113

113

Beppe Fenoglio (1922-1963)

Era venuto al fiume nell’ora di mezzogiorno, e non c’era nessuno sul fiume, nemmeno il martin pescatore. Aveva attraversato il ponte perché pensava che era meglio succedesse sulla sponda opposta alla città, e poi aveva continuato ad allontanarsi per un sentiero che andava a perdersi nel sabbione. Da dove s’era fermato e seduto, poteva vedere il ponte, lontano come se fosse incollato all’orizzonte, e gli uomini e i carri che ci passavano sopra gli apparivano formiche e giocattoli. Era già un pezzo che stava lì seduto sotto il pioppo, con in grembo l’ombra dell’albero e le gambe stese al sole. Perché non l’aveva già fatto? S’era lasciato distrarre a lungo da un uccellino venuto a posarsi su una lingua di terra ghiaiosa e sterposa che rompeva l’acqua proprio di fronte a lui. L’uccellino s’era messo a esplorare quella terra saltellando a zampe giunte tra gli sterpi e storcendo la testa a destra e a manca come avesse nel collo un meccanismo. Era grazioso, col dorso color tabacco e una fettuccia turchina intorno al collo bianchissimo. L’aveva preso una incredibile curiosità di saperne la razza, si disse persino che se fosse tornato in città avrebbe potuto descriverlo al suo amico Vittorio che se ne intendeva e così saperne il nome. Ma lui in città non ci tornava. Addio, Vittorio. Ti farà effetto, lo so. Per un lungo tempo non misurato seguì con gli occhi l’uccellino, e per tutto quel tempo ebbe sulla bocca un gentile e pieno sorriso che quando s’accorse d’averlo, gli lasciò dentro un profondo stupore. Sbatté un poco le ciglia e dopo non riuscì più a rintracciare l’uccellino. Sparito l’uccellino, aveva abbassato lo sguardo sul quadrato di sabbia davanti ai suoi piedi, così pura e distesa che lui poteva seguirci l’ombra del volo d’insetti minutissimi. Poi si sentì sete e con gli occhi cercò tra l’erbaccia, dove le aveva gettate, le due bottigliette d’aranciata. Si disse che aveva fatto male a berle tutt’e due subito, ma ritardando l’aranciata si sarebbe fatta calda e disgustosa come orina, e poi lui non credeva che ci avrebbe messo tanto a far la cosa. Si ricordava di mentre comperava le aranciate. Era andato dal barista Ottavio, che era un suo mezzo amico.

5

10

15

20

25


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 114

Beppe Fenoglio – Dammi due aranciate. – Perché due? – Perché credo d’averne bisogno di due. Avrò sete. Vado fuori in questo

30

calore. Era chiaro che Ottavio si faceva nella sua testa l’idea che lui uscisse con una donna, ma Ottavio disse solamente: – Allora te le porti via con te? I vuoti sono a rendere. Ricordati di riportarmeli stasera. – Non sono mica sicuro di riportarteli. – Allora ci vuole una cauzione di venti lire per bottiglietta. Fa quaranta lire. Te le rimborso stasera, se mi riporti i vuoti. Grazie, ciao. «Sai, Ottavio, non mi rimborserai mai più il mio deposito. Ho idea che stasera o domani cercherai nel tuo cassetto i miei quattro biglietti da dieci e quando crederai d’averli trovati, te li metterai sul palmo della mano e li guarderai e ci mediterai sopra un bel po’». Però si sentiva sempre sete. Si disse: «Perché mi preoccupo della sete? Non son venuto qui per l’acqua? Perché la faccio tanto lunga?» e si alzò. Uscì dall’ombra dell’albero e camminò nel sole verso l’acqua. Si guardò tutt’intorno per vedere se c’erano pescatori vicini o lontani: nessuno, non una canna che oscillasse sopra il verde o che sporgesse dalle curve dell’argine. Decise di studiare il fiume, ma prima volle accendersi una sigaretta. Se n’era comprate di quelle di lusso, mai comprate in vita sua, ma oggi era diverso. Però trovava che quelle famose sigarette da signori gli impastavano la lingua e gli irritavano con la loro troppa dolcezza la gola. Dopo quattro o cinque boccate, gettò la sigaretta. Faceva da terra un fumo straordinariamente azzurro e denso, che si spiralava perspicuamente nell’aria dorata. Poteva esser visto da lontano, così colorato e tardo a svanire, far da richiamo: andò a soffocarlo accuratamente col piede. Poi, a due passi dall’acqua, esaminò il fiume. Ne prese e tenne sott’occhio una lunghezza di trenta passi, il tratto dove lui sapeva che l’avrebbe finita, e si stupì di come l’acqua variava di colore. Le correnti erano grigio ferro e gli specchi d’acqua profonda color verde. Studiò la corrente più vicina e lo specchio in cui essa si placava. Raccolse una pietra, oscillò tre volte il braccio e la mandò a cadere a piombo sullo specchio. Fece un gran tonfo e un alto spruzzo, con le spalle raggricciate lui guardò farsi i cerchi e poi si disse ridistendendosi: «Non sono pratico del fiume, ma dev’essercene d’avanzo». Si chinò sui ginocchi e pensava: «È semplice. Vado nella corrente, mi ci lascio prendere e lei mi porta da sola nell’acqua alta. Sarà come andarci in macchina. Sono contento che non so nuotare; mi ricordo che da ragazzo e da giovanotto mi dispiaceva, ma adesso sono contento di non aver mai imparato. Così una volta nella corrente, più niente dipenderà da me». Restando chino sui ginocchi e trascinando avanti una gamba e poi l’altra andò nell’acqua e ci infilò dentro un dito. Era calda, più in là lo sarebbe stata meno, ma non tanto. C’erano con lui sulla riva sei o sette strane mosche col dorso che mandava lampi azzurri, scalavano le pietre e i detriti, passeggiavano la sabbia e parevano non aver paura di lui. Lui sventolò una mano e le mosche si ritirarono, ma mica tanto lontano. Con le mani sui ginocchi, guardava il pelo dell’acqua e si lasciava riempir le orecchie del suo rumore. Levando gli occhi dall’acqua, vide come se la terra scappas-

35

40

45

50

55

60

65

70

75


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

X.

L’acqua verde

13.4.2012

13:45

Pagina 115

115

se contro corrente. «La terra parte». Si sentiva una vertigine nel cervello e pensò che quella vertigine gli veniva buona per fare la cosa. Ma come si alzò, già gli era passata. Dentro la tasca il pacchetto delle sigarette gli faceva borsa sulla coscia. Lo tirò fuori e fece per gettarlo. Ma frenò la mano, cercò una pietra prominente all’asciutto e andò a posarci sopra il pacchetto. «È ancora quasi pieno, a qualcuno farà piacere trovarlo, lo troverà uno di quei disgraziati che vengono qui per legna marcia». Raccoglieva pietre e una dopo l’altra se le cacciava in seno. Per quel peso ora non poteva più star ben eretto con la schiena. Levò gli occhi al cielo, il sole glieli chiuse, e disse: – Papà e mamma, dove che siete, non so se mi vedete, ma se mi vedete non copritevi gli occhi. Non è colpa vostra, ve lo dico io, non è colpa vostra! Non è colpa di nessuno. Camminava già nell’acqua al ginocchio ed avanzando raccoglieva ancora pietre sott’acqua e se le cacciava in seno grondanti. Arrivò tutto curvo dove più forte era la corrente che portava all’acqua verde.

Testo di riferimento L. FENOGLIO, I ventitre giorni della città di Alba, in Opere, edizione critica diretta da M. Corti, vol. II, a cura di P. Tomasoni, Torino, Einaudi, 1978, pp. 339-342.

80

85


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 116

Beppe Fenoglio

X.

Analisi del testo

1.

Riassunto dell’intreccio 1. 2. 2.1. 2.2. 2.3. 3. 3.1. 3.2. 3.3. 4. 4.1. 4.2. 4.3.

2. A.

Trasferimento al luogo del suicidio (1-6). Avvenimenti precedenti il suicidio (7-45): attesa sotto il pioppo (7-8); osservazione dell’uccellino (9-20) e degli insetti (21-23); considerazioni sulle bottigliette d’aranciata (24-45). Preparativi per il suicidio (46-68): sguardo al luogo del suicidio (46-48); fumata di una sigaretta (49-55); esame del fiume (56-68). Attuazione del proposito (69-89): ingresso in acqua (69-77); rinuncia alla sigaretta (78-81); raccolta delle pietre (82-86) e suicidio (87-89).

L’uso dei tempi verbali

Il trapassato prossimo. È il tempo con il quale è condotta dall’inizio la narrazione in terza persona. Con esso si giunge fino a 2.2., entro cui si insinua (seguì con gli occhi 17) il passato remoto. B. Il passato remoto. A partire da 2.3, sostituisce il trapassato prossimo. Su questo tempo è condotto il grosso della narrazione, fino a 4.1, dove compare (guardava il pelo dell’acqua 74) l’imperfetto. C. L’imperfetto. Convive col passato remoto ma caratterizza l’ultimo tratto della narrazione. Trattandosi del racconto di un evento passato (che non adotta il presente storico quale forma di attualizzazione), Fenoglio si serve specialmente del normale passato remoto;


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

X.

13.4.2012

13:45

L’acqua verde - Analisi del testo

Pagina 117

117

ma non ne fa un uso costante e gli affianca altri tipi grammaticali di passato coi quali gli è possibile differenziare l’azione in tre momenti in progressione. Il lettore è condotto nel momento centrale, in cui si usa il passato remoto, passando attraverso una fase precedente (trapassato prossimo); e dal momento centrale è invitato a seguire il suicida nella terza zona, posteriore nel tempo alla seconda, dove si scioglie il nodo narrativo (imperfetto). Tutto avviene progressivamente, così che si ha (sia pure nel territorio dei fatti già accaduti) lo spostamento dal passato verso il presente. La tensione narrativa è accentuata dal fatto che la vicenda emerge dalla nebbia dell’indeterminazione e raggiunge solo alla fine la sua Spannung. Ad essa, anzi, non fa neppure seguito un calo di tensione perché, a rigore di fatti, il suicidio è piuttosto alluso che dichiarato. Anche la fine del racconto, perciò, si perde nell’incertezza come il principio; ma in modo diverso perché, non essendoci elementi del testo che possano lasciar sperare in un ripensamento tardivo del protagonista, la certezza dell’atto è assoluta: sono le vicende dopo il suicidio che mancano e lasciano aperta la partita. Come si vede, l’uso dei tempi verbali adempie ad un preciso mandato e si adegua bene ai momenti della composizione messi in evidenza dal riassunto dell’intreccio. Il cambiamento avviene in modo calcolato: in 2.3 anticipando l’uso fatto in 3; in 4.1 posticipandolo oltre 3. Questi confini lievemente sfumati impediscono un taglio netto, in nome di quella progressione di cui si è parlato.

3.

Discorso diretto, indiretto, indiretto libero; monologo e dialogo; flash-back

Nella narrazione fatta dall’autore si inseriscono momenti in cui ciò che si dice è parola o pensiero del protagonista. Questo avviene mediante il discorso diretto, indiretto e indiretto libero. Ecco come si susseguono questi momenti: 1) in 2.2 si ha discorso indiretto (a proposito dell’uccellino) che si trasforma in indiretto libero (nel momento dell’addio all’amico Vittorio): si disse persino che se fosse tornato in città avrebbe potuto descriverlo al suo amico Vittorio che se ne intendeva e così saperne il nome. Ma lui in città non ci tornava. Addio, Vittorio. Ti farà effetto, lo so (14-16); 2) in 2.3 si ha discorso indiretto (a proposito delle aranciate) che si trasforma in indiretto libero (nel momento in cui il protagonista riflette che il suicidio sarà un atto veloce): Si disse che aveva fatto male a berle tutt’e due subito, ma ritardando l’aranciata si sarebbe fatta calda e disgustosa come orina, e poi lui non credeva che ci avrebbe messo tanto a far la cosa (25-27); 3) in 2.3 si ha discorso diretto nel Flash-back (a proposito delle aranciate) quando il protagonista dialoga con il barista Ottavio: Si ricordava di mentre comperava le aranciate. Era andato dal barista Ottavio, che era un suo mezzo amico. / – Dammi due aranciate. – Perché due? / – Perché credo d’averne bisogno di due. Avrò sete. Vado fuori in questo calore. / Era chiaro che Ottavio si faceva nella sua testa l’idea che lui uscisse con una donna, ma Ottavio disse solamente: – Allora te le porti via con te? I vuoti sono a rendere. Ricordati di riportarmeli stasera. / – Non sono


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 118

Beppe Fenoglio

4)

5)

6)

7) 8)

9)

mica sicuro di riportarteli. / – Allora ci vuole una cauzione di venti lire per bottiglietta. Fa quaranta lire. Te le rimborso stasera, se mi riporti i vuoti. Grazie, ciao (28-39); in 2.3 si ha discorso diretto (a proposito delle aranciate) quando il protagonista immagina di rivolgersi ad Ottavio: «Sai, Ottavio, non mi rimborserai mai più il mio deposito. Ho idea che stasera o domani cercherai nel tuo cassetto i miei quattro biglietti da dieci e quando crederai d’averli trovati, te li metterai sul palmo della mano e li guarderai e ci mediterai sopra un bel po’» (40-43); in 2.3 si ha discorso diretto (a proposito del suicidio) quando il protagonista parla con sé stesso: Si disse: «Perché mi preoccupo della sete? Non sono venuto qui per l’acqua? Perché la faccio tanto lunga?» e si alzò (44-45); in 3.3 si ha discorso diretto (a proposito del suicidio) quando il protagonista parla con sé stesso: Si chinò sui ginocchi e pensava: «È semplice. Vado nella corrente, mi ci lascio prendere e lei mi porta da sola nell’acqua alta. Sarà come andarci in macchina. Sono contento che non so nuotare; mi ricordo che da ragazzo e da giovanotto mi dispiaceva, ma adesso sono contento di non aver mai imparato. Così una volta nella corrente, più niente dipenderà da me» (64-68); in 4.1 si ha discorso diretto (a proposito delle sigarette) quando il protagonista parla con sé stesso: «La terra parte» (76); in 4.2 si ha discorso diretto (a proposito delle sigarette) quando il protagonista parla con sé stesso: «È ancora quasi pieno, a qualcuno farà piacere trovarlo, lo troverà uno di quei disgraziati che vengono qui per legna marcia» (80-81); in 4.3 si ha discorso diretto (a proposito del suicidio) quando il protagonista si rivolge ad alta voce ai genitori: Levò gli occhi al cielo, il sole glieli chiuse, e disse: – Papà e mamma, dove che siete, non so se mi vedete, ma se mi vedete non copritevi gli occhi. Non è colpa vostra, ve lo dico, non è colpa vostra! Non è colpa di nessuno (83-86). Uno schema visualizza meglio la situazione:

1) 2) 3) 4) 5) 6) 7) 8) 9)

2.2 2.3 2.3 2.3 2.3 3.3 4.1 4.2 4.3

Indiretto / Indiretto libero Indiretto / Indiretto libero Diretto Diretto Diretto Diretto Diretto Diretto Diretto

pensiero pensiero parola parola parola parola parola parola

– «» «» «» «» «»

sé stesso sé stesso Ottavio Ottavio sé stesso sé stesso sé stesso sé stesso genitori

uccellino aranciata aranciata aranciata suicidio suicidio sigarette sigarette suicidio

Il discorso indiretto è sempre introdotto dal si disse (14, 25); il discorso diretto è aperto dalle formule Si disse (44) e pensava (64) ma si presenta anche senza


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

X.

13.4.2012

13:45

Pagina 119

L’acqua verde - Analisi del testo

119

alcuna mediazione (40, 76, 80), da un lato perché il lettore è al corrente del procedimento, dall’altro perché così facendo la presa realistica del dettato è più forte. L’impiego di queste tecniche espressive si innesta sulla progressione che, come detto, caratterizza il racconto, e la accentua, come mostra il passaggio dal discorso indiretto e indiretto libero al discorso diretto; il passaggio dal pensare al parlare; il passaggio, nel parlare, da Ottavio (esteriorizzazione) a sé stesso (interiorizzazione) e ai genitori (iperinteriorizzazione); dall’uccellino al suicidio (attraverso aranciata e sigarette che sono i segni ultimi del contatto col mondo). In questo continuo crescendo, con lo stesso scopo di accentuazione, concorrono i due luoghi dove l’autore (l’editore?) impiega il trattino (–) per indicare il colloquio: luoghi collocati alla fine della prima parte del racconto (2.3) e quasi alla fine dell’ultima (4.3), cioè nei punti in cui il protagonista sta per alzarsi e dare corso al proposito (3.1) e in cui si uccide (4.4). Il richiamo tra i due momenti è significativo: si tratta degli unici due punti in cui il suicida parla con terze persone. Ma nel primo caso abbiamo un colloquio già avvenuto, mentre nel secondo un colloquio che dovrebbe ma non potrà mai avvenire; poco impegnato e bonario il primo, carico di significato il secondo; l’uno confinato in una superficiale discussione commerciale a sfondo sociale, l’altro aperto all’inquietante constatazione di carattere morale a sfondo socio-politico; il primo un ciao al mezzo amico, il secondo un addio ai genitori. Questo addio finale, d’altra parte, si collega all’addio iniziale all’amico Vittorio (2.2), così che in tre zone salienti della narrazione il protagonista si congeda dagli uomini, senza che alcuno di essi sia presente (Si guardò tutt’intorno per vedere se c’erano pescatori vicini o lontani: nessuno 46-47). Se poi si riflette che l’inizio del racconto si configura come un addio alla città e al ponte percorso dai carri, si capisce come il ritmo della narrazione sia questo continuo separarsi dalle forme di vita che compongono il mondo del suicida.

4.

L’impiego degli elementi che qualificano il tempo

La dosata segnalazione del fluire del tempo cronologico è affidata, come si è visto, all’uso dei tempi verbali. L’indicazione Per un lungo tempo non misurato seguì con gli occhi l’uccellino e per tutto quel tempo ebbe (17-18) non fa altro che dilatare nel non misurato un tempo che invece è breve, con la funzione di porre in risalto la quiete e non il moto, e di presentare così un’esperienza ancora più soggettiva e realistica. Meno, invece, il fluire del tempo è affidato ad altri indicatori. Il più forte di essi apre il testo: Era venuto al fiume nell’ora di mezzogiorno (1); gli si aggiungono (e si oppongono, perché legati a un futuro prossimo irrealizzabile): Ricordati di portarmeli stasera (36), Te le rimborso stasera (39), Ho idea che stasera o domani (40-41), tutti nella rievocazione di 2.3, ossia alla fine della prima sezione del racconto, dove si chiude quasi definitivamente ogni rapporto col passato (e dunque col mondo, dal momento che il presente è vuoto e il futuro non può esistere). Compaiono inoltre alcuni riferimenti al tempo atmosferico, mediante i quali si ribadisce la fissità del mezzogiorno iniziale: con in grembo l’ombra dell’albero e le gambe stese al sole (7-8), poteva seguirci l’ombra del volo d’insetti minutissimi (22-23), Vado fuori in questo calore (32-33), Uscì dall’ombra dell’albero e camminò nel sole verso l’acqua (46), un fumo […] nell’aria dorata (53-54). Anche in questo caso


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 120

Beppe Fenoglio l’estensione delle presenze è ben circoscritta alla prima zona del racconto; e l’antitesi ombra/sole (46) in 3.1 non è altro che il richiamo della medesima (7-8) in 2.1, con il contrasto tra stava lì seduto (7) e uscì […] e camminò (46) che mette in moto l’azione ineluttabile del suicidio. Oltre questo richiamo strutturale costituito all’inizio di 3.1, i riferimenti al tempo atmosferico cessano. L’aria dorata (54) di 3.2, nella quale si perde il fumo della sigaretta, non indica più un dato atmosferico esterno al protagonista ma piuttosto suggerisce che il tempo atmosferico è assorbito nella sfera della percezione soggettiva del protagonista (ormai di fronte soltanto a sé stesso), percezione che non è più controllabile sul piano cronologico-oggettivo. Il tempo, dunque, è una presenza incombente e statica, una cappa sotto la quale esiste solo un moto circoscritto e a direzione unica. Gli elementi che lo qualificano raggrumano l’azione in uno stato di tesa atemporalità.

5.

L’impiego degli elementi che qualificano lo spazio

Rappresentano il tratto più significativo che accompagna la calura del mezzogiorno ad apertura del racconto e vogliono porre in risalto la solitudine del protagonista: Era venuto al fiume nell’ora di mezzogiorno, e non c’era nessuno sul fiume, nemmeno il martin pescatore (1-2). La segnalazione solenne ed emblematica dell’assenza del martin pescatore, idonea a qualificare lo spazio vuoto, dai confini e dalle dimensioni ancora sfuggenti, oltre ad essere di sapore vagamente montaliano, assume la forma ritmica del novenario, collocato in clausola. Essa trova puntualmente sé stessa all’inizio di 3.1 (nessuno, non una canna che oscillasse sopra il verde o che sporgesse dalle curve dell’argine 47-48, dove lo spazio si va chiudendo e precisando), accompagnandosi ad un contesto umile e a un ambiente prosaico; e, rendendo quel contesto e quell’ambiente in sintonia con la condizione psicologica e sociale del protagonista (la solitudine di un uomo del ceto medio-basso), sottolinea la nuova dignità letteraria (sabbione 4 non sarà perciò dantesco?), ormai da anni raggiunta con le esperienze neorealiste, di una zona geografica così poco illustre come quella di una anonima riva di fiume di periferia. Sempre all’inizio, si codifica la condizione di isolato dal mondo che caratterizza il suicida in tutto il testo: Aveva attraversato il ponte perché pensava che era meglio succedesse sulla sponda opposta alla città, e poi aveva continuato ad allontanarsi per un sentiero che andava a perdersi nel sabbione. Da dove s’era fermato e seduto, poteva vedere il ponte, lontano come se fosse incollato all’orizzonte, e gli uomini e i carri che ci passavano sopra gli apparivano formiche e giocattoli (2-6). Qui all’azione dell’allontanarsi fa subito da contraltare la fissità del vedere da lontano, espressa con due metafore (gli uomini-formiche e i carri-giocattoli) che sono il corretto segnale di una nuova condizione psicofisica dell’intenzionato al suicidio, dettata appunto da un nuovo rapporto con lo spazio circostante. Essa trova il suo più lontano modulo espressivo analogo nella pseudo-sinestesia di 3.2: Faceva da terra un fumo straordinariamente azzurro e denso, che si spiralava perspicuamente nell’aria dorata (53-54), collocata in un tessuto stilistico straordinario in cui la ricercatezza dell’espressione si spiralava perspicuamente non ha corrispondenti nel testo. E non per nulla quell’ultimo segnale di fumo


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

X.

13.4.2012

L’acqua verde - Analisi del testo

13:45

Pagina 121

121

rappresenta un tardivo richiamo (55) al mondo definitivamente lontano (54), contro il quale è necessario intervenire con la ricercata metafora «soffocare il fumo». Sempre nella fase estrema della solitudine spaziale, in questo punto 3.2, il trinomio di avverbi (straordinariamente; perspicuamente; accuratamente) costituisce un unicum nel testo in esame; e attorno ad esso si configura la presenza di due endecasillabi (straordinariamente azzurro e denso; perspicuamente nell’aria dorata), entrambi su tre accenti (e di quarta-settima-decima il secondo), entrambi coll’avverbio nel primo emistichio e coll’aggettivo nella chiusa. Con tecnica consumata, rimane estraneo alla misura del verso il terzo avverbio, perché proprio lì con la metafora si attua il proposito di soffocamento (andò a soffocarlo accuratamente col piede), espresso con modalità ritmiche sliricizzanti ed efficacemente dure. Si noterà ancora che gli aggettivi azzurro e denso, con cui si esprime la corposa colorazione del fumo nello spazio dorato circostante, sono riproposti subito dopo (mediante parallelismo) da così colorato e tardo a svanire (54), dove il colore sottolinea la persistenza nello spazio e viceversa. Si osservi poi che in 4.1 l’ultima presenza di vita costituita dalle mosche è espressa con un richiamo (sotterraneo ma non per questo invisibile) alle tendenze stilistiche di cui si sta dicendo per 3.2.; questi insetti si presentano infatti alla vista col dorso che mandava lampi azzurri (71-72) e ancora si dice che scalavano le pietre e i detriti (72): due endecasillabi contigui, il primo dei quali si chiude su azzurri, riproponendo l’azzurro di uno dei due endecasillabi già considerati. Spazio morale, dunque, più che fisico. Nella direzione della sola fisicità va invece il cenno isolato di 3.3.: Poi, a due passi dall’acqua, esaminò il fiume. Ne prese e tenne sott’occhio una lunghezza di trenta passi, il tratto dove lui sapeva che l’avrebbe finita (56-58). Esso indica lo spazio dell’evento che ormai si è delimitato in confini precisi e misurabili, scelto con esame accurato (anche: Decise di studiare il fiume 49; Studiò la corrente 59), sempre però aperto all’incognita decisiva (acqua profonda color verde 58-59). Nel tempo fermo e nello spazio ristretto e immutabile, il varco verso il profondo dove l’acqua è verde è proprio quello che Fenoglio designa a titolo del racconto.

6.

Lo sguardo analitico del protagonista

L’occhio del suicida in alcuni momenti osserva minuziosamente la realtà che lo circonda; Fenoglio ce ne consegna l’esito attraverso la descrizione. Essa ha per oggetto l’uccellino (2.2), le mosche (4.1), il fumo (3.2) e l’acqua (3.3). Degli ultimi due si e già detto al punto 5. Il brano più ampio è quello dell’uccellino. Il volatile compare non si sa da dove e sparisce quando il protagonista lo perde di vista; fintanto che è visibile esso esplora lo spazio che lo circonda. Le analogie tra l’uccello e il suicida sono, come si vede, assai strette: anch’egli viene al fiume dall’ignota città e sparisce sott’acqua, anch’egli osserva e studia il luogo del delitto. Non manca però una sostanziale differenza: l’animale così pieno di vita e l’uomo già così distaccato da essa. Senza tacere che dell’uccellino il protagonista dà una descrizione fisica che del protagonista l’autore non dà. La bestiola e osservata oggettivamente per quanto riguarda il rapporto in cui essa si trova col mondo circostante (S’era lasciato distrarre a lungo da un uccellino venuto a posarsi su una lingua di terra ghiaiosa e sterposa che rompeva l’acqua proprio di fronte a lui. L’uccellino s’era messo a esplorare quella terra saltellando a zampe giunte tra gli sterpi e storcendo la testa a destra e a manca 9-12), ma sogget-


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 122

Beppe Fenoglio tivamente dallo sguardo interpretativo del suicida che ne osserva le sole fattezze (come avesse nel collo un meccanismo 12), specie quando ne dà la vera e propria descrizione fisica, anteponendovi un giudizio di valore che la condiziona (Era grazioso, col dorso color tabacco e una fettuccia turchina intorno al collo bianchissimo 12-13). Nella descrizione fisica il paragone (color tabacco) e la metafora (fettuccia) sono segni della forza retorico-stilistica dello sguardo del protagonista: si e visto accadere la stessa cosa per il fumo e per le mosche. Quando invece il punto di vista cambia ed è sostituito da quello dell’autore, il registro si tiene ad un livello più discreto: si pensi anche solo al giro sintattico di ebbe sulla bocca un gentile e pieno sorriso che quando s’accorse d’averlo, gli lasciò dentro un profondo stupore (18-19), o al grigiore da lingua parlata di e poi lui non credeva che ci avrebbe messo tanto a far la cosa (26-27), o di vide come se la terra scappasse contro corrente (75-76). Fa eccezione il lancio della pietra nell’acqua, con oscillò tre volte il braccio (60), che pare una riduzione in prosa da un’ottava epica cinquecentesca, e gli altrettanto solenni gran tonfo (61) e alto spruzzo (61). Anche nel passo Le correnti erano grigio ferro e gli specchi d’acqua profonda color verde (58-59) il paragone col ferro e la metafora dello specchio rivelano lo sguardo analitico del protagonista. Nel bianco vivo e quasi incolore della scena del mezzogiorno, l’uccello, le mosche, il fumo e l’acqua sono le sole presenze colorate. Considerare, analizzare queste quattro presenze significa per il protagonista farle proprie: col suo sguardo commoventemente colorato egli ha perso ogni possibilità di combattere contro ciò che lo ha spinto al suicidio, e sembra conservare un rimpianto per le forme di vita da cui la scelta inderogabile lo ha allontanato.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

XI.

Giovedì, in settembre

XI.

Giovedì, in settembre

13:45

Pagina 123

123

Francesco Jovine (1902-1950)

Camminavano separati: Giorgio avanti, Valerio dietro. Al solito Valerio si fermava a tirar sassi fra le fratte per far volare gli uccelli che beccavano le more sanguigne, o a decapitare con colpi netti e violenti i piccoli girasoli secchi del greppo. Aveva un bastone ferrato che era riuscito a sottrarre il giorno prima nella camera del padre e s’era provato già ad attaccare lite al mattino con un ragazzo che aveva avuto paura di lui ed era fuggito. Ora per la provinciale deserta che scendeva in stretti giri la ripida china verso il fiume, non c’erano che i passeri sulle fratte. Nel cielo le rondini mandavano gli ultimi gridi. Era una mitissima giornata di settembre che si spegneva con immobile stupore senza una nuvola, senza un alito di vento. Giorgio camminava piano con passo uguale e fermo; era cresciuto, aveva ormai le spalle solide e una certa fierezza nella testa: ma il disegno della bocca era rimasto tenero, estatico e lo sguardo lento. Ora gli piaceva che il fratello fosse lontano da lui perché sentiva dolcissima la sospensione dell’aria, e la fragranza vaga delle stoppie e della terra arida. Volgeva nella mente alcuni confusi pensieri incoerenti o contraddittori ma pieni di una serena e virile malinconia che forse per la prima volta gli dilagava nell’anima e riusciva a fondere in armonia il gioco della mente. Era una sorta di felicità mai provata che non aveva bisogno di cose liete; perché gli nasceva dentro per un pacato accordo dell’atmosfera con lo scorrere tranquillo del sangue. Lo meravigliava il fatto di avere in sé questa fonte segreta di benessere, gli pareva di potervi attingere sempre che volesse, come a una sorgente inesauribile. Si sarebbe volentieri fermato per raccogliere più compiutamente questo dolce divagare dei pensieri. Guardò avanti a sé e vide un mucchio di pietre levigate dalle piogge estive: si mise a sedere ed estrasse lentamente e con un segreto piacere il lungo portasigari di argento e cuoio che aveva trovato un giorno in un cassetto della scrivania e che egli aveva empito delle prime sigarette.

5

10

15

20

25


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 124

Francesco Jovine Il fumo s’accordava benissimo al senso serio e profondo della sua felicità e gli parve che ora avrebbe potuto pensare alla morte, per la prima volta, senza paura. Il fratello non si vedeva, né si udiva la sua voce, o il suo fischio; doveva essere lontano; e non gli dispiacque. Continuava placidamente a fumare e a guardare la giornata morente. Le rondini dormivano e il cielo ad oriente diventava pallido. Non passava nessuno. Il fratello spuntò dalla curva all’improvviso e gli passò davanti galoppando e nitrendo; col bastone levato incitava di tanto in tanto gli immaginari cavalli che aveva davanti. Lo vide scomparire all’altra curva sempre correndo e nitrendo. Allora Giorgio riprese il cammino: un po’ più rapidamente ma sempre chiuso nel giro dei suoi pensieri; il portasigari gli era rimasto in una mano e nel ritmo del moto scintillava quando era nella luce degli ultimi raggi. Spuntò in un breve rettilineo e vide Valerio che parlava con un pastorello suo coetaneo; alcune pecore sul greppo di fronte brucavano la gramigna polverosa. S’accorse che il colloquio dei due era diventato concitato: poi vide Valerio scostarsi di qualche passo e avventarsi col bastone ferrato contro l’altro. Il pastorello indietreggiò sveltamente, impugnò la sua piroccola con entrambe le mani e incominciò a mulinarla nell’aria. Valerio indietreggiava impaurito tentando di difendersi ma l’altro lo incalzava costringendolo a retrocedere fino al greppo: le pecore fuggirono goffamente e Valerio chiamò Giorgio in aiuto. Il fratello si mise a correre e minacciò con la destra levata il pastore. Il quale smise per un attimo il suo mulinello e si fece da parte. Poi disse a Giorgio: – È stato lui, io me ne stavo per i fatti miei; vedi le pecore? Valerio era tornato indietro e s’era accostato al pastore col bastone levato. Giorgio gli teneva minacciosamente puntato sul petto il portasigari che scintillava sulla casacca sporca del ragazzo. Il pastore scorse a un tratto il brillìo del metallo e gridò: – Non sparare! Si buttò a precipizio per la china con le mani in alto. Le pecore lo seguirono impaurite. Valerio raccolse dei sassi e li lanciò contro le pecore fuggenti accompagnando il lancio con uno schiocco delle labbra. – Spariamo! spariamo! – gridava. Quando le vide scomparire continuò con l’indice e il pollice aperti a sparare con le labbra, contro un invisibile bersaglio e intanto rideva a gola aperta, irrefrenabilmente, indicando al fratello lo spettacolo della fuga. Poi gli camminò accanto appoggiandosi al bastone troppo lungo per lui, fingendo di zoppicare. Giorgio lo guardò un attimo ma non rise: gli disse d’affrettare il passo perché si faceva tardi; l’aria era diventata esangue; le ombre incominciavano a vagare sulle lame dei salici che coronavano il fiume. Qui sentirono una voce che chiamava alle loro spalle: – Seppantonio! Un’altra voce rispose appoggiandosi sulle vocali con una parola che non riuscirono ad afferrare. Poi l’aria tornò quieta. Valerio si fermò, era un po’ pallido e spaurito. Giorgio continuava a camminare svagato e lento.

30

35

40

45

50

55

60

65

70

75


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XI.

Giovedì, in settembre

13.4.2012

13:45

Pagina 125

125

– Senti, corriamo – disse Valerio e tirò per la giacca il fratello. – Perché? – Corriamo, corriamo. – Ma che hai? –Ti dico di correre – soggiunse imploranteValerio. Poi: –Vieni, corriamo. Si misero a correre dapprima velocemente a balzi giù per le scorciatoie, poi, raggiunta di nuovo la rotabile, rallentarono. Erano sul ponte del torrente Gravellina, che scorreva in un botro profondo tra due pareti scoscese coperte di gramigna e di rovi. Andavano al passo. Giorgio si voltò a guardare Valerio e lo vide ancora pallido e spaurito. – Ma che hai? – Nulla, nulla, ma corriamo ancora… Alla fine del ponte Giorgio, che andava avanti, sentì all’improvviso un violento colpo in mezzo al petto e cadde riverso. – Spari, eh, spari! –. L’accetta che l’aveva colpito gli mulinava sulla testa. L’uomo uscito all’improvviso di dietro il parapetto del ponte tratteneva l’arma a mezz’ aria con una sorta di spasimo. Aveva le mascelle serrate e gli occhi addolorati e pazzi. Continuava a dire: – Spari eh! Spari! Giorgio cadendo aveva battuto violentemente le spalle sul pietrisco: ma gli pareva che non gli facessero male. Ora guardava calmo gli occhi dell’uomo che minacciava di ucciderlo e sapeva che la sua vita dipendeva dal bagliore lagrimoso delle pupille che il rosso sanguigno del fondo tentava di cancellare. Portava a scudo le braccia sulla fronte; ora l’uno ora l’altro. Quando vedeva la testa della scure avvicinarsi alla sua, sentiva l’inerzia fredda del metallo cercare la sua tenera pelle e si metteva il braccio sulla fronte. La scure gli sfiorò una manica: l’uomo ebbe una specie di singhiozzo poi avventò il colpo e il braccio cadde stancamente sul fianco. Giorgio tentò di pararsi con l’altro; un secondo colpo arrivò sull’altro braccio. Ora la fronte del ragazzo pallida e liscia era scoperta: negli occhi gli cadde il grigio attonito dell’aria già carica di notte. L’uomo fulmineamente mise la scure dalla parte del taglio, serrò le mascelle. Giorgio tentò con uno sforzo di alzare le sue braccia spezzate per far schermo ma non poté muoverle: allora ebbe il primo gemito doloroso. L’uomo rispose con un singulto e lanciò l’arma contro il parapetto. L’acciaio ebbe un tinnìo lieto e accese uno spruzzo fulmineo di scintille. L’uomo abbandonò le braccia lungo i fianchi, disserrò le mascelle e si mise a respirare con affanno. Poi disse: – Ora alzati. Giorgio tentò di ubbidire ma non ci riuscì. L’altro disse ancora rabbiosamente: – Alzati! Il ragazzo poté con terribile sforzo mettersi sul fianco. L’uomo l’agguantò per il petto e lo mise in piedi; poi disse al pastore che immobilizzava Valerio: – Lascialo.

80

85

90

95

100

105

110

115

120


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 126

Francesco Jovine Giorgio udì solo allora il pianto del fratello: gli parve che avesse sempre pianto ma lui non aveva udito. Valerio raccattò il cappello di Giorgio e glielo porse. L’uomo glielo strappò di mano e lo lanciò nel botro: – Vai a raccoglierlo adesso. – Non importa, non fa niente – rispose con mitezza il ragazzo e fece per continuare: – Vai! capisci? – fece l’altro spingendolo verso l’orlo della strada. Giorgio vide nella penombra che le mascelle dello sconosciuto s’erano richiuse a tenaglia e disse: – Vado. Si sedette sul ciglio puntò i gomiti sul terriccio arido e incominciò a scendere verso il buio. Puntava i talloni per non precipitare; ma la terra era tenera e cedevole: tentò con una delle mani tremanti, senza vigore, di aggrapparsi a un ciuffo di gramigna, ma la gramigna lo seguì docile nella scesa con le radici divelte. Precipitò verso il fondo. Quando si svegliò vide tra le spine sul suo capo il cielo stellato e udì l’acqua del torrente brusire fiocamente tra le pietre. Un rivolo di sangue gli scendeva dal naso piagato dalle spine e gli entrava tiepido in bocca. Si mosse per cercare una posizione meno dolorosa ma ricadde tra le spine. Valerio cercava lungo il torrente e lo chiamava. Gli rispose; e Valerio corse affannato verso la sua voce ferendosi le mani con le spine: lo aiutò ad alzarsi e s’incamminarono penosamente sui sassi del greto. – C’è una straduccia: io l’ho trovata, – disse Valerio. – È più su, ma è comoda. Andiamo piano, piano, sai. Camminarono lentamente nel buio verso le luci allegre del villaggio. Giorgio era pieno di sonno, moveva i passi pesante e lento come trascinasse un peso.

Testo di riferimento F. JOVINE, Racconti, Torino, Einaudi, 1960, pp. 153-157.

125

130

135

140

145


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

XI.

Giovedì, in settembre - Analisi del testo

XI.

Analisi del testo

1.

Riassunto dell’intreccio

13:45

Pagina 127

127

1. Giorgio e Valerio in cammino verso casa (1-43). 2. Valerio è minacciato da un pastorello coetaneo e Giorgio lo soccorre (44-67). 3. Giorgio e Valerio in cammino verso casa (68-87). 4. Giorgio è picchiato da un adulto sconosciuto e Valerio lo soccorre (88-142). 5. Giorgio e Valerio in cammino verso casa (143-149).

2.

L’articolazione della vicenda

La vicenda è lineare e si svolge, senza interruzione cronologica, in settembre durante il crepuscolo; dura un tempo imprecisato, probabilmente da una a due ore. Niente sappiamo di quanto precede o segue la vicenda narrata: né da dove provengano i fratelli né come saranno accolti dopo la pericolosa esperienza. Il testo nasce dal nulla e svanisce nel nulla; ed anche se sembra facile ricostruire gli estremi mancanti, l’operazione è inutile perché la scelta dell’autore non vuole indagare cause ed effetti ma si limita a rappresentare un breve momento di vita di due ragazzi. Le sezioni 1-5 sono legate da rapporti facilmente individuabili: si alternano i momenti in cui i fratelli sono in viaggio (1, 3, 5) a quelli dove il viaggio si arresta (2, 4). Gli uni non esistono senza gli altri, anche se siamo portati ad affermare che 2 e 4 sono i più importanti; ma si tratta solo di un punto di vista soggettivo che privilegia le zone dove esplode la violenza.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 128

Francesco Jovine 3.

La qualifica dei fratelli

Il contrasto tra Giorgio e Valerio è netto e viene delineato nella sezione 1, tanto che il lettore crede di trovarsi di fronte ad un racconto psicologico che scava nel carattere dei due fratelli. La situazione è chiara già in apertura: Camminavano separati: Giorgio avanti, Valerio dietro (1); e tutto è orientato verso questa separazione, destinata però a cessare nelle due circostanze di pericolo (sezioni 2 e 4). Giorgio è un adolescente contraddistinto da una virile malinconia (18): un ossimoro che segnala le contraddizioni tipiche dell’età; ad esso si accompagna l’antitesi fra le spalle solide (13), la fierezza nella testa (13) da un lato e il disegno della bocca […] rimasto tenero (1314), lo sguardo lento (14) dall’altro. In questo stato di oscillazione i suoi pensieri sono confusi […] incoerenti o contradditori (17). Giorgio però si sente a proprio agio; l’autore lo dice facendo ricorso ad espressioni rivelatrici: scorrere tranquillo del sangue (21-22), fonte segreta di benessere (22-23), sorgente inesauribile (23-24); e insiste sottolineando che Giorgio avrebbe potuto pensare alla morte, per la prima volta, senza paura (31-32). L’importanza sta nel fatto che sangue, fonte, morte sono anticipazioni di quanto accadrà: il sangue sarà sparso, l’acqua avrà una sua funzione, la morte sarà sfiorata con paura. Se Giorgio è tutto pensiero, Valerio è tutto azione. Lo vediamo tirar sassi tra le fratte per far volare gli uccelli che beccavano le more sanguigne, o a decapitare con colpi netti e violenti i piccoli girasoli secchi del greppo (2-3), poi scomparire, poi riapparire alla vista di Giorgio galoppando e nitrendo (38-39), incitando immaginari cavalli che aveva davanti (39-40). Anche in lui, che è ancora bambino, coesistono due atteggiamenti opposti: uno tenero, fantasioso, immaginifico ed un altro crudele, violento. La violenza da lui compiuta su animali e vegetali è anche qui un’anticipazione di quanto seguirà; ed è rilevante che le more siano sanguigne, con riferimento all’ultimo atto della vicenda. Dunque nella beatitudine infantile e adolescenziale della vita dei protagonisti si inseriscono elementi perturbatori, germi di un male che prima o poi esplode loro malgrado.

4. 4.1.

La violenza Gli atti della violenza

Nella sezione 2 è probabilmente Valerio, attaccabrighe per natura, che provoca il pastorello. Lo si vede avventarsi col bastone ferrato (47), ma l’antagonista gli si oppone, prendendo il sopravvento: impugnò la sua piroccola […] e incominciò a mulinarla nell’aria (48-49). Interviene Giorgio che a sua volta minaccia con la destra levata (52). Valerio, forte dell’aiuto, continua la minaccia col bastone levato (55-56), mentre Giorgio cambia tattica: teneva minacciosamente puntato sul petto [del pastorello] il portasigari (56). Il pastorello scambia il portasigari per un’arma e fugge, mentre Valerio si accontenta: raccolse dei sassi e li lanciò contro le pecore fuggenti (61), minacciando a parole: Spariamo! Spariamo! (63). Anche quando il fuggiasco è scomparso, Valerio imita colle labbra (65) il rumore dello sparo. La scena è di una certa efficacia perché l’autore in poche righe condensa una serie ampia di azioni offensive


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XI.

13.4.2012

Giovedì, in settembre - Analisi del testo

13:45

Pagina 129

129

manesche e primordiali in un crescendo che dal bastone culmina nel portasigari, per poi decrescere nei sassi e nella sola voce. A conti fatti la vicenda si conclude con una fuga e senza ferimento; e invoglia a credere concluso un evento la cui potenzialità drammatica non è attuata. Nella sezione 4 l’autore dà un seguito alla sezione 2: con efficace rapidità, che trova impreparati, compare un uomo che percuote Giorgio. Prima ancora di segnalarne la presenza, Jovine ne indica l’intervento violento: sentì all’improvviso un violento colpo in mezzo al petto e cadde riverso (88-89), facendolo seguire dall’oggetto che lo provoca, un’accetta (90), e solo in ultimo dall’esecutore materiale: L’uomo uscito all’improvviso di dietro il parapetto del ponte (91). Vistosa la ripetizione di all’improvviso. Con l’affermazione Spari eh! spari (94) l’uomo si riallaccia all’episodio della sezione 2 (il che lascia credere che sia il padre del pastorello, da cui ha conosciuto i fatti) e porta a compimento l’offesa fisica che nella sezione 2 non si è verificata. Da lì in avanti è un seguito di dilagante brutalità, sproporzionata all’accaduto: minacciava di ucciderlo (97), avventò il colpo (103), un secondo colpo (104), l’agguantò (119), spingendolo verso l’orlo della strada (129). La furia dell’uomo è però in decrescendo, come testimonia da ultimo il lancio del cappello nel fosso (125), in sostituzione di Giorgio stesso, che evita così un danno maggiore, forse la morte. Questo spegnersi della violenza è in correlazione con lo stesso fatto nella sezione 2. Fuori della portata dell’uomo, Giorgio non conclude tuttavia il suo calvario: precipita nel fosso verso il fondo (137-138), tra le spine (138), finché Un rivolo di sangue gli scendeva dal naso piagato dalle spine e gli entrava tiepido in bocca (139-140), e ancora ricadde tra le spine (141). La sezione 3 risente della violenza espressa nella 2. Come nella sezione 2 essa è solo morale (quella fisica sì limita alla minaccia di bastonate), così nella 3 è fatto posto solo ad uno stato di ansia e di paura che colpisce Valerio, prima spavaldo: era un po’ pallido e spaurito (74-75), lo vide ancora pallido e spaurito (84-85); tanto che tutta la sezione 3 è svolta in forma di corsa, di fuga per allontanarsi dalla 2. Analogamente, alla violenza fisica della sezione 4 corrisponde violenza fisica nella 5. Persino Valerio, soccorrendo il fratello ferito, non sfugge al destino di lui, ferendosi le mani con le spine (143-144); e ne condivide il ritorno a casa: s’incamminarono penosamente (144), anche se l’ultimo cenno va a Giorgio che, più provato, moveva i passi pesante e lento come trascinasse un peso (148-149). Privilegiando un gioco formale fin troppo calcolato e compiaciuto, che fa ricorso all’analogia tra le sezioni (2 sta a 3, come 4 sta a 5), l’autore costruisce un percorso-trappola entro cui cadono i due fratelli. 4.2.

Gli oggetti della violenza

Giorgio, nella sezione 1, dispone di un lungo portasigari di argento e cuoio che aveva trovato un giorno in un cassetto della scrivania (28-29). L’oggetto qualifica socialmente Giorgio, perché una scrivania che contenga un dimenticato e perciò quasi inutile portasigari d’argento dice che Giorgio non è un pastore ma qualcosa di più: forse il figlio di un proprietario terriero o perlomeno di un mezzadro relativamente benestante. Il portasigari diventa oggetto-chiave del racconto quando, nella sezione 2, Giorgio se ne serve come arma: da oggetto innocente e fonte di piacere diventa, per equivoco, pericoloso e responsabile dell’esito della vicenda.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 130

Francesco Jovine In modo analogo, anche se con minor precisione, Valerio, nella sezione 1, dispone di un bastone ferrato che era riuscito a sottrarre il giorno prima nella camera del padre (4-5). L’oggetto qualifica socialmente Valerio che, sebbene fratello di Giorgio, è fatto agire in un ambito sociale più basso di quello del fratello, così da situarsi all’altezza del pastore antagonista: col quale si scontra, nella sezione 2, proprio servendosi di quel bastone. L’antitesi tra il portasigari trovato casualmente un giorno e il bastone rubato intenzionalmente il giorno prima rafforza il divario tra gli oggetti e quindi tra i fratelli. Il vile ferro del bastone scatena la lite, il prezioso argento del portasigari-rivoltella dovrebbe placarla (ma sappiamo che la non-arma finisce col diventare offensiva). Nella sezione 4, che è la continuazione della 2, entra in scena il terzo oggetto: l’accetta (90) o scure (100). La correlazione col portasigari è evidente perché l’oggetto è chiamato arma (91) e si parla di inerzia fredda del metallo (100-101) che riconduce al brillio del metallo (57) dell’arma impropria. L’uomo getta lontano la scure, come a voler dire di rinunciare all’omicidio; essa urta contro il parapetto (110) del ponte, dove con un tinnìo lieto (111) e uno spruzzo fulmineo di scintille (111) perde la sua funzione mortifera ma resta a disposizione di un eventuale ripensamento o per soddisfare ad altra azione criminosa o almeno per essere utilizzata in modo non improprio. La sua caduta in acqua, oltre il ponte, ne avrebbe definitivamente spento il potere, ma ciò non può avvenire; ecco perché spruzzo […] di scintille è metafora che fa ricorso a quell’acqua sottostante dove l’arma non può scomparire. Dunque: il bastone, il portasigari e la scure sono usati, in un crescendo che vorrebbe essere drammatico ma che non sfugge ad un tono troppo magniloquente e perciò melodrammatico, per cercare di uccidere una persona. Solo il portasigari è inadatto al compito, ma è proprio esso a venir scambiato per l’arma più offensiva. Il padre del pastorello è in condizione privilegiata per uccidere, disponendo di un’arma da taglio, ma rinuncia all’omicidio. Ha riconosciuto che Giorgio gli è superiore socialmente scorgendo il portasigari? Teme quindi qualcuno più potente di lui? Non lo possiamo sapere, e del resto sembra che non sia importante saperlo. Importa che alla violenza non ci si possa sottrarre e che la propria posizione sociale non è garantita dalle circostanze; ma anche importa che Jovine non se la sente di far morire il suo protagonista, al quale salva la vita forse proprio grazie all’oggetto più borghese tra quelli messi in atto, al quale tocca il difficile compito di non lasciar finire il racconto in tragedia rusticana, secondo schemi che dal Verga in poi sono entrati indelebilmente a far parte della letteratura. 4.3.

I luoghi della violenza

Anche il luogo degli eventi è determinante. Dall’alto della strada che scendeva in stretti giri la ripida china verso il fiume (7-8) i due protagonisti si abbassano sempre più (Si misero a correre dapprima velocemente a balzi giù per le scorciatoie, 81-82), fino al ponte del torrente Gravellina (82-83), l’unico toponimo del testo. Il ponte non adempie subito alla funzione di varco di salvezza dei protagonisti ma si qualifica come ostacolo al felice scioglimento della vicenda, contro le speranze del lettore. Comincia lì la necessaria fase finale: botro (125), orlo della strada (129), ciglio (133) sono il preludio al definitivo precipitare: dallo scendere verso il buio (134) fino al precipitò verso il fondo (137-138). Giorgio non muore, compie solo un’esperienza


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XI.

13.4.2012

Giovedì, in settembre - Analisi del testo

13:45

Pagina 131

131

dolorosa che ha l’aspetto di una iniziazione: la verifica di quella maturità e serenità di vedute che l’autore gli aveva attribuito al momento iniziale del racconto. Allo svenimento (si svegliò, 138) si accompagnano le spine (138) in cui è caduto, tra le quali però intravede un salvifico cielo stellato (138) e ode una salutare acqua del torrente (138139). L’esperienza è compiuta. L’acqua è detta ormai soltanto brusire fiocamente tra le pietre (139), col ricorso al commovente lirismo di un endecasillabo su tre accenti. Il rivolo di sangue (139) è il prezzo pagato per superare il difficile momento. Valerio ha, dal canto suo, trovato una straduccia (145): è situata più su (145), permette la risalita ed è comoda (145-146); a dispetto del botro profondo tra due pareti scoscese (83) che giustifica poco prima l’esistenza del ponte. Ora i due camminano piano, piano (146), in contrasto colla corsa di prima, e scorgono le luci allegre del villaggio (147). Giorgio, che ha pagato per il fratello nei modi del sacrificio personale, si avvia verso casa pieno di sonno (148); pesto e sanguinante com’è, l’osservazione è strana; si tratterà di un sonno che richiama quello dantesco dell’ingresso nella selva del peccato, ma a rovescio perché qui segna l’avvenuto passaggio ad un nuovo stato morale.

5.

Il paesaggio e le cronografie

Manca un’ampia descrizione del paesaggio entro cui avvengono i fatti, sostituita da cenni relativi al digradare del terreno verso il fiume, di cui si è gia detto al punto 4.3 illustrandone la presenza ai fini della necessaria caduta dei due protagonisti nel punto più basso (geograficamente e moralmente parlando). Più importanti sono i riferimenti cronografici alla giornata che si conclude, collocati in posizioni strategiche del testo per metterne in evidenza il rapporto con gli avvenimenti. Lo si vede bene nella sezione 1, organizzata come segue: A. B. C. D. E.

Azioni di Valerio (1-6). Cronografia I (7-11). Ritratto morale di Giorgio (12-35). Cronografia II (36-37). Azioni di Valerio (38-51).

La costruzione e assai artificiosa, anche qui in cinque parti, e indica in modo convincente l’importanza che Jovine attribuisce agli aspetti formali del testo. La zona C è il centro di simmetria, col ritratto di Giorgio; esso è circondato dalle due cronografie, a loro volta affiancate dalle azioni di Valerio. La zona B è un brano lirico, insistito sulla solitudine e sulla presenza degli uccelli: non c’erano che i passeri sulle fratte. Nel cielo le rondini mandavano gli ultimi gridi (8-9). Alla fine di un periodo sintattico ci sono i passeri (x) sulle fratte (y), all’inizio del periodo seguente ci sono Nel cielo (y) le rondini (x), con vistoso chiasmo; ad esso fa seguito la parte sonora della visione: mandavano gli ultimi gridi, che è un novenario. Tutto il passo è allitterante, così che la tematica ornitologica, la resa metrica, i parallelismi e il fonosimbolismo rinviano d’un colpo al mondo del Pascoli. Nella zona D si rinnova la presenza degli uccelli: le rondini dormivano (36) e il tema del declino del giorno, con la metafora la giornata morente (35) che anticipa gli eventi, e coll’espressione il cielo ad oriente diventava pal-


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 132

Francesco Jovine lido (36). In tal modo il dolce divagare dei pensieri (26) di Giorgio, che vive quasi fuori del tempo e dello spazio, è avvolto in una natura precariamente idillica, ingannevole per la tranquilla sospensione dell’aria (16) e la fragranza vaga delle stoppie (16): una quiete in tensione, prima dell’imminente tempesta fisica e morale che si abbatterà sul protagonista. Nella sezione 2 si ha una sola cronografia (III): L’aria era diventata esangue; le ombre incominciavano a vagare sulle lame dei salici che coronavano il fiume (69-70). È un passo importante perché fa sì che la sezione 2 sia chiusa ancora da cenni lirici concernenti la natura; ma più ancora perché vi troviamo le metafore esangue e lame che anticipano lo stordimento di Giorgio per il colpo di scure al petto. Si tratta di una tecnica stilistica già praticata nella sezione 1. Nella sezione 3 non si trovano momenti cronografici, mentre nella 4 vi sono due cronografie (IV-V): negli occhi gli cadde il grigio attonito dell’aria già carica di notte (105-106); vide […] il cielo stellato (138); esse sono interne alla sezione e non costituiscono più, come in precedenza, dei confini. Nella sezione 5 sta una succinta cronografia (VI): nel buio (147), che ribadisce quanto già si sa e passa quasi inosservata. Come si vede: I, II, III delimitano con rigidità la materia delle sezioni 1, 2; mentre IV, V, VI, dal momento che sono frutto dello sguardo di Giorgio e non più di quello del narratore, sono collocate in posizione fortemente contrastante rispetto alle altre, perché svolgono una funzione diversa. Spentesi le luci della natura, si accendono le luci allegre del villaggio (147), discreto cenno di lieto fine per far capire che la vita, medicate le ferite, continuerà con più consapevolezza di prima. Anche il mondo della natura adempie dunque alla funzione didattico-moraleggiante che Jovine consegna al racconto.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XII.

Tranvai

XII.

Tranvai

13.4.2012

13:45

Pagina 133

133

Elio Vittorini (1908-1966)

Emilio era stanco; la giornata con gli amici, alle otto di sera, finiva in un cordiale congedo, tutti tornavano alle proprie case dove li aspettava il pranzo caldo e familiare, tra la mamma, il babbo, o la sposa e i figlioli; bisognava dunque prendere il tram e, via per le lunghe strade alberate, fioche, fredde della prima nebbia, già solitarie, che portano ai quartieri della periferia, rincasare anche lui. Una cosa lo turbò: che nessuno degli amici gli avesse parlato di ritrovarsi, dopo il pranzo. Poi, le altre sere capì che non era abitudine ritrovarsi, che quelle ore dopo le otto restavano da dedicare alle cure familiari, oltre il pranzo stesso, a portare la sposa a cinematografo, in teatro, andare a qualche ballo. Occorreva rassegnarsi e lasciare in pace gli amici. Svogliato, leggermente stanco del bel sole invernale e delle care chiacchiere del pomeriggio, stordito ancora un po’ del viaggio, disgustato delle molte tazze di caffè prese nelle frequenti soste pei ritrovi cittadini, non ebbe voglia nemmeno di far quei quattro passi che ci volevano per prendere il tram al Duomo e salutò gli amici sotto i magazzini della Rinascente. Il n. 5 passò subito; montò e si trovò pigiato tra una folla di gente allegra, espansiva, in parte famiglie o coppie, tutti che rincasavano parlando a voce alta, tutti contenti, quasi innamorati. Molti uomini stavano seduti e sedette anche lui. Guardava i volti, i cappelli, le mani posate sui ginocchi, aperte e ferme, dietro le spalle dei seduti il muro nero della strada e di tratto in tratto un fanale, una finestra con la luce chiusa nel vetro o tra le connessure della persiana, una bottega, un ristorante illuminato. Poi un quadrato irregolare e sperduto di lampioni passò a sfondo: una piazza; il tram andava veloce; si vide appena la fuga di un porticato, quindi a una fermata, contro il cristallo appannato, il gran tronco di un albero. Già nel viale? Giù, giù, giù, il tram si fermava sempre dinanzi a un tronco d’albero e molta gente saliva. Presto anche la piattaforma fu piena di donne, un vento gelido passava nel carrozzone a ogni stridio dello sportello che scuoteva il vetro, il tranviere strillava

5

10

15

20

25


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 134

Elio Vittorini che non c’era più un posto e presto fu dato il completo. Emilio non vedeva più la strada con tanta gente che gli stava dinanzi all’impiedi e s’accorse che egli era l’unico uomo ancora seduto; tutti gli altri avevano offerto a uno a uno il loro posto alle signore che entravano. Si alzò anche lui invitando a sedere una giovane signora, che rifiutò. «Già, le pare mi dispiaccia» pensò. «Ora sdegna il mio posto. Sarà da un pezzo qui all’impiedi e io non mi sono alzato… Mi sorride con ironia». Prese invece il suo posto una vecchia popolana, sudicia, portando sulle gambe una gerla colma, senza ringraziare. «Bella figura che faccio» pensò ancora sentendosi arrossire sino alle orecchie. Ora, stando alzato, importunava di più la giovane signora stringendola contro la fila. «Meglio se restavo al mio posto. Certo lei pensa che mi sia alzato per… toccarla». Difatti aveva una mano contro il fianco della signora e non gli riusciva possibile ritirarla. Poteva mettersela in tasca ma non riuscì che a girarla sul dorso e nel girarla gli scivolò più giù. Sentiva il più caldo e il più morbido sotto la stoffa soffice del mantello; e quando nel carrozzone si fece un po’più di spazio non seppe staccarsi del tutto da quel caldo e quel morbido: e per mantenere il contatto cercò le più goffe posizioni. Ci fu un punto anzi, mentre il tram traballava, che gli parve di aderire col proprio corpo ossuto al dorso della signora. Ed ella si volse a guardarlo, a mettergli sotto il muso quel suo visetto sdegnato e delizioso, sorridendogli anche con un che di maligno e di compiacente. Qualcosa cadde in terra. La signora lanciò un piccolo grido come di dolore, ed Emilio si chinò a raccattare l’oggetto. Una patata? Per raccoglierla dovette passare il braccio attraverso le gambe della signora, mentre lei si curvava un po’ per vedere cosa mai le fosse caduto. Emilio si trovò così con la guancia contro il caldo e il morbido di poco prima; con la mano sfiorò il polpaccio teso e intanto una curiosa tentazione lo prendeva di stringere quella caviglia. Raccogliendo la patata pensò che la signora avesse gridato per la vergogna di essere scoperta di ciò che portava nell’elegante involtino di carta lucida; ricordò che egli stesso aveva considerato il piccolo pacco come un cartoccio di dolci, paste, cioccolato o certosino; sicché esitava se lasciare in terra la patata per non mortificare la bella creatura o se vendicarsi, mortificandola a bella posta, del suo sorrisetto ironico e sdegnoso. Invece lei quasi pensava se il poco discreto giovanotto, ma bel tipo di ragazzo, non avesse buttato in terra «quell’affare» per osservarle le gambe, e, quando Emilio si levò, rosso in volto, a porgere la patata, non seppe contenere uno scoppio di risa. Ma ambedue erano confusi; la patata sembrava enorme, e che pesasse un chilo, due chili; lui vergognato di tenerla in mano guardava l’intatto, galante, pulito involtino; lei, imbarazzata di dimostrare che non poteva appartenerle cercava in giro con l’occhio come per scoprirne il legittimo proprietario. Emilio pensava: «Cosa crede, che le porti. in tasca io le patate? Potrebbe essere; stasera il pranzo è pronto ma domani sera, per esempio, occorre che lo prepari da me, e su questo tram mi porterò i commestibili. Mi porterò delle patate? Mai mi por-

30

35

40

45

50

55

60

65

70

75


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XII.

Tranvai

13.4.2012

13:45

Pagina 135

135

terò delle patate; mai ne toccherò… Del prosciutto comprerò, del formaggio, ecco, quel formaggio acre e leggero che mi piace, il nostro formaggio di Tarvisio. E comprerò anche del burro, anche delle acciughe… Ma questa smorfiosa crede proprio che possa portare in tasca le patate? Il mio aspetto non può essere di miserabile; il mio cappotto è nuovo, elegante, l’ho fatto quest’anno. Forse un po’ tedesco, rigido, di taglio; è vero; ma in compenso la mia camicia è brillante, ho il solino stirato a lucido, alla francese, come qui usa, e la cravatta nodata bene. Non so, non si direbbe proprio che possa portare in tasca delle patate». E in questo si guardava nel vetro del tram che sul nero profondo della strada faceva un po’ specchio, si toccava il nodo della cravatta, si aggiustava il cappello, mentre la signora, da parte sua, pensava non meno preoccupata che si potesse scambiarla per una volgare massaia, buona a portarsi delle patate in un involto da dolci. A un tratto il tram si fermò, bruscamente, dinanzi a un passaggio a livello. La popolana della gerla che pareva dormisse scattò in piedi parlando rauco al bigliettario e si diresse verso la piattaforma; nel tirare lo sportello, voltandosi, vide Emilio che offriva ancora la patata alla signora come un mazzo di fiori; le parve che si burlassero di lei, tornò indietro brontolando, afferrò la sua patata, e, con uno scuotere sciancato e frettoloso delle coscie, si precipitò fuori della vettura. Allora il tram cominciò a salire sul ponte che cavalcava la ferrovia. Si vedevano in fondo, lungo la linea, i lumi rossi e verdi dei segnali, innumeri, e quelli più piccoli e brillanti di una stazione. Emilio ricordò il suo paese, la ferrovia di Tarvisio, la frontiera popolata di fanali, i fischi notturni dei treni internazionali, il fumo delle gallerie, le fanciulle tedesche dei bar, i minatori del Predil. Così gli venne in mente la lunga passeggiata che il giorno prima di lasciare il paese, aveva fatto da Tarvisio a Fusine, fino ai laghi di Weissenfeld, una ora con piedi come si fanno lassù otto chilometri di mulattiera per la montagna; il freddo intenso ma ancora tutto verde, tutto senza neve tranne i fianchi del Morgart e del Rombon; il freddo così intenso che il lago più piccolo e più alto era già tutto ghiacciato, cupo e bluastro l’altro nell’acqua mortale. Addio inverno della montagna. Pensava adesso a quella passeggiata come allora aveva pensato a questa città, a questa vita nuova, a questo esilio desiderato e penoso. Quanto di queste emozioni, queste minute sofferenze, queste corse in tranvai, queste sere di sconforto e di solitudine che ora provava, quanto aveva quel giorno di pellegrinaggio pensato e presentito. Soffriva proprio come aveva creduto di dover soffrire. Era stato previdente nel suo dolore. Non poteva rimproverarsi nessun entusiasmo, nessuna leggerezza, perciò gli pareva fatale ciò che adesso succedeva nel suo animo, e accettava con amaro sollievo quanto aumentando il peso della sua pena, sgravava la somma pur greve dei suoi presentimenti. Il tranvai intanto s’era vuotato e correva a precipizio per strade in declivio. La giovane signora si era messa a sedere in fondo come chi va lontano. Il conduttore e il bigliettario parlavan tra loro ad alta voce dalle due piattaforme urlando. Dagli sportelli aperti soffiava il vento gelido della discesa, piacevole e feroce. Una paura enorme di solitudine s’era impadronita di Emilio. Perché non poteva abitare a una di quelle fermate dove la gente fa ressa per scendere, in piena festa? Aveva voglia di avvicinarsi alla signora, e chiederle che lo portasse con lei. Forse non lo avrebbe respinto come un pazzo. Attraverserebbero insieme una via

80

85

90

95

100

105

110

115

120


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 136

Elio Vittorini spenta e deserta, lei si fermerebbe a un portoncino luccicante, aprirebbe, andrebbero su per delle scale umide, in silenzio, aggrappandosi alla ringhiera. E lui sarebbe tanto impacciato di portare la propria esistenza nel quartierino signorile dove dei fiori su un tavolo, un ritratto, gli farebbero subito venire l’impulso di scappar via. A un tratto la giovine signora suonò e si slanciò fuori del carrozzone, che s’era fermato appena. Emilio non poté resistere all’idea di perderla e scese, per seguirla, dal tram in corsa. La strada costeggiava un fiume. Vide la donna camminare verso il ponte e in pochi passi la raggiunse. Tuttavia sul ponte, senza osare fermarla, Emilio sostò; seguì con gli occhi il carrozzone illuminato che giostrava sulla riva, e ascoltò a lungo il tramestìo delle ruote, lo squillo monotono e argentino del campanello che pareva chiamare la gente alla sua leggera felicità, seguito a distanza da altri rumori più cupi di tranvai in discesa, svegliati nell’aria improvvisamente come i richiami vicendevoli e sperduti dei battelli in mare. La signora adesso marciava, sui suoi tacchi quasi ritmici, lungo un marciapiede. Di nuovo Emilio la raggiunse e le camminò quasi a fianco trattenendo il respiro nel desiderio di buttarsi ai suoi piedi. Poi ella si fermò, d’un colpo, dinanzi a un portoncino, e, se il volto si offerse, sorridente, verso di lui, fu però svelta ad aprire, entrare e richiudere. Poi su, mentre Emilio si allontanava con nuova dolcezza, una persiana si socchiuse, ed egli capì che qualcosa era nato, con più naturalezza di un sogno. Qualcosa di più confortante e durevole, più forte, che una qualunque avventura.

Testo di riferimento E. VITTORINI, Le opere narrative, a cura di M. Corti, Milano, Mondadori («I Meridiani»), vol. II, 1974, pp. 785-790.

125

130

135

140


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

XII.

Tranvai - Analisi del testo

XII.

Analisi del testo

1.

Riassunto dell’intreccio 1. 1.1. 1.2. 2. 2.1. 2.2. 2.3. 2.4. 2.5. 2.6. 2.7. 2.8. 3. 3.1. 3.2.

2.

13:45

Pagina 137

137

Prima del viaggio in tram (1-15): Emilio sente la necessità di congedarsi dagli amici (1-10); si congeda (11-15). Il viaggio in tram (16-125): Emilio lascia il centro di Milano, seduto in tram (16-33); cede il posto ad una giovane signora, che rifiuta, occupato allora da una donna del popolo (34-40); ha i primi approcci con la giovane signora (41-54); si china a raccogliere una patata che crede appartenga alla giovane signora (55-87); la donna del popolo, scendendo dal tram, sottrae ad Emilio la patata che le appartiene (88-93); Emilio si ricorda di Tarvisio, da cui proviene (94-112); si siede ed ha paura della solitudine (113-119); immagina il suo futuro con la giovane signora (120-125). Dopo il viaggio in tram (126-141): la giovane signora scende ed Emilio la segue (126-137); la giovane signora entra in casa e, mentre Emilio si allontana, socchiude una persiana per osservarlo (137-141).

L’organizzazione della vicenda

Dopo la situazione iniziale (riassunto 1), il racconto si articola in due sezioni: la prima è quella delle vicende che si svolgono mentre il tram si va riempendo di gente, e termina con la discesa dal tram della popolana (riassunto 2.1-2.5); la seconda è quella delle vicende che si svolgono mentre il tram si va svuotando, e termina con la


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 138

Elio Vittorini discesa dal tram della giovane signora e di Emilio (riassunto 2.6-2.8). Ad esse segue la conclusione (riassunto 3), dove è posto il significato del racconto. L’inizio e la fine sono i punti estremi del percorso in tram e sono gli unici due momenti in cui Emilio non è sul mezzo pubblico. Il tram conduce Emilio a casa propria (dal centro alla periferia) ma il racconto è caratterizzato dalla mancanza di movimento.

3.

La solitudine

Siamo in autunno (prima nebbia 4; bel sole invernale 11). Emilio ha lasciato Tarvisio (il nostro formaggio di Tarvisio 77) ed è giunto probabilmente a Milano (prendere il tram al Duomo 14; i magazzini della Rinascente 15). Non sappiamo quando si sia trasferito, ma il ricordo di una gita in montagna, fatta il giorno prima di lasciare il paese (99-100), fa pensare che si tratti di un avvenimento recente; lo stesso fa credere l’affermazione: stordito ancora un po’del viaggio (12), viaggio che però risale a qualche giorno prima (le altre sere capì 7). Egli sente che la sua vita nuova (105) è un esilio desiderato e penoso (106), ma nulla sappiamo di questo desiderio né di questa pena. Probabilmente il bisogno di vivere in una grande città si è trasformato in delusione coll’esperienza diretta. Emilio abita in periferia e il racconto narra una trasferta serale in tram dal centro alla sua abitazione. Non sappiamo dove lavori, dove abiti, se abbia una famiglia. Ha un bell’aspetto ed è vestito a nuovo (bel tipo di ragazzo 66-67; il mio cappotto è nuovo, elegante 79-80). Gli rincresce lasciare gli amici (1-5) perché sa che la sera non può rivederli dal momento che hanno impegni familiari (6-10), tra la mamma, il babbo, o la sposa e i figlioli (3), di cui egli non sembra godere la vicinanza. In questo atteggiamento rivela una condizione da scapolo, ma dichiara che stasera il pranzo è pronto (74), lasciando credere alla possibilità che viva con una donna; d’altra parte sa che domani sera, per esempio, occorre che lo prepari da me (74-75). La ricerca d’affetto con la ragazza conosciuta in tram torna però a far credere che egli sia solo. È proprio la vicenda con la giovane signora a farci capire, qualunque sia la situazione di Emilio, che egli soffre di solitudine: geografica e (più ancora, e come conseguenza di essa) umana. Si avvicina alla ragazza con desiderio e paura: teme di toccarla (44) ma, accostandosele, è contendo di sentire caldo (47) e morbido (47) e cerca di mantenere il contatto (49), finché gli parve di aderire col proprio corpo ossuto al dorso della signora (50-51). La giovane donna si accorge e si volse a guardarlo, a mettergli sotto il muso quel suo visetto sdegnato e delizioso, sorridendogli anche con un che di maligno e di compiacente (51-53). È il momento della tacita intesa, ma il confronto tra il suo muso e il visetto di lei dice già la difficoltà dell’impresa. Come si vede, il momento del contatto fisico è anche quello della scomparsa della solitudine, ma l’episodio della patata rompe l’incantesimo con determinazione (Qualcosa cadde a terra 54). È vero che, chinatosi a raccoglierla, Emilio sfiora il morbido di lei con la guancia (58) e che con la mano ne sfiora il polpaccio (59); è anche vero però che dopo un lungo momento di malessere, quando la popolana scende dal tram riappropriandosi della patata, Emilio ricade nella solitudine. Richiusosi nel suo isolamento, egli rievoca la gita in montagna presso Tarvisio, pochi giorni prima della trasferta in città; intanto il tram si vuota e la giovane donna si mette a sedere in fondo come chi va lontano (114). Come si vede è l’idea di lontananza che domina in questo momento: la donna è lontana da lui


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XII.

Tranvai - Analisi del testo

13.4.2012

13:45

Pagina 139

139

e sembra andare lontano, mentre egli si è allontanato dalla realtà presente rifugiandosi nel ricordo. Anche Il conduttore e il bigliettario parlavan tra loro ad alta voce dalle due piattaforme urlando (114-115), segno che persino i pochi metri di lunghezza del tram e le sfavorevoli condizioni del viaggio (sportelli aperti 116; vento gelido 116) sono elementi chiamati in causa a consolidare l’idea di lontananza disagevole. La discesa del tram (correva a precipizio per strade in declivio, 113-114) diventa discesa verso la solitudine, espressione fisica dello sconforto morale. Molto significativamente questa discesa è definita dall’ossimoro piacevole e feroce (116), è sentita cioè come una contraddizione; la donna è lì ma è come se non ci fosse; la felicità è a portata di mano ma irraggiungibile. In questo momento di tensione e così ricco di elementi significativi, Vittorini usa per la seconda e ultima volta la parola solitudine: Una paura enorme di solitudine s’era impadronita di Emilio (117), anticipata soltanto da queste sere di sconforto e di solitudine 107). Emilio desidera la giovane donna e immagina di seguirla fin dentro casa sua (120-125). Scesi entrambi dal tram, il desiderio si verifica in parte: solo la donna salirà le scale di casa sorridente, verso di lui (138), lasciandogli una nuova dolcezza (139) perché qualcosa era nato (140) al posto della solitudine. Ad Emilio sembra bastare di essere stato preso in considerazione e degnato di un sorriso: vicino all’amata anche nella lontananza fisica di lei. La vita nuova (105) di Emilio è cominciata una buia sera in periferia, scendendo dal tram ad una fermata che non era la sua; non ci è però concesso saperne il seguito.

4.

Presente, passato, futuro

Il racconto si svolge nel presente e dura pochi minuti, corrispondenti al tragitto del tram dal centro alla periferia, verso le otto di sera. Il viaggio è uniforme, scandito dalle fermate del mezzo pubblico che dapprima si va progressivamente riempendo di gente: Presto anche la piattaforma fu piena di donne, un vento gelido passava nel carrozzone a ogni stridio dello sportello che scuoteva il vetro, il tranviere strillava che non c’era più un posto e presto fu dato il completo (28-30). La calca delle persone è all’origine dell’incontro di Emilio con la giovane donna e della scena della patata. Ad una fermata successiva, la proprietaria delle patate scende ed il tram comincia a svuotarsi, finché Emilio resterà solo con la giovane signora. Quando il tram è vuoto si ha una situazione simile a quella che caratterizza il tram affollato: Il tranvai intanto s’era vuotato e correva a precipizio per strade in declivio. La giovane signora si era messa a sedere in fondo come chi va lontano. Il conduttore e il bigliettario parlavan tra loro ad alta voce dalle due piattaforme urlando. Dagli sportelli aperti soffiava il vento gelido della discesa, piacevole e feroce (113-116). Le analogie sono poste con attenzione e la collocazione dei due brani, oltre che conferire simmetria al viaggio, permette a Vittorini di inserire tra di essi gli unici due momenti della vicenda che interessano il passato e il futuro. Il primo di questi due momenti è la rievocazione del paese d’origine e della gita presso Tarvisio; il secondo è l’immaginazione di come la scena d’amore potrebbe concludersi. Entrambi sono un desiderio: di qualcosa che è accaduto e non riaccadrà, e di qualcosa che non è accaduto e (in parte) accadrà. Il ricordo del paese d’origine è determinato da una caratteristica del percorso del tram: Allora il tram cominciò


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 140

Elio Vittorini a salire sul ponte che cavalcava la ferrovia. Si vedevano in fondo, lungo la linea, i lumi rossi e verdi dei segnali, innumeri, e quelli più piccoli e brillanti di una stazione. Emilio ricordò il suo paese, la ferrovia di Tarvisio, la frontiera popolata di fanali, i fischi notturni dei treni internazionali, il fumo delle gallerie, le fanciulle tedesche dei bar, i minatori del Predil (94-98). Le luci sono innumeri, mentre la visione rievocata è popolata di fanali; ma nel presente c’è il vuoto rappresentato dalla giovane donna ormai quasi irraggiungibile nel suo isolamento in fondo al tram, mentre nel passato vi sono le fanciulle tedesche dei bar: molte e, forse, più disponibili all’avventura. La rievocazione della gita in montagna è struggente di nostalgia. La descrizione del paesaggio (99-104) si conclude carica di rimpianto: Addio inverno della montagna (104); ad essa seguono alcune riflessioni significative (104-112) che dicono come Emilio in montagna pensasse alla città così come ora in città pensa alla montagna; da un lato un presentimento (presentito 108; presentimenti 112), dall’altro una identificazione; sempre però nel dolore: Soffriva proprio come aveva creduto di dover soffrire. Era stato previdente nel suo dolore (108-109). La causa e l’oggetto del dolore restano imprecisati. L’immaginazione del seguito dell’incontro d’amore con la giovane donna mette in evidenza il bisogno struggente d’affetto di Emilio. Si contrappongono quasi drammaticamente: lo portasse con lei (120-121) e respinto (121); la via spenta e deserta (122) e il portoncino luccicante (122). Dunque nel futuro c’è opposizione temuta, mentre nel passato c’è identificazione prevista. Lo sguardo al passato e al futuro acquista il valore di effimero sogno, dal quale Emilio torna bruscamente alla realtà; così dicono le ultime parole del racconto, commentando l’esito soddisfacente della vicenda: Capì che qualcosa era nato, con più naturalezza di un sogno. Qualcosa di più confortante e durevole, più forte, che una qualunque avventura (140-141).

5.

Gli oggetti simbolici

Alcuni oggetti chiave caratterizzano il tempo passato, presente e futuro. Al passato si associa il formaggio: quel formaggio acre e leggero che mi piace, il nostro formaggio di Tarvisio (76-77). Al presente si associa la patata (54-93). Al futuro i fiori (124) e il ritratto (125). Emilio prevede, nelle successive trasferte in tram dal centro alla periferia, di portare con sé il formaggio del suo paese e altri commestibili (prosciutto 76, burro 78, acciughe 78) coi quali delinea il suo ritratto sociale di piccolo borghese, in contrapposizione alla patata che a suo dire lo qualifica come miserabile (Ma questa smorfiosa crede proprio che possa portare in tasca le patate? il mio aspetto non può essere di miserabile 78-79). Dei commestibili che saranno acquistati, nulla si dice più del loro nome, salvo che per il formaggio paesano, definito acre e leggero; si tratta quasi di un ossimoro, certo di una qualifica che rivela almeno una coesistenza problematica delle componenti. La quasi contraddizione legata al formaggio si presenta in forma ancora più netta nella stessa zona degli eventi passati: lassù in montagna Emilio aveva pensato al suo prossimo esilio desiderato e penoso (106); quando poi, subito dopo aver pensato alle sue montagne, Emilio è colto dalla paura della solitudine, il disagio del viaggio è definito piacevole e feroce (116), con la stessa tecnica retorico-stilistica. Oggetti e situazioni del passato e del presente si raggrumano a definire l’esistenza come sofferta contraddizione. Se consideriamo tutta la serie degli oggetti simbolo, vediamo


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XII.

13.4.2012

13:45

Tranvai - Analisi del testo

Pagina 141

141

che lungo la linea del tempo si succedono prima alcuni commestibili legati alla fisicità del vivere; poi la patata, commestibile ma cruda e inerte, tenuta in mano come oggetto fuorviante e imbarazzante che perde immediatamente le sue fattezze reali (la patata sembrava enorme, e che pesasse un chilo, due chili 69-70) e che si oppone al pacchetto tenuto in mano dalla giovane donna (vergognato di tenerla in mano guardava l’intatto, galante, pulito involtino 70, che egli crede un cartoccio di dolci, paste, cioccolato o certosino 62-63); da ultimo i fiori (124) e il ritratto (125). Si tratta di un percorso di sublimazione a tre fasi (formaggio, patata, fiori), nell’ultima delle quali però interviene un ritratto, cioè un surrogato della figura umana. Non sappiamo chi sia la persona effigiata nel ritratto ma possiamo pensare all’uomo (marito? amante?) della giovane donna. Fiori e ritratto gli farebbero subito venire l’impulso di scappar via (125), ma la fuga sembra determinata non tanto dai fiori quanto dal ritratto: Emilio non può fare a meno di inventarsi un futuro con la presenza dell’antagonista, a testimonianza del suo stato di irrequietezza per una tensione interiore profonda e destinata a rimanere irrisolta.

6.

I mezzi di locomozione, il ponte, l’acqua

Sul tram si svolgono i fatti nella quasi loro totalità; persino lo sguardo retrospettivo e l’ipotesi per il futuro hanno luogo sul tram. Ad un certo punto del viaggio il tram si fermò, bruscamente, dinanzi a un passaggio a livello (88-89) e la popolana scese; poi il tram cominciò a salire sul ponte che cavalcava la ferrovia (94). Sono le luci della stazione ferroviaria che fanno scattare il ricordo di Emilio: ricordò il suo paese, la ferrovia di Tarvisio, la frontiera popolata di fanali, i fischi notturni dei treni internazionali, il fumo delle gallerie, le fanciulle tedesche dei bar, i minatori del Predil (96-98). Come si vede, il nuovo mezzo di locomozione (il treno) che viene a frapporsi al percorso del tram attraverso la presenza del ponte cavalcavia, è determinante per l’organizzazione del racconto: la ferrovia cittadina richiama quella paesana; presente e passato si sovrappongono. Sappiamo già che la somiglianza è nella prospettiva del dolore: Soffriva proprio come aveva creduto di dover soffrire. Era stato previdente nel suo dolore (108-109). La ferrovia è quindi un elemento di questo dolore; così come è parzialmente dolorosa l’esperienza in tram. Tram e treno sono pensati nel loro movimento, nel loro spostamento (a Tarvisio i treni ricordati sono internazionali 97); ma sempre il moto è condizionato dalla rotaia: è quindi prestabilito e non ammette deroghe e varianti. Non sappiamo che cosa abbia determinato in Emilio un trauma legato allo spostamento vincolato. Viene voglia di credere che Emilio sia Vittorini, biograficamente in relazione col mondo della ferrovia e con un certo conseguente nomadismo familiare. Verso la fine del racconto Emilio scende dal tram e segue la giovane donna lungo una strada che costeggiava un fiume (128), raggiungendola su un ponte (129). È il secondo ponte della vicenda narrata. Fermo sul ponte Emilio ascoltò a lungo il tramestìo delle ruote, lo squillo monotono e argentino del campanello che pareva chiamare la gente alla sua leggera felicità, seguito a distanza da altri rumori più cupi di tranvai in discesa, svegliati nell’aria improvvisamente come i richiami vicendevoli e sperduti dei battelli in mare (131-135). Non è chiaro se la leggera felicità dello scam-


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 142

Elio Vittorini panellare del tram vuoto si trasmetta anche a Emilio, oppure se egli ne rimanga escluso; forse è il segnale di quella debole ma duratura felicità che il protagonista sta per provare. Essa si oppone allo stato d’animo ben diverso suscitato da altri rumori più cupi, definiti mediante il paragone dei battelli marini. L’acqua è l’insidia che ostacola la felicità, il correttivo doloroso al piacere, come sembra già anticipare l’acqua del fiume che corre parallelo alla strada. La stessa cosa succede nella scena della rievocazione, dove la passeggiata in montagna è sì vissuta come un’esperienza felice, ma dove si evidenziano i laghi di Weissenfeld (100), uno dei quali è connotato dall’acqua mortale (104). L’acqua, sia essa ferma e circoscritta o mobile e aperta, costituisce una minaccia; forse però quella del mare (che è soltanto metaforica) esercita una più forte suggestione per il potere liberatorio latente che sembra contraddistinguerla, dal momento che i battelli la solcano senza dover compiere il percorso vincolante delle rotaie del tram e del treno.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XIII.

Cinci

XIII.

Cinci

13.4.2012

13:45

Pagina 143

143

Luigi Pirandello (1867-1936)

Un cane, davanti una porta chiusa, s’accula paziente aspettando che gli s’apra; al più, alza ogni tanto una zampa e la gratta, emettendo qualche sommesso guaìto. Cane, sa che non può fare di più. Di ritorno dalle lezioni del pomeriggio, Cinci, col fagotto dei libri e dei quaderni legati con la cinghia sotto il braccio, trova il cane lì davanti alla porta e, irritato da quell’attesa paziente – un calcio; calci anche alla porta, pur sapendo che è chiusa a chiave e che in casa non c’è nessuno; alla fine, ciò che gli pesa di più, quel fagotto di libri, rabbiosamente per sbarazzarsene lo scaraventa contro la porta, come se attraverso il legno possa passare e andare a finir dentro casa. La porta, invece, con la stessa forza glielo rimanda subito sul petto. Cinci ne resta sorpreso, come d’un bel gioco che la porta gli abbia proposto, e rilancia il fagotto. Allora, poiché già sono in tre a giocare, Cinci il fagotto e la porta, ci si mette anche il cane e springa a ogni lancio, a ogni rimbalzo, abbaiando. Qualche passante si ferma a guardare: chi sorride, quasi avvilito della sciocchezza di quel gioco e del cane che ci si diverte; chi s’indigna per quei poveri libri; costano danari; non dovrebbe esser lecito trattarli con tanto disprezzo. Cinci leva lo spettacolo; a terra il fagotto e, strisciando con la schiena sul muro, ci si cala a sedere; ma il fagotto gli sguscia di sotto e lui sbatte a sedere in terra; fa un sorriso balordo e si guarda attorno, mentre il cane salta indietro e lo mira. Tutte le diavolerie che gli passano per il capo Cinci le dà quasi a vedere in quei ciuffi scompigliati dei suoi capelli di stoppa e negli occhi verdi aguzzi che sembrano vermicarne. È nell’età sgraziata della crescenza, ispido e giallo. Tornando a scuola, quel pomeriggio, ha dimenticato a casa il fazzoletto, per cui ora, di tanto in tanto, lì seduto a terra, sorsa col naso. Si fa venire quasi sulla faccia le ginocchia enormi delle grosse gambe scoperte perché porta ancora, e non dovrebbe più, i calzoni corti. Butta sbiechi i piedi, camminando; e non ci sono scarpe che gli durino; queste che ha ai piedi sono già rotte. Ora, stufo, s’abbraccia le gambe, sbuffa e si tira su con la schiena contro il muro. Si leva anche il cane e pare gli domandi dove si vada adesso. Dove? In campagna, a far merenda, rubando qualche fico o qualche mela. È un’idea; non ne è ancora ben sicuro.

5

10

15

20

25


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 144

Luigi Pirandello Il lastricato della strada finisce lì, dopo la casa; poi comincia la via sterrata del sobborgo che conduce in fondo in fondo alla campagna. Chi sa che bella sensazione deve provarsi, andando in carrozza, quando i ferri dei cavalli, e le ruote passano dal duro del lastricato strepitoso al molle silenzioso dello sterrato. Sarà forse come quando il professore, dopo aver tanto sgridato perché lui l’ha fatto arrabbiare, tutt’a un tratto si mette a parlargli con una molle bontà soffusa di rassegnata malinconia, che tanto più gli piace quanto più l’allontana dal temuto castigo. Sì, andare in campagna; uscire dallo stretto delle ultime case di quel puzzolente sobborgo, fin dove la via allarga laggiù nella piazzetta all’uscita del paese. C’è ora l’ospedale nuovo laggiù, i cui muri intonacati di calce sono ancora così bianchi che al sole bisogna chiudere gli occhi, da come accecano. Vi hanno trasportato ultimamente tutti gli ammalati che erano nel vecchio, con le ambulanze e le lettighe; è parsa quasi una festa, vederne tante in fila; le ambulanze avanti, con tutte le tele svolazzanti ai finestrini; e, per gli ammalati più gravi, quelle belle lettighe traballanti sulle molle, come ragni. Ma ora è tardi; il sole sta per tramontare, e qua e là ai finestroni non staranno più affacciati i convalescenti, in càmice grigio e zucchetto bianco, a guardare con tristezza la chiesina vecchia dirimpetto, che sorge là tra poche altre case, vecchie anch’esse, e qualche albero. Dopo quella piazzetta la strada si fa di campagna e monta alla costa del poggio. Cinci si ferma; torna a sbuffare. Ci deve andare davvero? Si riavvia svogliato, perché comincia a sentirsi ribollire nelle viscere tutto il cattivo che gli viene da tante cose che non sa spiegarsi: sua madre, come viva, di che viva, sempre fuori di casa, e ostinata a mandarlo ancora a scuola; maledetta, così lontana: ogni giorno, a volare, almeno tre quarti d’ora, di quaggiù dove sta, per arrivarci; e poi per tornare a mezzogiorno; e poi di nuovo per ritornarci, finito che ha di buttar giù due bocconi; come fare a tempo? e sua madre dice che il tempo gli passa a giocare col cane, e che è un bighellone, e insomma a sbattergli in faccia sempre le stesse cose: che non studia, che è sudicio, che se lo manda a comprare qualcosa, la peggio roba l’appiccicano a lui… Dov’è Fox? Eccolo: gli trotta dietro, povera bestia. Eh, lui almeno lo sa che cosa deve fare: seguire il suo padrone. Fare qualche cosa: la smania è proprio questa: non sapere che cosa. Potrebbe pur lasciargliela, sua madre, la chiave, quando va a cucire a giornata, come gli dà a intendere, nelle case dei signori. Ma no, dice che non si fida, e che al suo ritorno dalla scuola, se lei non è rincasata, poco potrà tardare, e che dunque la aspetti. Dove? Lì fermo davanti alla porta? Certe volte ha aspettato perfino due ore, al freddo, e anche sotto la pioggia; e apposta allora, in luogo di ripararsi, è andato al cantone a pigliarsi lo sgrondo, per farsi trovare da lei tutto intinto da strizzare. Vederla alla fine arrivare, affannata, con un ombrello prestato, il volto in fiamme, gli occhi lustri sfuggenti, e così nervosa che non trova neanche più la chiave nella borsetta. – Ti sei bagnato? Abbi pazienza, ho dovuto far tardi. Cinci aggrotta le ciglia. A certe cose non vuol pensare. Ma suo padre, lui, non l’ha conosciuto; gli è stato detto che è morto, prima ancora che lui nascesse; ma chi era non gli è stato detto; e ora lui non vuole più né domandarlo né saperlo. Può essere anche quell’accidentato che si trascina perso da una parte – sì, bravo – ancora alla taverna. Fox gli si para davanti e gli abbaia. Gli farà impressione la stampella. Ed ecco qua tutte queste donne a crocchio, con tanto di pancia senz’esser gravide; forse una sì; quella con la sottana rizzata davanti un palmo dal suolo e che dietro spazza la

30

35

40

45

50

55

60

65

70

75


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XIII.

Cinci

13.4.2012

13:45

Pagina 145

145

strada; e quest’altra col bambino in braccio che ora cava dal busto… ah, peuh, che pellàncica! La sua mamma è bella, ancora tanto giovane, e a lui bambino il latte, così dal seno, lo diede anche lei, forse in una casa di campagna, in un’aia, al sole. Ha il ricordo vago d’una casa di campagna, Cinci; dove forse, se non l’ha sognata, abitò nell’infanzia, o che forse vide allora in qualche parte, chi sa dove. Certo ora, a guardarle da lontano, le case di campagna, sente la malinconia che deve invaderle quando comincia a farsi sera, col lume che vi s’accende a petrolio, di quelli che si portano a mano da questa stanza a quella, che si vedono scomparire da una finestra e ricomparire dall’altra. È arrivato alla piazzetta. Ora si vede tutta la cala del cielo dove il tramonto s’è gia ammorzato, e sopra il poggio, che pare nero, il celeste tenero tenero. Sulla terra è già l’ombra della sera, e il grande muro bianco dell’ospedale è illividito. Qualche vecchia in ritardo s’affretta alla chiesina per il Vespro. Cinci d’improvviso s’invoglia d’entrarci anche lui, e Fox si ferma a guardarlo, perché sa bene che a lui non è permesso. Davanti all’entrata la vecchina in ritardo s’affanna e pìgola alle prese col coltrone di cuoio troppo pesante. Cinci l’aiuta a sollevarlo, ma quella, invece di ringraziarlo, lo guarda male, perché capisce che non entra in chiesa per divozione. La chiesina ha il rigido d’una grotta; sull’altare maggiore i guizzi baluginanti di due ceri e qua e là qualche lampadino smarrito. Ha preso tanta polvere, povera chiesina, per la vecchiaia; e la polvere sa d’appassito in quella cruda umidità; il silenzio tenebroso pare che stia con tutti gli echi in agguato d’ogni minimo rumore. Cinci ha la tentazione di gettare un bercio per farli tutti sobbalzare. Le beghine si sono infilate nelle panche, ciascuna al suo posto. Il bercio no, ma gettare a terra quel fagotto di libri che gli pesa, come se gli cadesse per caso di mano, perché no? Lo getta, e subito gli echi saltano addosso al colpo che rintrona e lo schiacciano, quasi con dispetto. Questa dell’eco che salta addosso a un rumore come un cane infastidito nel sonno e lo schiaccia, è un’esperienza che Cinci ha fatta con gusto altre volte. Non bisogna abusare della pazienza delle povere beghine scandalizzate. Esce dalla chiesina; ritrova Fox pronto a seguirlo e riprende la strada che sale al poggio. Qualche frutto da addentare bisogna che lo trovi, scavalcando più là una muriccia e buttandosi tra gli alberi. Ha lo struggimento; ma non sa propriamente se per bisogno di mangiare o per quella smania che gli s’è messa allo stomaco, di fare qualche cosa. Strada di campagna, in salita, solitaria; ciottoli che gli asinelli alle volte si prendono tra gli zoccoli e fanno ruzzolare per un tratto e poi, dove si fermano, stanno; eccone uno lì: un colpo, con la punta della scarpa: godi, vola! erba che spunta sulle prode o a piè delle muricce, lunghi fili d’avena impennacchiati che fa piacere brucare: tutti i pennacchietti restano a mazzo nelle dita; si gettano addosso a qualcuno, e quanti se n’attaccano, tanti mariti (se è una donna) prenderà, e tante mogli se un uomo. Cinci vuol far la prova su Fox. Sette mogli, nientemeno. Ma non è prova, perché sul pelo nero di Fox son rimasti impigliati tutti quanti. E Fox, vecchio stupido, ha chiuso gli occhi ed è rimasto, senza capir lo scherzo, con quelle sette mogli addosso. Non ha più voglia d’andare avanti, Cinci. È stanco e seccato. Si tira a sedere sulla muriccia a manca della strada e di là si mette a guardare nel cielo la larva della luna che comincia appena appena a ravvivarsi d’un pallido oro nel verde che s’estenua nel crepuscolo morente. La vede e non la vede; come le cose che gli vagano nella mente e l’una si cangia nell’altra e tutte l’allontanano sempre più dal suo corpo lì seduto inerte, tanto che non se lo sente più; la sua stessa mano, se gli s’avvistasse, posata

80

85

90

95

100

105

110

115

120


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 146

Luigi Pirandello sul ginocchio, gli sembrerebbe quella d’un estraneo, o quel suo piede penzoloni nella scarpa rotta, sporca: non è più nel suo corpo: è nelle cose che vede e non vede, il cielo morente, la luna che s’accende, e là quelle masse cupe d’alberi che si stagliano nell’aria fatta vana, e qua la terra solla, nera, zappata da poco, da cui esala ancora quel senso d’umido corrotto nell’afa delle ultime giornate d’ottobre, ancora di sole caldo. A un tratto, tutt’assorto com’è, chi sa che gli passa per le carni, stolza, e istintivamente alza la mano a un orecchio. Una risatina stride da sotto la muriccia. Un ragazzo della sua età, contadinotto, s’è nascosto laggiù, dalla parte della campagna. Ha strappato e brucato anche lui un lungo filo d’avena, gli ha fatto un cappio in cima e, zitto zitto, con esso, alzando il braccio, ha tentato d’accappiare a Cinci l’orecchio. Appena Cinci, risentito, si volta, subito quello gli fa cenno di tacere e tende il filo d’avena lungo la muriccia, dove tra una pietra e l’altra spunta il musetto d’una lucertola, a cui con quel cappio egli dà la caccia da un’ora. Cinci si sporge a guardare, ansioso. La bestiola, senz’accorgersene, ha infilato da sé il capo nel cappio lì appostato; ma ancora è poco; bisogna aspettare che lo sporga un tantino di più, e può darsi che invece lo ritragga, se la mano che regge il filo d’avena tremola e le fa avvertire l’insidia. Forse ora è sul punto d’assaettarsi per evadere da quel rifugio divenuto una prigione. Sì, sì; ma attenti allora a dare a tempo la stratta per accappiarla. È un attimo. Eccola! E la lucertola guizza come un pesciolino in cima a quel filo d’avena. Irresistibilmente Cinci salta giù dalla muriccia; ma l’altro, forse temendo che voglia impadronirsi della bestiola, rotea più volte in aria il braccio e poi la sbatte con ferocia su un lastrone che si trova lì tra gli sterpi. – No! – grida Cinci; ma è troppo tardi: la lucertola giace immobile su quel lastrone col bianco della pancia al lume della luna. Cinci se ne adira. Ha voluto sì, anche lui, che quella povera bestiola fosse presa, preso lui stesso per un momento da quell’istinto della caccia che è in tutti agguattato; ma ucciderla così, senza prima vederla da vicino, negli occhietti acuti fino allo spasimo, nel palpito dei fianchi, nel fremito di tutto il verde corpicciuolo; no, è stato stupido e vile. E Cinci avventa con tutta la forza un pugno in petto a quel ragazzo e lo manda a ruzzolare in terra tanto più lontano quanto più quegli, così tutto squilibrato indietro, tenta di riprendersi per non cadere. Ma caduto, subito si rizza inferocito, ghermisce un toffo di terra e lo scaglia in faccia a Cinci, che ne resta accecato e con quel senso d’umido in bocca che più gli sa di sfregio e l’imbestialisce. Prende anche lui di quella terra e la scaglia. Il duello si fa subito accanito. Ma l’altro è più svelto e più bravo; non fallisce colpo, e gli viene sempre più addosso, avanzando, con quei toffi di terra che, se non feriscono, percuotono sordi e duri e, sgretolandosi, sono come una grandinata da per tutto, in petto e sulla faccia tra i capelli agli orecchi e fin dentro le scarpe. Soffocato, non sapendo più come ripararsi e difendersi, Cinci, furibondo, si volta, spicca un salto e col braccio alzato strappa una pietra dalla muriccia. Qualcuno di là si ritrae: sarà Fox. Scagliata la pietra, d’un tratto – com’è? – da che tutto prima gli si sconvolgeva, balzandogli davanti agli occhi, quelle masse d’alberi, in cielo la luna come uno striscio di luce, ora ecco nulla si muove più, quasi che il tempo stesso e tutte le cose si siano fermati in uno stupore attonito intorno a quel ragazzo traboccato a terra. Cinci, ancora ansante e col cuore in gola, mira esterrefatto, addossato alla muriccia, quell’incredibile immobilità silenziosa della campagna sotto la luna, quel ragazzo che vi giace con la faccia mezzo nascosta nella terra, e sente crescere in sé formidabilmente il senso d’una solitudine eterna, da cui deve subito fuggire. Non è stato lui; lui non l’ha voluto; non ne sa nulla. E allora, proprio come se non sia

125

130

135

140

145

150

155

160

165


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XIII.

Cinci

13.4.2012

13:45

Pagina 147

147

stato lui, proprio come se s’appressi per curiosità, muove un passo e poi un altro, e si china a guardare. Il ragazzo ha la testa sfragellata, la bocca nel sangue colato a terra nero, una gamba un po’ scoperta, tra il calzone che s’è ritirato e la calza di cotone. Morto, come da sempre. Tutto resta lì, come un sogno. Bisogna che lui se ne svegli per andar via in tempo. Lì, come in un sogno, quella lucertola arrovesciata sul lastrone, con la pancia alla luna e il filo d’avena che pende ancora dal collo. Lui se ne va, col suo fagotto di libri di nuovo sotto il braccio, e Fox dietro, che anche lui non sa nulla. A mano a mano che s’allontana, discendendo dal poggio, diviene sempre più così stranamente sicuro, che non s’affretta nemmeno. Arriva alla piazzetta deserta; c’è anche qui la luna; ma è un’altra, se ora qui rischiara, senza saper nulla, la bianca facciata dell’ospedale. Ecco ora la via del sobborgo, come prima. Arriva a casa: sua madre non è ancora rientrata. Non dovrà dunque dirle neppure dove è stato. È stato lì ad aspettarla. E questo, che ora diventa vero per sua madre, diventa subito vero anche per lui; difatti, eccolo con le spalle appoggiate al muro accanto alla porta. Basterà che si faccia trovare così.

Testo di riferimento L. PIRANDELLO, Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, Milano, Mondadori («I Meridiani»), vol. III 1, 1990, pp. 667-665.

170

175

180


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 148

Luigi Pirandello

XIII.

Analisi del testo

1.

Riassunto dell’intreccio 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

2.

Cinci davanti alla porta di casa (1-29). Cinci percorre la strada che porta in periferia (30-83). Cinci in chiesa (84-102). Cinci percorre la strada che sale al poggio (102-115). Cinci incontra un ragazzo, litiga e lo uccide (116-174). Cinci torna a casa (175-178). Cinci davanti alla porta di casa (178-182).

I momenti della vicenda

Il punto di partenza (sezione 1) e d’arrivo (sezione 7) coincidono, così che il racconto ha un andamento circolare ed acquista un carattere di forte omogeneità e staticità. Ma in esso si compie un omicidio, che coincide col punto di massimo allontanamento da casa di Cinci ed è il centro tematico della vicenda; non ne è però il centro formale perché il viaggio di ritorno nella sezione 6 non è altro che, a ritroso, quello di andata dalla 2 alla 5. Siccome la 1 rappresenta la situazione iniziale, prima che Cinci metta in moto la macchina dell’avventura, e la 7 rappresenta la situazione finale identica, il racconto si presenta fortemente simmetrico: ad 1 fa riscontro 7, a 2-5 fa riscontro 6. Cinci, giunto alla fine di 4, avrebbe dovuto salire il poggio ma il percorso programmato viene interrotto da un imprevisto che ne impedisce l’attuazione.

3.

La frustrazione del protagonista

Cinci è un adolescente disadattato. Pirandello ne coglie la condizione di crisi analizzandone la frustrazione attraverso tre componenti principali: il comporta-


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XIII.

13.4.2012

13:45

Pagina 149

Cinci - Analisi del testo

149

mento (a), i sentimenti (b) e le caratteristiche fisiche (c). Ecco i dati (numerazione progressiva e indicazione delle sezioni del riassunto): 1.

2.

3.

4.

5.

6.

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28.

Si irrita per l’attesa della madre (5-6) (b) Dà calci al cane e alla porta (6) (a) Lancia i libri contro la porta (8) (a) Ha capelli biondi e occhi verdi (20) (c) È sgraziato (21) (c) Sorsa con il naso (23) (a) Cammina male (25) (a) È stufo (26) (b) Sbuffa (26) (a) Vorrebbe rubare frutta (28) (b) Sente di essere cattivo (49-50) (b) Maledice la madre (51) (b) Non sa come comportarsi (59-60) (a) Non vuol sapere nulla del padre morto (71) (b) Aiuta una donna ad entrare in chiesa (90) (a) Vorrebbe gridare (95-96) (b) Getta i libri per terra (97-98) (a) Si sente smanioso (105-106) (b) Scaglia un sasso (109) (a) Getta addosso al cane i pennacchi di un fiore (112-114) (a) Sente di non appartenere più al proprio corpo (123) (b) È risentito per lo scherzo fattogli dal ragazzo (131-132) (b) È ansioso per la sorte della lucertola (140-141) (b) Percuote il ragazzo (148-150) (a) Uccide il ragazzo (158-159) (a) Si sente eternamente solo (165-166) (b) È frastornato per il delitto (167-169) (b) Si sente rassicurare (175-176) (b)

Le categorie fisiche (c) sono soltanto nella sezione 1, e sono date all’inizio perché l’autore possa poi concentrarsi sullo scavo psicologico. Nella 1 sono pure massicci i dati del comportamento (a), che sono in parte causa dell’iniziale sentimento di irritazione (1.1). Quando invece, nella sezione 2, Cinci percorre il sobborgo, l’attenzione dell’autore si sposta sui dati del sentimento (b). Nelle altre sezioni (a) e (b) coesistono, come se fosse stato raggiunto un certo equilibrio psico-motorio; ma è invece proprio in uno di quei momenti di presunto equilibrio che Cinci uccide il ragazzo. I sentimenti trovano uno sfogo esterno (numeri 1, 8, 11, 13, 16, 18, 22, 23, 26) oppure conservano la loro interiorizzazione (numeri 12, 14, 21, 27, 28). Più interessanti sono questi ultimi perché coinvolgono la madre (numero 12), il padre (numero 14) e lo stato esistenziale di Cinci (numeri 21, 27, 28); tra essi rilevantissimo è il momento di totale alienazione dal mondo e da sé stesso (numero 21) che Cinci prova stando seduto sul muricciolo, e che è la condizione necessaria al compimento del delitto in uno stato di mancanza di premeditazione e perciò di non colpevolezza. Ma è interessante anche il


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 150

Luigi Pirandello gioco col fiore (numero 20) con il quale poco prima del delitto Cinci esprime il suo bisogno di affetto attraverso la ricerca del legame tra marito e moglie (anche se il test è sperimentato sul cane, che è il più adatto a prestarsi alla prova). Il comportamento di Cinci è sempre intriso di violenza; essa è rivolta agli oggetti circostanti (numeri 3, 7, 19) ma tocca specialmente gli esseri viventi: il cane (numero 2), che è il sostituto di un essere umano, la donna che entra in chiesa (numero 15), aiutata solo per avere un capro espiatorio, il ragazzo (numeri 24, 25). L’effetto della violenza cresce fino alla tragedia (numeri 2, 15, 24, 25) anche se è intervallato con momenti di calo (numeri 3, 7,19).

4.

I ricordi del protagonista Ecco i dati del testo:

2.

4. 5.

29. 30. 31. 32. 33. 34.

Il professore di scuola lo rimprovera ma si rabbonisce (34-36) Gli ammalati sono trasferiti nel nuovo ospedale (40-43) La madre attende a lungo (63-68) La casa di campagna dove era cresciuto (78-83) L’eco sembra piacevolmente schiacciarlo (98-101) Pensieri imprecisati (119-120)

L’interesse è dato dal fatto che quanto più Cinci si allontana da casa, cioè dalla dura realtà che lo opprime, tanto più si intensificano i ricordi, dal passato prossimo (numeri 29-31) al passato remoto (numero 32). Nella sezione 3, quando ormai è prossima la tragedia, il ricordo è piacevole ma concerne un fatto che è diretto contro la persona di Cinci (numero 33), quasi a preannunciare l’evento dell’uccisione del ragazzo attraverso un tentativo di suicidio inconsciamente autopunitivo. Nella sezione 5 l’alienazione (numero 21) è tale che l’autore non se la sente di dare forma ai pensieri né ai ricordi di Cinci (numero 34). L’insistenza sul passato è massiccia. Cinci vive col peso di un passato traumatizzante: che solo nel momento più remoto (numero 32) è interamente dolce, solo nel momento più vicino è interamente amaro (numero 31), e che altrimenti è un misto di amarezza e di dolcezza (numeri 29, 30, 33).

5.

Il cane

Il racconto inizia con Fox che guaisce timidamente in attesa che gli venga aperta la porta di casa. Su una linea di testo a sé stante, in modo da evidenziare l’asserto, Pirandello colloca la considerazione: Cane, sa che non può fare di più (3). Sottolinea dunque l’impotenza, la dipendenza dell’animale. È una allusiva chiave di lettura del testo: Cinci è in una condizione analoga, quasi come una bestia, ma è in grado di ribellarsi, col risultato di ammazzare un coetaneo. Quasi è meglio essere bestia che uomo. La bestia e il ragazzo-bestia convivono durante tutto lo svolgimento della vicenda, ma il loro legame si va allentanando progressivamente:


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XIII.

1. 2. 3. 4. 5.

13.4.2012

13:45

Pagina 151

Cinci - Analisi del testo

35. 36. 37. 38. 39. 40. 41. 42. 43.

151

Fox gioca con Cinci (12-14) Fox segue Cinci (27) Fox segue Cinci (57-59) Fox abbaia allo sciancato (73) Fox non può entrare in chiesa (88-89) Fox segue Cinci (102-103) Fox sperimenta il test delle mogli (102-115) Fox fugge da Cinci (159) Fox segue Cinci (174)

L’unione tra Cinci e Fox è massima nel gioco (numero 35) e nella comune partenza per l’avventura (numero 36), dove il cane (dice l’autore) sembra interrogare il padrone. In 37 Cinci lo perde di vista per un istante e lo chiama povera bestia (58); in 38 Fox compie un’azione che Cinci non compie ed in 39 i due sono divisi per qualche minuto, l’uno invisibile all’altro. In 40 i due si riuniscono, ma in 41 sono ancora divisi dal risultato del test, che invoglia Cinci a chiamare Fox vecchio stupido (114). In 42, in corrispondenza del delitto, si ha il punto di separazione totale con la fuga di Fox. L’autore non rinuncia però a far tornare a casa i due ancora riuniti (numero 43).

6.

Gli esseri umani attorno al protagonista

La scena della vicenda è quasi vuota ma Cinci ha una larvata vita di relazione con persone umane: 1. 2.

3. 4. 5.

44. 45. 46. 47. 48. 49. 50. 51. 52. 53. 54.

I passanti che disapprovano il gioco di Cinci (13-16) Il professore che rimprovera Cinci, poi lo perdona (34-36) [ricordo] Gli ammalati che sono trasferiti dall’ospedale (40-43) [ricordo] La madre assente (50-54; 62-68) [ricordo] Il padre morto (69-71) [ricordo] Lo sciancato (72-73) La donna che allatta (77) Gli abitanti delle case circostanti (80-83) Le donne che si recano in chiesa (89-91; 96-97) Le mogli per Fox (113-115) [ipotesi] Il ragazzo che sarà ucciso (128-166)

Nelle sezioni 2 e 3 gli incontri avvengono prima nell’astrazione del ricordo (numeri 45-48), poi nella concretezza della realtà (numeri 49-51). Nel ricordo vi è spazio per sentimenti piacevoli (45, 46: il perdono e la guarigione), nella realtà avviene lo stesso ma in modo più incerto (50, 51: il neonato, l’intimità della casa). Si ha un andamento simmetrico (Ri = ricordo; Re = realtà): 45 Ri

46 Ri

47 Ri

48 Ri

49 Re

50 Re

51 Re

52 Re


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 152

Luigi Pirandello Il padre morto è correlato con lo sciancato (da Cinci stesso); la madre, che fa la prostituta, è correlata con la donna che allatta (da Cinci stesso che, dal confronto, fa risultare la bellezza della madre); gli ammalati, con gli abitanti delle case vicine; il professore arrabbiato, con le beghine scandalizzate. La realtà, dunque, non ha nulla di positivamente autonomo e si impone attraverso un legame stretto con l’esperienza vissuta. Nella sezione 4 la prova delle mogli rappresenta l’apertura verso il futuro realizzato attraverso il nucleo familiare; ma tale prova non riesce (perché tutti i piumini del fiore si appiccicano al pelo del cane, e non solo alcuni come dovrebbe) e quindi quel tipo di futuro è impossibile. Puntualmente, alla non riuscita della prova tien dietro l’omicidio. Dunque la prova (numero 53) fa da spartiacque tra un passato difficile e un futuro prossimo insopportabile.

7.

La chiesa

La sezione 3 merita attenzione. Cinci ha lasciato il paese ed è diretto sul poggio a rubare frutta per merenda. Lo attende perciò un momento piacevole ma esso non si verificherà perché subentra il ragazzo col quale un gioco (altro momento piacevole irrealizzato) finisce in tragedia. Questo sviluppo narrativo, in sé coerente, viene interrotto quando, lungo il percorso in campagna (sezioni 2, 4), l’autore inserisce un momento apparentemente estraneo. Cinci, per così dire, è attratto verso una direzione fuorviante rispetto a quanto è stato programmato fin dall’inizio. Perché rompere il ritmo del viaggio con una deviazione in chiesa che non sembra avere una funzione nello svolgersi della narrazione? L’importanza dell’episodio si situa sul piano psicologico, non su quello narrativo; incide sul significato della vicenda, non sulla vicenda in quanto tale. Sta a dire che a Cinci è data la possibilità di sottrarsi all’omicidio per il quale egli è inconsapevolmente predestinato. Pirandello lascia che Dio si inserisca nella composizione del racconto. Ma, sembra, neppure Dio può fare qualcosa per quella creatura che il malefico destino risucchia sulla strada dell’omicidio. La chiesa è, beffardamente, l’alternativa alla casa familiare. Cinci non ha potuto entrare in casa (forse così avrebbe evitato il dramma?), ed ora è attratto in chiesa. La chiesa ha il rigido d’una grotta (92), illuminata a fatica dai guizzi baluginanti di due ceri (92) e da qualche lampadino smarrito (93). Pare proprio che la luce non possa competere con le tenebre e che la casa di Dio accolga Cinci come fosse la casa di Satana. Cinci ha aiutato una vecchia ad entrare in chiesa, scostandole la pesante tenda d’ingresso; ma la donna ha capito (da cosa?) che egli non entra in chiesa per divozione (91) e non compie una buona azione ma prepara la realizzazione di un’azione riprovevole. Cinci rinuncia a gridare per spaventare i presenti (dalla sua bocca uscirà più tardi solo il disperato No! (143) per la morte della lucertola) e sostituisce al grido umano il grido delle cose, gettando a terra il fagotto dei libri: con un atto di ostilità violenta che è stato attuato anche nella sezione 1 contro la porta di casa. Cinci inconsapevolmente si ribella contro la casa, cioè contro la madre (nella sezione 1) e il padre (nella 3): quest’ultimo sostituito, perché morto, col Padreterno.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XIII.

Cinci - Analisi del testo

8.

L’ospedale

13.4.2012

13:45

Pagina 153

153

Nel racconto troviamo due volte un ospedale (38-40; 177-178) che non ha peso nello sviluppo narrativo. Una prima volta nella sezione 2, in contrasto con quanto precede: non più nel sobborgo ma fuori; il sobborgo è vecchio e grigio, l’ospedale nuovo e bianco di calce. Un’altra volta nella sezione 6, dopo l’omicidio, con un debole cenno che ne ripropone la diversità col paesaggio circostante. L’ospedale è visto come possibile luogo di salvezza (anche se i ricoverati convalescenti sono tristi); e la salvezza è fuori del paese, lontana dalla famiglia. Non si può fare a meno di collegare l’ospedale alla chiesa: in chiesa si curano le anime, in ospedale i corpi. Cinci è, nel peggiore dei casi, un po’ denutrito, ma non abbisogna di un ospedale; una chiesa risponde meglio ai suoi problemi, ma già sappiamo l’esito della visita ad essa, prima dell’omicidio. Cinci si è allontanato da casa in cerca di salvezza, si è inutilmente avvicinato a Dio, ha ucciso, ed ora torna a casa. Pirandello sottolinea che l’uccisione del ragazzo ha fermato il tempo e le cose (162) e, con giusta coerenza, fa percorrere al suo protagonista un cammino di ritorno uguale a quello di andata. Per questo Cinci rivede la massa bianca dell’ospedale. Non rivede però la chiesa perché l’autore glielo impedisce. Non tutto, dunque, si è fermato; qualcosa è cambiato: con l’uccisione del ragazzo, Cinci è ora proprio fuori della grazia di Dio. Siccome però non ne ha colpa, la contraddizione teologica non viene sanata.

9.

Il crepuscolo e la notte Ecco i dati del testo:

2. 3.

5.

6.

55. così bianchi che al sole bisogna chiudere gli occhi (39) 56. Ma ora è tardi; il sole sta per tramontare (43-44) 57. Ora si vede tutta la cala del cielo dove il tramonto s’è già ammorzato, e sopra il poggio, che pare nero, il celeste tenero tenero. Sulla terra è già l’ombra della sera, e il grande muro bianco dell’ospedale è illividito (84-86) 58. [Cinci] si mette a guardare nel cielo la larva della luna che comincia appena appena a ravvivarsi d’un pallido oro nel verde che s’estenua nel crepuscolo morente (117-119) 59. il cielo morente, la luna che s’accende, e là quelle masse cupe d’alberi che si stagliano nell’aria fatta vana, e qua la terra solla, nera, zappata da poco, da cui esala ancora quel senso d’umido corrotto nell’afa delle ultime giornate d’ottobre, ancora di sole caldo (123-126) 60. al lume della luna (144) 61. in cielo la luna come uno striscio di luce (161) 62. sotto la luna (164-165) 63. la pancia alla luna (173) 64. c’è anche qui la luna; ma è un’altra, se ora qui rischiara, senza saper nulla, la bianca facciata dell’ospedale (177-178)


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 154

Luigi Pirandello La vicenda può durare circa un’ora, da poco prima del tramonto a notte fatta. L’autore sottolinea gli eventi con numerosi riferimenti al tempo atmosferico, in modo da far corrispondere la vita alla luce del sole, la morte al buio e alla luce della luna. Nella sezione 5 la pancia della lucertola morta è bianca e illuminata dalla luna (144; 173); e l’aria, prima degli eventi, è detta vana (125). La luna risponde ad esigenze di tragedia, non di idillio. Nell’ombra stanno il poggio (85) che è irraggiungibile, gli alberi (124) che chiudono ed isolano lo scenario, la terra (125) su cui cade morto ed insanguinato il ragazzo. Nella sezione 5, la sezione della morte, compare due volte l’aggettivo morente (119; 124).

10.

La morte

Cinci lascia la casa per gioco e per cercare cibo: due esigenze che indicano vitalità e bisogno di vita. Sul suo cammino, però, incontra la morte. Dapprima mascherata con la vita: nelle donne che vanno in chiesa, nella donna che allatta, nello sciancato, nei malati dell’ospedale; poi due volte senza veli: nella lucertola e nel ragazzo. La morte giunge non vista. Lo stesso ragazzo è rozzamente ed inconsapevolmente portatore di morte quando prende al cappio l’orecchio di Cinci; poi quando con raffinatezza sposta sulla lucertola quell’istinto della caccia che è in tutti agguattato (145-146), uccidendola quando teme che Cinci possa impossessarsene. Anche Cinci avrebbe voluto ucciderla, ma con minor consapevolezza. Da qui l’inizio della lotta che porta Cinci ad uccidere l’uccisore. Cinci ha ucciso, lontano da casa, proprio come la lucertola è stata uccisa perché ha voluto evadere da quel rifugio divenuto una prigione (138). La lucertola, con la pancia bianca come l’ospedale, proietta sull’ospedale l’ipoteca della morte: è per questo che Cinci rivede la costruzione, al ritorno, bianca di luna, con al suo interno invisibili ed inconsapevoli ricoverati-lucertola.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

XIV.

Spunta un giorno

XIV.

Spunta un giorno

13:45

Pagina 155

155

Luigi Pirandello (1867-1936)

Lo squallore dell’alba s’è fermato, spettrale, ai vetri della finestra rimasta con gli scuri aperti, e pare non abbia più forza d’alitare da lì nel buio della camera. A poco a poco comincia a effondersi come un brulichio nell’ombra. E prima s’impiglia nel trapunto lieve delle tendine; poi, quasi vaporando, traspare di tra le gretole rarefatte d’una gabbiola che pende dal palchetto in capo alla finestra, nel mezzo, senza destare tuttavia il canarino accoccolato sul ballatoio. Poi, ecco, inoltrandosi, lambisce appena le gambe, l’orlo d’un tavolino nero davanti la finestra; e, grado grado, si soffonde sul piano di esso, avvistandone quasi a tentoni gli oggetti: alcune carte sparse, alcuni libri, una bugia di ferro smaltato col bocciuolo d’ottone, in cui la candela s’è consumata tutta; una lettera suggellata; un’altra lettera; un cannello di ceralacca; un ritratto fotografico… Oh! e che ha quel ritratto? Uno spillone da cappello confitto nel collo. E ride? Sì, si può discernere bene: il giovine effigiato in quel ritratto ride con aria spavalda, senza punto curarsi di quello spillone confitto nel collo. E poi? Una rivoltella. Un braccio? Sì; e un altro braccio; e il capo scarmigliato d’una donna. Morta? La squallida luce passa oltre, senza un brivido, a quella scoperta. Il capo rovesciato di quella donna non le importa più del trapunto di quelle tendine, più del legno del tavolino o del manico d’osso della rivoltella. Séguita a penetrare lentamente nella camera; arriva alla parete di contro alla finestra e vi scopre un piccolo lavabo con lo specchio ovale a piè del letto; il letto intatto su cui sono buttati un cappellino, una vecchia borsetta di cuoio rosso, un ombrello, un libro. A un tratto, il canarino si desta nella gabbiola; guarda verso il cielo piegando da un lato il capino giallo; si rigira sul saltatoio con un breve squittìo. Buon giorno! Le braccia, la testa della donna rimangono abbandonate sul piano del tavolino. Tra i neri capelli scomposti s’intravede un orecchio che pare di cera. Bravo, sì. Puoi ridere.

5

10

15

20

25


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 156

Luigi Pirandello Che t’ha fatto in fine questa donna, configgendoti nel collo lo spillone del cappello? Niente. Forse, questa notte, mentre dormivi placidamente, ti sarai sentito pinzare come da un insetto costì nel collo, e avrai alzato una mano a grattarti, seguitando a dormire e a sorridere nel sonno. Perché si vede: tu hai l’aria di non credere alla minaccia d’un suicidio. Hai, costì presso, il capo abbandonato di lei e, ridendo, guardi altrove, come se ancora tu non creda che ella possa essersi uccisa veramente. Guardi lontano, tu. Sai che il mondo è vasto e che puoi facilmente trovare posto ovunque: non hai nulla dentro che ti possa trattenere, qua o altrove. Chi ha molta vita in sé, vita d’affetti e di pensieri, e la dispensa con amore anche fra le quattro pareti d’una cameretta, può anche non avvertirne più l’angustia materiale, perché quella cameretta diviene idealmente tutto il suo mondo; e non saprebbe più distaccarsene. Ma uno come te, senza ingombro d’affetti e di pensieri, dico di quelli che non si lasciano mettere da un momento all’altro nelle valige per essere trasportati altrove, può viaggiare facilmente e trovare posto ovunque. Per te la vita è fuori. Questa camera è troppo impregnata ora dal lezzo nauseante del sego della candela bruciata fino in fondo. Tu non lo senti e te ne ridi, perché sei qua soltanto in effigie. Non lo sente più neanche lei. Forse lo sentirà il canarino. Guarda! Lo sportello della gabbiola è aperto. Lo avrà lasciato lei così aperto iersera, legato con un nastrino a una gretola per tenere lo scatto. Il canarino séguita a guardare, scotendo il capino giallo e saltando irrequieto da un regoletto all’altro. Non s’è ancora accorto che lo sportellino è aperto. Se n’è accorto; ecco che vi s’affaccia; allunga e ritira il capino. Pare che faccia le riverenze. O aspetta un invito per spiccarsi di là? L’invito non viene e, perplesso, di tratto in tratto séguita a tentare, quasi a bezzicar l’aria, con brevi acuti squittii. Ah ecco, è volato verso il letto. Sul punto di posarvisi si trattiene sulle ali, come sgomento; cade sulla rimboccatura del lenzuolo intatta e composta sul guanciale; saltella, cercando, gemendo; scende sul piano del letto, molleggiando; s’accosta alla borsetta di cuoio rosso; spia due e tre volte e poi le allunga una beccatina; un altro salto ed è sull’ombrello; guarda di là più a lungo, smarrito; e via di nuovo alla gabbia. Tu, dal ritratto, séguiti a ridere. Forse sai che ella aveva la gentile abitudine di lasciare aperto così, ogni sera, lo sportellino della gabbia, perché poi la mattina quella cara bestiolina volasse a lei sul letto, a un richiamo, e le saltasse tra le dita o le cercasse il tepore del seno o le bezzicasse le labbra o il lobo dell’orecchio? Giù per la strada si sente già lo struscìo delle granate degli spazzini; poi il rotolìo di qualche carretto di lattaio. La luce è già cresciuta e vibra ilarandosi a mano a mano. Una mosca, dalla vetrata della finestra, vola su la tenda e poi dalla tenda

30

35

40

45

50

55

60

65

70


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XIV.

Spunta un giorno

13.4.2012

13:45

Pagina 157

157

sulla spalla di lei. In due tratti scorre sull’orlo del bavero del giacchettino, incerta se saltare a posarsi sulla nuca che si scorge un po’, tra i riccioli neri, anch’essa come di cera. Rivola; è sullo spillone che tu hai confitto nel collo; scende lunghesso e ti viene in faccia; ti lascia un piccolo neo sulla guancia, e via. Oh, così, con codesto neo sulla guancia, ora tu sembri più carino. Séguita a ridere, caro.

75

80

Curiosa quella mosca che vola, curioso quel canarino che saltella tornato nella gabbia, e quella gabbia che ne traballa, in questa cameretta che si rischiara sempre più accogliendo la luce d’un giorno che qua, per il corpo di questa donna rovesciato sul tavolino, non è più nulla. Quasi abbia preso una risoluzione, il canarino trilla forte come per chiamare aiuto. Allora, la testa di quella donna abbandonata tra le braccia sul tavolino, si scuote. Chi sa da quante ore lì curva, la giovine stira la schiena; ritira le braccia coi pugni serrati verso il seno e contrae tutto il volto sbattuto e scomposto con una specie di ruglio nella gola e nel naso. Ma subito, forse per il lezzo nauseante di cui la camera è impregnata, insieme con l’orribile sconcerto dello stomaco digiuno, le si desta, non meno orribile, la coscienza dell’atto non compiuto. Non si è uccisa! Vinta dalla stanchezza, nella disperazione, dopo avere scritto le due lettere, chinata la fronte sulle braccia prima di risolversi all’atto, s’è addormentata. Ora sbarra gli occhi, alla vista delle due lettere suggellate e della rivoltella lì accanto. La commozione si cangia subito in affanno di rabbia, che la sospinge in piedi. Un crampo a una gamba. Un intorpidimento alle dita della mano destra. Ma nel mentre si stringe con l’altra mano quelle dita intorpidite e si prova col peso di tutto il corpo a premere sulla gamba che le spasima tesa per sciogliere il crampo, gli occhi le vanno al ritratto sul tavolino, con lo spillone confitto nel collo. Non sente più né il crampo né l’intorpidimento delle dita: brandisce lo spillone e prende a tempestare di colpi furibondi la faccia del giovine lì effigiato, finché non la trafigge tutta, da non lasciarne più scorgere nulla; e alla fine, non ancora soddisfatta, fa’ in pezzi il cartoncino sfigurato e scaraventa quei pezzi a terra. Omicidio e dispersione del cadavere. È davvero stravolta dal furore, con occhi da pazza. Va a spalancare la finestra. Reclina indietro il capo e socchiude gli occhi per la pena che l’aria nuova le fa, entrando a slargarle il petto oppresso, in cui ancora il cuore le batte e le duole. Comprende che non può restare più lì, sola con se stessa, neanche un minuto, con quelle due lettere suggellate e quella rivoltella sotto gli occhi; corre al letto, prende il cappellino e se lo caccia sui capelli scarmigliati; la borsetta di cuoio, e vi ficca dentro le lettere e la rivoltella. Esce dalla camera sul corridoio ancora buio, come una ladra. Sta per aprire la porta e precipitarsi giù per le scale, allorché una vociaccia grida da un uscio in fondo al corridoio:

85

90

95

100

105

110

115


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 158

Luigi Pirandello – Ehi! ehi! Signorina! Resta un momento perplessa, in agguato; poi, con uno scrollo iroso, apre la porta, se la tira dietro, scende a precipizio la prima rampa. Arrivata al pianerottolo, deve fermarsi, perché una donnaccia adiposa, mezzo ignuda, affannata dall’adipe, dal sonno improvvisamente interrotto e dalla corsa, riaperta la porta, prende a gridare dall’alto della ringhiera: – Ah se ne scappa? Io mi vesto, sa? corro in questura! Le pare che possano bastarmi quattro libracci e tre straccetti a garantirmi di cinque mesi di pigione? Corro in questura! Si dovrebbe vergognare! Scapparsene via così! Come un cane che abbai fuor della botola, a ogni domanda, a ogni minaccia che avventa, si butta avanti e si tira indietro, e con le tozze mani sanguigne afferra, non potendo altro, la ringhiera, mentre la vociaccia rimbomba dall’alto nel vuoto della scala ancora invasa dall’ombra e dal silenzio della notte. Benché fiera d’aspetto, la giovine ne rimane come schiacciata, atterrita. Non sa più né fuggire né trovare la voce per darle una qualche risposta e farla tacere. Alla fine, come costretta, fa alcuni cenni per significare che sì, andrà… – … dal vecchio? – domanda, da su, la voce. Col capo fa di sì, più volte. E fatto questo segno, come se ormai ne abbia diritto, riprende a scendere la scala comodamente, anzi cava dalla borsetta i guanti logori per calzarseli; mentre quell’altra, subito ammansita, si ritira dal pianerottolo borbottando: – Meno male che s’è persuasa!

Testo di riferimento L. PIRANDELLO, Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, Milano, Mondadori («I Meridiani»), vol. III 1, 1990, pp. 317-322.

120

125

130

135

140


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

XIV.

Spunta un giorno - Analisi del testo

XIV.

Analisi del testo

1.

Riassunto dell’intreccio

13:45

Pagina 159

159

1. La luce, entrando in una camera, mette in evidenza gli oggetti e il corpo di una donna (1-27). 2. La fotografia del giovane (28-50). 3. Il canarino vola verso la donna (51-70). 4. Il comportamento della gente in strada (71-73). 5. La mosca vola verso la donna e la fotografia (74-84). 6. La donna riprende i sensi (85-100). 7. La donna infierisce sulla fotografia del giovane (101-108). 8. La donna apre la finestra ed esce dalla camera (109-116). 9. La donna scende le scale e incontra l’affittacamere (117-140).

2.

Rapporto fra narrazione e descrizione

Lo sviluppo narrativo del testo è minimo e semplice: una donna (che si è addormentata in camera da letto senza aver attuato il proposito suicida) si sveglia, trivella di colpi con uno spillone la fotografia di un giovane, fa a pezzi la fotografia, apre la finestra, si mette il cappello, prende la borsetta dove mette la rivoltella e due lettere, esce di camera, scende le scale per uscire di casa evitando di fermarsi a parlare con una donna che la interpella. I fatti, così esposti in successione, occupano la seconda metà circa del testo (85-136). Più della prima metà del testo, invece, è in sostanza una descrizione di ciò che si vede nella camera, invasa progressivamente dalla luce diurna che entra dalla finestra, mentre la protagonista non si è ancora svegliata. Questa descrizione si attua attraverso piccoli avvenimenti (il diffondersi della luce, il volo del canarino, il comportamento della gente in strada, il volo della mosca) la cui potenzialità narrativa sarebbe degna di considerazione se l’avanzare della luce, i due volatili e la gente diventassero protagonisti. Ma nessuno di questi piccoli avvenimenti ha una ripercussione sulla donna


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 160

Luigi Pirandello ancora addormentata (sarà il canarino a svegliarla, però solo a 85-87), così che luce, canarino, gente e mosca sono qui delle presenze inutili allo sviluppo narrativo; i loro comportamenti perdono consistenza di azione e, di fronte alla donna inerte, sono riassorbiti nella descrizione. La prima parte del racconto è perciò la descrizione di ciò che è messo in evidenza all’occhio dello scrittore: che ignora i fatti tanto quanto il lettore e che passa di scoperta in scoperta assieme al lettore. Pirandello, con tre stacchi tipografici, distingue il testo in quattro zone, in parte corrispondenti a quanto si è appena osservato: 1-27 (descrizione degli oggetti e del corpo), 28-80 (descrizione del ritratto e piccoli avvenimenti), 8184 (riflessione sulla mosca, sul canarino, sulla luce), 85-140 (narrazione). Soltanto le considerazioni sulla fotografia del giovane possono sembrare fuori luogo, staccate come sono dalla descrizione iniziale; ma si vedrà che a ragione sono state aggregate alla serie dei piccoli avvenimenti, cioè sono state assegnate alla seconda zona. Della protagonista non conosciamo il nome, né l’età, né le fattezze fisiche; non sappiamo in quale città abiti; ignoriamo le cause che l’hanno spinta a tentare il suicidio e le conseguenze della sua uscita di casa dopo il risveglio. L’autore lascia capire che avrebbe potuto scrivere un ben più lungo racconto attorno a quelle poche vicende che narra; ha invece cancellato tutto il prima (cause) e il dopo (effetti), limitandosi ad una breve porzione di realtà, mediante la quale offre al lettore una serie di dati sufficienti ad immaginare il non detto e a giustificare il detto. La narrazione fatica a mettersi in moto, conformemente ad una generale stasi; quando si avvia non ha il tempo di svilupparsi. La protagonista, nella prima metà del racconto, è in camera sua come morta; nella seconda parte scende le scale, ostacolata da una persona che la interpella, senza nemmeno riuscire a concludere quel percorso e ad inoltrarsi in strada. Il moto estremamente circoscritto è con evidenza la tecnica che Pirandello adotta per sclerotizzare ogni forma di movimento e di sviluppo narrativo. Il risultato è estremamente moderno per l’epoca e ricorda da vicino certi procedimenti cinematografici in cui l’occhio dello spettatore si identifica con l’occhio della cinepresa: Serafino Gubbio, il cineoperatore di un romanzo di Pirandello, guarda egli pure la realtà proprio solo attraverso l’obiettivo della cinepresa. La realtà, indagata cosi capillarmente e oggettivamente, non parla da sé ma necessita di considerazioni interpretative. I singoli pezzi di realtà osservata devono essere correlati in modo da dare senso; l’enumerazione non può fare a meno della catalogazione in vista della scoperta del significato. La luce compie il primo passo; l’autore il secondo, chiedendo suggerimenti; il lettore l’ultimo, ricostruendo così una vicenda solo abbozzata.

3.

Ruolo dell’autore (il mittente)

L’autore interviene nella descrizione ponendo domande che mostrano il suo bisogno di capire più di quanto la luce che entra dalla finestra non riesca a svelare. Il fatto di chiedere e il modo di chiedere (Oh! 11; E ride? 12; E poi? 13) dicono che la conoscenza è diversa, di marca fortemente passionale. La domanda Un braccio? (14) riesce persino ad anticipare la descrizione, che è sottintesa. Anche le risposte alle domande sono date dall’autore, il solo in grado di farlo. Per esigenze ovvie di tensione espressiva, la domanda Morta? (15), scritta andando a capo e senza nulla che la segua sulla stessa linea tipografica, rimane senza risposta. L’autore continuerà ad intervenire anche dopo la prima zona del testo (1-27) che stiamo esaminando.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

XIV.

Spunta un giorno - Analisi del testo

4.

Ruolo del lettore (il destinatario)

13:45

Pagina 161

161

Il lettore correla le informazioni ricevute attraverso la descrizione, per quanto gli è possibile. La candela che s’è consumata tutta (10) rivela che è passato molto tempo dall’accensione, avvenuta perciò la notte precedente. Tale accensione avrà avuto lo scopo di far liquefare la ceralacca per sigillare la lettera. Il destinatario delle due lettere non è ricostruibile con certezza: la lettera sigillata potrebbe essere stata scritta all’amante con cui la donna avrebbe rotto i rapporti (e che diventerebbe così il movente del tentato suicidio), ma anche al vecchio (135) che si profila alla fine del racconto e che sarà il padre (o un altro amante?); la seconda lettera, meno impegnativa, era forse diretta alla padrona di casa. Il letto intatto (21) rende più cruda la scena, facendo forse intendere che la donna giaccia per terra. Come si vede, il lettore (stimolato dalla curiosità dell’autore) integra la descrizione ricostruendo un possibile svolgimento dei fatti, che non è stato oggetto di narrazione.

5.

La luce (l’investigatore primo)

È significativo che la luce sia introdotta nella forma della personificazione: pare non abbia più forza d’alitare (2), passa oltre, senza un brivido (16), non le importa (17). Così qualificata, essa assurge a protagonista umano col compito di investigatore chiamato dall’esterno (niente e nessun altro entra in quella camera); ed assume dignità pari a quella dell’autore e del lettore. Essa è in grado di compiere una serie di rivelazioni, procedendo in modo tendenzialmente oggettivo, neutro. Lo si vede dal modo con cui incontra gli oggetti, sempre dal particolare al generale: nel trapunto lieve delle tendine (4) e non «nelle tendine lievemente trapuntate», come se il contatto col dettaglio non le permettesse di identificare l’assieme; e analogamente: le gretole […] d’una gabbiola (5); dal palchetto in capo alla finestra (5); le gambe, l’orlo d’un tavolino (7); Un braccio […] e un altro braccio; e il capo scarmigliato d’una donna (14). Lo si vede altrettanto bene dalla sintassi spezzettata e rapida (dove è quasi assente la subordinazione) con cui enumera ciò che trova sul suo percorso (8-22); dal fatto che la donna, per la luce, non è più importante delle tende, del tavolo, della rivoltella (è cioè un oggetto come essi). Probabilmente è detta squallida (16) (e con ciò riprende e chiarisce lo squallore d’apertura) proprio per questo mancato coinvolgimento morale, per questa assenza di giudizio. La neutralità dell’indagine, requisito principale della professionalità dell’investigatore, è però resa vana dal fatto che la luce non sarà mai in grado di riferire i risultati dell’inchiesta. Così che va perso lo scopo stesso dell’indagine.

6.

Il canarino e la mosca (gli investigatori secondi)

Il canarino, investito dalla luce, si sveglia e, trovando aperta la porta della gabbia, esce e vola verso il letto (60). Da lì innanzi (61-65) compie una ricognizione analoga a quella della luce ma con una sostanziale differenza: è in grado di valutare la situazione, come suggeriscono sgomento (61), gemendo (62-63), smarrito (65) e come


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 162

Luigi Pirandello si vede dal suo ritorno nella gabbia. La luce invece, sappiamo, è squallida (16), non capisce ciò che vede e non è in grado di tornare sui propri passi. Il canarino è un investigatore superiore alla luce per questi atteggiamenti che lo avvicinano alla persona umana, di cui sembra farsi portavoce. In seguito una mosca vola verso la donna e lo spillone che trafigge la fotografia. Nel brano (74-78) si può facilmente vedere la superiorità delle azioni della mosca rispetto a quelle del canarino. Il canarino è entrato in contatto con la borsetta e con l’ombrello, ma non con la donna, alla quale era solito saltare sulle dita, avvicinarsi al seno, alle labbra e all’orecchio (69-70); la mosca, invece, si posa sulla spalla (75) della donna (quasi per coinvolgerla in ciò che si appresta a fare), poi raggiunge lo spillone, lo percorre e va a fermarsi sul volto del giovane lasciandogli, con una consapevolezza che fino allora nessuno ha dimostrato, un piccolo neo sulla guancia (78). La mosca ha dunque identificato il responsabile del tentato suicidio della donna e lo ha, a suo modo, punito. È quasi beffardo che spetti ad una mosca il riconoscimento e la punizione del colpevole; e tanto più che neppure essa (al pari dell’altro volatile) potrà mai render conto dell’azione intrapresa.

7.

La gente in strada

Quando il canarino ha esaurito il suo compito, si crea un senso di vuoto, di assenza, reso ancora più acuto dal fatto che il narratore gli contrappone il mettersi in moto della vita all’esterno della camera: Giù per la strada si sente già lo struscìo delle granate degli spazzini; poi il rotolìo di qualche carretto di lattaio (71-72). Si noterà che la segnalazione procede, come già per la luce all’inizio, dal dettaglio all’assieme: prima la percezione uditiva (perché nessuno sta guardando dalla finestra): struscìo, rotolìo; poi gli oggetti: granate, carretto; da ultimo gli uomini: spazzini, lattaio. Si tratta di gente semplice che ha cominciato a lavorare, quindi a vivere, e che entra nel racconto sprovvista di ogni funzione narrativa, col solo scopo di suggerire un confronto: la vita contro la morte, il movimento contro la quiete, l’esterno contro l’interno. Il lettore ha così la sensazione che ci sia bisogno di un essere umano per condurre l’indagine fin lì intrapresa dalla luce e dal canarino. Pirandello non soddisfa questa esigenza. Egli stesso è intervenuto e interverrà ponendo domande sulla situazione che ha delineato, ma fa capire che non è in grado di afferrare il senso di tutta la faccenda e, coerente con la propria scelta, incarica la mosca di proseguire l’indagine.

8.

Il giovane in fotografia

Al ritratto fotografico del giovane è dedicata gran parte (28-46) della seconda zona del testo (28-84). La fotografia trafitta dallo spillone è messa in evidenza dalla luce, nella prima zona del racconto, in concomitanza col primo intervento interrogativo dell’autore (11-15). Lì avviene pure la prima interpretazione dei fatti: il giovine effigiato in quel ritratto ride con aria spavalda, senza punto curarsi di quello spillone confitto nel collo (12-13). Il lettore dovrà aspettare ancora, prima di poter sapere con certezza chi lo abbia trafitto: Che t’ha fatto in fine questa donna, configgendoti nel


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XIV.

13.4.2012

Spunta un giorno - Analisi del testo

13:45

Pagina 163

163

collo lo spillone del cappello? (29-30); ma non ha dubbi che sia stata la donna e vorrebbe subito saperne di più. È appunto quanto gli è concesso nella seconda zona del testo. Dopo aver già saputo che il giovane ha un’aria spavalda (13), ora il lettore riceve una conferma di questo tratto del carattere: Forse, questa notte, mentre dormivi placidamente, ti sarai sentito pinzare come da un insetto costì nel collo, e avrai alzato una mano a grattarti, seguitando a dormire e a sorridere nel sonno (32-34). Ma non si tratta solo di spavalderia dimostrata nel sorridere persino nel sonno; c’è anche, nel giovane, la certezza della propria superiorità sulla donna per il fatto di padroneggiare la situazione e potersi permettere la scelta delle proprie azioni: hai l’aria di non credere alla minaccia d’un suicidio (35), come se ancora tu non creda che ella possa essersi uccisa veramente (37). Pirandello racconta a spezzoni (rivolgendosi personalmente al giovane) e il lettore ricostruisce e integra una vicenda che gli è narrata solo in minima parte. Per ora ha capito che la relazione tra i due è finita (la donna lo ha trafitto; l’uomo la deride); da qui in poi si appresta a capire qualcosa di più profondo che tocca le cause psicologiche nascoste di quel fallimento sentimentale, e che permette di cogliere il pensiero dell’autore. Il brano (29-47) in cui ciò si verifica è di grande importanza: Pirandello simpatizza con la donna e disapprova il giovane che non ha ricchezza di sentimenti (senza ingombro d’affetti e di pensieri 44) nei confronti di lei (che ha una vita d’affetti e di pensieri 41). La donna ha il mondo in sé stessa e può anche vivere tra le mura di una squallida cameretta senza sentirne disagio; il giovane non ha nulla dentro e deve cercare fuori quello che gli manca. Il Guardi lontano, tu (38) e il Per te la vita è fuori (47), scritti entrambi su una linea tipografica di testo senza altre parole, suonano perciò come una condanna. I fatti della vita concreta della donna prendono fisionomia man mano che il racconto si snoda; è proprio alla fine che l’impatto con l’affittacamere dà spessore alla figura fin lì esangue e inerte della protagonista. La donna ha preso consistenza (ma a nulla servirà) proprio dopo che il giovane ha perso definitivamente la propria: trivellato nel volto da tardivi colpi di spillone che lo rendono irriconoscibile e fatto a brandelli dalle mani che stracciano la fotografia. L’operazione è ironicamente definita Omicidio e dispersione del cadavere (108).

9.

La vita come fallimento

All’origine del racconto sta il fallimento del rapporto sentimentale tra la donna e il giovane. Quell’amore svanito avrebbe dovuto concludersi col suicidio della donna, ma l’autore sceglie l’altra strada e lascia che la vita di lei continui. Non sembra trattarsi di un inno all’esistenza, dal momento che non solo non vi è nulla di trionfalistico ma neppure quella donna ha la possibilità di ricominciare a vivere, a sperare, ad amare: la protagonista superstite esce di casa (lo indoviniamo soltanto) e svanisce nel nulla, senza che ci sia dato sapere se tornerà coi soldi necessari a pagare l’affitto arretrato. Il giovane, che già l’autore ha condannato moralmente e che esiste solo per via indiretta nell’immagine fotografica, fa una fine ingloriosa, trivellato e fatto a brandelli, che l’autore definisce (nella prospettiva della donna) Omicidio e dispersione del cadavere (108). Anch’egli, che è già un doppio nulla (moralmente e perché mediato dall’immagine), finisce nel nulla. I tre investigatori non sono in grado di trasmettere i risultati di un’inchiesta svolta senza consapevolezza; ed anche della loro esistenza


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 164

Luigi Pirandello effimera si perdono immediatamente le tracce. La sola figura umana presente nel testo oltre la protagonista, e in cui la donna si imbatte uscendo dalla camera, non è in grado di comprendere l’accaduto né di avere parte sicura negli avvenimenti; nonostante abbia le carte in regola per ostacolare la fuga della ragazza (122-124; 127) e pur riuscendo momentaneamente a fermarla (132-134), ella forse si illude soltanto di riuscire nel suo intento (140). A questo sfacelo dal punto di vista tematico, si accompagna una non meno rilevante disfatta dal punto di vista narrativo, come si è già detto: la storia, priva dell’inizio e della fine, è una specie di reperto che dice tutto e niente del proprio contesto; niente: perché di cause e effetti del fallito amore e della fallita morte siamo all’oscuro; tutto: perché quello che c’è è sufficiente per avere la certezza che la vita è dolore e che va avanti indipendentemente da noi. Un suicidio non avvenuto e un omicidio innocuo escono dal buio (e quindi cominciano ad esistere) quando (e solo se) «spunta un giorno». Non si tratta certo di un’alba idillica, come mettono in chiaro le parole iniziali del racconto (1-2), dalle quali comprendiamo che di fronte ai casi della vita anche la natura perde la voglia di adempiere alle proprie funzioni. Nella parte dei racconti polizieschi o gialli il significato del testo si esaurisce coll’abilità del lettore nello scoprire il colpevole (in competizione con quella dell’autore a nasconderlo). Ecco perché vi sono collane di gialli settimanali da leggere e dimenticare. In questo poliziesco pirandelliano (senza suicidio, senza omicidio e, paradossalmente, con non una ma tre indagini inutili) c’è invece qualcosa di più. La sfida tra autore e lettore non ha senso e il genere letterario trasmette qualcosa che gli è improprio: una concezione del vivere. Così, dalla cenere dell’autocombustione del racconto nasce la parabola, l’allegoria esistenziale; e che non si tratti di un caso isolato, e perciò sospettabile, sanno tutti i frequentatori di Pirandello romanziere e drammaturgo.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XV.

Il coppo

XV.

Il coppo

13.4.2012

13:45

Pagina 165

165

Luigi Pirandello (1867-1936)

Che bevuto! No. Appena tre bicchieri. Forse il vino lo eccitava più del solito, per l’animo in cui era dalla mattina, e anche per ciò che aveva in mente di fare, quantunque non ne fosse ancora ben sicuro. Già da parecchio tempo aveva un certo pensiero segreto, come in agguato, e pronto a scattar fuori al momento opportuno. Lo teneva riposto, quasi all’insaputa di tutti i suoi doveri che stavano come irsute sentinelle a guardia del reclusorio della sua coscienza. Da circa venti anni, egli vi stava carcerato, a scontare un delitto che, in fondo, non aveva recato male se non a lui. Ma sì! Chi aveva ucciso lui infine, se non se stesso? chi strozzato, se non la propria vita? E, per giunta, la galera. Da venti anni. Vi s’era chiuso, da sé; se li era piantati a guardia da sé, con la baionetta in canna, tutti quegl’irsuti doveri, così che, non solo non gli lasciassero mai intravedere una probabile lontana via di scampo, ma non lo lasciassero più nemmeno respirare. Qualche bella ragazza gli aveva sorriso per via? – All’erta, sentinellàaa! – All’erta stòòò! Qualche amico gli aveva proposto di scappar via con lui in America? – Al1’erta, sentinellàaa! – All’erta stòòò! E chi era più lui, adesso? Ecco qua: uno che faceva schifo, propriamente schifo, a se stesso, se si paragonava a quello che avrebbe potuto e dovuto essere. Un gran pittore! Sissignori: mica di quelli che dipingono per dipingere… alberi e case… montagne e marine… fiumi, giardini e donne nude. Idee voleva dipingere lui; idee vive, in vivi corpi di immagini. Come i grandi! Bevuto… eh, un tantino sì, aveva bevuto. Ma tuttavia, parlava bene. – Nardino, parli bene. Nardino. Sua moglie lo chiamava così, Nardino. Perdio, ci voleva corag-

5

10

15

20

25


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 166

Luigi Pirandello gio! Un nome come il suo: Bernardo Morasco, divenuto in bocca a sua moglie Nardino. Ma, povera donna, così lo capiva lei… ino, ino…, ino, ino… E Bernardo Morasco, passando il ponte, da Ripetta al Lungotevere dei Mellini, si rincalcò con una manata il cappellaccio su la folta chioma riccioluta, già brizzolata, e piantò gli occhi sbarrati ilari parlanti in faccia a una povera signora attempatella, che gli passava accanto, seguita da un barboncino nero, lacrimoso, che reggeva in bocca un involto. La signora sussultò dallo spavento e al barboncino cadde di bocca l’involto. Il Morasco restò un momento mortificato e perplesso. Aveva forse detto qualche cosa a quella signora? Oh Dio! Non aveva avuto la minima intenzione d’offenderla. Parlava con sé; di sua moglie, parlava… – povera donna anche lei! Si scrollò. Ma che povera donna, adesso! Sua moglie era ricca, i suoi quattro figliuoli erano ricchi, adesso. Suo suocero era finalmente crepato. E così, dopo vent’anni di galera, egli aveva finito di scontare la pena. Vent’anni addietro, quando ne aveva venticinque, aveva rapito a un usuraio la figliuola. Poverina, che pietà! Timida timida, pallida pallida e con la spalla destra un tantino più alta dell’altra. Ma lui doveva pensare all’Arte; non alle donne. Le donne, lui, non le aveva potute mai soffrire. Per quello che da una donna poteva aver bisogno, quella poverina, anche quella poverina bastava. Ogni tanto, con gli occhi chiusi, là e addio. La dote, che s’aspettava, non era però venuta. Quell’usuraio del suocero, dopo il ratto, non s’era dato per vinto; e tutti allora si erano attesi da lui che, fallito il colpo, abbandonasse quella disgraziata all’ira del padre e al «disonor!». Buffoni! Come in un libretto d’opera. Lui? Ecco qua, invece, come s’era ridotto lui, per non dare questa soddisfazione alla gente e a quell’infame usuraio! Non solo non aveva avuto mai una parola aspra per quella poverina, ma per non far mancare il pane prima a lei, poi ai quattro figliuoli che gli erano nati – via, sogni! via, arte! via, tutto! Là, tordi, per tutti i negozianti di quadretti di genere: cavalieri piumati e vestiti di seta che si battono a duello in cantina; cardinali parati di tutto punto che giuocano a scacchi in un chiostro; ciociarette che fanno all’amore in piazza di Spagna; butteri a cavallo dietro una staccionata; tempietti di Vesta con tramonti al torlo d’uovo; rovine d’acquedotti in salsa di pomodoro; poi, tutti i peggio fattacci di cronaca per le pagine a colori dei giornali illustrati: tori in fuga e crolli di campanili, guardie di finanza e contrabbandieri in lotta, salvataggi eroici e pugilati alla Camera dei deputati… Ci sputavano sopra, adesso, moglie e figliuoli, a queste sue belle fatiche, da cui per tanti anni era venuto loro un così scarso pane! Gli toccava anche questo, per giunta: la commiserazione derisoria di coloro per cui si era sacrificato, martoriato, distrutto. Diventati ricchi, che rispetto più, che considerazione potevano avere per uno che si era arrabattato a metter su sconci pupazzi e caricature per lasciarli tant’anni quasi morti di fame? Ah, ma, perdio, voleva aver l’orgoglio di sputare anche lui ora, a sua volta, su quella ricchezza, e di provarne schifo; ora che non poteva più servirgli per attuare quel sogno che gliel’aveva fatto un tempo desiderare. Era ricco anche lui, allora, ricco d’anima e di sogni!

30

35

40

45

50

55

60

65

70

75


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XV.

Il coppo

13.4.2012

13:45

Pagina 167

167

Che scherno, l’eredità del suocero, tutto quel denaro ora che il sentimento della vita gli s’era indurito in quella realtà ispida, squallida, come in un terreno sterpigno, pieno di cardi spinosi e di sassi aguzzi, nido di serpi e di gufi! Su questo terreno, ora, la pioggia d’oro! Che consolazione! E chi gli dava più la forza di strappare tutti quei cardi, di portar via tutti quei sassi, di schiacciare la testa a tutti quei serpi, di dare la caccia a tutti quei gufi? Chi gli dava più la forza di rompere quel terreno e rilavorarlo, perché vi nascessero i fiori un tempo sognati? Ah, quali fiori più, se ne aveva perduto finanche il seme! Là, i pennacchioli di quei cardi… Tutto era ormai finito per lui. Se n’era accorto bene, vagando quella mattina; libero finalmente, fuori della sua carcere, poiché la moglie e i figliuoli non avevano più bisogno di lui. Era uscito di casa, col fermo proposito di non ritornarvi mai più. Ma non sapeva ancora che cosa avrebbe fatto, né dove sarebbe andato a finire. Vagava, vagava; era stato sul Gianicolo, e aveva mangiato in una trattoria lassù… e bevuto, sì, bevuto… più, più di tre bicchieri… la verità! Era stato anche a Villa Borghese. Stanco, s’era sdraiato per più ore su l’erba d’un prato, e… sì, forse per il vino… aveva anche pianto, sentendosi perduto come in una lontananza infinita; e gli era parso di ricordarsi di tante cose, che forse per lui non erano mai esistite. La primavera, l’ebbrezza del primo tepore del sole su la tenera erba dei prati, i primi fiorellini timidi e il canto degli uccelli. Quando mai, per lui, avevano cantato così gioiosamente gli uccelli? Che strazio, in mezzo a quel primo verde, così vivido e fresco d’infanzia, sentirsi grigi i capelli, arida la barba. Sapersi vecchio. Riconoscere che nessun grido poteva più erompere a lui dall’anima, che avesse la gioia di quei trilli, di quel cinguettio; nessun pensiero più, nessun sentimento nascere a lui nella mente e nel cuore, che avessero la timidità gentile di quei primi fiorellini, la freschezza di quella prima erba dei prati; riconoscere che tutta quella delizia per le anime giovani, si convertiva per lui in una infinita angoscia di rimpianto. Passata per sempre, la sua stagione. Chi può dire, d’inverno, quale tra tanti alberi sia morto? Tutti paiono morti. Ma, appena viene la primavera, prima uno, poi un altro, poi tanti insieme, rifioriscono. Uno solo, che tutti gli altri finora avevano potuto credere come loro, resta spoglio. Morto. Era lui. Fosco, angosciato, era uscito da Villa Borghese; aveva attraversato Piazza del Popolo, imboccato via Ripetta; poi sentendosi per questa via soffocare, aveva passato il ponte, e giù per il Lungotevere dei Mellini. Mortificato ancora per lo sgarbo involontario fatto a quella signora dal barboncino nero, incontrò là un mortorio che procedeva lento lento sotto gli alberi rinverditi, con la banda in testa. Dio, come stonava quella banda! Meno male che il morto non poteva più sentirla. E tutto quel codazzo d’accompagnatori… Ah, la vita! Ecco, si poteva felicemente definire così, la vita: l’accordo della grancassa coi piattini. Nelle marce funebri, grancassa e piattini non suonano più d’accordo. La grancassa rulla, a tratti, per conto suo, come se ci avesse i cani in corpo; e i piattini, cing! e ciang! per conto loro. Fatta questa bella riflessione e salutato il morto, riprese ad andare.

80

85

90

95

100

105

110

115

120


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 168

Luigi Pirandello Quando fu al Ponte Margherita, si rifermò. Dove andava? Non si reggeva più su le gambe dalla stanchezza. Perché aveva preso per via Ripetta? Ora, passando il Ponte Margherita, si ritrovava di nuovo quasi di fronte a Villa Borghese. No, via: avrebbe seguito da quest’altra parte il Lungotevere fino al nuovo ponte Flaminio. Ma perché? Che voleva fare, insomma? Niente… Andare, andare, finché c’era luce. Oltre ponte Flaminio finiva l’arginatura; ma il viale seguitava spazioso, alto sul fiume, a scarpa su le sponde naturali, con una lunga staccionata per parapetto. A un certo punto, Bernardo Morasco scorse un sentieruolo, che scendeva tra la folta erba della scarpata giù alla sponda; passò sotto alla staccionata e scese alla sponda, abbastanza larga lì e coperta anch’essa di folta erba. Vi si sdraiò. Le ultime fiamme del crepuscolo trasparivano dai cipressi di Monte Mario, lì quasi dirimpetto, e davano alle cose che nell’ombra calante ritenevano ancora per poco i colori come uno smalto soavissimo che a mano a mano s’incupiva vieppiù, e riflessi di madreperla alle tranquille acque del fiume. Il silenzio profondo, quasi attonito, era lì presso però, non rotto, ma per così dire animato da un certo cupo tonfo cadenzato, a cui seguiva ogni volta uno sgocciolìo vivo. Incuriosito, Bernardo Morasco si rizzò sul busto a guardare, e vide dalla sponda allungarsi nel fiume come la punta d’una chiatta nera, terminata in una solida asse, che reggeva due coppi, due specie di nasse di ferro giranti per la forza stessa dell’acqua. Appena un coppo si tuffava, l’altro veniva fuori dalla parte opposta, sgocciolante. Non aveva mai veduto quell’arnese da pesca; non sapeva che fosse, né che significasse; e rimase a lungo stupito e accigliato a mirarlo, compreso quasi da un senso di mistero per quel lento moto cadenzato di quei due coppi là, che si tuffavano uno dopo l’altro nell’acque, per non prender che acqua. L’inutilità di quel girare monotono d’un così grosso e cupo ordegno gli diede una tristezza infinita. Si riaccasciò su l’erba. Gli parve che tutto fosse vano nella vita come il girare di quei due coppi nell’acqua. Guardò il cielo, in cui erano già spuntate le prime stelle, ma pallide per l’imminente alba lunare. Si annunziava una serata di maggio deliziosa, e più nera e più amara si faceva a mano a mano la malinconia di Bernardo Morasco.Ah, chi gli levava più dalle spalle quei venti anni di galera, perché anche lui potesse godere di quella delizia? Quand’anche fosse riuscito a rinnovarsi l’animo, cacciandone via tutti i ricordi che ormai sempre gli avrebbero amareggiato lo scarso piacere di vivere, come avrebbe potuto rinnovarsi il corpo già logoro? Come andar più con quel corpo in cerca d’amore? Senza amore, senza altro bene era passata per lui la vita, che poteva, oh sì, poteva esser bella! E tra poco sarebbe finita… E nessuna traccia sarebbe rimasta di lui, che pure aveva un tempo sognato d’avere in sé la potenza di dare un’espressione nuova, un’espressione sua alle cose… Ah, che!Vanità! Quel coppo, che il fiume del tempo faceva girare, tuffare nell’acqua, per non prendere che acqua… Tutt’a un tratto, si alzò. Appena in piedi, gli parve strano che si fosse alzato. Avvertì che non si era alzato da sé, ma che era stato messo in piedi da una spinta interiore, non sua, forse di quel pensiero riposto, come in agguato dentro di lui, da tanti anni.

125

130

135

140

145

150

155

160

165


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XV.

Il coppo

13.4.2012

13:45

Pagina 169

169

Era dunque venuto il momento? Si guardò attorno. Non c’era nessuno. C’era il silenzio che, formidabilmente sospeso, attendeva il fruscìo dell’erba a un primo passo di lui verso il fiume. E c’erano tutti quei fili d’erba, che sarebbero rimasti lì, tali e quali, sotto il chiarore umido e blando della luna, anche dopo la sua scomparsa da quella scena. Bernardo Morasco si mosse per la sponda, ma solo quasi per curiosità di osservare da vicino quello strano ordegno da pesca. Scese su la chiatta, in cui stava confitto verticalmente un palo presso i due coppi giranti. Ecco: reggendosi a quel palo, egli avrebbe potuto spiccare un salto, balzar dentro a uno di quei coppi, e farsi scodellare nel fiume. Bello! Nuovo! Sì… E afferrò con tutt’e due le mani il palo, come per far la prova; e, sorridendo convulso, aspettò che il coppo che or ora si tuffava di là nell’acqua facesse il giro. Come venne fuori di qua, man mano alzandosi, mentre quell’altro si tuffava, veramente fece un balzo e vi si cacciò dentro, con gli occhi strizzati, i denti serrati, tutto il volto contratto nello spasimo dell’orribile attesa. Ma che? Il peso del suo corpo aveva arrestato il movimento? Rimaneva in bilico dentro il coppo? Riaprì gli occhi, stordito di quel caso, fremente, quasi ridente… Oh Dio, non si moveva più? Ma no, ecco, ecco… la forza del fiume vinceva… il coppo riprendeva a girare… Perdio, no… aveva atteso troppo… quell’esitazione, quell’arresto momentaneo dell’ordegno per il peso del suo corpo gli era già sembrato uno scherzo, e quasi ne aveva riso… Ora, oh Dio, guardando in alto, mentre il coppo si risollevava, vide come schiantarsi tutte le stelle del cielo; e istintivamente, in un attimo, preso dal terrore, Bernardo Morasco stese un braccio al palo, tutte e due le braccia, vi s’abbrancò con uno sforzo così disperato, che alla fine sguizzò dal coppo in piedi su la chiatta. Il coppo, con un tonfo violentissimo per lo strappo, si rituffò schizzandogli una zaffata d’acqua addosso. Rabbrividì e rise, quasi nitrì di nuovo, convulso, volgendo gli occhi in giro, come se avesse fatto lui, ora, uno scherzo al fiume, alla luna, ai cipressi di Monte Mario. E l’incanto della notte gli apparve ritrovato, con le stelle ben ferme e brillanti nel cielo, e quelle sponde e quella pace e quel silenzio.

Testo di riferimento L. PIRANDELLO, Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, Milano, Mondadori («I Meridiani»), vol. I 1, 1985, pp. 766-774.

170

175

180

185

190

195

200


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 170

Luigi Pirandello

XV.

Analisi del testo

1.

Riassunto dell’intreccio 1. Bernardo Morasco (detto Nardino) vaga per Roma nei pressi del ponte [Cavour] riflettendo sui suoi problemi familiari (1-32). 2. Nardino sul ponte [Cavour] incontra una donna col cane (33-42). 3. Sul ponte [Cavour] pensa al suo matrimonio che gli ha impedito di diventare pittore (43-84). 4. Sul lungotevere Mellini rievoca la giornata trascorsa (85-112): 4.1. dall’uscita di casa al pranzo sul Gianicolo (87-90); 4.2. a Villa Borghese (90-110); 4.3. da Villa Borghese, a Piazza del Popolo, a Via Ripetta (110-111); 4.4. sul ponte [Cavour] (111-112); 4.5. dal ponte [Cavour] al lungotevere Mellini (112). 5. Sul lungotevere Mellini vede passare un funerale (113-121). 6. Raggiunge il ponte Margherita, che evita seguendo il lungotevere fino all’altezza del ponte Flaminio (122-127). 7. Poco dopo il ponte Flaminio, scende lungo l’argine fino al fiume (128-139) 8. Osserva la macchina da pesca (140-147). 9. Riflette sulla propria inutilità (148-163). 10. Tenta di uccidersi entrando nella macchina ma per paura ritorna fuori salvandosi (164-200).

2.

Una vita fallimentare

Bernardo Morasco da vent’anni (cioè dal matrimonio) si è sentito come in prigione perché per mantenere la moglie e i quattro figli ha dovuto adattarsi a lavorare da modesto pittore senza poter realizzare i suoi grandi ideali. Ora la moglie ha ere-


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XV.

Il coppo - Analisi del testo

13.4.2012

13:45

Pagina 171

171

ditato tardivamente i beni del padre e quindi non ha più bisogno di essere mantenuta da Bernardo che non la ama più. Egli perciò una mattina lascia la casa, libero da una prigionia ventennale ma incapace a ricostruirsi l’esistenza sprecata, e vaga per Roma senza meta fino al tramonto. Le considerazioni esistenziali che interessano il protagonista sono date ai punti 1, 3, 9 del riassunto. In 1 sono presenti due argomenti principali: A) gli obblighi cui Nardino è costretto (6-15); B) l’ideale irrealizzato di pittore (24-26). In 3 i momenti decisivi sono tre: C) il danaro che la moglie non ebbe col matrimonio (51-55); D) la professione di mediocre pittore (56-65); E) la realtà sopraffatrice (67-84). In 9 i momenti chiave sono due: F) l’impossibile realizzazione delle proprie aspirazioni (154159); G) la vita spesa senza lasciare traccia (159-163). Una rete di relazioni governa questi argomenti: in A C Nardino è in stretta relazione con la famiglia; in B D F è a tu per tu con le sue aspirazioni individuali; in E G sente con lucidità di essere un vinto. Al passare da 1 a 9, attraverso 3, Nardino lascia alle spalle il mondo, col quale smette di socializzare, e si rifugia sempre più in sé stesso. Il processo di introversione ha il centro sul ponte, in 3, e la punta massima lungo il fiume dove il protagonista tenta il suicidio. Non a caso è proprio in 3 che egli incontra per l’unica volta una persona con cui parla: la donna col cane, alla quale, forse senza accorgersi, dice qualcosa di sgarbato che la spaventa. La riflessione secondo cui doveva pensare all’Arte; non alle donne. Le donne, lui, non le aveva potute mai soffrire. Per quello che da una donna poteva aver bisogno, quella poverina, anche quella poverina bastava. Ogni tanto, con gli occhi chiusi, là e addio (48-50) mette in luce una componente misogena che è solo parte di una più profonda avversione verso ogni forma di amore concreto, come si vede dai brani sulla pittura e sui pittori.

3.

Professione pittore

Il brano B, al quale si è accennato, dice: Un gran pittore! Sissignori: mica di quelli che dipingono per dipingere… alberi e case… montagne e marine… fiumi, giardini e donne nude. Idee voleva dipingere lui; idee vive, in vivi corpi di immagini. Come i grandi! (24-26). La rassegna tematica è apparentemente disordinata ma si snoda in tre coppie, l’ultima delle quali alla voce giardini aggiunge donne nude (e si muta così in trinomio, diversificandosi). La donna, e per di più nuda, è qui l’unica creatura vivente e suggerisce un’idea di piacere al quale il protagonista, già sappiamo, si ribella. Egli vuole dipingere idee astratte. Ma dietro l’antitesi concreto/astratto che così si profila, sembra di intravedere che l’esistenza sia immaginata come ossimoro (idee vive; vivi corpi di immagini), così che il desiderio del pittore si presenta come un’insanabile contraddizione nei termini, ed appunto per questo non è in grado di realizzarsi. Nel brano D vi è un elenco più esteso di temi pittorici proscritti: cavalieri piumati e vestiti di seta che si battono a duello in cantina; cardinali parati di tutto punto che giuocano a scacchi in un chiostro; ciociarette che fanno all’amore in piazza di Spagna; butteri a cavallo dietro una staccionata; tempietti di Vesta con tramonti al torlo d’uovo; rovine d’acquedotti in salsa di pomodoro; poi, tutti i peggio fattacci di cronaca per le pagine a colori dei giornali illustrati: tori in fuga e crolli di campanili, guardie di finanza e contrabbandieri in lotta, salvataggi eroici e pugilati alla Camera


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 172

Luigi Pirandello dei deputati… (59-65). Sono tematiche della pittura ottocentesca (con resti persino di gusto settecentesco) che stava passando di moda, o di certa pittura contemporanea nello stile realista popolare come si vedevano nella «Domenica del Corriere»: tutta roba ormai priva di interesse per una mente aggiornata agli esiti contemporanei di marca specialmente nordalpina. Anche qui vi è un apparente disordine; in realtà si procede col gruppo dei viventi, poi con quello delle costruzioni classiche, per finire con quello dei fatti di cronaca giornalistica. Domina la bimembrazione, come nel brano precedente; e come in esso il disprezzo della donna non manca nel cenno alle ciociarette che fanno l’amore, quasi profanando la tradizione aristocratica di piazza di Spagna. Tutta la produzione pittorica è qualificata e nel contempo condannata con l’immagine: sconci pupazzi e caricature (70). Nel brano F, da mettere in parallelo coi due precedenti, non vi è più alcun elenco, segno tangibile della rinuncia alla quale il Morasco è forzato. L’esercizio della professione di pittore, da componente alta del vivere, diventa manifestazione del degrado della vita sociale e familiare nella quale il protagonista si dibatte con sempre meno forza e sempre più rassegnazione. Bisognerà attendere fino alla Noia di Moravia per vedere associate, sia pure in modo diverso, pittura e crisi esistenziale.

4.

Il percorso del viaggio entro Roma

Nardino quella mattina era uscito di casa col fermo proposito di non ritornarvi mai più (87) e Vagava, vagava (89) in modo irrazionale. Il testo mette in luce un itinerario disarticolato ma pensato secondo la funzionalità delle sue componenti. Smontiamo l’intreccio e ricostruiamo la fabula: 4.1. 4.2. 4.3. 1. 2.+3.+4.4. 4.5. 5. 6. 7.-10.

Nardino sale sul Gianicolo dove mangia e beve troppo. Si riposa a Villa Borghese. Attraversa piazza del Popolo, imbocca via Ripetta. Raggiunge il ponte [Cavour]. Percorre il ponte [Cavour]. Percorre il Lungotevere Mellini. Sul lungotevere Mellini incontra un funerale. Evita il ponte Margherita e segue il fiume fino al ponte Flaminio. Si ferma sulla riva del Tevere.

Sembra strano che il protagonista, dopo aver mangiato e bevuto sul Gianicolo, si rechi a fare la siesta fino a Villa Borghese, per raggiungere la quale deve attraversare gran parte della città. Ma nell’indicazione di Pirandello Era stato anche a Villa Borghese (90-91) quell’anche lascia intendere che il viaggio è privo di programmazione (Dove andava? 122) e non è interamente documentato nel testo. Il che significa che gli spostamenti documentati sono quelli decisivi, necessari e sufficienti alla decodificazione del messaggio che indirettamente trasmettono. Nel viaggiare casuale di Nardino c’è però il Tevere come costante, col quale egli sembra (suo malgrado) dover fare continuamente i conti. Già nel trasferimento non narrato dal Gianicolo a Villa


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XV.

Il coppo - Analisi del testo

13.4.2012

13:45

Pagina 173

173

Borghese, Nardino deve aver varcato almeno un ponte sul fiume: sceso dal colle al Tevere, egli è risalito dall’altra parte, sul Pincio, per poi ridiscendere al Tevere. Sui due colli egli si nutre e riposa, cioè si mantiene in contatto con la vita (pur sentendo sempre più lucidamente la sua condizione di fallito), mentre in prossimità del fiume la vita gli sfugge ed egli sente confuso il desiderio di suicidio. Decisivi sono gli eventi sul ponte Cavour (di cui si tace il nome). Lì avviene l’incontro (unico del racconto) con una persona viva. È l’addio alla donna e alla famiglia, ed avviene senza sofferenza da parte del protagonista (solo la donna e il cane si spaventano di lui), che già era desideroso di uscire dal consorzio umano e che ora non sa dire se a quella donna abbia anche parlato o solo immaginato di parlare (Aveva forse detto qualche cosa a quella signora? 40-41): bel segno della sopraggiunta inutilità del linguaggio per una comunicazione ormai superflua con gli esseri viventi. Sul ponte Cavour, inoltre, il protagonista dopo l’incontro con la donna ripercorre la storia del suo matrimonio: altro congedo dai fatti, dal vissuto. In quel momento, non altrove, ci è offerto il ritratto fisico della moglie (Timida timida, pallida pallida e con la spalla destra un tantino più alta dell’altra 47-48), succinto ma essenziale ad indicare la debolezza della persona. Proprio in quel momento il protagonista insulta il parentado (Buffoni! 53) e fa appello ad un linguaggio espressionista pensando al suocero (Suo suocero era finalmente crepato 44), col quale affronta il tema della morte fisica. Prima di immettersi sul ponte Cavour, Nardino si è imbattuto nel mausoleo di Augusto. Il monumento (non menzionato) è il segnale tacito per il lettore (ma forse inconsapevole persino all’autore) del tema della morte che si fa più esplicito col procedere di Nardino. Forse appena oltre il ponte Cavour ha luogo la rievocazione da parte del protagonista della giornata da lui fin lì trascorsa. Il dubbio sul luogo sussiste perché quel ricordo termina con le parole: aveva passato il ponte, e giù per il Lungotevere dei Mellini (111-112), lasciando intendere che la ripresa della narrazione dei fatti avviene quando il ponte è già stato superato. Arrivato al termine del Lungotevere Mellini, il protagonista è di nuovo alle prese con un ponte: si tratta del ponte Margherita (di cui si fa il nome per differenziarne la funzione rispetto al precedente), su cui Nardino non passa: Quando fu al Ponte Margherita, si rifermò. Dove andava? Non si reggeva più su le gambe dalla stanchezza. Perché aveva preso per via Ripetta? Ora, passando il Ponte Margherita, si ritrovava di nuovo quasi di fronte a Villa Borghese. No, via: avrebbe seguito da quest’altra parte il Lungotevere fino al nuovo ponte Flaminio (122125). La elaborata giustificazione razionale è significativa di quanto siano determinanti i ponti a decidere il percorso. In questo caso Nardino non può più risalire il colle Pincio ma deve seguire la via dove il destino lo chiama. Puntualmente la vicenda si snoda in prossimità del terzo ponte, il Flaminio (anch’esso con tanto di nome perché non sarà varcato). Qui cambia anche l’assetto urbanistico: Oltre ponte Flaminio finiva l’arginatura; ma il viale seguitava spazioso, alto sul fiume, a scarpa su le sponde naturali, con una lunga staccionata per parapetto (128-129). Il protagonista è arrivato dove deve arrivare e prende contatto col fiume. È il punto più basso della discesa mattutina dal colle Pincio; è il segno serotino del suicidio.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 174

Luigi Pirandello 5. 5.1.

Suicida senza suicidio Il richiamo della morte

Ad apertura di testo viene data una chiave di lettura: Forse il vino lo eccitava più del solito, per l’animo in cui era dalla mattina, e anche per ciò che aveva in mente di fare, quantunque non ne fosse ancora ben sicuro (2-3). Si tratta della presa di coscienza del proposito suicida. Subito dopo, il rovello interiore del protagonista è dichiarato per esteso: Già da parecchio tempo aveva un certo pensiero segreto, come in agguato, e pronto a scattar fuori al momento opportuno (4-5) e il pensiero del suicidio è presentato come un carcerato in attesa di libertà: Da circa venti anni, egli vi stava carcerato (7-8). Ma subito dopo il protagonista si dichiara già morto: Chi aveva ucciso lui infine, se non se stesso? chi strozzato, se non la propria vita? (10-11). Ecco dunque che, quando la moglie eredita, Nardino si ritrova libero ma ormai morto (Tutto era ormai finito per lui 84); una libertà inutile che rende inutile anche il suicidio (che senso ha uccidere un morto?). Da qui due conseguenze contraddittorie: non rinunciare al suicidio ma neppure attuarlo. Il mattino, uscito di casa, non sapeva ancora che cosa avrebbe fatto, né dove sarebbe andato a finire (87-88). La grande rivelazione avviene sul ponte Cavour: Chi può dire, d’inverno, quali tra tanti alberi sia morto? Tutti paiono morti. Ma, appena viene la primavera, prima uno, poi un altro, poi tanti insieme, rifioriscono. Uno solo, che tutti gli altri finora avevano potuto credere come loro, resta spoglio. Morto. / Era lui (105-109). Con invenzione notevole Pirandello, fatto passare il ponte al suo personaggio, gli fa incontrare un funerale: Mortificato ancora per lo sgarbo involontario fatto a quella signora dal barboncino nero, incontrò là un mortorio che procedeva lento lento sotto gli alberi rinverditi, con la banda in testa. Dio, come stonava quella banda! Meno male che il morto non poteva più sentirla. E tutto quel codazzo d’accompagnatori… Ah, la vita! / Ecco, si poteva facilmente definire così, la vita: l’accordo della grancassa coi piattini. Nelle marce funebri, grancassa e piattini non suonano più d’accordo. La grancassa rulla, a tratti, per conto suo, come se ci avesse i cani in corpo; e i piattini, cing! e ciang! per conto loro. Fatta questa bella riflessione e salutato il morto, riprese ad andare (113-121). Il brano è fondamentale almeno per due motivi: il senso del grottesco che nasce dall’applicazione del registro umoristico agli eventi tragici, e la definizione della vita come impossibile accordo di elementi discordanti e indipendenti. Colpisce però anche il riferimento ai cani in corpo che riconduce al cane incontrato sul ponte; e più ancora il riferimento ai piattini della banda, che anticipano i due coppi della macchina da pesca con i quali sarà tentato il suicidio. Ed è qui il momento di ricordare che il mausoleo di Augusto, incontrato dal protagonista prima del ponte, è di forma rotonda, proprio come saranno i piattini e i coppi. I tre oggetti che richiamano l’idea di morte sono pertanto accomunati anche nella forma, che ne rafforza la correlazione che il lettore è chiamato a porre. Sceso dalla scarpata (131) fin sulla sponda (131) del Tevere, Nardino trova dell’erba folta e Vi si sdraiò (132). Il gesto, in prossimità della morte, richiama quello compiuto a Villa Borghese, proprio quando la vita si rivelava priva di significato: Stanco, s’era sdraiato per più ore sull’erba d’un prato (91). A Villa Borghese, stando sdraiato sente il canto degli uccelli (95), fatto di trilli (99) e cinguettio (99); qui ora sente un certo cupo tonfo cadenzato (139). Si tratta di un riuscito endecasillabo allitterante, dal ferreo ritmo cadenzato di tipo spondaico, in cui l’idea di cupa lentezza e di cadenza sono dominanti al punto da


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XV.

Il coppo - Analisi del testo

13.4.2012

13:45

Pagina 175

175

essere riproposte poco dopo in quel lento moto cadenzato (146) e ancora in L’inutilità di quel girare monotono d’un così grosso e cupo ordegno (148). Nei due diversi luoghi abbiamo dunque due mondi sonori opposti; il primo è veloce e irregolare e sta ad indicare la vita, mentre il secondo gli si oppone suggerendo una intuibile idea di morte. Ad evitare un’interpretazione soggettiva pensa Pirandello stesso, decifrando per il lettore la pur facile metafora, il chiaro simbolo: Quel coppo, che il fiume del tempo faceva girare (162). Il Tevere è dunque il tempo (meglio ancora il Tempo) e la macchina coi due coppi è l’orologio che misura quel tempo. L’invenzione è efficace; e ancor più se la si correla ai piattini della banda funebre, i quali (in disaccordo con la grancassa ma con un loro ritmo cadenzato) scandiscono inutilmente il tempo al morto, che dal tempo è già uscito. Operazione inutile proprio come ora questa della macchina, che Nardino non sapeva che fosse, né che significasse (144-145), di fronte alla quale, però, con estrema lucidità e sintesi, dichiara: Gli parve che tutto fosse vano nella vita come il girare di quei due coppi nell’acqua (150-151). La domanda retorica che egli si pone poco dopo (Era dunque venuto il momento? 168) ha sapore di tragedia. La certezza dell’opportunità del momento è acquisita solo quando è acquisito il significato dell’insensato ordigno meccanico. Nardino si getta allora in uno dei due coppi: entra nel segnatempo per operare la sua scomparsa da quella scena (172), cioè dall’esistenza. Ma, per la paura del gesto, reagisce opponendovisi e si salva. Il suicidio fallisce. Vince la vita. 5.2.

Il richiamo della vita

Non è la moglie, non è la figlia, non sono altri esseri umani, non è un oggetto o un desiderio a dare a Nardino voglia di vivere. Egli si misura unicamente sulla natura circostante. A Villa Borghese si ha il primo confronto: La primavera, l’ebbrezza del primo tepore del sole su la tenera erba dei prati, i primi fiorellini timidi e il canto degli uccelli. Quando mai, per lui, avevano cantato così gioiosamente gli uccelli? / Che strazio, in mezzo a quel primo verde, così vivido e fresco d’infanzia, sentirsi grigi i capelli, arida la barba. Sapersi vecchio. Riconoscere che nessun grido poteva più erompere a lui dall’anima, che avesse la gioia di quei trilli, di quel cinguettio; nessun pensiero più, nessun sentimento nascere a lui nella mente e nel cuore, che avessero la timidità gentile di quei primi fiorellini, la freschezza di quella prima erba dei prati; riconoscere che tutta quella delizia per le anime giovani, si convertiva per lui in una infinita angoscia di rimpianto (94-103). Non si tratta di una vera e propria descrizione della natura, perché le componenti (verde; trilli; cinguettio; fiorellini; erba) emergono in funzione della condizione psicologico-esistenziale del protagonista, filtrate dall’iniziale Che strazio, e rinviano per contrasto al protagonista. Insieme alla consapevolezza della propria fine, a Nardino viene dunque il desiderio di un mondo perso, nel ricordarsi di tante cose, che forse per lui non erano mai esistite (93). Il secondo momento si ha in riva al Tevere (Nardino è anche qui sdraiato sull’erba a diretto contatto con la natura), quando compare una vera e propria descrizione del paesaggio: Le ultime fiamme del crepuscolo trasparivano dai cipressi di Monte Mario, lì quasi dirimpetto, e davano alle cose che nell’ombra calante ritenevano ancora per poco i colori come uno smalto soavissimo che a mano a mano s’incupiva vieppiù, e riflessi di madreperla alle tranquille acque del fiume (133-136). La descrizione è notevole. Si tratta di un unico e ampio periodo sintattico che si stende come una


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 176

Luigi Pirandello colata lavica. Il soggetto fiamme comporta due predicati (trasparivano e davano), il secondo dei quali conduce a due complementi oggetto (smalto e riflessi); il primo complemento oggetto è fatto lungamente attendere per l’inserzione di una relativa (che… ritenevano); e una relativa (che… s’incupiva) si inserisce anche dopo di esso, rallentando la comparsa del secondo. Le scelte lessicali e ritmiche sono sorvegliatissime: dominano infatti i quadrisillabi (crepuscolo; dirimpetto; incupiva; madreperla) e i lenti pentasillabi (trasparivano; ritenevano; soavissimo). L’intero tessuto fonico è dominato dalla s (crepuscolo; trasparivano; cipressi; smalto soavissimo; s’incupiva; riflessi). Anche i sintagmi sostantivo + aggettivo sono collocati in attenti chiasmi: ultime fiamme con ombra calante; e smalto soavissimo con tranquille acque (e si noterà il percorso da fiamme a acque). Si ha l’impressione che siano gli occhi del narratore a percepire lo stato di grazia di quella scena basata esclusivamente sui colori, e che Pirandello componga un brano densamente artificioso proprio per cercare di commuovere il proprio personaggio; ma Nardino è sensibile soltanto al silenzio profondo (137) entro il quale percepisce il tonfo (138) e lo sgocciolìo (138-139) della macchina. La bellezza della natura non parla più a Nardino neanche attraverso l’allettante trasposizione pittorica fattagli dall’autore; un tipo di rappresentazione che sappiamo essere estranea al protagonista per il disprezzo verso quelli che dipingono per dipingere… alberi e case… montagne e marine… fiumi, giardini e donne nude (24-25) – e la descrizione appena analizzata non è certo di mano di un «pittore da cavalletto della domenica» –, come pure è specialmente estranea al protagonista per la certezza del fallimento dei suoi sogni di grande pittore. Quando Nardino guarda la natura coi propri occhi vede cose che l’occhio dell’autore non ha descritto: Guardò il cielo, in cui erano già spuntate le prime stelle, ma pallide per l’imminente alba lunare (151-152). Vede cioè stelle e luna, i segni luminosi della notte. Siccome notte sta per morte, è significativo che siano due componenti così liriche e letterarie a segnalargli la fine della vita. Quando Nardino si alza per attuare il tragico proposito, è ancora l’erba a costituire l’ultimo richiamo nostalgico; tanto più ora che è rischiarata dalla luna: E c’erano tutti quei fili d’erba, che sarebbero rimasti lì, tali e quali, sotto il chiarore umido e blando della luna, anche dopo la sua scomparsa da quella scena (170-172). La sinestesia (chiarore umido) accoglie in sé la componente cromatica che distingue la descrizione precedente (133-136) e la componente tattile che anticipa l’imminente contatto con l’acqua. Quando, da ultimo, Nardino è afferrato dal coppo, egli trova il tempo di alzare gli occhi: vide come schiantarsi tutte le stelle del cielo (190-191), provando terrore (191). Sono proprio le stelle, già prima osservate, che segnalano a Nardino l’inutilità del suicidio e lo richiamano alla vita. Purtroppo però, a causa dell’insensatezza dell’esistenza, Nardino sarà per sempre estraneo alla vita e dovrà limitarsi alla sopravvivenza.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XVI.

Pallottoline!

XVI.

Pallottoline!

13.4.2012

13:45

Pagina 177

177

Luigi Pirandello (1867-1936)

Ventotto agosto. Benone! Pochi giorni ancora: meno che un mese. Benone! E riponeva da parte il fogliolino del calendario insieme con gli altri precedenti, perché ottimo per… – Ssss! – Che c’è di male? – Bada, vien gente. – Zitta lì, zitta lì. Non ci sono; o se mai: Il professore studia! di’ così, di’ così, mi raccomando. Chiudeva subito l’uscio; poi, trac! accostava la persiana. Oh, e ora… Eccolo là: segnale a pagina 124. L’universo è finito o infinito? Questione antica. È certo che a noi riesce assolutamente impossibile… – Ufff! ufff! ufff! – tre volte di seguito, sempre allo stesso posto: lì, nel mezzo della fronte, ronzando. Ah, ma anche per le mosche, se Dio voleva, erano gli ultimi giorni di baldoria, come per gli «insetti umani» che, a piedi o su somarelli, s’inerpicavano fin lassù, a circa mille metri sul livello del mare. E per vedere che cosa infine? I laghi d’Albano e di Nemi: un paio d’occhiali insellato su quel gran naso con la punta all’insù, ch’è di Monte Cave. Già cominciavano infatti a spesseggiare i giorni di nebbia: quella nebbia umida e densa che toglie lo spettacolo incantevole dei due laghi gemelli ora vaporosi ora morbidi come azzurri veli di seta: occhi, più che occhiali, tra le folte ciglia dei boschi di ippocastani; occhi della pianura laziale, in cui, come serpente lucido enorme, il Tevere, dall’oscuro grembo di Roma, visibile appena là in fondo, si svolge, ricomparendo qua e là nelle ampie volute, fino al mare visibile appena laggiù. Ma nel mentre Jacopo Maraventano si fregava lieto le mani, tappato là, in quel camerino dell’Osservatorio Meteorologico, al piano superiore dell’antico convento, situato con l’attigua chiesetta su la cima del monte; alla nebbia invadente imprecava all’incontro l’oste velletrano, che aveva avuto la cattiva ispirazione di ridurre a

5

10

15

20

25


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 178

Luigi Pirandello miseri camerini d’albergo le povere cellette dei frati cacciati via da quel loro alpestre romitorio, e tavole e tavolini aveva disposti per gli avventori su la spianata dietro il convento, dalla parte di levante, sotto un enorme faggio secolare. – Asino! Ci ho piacere! Piacerone! Quell’alta vetta di monte, di cui egli con la famigliuola pativa per tutto l’inverno i rigori crudissimi, la desolazione della neve, l’esiliante assedio della nebbia, la furia dei venti doveva con la bella stagione diventare per gli altri a un tratto luogo di delizia! – Ecco la nebbia, asino! Ben ti stia! Piacere, piacerone! Non la pensavano però come lui la moglie e la figlia Didina, già su i vent’anni, e neanche Franceschino, che pure era nato e cresciuto lassù. Per loro l’estate era una benedizione, e la sospiravano ardentemente in segreto tutto l’inverno. Potevano almeno sentire in quei mesi un po’ di vita attorno e veder gente e scambiare qualche parola; e Didina, chi sa! poteva anche dar nell’occhio a qualche giovanotto, tra i tanti che salivano a visitare l’Osservatorio, ai quali la buona signora Guendalina, bruna, magra, ossuta, col volto bruciato dai rigori invernali, non mancava di ripetere, invece del marito, come poteva (cioè sempre con le stesse parole e gli stessi gesti), la spiegazione dei pochi strumenti per le osservazioni meteorologiche. Dopo la spiegazione presentava ai visitatori un registro, perché vi apponessero la firma e, accanto, qualche pensiero. Lasciava andar certi sospironi la povera Didina rileggendo in quel registro, nelle serate d’inverno lassù, quei pensieri in margine e talvolta qualche poesiola: quella, per esempio, indirizzata proprio a lei (All’edelweiss di Monte Cave). Ah, il giovane poeta che l’aveva scritta chi sa dov’era ormai, se pensava più a lei, se sarebbe ritornato la ventura estate! La signora Guendalina tentava, ma timida, d’indurre il marito rinchiuso a farsi vedere dai visitatori. Non foss’altro, per dovere d’ospitalità, diceva. Ma Didina, ogni qualvolta la madre si provava a muovere questo discorso, le dava sotto sotto gomitate: poi, a quattr’occhi, le faceva notare che, se il babbo non si persuadeva prima a farsi tagliare quell’aspra selva di capelli riccioluti e quel barbone mostruoso, arruffato che gli aveva invaso le guance fin sotto gli occhi, era meglio che non si lasciasse vedere. La madre ne conveniva, sospirando; e alla domanda dei visitatori: – Il professore dov’è? – Il professore studia, – rispondeva con gli occhi bassi, invariabilmente. Studiava davvero il Maraventano, o almeno stava immerso tutto il giorno nella lettura di certi libracci che trattavano d’astronomia, unico suo pascolo. La lettura però andava a rilento, poiché egli si lasciava distrarre dalla fantasia, rapire da ogni frase per le infinite plaghe dello spazio, da cui non sapeva poi ridiscendere più, come la moglie avrebbe desiderato. Ma ridiscendere perché? Per mostrare lì alla gente che veniva a frastornarlo, a seccarlo, e da cui una così sterminata distanza lo allontanava, come agisse un pluviometro o un anemometro, per far vedere i sismografi o i barometri? Eh via! Un giorno gli sapeva un anno, che quella processione di seccatori terminasse. Per fortuna, dei pochi matti che avevano preso alloggio nel sedicente albergo, uno solo resisteva ancora alle incalzanti minacce del tempo. Già l’autunno si ridestava con certi sbuffi che scotevano là sulla cima la grave e stanca immobilità dei

30

35

40

45

50

55

60

65

70


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XVI.

Pallottoline!

13.4.2012

13:45

Pagina 179

179

grandi alberi esausti; e quando quegli sbuffi non avevano alcun impeto contro le povere foglie moribonde, erano fitti ribocchi di nebbia, che si ergevano a onde, impigliandosi pigri tra i rami attediati, in basso stagnando sui laghi; o fumigavano qua e là dai boschi sottoposti, che pareva ardessero a lento, senza fiamma, senza crepito. Sembrava certi giorni che tutta l’aria si fosse raddensata in un fumo bianchiccio, umido, accecante: e allora la vetta del monte restava come esiliata dal mondo, e dalla spianata non si sarebbe potuto scorgere neanche a un passo il convento. E tuttavia quell’ultimo matto resisteva lì. Jacopo Maraventano non tardò a intenderne la ragione. Una sera, dalla sua finestretta, per entro a quella nebbia fittissima, udì, o gli parve, certi bisbigli, che non potevano esser presi per gli acuti stridii che sogliono lanciare nell’aria i pipistrelli, o gli scoiattoli su per i rami degli alberi. Zitto, zitto, quatto quatto, scese su la spianata. Né egli discerneva tra la nebbia gl’innamorati, né questi tra loro si discernevano. Dall’alto sospirava una voce: – Cadrà tanta neve… tanta neve… – Dev’esser bello, – rispondeva dalla spianata l’altra voce. – Bello sarebbe per me, se tu rimanessi qua; ma per te no, caro. Si muore di freddo, sai? – Povero amore! Ma ora io debbo partire. Ti giuro però che tornerò tra poco. – Non tornerai, ne sono certa. Io resterò per te, nel tuo cuore, il ricordo di un’estate in montagna… La voce dalla spianata voleva protestare; ma Jocopo Maraventano tossì forte, e subito corse con le mani avanti, come un cieco, in direzione del convento, per tagliar la via al giovanotto che se la svignava radendo il muro. Venne proprio a cadergli tra le braccia. All’inciampone, indietreggiò, balbettando: – Oh, scusi… Buo… buona sera, professore. – Buona sera. Lei va a far le valige, non è vero? – Sì… sissignore… Conto di partire domattina. – Fa bene. Buon viaggio! Quassù non tira più buon’aria. E neanche il babbo si riesce più a scorgere… – Come dice? – Non dico a lei, dico a mia figlia. È vero, Didina, che con questa nebbia non scorgi più neanche il babbo tuo? Ma Didina era già scappata in lagrime a rifugiarsi presso la mamma. Con la partenza di quel giovanotto parve davvero che l’inverno si stabilisse finalmente lassù. L’oste chiuse l’albergo e, borbottando imprecazioni, se ne discese a Velletri. Su la vetta ormai si udiva solo il vento parlare con gli alberi antichi. Jacopo Maraventano restava assoluto padrone della solitudine, libero in mezzo alla nebbia, signore dei venti, piccolo su quell’alta punta nevosa al cospetto del cielo che da ogni parte lo abbracciava e nel quale d’ora in poi poteva tornare a immergersi, a naufragare, non più infastidito o distratto. Assistendo, come gli pareva d’assistere con la fantasia, nel fondo dello spazio, alla prodigiosa attività, al lavoro incessante della ma-

75

80

85

90

95

100

105

110

115


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 180

Luigi Pirandello teria eterna, alla preparazione e formazione di nuovi soli nel grembo delle nebulose, al germogliare dei mondi dall’etere infinito: che cosa diventava per lui questa molecola solare, chiamata Terra, addirittura invisibile fuori del sistema planetario, cioè di questo punto microscopico dello spazio cosmico? Che cosa diventavano questi polviscoli infinitesimali chiamati uomini; che cosa, le vicende della vita, i casi giornalieri, le afflizioni e le miserie particolari, le generali calamità? E di questo suo disprezzo, non che della Terra, ma di tutto il sistema solare, e della stima che si era ridotto a far delle cose umane, considerandole da tanta altezza, avrebbe voluto far partecipi moglie e figliuola, che si lamentavano di continuo ora per il freddo ora per la solitudine, traendo da ogni piccola infelicità argomento di lagni e di sospiri. E le sere d’inverno, lassù, mentre Didina e la madre, infreddolite, se ne stavano raccolte in cucina e lui, senza neppure saperlo, sventolava davanti al fornello per far bollire la pentola, parlava loro delle meraviglie del cielo, spiegava la sua filosofia. – Punto di partenza: ogni stella un mondo a sé. Un mondo, care mie, non crediate, più o meno simile al nostro; vale a dire: un sole accompagnato da pianeti e da satelliti che gli rotano intorno, come i pianeti e i satelliti del nostro sistema attorno al sole nostro, il quale, sapete che cos’è? Vi faccio ridere: nient’altro che una stella di media grandezza della Via Lattea. Ne volete un’idea? Trasportate nello spazio il nostro mondo – questo così detto sistema solare – a una distanza uguale… non dico molto – a poche migliaia di volte il suo diametro, cioè, alla distanza delle stelle più vicine. Orbene, il nostro gran sole sapete a che cosa sarebbe ridotto rispetto a noi? Alle proporzioni d’un puntino luminoso, alle proporzioni di una stella di quinta o sesta grandezza: non sarebbe più, insomma, che una stellina in mezzo alle altre stelle. – Scusa, – interloquiva Didina, che insieme con la madre, non sapendo che fare, gli prestava ascolto, d’inverno. – Hai detto rispetto a noi. Ma, trasportando il sole, la terra non dovrà pure, per conseguenza… – No, asinella! – la interrompeva il padre. – La terra lasciala qua. È un’ipotesi, per farti capace. Didina alzava le spalle: non si capacitava. – Che c’entra! Il sole è sempre il sole. – E che cos’è? – le gridava allora il padre sdegnatissimo. – Ma lo sai che se Sirio sputa, il sole ti si spegne, come una candela di sego? Sappilo: – pah! – si spegne. – Jacopo, – diceva placidamente la signora Guendalina. – Se non ci metti altro carbone, ti si spegne pure il fuoco e l’acqua ti bolle per l’anno santo. Egli allora scoperchiava la pentola, guardava dentro, poi rispondeva alla moglie: – No, comincia a muoversi. Faccio vento, lo vedi. Ma veniamo ai nostri grandi pianeti. Care mie, alla distanza che vi ho detto, s’involerebbero addirittura al nostro sguardo, tutti, meno, forse, Giove… forse! Ma non crediate che potreste scorgerlo a occhio nudo! Forse con qualche telescopio di prim’ordine; e non lo so di certo. Pallottoline, care mie, pallottoline! Quanto a noi, alla nostra Terra, non se ne sospetterebbe nemmeno l’esistenza. E volete far sparire anche il sole? Basta, col beneplacito di Didina, senz’altro, là! retrospingerlo alla distanza delle stelle di prima grandezza. C’è? Non c’è? Uhm! Sparito.

120

125

130

135

140

145

150

155

160

165


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XVI.

Pallottoline!

13.4.2012

13:45

Pagina 181

181

Il vento cacciava dentro la stanza, attraverso la gola del camino, un mugolìo continuo, opprimente. Nei brevi intervalli tra una frase e l’altra del Maraventano pareva che il silenzio sprofondasse pauroso nella tenebra. Si udivano allora gemere gli alberi tormentati della vetta, e se questi alberi tacevano per un istante e si udiva invece da più lontano il frascheggiare confuso dei boschi sottoposti, lassù pareva si stesse sospesi tra le nuvole, come in un pallone. Ma se poi dal fornello scoppiava una favilla, le due donne sentivano il conforto di quella stanza familiare, illuminata, intepidita dal fuoco; e la immobilità delle stoviglie appese alle pareti e della povera e scarsa suppellettile rassettava il loro animo conturbato dal vento e dal panico della notte in quella orrenda solitudine alpestre. Il Maraventano, sopra le regioni del vento, sopra le nuvole più alte, era rimasto intanto con la ventola da cucina in mano nella remotissima plaga dello spazio, dove un momento innanzi aveva lanciato, come un giocoliere i suoi globetti di vetro, tutto il sistema planetario, e scrollava il capo, con le ciglia aggrottate, gli occhi socchiusi e gli angoli della bocca contratti sdegnosamente in giù. A un tratto esplodeva tra il barbone abbatuffolato, come se ripiombasse su la terra, lì, in cucina: – Bah! E con la ventola faceva un largo gesto indeterminato. Poi riprendeva, con gli occhi immobili e invagati: – Pensare… pensare che la stella Alfa della costellazione del Centauro, vale a dire la stella più vicina a questo nostro cece, alias il signor pianetino Terra, dista da noi trentatré miliardi e quattrocento milioni di chilometri! Pensare che la luce, la quale, se non lo sapete, cammina con la piccolissima velocità di circa duecento novantotto mila e cinquecento chilometri al minuto secondo (dico secondo), non può giungere a noi da quel mondo prossimo che dopo tre anni e cinque mesi – l’età cioè del nostro buon Franceschino che sta a sfruconarsi il naso col dito, e non mi piace… Pensare che la Capra dista da noi seicentosessantatré miliardi di chilometri, e che la sua luce, prima d’arrivare a noi, con quel po’ po’ di velocità che v’ho detto, ci mette settant’anni e qualche mese, e, se si tien conto dei calcoli di certi astronomi, la luce emessa da alcuni remoti ammassi ci mette cinque milioni d’anni, come mi fate ridere, asini! L’uomo, questo verme che c’è e non c’è, l’uomo che, quando crede di ragionare, è per me il più stupido fra tutte le trecento mila specie animali che popolano il globo terraqueo, l’uomo ha il coraggio di dire: «Io ho inventato la ferrovia!». E che cos’è la ferrovia? Non te la comparo con la velocità della luce, perché ti farei impazzire; ma in confronto allo stesso moto di questo cece Terra che cos’è? Ventinove chilometri, a buon conto, ogni minuto secondo; hai dunque inventato il lumacone, la tartaruga, la bestia che sei! E questo medesimo animale uomo pretende di dare un dio, il suo Dio a tutto l’Universo! Qui il Maraventano e la moglie si guastavano. – Jacopo! – pregava la signora Guendalina. – Non bestemmiare. Fallo almeno per pietà di noi due povere donne esposte quassù… – Hai paura? – le gridava il marito. – Temi che Dio, perché io bestemmio, come tu dici, ti mandi un fulmine? C’è il parafulmine, sciocca. Vedi dond’è nato il vostro Dio? Da codesta paura. Ma sul serio potete credere, pretendere che un’idea o un sentimento nati in questo niente pieno di paura che si chiama uomo debba essere il Dio, debba essere quello che ha formato l’Universo infinito?

170

175

180

185

190

195

200

205

210


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 182

Luigi Pirandello Le due donne si turavano gli orecchi, chiudevano gli occhi; allora il Maraventano scaraventava per terra la ventola, e gridando con le braccia per aria: – Asine! asine! – andava a chiudersi nella sua stanzetta e, per quella sera, addio cena. Simili scene avvenivano assai di frequente, poiché né Didina né la moglie volevano adattarsi alla filosofia di lui, specialmente quando avevano bisogno di qualche cosa. – Diviene, – diceva loro il Maraventano – dal non sapere filare un ragionamento semplicissimo; dal non volere guardare in su un momentino. Oh Alfa del Centauro! oh Sirio, oh Capella! sapete perché piange Didina? Piange perché non ha una veste nuova d’inverno da farsi ammirare in chiesa, la domenica, a Rocca di Papa. Roba da ridere! – Roba da ridere; ma io mi muoio dal freddo, – rispondeva tra le lagrime Didina. E il Maraventano: – Senti freddo, perché non ragioni! Non a parole soltanto dimostrava egli il disprezzo in cui teneva la terra e tutte le cose della vita. Soffriva di mal di denti, e talvolta la guancia per la furia del dolore gli si gonfiava sotto il barbone come un’anca di padre abate: ebbene, senz’altro, retrospingeva nello spazio il sistema planetario: spariva il sole, spariva la terra, tutto diventava niente, e con gli occhi chiusi, fermo nella considerazione di questo niente, a poco a poco addormentava il suo tormento. – Un dente cariato, che duole nella bocca di un astronomo… Roba da ridere. Sia d’estate, sia d’inverno, fosse nuvolo o sereno, si recava a piedi, dalla cima del monte, fino a Roma. Avrebbe potuto spedire per posta da Rocca di Papa il bollettino meteorologico all’ufficio centrale; ma a Roma lo attendeva il maggior godimento della sua vita. Vi si tratteneva ogni volta una notte, e per grazia particolare del Direttore del Collegio Romano la passava beatamente tutta intera al telescopio. La moglie, nel vederlo partire, tentava d’indurlo a servirsi della vettura da Rocca di Papa a Frascati o, almeno, della ferrovia da Frascati a Roma: – Prenderai un’insolazione! – Il sole, mia cara, ti serva: non è neanche buono da regolare gli orologi! – le rispondeva il Maraventano. E il suo orologio, infatti, sul cui quadrante aveva scritto con inchiostro rosso: Solis mendaces arguit horas, non era regolato col tempo solare. La distanza? Ma su la terra per lui non ci erano distanze. Congiungeva ad anello l’indice e il pollice d’una mano e diceva alla moglie sghignazzando: – Ma se la Terra è tanta…

Testo di riferimento L. PIRANDELLO, Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, Milano, Mondadori («I Meridiani»), vol. III 1, 1990, pp. 185-195.

215

220

225

230

235

240

245

250


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

XVI.

Pallottoline! - Analisi del testo

XVI.

Analisi del testo

1.

Riassunto dell’intreccio

13:45

Pagina 183

183

1. Il meteorologo Jacopo Maraventano si rinchiude a studiare nel camerino dell’osservatorio per non incontrarsi con gli ultimi turisti della stagione estiva (1-19). 2. Il panorama dall’osservatorio e la prima nebbia (20-25). 3. L’oste che gestisce l’albergo ricavato dal convento su cui sorge l’osservatorio si lamenta dell’arrivo della cattiva stagione (26-38). 4. Guendalina (moglie di Jacopo), Didina e Franceschino (suoi figli) non desiderano che finisca la stagione estiva (39-44). 5. Guendalina intrattiene i turisti (44-49). 6. Didina d’inverno legge le dediche sul registro (50-54). 7. Guendalina sottrae il marito ai turisti (55-63). 8. Jacopo studia in solitudine, contento che sia rimasto un solo turista (64-73). 9. L’arrivo dell’autunno e la nebbia (73-81). 10. L’unico turista rimasto fa la corte a Didina (82-110). 11. L’oste lascia l’osservatorio (111-113). 12. Jacopo si persuade che la terra e gli uomini sono disprezzabili (114-125). 13. Jacopo spiega a Guendalina e Didina il suo disprezzo dell’umanità (126-165). 14. La solitudine dell’osservatorio e il vento (166-175). 15. Jacopo spiega a Guendalina e Didina il suo disprezzo dell’umanità e di quel Dio che essa si è inventato (176-215). 16. Jacopo, grazie al ragionamento, disprezza le cose della vita (216-227). 17. Jacopo, grazie al ragionamento, disprezza il suo mal di denti (228-235). 18. Jacopo si reca a Roma per consegnare il bollettino meteorologico (236-250).


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 184

Luigi Pirandello 2.

Organizzazione della materia

Il testo è diviso (con tre stacchi tipografici) in quattro parti, corrispondenti ai punti 1-7, 8-10, 11-15, 16-18. Nelle prime tre parti vi è sempre una zona in cui Jacopo manifesta la sua «filosofia» (in 1, 8, 12) e una susseguente zona paesaggistica (in 2, 9, 14). Nella terza parte (e solo in essa) Jacopo spiega la sua «filosofia» alle due donne. Nelle prime due parti (e solo in esse) vi è movimento e vivacità di personaggi: i turisti, l’oste, Guendalina (che fa da guida), Didina (e le dediche), il corteggiatore (di Didina); tutto questo nelle seconde due parti viene a mancare (con la partenza dell’oste e la chiusura dell’albergo), così che in esse Jacopo è solo di fronte alle donne (Franceschino non ha ruoli), alle quali espone la sua visione del mondo, senza convincerle. Soltanto alla fine (punto 18) la solitudine di Jacopo si interrompe con l’andata a Roma.

3.

La «filosofia» di Jacopo

Jacopo, nelle sere d’inverno, spiegava la sua filosofia (133-134) alla moglie e alla figlia. Si tratta del suo modo di vedere il mondo e gli uomini: egli ha imparato dalla vastità del creato a disprezzare la piccolezza della terra e la meschinità dei suoi abitanti. La fisionomia del pensiero di Jacopo emerge progressivamente dal testo con sempre maggior specificità. Tre brani (10-13; 64-68; 118-125) sono determinanti. Il primo ci presenta il meteorologo in lettura: Chiudeva subito l’uscio; poi, trac! accostava la persiana. Oh, e ora… Eccolo là: segnale a pagina 124. / L’universo è finito o infinito? Questione antica. È certo che a noi riesce assolutamente impossibile… (1013). Se si pensa che egli è nell’osservatorio di Monte Cave (19), a circa mille metri sul livello del mare (17), si resta colpiti di vederlo non alle prese con gli strumenti scientifici in suo possesso ma immerso in un libro, di cui riprende avidamente la lettura sospesa a pagina 124. Egli è alla ricerca, in quel libro, di una risposta alla domanda L’universo e finito o infinito? (scritta, con quel che segue, in corsivo: per indicare che si tratta di citazione dal trattato). Arrivato all’assolutamente impossibile, Jacopo smette le lettura, infastidito dalle mosche (proprio lui, che sopporta stoicamente il suo mal di denti): stratagemma di Pirandello per non dare una risposta al quesito. Le mosche, il libro, l’isolamento sono segni che qualificano lo scienziato del passato, in un contesto d’altri tempi, polveroso e superato; figura più letteraria che scientifica. Altrettanto importante è il secondo brano: Studiava davvero il Maraventano, o almeno stava immerso tutto il giorno nella lettura di certi libracci che trattavano d’astronomia, unico suo pascolo. La lettura però andava a rilento, poiché egli si lasciava distrarre dalla fantasia, rapire da ogni frase per le infinite plaghe dello spazio, da cui non sapeva poi ridiscendere più, come la moglie avrebbe desiderato (64-68). Si vede che il meteorologo tiene in poco conto la sua professione ed ha invece ambizioni più vaste. È poi significativo il posto che occupa la fantasia, più urgente della stessa lettura e dell’osservazione diretta del cosmo (che Jacopo non può però effettuare non avendo a disposizione un telescopio). Pirandello si lascia sfuggire qui la risposta non data in precedenza: le infinite plaghe dello spazio, sebbene l’espressione sia più letteraria che scientifica.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XVI.

13.4.2012

Pallottoline! - Analisi del testo

13:45

Pagina 185

185

Vi è poi il terzo brano, formato da due interrogative retoriche: Assistendo, come gli pareva d’assistere con la fantasia, nel fondo dello spazio, alla prodigiosa attività, al lavoro incessante della materia eterna, alla preparazione e formazione di nuovi soli nel grembo delle nebulose, al germogliare dei mondi dall’etere infinito: che cosa diventava per lui questa molecola solare, chiamata Terra, addirittura invisibile fuori del sistema planetario, cioè di questo punto microscopico dello spazio cosmico? Che cosa diventavano questi polviscoli infinitesimali chiamati uomini; che cosa, le vicende della vita, i casi giornalieri, le afflizioni e le miserie particolari, le generali calamità? (118-125). Nella prima interrogativa Jacopo si domanda cosa sia la terra, nella seconda cosa siano gli uomini che la abitano. La risposta è scontata: si tratta di realtà spregevoli e indegne di interesse. L’osservazione scientifica (pur se mediata dal libro) è anche qui annientata dalla presenza dell’invenzione fantastica (d’assistere con la fantasia). L’attività del cosmo, inoltre, è descritta con metafore del mondo biologico terrestre (grembo delle nebulose; germogliare dei mondi), cioè con dei traslati e non con un linguaggio scientifico. Al contrario la terra e gli uomini sono denominati con metafore di tipo cosmologico (molecola solare; polviscoli infinitesimali). La terra e gli altri mondi sono dunque posti tra loro in correlazione stridente, e Jacopo ne mette in luce non la meravigliosa funzionalità di elementi di un sistema che supera la capacità che l’uomo ha di spiegarlo, bensì la umiliante condizione di inferiorità della terra e del genere umano rispetto al cosmo (infinito e di materia eterna come ancora Pirandello si lascia sfuggire, questa volta senza voli lirici). L’atteggiamento non è né galileiano (il credente Galileo dall’immensità cosmica derivava lode alla terra, non denigrazione) né pregalileiano (Aristotele dalla centralità della terra argomentava la superiorità del pianeta su ogni altro corpo celeste); Jacopo non è un astronomo in cerca di oggettività ma un pensatore che cerca conferma nei libri alle sue tendenze pessimistiche e misantrope. L’osservazione, la sperimentazione, pur nell’ambito della sua professione di meteorologo, non lo interessano in questo momento; anche l’ausilio del telescopio romano non sembra fargli fare passi in una direzione sostanzialmente diversa. Jacopo, dunque, alla luce di questa cultura, spiegava la sua filosofia (133-134) alla moglie e alla figlia. Si distinguono due zone nella sua esposizione. Nella prima (121-125) è sottolineata la piccolezza della terra in rapporto all’immensità del cosmo. Nella seconda (135-165) non si tratta di dimensioni ma di spazio e tempo; sul finire della seconda emerge il tema della velocità: quella della luce è paragonata a quella della ferrovia (recente scoperta della tecnica e orgoglio umano). Il confronto, tra sarcastico e grottesco, serve a screditare l’umanità: L’uomo, questo verme che c’è e non c’è, l’uomo che, quando crede di ragionare, è per me il più stupido fra tutte le trecento mila specie animali che popolano il globo terraqueo, l’uomo ha il coraggio di dire: «Io ho inventato la ferrovia!». E che cos’è la ferrovia? Non te la comparo con la velocità della luce, perché ti farei impazzire; ma in confronto allo stesso moto di questo cece Terra che cos’è? Ventinove chilometri, a buon conto, ogni minuto secondo; hai dunque inventato il lumacone, la tartaruga, la bestia che sei! E questo medesimo animale uomo pretende di dare un dio, il suo Dio a tutto l’Universo! (196-203). L’ultima considerazione del brano affronta il tema della fede e nega l’esistenza di Dio, postulato solo per far fronte alla paura; e all’ipotesi di un Dio che scaglia fulmini risponde beffardamente che l’uomo ha inventato il parafulmine. Il sarcasmo blasfemo quasi non merita di essere segnalato, quando si pensi alla rozzezza di un Dio-Giove che tormenta le sue crea-


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 186

Luigi Pirandello ture. Ma la rabbia di Jacopo rivela la paura di dover ammettere che Dio esista e sia proprio colui che ha creato il cosmo infinito e eterno, quindi anche l’uomo verme.

4.

La strumentazione scientifica

Il protagonista vive male la sua vita terrena, sopportabile solo in quanto gli permette di sconfinare nelle infinite plaghe dello spazio (67). Nutre fastidio anche verso la sua professione, la cui unica soddisfazione, si direbbe, sono le notti a Roma con gli occhi al telescopio: si tratteneva ogni volta una notte, e per grazia particolare del Direttore del Collegio Romano la passava beatamente tutta intera al telescopio (239-240). Lo strumento-simbolo fa la sua comparsa proprio soltanto alla fine del racconto, per sottolineare l’ansia di conoscenza dell’infinito (se tale è il cosmo) e in contrapposizione da un lato ai libri d’astronomia letti nel chiuso dello sgabuzzino (i quali accennano a questo possibile infinito), dall’altro agli unici altri strumenti scientifici, che sono anch’essi ricordati all’inizio, e cioè pluviometro, anemometro, sismografo, barometro. La scelta di Pirandello condiziona fortemente il lettore, che percepisce non solo una tensione tra i due diversi tipi di strumentazione scientifica (rivolti gli uni alla terra e l’altro al cielo), ma anche una progressione tra i primi e l’ultimo, nel senso dell’acquisizione di una funzione e quindi di un pregio maggiore. Questo climax dal peggio al meglio è rafforzato anche dal movimento fisico di Jacopo: prima fermo e chiuso nel suo sgabuzzino, poi in movimento circoscritto allo spazio dell’osservatorio (nell’esercizio delle sue funzioni e alle prese con le esigenze familiari), da ultimo nell’allontanamento dall’osservatorio verso Roma. La discesa dal Monte Cave alla città non può lasciare indifferenti: Jacopo è costretto suo malgrado a scendere dagli spazi celesti (in direzione dei quali realizza le sue aspirazioni) alla sgradevole terra (sulla quale vive soffrendo la sua vita professionale e familiare), ma la seconda discesa (questa volta fisicamente realizzata) gli permette di risalire (col telescopio) a quel cosmo da cui non può staccarsi. La vita del protagonista è determinata perciò da un continuo percorso circolare. Il suo tempo è scandito da un incessante alternarsi di salite e di discese; è un tempo più psicologico e intellettuale che fisico, e non per nulla non può essere misurato da un normale orologio regolato col tempo solare (247) ma da uno che Solis mendaces arguit horas (247). «Le ore solari sono ingannevoli»: è il motto adottato dagli orologiai di Parigi nel XVII secolo per caratterizzare gli orologi meccanici che segnavano un tempo esatto, diversamente da quello indicato dal sole e a cui allora ci si riferiva. Alla ideale circolarità degli spazi biografici di Jacopo si oppone la circolarità del percorso dell’orologio: la prima dà senso al vivere, la seconda è ingannevole. Spazio e tempo non collimano sulla povera terra, anch’essa rotonda, e indicata con un gesto che, all’atto di determinarla, la annienta: Ma su la terra per lui non ci erano distanze. Congiungeva ad anello l’indice e il pollice d’una mano e diceva alla moglie sghignazzando: / – Ma se la Terra è tanta… (248-250). Davvero una rotonda pallottolina.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

XVI.

Pallottoline! - Analisi del testo

5.

Descrizione del paesaggio, nebbia, vento

Pagina 187

187

Un primo brano descrittivo interrompe le considerazioni iniziali di Jacopo: Già cominciavano infatti a spesseggiare i giorni di nebbia: quella nebbia umida e densa che toglie lo spettacolo incantevole dei due laghi gemelli ora vaporosi ora morbidi come azzurri veli di seta: occhi, più che occhiali, tra le folte ciglia dei boschi di ippocastani; occhi della pianura laziale, in cui, come serpente lucido enorme, il Tevere, dall’oscuro grembo di Roma, visibile appena là in fondo, si svolge, ricomparendo qua e là nelle ampie volute, fino al mare visibile appena laggiù (20-25). Si tratta del panorama, visto dall’alto, della pianura sottostante, dove dominano i laghi di Albano e Nemi e il Tevere. Nonostante la presenza, ritmicamente ben percepibile, di versi mascherati nella prosa (visibile appena là in fondo; qua e là nelle ampie volute; visibili appena laggiù: novenari; erano fitti ribocchi di nebbia: endecasillabo), la descrizione è tutta riassorbita nel simbolismo delle metafore: i laghi-occhi (corretti sui precedenti laghi-occhiali: I laghi d’Albano e di Nemi: un paio d’occhiali 18) ai lati del Monte Cave-naso e i boschi-ciglia; in seguito il Tevere-serpente e la Roma-grembo. La prima parte della descrizione è di tipo antropomorfico arcimboldesco e suggerisce un essere umano che scruta il cielo. Sono proprio gli occhi di Jacopo perché le folte ciglia ben si addicono al ritratto barbuto del protagonista (59-60); e si tratta di un felice anticipo di quello che Jacopo (sul finire del racconto) dirà di fare a Roma. La seconda parte della descrizione è meno perspicua; il grembo e il serpente suggeriscono un contesto sacro, forse Maria e Satana, Dio e il Male. Ma, in modo inatteso, il grembo è oscuro e il serpente lucido enorme; quindi una luce che esce dall’oscurità: la conoscenza, forse, che deriva dall’ignoranza. Ma allora Dio sarebbe ignoranza e la conoscenza sarebbe male. Ciò è plausibile per la mentalità di Jacopo che rinfaccerà alla moglie di credere in Dio per paura, ma che manifesta anche tendenze antiprogressiste (la ferrovia: di sapore modernamente futurista) e può nutrire dubbio sulle «magnifiche sorti» umane. Inoltre il serpente-satana richiama il fulmine (208) scagliato dal Dio crudele sugli uomini inermi. La rete di relazioni è complessa, ma anche qui si ha un anticipo di quanto seguirà, perché proprio a Roma Jacopo, nelle nuove vesti di astronomo, osservando i cieli si convince che l’idea di Dio è estranea agli spazi cosmici. In questo contesto di metafore-simbolo interferisce la presenza della nebbia, un elemento perturbatore che ostacola la visione della realtà (e perciò la conoscenza) fino ad impedirla totalmente. Cosa questo voglia dire si vedrà nella scena d’amore tra Didina e il turista; ma sin da ora la nebbia si pone come secondo protagonista del racconto: nebbia invadente (28), l’esiliante assedio della nebbia (35), Ecco la nebbia (38), nebbia fittissima (84), tra la nebbia (87-88), con questa nebbia (108-109), in mezzo alla nebbia (115-116). E rimane tale fino all’inizio della terza sezione riassunto 11, quando impariamo a conoscere la filosofia di Jacopo attraverso l’insegnamento alle donne. Jacopo si forma una visione del mondo nel clima di isolamento promosso dalla nebbia ma non può, nella nebbia, divulgare le sue idee. Il secondo brano descrittivo del paesaggio introduce alla scena d’amore tra Didina e il turista: Già l’autunno si ridestava con certi sbuffi che scotevano là sulla cima la grave e stanca immobilità dei grandi alberi esausti; e quando quegli sbuffi non avevano alcun impeto contro le povere foglie moribonde, erano fitti ribocchi di nebbia, che si ergevano a onde, impigliandosi pigri tra i rami attediati, in basso stagnando sui laghi; o fumigavano qua e là dai boschi sottoposti, che pareva ardessero a lento, senza


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 188

Luigi Pirandello fiamma, senza crepito. Sembrava certi giorni che tutta l’aria si fosse raddensata in un fumo bianchiccio, umido, accecante: e allora la vetta del monte restava come esiliata dal mondo, e dalla spianata non si sarebbe potuto scorgere neanche a un passo il convento (73-81). È una descrizione di alto livello stilistico, dominata dal senso di torpore e stanchezza dell’estate morente. Poco può fare il vento; già prima anticipato in la furia dei venti (36) e messo di fronte all’esiliante assedio della nebbia (35) – si noti che esiliante è ripreso qui da esiliata –, esso è ora costretto a cedere il campo. Con la grave e stanca immobilità dei grandi alberi esausti l’autore varia quattro volte uno stesso pensiero (riferito ai grandi alberi) espresso con tre aggettivi e un sostantivo; e il ritmo, franto dopo ogni parola, agonizza al pari del contenuto che è chiamato ad esprimere. La situazione peggiora col sopravvento della nebbia che, impigliandosi o stagnando o restando raddensata, rende la zona esiliata dal mondo. Il clima di oppressione è in parte dovuto anche alla frequenza dei vocaboli sillabicamente lunghi e lenti: immobilità, moribonde, ergevano, impigliandosi, attediati, stagnando, fumigavano, sottoposti, ardessero, raddensata, bianchiccio, accecante; dove dominano le forme verbali (anche se in veste aggettivale). Questo diffuso ristagnare si avvale anche dell’uso di appropriati binomi (grave e stanca; grandi… esausti; povere… moribonde; senza fiamma, senza crepito) e di un trinomio (bianchiccio, umido, accecante: che sfrutta l’allitterazione); e assume una veste scopertamente ritmica, adottando la misura dell’endecasillabo (erano fitti ribocchi di nebbia; restava come esiliata dal mondo) o del novenario (in basso stagnando sui laghi; e allora la vetta del monte) anche contigui (e allora la vetta del monte restava come esiliata dal mondo). In questa natura così aspra e morbida (ostile, per gli altri membri della famiglia), che fa propria la decadente tonalità dannunziana, Jacopo può pensare all’infinito e naufragare (117-118) pseudo leopardianamente. Il terzo brano descrittivo del paesaggio è tutto all’insegna del vento: Il vento cacciava dentro la stanza, attraverso la gola del camino, un mugolìo continuo, opprimente. Nei brevi intervalli tra una frase e l’altra del Maraventano pareva che il silenzio sprofondasse pauroso nella tenebra. Si udivano allora gemere gli alberi tormentati della vetta, e se questi alberi tacevano per un istante e si udiva invece da più lontano il frascheggiare confuso dei boschi sottoposti, lassù pareva si stesse sospesi tra le nuvole, come in un pallone (166-171). Anche in questo brano alcuni spazi di prosa si coagulano in versi: attraverso la gola del camino; un mugolio continuo, opprimente; pareva che il silenzio sprofondasse; gli alberi tormentati della vetta; il frascheggiare confuso dei boschi; lassù pareva si stesse sospesi (tutti endecasillabi); e anche in questo brano è frequente l’uso di quadrisillabi (verbi e aggettivi verbali): attraverso; opprimente; intervalli; sprofondasse; pauroso; tormentati; tacevano; frascheggiare; sottoposti. A conferire una stessa tonalità stilistica interviene persino la ripetizione del sintagma boschi sottoposti, in ciascun brano. Jacopo, a differenza delle due donne, non teme il vento, anzi se ne serve per accentuare negli altri lo smarrimento provocato dalle sue teorie. La tensione è acuita dall’opposizione tra interno e esterno dell’abitazione (dentro la stanza; alberi tormentati) e tra alto e basso (vetta; boschi sottoposti), così che tutta la realtà ne è invasa, con la sensazione finale di essere sospesi tra le nuvole, come in un pallone. Subito dopo questo brano descrittivo, le due donne ammettono di avere l’animo conturbato dal vento (174), mentre di Jacopo si dice che stava sopra le regioni del vento (176). Con la testa tra i cieli e i piedi in cucina, l’astronomo è però anch’egli (a suo modo) in tensione; Pirandello lo dice servendosi ancora del vento, tra-


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XVI.

13.4.2012

Pallottoline! - Analisi del testo

13:45

Pagina 189

189

sferito nell’oggetto di cucina di cui Jacopo si serve: sventolava davanti al fornello (132), Faccio vento, lo vedi (158), con la ventola da cucina in mano (177), con la ventola faceva un largo gesto indeterminato (183), scaraventava per terra la ventola (213) La progressione è sensibile: da sventolare e fare vento si passa all’oggetto che produce vento, che finisce scaraventato lontano. Jacopo, sappiamo, non ha nulla da condividere con la terra, con gli esseri umani (siano pure moglie e figlia), con la meschinità della vita domestica; il suo vento non ha nulla a che vedere, quindi, con quello prodotto dalla ventola. Attratto dalle regioni del vento (176) e respinto dal vento che in cucina fa cuocere gli alimenti, Jacopo è costretto a non potersi liberare della contraddizione; e Pirandello gli mette il vento anche nel nome Maraventano. La quarta sezione (riassunto 17-19) è priva di un brano di descrizione paesaggistica. Sul finire, però, prende importanza il sole, che sostituisce nebbia e vento. Non si tratta tuttavia di un cambiamento stagionale (dopo l’autunno della sezione seconda e l’inverno della sezione terza, il lettore desidererebbe il ritorno della primavera, così che coll’estate morente della prima sezione il testo rappresenterebbe le quattro stagioni; ma le cose non stanno così: le prime due sezioni sono collocate in autunno, le seconde in inverno). Anche il sole, come già nebbia e vento, è causa di disagio. La moglie teme che Jacopo nella trasferta a Roma prenda un’insolazione (243), ipotesi che il marito respinge senza però attribuire al sole una funzione positiva ma anzi dicendo che il sole determina un tempo ingannevole, come sta scritto sul quadrante dell’orologio (Solis mendaces arguit horas 247)

6.

Una storia d’amore

La seconda parte della seconda sezione (riassunto 10) è una scena teatrale in miniatura. Didina è corteggiata da un turista e Jacopo ostacola entrambi, sebbene a fatica dato che tutto si svolge nella nebbia fitta: Né egli discerneva tra la nebbia gl’innamorati, né questi tra loro si discernevano (87-88). Riesce a interrompere la dichiarazione d’amore tossendo e rincorre il giovane. I due si scontrano e Jacopo mette subito le cose in chiaro: – Buona sera. Lei va a fare le valige, non è vero? / – Sì… sissignore… Conto di partire domattina. / – Fa bene. Buon viaggio! Quassù non tira più buon’aria (103-105); e rinfaccia alla figlia di non aver neanche riconosciuto suo padre nella nebbia. L’episodio è l’unico in cui si manifesti l’amore tra due esseri umani. Jacopo è ostile perché è fondamentalmente una persona senza amore; l’attività intellettuale gli ha spento i sentimenti. La parola sentimento è del resto presente una sola volta in un punto chiave, come già sappiamo: Ma sul serio potete credere, pretendere che un’idea o un sentimento nati in questo niente pieno di paura che si chiama uomo debba essere il Dio, debba essere quello che ha formato l’Universo infinito? (209-211). Persino le sensazioni fisiche sono fatte dipendere da mancanza di razionalità: Senti freddo, perché non ragioni! (227), dice il padre a Didina; e sappiamo che egli ragionando riesce a non più sentire il suo mal di denti. Nella prima sezione (riassunto 6) il flash-back ricorda un’altra scena amorosa: Didina era stata corteggiata da un turista che le aveva dedicato una poesia (All’edelweiss di Monte Cave 52), scrivendola nel registro dei visitatori, riletta dalla ragazza nelle sere d’inverno. Non si può fare a meno di collegare il libro sentimentale di


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 190

Luigi Pirandello Didina (fine della prima sezione) con quello razionale di Jacopo (inizio della prima sezione). Anche qui l’oggetto libro diventa simbolico: nel libro d’astronomia ci sono le stelle, in quello d’amore la stella alpina (Edelweiss). Il primo è in prosa, il secondo in versi. Nel libro che Pirandello consegna al lettore si aprono pertanto fin dall’inizio due libri opposti e inconciliabili. Di nessuno dei due, come ora meglio si intende, è possibile carpire il segreto: la citazione di teoria astronomica è incompleta, la poesia è nota solo dal titolo.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XVII.

13.4.2012

Il cieco

13:45

Pagina 191

191

XVII. Il cieco Federigo Tozzi (1883-1920)

Non di rado ho avuto paura sentendo che io dovevo assuefarmi a vivere. Anche la mia sorella, Delfina, aveva questa paura. Quando restavamo soli, nella stanza da pranzo, ed era venuto il buio, senza che nessuno dei due ci fossimo mossi da sedere dove eravamo restati prima che andassero via i nostri genitori, ci guardavamo lungamente. E benché quasi non vedessimo più il nostro viso, che diventava eguale all’ombra incerta delle pareti, ci pareva che i nostri sguardi lustri cercassero di attaccarsi insieme, e, alla fine, o io o lei ci alzavamo per essere vicini da vero. Ella, una volta, mi passò lesta lesta una mano sopra una mia; come se avesse voluto fare così senza che io me n’avvedessi. Ma io non potei stare zitto, e le chiesi: – Che hai? Sentii che la sua voce tremava; quasi spegnendosi: – Ero troppo sola, Mario! Ma io le risposi: – Non dire altro. E stemmo così un’altra mezz’ora, senza fare il più piccolo movimento. Vedevamo, dalla finestra aperta, una collina; ma ci faceva paura anche quella; e chi sa perché tra gli olivi ci pareva che i cipressi fossero d’un’altezza che prima non avevano. Qualche contadino, nel suo campo, accese un mucchio di stoppie; e quella fiamma era per noi nell’infinito come le stelle. Allora, io le chiesi: – Senti nessun rumore? – Mi pare che i pigionali sopra a noi smovano una sedia. – Ne sei sicura? – No; non ne sono sicura. – Perché non accendiamo la luce? – Non posso. – Perché non puoi? – Non la voglio accendere. Ci si vede meglio al buio. Io le risposi: – Fa’ come vuoi.

5

10

15

20

25


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 192

Federigo Tozzi Ma ella non poteva stare più ferma, e mi chiese, con una voce che non era più quella di prima: – Lo sai che il cieco della Certosa l’hanno trovato morto? – Dove? – Nel borro che doveva attraversare quando tornava a casa. – Ci sarà caduto! – Dicono che ci s’è buttato. – E tu che cosa credi? – Io dico che ci s’è buttato. – Come fai a dirlo, se lo conoscevi poco quanto lo conoscevo io? – Lo conoscevo meglio de’ suoi parenti, benché gli avessi parlato tre o quattro volte soltanto. – E di che ti aveva parlato? Perché non me l’hai detto prima? – Perché non lo avevo capito subito. Tu sai che egli diceva sempre le stesse parole: non più di quattro o cinque. Ma egli aveva una gran voglia di vedere. Io lo capii. Io credo che s’è buttato nell’acqua perché o sarebbe morto o l’acqua gli avrebbe aperto gli occhi. A quel modo non voleva vivere. – E l’acqua gli poteva aprire gli occhi? Questa non è una sciocchezza piccola. E tu sai che le sciocchezze m’irritano. Vorrei sapere perché tu possa pensare una cosa simile! – Non lo so né meno io. Delfina aveva dodici anni e io tredici. E ci accadeva sovente di parlare a lungo tra noi; sempre di qualche cosa che come all’improvviso ci facesse un effetto quasi soprannaturale e fantastico; perché anche le nostre anime avevano bisogno di certe astrazioni che sono le voluttà più indimenticabili dell’adolescenza. Noi ci allontanavamo da tutto; e ci era possibile far parte dell’esistenza che nasceva dai nostri discorsi. Delfina, allora, quando era in casa, lasciava che i suoi capelli neri si sciogliessero, come se le piacesse doverseli ritirare in dietro da sopra la fronte e gli occhi. E i suoi occhi dolci, quieti, avevano un chiarore che mi divertivo e vedere come era restato acceso e lo stesso quando ella li scopriva da sotto l’ombra dei capelli. Quel cieco aveva dato un poco della sua cecità anche a noi; e ci pareva che alla nostra coscienza mancasse di conoscere forse qualche istinto o magari addirittura qualche sentimento che alcuni altri esseri avessero e noi no. Ma noi decidemmo di appurarcene; e la mattina dopo, prima ancora che l’erba guazzosa si fosse rasciutta, ci trovavamo già a quel borro. Il cieco della Certosa me lo ricordo bene come se lo vedessi ancora. Più che basso, egli era piccolo e corto. Il viso rotondo, bianco e tarmato. Gli tremavano le mani; e, quando camminava, pareva che avesse da andare chi sa dove, tanto diventava impaziente e nervoso, qualunque movimento facesse. Il bianco del suo viso pareva che potesse vedere meglio dei nostri occhi. Il cadavere non c’era più: l’aveva portato via la Pubblica Assistenza, per ordine del pretore. Ma su l’erba restava ancora il segno dove l’avevano disteso. Ci mettemmo io da capo ed ella da piedi all’erba acciaccata. E non ci guardavamo né meno; per non distrarci. Il corpo del povero cieco, quando l’avevano tirato dal borro, aveva rotto quasi tutte le pianticine della brusca che copriva il margine umido; e i convolvoli, che si spandevano attorcigliandosi ai gambi di essa, in modo che non si sarebbero po-

30

35

40

45

50

55

60

65

70

75


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XVII.

Il cieco

13.4.2012

13:45

Pagina 193

193

tuti levare via, s’erano spezzati. Ci pareva impossibile che in quel punto la brusca e i convolvoli sarebbero rinati come prima! Avevamo, anzi, la certezza di riconoscere sempre quel punto, e d’indicarlo agli altri; anche qualche anno dopo! L’acqua del borro andava lentamente, come si movesse tutta insieme, ed io scorrendo in giù gli occhi con essa, vidi, dove le foglie taglienti delle cannucce erano più ammucchiate, un foglio di carta, ripiegato; e l’acqua, spingendolo continuamente, per portarlo via, lo faceva tremare come se fosse stato vivo. Senza parlare lo indicai a Delfina, che mi accennò di sì con la testa; tenendo sempre le mani incrociate sul petto. Io mi mossi; e, curvandomi, riescii a prenderlo con la punta delle dita. Dissi alla sorella: – Vieni anche tu: dobbiamo aprirlo insieme. Il cieco, per scrivere, quando non aveva lapis, adoprava i fiammiferi di legno dalla parte che erano stati accesi. Nel foglietto, quasi reciso da quante volte era stato piegato, c’era stato scritto infatti con un fiammifero, a lettere enormi, informi. Diceva: «Io mi chiamo Emilio Palai. Sono nato nel 1880, alla Certosa». Lì per lì non facemmo caso che egli, non sapendo parlare punto, avesse scritto a quel modo. Io chiesi a Delfina: – Perché non lo teniamo noi? Stringendosi con forza le mani, per il desiderio ch’ella aveva di fare così, rispose: – Terremo tutto quel che ci riescirà a trovare. Non daremo niente a nessuno. Hai guardato se in fondo all’acqua c’è altro? – Guardiamoci insieme. Tenendoci a un fascio di fronde di un salcio, e appuntando i piedi a un sasso, ci sporgemmo sul borro. L’acqua era limpidissima, meno quando passava a galla qualche cosa che pareva polvere fitta fitta o saliva. Io dissi: – Non c’è niente. – Ci guarderei meglio io, se non avessi paura a toccare con le mani le cannucce dentro l’acqua. Mi pare che le cannucce mi debbano prendere le mani! Perché non parrà erba come quella che è fuori dell’acqua? – Ci frucherò con un palo! Ma l’acqua s’intorbidò subito; e la rena veniva a galla tutta lucente, come ci fosse il vetro frantumato. Cominciò poi a schiarirsi di sopra; ma la rena non aveva smesso di aggirarsi; e pareva che quanta ce n’era nel fondo volesse venire tutta fuori. Qualche larva d’insetto, nera e simile a una pietruzza tondeggiante, apparve e disparve. Noi, a vedere l’acqua così, eravamo afflitti; e quasi Delfina aveva le lacrime. Ma andammo subito dove stava la famiglia del Palai, pigliando attraverso le vigne. Camminavamo lenti e non parlavamo. Delfina mi disse soltanto queste parole: – Lo sapevi tu come si chiamava? – No. – Né meno io. Qualche volta ella si fermava; sentendo cantare un uccello che volava sempre vicino a noi, come se ci seguisse. Allora, ella mi diceva che facevamo bene ad andare. Quando arrivammo in cima alla salita, pigliammo un lungo stradale, in piano. In casa c’erano appunto i due fratelli del Palai. Lavoravano a giornata nei poderi, e mantenevano lui quando non era andato in città a chiedere l’elemosina. Essi, vedendoci un

80

85

90

95

100

105

110

115

120


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 194

Federigo Tozzi poco turbati, non sapevano se ci facessero passare o no. Noi guardavamo dentro la loro casa con grande curiosità, e ci aspettavamo che ci accogliessero molto volentieri. Delfina disse: – Abbiamo trovato un biglietto scritto da lui. Il fratello, che pareva il più giovane, sorrise. Era sbiancato, con la barba vana, i denti quasi gialli e una bocca che pareva uno di quei bacherozzoli rossi quando stanno acciambellati. L’altro rispose: – Non faceva altro che scrivere! Noi stemmo un momento zitti, imbarazzati; e, poi, io dissi: – Dove tenete quel che egli ha scritto? – Dentro una pentola rotta. Metteva tutto lì dentro. – Ce la fate vedere? – Ora, dobbiamo andare nel campo. Chi sa quel che scriveva! – Ve lo diremo noi. Allora egli si chetò, guardandoci un poco accigliato; e rispose: – Non faremo leggere niente a nessuno. – E perché? – Perché vorremmo prima sapere noi quel che scriveva. E il fratello, che pareva il più giovane, disse, come se avesse trovato una scappatoia: – Ma non sappiamo leggere. E chi ci dice ch’egli non abbia scritto qualche cosa che potrebbe mettere anche noi in cattiva reputazione? Io chiesi: – E perché? La mia sorella disse: – Era tanto buono! Il fratello più vecchio si passò una mano sul viso: era afflitto e soffriva a parlare di ciò con noi: – Pareva buono, ma non era. Ormai, Dio lo avrà perdonato. Ormai è morto così, e sarebbe peccato giudicarlo noi. Mi par sempre di vederlo tornare da un momento all’altro. Delfina chiese, come per difenderlo: – Era cattivo? Ma quegli la guardò quasi con rabbia e le rispose: – Non me ne parli, le ripeto! L’altro fratello disse: – Eccola lì la pentola! E ce la indicò con un dito. Poi aggiunse: – La vogliamo sotterrare dietro il muro della nostra casa. Ma noi siamo convinti che qualche volta egli ci vedesse. Forse, se fosse stato buono, sarebbe guarito da vero! – Ma cosa faceva? – Ai ragazzi non si può dire. Noi arrossimmo e io dissi: – Noi non siamo ragazzi!

125

130

135

140

145

150

155

160

165


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XVII.

13.4.2012

Il cieco

13:45

Pagina 195

195

– Ritornino da dove sono venuti: è meglio. Noi non ce ne volevamo andare. Allora, egli ci volse le spalle, piegò le ginocchia per essere meno alto e ci disse: – La vede questa cicatrice qui dietro la testa? È una bastonata. Sanno perché me la dette? Perché egli era invidioso che anche noi due non fossimo ciechi come lui. Non ci si rassegnava mai. Così, imprecava contro i nostri genitori; dalla mattina alla sera. Ma non me ne facciano parlare! Sarebbe un sacrilegio, e ora è morto. – Ci sarà caduto da sé nel borro? Ma essi ci chiusero l’uscio in faccia; e noi ce ne dovemmo andare. Rifacendo la strada, trovammo un altro pezzetto di carta. C’era una fila verticale di numeri, che andava quasi di traverso al foglio. Delfina disse: – Quando saremo al borro, vi butteremo dentro il foglietto trovato dianzi e questo d’ora. Eravamo presi anche noi dalla voglia di dimenticare il cieco della Certosa; e non ci piaceva più che avessimo pensato a lui; e poi ci faceva quasi disgusto che fossimo andati perfino dai suoi di casa. Così, da un momento a un altro, senza nessuna ragione, ci eravamo addirittura cambiati. Anzi, ora, Delfina camminava dinanzi a me; dondolandosi con i pollici sotto le ascelle e assicurandomi che lei sarebbe stata più capace di me a odiare il cieco, per il pentimento che sentiva ad avergli voluto quasi bene. Me lo diceva con una grande serietà, aggrottando le ciglia e sputando per far vedere che era più brava e più forte di me. Da molti mesi, non pensavamo più né al cieco né ai nostri propositi, quando sapemmo da nostro padre alcune cose di lui quasi incredibili. Egli era nato cieco. Da ragazzo, quando era riescito a farsi dare qualche animale di quelli che sua madre teneva in casa – tortore, piccioni, un cardellino – si divertiva a cavargli gli occhi; e, poi, si metteva a piangere per giorni intieri. Ma, a sedici anni, in un momento d’ira insensata, saltò al viso della madre e le sciupò un occhio, acciecandola. Da quel tempo, egli diventò scemo. Stette più di un anno senza parlare affatto e senza escire di casa. Dopo, a poco a poco, cominciò a dire qualche parola; ma sempre le stesse. Egli scriveva. E i suoi fratelli credono che quella pentola l’abbiano portata via i diavoli, perché non l’hanno più trovata dove l’avevano nascosta. In quel luogo, sul muro, ci misero una piccola croce nera; che, però, sparisce sempre; e ce la debbono rifare. E dov’egli affogò, nell’acqua nasce un gorgo, che ha ucciso tutti quelli che ci sono entrati per lavarsi. Nostro padre era un galantuomo e astutissimo negli affari. È possibile ch’egli ci volesse dare a intendere cose false e inventate? Ci è stato sempre impossibile saperlo. E io non saprei dire che differenza passa tra vedere e non vedere.

Testo di riferimento F. TOZZI, Opere, Firenze, Vallecchi, vol. II 2, 1963, pp. 709-716.

170

175

180

185

190

195

200

205


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 196

Federigo Tozzi

XVII. Analisi del testo

1.

Riassunto dell’intreccio 1. 1.1. 1.2. 1.3. 1.4. 1.5. 2. 2.1. 2.2. 2.3. 2.4. 2.5. 3. 3.1. 3.2. 4. 5.

Delfina e Mario parlano al buio nella stanza da pranzo (1-59): la loro solitudine (1-15); la vita oltre la finestra (16-19); i pigionali al piano superiore (20-29); la notizia della morte del cieco della Certosa (30-50); l’adolescenza di Delfina e Mario (51-59). Delfina e Mario sulle tracce del cieco (60-111): la trasferta (60-64); il ricordo del cieco (65-69); i segni del corpo sull’erba (70-78); la scoperta del foglio di carta (78-92); la ricerca di altri reperti (93-111). Delfina e Mario si recano dai fratelli del cieco (111-175): la trasferta (111-123); il colloquio coi fratelli (124-175). Delfina e Mario tornano a casa (176-188). La conoscenza di nuovi dati sul cieco (189-205).


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XVII.

Il cieco - Analisi del testo

2.

Tempo e luogo

13.4.2012

13:45

Pagina 197

197

Per una più facile consultazione, in una tavola si indicano (da I a V) la durata del racconto, il momento dello svolgimento, il luogo dei fatti e il numero del riassunto corrispondente:

III alcune ore

momento tramonto notte e primo mattino seguente mattino seguente

IV molti mesi V pochi minuti (?)

dopo quel mattino imprecisato dopo molti mesi

I II

durata circa un’ora circa 12 ore

luogo casa [non indicato]

no. riassunto 1 –

fiume, casa del morto, propria casa [non indicato] [non indicato]

2-4

– 5

L’episodio 1 si svolge al tramonto (ombra incerta 5-6, venuto il buio 3) e dura circa un’ora (stemmo così un’altra mezz’ora 15). Gli episodi 2-4 si svolgono la mattina dopo, prima ancora che l’erba guazzosa si fosse rasciutta (63) ma non se ne conosce la durata. L’episodio 5 si svolge dopo molti mesi (189) ed è anch’esso di durata indeterminata. I due tempi morti della narrazione (II, IV) durano il primo circa dodici ore, il secondo molti mesi. In 1 lo spazio è quello circoscritto di un locale di casa; in 2-4 è quello esterno: con uno spostamento prima al fiume, cioè al luogo del suicidio, poi alla casa del morto (lontananza massima), da ultimo a casa propria. La narrazione della vicenda è in I e III; in V vi è solo una serie di nuove informazioni per comprendere la personalità del cieco e, più ancora, per determinare l’opinione che i due fratelli si fanno di lui e qualificarne il giudizio. Nel passaggio da I a V il tempo si fa più indeterminato: sia quanto al momento in cui si svolge l’azione, sia quanto alla sua durata. Per i luoghi succede qualcosa di analogo: il tema viene posto in I, che è il luogo più circoscritto; lì nasce la necessità dell’indagine fuori casa; essa si svolge in luoghi non circoscritti e si estende ad una lontananza difficilmente determinabile. Al tempo sempre più dilatato e ai luoghi sempre più spaziati corrisponde, a rovescio, un progressivo determinarsi dell’indagine condotta da Delfina e Mario, che però risulterà fallimentare e si chiarirà invece con il ritorno al luogo circoscritto della casa (che non viene indicato come tale).

3.

L’indagine sul morto

In I Delfina dà la notizia della morte del cieco della Certosa (l’hanno trovato morto 32) e ne indica il luogo (Nel borro 34). Si tratta delle uniche due certezze, perché non si dice quando avvenne la morte mentre sulle cause di essa sono formulate due ipotesi divergenti: Mario pensa ad una disgrazia e dice che nell’acqua Ci sarà caduto! (35); Delfina pensa al suicidio: Dicono che ci s’è buttato (36); Io dico che ci s’è buttato (38). Uno dei fratelli del morto dirà che Dio lo avrà perdonato (151), facendosi portavoce della tesi del suicidio, anche se la domanda cruciale di Delfina (Ci sarà caduto da sé nel borro? 175) resta senza risposta (Ma essi ci chiusero l’uscio in faccia 176).


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 198

Federigo Tozzi In III viene scoperto il biglietto colla scritta autografa: «Io mi chiamo Emilio Palai. Sono nato nel 1880, alla Certosa» (89). Nome, anno e luogo di nascita sono le tre componenti essenziali alla propria identificazione che il cieco ha voluto documentare. I ragazzi dicono che non conoscevano il nome del cieco (– Lo sapevi tu come si chiamava? / – No. / – Né meno io 114-116) ma è facile credere che avranno ignorato pure l’anno di nascita e forse anche il luogo, perché nell’espressione onomastica cieco della Certosa (32) il toponimo Certosa non indica necessariamente il luogo di nascita. Delfina e Mario, dunque, non sanno nulla dei dati anagrafici del morto; tuttavia, quando Mario dice alla sorella: lo conoscevi poco quanto lo conoscevo io (39), Delfina risponde: Lo conoscevo meglio de’ suoi parenti (40), alludendo ad un’altra forma di conoscenza. Alla casa del morto Delfina e Mario vengono a sapere che il cieco, a detta di un fratello di lui, Non faceva altro che scrivere! (130); che conservava gli scritti Dentro una pentola rotta. Metteva tutto lì dentro (133); che i due fratelli, analfabeti (non sappiamo leggere 143), hanno conservato la pentola (Eccola lì la pentola! 159) col desiderio di conoscere gli scritti (vorremmo prima sapere noi quel che scriveva 140) ma anche coll’intenzione di liberarsene (La vogliamo sotterrare dietro il muro della nostra casa 161). I fratelli del cieco non sono disposti a far leggere gli scritti a Delfina e Mario (Non faremo leggere niente a nessuno 138), così che a casa del morto la conoscenza dei fatti, attraverso il documento scritto, non può verificarsi. I fratelli, però, vengono a sapere che il cieco era malvagio (se fosse stato buono 162) e aggressivo (La vede questa cicatrice qui dietro la testa? È una bastonata. Sanno perché me la dette? Perché egli era invidioso che anche noi due non fossimo ciechi come lui. Non ci si rassegnava mai. Così, imprecava contro i nostri genitori; dalla mattina alla sera 171-174). Rientrando a casa, Delfina e Mario trovano un altro biglietto: trovammo un altro pezzetto di carta. C’era una fila verticale di numeri, che andava quasi di traverso al foglio (177-178). Il contenuto dello scritto, dall’aspetto quasi cabalistico, non è decifrabile; e non si può neppure sapere se quella fila di numeri nella mente del cieco avesse un senso o fosse priva di qualsiasi significato, pur tenendo presente che il padre dirà ai ragazzi che il cieco quando accecò la madre diventò scemo (195): affermazione che contraddice il lucido biglietto anagrafico. Il biglietto coi numeri è certamente stato scritto prima di quello trovato nell’acqua del borro, e molto probabilmente dopo quelli conservati nella pentola. Se crediamo che gli scritti contenuti nella pentola abbiano un senso compiuto, i documenti scritti presenti nel racconto vengono a costituire una serie cronologica (parole sensate – numeri [apparentemente] insensati – parole sensate) la cui successione non aiuta a condurre l’indagine. L’invenzione, da parte di Tozzi, del ritrovamento del biglietto coi numeri sembra dunque priva di una sua funzione documentaria. In realtà i tre ritrovamenti da parte di Delfina e Mario non si succedono nell’ordine cronologico della redazione degli scritti ma in un ordine diverso (parole sensate – parole sensate – numeri [apparentemente] insensati), che diventa chiave di lettura del racconto e ne spiega il significato. I due ragazzi si sono recati sul luogo del suicidio con la certezza di conoscere il morto; lì, ritrovandone le generalità, capiscono che c’è una divergenza tra la loro conoscenza e quella fornita dal biglietto anagrafico. Recatisi alla casa del morto vengono poi a sapere che il cieco non era buono come credevano, ma violento per invidia verso i fratelli che non erano ciechi come lui. Cresce la


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XVII.

13.4.2012

Il cieco - Analisi del testo

13:45

Pagina 199

199

conoscenza ma, inversamente, gli scritti inaccessibili della pentola indicano un regresso rispetto alla pur scheletrica documentazione contenuta nel biglietto anagrafico. Sulla via del ritorno, il ritrovato biglietto coi numeri acquista valore simbolico: in esso la serie numerica (sconosciuta al lettore) rappresenta per Delfina e Mario il grado zero della comunicazione di un pensiero, ed è così l’opposto della serie di segni del primo messaggio rinvenuto. Consideriamo schematicamente i dati fin qui esposti, relativi ai tre ritrovamenti: 1.a) b) c) 2.a) b) c) 3.a) b) c)

il biglietto anagrafico dice l’essenziale il morto stesso ha lasciato un segno capiscono di non conoscere il morto gli scritti della pentola sono inaccessibili i due fratelli del morto aumenta la conoscenza del morto il biglietto coi numeri non comunica nulla ? ?

La rete di corrispondenze fa credere che al biglietto numerico vuoto di significato (3.a) sia da correlare una conoscenza completa e certa del morto (3.c), resa possibile da un altro mediatore (3.b). In realtà 3.b e 3.c sono inesistenti nel racconto fino al momento del rientro a casa dei due ragazzi. Delfina e Mario si sentono sconfitti perché la loro conoscenza del morto si è rivelata illusoria e perché il biglietto coi numeri costituisce una specie di beffa nei confronti del loro desiderio di comprensione. Da qui la decisione inevitabile: Quando saremo al borro, vi butteremo dentro il foglietto trovato dianzi e questo d’ora (179-180). La consegna degli scritti (letti) all’acqua trova il suo corrispondente nella consegna degli scritti (non letti) alla pentola. La pentola è rotta (133), inadatta alle sue funzioni e ormai incapace a contenere l’acqua; il borro invece continua ad essere sede dell’acqua che vi fluisce. L’acqua si qualifica come la bara più adatta per gli scritti trovati da Delfina e Mario; non così la pentola, che avrebbe bisogno di sepoltura nella terra retrostante la casa del morto (La vogliamo sotterrare dietro il muro della nostra casa 161). I segni grafici che esprimono tutto (generalità) e nulla (numeri), e che rappresentano gli estremi della scala della conoscenza, sono collegati all’acqua del borro (che suggerisce l’idea di morte); i segni grafici in cui sta chiuso un messaggio che nessuno ha letto (né verosimilmente leggerà) sono collegati alla terra di casa (che, all’opposto, sembra suggerire l’idea di vita). Il significato della riconsegna degli scritti all’acqua e le conseguenze del gesto sono attentamente indicate: Eravamo presi anche noi dalla voglia di dimenticare il cieco della Certosa; e non ci piaceva più che avessimo pensato a lui; e poi ci faceva quasi disgusto che fossimo andati perfino dai suoi di casa. Così, da un momento a un altro, senza nessuna ragione, ci eravamo addirittura cambiati. Anzi, ora, Delfina camminava dinanzi a me; dondolandosi con i pollici sotto le ascelle e assicurandomi che lei sarebbe stata più capace di me a odiare il cieco, per il pentimento che sentiva ad avergli voluto quasi bene. Me lo diceva con una grande serietà, aggrottando le ciglia e sputando per far vedere che era più brava e più forte di me (181-188). Il momento dell’archiviazione del caso comporta un cambiamento sostanziale della considerazione dei due ragazzi per il morto, la quale passa da cono-


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 200

Federigo Tozzi scenza-amore a non-conoscenza-odio. In Delfina questo mutamento si esprime persino sul piano fisico, coll’assunzione di un comportamento maschileggiante. Il caso viene però riaperto mesi dopo dal padre dei ragazzi, che fa sapere loro altri dati relativi al morto (189-196). Si tratta delle notizie più rappresentative di tutto il testo: un vero ritratto fisico e morale del cieco della Certosa che si oppone a quello delineato da Mario all’inizio della vicenda (65-69). Se ne capisce bene la collocazione in chiusura, così come la necessità che sia il padre a fornire quelle indicazioni. Con questi nuovi elementi del racconto si completano gli spazi vuoti della tabella precedente (3.b: padre; 3.c: conoscenza completa del morto) e si viene a dire che la conoscenza oggettiva della realtà non si attua per via attiva, diretta, con una razionale esplorazione e valutazione delle componenti (come i ragazzi hanno cercato di fare) ma per via passiva, con una indiretta acquisizione dei fatti nel loro insieme. All’indagine vissuta e al realismo, si sostituisce la storia narrata e il mito: con una totale svalutazione del procedimento sperimentale. Delfina e Mario, anche interrogando i fratelli del morto, non approdano a certezze; è il padre dei ragazzi a fornire indicazioni determinanti, sia in merito alla biografia del cieco, sia sul comportamento dei fratelli di lui dopo il colloquio di Delfina e Mario. L’indagine dei due ragazzi è dunque fallimentare. Se avessero conosciuto anticipatamente dal loro padre quelle notizie, l’indagine sul luogo del delitto e a casa dei fratelli del morto non sarebbe stata condotta perché non necessaria; ma in tal caso avremmo avuto un racconto diverso da quello scritto. La narrazione del padre, procedendo, si lascia sempre più alle spalle i fatti realistici per far posto a quelli favolistici legati ad una causa non documentabile e al mondo ultraterreno: i suoi fratelli credono che quella pentola l’abbiano portata via i diavoli, perché non l’hanno più trovata dove l’avevano nascosta (198-199); sul muro, ci misero una piccola croce nera; che, però, sparisce sempre; e ce la debbono rifare (199-200); dov’egli affogò, nell’acqua nasce un gorgo, che ha ucciso tutti quelli che ci sono entrati per lavarsi (201-202). Sono tre fatti, i primi due (strettamente connessi) correlati alla pentola, il terzo correlato all’acqua del borro. Del primo (e forse quindi del secondo) si attribuisce la responsabilità ai diavoli; del terzo indirettamente ad ignoti ma direttamente al gorgo stesso: dove il cieco si uccise, il gorgo continua ad uccidere. L’acqua non può essere purificatrice, a causa del suicidio, ma è anzi acqua di morte; il cieco sembra perpetuarvi la sua presenza malvagia, satanica. Acqua, cieco, diavoli sono anelli di una stessa catena. Il racconto del padre, galantuomo e astutissimo negli affari (202), desta perplessità nei ragazzi, che si interrogano sulla credibilità delle sue asserzioni (È possibile ch’egli ci volesse dare a intendere cose false e inventate? 202-203). Se l’indagine sperimentale è fallimentare, il mito dal canto suo lascia aperto il dubbio. Il mondo si rivela pertanto inconoscibile, sia per l’una che per l’altra via. Entrambe le strade finiscono per identificarsi: E io non saprei dire che differenza passa tra vedere e non vedere (204-205).

4.

Vedere e non vedere

Le parole con cui termina il racconto (qui sopra appena citate) possono dunque essere così interpretate: «non c’è differenza tra conoscere e non conoscere». Come dire che il mondo è quello che è, indipendentemente dal nostro capirlo o non ca-


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XVII.

Il cieco - Analisi del testo

13.4.2012

13:45

Pagina 201

201

pirlo. La concezione pessimista e rinunciataria sottolinea l’estraneità della creatura al creato, anche quando essa vi sia fortemente radicata. «Vedere» è quindi una metafora esistenziale. Stabilita l’identità tra vedere e non vedere, cade la differenza tra il cieco e il non cieco. Questa è l’idea di Tozzi sottesa al racconto; il cieco della Certosa però non la pensa così. Un fratello di lui dice che egli imprecava contro i nostri genitori (173), certo ritenendoli responsabili della sua cecità (come sarà chiarito dal padre dei ragazzi). Delfina sostiene che egli aveva una gran voglia di vedere (44) e che s’è buttato nell’acqua perché o sarebbe morto o l’acqua gli avrebbe aperto gli occhi. A quel modo non voleva vivere (45-46). Mario non è propenso a credere all’interpretazione della sorella: E l’acqua gli poteva aprire gli occhi? Questa non è una sciocchezza piccola. E tu sai che le sciocchezze m’irritano (47-48); e Delfina, alla richiesta Vorrei sapere perché tu possa pensare una cosa simile! (48-49), risponde: Non lo so né meno io (50). Delfina fornisce dunque una spiegazione irrazionale che acquista valore simbolico, attribuendo all’acqua un potere taumaturgico che, alla prova dei fatti, l’acqua non è però in grado di esercitare; così che da potenziale acqua di vita si trasforma in diabolica acqua di morte. L’indagine sul morto nasce dal fatto che Delfina e Mario si sentono compartecipi moralmente della cecità fisica del suicida: Quel cieco aveva dato un poco della sua cecità anche a noi; e ci pareva che alla nostra coscienza mancasse di conoscere forse qualche istinto o magari addirittura qualche sentimento che alcuni altri esseri avessero e noi no. Ma noi decidemmo di appurarcene; e la mattina dopo, prima ancora che l’erba guazzosa si fosse rasciutta, ci trovavamo già a quel borro (60-64). Ciechi nella conoscenza, i due vogliono veder chiaro nei fatti. Tutta l’indagine dei due ragazzi è condotta col presupposto che per conoscere bisogna vedere; e il ritratto del cieco (65-69), anteposto all’indagine, si conclude proprio sottolineando la cecità di Delfina e Mario, più completa di quella del cieco stesso: Il bianco del suo viso pareva che potesse vedere meglio dei nostri occhi (68-69). I ragazzi vedono l’erba calpestata, le pianticine rotte, i convolvoli spezzati, poi le cannucce nell’acqua e finalmente il foglio di carta; in una seconda fase esplorativa essi vedono la superficie sporca dell’acqua, qualche larva d’insetti. Questo vedere-conoscere è operazione dolorosa: eravamo afflitti; e quasi Delfina aveva le lacrime (111). Alla casa del morto vedono specialmente due cose: la pentola rotta e la cicatrice sulla nuca di uno dei due fratelli (si tratta di due realtà analoghe perché pentola = testa; rottura = cicatrice). Sulla via del ritorno vedono il biglietto con scritti i numeri. Sappiamo che tutto questo «vedere» serve poco per «capire». La lunga parte introduttiva del racconto (1-59), prima dell’indagine fuori casa, si svolge nella stanza da pranzo. Per mezz’ora Delfina e Mario percepiscono la loro solitudine come un fatto fisico che li avvolge nel buio e nel silenzio, costringendoli ad avvicinarsi l’uno all’altra (1-15); poi, per un’altra mezz’ora, restando immobili sentono la vita che si svolge oltre la finestra e al piano superiore, alla quale restano estranei (16-29), e introducono il discorso sul cieco della Certosa (30-50). Nel brano seguente (51-59) si dice che fatti e atteggiamenti simili a quelli narrati avevano già caratterizzato precedentemente l’adolescenza dei due ragazzi. Cronologicamente, dunque, il punto 1.5 del riassunto (trattazione generica) precede i punti 1.1-1.4 (trattazione specifica). Tozzi, con la segnalazione della durata uniforme (due mezz’ore di tempo) della parte specifica, definisce con forza il tempo reale della vicenda, lasciando invece fuori dal tempo la parte generica. Essa, posta così in fondo, conferisce all’introduzione un carattere particolare anche perché insiste nel presentare i protagonisti come due persone di-


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 202

Federigo Tozzi verse dalle altre, dotate di una sensibilità non comune che li isola in un loro mondo soggettivo: ci accadeva sovente di parlare a lungo tra noi; sempre di qualche cosa che come all’improvviso ci facesse un effetto quasi soprannaturale e fantastico; perché anche le nostre anime avevano bisogno di certe astrazioni che sono le voluttà più indimenticabili dell’adolescenza. Noi ci allontanavamo da tutto; e ci era possibile far parte dell’esistenza che nasceva dai nostri discorsi (51-56). I termini soprannaturale, fantastico, astrazioni, allontanavamo sono parole chiave del brano e tutte concorrono a specificare la fuga dalla realtà. In questo momento in cui la fisicità passa in secondo piano, l’occhio (e perciò il vedere) continua tuttavia senza tregua ad esercitare la sua funzione; è Mario che guarda gli occhi di Delfina (57-59), ma la percezione è resa difficile dall’ombra dei capelli. Si capisce allora come la vicenda specifica (1-50) sia narrata cogli stessi presupposti dello sguardo e del buio. Il buio è la condizione migliore per vedere (Perché non accendiamo la luce? / – Non posso. / – Perché non puoi? / – Non la voglio accendere. Ci si vede meglio al buio 24-27); proprio come il cieco, che forse si sarà ucciso perché vedeva tutto e perciò troppo. Si tratta di un vedere introspettivo con gli occhi della mente. Il vedere fuori di sé, alla luce del giorno, sappiamo che conduce l’indagine al fallimento. Ma la non riuscita dell’indagine è già tutta anticipata quando Delfina e Mario, guardando dal buio al resto di luce della sera oltre la finestra, sono proiettati nel momento più simbolico di tutto il racconto: Qualche contadino, nel suo campo, accese un mucchio di stoppie; e quella fiamma era per noi nell’infinito come le stelle (18-19). La realtà fisica del fuoco conduce al desiderio del mondo soprannaturale. Invece di intraprendere l’indagine sul morto, Delfina e Mario avrebbero davvero fatto meglio a uscire dal buio del loro piacevole inferno adolescenziale e soffermarsi a riveder le stelle. Certamente la familiare collina (16) non avrebbe fatto loro più alcuna paura: paura inconsapevole di dovere, il giorno dopo, salirne il pendio alla ricerca di un colloquio coi fratelli del morto che sarebbe inevitabilmente finito in un nulla di fatto.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XVIII.

13.4.2012

Miseria

13:45

Pagina 203

203

XVIII. Miseria Federigo Tozzi (1883-1920)

Lorenzo Fondi guardò, sul cassettone, il cappello della moglie: era brutto, con i nastri scoloriti; ma gli venne voglia di baciarlo. Mentre, di fuori, pareva che l’aria, con quella sua luminosità, fosse per prendere fuoco; e anche la stanza aveva una chiarezza che quasi faceva chiudere gli occhi. Vicino alla finestra c’era un tavolo polveroso, con i libri non più aperti, i libri comprati, tanti anni innanzi, subito dopo la scuola, macchiati ora dalle mosche; con i guanti rotti e sdruciti, lasciati lì fin dall’inverno. All’attaccapanni gli abiti vecchi. Ma egli non l’amava più la moglie, e se ne voleva andare: riscosso un paio di bovi, con quei denari, magari fino all’estero. Gli era venuta a noia la vita del piccolo proprietario, sempre a contrasto con le cambiali, con le tasse, con i conti a fin d’anno! I contadini rubavano più che potevano, e gl’interessi andavano male. Non pensava a quale mestiere avrebbe dovuto darsi per vivere più tranquillo; ma, certo, qualcosa c’era da fare! Suo padre in vece era stato un bravo agricoltore, e aveva messo insieme qualche soldo. Pieno di collera, abbottonò il colletto; e dette un’occhiata all’abito nuovo, quello che avrebbe preso, con una specie di paura. Ad un tratto si fermò ad ascoltare, guardandosi nello specchio: i contadini cominciavano a battere il granturco con i correggiati. Scappar presto, con il treno della sera stessa: era necessario, indispensabile! Si riguardò, fatto il nodo alla sciarpa. Stava per scegliere le scarpe meno rotte, quando sua moglie, Corrada, entrò. Egli s’impaurì di più. – Hai riscosso i due barili di vino dalla signora Viola? Egli rispose, gridando: – Ti dico di no! – Quando ti deciderai? Bisogna pagare il conto al macellaio: ormai è più d’un mese. Egli strinse le labbra con ira, e poi gridò ancora: – Sarai a tempo! – Ma io mi vergogno.

5

10

15

20

25


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 204

Federigo Tozzi E alla donna gocciolarono due o tre lacrime giù per le guance. – Quando passo davanti alla bottega, mi guarda in un modo come per dirmi: quando paga? Corrada poteva a pena parlare, con la bocca così presa dal dolore in un modo spaventoso. – È una illusione tua, cretina! Ci crede anche lui, come gli altri, ricchi da vero. E aggiunse, lesto lesto, quasi sottovoce: – E siccome ci crede ricchi da vero, ci ha fiducia. Stai tranquilla! Corrada smise di piangere, prendendosi le mani insieme. – Dove vai ora, con il vestito buono? – A Siena: ho da vedere quello che anche l’altr’anno comprò il fieno. La moglie, figlia di un impiegato, era esile e pallida, con gli occhi cerchiati di carne livida, quasi trasparente. Sospirando, gli s’appoggiò ad una spalla; e disse: – Ti dispiace parlar di denaro; ma come si fa? Egli alzò la spalla, facendole toglier le mani. Poi disse, ridendo: – Non se ne parla. Allora, Corrada impallidì ancora di più: – Tu dici sempre così. Sei cattivo. – Cosa devo rispondere? È impossibile che ti risponda in un altro modo. Dipende da me, forse? Ella tacque, torcendosi le mani; egli la guardò quasi con disprezzo, sentendosi però arrossire di vergogna. Gli era insopportabile star così dinanzi a lei, quasi come un colpevole; perché in fondo, senza saper perché, la sua sfortuna l’attribuiva alla propria anima. Ella andò alla finestra, e poggiò la testa ai vetri, senza né meno più voltarsi; mentre il marito finì di vestirsi. Ma quando riaprì la porta di camera, egli le disse: – Dove vai? – Manderò, domattina, a vendere un paio di polli. Lorenzo, tanto per rispondere qualcosa, disse: – Ah, tu hai da vendere i polli? – Sì! Se non fossi io, si creperebbe di fame. Ho anche da rendere i soldi a Vittoria, che ha comprato le acciughe. – Parla più piano: ci sentiranno i contadini. – Lo so, lo so: non c’è bisogno che tu me lo dica: tu solo vuoi strillare. Gli altri devono stare zitti. – Io strillo ma non parlo di soldi. E batté i piedi in terra. Ella, arrossendo un’altra volta, lì lì per piangere, si asciugò gli occhi e corse nell’altra stanza. – Ah, te ne sei andata! Ma, perché in fine, prenderla con lei? Allora, comprese di avere sbagliato e sentì di volerle bene, un bene immenso, quasi irragionevole. Ma perché lei non lo capiva? Non lo sapeva! E perché non sorrideva in vece di piangere? Ma intanto ora non era più deciso di andarsene per sempre! Si sedé, con

30

35

40

45

50

55

60

65

70

75


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XVIII.

Miseria

13.4.2012

13:45

Pagina 205

205

un sudore freddo alla fronte, come quando si hanno le nausee del vomito. Soffriva in un modo indicibile, all’idea delle cambiali e dei debiti. Si sentiva rovesciare l’anima. Quante volte, piuttosto che fare una nuova cambiale, avrebbe preferito di cadere in terra morto, forte e sano, appena di ventisette anni! Corrada in vece si era seduta a ricucire un paio di calze: a poco a poco smise di piangere, quantunque qualche segno delle lacrime si vedesse ancora su la sottana. Non se la prendeva con il marito; anzi le dispiaceva d’essere andata a dirgli a quel modo! E cominciò a distrarsi, pensando ai suoi polli e ai piccioni. Del resto a lui era addirittura insopportabile saperla scontenta! Per esempio, quando la vedeva lavare i piatti o fare la bucata, se ne andava; quantunque non pensasse mai ad aiutarla! Ella, intanto a poco a poco, si sentì meglio; quasi calmata dall’eccitamento stesso. E un grande amore per tutta la casa le dette una sensazione piacevole. Perché, dunque, gli interessi non andavano bene? Dovevano andare bene! Ci avrebbe pensato lei. Posò, bruscamente, le calze, dentro la cestina piena di gomitoli. Si alzò, passandosi il fazzoletto sul volto. E, rigida, guardò dalla finestra. Poi, udendo il marito passeggiare, rientrò in camera. – Quanto prenderai del fieno? – Non lo so. – Perché non lo sai? – Non conosco i prezzi che ci sono. – Prima di contrattare, allora, fatteli dire bene. Pur parlando d’interessi, la sua voce aveva una tenerezza quasi dolce. Allora egli la guardò, dissimulando la collera. Dianzi non aveva pensato di prenderla per il collo? Ora in vece le dette ragione. Ma ormai incapace ad andarsene, non le disse né meno una parola. In quel mentre, bussarono all’uscio. – Chi è? – chiese lei. Egli risentì la solita inquietudine, quasi un soffocamento. – Sono io. Era una bambinetta, biscugina di lui. Corrada le fece cenno di venire più avanti; ma Lorenzo le chiese, con violenza: – Che vuoi? – Ci ho una lettera. Corrada la prese. La bambinetta aggiunse: – Aspettano la risposta. E se n’andò. Corrada si fece bianca come un cencio lavato, aprendo la busta. Egli evitava di guardare le sue dita, che tremavano. – È il conto del falegname. – Quante volte l’ha mandato? – È già la quarta volta. – Digli che lo pagherò a pena venduto il granturco. Lo battono oggi: fra una settimana lo potremo vendere. – E alle altre cose quando ci pensi? Guarda che vestito ho io. Egli arrossì, e si morse il labbro di sotto; a lungo. La moglie allora fece l’atto di abbracciarlo. Egli le pose una mano sul petto e la respinse.

80

85

90

95

100

105

110

115

120


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 206

Federigo Tozzi – Vai a dirgli quel che t’ho detto. Ella ricominciò a piangere. – Perché non vai tu? Devo farle io tutte le cose che ti dispiacciono. Allora, egli gridò: – A me non dispiace niente. E, rosso di rabbia, aggiunse: – Ho da spolverare il cappello ora. Digli che aspetti. Perché piangi? Non devi piangere. Mi arrabbio di più. Ne ho abbastanza. Ella fuggì, sbattendo la porta. Lorenzo la riaprì, con un balzo; bestemmiò e gridò: – Non potresti morire? Cesira, la matrigna, che in quel mentre esciva dalla camera sua, gli disse: – Perché sei fatto così? – Che gliene importa a lei? Perché non me li paga lei i conti? Ella si fece pallida e poi rossa: – Bisogna prendere tutto con calma. Era una donna su i quaranta anni; bassotta, e con la pelle del volto sempre rossa: un tipo di contadina. Egli sgualcì il cappello, e sputò su i libri. Poi, avendo urtato il tavolo, lo attraventò contro il muro. Tutti i libri caddero. Nell’ira provava come una voluttà. La casa! La casa! Un fulmine avrebbe potuto aprirla in due pezzi, uccidendo la moglie, la matrigna, la cugina. Tutto! Il suo cuore batteva forte come i correggiati dei contadini; più forte, forse. Prese dal cassetto le mille lire dei bovi, tutte una manciata. Ascoltò. La moglie gridava con la matrigna. La sua voce era aspra, ma più dolorosa delle lacrime. Egli l’ascoltò ancora. Quanto avrebbe durato? Bisognava farla tacere. E la matrigna non era buona a dirle niente? Udì che non accusavano lui, ma discutevano degli interessi; e parevano d’accordo. Egli pensò, ironicamente: «Sì, mettetevi insieme voi due. Farete qualcosa di meglio». Diceva la matrigna: – Bisogna trovare un rimedio. Così si va a rotoli! – Sfido io! Come si fa a andare avanti? – Pensate al modo che ci vuole. – Io voglio proporre a Lorenzo un’ipoteca. – Sarà peggio? – E allora? – Si faccia consigliare da un avvocato. Subito: mi vesto e vado in città. La matrigna disse qualche altra cosa, a voce più bassa. Poi l’uscio si aprì; e Corrada mezza nuda, per cambiarsi, disse: – Vengo insieme con te. – A far che? – Non te ne preoccupare tu. – Lo so in vece che cosa hai pensato: quell’altra stupida, come te, t’ha dato ragione.

125

130

135

140

145

150

155

160

165


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XVIII.

13.4.2012

Miseria

13:45

Pagina 207

207

– Va bene! Io ho diritto, come te, di pensare alla vita. Vai a dare la risposta per il falegname. Egli sbuffò e scese le scale. Il ragazzo che aveva portato il conto, lo aspettava, appoggiato alla bicicletta. – Di’ al tuo padrone che fra qualche giorno verrò. Il ragazzo, facendosi serio, lo salutò e andò via. Nell’aia il granturco brillava al sole. Qualche gallina, delle meno paurose, ci s’avvicinava, ma allungando, quanto poteva, il collo; beccava un chicco e fuggiva, per ingollarlo più sicura a una certa distanza. Poi sbatteva le ali. Cesira aprì la finestra e chiamò: – Lorenzo! – Che vuole? – Vieni su. Egli scosse le spalle; ma non aveva più la voglia di andarsene. Pensò in vece, con un certo orgoglio di padrone, che avrebbe potuto pagare puntualmente i bovi. Gli passò accanto Maria, la figliuola di uno dei contadini, sorridendogli. Siccome non aveva fascetta, i suoi seni grossi gli produssero una sensazione di fascino. Ella entrò in casa, e si rimise a stacciare, tutta infarinata. Egli, cautamente, si avvicinò all’uscio aperto, pallido, con la voglia di caderle nelle braccia; mentre il sorriso lo affascinava anche di più, un sorriso sensuale che lo legava. Le avrebbe, certo, potuto parlare verso buio, in capanna. «Andrò via un altro anno! Gl’interessi potrebbero anche migliorare!» Salì, accarezzando la gatta, che rasente il muro scendeva le scale. La matrigna gli disse: – Perché tratti male così la tua moglie? – Che cosa le ho detto? Ero arrabbiato. – Vai a trovarla. Egli aprì l’uscio, pieno di benessere; e chiese: – Hai proprio deciso di andare a Siena? – Si capisce! Non sono come te che non sei buono a deciderti. E, avendo finito di cambiarsi l’abito, si mise il cappello e prese l’ombrellino. – Vado sola? – Sì: io rimango a sorvegliare i contadini. Ella assentì, contenta.

Testo di riferimento F. TOZZI, Opere, Firenze, Vallecchi, vol. II 2, 1963, pp. 642-649.

170

175

180

185

190

195

200


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 208

Federigo Tozzi

XVIII. Analisi del testo

1.

Riassunto dell’intreccio 1. Lorenzo osserva il cappello della moglie e i suoi vecchi libri (1-7). 2. Lorenzo vuole fuggire da casa (8-14) e pensa ai preparativi (15-19). 3. La moglie Corrada entra in camera e lo richiama ai suoi doveri, piangendo (20-41). 4. Lorenzo annuncia a Corrada di volersi recare a Siena e si sente a disagio di fronte a lei (42-55). 5. Lorenzo e Corrada si rimproverano vicendevolmente, finché Corrada esce dalla stanza (56-70). 6. Lorenzo prova un senso di colpa e gli pare di amare ancora sua moglie (71-79). 7. Corrada è dispiaciuta di aver litigato ma si calma pensando agli impegni e sente i passi del marito (80-92). 8. Corrada rientra nella stanza del marito e parla con lui con dolcezza (92-101). 9. Una bimbetta consegna il conto del falegname (102-114). 10. Ne nasce una lite tra Cesira e Lorenzo (115-129). 11. Cesira esce dalla sua camera e provoca Lorenzo che si infuria (130-145). 12. Corrada parla con Cesira sul da farsi (146-161). 13. Corrada entra nella camera di Lorenzo e gli annuncia che partirà con lui (161-169). 14. Lorenzo scende con la risposta per il falegname che affida al bambino che aspetta in bicicletta (170-177). 15. Cesira invita Lorenzo a risalire; Lorenzo non ha più voglia di partire (178-183). 16. Lorenzo si sente attratto da Maria, che lo saluta ed entra in casa (184-185). 17. Lorenzo spia Maria dalla porta socchiusa (186-190).


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XVIII.

13.4.2012

13:45

Pagina 209

Miseria - Analisi del testo

209

18. Lorenzo sale da Cesira che lo manda da Corrada (191-195). 19. Lorenzo incontra Corrada che sta andando a Siena al posto di lui (196-203).

2.

L’organizzazione dei personaggi nel racconto

Lorenzo Fondi (in modo così gelidamente referenziale inizia il racconto) è un agricoltore piccolo proprietario (10), come già suo padre, dei dintorni di Siena. Vive in una fattoria con la moglie Corrada, la matrigna Cesira e Maria, figliuola di uno dei contadini (184). Lorenzo, nel corso della vicenda, desidera che muoiano la moglie, la matrigna, la cugina (143). Moglie e matrigna, a quel momento, sono già note al lettore, mentre non lo è ancora la cugina. Da lì in poi compare in scena soltanto Maria, così che sembra doversi riferire a lei l’appellativo di cugina; in caso contrario il passo di linea 184 farebbe riferimento ad un personaggio che non ha un ruolo nella vicenda. Marito, moglie e matrigna abitano al primo piano, Maria al pianterreno come richiede l’inferiorità sociale. Scendendo al pianterreno Lorenzo incontra Maria, per la quale prova attrazione fisica. Tozzi non dice se ne seguirà una relazione amorosa; si limita a far risalire Lorenzo al primo piano, segno che il protagonista non solo non può abbandonare casa sua per recarsi nei campi o a Siena, ma neppure scendere sull’aia. Lorenzo è differenziato dai comprimari anche perché è l’unico maschio. Le tre donne sono legate a lui, ciascuna con un rapporto diverso. Gli altri personaggi del racconto, subordinati ai precedenti, sono due. Una bambinetta, biscugina di lui (105), cioè un’altra donna legata da parentela con Lorenzo; essa porta una lettera e non ha altro ruolo né presenza nel racconto. Poi un ragazzo che aveva portato il conto (171) del falegname e che attende la risposta appoggiato alla bicicletta (170-171); è una presenza minima ma significativa nel racconto perché si tratta di un maschio estraneo alla fattoria. Hanno inoltre una presenza indiretta: l’avvocato di Siena, altro maschio ancora più lontano dal contesto, e i contadini della fattoria (colti nell’atteggiamento di battere il grano: un lavoro prevalentemente maschile). Una gatta, che scende le scale quando Lorenzo risale al primo piano, è l’unico animale che ha un ruolo nel racconto (polli e buoi e piccioni entrano solo nella discussione); il suo sesso femminile ne fa il sostitutivo di Maria: ad essa va una carezza di Lorenzo che Maria, almeno fino a quel momento, non può ricevere.

3.

La vicenda sentimentale

Lorenzo è dominato da un fosco bisogno di fuga (se ne voleva andare 8) che viene poi gradualmente specificandosi; ma esso è accompagnato dalla mancanza di prospettiva per il futuro (Non pensava a quale mestiere avrebbe dovuto darsi per vivere più tranquillo 11-12). Chiusa la strada del domani, resta praticabile solo il ricordo (Suo padre in vece era stato un bravo agricoltore, e aveva messo insieme qualche soldo 13-14; i libri comprati, tanti anni innanzi, subito dopo la scuola 5-6), unica realtà positiva a cui Lorenzo si aggrappa. A questo primo rifiuto della propria condizione pre-


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 210

Federigo Tozzi sente, attuato soltanto nell’immutabilità del pensiero, fa seguito il litigio con la moglie, con grida e insulti. Nella immediata fase seguente Lorenzo prova vergogna di sé stesso ed è pervaso da un oscuro senso di colpa. Segue un nuovo litigio e un pentimento, accompagnato dal bisogno di restare, dalla rinuncia alla partenza. È la fine del primo atto: alla partenza iniziale si è sostituito il suo contrario. Il secondo atto è ricalcato sul primo: inquietudine, rabbia, desiderio di distruzione e di annientamento, uscita di casa e conseguente bisogno di restare. Un fatto nuovo però interviene qui da ultimo: il desiderio di restare non è più motivato da pentimento verso la moglie ma da attrazione fisica per Maria. È un passo avanti verso il baratro: al semplice abbandono della moglie subentra la sostituzione della moglie con un’altra donna, per di più legata da uno stretto rapporto di parentela. Su questo fatto termina il racconto, lasciando aperta la prospettiva di un tradimento consumato. La catena degli eventi lascia credere che esso si realizzerà.

4.

La miseria

Il titolo del racconto, nella forma di uno scarno sostantivo, dice che il senso del testo risiede non tanto nei fatti e nelle cose di cui si parla, ma piuttosto nella condizione esistenziale delle persone coinvolte. La miseria è in stretta correlazione, beninteso, con quei fatti e quelle cose. Ne è la conseguenza diretta, come miseria materiale, perché Lorenzo non è in grado di esercitare le proprie funzioni di agricoltore; ma ne è anche la causa remota, come miseria morale, perché si annida nell’animo di Lorenzo in forma patologica: Dipende da me, forse? (51). 4.1.

Miseria materiale

Lorenzo è in difficoltà economiche, come si vede da continui cenni al denaro, che costituisce il problema principale ed è responsabile dell’imminente crollo: venduti i buoi Lorenzo sarebbe partito con quei denari, magari fino all’estero (9); sempre a contrasto con le cambiali, con le tasse, con i conti a fin d’anno! (10-11); Bisogna pagare il conto al macellaio: ormai è più d’un mese (25-26); Ti dispiace parlar di denaro; ma come si fa? (45); Ho anche da rendere i soldi a Vittoria (62-63); Io strillo ma non parlo di soldi (67); Soffriva in un modo indicibile, all’idea delle cambiali e dei debiti (76-77); piuttosto che fare una nuova cambiale, avrebbe preferito di cadere in terra morto (78-79); Non conosco i prezzi che ci sono (96); È il conto del falegname (114); Perché non me li paga lei i conti? (135); Prese dal cassetto le mille lire dei bovi, tutte una manciata (144-145); Io voglio proporre a Lorenzo un’ipoteca (156). Desideroso di cambiare professione, Lorenzo non è in grado di scegliere: Non pensava a quale mestiere avrebbe dovuto darsi per vivere più tranquillo; ma, certo, qualcosa c’era da fare! (11-13). Si sente in colpa nei confronti del padre ma sembra propenso a dilapidarne la sostanza: Suo padre in vece era stato un bravo agricoltore, e aveva messo insieme qualche soldo (13-14). In questo stato di indecisione e inerzia, Lorenzo è continuamente alle prese con Corrada, più combattiva e consapevole, che incute paura al marito anche se sottomessa socialmente a lui, che gli ricorda che senza di lei si creperebbe di fame (62) e che gli mostra la veste logora: Guarda che vestito ho io (119). L’attività agricola traspare da scarni cenni: Hai riscosso i due barili di vino dalla


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XVIII.

Miseria - Analisi del testo

13.4.2012

13:45

Pagina 211

211

signora Viola? (22); Bisogna pagare il conto al macellaio (25); ho da vedere quello che anche l’altr’anno comprò il fieno (41); Manderò, domattina, a vendere un paio di polli (59); Ho anche da rendere i soldi a Vittoria, che ha comprato le acciughe (62-63); pensando ai suoi polli e ai piccioni (83); Quanto prenderai del fieno? (93); apena venduto il granturco. Lo battono oggi (117). Si tratta sempre di considerazioni legate al dialogo tra Lorenzo e Corrada. Solo all’inizio vi è una descrizione dei lavori agricoli, non mediata dal dialogo tra marito e moglie: i contadini cominciavano a battere il granturco con i correggiati (17-18). Tutti i passi citati sono situati nella prima parte del testo, prima che entri in scena Cesira e la narrazione prenda un corso diverso. Una seconda, e ultima, descrizione compare quando Lorenzo è sceso nell’aia: Nell’aia il granturco brillava al sole. Qualche gallina, delle meno paurose, ci s’avvicinava, ma allungando, quanto poteva, il collo; beccava un chicco e fuggiva, per ingollarlo più sicura a una certa distanza. Poi sbatteva le ali (174-177). È un vero quadretto idilliaco, appropriato preludio all’incontro con Maria, ma estraneo alla situazione delineata in precedenza. Esso impone il confronto con la prima descrizione (17-18), che solo ora assume pienamente il suo significato drammatico: la battitura del grano non essendo altro che simbolo degli schiaffi morali ricevuti da Lorenzo, come già Tozzi fa capire durante la sfuriata del protagonista: Il suo cuore batteva forte come i correggiati dei contadini; più forte, forse (143-144). Durante quel finale momento idilliaco persino l’inerzia di Lorenzo sembra sparire: Egli scosse le spalle; ma non aveva più la voglia di andarsene. Pensò in vece, con un certo orgoglio di padrone, che avrebbe potuto pagare puntualmente i bovi (182-183); e dopo di esso si segnala per l’ultima volta un momento di attività agricola, non mediata dal dialogo e relativa a Maria: Ella entrò in casa, e si rimise a stacciare, tutta infarinata (185-186). Queste ultime considerazioni ci hanno condotto dalla miseria materiale alla miseria morale. 4.2.

Miseria morale

Se finanziariamente il dissesto non è ancora avvenuto, benché lo si faccia capire imminente, la degradazione morale si è già verificata e la miseria acquista un peso anche più rilevante. L’attacco del secondo paragrafo parla chiaro a proposito dei sentimenti di Lorenzo: Ma egli non l’amava più la moglie, e se ne voleva andare (8). Le cause del fallito matrimonio non sono dichiarate da Tozzi, che invece sottolinea le cause del fallimento di Lorenzo come piccolo proprietario consistenti nell’incapacità del padrone di gestire i suoi beni.Tra le righe però sembra che l’autore voglia far dipendere la crisi familiare da quella economica, nel senso che Lorenzo non sarebbe in grado di accettare una moglie che a conti fatti vale più dì lui (vende i polli per vivere, riscuote due barili di vino, paga un debito, invita il marito a pagare il macellaio e il falegname, vuole recarsi dall’avvocato per firmare una nuova cambiale), sorretta dall’appoggio della matrigna (che con la sua calma sembra poter fronteggiare la situazione, che confabula con Corrada sul da farsi). Ma questa dipendenza è soltanto supposta; il testo non offre solidi elementi che la provino, e la lascia al massimo intravedere. La miseria morale, tuttavia, non è connessa soltanto col vincolo matrimoniale vacillante ma anche, e piuttosto, con le caratteristiche spirituali di Lorenzo. Egli ci appare continuamente come un debole, un indeciso, un incapace a fronteggiare la situazione e a operare delle scelte. È un vinto, come in Verga, un antieroe, come in Svevo.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 212

Federigo Tozzi 5.

L’ambiente della vicenda

Si tratta di un ambiente campagnolo poco delineato, quasi mai descritto e che emerge progressivamente dai fatti che in esso si svolgono. Geograficamente imprecisato, basta il richiamo a Siena per capire che non siamo lontani da quel centro abitato, che è la città di Tozzi, nella quale (e più specialmente nel contado della quale) si svolge, con fedeltà quasi ossessiva, gran parte della ricerca di Tozzi scrittore: – Dove vai ora, con il vestito buono? / A Siena: ho da vedere quello che anche l’altr’anno comprò il fieno (40-41); verso la fine del racconto: – Hai proprio deciso di andare a Siena? / – Si capisce! Non sono come te che non sei buono a deciderti (197-198). La città, dunque, compare solo come entità remota, luogo della possibilità, più che della realtà; né Lorenzo riesce ad abbandonare il podere per recarvisi a concludere i suoi affari, da quell’inetto che risulta essere e sempre più diviene, né l’autore ci presenta il trasferimento in città di Corrada, anche se la donna è in grado di raggiungere Siena ed è doveroso supporre che vi si recherà. Questo fatto permette di capire maggiormente il peso che il dramma morale di quella famiglia contadina riveste nell’intenzione dello scrittore. Il nucleo sociale di Corrada e Lorenzo appare anche più isolato, periferico, remoto, proprio dalla sapiente scelta compositivo-stilistica che gli ha creato un contraltare cittadino col solo scopo di negargliene una qualsiasi utilizzazione concreta. La vicenda perciò si svolge compatta in un ristretto luogo che acquista uno spessore di mitica arcaicità. Il cerchio, però, a ben vedere è più stretto ancora perché nessun elemento ci è fornito che possa farci capire quanto vaste siano le terre di Lorenzo (se pure esistono) o che configurazione abbiano la casa e il campo di grano (di essi soli siamo certi). Di quella casa contano solo due locali. In uno sappiamo esservi un cassettone (1) un tavolo polveroso (4-5) su cui stanno vecchi libri e un paio di guanti, un attaccapanni (7) con appesi vecchi abiti. Nell’altro deve essere situata la camera da letto, se Corrada vi si trasferisce per cambiarsi (162). Il primo è il luogo della distruzione dei valori: Lorenzo lì decide di fuggire, lì litiga con la moglie e la matrigna, lì è invitato a saldare il debito, e specialmente lì compie due atti di violenza fisica rovesciando il tavolo coi libri e allontanando la moglie che vorrebbe rappacificarsi con lui. Ma a quel determinato interno si oppone un ambiente esterno. Ciò avviene in tre momenti diversi della narrazione che è opportuno considerare successivamente. I) Il racconto inizia con Lorenzo che si commuove guardando il brutto cappello della moglie; nulla sappiamo ancora di lui, né della moglie, né del luogo in cui ci troviamo. Poi a quella immagine di interno viene contrapposto l’ambiente esterno che sta oltre la finestra: Mentre, di fuori, pareva che l’aria, con quella sua luminosità, fosse per prendere fuoco; e anche la stanza aveva una chiarezza che quasi faceva chiudere gli occhi (2-4). Non vi è una descrizione dell’esterno perché lo sguardo (di Lorenzo, non dunque quello dell’autore) è colpito da una luce abbagliante che toglie ogni possibilità di vedere oltre i vetri e si ripercuote anche all’interno della stanza. Quando si ritorna all’interno, bruciati da quella scottatura, si resta a lungo come isolati; soltanto l’udito può percepire che dall’esterno giunge il rumore della battitura del grano. La considerazione sulla luce non sembra esaurirsi sul piano realistico; sembra invece rappresentare simbolicamente la situazione morale tormentata di Lorenzo: un anticipo della sua indecisione (che verrà messa in evidenza nel corso della narrazione) che lo spinge


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XVIII.

Miseria - Analisi del testo

13.4.2012

13:45

Pagina 213

213

a sottrarsi alla realtà, la quale, troppo più forte di lui, lo stordisce e lo respinge nel suo chiuso locale. La condizione particolare di Lorenzo si coglie anche dal confronto con Corrada. La donna non reagisce alla malasorte con gli scatti fisici e verbali del marito (poteva a pena parlare, con la bocca così presa dal dolore in un modo spaventoso 3334); ad essa tocca una parte più moderata, col pianto silenzioso e con l’interiorizzazione del sentimento. Quando infatti tenta l’approccio con l’esterno, non viene abbagliata dalla luce perché niente penetra da quella finestra, come se nulla fosse oltre quei vetri: Ella andò alla finestra, e poggiò la testa ai vetri (56), non altro; e un nuovo approccio ha lo stesso esito: E, rigida, guardò dalla finestra (91): senza vedere nulla, dal momento che non è detto. II) Nel mezzo del racconto si apre l’uscio e dall’esterno si fa strada una ragazzina. Sono significativi i due diversi comportamenti di Corrada e Lorenzo: la donna l’accoglie mentre l’uomo la respinge, sentendola istintivamente come una pericolosa intrusa, proprio perché per lui il mondo esterno è ostile. L’ingresso della ragazzina, che reca la richiesta di saldare un debito, è preludio ad una scena violenta che si conclude in modo degno di attenta considerazione: Nell’ira provava come una voluttà. La casa! La casa! Un fulmine avrebbe potuto aprirla in due pezzi, uccidendo la moglie, la matrigna, la cugina. Tutto! Il suo cuore batteva forte come i correggiati dei contadini; più forte, forse (142-144). La parola voluttà tradisce un sentimento perverso di Lorenzo, un comportamento patologico, che lo spinge al desiderio di distruzione della realtà ostile, cioè le cose, le persone, Tutto! L’oggetto annientatore è un elemento naturale. Carico di significato perché costituito di una forza primordiale incontrollabile e inarrestabile; come fosse la materializzazione del sentimento di Lorenzo, scatenatosi nella forma della luce abbagliante, proprio come all’inizio quando egli guarda dalla finestra. L’esterno penetra anche attraverso il senso dell’udito, che raccoglie i battiti del lavoro dei contadini, trasferendoli con paragone al battito del cuore. Così al battere vitale del cuore si sostituisce il battere come offesa, come percossa. L’ostilità del mondo esterno si manifesta perciò in drammatica progressione: prima come luce abbagliante dalla quale ci si può ancora ritrarre chiudendo gli occhi, poi come fulmine distruttore, quindi come cuore infranto: la luce si fa fulmine che stronca. III) Ma l’uomo, che avrebbe preferito di cadere in terra morto, forte e sano, appena di ventisette anni! (78-79), sopravvive ai suoi propri furori e, siccome l’esterno gli ha fatto breccia in casa in forma di voluttà allucinante, è ormai pronto ad abbandonare il chiuso della scena: Egli sbuffò e scese le scale (170). Il primo scontro è di nuovo con la luce: Nell’aia il granturco brillava al sole (174-175); quel granoturco battuto ormai dai contadini, come battuto è da ora il suo cuore e tutta la sua persona: Lorenzo è un vinto e non dispone di alcuna arma per opporsi al desiderio traditore che lo spinge verso Maria, la donna cui avrebbe, certo, potuto parlare verso buio, in capanna (188-189): in quel buio che la luce ha creato nella sua povera anima tormentata, ferendolo (a rovescio di san Paolo, di san Francesco o dei mistici) e imprimendogli i segni tangibili di un male latente, verso cui sembra predestinato.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 214


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XIX.

La serpe

XIX.

La serpe

13.4.2012

13:45

Pagina 215

215

Emilio Cecchi (1884-1966)

La notte aveva fatto temporale, ed ora il verde della campagna era d’una luce più smagliante. La ghiaia brillava sugli argini. Cosparso della sottile rena dell’alluvione, il fondo delle strade era liscio e sonoro, e rendeva più agile la nostra corsa. La macchina infilava stretti passaggi, fra muraglie di tufo, dentro i quali l’aria aveva un soffio di cantina. E all’uscita di questi neri corridoi, ogni volta la luce del paesaggio ci inondava come una cateratta. Era una specie di gloriosa aspersione; e, abbagliati e gocciolanti, subito ci si ritrovava dentro un altro di quei tunnel di pietra e di muffa. Si cercava una villa, famosa e misteriosa, che da tempo ci eravamo promessi di visitare. Vagamente ce l’avevano descritta, cinta di divieti, in un parco immenso.All’ultima fermata, dinanzi alla bottega d’un villaggio, ci avevano ripetuto, sempre in confuso, che ormai doveva esser vicina. Ma quanto più ci accostavamo, più essa sembrava allontanarsi; e, così inafferrabile, assumeva alla nostra fantasia qualcosa d’irreale. A una curva improvvisa, una specie di frusta guizzò da un lato della macchina, che slittava al brusco richiamo dei freni. Fermammo, senza aver capito che cosa fosse successo. Si scese e si tornò indietro alcuni passi. Travolta da una delle ruote, una lunga serpe furiosamente si dibatteva, dove una cuna di sabbia con qualche filo d’erba dava al terreno la dolcezza d’un greto fluviale. Fosse una naturale pietà per la creatura, ignara, piena di vita, e che, senza volere, avevamo ridotto a quell’agonia; fosse l’incanto, orrido e inesplicabile, che la figura del serpe esercita sempre sulla immaginazione e il sentimento, sta il fatto che tutti ci raccogliemmo intorno all’animale, umiliati di non poter fargli nulla; e chini, quasi rattenendo il fiato, si stava a guardarlo morire. La ruota l’aveva ferito circa a metà della lunghezza, su un fianco. E dallo squarcio era traboccata una massa di visceri nericci e sanguinosi. Impazzita dal dolore la serpe flagellava i ciottoli e l’erba. Si fermava a rifìatare; s’annodava sopra sé stessa; eppoi scattava in aria, fulminea, con una più rabbiosa esplosione. In quel giuoco di linee, in quella convulsa musica di movimenti, ora quasi supplichevoli, ora rotti da un’ira infernale, la cosa più trista era il nero sacco dei visceri che ciondolava dalla bella forma, anche nel delirio così esatta e armoniosa.

5

10

15

20

25


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 216

Emilio Cecchi A un certo punto, la serpe s’arrovesciò tutta, e biancheggiava a pancia all’aria sulla terra fradicia. Impotente a risollevarsi, cercava pure di darsi l’atto, ma sempre più spossata. Finché si raccolse in uno sforzo supremo. Puntava contro un sasso il capino riverso; e nella gola il respiro batteva fitto fitto. Si inarcava penosamente, scivolava, e con le squame ritentava di afferrarsi alle rughe del suolo. Sussulti d’energia percorrevano il corpo supino. E non so perché, la tensione del capo arrovesciato faceva pensare a un grido acutissimo, un grido che passasse attraverso il nostro sguardo. Infine, ripiombò giù, e per qualche istante sembrò morta. Ma come la toccammo, riprendeva a tremare, d’un tremito fioco, paralitico. La tirammo pian piano sul ciglio della strada, perché fosse fuori del transito. E ci rimettemmo in marcia. Il punto dove avevamo fatto l’incontro era facile a ricordare. Ma cercammo di stamparcelo bene in mente, con l’intenzione di vedere, al ritorno, se la serpe si fosse più mossa. Il curioso è che quell’incontro, in qualche modo, ci aveva turbati; e quasi non pensavamo più alla villa della quale s’era in caccia. Questa volta, invece, la villa ci aspettava poco lontano. Un portone di legno si schiudeva nel muro altissimo che circondava il parco. Dalle cime degli alberi, giù pel muraglione e sull’entrata, si spandeva un’ombra umidiccia. Due bambini stavano sulla soglia, con un paniere di fiori infilato al braccio. Lasciarono che si entrasse, indicando il viale che portava alla villa e che più veramente era la maceria d’un viale, una rovina arborea. Con l’andare del tempo, molti tronchi erano crollati, e lentamente si disfacevano in un terriccio che nutriva migliaia e migliaia di piccoli fiori color carne. Ma restava sempre tanta densità di fronde da cuoprire il cielo. Si camminava in un lume verdastro che occupava tutta la foresta; se non dove la cortina delle piante era spaccata da una lama di sole. E com’è nei raggi che scendono dai finestroni d’una cattedrale, nel sole danzava un pulviscolo d’argento. Allora anche le nostre ombre si mettevano a saltare davanti a noi, grottesche, sperticate; e sembrava volessero gareggiare con la statura degli alberi. Dalla parte che il bosco era più folto, si sentiva un abbaiare di cani, ma lontanissimo. Si sarebbe detto che giungesse di fondo a una favola. Intorno a una vasta radura in forma d’anfiteatro, si riconosceva un disegno di siepi, inselvatichite. Rovesce nell’erba o addossate alle siepi, erano enormi sculture di pietra pallida, macchiate di musco. Levrieri distesi, sfingi matronali, draghi dal viso di vecchi. Gli anni pazienti, le intemperie, avevano corrose, spolpate quelle figure; e le avevano rese stranamente simili alle statue di dèmoni e d’animali che in Cina, a file interminabili, camminano lungo le vie consacrate ai morti. Era una somiglianza assurda nell’idea, ma ineccepibile nel fatto; come certe evidenze e identità che s’illuminano nei sogni. Dall’anfiteatro si scendeva a un terrazzo prospiciente alla valle per una lunga balaustrata. A pie’ del terrazzo, chiuso fra alti bastioni, era l’edificio della villa; tutto sbarrato, e vivo soltanto per quell’abbaiare dei cani dietro ai cancelli. Non ho mai visto comignoli, fitti, e di tutte le forme e misure, quanti erano sui tetti di quell’edificio: una selva di comignoli, e senza un filo di fumo. Lassù in cima ai tetti, formavano una bizzarra, aerea attrezzatura. Alcuni sembravano maniche a vento. E anche per questo, e per il modo nel quale, a pie’ del terrazzo, era stata trincerata, la villa dava immagine d’un antico, corpulento vascello nel suo bacino di raddobbo.

30

35

40

45

50

55

60

65

70


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XIX.

13.4.2012

13:45

La serpe

Pagina 217

217

Come avremmo voluto vederla, alle feste d’un tempo, quando piena d’ospiti s’impennacchiava del fumo dei cento camini; ed insieme al fumo volteggiavano sui tetti mongolfiere di carta e stendardi. O forse era più bella come ora: come un bastimento rimasto in secco, e dimenticato in mezzo ai boschi. Una donnetta, frattanto, sbucata non si sa dove, accorreva affannosamente a pregare d’andarcene; e chi ci aveva fatti entrare; e che per carità i padroni non ci vedessero là dentro. Ci faceva fretta, spingendo con tutte e due le mani. In autunno il pomeriggio precipita. Quando ripassammo nel parco, sulla processione delle bestie araldiche la tristezza serale avvolgeva sottili veli di nebbia. Ma non avevamo dimenticato il nostro appuntamento. E sulla via del ritorno, si stava attenti a riconoscere il punto designato. Ed ecco, proprio quello: con il declivio di sabbia, come un’insenatura. Ogni cosa era a posto, come s’era lasciata. Ma la serpe non c’era più. Prima la cercammo con affettuosa preoccupazione; per timore che qualche cattivo, trovatala così malconcia, l’avesse sfregiata ancora, e finita. Poi nella nostra ricerca entrò un certo puntiglio. Si tentava qua e là, bussando sugli arbusti delle siepi, scostando le foglie nel rigagnolo; finché uno la scorse; ma sul primo fu difficile a distinguere, tanto era immedesimata alle cose. Al riparo d’una frasca, nel refrigerio dell’erba, ferma ferma ci fissava dagli occhietti neri che foravano l’ombra. I suoi colori e le sue macchie si confondevano con quelli dei detriti e del suolo. Ma la sentivamo rivivere col fresco e sommesso risalto d’una felicità nuova. E si sarebbe detto ch’era un’altra, intatta, nata ora. Mischiata alle cose; ma anche piantata in sé, con l’innocente rigore d’un simbolo. Si capiva perché, oltre a significati perfidi e luttuosi, ed anzi in rapporto ad essi, l’avessero sempre associata alle idee della salute, della immortalità e della saggezza. Ed infine cominciò a muoversi; ma non ce ne saremmo accorti, se non era il sordo brulicare che si diffondeva intorno, tra i fili dell’erba, dall’impercettibile attrito delle squame; quel brulicare che, al passaggio d’un rettile, fa sembrare che essa stessa la terra formicoli e tremi. A cerchi sempre più labili, il fremito pareva comunicarsi a tutta la campagna. Tranquilla, con la sua piaga, la serpe salì la proda del fosso. Leggiadramente inarcò il collo a esplorare. Quando ancora guardammo, era scomparsa.

Testo di riferimento E. CECCHI, Corse al trotto, Firenze, Bemporad, 1936, pp. 169-173.

75

80

85

90

95

100

105


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 218

Emilio Cecchi

XIX.

Analisi del testo

1.

Riassunto dell’intreccio 1. 2. 3. 4. 5. 6.

2.

Il viaggio e la sua giustificazione (1-12). L’investimento del serpente e la sua sofferenza (13-40). La ripresa del viaggio (41-45). La visita della villa (45-83). La ripresa del viaggio (84-87). Il ritrovamento del serpente e la sua agonia (87-105).

Narrazione e descrizione

La dimensione narrativa del testo sta nel viaggio intrapreso per visitare una villa antica, nella visita della villa, nel viaggio di ritorno. Questi tre episodi sono interrotti da due episodi relativi alla serpe, così che l’intero racconto è costruito simmetricamente rispetto all’episodio centrale (riassunto, 4). Non sappiamo da dove sia iniziato il viaggio né se i viaggiatori torneranno al luogo di partenza; non sappiamo neppure dove si svolga il viaggio; e nemmeno ci è detto chi e quante siano le persone protagoniste del viaggio. Queste volute omissioni, da un lato rendono sfocati gli estremi del percorso e l’ambientazione geografica, di modo che al lettore viene a mancare un importante elemento di certezza che è solito caratterizzare ogni spostamento da A a B; dall’altro impoveriscono i protagonisti di alcune loro componenti primarie, che un comune narratore invece non trascura perché proprio grazie ad esse può arricchire la narrazione di vicende che da tali comportamenti dipendono. Un ubriaco, ad esempio, sarà condotto all’osteria o da essa tenuto accortamente lontano; un timido sarà sottoposto ad esperienze socializzanti o costretto ad un isolamento per lui congeniale. Qui, invece, alcune persone provenienti da chissà dove entrano nel campo di una ristretta inquadratura, si muovono in essa con un certo disagio, guardano una esigua porzione di realtà cercando di carpirle un segreto, e poi si eclissano chissà dove; senza essere caratteriz-


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XIX.

La serpe - Analisi del testo

13.4.2012

13:45

Pagina 219

219

zati nei tratti fisici, nel comportamento, nell’esprimersi a parole: come se si trattasse di un’unica persona che guarda e pensa. Dal nulla al nulla, passando attraverso un’esperienza conoscitiva. In queste condizioni il filo narrativo (non fa meraviglia) si spezza, senza opporre resistenza, all’incontro con la biscia: un avvenimento collaterale che prende il sopravvento, tanto da capovolgere le attese del lettore e tutto il senso della vicenda. L’interesse per la biscia prevale su tutto il resto grazie ad un lungo inserto a carattere prevalentemente descrittivo (23-38) che fa perdere di vista lo scopo del viaggio e dissolvere la villa nella dimenticanza. L’identificazione della villa e la sua parziale visita non bastano a far dimenticare l’incontro casuale con il rettile, tanto che il viaggio di ritorno, il quale dovrebbe essere una semplice trasferta senza interesse, assume lo scopo di ritrovare la serpe agonizzante e di seguirne le ultime vicende attraverso un altro inserto a carattere descrittivo (92-105). In tal modo l’episodio che avrebbe dovuto essere marginale è promosso a episodio principale, come dichiara il titolo stesso del racconto e, in modo ancora più vistoso, un passo del testo: Il curioso è che quell’incontro, in qualche modo, ci aveva turbati; e quasi non pensavamo più alla villa della quale s’era in caccia (43-44). Dopo l’incontro con la biscia il viaggio riprende (ci rimettemmo in marcia 40), ma ormai con un nuovo scopo: con l’intenzione di vedere, al ritorno, se la serpe si fosse più mossa (42-43). Nulla però si dice della trasferta alla villa; e il fatto sorprende perché i viaggiatori non conoscono il percorso, così che dalla loro ignoranza potrebbe dipendere una fermata supplementare o una richiesta di informazione: entrambe accuratamente già messe in atto (e con poco più di un cenno) in un luogo innocuo del testo (10-11) per evitare qui un calo di tensione. Nulla neppure si dice del viaggio di ritorno, se non che sulla via del ritorno, si stava attenti a riconoscere il punto designato (84-85). Del resto la stessa visita della villa è un parziale fallimento dal punto di vista narrativo, per l’impossibilità di conoscerne l’interno.

3.

Realtà e favola

Il viaggio in automobile, i personaggi della vicenda, il paesaggio, la villa e la biscia sono credibili realisticamente (non c’e nulla di fantastico, surreale, fantascientifico). La descrizione dell’agonia del rettile è anzi in certi punti di un crudo realismo: dallo squarcio era traboccata una massa di visceri nericci e sanguinosi (23-24). L’autore però fa capire che qualcos’altro importa oltre la componente realistica. Il procedere del viaggio è definito una specie di gloriosa aspersione (6), come a dire che l’esperienza implica una tendenza al sacro, quasi come un rito purificatorio. La villa è detta misteriosa (8), cinta di divieti (9), inafferrabile (12), tanto da sembrare qualcosa d’irreale (12). La biscia dà l’impressione, nella immaginazione (20) e nel sentimento (20) dei viaggiatori, di qualcosa di inesplicabile (19). L’abbaiare dei cani avviene in modo che Si sarebbe detto che giungesse di fondo a una favola (58); così facendo è messa in rilievo la componente mitica (favola) del contesto e posta in dubbio, coll’uso del condizionale, la percezione acustica oggettiva (abbaiare). La villa inoltre assume il suo significato attraverso l’immagine dei sogni (66); e infine la ritrovata serpe è accostata all’idea di simbolo (96). Questa continua attenzione ad un mondo che dalla realtà si proietta verso una direzione mitico-simbolica non può essere trascurata nella lettura


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 220

Emilio Cecchi del testo. Non si tratta di richiami che diano più forte consistenza alla componente realistica dell’invenzione, ma di veri e propri elementi costitutivi di un’altra realtà, assai più complessa di quella limitata al solo dato realistico.

4.

Presente e passato

La nozione di passato è fortemente insistita nel racconto; si fa strada coll’incontro della villa, il cui viale d’accesso è definito la maceria d’un viale, una rovina arborea (49): segno del degrado del tempo che ne ha reso quasi irriconoscibili le fattezze rispetto a quelle originarie, appartenenti ad un passato ormai non più valutabile oggettivamente. Nella specificazione analitica secondo cui Con l’andare del tempo, molti tronchi erano crollati, e lentamente si disfacevano (50-51), le parole tempo e disfacevano sono essenziali perché pongono l’accento sull’idea che la realtà è corruttibile. Anche le siepi non sfuggono al deperimento: si riconosceva un disegno di siepi, inselvatichite (59-60). La corrosione operata dal tempo nei confronti del mondo vegetale è abbastanza scontata e prevedibile; più impressionante è invece quella che avviene nel mondo minerale: Rovesce nell’erba o addossate alle siepi, erano enormi sculture di pietra pallida, macchiate di musco. Levrieri distesi, sfingi matronali, draghi dal viso di vecchi. Gli anni pazienti, le intemperie, avevano corrose, spolpate quelle figure; e le avevano rese stranamente simili alle statue di dèmoni e d’animali che in Cina, a file interminabili, camminano lungo le vie consacrate ai morti. Era una somiglianza assurda nell’idea, ma ineccepibile nel fatto; come certe evidenze e identità che s’illuminano nei sogni (60-66). La villa, per i molti comignoli e per la collocazione trincerata (73) ai piedi di un terrazzo, dava immagine d’un antico, corpulento vascello nel suo bacino di raddobbo (73-74); anch’essa non si sottrae al paragone col passato remoto, quando era immune dall’odierna decadenza (Come avremmo voluto vederla, alle feste d’un tempo 75), sebbene non sia certa la preferenza per quel momento privilegiato (O forse era più bella come ora: come un bastimento rimasto in secco, e dimenticato in mezzo ai boschi 77-78). Anche il ritrovamento della biscia mette in moto la macchina del tempo: Si capiva perché, oltre a significati perfidi e luttuosi, ed anzi in rapporto ad essi, l’avessero sempre associata alle idee della salute, della immortalità e della saggezza (96-98). I brani delle statue (60-66) e del significato del rettile (96-98) meritano qualche attenzione supplementare. Nel primo brano è un trinomio (levrieri, sfingi, draghi) che si impone alla nostra attenzione. I levrieri distesi, più che ricondurre ad una pausa durante una reale scena di caccia, collegano ad un mondo passato, forse di tipo medievale-cortese, dove la figura dell’aristocratico cane era spesso associata all’immagine del signore; non escluso, da parte di Cecchi, il ricordo di monumenti sepolcrali col cane a custodia del proprio padrone, entrambi scolpiti nel marmo. Le sfingi collegano probabilmente alla cultura egizia. I draghi, a giudicare dall’interesse di Cecchi in altri racconti, ci indirizzano verso la Cina. Analogamente, nel secondo brano, quando i viaggiatori ritornano sui propri passi lasciandosi alle spalle la villa, l’autore fa di nuovo ricorso, parlando della serpe, ad un trinomio (salute, immortalità, saggezza) dove i riscontri con il passato sono più labili di quelli posti dal trinomio precedente, ma pur sempre persuasivi. La salute richiama l’immagine del serpente e della coppa come emblema


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XIX.

La serpe - Analisi del testo

13.4.2012

13:45

Pagina 221

221

medico-farmaceutico ancora oggi diffuso; è l’immagine laica collegata ad Ippocrate. L’immortalità suggerisce l’ovvio legame col biblico serpente tentatore di Eva; è l’immagine sacra del Genesi. La saggezza invece sembra sfuggire ad un diretto raffronto con il passato. Nel primo trinomio è forte il climax ascendente che porta dal più vicino Medioevo (sia geograficamente che cronologicamente) alle più lontane epoche della cultura orientale. Nel secondo trinomio la progressione è meno chiara, ma sembra comunque che si passi dal presente reale (salute) ad una atemporalità sacra (immortalità) e profana (saggezza). Anche tra le due serie di trinomi intercorre un vistoso legame: meno perspicuamente tra i due primi elementi (a meno che il levriero sia da correlare, ma in modo tutto sommato banale, all’idea della salute), più perspicuamente tra i secondi elementi (la sfinge suggerendo, sul piano non cristiano, quello che l’immortalità suggerisce sul piano cristiano), come pure tra i terzi elementi (dove il viso di vecchi dei draghi va collegato all’idea di saggezza, normalmente indicata nella cultura occidentale proprio dall’immagine del vecchio). Sembra perciò che nella comprensione del mondo presente Cecchi inserisca la conoscenza del passato (assai remoto e indeterminato) come punto di riferimento; ma si tratta di un richiamo del tutto soggettivo, privo di necessità storico-filologica, visto che di quelle sculture non sappiamo né autore né epoca (forse non si tratta neppure di levrieri, sfingi e draghi!). Si capisce allora la continua presenza lungo tutto il testo di parole o espressioni chiave che suggeriscono proprio il percorso mentale che porta dalla presunta chiarezza del presente alla imprecisabilità del passato: inafferrabile (12), irreale (12), inesplicabile (19), rovina (49), disfacevano (50-51), di fondo a una favola (58), sogni (66), simbolo (96). Questo passato, però, proprio perché rivissuto soggettivamente, da termine di paragone sembra prendere il sopravvento e diventare esso stesso la realtà, declassando il presente a elemento secondario. Ma il presente parla di cose morte, il passato di cose vive. Ci si può chiedere se siamo di fronte ad una visione pessimistica del mondo, almeno nel senso di una rinuncia a credere che la vita presente abbia una forte incidenza e che sia portatrice di valore. Della proposta di leggere la complessità della realtà tra le pieghe dei fatti anche banali del presente, è preziosa testimonianza, come già detto, la formula gloriosa aspersione (6) con cui all’inizio del racconto l’autore definisce il continuo entrare e uscire dell’automobile dalle muraglie di tufo (4) che si presentano sul cammino. Tutto quello che il racconto rivela, e cioè il continuo contatto con l’arcaico, è perciò una forma inusitata di purificazione per aspersione, cioè una iniziazione alla difficile decifrazione della realtà operata per mezzo di associazioni analogiche tanto più valide quanto più funamboliche.

5.

Luce e ombra

Nella parte iniziale del racconto, dove si fanno le osservazioni sul viaggio, l’attenzione è posta unicamente sul percorso dell’automobile. L’attacco solenne, nella misura dell’endecasillabo (La notte aveva fatto temporale) fa posto ad una immagine globale del paesaggio (il verde della campagna 1) risolta in una considerazione luministica (era d’una luce più smagliante 1-2), sulla quale è condotto con insistenza il resto del brano: E all’uscita di questi neri corridoi, ogni volta la luce del paesaggio ci inondava come una cateratta (5-6). Il contrasto tra luce e ombra caratterizza il viag-


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 222

Emilio Cecchi gio in modo solo parzialmente realistico, se si tiene conto del valore di iniziazione simbolica che ha il contatto con l’acqua (Era una specie di gloriosa aspersione 6); esperienza dalla quale i viaggiatori escono abbagliati e gocciolanti (6-7). Raggiunta la villa, la prima considerazione è ancora di tipo luministico: giù pel muraglione e sull’entrata, si spandeva un’ombra umidiccia (46-47), dove l’importanza dell’evento è sottolineata dalla presenza della sinestesia, nella quale di nuovo compare l’acqua. Il viale d’accesso alla villa, che attraversa il parco, è indagato ancora nella prospettiva luce / ombra e inizia con due endecasillabi (il primo sull’appropriatissimo ritmo di quarta-settima-decima): Si camminava in un lume verdastro che occupava tutta la foresta; se non dove la cortina delle piante era spaccata da una lama di sole (52-54). È importante il paragone della cattedrale, che si innesta a diretto chiarimento dei fatti: E com’è nei raggi che scendono dai finestroni d’una cattedrale, nel sole danzava un pulviscolo d’argento (54-55). La conclusione stralunata dell’episodio è ancora centrata sull’ombra: Allora anche le nostre ombre si mettevano a saltare davanti a noi, grottesche, sperticate; e sembrava volessero gareggiare con la statura degli alberi (55-57). Il viale ombreggiato richiama i tunnel iniziali (neri corridoi 5); anche ora si tratta di un passaggio alterno da zona d’ombra a zona di luce; il percorso però avviene a piedi, dal momento che il paragone con la cattedrale ci insegna che siamo in uno spazio ormai sacro, conseguenza dell’aspersione iniziale. Il contrasto fra luce e ombra esprime dunque una tensione, forse un disagio, e caratterizza i momenti di movimento dei protagonisti (lo spostamento iniziale con l’automobile e il raggiungimento della villa a piedi dopo che è stata identificata), non quelli di stasi (l’incontro casuale del rettile e le osservazioni sulla villa). Proprio nel muoversi lungo il viale, le enormi sculture di pietra pallida (60-61, in cui l’allitterazione conduce al «pallido busto di Pallade» nel Corvo di Poe) sono poste in correlazione con le sculture cinesi collocate lungo le vie consacrate ai morti (64), e la correlazione oscilla tra l’accettabilità e l’inaccettabilità (assurda nell’idea ma ineccepibile nel fatto 64-65) sul tipo di quelle che s’illuminano nei sogni (65-66). Il contrasto tra razionale e irrazionale è una forma di conoscenza; si inserisce nella sfera del sogno e fa propria la metafora della luce (illuminazione, chiarimento). La considerazione è assai importante e rende ancora più pieno il contrasto tra luce e ombra che caratterizza il percorso in automobile e il cammino lungo il viale, configurato come un cammino di conoscenza. È nel contrasto tra luce e ombra che tale conoscenza si attua.

6.

Vita e morte

La conoscenza è conoscenza della morte: il rettile e la villa sono due agonizzanti. Il tema della morte della biscia è messo a fuoco solo dopo la visita della villa, quando essa viene incontrata la seconda volta. Lì non prevalgono più i significati perfidi e luttuosi (97) ma le idee della salute, della immortalità e della saggezza (98). Abbiamo già messo in relazione questo trinomio con quello dove compaiono i levrieri, le sfingi e i draghi (61), cioè le statue che accompagnano la morte. Alla luce di questa correlazione, la biscia morente acquista l’innocente rigore di un simbolo (96), ma diventa simbolo di vita eterna; ciò avviene dopo l’esplorazione del viale della villa, durante la quale i protagonisti sono stati colpiti dalla lama di sole (54) filtrata attraverso gli alberi. La metafora della lama è ben indicativa del ferimento salutifero che i viaggiatori de-


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XIX.

13.4.2012

13:45

Pagina 223

La serpe - Analisi del testo

223

vono subire. La loro conversione dalla morte alla vita lungo il viale (preannunciata inconsapevolmente all’inizio del racconto) è una variante moderna di quella di Saulo sulla via di Damasco.

7.

Binomi e trinomi nella sintassi della frase e del periodo

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31. 32. 33. 34. 35. 36. 37. 38.

Il ricco materiale che il testo presenta è il seguente: liscio e sonoro (3) abbagliati e gocciolanti (6-7) di pietra e di muffa (7) famosa e misteriosa (8) Si scese e si tornò indietro (15) ignara, piena di vita (18) orrido e inesplicabile (19) sulla immaginazione e il sentimento (19-20) nericci e sanguinosi (24) i ciottoli e l’erba (25) Si fermava… s’annodava… scattava (25-26) In quel giuoco di linee, in quella convulsa musica di movimenti (26-27) ora quasi supplichevoli, ora rotti da un’ira infernale (27-28) esatta e armoniosa (29) Si inarcava… scivolava… ritentava (33-34) fioco, paralitico (38) giù pel muraglione e sull’entrata (46) la maceria d’un viale, una rovina arborea (49) erano crollati, e lentamente si disfacevano (50-51) grottesche, sperticate (56) Rovesce nell’erba o addossate alle siepi (60) Levrieri distesi, sfingi matronali, draghi dai visi di vecchi (61-62) Gli anni pazienti, le intemperie (62) corrose, spolpate (62) di dèmoni e d’animali (63) assurda nell’idea ma ineccepibile nel fatto (64-65) evidenze e identità (65) tutto sbarrato, e vivo soltanto per (69) di tutte le forme e misure (70) bizzarra, aerea attrezzatura (72) antico, corpulento vascello (74) mongolfiere di carta e stendardi (77) rimasto in secco, e dimenticato (78) l’avesse sfregiata ancora, e finita (88) bussando… scostando (89-90) Al riparo d’una frasca, nel refrigerio dell’erba (92) I suoi colori e le sue macchie (93) dei detriti e del suolo (94)


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 224

Emilio Cecchi 39. 40. 41. 42. 43. 44.

fresco e sommesso (94) intatta, nata ora (95) Mischiata alle cose; ma anche piantata in sé (95-96) perfidi e luttuosi (97) della salute, della immortalità e della saggezza (98) formicoli e tremi (102).

Nella maggior parte dei casi (trentasei su quarantaquattro) si tratta di binomi nella struttura della frase. Sono più rappresentate le coppie semplici: coppie di aggettivi (1, 2, 4, 6, 7, 9, 14, 16, 20, 24, 28, 30, 31, 33, 39, 40, 42; ma 6, 33, 40 con sintagmi di valore aggettivale) e coppie di sostantivi (3, 8, 10, 23, 25, 27, 29, 32, 37, 38); meno quelle complesse: coppie di aggettivi (13, 21, 26, 28, 41) e di sostantivi (12, 17, 18, 36). Le diciassette coppie semplici di aggettivi non aprono mai la frase, mentre cinque sono in clausola (9, 14, 16, 20, 40) e sempre (a parte 19, 28) sono riferite alla biscia. Le dieci coppie semplici di sostantivi due volte aprono la frase (23, 37), quattro la chiudono (3, 10, 32, 38); e tre volte sono riferite alla biscia (10, 37, 38). Le cinque coppie complesse di aggettivi sono due volte iniziali (21, 41), una volta finale (26). Le quattro coppie complesse di sostantivi sono due iniziali (12, 36), una finale (18). Le trentasei coppie in genere (semplici e complesse) si collocano sei volte in apertura, undici in chiusura di frase e diciotto nel corpo della frase. Binomi nella struttura del periodo (5, 19, 34, 35, 44) e trinomi nella struttura della frase (22, 43) o del periodo (11, 15) sono rari; ma i trinomi sono importanti, come si è già visto per la correlazione tra 22 e 43 e tenendo presente che 11 e 15 si riferiscono alla biscia (che è proprio in gioco nella correlazione tra 22 e 43). La presenza schiacciante di serie di aggettivi e sostantivi (cioè la qualifica delle cose più ancora delle cose stesse) si accompagna a una significativa presenza di serie di predicati verbali (5, 11, 15, 19, 34, 35; sono qui esclusi i participi passati aggettivali), per lo più relativi alla biscia (11, 15, 34, 35) e tra i quali si evidenzia il trinomio (11, 15). È il segno indiretto di come anche le azioni tendano, serializzandosi, a frenare la narrazione e a deviarla verso la descrizione. L’eccezionalità della presenza del trinomio (11, 15) è spia importante di questa tendenza stilistica.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

XX.

Le bestie sacre

XX.

Le bestie sacre

13:45

Pagina 225

225

Emilio Cecchi (1884-1966)

Il canguro zoppicava come un artritico. S’arrestò; e dondolatosi sulla vita, si dette la mossa e si trovò ritto sulle zampe posteriori. Aveva puntato in terra il poderoso bastone della coda e pareva un cavalletto a tre gambe. Per un poco si tenne in tasca i suoi moncherini, fissandomi, con la bocca leprina accomodata all’atto di fischiettare. Ma poi cominciò ad accompagnarsi e sfoderati gli unghioni neri della orribile mano tra d’uomo e d’avvoltoio, si grattava la pancia, come se invece d’una pancia fosse una chitarra. In realtà era una pancia, sordida e intimpanita; e io non avrei saputo dire che cosa m’imbarazzasse più, se l’ostinazione di quei grossi occhi vitrei d’uccello col loro sguardo antidiluviano, o l’oscenità della ventraia che pareva insaccata di stoppa e spelata sulle ricuciture, come la pelle d’una mummia tignosa. Lo vedevo contro il sole, contro il sole più civico, più domestico: apparizione ributtante nella cui forma era un segno diabolicamente sovvertito della mia forma, confuso agli avanzi e alle rovine d’epoche condannate. E non capivo la necessità di rievocare nel cerchio delle case e degli orti, cotesti spettacoli tenebrosi e irrimediabili, e non potevo capacitarmi per quale avvelenata curiosità e libidine di distruzione mi fossi fermato e fossi entrato. Allora tra i ferri d’un’altra gabbia scivolò qualcosa di flessuoso e formidabile, come un floscio serpe azzurrastro. Si mise a tastare nell’erba e nel fango e avendo trovato quel che cercava si risollevò in spirali verso una lurida fessura triangolare che sormontava un gozzo appuntito, con pochi peli di barba. Era un mostro calvo, a forma di montagna, che schizzava rosso dall’occhio suino e sventolava le orecchie smerlate come larghe foglie acquatiche, scrollandosi sulle colonne delle zampe avvinte di catene e schiacciate sotto il peso della mole rugosa che si sarebbe potuta credere coperta di minutissimi segni egiziani. Mi dissero che si dondolava così da almeno duecent’anni. Era nato al secolo che gli uomini andavano in parrucca e la moda prescriveva alla nostre avole i pennuti turbanti all’uso di Persia. Gli erano rotolati sul dorso i terremoti e gli sfaceli, le rivoluzioni, gl’interregni

5

10

15

20

25


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 226

Emilio Cecchi e i galoppi delle cavallerie di Napoleone. E aspettava tuttavia, dicendo di no dalla punta della proboscide al codino arroncigliato. Io ho conosciuto gli elefanti storici. Quelli di Ramsete e quelli di Psammetico, quelli di Kipling, di Pirro, e il pulcino di piazza della Minerva. Ma cotesta massa senza tempo pareva lì a negare il Tempo, col suo scrollo inutile e colossale; e addirittura a stritolare e sperdere anche il piccolo, lo straziante, piccolo tempo che m’è toccato, che rodono e consumano dentro di me tanti altri avversari. La cupola della sua groppa montava violenta come una nuvola nera. Una nuvola di pietra che volesse otturare il cielo. M’accorsi, invece, che intorno alle gabbie scintillava una festa con tutto il carattere d’una popolare ricorrenza religiosa. Sopra ogni viso l’allegrezza e i segni dell’intima soddisfazione. I bambini comperavano pomi e becchime a certi piccoli banchi tutti infiorati e correvano con mosse di danza a offrirli agli scoiattoli e al pollame sacro. Alcune donne chiudevano i graziosi parasoli, e appoggiando il viso a una parete di cristallo, si confessavano per sorrisi alle scimmie sacerdotali che sedevano col naso a’ vetri dall’altra parte. In conspetto dei leoni, un giovine stava senza accorgersene in una posa da Sordello. Grassa e pacifica, colle familiari bandiere dei bucati sventolanti sulle alte terrazze, la città covava nel suo grembo quel bestiale carname, fetido e groviglioso, quelle forme deluse e senza lume; anzi si piegava su loro con tutti i suoi vezzi. I vecchi negli ospizi lontani, le popolazioni delle chiese deserte e dei musei, aspettavano l’ombra e l’eternità nel loro pomeriggio vuoto. Sotto le cupole di fogliame, i tram battevano le campanelle, correndo a versare alle cancellate sempre più popolo e più inebbriato. Mi ricordai un quadretto del Longhi, dove tre anziani, forse tre dottori di Padova, studiano un elefante o un rinoceronte, insomma una di coteste immondezze, torpido sullo strame di un circo senza spettatori. Ma hanno messo sul loro viso una maschera bianca. E come stanno gelidi e ritirati! Ecco dei gentiluomini capaci di trattar la Natura con dignità e distacco, con la corretta disumanità indispensabile. Nella improntitudine e impudicizia dei riti nei quali mi trovavo coinvolto, era un sorriso e una benedizione poter ripensare la squisita discrezione di quei nonni. Infatti i nostri antichi (ed anche certe cittadinanze moderne scimmieggiando gli antichi) custodivano in un recinto inviolato certi animali prodi, o almeno utili, che alla loro immaginazione fanciullesca simboleggiavano le virtù peculiari della città o della stirpe. A volte, però, sceglievano simboli fittizi, da mascherarne, col segno di qualche virtù convenzionale, una virtù concreta e che non conveniva mettere in piazza. I fiorentini, per esempio, veneravano i leoni, mentre il loro vero animale sarebbe stato la volpe. I romani avevano le loro oche e non si sa ancora bene se fosse ironia o modestia. Ma quando s’entrava nella casa di Dio e fra le cose di Dio, per nessuna ragione al mondo gli antichi si sarebbero permessi di scherzare o giuocar di sottintesi. Costì si può vedere con certezza quale fosse la loro idea delle bestie, e dell’uomo, nell’effige degli animali, perpetuata colla pietra e col marmo, come volto visibile della torbida materia vinta ai piedi del Signore. E i mostri senz’età e senza nome s’ingi-

30

35

40

45

50

55

60

65

70


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XX.

Le bestie sacre

13.4.2012

13:45

Pagina 227

227

nocchiano a sostenere le colonne delle basiliche. E gli uccelli di ogni sorta fanno nido nei capitelli fogliosi, mentre l’aquila regge sull’ali spiegate il libro dei vangeli. Le testuggini servizievoli recan sul dorso candelabri e bacili. I leoni montano la guardia intorno al pergamo. E quanto alla scimmie, parenti dei diavoli, arrampicate in cima ai campanili, vomitano delle gole screanzate i rigurgiti dell’acqua piovana. Il serpente morde la polvere, finito, colla cervice infranta dal calcagno della Donna. E a nessuno dei vecchi popoli cristiani sarebbe mai venuta in mente una cosa tanto bestemmiatoria, come ricostruire un Eden con tutte le piante e tutti gli animali nel cuore della città. E correre ad adorarvi il serpente che sonnecchia in un tepidario di vetro, fra un termometro tedesco e una ciotola di latte caldo. Perché gli antichi credevano alla Creazione, e cioè a una gerarchia sacra e ascendente. Agli animali aveva pensato Dio, che può pensare a tutto. L’uomo, per suo conto, aveva abbastanza della sua parte d’uomo, cioè a dire, d’esiliato figlio di Dio. Ma i moderni preferiscono credere all’Evoluzione; in altri termini a una gerarchia scientifica e degradante. E mentre un antico andava in chiesa, a ritrovare il suo posto sull’infinita, terrorizzante distanza che ancora lo separava da Dio, un moderno va al Giardino Zoologico a ritrovare il suo posto sull’infinita, gloriosa distanza che ormai lo separa dal cercopiteco. Un antico per riconoscersi più uomo si confrontava, umiliandosi e annullandosi, agli dei. Un moderno, per riconoscersi più uomo, si confronta, applaudendosi e congratulandosi, alle bestie. Uno guardava avanti. Quest’altro è voltato indietro. Uno sentiva di avere ancora da attuarsi. Ma quest’altro si sente tutto attuato. E quel legame di operosa riconoscenza che nella scala degli esseri si stabiliva fra l’uomo e Dio, il quale era appunto lassù affinché l’uomo avesse sempre presente la propria perfettibilità e imperfezione, si tramuta nella riconoscenza verso il barbato gorilla, che porta la croce delle ultime imperfezioni e redime l’uomo alla gioia dei perfetti. Si capisce allora il significato di questi palazzi di cristallo, di queste serre e acquari e giardini. Sono le case degli animali sacri. Sono i monumenti della gratitudine, i termini del trionfo. Sono i ricettacoli dei segni supremi ai quali si misura il pregio del mondo, perché guardando una scimmia che sbadiglia nessuna donna potrà dubitare di non essere Venere o Giunone. Sono le novissime cattedrali. Gli antichi inventarono San Pietro e Westminster. I moderni hanno inventato lo Zoo. Gli antichi andarono in processione a San Pietro e Westminister, andarono crociati e pellegrini in Terrasanta. E noi anderemo al giardino di Villa Umberto. Ma riflettevo anche che, appena per forza di consuetudine, gli animali domestici, e magari certe creature umane, non ci appaiono con gli aspetti infernali che ora mi avevano torturato. E credevo di cominciare a scorgere nella portatura, nella guardatura dei cavalli delle vetture ferme sulle piazze, i segni imponderabili di qualche tremenda rivelazione che covasse sotto il cuoio dei finimenti e sotto la minaccia delle fruste. In cotesti pensieri m’accostavo a casa. Fu costì che una forma orecchiuta e pelosissima balzò furiosa sul lastrico, e sganasciò la bocca dai lunghi denti gialli, blaterando incomprensibili e assordanti offese al Creatore. La rivelazione aveva precipitato e un diavolo certo, e non travestito, era venuto a fare una scenata proprio alla mia porta.

75

80

85

90

95

100

105

110

115


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 228

Emilio Cecchi Chiusi gli occhi e in fretta mi segnai con un’invocazione. Quando li riapersi vidi che per fortuna non era che un asino. Un asino allegro, soltanto.

Testo di riferimento E. CECCHI, Pesci rossi, Firenze, Vallecchi, 1920; 1989, ed. critica a c. di M. Ghilardi, pp. 23-28.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

XX.

Le bestie sacre - Analisi del testo

XX.

Analisi del testo

1.

Riassunto dell’intreccio

13:45

Pagina 229

229

1. 2. 3. 4.

Il protagonista, allo zoo, osserva un canguro (1-17) e un elefante (18-37). Osserva bambini e donne, felici di essere allo zoo (38-52). Ricorda il rinoceronte del dipinto che attribuisce a Longhi (53-59). Riflette sulla presenza degli animali nella cultura profana e sacra (60-79) e condanna l’istituzione dello zoo (79-82). 5. Riflette alla diversa considerazione degli antichi e dei moderni sulla presenza degli animali (83-98) e condanna l’istituzione dello zoo (99-106). 6. Ritorna a casa osservando i cavalli dei vetturini (107-112) ed è impaurito dal raglio di un asino (113-119).

2.

Il momento descrittivo

Il filo della vicenda è quasi inesistente. L’autore (che parla in prima persona) visita uno zoo di Roma e davanti alle gabbie riflette, cercando di capire il significato nascosto di ciò che vede. Il testo si compone di una prima zona descrittiva (1-3), di una seconda riflessiva (4-5) e di una terza narrativa (6). L’inizio descrittivo pone il lettore già dentro la vicenda, senza permettergli di capire cosa stia avvenendo, e gli lascia la sorpresa della decifrazione e il piacere di comporre un assieme di cui gli si offrono via via le parti. Due sono gli animali descritti: il canguro e l’elefante. Si nominano poi altri animali (si veda al punto 4) senza descriverli. Il ritratto del canguro è basato su una ricca figurazione di metafore e paragoni: zoppicava (1), bastone della coda (3), pareva un cavalletto (3), tasca (4), bocca leprina (4-5), mano tra d’uomo e d’avvoltoio (6), chitarra (7), intimpanita (8), occhi vitrei d’uccello (9), ventraia […] insaccata di stoppa e spelata sulle ricuciture, come la pelle d’una mummia tignosa (10-11); nell’ultima parte della descrizione, anzi, le figure si incastrano l’una nell’altra: ventraia fa posto alle metafore stoppa e ricuciture,


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 230

Emilio Cecchi cui segue il paragone della mummia, specificato dalla metafora tignosa. L’animale assume fattezze grottescamente umane e pare il risultato di un composto chimerico di più animali. Lo scopo di questa scelta di Cecchi è quello di costruire una apparizione ributtante (12-13), facendola sorgere con forza evocativa da un lontano passato. Il ritratto dell’elefante è analogo. In corrispondenza della mummia, che chiude la descrizione del canguro, vi è qui la metafora dei minutissimi segni egiziani (25), analoga sul piano del contesto storico-geografico. Su questo spunto si apre una ampia serie di riferimenti al passato, dalla Persia a Napoleone, da Ramsete a Kipling, senza escludere l’elefantino in bronzo (a sua volta indicato con la metafora del pulcino, 32, scritto in corsivo) che a Roma, in piazza della Minerva, sostiene sul dorso un obelisco egizio. Come si vede, la descrizione dei due animali non è di tipo scientifico: alla razionalità del termine tecnico zoologico si sostituisce l’evocazione mitica della metafora. Ciò sposta l’interesse dal campo della documentazione reale e oggettiva a quello dell’impressione fantasiosa e soggettiva.

3.

Il tempo cronologico: dal presente al passato

In questo clima di irrazionalità il tempo cronologico assume grande importanza; è il necessario e continuo punto di riferimento di Cecchi, ma sfugge all’autore che lo rincorre, rimanendo tempo indeterminato e ritraendosi dal presente verso una sempre più remota antichità. L’immagine della mummia (11) è il primo cenno al passato, col quale l’autore in seguito si confronta, comprendendo di essere legato ad esso da un oscuro rapporto di dipendenza e di sentirsi l’ultimo erede portatore di una serie di valori vacillanti, alla distruzione dei quali egli stesso contribuisce con una libidine di distruzione (16-17). Anche col ritratto dell’elefante si pone il confronto tra Cecchi e il remoto passato: l’elefante è una massa senza tempo (33) che pareva lì a negare il Tempo […] e addirittura a stritolare e sperdere anche il piccolo, lo straziante, piccolo tempo che m’è toccato (33-35). Si fa luce l’idea nostalgica che l’antichità costituisce un valore, mentre il presente è un non-valore, una profanazione, una dissacrazione.

4.

La riflessione sull’umanità

Dall’antichità ad oggi l’uomo è decaduto, anche se i moderni preferiscono credere all’Evoluzione (86), la quale altro non è che una gerarchia scientifica degradante (86-87). Tale pensiero occupa buona parte dello scritto e ne costituisce il senso. L’impegnativa descrizione della bestia conduce all’ardua riflessione sull’uomo. Le componenti di questa considerazione amara (che oggi definiamo reazionaria) sull’umanità sono: 1. la città si crede viva (scintillava una festa 38, allegrezza 39, soddisfazione 40, banchi tutti infiorati 40-41, danza 41) ma in realtà è morta (I vecchi negli ospizi lontani, le popolazioni delle chiese deserte e dei musei aspettavano l’ombra e l’eternità 48-50); 2. lo zoo contrapposto alla chiesa; 3. animali «vivi» e inutili, opposti ad animali «morti» e simbolici di virtù e vizi; 4. animali di carne contro animali di pie-


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XX.

13.4.2012

Le bestie sacre - Analisi del testo

13:45

Pagina 231

231

tra; 5. animali con nome e età, opposti a bestie anonime e senza anni; 6. uomini moderni senza fede, opposti ad uomini antichi con una fede; 7. i moderni e la loro distanza dal cercopiteco, contro gli antichi e la loro distanza da Dio; 8. moderni e bestie, opposti ad antichi e dei; 9. lo sguardo indietro di chi si sente attuato, contro lo sguardo avanti di chi si vuole attuare; 10. riconoscenza al gorilla, contro riconoscenza a Dio. Il lettore deve passare attraverso queste fitte antitesi che qualificano un mondo di stampo manicheista, dove però il bene e il male non coesistono nel tempo ma si separano agli estremi della linea del Tempo, così che il Passato è Bene, il Presente è Male. I riferimenti alla scimmia e all’evoluzionismo fanno sì che questa «querelle des anciens et des modernes» sia una inequivocabile dichiarazione di principio, carica di acidità e di rabbia; la violenza sta però solo nella forza dello stile, non in quella di una (inesistente) argomentazione: sfogo di poeta, non elaborazione di filosofo.

5.

Gli animali

Numerosi e importanti, meritano di essere passati in rassegna. Eccone l’elenco: 1. canguro (con le metafore 1.1. avvoltoio, 1.2. uccello), 2. elefante (con le metafore 2.l. serpe, 2.2. [occhio] suino, 2.3. pulcino), 3. scoiattoli, 4. pollame, 5. scimmie, 6. leoni, 7. elefante o rinoceronte, 8. uccelli, 9. aquila, 10. testuggini, 11. leoni, 12. scimmie, 13. serpente, 14. serpente, 15. cercopiteco, 16. gorilla, 17. scimmia, 18. cavalli, 19. asino. Essi si distinguono in cinque gruppi: a. animali vivi dello zoo (1-6), b. un animale di un dipinto (7), c. animali simbolici del passato (8-13), d. animali simbolici del presente (14-17), e. animali vivi fuori dallo zoo (18-19). In genere si osserva che un animale che compare in un gruppo non ricompare in un altro gruppo, segno di suddivisioni non casuali ma calcolate, che permettono di parlare di vero e proprio sistema e non di giustapposizione. Soltanto la scimmia (5, 12, 16-17) e il serpente (13, 14) fanno eccezione. La scimmia è l’animale che esprime l’idea portante del testo: la condanna sarcastica della teoria dell’evoluzione. Il serpente è l’animale che, di quell’idea, rappresenta il momento più direttamente religioso. Si tratta di due scelte alle quali Cecchi affida due manifestazioni del Male: il serpente-Satana schiacciato giustamente dalla Vergine e la scimmia-Uomo esaltata ingiustamente da Darwin. Anche l’elefante (2, 7) compare in gruppi diversi, ma in 7 si ha un caso particolare e unico perché quell’elefante in realtà è un rinoceronte (come del resto sospetta Cecchi, che verosimilmente e stranamente sembra basarsi su un ricordo approssimativo di Longhi), e per di più è un dipinto. Esso rientra quindi nell’ambito dei paragoni, come già l’altro elefante-pulcino, statua romana. Dunque l’elefante non può essere collocato allo stesso livello della scimmia e del serpente; lo mostra anche il fatto che esso nello scritto sia il punto di partenza (col canguro: entrambi fossili viventi) verso l’enunciazione della tesi antievoluzionistica. E a rovescio si noterà come né per la scimmia né per il serpente vi siano riferimenti ad una cultura laica, artistica e moderna, come invece è il caso per l’elefante (scultura del Seicento; pittura del Settecento). Come abbiamo visto, gli animali del passato (8-13) si oppongono a quelli del presente; tuttavia nell’ambito del presente vi è anche l’opposizione tra gli animali dello zoo (1-6, 14-16) e quelli estranei ad esso (18-19). Non basterà l’osservazione, del


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 232

Emilio Cecchi resto ovvia, che 18-19 sono animali normalmente estranei ad uno zoo; si dovrà pure considerare che l’autore affida al cavallo una parte importante, anche se fugace, perché ne fa l’animale quotidiano, amico dell’uomo (traina le carrozze), nel quale egli non può leggere la storia passata, come nell’elefante (anche se ne ha il timore). E ancora si noterà come questo cavallo ceda il posto ad un suo consimile, un asino allegro (118119), anche se incute paura per un che di satanico e grottesco. L’asino ride, con consapevolezza umana, non si sa se della stupidità degli evoluzionisti, della paura dell’autore, dell’inutilità della “querelle”, o di che altro; e chiude così il pezzo di bravura su quella nota di incertezza, di indecifrabilità con la quale esso si è aperto.

6.

La citazione dotta e altre note di stile

Cecchi nei suoi saggi letterari mostra spesso il gusto dei riferimenti alla storia e all’arte, nella forma di geniali raffronti intuitivi volti a mettere in luce pieghe riposte e aspetti invisibili della realtà. Anche in questo brano di prosa creativa si manifesta questa tendenza colta, con lo stesso intento ed effetto di preziosità stilistica ad alto livello. La mente dell’autore lavora per associazione, per analogia, come si vede bene a proposito dell’elefante. La rugosità della pelle del pachiderma gli richiama i segni egizi, metafora preziosa in sé stessa per il suo calligrafismo ma anche ricercata per il connubio coll’animale sul piano dell’esotico, quindi del non usuale, del raro. Ma il processo elaborativo è anche più impressionante perché l’insieme elefante + segno egizio (cioè realtà + metafora) diventa un tutto reale che richiama l’elefante della Minerva: nuova metafora della quale le componenti sono l’elefantino e l’obelisco egizio (entrambi realtà scultorea). Così i segni egizi si spostano dalla pelle dell’elefante dello zoo di Roma all’obelisco sull’elefante-pulcino di una piazza della stessa Roma. L’altro interessante richiamo è quello di una tela di Longhi, pittore veneziano (1702-1785) noto specialmente per aver dipinto interni con scene di vita signorile della sua città, ma che qui è ricordato per un dipinto particolare: Il rinoceronte (oggi al Museo di Ca’ Rezzonico, a Venezia). La descrizione che Cecchi fa del quadretto longhiano è solo in parte fedele, se confrontata coll’originale, e nasce da un ricordo impreciso dell’opera che sembra però essere sufficiente allo scopo. Cecchi non si è certo curato di una verifica puntuale, perché in tal caso avrebbe notato varie differenze, prima fra tutte quella dei tre dottori di Padova (53-54) con maschera bianca: in realtà sono raffigurati otto personaggi, uno solo (maschile) con maschera bianca e uno (femminile) con maschera nera. In tal modo la presunta capacità di quei personaggi di trattar la Natura con dignità e distacco, con la corretta disumanità indispensabile (5657) è un’interpretazione scorretta: gli astanti sembrano solo spettatori incuriositi di fronte a quello che fu il primo rinoceronte giunto in Europa, dopo quello che nel 1515 Dürer raffigurò in una sua silografia. Eppure su questa interpretazione regge il paragone dell’autore. La stessa lacunosa precisione espressa per i personaggi vale anche per l’animale: un elefante o un rinoceronte, insomma una di coteste immondezze (54). La ritroviamo anche nelle enumerazioni, che contano per la disordinata quantità degli elementi, non per la qualità che ne contraddistingue i rapporti: all’elefante erano rotolati sul dorso i terremoti e gli sfaceli, le rivoluzioni, gl’interregni e i galoppi delle cavallerie di Napoleone (28-29); oppure: Io ho conosciuto gli elefanti


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XX.

13.4.2012

Le bestie sacre - Analisi del testo

13:45

Pagina 233

233

storici. Quelli di Ramsete e quelli di Psammetico, quelli di Kipling, di Pirro e il pulcino di piazza della Minerva (31-32), dove il punto sintattico dopo storici rende ellittica del verbo la serie (pure ellittica sul piano storico e fatta di elementi non in ordine cronologico); serie che fa capo alla storia, alla letteratura (Cecchi si è occupato di Kipling), all’arte. L’idea di disordine, di matassa (che connota disordine culturale e morale) è del resto presente nella pur breve e complessiva definizione dello zoo: bestiale carname, fetido e groviglioso (47). E ancora, sul finire della composizione, si pigiano entro lo stesso periodo sintattico Venere, Giunone, le chiese di S. Pietro e Westminster, i pellegrini in Terrasanta, in un impasto che ricorda Baldini, amico di Cecchi e compagno di esperienze letterarie. Altro importante riferimento dotto è nel paragone del giovane che, davanti alla gabbia del leone, stava senza accorgersene in una posa da Sordello (44-45). Cecchi allude all’episodio che si trova in Dante Alighieri (Purgatorio VI 58-75): Ma vedi là un’anima che, posta sola soletta, inverso noi riguarda: quella ne ’nsegnerà la via più tosta». Venimmo a lei: o anima lombarda, come ti stavi altera e disdegnosa e nel mover de li occhi onesta e tarda! Ella non ci dicea alcuna cosa, ma lasciavane gir, solo sguardando a guisa di leon quando si posa. (58-66)

Di Sordello, poeta duecentesco mantovano, Cecchi ricorda la scultorea posizione di solitudine sdegnosa. Come si vede, anche in questa considerazione di Cecchi è un virtuosistico richiamo di paragoni: il giovane davanti al leone è simile a Sordello, che Dante paragona al leone; così che Sordello, da parte reale (figurato) in Dante, si sposta a parte metaforica (figurante) in Cecchi, mentre il rovescio avviene col leone metaforico dantesco (figurante) che è reale in Cecchi (figurato). L’Alighieri forse è ricordato anche lessicalmente nel codino arroncigliato (30) dell’elefante. Il Grande dizionario della lingua italiana di S. Battaglia cita questo aggettivo con l’indicazione di antico e letterario, e lo documenta in G. Cavalcanti, Buonarroti il giovane, Viani e Cecchi (l’esempio che ci concerne); ma alla voce «arroncigliare», sempre con le stesse indicazioni, cita anche Dante, Inferno XXII 35: e Graffiacan, che li era più di contra, li arruncigliò le ’mpegolate chiome e trassel su, che mi parve una lontra. (34-36)

Siamo, con Dante, in un momento grottesco e ricco di presenze animali (delfini, balena, ranocchi, rana), dove il diavolo Graffiacane (nome anch’esso animalesco) afferra un dannato per i capelli, a mo’ di uncino, e lo solleva facendolo sembrare una lontra, gocciolante della pece bollente in cui è immerso. È probabile che Cecchi scelga arroncigliato pensando proprio a quel passo di Dante, che gli sarà sembrato non molto distante dal contesto animalesco del suo zoo. Sempre nell’ambito lessicale meritano considerazione altre forme rare, letterarie o almeno di tradizione circoscritta. La forma bestemmiatoria (80) è indicata


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 234

Emilio Cecchi dal Battaglia come rara e letteraria; vengono date soltanto due testimonianze, entrambe di Cecchi (una nel passo in esame). Anche per groviglioso (47), nel senso estensivo di «caotico», il solo esempio citato è quello del testo in esame. Per fogliosi (74): Palladio volg., Domenichi, Bartoli, Roberti, Pindemonte, Mamiani, Tecchi, ma nel senso di «pieno di foglie; rivestito di foglie; frondoso». Nel senso invece di «decorato con fregi a forma di foglie» è testimoniato soltanto il passo di questo testo di Cecchi. Per intimpanita (8), voce toscana, sono testimoniati Tommaseo, Dossi, D’Annunzio, Cecchi (il nostro esempio). Per blaterando (114), voce dotta, esempi in Manzoni, Tommaseo, Rajberti, Arlia, Rigutini-Cappuccini, Giacosa, Croce, Cecchi (il nostro esempio), Bacchelli. Più ampia la testimonianza per guardatura (110): Bibbia volg., Pucci, Boccaccio, s. Caterina da Siena, Boiardo, Machiavelli, Firenzuola, G. Bargagli, Giuglaris, Gozzi, Manzoni, Leopardi, Verga, D’Annunzio, Gadda; ma manca l’esempio di questo testo di Cecchi. Anche per barbato (97), letterario, sono addotti esempi di Ariosto, Firenzuola, Alamanni, Panni, Leopardi, Tommaseo-Rigutini, Pascoli, D’Annunzio, Panzini, Baldini, ma non il caso in esame di Cecchi. Stessa cosa per leprina (5): D’Annunzio, Nannini, Dossi, ma non Cecchi. Lo spoglio lessicale del Battaglia non è completo: non tutte le opere scritte in italiano sono considerate, e nemmeno tutte le letterarie; tuttavia i riscontri in molti casi sono una preziosa testimonianza per studi sulla lingua e sulle fonti di un autore. D’altra parte se le voci interessanti di questo testo di Cecchi non devono indurci a precipitose considerazioni sulle sue scelte linguistiche, resta però vero che i casi che abbiamo esaminati sono in una certa misura indicativi del lessico di Cecchi: presenza di radicati vocaboli toscani (anche se a volte rari o letterari) e ricerca, per bisogni espressivi, di vocaboli estranei alla tradizione (con sospetto di apax legomena – ossia parole usate dallo scrittore una sola volta – nel settore dell’aggettivazione). Meritano da ultimo un cenno gli pseudo-ossimori: nuvola di pietra (36), cupole di fogliame (50), capitelli fogliosi (74), tutti in un medesimo ambito.


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 235

XXI.

Commiato di un fabbricante di novelle

XXI.

Commiato di un fabbricante di novelle

235

Massimo Bontempelli (1878-1960)

Era il cinque novembre del 19**; e da pochi giorni il tepore dell’autunno aveva ceduto ai primi freddi dell’inverno imminente. Un languido sole mattutino entrava, dalle fessure delle imposte sconnesse, nella mia cameretta… Quale piacere poter cominciare così! Ma non ho mai potuto concedermene il lusso, perché tale era la maniera degli scrittori all’antica, mentre io sono, o meglio fui, un novellatore moderno, e ho sempre dovuto ricorrere ai principii impressionistici che son venuti di moda coi tempi nuovi. Ma poiché qui per fortuna non si tratta di una novella, ma di un ricordo personale, destinato per di più a rimanere perennemente inedito, posso permettermi finalmente di cominciare: Era il cinque novembre del 19**, eccetera. Quel sole mi svegliò a mezzo: un forte busso all’uscio mi svegliò del tutto. L’uscio si aprì, ed entrò la mia padrona di casa. – Signore, oggi comincia il nuovo mese. Sono venuta per riscuotere… – Ma l’altro giorno le ho pagato tre mesate… – Sì, tre mesate scadute. E l’ho anche avvertita che, perché non si ripetesse più una cosa simile, d’ora innanzi le mettevo il patto di pagare anticipato. – Ma ora… – Lei ha accettato il patto. Le dò tempo sino a domani mattina a quest’ora. Se domani mattina a quest’ora – sono le dieci, se non lo sa – non ha trovato le quindici lire, dovrò pregarla di lasciar libera sùbito la camera, perché ho delle richieste. Se n’andò, e io stetti ancora un poco tra le lenzuola a pensare al da farsi. Pochi giorni innanzi avevo radunato con uno sforzo eroico tutte le mie risorse, e avevo messo insieme settantacinque lire. Quarantacinque a quella donna terribile per i detti tre mesi, venticinque d’acconto al trattore, uomo di più mite indole, e delle altre cinque un ultimo miserando e frammentario avanzo faceva in quel momento bella mostra di sé sul mio tavolino da notte, accanto a una scatola di fiammiferi. Bisognava fare una novella. Perché da due anni uno de’ miei guadagni era dato dall’arte narrativa. Il «Mercurio», quotidiano commerciale, allietava ogni domenica le famiglie dei suoi ab-

5

10

15

20

25


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 236

Massimo Bontempelli bonati con una novella di tre colonne, e spesso quelle novelle erano mie. Me le pagavano quindici lire. Ma da parecchie settimane m’era mancata la vena. Bisognava ritrovarla, e fare una novella. La sera l’avrei portata al giornale, e la mattina dopo avrei pagato la signora. Era un altro mese guadagnato sull’avvenire. Mi vestii. Sedetti al tavolino, e cominciai a cercare un soggetto. Non mi veniva nulla. Riandai in pensiero tutte le mie novelle passate. Da prima ne avevo scritto una quarantina d’argomento amoroso e d’ambiente aristocratico. Poi ero ricorso a ricordi della mia vita personale e precisamente del mezzo in cui ero vissuto prima di mettermi a fare lo scrittore, cioè quand’ero apprendista presso un imbalsamatore di uccelli; vi avevo passato tre anni della mia adolescenza e poi lo avevo abbandonato per tentare altre fortune. Ma negli ultimissimi tempi, poiché avevo trovato qualche buon incerto copiando parti per una compagnia drammatica, la mia vena novellistica era stata in riposo. – Ora le parti erano finite e il mese era cominciato. E io non trovavo nulla.

30

35

40

* Allora mi ricordai d’un consiglio letto nel libro di non so più quale retore: «tutti i soggetti nell’arte sono buoni purché sieno sentiti. Per trovarne non hai che guardarti attorno, scendere in istrada, passeggiare per la piazza del tuo paese». Mi guardai attorno, ma non vidi che il letto sfatto, un cassettone sgangherato, l’acqua sporca nella catinella, la mia vecchia valigia di tela color cavallo sauro, e, di là dalla finestra, molti tetti arrossati dal sole che ascendeva nel cielo. Da qualcuno di quei tetti uscivano spire di fumo; il vetro di qualche abbaino lustrava. Mi parve poco. Discesi in istrada e cominciai a passeggiare. Quando fui in fondo alla via e volevo svoltare per raggiungere una piazza secondo il consiglio del mio retore, trovai il crocicchio completamente ostruito da una folla di persone che gridavano. Il cuore mi sussultò di speranza. Mi cacciai in mezzo a quella gente. Rottosi un filo del tranvai elettrico, il primo carrozzone sopravvenuto aveva dovuto fermarsi di colpo, e dietro s’erano dovuti fermare tutti gli altri sette od otto, gialli e neri, brulicanti sulle piattaforme di gente che guardava e bestemmiava. La ressa dei curiosi si faceva sempre più fitta. Qualcuno vociferava che fosse accaduto una disgrazia. Dalle quattro parti del crocicchio sopraggiungevano carrozze e automobili e tutte naturalmente dovevano fermarsi. Molti curiosi s’affacciavano alle botteghe e alle finestre. La vita si era arrestata in quel punto della città; per questo esso era così movimentato e rumoroso. Il contrasto contenuto in quest’osservazione mi piacque. Intanto cominciai a pensare all’intrico che poteva nascere da quella situazione modernissima. Una signora dell’alta società ama un giovane povero e d’ingegno – com’ero io, per esempio – e va, in automobile s’intende, al luogo del convegno. L’incidente di strada la ferma, ella impreca contro la fatalità e maledice al servizio dei tranvai che n’è causa. Ma proprio in quel carrozzone che s’è arrestato per primo c’è l’amante. Anzi, la voce della disgrazia è vera: il filo cadendo ha fulminato un giovane. Questo giovane è lui. L’idea mi piacque. Cercai di spingermi più avanti ancora, nella speranza di vedere davvero la scena. Mi sarebbe piaciuto che la vittima non fosse morta del tutto, e avevo bisogno di osservare i movimenti del corpo torturato dall’elettricità per poterlo descri-

45

50

55

60

65

70


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XXI.

13.4.2012

Commiato di un fabbricante di novelle

13:45

Pagina 237

237

vere efficacemente. Se non che durante la mia meditazione il servizio s’era riattivato e la circolazione degli uomini e dei rotabili a poco a poco riprendeva regolarmente il suo corso. Ero perplesso. Dovevo dunque rinunciare alla descrizione dell’uomo semielettrizzato che lì per lì m’era apparsa come il punto più nuovo e interessante del mio racconto? Mentre così meditando mi lasciavo meccanicamente trasportare dall’ultima corrente delle persone che s’allontanavano, sentii una mano posarmisi sulla spalla e una voce chiamarmi. Appunto era uno dei comici della compagnia per cui avevo copiato certe lacrimevoli parti. Forse avevano altro lavoro da darmi? Egli mi prese sotto braccio con una familiarità che in quel momento mi piacque. Non era veramente un numero importante della compagnia: un generico per le ultime parti. Cominciò a discorrermi con grande volubilità di cose diverse, che io riuscivo a mala pena a intendere. Neppure sapevo esattamente che direzione avessimo preso. Mi guidava lui con dolcezza sempre parlandomi e tenendomi per il braccio. Ma a un certo punto m’accorsi che c’eravamo fermati davanti a una trattoria: la mia. Egli s’interruppe dicendomi: – Voi forse andate a far colazione? M’invitate? – Certo. Mangiava e parlava: alla fine riuscii a dir qualche cosa anch’io. – Per caso, nella vostra compagnia c’è allo studio qualche novità? Sapete, per le parti. – Ma come? Non siete al corrente; dove vivete? Io non ci sono più in quella lurida compagnia. E m’abbozzò il racconto di un oscuro intrico di vicende di palcoscenico, per cui egli era stato messo fuori. Concluse: – Anzi, voi che siete nella stampa, se aveste modo di appoggiarmi… Senza rendermene conto dovetti abbozzare un gesto così desolato, ch’egli se n’andò quasi sùbito, ringraziandomi con effusione. Io rimasi ancora un poco per pregare il trattore di aggiungere quello straordinario al mio conto, e per pensare al da farsi. Bisognava ricominciare a cercare la novella. Mi pentii di non essere stato più attento al racconto del comico. Forse in quel garbuglio c’era qualche buono spunto. Ma assolutamente non mi riusciva di ricostruirlo; bisognava tornare al consiglio del retore, guardarsi intorno, camminare per la strada. Attorno non c’era quasi più nessuno. Solo a un tavolino due persone s’indugiavano a discorrere; l’una dall’aspetto molto umile, l’altra dalla voce molto imperiosa. Ascoltai un momento: dalle loro chiacchiere capii in breve che si trattava di un professore delle scuole secondarie e di un viaggiatore di commercio: due categorie assai poco simpatiche ai lettori di novelle. Uscii.

75

80

85

90

95

100

105

110

* Arrivai a una piazza, ov’erano due grandi fabbricati, 1’uno di fronte all’altro: uno stabilimento per la lavorazione meccanica del legno, e l’ufficio locale della direzione delle Ferrovie dello Stato. Una cosa attrasse la mia osservazione. Una specie di corrente mista di persone, arrivando fino allo sbocco della strada nella piazza, a quel punto si veniva a

115


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 238

Massimo Bontempelli dividere: i lavoratori del legno verso il palazzo di sinistra, i lavoratori della pratica emarginata verso quello di destra. Colsi in breve i caratteri principali e differenziatori degli individui di ognuna delle due schiere. Poi mi divertii, voltando le spalle alla piazza e guardando verso la strada, a riconoscere quelle differenze quando gli uomini dei due ceti erano ancora commisti. Mi parve d’aver trovato una buona fonte di umorismo. Immaginai un anziano in blusa e berretto che s’avanzasse verso me camminando al fianco di uno più giovane in pastranello e cappello duro. L’anziano è ben conservato, forte, soddisfatto; l’altro emaciato e timido; giungendo alla piazza si salutano e si separano. Il primo è il padre, l’altro è il figlio che l’ambizione paterna ha voluto guidare a più nobili destini. Ma poi? Mentre mi sforzavo d’inventare il sèguito, d’improvviso mi parve che il mio spunto umoristico emanasse un orribile puzzo tra di componimento scolastico e di letteratura di propaganda. Tomai indietro e camminai per un’ora buona alla ventura, senza vedere o pensare nulla che mi paresse degno di nota. Un’insegna luminosa attrasse la mia attenzione in uno dei punti più centrali della città. Se non fosse bastata l’insegna, la voce nasale e squarciata di un grammofono avrebbe richiamato anche i più lontani. Entrai nella grande sala quadrata e luminosa dei fonografi pubblici. Non conosco nulla che sia più macabro e più profondamente istruttivo di quella fila di gente silenziosa lungo le tre pareti bianche, accomodati ciascuno in una poltrona in faccia al muro nudo. Chi gli sorride, a quel muro; chi gli fa boccacce; chi aggrotta le ciglia; chi rimane impassibile, ma è chiara nel suo volto una tensione interiore, uno sforzo. Tutti quei silenziosi nella sala muta e vuota vivono una vita intima, che è una vita tutta sonora: il suono che giunge alle orecchie di ognuno, di lui solo e non degli altri, dal microfono ch’egli s’è appoggiato delicatamente entro l’orecchio, dopo aver scelto con cura il numero di un pezzo preferito. C’è soltanto una coppia, due fidanzati borghesi, che scelgono insieme perché vogliono sentire lo stesso numero, e mentre ascoltano s’ammiccano con lo sguardo, forse ai punti più patetici della romanza. E c’è un assiduo che, riconosciuto un altro assiduo dall’altra parte della sala, si volta un momento sulla spalliera per salutarlo, più sommessamente che può, e dargli un suggerimento cordiale. – Senta il numero 54, è una novità: Caruso nell’«Iris». Qualcuno più indifferente non sceglie, si affida al caso. Ecco si rifà nella sala il silenzio, ognuno ricade nella sua attenzione maniaca. Penso che quel luogo stupido è una immagine perfettissima e amara della vita, nella quale ognuno non sente che una voce, non conosce che un mondo, la sua propria voce, il suo mondo interiore; quello che egli ha saputo suscitare dentro di sé, o che gli fu suggerito, o che ha accettato dal caso, ma che ora è tutto suo, perché qualunque sforzo di comunicazione l’uomo faccia per aprirsi all’altr’uomo è inefficace e inutile. Tutta la società umana è una sala di buoni borghesi intento ognuno ad ascoltare il suo fonografo. Si illude di partecipare a una vita comune, e si maraviglia o si stizzisce che, mentr’egli sente una voce gaia, il vicino mostri una faccia malinconica; che, mentre egli è soddisfatto, il vicino brontoli: – Così non si può andare avanti –. Anche i due fidanzati che si sorridono credendosi uniti in una comune impressione, sentono una voce diversa. E forse non hanno fatto agire il meccanismo nell’identico istante, e mentre l’uno si delizia al gorgheggio, l’altra ansima su d’una lunga nota coronata. Non potranno accorgersene che da ultimo: uno avrà finito, quando l’altro ne avrà ancora per un po’. Pazienza.

120

125

130

135

140

145

150

155

160


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XXI.

13.4.2012

Commiato di un fabbricante di novelle

13:45

Pagina 239

239

C’era da cavarne una novella nuova e sentimentale. Ma intanto m’accorgevo d’essere ridicolo, piantato lì in piedi a guardare gli altri.Vidi una poltrona vuota, mi vi posi, introdussi i miei due soldi. Dopo la romanza dell’«Elisir d’amore» ficcai altri due soldi e mi sentii 1’«Addio al cigno». E così per altre quattro volte, quasi meccanicamente. Dopo il sesto pezzo tutte le mie economie erano esaurite e io uscii di là perfettamente cretino. Incontrai un amico che doveva partire alle due di notte per causa di una avventura amorosa: perciò m’ipotecò, mi condusse a pranzo, poi a un caffè-concerto, sempre raccontandomi i più minuti particolari dell’avventura. Era beato d’avere un ascoltatore tanto docile.Alla fine si fece accompagnare alla stazione e mi offrì anche il biglietto d’ingresso. Ma nella sala d’aspetto avendo incontrato la persona misteriosa che doveva partire con lui, mi piantò. Non c’era nessuno. Mi sdraiai su di un divano, stanco morto com’ero per la giornata laboriosissima, e in breve m’addormentai.

165

170

* La mattina dopo ebbi un risveglio un po’ brusco di cui non ricordo i particolari. Uscii dalla stazione calcolando tra me: – La mia casa è al punto diagonalmente opposto della città: prima di arrivarci avrò trovato l’argomento della mia novella. Nel tragitto vidi governanti che portavano a spasso i bambini, soldati che tornavano dagli esercizi, alcuni uomini che andavano in fretta, altri che andavano piano, qualche cane, pochi cavalli, molte automobili; insomma nulla d’interessante. Arrivato quasi alla mia casa, pensai con terrore alla padrona e alla discussione che m’aspettava. – Se mi tratta come ieri, questa volta le rispondo per le rime. Purché non esca fuori quel tanghero che vive con lei e la sfrutta così indegnamente. Per questo, a dire il vero, lei mi fa piuttosto pietà che ira. Dicono che ha una bambina al collegio; la mantiene col suo lavoro, dopo che il marito l’ha abbandonata per andare in America. Per ciò sta tanto attaccata al danaro. E forse è per causa della bambina che quel tanghero la tratta così male. Se attacchiamo lite, lo metto nelle mani della Questura. Giusto sotto me sta un ufficiale di Pubblica Sicurezza. È vero che quand’è in casa dice che s’interrompono le sue funzioni e che anche se vedesse co’ suoi occhi un omicidio sul pianerottolo se ne laverebbe le mani. Bell’ambiente da viverci! Però da studiare sarebbe interessante. Come non ci ho mai pensato? Combinandolo con le due modiste del terzo piano, e con l’improvviso ritorno a casa della ragazzina, di cui le monache del collegio hanno d’un tratto conosciuto la famiglia, ne uscirebbe addirittura un novellone lungo per il fascicolo straordinario che il «Mercurio» fa uscire a Natale: dieci colonne. Venti lire invece di quindici. Me ne avanzano cinque per divertirmi. In tal modo pensando avevo varcato il portone ed ero già salito passo passo fino al primo piano. La mia fantasia improvvisamente si accese; tutti i fili della novella intravista mi si disegnavano lucidi alla mente. Arrivando al secondo piano possedevo tutta la distribuzione dell’ordito, ben chiara. Nell’ascendere dal secondo al terzo inventai la conclusione della novella: una conclusione ardita, nuova, di grandissimo effetto. Al terzo ripiano vidi uscire una delle due modiste e pensai che il principio del mio racconto poteva inscenarsi appunto così: un letterato che sale e una modista che scende. Al quarto pianerottolo tutto tutto era già pronto nella mia mente, non mi rimaneva che mettermi a scrivere. Feci di volo l’ultimo ramo di scale, e mi trovai dinanzi al mio uscio.

175

180

185

190

195

200


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 240

Massimo Bontempelli Davanti all’uscio c’era la mia valigia di tela color cavallo sauro. Appiccato all’uscio con due puntine da disegnatore, un biglietto di visita:

205

TACCHINI PALMIRO RAGIONIERE

Tutto ciò era eloquente; tuttavia mi fermai un momento, nell’improvvisa scossa e mutazione di corso che avevano avuto i miei pensieri. In quella passò un inquilino del corridoio di fondo, ch’io conoscevo vagamente. Gli domandai: – Scusi, che ora è? – Sono le undici e mezzo. – Grazie. Ridiscesi, con la valigia. Ero tranquillo: avevo visto sùbito che la situazione non era poi troppo critica. Non c’era che andarmi a cercare un’altra stanza, da pagare posticipata. Un mese guadagnato, e per il momento non c’era urgenza di scrivere novelle: una liberazione. Infatti non ne ho scritte mai più, perché durante quel mese la mia vita s’è rivolta verso più luminosi destini.

Testo di riferimento M. BONTEMPELLI, Primi racconti, Milano, Mondadori, 1934, pp. 347-356.

210

215

220


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 241

XXI.

Commiato di un fabbricante di novelle - Analisi del testo

XXI.

Analisi del testo

1.

Riassunto dell’intreccio

241

1. Il protagonista vorrebbe scrivere iniziando «all’antica», ma le regole moderne glielo vietano (1-7); trattandosi però di ricordi personali e non di una novella, può ora permettersi quell’inizio (8-10). 2. La padrona di casa concede al protagonista ventiquattro ore di tempo per pagarle gli arretrati ed evitare lo sfratto (11-20). 3. Il protagonista decide di scrivere una novella per ricavarne il danaro necessario (21-27). 4. Ricorda la sua attività di scrittore di novelle (28-42) e il successivo impiego in una compagnia teatrale (42-44). 5. Esce di casa e raggiunge una piazza affollata da gente in agitazione (4554) per la rottura di un filo del tram (55-63). 6. Decide di ispirarsi all’accaduto per scrivere la novella (63-77). 7. È raggiunto da un ex collega della compagnia teatrale che si fa invitare a pranzo e chiede un appoggio per cercare nuovo lavoro (77-100). 8. Rimasto solo, ascolta un dialogo tra un professore e un commerciante (101-108), 9. che ritiene inadatti a diventare personaggi di una novella (108-110). 10. Raggiunta un’altra piazza, osserva la gente che confluisce in due diversi posti di lavoro (111-120). 11. Decide di trarne ispirazione per la novella, ma desiste (120-128). 12. Entra in una sala pubblica di grammofoni per ascoltare musica (129-132). 13. Riflette alla desolazione di quella sala (133-161), decide di farne una novella e ascolta a sua volta vari brani musicali, spendendo gli ultimi soldi di cui dispone (162-167). 14. Incontra un amico che, cenando, gli racconta una sua avventura amorosa (167-170). 15. Accompagnatolo alla stazione, dorme nella sala d’attesa (170-173).


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 242

Massimo Bontempelli 16. La mattina dopo rientra a casa senza vedere situazioni interessanti (174-180). 17. Pensando a ciò che lo attende, trova un argomento per la novella (180-204). 18. Trovato lo sfratto e la camera occupata da un altro (204-215), va alla ricerca di una nuova camera, libero dall’impegno di scrivere la novella (216-219). 19. Afferma di non aver più avuto bisogno di scrivere novelle (220-221).

2.

L’organizzazione della materia

Tre stacchi tipografici, rafforzati ciascuno dalla presenza di un asterisco, suddividono il testo in quattro zone: I 1-4, II 5-9, III 10-15, IV 16-19. Nella zona I, che è un’ampia situazione iniziale, il protagonista riceve l’ultimatum dall’affittacamere ed esce di casa; nella zona II cerca ispirazione per la novella fino a mezzogiorno; nella III continua la ricerca fino a notte; nella IV rientra a casa e trova lo sfratto. Si tratta di una giornata completa (poco più di 24 ore, quanto basta per derogare al limite imposto dall’affittacamere), scandita dal momento del pranzo (in II) e della cena (in III). In II il protagonista trova due occasioni per comporre la novella; in III altre due; tutte e quattro finiscono in un nulla di fatto. In IV, quando non dovrebbe, trova l’argomento della novella, ma lo sfratto ne determina l’inutilità. Pertanto II + III si oppone a IV; e d’altro canto I si oppone a IV. In II le occasioni di ispirazione sono in antitesi: agitazione e molta gente (punto 5) contro calma e poca gente (punto 8); in III sono ancora opposte: agitazione e molta gente (punto 10) contro calma e poca gente (punto 12). Al motivo ispiratore segue il consenso dell’autore (rapporto di causa-effetto): in II il punto 5 conduce al 6 e il punto 8 conduce al 9; in III il punto 10 conduce all’11 e il punto 12 conduce al 13. Come si vede non c’è corrispondenza perfetta, perché la presenza delle due persone con cui il protagonista pranza e cena non è simmetrica. In III la collocazione sembra quella normale: la cena (14) segue le due esperienze (10-11; 12-13) ed è a sua volta seguita dalla notte alla stazione (15); in II invece il pranzo (7) si interpone tra un’esperienza e l’altra (5-6; 8-9). Si viene così a creare uno stacco che mette in risalto l’esperienza di 8-9; essa è anomala per un motivo formale (è la più breve; con 9 legato anche sintatticamente a 8) e per un più importante motivo contenutistico: si tratta dell’unico caso in cui il motivo ispiratore (8) è respinto (9). La responsabilità di quel fallimento spetta anche al professore, appartenente, come il viaggiatore di commercio, a una categoria poco gradita ai lettori: proprio l’uomo che rappresenta la cultura (letteraria?) concorre a far naufragare il progetto di composizione di una novella. Se si prescinde da 15 (il tempo narrativamente morto della notte), tutto il racconto appare costruito con corrispondenze serratissime: I 1-4: quattro parti II 5-6; 7; 8-9: cinque parti [a, b, a] III 10-11; 12-13; 14 (15): cinque (sei) parti [a, a, b] IV 16-19: quattro parti


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 243

XXI.

Commiato di un fabbricante di novelle - Analisi del testo

3.

«Racconti» e «non racconti» nel racconto

243

Fin dai danteschi Paolo e Francesca (che si innamorano leggendo gli amori di Tristano e Isotta) si fa strada in letteratura, sia essa poesia o prosa, il tema del libro nel libro. Quando qualcuno ne farà la storia (magari parallelamente a quella del «dipinto nel dipinto») sapremo meglio che cosa succedeva negli anni di questo racconto di Bontempelli, e quanto interesse quella pratica antica presentava all’inizio del secolo per le possibilità espressive che era in grado di offrire. Questo testo di Bontempelli è la narrazione (racconto I) dei tentativi di scrivere una novella, fatti dal protagonista (narratore 1): da quando esce di casa il mattino a quando vi rientra il mattino dopo. Questi tentativi iniziano quando il narratore fa proprio il precetto dell’osservazione diretta della realtà (tutti i soggetti dell’arte sono buoni purché sieno sentiti. Per trovarne non hai che guardarti attorno, scendere in istrada, passeggiare per la piazza del tuo paese 46-47). Dall’osservazione il narratore 1 elabora mentalmente la trama della novella, fornendoci così degli embrionali racconti nel racconto (racconto II 1-6). Ma c’è di più. Il narratore 1 incontra un ex collega di lavoro teatrale (narratore 2) che gli narra fatti autobiografici; in seguito il narratore 1 incontra un vecchio amico (narratore 3) che pure lui gli racconta vicende personali. Abbiamo perciò due altri racconti nel racconto (II A 1-2). Schematizzando (i numeri sono quelli delle zone del riassunto): 1-4 5-6 7 8-9 10-11 12-13 14 15 16-19

racconto I racconto II 1 racconto II A 1 racconto II 2 racconto II 3 racconto II 4 racconto II A 2 racconto I racconto II 5 racconto II 6 racconto I

(abbozzato) (non narrato) (irrealizzabile) (abbozzato) (abbozzato) (non narrato) (irrealizzabile) (delineato)

narratore 1 narratore 1 narratore 2 narratore 1 narratore 1 narratore 1 narratore 3 narratore 1 narratore 1 narratore 1 narratore 1

Gli 8 racconti nel racconto (cioè II 1-6, II A 1-2) rappresentano livelli differenti di elaborazione della narrazione. Il grado più basso (in effetti si tratta di grado zero) è rappresentato da II 2, che è un racconto impossibile perché i due personaggi sono inadatti ad una novella; e da II 5 in cui l’impossibilità è dovuta alle persone e cose incontrate: nulla d’interessante (180). Il grado successivo (siamo già nei racconti possibili) è quello dei racconti II A 1-2. Nel primo di essi il comico teatrale parla con grande volubilità di cose diverse, che io riuscivo a mala pena a intendere (83-84), e la narrazione non è messa a fuoco: m’abbozzò il racconto di un oscuro intrico di vicende di palcoscenico (95), tanto che il narratore 1 non gli presta più attenzione, anche se gli resterà un certo senso di colpa: Mi pentii di non essere stato più attento al racconto del comico. Forse in quel garbuglio c’era qualche buono spunto (102-103); nel secondo di essi un amico rac-


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 244

Massimo Bontempelli conta al narratore 1 una sua avventura amorosa (167-168) senza ometterne i più minuti particolari (169), ma anche qui non sappiamo di che cosa si tratti. Prendono invece una più chiara fisionomia i racconti II 1, II 3, II 4 che il narratore 1 compone attingendo alla realtà (persone, oggetti, situazioni della sua giornata di girovago). Si tratta pur sempre di una composizione esclusivamente mentale, che non riesce a prendere forma scritta se non in quello stadio di abbozzo programmatico che la mente ha pensato: una trama (o anche meno) spesso incompleta. In II 1, l’intreccio è quello di una vicenda amorosa ottocentesca (Una signora dell’alta società ama un giovane povero e d’ingegno 65) contaminata con una situazione novecentesca (situazione modernissima 64-65) in cui si prevede che l’amante muoia fulminato dalla corrente elettrica; quando poi il narratore 1, in vista di scrivere la novella, sente la necessità di osservare i movimenti del corpo torturato dall’elettricità per poterlo descrivere efficacemente (7273), aderisce al precetto verista di impassibile distacco scientifico dall’oggetto, con una consapevolezza piena: il punto più nuovo e interessante del mio racconto (76-77). In II 3 l’osservazione diretta della realtà conduce ad un racconto umoristico (Mi parve d’aver trovato una buona fonte di umorismo 120); ma poi il pericolo di farne un racconto propagandistico (mi parve che il mio spunto umoristico emanasse un orribile puzzo tra di componimento scolastico e di letteratura di propaganda 125-127) è causa dell’abbandono del progetto. In II 4 la sala dei fonografi, luogo stupido (148-149) dove è quasi impossibile socializzare (allegoria dell’incomunicabilità della società borghese contemporanea), potrebbe condurre ad una novella nuova e sentimentale (162) per la presenza di due fidanzati, ascoltatori (non sincronizzati) di uno stesso brano musicale. Il livello più alto di realizzazione del racconto è in II 6. Il narratore 1 pensa all’affittacamere, all’uomo che la sfrutta, alla bambina che (dicono le voci) sta in collegio, al marito fuggito in America, all’ufficiale di pubblica sicurezza da far intervenire contro lo sfruttatore, alle modiste del terzo piano, alle suore del collegio che ospitano la bambina. Si tratta di una serie ampia e diversificata di personaggi, dei quali il narratore indica una serie di rapporti reciproci, al punto che ne uscirebbe addirittura un novellone lungo per il fascicolo straordinario che il «Mercurio» fa uscire a Natale: dieci colonne (193-194). Salendo le scale di casa, poi, l’idea iniziale si specifica: La mia fantasia improvvisamente si accese; tutti i fili della novella intravista mi si disegnavano lucidi alla mente. Arrivando al secondo piano possedevo tutta la distribuzione dell’ordito, ben chiara. Nell’ascendere dal secondo al terzo inventai la conclusione della novella: una conclusione ardita, nuova, di grandissimo effetto. Al terzo piano vidi uscire una delle due modiste e pensai che il principio del mio racconto poteva inscenarsi appunto così: un letterato che sale e una modista che scende. Al quarto pianerottolo tutto tutto era già pronto nella mia mente, non mi rimaneva che mettermi a scrivere (197-204). Lo sfratto però vanifica l’entusiasmo creativo.

4.

La situazione letteraria d’inizio secolo e la fine di un genere

Il testo in esame rientra a giusto titolo nel genere del racconto, della novella (quest’ultimo è il termine più diffuso all’inizio del Novecento, almeno fino alla fine del terzo decennio, se si pensa anche solo ai titoli di D’Annunzio, Svevo, Tozzi,


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

XXI.

13.4.2012

13:45

Pagina 245

Commiato di un fabbricante di novelle - Analisi del testo

245

Pirandello). Bontempelli afferma però che qui per fortuna non si tratta di una novella, ma di un ricordo personale, destinato per di più a rimanere perennemente inedito (89). Il genere del ricordo personale e la destinazione all’inedito legittimano la scelta stilistica dell’inizio, consapevolmente effettuata in direzione arcaizzante (all’antica 5). Siamo perciò di fronte ad una insanabile contraddizione tra progetto e realizzazione dell’opera, tra la maniera degli scrittori all’antica (5) e il novellatore moderno (6). La vecchia maniera (desiderata ma respinta) è documentata appunto dall’incipit (1-3) ed è di marca tardo romantica; essa dovrebbe fare appello a considerazioni realistico-oggettive (ve n’è traccia nelle imposte sconnesse 3), come vuole l’eredità tematica delle Novelle verghiane e della corrente naturalistica in genere. La nuova maniera (indesiderata ma accettata) fa appello ai principii impressionistici che son venuti di moda coi tempi nuovi (6-7). Sembra che Bontempelli sia consapevole della situazione letteraria d’inizio secolo, com’è espressa da Benedetto Croce (Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari 1928): «La poesia e letteratura italiana […], da sublime nel Carducci, dolorosa e triste nei veristi, si cangiava in sensuale e impressionistica nel maggiore suo nuovo rappresentante, Gabriele d’Annunzio» (p. 165); e sembra sentirsi estraneo sia alle vecchie che alle nuove tendenze. Realismo oggettivo e impressionismo soggettivo si configurano perciò come i due elementi dell’antitesi su cui è condotto tutto il racconto (si vedano i termini ricorrenti: contrasto 63, differenziatori 117, differenze 119). In realtà gli elementi in gioco sono più di questi due. Al punto 4 ho già indicato tematiche e generi relativi ai racconti in fieri. Qui si aggiunga che nel racconto II 3 la considerazione sull’umorismo potrebbe ricondurre a Pirandello (il cui saggio sull’umorismo è del 19061908); e che la paura della letteratura di propaganda è espressa da Bontempelli nel 1914 in una recensione ad un romanzo di Bechi: «I seminatori di Giulio Bechi appartiene […] a quella fioritura di libri narrativi ispirati dalle recenti vampate d’esaltazione nazionalistica e di velleità conquistatrici. I pregi e i difetti sono dello stesso genere: uguale il difetto fondamentale, ch’è la preponderanza dell’elemento propagandistico, sopra la visione, sopra la creazione delle persone e dei loro sentimenti, cioè la vita stessa dell’opera» (Romanzi e novelle, «Nuova antologia», 171, 1914, p. 260). Ancora, che il racconto II 5 è impossibile a causa del tipo di gente incontrata: Nel tragitto vidi governanti che portavano a spasso i bambini, soldati che tornavano dagli esercizi, alcuni uomini che andavano in fretta, altri che andavano piano (178-180), cioè una tipologia umana fin troppo scopertamente crepuscolare. Il rifiuto del verismo verghiano, del dannunzianesimo, del crepuscolarismo, forse di certo pirandellismo fanno tabula rasa delle principali tendenze letterarie del primo Novecento. Se è vero che il Commiato, così come si presenta nel 1934, è un racconto degli anni 1909-1914, si vede come la rinuncia di Bontempelli a scrivere novelle sarebbe stata sostituita entro breve tempo da un impegno in direzione futurista che, con La vita intensa (1919) qui già presentita, avrebbe preteso ambiziosamente di rinnovare il romanzo europeo. Tra il serio e lo scanzonato, il Commiato vuole essere il canto del cigno dello scrittore in crisi, che non sa trovare una via d’uscita alla strada per lui impraticabile su cui si è messa la narrativa contemporanea e che si congeda dai lettori abbandonando la fabbrica della scrittura. Tale commiato è presentato dal narratore dapprima come conseguenza della propria sterilità creativa (da parecchie settimane m’era mancata la vena 31), poi come conseguenza dell’impossibilità di trovare fuori di sé, nella


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 246

Massimo Bontempelli realtà della cronaca quotidiana, opportuni soggetti di racconto, e da ultimo come conseguenza dell’inutilità inaspettatamente presentatasi di scrivere novelle (per il momento non c’era urgenza di scrivere novelle 218-219). La conclusione del testo dice che quell’inutilità momentanea diventò definitiva (non ne ho scritte mai più, perché durante quel mese la mia vita s’è rivolta verso più luminosi destini 220-221), e viene a suggerire che il mestiere di scrittore di novelle è giustificato soltanto da difficoltà economiche. Il progresso sociale e il benessere sarebbero dunque gli affossatori della novella. La trovata è comica e caricaturale; ciononostante il problema della sopravvivenza di quel genere letterario era reale e, ad esempio, toccava anche Tozzi, in una autorecensione di Bestie del 1918: «Si dice che la novella è un poco in ribasso. E avversari, infatti, ne ha: sono, tutti o quasi tutti, quei giovani che non scrivono, almeno per ora, in nessuno dei generi letterari consacrati dalle tradizioni. Ma pare che essi non saprebbero rispondere quale altro tipo di forma abbiano in mente di contrapporre alla novella; perché non basta il desiderio di rinnovare, se non si trovano gli elementi sufficienti che compensino tutto ciò che la novella può contenere e dare. I nemici della novella tengono poco conto dei suoi eventuali pregi, e trascurano completamente l’importanza inventiva dei personaggi; negando, anzi tutto, e credo come punto di partenza, la consueta trama che per i più costituisce, tutto o quasi tutto, l’interesse della novella. Quindi pare che i bastardi discendenti del Boccaccio e del Maupassant debbano sparire, venendo a poco a poco sostituiti da scrittori che preferiscono spontaneamente trarre soltanto da una loro lirica intima e continua le caratteristiche di una prosa nuova. E non hanno torto; perché di rinnovamento, purché sia da vero profondo, ce n’è bisogno; tanto più quando i volumi di novelle che si stampano non hanno quella forza che è sufficiente a produrre documenti psicologici della realtà umana e sociale. Non si vedono figure, che possano chiamarsi studi fatti con profondità di osservazioni; ma tutto al più, per solito, quando non è peggio, si tratta di piccoli e brevi episodi che non potrebbero resistere a un esame acuto. I lettori si contentano di cose che non lasciano traccia, e di pessimo gusto. E così, di questo passo, dovremo forse assistere al rapido disfacimento di parecchi volumi fatti a base di novelle e di romanzi, solo perché i loro autori hanno avuto il torto di scrivere senza troppo preoccuparsi di dare una materia di valore assoluto. Molti si contentano della loro facile abilità, che si acquista anche con l’esercizio del mestiere; e i loro personaggi sono soltanto apparenze sommarie senza nessuna consistenza. Invece, perché la novella resista, ed abbia la sua ragione di esistere, si deve molto badare di non contentarsi dei soliti schemi troppo scialbi e insignificanti. Si può affermare, per essere nella verità, che di qualche centinaio di volumi, usciti in questi ultimi anni, non resterà in piedi una novella sola. E lo sanno anche i lettori, che non osano protestare; benché anche quelli che si contentano e si dilettano di quello che fa la piazza, sentono in fondo un vuoto che è maggiore della stanchezza. Quindi noi vediamo giustamente sorgere, ovunque, tentativi letterari che domani saranno i nuovi generi; e, forse, aiuteranno perfino la novella tradizionale, se essa non deve estinguersi, ad uscire dalla sua mancanza di profondità. Non c’è via di mezzo. E i tempi sono maturi perché si salga una buona volta dalle indecisioni» («L’Italia che scrive», I, 1° aprile 1918, p. 7).


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 247


02_IndaginesulTesto_Racconti:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:45

Pagina 248


03_IndaginesulTesto_Indici:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:43

Pagina 249

L’indagine sul testo

249

Indici

l.

Temi e cose notevoli Si rinvia all’analisi (cifra romana) e ai suoi paragrafi (cifra araba). acqua addio adolescenza alienazione altoparlante amore animali annientamento antagonista antropomorfismo aranciata astronomo attrazione fisica autocritica automobile bagno bastone benessere bicicletta brutalità bruttezza fisica buio campagna candela cantina carcere carriola cavallo chiesa cieco cinema

XII 6, XVII 3-4, XIX 5 X 3, XV 4 XI passim, XIII passim, XVII 4 IV 4-5, VII 5, IX 5, XIII 4 II 3.3 VII 4, VIII 2, VIII 5, IX 7, XVI 6 II 3.2, III 6, V passim, VI passim, X passim, XIII passim, XVI 3, XVIII 2, XIX passim, XX passim XVIII 3 VI 2, XII 5 XVI 5 X3 XVI passim XVIII 3 IX 2-6 XIX 3 VI 2, IX 2-3, IX 5-7 XI 4.2 IV 5 IV 6, IX passim VIII 4, VIII 6 VIII 3 III 3.1.2 XVIII 5 XIV 4 VIII 3-4, VIII 6 II 3.2,VII passim VI 3.2 VIII 4, VIII 6 XIII 7 XVII passim IX 7


03_IndaginesulTesto_Indici:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:43

Pagina 250

L’indagine sul testo citazione colta città coltello combattimento comicità conoscenza consumismo contraddizione corteggiamento crisi crisi famigliare decadenza decadimento degrado morale denaro desiderio diavolo Dio disordine disorientamento divieto dolore dovere dramma esortazione esterno evasione evoluzionismo fabbrica fallimento famiglia favola femminismo ferrovia filastrocca fiori fiume formaggio fotografia fretta frustrazione fumo fuoco furto futuro grottesco guerra illusorietà immobilità impiegati imprevisto incomunicabilità indagine indecifrabilità indecisione industrializzazione inettitudine infanzia infelicità

XX 6 X 3, XVIII 5 VII 2, VIII 6 II 3.2 II 2-3 XIX 5 II 2, II 3.3 XXI 3 V 4.2, XVI 5 IX 3, XIII 3, XV 3 XVIII 4.2 XX 4 XIX 4 VIII 2, VIII 6 II 2, XVIII 4.1 IV 5, XII 4 XVII 3 XVI 3, XVI 5, XX 4 II 2, XX 6 II 2 VI 3.1, IX 5 II 3.2, V 2.1, V 3-4, XII 4 IX 3-6 VII 2, VII 5, IX 3 II 2 IV 6, XVI 5, XVIII 5 II 3.3 XX 4-5 IV 6 XIV 8-9, XV 5.2, XVII 3 VII 1, VII 3.2, VII 4-5, VIII 2 II 3.3, III 3.2.1 IV 7 XII 6, XVI 5 I2 XII 5 X passim, XII 6, XV passim, XVII passim XII 5 XIV 2, XIV 6, XIV 8 IV 5 IX 3, XIII 3 X5 XVII 4 II 3.2-3 XVIII 3 VIII 3, IX 7, XX 6 II 3.2 V3 VII 3.2 III 5.1 II 2 XXI 3 III 5.1, XIV 5, XIV 7, XVII 3-4 XX 5 XVIII 4.1, XVIII 5 IV 5 XVIII 4.2, XVIII 5 II 3.2, VI passim, XI passim, XIII passim VI 4


03_IndaginesulTesto_Indici:«L'IndagineSulTesto»

Indici

13.4.2012

13:43

Pagina 251

251 iniziazione insubordinazione interno introversione irrazionalità isolamento lavoro lettera letto libro litigio lotta luce luna luogo macchina madre manicheismo mare meccanicità minaccia miopia misantropia miseria misoginia monotonia montagna morte natura nebbia nostalgia notte odio oggettività ombra omicidio Oriente orologio ospedale ossessione ostacolo osteria ostilità paesaggio parafulmine patata patetismo paura perdono pericolo periferia pertugio pesca pessimismo piacere ping-pong pioggia piscina

III 3.2.1, VI 3.2, XI 4.3, XIX 4-5 IX 5-6 IV 6, XVI 5, XVIII 5 XV 2 XIX 5, XX 3 cfr. solitudine IV 2-5, VII 1-3, VIII 2, IX 5 XIV 9, XV 5.2 IV 4 XVI 3, XVI 6 XVIII 3 II 3.2, III 5.1 III 3.1.2, III 3.2.2, XIV 5, XVI 3, XVIII 5, XIX 5 XIII 9-10, XV 5.2 XVII 2 III 5.2, IX 5 VII passim, VIII 2-4 XX 4 V passim, VI 3.1 IV 4 VI 3 V 2.2 XVI 3 XVIII passim XV 2 IV 2-3 XII 4 V 4, VI 3.2, VII 5, VIII 2, VIII 5-6, XIII 9-10, XIV 7, XV 5.1, XVII 3, XIX 6 XV 5.2 XVI 5 XV 5.2 XIII 9, XIV 4, XIV 8, XV 5.2 VII 4, VIII 2-4, IX 3 XX 2 XIX 5 VII 2, VII 5, VIII 1, VIII 3, VIII 6, XIII 2, XIII 6-8, XIV 8-9 XIX 4 XVI 4-5 XIII 4, XIII 6, XIII 8-10 VIII 5 XI 4.3, XIII 2, XIII 9 VII 1, VII 3.2, VII 5, VIII passim IV 6 XI 5, XII 4, XVI 5 XVI 3 XII passim II 3.3 VI 3, XI 4.2 VII 4-5 IV 2 XII 3 II 3.3, VI 2, VI 3.2 V 4, IX 5 XVI 3, XVII 4, XIX 4 II 3.2 VI 3.2 VIII 5 VI 3.2


03_IndaginesulTesto_Indici:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:43

Pagina 252

L’indagine sul testo pittore polemica politica ponte portasigari povertà predestinazione produzione proibizione proverbio provocazione pubblicità punizione purificazione rabbia razionalità reificazione ricchezza ricordo ripetitività rito ritratto salvezza sarcasmo scure sigarette silenzio soggettività sole solitudine sonno sopraffazione sopravvivenza sotterraneo sottomarino spazio sperimentazione stelle stordimento strumenti scientifici subcosciente sublimazione suicidio supermercato Tarzan telescopio tempo atmosferico tempo cronologico tenda terra (astro) tragedia tragicommedia tram trasgressione treno ufficio

XV passim IV 3, VI 4 IV 4-5 XI 4.3, XII 6, XV 4-5 XI 4.2 II 2, VI 4 VII 3.1, XVIII 5 II 2, IV 5 cfr. divieto VII 2, VII 4 VIII 6, IX 2 IX 5, IX 7 II 3.2 VI 3.2 XVIII 3 XIX 5 IX 5 VI 4 XII 4, XIII 4, XIII 6, XV 4, XVIII 3 II 2, IV 3-4 II 3.3, IV 2, IV 4, VI 3.2, IX 5, XIX 3 VII 3.1, VII 4, VIII 3, IX 3, IX 6, XII 5, XIV 2, XIV 8, XV 4, XVI 5, XVII 3 VI 3.2 II 2, XVI 3 XI 4.2 IX 5, X 3 VI 3.2 XX 2 XVI 3-4 IV 3, IV 5, VII 4, X 5, XII 3, XVII 4 XI 4.3 II 2 IV 5, V 4.1, XV 5.2 III 3.2 I2 III 3.1.1, III 3.2.1, IV 6, VI 3, X 5, XVI 4 XVI 3, XVII 3 XV 5.2 II 2 XVI 4 VII 2 XII 5 X passim, XIII 4, XIV passim, XV passim, XVII passim, XVIII passim II passim IX passim XVI 3-4 X 4, XIII 9 VII 2, VII 3.1, VIII 6, X 4, XII 4, XIII 4, XVI 4, XVII 2, XIX 4, XX 3 III 3.2.1 XVI 3 VII 2, VII 3.2, XIII 3-4, XIII 7, XV 5.1 VII 2 IV 6, XII passim VI 3.1, IX 5, IX 7 VI 3 III passim


03_IndaginesulTesto_Indici:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:43

Pagina 253

Indici

253 vegetali vento vergogna viaggio villa vino violenza vita zoo

2.

II 3.2, VI 3.1, XIX 4 XVI 5 XVIII 3 III 6, IV 6, VI 2, XI 2, XV 4, XIX 2 XIX 2 VII 5, VIII 2, VIII 4-6 VII 4-5, VIII 6, XI 5-6, XIII 3, XVIII 5 XVII 3 XX passim

Retorica, metrica, lingua, poetica, storia letteraria Si rinvia all’analisi (cifra romana) e ai suoi paragrafi (cifra araba). aggettivo allegoria allitterazione anacoluto analogia anticipazione antitesi apax legomenon binarismo binomio bipartizione bisillabo chiasmo clausola climax

XIX 7 V 4.2, XIV 9 II 3.3, XI 5, XV 5.1, XVI 5, XIX 5 II 2, II 3.3 I 2, XI 4.1, XX 6 XI 3, XI 5, XII 3, XIV 3, XV 5.1-2, XVI 5, XVII 4, XVIII 5 II 3.3, V 3, V 4.2, VI 3, X 4, XI 3, XI 4.2, XX 4, XXI 2 XX 6 V3 II 3.1, XV 3, XVI 5, XIX 7 IV 2, XV 3 IX 5 II 3.1, V 3, XI 5, XV 5.2 XIX 7 II 3.1, V 4.1, VII 3.1, VIII 3, IX 3, IX 5, X 2, XI 4.2, XVI 4-5, XVIII 5, XIX 4 correlazione XV 5.1, XVI 3, XVI 5, XIX 5-6 crepuscolarismo XXI 4 crescendo cfr. climax cronografia XI 5 dannunzianesimo XXI 4 descrizione VII 1, VII 3.1-2, VIII 3, IX 7, X 6, XII 4, XIV passim, XV 5.2, XVI 5, XVIII 4.1, XIX 2, XX 2 destinatario I 4, XIV 4 deus ex machina II 3.3 dialogo X3 discorso diretto II 2, IV 7, X 3 discorso indiretto X3 discorso indiretto libero X 3 ellissi XX 6 endecasillabo X 5, XI 4.3, XV 5.1, XVI 5, XIX 5 enumerazione XX 6 epico X6 epifora VII 5 figura etimologica II 3.1 flash-back X 3, XVI 6 fonosimbolismo II 3.3, VI 3.2, XI 5, XV 5.2 giallo (genere) XIV 9 grottesco XV 5.1, XX 2 idillio VI 3.2, XI 5, XVIII 4.1 impressionismo XXI 4 interrogativa retorica XVI 3 lessico XX 6


03_IndaginesulTesto_Indici:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:43

Pagina 254

L’indagine sul testo luogo ameno messaggio metafora mito mittente monologo moto circoscritto narrazione naturalismo novenario ossimoro palindromo parabola paragone

VI 3.2 V 2.1 II 3.2-3, III 5.1, III 6, VI 4, X 5-6, XI 4.2, XI 5, XVI 5, XVII 4, XIX 6, XX 2 XVII 3 I 4, XIV 3 X3 XIV 2 XIX 2 XXI 4 IX 5, X 5, XI 5, XVI 5 XI 3, XII 3, XII 5, XV 3 I2 XIV 9 II 3.2, III 6, V 2.1, VII 3.1, VIII 3, IX 5, X 6, XII 6, XVIII 5, XIX 5, XX 2 X 5, XI 5, XXI 2 IX 5, XV 5.2 XIV 5 XXI 4 II 3.1, IX 5 XIV 9 II 3.1 VII 2, VII 4 X6 IX 5, XV 5.2, XVI 5 IX 5 XXI 3 XIII 2 XI 5

parallelismo pentasillabo personificazione pirandellismo polinomio poliziesco (genere) polyptoton proverbio punto di vista quadrisillabo quinario racconto amoroso racconto circolare racconto didattico -moraleggiante racconto propagandistico XXI 3 racconto psicologico XI 3, XIII 3 racconto secondo I 3, XXI 3 racconto umoristico XXI 3 realismo XVII 3, XIX 3, XXI 4 riflessione XX 2 ripetizione II 3.1, VIII 3, VIII 5 ritmo XVI 5 simbolo II 3.3, V 4.2, VI 3.2, VI 4, VII 2, VIII 5, IX 5, XII 5, XV 5.1, XVI 4-6, XVII 3-4, XVIII 4.1, XVIII 5, XIX 4-6 simmetria VII 5, XI 5, XII 4, XIII 2, XIII 6 sinestesia X 5, XV 5.2, XIX 5 sintagma XV 5.2, XVI 5, XIX 7 sintassi X 6, XIV 5, XV 5.2, XIX 7 situazione iniziale XII 2, XIII 2 sostantivo XIX 7 Spannung X 2, XIX 2 stile comico VII 2 straniamento I2 tempi verbali X2 tensione cfr. Spannung tragedia XIII 9 trinomio IX 5, X 5, XV 3, XIX 4.7 umorismo XXI 3-4 verbo XIX 7 verismo XXI 3-4


03_IndaginesulTesto_Indici:«L'IndagineSulTesto»

13.4.2012

13:43

Pagina 255


03_IndaginesulTesto_Indici:«L'IndagineSulTesto»

Progetto grafico Bruno Monguzzi Composizione Prestampa Taiana Stampa Lineagrafica Tipo-Offset

© Centro didattico cantonale 6501 Bellinzona

13.4.2012

13:43

Pagina 256


Csingola:«L'IndagineSulTesto»

27.4.2012

11:54

Pagina 3


Csingola:«L'IndagineSulTesto»

27.4.2012

11:54

Pagina 2

Francesco Giambonini L’indagine sul testo

L’indagine sul testo si avvale di strategie analoghe a quelle dell’indagine poliziesca: parte da indizi e procede raccogliendo testimonianze, cercandone il nesso, ordinandole secondo una logica che permetta di ricostruire e valutare l’accaduto. I procedimenti di indagine proposti da Francesco Giambonini possono essere così sintetizzati: riassunto dell’intreccio; riflessione sul riassunto per cogliere la regia dello scrittore nella articolazione tra intreccio e fabula; individuazione delle tematiche del racconto; rapporto tra componenti narrative, descrittive, riflessive; aspetti di stile, con attenzione al lessico e alla sintassi, rilevamento delle figure retoriche, funzione degli uni e delle altre nel tessuto del racconto. Ma essendo ogni testo una individualità, l’indagine, come quella poliziesca, si adatta ogni volta alla singolarità del caso specifico, richiedendo all’operatore e al lettore attenzione, intelligenza e partecipazione. Francesco Giambonini (Lugano 1945-2011) si è formato alla scuola di Giovanni Pozzi all’Università di Friburgo. La sua tesi sulla corrispondenza umanistica tra Giovanni Delle Celle e Luigi Marsili è stata pubblicata da Olschki nel 1991. Presso lo stesso editore è apparsa la monumentale Bibliografia delle opere a stampa di Giambattista Marino. L’indagine sul testo rappresenta un compendio della sua lunga e appassionata attività didattica presso il Liceo cantonale di Lugano 1.

ISBN 978-88-86486-84-2 Fr. 20.–

Repubblica e Cantone Ticino Dipartimento dell’istruzione e della cultura


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.