Museo del Malcantone
I PADRONI DEL FUMO Contributi per la storia dell’emigrazione dei fornaciai malcantonesi
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le banche del Malcantone
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I PADRONI DEL FUMO Contributi per la storia dell’emigrazione dei fornaciai malcantonesi
a cura di Bernardino Croci Maspoli
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Indice
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Presentazione Bernardino Croci Maspoli
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Prefazione Luigi Lorenzetti
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I «padroni del fumo». Fornaciai malcantonesi tra emigrazione e imprenditorialità (XVII-XX secolo) Giulia Pedrazzi
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«Lavorare di fornasaro col far matoni, quadrelli e coppi» Stefano Zerbi
127 Voci di fornaciai malcantonesi Mario Vicari
Due storie 161 Filomena Ferrari: un caso di successo imprenditoriale al femminile tra fine Ottocento e inizio Novecento Donatella Ferrari 205 Silvio Morandi, un grand-père acteur de la révolution industrielle Jean-Pierre Dresco
219 Le fornaci dei malcantonesi – Schede di sintesi Bernardino Croci Maspoli
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Presentazione Bernardino Croci Maspoli
Questo libro non racconta la storia dell’emigrazione dei fornaciai malcantonesi, argomento troppo vasto e complesso per poterne oggi proporre un’analisi esauriente. Molto più modestamente intende portare alla luce alcuni aspetti di un fenomeno migratorio che per secoli ha caratterizzato il Malcantone, con esiti tanto sorprendenti quanto ai più ignoti. Chi sapeva che furono più di trecento le fornaci per laterizi gestite o possedute da nostri conterranei? Che ne aprirono – oltre che in tutta l’Italia padana e nel sud-est della Francia – in Danimarca, in Romania, in Argentina e persino in Etiopia? Che, in determinati periodi, quasi tutti gli uomini di alcuni villaggi emigravano quali fornaciai? Il testo di Giulia Pedrazzi, che dà il titolo al volume, è basato su uno studio realizzato grazie a una borsa di ricerca cantonale e orientato soprattutto verso l’analisi delle forme di imprenditorialità che l’emigrazione dei fornaciai ha originato. Questo e gli altri contributi di Stefano Zerbi, Donatella Ferrari e Jean-Pierre Dresco, che illustrano l’evoluzione tecnica della produzione dei laterizi e approfondiscono due storie di imprenditori, sono arricchimenti che qua e là vanno a toccare le condizioni di vita e di lavoro dei fornasée, argomento che meriterà ulteriori studi, anche se qui trova degno spazio nelle vive voci di tre testimoni, salvate dall’oblio grazie al lavoro di Mario Vicari: tanto belle e commoventi da averci indotto a proporne anche la versione audio, oltre alla trascrizione. Nel settembre 2006, inaugurando la mostra Lavorare di fornasaro col far matoni, quadrelli e coppi, ci eravamo proposti di chiuderla con un pubblicazione, approfittando del periodo di apertura per acquisire ulteriore documentazione e stabilire nuovi contatti. Così è stato e questo è il risultato. Lo offriamo ai lettori con la convinzione di aver cominciato a scrivere le prime pagine di una storia che merita di essere conosciuta, in memoria degli innumerevoli malcantonesi che per secoli hanno faticato a impastare e dar forma all’argilla, sudato attorno ai forni roventi e dato spesso prova di capacità imprenditoriali fuori dal comune.
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Prefazione Luigi Lorenzetti
L’uso di impastare argilla e di cuocerla per ottenerne materiali da costruzione risale all’antichità. I laterizi hanno quindi accompagnato la storia dell’uomo, contribuendo alla costruzione della cultura edilizia e all’evoluzione urbanistica di molte regioni del mondo. Pur nella loro quasi immutabilità ‘geometrica’ e funzionale, essi hanno rappresentato un ‘materiale da costruzione’ versatile e adattabile, in grado di modellare in mille modi il paesaggio, specie quello urbano. Basti pensare alle città del medioevo in cui l’uso dei laterizi per l’edificazione di chiese e edifici (pubblici e privati) ha dato luogo a soluzioni estetiche di straordinario effetto, ancora oggi ammirate e copiate. Ma se numerosi studi hanno ampiamente indagato l’uso dei laterizi nell’evoluzione della cultura edilizia e architettonica occidentale (ma anche di quella di altre civiltà), le vicende di coloro che ne assicuravano la produzione sono rimaste nell’ombra, celate nelle pieghe della storia1. Tra di loro figurano certamente i fornaciai malcantonesi. Sebbene la loro attività e quella della loro emigrazione sia attestata fin dal XVII secolo e si sia conclusa solo pochi anni orsono, essa sembra aver lasciato solo un ricordo sbiadito, confuso tra le innumerevoli storie di emigrazione dalle comunità sudalpine. Eppure i segni dell’attività dei fornaciai delle comunità della valle della Magliasina sono numerosi e tangibili, a cominciare dai manufatti (edifici, case, cascinali, stalle,…) disseminati in Italia e in molte regioni d’Europa ed eretti o realizzati in laterizio. E la lacuna appare ancor più sorprendente se si tiene conto del peso, certamente non marginale, dell’industria laterizia malcantonese nell’Italia settentrionale. Basti pensare che nella sola valle del Po sono state contate complessivamente poco meno di 300 fornaci di proprietà o gestite da malcantonesi: una cifra ragguardevole se comparata alle circa 150 fornaci attive nello Stato di Milano durante la seconda metà del XVIII secolo2. In tale prospettiva, oltre a colmare una lacuna storiografica, il volume qui presentato viene a dar conto di un’esperienza storica che, al pari di molte altre vicende migratorie delle terre ticinesi, ha rappresentato un capitolo rilevante e significativo della storia delle migrazioni alpine e sudalpine. Questa paziente opera di recupero della memoria storica, inaugurata dal Museo del Malcantone con la mostra Lavorare di fornasaro col far matoni, quadrelli e coppi. L’emigrazione dei fornaciai malcantonesi, è stata ulteriormente approfondita da un’ampia e accurata ricerca condotta da Giulia Pedrazzi a cui si aggiunge un indagine di natura tecnica condotta da Stefano Zerbi e da due testimonianze – quella di Donatella Ferrari e quella di Jean-Pierre Dresco – che rievocano due esperienze di emigrazione tanto diverse tra loro, ma accomunate dallo spiccato spirito imprenditoriale dei loro prota-
Cfr. Jan Lucassen, Brickmakers in Western Europe (1700-1900) and Northern India (18002000): some comparisons, a cura di Jan Lucassen, Global labour history. A state of the art, Bern 2006, pp. 671-715. 2 Luca Mocarelli, Costruire la città. Edilizia e vita economica nella Milano del secondo Settecento, Bologna 2008, pp. 147-148. 1
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Vedi Donne e lavoro. Prospettive per una storia delle montagne europee, XVI-XX secolo, a cura di Nelly Valsangiacomo e Luigi Lorenzetti, Milano 2010. 4 Sul tema del ritorno degli emigranti, cfr. i vari contributi pubblicati in Reto Furter, Anne-Lise Head-König, Luigi Lorenzetti (réd.), «Histoire des Alpes – Storia delle Alpi – Geschichte der Alpen». Les migrations de retour – Ruckwanderungen, n. 14, 2009, Zürich. 3
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gonisti. Nella sua eccezionalità, la storia di Filomena Ferrari mette in luce un mondo in rapido mutamento, in cui le tradizionali segmentazioni sessuali dei ruoli si attenuano, lasciando viepiù apparire degli spazi di iniziativa che alle contadine delle valli sudalpine erano generalmente preclusi3. Da parte sua, il percorso di Silvio Morandi ricalca quello di altri ticinesi nati sul finire dell’Ottocento e che trovano nella Svizzera d’oltralpe inedite possibilità di impiego e di mobilità sociale. Ma come molti altri ticinesi emigranti, anch’egli prolunga quell’atteggiamento di attaccamento alla comunità di origine che si traduce nei periodici ritorni a Bombinasco, anche se ormai solo per soggiornarvi durante le vacanze4. Attingendo a una ricca e variegata documentazione – fondi notarili, archivi pubblici e fondi familiari, registri parrocchiali, ecc. –, le indagini hanno ridato corpo alla ramificata attività malcantonese nell’industria laterizia e alla vita quotidiana in fornace, ricostruendo nel contempo i complessi e a volte sorprendenti percorsi migratori individuali e familiari e le capacità imprenditoriali di cui hanno dato prova molti emigranti della valle della Magliasina. Il volume aggiunge così un tassello importante al variegato mosaico dell’economia dell’emigrazione delle terre sudalpine. Un mosaico punteggiato, come sappiamo, da innumerevoli specializzazioni migratorie regionali (se non addirittura locali): da quelle dell’artigianato a quelle del servizio domestico o del facchinaggio, da quelle del piccolo commercio ambulante a quelle dei mestieri dell’industria edile. Proprio a quest’ultima industria appartengono i fornaciai malcantonesi; un’appartenenza singolare, poiché se da un lato la produzione laterizia costituisce il primo anello dell’industria edile, i suoi legami con il settore delle costruzioni (in particolare quelli che strutturano la filiera della fornitura dei materiali ai costruttori) appaiono incerti e indefiniti. Le vicende narrate e analizzate in questo studio consentono finalmente di gettare un po’ di luce su questi legami, mostrando le contiguità (talvolta labili, talvolta più strette) tra il mondo dei fornaciai e quello delle maestranze edili, e precisando il percorso storico di questa particolare attività in cui il passaggio dalla produzione artigianale a quella industriale ha contribuito a modificare i contenuti dell’emigrazione, rafforzandone di riflesso le peculiarità. Originalità nell’affinità: è proprio attorno a questo binomio che può essere letta la storia dei fornaciai malcantonesi. Difatti, se, come detto, essa non può essere disgiunta dalla storia più ampia del fenomeno migratorio che ha caratterizzato per secoli l’area alpina e sudalpina, dall’altra presenta una serie di specificità che rimandano alla sua evoluzione, nel corso della seconda metà del XIX secolo. Nel Malcantone, il lavoro di fornaciaio ha a lungo rappresentato il perno dell’attività migratoria e dell’economia locale. Tra il XVIII e il XIX secolo, porzioni consistenti della forza lavoro maschile era occupata in questo settore di attività. Come altre valli sudalpine, la regione si configurava quindi come una sorta di ‘area di specializzazione’, in cui competenze professionali e controllo dei mercati lavorativi esterni erano trasmessi di generazione in generazione secondo i modelli tradizionali dell’apprendimento ‘sul campo’. Ciò spiega l’esistenza, in molti villaggi della valle della Magliasina, di una monocultura professionale e migratoria che ha contribuito a definire diversi tratti della vita di villaggio e dell’economia familiare. Basti pensare ai costanti squilibri numerici fra i sessi a causa dell’assenza di molti uomini adulti, alla stagionalità delle nascite, direttamente connesse alla ciclicità delle partenze e dei ritorni degli emigranti o alla divisione sessuale del lavoro, con
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le donne in gran parte confinate ai pesanti lavori agricoli e alle mansioni di casa. Va poi menzionata la presenza di vere e proprie catene migratorie che hanno contribuito ad alimentare le partenze, non di rado lungo direttrici segnate da un forte radicamento familiare (oltre che di villaggio), o la stretta connessione tra economia locale e economia migratoria, con la messa a punto di forme di gestione societaria delle aziende di laterizi in cui la divisione dei compiti tra fornitori dei capitali operativi e soci che ne assicuravano la gestione intersecava l’esistenza di legami familiari, magari promossi attraverso strategie di alleanza matrimoniale o, ancora, le forme della trasmissione dei beni, con la diffusa pratica dell’indivisione e la tendenza a privilegiare il trasferimento dei beni legati all’emigrazione (ad esempio la fornace o l’azienda di produzione di laterizi) a un solo erede in modo da evitare la dispersione del capitale familiare più importante. A questi vari elementi, che nelle loro molteplici sfaccettature si ritrovano in gran parte delle comunità di emigranti dell’area sudalpina, vanno però aggiunti anche quelli che delineano la specificità e la singolarità dell’emigrazione dei fornaciai malcantonesi. In particolare quelle prodotte dal passaggio dalla produzione di tipo artigianale a quella di tipo industriale indotta dall’introduzione dei forni Hoffmann. Se da un lato questa innovazione tecnologica avvicina i fornaciai alla nuova economia industriale, dall’altro essa accresce il carattere imprenditoriale della loro attività migratoria. E con l’accresciuta imprenditorialità, mutano anche i rapporti con le comunità di origine che si fanno più sporadici. Evolvendo da un ciclo produttivo stagionale a un ciclo continuo, l’emigrazione tende infatti a protrarsi oltre la stagione estiva, rimodellando i rapporti tra le risorse ‘in patria’ e quelle all’estero. Inoltre, la produzione industriale richiede specifiche competenze gestionali e conoscenze del mercato che in epoche precedenti erano aggirate grazie alle contiguità geografica e di mestiere che univano le maestranze delle fornaci e quelle di cantiere. Come il settore edile, anche quello del laterizio è quindi in grado di produrre fenomeni di mobilità sociale che non si basano sulla qualificazione professionale, quanto piuttosto sull’auto-imprenditorialità. Certamente questo studio non esaurisce le domande sui fornaciai malcantonesi; diversi aspetti rimangono da precisare, ad iniziare dai livelli di redditività delle fornaci o dai canali che hanno assicurato il finanziamento del passaggio dalla produzione artigianale a quella industriale. Ma al di là di queste domande, le vicende ricostruite in questo volume ci invitano a guardare con occhi nuovi alle tracce architettoniche del passato: non solo tracce del genio architettonico di molti costruttori, ma anche dell’operosità e dell’intraprendenza di numerosi emigranti malcantonesi.
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I «padroni del fumo». Fornaciai malcantonesi tra emigrazione e imprenditorialità (XVII-XX secolo) Giulia Pedrazzi
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1. Le tappe verso la specializzazione: da artigiani a industriali del laterizio
Tra le molteplici attività svolte dai malcantonesi all’estero, emerge indubbiamente quella del fornaciaio. Infatti, coinvolgendo più generazioni, questo fenomeno migratorio raggiunse una portata e un dinamismo tali da poterlo considerare una vera e propria specializzazione regionale. Un mestiere, quello dell’emigrante fornaciaio malcantonese, che oltre alle conoscenze tecniche di base richiedeva anche un’organizzazione particolare, sia perché svolto lontano da casa, sia perché nel corso dei decenni diversi artigiani stagionali intrapresero la via dell’imprenditoria, diventando quelli che Ernestina (Ernesta) Vannotti-Avanzini, parlando di sé e del marito, definiva «padroni del fumo»1. Una lunga storia come questa, che tra l’altro non si è ancora del tutto esaurita, necessita quindi di una cronologia, così come di alcune spiegazioni preliminari in risposta agli interrogativi da essa suscitati. Questo capitolo si propone perciò di ripercorrere, dagli albori fino al crepuscolo, i vari stadi di un’attività che il tempo ha inevitabilmente mutato, ma non per questo ha dissociato dalla sua area d’origine, e di approfondire, laddove possibile, le ragioni della sua esistenza.
1.1. La tradizione edilizia sottocenerina e gli inizi del mestiere di emigrante fornaciaio tra Seicento e Settecento Il Malcantone condivide con il resto del Sottoceneri la secolare tradizione edilizia che, in passato, ha visto partire per il mondo molti suoi abitanti. Una vocazione, quella delle maestranze artistiche della regione dei laghi insubrici, attestata fin dal Medioevo2. E ancora nel corso dell’Ottocento innumerevoli erano gli uomini che, durante il periodo estivo e per una o più stagioni, lasciavano i loro villaggi per recarsi all’estero a esercitare i mestieri di muratore, scalpellino, capomastro, ingegnere, architetto, scultore, stuccatore, pittore, incisore, eccetera. La diffusione dei mestieri edili era tale da indurre Stefano Franscini, generalmente critico nei confronti dell’emigrazione ticinese ottocentesca, a considerare quella edilizia come la più feconda3. Il settore dimostrava così di poggiare su solide basi e, almeno fino agli inizi del Novecento, deteneva il primato assoluto tra gli emigranti, quelli del distretto di Lugano in primo luogo4. L’assidua presenza di ticinesi nei cantieri di tutta Europa, da San Pietroburgo a Roma, si giustifica, tra le altre cose, per la padronanza del mestiere acquisita con l’esperienza di più generazioni ed è il frutto di uno spiccato senso di solidarietà tra compaesani e parenti. Per rispondere alle particolari esigenze dell’industria edile, questi artigiani erano organizzati in squadre di conterranei, dotate di specialisti per
1 MusMalc, Fondo Vannotti. Cossonay, 9.10.1906 – Lettera di Ernestina Avanzini-Vannotti. 2 La regione dei laghi lombardi prealpini (Lago di Lugano e Lago di Como in particolare) è considerata l’epicentro delle arti edili e delle migrazioni d’arte. Per un approfondimento della tematica si veda la letteratura specializzata, come per esempio l’articolo di Laura Damiani-Cabrini, Le migrazioni d’arte, in Storia della Svizzera italiana. Dal Cinquecento al Settecento, a cura di Raffaello Ceschi, Bellinzona 2000, pp. 289-312 o i quattro volumi della “Collana artisti ticinesi nel mondo” a opera di Aldo Crivelli. 3 Stefano Franscini, La Svizzera italiana, Lugano 1837-1840, p. 255. 4 ASTi, Conto-reso del Consiglio di Stato della Repubblica e Cantone Ticino per gli anni 1925 e 1926. Nel 1925, dei complessivi 4’418 emigranti ticinesi 3’858 sono attivi nel settore edile, di cui 2’271 nel solo distretto di Lugano. La situazione muta solo quantitativamente l’anno successivo (1926), quando, dei complessivi 3’959, ancora 3’451 sono attivi nel settore edile, di cui 1’993 nel solo distretto di Lugano.
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5 Raffaello Ceschi, Artigiani emigranti della Svizzera italiana (secoli XVI-XVIII), «Itinera», 14 (1993), p. 23 e Damiani-Cabrini, Le migrazioni d’arte, cit. 6 Virgilio Chiesa, Lineamenti storici del Malcantone [1961], Curio 2002, p. 197 e seguenti. Si vedano inoltre Bernardino Croci Maspoli, Giancarlo Zappa (a cura di), Le maestranze artistiche malcantonesi in Russia dal XVII al XX secolo, Gli uomini, le storie, la memoria delle cose, Firenze 1994 e Silvana Ghigonetto, Maestranze malcantonesi in Piemonte tra Barocco e primo Novecento, Museo del Malcantone, Curio 2003. 7 Chiesa, Lineamenti storici, cit., pp. 224-229. 8 Luigi Lorenzetti, La manodopera dell’industria edile. Migrazione, strutture professionali e mercati (secc. XVI-XIX), in Mélange de l’Ecole française de Rome, Italie et Méditerranée MEFRIM, L’économie de la construction dans l’Italie moderne, 2/119 (2007), p. 281. 9 Pierangelo Frigerio, Beppe Galli, Antonio Trapletti, Le valli varesine e l’emigrazione delle maestranze d’arte, in Emigrazione e territorio: tra bisogno e ideale, a cura di Carlo Brusa e Robertino Ghiringhelli, vol. 2, Varese 1995, p. 205. 10 Rogiti Bosco di Novaggio, 3.2.1616 e Rogiti Crivelli di Ponte Tresa, 4.2.1616. Citati in Luigi Brentani, Antichi maestri d’arte e di scuola delle terre ticinesi, Notizie e documenti, doc. 302 e doc. 303, vol. 2, Como 1938, pp. 168-170. 11 Rogiti Bosco di Novaggio, 12.2.1616. Citato in Brentani, Antichi maestri, cit., doc. 304, vol. 2, p. 170. 12 Rogiti Bosco di Novaggio, 1.2.1613 e 22.7.1614. Citati in Brentani, Antichi maestri, cit., vol. 2, pp. 156-157. 13 Carlo Alessandro Pisoni, Del nuovo sulla razza de’ cavalli di Feriolo. Versione riveduta di Leonardo Paranchini, Carlo Alessandro Pisoni, Del nuovo sulla razza de’ cavalli di Feriolo, «Verbanus», 24 (2003), pp. 17-19. 14 Rogiti Bosco di Novaggio, 1.11.1618. Citati in Brentani, Antichi maestri, cit., vol. 2, pp. 185186. 15 ACVL, Visita pastorale Mons. Torriani 1670. Si veda anche Regesto delle visite pastorali nel Ticino del Vescovo Giovan Ambrogio Torriani 1669-1673 e dell’arcivescovo Cardinale Federico Visconti 1682, Documenti letti e riassunti da Giuseppe Gallizia archivista della curia luganese, Lugano 1973.
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ogni tappa del processo costruttivo e che operavano secondo le disposizioni di architetti e capomastri. In questo modo, le maestranze edili ticinesi vantavano conoscenze in tutti i rami dell’edilizia, arrivando a competere nella lavorazione dei materiali da costruzione, nella progettazione così come nella realizzazione di opere architettoniche5. Stando ai dati raccolti da Virgilio Chiesa, la regione del Malcantone fu coinvolta nell’emigrazione edilizia a partire dalla fine del Quattrocento6. Alcuni secoli dopo, a conferma di una tradizione andata consolidandosi col tempo, furono aperte, nell’ordine, le scuole di disegno di Curio, Agno, Sessa e Breno7. Proprio quando «il momento progettuale e quello esecutivo»8 tendono a distanziarsi l’uno dall’altro, queste strutture garantirono continuità nella formazione di nuove leve, fornendo ai molti artigiani gli strumenti necessari per passare dalla teoria alla pratica, ossia dal disegno all’esecuzione di opere architettoniche9. Alla luce di quanto detto sopra, è ora necessario capire quale legame intercorre tra la figura di fornaciaio e la folta schiera dei mestieri edili, dove il fornaciaio non sempre compare. Le sue mansioni, legate alla lavorazione di materiali da costruzione quali mattoni e coppi, rientrano a pieno titolo nel primo anello del ciclo produttivo-costruttivo di un’opera architettonica. Dunque, un primo inconfutabile motivo di connessione è dato dall’impiego dei suoi manufatti proprio nell’edilizia, vale a dire all’interno dello stesso settore dove operavano contemporaneamente architetti, stuccatori, pittori, muratori, eccetera. Secondariamente, artigiani di questo ramo affiancano i fornaciai, talvolta confondendosi con loro, in alcuni documenti antecedenti l’Ottocento. È il caso dei rogiti d’inizio Seicento citati dal Brentani, in cui due non meglio specificati costruttori malcantonesi subaffittano delle fornaci situate nelle provincie di Bergamo e di Brescia a loro compaesani10. Inoltre, uno di questi locatari ha «fatto in compagnia diverse fabrice […] tanto nel arte del muratore quanto nella fornace»11. Unitamente a una vendita e successivo pagamento di «quadrellorum ac tegolorum […] venditarum in loco Bergamascha»12 di poco precedenti, si tratta delle prime allusioni a emigranti fornaciai d’origine malcantonese e alla loro attività all’estero, che risale dunque agli inizi del Seicento. Protagonisti e firmatari di questi sporadici atti notarili, redatti nel Malcantone ma con notizie provenienti dal Nord Italia, sono alcuni abitanti di Barico, Biogno e Purasca, tutte quante frazioni dell’odierno comune di Croglio-Castelrotto. In questo primo scorcio di secolo si segnalano poi altri fornaciai malcantonesi nella vicina località verbanese di Feriolo (comune di Baveno, VB), chiamati da Novaggio e Monteggio a succedersi nella conduzione delle fornaci del Conte Carlo III Borromeo13. Il fenomeno è rilevato anche in patria e più precisamente nei dati demografici di alcune comunità del Malcantone. Ad Aranno, nel 1618, in occasione dell’elezione del nuovo cappellano e della sua presentazione al vescovo, si lamenta una penuria di effettivi, dal momento che gran parte dei vicini «erant absentes in diversis regionibus longinquis […] pro exercendo earum artem muri et fornacis»14. Mezzo secolo dopo, nel maggio del 1670, durante la visita pastorale di monsignor Torriani alla pieve di Agno, nella parrocchia di Aranno così come in quelle di Breno, Miglieglia, Pura e Sessa si segnala nuovamente come molti uomini fossero soliti esercitare l’«arte laterizia» recandosi all’estero15. Al contempo, risultano altrettanto ampia-
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mente diffuse sia l’«arte muraria» sia l’«arte cementizia» – quest’ultima non ben definibile ma molto probabilmente imparentata con le altre due16. Anzi, non sono rari i casi di comunità in cui sono conosciute entrambe, oppure in cui convivono con l’arte laterizia. Presumibilmente non esisteva un limite netto tra queste tre discipline tanto affini tra di loro, ciò che spiegherebbe perché, a pochi anni di distanza, durante la visita di monsignor Ciceri nelle stesse comunità, si utilizzi una differente terminologia. Quest’ultima, quasi esclusivamente incentrata sull’arte cementizia, difficilmente indica un reale cambiamento di mestiere. Al contrario è ipotizzabile che le altre due – laterizia e muraria – siano state semplicemente sottintese17. L’arte del far mattoni, forse anche in virtù del significato generico del termine «mastro da muro», sembra fin qui mescolarsi con altre attività edilizie, senza chiarire fino in fondo i confini delle singole discipline e nemmeno il suo grado d’integrazione nelle maestranze edili. Nonostante questi dettagli lessicali, è comunque chiaro che, già nel Seicento, la portata del fenomeno era tale da essere rilevata dalle fonti dell’epoca. L’emigrazione di fornaciai non si limitava a singoli individui, bensì coinvolgeva un’importante fetta della popolazione malcantonese. Nel corso del Settecento le notizie di emigranti fornaciai compaiono con maggiore frequenza, rivelando nuovi interessanti dettagli, come per esempio le definizioni «mastro da muro» e «fornasaro luganese» attribuite, differenziandole, a Michele Pianca di Cademario, attivo a Baldissero d’Alba (CN) con il conterraneo nonché «capomastro da muro» Domenico Pianca18. A questo periodo risale pure l’operato di Domenico Carbonetti di Aranno, il quale ebbe modo di dirigere alcuni lavori nella chiesa parrocchiale del suo paese così come di distinguersi nella costruzione di laterizi e nella gestione di fornaci19. Altrettanto polivalente fu il suo compaesano Domenico Pelli, architetto militare in Danimarca, che parallelamente svolgeva l’attività di imprenditore, occupandosi della fabbricazione di mattoni e tegole20. Dal canto suo Domenico Trezzini di Astano, trascorsi alcuni anni proprio a Copenhagen, fu poi attivo come architetto a San Pietroburgo, dove col genero Carlo Giuseppe Trezzini gestì anch’egli delle fornaci21. In questo modo essi si garantivano la fornitura di materiale da costruzione per i propri cantieri. Una versatilità, la loro, che lascia intuire come anche nel XVIII secolo vi fosse una forte interazione tra le varie discipline del settore edilizio, industria laterizia compresa. Sarebbe tuttavia azzardato parlare di una vera e propria interscambiabilità, visto e considerato il ruolo distinto degli esperti fornaciai chiamati in Russia dal Malcantone proprio dal citato ingegnere-impresario Carlo Giuseppe Trezzini. Infatti, nel febbraio del 1743, egli è alla ricerca di «due uomini periti nell’arte del fornasaro […] de boni costumi, bona nascita e qualità»22. Questi rispondono ai nomi di Domenico Boffa e Giovanni Battista Tamborini, entrambi di Agno e firmatari, nell’aprile dello stesso anno, di un contratto con cui s’impegnarono, una volta giunti a San Pietroburgo, a «far ivi dimora, lavorare di fornasaro col far matoni, quadrelli e coppi e d’ogni sorta di materiali come portarà ed in appresso ancora insegnare, instruire e dimostrare detta loro arte a quindeci giovini di quel paese, che a loro stessi saranno consegnati»23. Le loro prestazioni, così come quelle degli altri specialisti, erano richieste per un periodo limitato di tempo a dipendenza delle esigenze del cantiere in corso24. In questo modo, la composizione dell’équipe poteva subire delle variazioni nei suoi effettivi. Nel contratto di cui sopra, Boffa
16 Stando al regesto redatto a seguito delle visite del Torriani, l’arte muraria è diffusa nelle parrocchie di Astano, Cademario, Castelrotto, Curio, Miglieglia, Mugena, Neggio, Novaggio, Pura e Sessa, l’arte cementizia, invece, in quelle di Arosio, Breno, Castelrotto e Novaggio. ‘Cementizio’ si dice di materiali atti alla costruzione di edifici, opere murarie, eccetera, in particolare di quelli a base di cemento. 17 ACVL, Visita pastorale Mons. Ciceri 1684. 18 Ghigonetto, Maestranze malcantonesi in Piemonte, cit., pp. 74 e 76. 19 Giangiacomo Carbonetti, Aranno Parrocchia di S.Vittore Mauro: arte, storia, devozione popolare, 2005, pp. 50-51 e Ghigonetto, Maestranze malcantonesi in Piemonte, cit., p. 78. 20 Aldo Crivelli, Artisti ticinesi in Europa, Locarno 1970, p. 60 e Carlo Palumbo-Fossati, L’architetto militare Domenico Pelli ed i Pelli di Aranno, «Bollettino storico della Svizzera italiana», LXXXIV (1972), pp. 53 e 60. L’industria del Pelli fu poi rilevata dagli eredi, rimanendo attiva fino a inizio XIX secolo. Si veda inoltre Carlo Palumbo-Fossati, Aranno e alcuni episodi della sua emigrazione artistica, «Almanacco Malcantonese», 1973, pp. 6-7. 21 Palumbo-Fossati, L’architetto militare, cit., p. 62; Croci Maspoli, Zappa (a cura di), Le maestranze artistiche malcantonesi in Russia, cit., passim; Aldo Crivelli, Artisti ticinesi dal Baltico al Mar Nero, Locarno 1969, p. 32. 22 Lettera di Carlo Giuseppe Trezzini al padre Pietro, febbraio 1743. Citata in Croci Maspoli, Zappa (a cura di), Le maestranze artistiche malcantonesi in Russia, cit., p. 35. 23 ASTi, Fondo notarile, notaio Luca Borella, Sc. 1336, Contratto 18.4.1743. 24 Lorenzetti, La manodopera dell’industria edile, Migrazione, strutture professionali e mercati, cit., p. 277.
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Documento citato in Victor Antonov, Capomastri italiani a Pietroburgo, «Bollettino storico della Svizzera italiana», XC (1978), p. 167. 26 Ghigonetto, Maestranze malcantonesi in Piemonte, cit., p. 22. 27 Archivio famiglia Antonietti. Da notare che le due ditte sono tuttora gestite da discendenti di questo intraprendente imprenditore malcantonese. 28 I tre notai presi in considerazione per il XVIII secolo, Angelo Maria Rusca, Carlo Antonio Rusca e Francesco Agostino Rusca (ASTi, Fondo notarile), hanno sottoscritto complessivamente 136 divisioni, di cui quasi una ventina alludono più o meno esplicitamente all’attività laterizia. Il primo riferimento è contenuto in un atto del 1743, mentre gli altri si concentrano nella seconda metà del secolo. 29 Stefano Zerbi, I fornaciai Malcantonesi nel Nord Italia, Mémoire STS, Section architecture, Faculté ENAC, Année académique 2004-2005, p. 33. 30 Questa costatazione si basa sullo spoglio sistematico degli atti notarili ottocenteschi contenuti nel Fondo notarile (ASTi). Considerata la sua ampiezza, si è deciso di procedere a una selezione mirata del materiale, riuscendo a estrapolare dalla moltitudine oltre 400 divisioni, ossia quei rogiti stipulati, di norma, tra gli eredi di un comune parente defunto e aventi per oggetto la spartizione della sostanza familiare. Dalla lettura di questi atti se ne sono individuati una cinquantina contenenti riferimenti espliciti a fornaci – il più delle volte – e fornaciai. 31 Per i dati tecnici si rimanda all’Atlante geologico della Svizzera 1:25.000, 1353 Lugano, Foglio 69 dell’Atlante, pubblicato dalla Commissione Geologica Svizzera. 32 Sandra Eberhardt-Meli, Artigiani della terra: I laterizi in Ticino e il lavoro dei fornaciai, Bellinzona-Locarno 2005, p. 161 e seguenti, ha trovato tracce di argilla, cave e/o forni nelle località di Aranno, Arosio-Mugena, Cademario, Caslano, Curio (Ai Nenti), Miglieglia, Monteggio (Fornasette), Novaggio, Ponte Tresa e Pura. Dalla documentazione scritta consultata nel corso della presente indagine emergono anche le località di Croglio e Iseo, dove pure sembra ci siano state delle fornaci. Per Croglio si vedano Casimiro Andina, Dal Lema al Ceresio, Agno 1975, pp. 25-26; Giovanni Bianconi, Artigianati scomparsi, Locarno 19783, p. 70; Archivio famiglia Mina. Per Iseo si veda ASTi, Fondo notarile, notaio Marco Sciolli, Sc. 2198, nr. 364, 24.3.1849, dove compare un fondo con fornace nominato “Valnetta”. 33 Archivio privato Alberti. Nota del 1739, Bedigliora. Da notare che nell’altra località malcantonese di Cademario i Conti Riva di Lugano ebbero l’eminente ruolo di protettori-creditori della popolazione locale. Si veda a questo propo25
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e Tamborini furono ingaggiati per un periodo di due anni, mentre Carlo Pelli, altro malcantonese emigrato in Russia, venne dimesso dal capo edile – non da ultimo forse anche per divergenze relative al salario – in quanto «nella fabbricazione dei mattoni e tegole si può fare a meno di lui»25. Ciononostante, la loro presenza tra le maestranze artistiche malcantonesi in Russia costituisce un dato di rilievo, grazie al quale l’appartenenza del fornaciaio malcantonese alla cerchia dei mestieri edili può essere definitivamente riconosciuta: «Tutti infatti sono ugualmente protagonisti e necessari al conseguimento dei risultati finali […]. In quest’ottica il fornaciaio assume lo stesso valore dell’architetto, dello stuccatore e del carpentiere»26. A conferma di questa interazione tra tradizione edilizia e attività laterizia, vale la pena concludere con l’esempio della famiglia Antonietti di Bonzaglio di Sessa. Giuseppe Antonietti, unitamente ad alcuni dei suoi figli maschi, figura tra gli innumerevoli fornaciai d’origine malcantonese emigrati nel corso dell’Ottocento. Gli Antonietti furono poi anche muratori e, sempre rimanendo nel ramo edile, uno dei figli, Francesco, fondò dapprima una ditta di costruzioni nel comune friborghese di Ins/Anet (1899), quindi una seconda nella vicina località di Kerzers/ Chiètres (1903)27. Fin qui, in mancanza di dati quantitativi sicuri, si potrebbe ancora pensare a quelli appena menzionati come a dei casi isolati di uomini intraprendenti, ma gli atti notarili analizzati per il Settecento e la quindicina di fornaci in essi rinvenute smentiscono almeno in parte questa ipotesi28. Proprio verso la fine del secolo, stavano prendendo piede, in alternativa alle fornaci itineranti allestite nei pressi dei cantieri, le fornaci intese come stabilimento29. Inevitabile, anche per la natura stessa di queste nuove fornaci per l’appunto stabili, fu l’aumento di notizie sul conto di negozi di fornace e di fornaciai all’estero, che continuerà abbondantemente anche nel corso del XIX secolo. L’incremento di rogiti con riferimenti all’attività laterizia30 è dunque sintomatico dei cambiamenti in atto. Infatti, simili forni erano destinati a diffondersi su ampia scala nel periodo successivo, quello ottocentesco, e di cui si riferirà più avanti.
1.2. Argilla, cave e fornaci nel Malcantone a partire dal Settecento Nel frattempo, mentre un numero sempre maggiore di fornaciai malcantonesi si stava muovendo oltre i confini regionali, anche dal Malcantone giungono i primi segnali legati a questa attività. Da un’indagine geologica del suolo31 e secondo l’Inventario delle fornaci e dei giacimenti di argilla in Ticino elaborato da Sandra Eberhardt-Meli32, in diverse località della regione sono stati rilevati giacimenti d’argilla. Seppur di modeste dimensioni, essi portarono in epoche diverse all’apertura di cave e all’allestimento di alcuni forni per la cottura di laterizi a uso locale. Infatti, stando a una nota scritta del 1739, è possibile far risalire la produzione di laterizi nel Malcantone almeno agli inizi del XVIII secolo. Nell’ambito dei lavori di restauro di una cascina a Bedigliora, il conte Antonio Riva di Lugano ricevette della calcina dal «Fornasaro di Caslano» – Caslano aveva anche una fornace da calce – e coppi dal «Fornasaro di Novaggio»33. Sempre a Novaggio, più di un secolo dopo, nel 1895, «vi sono 4 fornaci a vecchio sistema per cuocere i mattoni e tegole fabbricati coll’argilla proveniente da dette cave. Queste fornaci esistevano fino dallo
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scorso secolo ed hanno sempre funzionato. I laterizi fabbricati sono smerciati in tutti i paesi dell’alto e medio Malcantone»34. Pur mostrandosi durevole negli anni – testimoni ricordano che alcune fornaci della regione erano ancora in funzione a Novecento inoltrato35 – l’attività laterizia nel Malcantone è però documentata solo saltuariamente. Un difetto da imputare forse proprio al carattere locale di queste fornaci, che funzionavano quando il fabbisogno dei villaggi della zona lo richiedeva36 e probabilmente quando gli emigranti fornaciai erano di ritorno dalla stagione all’estero37. Inoltre, in assenza di grandi cantieri, la domanda locale di laterizi era modesta, tanto più che l’edilizia rurale malcantonese vi faceva ricorso quasi esclusivamente per le coperture dei tetti. Le opere di muratura, invece, erano realizzate di preferenza in pietra, mentre i mattoni comparivano generalmente in strutture più elaborate dell’«architettura colta»38 (archi di sostegno o volte a botte). La scelta del materiale da costruzione si basava sulla disponibilità delle risorse del luogo – argilla, pietra e calce se si considera l’intero suolo ticinese –, rispecchiandosi poi nelle sembianze degli insediamenti circostanti. Infatti, ancora oggi, i vecchi nuclei abitativi del Malcantone, dai tetti per lo più ricoperti in coppi, rammentano come i sedimenti argillosi della regione furono sfruttati dai suoi abitanti. A evidenziare ulteriormente questa pratica – comunque posteriore e quantitativamente di gran lunga inferiore a quella svolta all’estero – contribuiscono poi anche alcuni nomi di luogo. Tra i toponimi più noti, si segnala quello di Fornasette, frazione del comune di Monteggio, cui fanno eco i vari «fondi alla Fornace ai Nenti» (Curio), «cantinotto alle fornaci» (Caslano) e «orto alle fornaci» (Caslano), ossia terreni così descritti nei vecchi atti notarili39.
1.3. Cultura migratoria alpina e fornaciai dall’Ottocento in poi Lo sviluppo Dal canto suo, il flusso migratorio di fornaciai malcantonesi continuò durante tutto l’Ottocento, per poi scemare progressivamente ai primi del Novecento. Documentata fin dal Seicento, quest’attività toccò il suo apice proprio nel corso del XIX secolo, quando raggiunse una consistenza numerica mai verificatasi fino ad allora. Lo dimostrano da un lato l’accresciuto numero di testimonianze con riferimenti ai fornaciai malcantonesi (passaporti, corrispondenza, lettere di procura, eccetera) e dall’altro i dati stessi contenuti nelle fonti seriali e di natura quantitativa dell’epoca (censimenti, registri militari, statistiche, eccetera). Entrambi questi fattori vanno però considerati con la dovuta cautela, senza cadere nell’inganno di interpretare l’ampia mole di materiale come inevitabile segnale di aumento degli effettivi. Innanzitutto non si conoscono a sufficienza le cause della scarsità di fonti per il periodo precedente, così come non si può ritenere del tutto esaustiva la documentazione disponibile. Sebbene da inizio Ottocento vengano redatti i primi sistematici censimenti, le liste nominative risultano per lo più povere di indicazioni circa la professione. Una mancanza di continuità e uniformità che, d’altronde, si riscontra nella gran parte dei dati demografici a disposizione. Difatti, autorità ecclesiastiche e autorità politiche si sono occupate saltuariamente e con fini diversi del controllo della popolazione, rendendo manifesta la realtà migratoria ticinese ma lasciando aperte alcune questioni40. Innanzitutto il dato riferito all’assenza o meno
sito Marco Schnyder, Il nuovo comune. Cademario tra Otto e Novecento, in Cademario, Dall’antichità al terzo millennio, a cura di Fabrizio Panzera, vol. 2, Locarno 2008, pp. 55-75. 34 ASTi, Fondo Diversi, Sc. 306. Si tratta delle risposte al questionario inviato nel 1895 a tutti i comuni ticinesi dal Consiglio di Stato, allo scopo di raccogliere informazioni sui giacimenti minerari del cantone e sul loro sfruttamento. 35 Si vedano a questo proposito le testimonianze orali raccolte nell’inventario di EberhardtMeli, Artigiani della terra, cit. 36 Ilse Schneiderfranken, Le industrie nel Cantone Ticino, Bellinzona 1937, p. 122 e Ilse Schneiderfranken, Ricchezze del suolo ticinese, Bellinzona 1943, p. 91. 37 Luigi Corti, Aranno, classe 1906 in Eberhardt-Meli, Artigiani della terra, cit., p. 163. 38 Espressione tratta dall’Atlante dell’edilizia rurale in Ticino, Luganese, a cura di Giovanni Buzzi, Locarno 2000, p. 102. Si veda inoltre Max Gschwend, La casa rurale nel Canton Ticino, vol. 1, Basilea 1976, p. 43. 39 Nell’ordine ASTi, Fondo notarile, notaio Giuseppe Avanzini, Sc. 2116, nr. 478, 4.3.1893; ASTi, Fondo notarile, notaio Marco Sciolli, Sc. 2197, nr. 206, 24.12.1846; ASTi, Fondo notarile, notaio Carlo Laghi, Sc. 1700, nr. 387, 17.4.1887. Esempi analoghi sono emersi dallo spoglio sistematico del Fondo notarile nei secoli XVIII e XIX. Complessivamente la località di Caslano viene evocata 5 volte, Ponte Tresa 4, Curio, Iseo e Miglieglia una soltanto. Da notare infine che la notizia più datata risale al 1751. 40 Raffaello Ceschi, Migrazioni dalla montagna alla montagna, «Archivio storico ticinese», 111 (1992), p. 9 e seguenti.
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41 André Schluchter, Demografia e emigrazione nel Ticino in epoca moderna (secoli XVI-XIX), in Col bastone e la bisaccia per le strade d’Europa. Migrazioni stagionali di mestiere dall’arco alpino nei secoli XVI-XVIII, «Bollettino storico della Svizzera italiana», CIII (1991), p. 26. 42 Ceschi, Migrazioni dalla montagna alla montagna, cit., pp. 18-19. 43 Questa constatazione si basa sulla panoramica avuta grazie alle fonti seriali e di natura quantitativa consultate (stati d’anime, censimenti, registri di popolazione, registri militari, conti resi e imposte comunali). Disperso qua e là negli archivi pubblici e rinvenuto alle volte fortuitamente, questo materiale è servito a dimostrare la consistenza del fenomeno, quindi a verificare la diffusione regionale del mestiere. 44 Archivio comunale Bedigliora, Lista dei coscritti 1813. 45 Archivio comunale Aranno, Registro militare 1858 (81 iscritti, 61 fornaciai, 50 emigranti stagionali). Franz Mathis, Mobilität in der Geschichte der Alpen, Ergebnisse und Tendenzen der Forschung, in Thomas Busset e Jon Mathieu, Mobilité spatiale et frontières, «Histoire des Alpes», 3 (1998), p. 16 e seguenti caratterizza i vari movimenti migratori, suddividendoli, a seconda della loro durata, in «kurze Wanderungen», «saisonale und temporäre Wanderung», «definitive oder endgültige Auswanderung». 46 Franscini, La Svizzera italiana, cit., p. 162 e seguenti; Antonio Galli, Il Ticino all’inizio dell’800 nella “Descrizione topografica e statistica” di Paolo Ghiringhelli, con note, raffronti e aggiunte, Lugano 1943, pp. 62 e 64. 47 Fulvio Bolla, La popolazione del Canton Ticino, L’emigrazione, «Bollettino della Società di Scienze Naturali», anno XXII, 1927, p. 81; Luigi Lorenzetti, Comportamenti patrimoniali, strategie familiari e riproduzione sociale in area ticinese (secoli XVIII-XIX), «Storia e Società», 92 (2001), p. 264. 48 ASTi, Conto-reso del Consiglio di Stato della Repubblica e Cantone Ticino per gli anni 1871 e 1872 e Grafici ‘à la carte’, in ricordo di S. Franscini: la popolazione del Ticino (e dei suoi Comuni) dal 1850 al 2000, Ufficio cantonale di statistica (www.ti.ch/dfe/ustat/link/grafici/default.asp). Tra gli emigranti oltremare i fornaciai sono secondi solo ai muratori mentre detengono il primato per quel che riguarda l’emigrazione periodica (1871). 49 ASTi, Conto-reso del Consiglio di Stato della Repubblica e Cantone Ticino per l’anno 1925. Nel Conto-reso dell’anno successivo, il 1926, furono rilevati 91 fornaciai emigranti da tutto il Ticino. Limitatamente al Malcantone, i Prospetti dell’imposta cantonale 1891, Bellinzona 1893, seguendo altri criteri, ne elencavano 231. 50 Mathis, Mobilität in der Geschichte der Alpen, cit., pp. 20-21 afferma che l’emigrazione definiti-
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dal domicilio, riportato con una certa frequenza negli stati d’anime, nelle liste dei coscritti e in altre liste nominative, presenta alcuni problemi d’interpretazione, poiché l’etichetta «assente» veniva applicata in ogni comunità secondo canoni diversi, talvolta limitatamente agli assenti di lunga data, altre volte includendo anche gli stagionali – questo nel caso in cui la registrazione avveniva nel periodo primavera-autunno41. Per di più i conteggi erano effettuati in modo discontinuo, a dipendenza della necessità del momento: una visita pastorale o la formazione del contingente militare, solo per citare due tra i più frequenti esempi42. Di conseguenza, i dati numerici a disposizione non permettono di quantificare con esattezza il fenomeno, né tanto meno di paragonare con attendibilità la situazione di un villaggio con quella di un altro o di verificarne l’evoluzione nei decenni. Bastano però poche cifre per veder confermata la tesi secondo cui il mestiere di fornaciaio era pratica assai diffusa tra la popolazione malcantonese, verosimilmente con una lieve prevalenza nelle comunità del Medio Malcantone43. Nella località di Bedigliora, durante la registrazione delle persone abili alle armi avvenuta nel 1813, su un totale di 114 uomini iscritti si contavano 98 assenti, di cui 48 erano fornaciai44. Ancor più lampanti sono le cifre sul conto di Aranno dove, nel 1858, tre quarti della popolazione maschile esercitava il mestiere di fornaciaio all’estero e, tra questi, la maggior parte praticava un’emigrazione di tipo stagionale45. Assenti durante il periodo primavera-estate, gli stagionali facevano poi regolarmente ritorno a casa nei mesi invernali, quando, con il sopraggiungere del freddo, il lavoro alla fornace era interrotto. Di fronte a questo tipo di emigrazione della durata di alcuni mesi all’anno, i contemporanei esprimevano scetticismo, dubitando dei suoi effettivi benefici a lungo termine, soprattutto perché questa s’identificava il più delle volte con occupazioni di poco rilievo46. Ad ogni buon conto, superata la metà del secolo, in concomitanza con gli inizi dell’emigrazione oltreoceano, il popolo degli emigranti stagionali ticinesi denota un certo calo47. Si osserva come anche il folto gruppo degli emigranti attivi nel laterizio subisca una progressiva ma vistosa diminuzione a cavallo tra Ottocento e Novecento. Stando ai dati forniti dal commissario di Lugano, all’inizio degli anni Settanta, il fornaciaio era senza ombra di dubbio il mestiere più diffuso tra gli emigranti del distretto che, nel 1872, ne contava ben 834, vale a dire circa un decimo della popolazione maschile tra i 15 e i 59 anni48. A cinquant’anni di distanza il numero di fornaciai si era ridotto a 93 in tutto il Ticino49. In compenso, già da alcuni tempi, si stava affermando una nuova tipologia di fornaciaio. Consolidamento e trasformazione Quella del fornaciaio imprenditore è una figura che andò delineandosi nel mondo del laterizio nel corso dell’Ottocento, sostituendosi almeno in parte al fornaciaio stagionale. Qualora quest’ultimo optasse per l’avvio di un’attività indipendente – che col tempo avrebbe inoltre assunto i connotati dell’industria – si poneva inevitabilmente la questione del passaggio, pianificato o meno, da un’emigrazione stagionale a una di tipo pluriennale o duraturo50. Costretti per motivi professionali ad assentarsi per periodi sempre più lunghi, così facendo, parecchi malcantonesi si stabilirono altrove, il più delle volte coinvolgendo all’estero anche i propri familiari.
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Il 18 marzo 1847, sulle orme del padre Giuseppe Antonio, anch’egli fornaciaio in Piemonte, Giovanni Domenico Mina di Croglio riceve in affitto una fornace «situata in Calcinato, Provincia di Brescia, con casa annessa, per un anno, il quale termine va col S. Martino dell’anno corrente»51. Allo scadere del periodo di locazione, un secondo documento rivela come lo stesso Mina intenda investire nell’acquisto di una fornace ubicata nello stesso comune, diventandone perciò proprietario52. Negli anni Sessanta, la medesima fornace è gestita dai cugini Giuseppe Mina53 e Candido Marcoli (1824-1894). Quest’ultimo, genero del sopracitato Giovanni Domenico, crebbe i suoi cinque figli – i primi tre nati a Castelrotto – assieme alla moglie Francesca Mina a Calcinato (BS), dove la coppia si era trasferita in quel periodo. Qui, il figlio cadetto Candido (1867-1940) prese moglie e negli anni si affermò come rinomato industriale, continuando il mestiere dei suoi avi. Alcuni suoi discendenti si trovano tuttora in Italia, altri, invece, hanno fatto ritorno in Ticino54. Il caso delle famiglie Mina e Marcoli mostra in maniera esemplare come i fornaciai membri di queste due famiglie, dapprima soliti emigrare stagionalmente, col succedersi delle generazioni passarono a un’emigrazione periodica pluriennale, che per taluni di loro si rivelò persino definitiva. Il loro ritmo di vita, analogamente a quello di molti altri fornaciai malcantonesi, s’intrecciò con quello della regione d’approdo e delle sue genti. Non deve quindi sorprendere se, ancora oggi, a diversi anni dalla cessazione dell’attività, vengono rilevati cognomi d’origine malcantonese in alcune località del Nord Italia: si tratta dei discendenti cresciuti all’estero e integratisi in questa nuova realtà. A contribuire in maniera decisiva alla comparsa di questi imprenditori – successivamente anche chiamati industriali – fu indubbiamente l’evoluzione tecnica nel settore del laterizio e la conseguente riorganizzazione del lavoro alla fornace. Fondamentale a questo proposito fu il passaggio, dopo la metà del secolo, da un tipo di forno detto a fuoco intermittente a quello a fuoco continuo, che rimaneva acceso tutto l’anno55. Questa e altre innovazioni mutarono le fattezze di un mestiere fino ad allora prettamente stagionale e artigianale, trasformandolo in un’attività viepiù industrializzata e di carattere definitivo, praticabile sull’arco dell’intera annata56. Senza una netta cesura con il precedente periodo di diffusione del mestiere – parallelamente persisteva il flusso di manodopera in arrivo dal Malcantone – questi emigranti, sulle tracce dei loro padri fornaciai stagionali, si resero protagonisti di una fase di consolidamento dell’attività laterizia tra i malcantonesi. Non da ultimo, simili conquiste a livello professionale permisero anche un’indiscussa ascesa sociale57. Con l’affermarsi dei fornaciai imprenditori venne per così dire compensata qualitativamente la flessione quantitativa descritta in precedenza sul conto degli emigranti stagionali e periodici. Il declino Sebbene l’industria laterizia di stampo malcantonese, al momento dell’indagine, conti ancora alcuni membri attivi fuori cantone, il loro numero esiguo allude a un declino del fenomeno. Molti e di natura diversa sono i motivi che hanno determinato questo calo, in corso fin dai primi del Novecento. Di certo vi contribuì l’industrializzazione, e in modo particolare l’innesto di mac-
va è spesso il risultato non pianificato di un’emigrazione temporale. 51 Archivio famiglia Mina. Madonna del Piano, 18.3.1847 – Affitto di fornace. 52 Archivio famiglia Mina. Prestito, 11.11.1847. Si veda anche l’atto di finanziamento del 3.1.1848 citato da Michele Busi, Monsignor Giovanni Marcoli (1856-1914), Un protagonista del movimento cattolico bresciano, Brescia 2002, p. 26. 53 Giuseppe Mina è probabilmente nipote di Giovanni Mina (figlio del fratello), contemporaneamente proprietario di una fornace nel Piemonte (Archivio privato Mina). 54 Archivio famiglia Mina, passim; Archivio famiglia Marcoli-Calcinato, passim; Umberto Marcoli, Ricordi di una vita, dattiloscritto inedito, passim. 55 Loredana Rainaldi, Quando il fuoco camminava, Nascita e sviluppo dell’industria laterizia in Abruzzo, Villamagna 2005, p. 39; Georges Bonnant, Hermann Schütz, L’emigrazione in Italia dei fornaciai di Malcantone (Svizzera), Intervista a Marc-A. Barblan, «Scuolaofficina, Periodico di cultura tecnica», 1 (1988), p. 28. Si vedano anche in questo volume il capitolo Il ruolo dell’evoluzione tecnica e il contributo di Zerbi. 56 Luigi Lorenzetti, L’emigrazione ticinese tra il 1850 e il primo dopoguerra: tendenze, specificità regionale, percorsi, in Partire per il mondo, Emigranti ticinesi dalla metà dell’Ottocento, a cura di Luigi Lorenzetti, «Quaderni dell’Associazione Carlo Cattaneo» 58 (2007), p. 36. 57 Patrizia Audenino, Mobilità geografica e mobilità sociale: percorsi di emigranti, in Studi sull’emigrazione. Un’analisi comparativa, a cura di Maria Rosaria Ostini, Atti del convegno storico internazionale sull’emigrazione, Biella 25-27 settembre 1989, Milano 1991, pp. 161-167 e Raffaello Ceschi, Nel labirinto delle valli: uomini e terre di una regione alpina, la Svizzera italiana, Bellinzona 1999, p. 65. Si veda a questo proposito il capitolo Il fornaciaio malcantonese tra produzione e direzione: gli imprenditori.
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chinari che richiedevano la sostituzione della manodopera stagionale con operai fissi58. Il mestiere di fornaciaio, fino allora prevalentemente legato ai canoni dell’artigianato, ne usciva sostanzialmente trasformato e con esso il flusso migratorio degli stagionali. Dal canto loro, pure i fornaciai imprenditori dovettero affrontare sfide di non poco conto, a partire dai due conflitti mondiali che arrecarono seri danni materiali alle fornaci, soprattutto a quelle nel Veneto, dove «parecchi svizzeri della zona rivierasca del Piave ebbero i loro stabilimenti industriali, per lo più fornaci, e fabbricati urbani e rurali distrutti dalle furie della guerra»59. Oltre che materiali, i danni furono soprattutto economici, come testimonia la richiesta di risarcimento inoltrata a più riprese dal fornaciaio imprenditore di Novaggio Ettore Lozzio, allo stato italiano e a quello svizzero. Il 5 Novembre 1917, premendo sopra le terre di Treviso l’avanzata austriaca, un colonello del regio Esercito italiano mi impose di abbandonare entro il termine di un’ora, fornace, molino, industrie, case, possedimenti esistenti in Piavon d’Oderzo. La mia invocata qualità di cittadino svizzero, che mi metteva al coperto da ogni vessazione da parte degli Austriaci, non trovò eccezione presso il colonnello italano che aveva comandato la evacuazione, ragione per cui colla morte nell’anima, stringendomi fra le braccia le tre figlie minorenni, seguito dalla moglie in lagrime e dalla zia ottantenne accasciata, ho dovuto abbandonare precipitosamente industrie, case, stalle, bestiame, terre che formavano la mia fortuna ed il campo della mia attività. La brevità del tempo concessami per la fuga, non mi consentì di ritirare dal commercio il danaro impiegato, ne di portare con me vestiario e derrate alimentari. Profugo, forestiero, senza raccomandazioni e senza appoggio, senza risorse e senza tetto, mi vidi sbalzato a Mirandola presso Modena. Presi pensione in un modesto albergo in attesa che il Governo italiano mi concedesse il passaporto per la Svizzera. Il passaporto mi arrivò alla fine di luglio […]. Ora mi trovo qui nel mio paese d’origine privo di mezzi, di guadagni e di notizie. Una domanda inoltrata al Ministero italiano per un indennizzo dei danni derivatimi dalla invasione austriaca, non trovò appoggio, non essendo io suddito italiano: l’istanza presso l’Ambasciata Svizzera onde ottenere un acconto dal Governo Austriaco in compenso del bestiame e delle derrate alimentari requisite per l’esercito imperiale, non poté finora essere presa in considerazione. E così, sbalzato dalle mie terre e dalle mie industrie, senza capitali e rendite, rovinato negli interessi e nelle gioie domestiche inquantocché le mie bambine abituate alla agiatezza ed a certe esigenze, non possono adattarsi ad un tenor di vita fatta di ristrettezze e di privazioni, mi trovo costretto ad umiliazioni e sacrifici che mi attossicano la esistenza. La preoccupazione poi di quanto sarà avvenuto delle mie case, terre, industrie e bestiame in Piavon d’Oderzo, mi tiene in continua trepidazione, tanto più sapendo come neppure Cod. Lod. Dipartimento possa al momento tutelare i miei interessi 60.
Si veda Zerbi in questo volume, p. 114. Archivio privato Demarta. Documento riguardante la questione dei Danni di guerra, fornace di Piavon d’Oderzo di Ettore Lozzio. 60 Archivio privato Demarta. Novaggio, 23.8.1918 – Ricorso indirizzato alla Sezione degli Interni, Berna. 61 Riccardo Lodovico Brunella, Frammenti di storia Besozzese, Brevi notizie preistoriche e storiche di Besozzo e dintorni, Varese 1960, p. 158. 62 Rainaldi, Quando il fuoco camminava, cit., p. 116; Elena Tamagno, Fornaci, Terre e pietre per l’ars aedificandi, Torino 1987, p. 68. 58 59
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A soccombere furono in particolar modo le aziende di piccole dimensioni che, come quella di Ettore Delmenico a Besozzo (VA), nativo di Novaggio, venne acquistata da un’altra ditta61. Se durante il periodo bellico la produzione laterizia fu frenata da un settore edilizio stagnante, in seguito bisognò pure fare i conti con la concorrenza di materiali da costruzione alternativi, quali per esempio il cemento62. L’emigrazione di fornaciai, e con essa gran parte dell’attività laterizia malcantonese, andarono quindi scemando nella prima metà del XX secolo a seguito della crisi delle attività migratorie tradizionali.
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1.4. Un primo bilancio Geograficamente parte integrante del mondo alpino, il Malcantone – assieme al resto del territorio cantonale – dimostra di esserlo anche dal punto di vista culturale, almeno per quel che riguarda i frequenti movimenti migratori dei suoi abitanti, che peraltro non furono esclusivamente fornaciai. Le eloquenti cifre e la durata del fenomeno illustrati sopra lasciano intendere come, anche in questa regione, vi fossero i presupposti per lo sviluppo di una cultura migratoria in linea con quella diffusa nel resto dell’arco alpino. Difficile rimane invece stabilire con precisione quali siano stati i meccanismi e le cause che innescarono una tale mobilità proprio nel settore laterizio. Le contenute dimensioni dei giacimenti di argilla del Malcantone – secondo Vicari lo stimolo a emigrare venne proprio dalla scarsità di materia prima e dalla successiva forzata chiusura delle fornaci63 – e la mancanza di un mercato locale di ampio respiro ridimensionano almeno in parte il ruolo svolto dall’industria laterizia locale nel determinare la scelta professionale di un numero tanto elevato di malcantonesi, tanto più che questa attività è attestata solo più tardi. Maggior peso sembrano invece aver avuto da un lato l’appartenenza a un’area specializzata nei mestieri edili come quella sottocenerina, e dall’altro la presenza diffusa in tutta l’area alpina del fenomeno migratorio. Si tratta difatti di due peculiarità strettamente connesse tra di loro, in quanto i mestieri edili – fa notare Audenino – potevano essere esercitati solo ricorrendo alla partenza64. Sebbene sia lecito considerare gli emigranti fornaciai, e con essi l’intera industria laterizia malcantonese distintasi all’estero, una specializzazione tipica del Malcantone oltre che un esempio di imprenditorialità subalpina, è altresì vero che queste spiegazioni da sole non bastano a far piena luce sulle origini del fenomeno, tanto più che tali premesse non sono un’esclusiva malcantonese. Senza la presunzione di una risposta esaustiva e definitiva, bisogna quindi riconoscere che la dedizione dei malcantonesi al laterizio è il frutto della combinazione di molteplici fattori, alcuni dei quali, probabilmente, non potranno mai essere chiariti fino in fondo. Meno difficoltoso risulta invece seguire questa attività nel suo sviluppo durante i decenni. Ripercorrendo i secoli, si è potuto notare come il mestiere di fornaciaio, pur rimanendo inevitabilmente connesso all’edilizia per evidenti motivi di mercato, abbia allentato col tempo il suo legame con le direttive di capomastri, architetti e costruttori, per assumere definitivamente un carattere proprio. Questa sua affermazione d’indipendenza influenzò inevitabilmente anche il modo di emigrare. Infatti, senza escludere un eventuale passaggio da un regime migratorio all’altro nel corso degli anni e delle generazioni, è possibile ripartire la moltitudine di nomi di non meglio specificati fornaciai secondo il tipo di emigrazione. Fonti frammentarie e dalla terminologia talvolta enigmatica riferiscono fin dal Seicento di fornaciai malcantonesi emigrati assieme ad altri specialisti delle arti edili. Povere di dettagli, queste testimonianze lasciano intuire una sorta di complementarietà dei ruoli e un precoce consistente coinvolgimento della popolazione nelle migrazioni edili. Successivamente, in concomitanza con il diffondersi degli edifici di fornaci stabili verso la fine del Settecento, si assiste a un sensibile aumento di documentazione inerente l’attività laterizia di fattura malcantonese all’estero. Di con-
Banco di Bedigliora. Stagioni e giornate di fornaciai, a cura di Mario Vicari, in Dialetti svizzeri, fasc. 6, Lugano 1983, p. 73. 64 Patrizia Audenino, L’Italia in movimento: protagonisti e percorsi fra Otto e Novecento, in Partire per il mondo, Emigranti ticinesi dalla metà dell’Ottocento, a cura di Luigi Lorenzetti, «Quaderni dell’Associazione Carlo Cattaneo» 58 (2007), p. 22. 63
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seguenza, i fornaciai appaiono da subito un cospicuo numero in rapporto alla forza lavoro maschile malcantonese, fatto questo che coincide con la realtà emersa dai primi dati statistici dell’Ottocento. L’emigrazione estiva era pratica assai diffusa tra gli uomini delle comunità del Malcantone e lo rimarrà ancora a lungo, anche se in formato viepiù ridotto. Nel frattempo, sull’onda dell’industrializzazione, era subentrata l’emigrazione periodica pluriennale e definitiva degli imprenditori che, in alcuni casi, si protrasse fino a Novecento inoltrato, in altri ancora persiste fino ai giorni nostri grazie alla trasmissione dell’attività di generazione in generazione.
Fornace a intermittenza.
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2. Geografia delle destinazioni: la scelta della meta
Così come il conteggio dei nomi, anche un elenco sistematico ed esaustivo delle località d’approdo dei fornaciai malcantonesi appare fin dall’inizio un’impresa ardua, che non rientra tra gli obiettivi del presente lavoro. Questo capitolo si limiterà dunque a ricostruire quelli che, molto probabilmente, sono stati i criteri di scelta delle destinazioni, partendo da alcuni esempi concreti. Infatti, «le varie destinazioni risultano essere state scelte in modo selettivo dagli emigranti» e «in tale scelta le motivazioni principali sono state la contiguità geografica, la presenza di rotte migratorie già sedimentate, e in definitiva le connessioni costruite nel tempo con i vari mercati del lavoro» riassume Audenino in un’affermazione, condivisibile in gran parte con le esperienze dei fornaciai malcantonesi65.
2.1. La prossimità geografica Da un rilevamento numerico approssimativo, emerge chiaramente la vicina penisola italiana quale meta prediletta dai fornaciai malcantonesi, che troviamo in prevalenza nel nord del paese e soprattutto nelle regioni Lombardia e Piemonte. Meno frequentate ma comunque apprezzate risultano Veneto ed Emilia-Romagna, mentre alcuni si spinsero fino nelle province della Liguria, del Trentino-Alto Adige, della Toscana e persino dell’Abruzzo66. Un primo fondamentale metro di giudizio sta dunque nella distanza da percorrere, come dimostra la dispersione su suolo italico appena illustrata. La prossimità geografica tra Malcantone e Nord Italia ha indubbiamente favorito quest’ultimo rispetto ad altre aree più discoste, dove non sarebbe stata pensabile un’emigrazione di tipo stagionale. Ritornando entro i confini nazionali vanno ricordate alcune località non meno vicine a nord delle Alpi, così come i dipartimenti francesi confinanti e quelli a ridosso del Piemonte. Altrettanto vantaggiose dal punto di vista chilometrico, non lo sono però da quello linguistico. La differenza d’idioma rappresentò per gran parte degli emigranti un ostacolo non trascurabile nella scelta della destinazione67. Oltre che geograficamente e linguisticamente vicina, l’Italia del nord presenta importanti sedimenti d’argilla, una peculiarità geologica indispensabile all’attività laterizia. Le fornaci primitive, di natura itinerante, si trovavano nelle immediate vicinanze dei cantieri ma anche e soprattutto nei pressi dei giacimenti. Una volta subentrate le fornaci stabili, queste tendono comunque ancora a sorgere in punti ben determinati del territorio: «Se all’inizio dell’Ottocento le fornaci si localizzavano vicino ai grandi cantieri o alle grandi città, alla fine del secolo si trovano piuttosto nei pressi di linee e stazioni ferroviarie»68. Particolare attenzione è dunque
Audenino, L’Italia in movimento, cit., p. 20. Le informazioni sono state desunte dalle schede relative alle fornaci di proprietà dei malcantonesi e pubblicate in questo volume. 67 Sulla questione linguistica si veda il capitolo Scolarizzazione ed emigrazione. 68 Tamagno, Fornaci, cit., p. 69. 65 66
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69 Pierangelo Boccalari, Fornaci e fornaciai a Mede e in Lomellina, Vercelli 2001, p. 27 e seguenti. 70 Archivio famiglia Mina. Lomello, 13.11.1877 – Affitto di un terreno per una fornace da parte di Andina, Baroni e Mina. 71 Marcoli, Ricordi di una vita, cit., p. 28. 72 Stefano Gambarotto, Roberto Dal Bò (a cura di), San Biagio di Callalta, Storia e storie di un comune trevigiano, San Biagio di Callalta 2001, p. 202. 73 Archivio famiglia Mina. Mede, 30.10.1920 – Vendita da Cavallini Donna Linda ai fratelli fu Giuseppe Mina. 74 ASTi, Fondo notarile, notaio Giuseppe Albisetti, Sc. 2127, nr. 429, 25.2.1846. 75 Testimonianza orale di Claude Morandi, presidente del consiglio d’amministrazione e direttore generale del gruppo MBB Morandi Bardonnex, di cui fa parte la Morandi Frères SA di Corcelles-près-Payerne (canton Vaud). 76 Rainaldi, Quando il fuoco camminava, cit., p. 16. 77 Henri Rieben (a cura di), Les artisans de la prospérité, L’économie vaudoise des origines à la Première Guerre mondiale, Encyclopédie illustrée du pays de Vaud 3, Losanna 1972, p. 135. Tesi analoghe a quella romanda sono sostenute da Massimo Casprini, Silvano Guerrini (a cura di), Terra. Acqua. Fuoco. Le fornaci nel territorio parrocchiale dell’Antella, Firera 1986 in relazione all’Antella e da Massimo Tozzi Fontana, Fornaci da laterizi nel bolognese tra XIX e XX secolo, in AA.VV., La società laterizi e l’arte del cotto a Imola, Bologna 1992, p. 14 per quel che riguarda la regione di Bologna. 78 Busi, Monsignor Giovanni Marcoli, cit., pp. 23-24.
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innanzitutto rivolta al trasporto, in quanto rifornire la fornace di argilla e, a produzione ultimata, consegnare la mercanzia ai clienti rappresentano ancora oggi le fasi più dispendiose69. L’approvvigionamento di materia prima era facilitato dalla sistemazione in zone fertili e dall’acquisizione dei terreni argillosi circostanti. Nel contratto d’affitto stipulato nel 1877 da Severino Magnaghi di Lomello (PV) da una parte e dai soci Francesco Andina, Martino Baroni e Giuseppe Mina di Croglio dall’altra, si legge che il primo «concede in affitto per anni dodici un fondo in suo posseduto in territorio di Lomello, sulla sponda della Roggia Gattinara a destra della strada Provinciale»70. Ubicato in una zona apparentemente strategica, vicino a un canale e a una strada carrozzabile, il terreno in affitto adibito a fornace è pure destinato all’estrazione, se si considera la clausola in cui «I signori conduttori dovranno lasciare il terreno dopo scavato della creta, e netto dai rottami, lasciando il livello del fondo scavato all’altezza di 20 cm dal livello del fondo sottostante». In parte già preesistenti all’arrivo degli emigranti, anche le fornaci costruite ex novo da questi ultimi furono edificate seguendo gli stessi principi. Innanzitutto, «Per poter convenientemente iniziare la produzione dei laterizi era necessario trovare i terreni, il più possibilmente estesi e ricchi di strati profondi di argilla sui quali costruire la fornace»71, come fece Candido Marcoli – ricorda il figlio Umberto – quando, nel 1885, la sua Ditta Mina e Marcoli decise di costruire un nuovo impianto a Calcinato (BS), nella località denominata Brede. Alle difficoltà legate alla distribuzione di manufatti pesanti e al contempo fragili come i laterizi, si cercava invece di sopperire collocandosi lungo i corsi d’acqua e, più tardi, in prossimità della ferrovia e delle principali arterie della rete viaria72. La presenza dell’acqua è fondamentale non solo per il trasporto dei materiali o della legna necessaria all’accensione del forno, ma visti e considerati i suoi molteplici scopi, dentro e fuori la fornace: la «macerazione della pasta terracea per costruir mattoni» 73, l’irrigazione oppure ancora «per gli usi domestici e per il bestiame»74. Questi elementi spiegherebbero il perché di una distribuzione capillare di fornaci nelle regioni ricche di argilla, almeno fintantoché le vie di comunicazione s’infittirono. A fine Ottocento, nella sola Romandia, si contavano all’incirca novanta briqueteries, che si erano ridotte a una decina soltanto agli inizi del secolo successivo75. La geografia delle fornaci era stata ridisegnata con l’avvento della ferrovia, che consentiva alle industrie «di sganciarsi fisicamente dai luoghi di rifornimento di materia prima, posizionandosi direttamente sul mercato di consumo a loro più idoneo»76. «La concentrazione e la rarefazione degli opifici» romandi è il risultato dei miglioramenti nei trasporti ma anche della nuova organizzazione del lavoro subentrata con i forni Hoffmann77. Localizzare il posto ideale per un’attività laterizia proficua significava dunque valutare un insieme di molti fattori. Criteri di selezione che sembra soddisfare la località italiana di Calcinato, comune bresciano situato a pochi chilometri a sud-est del capoluogo, di cui si dice quanto segue: Per la sua conformazione geo-fisica e le caratteristiche del territorio, attraversato per gran parte dal fiume Chiese, la zona morenica ad ovest del Garda ha rappresentato per secoli un territorio ideale per l’affermarsi di attività economiche come le fornaci, che necessitano di acqua e terra calcarea78.
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Il nome di Calcinato suscita particolare curiosità, poiché appare per la prima volta in relazione col Malcantone già a inizio Seicento, e riemerge poi ancora in testimonianze più recenti. Nel contratto stipulato il 4 febbraio 1616 a Ponte Tresa, «Antonius de Indeme de Biognio subaffitta ai fratelli Domenico e Battista della Gobba de Puyrascha una fornace da lateres et imbries, iacente in teritorio Calcinati, iurisdictionis Bergami, ubi dicitur in Pradello»79. Un secolo più tardi, attorno al 1730, sempre a Calcinato, sono attivi, presumibilmente come fornaciai, i fratelli Domenico e Francesco Boffa nativi di Agno. Partito come mastro fornaciaio per la Danimarca prima e la Russia poi, Domenico lasciò al fratello i beni posseduti a Calcinato, in cambio di quelli detenuti da quest’ultimo in patria. Una simile divisione delle proprietà si giustifica col fatto che Francesco Boffa si era nel frattempo accasato a Calcinato80. Nella stessa località di Calcinato incontriamo, nel corso dell’Ottocento, i membri di altre tre famiglie malcantonesi provenienti dalle diverse frazioni dell’attuale comune di Croglio-Castelrotto. Si tratta dei Marcoli (Biogno), dei Mina (Croglio) e dei Paltenghi (Purasca)81. Date le circostanze fin qui elencate, è lecito pensare a Calcinato come a una rotta molto antica e ben conosciuta dai fornaciai malcantonesi82. Indipendentemente da ciò, le vicende legate alla località di Calcinato e alle sue fornaci possono essere facilmente inserite in un più ampio contesto, quello bresciano, di certo una tra le zone meglio conosciute in relazione all’emigrazione di fornaciai malcantonesi. Studi di storia locale corredati da fonti d’archivio riferiscono di altri malcantonesi che, nelle località limitrofe di Montichiari, Carpanedolo, Pozzolengo e, alcune decine di chilometri a nord-ovest, a Corte Franca, erano attivi nel laterizio fin dal XVIII secolo83. È stato inoltre evidenziato come nel comune confinante di Montichiari «l’attività fornaciaria fu privilegio di parecchie famiglie o singoli provenienti, per la maggior parte dalla Svizzera e precisamente dal Canton Ticino e dal confinante Comasco»84.
79 Rogiti Crivelli di Ponte Tresa, 4.2.1616. Citato in Brentani, Antichi maestri, cit., doc. 304, vol. 2, pp. 167-168. 80 Croci Maspoli, Zappa (a cura di), Le maestranze artistiche malcantonesi in Russia, cit., pp. 34-35 e ASTi, Fondo notarile, notaio Carlo Antonio Rusca, Sc. 1412, 30.9.1740. 81 Si vedano gli archivi delle famiglie MarcoliMedolago e Mina. Da quest’ultimo sono state ricavate pure le notizie riguardanti tale Carlo Paltenghi di Purasca (Madonna del Piano, 18.3.1847 – Affitto di fornace a Calcinato stipulato da Carlo Paltenghi e Giovanni Domenico Mina). 82 Si osservi poi il ritrovamento della dicitura «Maria famula de Calcinate» all’interno dello stato d’anime della parrocchia di Sessa del 1696 (ACVL, Visita pastorale Mons. Bonesana 1696, Status animarum parrocchia di Sessa), in un fuoco senza struttura dove vivono due fratelli celibi, di cui uno con una figlia illegittima, e una sorella nubile; la presenza della domestica potrebbe spiegarsi con le caratteristiche di questa particolare forma di coabitazione. Tuttavia, per maggiori certezze sull’effettiva connessione a Calcinato (BS), bisognerebbe verificare la connotazione del termine «Calcinate», nome che, per la verità, si ripete anche in altre località. 83 Di fornaciai malcantonesi emigrati nel bresciano riferisce Gruppo Culturale di Corte Franca (a cura di), Fornaci a Corte Franca tra storia e memoria, Verona 2008; Busi, Monsignor Giovanni Marcoli, cit.; Alberto Superfluo, Le fornaci e le calchere nel territorio di Montichiari, in I segni dell’uomo nel territorio e nel paesaggio bresciano, a cura di Carlo Algarotti, Atti del convegno Incontri di Storia Bresciana, 28 maggio 1998, Brescia 1998, pp. 73-112. Ulteriori nomi e località sono stati desunti dalla banca dati di cui si è detto sopra. 84 Superfluo, Le fornaci e le calchere nel territorio di Montichiari, cit., p. 95.
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2.2. Parenti, conoscenti, compaesani
85 Archivio privato Demarta. Le vicende descritte sono state ricostruite grazie alla consultazione dell’archivio in questione. 86 Ceschi, Artigiani emigranti, cit., p. 23 e seguenti.
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Per attirare gli emigranti fornaciai, una destinazione doveva essere pratica – vicina e argillosa come nel precedente caso del Bresciano – e di preferenza anche familiare. Quasi certamente coloro che, nel capitolo precedente, si diressero verso la provincia di Brescia sapevano degli altri malcantonesi giunti nei paraggi, ma non è chiaro in che misura questo abbia influenzato la loro scelta. Consapevole è invece la strada intrapresa da alcuni membri delle famiglie di Novaggio Bertoli, Del Mollo, Lozzio e Muschietti verso la provincia veneta di Treviso, sulle orme dei loro predecessori che qui avevano individuato una zona favorevole all’industria laterizia. Tra i pionieri di questi casati, Giuseppe Bertoli (1811-1876) e Antonio Del Mollo (1830-1881) avevano affittato delle fornaci a Fagaré della Battaglia (comune di San Biagio di Callalta, TV) il primo e a Villorba (TV) il secondo, due località trevigiane a una decina di chilometri di distanza l’una dall’altra. Nel 1871 lo stesso Antonio Del Mollo sposava Colomba Bertoli, figlia di Giuseppe. Di lì a poco quest’ultimo sarebbe rientrato in patria perché ormai in là con gli anni, cedendo in gestione la fornace di Fagaré al genero Antonio, nel frattempo diventato proprietario di una fornace a Piavon (comune di Oderzo, TV), altra località in provincia di Treviso. A partire dagli anni Ottanta, attorno a Colomba, rimasta prematuramente vedova e senza prole, si riunirono i fratelli Pietro, Giuseppe e Antonio Bertoli. I rispettivi discendenti proseguirono nella pratica del mestiere di fornaciaio, ma sarà il figlio dell’altra sorella Carolina, sposata Lozzio, tale Ettore Lozzio, a occuparsi di Piavon d’Oderzo tra fine XIX e inizio XX secolo. Da notare infine che a Casale sul Sile (TV), nel 2009 ha chiuso i battenti una fornace di proprietà dei Bertoli, giunti così fino alla quarta generazione85. Da questa intricata serie di vicende, si deduce chiaramente l’importanza dei vincoli parentali nel determinare scelte professionali e, in questo caso, soprattutto geografiche. L’opera pionieristica dei sopracitati Giuseppe Bertoli e Antonio Del Mollo aveva creato una sorta di precedente; grazie al loro successo professionale, la regione era stata predisposta per le generazioni successive che avrebbero poi portarono avanti la tradizione. Tra Novaggio e il Veneto s’instaurò così un particolare legame, tuttora noto ai discendenti. Molte volte, alle reti familiari si aggiungono poi conoscenti e compaesani. Anche in tempi più recenti, quando il fornaciaio diventa un mestiere indipendente, si ripete pertanto un sistema di reclutamento analogo a quello descritto per le maestranze edili sei- e settecentesche, organizzate in squadre di uomini provenienti dalle stesse terre86. Guerino Nicola Avanzini (1869-1922), figlio del sindaco di Curio e industriale Pio, giunse in provincia di Pescara per riparare una non meglio specificata fornace a Torre de’ Passeri (PE). Indagando sui motivi che possono aver portato questo «esperto del Canton Ticino» fin nel lontano Abruzzo, emerge la parentela con un’altra famiglia di Curio, quella dei Morandi. Infatti, Angiolina Avanzini, sorella di Guerino Nicola, sposò nel 1896 tale Aurelio Innocente Morandi (1872-1952), proprietario di diverse fornaci, tra le altre anche nella località abruzzese di Torre de’ Passeri. Da una simile ricostruzione dei fatti e considerando la distanza che separa il Malcantone dall’Abruzzo, si può supporre che Guerino Nicola sia giunto fin qui per riparare proprio una delle fornaci del cognato Aurelio Innocente. In
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quegli anni, lo stesso Avanzini acquistò a Montesilvano (PE), nella medesima provincia, una fornace, che passò poi nelle mani del genero Pietro Adeodato Avanzini alla sua morte, avvenuta nel 1922 nella stessa località87. Fin qui sono di nuovo i legami di parentela a spiegare la presenza di due cognomi malcantonesi, entrambi di Curio, in una terra lontana come l’Abruzzo, dove però, verso il 1920, giunse tale Angelo Galli di Besazio, in compagnia della moglie e dei figli. Il Morandi, suo conoscente, gli aveva affidato la gestione della fornace di Torre de’ Passeri. La precedente esperienza in Russia, dove il Galli era stato scalpellino e aveva avuto, fino alla rivoluzione russa, un’impresa di marmo assieme al fratello, gli valse con ogni probabilità l’ingaggio quale direttore amministrativo della fornace abruzzese88. Il ricorso al sostegno parentale e comunitario è dunque uno dei perni attorno ai quali ruota l’emigrazione e sul quale si fonda lo sviluppo di numerose attività imprenditoriali in un contesto migratorio89. Infatti, i fornaciai malcantonesi non furono i soli emigranti solidali con i propri compaesani. Al contrario, simili catene migratorie contraddistinguono gran parte dei processi migratori fin qui studiati. Tramandare l’arte ai discendenti, intrecciare parentele e assoldare compaesani all’estero sono strategie diffuse, volte innanzitutto a preservare privilegi e a conquistare il mercato del lavoro. Come per molte altre emigrazioni di mestiere, anche nel caso del fornaciaio ne consegue una tradizione migratoria fondata sulla fedeltà al mestiere e alle mete. Seguendo questa logica, il fornaciaio malcantonese si orienta verso rotte già battute; molto spesso risponde alla chiamata di parenti o conoscenti bisognosi di rinforzi, raggiungendoli intenzionalmente nelle stesse località all’estero90.
2.3. La congiuntura economica del XIX secolo: nuove sfide e nuovi mercati Caro Fratello, Mi scrivi che un figlio del cugino Pelloni Giovanni vorrebbe venire da queste parti. Non so se l’amico Muschietti Giuseppe trovasi a Breno, perché esso potrebbe informarti a voce sulla situazione degli operai in questi luoghi. Da molti anni non capitò più qui uno dei nostri ticinesi: il vicino Friuli che dava un forte contingente di operai, ha anch’esso cambiato direzione, e vanno a Pest in Boemia, altrove, meno che a Trieste. La giornata d’un muratore è di fiorini 1.50 pari a franchi 3; la giornata d’un manovale la metà: vedi quindi che è male retribuita, tanto più che il vitto è alquanto caro. […] Come vedi quindi non è consigliabile il cercare fortuna da questi paraggi, e sono certo che se il Pelloni venisse qui non la durerebbe mezzo anno. A Milano, a Torino, a Roma, troverebbe migliore terreno, e potrebbe sperare, col tempo, di mettersi sulla carriera dell’imprenditore. Trieste è città commerciante, i ricchi non amano le belle arti, e non ci tengono punto ai grandiosi palazzi 91.
Con questa lettera Giovanni Gallacchi scrive al fratello Oreste a Breno, sconsigliando la regione di Trieste, dove egli stesso si trovava nel 1888, a un parente in procinto di partire. Il caso di familiari e compaesani consiglieri nelle destinazioni è noto dai capitoli precedenti. A emergere è ora un nuovo aspetto, legato alle condizioni politiche ed economiche del paese d’approdo. A differenza degli esempi precedentemente illustrati, l’emigrante che si avventura alla ricerca di lavoro senza la referenza di un conoscente, adotta come principale metro di giudizio lo stato di salute della destinazione prescelta, valutandone la si-
87 Le vicende descritte sono state ricostruite consultando Ernesto W. Alther, Ermanno Medici, Curio e Bombinasco dagli albori, La terra, la gente, il lavoro, Locarno 1993; Chiesa, Lineamenti storici del Malcantone, cit.; Piergiorgio Orsini, Montesilvano fra ’800 e ’900, Pescara 1998; Rainaldi, Quando il fuoco camminava, cit. Si veda inoltre l’atto di morte di Nicola Avanzini, conservato negli archivi di Montesilvano. 88 Testimonianza orale di Orio Galli, nipote di Angelo Galli. 89 Paola Corti, Emigrazione e imprenditorialità, Le seconde generazioni tra circuiti etnici e integrazione economica, in Emigrazione e territorio: tra bisogno ideale, a cura di Carlo Brusa, Robertino Ghiringhelli, Convegno internazionale, Varese 18-20 maggio 1994, vol. 1, Varese 1995, pp. 75-85. 90 Patrizia Audenino, Un mestiere per partire, Tradizione migratoria, lavoro e comunità in una vallata alpina, Milano 1992, pp. 68-70; Raffaello Ceschi, Strade, boschi e migrazioni, in Storia del Cantone Ticino, L’Ottocento, a cura di Raffaello Ceschi, Bellinzona 1998, p. 206 e seguenti. Si veda inoltre Klaus J. Bade, L’Europa in movimento, Le migrazioni dal Settecento a oggi, Bologna 2001, in cui si introduce il concetto delle catene migratorie. 91 MusMalc, Fondo Gallacchi. Trieste, 26.8.1888 – Lettera di Giovanni Gallacchi al fratello Oreste.
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tuazione economica e il grado di prosperità. Un discorso che in realtà vale per tutte le migrazioni, la cui intensità varia appunto «in funzione della congiuntura economica e demografica e delle opportunità di impiego sul mercati del lavoro esteri»92. Difatti, laddove fervono i lavori edili si concentra di norma anche un buon numero di emigranti specializzati nel ramo delle costruzioni, fornaciai inclusi. Negli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia, la vicina penisola italiana visse un importante boom edilizio, che si ripercosse positivamente anche sulla richiesta di materiale laterizio93. Essendo però l’Italia, fin dall’inizio, una delle maggiori rotte degli emigranti malcantonesi, non costituisce in questo caso un esempio abbastanza indicativo. Diversamente, scelte geografiche solitamente inusuali possono essere spiegate proprio grazie a un’analoga situazione economica favorevole. Così come la Roma rinascimentale e barocca aveva reclutato parecchi artisti ticinesi94, dalle stesse terre altre maestranze, fornaciai compresi, si diressero poi alla volta di San Pietroburgo, una città in divenire dopo la sua fondazione nel 170395. In tempi più recenti è doveroso menzionare gli esempi dell’Algeria da una parte e dell’Argentina dall’altra: entrambi i paesi, in epoche diverse ma in concomitanza con il sorgere di nuove infrastrutture, accolsero emigranti esteri, tra i quali anche alcuni fornaciai malcantonesi. Nel mirino della potenza francese fin dall’inizio dell’Ottocento, l’Algeria venne sottomessa definitivamente alla Francia nel 1879, diventandone una colonia. Durante tutto il periodo d’assoggettamento, i francesi incoraggiarono la costruzione di strade, ferrovie, edifici pubblici, eccetera. La promozione di simili opere pubbliche e condizioni d’impiego favorevoli, con tanto di sovvenzioni da parte del governo francese, richiamarono una quantità di ticinesi tale da essere notata anche dalle autorità, che sembrarono approvarne gli esiti. Una nota di merito è dedicata loro in una lettera inviata il 25 gennaio 1845 dal console svizzero ad Algeri al Direttorio federale. Nel paragrafo consacrato al commercio, egli afferma che
92 Luigi Lorenzetti, Popolazione e vicende demografiche, in Storia della Svizzera Italiana. Dal Cinquecento al Settecento, a cura di Raffaello Ceschi, Bellinzona 2000, p. 397. 93 Rainaldi, Quando il fuoco camminava, cit., p. 27. 94 Chiara Orelli, I migranti nelle città d’Italia, in Storia della Svizzera italiana. Dal Cinquecento al Settecento, a cura di Raffaello Ceschi, Bellinzona 2000, pp. 274-282 e Damiani-Cabrini, Le migrazioni d’arte, cit., pp. 294-302. 95 Aldo Crivelli, Artisti ticinesi in Russia, Locarno 1966, pp. 37-38 e 48-49. 96 Estratto di lettera del Console svizzero ad Algeri al Direttorio federale in data 25 gennaio 1845. Citato in ASTi, Foglio officiale della pubblicazioni e degli annunci nel Cantone Ticino, anno 2, 1845, n. 10, p. 151 e n. 12, pp. 189-190. 97 ASTi, Fondo notarile, notaio Giovanni Maria Galeazzi, Sc. 1974, nr. 1183, 26.2.1863. 98 ASTi, Fondo Zanini, Sc. 1, Algeria, 1840-1911.
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Li ticinesi (la più parte muratori, tagliapietre, stuccatori e dipintori) sono in maggior numero, e credo non ingannarmi portandoli a 1000 circa; siccome sono ambulanti, così eglino occupano quasi per intero le pagine del mio registro di passaporti. Essi sono li più abili a togliersi d’imbarazzi; economi e travagliatori, riescono quasi tutti. Molti hanno fatto fortuna e sono commendevoli.96
Si dichiara inoltre che la posizione degli svizzeri in Algeria è in generale soddisfacente: abbiamo così ad Algeri come a Bona e ad Orano parecchie persone onorevolmente collocate. La classe industriale è quella che fa miglior sorte, a motivo che tutti li mestieri sono pagati bene ed il vivere non costa più caro di quel che sia a Marsiglia. […] La fiducia intorno all’avvenire della colonia sembra che sempre più si raffermi, mentre capitali considerevoli arrivano ogni giorno.
L’esempio dei fratelli Alessandro, Giacinto, Michele e Mansueto Del Prete di Astano, figli del fu Cipriano, i quali hanno «negozi, beni, crediti, ragioni e azioni che in comune possiedono nell’Africa francese»97, dimostra i profitti tratti da un’Algeria in espansione anche da parte di alcuni malcantonesi, forse proprio fornaciai. Parrebbe infatti che Giacinto, emigrante nella provincia di Algeri, esercitasse nelle fabbriche da calce la professione di «fornasée»98.
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Le prospettive di guadagno in un paese che, agli occhi dell’emigrante, appariva eccezionalmente prospero, sono esplicitate dalle parole di G. Fugazza, fornaciaio in Algeria assieme al fratello e al padre. Noi lavoriamo in una fornace che conosciamo sino dal 1880, a Boufarich lungi d’Algeri 35 hil. In quanto a febbre qui è ben difficile trovarla, poiché il paese è stato reso sano mediante i grandi lavori di terrazzamento e le innumerevole piantagione fatte. Non è con esagerazione che dico questo bensi è la pura verità. Boufarich è il paese più ricco della provincia d’Algeri. Nel cirquito di quatro hil. è tutto coperto di platani e orangi. La più grossa risorsa è la granalia, quindi orangi e mandarine poi uva e legumi d’ogni qualità. Poi c’è il mercato che è il più considerevole dell’Algeria. […] Dunque caro signor padrino per questanno non posso dire di essere in paese selvatico ma bensi, in un lembo di terra a paragonarsi ad un paese della pianura d’Itaglia. […] In questanno saremo trè al lavoro e quindi faremo tutto il possibile per guadagnare una discreta campagna e così arrivare a prepararci un piccolo sostegno per lavenire99.
Nonostante, in realtà, le partenze verso l’Algeria si esaurirono nel giro di pochi anni100, la politica coloniale francese, unitamente all’apertura del canale di Suez nel 1869, determinò altresì lo sviluppo della città portuale di Marsiglia, nel sud della Francia. Ma è dal vicino dipartimento delle Alpi marittime, dove i centri balneari della costa stavano vivendo la loro belle époque (attorno al 1870), che giungono notizie di malcantonesi impegnati come fornaciai. «Qui a Cannes vi sono lavori veramente colossali in tutte le professioni, insomma noi non possiamo tenire la scorta di mattoni per i CapoMastri, se va di questo passo, fra breve, Cannes diventerà una città di primo rango» scriveva Pietro Avanzini a don Guerino il 15 maggio del 1881101. Si tratta di una prosperità sconosciuta alle nostre latitudini, ciò che spiega i toni a tratti entusiastici di questi resoconti. Altrettanto affascinato dalla regione mediterranea è Luigi Marcoli: in una sua lettera del 10 giugno 1889 indirizzata al fratello racconta come Non si può spiegare la magnificenza di questa riviera, sono tutte villeggiature, il terreno coltivato a limoni, arance, vite e frutta; i boschi tutte olive come la nostra pianta di castagno. […] Trovai i padroni e andammo alla fornace qui vi vè una galleria piena di macchine, come quelle dell’Esposizione di Milano. Si trita, macina, impasta la terra, si fanno mattoni pieni, forati di tutte le qualità, vè la macchina per le tegole piane ma fino ad ora non funziona. Solo per far andare tutto questo movimento ci vuole una spesa tremenda102.
Dal canto suo, l’emigrazione ticinese oltremare – in America e Australia – nasce in tempi più recenti, se comparata alle secolari migrazioni stagionali e periodiche pluriennali verso il resto dell’Europa, ossia dopo la metà dell’Ottocento, e per cause almeno in parte diverse. «Barometro della congiuntura politica ed economica del Cantone» – come lo definì Cheda103 – questo esodo è sintomatico delle precarie condizioni in cui versava il Ticino di allora. Il blocco austriaco del 1853 e le conseguenti misure restrittive andarono ad aggravare una situazione già segnata da alcune stagioni di magri raccolti e da calamità naturali. Per molti ticinesi, l’emigrazione verso il nuovo mondo diventò così un espediente – non sempre riuscito – per lasciarsi alle spalle povertà e miseria104. Del continente americano i malcantonesi e i più in generale i sottocenerini, ormai noti per la loro bravura nel settore delle costruzioni, preferirono il sud e in modo
99 Boufarich, agosto 1889 – Lettera di G. Fugazza al padrino. Citata in Alther, Medici, Curio e Bombinasco dagli albori, cit., pp. 378-379. Dallo stesso si può dedurre che l’autore della lettera è con ogni probabilità Galdino Francesco Fugazza (1860-1909), fornaciaio in Algeria assieme al fratello Placido Giuseppe (1867-1900) e al padre Giuseppe (1833-1891). Con loro all’estero c’era in precedenza anche il terzo fratello, Enrico Ermanno (1862-1944). 100 Lorenzetti, L’emigrazione ticinese, cit., pp. 41-42. 101 Mandelieu, 15.5.1881 – Lettera di Pietro Avanzini a don Guerino. Citata in Alther, Medici, Curio e Bombinasco dagli albori, cit., p. 376. 102 Archivio famiglia Marcoli-Medolago. Fréjus, 10.6.1889 – Lettera di Luigi Marcoli al fratello. 103 Giorgio Cheda, L’emigrazione ticinese in Australia, Locarno 1976, vol. 1, p. 69. 104 Raffaello Ceschi, L’età delle emigrazioni transoceaniche e delle ferrovie, in Storia del Cantone Ticino, l’Ottocento, a cura Raffaello Ceschi, Bellinzona 1998, pp. 297-314.
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Gli abitanti delle valli superiori del Ticino, tra i primi a recarsi, negli anni Cinquanta, in California e Australia dove era stato scoperto l’oro, continuarono anche in seguito a preferire il nord America. A partire dagli anni Settanta, anche i paesi in via d’espansione del Sud America divennero meta ambita, questa volta soprattutto per le maestranze edili del Luganese e del Mendrisiotto (Ceschi, L’età delle emigrazioni transoceaniche, cit., p. 315 e seguenti). Dell’emigrazione malcantonese oltremare riferisce Chiesa, Lineamenti storici del Malcantone, cit., pp. 220-221. 106 Questa deduzione si basa sulle cifre contenute nelle tabelle di Augusto O. Pedrazzini, L’emigrazione ticinese nell’America del Sud, Locarno 1962, vol. 1, p. 280 e seguenti. Su tutti spiccano i capomastri-costruttori (103 su un totale di 374), seguiti con un certo distacco da imbianchini (72), gessatori (61) e muratori (55). Come si avrà modo di osservare più avanti, soltanto due sono invece i fornaciai accertati. Numeri analoghi sono stati riscontrati da Ivano Fosanelli, Verso l’America, Emigrazione, insediamento, identità tra Otto e Novecento, Locarno 2000, pp. 53-67, e più precisamente nel registro degli iscritti alla società svizzera di mutuo soccorso di Cordoba (Sociedad Helvecia de Socorros Mutuos, Cordoba) tra il 1874 e il 1936. Anche in questo caso il settore trainante è quello edile. 107 Pedrazzini, L’emigrazione ticinese nell’America del Sud, cit., vol. 1, pp. 281 e 291. 108 ASTi, Fondo passaporti, Sc. 4-8. 109 ASTi, Conto reso del Consiglio di Stato per l’anno 1872. “Riepilogo dell’emigrazione oltremare nell’anno 1872” (Tavola 4 in appendice). 110 Ci si riferisce alla “Lista di emigranti ticinesi in Argentina, ottenuta da Consolati, Società svizzere, Archivi privati, Pubblicazioni, Informazioni verbali, ecc.”, in Pedrazzini, L’emigrazione ticinese nell’America del Sud, cit., vol. 2, pp. 229288. 111 Pedrazzini, L’emigrazione ticinese nell’America del Sud, cit., vol. 1, p. 279 e seguenti. Tra l’altro i due nomi non sembrano corrispondere a dei malcantonesi. 112 Fosanelli, Verso l’America, cit., p. 59 113 Archivio famiglia Fonti. La Plata, 26.12.1883 – Lettera di Emilio Fonti scritta all’indirizzo del padre Daniele. Emilio Fonti è registrato a Buenos Aires assieme a Buonaventura Fonti nell’elenco degli emigrati in America del sud nel 1884 (Pedrazzini, L’emigrazione ticinese nell’America del Sud, cit., p. 246). Nel 1873 Emilio era già attivo quale fornaciaio in Italia, al fianco del padre Daniele, come si deduce da una lettera scritta da quest’ultimo. 105
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particolare l’Argentina. Infatti, in questo paese dell’America latina in chiara espansione, forte della recente indipendenza, si era dato avvio a importanti opere edilizie, che avrebbero offerto ad alcuni di loro interessanti opportunità di lavoro105. All’incirca il 28% dei ticinesi partiti per questa meta attorno alla metà dell’Ottocento fu attivo in uno dei rami dell’edilizia, che dunque, assieme all’industria e al commercio, costituì indubbiamente il settore trainante106. Sebbene quello dei fornaciai di mattoni fu un lavoro al quale si sono dedicati di preferenza argentini e italiani107, tra coloro che salparono alla volta del continente americano figurano pure alcuni fornaciai. Tra il 1850 e il 1873 furono emessi a nome di fornaciai malcantonesi una cinquantina di passaporti, la maggior parte dei quali fu successivamente vidimata per Buenos Aires, passando da Genova e Marsiglia108. Se da un lato la loro partenza può essere confermata da più parti – anche i rilevamenti statistici per l’anno 1872 contarono 18 fornaciai emigrati oltremare dal distretto di Lugano109 – dall’altro, una volta saliti a bordo, le tracce vanno affievolendosi. Solo in un paio di occasioni gli stessi nomi registrati sui passaporti ricompaiono nei vari elenchi di emigranti. Nella lunga lista stilata dal Pedrazzini e basata anche su fonti provenienti dagli archivi transoceanici, non sono contemplati i mestieri, forse proprio per ammessa difficoltà nel reperire informazioni di questo tipo110. Non è quindi dato a sapersi con certezza quanti dei cinquanta e più fornaciai, dopo l’arrivo in terra americana, abbiano poi effettivamente esercitato l’attività laterizia, con quali mansioni e con quale esito. In mancanza di cifre assolute accertabili, ci si deve accontentare dei dati relativi. A confronto dei complessivi 374 emigranti impegnati nell’edilizia, i soli due fornaciai contati dal Pedrazzini, secondo lo stesso, rispecchierebbero almeno in parte le proporzioni effettive111. Una proporzione rispettata grossomodo anche tra gli iscritti alla Società svizzera di mutuo soccorso di Cordoba, che contava altri due «Fab. de ladrillos», ossia fornaciai, su un totale di 151 membri attivi nel ramo edile112. Pur dovendo ammettere a questo punto la marginalità dell’emigrazione transoceanica dei fornaciai malcantonesi, vale la pena soffermarsi sull’unica testimonianza particolareggiata fin qui rinvenuta, ossia una lettera scritta nel dicembre del 1883 da Emilio Fonti, fornaciaio a La Plata, e indirizzata al padre Daniele, residente a Miglieglia113. Per certi versi molto simile al resto della corrispondenza scritta dai fornaciai emigrati altrove (ritornano elementi quali stato di salute, condizioni di vita, notizie sui compaesani, eccetera), la missiva fornisce un’interessante descrizione delle condizioni di lavoro a La Plata. In modo particolare il Fonti esprime apprezzamento per il minor dispendio di energie rispetto ai tempi trascorsi in Italia, permettendo così un primo significativo paragone con la situazione nelle fornaci del vecchio continente. Caro padre, […] Primieramente vi notifico lo stato di mia buona salute, similmente spero di voi, la famiglia, mia moglie e figlie e parenti nostri tutti. Colgo quest’occasione giacché siamo in feste di natale di notificarvi che io me la passo bene. Lavoro, mangio e bevo. Le mie occupazioni non sono poi tanto faticose come in Italia. Io ed il mio compagno Abbondio lavoriamo a far mattoni fin verso le 11 ore ora del pranzo, dalla mattine alle 11 guadagniamo in media fr. 17 al giorno. A mezzogiorno facciamo due ore di riposo indi ci poniamo a preparare il lavoro incamminato per il mattino susseguente. […] Il lavoro in questi paesi è molto. Le fabbriche in costruzione sono a migliaia qualcune delle quali
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contengono migliaia e migliaia di mattoni. Il più piccolo giornaliero di qualunque impresa prende fr. 8 al giorno con due ore a mezzogiorno. I muratori, bianchini, gessatori, pittori ecc. sono pagati a caro prezzo, a tratti perfino di 15 fr. al giorno lavorando ogni giorno quantunque piovesse e festa. Noi qui stiamo tutti bene. Abbiamo passato le feste tutti in compagnia nel caffè del nostro padrone in una magnifica sala di 14 per 17 metri di lungo. Era intenzione di passare queste feste a Buenos Aires in compagnia degli Avanzini ma nella lettera di mia moglie ricevuta il 22 corrente lessi la morte del nostro caro amico e cugino Felice. […] Qui in vitto non si sta male. Carne tutti i giorni quantunque fosse pure vigilia o venerdì. Qualsiasi sorta di frutta secca, ogni qualità di formaggio pane fresco ed ecellente. Tutti si paga centes. venti al piatto. Ogni piatto è a volontà di scelta. In vino è da 40 a 50 centes. il bicchiere. L’ammontare del vitto è a stregua di giorni, nei giorni caldi il bevere cresce e ci monta di più. Direte a mia moglie che le lettere che mi fa menzione sono in perfetta regola. La prima da lei ricevuta fu scritta 15 giorni dopo da me che la seconda, che conteneva la cambiale. […] A notificarvi tutto ci vorrebbe un volume. Basta. Chiudo la presente coi più affettuosi saluti. Dite a mia moglie di mangiare e bevere e di avere cura alle bambine. Come pure prego voi pure di avere per queste ultime protezione vostra. Salutatemi parenti nostri tutti e mi dichiaro Vostro figlio Emilio […] Attendo vostro riscontro con qualche notizia del paese; i miei soci sono tutti sani. Salutate le loro famiglie.
Emilio Fonti, che in patria aveva lasciato moglie e figlie, avrebbe dovuto trascorrere il Natale lontano da casa con alcuni suoi compaesani assieme al suo compagno d’avventura Abbondio. Quella malcantonese in Argentina era una comunità piuttosto numerosa, che annoverava tra le sue fila anche personaggi di prestigio, imprenditori o professionisti appartenenti al «ceto borghese con formazione accademica»114. Tra le famiglie di spicco si ricordano gli Avanzini di Curio, i De Marchi di Astano, i Pellegrini di Croglio, i Quadri di Agno e i Soldati di Neggio. Anche il sistema migratorio oltreoceano sembra quindi ruotare attorno alla cerchia parentale e far perno sulla solidarietà tra compaesani115. In conclusione, pur dovendo ammettere che passaparola e solidarietà tra compaesani, almeno sullo sfondo, sono pressoché onnipresenti, dopo gli esempi appena descritti è altresì innegabile l’importanza di fattori fisici ed economici. La configurazione del territorio e il richiamo esercitato dai centri di potere e dai paesi in espansione si sono infatti rivelati due elementi cardine nella scelta della meta migratoria. Con la sostanziale differenza, però, che la congiuntura economica poteva rivelarsi anche solo temporale. Epidemie e catastrofi naturali hanno talvolta costretto l’emigrante a un cambio di rotta. Così i Bertoli, a causa di un’ondata di colera, nel 1830 lasciarono la zona di Tortona (AL) e Voghera (PV), dove uno di loro disponeva di due fornaci, per trasferirsi definitivamente nella regione veneta, dove furono poi attivi per diverse generazioni116. Anche i due conflitti mondiali influirono negativamente sull’industria laterizia. A questo punto però, l’emigrazione era già sulla via del declino.
Ceschi, L’età delle emigrazioni transoceaniche, cit., p. 319. 115 Ceschi, L’età delle emigrazioni transoceaniche, cit., p. 317 e seguenti e Pedrazzini, L’emigrazione ticinese nell’America del Sud, cit., vol. 1, p. 259 e seguenti. 116 Gambarotto, Dal Bo (a cura di), San Biagio di Callalta, cit., p. 200. 114
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Barcone della fornace Bertoli utilizzato per trasportare i laterizi sul fiume Sile, verso Venezia.
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3. I protagonisti: una tipologia
3.1. «Fornaciaio», un termine dalle varie sfaccettature Riuscire a individuare dei fornaciai e attribuire loro un nome appare, per certi versi, come un risultato soddisfacente, ma che non può ancora considerarsi esaustivo. Volendo dunque approfondire la ricerca, e prima ancora di capire il funzionamento del sistema fornace, ossia dell’insieme di quegli elementi che garantirono la riuscita all’attività, rimane innanzitutto da definire una tipologia dei molti fornaciai che, fin dal Seicento, si resero protagonisti di questo fenomeno migratorio. Compito non sempre facile se si tiene conto dell’accezione generale del termine «fornaciaio» così come lo si legge abitualmente in molti documenti. Ciononostante, si cercherà ora di distinguere la moltitudine di nomi di non meglio specificati «fornaciai» malcantonesi, precedentemente suddivisa secondo la forma migratoria (emigrazione stagionale, periodica pluriennale e duratura), procedendo a una diversificazione di tipo prettamente professionale – e in parte sovrapponibile alla prima – e incentrata sui ruoli ricoperti da ognuno di loro sul posto di lavoro. Utile a questo proposito è il «Prospetto dei proprietari ed esercenti professione od industria, danneggiati pel fatto del blocco, ed importo dei relativi danni»117, elenco degli espulsi dal Regno Lombardo-Veneto a seguito del blocco austriaco del 1853, tra i quali figurano numerosi malcantonesi. Alla colonna dedicata alla «Qualità del negozio, possesso, impiego o professione», oltre a «fornasaro», si possono leggere le variazioni «Proprietario fornasaro», «Negoziante fornasaro», «Capo fornasaro» e «Lavorante fornasaro», le quali lasciano intuire che, in realtà, dietro questa parola si nascondevano diverso ruoli. Se poi si aggiungono le differenze nei guadagni e le assenze di durata variabile, l’esistenza di diverse categorie di fornaciai tra i malcantonesi risulta evidente. A titolo di esempio, i proprietari e i negozianti bilanciavano la prolungata permanenza all’estero con introiti superiori a quelli dei lavoranti stagionali. A discolpa di una terminologia talvolta equivoca, bisogna comunque premettere che il fornaciaio malcantonese fu innanzitutto un polivalente. Leonardo Morandi, affittuario di una fornace a Cossonay nel canton Vaud assieme al socio Avanzini, nel maggio del 1884 annotava che il probabile aiutante «Notari è partito, credo che verrà a casa perché mi disse che aveva male a una gamba e che non poteva resistere al lavoro, mi rincresce per lui, e per mi, che sono disorganizzato negli uomini»118. Di conseguenza, «causa la partenza del Notari sono obbligato di fabbricare tutto il materiale io stesso»119. Da ciò si deduce che il Morandi, l’intraprendente capostipite di una delle famiglie attive per diverse generazioni nell’industria laterizia romanda, si occupava non solo della fabbricazione di laterizi ma, in qualità
117 ASTi, Fondo Risorgimento italiano, Cartella 23. Si veda inoltre Giuseppe Martinola, Il blocco della fame, «Bollettino storico dell Svizzera italiana», LXXXII (1970), pp. 97-115. In entrambi i casi il conteggio esatto risulta difficoltoso. Si tenga comunque presente che secondo il Martinola i fornaciai espulsi e appartenenti al distretto di Lugano furono complessivamente 140, sui 147 totali a livello ticinese. 118 MusMalc, Fondo Avanzini. Cossonay, 20.5.1884 – Lettera di Leonardo Morandi. 119 MusMalc, Fondo Avanzini. Cossonay, 8.6.1884 – Lettera di Leonardo Morandi.
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di titolare della fornace, ne gestiva anche gli affari. Tale fluidità di ruoli – qui oltremodo forzato dalle circostanze sfavorevoli – è piuttosto frequente tra gli emigranti malcantonesi e tende a scomparire progressivamente a Ottocento inoltrato quando, con l’ampliamento delle manifatture e il progresso tecnologico, la ripartizione dei compiti potè essere ottimizzata attraverso una più accentuata divisione del lavoro120. Una simile riorganizzazione del sistema può considerarsi completata con l’entrata in scena dei cosiddetti fornaciai industriali, come tra l’altro risulta dai documenti conservati nell’archivio comunale di Croglio e concernenti il servizio militare e il reclutamento di soldati nel periodo a cavallo tra XIX e XX secolo121. In questi elenchi, oltre a essere enumerati un centinaio di “semplici” fornaciai, figurano anche degli «industriali» come Giovanni Marcoli, figlio di Candido, attinente di Croglio e domiciliato a Calcinato (BS) e Giovanni Mina, figlio di Giuseppe, attinente di Croglio e pure domiciliato in Italia. I cognomi Marcoli e Mina, così come la località di Calcinato, sono noti nell’ambito dell’industria laterizia. Infatti, dai rispettivi archivi privati si sa che queste due famiglie vantano tra i loro membri imprenditori attivi in questo ramo122. Dunque, alla luce di quanto affermato fin qui e malgrado una qualche sfumatura dovuta al persistere di una certa interscambiabilità delle funzioni, si può suddividere l’attività laterizia in due principali tronchi, il primo relativo alla produzione, il secondo alla gestione; in entrambi furono attivi gli emigranti malcantonesi.
3.2. Il fornaciaio malcantonese tra produzione e direzione: la manodopera
Si veda Zerbi in questo volume, p. 114. Archivio comunale Croglio. Unità 11.5 – Controllo di matricola, senza data (probabilmente 1903-1916) e Unità 11.6 – Controllo di matricola, senza data (prima metà del XX secolo, probabilmente dagli anni Venti agli anni Cinquanta). 122 Archivio famiglia Marcoli-Calcinato e Archivio famiglia Mina. Uno dei maggior esponenti della famiglia Marcoli è indubbiamente Candido Marcoli, una figura sulla quale si avrà modo di ritornare a più riprese. 123 Gianpaolo Gri, In fornace nel primo Ottocento, in Fornaci e fornaciai in Friuli, a cura di Maurizio Buora e Tiziana Ribrezzi, Udine 1987, pp. 117-118. Per un analisi più approfondita si veda Zerbi in questo volume, passim. 120 121
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Protagonista principale della produzione è la manodopera, che con gli anni subì un vistoso quanto inevitabile cambiamento nella sua composizione e negli effettivi. Di pari passo mutò sostanzialmente anche l’apporto fornito dai malcantonesi in questa fase realizzativa, in cui l’argilla era lavorata e trasformata in laterizi con una procedura a tappe che cominciava proprio dall’estrazione della materia prima. L’argilla così ricavata dal terreno era poi mescolata e impastata finché non fosse pronta per la modellazione. A questo punto entrava in scena lo stampatore, che «coglieva una manciata di argilla con la mano, la versava nello stampo di legno o ferro spolverato di sabbia, la comprimeva e la pareggiava con un archetto»123. I laterizi così formati andavano lasciati a riposo alcuni giorni per permetterne l’essiccazione, dopodiché erano pronti per essere cotti in fornace, ossia in «una camera di mattoni dotata di una bocca di carico e di bocchini di alimentazione». Si trattava della fase più delicata per cui erano richieste molta attenzione ed esperienza: «Introdotti nella camera, i pezzi crudi erano accatastati sopra uno strato di pietre frantumate destinate a trasformarsi in calca; la catasta era formata in modo che fra i pezzi ci fossero minimi corridoi di aerazione. Completato il carico, venivano introdotte le borre di faggio, e una volta acceso, il fuoco veniva alimentato e la temperatura mantenuta costante per alcuni giorni (in genere una decina)». A cottura terminata bisognava ancora aspettare qualche giorno che la fornace si raffreddasse prima di procedere allo scarico del materiale e con esso portare a termine il ciclo produttivo dei laterizi. Un esiguo numero di uomini, generalmente composto dal fornaciaio titolare del-
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la fornace (proprietario o affittuario) e alcuni suoi parenti, riusciva a portare avanti la produzione manuale di una fornace provvista di forno a fuoco intermittente senza una netta suddivisione interna dei compiti. Era un ritmo di lavoro legato alla bella stagione e compatibile con l’attività agricola, per cui, all’occorrenza, si ingaggiavano temporaneamente rinforzi sottraendoli all’attività nei campi124. Anche la maggioranza delle famiglie di fornaciai malcantonesi mosse i primi passi in condizioni simili. Quanto «alli nostri interessi sono cinque giorni che ho levato il fuoco della fornace e siamo messo a travagliare con dieci ommeni di Carnate ma fin ora abbiamo fatto pocho che qui piove dispesso e andiamo avanti col lavoreri», scriveva Carlo Marcoli da Medolago (BG)125. Nella località bergamasca i fratelli Marcoli di Biogno avevano una fornace, di cui si occupava per gran parte della stagione proprio Carlo, tra l’altro iniziando al mestiere il giovane nipote Luigi126. L’industria laterizia continuò ad alimentare il flusso migratorio in partenza dal Malcantone anche una volta superata la dimensione familiare e dopo le prime migliorie al sistema di produzione sopraggiunte nella seconda metà dell’Ottocento. A questo punto, però, le famiglie fornaciaie malcantonesi, che spesso conciliavano l’attività laterizia all’estero a quella di contadino in patria, dovettero compiere una scelta. Molti di loro, già proprietari o affittuari di fornaci, abbandonarono la poliattività familiare per dedicarsi al laterizio in forma imprenditoriale, occupandosi soprattutto degli aspetti amministrativi e gestionali di cui si dirà più avanti. Altri, invece, rimasero tra gli addetti alla produzione, ma alle dipendenze di un datore di lavoro molte volte loro compaesano. Infatti, come in passato, il titolare della fornace continuava a fare affidamento su persone di sua conoscenza o di cui gli era noto il valore, richiedendone talvolta esplicitamente la loro presenza. Così, Antonio Del Mollo, in una lettera al fratello Cristoforo a Novaggio, lo avvisa che «riguardo all’uomo per infornare, e cuocere, ora non mi occorrono più perché mi sono provveduto»127, ma gli consiglia di «anticipare i lavori della campagna perché qui sei necessario». È proprio la corrispondenza, una delle poche testimonianze sul conto della manodopera malcantonese, a suggerire, direttamente o indirettamente, la presenza di altri compaesani: «se avete occasione salutatemi la molie di Antonio nostro lavorante ghi dirrete di scrivere un lettere che lui apiacere di sapere qualunque notizia di suva casa»128, scriveva Lorenzo Marcoli da Medolago. Nella stessa località «Il giorno di S. Pietro è arrivato il Fontana Stanislao proveniente da Divignano (NO), fornace Boschetti e domani comincia a fare mattoni qui da noi»129. Nelle fornaci malcantonesi all’estero c’era inoltre spazio anche per lavoratori locali. A Calcinato (BS), l’attività laterizia e agricola, nata grazie alle iniziative di Candido Marcoli, assicurava il sostentamento a una cinquantina di famiglie, alle quali si aggiungevano i numerosi giornalieri della zona130. Da segnalare infine l’altrettanto significativa partecipazione ai lavori nella fornace che Antonio Bertoli gestiva in Romania, di operai originari di Zenson di Piave (TV), località della provincia di Treviso, non lontana dalle manifatture Bertoli131. Ciò ha una valenza particolare, poiché significa che questa famiglia era riuscita a diventare punto di riferimento addirittura in terra straniera. Da notare infine che questo metodo di reclutamento della manodopera ben si associa alla logica delle catene migratorie cui si accennava in precedenza e presente in gran parte dei processi migratori. Molte sono infatti le analogie che si riscontrano con altre comunità alpine a forte migrazione132.
124 Casprini, Guerrini (a cura di), Terra. Acqua. Fuoco, cit., p. 3. 125 Archivio famiglia Marcoli-Medolago. Medolago, 26.8.1867 – Lettera di Carlo Marcoli al fratello. 126 Archivio famiglia Marcoli-Medolago, passim. 127 Archivio privato Demarta. Fagaré, 5.3.1867 – Lettera di Antonio Del Mollo al fratello Cristoforo. 128 Archivio famiglia Marcoli-Medolago. Medolago, 5.6.1836 – Lettera di Lorenzo Marcoli al padre. 129 Archivio famiglia Marcoli-Medolago. Medolago, 1.7.1884 – Lettera di Luigi Marcoli alla madre. I Boschetti sono pure originari del Malcantone. 130 Marcoli, Ricordi di una vita, cit., p. 31. 131 Gambarotto, Dal Bo (a cura di), San Biagio di Callalta, cit., p. 200. 132 Si vedano per esempio la Valle del Cervo (Audenino, Un mestiere per partire, cit., p. 68) e la Valle di Blenio (Luigi Lorenzetti, Emigrazione, imprenditorialità e rischi. I cioccolatai bleniesi (XVIII-XIX secc.), in Il cioccolato. Industria, mercato e società in Italia e Svizzera (XVIII-XX sec.), a cura di Francesco Chiapparino e Roberto Romano, Milano 2007, p. 48).
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Gruppo Culturale di Corte Franca (a cura di), Fornaci a Corte Franca tra storia e memoria, cit., p. 83; Rainaldi, Quando il fuoco camminava, cit., p. 36. Sulla durata di una stagione lavorativa si veda Zerbi in questo volume, p. 113 e seguenti. 134 Si vedano a questo proposito i numerosi testi specializzati sulla tecnica laterizia e la sintesi di Zerbi in questo volume, passim. Sui cambiamenti dovuti ai nuovi forni a fuoco continuo si veda invece Massimo Tozzi Fontana, La produzione dei laterizi in Italia attraverso l’inchiesta ministeriale del 1908, «Scuolaofficina, Periodico di cultura tecnica», 1 (1988), p. 7 e il capitolo Il ruolo dell’evoluzione tecnica. 135 Tozzi Fontana, Fornaci da laterizi nel bolognese, cit., p. 24. 136 Testimonianza orale di Gianna Macconi-Paltenghi, discendente di fornaciai malcantonesi. 137 Marcoli, Ricordi di una vita, cit., pp. 33-34. La «Fabbricazione giornaliera di mattoni» è registrata in un quaderno appartenente all’archivio della famiglia Marcoli a Medolago, nel quale accanto ai nomi di una decina di operai compaiono dei numeri variabili tra 1700 e 250, riferiti con ogni probabilità alla produzione giornaliera di mattoni. Purtroppo il documento non è datato. 138 Gri, In fornace nel primo Ottocento, cit., p. 118. Un esempio dettagliato circa le mansioni e i relativi salari è contenuto in Casprini, Guerrini (a cura di), Terra. Acqua. Fuoco, cit., p. 9 e si riferisce a una fornace dell’Antella nel 1839. 139 Marcoli, Ricordi di una vita, cit., p. 32. 140 MusMalc, Documentazione sui fornaciai. Materiale vario sulla famiglia Fonti da Miglieglia in Grignano Polesine. 133
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La forza lavoro, che fosse d’origine malcantonese o meno, era composta in buona parte da salariati stagionali, impiegati tra aprile e settembre quando la fornace era nel pieno della sua attività. In autunno e in inverno, invece, il personale era drasticamente ridotto, poiché il freddo impediva molte delle operazioni necessarie alla messa in opera di mattoni e coppi, con alcune eccezioni come per esempio l’estrazione dell’argilla e la raccolta della legna quale combustibile133. Sostanziali cambiamenti di ritmo subentrarono dopo la metà del XIX secolo con l’introduzione dei forni a fuoco continuo, che permisero un’estensione del periodo di cottura su tutto l’arco dell’anno. Un simile prolungamento della stagione lavorativa comportò un inevitabile aumento del personale attivo durante l’inverno, in modo particolare la presenza costante degli addetti al forno. Da questo momento in poi, la stagione di lavoro si divise per specialità; ciò comportò un’inevitabile progressiva specializzazione della manodopera, con l’assegnazione di ogni fase del processo produttivo a lavoratori più o meno qualificati134. Nell’estrazione dell’argilla, nel trasporto o nella prima lavorazione della materia prima, tutte quante mansioni ausiliarie del ciclo produttivo che non richiedevano particolari conoscenze tecniche, erano impegnati i braccianti135. Operazioni principali quali la modellatura e la cottura erano invece affidate a esperti in materia, cui veniva generalmente rinnovato l’appalto di anno in anno. A Casei Gerola (PV), presso la fornace della famiglia Paltenghi originaria di Croglio, i ruoli di mattonaio e di tegolaio s’identificavano addirittura con i cosiddetti «Toscani», che annualmente giungevano dalla Toscana con mogli e figli136. Analogamente, alla fornace di Candido Marcoli a Calcinato nel periodo annuale della lavorazione dell’argilla da trasformare in manufatti (proprio fatti a mano), stagione che allora andava da metà aprile fino a S. Maria 8 settembre, (nel periodo dell’anno più caldo per dare modo al manufatto di essicarsi col calore del sole, non esistendo ancora gli essicatoi, prima di essere avviato alla cottura) alcune famiglie intere che dalle valli della vicina città di Bergamo (Val Brembana, ecc.) si trasferivano da noi per fare, in quei 5 mesi, i tegolai della cui confezioni erano specialisti. […] La formazione delle tegole […] era affidata a queste maestranze bergamasche alle quali mio padre, forniva oltre ad un alloggio modesto in fornace, la materia prima per sfamarsi che era la farina per fare la polenta137.
Tra i vari incarichi assegnati alla manodopera, il ruolo di maggior prestigio, e ricompensato dal salario più alto, era però quello di colui che sorvegliava il fuoco, il fuochista138. La fornace Marcoli a Calcinato «aveva un capo uomo che fungeva anche da fuochista (sul forno i fuochisti erano due e dovevano, a turno alimentare per 24 ore dalle bocche apposite dall’alto, con carbone macinato, torba od altri materiali infiammabili il fuoco che girava continuamente, da una cella all’altra, nel tunnel dove veniva collocato il materiale per la cottura)»139. Il «capo uomo» in questione potrebbe essere grossomodo l’equivalente del «capo uomini» che alla fornace Fonti di Grignano Polesine (comune di Rovigo, RO) «aveva la responsabilità della cava, della materia prima, la direzione degli uomini e del processo produttivo»; accanto a lui il «capo fornace» «dirigeva tutta l’attività, aveva la responsabilità della fornace, delle vendite, del materiale, del carico e della contabilità»140. Diversamente, in una non meglio specificata fornace Bertoli, queste stesse mansioni erano riunite in una sola persona, ossia quella del capo-fornace che supervisionava tutte le operazioni del ciclo produttivo. Infatti, «nel settimanale, da lui
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scrupolosamente tenuto, venivano registrate la quantità dei mattoni prodotti, di quelli finiti in pezzi; i costi di produzione, le ore di lavoro di ogni operaio e il salario relativo, gli eventuali acconti versati, le indennità di disoccupazione e d’invalidità. […] A fine anno poi, egli computava il costo totale dell’argilla, dei pezzi cotti e del combustibile impiegato»141. Pur non potendo stabilire con precisione quale era la regola nell’assegnare queste incombenze a fuochista, capo fornace e capo uomini, è chiaro che si trattava di funzioni di rilievo nella gerarchia dei lavoranti – ammesso che si possano ancora considerare tali. Vi è piuttosto da credere che fungessero da tramite tra la manodopera e chi si occupava della gestione aziendale, come conferma la presenza del malcantonese Costante Cantoni a Piavon d’Oderzo (TV). Mentre il padrone della fornace nonché cognato Ettore Lozzio badava agli affari, il Cantoni assunse proprio il ruolo di capo operaio142. Inoltre, nei casi appena menzionati, si sostiene che questi sovrintendenti siano entrati in funzione solo a inizio Novecento, con l’avanzare della meccanizzazione (miscelazione automatica, essiccazione artificiale, eccetera)143. Alla luce di quest’ultima considerazione, è oltremodo doveroso porre l’accento sulla funzione di «capo fornasaro» di cui già si fregiavano alcuni malcantonesi tra gli espulsi dal Lombardo-Veneto nel 1853. Il loro salario, mediamente poco più alto di quello di un comune «lavorante fornasaro» ma decisamente inferiore a quello di proprietari e negozianti fornaciai, li colloca verosimilmente in una posizione privilegiata tra la manodopera. Ciononostante, l’interrogativo permane sulle reali funzioni svolte prima del blocco austriaco da questi emigranti, di cui si dice, in un paio di occasioni, siano stati «direttore, agente rispettivamente assistente di fornace». Così come non è dato a sapersi a quale fase del processo produttivo abbiano preso parte con maggior frequenza tutti gli altri «lavoranti fornasari» che «recavasi usualmente in Lombardia a lavorare»144.
3.3. Il fornaciaio malcantonese tra produzione e direzione: gli imprenditori La giornata lavorativa trascorsa dall’industriale Candido Marcoli sul finire del XIX secolo rammenta l’esistenza di operazioni che andavano al di là dalla mera produzione di cui si è detto nel precedente capitolo, ma che erano altrettanto necessarie al buon funzionamento del sistema fornace. Aveva a sua disposizione un calesse, con una cavallina atta allo scopo, tranquilla ma nello stesso tempo veloce, sul quale saliva, appena fatto giorno, per portarsi prima alla fornace […] La mattina la passava generalmente alla fornace dove sbrigava tutte le pratiche (bollette di consegna, conteggio del materiale da infornare ed altro) ritornando a casa per l’ora del pranzo. Nel pomeriggio, dopo il sonnellino risaliva sul calesse e, dopo essere passato nuovamente alla fornace per prendere i dati da registrare in ufficio, faceva una visita in un paio di piccole aziende agricole […] Tornato a casa per la cena si concedeva un’oretta di riposo prima di passare nell’ufficio a registrare, su di un grosso registro, che noi chiamavamo registro nero, tutti i conti ed operazioni avvenute nella giornata […]145.
Come il Marcoli, molti altri emigranti malcantonesi, nel corso della loro carriera di fornaciai, si occuparono di acquisti, pagamenti, vendite, riscossioni, rimborsi o più in generale di «affari», per dirlo con le parole di Antonio Del Mollo. «In quan-
141 Gambarotto, Dal Bo (a cura di), San Biagio di Callalta, cit., p. 201. 142 Archivio privato Demarta. Lettera, 13.8.1907 e passim. 143 MusMalc, Documentazione sui fornaciai. Materiale vario sulla famiglia Fonti da Miglieglia in Grignano Polesine; Gambarotto, Dal Bo (a cura di), San Biagio di Callalta, cit., p. 202. 144 ASTi, Fondo Risorgimento italiano, Cartella 23. 145 Marcoli, Ricordi di una vita, cit., p. 32. Da notare che Candido Marcoli, oltre alla fornace, aveva avviato anche un’azienda agricola.
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146 Archivio privato Demarta. Fagaré, 15.8.1873 – Lettera di Antonio Del Mollo al suocero Giuseppe Bertoli. 147 Archivio privato Demarta. Fagaré, 16.8.1873 – Lettera di Colomba Bertoli-Del Mollo ai genitori. 148 Alther, Medici, Curio e Bombinasco dagli albori, cit., passim; testimonianza orale di Orio Galli, nipote di Angelo Galli. 149 Quest’espressione è d’uso comune soprattutto nelle numerose divisioni contenute nel Fondo notarile presso l’ASTi e sottintende non solo lo stabile della fornace, bensì tutto quanto è necessario all’attività laterizia, materiali e attrezzatura compresi. 150 Mario Comincini, Legno, terra, fuoco: le fornaci di laterizi tra Milano e il Ticino dal Medioevo all’Età moderna, «Natura, Rivista di Scienze Naturali», 1/98 (2008), p. 129.
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to ai nostri affari – egli scriveva nel 1873 – si può ringraziare il Cielo che vanno benissimo perché materiali bastarebbe poterne cuocere al doppio di quello che cuocio, tutto si smercia, appena che sortono i materiali della fornace sono pronti i carri che la conduce via, solo vi dirò che abbiamo il combustibile di qualsiasi genere carissimo, che anch’io dovetti vendere i materiali due Lire di più 6 milla»146. Gli fa eco la moglie Colomba, raccontando ai genitori a Novaggio come «I nostri affari vanno sempre bene mio marito sta cinque giorni per settimana a Piavon e il resto fag io quel che possomi qua a Fagaré»147. In questo modo, nel corso dell’Ottocento, prende gradatamente piede la seconda categoria di fornaciai malcantonesi, ossia quella di coloro che erano innanzitutto chiamati a curare gli interessi dell’attività laterizia, lasciando alla manodopera il compito di far mattoni. Proprietari e affittuari di fornaci, negozianti, industriali e imprenditori fornaciai sono stati i protagonisti che, in un modo o nell’altro, hanno animato la parte gestionale di quest’industria. Essi non rientravano però in un organigramma aziendale fisso, bensì formavano uno scenario composito, variabile secondo le esigenze di una o dell’altra fornace. Infatti, mentre la gestione delle fornaci d’inizio Ottocento si risolveva generalmente tra proprietario ed eventuale locatario, il coordinamento di manifatture più ampie richiedeva l’impiego di personale subalterno cui delegare alcune funzioni. Fu per esempio il caso di Angelo Galli di Besazio, assunto quale direttore amministrativo della fornace di Torre de’ Passeri (PE) nell’Abruzzo per dar mano forte ad Aurelio Innocente Morandi, proprietario di diverse fornaci in altre provincie d’Italia148. In questa stessa cerchia rientrano in un qualche modo anche il capo fornace e il capo uomini delle manifatture d’inizio Novecento citati in precedenza, grazie ai quali era garantita l’interazione tra produzione e direzione. Pertanto, a prescindere dalle dimensioni dell’opificio e indipendentemente dalla presenza o meno di figure ausiliarie, d’ora in poi e per il resto del lavoro si focalizzerà l’attenzione sui fornaciai imprenditori. Quest’espressione racchiude in maniera generica l’intera classe dei fornaciai indipendenti, titolari di fornaci. Come tale il titolare – proprietario o semplice affittuario di una o più fornaci – era responsabile in prima persona dell’andamento degli affari, che gestiva autonomamente o con l’aiuto di terzi, anche quando simultaneamente prendeva attivamente parte alla fabbricazione dei laterizi. In definitiva, al fornaciaio imprenditore competeva tutta una serie di ambiti, di carattere per lo più amministrativo tra cui l’affitto o l’acquisto della fornace, il finanziamento dell’attività, la clientela, eccetera, che saranno approfonditi nella parte dedicata al funzionamento del sistema fornace. Prima, però, è giusto ribadire che, molto presto, tra gli innumerevoli emigranti malcantonesi designati fornaciai, diversi di loro si distinsero proprio come imprenditori. Infatti, già ai primi dell’Ottocento, parecchi malcantonesi fruivano di un «negozio di fornace»149, svolgevano un’attività indipendente e promuovevano l’arte del fornasaro tra parenti e conoscenti offrendo loro lavoro, proprio come avrebbero fatto alcuni decenni dopo i fornaciai industriali, di cui i primi possono quindi essere ritenuti in un qualche modo precursori. Tra l’altro, in un suo articolo, Mario Comincini afferma che è proprio «il ricorso a manovalanza esterna in qualche misura specializzata» a sancire «il carattere imprenditoriale» nella gestione di una fornace150.
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Tra gli intraprendenti emigranti della prima metà del XIX secolo figura per esempio tale Domenico Vannotti di Bedigliora, un tempo proprietario di un negozio di fornace con fondo annesso in Remonte territorio di Lù (AL); egli disponeva inoltre di una «casa per uso dei lavoranti alla fornace stessa con tutti li utensili del negozio e scorte materiali»151. Tutti quanti questi beni furono ereditati dal figlio Pietro, che negli anni a seguire portò avanti gli affari avviati dal padre nel Monferrato. Da notare che è proprio sul conto dei malcantonesi con un’attività indipendente che si sono conservate le raccolte di documenti più corpose e le testimonianze più dettagliate (corrispondenza, atti notarili, contabilità), ossia grazie al carattere meno transitorio che ha assunto la loro emigrazione. E tra gli imprenditori meglio conosciuti proprio grazie a un’ampia documentazione, vi è sicuramente l’industriale Candido Marcoli. L’attenta descrizione della sua settimana lavorativa, unica testimonianza nel suo genere, vale perciò da modello per tutti gli altri fornaciai meno noti ma non per questo meno laboriosi. I giorni lavorativi erano sette su sette, suddivisi tra questioni burocratiche a tavolino (registrazione dell’attività settimanale, conclusione dei conti col personale che lavorava a cottimo), contatti diretti con i clienti nei mercati della regione (incassi e nuove commissioni) e disposizione del lavoro in fornace (produzione così come consegna della merce). Alla domenica, dopo la prima messa, ritiratosi a casa nello studio finiva di completare e controllare le registrazioni fatte in settimana, riceveva alcuni artigiani locali (falegname, fabbro, calzolaio detto “sarpoli”), alcuni clienti del paese coi quali regolava i conti o concordava i lavori della settimana successiva. […] Il lunedì era il giorno di maggior lavoro poiché bisognava predisporre, specie alla fornace, ogni particolare per le operazioni di cottura del materiale, preparazione dello stesso per la consegna nei vari cantieri sparsi in un raggio non superiore ai 15-20 km poiché la consegna veniva fatta con carri a cavallo […] […] il martedì, giorno di mercato a Desenzano, dopo essere passato in fornace ed avere dato tutte le disposizioni, vi si recava, sempre in calesse, per incontrare gran parte dei capimastri e rivenditori suoi clienti che vi si riunivano per ragioni di affari, ricevendo nuove commesse e riscuotendo quanto da essi dovuto. Il pomeriggio, un po’ più inoltrato, poiché il ritorno alcune volte veniva ritardato, ripeteva il giro giornaliero alle aziende. Il mercoledì, giorno di mercato a Brescia, ripeteva la stessa operazione del giorno prima per incontrarvi i suoi clienti del lato nord da Calcinato a Rezzato e per le stesse operazioni. Il giovedì era invece giorno di mercato a Lonato e qui si intratteneva poco in quanto gli stessi clienti li aveva incontrati il martedì sul mercato di Desenzano. Dedicava dunque maggior tempo alle operazioni della fornace ed alla visita nei campi. Il venerdì era invece una giornata abbastanza intensa in quanto, a tutte le incombenze di cui ho già accennato, doveva aggiungere una visita al mercato di Montichiari, mercato però strettamente legato alla campagna in quanto vi si trattava la vendita ed acquisto del bestiame, di altri prodotti agricoli ecc. […] in questo però era aiutato dal figlio Giovanni che aveva sistemato autonomamente in una azienda che fu già della prima moglie. Il sabato era dedicato ai conti di liquidazione del personale dipendente, che lavorava quasi tutto a cottimo e misura, contando e registrando la produzione della settimana e liquidando acconti in base a tale produzione152.
Visto e considerato il loro successo in ambito professionale, sorge infine la domanda sul ruolo avuto dai fornaciai imprenditori all’interno dell’industria laterizia locale, comunque già attiva prima dell’avvento di questi ultimi. Se si osserva il Nord Italia, area per cui si è potuto pure disporre di studi di storia regionale, è indubbio che alcuni dei malcantonesi emigrati in Piemonte, Lombardia, Veneto e
151 ASTi, Fondo notarile, notaio Giovanni Maria Galeazzi, Sc. 1973, nr. 919, 5.1.1857. 152 Marcoli, Ricordi di una vita, cit., pp. 34-36.
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Archivio privato Demarta, passim. Corti, Emigrazione e imprenditorialità, cit., p. 76. 155 Patrimoine en Isère, Valbonnais matheysine, Beaumont pays de corps, Grenoble 2001, p. 191. 156 «Gazzettino di Treviso», 30.4.1987. 157 Citazione tratta da Caio F. Trainoni, Emigrazione ed avviamento professionale malcantonesi, «Almanacco Malcantonese», 1956, p. 5. 158 Trainoni, Emigrazione ed avviamento professionale malcantonesi, cit., p. 6. 159 Archivio privato Demarta. Piavon, 10.11.1927 – Certificato. 153 154
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Emilia-Romagna seppero ritagliarsi una posizione di primo piano in questo settore. Infatti, non è raro leggere tra le molte personalità nomi d’origine malcantonese. Cio-nonostante non bisogna dimenticare la presenza di imprenditori e operai locali, attivi nello stesso ramo industriale. Ma anche questo elemento serve talvolta a comprovare il valore dell’industria laterizia di fattura malcantonese e il buon inserimento nel nuovo tessuto sociale. Sintomatici sono per esempio i contratti – d’affitto o di vendita – con cui alcuni membri dell’élite locale hanno affidato le proprie fornaci a dei malcantonesi, riconoscendone quindi il potenziale e di cui si dirà più avanti. Altrettanto significativi sono pure i vari gradi di collaborazione tra emigranti e imprenditori indigeni così come i matrimoni tra malcantonesi e gente del posto. Si pensi per esempio alla cooperazione nata tra i malcantonesi Muschietti e Del Mollo e Pietro Grumi di Gavardo (BS), quest’ultimo maritato proprio alla figlia del Muschietti153. Furono però soprattutto le seconde generazioni di emigranti a beneficiare di questa integrazione, di cui si avvalsero infatti per costruire il loro successo professionale ed economico154. Sebbene l’innesto nella realtà estera non fu per tutti privo d’ostacoli, la buona riuscita di alcune manifatture bastò in alcuni, fortunatamente limitati casi, a suscitare l’invidia dei locali. Reazioni di intolleranza si ebbero così nei confronti di Pietro Lozzio, imprenditore fornaciaio a Sousville - La Mure nell’Isère155. Altrove si giunse persino all’omicidio, un gesto perpetrato da tale Raffaele Saviane ai danni di Giovanni Muschietti e accaduto a Castelfranco Veneto (TV) nel 1914. «I Muschietti e i Saviane – riporta un giornale locale – erano concorrenti in affari, e fu probabilmente la gelosia professionale ad armare la mano di Raffaele Saviane»156. A Giovanni Battista Azzi di Caslano fornaciaio in provincia di Alessandria, invece, venne persino attribuita una medaglia d’oro «quale affettuoso riconoscimento per 50 anni consecutivi di lavoro da lei svolto nell’Industria dei Laterizi con vantaggio e successo per la sua Azienda»157. Con questo premio assegnatogli nel maggio del 1955, il Consiglio Direttivo della Associazione Nazionale [italiana] degli Industriali dei Laterizi riconosceva al malcantonese il contributo profuso per il «progresso tecnico che, in questa prima metà del secolo XX si è realizzato nel nostro ramo di attività». L’opera di Giovanni Battista Azzi non si limitò al solo ambito laterizio. Trasferitosi in provincia di Pavia dove promosse un complesso di fornaci, contribuì pure ad alcune opere in ambito sociale158. Dal canto suo, Ettore Lozzio rivestì addirittura la carica di Consigliere Comunale per un quindicennio a Piavon d’Oderzo (TV), così come quella di Assessore Comunale e di sopraintendente Scolastico159. Il successo di questi imprenditori malcantonesi all’estero è dunque lungi dall’essere un monopolio incontestato. Si trattò piuttosto di un’industria di valore divenuta tale col tempo, frutto di lunghi decenni a stretto contatto con il settore edilizio e di un indiscusso spirito laborioso, sia in ambito professionale così come in quello sociale. Si può riassumere questa parte dedicata ai protagonisti del settore sottolineando che, in realtà, a differenza di quanto l’uso del semplice termine «fornaciaio» possa far credere, esistono diverse categorie di questi emigranti, che però non sempre si delineano in tutta chiarezza. In un primo tempo, infatti, il lavoro alla fornace si componeva di varie mansioni interscambiabili e generalmente ricoperte da un solo gruppo familiare, che in caso di bisogno faceva ricorso ad aiuti esterni.
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È solo dal momento in cui il processo produttivo cominciò a farsi più complesso e le esigenze gestionali più consistenti, che i ruoli dei vari protagonisti del laterizio malcantonese assunsero una propria fisionomia, peraltro senza una netta cesura con la fase precedente. Andarono così profilandosi due diverse tipologie di emigranti, quella dei dipendenti e quella degli indipendenti; tipologie che però non si escludono vicendevolmente dal momento che non è raro diventare indipendente dopo un periodo da dipendente, e che quindi sono da considerare con la dovuta cautela. Generalmente occupati nella parte produttiva del sistema fornace, i dipendenti appartenevano alla manodopera, una categoria che col progresso tecnico andò in contro a una graduale specializzazione, ma che le testimonianze giunte ai nostri giorni lasciano spesso nell’ombra. Meglio conosciuti e a loro volta protagonisti dell’emigrazione malcantonese furono poi gli indipendenti, coloro i quali furono in grado di mettersi in proprio impegnandosi nelle pratiche di direzione. Anche definiti fornaciai imprenditori, su di loro verterà il resto della presente indagine.
Giovanni Battista Azzi.
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4. Mattoni, coppi ed emigranti: il funzionamento del sistema fornace
Dopo aver individuato e descritto le varie tipologie di fornaciai emigrati dal Malcantone per lavorare e dirigere fornaci all’estero, in questa parte centrale del lavoro si cercherà di capire come e con quali mezzi la categoria degli imprenditori fece funzionare queste aziende, nell’ottica di una buona riuscita. Quella proposta nelle prossime pagine intende essere una panoramica più completa possibile sulle componenti e sui meccanismi che hanno contribuito a rendere operativa e funzionante l’industria laterizia d’origine malcantonese, ossia quello che d’ora in poi verrà indicato come il “sistema fornace”. Non si guarderà tanto all’aspetto tecnico160 quanto piuttosto a quello organizzativo e imprenditoriale, tenendo inoltre conto che le operazioni si svolsero in un contesto migratorio. Pertanto, l’ordine dei capitoli cercherà di seguire passo per passo le tappe percorse da questi emigranti nel gettare le basi (L’apprendimento del mestiere di fornaciaio, Dall’affitto alla proprietà di fornaci), nel mettere in moto e nel guidare le fornaci (Strategie di conduzione dei negozi di fornace malcantonesi, La questione finanziaria, La clientela). Sebbene abbiano toccato solo marginalmente il sistema fornace, si è infine ritenuto opportuno menzionare gli aspetti del progresso (Il ruolo dell’evoluzione tecnica) e della quotidianità (Oltre il lavoro in fornace: la quotidianità). Premesso che esistono diversi metodi per condurre al successo un’azienda, ma nell’impossibilità di affrontare ogni singolo caso, proprio per questo si è cercato di individuare le tendenze più ricorrenti e di presentarle, dove possibile, con dei contributi tratti direttamente dalle fonti.
4.1. L’apprendimento del mestiere di fornaciaio Scolarizzazione ed emigrazione L’esistenza, dimostrata in precedenza, di differenti tipologie di fornaciai ancora non chiarisce la posizione di questo mestiere all’interno della gerarchia degli emigranti. La letteratura propende a collocare le maestranze edili del Ticino meridionale tra i mestieri qualificati, arrivando a indicarle come l’aristocrazia dell’emigrazione161. Bisogna innanzitutto rammentare la pluralità di professioni di cui si compongono le stesse maestranze e come queste, a loro volta, abbiano una propria organizzazione verticale interna – con alla base il muratore e al vertice lo stuccatore secondo una graduatoria proposta dallo stesso Merzario162 –, dove però il fornaciaio non trova un posto fisso. In questo senso può essere utile indagare sul tipo di istruzione dei fornaciai e sul-
160 Dell’aspetto tecnico, per altro già studiato in altre sedi al di fuori della presente indagine, si occupa più da vicino il contributo di Zerbi in questo volume. 161 Raul Merzario, Famiglie di emigranti ticinesi (secoli XVII-XVIII), «Società e storia», 71 (1996), p. 41. 162 Raul Merzario, Adamocrazia, Famiglie di emigranti in una regione alpina (Svizzera italiana, XVIII secolo), Bologna 2000, p. 39.
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le modalità d’apprendimento del mestiere, a cominciare dalla formazione di base. A tal proposito il Malcantone, per lo meno in certi villaggi della regione, dimostra di aver prestato tempestivamente attenzione alla scolarizzazione dei suoi fanciulli, affidandone le redini ad alcuni ecclesiastici fin dal Cinquecento163. Ciononostante, per molto tempo ancora, anche dopo l’introduzione dell’obbligo scolastico, persistettero le difficoltà nel conciliare la scuola con le numerose partenze stagionali degli emigranti, spesso accompagnati dai figli in età scolastica. Lorenzo Marcoli, il cui figlio nel 1852 si trovava nel Bresciano presso la fornace dello zio, rammentava al fratello Carlo «di mandare a casa il figlio Luigi per mandarlo a scola che la scola i la comincia il giorno votto prossimo novembre»164. Talvolta, nemmeno l’adattamento del calendario scolastico ai ritmi migratori e a quelli della natura – l’anno scolastico si concentrava di proposito nei mesi invernali periodo durante il quale gli emigranti ritornavano in patria e non da ultimo l’attività agricola era in stallo – bastava a dissuadere taluni dal partire. Proprio in simili circostanze le autorità comunali di Bedigliora, ancora nel 1899, furono costrette a intervenire, imponendo il «divieto di emigrazione per gli scolari inferiori ai 12 anni in procinto di partire»165. Nonostante le apparenze, il rapporto tra emigrazione e istruzione non era conflittuale a priori, è però probabile che il livello variasse a seconda dell’epoca. Mentre Giovanni Antonio Mina (1761-1846 ca.) apponeva nei documenti una semplice croce a mo’ di firma, i suoi discendenti furono autori di lettere dal linguaggio viepiù fluido166. L’alfabetizzazione costituì perciò una questione di tempo, piuttosto che di volontà, dal momento poi che alcuni fornaciai sembrano avere una buona cultura di base e vari interessi al di fuori di quelli prettamente professionali.
163 Chiesa, Lineamenti storici del Malcantone, cit., p. 222 menziona le scuole cappellaniche rilevate nella Pieve di Agno già nel 1591 durante la visita pastorale di Monsignor Ninguarda; Merzario, Famiglie di emigranti ticinesi, cit., p. 43 riporta invece i risultati emersi a tal proposito durante la visita pastorale di Monsignor Muggiasca nel 1769. 164 Archivio famiglia Marcoli-Medolago. Biogno di Beride, 1.11.1852 – Lettera di Lorenzo Marcoli al fratello Carlo. 165 Archivio comunale Bedigliora, Libro dei verbali comunali di Bedigliora, 11.3.1899, p. 42. 166 Archivio famiglia Mina, passim. 167 Les Attafls, 16.8.1884 – Lettera di Galdino Fugazza a Pietro Avanzini. Citata in Alther, Medici, Curio e Bombinasco dagli albori, cit., pp. 377-378. 168 Si veda a questo proposito il capitolo La prossimità geografica. 169 Archivio famiglia Marcoli-Medolago. Fréjus, luglio 1889 – Lettera di Luigi Marcoli al fratello. 170 MusMalc, Fondo Vannotti. Einsiedeln, 11.5.1909 – Lettera di Ernestina Avanzini-Vannotti ai familiari a Bedigliora.
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Comincero per fare a Lei nota la mia piccola bibbloteca – scriveva nel 1884 Galdino Fugazza a Pietro Avanzini –. Grazie al sig. Padre Vaseor superiore di questo ameno paese (St. Cjprien) potei arrivare ad enumerare i volumi diferenti alla bella ciffra di 14 qualche d’uno che anch’io comperai posso senza esagerazione numerarli 20. […] vorrei dimandarne qualche duno a Lei… poiché a forza di diventar francese, non capirò più litagliano… e coll’andar del tempo finirò per comprendere più né il francese né l’italiano167.
Il passaggio riportato sopra solleva altresì la problematica della conoscenza delle lingue straniere. Si è osservato in precedenza come i più si siano indirizzati verso la vicina penisola, non da ultimo per motivi di affinità linguistica168. Tuttavia, le barriere linguistiche non hanno impedito ad altri di considerare, con tutte le difficoltà del caso, esperienze oltre i confini dell’italianità, soprattutto quando le prospettive lavorative erano particolarmente allettanti. C’è anche il linguaggio che imbarazza – lamentava Luigi Marcoli guardiano di un nuovissimo impianto a Fréjus –, se si avesse 20 anni sarebbe subito imparato ma ora diventa una storia difficile e quindi bisogna fare lo stupido169.
Preoccupazioni di natura linguistica che riguardarono pure Enrico (Pin) Avanzini di Bombinasco e la moglie Ernestina Vannotti, che coi primi del Novecento si trasferirono da Cossonay (canton Vaud) a Einsiedeln (canton Svitto) per gestire una nuova fornace170. Con l’obiettivo di migliorare le possibilità di comunicazione, appena giunto nella Svizzera tedesca, «in mezzo ai loro lavori e le loro preoccupa-
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zioni, tanto il Pin come i soci prendono lezioni di tedesco da un maestro che ci viene in casa dalla 1 alle 2 pomeridiane. Il Pin è già avanti e si arrangia già a darla d’intendere ai suoi operai tedeschi come agli altri. I soci trovano terribilmente duro l’apprendere ma vanno avanti con coraggio. Io, perché non obbligata dalle tasse dele lezioni, (fr. 1,20 o 1,50 per lezione) rimango una rapa»171. Del tutto singolare è infine la vicenda di Giuseppe Fonti, maestro elementare di Miglieglia, che attorno al 1870 decise di aprire una fornace a Grignano Polesine (comune di Rovigo)172. Sebbene solo frammentari, gli esempi fin qui esposti mostrano dunque una realtà migratoria in cui l’istruzione è cosa nota, anche se non sempre prioritaria. Fu un conflitto d’interessi che andò progressivamente affievolendosi laddove l’emigrante metteva su famiglia all’estero, oppure vi si trasferiva dal Malcantone con la prole al seguito. Quest’ultima, infatti, poteva essere educata con maggior facilità, fianco a fianco con l’attività imprenditoriale paterna, come insegna Luigi Bernasconi originario di Miglieglia, emigrante a Stanghella (PV). «Avendo inteso – egli scriveva – che voi tutti state bene voi conoscete che anche noi siamo contenti come pure stanno bene tutti, i figli vanno alla scuola»173. Una possibilità che non sempre si presentava ai figli degli stagionali, poiché molte volte anch’essi emigranti. Perciò le lacune scolastiche perduravano, ma erano motivate e almeno in parte compensate da una chiara predilezione per la conoscenza pratica, a discapito di quella teorica. Lo confermano le perplessità espresse da Giuseppe Poncini di Curio al riguardo del nipote Pietro, che preferirebbe al suo fianco nei lavori alla fornace in Savoia piuttosto che assorbito da una carriera dall’esito incerto. Avrei piacere sig. Curato se avesse la bontà di farmi sapere la condotta del mio nipote Pietro se studia e dove va a scuola e avrei piacere di sapere se cie possibilità della sua cariera che aveva cominciato altrimenti come gli ho scritto che attendo risposta che se vuole venire qui con me sono ancora pronto ad ajutarlo basterà due o tre anni con me sino che avrà la capacità di conosciere tutto e poi ho già in vista una situazione per mettere una fornacie e lo piazzerei in questa maniera che credo che sarà l’unica Altrimenti non manca se vuole ho in una bottiga ho un buon mestiere se fara il bravo sono disposto. Dunque sig. curato la prego se non ciè possibilità di proseguire nella cariera che aveva cominciato come non lo credo la pregherei di farlo dimandare ed interogarlo la sua intenzione, perché sarebbe il momento di decidersi ho una cosa ho un’altra non stare sempre a casa incarognato a fare il mestiere dei napoletani andare sempre a zonzo un po’ qua un po’ là. prego d’incoragiarlo come dico se non cie possibilita della sua cariera che aveva cominciato che gli manderò il viaggio e allora passerà (lui l’inverno lo lascerò qui solo due o tre mesi in mia assenza in patria)174. MusMalc, Fondo Vannotti. Einsiedeln, 11.5.1909 – Lettera di Ernestina Avanzini-Vannotti ai familiari a Bedigliora. 172 MusMalc, Documentazione sui fornaciai. Materiale vario sulla famiglia Fonti da Miglieglia in Grignano Polesine. 173 Archivio famiglia Marcoli-Medolago, Corrispondenza famiglia Bernasconi. Stanghella, 4.9.1906 – Lettera di Luigi Bernasconi ai figli. 174 Albens, 29.5.1879 – Lettera di Giuseppe Poncini al curato. Citata in Alther, Medici, Curio e Bombinasco dagli albori, cit., p. 374. 175 Si veda a questo proposito il capitolo L’emigrazione in paese. 171
Acquisizione del sapere tecnico Se tra le fila dei banchi di scuola talvolta scarseggiavano gli allievi, ciò si spiega anche per l’abitudine di molte famiglie ad affidare i ragazzi più grandi a parenti emigranti. Osservando la composizione degli aggregati familiari si nota spesso l’assenza da casa del padre e del figlio maggiore175. Molti giovani malcantonesi trascorrevano così gli anni della loro adolescenza assistendo padre, zio o fratello maggiore alla fornace, dove apprendevano i primi rudimenti del mestiere, stagione dopo stagione. Questa forma di trasmissione del sapere, organizzata attorno all’acquisizione delle conoscenze sul campo, alla loro diretta applicazione pratica e basata sul sostegno parentale, va oltre i confini del Malcantone e si estende a diver-
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176 Luigi Lorenzetti, Controllo del mercato, famiglie e forme imprenditoriali tra le élite mercantili sudalpine, dalla fine del Cinquecento al Settecento, in La famiglia nell’economia europea, Secc. XIII-XVIII, a cura di Simonetta Cavaciocchi, Atti della XL settimana di studi F. Datini, 6 aprile 2008, Firenze 2009, p. 510 cita l’esempio dei Pedrazzini, nota famiglia di commercianti originaria di Campo Vallemaggia e attiva in vari centri europei. 177 Si veda a questo proposito Marco Dubini, I «pacta ad artem», una fonte per la storia dell’emigrazione, in Col bastone e la bisaccia per le strade d’Europa. Migrazioni stagionali di mestiere dall’arco alpino nei secoli XVI-XVIII, «Bollettino storico della Svizzera italiana», CIII (1991), pp. 73-81. 178 Archivio privato Alberti. 179 Carlo Agliati, Ingegneri nel Canton Ticino nell’Ottocento, in Avvocati, medici, ingegneri: alle origini delle professioni moderne (secoli XVI-XIX), a cura di Maria Luisa Betri e Alessandro Pastore, Bologna 1997, p. 328. 180 Audenino, Mobilità geografica e mobilità sociale, cit., p. 165. 181 Archivio famiglia Marcoli-Medolago. Gallarate, 28 febbraio 1882 – forno Hoffmann. Del forno Hoffmann, un sistema innovativo per cuocere i laterizi entrato in funzione dopo la metà del XIX secolo, si dirà dettagliatamente più avanti.
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se altre professioni, dentro e fuori il settore edile176. Nel caso specifico dei fornaciai malcantonesi non sono pervenuti contratti d’apprendistato, anche conosciuti come pacta ad artem docendi, che altrove hanno invece permesso di far luce su alcuni interessanti aspetti177. Esiste infatti un solo documento in questo senso, che per le particolari circostanze in cui è stato sottoscritto assomiglia piuttosto a un contratto di tutela. Di fronte alle difficoltà sia familiari sia finanziarie di Severino Maricelli di Bedigliora, rimasto prematuramente orfano, il suo tutore Giuseppe Righini decide di affidarlo ai fratelli Ferretti, fornaciai di Banco, con il compito di istruirlo nel campo del laterizio. Nel documento viene inoltre specificato che in cambio delle sue prestazioni gli verrà fornito vitto e alloggio178. Al di là di questa particolare situazione d’assistenza, si presume che altrimenti la stipulazione di contratti, frenata in parte forse proprio dai legami di parentela che solitamente legavano allievo ed esperto, sia stata in buona parte sostituita da accordi taciti tra familiari e di cui non sono rimaste tracce evidenti. Almeno fino all’apertura delle prime scuole di disegno, il fenomeno della migrazione giovanile di mestiere si spiega presumibilmente anche per la mancanza di strutture adatte alla formazione teorica, per cui alle volte durante l’apprendistato s’impartivano anche lezioni di teoria179. Da notare infine che questo tipo di apprendimento, pur risolvendosi in gran parte entro le mura domestiche, non impedì forme di ascesa sociale. Al contrario, è proprio in queste circostanze che si sono creati i presupposti per l’affermazione di alcune famiglie nel settore del laterizio, grazie allo sforzo di più generazioni180. Inoltre, a partire dalle seconde generazioni di fornaciai, si riscontra da parte di alcuni emigranti la volontà di approfondire le conoscenze nel settore, sia a livello pratico che teorico. Alle volte tale perfezionamento è strettamente connesso alle migliorie tecniche introdotte nell’industria laterizia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e di cui si dirà in un’altra occasione. L’incentivo ad acquisire nuove nozioni era quindi dato dai nuovi metodi di produzione e dal desiderio di stare al passo coi tempi. Con ogni probabilità Luigi Marcoli fu spinto da analoghi motivi quando, nel 1882, sottoscrisse a Gallarate (VA) un contratto di lavoro che lo legava all’impresa Peregrini, Calcaretta, Coduri «per l’esercizio dell’esercizio del forno Hoffmann costruito dall’impresa stessa, presso Varano, obbligandosi di confezionare durante la stagione prossima ventura 4 mio di mattoni grossoni delle dimensioni a mattone perfettamente cotto di cm 26 largo cm 13 alto cm 6 (o 26x0.13x6)»181. L’esistenza di questo contratto, tra le rare testimonianze di questo genere, conferma l’ipotesi formulata in precedenza, secondo cui tra parenti ci si accontentava di accordi taciti, mentre al di fuori della cerchia familiare le condizioni di lavoro erano regolate nero su bianco, dettaglio per dettaglio. Nel succitato contratto si può legge che «L’impresa si assume l’obbligo di fornire al signor Marcoli la terra argillosa occorrente» e «fornirà pure al signor Marcoli la sabbia occorrente». Dal canto suo, il Marcoli dovrà rispettare tutta una serie di condizioni, alcune delle quali elencate nello stesso documento qui di seguito: 4.
All’infuori dei succitati obblighi dall’impresa, di cui alli articoli precedenti tutti gli altri incombenti relativi alla confezione, cottura, trasporto dei materiali crudi dall’accampamento sulla sinistra della Brabbia alla fornace Hoffmann provvista d’acqua, acquisto del resto degli attrezzi occorrenti per la confezione nel succitato termine del quantitativo fissato di materiali, acquisto di carbone e di quant’altro possa occorrere per dare il materiale perfet-
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tamente cotto, resteranno tutti a carico del signor Marcoli comecché compresi nei prezzi che vengono in seguito stabiliti dei materiali cotti. […] Il materiale da fornirsi dal signor Marcoli dovrà essere di perfetta cottura, della dimensioni sopra indicate, a spigoli assicurati ed avere tutte quelle qualità da soddisfare sotto ogni riguardo le esigenze della direzione governativa, dalla quale dovrà essere accettato. Nel monte della fornitura si dichiara che verrà tollerato il 10% di mezzanella forte le eccedenze di quest’ultimo materiale verranno compensate a prezzo diverso e come in seguito. L’impresa corrisponderà al signor Marcoli pei mattoni delle dimensioni di cui sopra consegnati nel cantiere della fornace alla Boffalora sui carri dell’impresa i prezzi seguenti a) Mattoni forti delle dimensioni di 0.26 x 0.13 x 0.06 compreso il 10% sul monte della fornitura di mezzanella forte, per ogni migliaio di mattoni nelle proporzioni di forti e di mezzani forti come retro Lire 19. b) Per mattoni mezzani forti della dimensioni come sopra in eccedenza al 10% di tolleranza accordata sul complesso della fornitura di mattoni forti e per il quantitativo di non oltra il 20esimo di tutta la fornitura per migliaio Lire 17. c) Sovrapezzo di mattoni che verranno confezionati (meno la cottura) sull’accampamento attiguo al dormitorio dello stabilimento Borghi al migliaio Lire 2. d) Compenso per la mondatura della terra argillosa approvvigionata dall’impresa a tutt’oggi, sul cantiere di dietro al dormitorio dello stabilimento Borghi è da corrispondersi al signor Marcoli qualora lo stesso faccia eseguire rigorosamente la zappatura e mondatura dei sassi in detta argilla per ogni migliaio di mattoni che potrà ricavarsi dalla detta terra Lire 1. Il signor Marcoli sarà tenuto ad eseguire sul piazzale della fornace la separazione in apposite cataste dei materiali, mezzanella forte in eccedenza al 10 % di tolleranza che viene accordata, come già si disse, sul complesso della fornitura dei materiali forti. […] Sarà tenuto il signor Marcoli, appena che la stagione lo permetterà (ciò che potrà avverarsi anche in aprile) di dar mano con forza alla confezione delle lotte occupando tutte le piazze con numero competente di operai per assicurare la fornitura intesa nel termine fissato. […] A garanzia dell’esatto adempimento degli obblighi tutti assunti dal signor Marcoli Luigi col presente contratto il signor Marcoli stesso deposita presso l’impresa un libretto di conto corrente della Banca Svizzera Italiana, Agenzia di Gallarate colla somma a suo credito a tutto il 30 gennaio 1882 di L.2500. Qualora durante la stagione dei lavori risultasse che il signor Marcoli non possa o non voglia attenersi a compiere ogni singolo patto contrattuale su espresso, l’impresa potrà chiamare la caducità del presente contratto, rivalersi del deposito ed entrare in possesso dell’azienda in qualunque momento senza alcuni incombenti giudiziari.
L’esperienza di Gallarate, in realtà, non fu l’unica intrapresa dal Marcoli lontano dalla manifattura di famiglia di Medolago (BG). Alcuni anni dopo, nel 1889, egli accolse un’altra sfida e partì alla volta di Fréjus, nel sud della Francia, da dove scrisse alcune lettere all’indirizzo del fratello. Sono 10 giorni che mi ritrovo in Francia. Il viaggio fu buonissimo da Genova a qui si passano dieci ore in ferrovia e tranne le gallerie che sono infinite, si costeggia sempre il mare. […] Hanno principiato il lavoro di fabbricare mattoni senza un fornaciaro, vi saranno 50 persone ma tutta gente che ha mai visto un mattone, sicché puoi immaginarti la confusione e tutti i lavori a rovescio. La fornace non è ancora ultimata, solo ieri arrivò la ghisa. Quasi tutto hanno sbagliato perché fatto senza una persona di mestiere. La difficoltà è che il materiale fatto colle macchine bisogna farlo essiccare all’ombra perché si screpola tutto e quindi ci vuole un’infinità di porticato e poi sempre vende, e non si sa cosa fare con nessuno che sia capace di collocare un mattone. Quello poi che più raffredda, v’è pochissima terra almeno qui vicino alla fornace e poi scarseggi anche l’acqua. In una parola io ci vedo nulla di buono e a mio giudizio avranno già speso A 900.000 per l’impianto, la maggior parte sprecati al vento. Mi dicono che provvederanno gli uomini per far fuoco ed infornaciare ma io non vedo nessuna conclusione. Se alle volte a casa vi fosse qualcuno scrivimi subito onde al bisogno possa farlo venire.
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Vi sarà forse quel di Curio che andava nel Gaggio, e se mai ve ne fosse qualche altro, ma combina nulla senza mio ordine. […] Vi sono qui i fratelli Ferretti di Banco cioè Giovanni che lavorano a far mattoni a mano e di salute stanno bene182.
Un mese dopo, la situazione non era cambiata di molto, così che alla meraviglia iniziale di fronte a un impianto nuovo e moderno, seguì ben presto lo scetticismo di un «guardiano» di fornace che nel sud della Francia si trovava sia per acquisire esperienza ma con ogni probabilità soprattutto perché gli erano stati riconosciuti meriti e competenze in ambito professionale. Circa al lavoro presentemente va poco bene. Abbiamo messo il fuoco al forno e anche quello va poco bene. È stato tutto inverno pieno d’acqua ed ora è tanto umido che il fuoco non vuol circolare, speriamo bene nel secondo giro perché si fa come il primo che terminiamo domani, addio forno. Dobbiamo continuamente tenere il fuoco nel camino perché diversamente il fuoco non va avanti. Anche la fabbricazione cruda non va bene, nell’essiccare si rompono facilmente, e quindi si continua colla macchina a fabbricare e di materiale se ne vede poco, perché si torna a impastare. È un lavoro in cui io ci vedo nulla. Le crepe sono infinite, manca la terra, manca l’acqua, l’impianto è stato fatto tutto al rovescio. Intorno alla fornace non vi sono porticati, se piovesse l’acqua va in fornace, e mi si assicura che furono già spese più di 400 mila lire e poi siamo ancora da capo. Io non ci sto male, ma qui nessuno può fare buona figura e quando non si può dar un utile ai padroni, è un affare che non può durar molto, quindi finirò collo starci poco. […] So che nell’occasione del tiro federale a Lugano si stamperà un giornale apposito per dar il resoconto del tiro, quindi ti abbonerai e poi me lo spedirai, nulla importa che sia anche in ritardo tanto per sapere qualche cosa (segue l’indirizzo) Hotel des Etrangers ove sono di alloggio perché alla fornace non c’è ancora una stanza pel guardiano. […] Non mi resta che salutarvi tutti in famiglia e parenti. Salutami il Caffone se è ancora a casa, le dirai che il disegno del suo forno questi francesi lo variano tutto tanto per farlo andar male183.
182 Archivio famiglia Marcoli-Medolago. Fréjus, 10.6.1889 – Lettera di Luigi Marcoli al fratello. 183 Archivio famiglia Marcoli-Medolago. Fréjus, luglio 1889 – Lettera di Luigi Marcoli al fratello. 184 Archivio privato Demarta. Piavon, 5.7.1893 – Lettera di Antonio Bertoli a Palmira. 185 Archivio privato Demarta. Piavon, 22.6.1897 – Lettera di Ivan Bertoli allo zio. 186 Analogamente si comportarono i discendenti di Leonardo Morandi in un periodo storico che però esula da quello preso in considerazione dall’indagine. Roberto, abiatico di Leonardo e rilevatario della fornace di Corcelles-près-Payerne (canton Vaud) a partire dal 1933, era ingegnere ceramista; suo figlio Claude, l’attuale direttore aziendale, ha conseguito il diploma di ingegnere civile al Politecnico federale di Losanna (www.morandi.ch e Alther, Medici, Curio e Bombinasco dagli albori, cit., pp. 256-257, 350 e seguenti).
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Per un fornaciaio o aspirante tale il perfezionamento talvolta passava però anche dalla teoria, prima ancora che dalla pratica. Infatti, a partire dalle seconde generazione, si susseguono ugualmente i fornaciai che frequentano scuole tecniche superiori, per poi dare un contributo importante all’azienda di famiglia, con cognizione di causa. È il caso di Ivan Bertoli, che nel luglio del 1893 era assorto dagli «esami di licenza della Regia Scuola Tecnica di Oderzo»184, e che quattro anni dopo si presentava «quale privato al R. Istituto Tecnico di Padova per dare gli esami di Licenza»185. Egli avrebbe poi seguito e quindi sostituito il padre Antonio nella fornace a Jasy, in Romania. Sebbene tutti quanti figli di fornaciai, l’iter formativo di Luigi Marcoli, di Ivan Bertoli e dei Morandi186 differisce sostanzialmente da quello, per certi versi anomalo, intrapreso dai fratelli Giuseppe e Antonio Bertoli. I primi erano cresciuti circondati da parenti fornaciai che loro stessi avevano assistito fin da piccoli nell’attività presso la fornace, per cui la loro scelta professionale è più che comprensibile. Giuseppe e Antonio Bertoli, al contrario, erano dapprima emigrati come gessatori-stuccatori nel canton Vaud, nell’Isère e in Alsazia, per giungere, solo in un secondo tempo, a dar manforte alla sorella Colomba nelle fornaci di Piavon d’Oderzo e Fagaré della Battaglia (comune di San Biagio di Callalta), in provincia di Treviso. Qui essi ritrovarono il fratello maggiore Pietro, da subito avviato verso la professione di fornaciaio, ma che prima di stabilirsi definitivamente a Fagaré e gestire la fornace paterna, trascorse un certo periodo in Piemonte, dove tra
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l’altro si trovava pure lo zio Giovanni, anch’egli fornaciaio. Di questo periodo Pietro ricorda soprattutto le fatiche sopportate e le confronta con quelle, secondo lui inferiori, del fratello gessatore («platrier»), ipotizzando persino di cambiare indirizzo. Ti faccio consapevole che ancor io sono risolto d’intrapprendere la professione del Platrier, rilevo però dall’ultima tua diretta a nostro padre, che secondo te questo mestiere non sarebbe per me adatto essendo troppo sporco, e molto faticoso; ma non sarà certo più faticoso, più sporco del fornaciajo, ho potuto resistere quasi tre mesi a lavorare di questo mestiere sotto un uomo che mi faceva lavorare dall’una all’altra ancora, che viveva magrissimante, e che aveva per letto due assi […]; spero bene di poter resistere a lavorare del tuo mestiere essendo molto più leggiero, e vivendo onestamente187.
Attestati e menzioni varie ricordano inoltre che i Bertoli avevano frequentato la scuola di disegno di Curio, ciò che spiegherebbe l’iniziale scelta professionale di Giuseppe e Antonio, differente ma sempre e comunque nel ramo edilizio188. Ciononostante, dopo la parentesi al nord delle Alpi, l’iniziazione al mestiere di fornaciaio avvenne secondo gli schemi descritti sopra, ossia all’interno della cerchia familiare. E più precisamente essi usufruirono degli insegnamenti del fratello maggiore Pietro e di quelli della sorella Colomba a Piavon d’Oderzo. Da notare infine che l’appena menzionata scuola maggiore e di disegno di Curio fu inaugurata nel 1850 anche grazie al sostegno personale e finanziario di alcuni emigranti, tra i quali l’omonimo fornaciaio Giuseppe Bertoli189. Il percorso dei Bertoli di Novaggio con cui termina questa parte è molto significativo, poiché incarna gran parte dei tratti tipici dell’emigrazione di fornaciai dal Malcantone; permette di seguirne l’evoluzione sull’arco di più generazioni e quindi di meglio definire il ruolo di questa professione nell’ambito delle migrazioni di mestiere in area alpina. I primi a cimentarsi con l’attività laterizia, allora artigianale sotto tutti i punti di vista, lo fecero in veste di emigranti stagionali. Progressivamente, da semplici locatari i Bertoli divennero proprietari di fornaci, un fatto questo che prolungò i periodi d’assenza da Novaggio e che coincise con i primi compiti di direzione. L’indipendenza e il carattere imprenditoriale assunto negli anni dalle manifatture Bertoli coinvolse un numero sempre maggiore di parenti e conoscenti a cui venne così insegnato il mestiere direttamente in loco. Una crescita questa che, anche grazie alla continuità, permise ai Bertoli di diventare specialisti del settore. Con ciò si può concludere affermando che l’attività del fornaciaio indipendente, sfociata in alcuni casi nell’imprenditoria, necessitò di una certa esperienza prima di emergere e imporsi. Allo stesso tempo non va però dimenticato che il sistema fornace, nella sua organizzazione verticale, alla base era completato da un folto gruppo di dipendenti occasionali, anch’essi d’origine malcantonese, la cui formazione risultava dal lavoro in fornace ma che non avevano alcuna particolare qualifica. Come tali erano verosimilmente partiti anche i primissimi fornaciai, ossia senza grandi conoscenze ma con una vaga idea soltanto dell’impresa da compiere. Dal punto di vista dell’istruzione e dell’apprendimento, le loro vicende presentano quindi forti analogie con i mestieri meno qualificati tra quelli praticati dagli emigranti, tanto più che non era prevista una vera e propria formazione con tanto di apprendistato.
Archivio privato Demarta. Novaggio, 10.10.1858 – Lettera di Pietro Bertoli al fratello. 188 Archivio privato Demarta. Diplomi. 189 Archivio privato Demarta e Chiesa, Lineamenti storici del Malcantone, cit., pp. 224-225. Si veda inoltre Marina Cavallera, Imprenditori e maestranze: aspetti della mobilità nell’area prealpina del Verbano durante il secolo XVIII, in Mobilità imprenditoriale e del lavoro nelle Alpi in età moderna e contemporanea, a cura di Giovanni L. Fontana, Andrea Leonardi, Luigi Trezzi, Milano 1998, pp. 96-98. 187
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4.2. Dall’affitto alla proprietà di fornaci
190 ASTi, Fondo notarile, notaio Giuseppe Albisetti, Sc. 2128, nr. 467, 21.1.1849. 191 ASTi, Fondo notarile, notaio Giovanni Maria Galeazzi, Sc. 1970, nr. 591, 17.1.1851. 192 Archivio famiglia Marcoli-Medolago. Documenti vari. 193 Archivio privato Demarta. Villorba, 4.5.1861 – Lettera di Antonio Del Mollo al fratello Cristoforo. 194 Gruppo Culturale di Corte Franca (a cura di), Fornaci a Corte Franca tra storia e memoria, cit., p. 25. 195 Gambarotto, Dal Bo (a cura di), San Biagio di Callalta, cit., p. 200. 196 Gri, In fornace nel primo Ottocento, cit., pp. 113 e 115.
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Così come ai fratelli Francesco e Pietro Ferrari di Monteggio toccò in eredità «tutto quanto forma il negozio di fornace esistente a Gornate Inferiore [VA] […] sopra fondo affittato dal sig. Giuseppe Frattini, con tutte le scorte di materiali, utensili, legna, crediti, e fitto già anticipato»190, al loro compaesano e omonimo Domenico Ferrari spettava per intero la «proprietà del negozio di fornace e annessi»191 sita a San Salvatore. Quella dei malcantonesi locatari e/o proprietari di fornaci all’estero è un’immagine assai ricorrente, che però, con gli anni, viene sostituita da una predominanza di emigranti in possesso di opifici propri, mentre il numero dei locatari tende a diminuire. All’origine di questo cambiamento di stato vi era in genere l’acquisto o la costruzione di nuovi opifici da parte degli stessi emigranti fornaciai, a dimostrazione di un’industria in crescita e di una tradizione ormai radicata in alcune famiglie malcantonesi. Già nel 1838, il fornasaro Lorenzo Marcoli di Biogno aveva in affitto una «fornace posta in Medolago (BG) con casa e terreno annesso» di proprietà della famiglia Previtali di Solza (BG)192. Il contratto di locazione, rinnovato a più riprese come suggeriscono «il saldo dell’affitto della fornace e dei materiali» e le conferme di «avvenuto pagamento», si tramutò in acquisto venticinque anni dopo, il 4 luglio del 1863. A questa data risalirebbe infatti l’ottenimento dei diritti di proprietà sulla stessa fornace Previtali da parte del Marcoli. All’acquisizione di fornaci preesistenti si alterna talvolta la costruzione di forni ex novo, come nelle intenzioni di Antonio Del Mollo, che a Villorba (TV) stava «per fare un contratto, di acquistare dei fondi, qui da vicino alla fornace che ora abbiamo inafito, e volemo impiantarla sul nostro, perché l’affitto, è troppo caro, perché paghiamo Milanesi £ 1500 mille e cinquecento allanno, e questo affitto così grosso mi divora le nostre fatiche»193. Vicende analoghe a quelle descritte sopra furono vissute da numerosi fornaciai imprenditori malcantonesi in regioni diverse, generalmente però laddove il laterizio era pratica diffusa. Qui le fornaci già esistenti erano molto spesso proprietà di enti indigeni benestanti, quali monasteri o nobili. Nel Bresciano, a Corte Franca (BS), le fornaci in precedenza legate ai possedimenti di nobili famiglie quali i Lana e i Barboglio, in un secondo tempo furono rilevate e gestite da famiglie come i Biasca di Caslano e, in quel di Clusane, dagli Andina di Curio194. Poco più in là, nel Veneto, si stavano distinguendo le famiglie dei Bertoli, dei Del Mollo e dei Muschietti, tutti quanti di Novaggio. Infatti, i Muschietti presero in gestione le fornaci di Castelfranco Veneto (TV) e di Villorba, rispettivamente di proprietà dei conti Tarvielli e dei conti Gritti. I Bertoli, invece, acquistarono la fornace gestita dai Padri Benedettini, di proprietà del conte Ninni di Monastier, localizzata a Fagarè della Battaglia (comune di San Biagio di Callalta, TV). Infine, in concomitanza con quella dei Bertoli, i Del Mollo acquistarono una fornace a Piavon di Oderzo (TV), proprietà del Conte Bonamico195. Questa particolare ripartizione delle fornaci è il riflesso di una tradizione architettonica che in alcune zone, nel Veneto così come nel vicino Friuli, impiegò il laterizio fino al XIX secolo quasi esclusivamente per la realizzazione di abitazioni nobiliari, ville, chiese, monasteri, ospedali, e altri edifici di prestigio, riservando all’edilizia rurale unicamente le coperture (coppi o tegole)196. Prima ancora di essere proprietari, molti fornaciai malcantonesi ebbero dunque in dotazione fornaci appartenenti ai signori possidenti locali. Questi ultimi funge-
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vano da padroni e allo stesso tempo nelle clausole dei contratti d’affitto erano soliti garantirsi l’approvvigionamento di una quantità sufficiente di materiali a proprio uso e consumo197. Lo testimonia un contratto sottoscritto tra il Conte Radini Todeschi Baldini, proprietario, e il Signor Giuseppe Righetti, affittuario. Quest’ultimo, oltre all’annuale pensione, è tenuto a rispettare una serie di clausole, tra le quali spicca la fornitura di diverse centinaia pezzi di laterizi di vario genere. Il prefatto nobilissimo Cavaliere Signor Conte Radini Todeschi Baldini non dando ragione, diritto, possesso alcuno degli infrascritti stabili, ma a titolo di puro, e semplice affitto, e non altrimenti ha detto, e ceduto al detto Signor Giuseppe Righetti che accetta per se, li di lui e per gli aventi causa del medesimo ad avere, godere, e dusufruttuare per anni nove continui d’incominciare al prossimo venturo San Martino undeci novembre mille ottocento diciassette. Nominatamente d’una fornace con suo caseggiato, ed in oltre un fondo prativo alla medesima fornace annesso di pertiche venticinque circa, […] il tutto posto nella pretura di Rottofreno di questo Ducato, e governo di Piacenza, e propriamente nella frazione di San Niccolò oltre Trebbia […]. […] il detto Conduttore Righetti ha promesso, e promette al detto Sigor Conte Locatore che accetta per se, li di lui, e per chi avrà causa da esso di pagarli l’annua pensione di lire mille, e cinquecento novanta moneta corrente di Parma facenti franchi trecento settanta otto, e diciotto centesimi in due termini, a rata eguali, e così la metà venendo il giorno di Pasqua di Pentecoste, e l’altra metà venendo il giorno undici novembre d’ogni anno durante il presente affitto, […]. Sarà pure il detto conduttore Righetti obbligato, come così promette oltre la suddetta pensione consegnava, e dare al Signor Conte Padrone ogn’anno della presente Locazione, e quando le verranno ricercate di mano in mano le seguenti appendici senza speranza di alcuno compenzo, e così numero mille e cinquecento coppi, numero duemila mattoni, ossiano quadrelli, carbonina forte stara trenta, e carra due di calce il tutto ben formato, e ben cotto, d’essere condotta a spese del medesimo Signor affittuario, o in Piacenza o nel detto luogo di San Niccolò, dove di mano in mano li verrà indicato dal Signor Conte Padrone, e saranno a carico del detto affittuario anche tutte le spese di dazio, e diritto, che si avrà da pagare per il trasporto, […]. Tutte le spese di riparazioni, manutenzione, e riattazioni, che occorreranno durante il presente affitto intorno alla suddetta fornace, e caseggiato annesso alla medesima saranno a carico del detto Conduttore […]. Qualora l’affittuario non ritrovasse più ne fondi di sopra affittatogli l’occorrente terra da escavare per far formare di mano in mano gli occorrenti matteriali per far andare, e cuocere la detta fornace: in tal caso, e non altrimenti promette, e si obbliga il detto Signor Conte […] di destinare allo stesso affittuario altro fondo, onde possa escavare detta terra per la formazione dei detti materiali198.
Fu solo agli inizi dell’Ottocento che, come si accennava sopra, il saldo cominciò gradatamente a mutare in favore dei fornaciai proprietari, a discapito degli affittuari. Si tratta di una tendenza per lo più dedotta dagli atti notarili199, ma ascrivibile con ogni probabilità al consolidamento dell’industria laterizia di stampo malcantonese, da cui emersero poi i nomi di alcuni importanti imprenditori. Infatti, la sottoscrizione di atti di compravendita e la presenza ripetuta di negozi di fornace tra i beni immobiliari delle famiglie malcantonesi sopraggiungevano spesso solo dopo alcuni anni – o persino generazioni – di praticantato nel settore. Lo dimostra il precedente esempio di Lorenzo Marcoli, che impiegò oltre un ventennio per passare dallo stato di affittuario a quello di padrone di fornace. In tutti questi anni era riuscito a guadagnarsi la stima e la fiducia degli abitanti di Medolago (BG), località lombarda alla quale il fornaciaio malcantonese rimase sempre fedele200. Alcuni suoi audaci compaesani, invece, dopo una prima fase d’avvicinamento al mestiere, assunsero i panni di fornaciai proprietari lontano dalle tradizionali rotte migratorie. È il caso di Antonio Bertoli, che all’inizio del XX secolo, una volta ap-
197 Comincini, Legno, terra, fuoco: le fornaci di laterizi tra Milano e il Ticino, cit., pp. 128-129. Sul tema si tornerà nel capitolo La clientela. 198 MusMalc, Fondo Pelloni. Piacenza, 21.8.1817 – Affitto di fornace. 199 Questa constatazione si basa sull’intero corpus di atti notarili a disposizione e in modo particolare su quelli selezionati dal Fondo notarile (ASTi). 200 Archivio famiglia Marcoli-Medolago. Documenti vari.
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presi i primi rudimenti presso le fornaci di famiglia nel Veneto, costruì a Jasy, in Moldavia, la prima fornace della zona. Quella che sarebbe poi diventata la «Socola Antonio Bertoli, Fabrica sistematica˘ de Ca˘ra˘mizi», in realtà, era nata come «Ca˘ra˘mideria sistematica˘ socola, Societatea Svitera-italiana», in quanto promossa dal Bertoli in società con i compaesani Ettore Lozzio e Vittorio Ronchi201. Prima di loro in Romania si era recato Leonardo Morandi, impiegato come «Chef cuiseur de briques» alle dipendenze di «Doneaud & Manoël, Ciments & Travaux» di Bucarest202. Dieci anni più tardi, egli acquistava una propria manifattura a Corcelles-près-Payerne nel canton Vaud, non prima però di aver subaffittato a Cossonay, sempre in terra vodese, la fornace appartenente in comunione a Carlo Visconti e a Giovanni Rossi203. In relazione a questi ultimi casi, è interessante annotare l’entrata in scena di possidenti malcantonesi che molto probabilmente rimasero per lo più estranei al lavoro presso la fornace. Difatti, i soci Lozzio e Ronchi parteciparono all’impresa rumena del fornaciaio Bertoli mettendo a disposizione i capitali necessari. Essi incarnavano la figura del socio finanziatore, su cui si ritornerà in uno dei prossimi capitoli, e che potrebbe presentare qualche analogia con il ruolo avuto da Carlo Visconti a Cossonay. Originario di Curio, successivamente stabilitosi con la famiglia a Stabio, egli era dottore medico all’università di Pisa e proprietario di una fornace nel canton Vaud, che però lasciava gestire al genero Giuseppe Avanzini, avvocato – non è invece dato a sapersi quale fosse il ruolo del comproprietario Giovanni Rossi204. Il legame che univa il fornaciaio amministratore e il proprietario si riassumeva perciò in resoconti sull’attività svolta, che l’allora locatario Leonardo Morandi scriveva però all’indirizzo dell’Avanzini.
201 Archivio privato Demarta. Carta intestata. Da notare che gli stessi Bertoli, Ronchi e Lozzio erano proprietari di un’altra fornace in società a Villanova di Pordenone (Valentina Piccinno, Luoghi, architetture e imprenditori. Fornaci a ‘fuoco continuo’ in Friuli. 1866-1920, Udine 2001, p. 267). 202 Archivio privato Morandi. Bucarest, 10.10.1879 – Attestato. Si veda inoltre la storia della famiglia Morandi e della sua ditta in www.morandi.ch. 203 MusMalc, Fondo Avanzini. Cossonay, 18.4.1884 – Corrispondenza. 204 Alther, Medici, Curio e Bombinasco dagli albori, cit., p. 324 e MusMalc, Fondo Avanzini. 205 MusMalc, Fondo Avanzini. Cossonay, 14.8.1884 – Corrispondenza. 206 Archivio famiglia Mina. Madonna del Piano, 18 marzo 1847 – Affitto di fornace.
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Carissimo Signor Avvocato, […] Mi rincresce il sentire che gli pare esagerata la spesa per disfornare la mercanzia che si trovava nel forno al nostro arrivo, dove che in realtà non messo a suo debito l’intiera metà da lei dovuta come verbalmente convenuto. La spesa totale per estrarre la detta mercanzia è di fr… se la esige posso fornirli la destinta sottoscritta da tutto coloro che ho pagato per fare il suddetto lavoro. […] Mi disse di adoperare materiali Rossi. Io non posso consigliare ad adoperare della detta mercanzia a motivo che non sono abbastanza cotti, però se insiste mi risponda subito, io credo di aver fatto il mio dovere a renderla avvistata. […] Quest’anno a causa il poco smercio e la campagna della mezze cotte, cioè fuoco a metà fornace, fui obbligato a cuocere ancora che metà, a motivo che mi trova senza petit plats. Buoni per l’esterno, non ho mai voluto cuocerne per smerciare i vecchi, ma i paesani conoscono troppo bene le qualità e non ne vogliono assolutamente, quando devono essere impiegati dove sono esposti al gelo. La ringrazio per l’osservazione pei calcinaruoli, ma io perché abituato in terre più nette, posso costatare che cominciando dal primo stratto fin alla profondità media di metri 1,30 si trova uno stratto di ghiaja ve ne sono da per tutto, in conseguenza finora me la passai senza farla passare al cilindro perché non ho il cavallo, ma vedo che quasi è indispensabile causa queste maledette pietro calcaree. È un affare un poco serio caro il mio signor avvocato e per tenir un cavallo costa una spesa sproporzionata allo smercio che si può avere, ce troppa concorrenza atteso la quantità di fornace che si trova nei dintorni e vendono a prezzi che noi non possiamo senza per dare. L. Morandi 205
Al di fuori di questa particolare situazione, è comunque vero che anche altri titolari di fornaci d’origine malcantonese subaffittarono o diedero in gestione le loro manifatture all’estero a compaesani, come si è avuto modo di osservare precedentemente, in un contesto differente, quando, nel 1847, Carlo Paltenghi affittava a Giovanni Domenico Mina la sua fornace di Calcinato (BS)206.
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Constatare che in più occasioni locatori malcantonesi si sostituirono a quelli indigeni, ancora una volta, è sintomatico del generale aumento delle proprietà malcantonesi all’estero. L’incremento di fornaci e fondi oltreconfine durante tutto il XIX secolo lascia spazio a diverse interpretazioni. Fra queste, la conquista della fiducia dei locali proprietari per mezzo di un lavoro qualitativamente valido ha probabilmente avuto un ruolo centrale, tant’è vero che un detto popolare riconosceva «Napoleon per guerreggiar, i Righetti – di Breno, architetti a Trieste – per costruir»207. Senza poi dimenticare che contemporaneamente il laterizio stava diventando materiale da costruzione d’uso comune, richiesto soprattutto per infrastrutture e opere pubbliche208.
4.3. Strategie di conduzione dei negozi di fornace malcantonesi La ricostruzione delle vicende migratorie malcantonesi ha permesso di individuare due diverse strategie di conduzione dei negozi di fornace. Premesso che il termine “strategia” è da intendere come «comportamento o pratica, sistema razionale di decisione con un obiettivo a medio o lungo termine»209, le pagine che seguono proveranno a far luce proprio sull’atteggiamento avuto dai numerosi malcantonesi titolari di fornaci all’estero nell’ottica della riuscita professionale e personale. Fornaci a conduzione familiare La conduzione familiare delle fornaci risulta la forma di gestione più diffusa tra gli imprenditori malcantonesi, e si caratterizza per il coinvolgimento esclusivo dei parenti nella gestione degli affari e nella conservazione del patrimonio laterizio. Generazioni diverse di consanguinei furono così accomunate tra di loro dalla tradizione laterizia, tramandata attraverso la trasmissione del mestiere e/o la trasmissione del negozio di fornace. Spunto per le prossime riflessioni non sarà però l’acquisizione del sapere tecnico di cui si è già detto, quanto piuttosto l’ottenimento dei diritti di proprietà e gli avvicendamenti ai vertici della direzione aziendale. Nelle sue volontà testamentarie, Giuseppe Antonio Mina di Croglio dichiara che Nel restante poi di suoi beni, mobili e immobili, debiti e crediti che ha e lascerà in qualsiasi luogo e stato al tempo del suo decesso, ha nominati e istituiti suoi eredi generali, ed in porzioni uguali, il suo di lui figlio Domenico e li figli minorenni del defunto di lui figlio Giacomo, cioé Giuseppe e Francesco, e questo per stirpe e non per capo perché rappresentanti il fu loro padre […]. E dichiarando però che le medesime [le di lui figlie Maria e Caterina] non possono essere partecipi del negozio e scorta di fornace nel Piemonte che resta assegnato in prelegato alli predetti Domenico, di lui figlio e abbiatici Giuseppe e Francesco210.
Saranno questi ultimi a proseguire l’opera avviata dal nonno nel Piemonte, siccome l’altro erede nonché zio, Domenico Mina, aveva nel frattempo spostato il baricentro della sua attività nel bresciano, acquistando a Calcinato (BS) un’altra fornace211. Quella portata avanti dai discendenti di Giacomo Mina, e più precisamente dal figlio Giuseppe, si rivela una tradizione durata complessivamente ben cinque generazioni, ognuna della quali, a modo suo, ha coinvolto nel laterizio almeno un componente della famiglia. Infatti, quattro generazioni dopo, nel 1897, a oltre cinquant’anni da quello del capostipite e bisnonno Giuseppe Antonio, il
Giulio Micali (a cura di), Cenni storici, biografici e critici degli artisti ed ingegneri di Trieste ovvero del progresso fatto nelle arti edilizie e mestieri, dalla metà del secolo XVIII fino ad oggi, compilati dall’Architetto Giuseppe Righetti [1869], Trieste 2001, p. III. 208 Gri, In fornace nel primo Ottocento, cit., pp. 112-120. 209 Luigi Lorenzetti, Économie et migrations au XIXe siècle: les stratégies de la reproduction familiale au Tessin, Bern, Berlin, Bruxelles, Frankfurt a. M., New York, Wien 1999, p. 302. 210 Archivo famiglia Mina. Sessa, 27.10.1841 – Testamento di Giuseppe Antonio Mina (17611846 ca.). 211 Archivio famiglia Mina. Appunti sull’agenda. 207
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testamento del fu Giuseppe Mina di Giuseppe, ribadiva l’esistenza di un negozio di fornace di proprietà dei Mina. Lascio eredi generali i miei due figli maschi Giovanni e Cesare ed il figlio nascituro, se maschio, di tutti i miei beni e sostanze. Questi miei figli però daranno lire tremila a ciascuna delle mie figlie Pierina e Maria. Se il figlio nascituro fosse una femmina i miei eredi le conferiranno pure lire tremila. Lascio usufruttuaria mia moglie affinché possa allevare ed istruire i figli a seconda del proprio stato, e ne sarà pure la curatrice coadiuvata dal suo fratello Angelo, che prego di accettare. Lascio pure in facoltà a mia moglie, tanto più de il suddetto suo fratello verrà aiutata, a continuare l’azienda del negozio di fornace212.
212 Archivio famiglia Mina. Sessa, 11.10.1897 – Testamento olografo del fu Giuseppe Mina (1860-1897) di Giuseppe. 213 Archivio famiglia Mina. Mede, 13.1.1914 – Riconoscimento di proprietà di azienda industriale Mina-Amelotti. A questo proposito si vedano inoltre le denominazioni, nell’ordine «Ditta Mina Carolina e figli» sostituita poi da «Ditta Vedova Mina» e infine da «Ditta Mina fratelli Giuseppe e Giovanni». 214 Questa distinzione è emersa dalla documentazione conservata all’Archivio comunale di Croglio. Unità 11.5 – Controllo di matricola, senza data (probabilmente 1903-1916) e Unità 11.6 – Controllo di matricola, senza data (prima metà del XX secolo, probabilmente dagli anni Venti agli anni Cinquanta). Si veda a questo proposito il capitolo «Fornaciaio», un termine dalle varie sfaccettature. 215 Lorenzetti, Economie et migrations au XIXe siècle, cit., p. 311 e seguenti. 216 ASTi, Fondo notarile, notaio Coriolao Andina, Sc. 1980, nr. 13, 29.3.1856. Diversamente, la divisione tra gli eredi Grandi prevede che «la sorella Lucia e madre Caterina cedono la loro parte al rispettivo fratello e figlio Maurizio [rilevatario della fornace], il quale accetta obbligandosi da parte sua a pagare, assegnare, e compensare la sorella con la sua quota di beni in Svizzera» (in ASTi, Fondo notarile, notaio Giuseppe Avanzini, Sc. 2116, nr. 343, 30.3.1889). In altri casi ancora, al posto di un corrispettivo in denaro o immobili, chi acquisisce la fornace s’incarica di estinguere i debiti gravanti sul patrimonio familiare: «in corrispettivo della qual rinuncia il fratello si obbliga al pagamento di tutti i debiti paterni e relativi interessi» (in ASTi, Fondo notarile, notaio Marco Sciolli, Sc. 2201, nr. 880, 11.4.1860).
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In realtà, Giovanni, Maria, Cesare e Giuseppe Mina, figli del suddetto Giuseppe e di sua moglie Carolina Amelotti, riconosceranno più tardi che «per quanto l’industria delle fornaci di Lomello e Lungavilla (PV) possa dalla madre essere stata esercitata sotto la Ditta Mina Carolina e figli pure l’esercizio fu da essa assunto e da essa sempre continuato e condotto a suo rischio e pericolo e nel suo esclusivo interesse senza che i figli vi abbiano mai avuto parte od interesse alcuna, all’infuori di quella (di pura comproprietà e all’esercizio dell’industria affatto estranea) che si riferiva alla cointeressenza dei figli nella proprietà delle scorte, crediti ed oggetti attinenti all’azienda di Lomello all’epoca della morte del padre»213. L’implicazione di questi ultimi negli affari di famiglia in virtù dei soli diritti di comproprietà sulla fornace, ma senza un coinvolgimento dal lato pratico – e forse proprio per questo denominati «industriali» invece di semplici fornaciai214 – evidenzia come le successioni intergenerazionali potevano essere soggette a variazioni di forma e di contenuto. Ciononostante, anche se risolto internamente alla cerchia familiare, il passaggio di consegne non era lasciato al caso. Il testamento costituiva di per sé un importante documento per il perseguimento degli obiettivi familiari e patrimoniali, in quanto permetteva all’esecutore di pianificare la sua successione in funzione delle sue strategie e delle sue intenzioni per il destino della famiglia215. Pur dovendo spesso e volentieri fare a meno di questo documento, si è potuto verificare altrimenti come, nel sistema successorio applicato dai malcantonesi ai negozi di fornace, alcuni schemi di trasferimento della sostanza ritornino con una certa regolarità. Una delle frequenti possibilità prevedeva la cessione dell’intera fornace con annessi e connessi a un solo erede e la rinuncia da parte degli altri in cambio di beni immobili o di un compenso in denaro, così come stabilisce l’atto di divisione tra i fratelli Bartolomeo e Antonio Indemini di Pura. Dopo aver concordato la spartizione in due lotti equivalenti della sostanza sita nel Malcantone e la concessione di beni in usufrutto alla madre, «in quanto al negozio di Fornace posto in Piemonte e precisamente nei dintorni di Mondovì, viene fra i detti fratelli combinato quanto segue: Il signor Bartolomeo si dichiara relevatario esclusivamente di detto negozio unitamente a tutti gli attrezzi annessi, nulla riservato; quale negozio dietro stima fatta praticare consensualmente dai due fratelli ha dato il valore complessivo di franchi 1800; ed il fratello Antonio mediante la detta stima fatta praticare glie lo ha volontariamente ceduto mediante però il computo della sua metà parte in franchi 900»216. In presenza di donne tra gli eredi, erano spesso loro le prime a rinunciare ai diritti sul negozio di fornace.
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Relativamente al negozio di fornace ed annessi al medesimo, parimenti di ragione paterna, abbandonato in Piemonte, sul quale la sorella Domenica avrebbe potuto pretendere usufrutto a parti eguali col fratello Celso, si è stipulata la convenzione seguente in via di transazione, […] cioé la sorella Domenica rinuncia erede al proprio diritto al favore del predetto Celso che ha accettato ed accetta, in corrispettivo della qual rinuncia il fratello si obbliga al pagamento di tutti i debiti paterni e relativi interessi 217.
Diversamente, in caso di nubilato e di convivenza con dei fratelli maschi, la componente femminile continuava talvolta a disporre di fornaci in comunione con uno o più fratelli. Le sorelle Maria e Domenica Tami di Vezio, entrambe maritate, «hanno ceduto, rinunciato ed assegnato al fratello Celeste Tami e sorella Teresa Tami, viventi in comunione, […] ogni e qualunque diritto e ragione che le cedenti hanno e che possono avere sul negozio di fornace dal fratello cessionario condotto ed esistente sul territorio della comune di Belbiano Stato Lombardo […] scorte di materiali, utensili, crediti, debiti»218. La gestione comune del negozio di fornace a cui si è appena accennato, è un altro schema altrettanto usuale, che contemplava per l’appunto la partecipazione alla proprietà di due o più familiari allo stesso tempo, di norma in sostituzione del precedente titolare. Così i fratelli Luigi, Giuseppe e Domenico Devincenti di Castelrotto, figli del fu Angelo, una volta suddivisa in tre piedi equivalenti l’intera sostanza paterna e garantito alla madre l’usufrutto dei beni, concordano che Giuseppe «cede e rinuncia e fa vendita» ai suoi due fratelli Luigi e Domenico «tutte le ragioni di proprietà per il negozio di fornace esistente in Castelnova di Serura stato Sardo»219. I due, in cambio, si impegnavano a pagare tutti quanti i debiti gravanti su tale negozio. Bastano gli esempi appena citati interenti le famiglie Tami e Devincenti per evidenziare una casistica piuttosto variegata e complessa. Infatti, oltre ad essere una pratica assai diffusa, la gestione collettiva dei beni contemplava una moltitudine di variabili possibili che sembra talvolta sfuggire a ogni logica. Solo approfondendo la questione oltre i formali atti notarili e interrogandosi sulle ragioni di tali scelte la matassa comincia a dipanarsi. Innanzitutto emerge come si trattasse di una soluzione con valore per lo più transitorio, adottata in attesa di successivi chiarimenti tra le parti in causa: «Si noti bene – riportava un atto divisorio – che nessuno dei condividenti potrà dimandare la divisione di quella scorta, utensili, mobili, ossia tutti gli annessi e connessi all’affittamento del terreno nel luogo di San Polo sul Piacentino, dove tengono il loro comune negozio di fornace, e ciò finché non sia terminata la locazione del detto terreno, e perché tra le parti così convenuto»220. Uno dei motivi che spiega tale comportamento affiora in un’altra divisione, quella tra i fratelli Rocco e Pietro fu Francesco Palli di Pura. Essa recitava per l’appunto che «nell’intento di addivenire alla partizione e divisione della sostanza fra di loro comune, alla separazione personale e di convivenza divenuta ormai incompatibile stante l’aumento delle rispettive famiglie, sono addivenuti ed addivengono al presente atto»221, con cui si attribuì a Rocco l’intera sostanza sita nel Malcantone, mentre Pietro acquisì la parte posta a Voghera (PV), inclusa una fornace. I beni comuni, dunque, potevano rimanere tali per una o due generazioni, fintanto che la famiglia era unita in un unico aggregato. La sua durata dipendeva da molti fattori, tra cui la presenza o meno di figli celibi in attesa di sposarsi, la capacità
217 ASTi, Fondo notarile, notaio Marco Sciolli, Sc. 2201, nr. 880, 11.4.1860. 218 ASTi, Fondo notarile, notaio Antonio Sertori, Sc. 2168, nr. 717, 21.2.1862. 219 ASTi, Fondo notarile, notaio Giovanni Maria Galeazzi, Sc. 1968, nr. 233, 10.5.1843. 220 ASTi, Fondo notarile, notaio Antonio Sertori, Sc. 2166, nr. 281, 11.3.1843. 221 ASTi, Fondo notarile, notaio Marco Sciolli, Sc. 2202, nr. 1048, 14.12.1866.
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222 Luigi Lorenzetti, Raul Merzario, Il fuoco acceso, Famiglie e migrazioni alpine nell’Italia dell’età moderna, Roma 2005, p. 45 e Walter Goldschmidt, Evaly Jacobson Kunkel, Sistemi di eredità e struttura della famiglia contadina, in Famiglia e mutamento sociale, a cura di Marzio Barbagli, Bologna 1983, p. 199. 223 ASTi, Fondo notarile, notaio Giovanni Maria Galeazzi, Sc. 1973, nr. 978, 1.4.1858. Per l’intera vicenda della famiglia Marcoli si vedano i vari documenti contenuti nell’Archivio famiglia Marcoli-Medolago. 224 ASTi, Fondo notarile, notaio Giovanni Maria Galeazzi, Sc. 1964, nr. 1183, 26.2.1863. 225 ASTi, Fondo notarile, notaio Giovanni Maria Galeazzi, Sc. 1968, nr. 233, 10.5.1843. 226 Dario Benetti, Le tirage au sort dans les communautés villageoises de la Valtellina (Alpes italiennes), «Ethnologie française», XVII (1987), 2/3, p. 276; Merzario, Adamocrazia, cit., p. 19. 227 Lorenzetti, Merzario, Il fuoco acceso, cit., p. 45.
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del figlio successore di risarcire i coeredi oppure ancora la possibilità di dividere il patrimonio familiare senza mettere in pericolo la redditività delle singole quote. Dopodiché, se c’erano i presupposti, la sostanza veniva ridistribuita secondo nuovi schemi – molte volte si passa al modello, presentato prima, della cessione a un solo individuo –, a dipendenza delle nuove esigenze familiari e di alcune scelte individuali222. Lo confermano pure le vicende attorno ai fratelli Marcoli di Biogno, figli del fornaciaio Giovanni. Il secondogenito Francesco rinunciò alla sostanza ereditata in comunione con i fratelli dopo essersi maritato e aver abbandonato l’attività di fornaciaio per cercare lavoro in filanda. In seguito, anche i fratelli Lorenzo, Pietro, Giovanni, Carlo e Maria si separarono «di convivenza»223, accordandosi quindi per un’equa ripartizione delle proprietà, ma soltanto di quella sita nel Malcantone. Le due fornaci in territorio italiano, invece, rimasero ancora per alcuni anni indivise. Analogamente, quando Michele Del Prete di Astano lasciò la comunione ereditaria avuta con i propri fratelli, la separazione non ebbe effetto «sopra i negozi, beni, crediti, ragioni e azioni che in comune possiedono nell’Africa francese, i cui beni rimarranno sino a nuova determinazione perfettamente comuni»224. Situazioni simili d’integrità patrimoniale sono state individuate in numerose altre famiglie con proprietà all’estero, al punto da ipotizzare un’amministrazione di questi beni volutamente differente da quella riservata alla sostanza in patria. Qui, un semplice appezzamento di terreno come quello denominato «Campo Grande con Brughe e Vigna nella pezza delle Pome»225, situato a Castelrotto e di proprietà della famiglia fu Angelo Devincenti, poteva essere suddiviso in diverse parcelle. Infatti, dall’atto divisorio già citato in precedenza si apprende che la metà verso sera del cosiddetto campo fu assegnata al figlio Giuseppe. La sua porzione equivaleva a 18 tavole e 21 piedi, mentre quella toccata a suo fratello Luigi misurava 10 tavole e 21 piedi ed era pure posta verso sera. Le rimanenti 8 tavole e 12 piedi verso mattina, corrispondenti alla parte più piccola, toccarono all’altro fratello Domenico. Tale frazionamento, attuato secondo precise logiche di trasmissione, mirava in primo luogo a garantire il sostentamento di tutti i membri del nucleo familiare226. Ciò era possibile assegnando, come fu spesso il caso, campi, prati, boschi, selve e ronchi a ciascun erede, ossia in risposta a uno sfruttamento necessariamente differenziato del suolo per scopi legati all’attività agro-pastorale grazie alla quale allora ci si manteneva. Ben diverso era invece il destino riservato alla sostanza in territorio estero. L’esame di numerosi negozi di fornace ha evidenziato un’indiscussa integrità di queste strutture, mantenuta tale consapevolmente, nel corso delle generazioni. Una constatazione comprovata dalle modalità di trasmissione di cui sopra, ossia dalla scelta talvolta sofferta di cedere a un solo individuo l’intera fornace oppure dall’opzione di gestire l’intero patrimonio in comunione coi propri consanguinei. Simili accordi finalizzati all’integrità patrimoniale potevano anche causare screzi interni ma, dal momento che qualsiasi attività svolta lontano da casa richiedeva un grande dispendio di energie, avevano il grosso vantaggio di facilitare la ripartizione dei compiti e dei ruoli tra chi partiva e chi rimaneva227. Ne è un esempio l’epistolario della famiglia Marcoli, secondo cui i fratelli Carlo e Lorenzo, a rotazione, furono prima mittente e poi destinatario delle lettere in arrivo da Medolago (BG) e viceversa. Uno scambio di parti che potrebbe spiegarsi con il celibato di Carlo, men-
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tre Lorenzo, maritato, col tempo sembra essersi definitivamente stabilito a Biogno, affidando però al fratello il compito di insegnare al proprio figlio Luigi il mestiere di fornaciaio228. Questa divisione dei lavori dal lato pratico non lo era dal punto di vista formale. Infatti, nonostante il protrarsi della lontananza, anche più tardi Lorenzo rimase comproprietario della fornace di Medolago, e lo restò fino a quando questa passò nelle mani dei suoi figli; un trasferimento che, non da ultimo, avvenne vista e considerata la mancanza di successori da parte dell’altro fratello Carlo. Agli altri due fratelli Marcoli, Giovanni e Pietro, invece, era toccata la fornace di Cislago (VA)229. Quest’ultimo esempio prova non solo la tendenza a mantenere intatta la sostanza posseduta all’estero, ma anche come simili accorgimenti abbiano garantito alle fornaci malcantonesi la necessaria flessibilità, assicurando il ricambio generazionale nonostante l’assenza di una discendenza diretta. Inevitabilmente, al contrario, laddove il negozio era nelle mani di una sola persona, il rischio di non poter garantire continuità all’opificio era maggiore. Attraverso la non divisione si voleva dunque evitare che la sostanza acquisita con notevoli sforzi venisse inutilmente dispersa e frazionata. Non per questo mancano però le situazioni in cui il bottino accumulato lontano dal Malcantone era ripartito tra più persone. Si tratta di un numero relativamente inferiore di casi, appurati in quelle famiglie laddove la sostanza era particolarmente consistente: oltre ai fratelli Marcoli, altri malcantonesi avevano al loro attivo più di una fornace. Ad esempio i figli di Siro Muschietti di Novaggio, tali Giacomo e Giovanni, ebbero in eredità dal padre l’uno il «negozio di fornace a San Giuseppe Comune di Treviso» e l’altro quello sito «a Morgeno, provincia di Treviso»230. Una fornace a testa ereditarono pure Giuseppe e Tommaso Mina di Croglio. La suddivisione tra i due dei negozi di Frascarolo (PV) e di Ponte San Martino di Calcinato (BS), compresi pure i «rispettivi effetti mobili, materiali, crediti e quant’altro nulla riservato»231, non intaccava però l’integrità degli stessi, che mai sembra esser stata messa in discussione. Stando a quando detto fin qui, è quindi chiaro che per la gestione dei beni di famiglia all’estero si siano adottate strategie particolari, con sostanziali differenze rispetto alle regole applicate in patria. Mentre la sostanza sita nel Malcantone era destinata in primis a garantire il minimo vitale a ogni familiare, l’atteggiamento nei confronti dei beni all’estero esprime una diversa finalità dei beni legati all’attività laterizia. Quest’ultima, infatti, se svolta in termini imprenditoriali, poteva rifornire di un certo surplus chi aveva le redini del comando. E proprio in quest’ottica va letta la conduzione familiare di molte fornaci malcantonesi, vale a dire di economie domestiche che, in cerca di maggior benessere, si spingevano oltre i confini regionali con la speranza, in un domani, di tornare e stare meglio232. Fornaci in società Di tutt’altro tipo è la gestione in società delle fornaci. Probabilmente più utilizzata di quanto non lasci intendere l’esiguo numero di accordi societari rinvenuto, questa forma amministrativa con cui i malcantonesi si associavano a terzi per condurre collettivamente gli affari legati all’attività laterizia, riuniva un minimo di due individui, compaesani o meno, ma generalmente esterni alla rete parentale. In base al tipo e al grado di collaborazione tra gli associati, i loro ruoli e mansioni potevano mutare di volta in volta. Ciononostante, dietro quest’apparente varietà
Archivio famiglia Marcoli-Medolago. Lettere. Archivio famiglia Marcoli-Medolago, passim. 230 ASTi, Fondo notarile, notaio Costantino Viscontini, Sc. 2158, nr. 312, 23.2.1857. 231 ASTi, Fondo notarile, notaio Giovanni Maria Galeazzi, Sc. 1977, nr. 1758, 26.1.1875. 232 Audenino, Mobilità geografica e mobilità sociale, cit., p. 162; Audenino, Un mestiere per partire, cit., p. 53. 228 229
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di modelli organizzativi si celavano spesso schemi ripetuti, solitamente incentrati sull’aspetto finanziario e sulla questione pratica. Infatti, proprio attorno a questi due indispensabili elementi venne elaborata la convenzione tra Giovanni Crescionini fu Pietro di Magliaso e Luca Bianchi fu Antonio della Cascina, resa pubblica con un atto notarile del 25 febbraio 1807233. Questo documento rileva come i due firmatari abbiano dapprima affittato una fornace a Invorio Inferiore (NO) di proprietà di un locale, quindi abbiano contratto «tra di loro società della Fornace suddetta d’opera di fornasaro e negozio», suddividendosi i compiti come segue. Porrà e conferirà il Crescionini per fondo della società, senza poterla ritirare durante la medesima, il capitale e la somma di lire 900 correnti di Milano, delle quali ha di già consente 776 lire, di cui sono serviti per la provvisione degli utensili necessari alla fornace, di legna e vino, e per la fabbricazione di materiali già fatti, e le restanti 123 lire ha promesso porgerle al suddetto Luca Bianchi assistente al momento che arriverà alla fornace affine d’incominciare il lavoro, e di provvedere le cose a ciò necessarie. Il Bianchi poi invece, a sconto del fondo come sopra conferito e che si conferirà dal Crescionini vi porrà la sua industria, e l’opera sua personale, sarà assistente al negozio, lo dirigerà, ed amministrerà, accorderà gli uomini necessari a far i materiali, comperar la legna per cuocerli, li venderà, e conseguirà il prezzo e farà tutto quanto crederà di vantaggio per il sociale negozio anche indipendentemente dall’altro socio. Farà in ogni anno l’assistente un esatto inventario del negozio, e renderà fedelmente il conto del suo operato, e della sua amministrazione. Tutti gli utili e guadagni annuali, che si faranno e che risulteranno dal negozio della fornace suddetta, si divideranno all’atto del rendimento dei conti per giusta metà tra li suddetto soci, dovendo questi corrispondere e supplire agli interessi del fondo Crescionini, ed all’opera, ed assistenza Bianchi, di cui nè l’uno nè l’altro potranno a motivo di ciò pretendere pagamento, compensa nè indennizzazione alcuna234.
È una ripartizione che non lascia adito a dubbi circa la funzione di socio finanziatore del Crescionini e quella di socio fornaciaio del Bianchi, tanto più che nello stesso periodo il primo, sempre in qualità di sovvenzionatore, si era reso protagonista di altri due contratti societari235. Più sfumata è invece la ripartizione tra il «proprietario e negoziante» Giacomo Zambelli e il «proprietario e fornaciaio» di Breno Francesco Pelloni, entrambi dimoranti a Caorso (PC), che pure avevano istruito «fra loro una società per la fabbricazione e vendita di materiale da fornace per costruzioni murarie»236. Padrone di una fornace, il Pelloni si obbliga
233 ASTi, Fondo notarile, notaio Francesco Orlandi, Sc. 1606, protocollo degli istrumenti dal 1807 al 1808, pp. 115-118, 25.2.1807. 234 ASTi, Fondo notarile, notaio Francesco Orlandi, Sc. 1606, protocollo degli istrumenti dal 1807 al 1808, pp. 115-118, 25.2.1807. 235 ASTi, Fondo notarile, notaio Francesco Orlandi, Sc. 1606, protocollo degli istrumenti dal 1807 al 1808, pp. 152-154, 31.3.1807 e pp. 202205, 29.5.1807. Della famiglia Crescionini si dirà più avanti nel capitolo La questione finanziaria. 236 MusMalc, Fondo Gallacchi. Caorso, 20.4.1842 – Società Zambelli-Pelloni.
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di mettere a disposizione della società l’attuale suo edifizio ad uso di fornace anche per quella parte di esso edifizio che sono tutt’ora indivise tra lui, ed i suoi fratelli e sorella Raffaele, Domenico, Costanza, Annunciata e Anna, pei quali promette in ogni caso di ratifica. Si obbliga pure detto Pelloni di somministrare tutta la terra che durante la società potrà occorrere per la fabbricazione di ogni e qualsiasi quantità e qualità di materiali e tegola come pure tutti gli stampi, carrette, banchi e altri attrezzi necessari a quella fabbricazione, e di mantenere sempre in buon stato di riparazioni tanti il suddetto edifizio, quanto tutti gli attrezzi occorrenti, e ciò tutto senz’alcun compenso per parte del signor Zambelli.
Da parte sua, lo Zambelli, per l’appunto negoziante, accetta di lasciare sul luogo, come un capitale sociale, i materiali stati come sopra dal medesimo acquistati [al Pelloni per la convenuta somma di lire nuove sessanta], a condizione però, e non altrimenti che da oggi in avanti tutto il materiale indistintamente che esiste ed esisterà sarà sempre ed in qualunque evento di proprietà del signor Zambelli per garanzia del presente contratto.
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Sarà però questi obbligato come si obbliga di anticipare alla società tutte le somme che potranno occorrere durante la medesima per provvista di legna da ardere, condotta di sabbia, per fabbricazione di materiali, loro cuocitura, cavatura e altre simili.
In quanto alla gestione dei conti, si decide che La cassa della società rimarrà sempre presso il signor Zambelli, il quale si obbliga di darne al socio un conto esatto ogni qualvolta ne sia richiesto, come altresì di tenere in buona regola i registri sociali. Le esigenze perciò per vendite fatte di materiali saranno curate, ed eseguite dal signor Zambelli e qualora avvenisse che per qualche combinazione avesse a farne alcune anche il Pelloni, sarà questi tenuto di darne tosto avviso al suo socio passandogli anche subito la somma esatta per la regolarità del conto sociale. Alla fine di ogni anno si faranno i conti della società, e preservata a favore del Zambelli la somma come sopra da lui sborsata, nonché le sovvenzioni ch’esso avesse fato in quell’anno, l’utile netto che risultasse da questa liquidazione verrà diviso per giusta metà fra i due soci, qualora rimanesse però un deposito di materiali invenduti, questi rimarranno tuttavia sul luogo per far fronte, fino a debita concorrenza, delle suddette lire nuove sessanta, e l’avanzo dei materiali sarà diviso per giusta metà quando non si volesse tenerlo sul luogo come scorta della susseguente annata.
Rimane infine aperta l’ipotesi di fornaci gestite in comunione esclusivamente da fornaciai, come potrebbe per lo meno suggerire la «società di negozio di due fornaci a pietre cotte e calce» stabilita tra Gerolamo Andrea Rusca e Carlo Pianca di Cademario; dei due il primo risultava essere il finanziatore di maggioranza, avendo investito una somma pari a tremilacentocinquanta lire cantonali a confronto delle mille del secondo237. Allo stesso modo si potrebbe dire dell’affitto di un terreno per uso di fornace in quel di Lomello (PV) da parte dei malcantonesi Francesco Andina, Martino Baroni e Giuseppe Mina238. Indipendentemente dagli attori, dalla ripartizione dei compiti e del denaro, le fornaci erano gestite in società per un periodo limitato di tempo, al termine del quale era possibile rinnovare l’accordo; così come non si poteva escludere un eventuale scioglimento anticipato dell’accordo, in caso di negligenza o altro imprevisto. Apposite clausole stabilivano come comportarsi in tali situazioni.
237 ASTi, Fondo notarile, notaio Pietro Soldati, Sc. 198, nr. 96, 18.3.1829. 238 Archivio famiglia Mina. Lomello, 13.11.1877 – Affitto di un terreno per una fornace da parte di Andina, Baroni e Mina e Lomello, 1.12.1886 – Dichiarazione di avvenuto pagamento e prolungamento.
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Questa società sarà durabile per il decorso d’anni nove convenuti nella locazione suddetta, e più oltre a volontà delle parti; si rinnoverà l’investitura durante la qual società non potendosi dal Crescionini ritirare la scorta postavi. Se, pendente la società, accadesse che l’assistente Andreoli si ammalasse con malattia tale, che necessitasse l’assistenza di qualche altra persona, dovrà questa esser pagata dall’ammalato dal suo proprio, ma sarà di sua elezione. In caso che uno dei soci costante la società a locazione premorisse all’altro, sarà lecito agli eredi del premorto di ritirarsi dalla società, oppure continuarvi, ma solo pendente lo spazio della locazione presente e non altrimenti. Sciolta e finita la società prima di procedere alla partizione degli utili in essa fattivi, dovrà il sociale negozio pagare al compagno Crescionini in denari sonanti tutta la scorta, che risulterà dall’inventario da firmarsi dall’Andreoli, la quale se per mancanza o negligenza sua fosse a tale epoca diminuita, sarà lo stesso Andreoli tenuto come qui sottoscritto, sott’obbligo di se stesso, e di tutti i di lui beni presenti e futuri, promette pagarne al compagno il deficiente di detta scorta con denaro suo proprio e privato; qualora poi la diminuzione e la perdita del fondo venisse prodotta e cagionata da infortunio o da imprevisto accidente, la perdita e la diminuzione dovrà esser comune ai soci 239.
ASTi, Fondo notarile, notaio Francesco Orlandi, Sc. 1606, protocollo degli istrumenti dal 1807 al 1808, pp. 152-154, 31.3.1807. 240 ASTi, Fondo notarile, notaio Francesco Orlandi, Sc. 1607, 1808-1811, pp. 101-103, 2.11.1809. 241 ASTi, Fondo notarile, notaio Francesco Orlandi, Sc. 1606, protocollo degli istrumenti dal 1807 al 1808, pp. 202-205, 29.5.1807 242 Lorenzetti, Controllo del mercato, famiglie e forme imprenditoriali, p. 506 e Laurance Fontaine, Relation de crédit et surendettement en France: XVIIe-XVIIIe siècles, in Des personnes aux institutions. Réseaux et culture du crédit du XVIe au XXe siècle en Europe, a cura di Laurance Fontaine, Gilles Postel-Vinay, Jean Lauren Rosenthal, Paul Servais, Louvain-le-Neuve 1997, p. 7. 243 Lorenzetti, Emigrazione, imprenditorialità e rischi, cit., p. 45. 244 Va premesso che questo capitolo, nonostante l’esistenza di scritti legati all’aspetto finanziario dell’attività laterizia (fatture, libri di cassa, annotazioni circa pagamenti, prestiti e incassi), è stato in parte influenzato dalla loro discontinuità, essendo questi documenti per lo più frammentari o isolati e quindi difficili da contestualizzare. 239
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Simili accorgimenti permettevano un adattamento tempestivo ai possibili mutamenti congiunturali, ma anche la dovuta flessibilità per risolvere inconvenienti d’altro genere. Appena due anni dopo la sottoscrizione dell’accordo societario, Giovanni Crescionini, presumibilmente per «la poca salute» di cui godeva, cedette al socio Luca Bianchi la «sua porzione e diritto della fornace d’Ivorio fra essi comune», così come il «diritto della locazione di tale fornace ricevuta ed avuta dal Giovanni Antonio Frolli di Ivorio, parimenti di tutta la scorta e di tutto il fondo da esso Crescionini posto nel sociale negozio […] come anche di tutto l’utile e guadagno, materiali, crediti e debiti sin’ora nel negozio della detta fornace in società ricavati». E tutto ciò «per il prezzo di lire 1750 correnti di Milano»240. Anzi, proprio la condizione fisica cagionevole aveva poco prima convinto il Crescionini «di permanere a casa sua e di associarsi», questa volta a Giovanni Andreoli241. La scomposizione dei contratti appena proposta rivela molte similitudini con le società costituite in passato dai cioccolatai bleniesi e analizzate da Luigi Lorenzetti, il quale ricorda più in generale come la «la costituzione di società di durata limitata – e a finanziamento diretto242 – era pratica assai diffusa tra gli emigranti impegnati in piccole attività commerciali e di smercio»243. In sintesi, le notizie raccolte in questo capitolo mostrano come non bastassero le conoscenze pratiche, e talvolta nemmeno la disponibilità di una fornace per mantenere in funzione il sistema. Infatti, il fornaciaio intenzionato a imboccare la strada dell’imprenditoria aveva bisogno di solide basi su cui poggiare e con cui elaborare una strategia vincente. La scelta del tipo di conduzione aziendale da adottare – familiare o in società con tutte le possibili sfumature – scaturiva dunque dopo attenta valutazione di alcuni fattori, primi fra tutti la reperibilità di risorse economiche e di capitale umano.
4.4.
La questione finanziaria
Malgrado povertà e miseria siano state all’origine di molte partenze e nonostante un’economia di sussistenza come quella malcantonese disponesse di limitate liquidità, l’aspetto finanziario non può dirsi estraneo alla realtà dei fornaciai 244. Già il
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viaggio stesso poneva molti emigranti di fronte al problema del denaro. A questo scopo, nel 1852, a Curio si allestì la cosiddetta «cassa cavalli»245, un fondo destinato a prestiti di piccola taglia, rimborsati appena possibile dal beneficiario, o almeno così auspicava G. Fugazza, che nel frattempo, in Algeria, cercava di metter da parte i risparmi per potersi poi acquistare una propria casa in patria. Ora non ci resta che a fare il nostro lavoro, e colla sanità in noi spero in quest’anno di poter prima, pagare ciò che mio padre è arretro con cassa cavalli ecc: e secondo pensare di appropriarsi le case. Perciò lo prego di nuovo di farmi sapere qualche giorni prima di passare alla vendita o ad’una trasmisione qualunque delle case Giovannini Domenico… che se non potremo pagare il totale della somma, almeno in parte potremo arrivarci. È cosa deplorevole il essere obbligati di fare gli ambulanti ogni volta che un proprietario gli gira in capo di fare prendere aria ad’un suo fittavolo! Io ce lo dico francamente… per venire in patria senza che abbia potuto procurarmi abitazione sara molto difficile che ci venga. In quest’anno saremo trè al lavoro [come fornaciai] e quindi faremo tutto il possibile per guadagnare una discreta campagna e così arrivare a prepararci un piccolo sostegno per lavenire246.
L’obiettivo dichiarato da molti fornaciai, tra cui G. Fugazza, era dunque quello di «accumulare capitale da reinvestire nel proprio villaggio»247. Oppure, più semplicemente, si cercava di monetizzare al massimo il lavoro in modo tale da poter spedire a casa il denaro guadagnato e far fronte alle spese quotidiane248. «Finalmente – scriveva il fornaciaio Francesco Marcoli al fratello in patria – ti mando un poco di denaro troverai qui L. 60.00 per ora non ti posso mandare di più perché mi trovo ormai scarso, in avanti se ne potrò incassare, ve ne spedirò ancora»249. Il suo è un atteggiamento facilmente riconducibile alle regole di solidarietà e di assistenza reciproca tra familiari, da cui scaturiva l’unione dei singoli guadagni a beneficio dell’interno nucleo familiare250. Una prassi che poteva di tanto in tanto causare dissidi interni. Infatti, pur senza venire meno allo spirito solidale, Antonio Del Mollo interroga il fratello, chiedendogli spiegazioni di un uso tanto generoso del suo denaro e lo invita indirettamente a essere più parsimonioso. L’altro giorno a Treviso feci qualche lagnanza con Giovanni Muschietti che ora è a casa e ti dirà qualche cosa in proposito, anzi gli consegnai no 4 marenghi di darti, e gli aveva detto da dirti che ti pagassi l’affitto al Dottore, e il resto per casa, savesse saputo o che mavessi scritto te ne avrei mandati di più, ma ora non sono più a tempo per mezzo suo, basta intanto adopera quelli e poi scrivami subito che li mandarò per posta. […] io a casa sarà difficile e venire […] e poi se vengo a casa bisogna che spenda dieci o dodici marenghi, e quelli te li mandavo a casa, a te, a aggiustare tanto grano per questo anno, e allora l’anno venturo non troverai più grano di pagare, perché se la va, così mi tocca a lavorare tutto il tempo della mia vita per sostenere la casa perché anche questo anno, varda, quanti marenghi 16 te li ho datti a te, 6 li ho mandati a casa io questo estate, 4 li ò consegnati a Giovanni Muschietti, qualche cosa ti mandarò ancora mediante tuo ordine se li ai di bisogno o no, dunque in tutto ci a valuto più di trenta marenghi, trova famiglia in Novaggio che spende tutto questi soldi, ogni anno, senza sapere dove vanno251.
Per i titolari di fornaci come Antonio Del Mollo, agli assegni e alle spese per il tragitto, più o meno onerose a dipendenza della destinazione, si aggiungevano i costi per l’allestimento e il mantenimento della fornace. È però chiaro che l’acquisto, o anche semplicemente l’affitto di una fornace, imponeva l’investimento di capitali, non sempre a portata di mano, viste e considerate
245 [Ermanno Medici], Curio, Note di storia, Curio 1961, p. 154 e Alther, Medici, Curio e Bombinasco dagli albori, cit., p. 371. 246 Boufarich, agosto 1889 – Lettera di G. Fugazza al padrino. Citata in Alther, Medici, Curio e Bombinasco dagli albori, cit., pp. 378-379. 247 Lorenzetti, Merzario, Il fuoco acceso, cit., p. 25. 248 Merzario, Famiglie di emigranti ticinesi, cit., pp. 39-55. 249 Archivio famiglia Marcoli-Medolago. Medolago, 16.9.1889 – Lettera di Francesco Marcoli al fratello. 250 Lorenzetti, Merzario, Il fuoco acceso, cit., p. 39 e Merzario, Adamocrazia, cit., p. 71. 251 Archivio privato Demarta. Fagaré, 5.3.1867 – Lettera di Antonio Del Mollo al fratello Cristoforo e alla madre.
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Pur avendo valutato come elevata la somma che un fornaciaio doveva sborsare in questi frangenti, non è facile attribuire un valore, anche solo indicativo, alla fornace. Le cifre rinvenute nei documenti, formulate in valute di volta in volta diverse, si riferiscono spesso al negozio di fornace nel suo insieme, vale a dire comprensivo di materiali, utensili ed eventuali terreni annessi. Inoltre, i prezzi d’affitto e d’acquisto erano soggetti a variazioni sulla base di fattori esterni, quali ad esempio l’epoca e il luogo. A questo proposito si veda il paragone tra salario e beni di consumo proposto nel contributo di Zerbi in questo volume, p. 117. 253 Archivio privato Demarta. Lugano, 3.4.1888 – Antonio Bertoli. 254 Archivio famiglia Mina. Castelrotto, 3.1.1848 – da Giovanni e Fortunato Rossi fu Giuseppe di Castelrotto. 255 Archivio famiglia Mina. Ponte Tresa, 11.11.1847 – da Battista Rossi fu Luigi di Purasca. 256 Luigi Lorenzetti, Mercato del denaro e mercato della terra nel Ticino dell’Ottocento, «Archivio storico ticinese», 130 (2001), p. 219. 257 Mons. Enrico Maspoli, Compendio storico di Magliaso, Bellinzona 19912 (1945), p. 26. Sul conto di Giovanni si veda il capitolo “Fornaci in società”. 258 ASTi, Fondo notarile, notaio Angelo Maria Rusca, Sc. 1380, 28.4.1772. 259 ASTi, Fondo notarile, notaio Giuseppe Avanzini, Sc. 2114, nr. 54, 12.2.1880. 260 ASTi, Fondo notarile, notaio Giuseppe Albisetti, Sc. 2128, nr. 467, 22.1.1849. 252
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le modeste condizioni della gran parte dei malcantonesi252. Di conseguenza, mentre alcuni fornaciai sceglievano di unirsi a un socio finanziatore come riferito precedentemente, qualcuno, più semplicemente, ricorreva a terzi per mezzo di prestiti. Lo dimostra una nota firmata dal fornaciaio Antonio Bertoli che agì in nome della sorella, pure impegnata a gestire delle fornaci nel Veneto: «Io sottoscritto dichiaro avere ricevuto dalla Signora Palmira Pelli nata Muschietti e per conto di mia sorella Colomba Bertoli V.va Del Mollo, la somma di It. Lire nove mille (9000) e dal giorno d’oggi s’incasserà un interesse del 5%»253. La cifra è tale da ipotizzare un suo impiego in un grosso progetto quasi sicuramente legato all’attività laterizia. Allo stesso modo si può dire delle quattromila lire di Milano ricevute a titolo di mutuo e che Domenico e Caterina Mina promisero di restituire ai fratelli Rossi di Castelrotto. Il prestito aveva consentito ai primi di pagare un debito contratto a seguito di un non meglio precisato acquisto fatto a Calcinato (BS)254. Poiché nello stesso periodo Domenico Mina aveva comprato una fornace e un terreno a Calcinatello255, è quindi lecito credere che in questo modo il Mina abbia potuto saldare i conti, se non della fornace stessa, quantomeno di quelli connessi all’attività laterizia da lui condotta a Calcinato, di cui Calcinatello è frazione. Sebbene sul debito del Mina non pendesse alcun tasso d’interesse, mutui e prestiti rimandano quasi inevitabilmente al sistema creditizio, «motore di numerose attività imprenditoriali»256 in diverse aree alpine. Purtroppo, le rare transazioni di denaro con cui si è confrontata la presente indagine e le saltuarie enunciazioni di debiti e debitori non consentono di verificare se e quando i fornaciai malcantonesi vi abbiano fatto ricorso, ma lasciano spazio solo a delle congetture. A questo proposito colpisce il caso della famiglia Crescionini di Magliaso, coinvolta sia nel laterizio sia nel mercato del credito. Giovanni Crescionini, che partecipò ad almeno tre società di fornaci come finanziatore e di cui si è riferito sopra, in realtà, era stato preceduto dall’avo Andrea, già attivo nel ramo fin dal 1742257. Quest’ultimo lasciò poi ai suoi due figli anche una serie di crediti da riscuotere nel Malcantone258, e con essi la prova che la pratica creditizia aveva toccato pure questa regione. Tuttavia, dal momento che le somme prestate rientravano nell’ordine del piccolo credito – dalle tre alle settantasette lire –, è poco probabile che siano servite a sostenere le iniziative imprenditoriali degli emigranti malcantonesi. Al contrario, per finanziare l’industria laterizia, si era scelta l’opzione in società, come dimostra di aver fatto appunto il socio Giovanni Crescionini. Nonostante le apparenze, l’idea andata disegnandosi dei Crescionini come di una famiglia facoltosa, va almeno in parte ridimensionata. Infatti, osservando attentamente gli averi di altre famiglie attive nel laterizio, sono ugualmente emersi qua e là alcuni crediti. Gaspare Rossi di Curio, deceduto a Gravellona Lomellina (PV) dov’era stato proprietario di una fornace, lasciava in eredità ai figli «titoli di credito nel Cantone Ticino per la somma di franchi tremila quattrocento dodici (3412)»259. Cesare Ferrari di Monteggio, invece, all’estero aveva posseduto beni ma anche crediti, tra cui «il negozio di fornace esistente a Gornate Inferiore distretto di Varese sopra fondo affittato dal sig. Giuseppe Frattini, con tutte le scorte di materiali, utensili, legna, crediti, e fitto già anticipato, e generalmente niente eccettuato né riservato, stimati il tutto Cantonali Lire 5456 cinquemille quattrocentocinquantasei, soldi 14 quattordici»260. A questi nomi si associano pure quelli dei discendenti degli appena citati Mina, i quali «In riguardo ai negozi di fornace si
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sono convenuti in via bonale ed è che Giuseppe sarà padrone e sarà possessore del negozio posto a Frascarolo e Tommaso sarà possessore e padrone di quello posto a Ponte St. Martino di Calcinate provincia di Brescia. I quali negozi comprendono i rispettivi effetti mobili, materiali, crediti e quant’altro nulla riservato»261. Parrebbe quindi che le manifatture di questa famiglia, beneficiaria di prestiti fino a pochi decenni prima, nel frattempo stessero cominciando a dare i primi frutti. Infatti, è assai probabile che i crediti menzionati siano «crediti derivanti da materiali venduti»262 e non da un vero e proprio mercato creditizio. Tradotto in altri termini, ciò significherebbe che con le entrate ottenute dal commercio, il fornaciaio imprenditore era poi in grado di autofinanziarsi, di mantenere l’attività (rifornimento di combustibile, retribuzione dei dipendenti, migliorie tecniche, eccetera) e persino di stanziare temporaneamente crediti. Dopo aver accertato che il denaro rappresentava un elemento indispensabile al buon funzionamento del sistema fornace nonché una della motivazioni della scelta migratoria, non è ancora del tutto chiaro con quali mezzi l’attività imprenditoriale malcantonese sia potuta decollare, se con fondi propri o attraverso il credito. Manca fin qui la certezza di eventuali «crediti derivanti dalle operazioni immobiliari»263, che farebbe pendere l’ago della bilancia verso la seconda ipotesi. E questo nonostante i malcantonesi disponessero di terreni potenzialmente ipotecabili e fossero attivi sul mercato della terra al pari delle altre comunità alpine (compra vendita, acquisti, cessioni, eccetera). D’altronde, secondo quanto si osserva in Il fuoco acceso, il binomio creditore-debitore non sembrava convenire appieno a quelle comunità delle Alpi lombarde «dedite ai lavori edili (perlomeno a quelli poco o mediamente qualificati) e al piccolo artigianato»264, e perciò forse nemmeno a una realtà tanto simile come quella malcantonese. Per il momento – e in attesa di essere magari smentiti – è dunque preferibile parlare più in generale di fornaciai che, all’occorrenza, facevano ricorso a sovvenzioni esterne, dalle quali però non arrivarono mai a dipendere interamente.
4.5. La clientela Il successo delle aziende malcantonesi è dipeso inevitabilmente anche dalla clientela, più o meno assidua a seconda delle circostanze. «Circa alla fornace abbiamo venduto buon numero di materiali incominciammo a far mattoni, ma il tempo ci favorisce poco»265, rassicurava Luigi Marcoli, mentre alcuni anni dopo il fratello Francesco, subentratogli alla testa della manifattura di Medolago (BG), doveva purtroppo ammettere che «da alcuni giorni cominciarono a fare quadrelli, ma non c’è bisogno non abbiamo nessuna fabbrica»266. Nonostante l’alternarsi di momenti positivi ad altri meno proficui, i Marcoli alimentavano un mercato decisamente variegato. In effetti, come emerge dal Libro maestro d’inizio Novecento267, testimonianza unica nel suo genere, la loro azienda poteva contare su una clientela composta da alcuni semplici cittadini (bottegaio, fabbro, falegname, fattore, mugnaio, prestinaio, eccetera), accanto ai quali erano invece consuetudinari i nomi di ecclesiastici, nobili e persone appartenenti alle alte sfere della società (avvocato, ragioniere, sindaco, dottore). Tra gli acquirenti sono infine elencati anche alcuni capomastri, muratori e fornaciai. Se ne deduce così che una parte dei laterizi veni-
261 ASTi, Fondo notarile, notaio Giovanni Maria Galeazzi, Sc. 1977, nr. 1758, 26.1.1875. 262 ASTi, Fondo notarile, notaio Giovanni Maria Galeazzi, Sc. 1973, nr. 978, 1.4.1858. 263 Fontaine, Relation de crédit et surendettement en France, cit., p. 212. Sul tema del credito in Ticino si veda Raffaello Ceschi, Carlo Agliati, Il censo, il credito, i notabili, in Storia del Cantone Ticino, L’Ottocento, a cura di Raffaello Ceschi, Bellinzona 1998, pp. 215-236. 264 Lorenzetti, Merzario, Il fuoco acceso, cit., pp. 106-107. A questo proposito si veda anche Luigi Lorenzetti, Economic opening and society endogamy: migratory and reproduction logics in the Insubric mountains (18th and 19th centuries), «The History of the Family. An International Quarterly», 2 (2003), vol. 8, p. 301. 265 Archivio famiglia Marcoli-Medolago. Medolago, 4.2.1872 – Lettera di Luigi Marcoli al fratello in patria. 266 Archivio famiglia Marcoli-Medolago. Medolago, 27.4.1886 – Lettera di Francesco Marcoli al fratello. 267 Archivio famiglia Marcoli-Medolago. Libro maestro (dal 1900 in poi).
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va destinata direttamente all’industria edile, mentre una parte era richiesta e fornita a committenti privati. Prima di approfondire le dinamiche intercorse tra produttore e consumatore, è bene sottolineare come originariamente, e fino all’avvento dei forni a fuoco continuo, la produzione avvenisse per lo più in base alla domanda, spesso su precisa commissione. Si ricordino a questo proposito i capomastri che in passato reclutavano personale, e quindi anche fornaciai, per impiegarlo laddove necessario268. Ma anche più tardi, quando il fornaciaio dai cantieri si sposta nelle fornaci stabili diventando un artigiano indipendente, le cotture si effettuavano comunque di preferenza a forno pieno; visti il notevole dispendio di energie nel procurarsi il combustibile, nel mettere in forma i manufatti e nell’accendere il forno stesso, ci si assicurava in tal modo che quanto fabbricato venisse poi smerciato. Da quando i forni sono a fuoco continuo, invece, le ditte accumulano scorte di materiali, garantendosi così di proposito uno stoccaggio di riserva269. O almeno questo sarebbe nelle intenzioni di Antonio Del Mollo, che dopo aver adottato il nuovo sistema Hoffmann registra un’ottima riuscita degli affari, tant’è vero che «in quanto poi allo smercio consumo anche troppo perché non faccio a tempo di servire li miei avventori, non facciamo a tempo neanche ad impillare i materiali, sortono ogni giorno dai forni si stravacha le cariole come fossero sassi e subito pronti i carri a levare tutti i materiali»270. Passando ora all’analisi dei vari tipi di clientela, vi sono le premesse per credere che i rapporti con gli addetti al settore edile siano rimasti sostanzialmente gli stessi anche dopo l’entrata in scena dei fornaciai indipendenti. Come prima, una volta ricevuto l’incarico, il capomastro o chi per esso si rivolgeva a un produttore di laterizi, stabilendo la quantità di materiali da costruzione necessaria a ricoprire il fabbisogno del cantiere.
268 Si veda a questo proposito il capitolo La tradizione edilizia sottocenerina e gli inizi del mestiere di emigrante fornaciaio tra Seicento e Settecento. 269 Testimonianza orale di Claude Morandi, presidente del consiglio d’amministrazione e direttore generale del gruppo MBB Morandi Bardonnex, di cui fa parte la Morandi Frères SA di Corcelles-près-Payerne (canton Vaud). 270 Archivio privato Demarta. San Biagio di Callalta, 8.7.1873 – Lettera di Antonio Del Mollo al suocero. 271 Archivio famiglia Marcoli-Medolago. Ponte S. Pietro, 10.7.1872 – Ricorso. 272 Archivio famiglia Marcoli-Medolago. Libro maestro (1900 in poi), p. 11. Al momento della tenuta del libro maestro, era titolare della fabbrica di laterizi di Medolago Pietro Marcoli; tra i suoi clienti registrati figurano i fratelli Luigi a Bressana e Francesco a Calusco d’Adda così come tali Fratelli Marcolli pure a Calusco d’Adda.
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[…] verso la fine dell’anno 1870 il Municipio di Bottanuco, deliberava l’appalto per la costruzione di un vasto fabbricato ad uso delle scuole ed ufficio Comunali, al Signor Giuseppe Pianezza, capomastro di Trezzo sull’Adda provincia di Milano, il quale a sua volta stipulò coi sottoscritti fratelli Marcoli […] un contratto per la somministrazione del materiale da fabbrica in terra cotta al suddetto appaltatore occorrente per la costruzione del fabbricato da erigersi come sopra in Bottanuco271.
La presenza di altri fornaciai tra i clienti potrebbe invece sembrare per certi versi anomala. In realtà, questi si rivolgevano ai colleghi per comprare e poi rivendere manufatti non compresi nei rispettivi cataloghi di prodotti. Trattandosi poi in alcuni frangenti di fornaciai uniti da legami di parentela, è allora presumibile che a determinare gli scambi abbiano contribuito anche altri fattori, quali per esempio la solidarietà tra familiari. Così, nel mese di agosto del 1906 il Signor Conti Capo Mastro di Capriate San Gervaso (BG) veniva rifornito di pianelle sfornate a Medolago assieme a dei sesoli provenienti invece da Calusco (BG), dove era in funzione un’altra fornace Marcoli272. Stando al registro di cassa della ditta Marcoli di Medolago, ancora all’inizio del XX secolo, erano soprattutto le classi più abbienti ad alimentare copiosamente il mercato del laterizio. Fino ad alcuni decenni prima questo dato avrebbe rispecchiato abbastanza fedelmente l’uso prioritario dei manufatti in argilla nelle opere di maggior prestigio e sarebbe stato di complemento alle già numerose fornaci di proprietà nobiliare. In tal caso, quando la fornace era di proprietà di un ente loca-
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le – ad esempio un monastero o un nobile – e sebbene fosse affidata a un fornaciaio locatario, una parte della produzione era destinata all’approvvigionamento del padrone, come stabilito da contratto. A titolo di pensione il suddetto Giacomo Righetti pagherà come promette al Presente Cavaliere Locatore accettante […] ogni anno in effettivo numerario metallico sonante al corso monetario di questa Piazza la somma di lire nuove di Parma quattrocento, […] e d’anno in anno sino a che durerà il presente affitto, il quale è stato altresì stipulato sotto le clausole, e condizioni seguenti. Primo: Oltre la detta pensione come sopra fissata dovrà il detto Giacomo Righetti come promette, e s’obbliga dare, e pagare per una sol volta tanto al prefato Conte locatore e a titolo d’aumento di tale pensione lire nuove di Parma cento quaranta centesimi trenta quattro e queste quanto sia a lire nuove settanta, e centesimi diciassette nel giorno undici Novembre di questo stesso anno, e per le altre lire nuove di Parma settanta, e centesimi diciassette somministrerà al medesimo Conte tanti materiali, e calce ad ogni richiesta, ed a scelta del Conte stesso quanti corrisponderanno a prezzo giusto, ed onesto a detta somma273.
Dino Marcoli (al centro) a Calcinato.
Altrimenti, i fornaciai imprenditori contrattavano con il resto della clientela – presumibilmente quella fetta composta da semplici privati cittadini, clienti più o meno occasionali – nei giorni di mercato, come rammentavano le occupazioni settimanali dell’industriale Candido Marcoli a Calcinato (BS) e di cui si è detto precedentemente, e come ora conferma il ricordo di Orazio Annessi. Mio padre andava: lunedì mattina al mercato di Rovato, lunedì pomeriggio mercato di Bergamo, martedì mercato di Iseo, mercoledì mercato di Brescia, giovedì mercato di Chieri, venerdì mercato di Iseo e sabato mercato di Brescia. E andavano sempre. E lì incontravano i clienti! A Brescia, mi ricordo benissimo, era un bar di fianco alla posta! A Bergamo era un bar sul sentiero. A Iseo era il bar Centrale. Erano questi i luoghi dove la gente si trovava. Io mi ricordo che gli ordini arrivavano anche con le cartoline postali!274
A questa affermazione fa eco quella di Giuseppina Biasca – anch’essa come l’Annessi diretta testimone dell’attività laterizia di Corte Franca (BS) –, la quale aggiungeva poi che «vendeva chi era più bravo, anche se ognuno aveva i suoi clienti fissi e non mi sembra che ce li rubassimo. Il prezzo era uguale per tutti ufficialmente, ma si facevano sconti in relazione alla qualità del materiale che si aveva in quel momento»275. Parrebbe dunque che tra fornaci vicine la concorrenza fosse disciplinata, da accordi taciti o messi per iscritto, come emerge in uno dei prossimi documenti relativo al laterizio in Lomellina276. Agli emigranti va dunque il merito di esser riusciti a guadagnarsi la fiducia da parte di una clientela fedele e per lo più indigena. Infatti, pesanti e poco maneggevoli, i laterizi di fattura malcantonese prodotti all’estero erano destinati esclusivamente al mercato locale. Il raggio d’azione della fornace Marcoli di Medolago, per esempio, era circoscritto ad alcune località limitrofe della provincia di Bergamo quali Bergamo stessa, Bonate, Bottanuco, Calusco d’Adda, Chignolo d’Isola, Medolago, Solza, Suisio, Terno d’Isola e Villa d’Adda277. Richiesti e apprezzati nelle regioni d’approdo, non deve quindi meravigliare l’assenza di notizie circa un eventuale smercio di laterizi verso il Malcantone. Nonostante le fonti suggeriscano una clientela fedele, è comunque difficile stabilire con che frequenza gli acquirenti facevano capo alle fornaci malcantonesi, così come mancano dati significativi sul genere di prodotti richiesti e sui relativi prezzi di vendita. Certo è che le esigenze del capomastro Antonio Cavandini che, come altri ad-
MusMalc, Fondo Pelloni. Piacenza, 14.8.1835 – Affitto di fornace. Si veda a questo proposito anche il capitolo Dall’affitto alla proprietà di fornaci. 274 Gruppo Culturale di Corte Franca (a cura di), Fornaci a Corte Franca tra storia e memoria, cit., pp. 79-80: Testimonianza di Orazio Annessi. Da notare che la famiglia Annessi era imparentata con quella dei Biasca. Per quel che riguarda Candido Marcoli si veda il capitolo Il fornaciaio malcantonese tra produzione e direzione: gli imprenditori. 275 Gruppo Culturale di Corte Franca (a cura di), Fornaci a Corte Franca tra storia e memoria, cit., p. 80. 276 Si veda più avanti il documento contenuto nell’Archivio famiglia Mina: Mortara, 16.2.1891 – Convenzione tra produttori di laterizi della Lomellina. 277 Archivio famiglia Marcoli-Medolago. Libro maestro (1900 in poi). 273
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detti ai lavori, si rivolgeva alla fornace Marcoli di Medolago mensilmente, si differenziavano indubbiamente da quelle del prestinaio, che potrebbe aver utilizzato quadrelletti e quadrelloni solo per realizzare il proprio forno del pane278. Il Cavadini, tra l’altro protagonista di due contratti, uno «per la costruzione della casa di Privitali Angelo Giuseppe» e l’altro «per la costruzione della casa Bravi»279, riceveva quantità di materiali mediamente superiori al resto della clientela. Allo stesso furono inoltre consegnati contemporaneamente sia «800 quadrelloni belli» al prezzo di 13.60 Lire, sia «800 quadrelloni storti» alla cifra inferiore di 10.80 Lire280. Altrove, la «Nota dei Materiali di fornace consegnati a Fagaré da Del Mollo Antonio per il conto dell’Illustre Padrone Sig. Conte Cristo Ninni di Monastier»281 riferisce invece come il conte proprietario abbia ricevuto solo manufatti di «Ia qualità». Oltre che per la loro confezione, il prezzo dei laterizi, la cui unità di riferimento era di norma il migliaio, poteva variare anche a causa di altri fattori esterni. In una lettera risalente al 1873, Antonio Del Mollo lamentava «solo vi dirò che abbiamo il combustibile di qualsiasi genere carissimo, che anch’io dovette crescere i materiali due lire di più per mille»282. Anche la convenzione stipulata dalle Ditte Mina Chiesa e Baroni (fornaci riunite) di Lomello (PV) da una parte e Bonacossa e Co ed Euri Luigi, entrambi di Mortara (PV), fissava i parametri – tra cui il prezzo di vendita – per la «somministranza del materiale nei comuni di Lomello, San Giorgio, Ottobiano, Cergnago, Gambolò e Mortara» (Lomellina)283. Questi prevedevano che I signori Mina, Chiesa e Baroni non potranno vendere, per essere adoperati nei comuni di Mortara, Cergnago e Gambolò mattoni di qualsiasi qualità delle loro fornaci di Lomello ad un prezzo minore di lire 20 per mille, se consegnati in fornace, e di lire 25 per mille, se dati a destino. I signori Bonacossa e Co ed Euri Luigi non potranno vendere, per essere adoperati, nei comuni di San Giorgio Lomellina, Ottobiano, Cergnago e Lomello, mattoni di qualsiasi qualità delle loro fornaci di Mortara ad un prezzo minore di lire 20 per mille, se consegnati in fornace, e di lire 25 per mille, se dati a destino. Per il comune di Cergnago i contraenti potranno vendre la mezzanella dolce al prezzo non minore di lire 18 per mille, se consegnata in fornace, e lire 23 per mille, se data a destino.
278 Archivio famiglia Marcoli-Medolago. Libro maestro (1900 in poi). 279 Archivio famiglia Marcoli-Medolago. 8.12.1908 – Contratto di costruzione e 20.4.1909 – Contratto di costruzione. 280 Archivio famiglia Marcoli-Medolago. Libro maestro (1900 in poi), p. 16. 281 Archivio privato Demarta. Fagaré, dicembre 1876 – Nota dei materiali. 282 Archivio privato Demarta. Fagaré, 15.8.1873 – Lettera di Antonio Del Mollo al fratello. 283 Archivio famiglia Mina. Mortara, 16.2.1891 – Convenzione tra produttori di laterizi della Lomellina. 284 Per un approfondimento del periodo a cavallo tra XIX e XX secolo si vedano i capitoli La produzione di grande scala e le fornaci come stabilimento industriale e Dopo gli anni Venti: I processi di razionalizzazione del processo, in Tamagno, Fornaci, cit. così come il contributo di Zerbi in questo volume.
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Chi si rivolgeva ai fornaciai malcantonesi esigeva un buon rapporto qualità-prezzo, come per qualsiasi altro manufatto e come è solito aspettarsi ogni cliente e qualsiasi consumatore. Si può quindi concludere affermando che, complessivamente, l’attività laterizia malcantonese non ha subito particolari condizionamenti, sebbene si svolgesse in un contesto migratorio in terra straniera. Al contrario, sembra aver contato su di una clientela la cui tipologia e le cui richieste sarebbero state del tutto analoghe a quelle rivolte a manifatture indigene.
4.6. Il ruolo dell’evoluzione tecnica La tecnica laterizia, conosciuta alle nostre latitudini fin dall’antichità, ha inevitabilmente subito varie – anche se lente – trasformazioni nel corso dei secoli. Gli stessi fornaciai malcantonesi, che si cimentano con essa da alcuni secoli a questa parte, hanno avuto modo di seguirne gli sviluppi. Poiché un’analisi tecnica non rientra tra gli obiettivi di questa indagine, qui di seguito l’evoluzione del settore laterizio verrà spiegata in relazione al comportamento e agli arrangiamenti adottati dagli emigranti284.
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I cambiamenti più importanti ed evidenti hanno interessato in primo luogo la tipologia dei forni, che a sua volta hanno influenzato l’organizzazione del lavoro. Stando alle fonti parrebbe che il fenomeno migratorio dei fornaciai malcantonesi non sia mai stato direttamente ed esclusivamente legato a questi mutamenti, ma che si sia continuato a emigrare indipendentemente dai progressi. Comparsi sulla scena internazionale ancor prima della rivoluzione industriale, questi emigranti vi rimasero infatti a lungo, attivi a tutti i livelli e presenti in tutte le situazioni, dai capomastri che assoldavano fornaciai da impiegare nelle fornaci itineranti, agli stagionali che aiutavano parenti e compaesani nei mesi estivi quando i forni a fuoco intermittente funzionavano a pieno regime, oppure ancora agli imprenditori che adottarono i nuovi forni a fuoco continuo. Analogamente, nemmeno il declino della pratica migratoria agli inizi del Novecento può essere imputato semplicemente alla progressiva meccanizzazione delle aziende. È altresì vero che fino a Ottocento inoltrato la produzione laterizia manifestava un «basso profilo tecnologico» a causa di una staticità che durava ormai da parecchio tempo285. Ciononostante, alla comparsa dei primi forni a fuoco continuo, di cui quello Hoffmann – brevettato nel 1858 dall’ingegnere ferroviario tedesco Friedrich Hoffmann – è il più conosciuto, da subito si incontrano anche tra i malcantonesi alcuni coraggiosi sostenitori. Tra questi vi fu per esempio Antonio Del Mollo, che nel 1873 trasformò la sua fornace a fuoco discontinuo di Piavon d’Oderzo (TV) in una ad azione continua, gra-
Daniela Lombardi, La fornace: una storia immobile?, «Scuolaofficina, Periodico di cultura tecnica» 1 (1988), pp. 2-3.
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zie all’adozione del sistema Appiani – vendutogli dallo stesso ideatore, l’ingegner Graziano Appiani –, una versione rivista e migliorata del precedente ma ancor poco diffuso sistema Hoffmann286. Con consolazione vi do notizia della riuscita della mia fornace di Piavon a nuovo sistema di Graziano Appiani di Milano, il giorno 25 Aprile abbiamo messo il fuoco e subito cominciò ad andare molto bene, ed il primo forno abbiamo tenuto il fuoco 6 giorni e poi in seguito ad altri forni non si tiene fuoco più di 24 ore, sortono materiali eccellentissimi tutti di prima qualità, e deve essere anche moltissimo risparmio di legna perché vedo che ò disfornato 60 mila quadrelli ora presente, e le pile di legno calano poco, ora non vi posso precisare il vantaggio, perché non ò fatto la sperienza287.
Dunque, da subito erano riscontrabili i benefici apportati da una simile innovazione: risparmio di combustibile, migliore qualità del prodotto e, in modo particolare, aumento della produzione. Si trattava inoltre di una delle primissime fornaci del genere esistenti in Italia, il che conferisce al Del Mollo il ruolo di fornaciaio pioniere e all’avanguardia. Non pago, egli decise di sperimentare anche la produzione di calce. In quanto al mia fornace nuova vi dico la verità che meglio di così non potrebbe andare, […] i forni sortono materiali tutti di prima qualità, provai anche a cuocere calce, e riuscirebbe bene, ma siccome la calce vi occorrono il fuoco più violento e forte dei materiali, non mi sono rischiato a continuare cuocere calce coi materiali sul timore che mi bruciassero le volte della fornace, così pensai di costruire una fornace di calce separate e entro dodici o quindici giorni al più sarà finita e subito gli metterò il fuoco, che ò tutto pronto288.
Piccinno, Luoghi, architetture e imprenditori, cit., p. 73. 287 Archivio privato Demarta. Fagaré, 12 maggio 1873 – Lettera di Antonio Del Mollo al suocero. 288 Archivio privato Demarta. S. Biagio di Callalta Fagaré, 8 luglio 1873 – Lettera di Antonio Del Mollo al suocero. 289 Marcoli, Ricordi di una vita, cit., fornisce un’interessante descrizione, con tanto di dettagli tecnici sul suo funzionamento. Si veda inoltre il contributo di Zerbi in questo volume, p. 109 e seguenti. 290 Archivio privato Morandi. Jean-E. Nicod, Tuileries Morandi Frères S.A., Archive 5.11.1952, «Pro Ticino Payerne», 13.11.1976, pp. 43-49. 286
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Quasi un decennio più tardi, Luigi Marcoli assumeva l’esercizio del forno Hoffmann dall’impresa Peregrini, Calcaretta e Coduri di Gallarate (VA), mentre la ditta dei malcantonesi Mina e Marcoli a Calcinato (BS) si dotava di un nuovo e moderno impianto pure brevettato dall’ingegnere tedesco289. L’introduzione dei forni a fuoco continuo ebbe alcune ripercussioni sul modo di emigrare dei malcantonesi – si ricordi in modo particolare la durata delle assenze – così come sul modo di lavorare in fornace. Oltre ad allungare il periodo di lavorazione sull’arco di tutto l’anno e a creare specialisti per ogni mansione, questa innovazione incentivò altresì la meccanizzazione di alcune fasi del processo produttivo. A cavallo tra il XIX e il XX secolo si assiste al progressivo impiego di macchinari anche tra le manifatture malcantonesi ancora in funzione. Nella «Tuillerie» della famiglia Morandi di Corcelles-près-Payerne (canton Vaud), per esempio, le prime macchine per la fabbricazione meccanica furono installate nel 1896, ma se ne aggiunsero di nuove nei decenni successivi, al punto che nel 1952 il processo produttivo ne risulta chiaramente trasformato. Infatti, sebbene le tappe principali siano rimaste immutate, dalla descrizione fornita in quell’anno da Jean-E. Nicod, emergono metodi di produzione per lo più nuovi, molti dei quali meccanizzati, a cominciare dal trasporto dell’argilla appena estratta dal giacimento alla fabbrica290. Una volta giunta qui, l’argilla era preparata e resa adatta alla fabbricazione di laterizi da una serie in successione di macchine. A la partie supérieure des rampes, un ouvrier reçoit le véhicule et, par un jeu de voies, amène le contenu et le déverse dans de grands alimenteurs suivis d’autres machines dont le rôle est de mélanger et laminer finement la terre et aussi, de neutraliser les corps étrangers. La matière première est
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alors déversée plus bas dans des rangées de silos où son propre poids va la tasser fortement. Taillée en mottes, elle est réprimé et amenée aux alimentateurs-doseurs. Dès cet instant, tous les transports sont mécanisés. Une série de transporteurs à poches courente du sous-sol de la halle des machines à ces dernières, entraînant la terre en vue de son façonnage.
Dopo il processo di confezione – la lavorazione delle tegole, meccanizzata o meno, da sempre si differenzia da quella dei mattoni –, i manufatti dovevano essere posti a essiccare per un certo periodo. L’apport d’immenses quantités d’air plus ou moins chaud permet un séchage rapide et régulier. Plusieurs jours sont cependant nécessaires avant que le produit sorti des presses ou des mouleuses soit prêt à subir l’épreuve finale de la cuisson.
Solo a questo punto i laterizi potevano essere cotti nei forni. Dans une série de halles aux dimensions colossales, des fours grands comme des maisons engloutissent d’énormes quantités de marchandises. […] Quand ces fours sont pleins […] les portes en sont murées. On élève ensuite progressivement la température jusqu’à concurrence de 1050°, le feu étant continuellement entretenu au moyen de distributeurs à charbon automatiques sités sur les fours et parcourant le canal de cuisson à raion d’un tour de four par semine environ.
A cottura avvenuta i laterizi scaricati erano pronti per l’uso. In condizioni molto simili si lavorava anche nella fornace Poncini ad Albens, in Savoia, dove la meccanizzazione stava pure subentrando nelle varie fasi del ciclo produttivo. Ciononostante, l’accensione del forno costituiva ancora un momento solenne, celebrato con un particolare rito in molte fornaci, con l’auspicio di una buona riuscita dei manufatti. Ad Albens si preparavano delle fascine e si aspettava l’arrivo del padrone Giuseppe Poncini, al quale spettava l’accensione. «Avant de frotter l’allumette, le Patron et Attilio [Forner, l’ultimo “chauffeur”] faisaient le signe de croix comme si ils voulaient se reassurer, que tout irait bien jusqu’au bout»291. Dopodiché, «Les fours nécessitaient une surveillance et une responsabilité constantes. Des distributeurs automatiques de charbon avaient considérablement réduit le travail manuel, car auparavant l’alimentation du feu se fasait à la pelle. Les fours restaient allumés jusqu’à onze mois d’affilée». Si ha fin qui l’impressione che i fornaciai malcantonesi ancora attivi abbiano vissuto l’evoluzione del settore sopraggiunta dopo la metà dell’Ottocento affrontandola laddove possibile in maniera attiva e tempestiva. Una volontà di stare al passo coi tempi e rimanere sempre concorrenti che è ben riassunta nelle parole di Luigi Bernasconi formulate in una lettera dell’agosto del 1906, quando riferì del figlio Salvatore all’esposizione di Milano a curiosare a tenersi aggiornato sulle novità292. Infatti, alcune delle manifatture laterizie d’origine malcantonese, sebbene spesso ancora a conduzione familiare, assunsero nella loro struttura produttiva le sembianze di vere e proprie imprese di piccola e media dimensione. Ne sono una dimostrazione i nomi dei vari imprenditori d’origine malcantonese fin qui menzionati. Ciononostante, è giusto sottolineare come con l’avvento delle prime macchine l’emigrazione malcantonese fosse già sulla via del declino, cosicché il mestiere di emigrante fornaciaio è rimasto saldamente ancorato ai canoni dell’artigianato. E questo anche perché l’industrializzazione sopraggiunse in Italia, destinazione prediletta dai fornaciai malcantonesi, con ampio ritardo, conferendo per lungo tempo ancora «una struttura diffusamente artigianale» al settore dei materiali da costruzione293.
Fornace Biasca a Corte Franca.
291 MusMalc, Documentazione sui fornaciai. René Canet, La tuilerie Poncini. 292 Archivio famiglia Marcoli-Medolago, Corrispondenza famiglia Bernasconi. Stanghella, 13.8.1906 – Lettera di Luigi Bernasconi ai figli. 293 Tamagno, Fornaci, cit., p. 102.
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4.7. Oltre il lavoro in fornace: la quotidianità
294 MusMalc, Fondo Vannotti. La Tuilerie, 8 ottobre – Lettera di Ernestina Avanzini-Vannotti. Testimonianze come questa gettano uno sguardo nuovo sulla problematica, ampliando considerevolmente lo spettro d’indagine. Grazie ai regolari scambi di lettere tra parenti emigranti e familiari rimasti in patria viene data voce ai protagonisti coinvolti nell’emigrazione. Prendono così forma gli aspetti legati al vivere quotidiano del fornaciaio, alle sue preoccupazioni e ai suoi (in)successi. 295 MusMalc, Fondo Vannotti. Cossonay, sabato Santo 09 – Lettera di Ernestina Avanzini-Vanotti. 296 MusMalc, Fondo Vannotti. Cossonay, 9.10.1906 – Lettera di Ernestina Avanzini-Vannotti. 297 MusMalc, Documentazione sui fornaciai. René Canet, La tuilerie Poncini.
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Dopo aver approfondito le dinamiche interne del sistema fornace, si vuole infine rivolgere lo sguardo a ciò che succedeva al di fuori di questa struttura, nella vita quotidiana dell’emigrante fornaciaio e dei suoi familiari. Ad esempio Ernesta Vannotti, moglie di Enrico Avanzini di Bombinasco, dapprima imprenditore fornaciaio a Cossonay (canton Vaud) e poi a Einsiedeln (canton Svitto), che come diverse altre sue compaesane ha seguito e aiutato il marito nell’attività laterizia lontano da casa, racconta la sua esperienza in alcune suggestive lettere indirizzate ai parenti a casa. Mentre il marito, a capo di un’impresa che si voleva mantenere al passo coi tempi, si occupava degli operai, della compravendita e dei bilanci, a lei spettavano invece le faccende domestiche; si dedicava alla casa, alle bestie, all’orto e cucinava per sé e per gli operai294. Ernesta avrebbe poi assunto gli stessi incarichi anche una volta trasferitasi a Einsiedeln: «Indi [a Einsiedeln] avrò la pensione degli operai, e la pulizia delle loro camere, ma ci sono abituata e non mi dà fastidio»295. Tutte quante mansioni di cui sembra quindi occuparsi con dedizione e passione. Infatti, aggiunge: «alla fine del mese quando partiranno gli operai non avremo più nulla da fare e quindi potremo far lana senza fine. Io preferirei restassero sempre gli uomini, perché danno la vita alla fornace e poi son tutti bravi ora che non ci danno più il minimo fastidio. Ora lavorano nel marais ad estrarre terra per la fabbricazione dell’anno prossimo. Vengono solo a colazione, desinare ed alla sera, capitanati dal Pin [Enrico]»296. Altrove, come per esempio nella fornace Poncini di Albens, la mensa era gestita da un’altra figura femminile, ossia dalla moglie di un operaio italiano, ivi trasferitosi con la famiglia e numerosi altri compaesani297. Dunque, dal momento in cui l’emigrazione va oltre la stagionalità coin-
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volgendo intere famiglie all’estero, si incontra sempre più insistentemente anche il lavoro femminile. Indipendentemente dalla presenza o meno di mogli e figli, al termine della giornata lavorativa e nei giorni festivi, il fornaciaio era solito condividere il poco tempo libero con gli altri emigranti. Da sempre la lontananza da casa genera il desiderio di riunione tra compaesani, un dato questo riscontrabile a prescindere dal mestiere e dalla provenienza dei protagonisti. Vi erano ad esempio occasioni in cui Ernesta con il marito Pin erano ospiti dei cugini di quest’ultimo a Losanna, e assieme trascorrevano piacevoli giornate di svago, per lo più la domenica298. Altrettanto gioviali momenti venivano poi condivisi anche con gli operai, con cui l’autrice delle lettere sembra trovarsi pienamente a suo agio, malgrado la sua posizione di privilegio. Il testo proposto qui di seguito racconta le disavventure di un operaio che, addormentatosi innavertitamente, fu colto da sonnambulismo tra l’ilarità generale di chi assistette alla scena. Anche a me faceva piacere ed essendo tutti ticinesi non li tenevamo a troppa distanza. È però tanto difficile il mantenersi nel giusto equilibrio di rapporti cogli operai! […] E mi rammento a proposito del mio amico Galvan (uno pasta frolla di carattere). Una sera eravamo tutti sul piano del forno, perché c’era fuoco nella fornace. Chi suonava, chi dormicchiava sdraiato, chi faceva fuoco, è sempre una bella filera alla sera. Il povero Galvanotto, s’era addormentato sopra un tabarro steso e non si ricordava più di svegliarsi; era sul primo sonno ed era stanco, poveretto! Uno degli uomini lo scosse all’improvviso per mandarlo a letto. Destato di soprassalto, ma senza poter svegliarsi dal tutto se ne va frettoloso, come un automa. Invece d’andar dalla parte della camera s’incamminò sul lungo piano del forno e quando fu vicino alla parete, (dove c’era una carretta vuota) si ferma e comincia a levare il suo bonet, poi la giacca, poi i pantaloni. Noi rimasti prima a bocca aperta, quando ci accorgemmo che prendeva il forno per la camera e la carretta per il letto, cominciammo a frignare e farci dei grandi segni di silenzio, per vedere cosa voleva fare. Il povero ragazzo fu ben presto in camicia, levato scarpe e calze si mise a frugare nella carretta per cercare le coperte, non riuscendo a trovarle si mise a borbottare contro quei villani che gli avevan rubato le coperte, e girava di qua e di là in camicia tastando dappertutto per cercare la roba del suo letto. Noi non ne potevamo più e quando egli rabbioso e stanco di cercar invano, si diede a chiamare il suo socio di letto (il fratello dell’Anita) che andasse lui a cercar le coperte; gli rispose una fragorosa risata generale, che lo svegliò davvero299.
Questo episodio evidenzia come anche i momenti extra lavorativi, in realtà, si svolgessero nelle immediate adiacenze della fornace, il più delle volte attorno all’aia. Oltre che dal corpo originario della fornace adibito alla confezione e al deposito dei manufatti, la struttura si componeva infatti anche di tutta una serie di altri edifici complementari. Tra questi si trovavano generalmente la casa patronale e gli alloggi per gli stagionali, messi a disposizione dal padrone stesso300. La famiglia Vannotti di Bedigliora, proprietaria di un negozio di fornace in Remonte territorio di Lù (AL), disponeva ugualmente di «una casa per uso dei lavoranti alla fornace stessa con tutti li utensili del negozio e scorte materiali», oltre che della «casa civile, la sua mobilia così come la cascina e la stalla»301. La presenza di questi ultimi due elementi, la cascina e la stalla, introduce un altro fondamentale aspetto nella quotidianità degli emigranti fornaciai, ossia l’onnipresenza dell’attività agricola. Nati e cresciuti nella realtà agro-pastorale del Malcantone, le famiglie emigranti ritrovavano pure nelle regioni d’approdo un analogo contesto rurale e, di conseguenza, continuarono a trarre dalla campagna parte del loro sostentamento. Infatti, sebbene il fornaciaio fosse assorto dal far mattoni e coppi, non è raro trovare sue
298 MusMalc, Fondo Vannotti. Cossonay, 24.6 – Lettera di Ernestina Avanzini-Vannotti. 299 MusMalc, Fondo Vannotti. Cossonay, 9.10.1907 – Lettera di Ernestina Avanzini-Vannotti. 300 Rainaldi, Quando il fuoco camminava, cit., passim e il contributo di Zerbi in questo volume, p. 116-117. 301 ASTi, Fondo notarile, notaio Giovanni Maria Galeazzi, Sc. 1973, nr. 919, 5.1.1857.
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302 Archivio famiglia Marcoli-Medolago. Medolago, 14.6.1863 – Lettera di Lorenzo Marcoli alla moglie. 303 Archivio famiglia Marcoli-Medolago. Medolago, 16.9.1889 – Lettera di Francesco Marcoli al fratello. 304 Archivio famiglia Marcoli-Medolago. Medolago, 18.9.1897 – Lettera di Francesco Marcoli alla moglie. 305 Archivio famiglia Marcoli-Medolago, Corrispondenza famiglia Bernasconi. Stanghella, 28.9.1902 – Lettera di Luigi Bernasconi ai figli. 306 Archivio famiglia Mina. Lomello, 15.11.1936 – Ditta f.lli Mina alla Direzione Tecnica del Catasto di Pavia. 307 Archivio privato Demarta. Bociumi Jassy, 22.3.1925 – Lettera di Ivan Bertoli a Nella.
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dichiarazioni sui lavori agricoli nei campi, sullo stato della vigna oppure ancora sulla coltura dei bachi da seta. Lorenzo Marcoli, fornaciaio a Medolago (BG), comunicava alla moglie in patria che «il ricolto delli nostri galletti sonno discretamente bonno nabiamo fatto in tutto pesi 15 e lire cinque in tutti […] Riguardo poi la nostra campagna sonno molto bella il formento sonno molto bello e quasi maturo se riviamo a tajarlo»302. Simili sono i contenuti delle lettere scritte alcuni anni più tardi da uno dei figli, rilevatario dell’attività laterizia del padre nel Bergamasco. Egli esordisce dicendo che «le molte faccende di campagna e fornace non mi lasciano un minuto»303, e prosegue poi osservando come «La vendemmia la finiremo questa mattina, è molto bella ma poca. Lunedì incominceremo anche a raccogliere il melgone, non è molto ma è più tanto che l’anno scorso e molti più bello. Il melgone lo manderò oggi o lunedì con due o tre sacchi di frumento insieme, ma chissà quanti giorni ci vorrà prima di giungere a casa ora che è il tempo della vendemmia. […] Non mi hai mai detto se vi sono castagne o no, qui vi è abbastanza e belle»304. Il lavoro agricolo svolto all’estero dagli emigranti fornaciai, oltre a rappresentare un irrinunciabile mezzo di sussistenza, in alcuni casi potrebbe spiegarsi con la diversità delle colture e dei prodotti nelle due aree d’influenza, quella d’arrivo e quella di partenza. Alle selve castanili e ai pascoli del Malcantone si affiancavano così la pratica della bachicoltura e della cerealicoltura, quest’ultima assai diffusa nelle ampie pianure lombarde. Si tratta di un’ipotesi di complementarietà che trova riscontro nei frequenti scambi di generi alimentari. Difatti, ad accompagnare le lettere da e per il Malcantone non di rado c’erano prodotti nostrani, tra cui i più richiesti erano indubbiamente i latticini malcantonesi, come confermano le parole di Luigi Bernasconi. Egli, rivolgendosi ai figli a Miglieglia, chiedeva «quando il tempo te lo permette di mandarmi un puoco di burro essendo al presente calmato i calori delle stagione»305. La convivenza di due attività a prima vista totalmente estranee l’una dall’altra come quella laterizia e quella agricola, costituisce solo apparentemente un paradosso, in quanto parte dei terreni originariamente destinanti all’estrazione dell’argilla veniva successivamente messa a coltura dagli stessi fornaciai. Di norma, questo avveniva quando l’estrazione non era più sufficientemente redditizia, come dichiarano di aver fatto i fratelli Mina: «Essendosi esaurita la potenzialità di casa dei terreni, i Fratelli Mina hanno denunciato per il 1935-1936 la cessazione dell’industria, e con grave dispendio ma con minimo reddito hanno messo a coltura agraria i terreni depauperati dalla cava»306. Essi chiedono pertanto la diminuzione al minimo del reddito imponibile. Analogo destino toccò a Ivan Bertoli in Romania, il quale risolvette di ripiegare nell’agricoltura allorquando la fornace chiuse i battenti, nel 1918, al termine del primo conflitto mondiale. I frutti sono compromessi e la terra è tanto secca che se non piove io non semino più nulla. Ho vangato circa 3000 m.q. per mettere patate ma causa secco e freddo ancora non impiantai nulla. Ho somministrato solo 1 ettaro avena e 3/4 orzo – ho pure cominciato potatura viti. Speravo al mio arrivo di vendere il raccolto faggiuoli circa 700 Kg a buon prezzo […] Ora contrariamente alla scorsa primavera non si domandano affatto a nessun prezzo e dovrò tenermeli per il venturo anno. Così del vino che essendo bianco e nero mescolato non si domanda oggi essendo ricercato solo il vino bianco buono e puro. Avrei potuto vendere 2000 Kg granoturco […] visto che qui in Romania non c’è più frumento. […] Come vedi ho poca fortuna in tutto ma ormai non mi corruccio più tanto e lascio andare, sono convinto che è tutto a profitto della mia salute307.
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Con queste parole di rassegnazione Ivan raccontava le sue fatiche ai parenti nel Veneto, che a loro volta gestivano un’azienda agricola contemporaneamente alle fornaci. Ecco spiegato perché alcune fatture e rapporti di consegna intestate alle fornaci Bertoli parlano non di laterizi bensì di forniture di vino Raboso. Situata a Meduna di Livenza (TV), ancora oggi questa tenuta produce del vino. Era stata messa in piedi negli anni Ottanta dell’Ottocento dai fratelli e dalle sorelle Bertoli; persino Carolina, residente a Novaggio, ne era comproprietaria. Nel loro caso si trattò quindi di un connubio vincente, da cui i Bertoli riuscirono a trarre beneficio308. Da quest’ultimo capitolo che esula dalla realtà prettamente laterizia si è tra l’altro potuto constatare come gli emigranti abbiano mantenuto stretti legami con i parenti in patria. Un argomento questo che ben introduce la seconda parte dell’indagine, concentrata sul Malcantone quale punto di partenza dei numerosi emigranti.
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Archivio privato Demarta, passim.
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5. Fornaciai in patria: l’emigrazione vista dal Malcantone
Già nella parte centrale del lavoro, interamente focalizzata su quanto avveniva lontano da casa, è emerso a più riprese il coinvolgimento del Malcantone negli affari all’estero. Per completare l’analisi del fenomeno migratorio dei fornaciai malcantonesi manca quindi il punto di vista di chi rimaneva in patria e che, ciononostante, fu coinvolto nelle vicende. Per questo motivo, è ora giunto il momento di lasciare la fornace, fulcro attorno al quale ruotava la vita degli emigranti per buona parte dell’anno, e tornare in patria, dapprima nei villaggi della regione poi nelle varie famiglie. In entrambe le situazioni si cercherà di individuare gli effetti avuti dall’emigrazione, così come di comprendere come si faceva fronte alle numerose assenze. Oltre a ciò, si guarderà pure agli stessi fornaciai e al tipo di rapporto avuto da essi con il proprio paese e i propri familiari. Se fin qui si è voluto far prevalere l’aspetto imprenditoriale del laterizio di stampo malcantonese, d’ora in avanti l’accento verrà posto su quello prettamente sociologico, per osservare e capire l’organizzazione di una società segnata dall’emigrazione, la cui storia è stata scritta anche grazie agli spostamenti delle sue genti.
5.1. L’emigrazione in paese La gestione delle assenze e il ruolo delle donne Il Malcantone, una realtà a lungo improntata quasi esclusivamente sull’attività agropastorale, si confrontò a partire dal Seicento con l’emigrazione di numerosi suoi uomini, un fenomeno che con il trascorrere del tempo assunse le sembianze di un vero e proprio esodo, in sintonia con il resto dell’area alpina come già si accennava nei capitoli introduttivi di questo lavoro. Sempre in apertura è stato possibile fornire alcune cifre – approssimative ma comunque indicative – sui fornaciai assenti dal proprio villaggio309. Senza entrare nuovamente nel merito di queste considerazioni numeriche, attraverso l’esempio di un’altra lista nominativa come quella di Biogno Beride si vuole comunque tornare sulla portata del fenomeno, questa volta però per esaminarne le conseguenze. Durante il reclutamento svoltosi nel settembre del 1805 a Biogno Beride, su un totale di quarantatré «Cittadini dell’età d’anni 25 sino li 60 inclusive, abili a portare le armi, per formare la milizia sedentaria»310, soltanto tre si trovavano allora in patria. Si trattava del sindaco e di due chierici in formazione, mentre gli altri, quasi tutti fornaciai, erano assenti. Malgrado tra i presenti fosse rimasto un personaggio fondamentale come il sindaco, ciò non toglie che la comunità di Biogno Beride era chiamata a gestire e rimpiazzare un gran numero di uomini assenti, a partire da un’altra figura chia-
309 Si veda a questo proposito il capitolo Cultura migratoria alpina e fornaciai dall’Ottocento in poi. 310 MusMalc, Documentazione sui fornaciai. Registro militare tratto da un numero della rivista «Il Malcantone».
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ve come quella del segretario. Il documento, infatti, è firmato dal «delegato-segretario», che quasi certamente faceva le veci del primo. L’emigrazione, dunque, non sembra essere del tutto incompatibile con le cariche pubbliche, un’ipotesi avvalorata da un altro esempio, quello di Pio Avanzini, sindaco di Curio e industriale al contempo311. Il fatto poi che l’emigrazione malcantonese coinvolgesse indistintamente celibi e ammogliati, rispecchia la tesi secondo cui in assenza degli uomini sarebbero state le donne a reggere anche l’economia comunitaria, oltre a quella domestica312. Molte di loro, volenti o nolenti, dovevano dedicarsi alla terra e con i suoi prodotti mantenere la famiglia in attesa dei proventi dell’attività migratoria maschile. Quest’immagine fu colta a Bedigliora già nel 1769, durante la visita pastorale del Muggiasca, quando si osservò come «Gli uomini sono quasi tutti maiestrani di muro, altri legnamari e calzolari […] et al estate vanno la più parte per il mondo et al inverno ritornano a casa. Le donne sono quasi tutte lavoranti di campagna»313. Di conseguenza, con questa nuova ripartizione della forza lavoro, il dualismo sessuale diveniva ancor più evidente, tanto più che l’attività agraria, poco stimata, relegava la donna a ruolo subalterno nella gerarchia dei lavori. Difatti, pur assumendosi indubbiamente onerose mansioni, solo poche volte le donne agirono incondizionatamente di loro iniziativa. Nella maggior parte delle situazioni esse sembrerebbero piuttosto svolgere i compiti affidati loro, anche a distanza, dagli uomini. Da Stanghella (PV), dove praticava il mestiere di fornaciaio, Luigi Bernasconi scriveva alla figlia Ortenzia nel Malcantone indicandole come comportarsi con il fratello in sua assenza. Carissimi figlia Ortenzia, Questa mattina ho ricevuto il tuo bilietto postale dove tu mi dici come tu devi contenerti con il Luigino io te darò procura di dargli una ventina di lire o trenta che fra poco spero di venire anch’io in Patria314.
Analogamente, negli atti notarili in cui tra gli altri compaiono anche figure femminili, non sorprende trovarle affiancate da fratelli o mariti, che spesso ne curano gli interessi. Così nella divisione tra gli eredi di Pietro Tami di Vezio, proprietario tra le altre cose anche di una fornace in Lombardia, le due figlie maritate sottoscrivono il rogito non senza aver prima ricevuto il benestare da parte dei rispettivi mariti. Alther, Medici, Curio e Bombinasco dagli albori, cit., pp. 151 e 166; Atto di morte di Nicola Avanzini, conservato negli archivi di Montesilvano. 312 Merzario, Adamocrazia, cit., p. 23. 313 ACVL, Visita pastorale Mons. Muggiasca 1769, Bedigliora. 314 Archivio famiglia Marcoli-Medolago, Corrispondenza famiglia Bernasconi. Stanghella, 2.10.1910 – Lettera di Luigi Bernasconi alla figlia. 315 ASTi, Fondo notarile, notaio Antonio Sertori, Sc. 2168, nr. 717, 21.2.1862. 311
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Costituiti personalmente avanti di me notaio sottoscritto, ed alla presenza degli infrascritti testimoni li suddetti Signori Celeste, Maria moglie di Giovanni Notari, Domenica moglie di Domenico Notari di altro Domenico, e Teresa ancor nubile, fratello e sorelle figli ed eredi del suddetto fu Pietro Tami, tutti di Vezio loro domicilio, facendo però le sorelle Maria e Domenica suddette le infrascritte cose tutte col permesso, assenso ed assistenza dei rispettivi loro mariti sopra nominati. Di loro spontanea volontà ed in ogni altro migliore e legal modo, via e forma efficace, e nei nomi propri e mediante permesso, assenso ed assistenza come sopra, sono addivenuti, ed a mutua stipulazione ad accettazione addivengono alle seguenti reciproche assegne e cessioni 315.
Le scadenze e la demografia nelle comunità migratorie L’andirivieni con cui erano confrontati i villaggi del Malcantone aveva poi ripercussioni più o meno evidenti sui ritmi di queste comunità.
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D’inverno, verso Natale, padrone e lavoranti rimpatriavano: al paese trovavano gli altri maestrani emigranti nella Svizzera interna, ch’eran già tornati da qualche mesetto. Quando le varie maestranze erano tutte rientrate il villaggio prendeva un’animazione straordinaria. Le famiglie erano al completo o quasi: le osterie, e la piazzetta, e le rive, sempre piene di gente. I “maestrani” – fornaciai, muratori, gessatori, stuccatori, scalpellini – vivevano in buona armonia fra di loro e tutti insieme si divertivano un mondo316.
Se durante il periodo primavera-estate questa regione era abitata quasi esclusivamente dalle donne rimaste a casa assieme ai figli più piccoli e agli anziani, con il sopraggiungere dell’autunno i ranghi si ricompattavano. Come narra il brano tratto dal racconto di Giovanni Anastasi, quando la popolazione era di nuovo al completo, ci si riuniva per commemorare alcune ricorrenze, tra cui le festività natalizie erano certamente le più sentite, tant’è vero che in questi momenti anche gli emigranti periodici facevano il possibile per ricongiungersi al resto della famiglia. Antonio Del Mollo, fornaciaio, già da qualche tempo all’estero per motivi professionali con la moglie Colomba, annunciava al suocero «che giorni più giorni meno della festa del Santissimo Natale saremo in patria, io e la Colomba, se dio mi conserva la salute»317. Con il consolidarsi dell’attività le rimpatriate si fecero più sporadiche ma non per questo meno significative. Dopo due anni e mezzo di lontananza, il nipote Ettore Lozzio, rilevatario delle fornaci venete del Del Mollo, fece ritorno a Novaggio in concomitanza con la festa del paese del mese di luglio318. Ed è proprio attraverso la partecipazione a questo genere di ricorrenze tradizionali che veniva regolarmente ribadito il profondo legame che gli emigranti serbavano con le comunità d’origine319. Se, per motivi di forza maggiore, questo non avveniva, l’emigrante chiedeva comunque notizie. So che nell’occasione del tiro federale a Lugano si stamperà un giornale apposito per dar il resoconto del tiro, quindi ti abbonerai e poi me lo spedirai, nulla importa che sia anche in ritardo tanto per sapere qualche cosa […]320.
Questo vincolo era rafforzato molte volte anche grazie al mantenimento voluto della cittadinanza svizzera e alla conservazione di un certo numero di beni immobili, di cui l’emigrante e la sua famiglia continuavano a poter fruire nel Malcantone come si dirà più avanti. Sebbene l’insieme delle commemorazioni connesse al calendario religioso, ai riti di passaggio e alla vita di paese a cui si alludeva prima fosse ripartito sull’arco dell’intero anno, si ha la netta sensazione che le occasioni di raduno duplicassero in particolar modo nei mesi inverali, a immagine dei matrimoni. Infatti, il loro numero incrementava sensibilmente in questa stagione, in seguito al rimpatrio di fornaciai e di altri gruppi di emigranti stagionali321. Un ritmo che andava poi a incidere anche su altre inderogabili scadenze, come per esempio l’inizio della scuola322 e la stipulazione di atti notarili, questi ultimi statisticamente più frequenti tra ottobre e febbraio-marzo, quando tutti i firmatari o quasi erano presenti323. Se, nonostante l’adattamento al calendario, qualcuno mancava, con una lettera di procura l’emigrante designava un’altra persona che al posto suo s’incaricava di rappresentare e difendere i suoi interessi. Così, nella divisione dei beni tra Giovanni e Antonio Piazzini di Curio fu nominato il sindaco Pio Avanzini quale procuratore di Antonio, quest’ultimo da 15 anni in America324. Analogamente fece Luigi Giovannini,
316 Giovanni Anastasi, Il Mangiacomune, Scene elettorali ticinesi, Lugano 1911, p. 15. 317 Archivio privato Demarta. Fagaré, 8.11.1873 – Lettera di Antonio Del Mollo al suocero. 318 Archivio privato Demarta. 1900 – Lettera di Ettore Lozzio. 319 Dionigi Albera, Cultura della mobilità e mobilità della cultura: riflessioni antropologiche sull’emigrazione biellese, in Studi sull’emigrazione. Un’analisi comparativa, Atti del convegno storico internazionale sull’emigrazione, Biella 25-27 settembre 1989, Milano 1991, p. 375. 320 Archivio famiglia Marcoli-Medolago. Fréjus, luglio 1889 – Lettera di Luigi Marcoli al fratello. 321 Queste osservazioni si basano sullo studio condotto da Bernardino Croci Maspoli, Emigrazione stagionale e fenomeni demografici in una comunità rurale del ’700, «Bollettino storico della Svizzera italiana», XCV (1983), pp. 83 e 87-88 incentrato sulla comunità di Magliaso nel XVIII secolo. Ciononostante il discorso può facilmente essere esteso a tutta la regione malcantonese, e all’area ticinese più in generale, come dimostra Luigi Lorenzetti, Mortalità infantile e giovanile e fenomeni stagionali in Ticino all’inizio dell’Ottocento, in Carte che vivono, Studi in onore di don Giovanni Gallizia, a cura di Dino Jauch e Fabrizio Panzera, Locarno 1997, pp. 204-205. 322 Si veda a questo proposito il capitolo Scolarizzazione ed emigrazione. 323 Questa osservazione si basa sull’insieme degli atti notarili consultati durante le indagini, sia nel Fondo notarile (ASTi) così come in altri archivi privati. 324 ASTi, Fondo notarile, notaio Giuseppe Avanzini, Sc. 2116, nr. 478, 4.3.1893.
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pure di Curio, attivo quale fornaciaio nel Piacentino e per questo assente durante la stipulazione dell’atto divisorio con i fratelli, nominando tale Placido Corti in sua rappresentanza. Io sottoscritto Signor Luigi Giovannini del fu Luigi del Comune di Curio, ora abitante a Corte Maggiore Provincia di Piacenza, Regno d’Italia, colla presente nomina in di lui procuratore generale e universale il Signor Placido Corti fu Francesco pure di Curio suo domicilio all’oggetto di gestire ed amministrare ogni suo affare ed interesse tanto attivo che passivo […] e gli conferisce ogni facoltà per raccogliere e dividere cogli altri eredi la sostanza dell’eredità paterna e materna col beneficio, a suo giudizio, dell’inventario, a rappresentarlo in ogni atto, cha sarà necessario per la divisione ed assegna delle suddette eredità, a vendere, cedere e permutare qualsiasi mobile, immobile, credito ecc […] in di lui nome; fare infine ed operare quanto crederà conveniente per tutto i suoi interessi. E pertanto il suddetto costituente Signor Luigi Giovannini ha dichiarato e dichiara fin d’ora d’avere per grato, rato fermo ogni di lui operato […]325.
325 ASTi, Fondo notarile, notaio Marco Sciolli, Sc. 2202, nr. 1145, 19.12.1868. 326 Raul Merzario, Il capitalismo nelle montagne: strategie familiari nella prima fase di industrializzazione del Comasco, Bologna 1989, p. 52; Lorenzetti, Economie et migrations au XIXe siècle, cit., pp. 187-188 e 235. 327 Grafici ‘à la carte’, cit. 328 Merzario, Adamocrazia, cit., p. 10 e seguenti. 329 Croci Maspoli, Emigrazione stagionale e fenomeni demografici in una comunità rurale, cit., pp. 84 e 90-91. Si veda inoltre Lorenzetti, Mortalità infantile e giovanile e fenomeni stagionali, cit., p. 204. 330 Merzario, Famiglie di emigranti ticinesi, cit., p. 48.
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Infine, che fosse della durata di una stagione soltanto o che si protraesse per più anni, la lontananza di un’importante fetta della popolazione in prevalenza maschile non poteva che ripercuotersi sul generale andamento demografico dei paesi, creando una serie di situazioni proprie delle regioni a forte migrazione, peraltro già abbozzate in apertura di lavoro. Oltre a determinare il periodo degli sposalizi di cui sopra, a risentirne era pure l’età media degli sposi, tendenzialmente più elevata e che di conseguenza andava ad abbassare la fecondità delle coppie326. Lo squilibro tra i sessi emerso dai conteggi sulla popolazione, favoriva invece il celibato definitivo soprattutto delle donne. Questo perché soltanto in rare occasioni l’equilibrio numerico tra maschi e femmine era rispettato; solitamente i villaggi di emigranti presentavano un’eccedenza più o meno marcata di donne327. A questo andava poi ad aggiungersi l’alta mortalità maschile, dovuta ai maggiori rischi incontrati durante i non sempre facili soggiorni all’estero328. Infine, documenti analoghi a quelli appena usati come i registri di popolazione, e in modo particolare le date di nascita in essi contenute, sono una volta di più il riflesso di un consistente andirivieni con chiare ripercussioni anche sulla distribuzione delle nascite. Se da una parte il numero dei parti tendeva ad aumentare soprattutto nella seconda parte dell’anno, dall’altra, a fratelli nati nel breve volgere di pochi anni potevano poi alternarsi lunghi intervalli fra la nascita di un figlio e l’altro329. I numerosi studi sulle varianti demografiche in ambito migratorio trovano quindi ugualmente riscontro nella società malcantonese. L’emigrazione, che comprendeva un importante numero di fornaciai spesso sottaciuti, ha sicuramente inciso sulla demografia dei villaggi dell’area malcantonese. A prima vista parrebbe che tutto si concentrasse nei mesi invernali o che per lo meno venisse rimandato a questo periodo dell’anno quando la popolazione era di nuovo al completo. Invece, sebbene durante la stagione migratoria i villaggi si svuotassero, la vita comunitaria proseguiva, di norma sotto la guida delle donne.
5.2. L’emigrazione in famiglia Sapendo che «per riuscire a lanciare gli uomini nel mondo è indispensabile dotarsi di strutture famigliari adeguate a questo scopo»330, qui di seguito si cercherà di
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individuare quelle di cui si munirono le famiglie di fornaciai. Dunque, dalle logiche comunitarie di prima, l’attenzione si sposta ora su quelle prettamente domestiche. Modelli residenziali malcantonesi: economie domestiche ed emigrazione Sebbene a tratti bisognerà accontentarsi di dati a carattere generale riferiti all’emigrazione malcantonese nel suo insieme, lo studio degli aggregati familiari e della loro organizzazione interna fornisce un primo quadro della situazione, consentendo così di mettere a fuoco l’ambiente di provenienza degli emigranti331. Attorno alla metà del XIX secolo, circa 6 economie domestiche su 10 presentavano una struttura di tipo nucleare, in cui i figli non sposati convivevano coi genitori; mentre da 2 a 3 su 10 formavano aggregati complessi – estesi o multipli –, dove coabitavano invece tre generazioni della stessa famiglia332. Uno scenario che si propone in modo del tutto simile, mantenendo analoghe proporzioni, anche nel Malcantone e in quei fuochi che nella prima metà dell’Ottocento furono coinvolti nel fenomeno migratorio. Ciò non toglie che gli aggregati domestici rimangono delle unità dinamiche, la cui composizione cambia in continuazione nel corso degli anni. A questo proposito, Merzario ha dimostrato come alle nostre latitudini (Ludiano)333 e in altre realtà migratorie dell’arco alpino (Stazzona, CO)334, il ciclo familiare segua di preferenza uno schema evolutivo caratteristico della famiglia-ceppo (NMEN). Nel corso di un ciclo, i semplici aggregati nucleari composti da genitori e figli non ancora sposati (N) si trasformano in economie domestiche complesse, dapprima «attraverso il matrimonio di un figlio che convive così con i genitori» (M), «per poi diventare via via più semplici con la morte prima dell’uno e poi dell’altro genitore». Con il successivo passaggio a una forma nucleare (N) ha inizio un nuovo ciclo. Da notare infine che questa sequenza, peraltro riconoscibile anche in area malcantonese, «assicura, in presenza dell’emigrazione, che il fuoco non si spenga»335. Quella di mantenere il «fuoco acceso»336, ossia di continuare a godere dei diritti politici (partecipazione alle assemblee comunitarie, assunzione di cariche pubbliche, eccetera) ed economici (uso dei diritti civici di pascolo, di fare legna, eccetera), così come di assicurare continuità alla casata, era una preoccupazione assai diffusa nel mondo degli emigranti e che si può intuire meglio analizzando da vicino chi, tra i membri di un aggregato, partiva e chi, invece, rimaneva. Infatti, malgrado l’apparente varietà di combinazioni tra presenti e assenti, si osserva come queste varino in base al tipo di economia domestica. Nelle realtà nucleari, evidentemente meno popolate rispetto a quelle complesse, si registrava per lo più l’assenza del solo capofamiglia (41 volte). Alla presenza di una prole numerosa si verificava talvolta anche la partenza del maggiore dei figli maschi (15 volte), ammesso che egli avesse almeno 12-14 anni. In caso contrario, i figli, e soprattutto le figlie, rimanevano in patria con la madre. Invece, quando l’assenza si limitava al solo figlio (15 volte), nella maggior parte dei casi si trattava di un aggregato con alla testa la madre vedova. Visto il numero più alto di membri che componevano gli aggregati complessi, qui si aveva una maggior differenziazione degli schemi. Nelle strutture estese il capofamiglia partiva solo (7 volte) o accompagnato da un parente (moglie, figli, fratelli
Le constatazioni che seguiranno si basano sostanzialmente sull’esame dei Registri di circolo del 1824 conservati all’ASTi, delle liste nominative nelle quali gli abitanti, oltre a essere schedati con i rispettivi dati anagrafici, sono riuniti per fuoco. Tra questi sono state prese in considerazione comunità con un certo numero di assenti – Arosio e Breno per l’Alto Malcantone, Pura e Sessa per il Medio e Caslano e Ponte Tresa per il Basso Malcantone – sebbene solo in alcuni casi si abbia la certezza di avere a che fare con dei fornaciai. Ciononostante, da quanto si è potuto vedere fin qui, vi sono validi motivi per credere che il numero di fornaciai sia superiore a quello emerso da questi dati demografici. 332 Le definizioni si rifanno allo schema di Peter Laslett, Famiglia e aggregato domestico, in Famiglia e mutamento sociale, a cura di Marzio Barbagli, Bologna 1983, pp. 30-54, il quale distingue cinque tipi di aggregati domestici: solitari; senza struttura; nucleari (coppia sposata con o senza prole); estesi (famiglia coniugale con l’aggiunta di altri membri oltre ai figli); multipli (due o più unità coniugali unite da relazione di parentela o di matrimonio). I dati numerici, invece, sono stati tratti da Lorenzetti, Économie et migrations au XIXe siècle, cit., p. 499. Tendenze simili sono riscontrate nelle valli piemontesi da Audenino, Un mestiere per partire, cit., p. 194. 333 Raul Merzario, Parenti ed emigranti: il caso di Ludiano in val Blenio (XVIII secolo), in Carte che vivono, Studi in onore di don Giovanni Gallizia, a cura di Dino Jauch e Fabrizio Panzera, Locarno 1997, pp. 235-244. 334 Merzario, Il capitalismo nelle montagne, cit., pp. 137-146. 335 Merzario, Parenti emigranti, cit., p. 241. 336 Merzario, Adamocrazia, cit., p. 50. 331
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o altri per un totale di 9 volte). A conferma di quanto si diceva nel precedente capitolo, a casa restavano di norma le figure femminili (moglie, madre e sorelle nubili) con la prole. Infine, le economie domestiche multiple lasciavano partire di preferenza i figli e/o i nipoti (18 volte), ossia le generazioni più giovani. Forse proprio per raggiunti limiti di età, il capofamiglia è assente in dieci occasioni soltanto. Conformemente a quanto osservato fin qui sembrano atteggiarsi anche le famiglie fornaciaie di Pura, le sole di cui nei Registri di circolo del 1824 si conosce con certezza anche l’indirizzo professionale. Delle quattordici unità prese in considerazione, ben cinque hanno una struttura nucleare e contano il capofamiglia tra gli assenti, con (3) o senza figli (2). Di fronte a strutture complesse (7 in totale, di cui 4 estese e 2 multiple), invece, il capofamiglia partiva accompagnato (3), altrimenti a emigrare erano altri membri dell’aggregato (4). Se da una parte con simili atteggiamenti si voleva tutelare il protrarsi della stirpe, dall’altra si cercava di mettere in pratica nel migliore dei modi la logica della solidarietà familiare. Infatti, le soluzioni di convivenza presentate sopra, tra le altre cose, rispondevano «all’esigenza di aggregare gli individui più deboli economicamente e dalla situazione familiare più instabile a un nucleo coniugale»337. Per questo motivo anziani, vedove, orfani ma anche fratelli celibi e sorelle nubili, il più delle volte, erano inglobati in strutture complesse come quella estesa, cappeggiata da Pietro Marcoli di Biogno, sessantaquattrenne vedovo. Oltre a lui, l’economia domestica comprendeva il fratello Domenico, quarantaseienne celibe, e il figlio omonimo Pietro, fornaciaio a Calcinato (BS) sulle orme del padre, maritato e con quattro figli in tenera età. Il capofamiglia Pietro, che sarebbe poi deceduto l’anno successivo, così come la nuora e gli abbiatici contavano molto probabilmente sulle entrate dei due membri attivi dell’aggregato, ossia Domenico e Pietro338. Gli aggregati funzionavano come complesse organizzazioni produttive, in cui ciascuno, secondo il sesso e l’età, doveva contribuire per la sua parte, che comprendeva se del caso anche i proventi dell’attività migratoria. Dunque – scriveva il fornaciaio Luigi Bernasconi alla figlia – a secondo la nostra intelligenza che abbiamo fatto quando io era da voi a casa di spedirvi le Lire 3000, così qui rinchiuso troverete un mandato di L. 3010. Le tre mille sono per voi come mi avete detto di spedirle e le dieci sarà per il Luigino però mezzo alla volta e cui raccomanderai di tenerli da conto che credo che lo dirai anche che mi non ti facessi memoria339.
Audenino, Un mestiere per partire, cit., p. 194. ASTi, Registro di circolo 1824, Biogno Beride e Archivio famiglia Marcoli-Calcinato. 339 Archivio famiglia Marcoli-Medolago, Corrispondenza famiglia Bernasconi. Stanghella, 12.4.1911 – Lettera di Luigi Marcoli alla figlia, genero e nipotini. 340 Lorenzetti, Merzario, Il fuoco acceso, cit., pp. 33-34; Merzario, Adamocrazia, cit., p. 44. 337 338
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Al capofamiglia, solitamente di sesso maschile, sposato e in là con gli anni, spettava il compito di garantire il benessere generale della famiglia attraverso un comportamento responsabile e altruista come quello dimostrato dal sopracitato Luigi Bernasconi nei confronti dei figli. Questo spiega perché, fintanto che non si giungeva a una divisione formale del patrimonio, al capofamiglia andavano i guadagni di ogni membro340. L’esempio di un’altra famiglia Marcoli di Biogno, pure attiva nel laterizio, questa volta a Medolago, conferma il principio secondo cui il destino del singolo – emigrante o meno, fornaciaio o no – s’inseriva solitamente in un contesto più ampio dove a prevalere sulla scelta dell’individuo erano esigenze di tipo economico-fami-
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liari341. Nel 1884, Luigi scriveva al padre, che per l’età ormai avanzata si era accasato a Biogno, riferendogli dello stato delle finanze. Ora non vi mando [nella lettera raccomandata] che L. 100 perché a dirvi il vero danari ne corre pochissimi a motivo delle granaglie in ribasso e quelli delle galette in questi paesi furon spesi a comprar foglia trattandosi sempre di L. 2.00 al peso. In avanti ve ne manderò ancora e per ora vi saluto unitamente a quei di casa a nome di tutti noi ed anche i vostri amici 342.
L’unione familiare dei Marcoli, passata poi sotto la guida dello stesso Luigi, persisteva ancora nel 1891 sottoforma di aggregato multiplo e ciò nonostante vi fossero in totale ben cinque fratelli maschi adulti, tre dei quali sposati. Una simile struttura si spiega almeno in parte con l’attività dei suoi vari componenti, che sembrano sostenersi vicendevolmente. Luigi, così come il fratello Pietro, svolgeva infatti il mestiere di fornaciaio all’estero, mentre Giovanni era negoziante. Dei restanti due fratelli celibi non si conosce la professione, ma è possibile che componessero assieme alla madre vedova e alla zia nubile, di condizione casalinga, quella parte di aggregato rimasta a Biogno a occuparsi delle faccende domestiche e che quindi compensava l’assenza del capofamiglia343. Questo tipo di convivenza ribadisce infine come il capofamiglia poteva essere tale indipendentemente dalla sua presenza o meno in patria. L’organizzazione multilocale dei fornaciai A dimostrazione di quanto detto sopra, il capostipite Luigi Bernasconi, fornaciaio a Stanghella (PV), faceva fronte alla sua lontananza dal Malcantone delegando compiti a persone di fiducia, quali la figlia Ortenzia e il genero, che divennero così il suo punto di riferimento in patria. È già da domenica scorsa che io ebbi ricevuto da Righetti, dove mi dice che ci sarebbe il fornaciaio di Novaggio che vorrebbe comperare il taglio del bosco e selva […] e come mi dice lui di darvi a voi Pietro l’incarico di trattare così. Se credete di accettare io vi dago la facoltà di trattare siete abbastanza a cognizione di detta cosa però se prima di accettare volete farmi consapevole fatelo pure344.
Egli vuole essere tenuto informato su ciò che succede in patria, sulle faccende domestiche, la qualità del raccolto, le eventuali riparazioni di stabili da compiersi, eccetera e a questo proposito non esita a dare i consigli. Lorenzetti, Economie et migrations au XIXe siècle, cit., p. 293 e seguenti. 342 Archivio famiglia Marcoli-Medolago. Medolago, 8.9.1884 – Lettera di Luigi Marcoli al padre. 343 Prospetti dell’imposta cantonale 1891, cit. e Archivio famiglia Marcoli-Medolago. 344 Archivio famiglia Marcoli-Medolago, Corrispondenza famiglia Bernasconi. Stanghella, 16.1.1909 – Lettera di Luigi Bernasconi al genero. 345 Archivio famiglia Marcoli-Medolago, Corrispondenza famiglia Bernasconi. Stanghella, 8.2.1909 – Lettera di Luigi Bernasconi ai figli. 341
[…] vorrei sapere qualche cosa prima di voi tutti e poi qualche cosa da Miglieglia riguardo se vi è qualche cosa da fare e se qualch’uno avesse domandato qualche pezzo di terra, se vi sono da fare qualche cosa allora posso anche venire ma in marzo, ma se vi è poco ritarderò mi dirette se avete fatto la risposta al Pep di Breno e se il Fonti Mattia abbia trovato impiego e in quanto al da fare ai coperti lo sapete ma il Dera è obbligato me da istrumento di fare il muro divisorio a sue spese […]345.
In questo modo Luigi Bernasconi riusciva a gestire da lontano i suoi interessi in patria e a conciliarli con quelli di fornaciaio all’estero. Un’altra modalità per rispondere altrettanto efficacemente al protrarsi dell’assenza ma non per questo trascurare i propri affari, consisteva nelle lettere di procura.
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I signori Vanoni Luigi fu Pietro, Giuseppe e Sebastiano fu altro Pietro Vanoni, Giuseppe e Costantino fu Giuseppe Vanoni, tutti di Biogno di Beride, ora residenti a Monzambano, Provincia di Mantova fanno procura al signor Marcoli Giovanni fu Lorenzo di Biogno Beride per procedere alla divisione della sostanza fra loro comune in territorio di Biogno Beride346.
Questi scritti, su cui tra l’altro ci si è già soffermati nel precedente capitolo, autorizzavano ufficialmente qualcuno ad agire per proprio conto. Spesso se ne occupavano i familiari, ma alle volte capitava anche che venissero incaricati personalità quali il parroco o il sindaco347. Il ripetersi di situazioni simili non ammette dubbi sull’organizzazione multilocale dell’emigrazione dei fornaciai malcantonesi, che solo in rari casi rinunciavano alla propria porzione di terre e stabili in patria. Sebbene nella divisione tra i fratelli Antonio e Giuseppe Bertoli, il primo abbia ricevuto l’intera casa d’abitazione, i patti fra le parti prevedono che 1. Ritornando in patria il fratello Giuseppe e fino a tanto che il suddetto non si sarà previsto d’altra casa di abitazione avrà il diritto di abitare colla propria famiglia nella casa assegnata al fratello Antonio. 2. I mobili di qualunque sorta si ritengano in comunione per essere divisi a porzioni eguali al ritorno del fratello Giuseppe e come meglio stimeranno le parti 348.
Altri rappresentanti della famiglia Bertoli di Novaggio, per evitare il completo abbandono e conseguente decadimento di ciò che non poteva esser utilizzato, adottarono la soluzione del subaffitto. Degli affittuari-massai, in assenza dei proprietari, usufruivano di alpeggi e cascine di pertinenza dei Bertoli. L’unico bene stabile a esser sfruttato direttamente dai soli Bertoli era il roccolo. Inoltre, avvalendosi della comunione di beni – la divisione della casa Bertoli di Novaggio fu compiuta solo nel 1922 –, Colomba e Florinda, quest’ultima in visita nel Veneto, suggeriscono alla sorella Carolina alcune misure da prendersi. A te Carolina, Florinda mi dice se hai fatto far la stima delle selve comunali, se non l’hai fatta fare fa di meno, che mi dice che sarà meglio farle tagliare in casa e vendere la legna. […] E in Bavoc chi alpeggia, avete tanta uva, selva bella vi è il tronco dell’albero grosso se ti capitasse di farlo segare lo farai 349.
346 ASTi, Fondo notarile, notaio Giuseppe Avanzini, Sc. 2116, 15.2.1894. 347 Si veda a questo proposito le Lettere di emigranti: I Maestrani contenute in Alther, Medici, Curio e Bombinasco dagli albori, cit., pp. 371-380. 348 ASTi, Fondo notarile, notaio Marco Sciolli, Sc. 2200, nr. 702, 30.8.1854. 349 Archivio privato Demarta. Piavon, 16.7.1888 – Lettera di Colomba e Florinda Bertoli alla sorella Carolina. 350 Archivio famiglia Marcoli-Medolago. Medolago, 4.4.182 – Lettera di Luigi Marcoli al fratello.
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I contatti erano dunque tutt’altro che formali, ma riguardavano attività pratiche legate alla vita di tutti i giorni. Con il denaro e i consigli giungevano anche beni di prima necessità. Riguardo al melgone ve lo manderemo presto, sarebbe però bene che ne prestiate qualche stai. Circa alla fornace abbiamo venduto buon numero di materiali incominciammo a far mattoni, ma il tempo ci favorisce poco. Colla prima occasione mandate via il mio giaché di fustagno che vi siete dimenticati di farmelo pervenire dal carretto350.
Le spedizioni non erano indirizzate solo verso il Malcantone, al contrario lo scambio avveniva nei due sensi e fungeva spesso da complemento a quanto si poteva trovare in patria e viceversa.
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Se tu avessi la combinazione di mandarmi un poco di formaggini e eppure lo dirai al Picio di mandarmi quelli che mi ha mandato erano magri (farai secondo la comodità un tre chili)351.
Da quanto si è potuto vedere, il contatto tra gli emigranti e la propria famiglia non è mai venuto a mancare, anzi si è cercato in svariati modi e maniere di sopperire alla lontananza fisica. Tale reciprocità è da imputare sostanzialmente all’importanza della casa come centro d’interesse comune e decisionale, come luogo che assicura il perpetuarsi delle casate352. Difatti, senza il sostegno della parentela difficilmente l’attività migratoria sarebbe potuta sopravvivere così a lungo, e diventarne il tratto distintivo per non poche famiglie malcantonesi.
351 Archivio famiglia Marcoli-Medolago, Corrispondenza famiglia Bernasconi. Stanghella, 13.8.1906 – Lettera di Luigi Bernasconi ai figli. 352 Merzario, Parenti ed emigranti, cit., p. 237.
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6. Conclusioni
In apertura di lavoro ci si è chinati su alcuni quesiti fondamentali legati all’emigrazione di fornaciai dal Malcantone, consci del fatto di avere di fronte un fenomeno di ampie dimensioni se paragonato alla forza lavoro maschile malcantonese, ma per molti versi ancora da capire, a cominciare da come si sia arrivati a poterlo comunemente designare una specializzazione di questa regione. Tale ha effettivamente dimostrato di essere, sebbene non esista un’unica risposta sul perché di una simile scelta professionale. In cambio, però, si è potuto appurare fin dai primi capitoli l’appartenenza di questo tassello di storia malcantonese a quei movimenti migratori che in passato caratterizzarono molte vallate alpine e subalpine, e che oggi gli studiosi non considerano più tanto come una fuga dalla povertà, quanto piuttosto una soppesata risposta alle opportunità e alle esigenze di mercato, nel caso specifico di quello edilizio. Il Malcantone affonda così le sue radici nel terreno fertile dei mestieri edili, che proprio come quello del fornaciaio erano praticati lontani dalla madrepatria, nei cantieri di tutto il mondo. Gli inizi documentati di questa tradizione laterizia praticata all’estero risalgono ai primi del Seicento, ma è solo verso la fine del secolo successivo che le notizie assumono una certa consistenza, nello stesso periodo in cui un numero sempre maggiore di fornaciai si attestava come locatario se non addirittura proprietario di fornaci. È il segnale che questo mestiere si stava progressivamente dissociando, almeno dal punto di vista spaziale, dall’allora tipico lavoro di squadra delle maestranze edili, andando a occupare le fornaci, nel frattempo diventate degli edifici stabili ben riconoscibili sul territorio. L’Ottocento rappresentò un secolo cruciale per il laterizio di stampo malcantonese e per la sua identità. Le diverse fonti indicano un fenomeno in progressione, i cui protagonisti riuscirono talvolta ad affermarsi tra gli industriali del settore, facendo di questa attività dapprima solo accessoria, la loro principale occupazione. Partiti dapprima a far mattoni e coppi come semplici stagionali, i primi sintomatici cambiamenti giunsero quando, con il passare degli anni e delle generazioni, alcuni emigranti fornaciai cominciarono ad assentarsi per dei periodi sempre più lunghi. Questo nuovo modo di emigrare permetteva loro di adempiere ai nuovi compiti di natura gestionale, ciò che per il laterizio d’origine malcantonese corrispose a un chiaro consolidamento, comprovato anche dalla sua estensione geografica. Per un’evidente questione di prossimità, dall’Italia settentrionale proviene la gran parte delle notizie sul conto di fornaciai malcantonesi. Nella scelta delle destinazioni molto è però dipeso da fattori socio-economici, tant’è vero che la loro presenza è attestata in diversi altri paesi dell’Europa, dalla Francia alla Russia, dalla Danimarca all’Algeria, in terra africana, e in numero esiguo anche oltre Atlan87
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tico; tutti posti frequentati da altri emigranti delle nostre zone nei momenti di fermento edilizio e di crescita economica. Quanto emerso in apertura, dal punto di vista del tempo e dello spazio, ha poi consentito di gettare le basi e quindi di indirizzare il resto delle indagini sui fornaciai indipendenti, i «padroni del fumo» per l’appunto. Senza per questo dimenticare chi nelle fornaci continuò a occuparsi della parte pratica e ad alimentare l’indispensabile manodopera, si sono così evidenziati i tratti distintivi di questa imprenditoria tipicamente alpina. Molte sono infatti le similitudini con le altre pratiche migratorie conosciute in tutto l’arco alpino, ma non per questo essa manca di peculiarità proprie. Si pensi per esempio alla presenza, seppur limitata, di giacimenti di argilla nello stesso Malcantone, così come alle fornaci nate dall’iniziativa di intraprendenti malcantonesi e che ancora all’inizio del XXI secolo erano guidate da loro discendenti. Quanto alle altre sue caratteristiche, superata la fase iniziale, l’emigrante stagionale lasciò progressivamente spazio a un’emigrazione di tipo imprenditoriale e ciò sebbene l’apprendimento di questa professione si basasse essenzialmente sulla pratica in fornace al fianco di altri malcantonesi, piuttosto che tra i banchi di scuola. Si è trattato spesso di una questione tra familiari, talvolta allargata a conoscenti e compaesani, assoldati per dar man forte nelle manifatture all’estero e nella loro gestione. La tradizione, quindi, ha avuto un peso non indifferente, anche perché tramandare l’attività di padre in figlio, oltre a conferirle continuità, ha contribuito a renderla credibile agli occhi della gente del posto. In questo senso sono da interpretare le vendite degli stabilimenti di fornace che gli indigeni fecero agli emigranti malcantonesi, così come la composizione variegata della clientela e alcune forme di collaborazione con l’industria laterizia locale, comunque attivamente presente. Pur testimoniando il valore dell’operato malcantonese, tali riconoscimenti non devono però trarre in inganno sulla facilità di successo che aveva chi emigrava. Al contrario, laddove riuscirono, i fornaciai lo devono a una serie di circostanze favorevoli e alla profusione di notevoli sforzi, spesso però solo vagamente intuibili nella documentazione pervenutaci, per lo più incentrata su coloro i quali riuscirono a emergere. Una situazione che tuttavia si può leggere tra le righe, basti osservare la complessa organizzazione dell’intero sistema fornace, che per funzionare in un contesto migratorio necessitò sì della fiducia delle regioni d’approdo, ma anche e soprattutto del sostegno della madrepatria. Infatti, il Malcantone ha rappresentato un’inesauribile quanto indispensabile risorsa, un bacino dal quale attingere innanzitutto forza lavoro e eventualmente anche qualche aiuto finanziario. Non deve quindi stupire se attorno a questo caposaldo sono state elaborate gran parte delle strategie di conduzione delle fornaci, il più delle volte facendo leva proprio sulla rete parentale, coinvolgendola sia nella pratica del mestiere sia negli schemi di successione ereditaria. Altri piani gestionali prevedevano invece forme di amministrazione societaria, anch’essi per lo più organizzati tra compaesani. I fornaciai imprenditori, dunque, anche quando lasciavano il proprio paese, paradossalmente, erano soliti assicurarsi una copertura alle spalle; predisponevano una rete familiare e dei legami comunitari solidi, pronti a essere utilizzati per ogni evenienza, per esempio in assenza di diretti discendenti. In realtà, un comportamento simile trova spiegazione nel fine ultimo che questa emigrazione aveva, vale a dire quello di far ritorno a casa, un giorno, portando con 88
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sé i proventi e l’esperienza che l’attività migratoria avevano generato. Pertanto, è inevitabile che tra i due poli, quello di partenza e quello d’approdo, si interagisse e che il fornaciaio mantenesse i contatti con la sua terra d’origine. Anzi, in molti casi si ha l’impressione che il Malcantone sia stato il vero centro decisionale, dove venivano elaborate le strategie e da cui dipendeva in parte anche il destino di fornaci e fornaciai in terra straniera. Nei villaggi malcantonesi, in assenza degli uomini, la vita comunitaria proseguiva sotto la supervisione delle donne, seguendo i ritmi dell’agricoltura e della pastorizia, ma comunque rimandando alcuni rituali all’inverno, quando molti emigranti avrebbero fatto ritorno. Altrettanto fecero le famiglie coinvolte nell’industria laterizia, adattando il loro assetto in base alle esigenze dell’attività migratoria e assicurandosi sempre un punto di riferimento nel Malcantone – una persona o semplicemente dei beni immobili – anche quando a partire era un intero nucleo familiare. In conclusione, vale la pena sottolineare come l’emigrazione dei fornaciai malcantonesi, pur senza escludere eventuali tentativi falliti, ha al suo attivo diversi casi di successo, esempi ben riusciti d’integrazione, sia dal punto di vista sociale che professionale. Infatti, gli imprenditori malcantonesi seppero distinguersi e affermarsi in una realtà diversa dalla propria, in un ramo dell’industria comunque già esistente e funzionante dove essi non avevano l’esclusiva. Nell’era della globalizzazione, delle multinazionali e della tanto discussa crisi dei valori, questa indagine si è proposta di dare nuova linfa al ricordo di questi emigranti che promossero e s’impegnarono in aziende di piccola e media dimensione, pur rimanendo legati alla propria terra d’origine. Intraprendenza e spirito d’adattamento di fornaciai e familiari non erano però sufficienti, poiché simili scelte, se tali si possono considerare nel complesso, implicavano anche delle rinunce. In modo particolare il singolo individuo sacrificava i propri obiettivi personali per una causa comune, ossia in favore di quello che avrebbe dovuto essere il benessere familiare e in cambio di mutuo sostegno. Non si è quindi trattato soltanto di un mestiere praticato periodicamente lontano da casa, quanto piuttosto di un modo di vivere ragionato che coinvolse una buona fetta della popolazione malcantonese, mettendone alla prova soprattutto lo spirito solidale.
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Fonti manoscritte
Premesso che la raccolta delle notizie sull’emigrazione dei fornaciai malcantonesi, disperse in vari archivi pubblici e privati, è ben lungi dal considerarsi terminata, qui di seguito viene fornito l’elenco delle fonti manoscritte menzionate nel testo.
Archivi pubblici Per quel che riguarda gli archivi comunali del Malcantone, vista l’impossibilità di effettuare un’indagine a tappeto, è stata data la priorità a quelle località in cui il fenomeno ha avuto una significativa consistenza numerica. Secondariamente, si è guardato allo stato di conservazione del materiale e a eventuali segnalazioni giunte da terzi o contenute nelle monografie di storia locale attualmente disponibili. Di tutti gli archivi comunali consultati, soltanto alcuni sono menzionati direttamente nel testo (Aranno, Croglio e Bedigliora). Negli altri casi (Biogno Beride, Breno, Curio, Novaggio, Pura) sono state rinvenute informazioni utili a comporre l’intero mosaico, ma per lo più frammentarie e che non compaiono nel testo. Archivio di Stato del Canton Ticino (ASTi) – Fondo notarile – Registri di circolo del 1824, distretto di Lugano, circoli di Agno, Breno, Magliasina e Sessa – Fondo Diversi, Sc. 306 – Fondo passaporti, Sc. 4-8 – Fondo Risorgimento italiano, Cartella 23 – Fondo Zanini, Sc. 1 Archivio della Curia Vescovile di Lugano (ACVL) – Visite pastorali (1670, 1684, 1696, 1769) Archivio comunale di Aranno – Registro militare 1858 Archivio comunale di Bedigliora – Lista dei coscritti 1813 – Libro dei verbali comunali di Bedigliora, p. 42, 11.3.1899
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Archivio comunale di Croglio – Unità 11.5 – Controllo di matricola, senza data (probabilmente 1903-1916) – Unità 11.6 – Controllo di matricola, senza data (prima metà del XX secolo, probabilmente dagli anni Venti agli anni Cinquanta). Archivio comunale di Montesilvano (PE, Italia) – Atto di morte di Nicola Avanzini Archivio Museo del Malcantone, Curio (MusMalc) – Documentazione sui fornaciai – Fondo Avanzini – Fondo Gallacchi – Fondo Pelloni – Fondo Vannotti – Umberto Marcoli, Ricordi di una vita (copia dell’originale dattiloscritto, inedito)
Archivi privati Il numero di archivi privati a disposizione della ricerca è dipeso dalla reperibilità degli stessi. Essi provengono generalmente da discendenti che custodiscono raccolte documentarie più o meno corpose sul conto dei loro avi fornaciai. Grazie alla loro preziosa collaborazione è stato possibile conferire all’indagine quel tocco personale che non sarebbe emerso limitando le ricerche alla sola documentazione ufficiale. – Archivio famiglia Antonietti, depositario privato – Archivio famiglia Marcoli a Calcinato (BS, Italia), depositario privato – Archivio famiglia Marcoli a Medolago (BG, Italia), depositario privato (copia presso il MusMalc) – Archivio famiglia Marcoli a Medolago (BG, Italia), Corrispondenza famiglia Bernasconi a Stanghella (PD, Italia), depositario privato (copia presso il MusMalc) – Archivio famiglia Mina, depositario privato – Archivio famiglia Fonti, depositario privato – Archivio privato Mario Alberti, Massagno – Archivio privato Piergiorgio Demarta, Novaggio – Archivio privato Claude Morandi, Corcelles-près-Payerne (canton Vaud)
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«Lavorare di fornasaro col far matoni, quadrelli e coppi» Introduzione alle tecniche Stefano Zerbi
La frase che dà il titolo al capitolo è tolta da un contratto, stipulato nel 1743 dal notaio Luca Borella di Lugano, in forza del quale Domenico Boffa e Giovanni Battista Tamborini di Agno sarebbero partiti per San Pietroburgo come «uomini periti nell’arte del fornasaro». È una delle molte testimonianze che ci dicono come nella nostra regione quest’arte abbia radici profonde e diffuse. (Le maestranze artistiche malcantonesi in Russia dal XVII al XX secolo. Gli uomini, la storia, la memoria delle cose, a cura di Bernardino Croci Maspoli e Giancarlo Zappa, Firenze-Curio 1994, p. 35).
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La fornace Delmenico a Guidizzolo verso il 1900. In primo piano le ‘gambette’ e sullo sfondo la caratteristica ciminiera dei forni tipo Hoffmann.
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1. La materia prima E in verità, per quanto io conosco le più antiche costruzioni, oserei affermare senz’altro che in fatto di praticità costruttiva, sotto qualsiasi punto di vista, nessun materiale è più conveniente del mattone: non crudo beninteso, ma cotto; purché si ponga massima cura nel cuocerlo e nel dargli forma1.
1.1. Le argille e le argilliti Le argille sono dei sedimenti i cui componenti hanno una dimensione generalmente inferiore ai 2 µm (sono dunque indistinguibili sia ad occhio nudo sia al microscopio ottico). Le argille sono formate principalmente da allumino-silicati idrati a struttura lamellare, appartenenti alla classe dei fillosilicati, come le miche, e chiamati minerali argillosi. I principali minerali argillosi sono: la Caolinite, la Montmorillonite, l’Illite e la Clorite. I minerali sono combinati tra loro in proporzioni variabili che determinano le caratteristiche di ogni tipo di argilla. I minerali di Montmorillonite si combinano facilmente con l’acqua, mentre la Caolinite e l’Illite, se presenti in granuli molto fini, aumentano la plasticità dell’argilla. L’acqua è presente in due forme: l’acqua di costituzione, combinata chimicamente alle altre costituenti, e l’acqua igroscopica, incorporata alla massa e che evapora durante l’essiccazione. Oltre ai minerali argillosi, nelle argille si trovano spesso quarzo, miche, soprattutto muscovite, feldspati, carbonato di calcio e altri minerali che ne determinano la colorazione: la limonite produce un colore giallo-bruno, l’ematite il rosso e dei resti di carbone e solfuri il grigio o il nero2. Le argille dette magre contengono una percentuale ridotta di minerali argillosi, e si distinguono così da quelle grasse. Le argille appartengono alla famiglia delle rocce sedimentarie, queste ultime sono presenti ovunque nel mondo sotto differenti forme; sono di età da Quaternaria a Attuale e dunque hanno meno di due milioni di anni3. I minerali argillosi si formano grazie all’alterazione chimica di rocce magmatiche silicee, mentre le argille come sedimenti sono generate dal dilavamento di rocce argillose e successiva precipitazione delle diverse componenti in ambienti lacustri o marini. I minerali cristallizzati, se ve ne sono, sono di piccole dimensioni o, alcune volte, la materia è amorfa e spesso vi si trovano dei fossili. Secondo l’ambiente di formazione, le argille si dividono in argille residue, di facies4 terrestre continentale, contenenti fossili di piante o animali terrestri, e argille e marne, di facies marina poco profonda del litorale, che sono le più frequenti e contengono dei fossili marini. Le argilliti, chiamate anche rocce argillose, sono delle rocce sedimentarie formatesi per litificazione di un’argilla o di più argille. Si trovano, in generale, a profondità più elevate delle argille, hanno consistenza compatta e struttura stratificata. La grande diffusione delle argille, unita alla variabilità nella loro composizione, fa si che ne esistano innumerevoli varietà locali: da ciò la differenza nell’aspetto dei prodotti che da esse si ottengono.
Leon Battista Alberti, L’architettura, Milano 1989, Libro II, cap. X, p. 78. 2 Walter Schumann, Guide des pierres et minéraux. Roches, gemmes et météorites, Paris 2007, p. 276, e Aurèle Parriaux, Géologie. Bases pour l’ingénieur, Lausanne 2006, pp. 375-380. 3 Le rocce sedimentarie sono di origine esterna alla crosta terrestre e si formano a causa della disgregazione di altre rocce e si dividono, a seconda dell’agente che le ha generate, in rocce detritiche, chimiche o organiche. 4 La facies, dal latino ‘facies’ che significa faccia, aspetto e dal verbo ‘facere’, fare, designa l’insieme dei tratti litologici e paleontologici che caratterizzano una roccia e fornisce informazioni sull’ambiente nel quale si è formata. 1
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1.2. Le principali caratteristiche delle argille
Estratto del catalogo dei prodotti della fornace Poncini di Albens, in Savoia: mattoni pieni e loro utilizzo decorativo.
L’argilla, detta anche clay, dall’inglese, ha consistenza molle e tenera ed è scalfita dall’unghia. È una roccia plastica, poiché se inumidita può essere modellata e conserva la forma che le è stata data. Questa plasticità è variabile, le cosiddette argille grasse sono le più plastiche. La concentrazione in carbonato di calcio diminuisce sensibilmente la plasticità dell’argilla, ma, d’altro canto, ne aumenta la fusibilità. Le argille troppo plastiche, ricche in Caolinite e Illite, comportano un elevato rischio di ritiro durante la fase di essiccazione che può causare delle importanti fessure nell’impasto. Quelle che contengono elevate quantità di Montmorillonite rischiano invece di deformarsi a causa dell’evaporazione dell’acqua. In ogni caso, durante l’essiccazione, l’argilla diminuisce di volume e perde la propria plasticità.
1.3. Le argille per la produzione dei laterizi Per la produzione dei laterizi si utilizzano sia argille sia rocce argillose, scelte grazie alla loro composizione in funzione del tipo di prodotto. In effetti, le argille composte prevalentemente da Caolinite, dette anche caolini, sono utilizzate esclusivamente per la produzione di elementi refrattari5, mentre quelle contenenti soprattutto Illite, oltre agli altri minerali argillosi, e povere di carbonato di calcio, sono dette argille comuni o da laterizi, poiché sono le più adatte a questo scopo essendo la loro plasticità alta, ma la temperatura di fusione ridotta rispetto ai caolini. Per quel che concerne l’impiego di rocce argillose, in generale sono scelte quelle contenenti da 30 a 35% d’argilla, che devono essere macinate per produrre un materiale omogeneo e lavorabile. Spesso le argille disponibili localmente possiedono caratteristiche e composizione variabili e sono dunque miscelate tra loro e ad altri materiali: quelle grasse ad agenti sgrassanti quali le sabbie ricche in silicio, quarzo e feldspato, o della polvere fine di terracotta, detta chamotte, mentre a quelle magre si aggiungono delle terre ricche in carbonato di calcio come le marne o le argille smettiche, contenenti alte concentrazioni di Montmorillonite.
5 «On appelle réfractaires les produits qui peuvent supporter, sans fusion, la température de 1800 degrés centigrades, qui est celle des fours à porcelaine» (P. Planat, L’art de bâtir. Connaissance des matériaux-fondations, Paris s.d. p. 124).
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2. I laterizi
2.1. Etimologia Il sostantivo italiano laterizio, che designa i prodotti impiegati nell’edilizia tramite cottura delle argille, deriva dal latino later, che indicava il mattone di argilla, soprattutto cruda, mentre per quello in terracotta si utilizzava il sostantivo testa6. L’etimologia del sostantivo mattone è invece da mettere in relazione con le voci dialettali maòn, maduni, madòn, mautone, le cui origini sono molteplici: l’aggettivo latino madidus, ovvero umido; l’antico tedesco matte che indicava una massa compatta o un pezzo di cacio, al quale, secondo certi autori, il mattone assomiglia; il latino mactus, duro, denso e compatto e il sostantivo latino maltha, malta, da cui maltone7. Le tegole, che sono insieme al mattone, uno dei principali laterizi, trovano la loro origine come sostantivo nel latino tegula dal verbo tègere, che significava coprire: ciò per cui le tegole sono fatte. La pietra campione: il ‘mattone di Parma’.
2.2. Il mattone. Storia e caratteristiche principali Se è salito sulle mura di Uruk, se vi ha passeggiato, se ha rivolto i suoi occhi verso la loro base e guardato la loro costruzione, bene, la base della costruzione non è del mattone cotto?8 Essi (i primi uomini) si dissero: Andiamo! Facciamo dei mattoni e cuociamoli al fuoco! Il mattone gli servì da pietra e il catrame come malta. Si dissero: Andiamo! Costruiamoci una città e una torre la cui sommità penetri i cieli! Facciamoci un nome e non siamo dispersi sulla terra!9
Il mattone è il materiale da costruzione artificiale più antico. L’utilizzo del mattone come materiale da costruzione è antecedente a quello dei materiali duri, come la pietra: l’uomo acquisì la capacità di plasmare l’argilla prima di quella di realizzare gli utensili in metallo per lavorare la pietra, fosse anche la più tenera. L’origine del mattone è difficilmente databile, ma dovrebbe risalire al neolitico, dunque circa all’8000 a.C. Per esempio, quelli ritrovati a Gerico sono probabilmente i più antichi mattoni formati a mano e essiccati al sole e sono stati datati verso l’8300-7600 a.C.10. I primi mattoni prodotti grazie all’utilizzo di stampi, ciò che permetteva di realizzare degli elementi dalle dimensioni costanti riducendo il tempo d’esecuzione, sono stati rinvenuti in Mesopotamia e datati verso il 50004500 a.C.11. Con questo metodo erano prodotti anche i mattoni presso i Sumeri e gli Egizi, che migliorarono soprattutto le tecniche d’esecuzione delle volte.
6 Francesco Zambaldi, Vocabolario etimologico italiano, Città di Castello 1889. Ottorino Panigiani, Vocabolario etimologico della lingua italiana, s.l. 1907(consultabile anche all’indirizzo internet: http://www.etimo.it, consultato il 24.07.2010). 7 Ibidem. 8 Citazione tratta dall’Epopea di Gilgamesh, poema epico scritto a Babilonia verso il 23002000 a.C. Secondo la traduzione di Jean Bottéro, le mura di Uruk erano in mattoni d’argilla essiccati, ma nel passaggio dell’Epopea l’autore vuole enfatizzare il prestigio della città dotandola di mura costruite in mattone cotto (Jean Bottéro, L’Epopée de Gilgamesh. Le grand homme qui ne voulait pas mourir, Paris 1992, p. 64 e nota 5). 9 La Bibbia, Antico Testamento, Genesi, XI:4. 10 James W.P. Campbell, L’art et l’histoire de la brique. Bâtiments privés et publics du monde entier, Paris 2004, p. 26. 11 Ibidem, p. 13 e p. 28.
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Estratto del catalogo dei prodotti della fornace Poncini di Albens, in Savoia: elementi speciali per la coperture.
Ibidem, p. 13 e p. 30. Ibidem, p. 42. 14 Raffaël De Filippo, La brique et les matériaux de construction en terre cuite à l’époque romaine, in: AA. VV., La construction. Les matériaux durs: pierre et terre cuite, Paris 2003, p. 97. 15 Leon Battista Alberti fa probabilmente riferimento a queste esperienze antiche quando, nel suo trattato, scrive: «Dovendo farli tuttavia alquanto grossi, a tale svantaggio si porrà riparo, almeno in buona parte, perforandoli con una bacchetta in uno o più punti situati nella zona di maggiore spessore, in modo che possano cuocersi e seccarsi più agevolmente lasciando passare attraverso queste aperture il vapore e gli umori interni» (Alberti, L’architettura, cit., Libro II, cap. X, p. 79). 16 De Filippo, La brique et les matériaux de construction en terre cuite à l’époque romaine, cit., p. 97, e Giordano Conti, La materia dell’architettura, Forlì 2010, p. 65. 17 Fornaciaio, in: Nuovo Dizionario Universale Tecnologico o di Arti e Mestieri… Prima Traduzione Italiana. Tomo XXIII, Venezia 1839, p. 325. Un brevetto inglese per la produzione dei mattoni forati risale al 1813, ma non riscosse alcun successo (Giovanni Peirs, La terre cuite. L’architecture en terre cuite de 1200 à 1940, Liège 1979, p. 142). 18 Elena Tamagno, Fornaci. Terre e pietre per l’ars aedificandi, Torino 1987, p. 100. 19 Alfonso Acocella, L’architettura del mattone faccia a vista, Roma 1989, p. 26. 12 13
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Le ceramiche più antiche risalgono al 7000-6000 a.C., ma perché le tecniche di cottura venissero applicate anche ai prodotti edili, come i mattoni, si dovette aspettare ancora qualche millennio. I primi mattoni cotti apparvero attorno al 35003000 a. C.12 e furono impiegati per la costruzione delle fortificazioni, grazie alla loro maggiore resistenza meccanica e alle intemperie. I primi esempi europei di laterizi cotti sono, probabilmente, le tegole ritrovate nel Peloponneso, datate 26002000 a.C., oppure i mattoni di un edificio circolare di Tirinto, sempre nel Peloponneso, e risalenti al 2000 a.C.13. Cronologicamente più vicini a noi, i Greci utilizzarono il mattone, ma in quantità ridotte e soprattutto per degli edifici minori: i primi esempi d’utilizzo del mattone cotto si trovano nell’oriente ellenistico per la costruzione delle fortificazioni urbane. Il palazzo ellenistico de Nippur in Mesopotamia e le mura di Velia in Lucania (l’attuale Basilicata nell’Italia del Sud) risalenti al IV secolo a.C. sono i più antichi esempi greci conosciuti14. Nell’immaginario collettivo, il mattone come materiale edile è legato ai Romani. Ciò è dovuto, in parte, al fatto che oggi gli edifici romani si presentano agli occhi dello spettatore privi dei rivestimenti lapidei che spesso li ricoprivano. I Romani contribuirono sicuramente alla diffusione di questo materiale in Europa e alla messa a punto delle tecniche di esecuzione delle apparecchiature oltre a quelle per la produzione dei laterizi. Realizzarono inoltre i primi mattoni dotati di fori centrali al fine di migliorarne l’essiccazione, la cottura e per ridurne il peso15. Produssero anche molti altri elementi standardizzati in terracotta per la costruzione: tegole, tavelle per il rivestimento dei pavimenti, elementi per la realizzazione degli ipocausti o dei controsoffitti. Al contrario di ciò che si potrebbe pensare, l’apparizione del mattone cotto nel mondo romano non ebbe luogo a Roma, ma nel Sud Italia, dove era stato introdotto dai greci, e nella Cisalpina, l’attuale Italia Settentrionale, dal III secolo a.C., per la costruzione delle fortificazioni dei centri principali16. A Roma i primi esempi risalgono all’epoca imperiale, fra i principali: il Panteon di Agrippa (14 a.C.) e la caserma dei Pretoriani (castra pretoria) sotto Tiberio, primo esempio in mattone faccia a vista. In Italia apparvero nel XV secolo le prime gilde di mattonai i cui appartenenti erano i garanti della qualità dei laterizi prodotti. A quest’epoca risalgono molte ‘pietre campione’, che servivano appunto come campioni per il controllo delle dimensioni dei mattoni, che variavano, in generale, da una città all’altra. La produzione dei mattoni forati ebbe inizio a partire dal XIX secolo. La prima applicazione nel campo dell’edilizia del mattone forato risale alla costruzione degli Arsenali della Marina a Tolone, in Francia, attorno al 1830 o, secondo altre fonti, del porto della stessa città nel 1819. In quel periodo la produzione si faceva tramite una pressa17. In Italia i mattoni forati furono prodotti a partire dal 185518. Il mattone costituisce il primo esempio di materiale edile prefabbricato, la cui principale caratteristica risiede nel possedere delle dimensioni costanti e proporzionali19. Le dimensioni dei mattoni sono variabili: esse mutano con il trascorrere dei secoli e con le regioni di provenienza. Le dimensioni dei mattoni sono ridotte per facilitarne il trasporto, la messa in opera e anche la cottura omogenea nel forno: la larghezza ne permette la presa con una sola mano. La forma è generalmente quella di un parallelepipedo rettangolo.
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La produzione della fornace Bertoli a Casale sul Sile: mattoni, coppi e tavelle di varie forme e misure.
Le dimensioni modulari del mattone erano conosciute già dai Romani20. Nel mondo greco-romano le dimensioni dei mattoni derivavano dal palmo, doron in greco, palma in latino, o dal piede, pes. Marco Vitruvio Pollione cita nel suo trattato tre tipi di mattoni, secondo il loro modulo: il lidiano, utilizzato in Italia, il pentadoron e il tetradoron, utilizzati in Grecia21. Il mattone lidiano utilizzato negli edifici della Cisalpina aveva una lunghezza di un piede e mezzo e una larghezza di un piede (circa 45 x 30 cm). Lo spessore variava, ma si aggirava attorno ai 6 cm22. Da questa dimensione derivavano diverse combinazioni, chiamate semilateres, i mezzi-moduli o mezzi-mattoni, ottenuti sia per formatura che per taglio dei formati di base. Con l’evoluzione della costruzione in laterizio, i Romani ridussero le dimensioni dei mattoni al fine di produrre elementi più leggeri e maneggevoli. Ancora durante il XX secolo, le dimensioni dei mattoni variavano da una regione all’altra e spesso una stessa fornace produceva diversi tipi di mattoni per diversi mercati. Per esempio, nell’Italia del Nord erano presenti, all’inizio del XX secolo, i mattoni pieni di tipo lombardo di 5x11x23 cm, piemontese di 6x12x24 cm o 5x13x26 cm e di Brescia di 6x12x25 cm o 5x12x24 cm23. I mattoni forati avevano invece le seguenti dimensioni: quelli chiamati ‘semplici’ misuravano 14x14x28 cm e quelli ‘doppi’ 22x14x28 cm. Nel 1881 esistevano i mattoni forati piccoli di 5x10x21 cm, medi di 5.5x11.5x21 cm e grandi di 7x12x25 cm24. In generale le dimensioni dei mattoni pieni seguono una regola semplice: la lunghezza è uguale al doppio della larghezza, chiamata ‘testa’, che è compresa fra i 10 e i 15 cm per permetterne la presa con una sola mano. Lo spessore è tale da determinare un peso del mattone inferiore ai 3 kg, sempre per facilitarne la posa25. Per ottenere un mattone perfettamente modulare, alla dimensione della lunghezza va aggiunto lo spessore del giunto di commessura, in generale di un centimetro di spessore, affinché due teste più un giunto corrispondano alla lunghezza. La normalizzazione dei mattoni è avvenuta, in Europa, dopo la Seconda Guerra Mondiale, ma solamente a livello nazionale.
20 De Filippo, La brique et les matériaux de construction en terre cuite à l’époque romaine, cit., pp. 103-104. 21 Marco Vitruvio Pollione, De Architectura, Roma 1990, pp. 73-77 (Libro secondo, III). 22 Pierangelo Boccalari, Fornaci & Fornaciai a Mede e in Lomellina, Mede 2001, p. 6. 23 «Dimensioni dei mattoni usuali (Milano): da 0,23x0,11x0,04 m a 0,28x0,14x0,065 m; in media 0,25x0,125x0,06 m» (G. Colombo, Manuale dell’ingegnere civile e industriale, Milano 1929, p. 332). 24 Fornaciaio, in: Nuovo Dizionario Universale Tecnologico, cit., p. 325 e Catalogo della collezione dei materiali da costruzione naturali ed artificiali del Cantone Ticino presentata all’esposizione di Milano nel 1881, a cura di G. Lubini, Lugano 1882, p. 10. 25 Acocella, L’architettura del mattone faccia a vista, cit., p. 26.
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2.3. La produzione dei mattoni, dei coppi e delle tegole La produzione di materiali ceramici in una fornace di medie dimensioni era ricca e variata. Il catalogo presentava diversi tipi di mattoni, a seconda degli utilizzi e della qualità, di coppi, di diverse forme e per le diverse parti del tetto, e di tavelle per i pavimenti, chiamate spesso solamente ‘cotto’26. Verso la fine del XIX secolo a questi prodotti tradizionali si aggiunsero i mattoni forati, le tegole marsigliesi e le pignatte per la realizzazione dei solai. Nel caso in cui una fornace non producesse essa stessa tutti questi elementi, il fornaciaio li comperava altrove e li rivendeva. Egli vendeva inoltre tutti i principali tipi di leganti, come la calce e il cemento. I fornaciai erano dunque dei veri e propri dettaglianti di materiale da costruzione. La descrizione che segue è limitata alle tecniche di produzione dei mattoni, dei coppi e delle tegole, e alla loro evoluzione, da manuali a meccaniche. L’estrazione e preparazione delle argille I luoghi di estrazione dell’argilla erano sempre situati nelle vicinanze della fornace, al fine di ridurre le distanze di trasporto. Ciò è all’origine della dispersione delle fornaci sul territorio. [...] per poter convenientemente iniziare la produzione dei laterizi era necessario trovare i terreni, il più possibilmente estesi e ricchi di strati profondi di argilla sui quali costruire la fornace27.
Il trasporto della materia prima si faceva con la carriola, a dorso d’animale o, a partire dalla metà del XIX secolo, tramite dei piccoli vagoni su binari, detti tipo ‘Decauville’28, trainati da cavalli e muniti di benna basculante.
26 Una varietà molto bella di cotto era quella ottenuta mescolando argille caoline e argille rosse, che presentava le caratteristiche striature bianche e chiamata nel Canton Ticino pianèll da màgia. 27 Umberto Marcoli, Ricordi di una vita, documento inedito, vol. I, p. 8. 28 Questo è il nome di un’importante ditta francese famosa par la produzione di materiale rotabile a scartamento ridotto (Richard Pantzer, Richard Galke, Les machines de briqueterie, leur construction, leur emploi et leurs résultats pratiques, Paris 1911, p. 12).
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La produzione di coppi e tavelle nell’attuale fornace Fonti a Grignano Polesine.
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Laddove l’argilla, intesa come sedimento, si trovava in superficie, l’estrazione era di facile esecuzione, come, ad esempio, nell’Italia del Nord. Era sufficiente tagliare la massa per gradini successivi. Questo lavoro era svolto sia da contadini sia dagli stessi fornaciai alla fine della stagione di lavoro. Gli attrezzi principali erano la zappa e il piccone. L’argilla era disposta in mucchi lunghi e alti da 30 a 40 cm. Il periodo più favorevole per queste attività era l’autunno, si poteva così sfruttare l’azione del gelo per disgregare l’argilla, che sarebbe poi stata miscelata in primavera: questa fase prendeva il nome di ibernazione. A questa prima fase poteva seguire quella dell’estivazione, durante la quale si sfruttavano invece gli effetti del sole e dell’acqua. L’introduzione delle macchine per la preparazione delle argille rese l’ibernazione superflua: l’estrazione si effettuava durante tutto l’arco dell’anno, tramite escavatori a nastro e anche in terreni formati da rocce argillose.
I vagoni tipo ‘Decauville’ allineati davanti alla fornace Bertoli a Lughignano verso il 1950.
La selezione, la macinatura, la sgrassatura e la miscelatura delle argille Mio padre tutto il santo giorno laggiù nella fossa, a impastare l’argilla [...] e mio fratello Celestino, con la carretta a ruota di legno, la caricava sul banco29.
L’argilla estratta, una volta arrivata alla fornace, veniva miscelata. Da questa fase dipendeva in larga misura la qualità del prodotto finito. L’argilla più adatta per la produzione dei laterizi è una marna argillosa contenente fino al 20% di carbonato di calcio. L’argilla che aveva subìto l’ibernazione era selezionata, eliminando gli elementi più grossi, e in seguito era umidificata con acqua per cominciare la miscelatura. I fornaciai lavoravano la massa con la zappa e con i piedi nudi, in alcuni casi con un paletto di legno, al fine di poter identificare ogni sorta di impurità, spesso costituite da fossili o da ghiaietta30. Il ricorso ad un impasto umido era dettato dalla necessità di poterlo modellare a mano. A partire dall’introduzione dei mulini meccanici, prima della miscelatura, si procede alla macinatura dell’argilla fresca di estrazione. Ciò permette di utilizzare anche argilliti compatte che, tradizionalmente, non potevano essere sfruttate poiché non possedevano una plasticità sufficiente, che ridotte in finissima polvere sono, in seguito, introdotte nel miscelatore. Se l’argilla non corrisponde alle qualità richieste, la si miscela con degli agenti sgrassanti o grassi. La miscelatura è un momento cruciale poiché bisogna realizzare una miscela omogenea e un’unione perfetta di tutte le componenti. La miscela era preparata, normalmente, alla fine della giornata, cosicché potesse riposare durante la notte. La formatura dei mattoni a mano Il mattonaio lavorava nell’aia davanti alla fornace dove si trovava il grosso banco costituito da una robusta tavola in legno posata su cavalletti: l’inizio della stagione di produzione era detto ‘metter banco’31. Il garzone metteva sul banco la miscela d’argilla pronta per essere formata, dove si trovavano sempre un secchio con l’acqua e della sabbia, della cenere o una pol-
Antonio Zinni, L’uomo dei ‘coppi’, in: Antonio Zinni, Mestieri e Botteghe. Storie passate e recenti di artigiani,Voghera 1986, p. 173. 30 «Questo sistema, quantunque conveniente per la fabbricazione di buoni impasti, perché la sensibilità del piede dell’operaio, avverte la presenza dei corpi estranei e ne rende facile l’eliminazione, è però lungo e faticoso» (Boccalari, Fornaci & Fornaciai, cit., p. 40). 31 Zinni, L’uomo dei ‘coppi’, cit., p. 172. 29
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Impastatrice-sfaldatrice della fornace Marcoli a Calcinato.
vere fine di terracotta. Inoltre, vi erano le forme per i mattoni, in legno, con il fondo dello stesso materiale; per le tavelle, senza fondo, e per gli altri pezzi che dovevano essere prodotti durante la giornata. Il mattonaio prendeva la forma e ne cospargeva il fondo di sabbia affinché l’argilla non vi aderisse; in seguito asportava l’esatta quantità d’argilla dalla massa e la metteva nella forma. Si otteneva così il mattone sabbiato una volta mentre quello sabbiato due volte riceveva della sabbia o delle ceneri anche sulla faccia superiore. Comprimeva poi la miscela con il pugno oppure con un attrezzo in legno, quest’ultimo utilizzato soprattutto per le tavelle. L’eccedenza d’argilla era asportata con l’archetto, fatto con un ramo e del filo metallico, o con un coltello di legno o di ferro, e in seguito il mattonaio lisciava con le mani inumidite la faccia superiore del mattone. Da questa fase di lisciatura deriva il nome di ‘mattone lavato’ sul quale si possono ancora distinguere le tracce lasciate dalle dita. Infine toglieva dalla forma il mattone e lo posava sul banco. È importante ricordare che i mattoni prodotti a mano erano esclusivamente di tipo ‘pieno’ e non ‘forati’. Un mattonaio abile poteva produrre da 500 a 800 mattoni al giorno (alcune fonti riportano la cifra di 130032). Con un metro cubo d’argilla si ottenevano nel XIX secolo: 750 mattoni; 560 mattoni ‘bastardelli’, utilizzati per i tramezzi interni; 775 tavelle per i pavimenti e 450 coppi33. La formatura dei coppi a mano La formatura dei coppi seguiva praticamente le stesse fasi di quella dei mattoni, ma la tecnica era differente e si può affermare che essa costituisse una specialità: mattonaio e tegolaio erano due professioni ben distinte. Come il mattonaio, il tegolaio aveva il suo banco sull’aia. La forma utilizzata per la produzione dei coppi era senza fondo e di forma trapezoidale. Il tegolaio vi
32 Terra. Acqua. Fuoco. Le fornaci nel territorio parrocchiale dell’Antella, a cura di Massimo Casparini, Silvano Guerrini, Firera 1986, p. 4. 33 Alberto Superfluo, Le fornaci e le calchere nel territorio di Montichiari, in AA.VV., I segni dell’uomo nel paesaggio bresciano, Brescia 1998, p. 84.
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Scarico dell’argilla tramite un vagone ‘Decauville’ all’interno della fornace Marcoli a Calcinato.
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Il mattonaio, sull’aia, intento alla fabbricazione dei mattoni (Fornaci e fornaciai in Friuli, cit. nel testo).
Maltiroli coprono l’impasto d’argilla (Fornaci e fornaciai in Friuli, cit. nel testo).
deponeva l’argilla e la comprimeva con un solo gesto per ottenere uno spessore costante di circa un centimetro e mezzo. Delicatamente egli faceva scivolare l’argilla sullo stampo per il coppo, che era in legno, di forma arcuata, come il coppo al quale doveva trasmetterla, e inclinato verso la punta. Lo stampo possedeva un manico e spesso dei rinforzi metallici. Dopo aver deposto l’argilla sullo stampo, il tegolaio, con un gesto delicato, faceva sì che il coppo assumesse la forma esatta. Lo stampo era trasportato sull’aia, deposto a terra e poi sfilato da sotto il coppo, il quale era così pronto per l’asciugatura. Quest’operazione era molto delicata ed il coppo non doveva sformarsi, non doveva ‘fare la quaglia’. La formatura manuale permetteva la produzione di coppi ed embrici. Elementi di copertura molto diffusi nell’area lombarda e nel Cantone Ticino. Un tegolaio esperto era in grado di produrre da 700 a 1000 coppi al giorno. Sovente sui coppi venivano incise le iniziali del tegolaio e la data di fabbricazione34. La formatura dei mattoni e delle tegole a macchina La formatura a macchina dei laterizi, che iniziò a partire dal XIX secolo, ma che si realizzò soprattutto nella seconda metà dello stesso, permise, da un lato, di aumentare la produzione per ogni operaio e, dall’altro, di utilizzare dei processi di formatura che riducevano il tempo di essiccazione dell’impasto. Infatti, le tecniche dell’estrusione con impasto umido o della pressatura con impasto secco permettono di utilizzare degli impasti ai quali è aggiunta poca acqua. La formatura in pasta molle invece è realizzata a macchina quando si vuole imitare l’apparenza dei laterizi formati a mano. Le macchine per la formatura si dividono dunque in due categorie principali: le presse e le trafile. Le prime comprimono l’impasto d’argilla in
34 Secondo il tegolaio Pietro Trussi la data era incisa solo sull’ultimo coppo della stagione. Zinni, L’uomo dei ‘coppi’, cit., p. 175.
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forme e furono utilizzate per la produzione dei primi mattoni forati. Questo tipo di mattone fu il principale prodotto per il quale le macchine furono sviluppate. La sua introduzione in Italia risale al 185535. La trafila invece si basa sul principio dell’estrusione di una forma attraverso una matrice contro la quale l’impasto di argilla è spinto da una vite senza fine. Questo tipo di macchina fu inventata in Germania nel 185436. I vantaggi principali erano la diversità delle forme, che dipendono unicamente dalla matrice; la produzione continua e la facilità costituita dal movimento rotatorio della vite per l’applicazione di sistemi meccanici, come la macchina a vapore. L’evoluzione di questo tipo di macchina, che è oggi la più diffusa in Europa, comportò l’aggiunta, in serie, di macchine per il taglio della massa estrusa e, a monte, per l’alimentazione continua in impasto d’argilla. La produzione delle tegole, sia coppi sia marsigliesi, necessitava di una successiva pressatura. Per quel che riguarda la quantità prodotta per ogni operaio si passò, in Italia, dai 50’000 mattoni all’anno del 1950 a 1’900’000 nel 198037. L’asciugatura e l’essiccazione L’utilizzo, per la formatura a mano, di un impasto di argilla molto umido rendeva necessaria una fase di asciugatura e una d’essiccazione prolungate. L’utilizzo delle macchine, soprattuto per gli impasti più sodi, ha permesso di ridurre notevolmente la durata di queste fasi produttive. Tradizionalmente, i mattoni e i coppi erano lasciati sull’aia della fornace per l’asciugatura. L’aia doveva essere mantenuta molto pulita e spesso era ricoperta da uno strato di sabbia. I coppi erano disposti in lunghe linee parallele e questo primo periodo d’asciugatura durava ventiquattro ore durante le quali erano girati una volta. I mattoni erano disposti sia ‘a picciuolo’, allineati gli uni accanto agli altri, sia ‘a coltello’, posati di costa, sia a lisca di pesce o ‘gambetta’, al fine di favorire la circolazione dell’aria: quest’ultima forma era la più diffusa.
Elena Tamagno, Fornaci, cit., p. 100. Pantzer, Galke, Les machines de briqueterie, cit., p. 21. 37 Tamagno, Fornaci, cit., p. 151. 35 36
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Trafila per la produzione di mattoni forati della fornace Marcoli a Calcinato.
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La taglierina, applicata in serie dopo la trafila, permette di tagliare i mattoni alla lunghezza desiderata. Fornace Marcoli a Calcinato.
La seconda fase consisteva nell’essiccazione, prima della quale erano asportate le ultime sbavature di argilla. Mattoni e coppi erano impilati (‘appicciolati’) gli uni sugli altri a spina di pesce, ‘a gambetta’, oppure ‘a coltello’, per un’altezza di circa un metro, in una zona specifica dell’aia. Erano, in seguito, ricoperti di paglia, di stracci o con dei coppi per proteggerli dalla radiazione diretta del sole. Le lunghe corsie in terra sulle quali erano impilati i mattoni erano chiamate ‘gambette’38. L’essiccazione durava da dieci a venti giorni per i mattoni pieni e i coppi e cinque giorni per i mattoni forati. Le fasi di asciugatura ed essiccazione erano fortemente legate alle condizioni meteorologiche. I forti temporali estivi erano i peggiori nemici dei fornaciai: durante una notte poteva andare distrutto il lavoro di alcune settimane. I temporali estivi erano per noi delle grosse disgrazie perché non solo ci annullavano in pochissimo tempo il lavoro della giornata, ma ci obbligavano poi a rifare ‘la piazza’ dopo aver portato via la malta dei coppi sfatti39. [...] durante la notte, qualcuno, di solito un apprendista, doveva star di sentinella dormendo all’aperto sull’aia protetto unicamente da un gran telaio impagliato (la paiada) ma con fuori le gambe nude fino al ginocchio. Così al solletico delle prime gocce di un’eventuale pioggia si sarebbe svegliato e avrebbe dato l’allarme40.
Questi problemi furono risolti a partire dagli inizi del XX secolo con l’introduzione di costruzioni espressamente concepite per quest’operazione: gli essiccatoi41. Queste lunghe costruzioni erano ridotte, nella loro forma elementare, ad una tettoia sostenuta da pilastri e costituivano un elemento caratteristico dell’architettura della fornace. La fase di asciugatura avveniva sempre all’aria aperta.
Boccalari, Fornaci & Fornaciai, cit., p. 10. Zinni, L’uomo dei ‘coppi’, cit., p. 173. 40 Giovanni Bianconi, Artigianati scomparsi, Locarno 1978, p. 74. 41 «Già nel 1908, presso gli impianti maggiori, era frequente l’essiccatoio, un edificio arieggiato ma coperto, in modo da proteggere il materiale crudo dalle intemperie» (Massimo Tozzi Fontana, La produzione dei laterizi in Italia attraverso l’inchiesta ministeriale del 1908, «Scuolaofficina», gennaio-giugno 1988, p. 8). 38 39
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Nelle fornaci meccanizzate, dalla metà del XX secolo, gli essiccatoi ad aria calda hanno permesso un affrancamento definitivo dai pericoli causati dalle intemperie, ma costituiscono, nel contempo, un’importante fonte di consumo energetico42. Questa è una della ragioni per le quali oggi si ricorre ad impasti d’argilla piuttosto ‘secchi’.
2.4. La cottura dei laterizi: la sinterizzazione
Essiccatoio presso la fornace Marcoli a Calcinato.
42 Ian Knizek, Briqueterie: profil d’une industrie, New York 1980, p. 23. 43 «La sinterizzazione consiste in un trattamento termico che provoca la coesione di granuli di polvere allo scopo di ottenere un solido con caratteristiche fisico-meccaniche prestabilite. Il processo viene infatti realizzato preparando un ‘compatto’, cioè un pezzo ottenuto per compressione, a freddo, di polveri metalliche con o senza aggiunte di altre polveri non metalliche. Il pezzo così fabbricato viene riscaldato a una temperatura determinata in appositi forni con atmosfere controllate. Le particelle di polvere costituenti il compatto si saldano fra loro e tutta la massa acquista una particolare resistenza meccanica» (Edgardo Macorini, ed., Enciclopedia della Scienza e della Tecnica (EST), Milano 1963, volume IX, pp. 361-365). 44 B. Butterworth, La brique, Bruxelles 1949, p. 38 e Knizek, Briqueterie, cit., p. 4. 45 Marcoli, Ricordi di una vita, cit., vol. I, p. 1. 46 Questa tecnica di cottura era chiamata la ‘crauaté’ in Friuli, e fu impiegata ancora durante tutto il XIX secolo per delle quantità ridotte di materiale. Era utilizzata anche dai primi fornaciai itineranti della Pianura Padana durante il XVIII secolo ed era detta ‘pignone’ (G.P. Gri, In fornace nel primo Ottocento, in Fornaci e fornaciai in Friuli, a cura di Maurizio Buora e Tiziana Ribezzi, Udine 1987, p. 118; Georges Bonnant, Hermann Schütz, Emilio Steffen, Svizzeri in Italia 1848-1972, Milano 1972, p. 46). 47 David Jenkins, Architettura del mattone, Milano 1990, p. 5.
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La cottura del mattone fu un momento cruciale nello sviluppo di questo materiale da costruzione. La cottura dei materiali ceramici è chiamata ‘sinterizzazione’43. La cottura dei laterizi avviene, generalmente, a temperature comprese tra 950 e 1000°C, per un periodo che varia tra le otto e le quindici ore. Essa si divide in tre stadi successivi: dapprima una fase di disidratazione dell’impasto di argilla, che termina verso 600°C, in seguito l’ossidazione fino ai 900°C e infine la vetrificazione, attorno ai 1000°C44. Qui di seguito, sono esposte solo le tecniche di cottura utilizzate a partire dal XVIII secolo. Bisogna comunque ricordare che le tecniche di cottura non variarono molto dall’epoca romana fino all’introduzione dei forni a fuoco continuo verso la metà del XIX secolo. I forni antichi La forma primitiva del forno a fuoco intermittente consiste in un buco scavato nel terreno con le pareti rivestite in pietra o mattoni, che era alimentato a legna e coperto da uno spesso strato di terra posato direttamente sul materiale da cuocere45. Altro sistema primitivo quello che consisteva nell’impilare i mattoni gli uni sugli altri a forma di cupola, ricoprirli con uno strato di fango, circondarli di legname al quale si dava fuoco e che veniva alimentato fino alla cottura completa: nella Pianura Padana gli strati di mattoni si alternavano a degli strati di legna ed il tutto era ricoperto con dell’argilla46. La cottura era estremamente lenta e, con il successivo periodo di raffreddamento, poteva durare sino ad alcune settimane47.
Le gambette ancora esistenti alla Fornace Vannotti di Lù.
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L’interno di un essiccatoio della fornace Marcoli a Calcinato.
I forni a fuoco intermittente Questo tipo di forno costituisce il sistema più semplice per la cottura dei prodotti ceramici. Come lo indica il suo nome, la fiamma deve essere spenta dopo ogni cottura per permettere di scaricare il forno e di ricaricarlo con dei nuovi materiali. Deriva direttamente dai forni dei vasai utilizzati sin dall’antichità e spesso era chiamato, in Italia, ‘antico romano’. I forni a fuoco intermittente sono all’origine delle prime fornaci, intese come edifici. Il forno era costituito da una camera a forma di parallelepipedo, con i quattro muri perimetrali molto spessi, da settanta centimetri a un metro, con la faccia interna verticale, rivestita con mattoni refrattari, e quella esterna a scarpa. La camera era coperta da un tetto a due o quattro spioventi. Spesso, per rinforzare i muri e diminuire la dispersione termica, si rivestivano i muri all’esterno con della terra oppure, quando era possibile, si interrava parzialmente il forno. Una delle facce del forno presentava un’ampia apertura che permetteva l’introduzione del materiale e che assicurava la circolazione dell’aria durante la cottura. Il fornello assumeva posizioni diverse: sotto la camera principale, posteriormente ad essa oppure era un tutt’uno con la camera stessa. La ciminiera era spesso assente e l’evacuazione dei fumi avveniva attraverso una fenditura continua tra il forno ed il tetto. Questo tipo di forno subì dei continui sviluppi durante tutto il XIX secolo e fu utilizzato in Italia fino ai primi decenni del XX secolo48. Le grandi fornaci a fuoco intermittente potevano raggiungere delle capacità produttive sufficienti per l’approvvigionamento di piccoli mercati locali49. Ancor oggi questo tipo di forno è impiegato per la cottura di laterizi speciali, soprattuto per il restauro. Il forno era caricato attraverso l’apertura principale, chiamata semplicemente porta. A seconda del tipo di forno, i materiali erano posti direttamente sul fondo
48 Questo tipo di forno è ancora ampiamente descritto in un manuale della costruzione del 1928. Quest’opera è citata in Tamagno, Fornaci, cit., p. 102 e nota 2, p. 146. 49 La capacità di carico di un forno a fuoco intermittente variava da 25’000 a 300’000 pezzi (Terra. Acqua. Fuoco, cit., p. 6; Tamagno, Fornaci, cit., p. 118 e Pierre Chabat, La brique et la terre cuite, Paris 1881, p. 101).
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Le valvole metalliche che permettevano di controllare il flusso dei fumi del forno Hoffmann della fornace Indemini a Monforte d’Alba.
Terra. Acqua. Fuoco, cit., p. 6. Gri, In fornace nel primo Ottocento, cit., p. 118.
della camera oppure su di uno strato di ghiaia, la quale si sarebbe trasformata in calce a cottura ultimata. Generalmente, gli strati erano realizzati partendo dai materiali meno delicati, in basso, fino ad arrivare ai più fragili, in alto. Si impilavano i mattoni ‘a coltello’, distanziati e incrociati tra di loro, per permettere il passaggio della fiamma e del calore. I coppi erano impilati sopra i mattoni visto che dovevano essere protetti dal contatto diretto con la fiamma. Un ultimo strato di prodotti ceramici, come dei vasi o delle terraglie, era posto in cima alla catasta. Il carico di un forno intermittente poteva durare alcuni giorni (da tre a quattro giorni per un forno con una capacità di 25’000 pezzi50). L’ultimo strato di materiale era ricoperto d’argilla, da 10 a 15 centimetri di spessore, per ridurre la dispersione di calore. La porta era chiusa tramite un sottile muro di mattoni (il ‘muricciolo’). Nel caso in cui la camera assolvesse anche la funzione di fornello, si praticavano delle aperture nel ‘muricciolo’, chiamate ‘bocche’, che servivano alla circolazione dell’aria e all’alimentazione in combustibile. In questo stesso caso gli strati inferiori di mattoni non erano impilati ‘a coltello’, ma a forma d’arco, producendo così delle gallerie che prolungavano le ‘bocche’ favorendo la propagazione della fiamma. La cottura avveniva a fuoco moderato durante le prime 24 ore; l’intensità era gradualmente aumentata nelle seguenti 36 ore ed in seguito mantenuta stabile sino al temine della cottura, periodo che poteva durare da 6 a 8 giorni secondo le dimensioni del forno. Di norma il fuochista era guidato dall’esperienza nel determinare la durata della cottura. Egli restava presso il forno durante l’intero periodo di cottura per controllare il fuoco: era una fase molto delicata poiché le possibilità di modificare l’intensità della fiamma erano molto ridotte. La temperatura variava spesso durante la giornata ed il colore della fiamma era l’unico indicatore per il dosaggio del combustibile51. Dopo l’estinzione del fuoco, le bocche d’alimentazione erano murate e si lasciava-
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Le caratteristiche gallerie parallele del forno Hoffmann, ben visibili durante la demolizione di quello della fornace Bertoli di San Floriano di San Biagio di Callalta.
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no raffreddare i prodotti, ciò che richiedeva da cinque a venti giorni. Era buona regola aspettare da cinque a sei settimane prima di scaricare il forno. Il combustibile principale era la legna, di preferenza faggio, ma nelle regioni di pianura si utilizzava spesso il carbon fossile, il coke, oppure, nell’Europa settentrionale, la torba. Le quantità erano molto variabili a seconda del tipo di forno e della sua capacità: per un forno da 25’000 mattoni, alimentato a legna, erano necessarie da 1500 a 2000 fascine52. Per il carbone si contava circa una tonnellata per mille mattoni53. A partire dalla seconda metà del XX secolo, i forni a fuoco intermittente furono alimentati con combustibili liquidi o gassosi la cui combustione avveniva grazie a dei bruciatori posizionanti nella camera. La produttività di una fornace a fuoco intermittente era direttamente proporzionale alla capacità del forno: si calcolavano da sette a otto ‘cotte’ per stagione di lavoro (un ciclo di produzione durava all’incirca quindici giorni) per un totale variabile da 200’000 a 2’400’000 pezzi54. I forni a fuoco continuo: il tipo ‘Hoffmann’ Il brevetto, depositato a metà del XIX secolo, del forno a fuoco continuo di forma anulare ad opera dell’ingegnere ferroviario prussiano Friedrich Hoffmann (18181900)55, e la sua successiva introduzione, che iniziò in Italia dopo l’Esposizione Internazionale di Parigi del 186756, marcarono un momento molto importante nella storia della fabbricazione dei laterizi. Fu il primo passo verso l’industrializzazione dei processi produttivi. In origine il forno tipo Hoffmann aveva una pianta circolare, ma il modello più diffuso, anche nell’Italia del Nord, fu quello a pianta allungata rettangolare che permetteva di aumentare il numero delle camere e dunque la capacità produttiva. La fornace Hoffmann era formata da due gallerie anulari concentriche: la prima, di maggiore sezione, era divisa in camere indipendenti, generalmente da 12 a 18, dove erano introdotti i laterizi da cuocere, la seconda, più piccola, serviva per la circolazione dell’aria e l’evacuazione dei fumi. La ‘camera dei fumi’ era collegata alla ciminiera, il cui ruolo principale era quello di favorire, per aspirazione, la circolazione dell’aria fra le diverse camere. Nei forni Hoffmann più moderni, la ciminiera fu sostituita da estrattori meccanici. Ogni camera possedeva, sul muro esterno, una porta per il carico dei materiali da cuocere, e sulla faccia interna una condotta che sboccava nella camera dei fumi, regolabile tramite una valvola metallica. La volta delle camere era dotata di una o più aperture per l’introduzione del combustibile, dette ‘bocchette’. I muri del forno avevano uno spessore importante, di circa un metro, e erano costituiti da due muri indipendenti al fine di poter assicurare la dilatazione prodotta dalle forti variazioni di temperatura. Le pareti interne delle camere erano rivestite con dei mattoni refrattari. Spesso si ricorreva a dei rinforzi, sia dei tiranti metallici sia degli elementi lignei, per stabilizzare ulteriormente le pareti. La parte superiore del forno era utilizzata come magazzino per il combustibile e come zona per l’alimentazione delle camere. Il forno era coperto da una carpenteria in legno, sovente molto elaborata, che sorreggeva il caratteristico tetto a quattro falde che, assieme alla ciminiera, era il simbolo distintivo di questo tipo di fornace. Le ciminiere erano realizzate con mattoni di ottima qualità e potevano raggiungere delle altezze ragguardevoli, fino a 40 metri. Il funzionamento di questo forno è relativamente semplice e può essere spiegato
Le bocchette per l’alimentazione in combustibile delle camere del forno Hoffmann della fornace Marcoli a Calcinato.
Terra. Acqua. Fuoco, cit., p. 6. Butterworth, La brique, cit., p. 6. 54 Ibidem, p. 20. 55 Il progetto di Friedrich Hoffmann risale al 1856, una prima realizzazione al 1857, ma il primo vero forno anulare fu costruito a Costanza nel 1864 (Tamagno, Fornaci, cit., p. 119). 56 La fornace costruita da Candido Marcoli (1867-1940) a Calcinatello, vicino a Brescia, verso il 1867 era, secondo suo figlio Umberto, una delle prime nella regione ad utilizzare il nuovo brevetto Hoffmann (Marcoli, Ricordi di una vita, cit., vol. II, p. 150). 52 53
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Laterizi cotti Laterizi crudi
57 Questo schema è ripreso da quello presente in: Il forno Hoffmann, «Scuolaofficina», gennaio-giugno 1988, p. 3. 58 Boccalari, Fornaci & Fornaciai, cit., p. 21. Pierre Chabat riporta una capacità per i grossi forni di circa 40’000 mattoni (Chabat, La brique et la terre cuite, cit., p. 106).
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tramite uno schema (vedi figura a lato)57. Nelle camere 1 e 2 si caricavano e scaricavano i laterizi, in quelle da 3 a 6 si trovavano i materiali già cotti per il raffreddamento, il fuoco era presente in 7 e 8 e nelle camere da 9 a 12 si trovavano i prodotti crudi che si riscaldavano. L’unica porta aperta era quella della camera 2, per il carico, mentre le altre erano murate. L’alimentazione in combustibile avveniva attraverso le ‘bocchette’ delle camere 7 e 8. L’aria esterna era aspirata dalla porta 2, si riscaldava passando attraverso gli elementi già cotti, alimentava il fuoco nelle camere 7 e 8 e riscaldava i prodotti crudi prima di fuoriuscire dalla condotta della camera 12. Tra la camera 1 e 12 era costruita una parete impermeabile all’aria in elementi metallici o in mattoni. Ultimata la cottura nelle camere 7 e 8, si cominciava ad alimentare le due camere successive, si spostava la parete tra le camere 2 e 3, si apriva la porta 4, ecc. avanzando di due camere ogni 24 ore. Tra la camera dove si trovava il fuoco e le successive si costruiva una sottile parete in argilla cruda la quale, a cottura terminata, si sbriciolava naturalmente permettendo alla fiamma di avanzare. La cottura avveniva dunque in modo continuo, da cui il nome di questo tipo di forno, permettendo d’aumentare il rendimento del combustibile attraverso il recupero del calore di raffreddamento per disidratare i laterizi. Una fornace di questo tipo, una volta acceso il primo fuoco, poteva teoricamente avere un ciclo produttivo initerrotto. Il carico delle camere avveniva impilando i mattoni secondo gli stessi principi di un forno a fuoco intermittente: alcune volte si mescolava ai laterizi crudi del combustibile. La capacità di una singola camera era di circa 7000 mattoni e il carico richiedeva mezza giornata di lavoro58.
Le porte per il carico delle camere del forno Hoffmann ancora esistente presso la fornace Indemini a Monforte d’Alba.
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La cottura vera e propria, cioè il periodo durante il quale la camera era alimentata direttamente, durava circa 24 ore, alle quali vanno aggiunte il periodo di disidratazione e la fase di raffreddamento, variabile secondo le dimensioni del forno, ma comprese sempre tra i 3 e 4 giorni. La temperatura poteva essere controllata tramite la valvola che faceva variare l’apertura della camera dei fumi e attraverso il dosaggio del combustibile: grazie a ciò, la qualità dei prodotti cotti era nettamente superiore a quella dei forni intermittenti. Come combustibile si impiegava il carbone minerale, il coke, ma era possibile anche l’utilizzo di ogni altro tipo di combustibile, la scelta dipendeva spesso dal prezzo e dalla reperibilità degli stessi59. Un forno di questo tipo poteva consumare da cinque a sette volte meno di uno a fuoco intermittente di capacità produttiva analoga: si calcolavano circa 150 a 250 chilogrammi di carbone ogni 1000 mattoni60. Anche questi forni furono dotati di bruciatori per l’utilizzo di combustibili gassosi o liquidi. La capacità produttiva di un forno tipo Hoffmann variava, per un modello a 12 o 14 camere, tra 1 e 2 milioni di pezzi all’anno61.
L’interno della galleria delle camere di cottura del forno Hoffmann della fornace Vannotti a Lù.
I forni a carico mobile: il forno ‘a tunnel’ I forni attualmente utilizzati per la cottura dei laterizi sono del tipo ‘a carico mobile’, chiamati anche ‘a tunnel’62. Sono in effetti delle lunghe gallerie, rivestite all’interno con mattoni refrattari. Sono generalmente suddivisi in tre parti: una prima tratta per il preriscaldamento dei laterizi, una seconda per la cottura e infine la terza, per il raffreddamento. Il carico di laterizi si sposta lungo il forno su carrelli ricoperti da materiali refrattari, da cui il nome ‘a carico mobile’. I combustibili sono sempre gassosi o liquidi e il calore dissipato dal forno e quello liberato dai materiali che si raffreddano è recuperato e introdotto nella zona di preriscaldamento. Questi forni permettono quindi non solo una migliore cottura dei prodotti, ma anche un notevole risparmio d’energia63. Le diverse qualità dei laterizi cotti La buona qualità dei mattoni, e dei laterizi in generale, è il frutto di una buona preparazione della miscela di base, di un’accurata formatura e di una cottura omogenea a temperatura costante. La buona qualità del mattone si riconosce attraverso la rottura netta, dalla quale deve trasparire una grana omogenea, regolare, senza mescolanza di pietre. All’urto deve produrre un suono squillante. Il mattone, immerso nell’acqua, non deve assorbire più di 1/5 del suo peso d’acqua64.
Ibidem, p. 18. Knizek, Briqueterie, cit., p. 25, e Butterworth, La brique, cit., p. 6. 61 Tiziana Ribezzi, I forni Hoffmann, in Fornaci e fornaciai in Friuli, Udine 1987, p. 137. 62 Questo tipo di forno esisteva sin dalla fine del XIX secolo, ma si è affermato solo nella seconda metà del XX. Un forno a carico mobile era stato in effetti brevettato in Inghilterra da J. e C.-J. Forster verso il 1880 (Chabat, La brique et la terre cuite, cit., p. 110). 63 Knizek, Briqueterie, cit., pp. 28-30. 64 Planat, L’art de bâtir, cit., p. 145 (traduzione dell’autore). 59 60
La qualità dei laterizi era dunque controllata grazie all’aspetto degli stessi: colore rosso bruno e forma regolare con spigoli ben definiti, e in modo sperimentale su dei campioni: rottura netta e immersione in acqua. I difetti provenivano, prima dell’introduzione dei forni Hoffmann, soprattutto dalla cattiva cottura dei mattoni e dei coppi. I materiali giudicati di qualità inferiore erano macinati oppure utilizzati per la costruzione di opere secondarie. I mattoni erano divisi, secondo il grado di cottura, in ‘albasi’, poco cotti e che rappresentavano il 25% circa dei prodotti; in ‘sesoli’ o ‘mezzanelli’ di prima o seconda qualità, questi ultimi detti anche ‘mezzanelli dolci’, con un grado di cottura suffi-
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ciente e che costituivano dal 20 al 40% del totale; in ‘ferioli’ o ‘forti’ o ‘mezzanelli forti’, perfettamente cotti e molto resistenti, formanti il 20% dei materiali cotti, e in ‘stracotti’ che essendo stati troppo a contatto con la fiamma si erano deformati e vetrificati, molto duri, e che rappresentavano il 25% della produzione65. I mattoni ‘forti’ erano utilizzati, vista la loro alta resistenza, per le parti più sollecitate dei muri e nei luoghi umidi, i ‘sesoli’ di prima qualità erano destinati ai muri esterni degli edifici mentre gli ‘stracotti’ costituivano un buon materiale per le fondamenta, vista la loro ridotta porosità.
Controllo della cottura presso il forno Hoffmann della fornace Marcoli a Calcinato.
La qualità dei coppi era controllata in modo analogo a quella dei mattoni: tratto essenziale, ancora una volta, il suono squillante prodotto dall’urto. Il coppo, una volta cotto, deve suonare come una campana66.
65 Superfluo, Le fornaci e le calchere nel territorio di Montechiari, cit., p. 85. 66 Zinni, L’uomo dei ‘coppi’, cit., p. 175.
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3. Dalla produzione artigianale a quella industriale
3.1. I fornaciai: da artigiani stagionali a operai d’industria Le tecniche di fabbricazione di mattoni e coppi subirono una continua evoluzione, senza cambiamenti di rilievo, lungo il periodo che comincia con i Romani e che finisce nella seconda metà del XIX secolo, con l’introduzione delle prime macchine per la produzione in serie. Si trattava fondamentalmente di tecniche manuali. È interessante notare come l’industrializzazione della tecnica di cottura, avvenuta con i forni tipo Hoffmann, non generò immediatamente una parallela industrializzazione delle tecniche produttive. Durante tutta la seconda metà del XIX secolo, nelle fornaci, si assistette alla coabitazione tra le prime macchine e il lavoro manuale, soprattutto per le fasi di formatura. I coppi furono gli ultimi elementi ad essere prodotti manualmente67. Nell’Italia del Nord, fu soprattutto a partire dalla fine della prima guerra mondiale che la produzione meccanica si diffuse nelle principali fornaci68. La modellatura dei mattoni restava un’attività stagionale, visto che l’essiccazione avveniva ancora all’aria aperta. La cottura invece continuava fino all’esaurimento dei materiali crudi. La diffusione dei processi meccanici di produzione dei laterizi è imputabile all’introduzione del mattone forato, in sostituzione di quello pieno, nel campo dell’edilizia. In Italia, essa data dell’inizio del XX secolo e incominciò con i mattoni per i tramezzi interni e le pignatte per i solai69. Il periodo che interessa questo studio vide un completo cambiamento della concezione di fornace nell’Italia del Nord. Ad ogni tipo di fornace corrispose un particolare tipo di organizzazione del lavoro. Durante il periodo dei ‘pignoni’ si ebbe un’organizzazione che potremmo definire ‘fornace itinerante’. Questo fenomeno interessò, nel caso specifico, la prima metà del XVIII secolo. I fornaciai erano dei lavoratori stagionali che si recavano laddove la loro arte era richiesta. Durante la stagione, che durava da metà aprile fino a settembre, spesso fino all’otto di settembre, giorno di Santa Maria, i fornaciai si istallavano direttamente sui cantieri dove era loro domandato di produrre i mattoni necessari alla costruzione di un dato edificio. Finita la stagione, essi rientravano ai villaggi natii70. Erano organizzati in piccoli gruppi senza una vera e propria specializzazione e divisione dei ruoli. L’argilla era estratta in prossimità del cantiere ed era messa a disposizione dal proprietario del futuro edificio, i fornaciai si occupavano essenzialmente della trasformazione della materia prima in laterizi. Nella seconda metà del XVIII secolo si assistette all’apparizione delle prime for-
67 «Gli ultimi coppi gli ho fatti nel 1984, nella fornace di San Marco di Noale in provincia di Venezia» (Zinni, L’uomo dei ‘coppi’, cit., p. 174). 68 Nel 1908 la produzione dei laterizi era per la maggior parte manuale (Tozzi Fontana, La produzione dei laterizi in Italia attraverso l’inchiesta ministeriale del 1908, cit., pp. 7-9). 69 Tamagno, Fornaci, cit., p. 120. 70 L’emigrazione in Italia dei fornaciai di Malcantone (Svizzera), «Scuolaofficina», gennaiogiugno 1988, p. 28.
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naci a fuoco intermittente. Queste prime fornaci necessitavano di un’organizzazione diversificata e quindi apparvero delle figure specifiche per ogni fase della produzione. Questa specializzazione è legata in primo luogo alle nuove conoscenze che si svilupparono attorno al processo di cottura: il fuochista divenne un mestiere centrale nella fornace. Con l’apparizione del forno tipo Hoffmann questa diversificazione della manodopera continuò. La stagione di lavoro si divise per specialità: i mattonai continuarono a lavorare solamente durante la stagione mentre i fuochisti e gli altri operai coinvolti nel processo di cottura estesero il loro lavoro all’anno intero o fino all’esaurimento dei materiali crudi. I mattonai lavoravano circa 150 giorni all’anno, i fuochisti fino a 30071. La diffusione delle macchine per la preparazione dell’argilla e per la formatura di mattoni e tegole fu la causa della lenta estinzione dei differenti mestieri. I primi a scomparire furono i braccianti addetti alla preparazione dell’impasto d’argilla ed in seguito i mattonai furono rimpiazzati dai torchi e dalle trafile per i mattoni pieni e forati. Nello stesso tempo i carrettieri ed i loro cavalli furono sostituiti dagli autocarri. Gli ultimi a lasciare la fornace furono i tegolai dopo la diffusione delle tegole meccaniche e di quelle marsigliesi. Assieme a tutto questo mondo di figure eterogenee, abbandonava la fornace anche un certo modo di concepire il lavoro: da manifatture semi-industriali si passò a delle vere e proprie industrie, dal patto tra proprietario e lavoratori al contratto collettivo di lavoro. Le condizioni di lavoro migliorarono, ma il fornaciaio divenne un operaio come tutti gli altri; anche i fuochisti si trasformarono in semplici operai specializzati. Un mestiere antico scompariva e assieme a lui i simboli della prima industrializzazione delle regioni rurali di pianura: la maggior parte delle fornaci Hoffmann, che nella Pianura Padana erano delle manifatture di media dimensione, furono chiuse e solo le più grandi tra loro sopravvissero alla completa automatizzazione e oggi costituiscono le poche industrie ancora attive nel campo dei laterizi. Il ciclo di produzione divenne continuo; la manodopera stagionale fu sostituita da operai fissi. In Italia tutto ciò si produsse dopo la seconda guerra mondiale e fu solo in quest’epoca, quasi cent’anni dopo il brevetto del forno tipo Hoffmann, che la produzione dei laterizi poté affrancarsi dalla dipendenza dalle condizioni climatiche e stagionali che ne avevano sempre diretto lo sviluppo.
3.2. Le professioni nella fornace
71 Tozzi Fontana, La produzione dei laterizi in Italia attraverso l’inchiesta ministeriale del 1908, cit., p. 8.
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Qui di seguito sono descritte le diverse figure professionali occupate nelle diverse fasi della produzione dei laterizi, partendo dall’estrazione dell’argilla fino alla cottura. L’estrazione dell’argilla era normalmente il compito dei manovali o durante l’autunno dei mattonai. Lo strumento di lavoro principale era la zappa. Nelle regioni collinari, dove l’estrazione era più complicata poiché avveniva lungo i pendii, esisteva la figura del ‘cavamonti’. La successiva preparazione dell’impasto d’argilla era fatta direttamente dal mattonaio, dalla sua famiglia oppure, raramente, da un apprendista o da un operaio che
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Lo Stabilimento Capitania dei fratelli Perseghini a Tortona. Una grande fornace nella Pianura Padana.
si occupava esclusivamente di quest’operazione, che era allora chiamato ‘maltirolo’. Gli strumenti di lavoro consistevano nella zappa e nei piedi nudi dell’operaio. Il ‘mattonaio’ o ‘stampatore’ formava i mattoni e li posava sull’aia per l’asciugatura. Il ‘tegolaio’, in dialetto lombardo cupatt, produceva le tegole. I fornaciai, chiamati in Lombardia ‘furnasîn’, erano sempre a piedi nudi, tranne in caso di pioggia quando calzavano gli zoccoli. Portavano generalmente dei pantaloni di colore grigio, nocciola o blu, cinti in vita da grandi tessuti neri o quadrettati che servivano anche da grembiule. Una camicia a maniche lunghe, il fazzoletto al collo ed un cappello per proteggersi dal sole completavano l’abbigliamento72. Gli addetti al carico e allo scarico del forno erano gli ‘infornatori’ o ‘empitori’, che in Lomellina erano chiamati ‘bertoglieri della bianca’, che caricavano il forno, e ‘bertoglieri della rossa’, che lo scaricavano, o più semplicemente, in dialetto, bârtulè73. Essi utilizzavano dei pesanti guanti di tessuto, cuciti dalle mogli, o di cuoio, per estrarre i mattoni ancora caldi dal forno. [...] i ‘bârtulè’. Questi erano dei manovali che caricavano e scaricavano le fornaci, prima e dopo la cottura. Erano resistentissimi e forti! Solo loro erano capaci di resistere alle temperature delle fornaci dove entravano con le carriole a caricare i mattoni ancora caldi74.
Infine, vi erano gli specialisti della cottura, i ‘fuochisti’, che controllavano il fuoco e regolavano l’apporto d’aria, e i ‘carbonai’ che alimentavano il forno di combustibile: spesso il solo ‘fuochista’ si occupava di entrambe le mansioni. Non direttamente legati alla produzione, ma presenti in molte fasi della stessa, i ‘carrettieri’ o ‘cavallanti’ trasportavano, prima dell’adozione degli autocarri, le pesanti forniture d’argilla e i laterizi cotti75.
72 73 74 75
Boccalari, Fornaci & Fornaciai, cit., p. 38. Ibidem, p. 10 e nota 3, p. 40. Zinni, L’uomo dei ‘coppi’, cit., p. 173. Boccalari, Fornaci & Fornaciai, cit., pp. 27-32.
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3.3. Alcuni aspetti sociali e di organizzazione del lavoro. Uomini, donne e bambini La maggior parte delle manodopera delle fornaci, per l’Italia sicuramente fino alla fine delle seconda guerra mondiale, era formata da fornaciai che lavoravano come stagionali. Il resto dell’anno si dedicavano all’attività agricola: erano dei fornaciaicontadini. Alcuni di loro erano degli emigranti, come nel caso dei fornaciai malcantonesi. Spesso i lavori che richiedevano minori conoscenze tecniche erano svolti direttamente dalla famiglia del fornaciaio oppure da operai reclutati tra i manovali delle campagne. Questo stretto rapporto tra la campagna e la fornace era sovente causa di problemi dati dalla sovrapposizione delle due attività lungo l’arco dell’anno. Le famiglie dei fornaciai quando non lavoravano nei campi si dedicavano all’allevamento del pollame, del maiale e coltivavano gli orti: entrambe queste attività potevano trovar posto direttamente all’interno del terreno della fornace76. Le condizioni di lavoro dei fornaciai erano molto dure. La stagione di lavoro durava circa 150 giorni e si lavorava dalle 10 alle 14 ore al giorno. Questo fatto è spiegato dall’assenza di contratti collettivi di lavoro, che furono introdotti solo intorno al 1930, e dal salario a cottimo. I mattonai erano pagati sulla base dei mille pezzi prodotti e con scadenza settimanale. Gli altri operai erano anch’essi pagati a cottimo, salvo i fuochisti che ricevevano un salario fisso ed erano pagati individualmente. Le condizioni di lavoro si basavano su patti tra il proprietario e i lavoratori che comprendevano i doveri di entrambe le parti. Il proprietario era tenuto a fornire, oltre all’argilla, la sabbia e l’acqua necessari alla produzione dei laterizi, e garantiva che la produzione potesse svolgersi in modo continuo. Organizzava gli alloggi per gli operai stagionali delle regioni più discoste e li riforniva in combustibile per le cucine. Gli alloggi consistevano spesso in
76 Daniela Lombardi, La fornace: una storia immobile?, «Scuolaofficina», gennaio-giugno 1988, p. 2.
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Proprietari e operai della fornace di Luigi Gobba a Mede.
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baracche di legno o in casette di dimensioni variabili a seconda del numero di famiglie ospitate. Le condizioni igieniche erano minime: i letti erano semplici pagliericci ed i servizi igienici comuni si trovavano all’esterno. Una casa si trovava quasi sempre all’interno del terreno della fornace e ospitava un guardiano che era spesso anche un fuochista. I lavoratori si occupavano della buona manutenzione degli attrezzi messi a loro disposizione dal proprietario e si assumevano i rischi dei danni provocati dalle intemperie77. Il salario era abbastanza basso e simile a quello di un bracciante delle campagne. Sfortunatamente i documenti consultati ci forniscono poche informazioni circa l’ammontare dei salari. Vi si trovano piuttosto delle indicazioni sul costo del lavoro di un operaio che erano utilizzate dai proprietari per determinare il costo finale dei laterizi. Una nota di calcolo del 1831 riporta che il salario giornaliero di un ‘infornatore’ ammontava a 1 lira 15 centesimi e quello di un fuochista a 3 lire. Verso il 1890 i salari giornalieri oscillavano tra i 60 centesimi e le 3 lire e 50 centesimi. Nel 1900 si calcolava un salario di 18 centesimi all’ora per un bracciante impiegato nella preparazione dell’argilla e di 25 centesimi per un mattonaio78. Con l’apparizione delle prime macchine per la fabbricazione dei mattoni solo i bârtulè continuarono a lavorare a cottimo e la giornata di lavoro si ridusse a 9 ore. I mattonai, i tegolai, i bârtulè e i fuochisti erano organizzati in squadre dirette da un capo. Quelle dei fuochisti erano di due o tre persone per poter garantire un controllo continuo della cottura. I bârtulè formavano delle squadre di dieci fino a dodici persone e il cui orario di lavoro dipendeva dalla loro efficienza: dopo aver caricato e scaricato le camere del forno potevano spesso tornare a casa79. I mattonai e i tegolai erano invece organizzati per nuclei famigliari. Le donne e i bambini aiutavano nei compiti che richiedevano meno abilità tecnica, ma spesso molta forza fisica: ad esempio, il trasporto e la posa sull’aia dei prodotti per l’asciugatura. Questi gruppi erano costituiti da due, tre o più raramente un solo fornaciaio80. Il pagamento a cottimo era fatto per ogni gruppo. Il lavoro infantile traspare poco dalle fonti ufficiali, ma è ben descritto in alcune testimonianze. Dopo alcuni anni mio padre formò la sua prima squadra completa con i suoi tre figli: io ero l’ultimo, del 1913 e avevo il compito di ‘posare’ i coppi, mentre gli altri due fratelli, Luigi del 1903 e Celestino del 1907, confezionavano i coppi al banco e mio padre lavorava l’argilla. Per un ragazzo di 12 anni era in realtà un lavoro molto duro: io dovevo prendere il coppo dal banco e con la forma portarlo sul piazzale e posarlo con la dovuta precauzione per non farlo rompere o deformare. Si lavorava a cottimo e le giornate erano lunghissime: 12, 14 o forse più ore al giorno, non ricordo bene, comunque quello che ricordo bene è che quell’anno posai 196’000 coppi nei quattro mesi di lavorazione: anche 200 coppi all’ora!81 [...] vi prendeva piacere anche ad ajutare mio padre a passare i mattoni nella fornace per cuocerli; caricare i carri che venivano a prenderne e annotava nei registri la qualità e la quantità. [...] Durante tutta l’estate mi toccò lavorare più di quel che poteva, ed era troppo per la mia età; ajutava a passare i mattoni, e stava assiduo al par dei giornaglieri dall’alba alla sera, che in quei tempi non si aveva orarii. Talvolta si sentiva i muscoli addoloriti dal troppo e lungo pesante lavoro, e soprattutto quando si tiravan le terre cotte dalla fornace, oltre alla stanchezza si respirava una continua polvere, ed a forza di passare e ripassare nelle mani avveniva che la pelle delle dita si consumava, e ne sorgeva il sangue recandomi acutissimi dolori, allora li legava uno ad uno e ripigliava, quante volte non piansi di nascosto!82
77 La responsabilità era a carico del proprietario solo durante i mesi in cui il rischio era minore (Tozzi Fontana, La produzione dei laterizi in Italia attraverso l’inchiesta ministeriale del 1908, cit., p. 9). 78 Queste cifre sono state estrapolate da differenti fonti, ma un lavoro preciso ed esaustivo rimane da fare (Boccalari, Fornaci & Fornaciai, cit., pp. 22-24. Gri, In fornace nel primo Ottocento, cit., p. 116. Maurizio Buora, Dall’espansione ottocentesca alle crisi del Novecento: il caso delle fornaci di Paisano, in Fornaci e fornaciai in Friuli, cit., pp. 121-133). Nel 1882 al mercato di Mede (Pavia) i prezzi di alcuni prodotti erano: riso lire 22,34 per 100 kg; legna da ardere lire 3,70 per 100 kg; fagioli lire 19,59 per 100 kg; pane lire 0,44 al chilogrammo; carne di manzo lire 1,43 al chilogrammo (Giuseppe Amisani, Mede alle origini, «Bollettino d’agosto 1974», Mede 1974). 79 Tiziana Ribezzi, Continuità di una produzione artigianale: le fornaci Cattarossi di Qualso, in Fornaci e fornaciai in Friuli, cit., pp. 142-143. 80 Tozzi Fontana, La produzione dei laterizi in Italia, cit., p. 8. 81 Zinni, L’uomo dei ‘coppi’, cit., p. 172. 82 Memorie di Giovanni Lepori, Capriaschese, a cura della Scuola media di Tesserete, Lugano 2009, pp. 62-66.
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3.4. L’evoluzione della produzione Un semplice confronto fra i dati della produzione annua, della capacità di cottura del forno, della durata del ciclo produttivo e della cottura, permette di rendersi conto delle ripercussioni economiche dell’introduzione del forno a fuoco continuo verso la metà del XIX secolo. I dati provengono da fonti italiane, ma sono rappresentativi di quest’evoluzione. Una fornace dotata di forno a fuoco intermittente produceva annualmente da 200’000 a 800’000 laterizi, grazie ad un forno della capacità di 25-50’000 pezzi. Il ciclo di produzione durava in media 32 giorni e la cottura dalle 144 alle 192 ore. Una fornace con forno a fuoco continuo tipo Hoffmann poteva produrre annualmente da 1 a 2’000’000 di pezzi tramite un forno con una capacità di 7’000 pezzi per camera. Il ciclo produttivo durava da 3 a 4 giorni e la cottura avveniva in 24 ore. La meccanizzazione introdusse nelle fornaci un numero elevato di macchine specifiche per ogni fase della produzione, che è in contrasto con i pochi strumenti necessari al fornaciaio per il ciclo produttivo tradizionale. Ciò significò investimenti molto elevati per gli industriali sia per l’acquisto sia per la manutenzione degli impianti e spiega, almeno in parte, la riduzione del numero delle manifatture. Anche in questo caso, il confronto fra dati produttivi permette di evidenziare i vantaggi economici della produzione meccanizzata e dell’influsso sulla dimensione delle fornaci. Nell’Italia del Nord esse variavano molto a seconda delle province, nelle quali si assisteva ad un differente grado di meccanizzazione della produzione e a forme diverse d’unione associativa dei produttori. Per esempio, nel 1907 nella regione di Milano si aveva una media di 15 operai per fornace, a Torino di 22 e a Vicenza di 100 (per quel che riguarda le fornaci di Milano e Torino, che presentavano un’organizzazione tradizionale del lavoro, nelle cifre riportate non sono comprese le donne e i bambini impiegati). Spesso queste fornaci erano dotate di un solo forno, ma ne esistevano alcune che ne possedevano fino a tre. Ad esempio, la grossa fornace della Società Anonima di Paisano, in provincia di Udine, fondata nel 1860, era dotata nel 1890 di tre forni, di cui due di tipo Hoffmann, di una produzione totalmente meccanizzata, la prima in Italia, e impiegava 880 persone delle quali 550 uomini, 50 bambini, 200 donne e 80 bambine, per una produzione annuale di 15 milioni di pezzi. Alla stessa epoca la fornace Galotti al Battiferro, in provincia di Bologna, contava un solo forno Hoffmann e impiegava 50 uomini e 30 donne per una produzione annua di 6 milioni di pezzi83.
83 Buora, Dall’espansione ottocentesca alle crisi del Novecento: il caso delle fornaci di Paisano, cit., pp. 121-133 e «Scuolaofficina», gennaio-giugno 1988, p. 5.
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4. La fornace come forma d’occupazione del territorio
4.1. Dai pignoni alle manifatture: le fornaci L’evoluzione delle tecniche di cottura e produzione dei laterizi fu responsabile anche del passaggio dai ‘pignoni’, forni costruiti per una stagione, alle fornaci, intese come complessi di edifici, progettati secondo la logica produttiva dei laterizi. Le fornaci Hoffmann costituiscono il modello di sviluppo più complesso: vi si trovavano infatti sia luoghi specifici legati alla produzione artigianale sia capannoni studiati per quella industriale. Al centro della fornace si trovava l’aia84, grande piazzale nel quale erano prodotti i laterizi. L’area era divisa in zone occupate da ciascun gruppo di mattonai o tegolai. Una parte dell’aia era riservata all’asciugatura dei diversi prodotti e un’altra serviva per il deposito e la preparazione dell’argilla. Questa fase produttiva fu spostata all’interno dei capannoni con l’introduzione dei processi meccanizzati di produzione. Attorno all’aia erano disposti gli edifici, secondo le diverse fasi di produzione. Si trovavano dunque le ‘gambette’, che da rudimentali tettoie si trasformarono in veri e propri essiccatoi, in lunghe file parallele. Vi era poi il forno per la cottura, che costituiva il vero ‘cuore’ della fornace, insieme all’aia, attorno al quale si muovevano i gruppi degli empitori e dei fuochisti. I materiali cotti erano, in seguito, trasportati verso il magazzino dove i laterizi erano conservati nell’attesa di essere caricati e trasportati. L’area della fornace era, generalmente, cinta da un muro e presso l’uscita, si trovava la casa del proprietario o del direttore, che serviva anche per ricevere i fornitori e i compratori. In una fascia tra la cinta muraria e gli edifici della produzione, erano disposti gli alloggi degli operai, i servizi igienici, gli orti e altre zone adibite all’allevamento degli animali da cortile. Spesso, la cava d’argilla era costituita dai terreni adiacenti alla fornace che erano quindi attrezzati con i binari necessari per lo spostamento dei vagoncini ‘Decauville’. I terreni erano a loro volta suddivisi in ‘banchi’ per l’estrazione dell’argilla. Le fornaci si trovavano, a causa di questa forte dipendenza dalla risorsa, disperse sul territorio, spesso in corrispondenza d’importanti assi di transito, sia stradali sia ferroviari. Le grandi estensioni di terreno a disposizione erano, inoltre, necessarie per le diverse fasi di produzione, soprattuto quelle di asciugatura e essiccazione. Non sono rari i casi di fornaci sviluppatesi all’interno di borghi abitati e rifornite d’argilla dall’esterno. Queste fornaci ‘urbane’ presero velocemente la forma di in una serie di edifici a più livelli, attraverso la sovrapposizione delle differenti fasi produttive, poiché l’estensione del terreno a loro disposizione era limitato.
La fornace Avanzini a Montesilvano e il suo inserimento nel paesaggio collinare della provincia di Pescara, in un disegno del proprietario Pietro Avanzini (1956).
84 Il primo significato del sostantivo ‘aia’ indica l’area attorno alla quale sono disposti gli edifici rurali, ma, per estensione, esso è applicato anche al caso della fornace, come riportato in Lo Zingarelli. Vocabolario della lingua italiana.
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La fornace Perseghini a Albenga: una fornace ‘urbana’.
L’introduzione delle macchine e degli essiccatoi a ventilazione forzata fu decisiva per la diffusione di questo tipo di stabilimenti.
4.2. Confronto fra il tipo della cascina e quello della fornace
85 Cesare Saibene, La casa rurale nella pianura e nella collina lombarda, Firenze 1955, p. 49.
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Per realizzare questo confronto, l’area geografica è limitata alla zona della pianura lombarda, poiché in essa coabitarono, per lungo tempo, sia l’agricoltura sia la produzione dei laterizi. Ciò fu possibile grazie alle caratteristiche morfologiche di questa regione che, grazie all’importante rete irrigua, possiede terre fertili e, essendo una pianura attraversata da importanti fiumi, è una zona di sedimentazione per le argille. La possibilità di confrontare il tipo edilizio della cascina lombarda, intesa come una costruzione formata da più edifici disposti attorno a una corte chiusa85, e quello della fornace nasce dalla presenza, in entrambe, di un ‘vuoto’, che è designato dallo stesso sostantivo: l’aia. L’aia serviva in entrambi i casi per l’asciugatura e l’essiccazione dei prodotti, frutto dello sfruttamento della terra. Nel caso della cascina, questa è una fase essenziale per la conservazione dei cereali coltivati nei campi, mentre, per la fornace, ciò precede la cottura dei laterizi. L’essiccazione naturale all’aria aperta è un processo fisico per il quale è determinante la superficie di scambio. Ciò si traduce, nell’architettura della cascina e della fornace, nell’aia e nelle sue grandi dimensioni e, in seguito, nella costruzione di appositi edifici coperti, gli essiccatoi, anch’essi progettati per favorire l’essiccazione dei prodotti. La necessità di grandi superfici è un altro elemento comune alla cascina e alla fornace. In effetti, non vi era solo l’aia, ma anche l’estensione di terreno, di ‘terra’,
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che era sfruttata per la produzione. La grande estensione delle proprietà fondiarie è un segno distintivo delle grandi corti della pianura padana, così come la loro dispersione sul territorio86. Ciò era determinato dalle contingenze produttive e di organizzazione del lavoro. Il caso della fornace è, in un certo senso, analogo poiché anch’essa era dipendente dalla superficie delle cave circostanti. Cascina e fornace erano, inoltre, dei luoghi dove coabitavano produzione e abitazione, sia della manodopera sia dei proprietari, poiché il ciclo produttivo di entrambe era praticamente continuo. Inoltre, anche nella cascina della zona di coltivazione del riso, esistevano degli alloggi per la manodopera stagionale, come nel caso delle fornaci, sino all’introduzione dei processi di produzione completamente meccanizzati. Le pratiche produttive simili sono all’origine delle analogie, nell’organizzazione degli spazi, del tipo di edificio della cascina e della fornace. La somiglianza formale che si riscontra nel caso della pianura lombarda è invece imputabile all’influenza che l’architettura della cascina ha avuto su quella della fornace. Infatti, la grande cascina a corte è presente sicuramente sin dal XVII-XVIII secolo87, mentre a quell’epoca, le fornaci erano semplici ‘pignoni’ o piccoli forni intermittenti. È dunque probabile che, viste le sopraccitate caratteristiche comuni, la fornace abbia naturalmente assimilato degli aspetti formali tipici del solo modello al quale potevano ispirarsi i suoi costruttori, almeno per quel che riguarda le dimensioni e il tipo di attività.
Veduta della cava d’argilla della fornace Avanzini a Montesilvano. Disegno di Pietro Avanzini (1956).
Ibidem, p. 17. Ibidem, p. 23 e Leandro Zoppé, Vittorio Scanferla, Ticino. Natura, cultura, Milano 1990, pp. 131-142. 86 87
La fornace Bertoli a Fagaré che, tranne per la presenza della ciminiera, assomiglia ad una tipica cascina lombarda.
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Disposizioni riguardanti le fornaci e la fabbricazione dei mattoni. Manifesto della Regia Camera de’ Conti del Regno di Sardegna, Torino, 5 aprile 1825.
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Schema di una fornace a fuoco intermittente.
Cottura di laterizi all’aperto in cataste
Prospetto
Pianta
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Sezione
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Schema di una fornace a fuoco continuo, tipo Hoffmann.
Sezione
Pianta
al piano inferiore del forno
Prospetto
al piano superiore del forno
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Voci di fornaciai malcantonesi Mario Vicari
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Fornaciai malcantonesi in Savoia. Fine Ottocento.
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Nota introduttiva
Si propongono qui tre testimonianze, ascoltabili sul CD audio accluso al volume, ricavate da interviste ad anziani fornaciai del medio Malcantone. Le prime due furono registrate fra il 1979 e il 1980 per l’Archivio fonografico dell’Università di Zurigo1, che ne ha concesso la riproduzione, e la terza nel 1982 per l’Archivio delle fonti orali istituito presso l’Ufficio dei musei etnografici, confluito dal 2002 nel Centro di dialettologia e di etnografia. Per lo svolgimento delle registrazioni mi ero avvalso della collaborazione di intermediari locali, la maestra Emilia Andina di Curio per la prima e Mario Alberti di Bedigliora per le altre due, che, conoscendo da lungo tempo le persone da interpellare, erano riusciti a sollecitarne con efficacia la memoria. Non pochi aspetti accomunano fra di loro le tre testimonianze. Gli intervistati, tutti nati prima del 1900, parlano di esperienze migratorie stagionali affrontate da giovanissimi, fra i dieci e i tredici anni d’età, situabili cronologicamente fra l’ultimo scorcio dell’Ottocento e gli anni Dieci del Novecento. Le notizie, di taglio autobiografico e di prima mano, spaziano dalle tecniche di preparazione dei laterizi, viste però dall’ottica del garzone che li prendeva in consegna da un artigiano esperto e li trasportava sull’aia, all’uso dei forni per la cottura, al vitto improntato a una rigorosa parsimonia, agli scarsi guadagni. Se si considera che lo scarto temporale fra il momento in cui furono realizzate le interviste e il periodo a cui si riferiscono i fatti narrati è di circa ottant’anni per i primi due casi e di poco meno di settanta per il terzo, non possiamo che rimanere sorpresi di fronte alla ricchezza di particolari tuttora presenti alla mente dei testimoni ed espressi con tanta incisività e precisione da consentirci di immaginare, dietro le parole, i gesti dell’uomo. Quanto alle localizzazioni e ai proprietari delle fornaci menzionate, i dati a nostra disposizione sono invece purtroppo in parte lacunosi. Dopo la parentesi migratoria, Giuseppe Lorenzetti (1889-1980) di Curio diventerà casaro della latteria sociale del suo comune. A soli dieci anni parte per una fornace della Brianza, probabilmente nella zona del Pian Tivano, un altopiano a 1000 m di quota nel comune di Sormano (Provincia di Como). Oltre al proprietario, Tomaso Filippini di Pura, ha per compagno di lavoro il compaesano Giuseppe Selmoni (1839-1916), soprannominato Mipèpp. Passa poi alla mansione di addetto alla sorveglianza del fuoco in una fornace in Francia, appartenuta a Battista Andina (1838-1921) di Curio, detto Bacicino. A undici anni, Giuseppe Ferretti (1887-1981) di Banco di Bedigliora si trova già col padre e un garzone bergamasco a Ste-Croix nei pressi di Lione, località difficilmente identificabile poiché parecchi comuni francesi portano questo nome. L’alta Savoia è la prima meta migratoria di Ildo Valenti (1899-1983) di Banco di
1 Il brano 2. fu pubblicato, con note di commento, in Dialetti svizzeri. Dischi e testi dialettali. III Dialetti della Svizzera italiana: 6 Malcantone, a cura di Mario Vicari, Zurigo-Lugano, Archivio fonografico dell’Università di Zurigo, 1983, pp. 66-73 (con disco LP).
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Bedigliora che, costretto a lasciare il Malcantone per gran parte della sua vita, sarà in anni successivi dapprima fornaciaio e in seguito imbianchino nella Svizzera romanda, esperienze non comprese nel brano qui riportato. Tredicenne, trascorre la prima stagione col padre e un compagno di Novaggio nel piccolo villaggio di Champagneux presso Chambéry, in una fornace il cui proprietario alterna il commercio di laterizi alle attività contadine. Si sposta fino al 1917 ad Albens, una borgata poco lontano dalla cittadina di Rumilly, in una fornace appartenuta a Pietro Giuseppe Poncini (1846-1918) di Curio, noto per una sua battuta memorabile: pare infatti che, quando rientrava in paese per le feste, fosse solito esclamare: Tremará ur govèrnu, ma mía ur Puncín d’invèrnu! (Tremerà il governo, ma non il Poncini d’inverno!). Le tre testimonianze vengono riprodotte più sotto in una trascrizione dialettale 2 affiancata dalla traduzione italiana. Il dialetto impiegato dagli intervistati rispecchia le caratteristiche di pronuncia delle parlate locali del medio Malcantone 3 ed è connotato da vocaboli e locuzioni che rendono conto degli attrezzi e delle azioni compiute dal fornaciaio all’epoca in cui la produzione era svolta in forma interamente artigianale. Scopo delle interviste non era tuttavia di allestire un repertorio esaustivo della terminologia di questo settore, ma di penetrare, sulla scia dei ricordi, nel vissuto degli ultimi testimoni che ne furono partecipi di persona, lasciando ai nostri interlocutori la maggior libertà possibile d’espressione ed evitando di costringerli entro una rigida griglia di domande.
2 Per la riproduzione dei testi si adotta il “Sistema di trascrizione” del Lessico dialettale della Svizzera italiana, Bellinzona, Centro di dialettologia e di etnografia, 2004, vol. 1, pp. 20-22. 3 Per i tratti fonetici delle parlate malcantonesi, cfr. Dialetti svizzeri, citato alla n. 1, pp. 13-19.
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1. A dieci anni in una piccola fornace della Brianza Giuseppe Lorenzetti di Curio a colloquio con Emilia Andina
. A. - Sentí m pò, Sèpp, quanti ann a gh’ii? L. - Gh’ó nuvant’ann! A. - E quanti ann a… a gh’íuv quan ch’a sí nai in Itaglia? L. - Dés ann. A faum pòch, ma par nüm fiöö l’è… l’éve giá tròpp, nè. Bégna levá s® ra matín che l’è ammò nòcc. E… e pö a duéum fá un… un cincént métri a pè, è, a pè piatt, è, cume ch’a gh di≈éum nüm, a pè piatt, parchè scarp a gh n’éum mía. Gh’éum i zòcur. E r rèst andáum tütt a pè piatt. A. - E che lavór a fauv? L. - A pu≈aa i cópp. A. - Alóra la… a lavuráuv in d’una furnás. L. - In d’una furnás, sí: una pícola furnás però, è. A. - Una pícola. L. - Da chi mmò ara mòda végia. U gh’éve gi® r pòru Mipèpp. A. - E… e r vòss lavór quá ch’a l’éva? L. - L’éva da… da portá vía l materiál ch’i… ch’i impastava lí n du banch, a métel in dr’èra e comudall bén, par… parchè l’è facil ch’i… ch’i… ch’i bürla gi®, comudái bén. E lí, e… e ná tögh ur’aqua, ná tögh ura mólta, gh n’è tanti da facc da faa. Lí ar banch l’éva dumá vün, è, chéll ch’a fava i cópp. E chéll ch’a fava i cópp u duvée véss ispeciali√ò, mía… mía… mía véss u… un nuvèll, nè. U duvée véss bón, parchè s’u guasta u… ura mólta – di vòlt u ra… u ra… u ra mpasta mía bén o ch’a l’è tròpa mòla – e… e lí u fa… u fa mía i lavór giüst: bégna ch’i sía bón. Cura mólta, prim u ra lavurava bén s® in du banch, è. U gh’an sará stacc s® un… un dü≈ént chili, nè, mía ammò bén lavurada. Dòpo chéll óm lí u ra lavurá… taiava gi® n tòcch, pö, avanti, u r lavurava, u r fava ní bèll. Fava ní béi. Can che l’éa bén… bén lavurád ista mólta, u ra metée dént in du stamp: pam! U ra picava dénta. E pö cui man u ndava dré a mpiení bén, mpiení bén, e pö in ültum u brancava un assétt, apòsta però nè, da légn dür. E… e u ga r tirava s®, tirava vía ra mólta ch’a cresséva, che gh’éva da pi®. Can ch’a l’éva prónt, dòpo u m dava… u m dava u… ur stamp da métegh
. A. - Sentite un po’, Sèpp, quanti anni avete? L. - Ho novant’anni! A. - E quanti anni avevate quando siete andato in Italia? L. - Dieci anni. Facevamo poco, ma per noi ragazzi è… era già troppo, neh. Bisogna alzarsi la mattina che è ancora notte. E… e poi dovevamo fare un… un cinquecento metri a piedi, eh, a pè piatt, eh, come dicevamo noi, a piedi nudi, perché scarpe non ne avevamo. Avevamo gli zoccoli. E del resto andavamo sempre a piedi nudi. A. - E che lavoro facevate? L. - Posare i coppi. A. - Allora lavoravate in una fornace. L. - In una fornace, sì: una piccola fornace però, eh. A. - Una piccola. L. - Di quelle ancora alla maniera vecchia. C’era giù il povero Mipèpp [= Giuseppe Selmoni di Curio]. A. - E il vostro lavoro qual era? L. - Era di… di portare via il materiale che… che impastavano lì sul banco, metterlo sull’aia e sistemarlo bene, per… perché è facile che… che… che i coppi si appiattiscano, sistemarli bene. E lì, e… e andare a prendergli l’acqua, andare a prendergli l’argilla, ce ne sono tante di faccende da fare. Lì al banco era solo uno, eh, quello che faceva i coppi. E quello che faceva i coppi doveva essere specializzato, non… non… non essere un novellino, neh. Doveva essere capace, perché se guasta l’argilla – certe volte la… la… non la impasta bene oppure è troppo molle – e… e lì fa… non fa i lavori nel modo giusto: bisogna che siano capaci. Con l’argilla, prima la lavorava bene su sul banco, eh. Ce ne saranno stati su un duecento chili, neh, non ancora ben lavorata. Dopo quell’uomo lì la lavorava… tagliava giù in pezzi, poi, avanti, la lavorava, la faceva diventare bella. Li faceva diventare belli. Quando aveva ben… ben lavorato quest’argilla, la metteva dentro nello stampo: pam! La ficcava dentro. E poi con le mani plasmava per riempire bene, riempire bene, e poi da ultimo prendeva un’assicella, apposta però neh, di legno duro. E… e gliela passava sopra, tirava via l’argilla che cresce131
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sótt. E l® u ra fava ní, u fava ní gi® ra mólta, ada≈i ada≈i, ma tüta compatta, nè. Fava ní gi® sóra r mè stamp: i è da légn. E can che l’éve gi®, mí brancava s® r mè stamp e ndava lá n dr’èra e r metéva gi®: e r pruvava bén s’u ndava bén, dòpo r carezzava, um pu sciá um pu lá, e pruvava a tirá föra u…
A. - … ur assétt. L. - … chéll ass sótt, a vedé ch’u stava s® bén. Alóra: föra! E dòpo, l®, ur cópp u stava lí. A. - E dòpo l® u ndav’a tönn di altri. L. - E giá, intant che… parchè u gh’ée sémpru d®… d® stamp, è. A. - E quant témp i restava lí in dr’èra? L. - Se l’ée témp bèll… una giurnada l’ée mía assée, è, dificil. Ma se l’ée bèll, l’ée um pó da vént, a témp da sira s pudée mövei. Tüiéve s® e i metém im pée, vün tacch al’altro. E dòpo i… i séca püssé bén im pée che büté sgi®. A. - E quan che i éva béi sécch? L. - Quan che i ée béi sécch a i metém sótt ar pórtegh, bén met®. A. - Quant témp i stava lí? L. - Segónd, hö. Can che i è sécch, che i gh’a pién i fórni lá, alóra i pizza r fögh e, avanti, u va nnanz. Ma un cinch sés més i dév sémpru stá sótt ar pórtegh. I dév fá nca ra scòrta, è, da végh lí tanta scòrta: che can ch’i pizza r fögh, dòpo, fin che i a finíd, i smòrse mía, è, r fögh. U va sémpru innanz, ur fögh u gira, u gira sémpru. E bégna ch’i gh’ébia ur materiál da cös, è. Ma i fa pö cös tanti quadréi, è, e pianèll: i vü≈a tant pianèll in Itaglia, è. A. - Par ná gi® in Itaglia a lavuraa, che strada fauv? L. - Andáum vía da chí, ndáum a Cóm. A. - A pè? L. - Nò nò. A Cóm andáum… a Ciass cur… cur… cur trén, da Lügán a Ciass. Pö da Ciass a… da Ciass a ná gi® a Cóm a gh’è pòch, è. Chéll a l faum a pè. E pö dòpo gh’ée l batèll da lí, da Cóm, ch’a menava dént… adèss mí l tégni mía da mént. E pö dòpo da lá, u gh’ée da fá s® na… una muntagna cun s® r balüsción in… in spala, è. Séum in trii. ¬e, l’è na muntagna che gh’andava almén un’óra e mè√a ná in scima. E dòpo in scima u gh’ée un gran pian, i gh di≈éve ur Pian Tüann. Ma… e i ndava s® cui bésti d’estád s® s® lá. 132
va, che c’era in più. Quando era pronto, dopo mi dava… mi dava lo… lo stampo [= la forma] da mettergli sotto. E lui la faceva venire, faceva venire giù l’argilla, adagio adagio, ma tutta compatta, neh. La faceva venire giù sopra il mio stampo: sono stampi di legno. E quando era giù, io prendevo su il mio stampo e andavo là sull’aia e lo mettevo giù: e provavo bene se andava bene [= se il coppo non si appiattiva], dopo l’accarezzavo, un po’ qua un po’ là, e provavo a tirare fuori la… A. - … l’assicella. L. - … quell’asse sotto, per vedere se stava su bene. Allora: fuori! E dopo, lui, il coppo stava su. A. - E dopo lei andava a prenderne degli altri. L. - Eh già, intanto che… perché c’erano sempre due… due stampi, eh. A. - E quanto tempo restavano lì sull’aia? L. - Se il tempo era bello… una giornata non era abbastanza, eh, è difficile. Ma se era bello, c’era un po’ di vento, entro sera si poteva muoverli. Li prendevo su e li mettevamo in piedi, uno vicino all’altro. E dopo seccano meglio in piedi che buttati giù. A. - E quando erano bei secchi? L. - Quando erano bei secchi li mettevamo sotto al portico, ben disposti. A. - Quanto tempo stavano lì? L. - Secondo, oh. Quando sono secchi, che là hanno i forni pieni, allora accendono il fuoco e, avanti, va innanzi. Ma un cinque o sei mesi devono sempre stare sotto al portico. Devono fare anche la scorta, eh, per avere lì tanta scorta: che quando accendono il fuoco, dopo, fin che hanno finito, non spengono, eh, il fuoco. Va sempre innanzi, il fuoco gira, gira sempre. E bisogna che abbiano il materiale da cuocere, eh. Ma fanno poi cuocere tanti mattoni, eh, e pianelle: usano tanto le pianelle in Italia, eh. A. - Per andare giù in Italia a lavorare, che strada facevate? L. - Andavamo via da qui, andavamo a Como. A. - A piedi? L. - No no. A Como andavamo… a Chiasso col… col… col treno, da Lugano a Chiasso. Poi da Chiasso a… da Chiasso ad andare giù a Como c’è poco, eh. Quello lo facevamo a piedi. E poi dopo c’era il battello da lì, da Como, che conduceva dentro… adesso io non tengo a mente. E poi dopo da là, c’era da salire una… una montagna con su il fagotto in… in spalla, eh. Eravamo in tre. Eh, è una montagna che ci voleva almeno un’ora e mezza per arrivare in cima. E dopo in cima c’era un grande altopiano, lo chiamavano il Pian Tivano. Ma… e andavano su con le bestie d’estate su là.
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A. - E dörmii? Indè ch’u dörmiva? L. - Sóra ara cü≈ina, gh di≈éum, l’ée pö ura stala di… di cavri da… d’invèrno, lí inscí. I tegnéve dént i cavri, darsètt o disdòtt cavri: i tegnéve dénta lí. Ma però i ée giá d’acòrdi cur padrón da furnás da lassala líbera, da lassái liber de… par métt dénta… a séum in trii. E difati a… a sc… scuvava föra cur’iscuva da bèdra, è. A. - E mangiaa? Cuss’a mangiavel? L. - Mangiaa: ara matín l’ée cafè e lacc, ma l’ée püssé aqua che r rèst, è. Ma gh’éum pö sémpru tanta fam che a mangiáum istéss, è. E i gh’éve r pan bón, vè, gi® lá: òorca che pan! U s mangiava nca sénze r lacc. L’éve bón, ara matín. E dòpo a mesdí vün u vignév’a cá: o fá ra pulénta o fá ra… o ra minèstra o ra süpa. Ura süpa cun… metéen dó tré patati. E r rèst l’è aqua, è, e lard. Gi® lá l’éve tütt lard ch’a viagiava. E pan! E pan e gh’ée naótt. Ara sira istéss: o ra süpa o ra minèstra. Veramént a sévi sémpru mí ch’a… ch’a vignév’a cá a… a inviá r fögh e… A. - … e fá da mangiaa. L. - … e fá da mangiaa. A. - É. L. - Del rèst u… i fava mai naótt, vè. Carn, mí n’ó mai vist in tütt ur témp. Vin, sí. å, vin, e l’éva bón s® s® lá. Ma gh’ée pö nca r’aqua bóna s® s® lá, nè. E begnava béven anca da chéla. A. - ∆vel bén pagò? L. - ıö! Setanta franch ur… ur prim ann! A. - Par tüta ra stagión? L. - Tüt’ura stagión: apríl, mag, giügn, lüi e góst. E ara fin d’agóst a vignéum a cá. Ma u pagava tütt ur padrón, vè. Ma mí só mía indó ch’u ndav’a t∑ i ghèi da pagaa. Che u duée pagám mí, ma mí u m pagava mía, u m pa… u gh’ai dava pö ar mè pá, a cá. A mí u m n’a mai dai: gnanca… gnanca ur cinch ghèi da métegh dént in gé≈a, hè hè. A. - E ur padrón ével da chí? L. - L’éve da Püria. L’éva Filipini da… da parentèla, Toma≈o. Dòpo sum nacc in Francia, ammò bòcia, anca lá, nè. A. - A fá r stéss lavór? L. - Sí sí sí, n da furnás. Ma lá l’éve na furnás um pó püssé m pióta, bén facia. A fava fögh però, pi® a lavuraa… fögh. A. - Ur föghista. L. - Föghista, n da furnás. A. - Sí sí. L. - E séum in d®, mí e r fi∑ du… du… du Giuanín da Mu-
A. - E dormire? Dove dormiva? L. - Sopra la cucina, dicevamo, era poi la stalla delle… delle capre da… d’inverno, lì. Tenevano dentro le capre, diciassette o diciotto capre: le tenevano dentro lì. Ma però erano già d’accordo col padrone della fornace di lasciarla libera, di lasciarle libere di… per mettere dentro… eravamo in tre. E difatti si scopava fuori con la scopa di betulla, eh. A. - E mangiare? Cosa mangiava? L. - Mangiare: alla mattina era caffè e latte, ma era più acqua che il resto, eh. Ma avevamo poi sempre così tanta fame che mangiavamo lo stesso, eh. E avevano il pane buono, veh, giù là: orca che pane! Lo si mangiava anche senza il latte. Era buono, alla mattina. E dopo a mezzogiorno uno veniva a casa: o fare la polenta o fare la… o la minestra o la zuppa. La zuppa con… mettevano due tre patate. E il resto è acqua, eh, e lardo. Giù là era sempre lardo che circolava. E pane! E pane e non c’era nient’altro. Alla sera lo stesso: o la zuppa o la minestra. Veramente ero sempre io che… che venivo a casa a… ad avviare il fuoco e… A. - … e fare da mangiare. L. - … e fare da mangiare. A. - Eh. L. - Del resto non facevano mai niente, veh. Carne, io non ne ho mai vista in tutto il tempo. Vino, sì. Ah, vino, ed era buono su là. Ma c’era poi anche l’acqua buona su là, neh. E bisognava berne anche di quella. A. - Era pagato bene? L. - Ooh! Settanta franchi il primo anno! A. - Per tutta la stagione? L. - Tutta la stagione: aprile, maggio, giugno, luglio e agosto. E alla fine d’agosto venivamo a casa. Ma era il padrone che pagava, veh. Ma io non so dove andava a prendere i soldi per pagare. Perché doveva pagare me, ma, quanto a me, non mi pagava, mi pa… li dava poi al mio papà, a casa. A me non ne ha mai dati: neanche… neanche il cinque centesimi da mettere in chiesa, eh eh. A. - E il padrone era di qui? L. - Era di Pura. Era Filippini di… di cognome, Tommaso. Dopo sono andato in Francia, ancora garzone, anche là, neh. A. - A fare lo stesso lavoro? L. - Sì sì sì, nella fornace. Ma là era una fornace un po’ più in ordine, ben fatta. Ero addetto al fuoco però, non più a lavorare… fuoco. A. - Il fuochista. L. - Fuochista, nella fornace. A. - Sì sì. L. - Ed eravamo in due, io e il figlio del… del… del Giuanín 133
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rísc, ur pòru Pédro. Séum d®, a gh va… a gh va véss in d® parchè… A. - Vün dar dí e n alt da nòcc. L. - ¬co. A. - ¬co. L. - Gh va véss in d®. A. - Cèrt.
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[= Giovanni Amadò] di Moriscio, il povero Pietro. Eravamo due, bisogna… bisogna essere in due perché… A. - Uno di giorno e l’altro di notte. L. - Ecco. A. - Ecco. L. - Bisogna essere in due. A. - Certo.
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2. Padre e figlio in una fornace nei pressi di Lione Giuseppe Ferretti di Banco di Bedigliora a colloquio con Mario Alberti
F. - A sóm nacc vía da chí, sém nai in Francia, lí vi≈in a Lión, i gh di≈év’a Ste-Croix, a fá r furna≈èe. A. - Quanci ann a gh’évet? F. - Séve un sómes: a sée mía tant grand, a vündes agn. A. - Alóra: cume l’éva spartíd ul lavór? F. - å, l’éve spartíd… Cumenzav’ara matín: mí a levava s®, a m tucava ná a cribiá ra sabia, parchè ra sabia la gh va s® fina, par insabiá – a gh di≈um insabiá i stamp – parchè i è bagnaa, la taca lá. Ur bergomín u preparava ra… ura mòlta föra, parchè u r’éve giá facc ur dí prima. Mè pá u metéva s® r sò cavalétt. E pö u cumenzav’ul trin e tran: mè pá a fá quadréi; mí, tram tram, a t∑ s® e ná a méti in tèra; e chéll alt bergomín u turnava a métt a pò… a fá mmò tèra par’indomán. U gh’éva la tèra, ch’i ra menava i bacán d’invèrn, parchè i ra ména prima: la dév sgerá, è. Dòpo l® u ciapava sta tèra cun sc… na sapa. A. - Che l’è tèra créda. F. - Tèra créda. O ra sapava tüta e pö o gh trava s® chéll quantitatív d’aqua, cume ncöö, sí, ur prim dí ch’a séve lá, e lóra lé la l’assorbiva. Ar’indomán, chéla tèra lí, l® u ra rügava: e nnanz e ndré e ns® e taiala e tütt! Tütt cui man. A. - Cui man? F. - Tütt cui man, u taiava gi® cui man inscí: ∑ giá! A. - E dòpo, a fauv anca i cópp, nò? F. - ¬co, finíd u… i… i quadréi, a faum i cópp. U i fava pö l mè pá, è, mí… mí a i puntava. A. - ∆, ma c… cum’a s fava a fá i cópp? F. - U gh’éve ul stamp e u gh’éva cóme n ass. U gh’éve stu stamp, l’éve lóngh cóme l cópp, solamént l’éve l spessór domá nscí, e facc um pò ch’u ndava s® nscí cóme i cópp. Quant che l’éve finíd da fá… – u gh trava dént sta tèra, u ra lavurava cui man e cun sta randa – quan l’éva finíd, l® u valzava s® istu stamp cur… cur na man, e con chél’alta man, dadré, inscí, u puntav’ul stamp. Mí a metéva sótt ra
F. - Sono andato via da qui, siamo andati in Francia, lì vicino a Lione, dicevano a Ste-Croix, a fare il fornaciaio. A. - Quanti anni avevi? F. - Ero alto una spanna [lett.: Ero un sommesso]: non ero mica tanto grande, a undici anni. A. - Allora: come era spartito il lavoro? F. - Ah, era spartito… Cominciavo alla mattina: io mi alzavo, mi toccava andare a cribrare la sabbia, perché la sabbia bisogna che sia fina, per insabbiare – diciamo insabbiare gli stampi – perché sono bagnati, vi resta attaccata. Il bergamasco preparava la… l’argilla fuori, perché l’aveva già impastata il giorno prima. Mio papà metteva in piedi il suo cavalletto. E poi cominciava il trin e tran: mio papà a fare mattoni; io, tram tram, a prenderli su e andare a metterli in terra; e quell’altro, il bergamasco, tornava a mettere a posto… a impastare ancora terra per l’indomani. Aveva la terra, che la portavano i contadini d’inverno, perché la portano prima: deve gelare, eh. Dopo lui rimuoveva questa terra con una zappa. A. - Che è argilla. F. - Argilla: la spezzettava tutta con la zappa e poi vi buttava su un certo quantitativo d’acqua, come oggi, sì, il primo giorno che ero là, e allora l’argilla l’assorbiva. All’indomani, quella terra lì, lui la rivoltava: e innanzi e indietro e insù e tagliarla e così via! Tutto con le mani. A. - Con le mani? F. - Tutto con le mani, tagliava giù con le mani, così: eh già! A. - E dopo, facevate anche i coppi, no? F. - Ecco, finito il… i… i mattoni, facevamo i coppi. Li faceva poi il mio papà, eh, io… io li posavo in terra. A. - Eh, ma come si faceva a fare i coppi? F. - C’era lo stampo e c’era come un’asse. C’era questo stampo, era lungo come il coppo, solamente aveva lo spessore più sottile, e fatto un po’ che andava su così [= a trapezio] come i coppi. Quando aveva finito di… – vi gettava dentro questa terra, la lavorava con le mani e con questa randa [= regolo di legno per levigare la superficie] – quando aveva finito, lui alzava su questo stampo con… con una mano, e con quell’al135
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mè cupèra: ul cópp u tocava chéll ass lí, u rivava gi® giüst, mí tüiée s® ra mè cupèra, e ra tèra l’andava dré a sta cupèra. Quan che l’éve dré ara cupèra, mí a tüiée s® e ndava in da sta piazza a méti gi® in tèra: a francái, pulíi.
A. - Cun cussè pulivet? F. - A gh trava s® m pò d’aqua prima da ná vía, lí. E dòpo a i puliva cura man: parchè cur’aqua, cun sta tèra, tu tiret s® ra man, la végn lissa, è. E pö dòpo, a tegnée lá n did e √acch! A tiráa föra sta… ura… ra cupèra, e r cópp u restava s® m pée, anca sebén l’éva mía sécch: sta s®, è! Di vòlt u n’endáa gi® n quaiv®n, o düü, ma s’u ndáa gi® chéll di trii, u rivava na randada in süi ciapp, nè! Parchè l mè pá u m di≈ée: “Ma, oéi, tu… tu drömet, è!”. Vía da lí, quand i éva… i éva facc chéll quantitatív che ndava dént in da furnás tra quadréi e cópp, a cumenzáum a méti dént in da furnás. Mpiníum ista furnás: quan l’éva s® a chél’altézza, a m regòrdi bén, i ée tücc quadréi e pö dòpo metéve lá i cópp. E pö sóra ai cópp, meté s® mmò una quantitá da quadréi. E quan i éa bén cöcc, u vegnéve s® ur fögh in scima. E lóra a cumenzáum a stupágh ul… i… i bócch – a gh di≈éum i bócch indú ch’i trava dént i fassinn – e pö s® sóra gh bütava s® un tant inscí da tèra, parchè se nò u gh va dént ur’aria, i s’invénta, e i rèsta da scart.
A. - Quanci còtt a fauv in d’un ann, in d’una stagión? F. - Fava tré còtt: e só pi® ul quantitatív, quanci mila ch’a duvéva véss. A. - Tré còtt in quanci més? Quan ch’a la cuminciáuv ra stagión? F. - ¬, andáum lá m principi d’apríl: ur ültom ann a sém nücc a cá um pò prést, a metá d setémbra, parchè anca l mè pá l’è… l® l’éva… l’éva curdò par chi tanti mila. A. - E na vòlta che i éva cöcc i cópp e i quadréi, chí ch’a vegnév’a töi dòp? F. - I ve… mandava s® l®, ur padrón da furnás, cui cavái a töi. Ma dòpo i a dismet® parchè u n’endava pòch. A. - Cun cussè, cul carétt, i vegnév’a töi? F. - I vegnéva s® cun chi tombereaux ch’i gh’éva lór: chi caritt da dó ròd. E nüm a gh’a i caregáum s® e ndáum, sénze cüntái nè naótt: parchè l® l’éva chi… chi tré furná… 136
tra mano, di dietro, così, spingeva lo stampo. Io mettevo sotto la mia cupèra [= forma convessa su cui viene modellato il coppo]: il coppo toccava quell’asse lì, arrivava giù esattamente [= sulla cupèra], io alzavo la mia cupèra, e la terra si adagiava su questa cupèra. Quando era adagiata sulla cupèra, io prendevo su e andavo in questo spiazzo a mettere giù i coppi in terra: a fissare i bordi contro la terra, lisciarli. A. - Con cosa lisciavi? F. - Vi versavo sopra un po’ d’acqua prima di andare via, lì. E dopo li lisciavo con le dita: perché con l’acqua, passi sopra le dita su questa terra, diventa liscia, eh. E poi dopo, tenevo fermo con un dito e zac! Tiravo fuori questa… la… la cupèra, e il coppo restava su in piedi [= non si appiattiva], anche se non era secco: sta su, eh! Certe volte ne andava giù un qualcuno, o due, ma se andava giù il terzo, arrivava un colpo di randa sulle chiappe, neh! perché il mio papà mi diceva: “Ma, oehi, dormi, eh!”. Finito quel lavoro lì, quando avevano… avevano fatto quel quantitativo tra mattoni e coppi che ci stava dentro nella fornace, cominciavamo a metterli dentro nella fornace. Riempivamo questa fornace: quando era riempita fino a una data altezza, mi ricordo bene, erano tutti mattoni e poi dopo mettevano su i coppi. E poi sopra ai coppi, mettevano su ancora una quantità di mattoni. E quando erano ben cotti, veniva su il fuoco in cima [= uscivano le fiamme dall’alto]. E allora cominciavamo a otturare il… le… le bocche – le chiamavamo bocche le aperture dove si buttavano dentro le fascine – e poi su sopra vi buttavano su uno strato così di terra, perché se no ci va dentro l’aria, i laterizi si screpolano e restano di scarto. A. - Quante fornaciate facevate in un anno, in una stagione? F. - Facevano tre fornaciate: e non so più il quantitativo, quante migliaia dovevano essere. A. - Tre fornaciate in quanti mesi? Quando la cominciavate la stagione? F. - Eh, andavamo là in principio d’aprile: l’ultimo anno siamo venuti a casa un po’ presto, a metà di settembre, perché anche il mio papà è… lui era… era ingaggiato per quelle tante migliaia. A. - E una volta che erano cotti i coppi e i mattoni, chi veniva a prenderli dopo? F. - Il padrone della fornace mandava su lui a prenderli coi cavalli. Ma dopo hanno smesso, perché se ne smerciavano pochi. A. - Con cosa, col carretto, venivano a prenderli? F. - Venivano su con quei tombereaux che avevano loro: quelle carrette a due ruote. E noi glieli caricavamo su e andavamo, senza contarli né nient’altro: perché lui era ingaggiato
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tré cöcc lí, e… e… e basta. Ur’®ltoma però la lassáum dénta. Ur’®ltoma furnás, quan l’éve còta, invéce da disfurna≈á la lassáum dént, parchè a di≈um: “Quand a rivum pö lá sta primavéra, ch’u piöv, a gh’am ur témp da tirá föra chéla lí”. A. - A che óra ncuminciáuv ala matín a lavurá? F. - E ra matín, è è, ai quatr’ór, föra! A. - E mangiá, stauv bén da mangiá? F. - Mangiá, mai patíd ra fam! A faum sémpra süpa. Sichè i fava ra süpa ara sira: mangiáum quéla süpa lí, n tuchétt da panzéta e m pò da chéll furmacc, i gh’di≈ée furmacc bl∑, che di vòlt bü≈ögnáa digh: “Férmet!”. U ndava è! ∆, ma l mangiáum istéss è.
per quelle… quelle tre forna… tre fornaciate lì, e… e… e basta. L’ultima però la lasciavamo dentro. L’ultima fornaciata, quando era cotta, invece di sfornaciare la lasciavamo dentro, perché dicevamo: “Quando arriviamo poi là questa primavera, se piove, abbiamo il tempo di tirare fuori quella lì”. A. - A che ora incominciavate alla mattina a lavorare? F. - E la mattina, eh eh, alle quattro, fuori! A. - E mangiare, stavate bene da mangiare? F. - Mangiare, mai patito la fame! Facevamo sempre zuppa. Sicché facevano la zuppa alla sera: mangiavamo quella zuppa lì, un pezzetto di pancetta e un po’ di quel formaggio, lo chiamavano formaggio blu [= formaggio a pasta molle molto maturo], che certe volte bisognava dirgli: “Fermati!”. Camminava da solo eh! Eh, ma lo mangiavamo lo stesso eh.
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Convoglio della ferrovia Ponte Tresa-Luino, detto trampuss, a Cremenaga. Inizio Novecento.
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3. Dal 1912 al 1917 nelle fornaci della Savoia Ildo Valenti di Banco di Bedigliora a colloquio con Mario Alberti
A. - Quanci ann t’é lavurò cume furna≈èe? V. - Cume furna≈èe mí ó lavurò, è, fin al milanövcenvintissètt. A. - Da quand? V. - Du mila… du milanövcendódes. Prim d® ann mí ó lavurád in Francia. In vüna, ch’a gh’éva trédes ann. E dòp ó lavurád in chél’alta in témp da guèra du növcensédes: alóra a gh’éva giá dersètt ann. A. - In Savòia. V. - In Savòia. Ur paés, ur prim l’éva Champagneux: e l’éva vi≈ín a Chambéry. E ora segónda l’éva a Albens: l’éva püssè vi≈ín a… ara Svízzera e a Rumilly. Rumilly l’éva giá… u s rivava lí giamò in sur Lac du Bourget [?] inscí. A. - E par ná lá, cun cussè ch’andáuv lá? V. - Dónca, par ná lá, ura prima vòlta du… du növcendódes, a sém nai a Cremenaga a ciapá ur trampuss, cumè ch’i gh ciamava chéll tram ch’a gh’éva, nè. E dòpo ém ciapád ur trén in Itaglia e am fai Nuara, Türín e Modana, a sém rivá för’a Chambéry. E dòpo m’a tucád fá… da Chambéry ciapá ammò un trén in Francia, par rivá s® vi≈ín indú ch’a duvéum ná nüm. E gh’éa mmò sés chilòmetri par ná ar país, ar paés indú ch’a duvéum ná, i è nücc a töm cun un sciarabán. Ur padrón l’è nücc a töm cun un sciarabán cul cavall. A. - E séuv lá n tanci dénta par sta furnás? V. - Dónca, n da furnás lá indú ch’a séva i prim agn, ur prim ann, a séum mía in tanc, a séum in trii: mí e r mè pá e vün da Nuásg ch’i gh ciamava ur Nésc. E dòpo ur padrón, im medé≈im témp che l’éva pruprietari da sta furna≈éta, l’éva nca pai≈án. Che quan ch’u gh’éva ur mumént du gran, du fén o da vendémia, u fermava ra fábrica, ndáum a fá chéll mesté lí. Ndáum a fá ra vendémia, ndáum a fá ur fén e ndáum a… parchè u gh’éva vacch e… e böö e cavái. A. - E… e tí sa favet? V. - Mí a… a p… a pu≈ava sti quadréi e sti cópp e sti tüill
A. - Quanti anni hai lavorato come fornaciaio? V. - Come fornaciaio io ho lavorato, eh, fino al 1927. A. - Da quando? V. - Dal mille… dal 1912. I primi due anni io ho lavorato in Francia. In una fornace, quando avevo tredici anni. E dopo ho lavorato in un’altra in tempo di guerra nel 1916: allora avevo già diciassette anni. A. - In Savoia. V. - In Savoia. Il paese, il primo era Champagneux: ed era vicino a Chambéry. E la seconda era ad Albens: era più vicino a… alla Svizzera e a Rumilly. Rumilly era già… si arrivava lì già sul Lac du Bourget [?] così. A. - E per andare là, con cosa andavate là? V. - Dunque, per andare là, la prima volta nel… nel 1912, siamo andati a Cremenaga a prendere il trampuss [= ferrovia Ponte Tresa-Luino], come chiamavano il tram di quei tempi, neh. E dopo abbiamo preso il treno in Italia e abbiamo fatto Novara, Torino e Modane, siamo arrivati fuori a Chambéry. E dopo ci è toccato fare… da Chambéry prendere ancora un treno in Francia, per arrivare su vicino a dove dovevamo andare noi. E c’erano ancora sei chilometri per andare al paese, al paese dove dovevamo andare, sono venuti a prenderci con uno sciarabán [= carro per il trasporto di persone o merce]. Il padrone è venuto a prenderci con uno sciarabán col cavallo. A. - Ed eravate là in tanti in questa fornace? V. - Dunque, nella fornace là dov’ero i primi anni, il primo anno, non eravamo in tanti, eravamo in tre: io e il mio papà e uno di Novaggio che chiamavano il Nésc. E dopo il padrone, nel medesimo tempo che era proprietario di questa piccola fornace, era anche contadino. Così che quando era il momento del grano, del fieno o della vendemmia, chiudeva la fabbrica, andavamo a fare quel mestiere lì. Andavamo a fare la vendemmia, andavamo a fare il fieno e andavamo a… perché aveva vacche e… e buoi e cavalli. A. - E… e tu cosa facevi? V. - Io posavo questi mattoni e questi coppi e queste tegole 139
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ch’i fava. Ma i fa≈éva mmò chi tüill redónd: redónd cu… cur nas da tacái s® ar listón. E lóra ur mè pá u i fa≈éva lí n su… sura ar banch, cu… cun sti istrümént ch’a gh’indava. E mí andav’a pu≈ái, che l’éva una èra, l’éva cumè n giögh di bócc ch’a s véd chí, tütt bèll fin. E lóra cur nòss istamp a rivava lá: pam! I metéva gió. E quan che i éva qua≈i sécch, alóra i tiráum s® e i impiláum, cun un scart inscí da vün e chéll alt par fá ch’i séca, ch’i séca bén. Fin ch’a riváum s® ar’altézza d’un… d’un quai métar, métr’e mèzz. E pö dòpo se a vedéum ch’u minaciava da piöv – parchè i év… i éva mía mmò sécch…
A. - … sécch. V. - … i éva dumá par fai secá – alóra a gh faum s® un tecétt, da quarciái, da mía lasságh piöv adòss, parchè i saréss nücc ammò mòll, i squarava tücc. A. - E ra tèra créda gh l’éuv lí in sül pòst o duvéuv ná a töla? V. - Nò nò, i ndav’a töla. I ndav’a töla segónd in… indú ch’i pudé, ma… ma mai tròpp luntán: fòrsi cumè da chí a ná ara Cru≈éta. I ndav’a töla, u ra menava sciá cun chi tombereaux, ch’i gh ciamava n francés, dó ròd: dó ròd grand e cun sótt ur cavall. E i ra tüiéva s®, l’éva tüta a tòcch cumè… cumè stu ròpp chí, magari nca püssè grand. E difati ch’u gh’éva fin in cèrti sid ch’i n’éa giá töi s®, l’è… i s formava lagh. E mí i m’a vi≈ád che i éa periculós a ná dént lí, è, perchè di vòlt a s’indava gió magari ar’altézza da chí, è, in chi… in chi pian lí ch’i tüiéa s® la tèra. Dòpo s formava dént ur’aqua, perchè i è ròpp ch’i éa bandunád. A s formáa dént ur’aqua e u gh’éa… l’éa pién da… da sciatitt, ch’i gh ciamava i crapauds. I crapauds: da… da nòcc i süghitá’a cantá chi ròpp lí. L’éva na m®≈ica sòla: ú ú ú ú ú!
A. - E dòp ula tèra créda chí che la mpastava, che la nudrigava? V. - Ura tèra créda m tucava sapala gió tüta bén fina. Gh’éum di sapp quadra apòsta, qua≈i qua≈i limád. A i taiáum gió a fetinn e magari largh dumá… spéss inscí. Dòpo, a di≈i bé, a faum un gir inscí, a spartíum föra ra mòta e gh faum dént um böcc im mèzz: um böcc, mía pròpi fin. Dòpo a gh traum dént südèll d’aqua. A. - Cume fá s® la mòlta. V. - E dòp begnáa ná dént cui pé a süghitá a pestá inscí, 140
che facevano. Ma facevano ancora quelle tegole rotonde: rotonde con… col naso [= sporgenza] per attaccarle su al listone. E allora il mio papà li faceva lì su… sopra al banco, con… con questi strumenti che ci volevano. E io andavo a posarli, che era su un’aia, era come uno spiazzo per il gioco delle bocce che si vede qui, tutto bel liscio. E allora col nostro stampo arrivavo là: pam! Li mettevo giù. E quando erano quasi secchi, allora li tiravamo su e li accatastavamo, con uno scarto così da uno all’altro per fare che secchino, che secchino bene. Fin che arrivavamo su all’altezza d’un… d’un qualche metro, metro e mezzo. E poi dopo se vedevamo che minacciava di piovere – perché erano… non erano ancora secchi… A. - … secchi. V. - … era soltanto per farli seccare – allora vi facevamo su un tettino, per coprirli, per non lasciargli piovere addosso, perché sarebbero diventati ancora molli, si afflosciavano tutti. A. - E l’argilla l’avevate lì sul posto o dovevate andare a prenderla? V. - No no, andavano a prenderla. Andavano a prenderla secondo in… dove potevano, ma… ma mai troppo lontano: forse come da qui ad andare alla Crus.éta [= croce al bivio delle strade per Bedigliora e Curio]. Andavano a prenderla, la portava qua con quei tomberaux, come li chiamavano in francese, carri a due ruote: due ruote grandi e con sotto il cavallo. E la prendevano su, era tutta a pezzi come… come questo coso qui, magari anche più grandi. E difatti in certi posti, dove ne avevano già presa su, capitava perfino che si formavano laghi. E mi hanno avvisato che era pericoloso andare dentro lì, eh, perché certe volte si andava giù magari all’altezza di qui, eh, in quei ripiani lì dove prendevano su la terra. Dopo si formava dentro l’acqua, perché sono posti che erano abbandonati. Si formava dentro l’acqua ed era… era pieno di… di piccoli rospi, che li chiamavano i crapauds. I crapauds: di… di notte quelle bestiole lì continuavano a cantare. Era una musica sola: uh uh uh uh uh! A. - E dopo, l’argilla, chi la impastava, chi se ne prendeva cura? V. - L’argilla ci toccava spezzettarla tutta ben fina con la zappa. Avevamo delle zappe quadrangolari apposta, quasi quasi limate. La tagliavamo giù a fettine e magari soltanto… spesse così. Dopo, dico, facevamo un giro così, spartivamo fuori il mucchio e vi facevamo dentro un buco in mezzo: un buco, non proprio profondo. Dopo vi buttavamo dentro secchi d’acqua. A. - Come fare la malta. V. - E dopo bisognava andare dentro coi piedi a continuare
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èco, fin che l’éva… la s’éva amalgamada nséma inscî. E pö dòpo da chí a ra sbatéum lá, da lá la sbatéum chí, ma sémpra t∑ s® cui man inscí, fin che l’éva naia föra tüta, l’éva tüt’ünida. E dòpo, natüralmént, l’a crumpád isti machinétt, isti machin. Sciá in ültim, indú ch’a sum fai má mí, l’è parchè i a crumpád ura máchina par fá ra tèra, èco. Dòp l’éva ra máchina ch’a masnava ra tèra. A. - … ch’a mp… ch’a mpastava. E dòpo, na vòlta che i éva prónt u… sta… sta… sta mòlta da fá i… i… V. - Dòpo ista mo… quan che l’éva prónta, ur… ur tavul, stu banch indú… l’éva pö… l’éva bèll largh: bèll largh. E alóra metéum s® na pila magari inscí, da chí da fianch, e da part da chí, indú ch’u lavurava. Alór u ciapáa sciá l stamp: se i éva cópp, se i éva tüill, inscí, u r’impieniva. Picáa s® anca cui man inscí par… par fall aderí bén a… ai ròpp. E dòpo u gh’éa lí na casséta d’aqua: na casséta, l’éa na casséta cun dént un… da dént l’è rivestida n tòla, è. E u gh’éva dént ista ra≈a chí, sémpra bagnada. Parchè ur stamp, prima da vé≈egh dént ra tèra, i gh trava dént ura sabia fina. I… i spulverava inscí. E dòpo i meté dént ra tèra, i ra picava gió inscí, dó o tré man, dó o tré cólp da man, l’éva bèl’a pòst. E dòpo mí a portava vía, l® u gh’éva lí n alt istamp, intant che mí andava lá u m’impieniva chéll lí.
A. - I cópp e i quadréi, dòpo par métei dént a cös, a métei dénta n da furnás, cu… cumè i s metéva dénta? V. - Alóra, quan i éva béi sécch… A. - Aé. V. - … perchè bégna mai métt dént ròba vérda, ròba mía séca, quan i éa béi sécch, l’éva na cámera cumè un quart da chésta, ma alta, è. Gi® sóta, a pian terén, u gh’éva dént i buchétt: i buchétt fórsi alt inscí. U ndava dént i fassinn: fassinn intrégh, sénze disligái nè naótt, parchè i ligava pö cu… cui rémur, è. E dòpo a gh’éum na fórca, cun s® um manegh lóngh da chí e lá. E i pundáum dént. Cumenzáum lá n fónd e pö n’alta chí, n’alta chí, da fá ná s® fiama. E dòpo, ògni rangh, i impilava cumè che gh’ó facc vedé prima, par fá che r fögh u passa dénta. A. - Tramèzz. V. - E pö s® n scima, quand a riváum s® qua≈i sótt ar técc – a n’altézza nscí l’év’ur técc, dumá i trav e i cópp, nò, ch’a gh’éva s® – i gh trava s® tant inscí da tèra: qualunque tèra da chéla lí da campagna. Ma l’éa na tèra róssa, par… par tégn ur fögh sótt.
a pestare così, ecco, fin che era… si era amalgamata insieme così. E poi dopo da qui la sbattevamo là, da là la sbattevamo qui, ma sempre prenderla su con le mani così, fin che si era sciolta tutta, era tutta unita. E dopo, naturalmente, ha comprato queste macchinette, queste macchine. In ultimo, dove mi sono fatto male io, è perché hanno comprato la macchina per impastare la terra, ecco. Dopo era la macchina che macinava la terra. A. - … che imp… che impastava. E dopo, una volta che era pronta questa… quest’argilla per fare i… i… V. - Dopo quest’argilla, quando era pronta, il… il tavolo, questo banco dove… era poi… era bel largo: bel largo. E allora mettevamo su un mucchio magari così, qui di fianco, dalla parte di qui, dove lavorava. Allora prendeva lo stampo: se erano coppi, se erano tegole, così, lo riempiva. Premeva anche con le mani così per… per far aderire bene l’argilla allo stampo. E dopo aveva lì una cassetta piena d’acqua: una cassetta, era una cassetta con dentro un… dentro è rivestita di latta, eh. E aveva dentro questa ras.a [= regolo di legno per levigare la superficie], sempre bagnata. Perché nello stampo, prima di esserci dentro la terra, mettevano dentro la sabbia fina. Cospargevano di sabbia così. E dopo mettevano dentro la terra, la ficcavano giù così, due o tre colpi di mano, due o tre colpi di mano, era bell’e a posto. E dopo io portavo via, lui aveva lì un altro stampo, intanto che io andavo là mi riempiva quello lì. A. - Dopo, per mettere a cuocere i coppi e i mattoni, metterli dentro nella fornace, come si mettevano dentro? V. - Allora, quando erano bei secchi… A. - Sì. V. - … perché non bisogna mai mettere dentro roba fresca, roba non secca, quando erano bei secchi, era una camera come un quarto di questa, ma alta, eh. Giù sotto, a pian terreno, c’erano dentro le bocchette: le bocchette alte forse così. Si mettevano dentro le fascine: fascine intere, senza slegarle né niente, perché le legavano poi con… con le ritorte, eh. E dopo avevamo una forca, con un manico lungo da qui a là. E le mettevamo dentro. Cominciavamo giù in fondo e poi un’altra qui, un’altra qui, per far andare su la fiamma. E dopo, per ogni strato, accatastavano i laterizi come le ho fatto vedere prima, per fare che il fuoco passi dentro. A. - Tramezzo. V. - E poi su in cima, quando arrivavamo su quasi sotto al tetto – il tetto era a un’altezza così, era formato soltanto di travi e di coppi, no – vi buttavano su tanto così di terra: qualunque tipo di terra di quella lì di campagna. Ma era una terra rossa, per… per mantenere il fuoco sotto. 141
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A. - Par mía dagh aria. V. - E quan che i éva cöcc – magari trí quater dí dòpo, parchè cui… cui fassinn u gh’indáa püssè che dòpo ch’i a met® r carbón – alóra u m tucava tirágh vía ra tèra e lassái ní frécc, magari d® o trí dí, par pudé tirái föra. E ntant che lór i fava chéll… ch’i fava fögh – parchè i éva dódes ór, tra r mè pá dódes ór e chéll alt dódes ór, è, i fava dí e nòcc – mí andav’a t∑ fassinn cun un carétt da dó ròd, che i éva tücc giá tirád gió da forèsta n sura strada.
A. - E ra paga, cuma che l’éva? V. - Ura paga, dónca: prim da tütt bégna ch’a v di≈a cumè ch’a lavuráum. Apéna ch’u vegnéva dí, mí r mè pá u m tüiée före du lécc, u m meté im pé cumè m bí. E u m di≈é: “Va che nüm a vam, è”. Gh’éum da ná cumè da chí e gi® lí. L’éva mmò qua≈i nòcc, sótt a sti pòrtegh. Che mí, a div ra veritá, ó mai taiò vía i óng di pé parchè i ndáa vía da par lór: a füria da picá dént in un tòcch da quadréll da chí, un tòcch da quadréll da lá, gh’ée sémpru i pé massacrád, èco. Alóra dòpo a lavuráum fin ai sètt ara matín a digi®n. Ai sètt ara matín u passava un trén dirètt, cumè da chí a ná ara Cru≈éta, l’éva ur dirètt di sètt, perchè d’orolòcc mí a n’ó mai vist. Alór’i fáa: “Bégna ná a fá scaldá ra culizzión”. E ra culizzión l’éva ra süpa o ra minèstra ch’am vanzò da sira. Dòpo, quan l’éva sciá i vündes ór, i m mandava s® mí im baraca – ch’a gh’éum pòca strada da fá, nè, traversá ra strada – andava s® a fá scaldá di gran pügnatá da menèstra. E dòp a desmetéum ara sira: lór, qua≈i quand i gh vedéva pi®! E ra paga l’éva: ur mè pá u gh’éve cenvint franch ar més e mí a gh n’éva cinquanta, cinquanta franch ar més. E ara duménega matín, a faum ur cafelacc: dumá ara duménega matín! E tanci vòlt mí, ara duménega matín, u m tucava ná gió ammò, di sètt fin i dés, a ná a tirá s® tücc chi tòcch da quadréi ch’a gh’éva n gir, magari rótt inscí, ammò cun chéla paga lí da cinquanta franch ar més! ¬co. A. - Lóra, in d’una stagión, sa guadagnavet cussè quan tu séet lá cume n fiöö? V. - Ma mí a r só mía parchè i sòld u ia sémpra ciapè r mè pá. Dónca: andáum lá da… d’apríl e vegnéum a cá in… ntórn ur més da nuvémbra, fé s® r cünt cussè ch’a ciapáum. Vòtt par cinch quaranta: ciapáa quatra≈ént franch a lavurá tütt ur ann e di stéll ai stéll.
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A. - Per non dargli aria. V. - E quando erano cotti – magari tre quattro giorni dopo, perché con… con le fascine ci voleva più tempo che in seguito quando hanno messo il carbone – allora ci toccava tirargli via la terra e lasciarli diventare freddi, magari due o tre giorni, per poter tirarli fuori. E intanto che loro facevano quel… che sorvegliavano il fuoco – perché erano dodici ore ciascuno, il mio papà dodici ore e quell’altro dodici ore, eh, facevano giorno e notte – io andavo a prendere fascine con un carretto a due ruote, che le avevano già tirate giù tutte dalla foresta sulla strada. A. - E la paga, come era? V. - La paga, dunque: prima di tutto bisogna che vi dica come lavoravamo. Appena diventava giorno, il mio papà mi tirava fuori dal letto, mi metteva in piedi come un birillo. E mi diceva: “Guarda che noi andiamo, eh”. Dovevamo andare come da qui a giù lì. Era ancora quasi notte, sotto a questi portici. Che io, a dirvi la verità, non ho mai tagliato le unghie dei piedi perché si accorciavano da sole: a furia di urtare in un pezzo di mattone di qua, un pezzo di mattone di là, avevo sempre i piedi massacrati, ecco. Allora dopo lavoravamo fino alle sette di mattina a digiuno. Alle sette di mattina passava un treno diretto, distante come da qui ad andare alla Crus.éta, era il diretto delle sette, perché di orologi io non ne ho mai visti. Allora dicevano: “Bisogna andare a far scaldare la colazione”. E la colazione era la zuppa o la minestra che avevamo avanzato la sera. Dopo, quando arrivavano le undici, mandavano su me in baracca – che avevamo poca strada da fare, neh, attraversare la strada – andavo su a far scaldare delle grandi pignattate di minestra. E dopo smettevamo alla sera: loro, quando non vedevano quasi più! E la paga era: il mio papà aveva centoventi franchi al mese e io ne avevo cinquanta, cinquanta franchi al mese. E la domenica mattina, facevamo il caffelatte: soltanto la domenica mattina! E tante volte, la domenica mattina, a me toccava andare giù ancora, dalle sette fino alle dieci, andare a tirare su tutti quei pezzi di mattoni che c’erano in giro, magari rotti così, ancora con quella paga lì di cinquanta franchi al mese! Ecco. A. - Allora, in una stagione, cosa guadagnavi quando eri là come ragazzo? V. - Ma io non lo so perché i soldi li ha sempre presi il mio papà. Dunque: andavamo là di… in aprile e venivamo a casa in… intorno al mese di novembre, fate il conto quanto prendevamo. Otto per cinque quaranta: prendevo quattrocento franchi a lavorare tutto l’anno e dalle stelle alle stelle.
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La famiglia di Pietro Poncini (il secondo seduto da destra) a Albens.
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Castelrotto 1813, registrazione delle persone abili alle armi (Archivio Villa Orizzonte, Castelrotto).
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Arano Li 20 xbre 1828 Lascio questa memoria di una medaglia gia anticha Dal giorno dogi, dagli Fratelli Righetti Figli Di Franc.co Antonio, ciovè Ignazio Pietro Giuseppe Teodoro, è con Figli, in tutti si ritroviamo dodici persone in questa casa, con una discretta Fortuna è si ritroviamo in casa la nostra Provisione per un ano. Solo che vino, è abbiamo anche delli denari per il nostro bisogno, Abbiamo anche due negozi di Fornace uno à Casarile, è laltro à Canonica Gera Dada, Ringraziando Iddio delli Benefici Che Abbiamo – E Quelli che ritrova questo Biglieto vi Prego di dire un Requiem per la Nostra Anima Ignazio Righetti
Fotocopia di un biglietto ritrovato nel muro di una vecchia casa Righetti di Aranno nel corso di un lavoro di restauro.
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Lettera di Giovanni Bertoli al cugino Giuseppe Bertoli a Novaggio, Novi Ligure 13 febbraio 1848.
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Particolare dell’elenco degli espulsi dal Lombardo-Veneto domiciliati a Curio, 1853.
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Passaporto del fornaciaio Giuseppe Rossi di Croglio, 1862.
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Operai della Fornace Delmenico a Guidizzolo (Mantova). Seduto, con un secchiello e la maglietta a righe, Arnoldo Delmenico.
Operai della Fornace Bertoli a Bociumi-Jassy (Romania).
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Fornace Marcoli a Calcinato (Brescia), operai impegnati nella sfornaciata.
Operai e proprietari della Fornace Bertoli-Ronchi-Lozzio a Villanova di Prata di Pordenone (Pordenone), 1910.
Fornace Mina a Lungavilla (Pavia).
Operai di una fornace non identificata in Savoia. Fra loro Pietro Lozzio di Novaggio (1859-1929).
Operai della Fornace Avanzini a Montesilvano (Pescara).
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Fornace Andina a Corte Franca (Brescia), 1980.
Fornace Avanzini a Einsiedeln (Svitto).
Fornace Morandi a Corcelles-près-Payerne (Vaud) 1940.
Fornace Andina a Zola Predosa (Bologna), 1906 e 1986.
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Fornace Avanzini a Montesilvano (Pescara).
Fornace di Dino Marcoli a Gondar (Etiopia), anni ’30 del Novecento.
Fornace Azzi a Pontecurone (Pavia) durante la trasformazione del 1988.
Fornace Marcoli a Calcinato (Brescia), 1950.
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Dino Bertoli e Arete Pelli davanti a casa Bertoli a Fagarè, danneggiata dai bombardamenti austriaci, 1918.
Fornace Bertoli a Bociumi-Jassy (Romania). Casa Bertoli a Fagarè, distrutta da una bomba sganciata da un aereo statunitense, 23 settembre 1944.
Fornace Bertoli a Casale sul Sile (Venezia), 1960.
Dante Bertoli davanti alla fornace di Fagarè, rasa al suolo dai bombardamenti austriaci, 1918.
Fornace Bertoli a S. Floriano di S. Biagio di Callalta (Treviso), anni ’50 del Novecento.
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Fornace Lozzio a Piavon di Oderzo (Treviso), 1918. Ettore Lozzio con dei militari per la valutazione dei danni prodotti dalla Grande guerra.
Fornace Vannotti a Mirabello di Lù Monferrato (Alessandria), 2007
Fornace Fonti a Grignano Polesine (Rovigo), l’ultima fornace ‘malcantonese’ in attività.
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Fornace Poncini a Albens (Savoia).
Fornace Morandi a Campodarsego (Padova).
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Fornace Biasca a Corte Franca (Brescia), 1980.
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Manufatti di fornaci ‘malcantonesi’ conservati presso il Museo del Malcantone (foto: Roberto Pellegrini, Centro di dialettologia e di etnografia, Bellinzona).
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Alcune pagine dal catalogo della Fornace Poncini di Albens (Savoia), 1913 Giara policroma prodotta dalla Fornace Costante Della Giovanna, S.Giuseppe (Treviso) Inizio ’900 (foto: Roberto Pellegrini, Centro di dialettologia e di etnografia, Bellinzona).
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Lago Maggiore C
Monte Bar
Monte Tamaro
Vezio
Monte Lema
Breno
Mugena Arosio
Fescoggia
Miglieglia
Cademario Aranno
Novaggio
Lugano
Bedigliora Sessa
Curio
Vernate
Agno
Monteggio Pura Magliaso
Croglio
Caslano
Ponte Tresa
Lago Ceresio
Nord
5 km
Nord
50 km
Monte Generoso
Sud
Sud
0
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Malcantone: Comuni di origine dei proprietari o affittuari di fornaci conosciuti (sec. XVI-XXI)
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Svitto
Neuchâtel
Riva San Vitale
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Distribuzione delle fornaci di proprietari o affittuari malcantonesi conosciute (sec. XVI-XXI)
Vaud
Trento Verbania Varese
Novara
Como Bergamo
Milano
Treviso
Verona
Venezia
Brescia
Vercelli
Cremona Piacenza
Torino
Padova Mantova
Pavia
Asti
Rovigo Parma
Alba
Ferrara
Alessandria Bologna
Cuneo
Savona
Francia Altre localitĂ italiane Algeria Argentina Danimarca Etiopia Romania
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Nord
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Distribuzione nelle province di Alessandria, Pavia e Brescia delle fornaci di proprietari o affittuari malcantonesi conosciute (sec. XVI-XXI)
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Filomena Ferrari: un caso di successo imprenditoriale al femminile tra fine Ottocento e inizio Novecento Donatella Ferrari Vi sono due storie: la storia ufficiale, menzognera, che ci viene insegnata, la storia ad usum delphini; e la storia segreta, dove si trovano le vere cause degli avvenimenti». Honoré de Balzac, Le illusioni perdute
Introduzione Questo contributo è il frutto di un lavoro di studio e di ricerca che ha preso l’avvio da una visita alla mostra sui fornaciai malcantonesi allestita presso il Museo di Curio nel 2008, cui è seguita una breve presentazione della figura di mia bisnonna, Filomena Ferrari, in occasione di una iniziativa sullo stesso tema organizzata dal Museo del Malcantone a Bedigliora, nel febbraio 2009. L’esito di questo mio primo approccio all’argomento è stato un breve articolo dal titolo Dal Malcantone alle Langhe meridionali – Primi risultati di una indagine sulla famiglia Ferrari, fornaciai a Millesimo (SV) e Sale delle Langhe (CN) pubblicato sulla «Rivista di Lugano» nel settembre dello stesso anno. Spronata dall’interesse suscitato dalle vicissitudini di questa donna e da un desiderio personale di conoscere meglio la storia della mia famiglia, ho iniziato un lavoro di ricerca quanto più possibile organico e sistematico che mi ha portato non solo a frequentare diversi archivi in Italia ed in Svizzera ma anche, e forse cosa più importante, a conoscere tante persone che si sono rivelate disponibili ad aiutarmi e a supportarmi durante il mio percorso di conoscenza e approfondimento1. La ricostruzione storica e biografica cui conduce questa ricerca si è fondata sullo spoglio del materiale d’archivio conservato presso gli archivi storici del Comune di Millesimo, di Savona e della Prepositura di Sessa, l’Archivio di Stato del Canton Ticino, archivi privati e testimonianze orali. I risultati cui si è giunti possono essere raggruppati in tre grandi ambiti tematici, ciascuno dei quali corrisponde ad uno o più paragrafi: Millesimo ed il contesto geografico ed economico nel quale si situano la vita e l’opera di Filomena Ferrari, la figura Filomena Ferrari, della quale ho tentato di consegnare al lettore un profilo il più possibile rispondente al vero ed infine le realizzazioni di questa imprenditrice a Millesimo e Sale delle Langhe.
Millesimo: il territorio e l’industria L’alta valle Bormida, nella quale è situato Millesimo, è cinta a Sud-Est dalle Alpi Liguri comprese tra il M. Galero (1708 m) ed il Colle di Cadibona (458 m), ad occidente si distaccano dal nodo orografico di Rocca Barbena (1142 m) una serie di dorsali che digradano, con andamento da Sud-Ovest a Nord-Est, verso le colline della Langhe, mentre ad oriente una successione di colline non molto elevate la separano dalla valle dell’Erro. Al suo interno quest’area si articola in due bacini minori: a mezzogiorno quello della Bormida di Spigno – relativamente più ampio – e
1 Fra queste non posso non citare Bernardino Croci Maspoli conservatore del Museo del Malcantone e tutte le persone che collaborano alle numerose iniziative da lui organizzate, Gianrico Corti, Presidente dell’Associazione Museo del Malcantone, il Sindaco di Millesimo, Mauro Righello che ha autorizzato la consultazione del ricchissimo Archivio storico del comune, Nuccia Giurintano, impiegata del comune di Millesimo e profonda conoscitrice dell’organizzazione dello stesso archivio, la Prepositura, il Consiglio Parrocchiale e il parroco di Sessa Don Alessandro De Parri, Stefania Ferrari che, oltre ad accogliermi nella sua casa, mi ha messo a disposizione i registri ancora esistenti della fornace di Sale delle Langhe e ha risposto con pazienza a tutte le mie domande, mio zio Virgilio Curino per i libri e gli utili consigli e mio fratello Angelo per parte della documentazione relativa alla fornace di Millesimo. Ringrazio inoltre tutte le persone di Millesimo e del Malcantone che mi hanno fornito materiale e informazioni utili al mio lavoro.
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più a settentrione quello della Bormida di Millesimo, le cui sorgenti sgorgano dai versanti della Rocca Barbena, alle spalle di Finale Ligure. Le acque della Bormida di Millesimo ricevono presso Bistagno quelle della Bormida di Spigno, per proseguire tra le colline e le pianure dell’Alessandrino sino a confluire nel Tanaro.
Carta schematica della parte della provincia di Savona interessata dalla ricerca con evidenziate le attività industriali in essere alla fine dell’Ottocento.
G. Rovereto, Liguria geologica, «Memorie della Società Geologica Italiana», 1939; Gaetano Ferro, Le trasformazioni industriali nelle alte vallate delle Bormide, «Rivista Geografica Italiana», 1958.
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L’abitato di Millesimo sorge su di un modesto penepiano, costituito da depositi argillosi, in sponda destra del medio corso della Bormida, là dove il solco vallivo inciso da quest’ultima tra rocce cristalline e scisti permo-carboniferi s’innesta nella successione d’insellature che si susseguono dal colle di Cadibona fino alla valle del Tanaro e costituiscono la naturale via di transito tra il litorale savonese ed il Piemonte Sud-occidentale2. Millesimo gode dunque di una posizione geografica relativamente felice, situandosi alla convergenza degli assi di comunicazione tra il Piemonte meridionale, Finale Ligure e Savona, capoluogo amministrativo della provincia cui il comune di Millesimo appartiene e dal quale dista poche decine di chilometri. Le condizioni climatiche presentano temperature meno risentite che nella vicina pianura padana, ma con inverni anche rigidi, e precipitazioni medie comprese tra i 700 mm dei fondovalle ed i 1.000 mm delle aree sommitali. Non stupisce dunque che le dorsali montuose che delimitano il bacino della Bormida di Millesimo siano coperte da fitti boschi, costituiti alle quote più elevate da faggete, un tempo impiegate per la produzione del carbone di legna, mentre più in basso si hanno estesi castagneti, il cui legname trovava molteplici impieghi (da opera, da ardere, produzione di acido tannico, oltre ad essere utilizzato per arredi ed infissi) ed i cui frutti sino all’inizio del secolo scorso costituivano la base dell’alimen-
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tazione delle popolazioni locali. Le colture si limitano al fondovalle con la presenza – un tempo quantomeno a Millesimo – di vigneti sulle pendici collinari e più in alto di boschi. I centri abitati della valle sono per lo più ubicati sul fondovalle, ma in posizione a solatio e leggermente rilevata rispetto all’area alluvionale del fiume, lasciata alle colture ortensi, mentre sui versanti a solatio allignavano radi vigneti. L’insieme di queste caratteristiche ha influenzato lo sviluppo della regione sia dal punto di vista dell’economia sia da quello del popolamento, favorendo la nascita e lo sviluppo di numerosi centri la cui economia rimase però a lungo fondamentalmente legata ad una magra agricoltura di sussistenza ed allo sfruttamento delle risorse forestali, cui localmente si aggiungevano la coltivazione della canapa o l’allevamento dei bachi da seta. A queste attività si accompagnavano i redditi derivanti dalle funzioni di transito sopra richiamate. Queste ultime, rimaste per secoli immutate, vennero potenziate a partire dall’epoca napoleonica, con il rafforzamento della posizione baricentrica di Millesimo, tanto che all’inizio dell’800 vi si tenevano tre mercati settimanali. La svolta più importante si ebbe però nell’ultimo quarto del XIX secolo con l’apertura, nel 1874, della linea ferroviaria Torino-Savona, il cui tracciato transitava per San Giuseppe di Cairo e Cengio, entrambe località non troppo distanti da Millesimo. A partire da quel momento i fondovalle di Millesimo, Cairo e Cengio sono sconvolti da radicali cambiamenti del loro assetto economico e quindi sociale e paesaggistico, divenendo in breve tra le prime e più rilevanti aree industriali della Liguria. Si sviluppa l’attività di cava, la produzione di acido tannico e soprattutto l’industria carbochimica. In questo processo assume un ruolo di primo piano, anche per le fortune dell’azienda guidata da Filomena Ferrari, la nascita a Cengio, nel 1882, ad opera del francese E.J. Barbier, di una fabbrica di prodotti esplodenti impiantata in prossimità della locale stazione ferroviaria. La crescita dello stabilimento è rapida: nel 1887 vengono installate moderne apparecchiature ‘Nobel’ ed in breve l’incremento nella produzione richiese la costruzione di un apposito reparto destinato unicamente alla fabbricazione dell’acido nitrico. Nel 1903 viene acquistato dalla Societé Continentale Glicerynes et Dynamites di Parigi, che ne espande la superficie occupata con l’acquisto di 60 ettari contigui ai vecchi impianti. Nel 1906 la fabbrica viene ceduta alla S.I.P.E. (Società Italiana Prodotti Esplodenti) di Milano ed alla fine del primo decennio del secolo scorso essa produceva il 90% dell’acido nitrico fabbricato in Italia ed era l’unica fabbrica nazionale di tritolo. A margine di queste considerazioni può essere interessante notare che l’avvio del processo d’industrializzazione, analogamente al processo in corso sul litorale savonese, avviene ad opera di uno ‘straniero’, così come ‘straniera’ era Filomena. L’apertura della fabbrica di esplosivi ebbe notevoli riflessi anche sullo sviluppo di Millesimo, esso infatti le forniva manodopera, e analogo effetto ebbero la realizzazione, alcuni decenni più tardi, degli insediamenti industriali di San Giuseppe di Cairo e Cairo, che con Cengio e Ferrania vennero a costituire il polo carbochimico dell’entroterra savonese.
Carlo Ferrari Carlo Ferrari nasce a Ramello il 9 febbraio 1827. Viene registrato alla nascita come Carlo Antonio ma il suo nome di battesimo verrà trascritto come Carlo Battista 165
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Archivio parrocchiale di Sessa, Registro Entrate/Uscite. 4 Il coppo mi è stato donato dal Sig. Guido Peluffo, che lo ha rinvenuto a Millesimo alcuni anni or sono. 5 Sembra infatti fosse diffusa l’abitudine, da parte dei fornaciai, di ‘firmare’ l’ultimo coppo di ciascuna partita. 6 Archivio storico di Millesimo, Faldone 345. 7 Di norma la grafia corretta del nome della famiglia gentilizia in questione è “Del Carretto”, tuttavia in questo caso i documenti consultati recano la forma “Delcarretto”. 8 Atto del 26 novembre 1881 a rogito notaio Raimondo Mellonio. 3
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nelle pubblicazioni di matrimonio. È il quinto ed ultimo figlio di Gio Battista della Lisora e Maria Antonia Ballinari di Pianazzo, «della parrocchia di Luino», dove probabilmente si sposarono, per poi stabilire la loro residenza a Ramello, nella parrocchia di Sessa. Sulla base dei documenti ad oggi acquisiti, seguendo a ritroso l’albero genealogico della famiglia Ferrari è possibile risalire sino a Francesco Antonio di Lisora, nato nel 1663 e morto il 24 gennaio 1743, tumulato nell’oratorio della Confraternita di San Martino a Sessa, il quale aveva sposato Maria Paola Bianchi di Ramello. Si può quindi affermare con certezza che il ramo della famiglia Ferrari cui Carlo apparteneva era radicato da almeno cinque generazioni nel territorio compreso fra Lisora e Ramello, presumibilmente in qualità di fittavoli. Tale ipotesi è suffragata dal fatto che nel Registro delle Entrate/Uscite della Parrocchia di Sessa risulta che negli anni 1848-18563 il Notaio Basilio Donati versava alla Parrocchia medesima un fitto per conto del fu Battista Ferrari padre di Carlo per un importo di Franchi 3,57 pari a Franchi cantonali 6,10. Dall’atto di morte di Carlo risulta che anche suo padre era ‘fornaciajo’. Possiamo quindi ipotizzare che quest’ultimo esercitasse stagionalmente questa professione e avesse avviato il figlio al medesimo mestiere, pur svolgendo anche attività agricola come fittavolo. Il 3 marzo 1859 Carlo si sposa con Filomena Gagliardi di Molinazzo di Monteggio; dalla pubblicazione di matrimonio, datata 1° febbraio 1859, la sua professione risulta essere quella di ‘fornaciajo’. La prima testimonianza certa di questa sua attività è offerta da un coppo rinvenuto a Millesimo4, da lui firmato e datato 15 giugno 1854, sul quale appare anche il riferimento al fornitore dell’argilla utilizzata: ‘tera di Santino’5. Carlo fa quindi parte della schiera di fornaciai malcantonesi che, come è noto, venivano a ‘fare la stagione’ in Italia nel periodo di lavoro che andava da Pasqua alla festa di Ognissanti per poi tornare al paese di origine, con il quale mantenevano forti legami. Possiamo supporre che in quegli anni, la metà dell’Ottocento, per Carlo uno di questi legami fosse quello che lo univa alla giovane contadina Filomena Gagliardi. Dal momento che il suo nome non compare nel Censimento Generale relativo alla popolazione residente a Millesimo nel 1848, ma è presente in quello del 1857, dove alla scheda 67 risulta registrato come Ferrarij Carlo, capo famiglia, di anni 31, nato a Monteggio e residente a Millesimo in Via della Chiesa, Casa Moncrivello, detta anche la ‘Ghiaciaja’, si può supporre che ad un primo periodo di ‘pendolarismo’ di carattere stagionale iniziato nei primi anni ’50 dell’800 sia seguita una fase di stabilità. Dagli stessi registri censuari risulta non solo, come quasi ovvio, che egli era «di religione cattolica» e di professione «lavorante in fornaci» ma anche che era ancora «nubile» (sic) e, cosa di non poco conto nel mondo rurale dell’epoca, in specie in quello dell’entroterra ligure, risulta che «sapeva leggere e scrivere»6. Carlo abitava nella casa di Gustavo Delcarretto7, Marchese di Moncrivello, da cui deriva il nome dell’abitazione e con ogni probabilità lavorava nella fornace di proprietà dello stesso marchese che, come vedremo, verrà in seguito acquistata dalla vedova di Carlo, Filomena Ferrari8. È probabile che la stabilità lavorativa acquisita lo inducesse a ritenere che esistessero le condizioni per stabilirsi definitivamente a Millesimo con Filomena e nel 1859, subito dopo il matrimonio, Filomena Gagliardi, d’ora in poi chiamata Filomena Ferrari, viene a stabilirsi nell’abitazione del marito.
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La posizione di Carlo nella fornace del Marchese era probabilmente quella di gestore o affittuario, ne sarebbe una riprova il fatto che in data 7 novembre 1867 viene rilasciata una ricevuta a firma «Ferrari Carlo fornacino» per la fornitura di 460 mattoni e 50 coppi, venduti ad un tal Luigi Beloni per un valore totale di Lire 14, destinati alla «reparazione alle carceri comunali»9. L’evoluzione, ma si potrebbe parlare più propriamente di una progressione, della posizione professionale di Carlo emerge dalle annotazioni apposte sui registri dell’anagrafe del Comune di Millesimo in occasione delle nascite dei sette figli avuti con Filomena. Infatti se, come abbiamo appena visto, ancora al censimento del 1857 Carlo risultava «lavorante in fornaci», già nel 1860, in occasione della nascita del primogenito, Gio Battista, veniva indicato come ‘fornaciajo’ e al momento della registrazione della nascita degli ultimi due figli, Pietro e Pietro Giovanni Battista Secondo, avvenute rispettivamente nel 1872 e 1873, Carlo veniva qualificato come «fabbricante di mattoni». Si può quindi presumere che Carlo abbia iniziato ad operare a Millesimo con un lavoro stagionale, che vi si sia quindi stabilito come dipendente della fornace del Marchese Del Carretto e ne sia diventato gestore o affittuario, come attestato dal fatto che nel 1866 per la prima volta il suo nome figura nel Registro Patenti di esercenti,10 dove continua a comparire sino al 1876, per essere sostituito l’anno successivo da quello di Filomena. Nel 1873, in coincidenza con la nascita dell’ultimo figlio, Carlo risulta inserito nei ruoli dei contribuenti tenuti al pagamento della tassa comunale sul focatico nella IV classe su un totale di 611, con un’imposta di Lire 7,68. Nello stesso anno Carlo stipula il primo contratto di acquisto di un bosco, definito «castagneto domestico» in Regione Boschetto, dal signor Stefano Chinazzo per la somma di Lire 1.20012 «qui sborsate e pagate dal compratore»13. È probabile che Carlo intendesse trarne legna da utilizzare nella fornace. L’anno successivo compra una mucca e negli anni seguenti compare tra i contribuenti proprietari di terreni con un estimo di £ 26,90. Carlo muore il 25 marzo 1875 alle 6 e 30 del mattino nella sua abitazione in Via della Chiesa 123, all’età di 47 anni, dopo aver assistito alla sepoltura di due dei sette figli nati dal suo matrimonio con Filomena: Pietro Giovanni Battista morto all’età di 18 mesi nel settembre del 1873 e Pietro Giovanni Battista Secondo nato nel novembre 1873 e morto sette mesi dopo nel giugno 1874. L’eredità di Carlo, che spetterà per un terzo alla moglie ed il rimanente ai figli è il bosco in Regione Boschetto da lui acquistato nel 1873, insieme all’attività di produzione e vendita di laterizi nella fornace di proprietà del Marchese Gustavo Del Carretto.
Filomena Filomena Gagliardi nasce a Molinazzo di Monteggio l’11 gennaio 1836 e viene registrata con il nome di Maria Filomena14. Figlia di Carlo Giuseppe di Molinazzo e Veronica Galli di Cossano è la sesta di undici figli: otto femmine e tre maschi. In data 5 gennaio 1835 sul registro parrocchiale di Monteggio viene annotato il possesso di tre bovine a nome di Carlo Giuseppe e di un bovino e due cavallini a nome del fratello Giacomo. A sua volta la loro madre, Maddalena Ramponi, risulta essere proprietaria di terre ‘campive’ e quindi si può ritenere che la famiglia Ga-
Archivio storico di Millesimo, Faldone 62. Archivio storico di Millesimo, Faldone 341342. 11 Il numero delle famiglie residenti nel Comune era così distribuito fra le diverse classi d’imposta: famiglie di I classe: n. 9 famiglie di II classe: n. 26 famiglie di III classe: n. 9 famiglie di IV classe: n. 27 famiglie di V classe: n. 60 famiglie di VI classe: n. 102 L’imposta attribuita alla I classe era di £ 15,36, la famiglia di VI classe pagava £ 2,56 (Regolamento Comunale del 7/11/1872). 12 Equivalenti a B 4.191. 13 Atto di acquisto in data 18 novembre 1873 a rogito notaro Vernetti avvocato Urbano registrato a Cairo M.tte il 1° dicembre 1873 al volume 15 numero 82 foglio 104 sul registro atti civili pubblici. 14 Archivio parrocchiale di Sessa, Registro delle nascite. 9
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Ritratto di Filomena Ferrari conservato a Sale delle Langhe presso l’abitazione di Stefania Ferrari.
gliardi svolgesse a Molinazzo di Monteggio, dove risiedeva da ben tre generazioni, attività agricola ed avesse il possesso di piccoli beni mobili e di qualche animale di grossa taglia. Filomena viene cresimata il 14 settembre 1843 insieme ad altri 121 bambini nella Parrocchia di Sessa; Maria Donati, figlia di Basilio, di Molinazzo, risulta essere la sua madrina. Molinazzo è tutt’ora un piccolo borgo e al tempo di Filomena la famiglia Donati era senza ombra di dubbio la più importante del paese dove Basilio svolgeva la professione di notaio. Ancora oggi è possibile visitare un piccolo museo allestito da persone appassionate, che con cura hanno raccolto e conservato oggetti della locale civiltà contadina e il visitatore è catturato dal fascino di un tempo passato in cui il mulino di proprietà della famiglia Donati e da cui Molinazzo traeva il nome, e il fiume, erano con ogni probabilità il centro della vita lavorativa e sociale del borgo. La macinazione della farina avveniva con le grandi pietre ancora oggi appoggiate ad un muro del paese, la ruota raccoglieva le acque del fiume dove più a monte venivano catturate le anguille destinate al consumo e all’esportazione. Il tessuto sociale di Molinazzo ruotava quindi intorno all’attività contadina e alla pesca delle anguille. 168
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Filomena viveva con la sua famiglia in una delle poche case che si affacciano sull’unica strada del borgo e che, con una moderata salita, in breve conduce alla chiesa di Ramello; un altro piccolo nucleo di case affacciate sulla piazzetta antistante la chiesa dell’Oratorio di Santa Maria. Possiamo immaginare che Carlo e Filomena frequentassero la stessa chiesa. Come abbiamo visto, negli anni ’50 dell’Ottocento Carlo aveva iniziato ad emigrare periodicamente in Liguria, probabilmente attratto da buone possibilità di lavoro e a Millesimo lavorava già da alcuni anni come ‘fornaciajo’, forse in compagnia del padre, e la sua attività iniziava a dare buoni frutti. Si può supporre che Carlo, pur trascorrendo lunghi periodi a Millesimo, tanto da risultare inserito nel censimento del 1857, continuasse a mantenere rapporti con la famiglia, il paese di origine e Filomena, che forse aveva iniziato a seguirlo in alcuni suoi spostamenti e a prestare il suo aiuto nella lavorazione dei mattoni. Il 3 marzo 1859 i due si sposano e si trasferiscono a Millesimo nella casa del Marchese Del Carretto in cui Carlo abitava. Nelle pubblicazioni di matrimonio Carlo risulta essere ‘fornaciajo’ e Filomena ‘contadina’. È interessante sottolineare quanto Millesimo assomigli, da un punto di vista paesaggistico, a Molinazzo. Entrambi paesi collinari, hanno una vegetazione simile e paesaggi agricoli che li accomunano, dolci declivi con una forte presenza di boschi. Si può ritenere che Filomena, appena sposata, aiutasse il marito nella fornace e nello stesso tempo si dedicasse alla famiglia. Dal 1860 al 1873 nascono i sette figli, sei maschi e una femmina. Si tratta di Gio Battista nato nel 1860 al quale seguono: Giuseppe nel 1862, Luigi Giacomo nel 1865, Maria Catterina nel 1868, Angelo Giovanni Maria nel 1870, Pietro Giovanni Battista nel 1872 e Pietro Giovanni Battista Secondo nel 1873. Questi ultimi due, come abbiamo visto, moriranno a breve distanza l’uno dall’altro, prima di Carlo: Pietro Giovanni Battista a 18 mesi, Pietro Giovanni Battista Secondo a 7 mesi; infine Giuseppe, di professione falegname15, morirà a 21 anni, il 28 maggio 1883. Nel 1875, a 39 anni, Filomena rimane vedova di Carlo, dei cinque figli viventi il maggiore, Gio Battista ha 15 anni, il minore, Angelo, ne ha 5 e nella sua condizione di vedova aveva forse il diritto a subentrare nell’attività a suo tempo condotta dal marito, avvalendosi dell’aiuto del maggiore dei figli, possedeva un bosco, ereditato da Carlo e, per quanto riguarda l’abitazione, era sempre in affitto nella casa del Marchese Del Carretto. Avrebbe potuto tornare nel Malcantone con il quale intratteneva sicuramente dei rapporti visto che il padre, Carlo Giuseppe, era ancora vivente (sarebbe morto nel 1882) così come la maggior parte dei dieci fratelli16 tra cui la sorella Virgilia andata sposa a Carlo Trezzini, anch’esso di professione fornaciaio. Come abbiamo visto, gli ultimi decenni dell’Ottocento costituiscono un periodo di profondi rivolgimenti economici e sociali che vanno manifestando i loro effetti a Millesimo e nel territorio circostante. Il 1874 è l’anno, come sappiamo, dell’inaugurazione della ferrovia Savona-Ceva-Bra-Torino, pochi anni dopo sarebbero iniziati i lavori per la costruzione della fabbrica di esplosivi di Cengio e questi eventi avranno sicuramente influenzato la decisione di Filomena di rimanere a Millesimo e portare avanti le attività iniziate dal marito. Nel 1876 Filomena viene iscritta nel ruolo della tassa per il focatico come «fabbricante di mattoni», nel 1880, seguendo le orme del marito, acquista un castagneto, destinato ad alimentare il cuore pulsante della fornace. È tuttavia nell’anno succes-
15 Come risulta dalla scheda famigliare del Censimento del 1881. 16 Purtroppo non è ancora stato possibile conoscere la data di morte della madre e dei fratelli di Filomena.
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sivo, il 1881, che Filomena, all’età di 45 anni, e a sei dalla morte del marito, inizia la sua avventura imprenditoriale acquistando la fornace del Marchese Gustavo Del Carretto e, successivamente, come vedremo, costruendone una più grande e moderna. Questa sua scelta, senza dubbio coraggiosa, dimostra anche una capacità di analisi e valutazione di un insieme di elementi favorevoli all’insediamento industriale. In primo luogo la presenza di un’area pianeggiante, sulla quale realizzare uno stabilimento destinato alla produzione di laterizi che, complessivamente, si sarebbe esteso su di una superficie di oltre un ettaro e contiguo a terreni contrassegnati dalla presenza di argilla adatta a questo genere di lavorazione17. In secondo luogo la disponibilità di abbondanti risorse idriche, in particolare di una falda freatica superficiale alla quale attingevano almeno tre pozzi, e di legname. In terzo luogo l’agevole accessibilità ai mercati di sbocco grazie alla prossimità di importanti vie di comunicazione: la strada carrabile che collegava Savona al Piemonte sud-occidentale e la ferrovia Savona-Torino18, la cui stazione di Cengio distava pochi chilometri da Millesimo. Infine non pare trascurabile il fatto che sia la fornace acquistata dai Del Carretto, sia – cosa ancora più rilevante – la nuova e moderna fornace che come vedremo verrà realizzata di lì a qualche anno, erano localizzate immediatamente alle spalle dell’abitato di Millesimo (all’epoca ancora racchiuso entro le mura medievali19) e dunque facilmente raggiungibili. In questo contesto Filomena dà inizio, in un piccolo paese di 1.388 abitanti, alla «sua rivoluzione industriale» cogliendo, in modo inconsapevole, le spinte e le opportunità che un nuovo contesto economico, sociale e culturale, ancorché in divenire, offriva ai più intraprendenti e coraggiosi. Negli anni successivi incrementa la consistenza del suo patrimonio con l’acquisto
17 Da testimonianze orali di persone che negli anni ’50 del 1900 avevano lavorato nella fornace, emerge che si trattava di una qualità di argilla poco porosa e ‘collante’, tanto che le tegole non trasudavano umidità. 18 Da testimonianze orali tramandate da padre in figlio risulta che i mattoni per la ferrovia Savona-Torino-Castellino Tanaro-Bra-Carmagnola provenivano anche dalla fornace di Millesimo. 19 L’area compresa entro le mura era indicata nel censimento del 1857 come «il recinto».
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Mappa catastale di Millesimo nel 1887 (Archivio storico di Savona).
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di alcuni boschi il cui legname era destinato ad alimentare la fornace e di terreni nei dintorni di Millesimo. Non è quindi un caso se nel 1889 lascia la casa di proprietà del Marchese ed acquista dalle sorelle Borello un complesso di piccoli edifizi20 con un giardino attiguo, già di proprietà dei Del Carretto, che costituirà il nucleo iniziale della sua nuova abitazione e che a seguito degli ampliamenti effettuati negli anni seguenti diverrà l’attuale Casa Ferrari. All’epoca il suo primogenito, Giovanni Battista, aveva 29 anni e nel 1886 aveva sposato Luigia Baglioni di 17 anni, figlia di Vinasco Baglioni, imprenditore nell’industria estrattiva di Monteggio e, quantunque la sua figura sia oggetto di critiche ed ancora oggi discussa, indubbiamente questo matrimonio testimonia due fatti rilevanti. In primo luogo il perdurare dei contatti e dei legami di Filomena con il Malcantone e in secondo luogo contribuisce ad attestare l’avanzamento sociale conseguente alle mutate condizioni economiche della famiglia Ferrari. Il figlio minore, Angelo, ha all’epoca 19 anni e si può quindi ipotizzare che i figli svolgessero ormai un ruolo attivo all’interno della fornace. Questo nucleo familiare così compatto, chiamato in paese i ‘furnaxini’, sotto la guida di Filomena che nei diversi atti di acquisto viene via via definita «madre di famiglia, fornaciaja, industriale», riesce dunque a migliorare progressivamente la propria posizione sociale e creare condizioni di lavoro per un numero sempre maggiore di persone. Infatti, come vedremo, nel 1897 la fornace impiegava 15 lavoranti provenienti da zone anche lontane da Millesimo ma successivamente, nel 1905, la forza lavoro era costituita da 85 dipendenti, in gran parte manodopera locale. Dall’esame dell’elenco degli esercizi commerciali in essere a Millesimo nel 1900, redatto al fine di determinare l’ammontare della ‘Tassa di esercizio’, si può avere un’idea sia della tipologia degli esercenti, sia del loro reddito. Come si può vedere dalla tabella n. 1, all’epoca esistevano 97 esercenti di cui 14 donne che, come si può vedere, avevano una posizione marginale e svolgevano attività conformi al ruolo ad esse tradizionalmente assegnato, il che fa ancor più risaltare la posizione di Filomena. Infatti al primo posto di tale graduatoria si collocano gli eredi di Carlo Ferrari (erroneamente indicati come Ferraris21), ossia la Ditta di Filomena Ferrari & Figli, seguita da Domenico Lamberti, con molta probabilità uno dei titolari della ditta Martinolo e Lamberti, fabbrica di estrazione dell’acido tannico, all’epoca unica realtà industriale di rilievo oltre alla fornace dei Ferrari. Filomena ha ora 64 anni e sempre più le successive iniziative imprenditoriali porteranno il nome dei figli anche se, come vedremo, i contratti importanti venivano stipulati nella sua abitazione e si può pertanto supporre che di fatto continuasse ad esercitare un ruolo di primo piano nella gestione dell’azienda. Così nell’atto costitutivo di una nuova fornace realizzata a Sale delle Langhe nel 1905, figurano i figli Giovanni, Luigi e Angelo, il Ristorante Svizzero è intestato a Luigi, la fornace di calce costituita nel 1907 vede tra i soci fondatori i fratelli Ferrari unitamente a Carlo Ferrando e all’ing. Scarzella. A partire dai primi anni del 1900, quando forse era già maturata l’idea della costruzione di una fornace a Sale delle Langhe, si assiste ad un ampliamento della Ditta Filomena Ferrari & Figli con l’inclusione, oltre alla produzione e smercio di laterizi, della vendita di articoli di ferramenta e agricoli, per la casa e per il giardino, mobilia, calce, cemento, ferro, legname e sembra che Filomena trovasse anche il tempo per coltivare gelsi, produrre miele e curare un frutteto adiacente alla fornace.
20 Si tratta di un magazzino interrato, una stanza al piano terra e una stanza al primo primo. Il prezzo della vendita è di £ 650, che Filomena paga «a suo nome interesse e denari dei propri figli Giovanni, Luigi, Maria ed Angelo». 21 Si tratta di un errore che ricorre con una certa frequenza.
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Cognome FERRARIS RAPETTI LAMBERTI DELFINO CIGLIUTI GIACOSA LEVRATTO MAGHELLA PRANDI BAGNASCO MAGLIANO SANTO CANAPARO DOTTA FACCO GARELLO GIACOSA GIORELLO TESTA VOARINO ARENA BARBERIS BAGNASCO CHINAZZO PRANDO ZOPPI ACHINO COSTA RUFFINO SCHELLINO SCASSO ASTESIANO BARELLO CARMELO CELLARIO CULAZZO DAVID FERRANDO MANZINO MAZZONE PASQUARIO PASTORINO PASTORINO PERUZZO PIZZORNO PREGLIASCO PREGLIASCO SCARZELLA TURBA
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Nome Eredi Carlo fu Gio B. Ing. Francesco Cav. Domenico fu Luigi Cav. Luigi fu Carlo Cav. Dr. Giacomo fu Giuseppe Pietro fu Gio B. Avv. Giuseppe fu Luigi Giovanni fu Gio B. Giovanni Catterina in Pasquero Luigi fu Lorenzo Felicina Luigi fu Paolo Giacinto fu Giuseppe Giuseppe Carlo di Giuseppe Pasquale fu Paolo Giovanni fu Luigi Dr. Luigi Enrico di Stefano Giuseppe fu Giovanni Pietro fu Giuseppe Giuseppe fu Giorgio Giuseppe di Stefano Paolo fu Francesco Giacomo Giovanni di Maurizio Luigi fu Gio Batta Carlo di Serafino Paola ved. Martino Luigi Giovanni Francesco Felice Giuseppe Carlota ved. Fracchia Teresa in Gamba Carlo fu Giovanni Giovanni fu Giuseppe Lorenzo fu Carlo Pietro fu Luigi Francesco Luigi fu Giuseppe Giovanna e Giovanni Scarzella Pietro di Clemente Domenico Giuseppe di Pier Antonio Giuseppe fu Gio B. Luigi
Tipo di attività Fabbrica laterizi Rapp. d’impresa Negoziante Negoziante tessuti Medico chirurgo Oste Notaio Farmacista Farmacista Due attività Negoziante ferramenta Macellaia Calzolaio Albergatore Esattore Panattiere ed oste Carrettiere e chincaglierie Sarto Medico chirurgo Negoziante Merciaio Oste
Carrettiere Scalpellino Albergatore Veterinario Calzolaio Ostessa Calzolaio Mugnaio Panattiere Panattiere Panattiere Ostessa Ostessa Venditore calce Vetturale Fabbro Calzolaio, negoziante Falegname Oste Calderaia Oste Falegname Muratore Calzolaio Ombrellaio
Debito 100,00 100,00 50,00 30,00 25,00 25,00 25,00 25,00 25,00 20,00 20,00 20,00 15,00 15,00 15,00 15,00 15,00 15,00 15,00 15,00 12,50 12,50 12,50 12,50 12,50 12,50 10,00 10,00 10,00 10,00 10,00 7,50 7,50 7,50 7,50 7,50 7,50 7,50 7,50 7,50 7,50 7,50 7,50 7,50 7,50 7,50 7,50 7,50 7,50
Aggio 1,69 1,69 0,84 0,50 0,42 0,42 0,42 0,42 0,42 0,33 0,33 0,33 0,25 0,29 0,25 0,29 0,29 0,29 0,29 0,25 0,22 0,22 0,22 0,22 0,20 0,20 0,01 0,16 0,16 0,16 0,16 0,12 0,12 0,12 0,12 0,12 0,12 0,12 0,12 0,12 0,12 0,12 0,12 0,12 0,12 0,12 0,12 0,12 0,12
Totale 101,69 101,69 50,84 30,5 25,42 25,42 25,42 25,42 25,42 20,33 20,33 20,33 15,25 15,29 15,25 15,29 15,29 15,29 15,29 15,25 12,72 12,72 12,72 12,72 12,7 12,7 10.16 10,16 10,16 10,16 10,16 7,62 7,62 7,62 7,72 7,62 7,62 7,62 7,62 7,62 7,62 7,62 7,62 7,62 7,62 7,62 7,62 7,62 7,62
M/F F M M M M M M M M F M F M M M M M M M M M M M M M M M M M F M M M M M F F M M M M M M FeM M M M M M
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Cognome VERDONE BARLOCCO BOFFA BORMIDA BONINO CIRAVEGNA FONTICELLI FRACCHIA GAMBA GAMBA GIACOSA LAIOLO LEVRATTO MACCIO’ MAGLIANO MANZINO PARIS RIGOLI SUPATO SUPATO ZUNINO ZUCCHINI FERRARIS ARENA BONINO BOTTERO CANAPARO CAMOIRANO FACCIO FACELLO FERRARO GELSOMINI MANZINO MANZINO MAZZONE ODELLA ODELLA ODELLA PASQUARIO PESCE PESCE PIZZORNO PREGLIASCO RIGOLI SCARZELLA SUFFIA SUFFIA VASSALLO
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Nome Sorelle fu Francesco Giuseppe fu Gio B. Michele Dario di Giuseppe Giovanni Giovanni fu Giuseppe Rosa ved. Bagnasco Giovanni fu G.B. Francesco di Antonio Matteo di Francesco Paolo fu Luigi Luigi di Giuseppe Serafino Andrea Luigi fu Felice Pietro fu Luigi Giuseppe fu Luigi Carlo Luigi di Bartolomeo Paolo fu Domenico Catterina e Viello Giuseppe Giovanni fu Bartolomeo Giuseppe Luigi fu Carlo Giovanni di Giuseppe Giovanni fu Pietro Francesco fu Michele Luigi fu Giovanni Giuseppe di Giuseppe Giuseppe fu Gio B. Gio Maria fu Bonavito Maddalena ved. Nolasco Pietro Stefano fu Giovanni Giovanni fu Luigi Francesca nata Piano Agostino Giuseppe fu Lorenzo Ferdinando di Giuseppe Pietro fu Giovanni Domenico fu G.B. Paolo e Domenico Gio Batta fu Antonio Laura di Domenico Bartolomeo Luigi di Paolo Filippo fu Gio Angelo Luigi di Gio Batta Giacomo
Tipo di attività Negozianti stoffe Panattiere Calzolaio Falegname Orologiaio Commerciante Bottegaia Falegname Muratore Oste Falegname Negoziante tessuti Orologiaio Pasticciere Lattaio Falegname Scalpellino Muratore Mulattiere Oste Carradore Tagliapietre Merciaio Calzolaio Venditore terraglie Calzolaio Negoziante tessuti Muratore Sarto Muratore Carrettiere e chincaglierie Fruttivendola Oste Carrettiere Carrettiere Maniscalco Segatore Segatori Chiavaiuolo Ostessa Lattaio Barbiere Oste Cerchiaio
Debito 7,50 5,00 5,00 5,00 5,00 5,00 5,00 5,00 5,00 5,00 5,00 5,00 5,00 5,00 5,00 5,00 5,00 5,00 5,00 5,00 5,00 5,00 5,00 2,50 2,50 2,50 2,50 2,50 2,50 2,50 2,50 2,50 2,50 2,50 2,50 2,50 2,50 2,50 2,50 2,50 2,50 2,50 2,50 2,50 2,50 2,50 2,50 2,50
Aggio 0,12 0,08 0,08 0,08 0,08 0,08 0,08 0,08 0,08 0,08 0,08 0,08 0,08 0,08 0,08 0,08 0,08 0,08 0,08 0,08 0,08 0,08 0,08 0,04 0,04 0,04 0,04 0,04 0,04 0,04 0,04 0,04 0,04 0,04 0,04 0,04 0,04 0,04 0,04 0,04 0,04 0,04 0,04 0,04 0,04 0,04 0,04 0,04
Totale 7,62 5,08 5,08 5,08 5,08 5,08 5,08 5,08 5,08 5,08 5,08 5,08 5,08 5,08 5,08 5,08 5,08 5,08 5,08 5,08 5,08 5,08 5,08 2,54 2,54 2,54 2,54 2,54 2,54 2,54 2,54 2,54 2,54 2,54 2,54 2,54 2,54 2,54 2,54 2,54 2,54 2,54 2,54 2,54 2,54 2,54 2,54 2,54
M/F F M M M M M F M M M M M M M M M M M M FeM M M M M M F M M M M F M M M F M M M M M M M F M M M M M
Tabella n. 1 – Importi pagati come tassa d’esercizio dagli esercenti attività commercialied industriali nell’anno 1900.
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Essa, oltre a cercare uno sbocco produttivo a Sale delle Langhe, che era il frutto, come vedremo, di una scelta assai moderna per l’epoca, allarga il numero e la tipologia degli articoli da commercializzare per creare un ulteriore volano e probabilmente guardava oltre i figli, oramai tutti sposati e pensava anche ai numerosi nipoti. Dall’esame dei ruoli delle tasse comunali degli anni 1906 e 1907 si può rilevare che a 70 anni Filomena aveva raggiunto la classe più alta, la diciannovesima della contribuzione famigliare, aveva tre domestici regolarmente registrati e pagava una tassa di esercizio doppia di quella del 1900; per quanto riguarda la rendita proveniente dai fabbricati figurava con l’imponibile più elevato di quelli versati dai cittadini di Millesimo. Il ritratto di Filomena emerso sino ad ora è quello di una donna decisa, autorevole, intransigente, lavoratrice indefessa, che dedica tutta la sua esistenza alla famiglia e all’azienda e, forse, potremmo dire, alle aziende. Il suo carattere sicuramente autoritario, la porterà a degli scontri non solo in ambito lavorativo con i dipendenti della fornace di Millesimo, come vedremo, ma anche con il figlio Luigi. Questi si era innamorato di Emilia, la sorella maggiore di Giuseppina Martino, moglie di Angelo. Il fatto che due fratelli sposassero due sorelle non era gradito a Filomena che, di fronte alla decisione irrevocabile del figlio di unirsi in matrimonio, decide di mandarlo in America sperando, forse, che là avrebbe dimenticato Emilia. Quest’ultima, tuttavia, informata dalla sorella, si farà trovare all’imbarco per San Francisco e pronuncerà le ormai famose parole che tutti i discendenti conoscono: «o mi porti con te o mi ammazzi», mettendogli tra le mani una pistola. I due partono insieme, Luigi inizialmente lavorerà come panettiere, ma si ha notizia che poco tempo dopo avesse acquisito una partecipazione nella Ditta Conrado Wine & Co, con sede a Broadway, San Francisco, specializzata nella vendita di vini e in particolare di liquori22. A poco più di un anno dal suo arrivo in America, Luigi, grazie anche all’intraprendenza della moglie, era riuscito ad inserirsi in un’attività per la quale aveva forse maturato una competenza a Millesimo, quando era titolare del Ristorante Svizzero. A San Francisco, nel 1914 nasce il loro figlio Ferdinando Elio e nello stesso anno Filomena, probabilmente sentendo ormai il peso dei suoi 78 anni, richiama Luigi per riaccoglierlo in seno alla famiglia. Numerose altre testimonianze dell’intransigenza di Filomena emergono dall’analisi delle sentenze emanate dal giudice conciliatore di Millesimo. Troviamo ad esempio una convocazione del signor Peirone Giuseppe, negoziante di ferramenta di Ceva, per il pagamento di £ 73 quale prezzo di stufa in lamiera con interno refrattario da esso acquistata e ingiustificatamente restituita un anno dopo.
22 La ditta Conrado esiste ancora, anche se ha ampliato l’oggetto sociale.
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Altre udienze riguardano il mancato pagamento di 400 tegole vendute nel 1901 e non ancora pagate nel 1907, ed altre ancora si riferiscono a piccole somme per forniture non pagate. Filomena non era però solo un’arida imprenditrice, lo testimonia il carteggio intrattenuto con il Prof. Core, procuratore dei Del Carretto. Dalle lettere che i due si scambiavano emerge non solo un rapporto di amicizia e di stima reciproca ma è anche possibile scorgere la fede religiosa, ancorché semplice, di Filomena. Filomena muore la sera del 26 dicembre 1915. La sua morte coincide con la fine di un’epoca, segnata non solo dagli eventi della prima guerra mondiale e dai conse-
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guenti sconvolgimenti degli equilibri politici del mondo, ma anche da profondi rivolgimenti culturali e nei costumi. A livello della famiglia Ferrari con la morte di Filomena si assiste ad un progressivo sgretolamento dell’unità famigliare e ad un conseguente smembramento del cospicuo patrimonio da lei costruito nel corso della sua lunga vita.
La fornace di Millesimo L’acquisto Con molta probabilità già nella prima metà dell’800 a Millesimo esisteva una fornace ‘a pignone’23 per la produzione dei laterizi, di proprietà del Marchese Del Carretto dove, come abbiamo visto in precedenza, aveva iniziato a lavorare Carlo Ferrari, in un primo tempo stagionalmente e successivamente, con molta probabilità, come affittuario e/o gestore24. Notizie più precise ci vengono fornite dall’atto di «Vendita stabili dalli Signori Marchesi Carlo Del Carretto di Moncrivello Conte di Millesimo con intervento della Signora Marchesa Ersilia Borromeo a favor della Sig.ra Gagliardi Filomena»25 datato 26 novembre 1881 nel quale viene riportata una descrizione minuziosa dei cespiti, meglio identificati dai loro confini in quanto «non vi è numero di mappa censuaria né di catasto regolare». Gli oggetti della vendita sono: un campo in Regione della Torre di are 46, centiare 75 «pari a tavole 123» e un «coltivo con fornace da laterizi di are 65 centiare 27 pari a tavole 169» nella Regione Portiolo e Fornace. Il fatto che la regione in cui è ubicato il manufatto sia denominata e iscritta nell’atto di acquisto come ‘Portiolo e Fornace’ conferma l’ipotesi formulata in precedenza circa l’esistenza ormai consolidata di un insediamento produttivo antecedente la fornace Hoffmann a 14 bocche che di lì a qualche anno verrà edificata da Filomena. Nell’atto di acquisto sopra menzionato sia il Marchese Carlo Del Carretto di Moncrivello sia la di lui madre, Marchesa Ersilia Borromeo vedova del Marchese Gustavo Del Carretto di Moncrivello ‘Tenente di cavalleria’ non intervengono direttamente, ma sono rappresentati dal loro procuratore generale Professor Carlo Core, residente in Torino. Filomena Gagliardi viene registrata come originaria di «Molinazzo Cantone Ticino, vedova di Carlo Ferrari domiciliata a Millesimo […] di professione commerciante». Il prezzo pattuito è di £ 3.300 che la compratrice promette e si obbliga a pagare al Signor Marchese Carlo Del Carretto di Gorzegno e di Moncrivello Conte di Millesimo od a chi sarà per lo stesso validamente autorizzato fra il termine convenuto di cinque anni a partire da oggi e corrispondergli l’interesse pure pattuito alla ragione del cinque per cento al netto di ogni imposta in specie da quella di Ricchezza Mobile quale resta a carico della debitrice e dovrà farne pagamento assieme agli interessi alla scadenza di cadun anno anzi a semestri maturati determinata alla data d’oggi con riserva dell’ipoteca legale al Signor alienante dai beni che fanno oggetto della vendita per detto capitale di lire tremila trecento ed interessi cogli accessori.
L’acquisto della fornace da parte di Filomena, vedova ma con quattro figli maschi già in grado di aiutarla nel lavoro, è emblematico dell’affermazione di una nascente classe imprenditrice sulle ultime espressioni sociali delle classi dominanti del-
23 La fornace a pignone era costitituita da un prefurnio, una camera di combustione, una camera di cottura e una chiusura. Il prefurnio era un corridoio interrato dove veniva acceso il combustibile che bruciava nella camera di combustione, anch’essa parzialmente interrata. Il materiale da cuocere veniva appoggiato su un piano che separava la camera di combustione da quella di cottura o direttamente sul combustibile. I mattoni venivano impilati di taglio, lasciando uno spazio che consentisse all’aria calda di salire verso l’alto lambendo verticalmente la loro superficie, cosicché la cottura avvenisse in modo omogeneo. I mattoni così collocati gli uni sugli altri formavano una catasta (o pignone) di forma tronco-piramidale o tronco-conica. Per evitare la dispersione di calore la fornace era chiusa da una volta forata o, più comunemente, da un graticciato provvisorio di legno, isolato internamente ed esternamente con uno strato d’argilla. In questa fornace il ciclo di cottura era discontinuo. 24 A tutt’oggi non è ancora stato possibile disporre di una documentazione certa sulla datazione di questa fornace. 25 Atto a rogito Notaio Raimondo Mellonio di Cairo registrato a Cairo M.tte il 14 dicembre 1881 al n. 831.
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Veduta di Millesimo agli inizi del Novecento. Si notano al centro dell’immagine le ciminiere delle due fornaci (Archivio Luigi Pregliasco).
l’ancien régime di origine feudale, in questo caso rappresentata dai Marchesi Del Carretto, costretti prima ad ipotecare e poi a vendere parti cospicue del proprio patrimonio immobiliare. Nell’atto di vendita risulta infatti che la vedova di Gustavo, Marchesa Ersilia Borromeo, interviene nell’atto di vendita del terreno e della fornace: come dianzi rappresentata specialmente per garantire la compratrice […] delle ipoteche a di lei favore inscritte sui fondi alienati quali perciò diventeranno giuridicamente inefficaci in confronto o nei rapporti colla stessa compratrice specialmente per la cancellazione che a favore di questa ne procede la prelodata signora Marchesa.
La vedova e il figlio del Marchese Gustavo stavano dunque progressivamente alienando i cespiti avuti in eredità ed in particolare, come nel presente caso, terreni scarsamente produttivi dal punto di vista agricolo ma che negli anni a venire sarebbero stati utilizzati a scopo industriale. L’espansione A soli nove anni dall’acquisto, la fornace nella quale Carlo aveva lavorato per più di venti anni si rivelava insufficiente e inadeguata a tenere il passo con i cambiamenti nel tessuto economico della zona bagnata dal fiume Bormida, anche a seguito dell’apertura della ferrovia Savona-Torino, inaugurata nel 1874, che aveva a Cengio, distante pochi chilometri da Millesimo, una stazione per le merci ed i passeggeri. A questo riguardo si può ritenere che parte dei mattoni impiegati nelle costruzioni della linea ferroviaria Savona-CastellinoTanaro-Bra-Carmagnola-Torino provenissero dalla fornace di Millesimo e, con ogni probabilità, la stessa fornace aveva provveduto in modo significativo alla fornitura dei laterizi impiegati nella 176
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costruzione della galleria del Belbo. Non va dimenticato inoltre che nel 1882 era stata costruita a Cengio una fabbrica di prodotti esplosivi cui ben presto vennero affiancandosi nuove strutture abitative per l’alloggiamento dei quadri e dei lavoranti che vi sarebbero stati impiegati e si può quindi immaginare l’andirivieni di carri carichi di mattoni trainati da cavalli26 che facevano la spola tra i due piccoli paesi bagnati dal fiume Bormida. Questo fervore di nuove costruzioni evidentemente non poteva essere fronteggiato dalla vecchia fornace ‘a pignoni’ e si rendeva quindi necessaria la realizzazione di un nuovo impianto dotato di maggiore capacità produttiva e di tecnologie adeguate alle nuove esigenze A tal scopo viene avviata la costruzione, a poca distanza da quella acquistata dagli eredi del Marchese Gustavo Del Carretto, di una nuova fornace di tipo Hoffmann27, che entrerà in funzione nel 1890. Per un certo periodo di tempo, probabilmente anche lungo, le due fornaci funzioneranno contemporaneamente. Entrambe sono registrate nella Tabella dei possessori di Fabbricati soggetti all’imposta dell’anno 1891 come esistenti in «Regione Portiolo civico 123 di Mappa 184». La fornace di nuova costruzione, ultimata il 1° luglio 1890, era a 14 bocche, mentre la vecchia fornace risultava costituita da due piani e tre vani. La fornace Hoffmann, oltre a essere di dimensioni maggiori della precedente era tecnicamente all’avanguardia e la sua costruzione segnava un punto di svolta nella storia dell’azienda giacché con essa si realizzava un salto tecnologico ed organizzativo tale da far ritenere compiuto il passaggio dalla dimensione artigianale a quella industriale. Essa inoltre produceva un reddito di quasi venti volte superiore alla precedente. La forza lavoro Il primo documento ufficiale disponibile riguardante la manodopera della fornace acquistata nel 1881 è il Registro degli operai della Signora Ferrari Filomena datato «A Millesimo li 21 Maggio 1897» nel quale sono riportati i nominativi di 15 lavoranti. Sono tutti di sesso maschile e di sei risulta la data di assunzione: due nel marzo del 1897 e gli altri quattro ad aprile dello stesso anno28. È interessante notare la loro provenienza e il loro domicilio: nessuno è originario di Millesimo o dintorni o ivi domiciliato. Età
N.
Provenienza (luogo di nascita)
N.
< 15: 16 - 20: 21- 30: 31- 40: 41- 50: > 50:
0 1 3 4 2 5
Cornigliano d’Alba (Cuneo) Pettinengo (Biella) Marchirolo (Varese) Dumenza (Varese) Alba La Rotta (Pisa) Vicobarone frazione di Ziano Piacentino (Piacenza) Sarmato (Piacenza) Ceva
1 1 1 3 1 3 1 2 2
Tabella n. 2 – Età, provenienza e residenza degli operai iscritti nel Registro datato 21 maggio 1897.
Residenza
N.
Nucetto Marchirolo Dumenza Alba La Rotta Castel S. Giovanni (Piacenza) Sarmato Ceva
1 1 3 2 3 1 2 2
26 Si tenga conto che un carro poteva portare 700 mattoni ed era trainato da uno o più cavalli o muli. 27 Trattasi di fornace a fuoco continuo di forma ellittica, in questo caso a 14 bocche o fuochi o camere indipendenti di cottura. Le bocche venivano usate per l’alimentazione dei fuochi. Nelle diverse camere si caricavano e scaricavano i laterizi, giacevano i materiali già cotti in fase di raffreddamento, cuocevano i laterizi e venivano impilati i mattoni crudi in attesa di cottura. Le pareti delle camere erano costituite da un sottile strato di argilla cruda o da un foglio di carta che si sbriciolava o bruciava con l’avanzare del calore. Solitamente si procedeva di una o due camere ogni 24 ore, completando un ‘giro fornace’ in una o due settimane. 28 Ovviamente è lecito supporre che la fornace fosse in funzione e producesse laterizi sin dal momento dell’acquisto da parte di Filomena, ma purtroppo, al momento, non è stato possibile consultare registri di data anteriore al 1897.
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Dalla tabella n. 2 risulta che 4 operai provengono dalla provincia di Cuneo, 1 da quella di Biella, 3 da Piacenza, 3 da Pisa e 4 da Varese e più precisamente da Dumenza a Marchirolo. A questo riguardo è interessante notare che la prima confina a est con il Malcantone, mentre Marchirolo, anch’esso in provincia di Varese, si trova abbastanza vicino a Ponte Tresa, al confine con l’Italia, non lontano da Molinazzo. Ad una analisi più approfondita risulta inoltre che due dei lavoranti provenienti da Dumenza, Giovanni Moro con il figlio diciassettenne Giuseppe, erano parenti acquisiti di Carlo, il cui fratello Giovanni Battista aveva sposato Carolina Moro di Dumenza. Sembrerebbe dunque che per un periodo abbastanza lungo Filomena utilizzasse manodopera, probabilmente specializzata, proveniente da zone anche lontane da Millesimo. Il fatto che nessun lavorante vi avesse eletto il proprio domicilio è legato alla stagionalità del ciclo produttivo, che iniziava a marzo e terminava per la festa di Ognissanti quando, con ogni probabilità, gli operai tornavano ai loro luoghi di residenza. Come vedremo meglio a proposito della fornace di Sale delle Langhe, gli spostamenti di mano d’opera avvenivano sovente per gruppi di famiglie o per gruppi provenienti dallo stesso paese. Per ogni lavorante venivano annotati gli estremi del passaporto; solo quattro, domiciliati in provincia di Cuneo, risultano sprovvisti di questo documento. Il 19 giugno 1902 venne promulgata la legge n. 242 «sul lavoro delle donne e dei fanciulli» e di conseguenza il Comune provvedeva a trasmettere all’Ufficio di Pubblica Sicurezza della Sotto-prefettura di Savona un elenco delle ditte che impiegavano manodopera, specificandone la consistenza suddivisa per maschi e femmine, allegando la dichiarazione che non venivano impiegati lavoratori di età inferiore ai 15 anni. Veniamo così a sapere che in quell’anno i lavoranti ammontavano a 61 unità, di cui solo 4 donne. La mansione svolta era indistintamente definita come ‘mattonai’ e non risultava nessun dipendente di età inferiore a 15 anni. Nel 1905 i dipendenti risultano essere, in base al Registro degli operai della Signora Ferrari Filomena datato «A Millesimo li 1° Aprile 1905», in numero di 85 – di cui 6 femmine e 79 maschi – e sulla base di una nota trasmessa al locale comando dei Carabinieri si apprende che di essi 39 erano stati assunti entro il mese di aprile e 37 entro quello di giugno, un andamento dell’occupazione che riflette quello del ciclo produttivo. L’analisi dei dati annotati nel registro consente di constatare ‘in primis’ il notevole incremento del numero di addetti rispetto a quanto annotato otto anni prima, testimonianza di una consistente espansione dell’attività. Inoltre il registro ci fornisce indicazioni circa le classi di età, il luogo di nascita e di residenza dei dipendenti. Contrariamente a quanto accadeva nel 1897, allorché provenivano da località diverse da Millesimo, anche lontane, in questo caso il 63,53% dei lavoranti era residente in Millesimo e colà nato ed il 21,18% proveniva dalla provincia di Pisa, un contingente la cui incidenza era dunque simile a quella del 1897. Con ogni probabilità questi ultimi costituivano una manodopera specializzata, mentre quella locale svolgeva mansioni di minore responsabilità. Vi era quindi un 5,88% di lavoranti provenienti da Roccavignale, poco distante da Millesimo, mentre il 3,53% risiedeva in provincia di Savona e una eguale percentuale in quella di Cuneo, infine il restante 2,35% risiedeva in altre province. 178
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Dall’esame delle classi di età si rileva che, per quanto riguarda la manodopera maschile si trattava in prevalenza di giovani, infatti sia la fascia dai 16 ai 20 anni sia quella dai 21 ai 30 registra percentuali identiche, pari al 28,21%, cosicché queste coorti costituivano più della metà della forza lavoro. Seguivano le classi di età tra i 31 e i 40 anni, con il 13,92% dei dipendenti, e infine quelle dei soggetti di età minore o eguale a 15 anni, quella dei lavoratori fra i 41 e i 50 e quella di coloro che avevano più di 50 anni, tutte con percentuali del 10,26%. Per quanto riguarda le donne, la fascia d’età che registra un maggior numero di lavoratrici è quella tra i 31 e i 40 anni e nell’ordine seguono: quella tra i 21 ed i 30, tra i 16 ed i 20 ed infine quella delle lavoratrici d’età inferiore o eguale a 15 anni, tutte pari al 16,67%; non figuravano invece dipendenti di età superiore ai 41 anni. È da sottolineare inoltre che, per quanto riguarda sia i lavoratori, sia le lavoratrici di 15 anni, in conformità alle disposizioni di cui alla legge 242 sopra menzionata, veniva indicata l’annotazione «compiuti o che compie nel mese di …»; dei tre casi di addetti d’età inferiore ai 15 anni, uno è figlio di un altro lavorante mentre degli altri due non ci è dato sapere le motivazioni di una situazione apparentemente anomala ma in ogni caso regolarmente registrata. Purtroppo, diversamente da quanto accade per la fornace di Sale delle Langhe, non sono disponibili libri paga con il dettaglio delle mansioni, delle retribuzioni e dell’organizzazione del lavoro. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, sulla base di quanto osservato nel caso di Sale delle Langhe, si può tuttavia ipotizzare che il lavoro venisse svolto da ‘squadre’, in alcuni casi composte da membri di una stessa famiglia, e comunque strutturate al proprio interno in forma gerarchica e guida-
Filomena circondata dai figli e dalle maestranze. In primo piano alcuni ragazzi mostrano un campionario della produzione (Archivio Angelo Ferrari).
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ta da un ‘responsabile’, di solito l’addetto più esperto, che non di rado percepiva l’intera retribuzione assegnata alla squadra nella sua interezza, per poi ripartirla tra i suoi componenti. Non stupisce dunque che nel registro degli operai oggetto di analisi, accanto ad alcuni nominativi risulti il riferimento al rapporto di parentela con il capo-famiglia o al responsabile cui è demandato il controllo dell’attività di un subalterno. Si trovano così le indicazioni: «è moglie di … è fratello di …è figlio/figlia di…, è sorella di…, è nipote di…, è garzone di…». Per quanto riguarda invece le mansioni, nel registro compaiono solo le indicazioni relative a quelle di quattro dipendenti maschi: un macchinista, un fuochista, un «addetto a lavori a disegno di terra» e l’ultimo a «lavori cemento». Infine un lavorante risulta pagato a cottimo, un altro è retribuito a giornata, ovvero ‘giornaliero’ e per alcuni operai risulta registrata nelle apposite colonne «data dei movimenti del servizio: entrata/uscita», la data di inizio o di cessazione del servizio. Il rapporto di lavoro era dettagliatamente disciplinato dal Regolamento per gli Operai addetti alla Ditta Filomena Ferrari & Figli in Millesimo datato 3 gennaio 1907, che con tutta probabilità era in vigore già in precedenza. Esso era costituito da 18 articoli, nei quali venivano descritti gli obblighi e i doveri dei dipendenti. Gli aspetti a cui viene dato maggior rilievo sono: l’affidabilità, la disponibilità al lavoro e la puntualità, la responsabilità personale, la remunerazione, le multe e le lamentele. L’operaio aveva l’obbligo di presentare «un attestato di buon servizio» quando iniziava a lavorare in fornace ed era tenuto a prestare la sua opera anche nei giorni di festa e di fiera quando i proprietari lo richiedevano, ma non a piacimento degli operai se non acconsentito dai proprietari.
Nell’articolo 6 viene fatto esplicito riferimento alla puntualità: Qual’ora l’operaio non si presentasse al lavoro all’ora precisa del cominciamento di giornata, o del quarto, non potrà applicarvisi se non al quarto successivo al perso; così pure non potrà lasciare il lavoro se non alla fine della giornata o del quarto.
I dipendenti si dovevano far carico degli attrezzi di lavoro ad inizio giornata, ne erano responsabili e dovevano restituirli alla fine. La mercede veniva pagata il sabato del quattordicesimo giorno, con la ritenzione del 10% a garanzia degli impegni assunti. La ritenuta verrà pagata alla fine di ogni anno, od anche al licenziamento dell’operaio.
Potevano venire comminate delle multe da £ 0,50 a £ 2 per «insubordinazione, ubriachezza, disattenzione, divertirsi e disturbare la quiete dello stabilimento». Qualsiasi reclamo, infine, doveva essere fatto «alla sera di ciascun giorno, e non potrà l’operaio per porgere questo assentarsi dal suo lavoro». Un altro interessante documento redatto in Millesimo il 3 gennaio 1907 e sottoscritto da Filomena Ferrari e Figli è l’Orario per gli Operai addetti alla Ditta Filomena Ferrari & Figli in Millesimo che viene qui di seguito riportato:
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Mesi
Gennaio Febbraio Marzo Aprile Maggio Giugno Luglio Agosto Settembre Ottobre Novembre Dicembre
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ore antimeridiane
8.15 - 12.7.45 - 12.7.- 12.6.- 12.5.15 12.4.45 12.4.45 12.5.15 12.5.45 12.6.30 12.7.15 12.8.- 12.-
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ore pomeridiane
Divisione giornate cominciamento da
13 - 16.45 13.- 17.30 13.30-18.15 13.30 19.14.- 19.30 14.- 20.15 14.- 20.15 14.- 19.30 13.30 19.13.30 18.15 13.- 17.15 13.- 16.45
2°quarto e più del 1° 10.15 9.50 9.30 9.8.30 8.30 8.30 8.30 9.9.15 9.40 10.-
Detto 3° e più del 2° 14.55
Detto 4° e più del 3° 14.55 15.15 15.40 16.15 16.45 17.17.16.45 16.15 15.40 15.14.55
Tabella n. 3 – Orario di lavoro delle maestranze di Millesimo nel 1907.
Vi è da aggiungere inoltre che nei mesi di aprile, maggio, giugno luglio, agosto e settembre i lavoratori avevano diritto ad un riposo dalle ore 8 alle ore 8.30. Come è già stato detto in precedenza la ‘stagione’ di lavoro durava da marzo a fine ottobre, periodo nel quale i mesi con un maggior numero di ore lavorative giornaliere erano giugno e luglio con 13.30, seguiti da maggio e agosto con 12.15, quindi settembre con 11.45 e poi aprile con 11.30, ottobre: 10.15 e marzo con 9.45, cosicché la durata media stagionale della giornata lavorativa era di 12 ore. Anche nel periodo in cui la fornace era ferma e presumibilmente venivano eseguiti lavori di manutenzione e riparazione degli impianti e degli attrezzi e la vendita dei mattoni cotti, di solito ‘impignonati’ al riparo di tettoie o nei piazzali antistanti la fornace, la giornata lavorativa era piuttosto lunga con una media di ore lavorate in gennaio, febbraio, novembre e dicembre di 8 ore e mezza. Un Regolamento così rigido, di stampo, potremmo dire ‘vittoriano’ ed un orario di lavoro così pesante non poteva che causare malcontento fra gli operai, anche alla luce di una coscienza di classe che tra le fine dell’800 e l’inizio del ’900 si andava formando e manifestando con la nascita delle prime forme di organizzazione sindacale. Sono di estremo interesse due lettere, una datata 8 febbraio 1903 e l’altra senza data ma scritta con molta probabilità nello stesso periodo, nelle quali gli operai si rivolgono alla Ditta Filomena Ferrari & Figli per avanzare delle precise richieste: Millesimo, 8 febbraio 1903 Preg.tmi signori padroni Sono gia parecchi anni che siamo al loro servizio, ben volentieri abbiamo sempre lavorato, perché siamo sotto padroni, bravi sinori; in quanto a questo non possiamo lamentarsi. Ora uniti tutti insieme le scriviamo la presente e nel medesimo tempo le domandiamo scusa delle libertà che ci siamo presi; ma siamo certi, che anche loro capiranno che siamo proprio costretti per forza a presentarle le nostre lagnanze per la poca paga che ci danno, le donne che son meno di noi prendono molto più paga che noi.
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Le botteghe non ci vogliono più fare credito, perché vedono che alla fine della quindicina non possiamo pagare nemmeno un terzo di quello che si prende. Quindi non vogliamo essere indiscreti, ma si contentiamo soltanto che ci passano la giornata; come consuetudine generale del paese, che in questa stagione pagano la giornata £. 1,50. E nel medesimo tempo, sia levata la ritenzione. Fidenti della loro bontà e del loro buon cuore speriamo che non se la prenderanno a male, e che faranno buona accoglienza alla presente. Se sono contenti de noi e che la giornata sia di £. 1,50 senza ritenzione va bene; altrimenti ci diamo tempo otto giorni e dopo andremo a lavorare altrove. Uniti tutt’insieme nuovamente le domandiamo scusa; come pure di compatirci la nostra poca capacità nello scrivere. Con tutto rispetto si firmiamo suoi umilissimi servi.
Segue la firma di 13 operai. La seconda lettera è di tenore simile ed entrambe costituiscono dei documenti di grande dignità, coesione e determinazione nella richiesta di un aumento di paga e dell’annullamento della ritenuta del 10% operata a titolo di garanzia che, applicata su salari così bassi, incideva in misura significativa sul reddito disponibile degli operai. La produzione Nel 1905 la produzione della fornace era costituita dalla lavorazione di laterizi in argilla e in cemento. Con tutta probabilità Filomena, come era d’usanza fra i fornaciai, era solita ‘firmare’ l’ultimo mattone di una partita ed infatti nel corso della ristrutturazione di una porzione della sua casa di abitazione, da lei costruita, è stato rinvenuto un mattone pieno della misura di 25x12,5x7 cm sul quale compaiono le lettere F F che stanno appunto per Filomena Ferrari.
Catalogo della produzione di piastrelle della Ditta Filomena Ferrari & Figli (Archivio Donatella Ferrari).
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È possibile conoscere in dettaglio la produzione analizzando il Registro di Uscita del Materiale Laterizio datato 29 aprile dello stesso anno dal quale risultano le seguenti tipologie: mattoni pieni, comuni, a mano sagomati, da paramano, mezzani, forati assortiti, a cuneo e a mezzaluna per colonne; tegole a cuore, piatte alla Marsigliese, comuni; coppi comuni; piastrelle pianelle piccole comuni, a quadretti piccoli ordinari e grossi, pianelle grosse comuni, esagonali pressate a quadretti ed inoltre: embrici per forni e per cornicioni, torrette basi per camino e colmi, tubi in terra, ‘pianelloni’ forati e mensole speciali. In un analogo registro datato anch’esso 29 aprile 1905 concernente lo Scarico Magazzino Cementi si può rilevare una produzione di piastrelle del tipo: quadri 20x20 e 25x25 cm, esagoni delle stesse dimensioni, ottagoni, piastrelle 25x25 cm, piastrelle speciali e inoltre cemento a pronta e lenta presa, calce idraulica e gesso, tubi e lavori speciali. L’attività commerciale Nel ruolo delle tasse comunali del 1906 appare per la prima volta un incremento delle voci che costituiscono la base imponibile della Ditta. Alla fabbricazione dei laterizi, viene affiancata l’indicazione della produzione di manufatti in cemento e della commercializzazione di legname e ferramenta, oltre l’esercizio di un’osteria. Si può facilmente ipotizzare che l’apertura, nel 1905 da parte di Filomena, di una nuova fornace di laterizi a Sale delle Langhe, la cui localizzazione accanto ai binari della ferrovia Savona-Torino avrebbe consentito una commercializzazione dei prodotti più facile e rapida di quanto non potesse essere a Millesimo per ovvie ragioni logistiche, abbia indotto Filomena ad affiancare alla produzione dei laterizi la rivendita di generi affini e l’apertura di un’osteria per fornire i pasti agli operai della fornace, al fine di migliorare la redditività complessiva dell’azienda. Da una sentenza della Pretura di Millesimo datata 9 settembre 190629 si apprende che all’epoca la Ditta Filomena Ferrari & Figli era dotata di Fornace Hoffmann con Fabbrica di Laterizi, Fabbrica di Piastrelle in Cemento e lavori in getto; rivendita di calci, cemento, gesso, legnami, bottiglie, lastre di vetro, stufe e caminetti, ferro greggio, poutrelles, ferramenta in genere, mobilia e utensili da cucina e agricoli. Il Bilancio di Apertura datato 18 giugno 1906, purtroppo a tutt’oggi l’unico disponibile, consente di avere una visione complessiva delle poste di bilancio e quindi dell’articolazione della ditta sia dal punto di vista delle attività svolte, sia da quello dei valori. Per quanto riguarda le poste inscritte nell’attivo dell’azienda figura una consistenza di cassa di £ 11.672 mentre i beni mobili ed immobili vengono registrati come segue: la fornace Hoffmann con antistante piazzale per un valore di £ 10.000, gli stabili ad uso laboratorio, magazzini e la casa di abitazione per £ 25.000, le aree destinate a cava £ 13.600 ed il macchinario per £ 30.859, per un totale di £ 79.459. Sotto la voce «Merci in Monte» sono distinti cinque magazzini relativi a: Ferro e Ferramenta con un valore di £ 32.510, Laterizi a mano e a macchina per £ 3.668,40, Lavori in Cemento: £ 5.152, Legname: £ 4.760 e sotto la voce «Diversi» figura un importo di £ 5.564 per un totale delle rimanenze di magazzino pari a £ 51.654,40. Seguono i valori delle materie prime e degli elementi di lavorazione così distinti: per conto della fornace £ 4.235, per i lavori in cemento £ 635,40 e per gli imballaggi £ 316,50 per un totale di £ 5.186,90. Aggiungendo il valore dei «Debitori Di-
29 Non si possiede copia dell’originale della sentenza ma solo di una trascrizione su carta intestata della Ditta Filomena Ferrari & Figli.
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Carta intestata della Ditta Filomena Ferrari & Figli (Archivio Donatella Ferrari).
versi» di £ 55.655,07 e degli effetti attivi in portafoglio per £ 7.143,56 si ha un totale dell’attivo di £ 210.770,93. Le passività, costituite da creditori vari per £ 53.298,37 e dal Fondo Previdenza Speciale per £ 2.472,56 ammontano ad un totale di £ 55.770,93 con un Capitale netto di £ 155.000. È possibile rilevare l’incidenza del fatturato delle voci di bilancio relative ai laterizi, al cemento, al ferro, al legname, al valore della voce «Magazzini diversi» e agli imballaggi nel periodo dal 18 giugno 1906 al 31 dicembre dello stesso anno. Si tratta di poco più di sei mesi, ma questi dati, pur se limitati, possono essere significativi poiché da un anno era in attività la fornace di Sale delle Langhe cosicché essi 184
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forniscono una prima indicazione degli effetti del processo di diversificazione delle attività dell’azienda che oramai non sono più centrate sulla sola produzione di laterizi. All’epoca le vendite di questi ultimi ammontano a £ 42.130,58 con un incidenza del 46,01% sul totale; quelle della lavorazione del cemento a £ 8.861,70 pari al 9,68% del totale, quelle del ferro ammontano a £ 27.792,89 pari al 30,36%, il legname a £ 4.852,30 pari al 5,30% ed infine «Magazzini diversi» e imballaggio a £ 7.920,39, l’8,65% del totale. I laterizi e la produzione di materiale in cemento di vario tipo incidevano ancora in modo rilevante sulle vendite (55,69%), purtuttavia le altre voci comprendenti i generi di ferramenta e tutti gli altri articoli commercializzati rappresentano un 44,31% e attestano quindi il successo delle nuove attività intraprese. Dallo stesso registro del 1906 risulta che il carbone aveva sostituito il legname nell’alimentazione della fornace e veniva acquistato, fra le altre, dalle ditte Cappa e Caravagno di Savona, Valenzano di Torino e Suchentrunk di Savona. Per quanto riguarda le aree di mercato, la clientela era soprattutto valbormidese e del Piemonte meridionale con alcune presenze anche sulla costa a Savona e Finalmarina. Fra i clienti che acquistavano per importi particolarmente rilevanti30, oltre ad alcune aziende di grandi dimensioni fra le quali la Società artistico vetraria di Altare e la S.I.P.E di Cengio, spiccano numerosi clienti di Ormea, in particolare i Fratelli Agaccio, quindi Giuseppe Bogliolo di Calizzano, Giuseppe Vassallo di Murialdo, Giovanni Anfosso di Garessio, Don Armellino e Giuseppe Bagnasco di Cengio, l’impresa Mariani di Savona. Un caso di particolare interesse è costituito dai rilevanti acquisti effettuati da Monsignor Bertolotti di Altare per la costruzione di Villa Rosa, un perfetto esempio di costruzione in stile Liberty realizzata tra il 1905 e il 1906, per la di lui sorella Rosalia. Oggi questo bell’edificio ospita il Museo dell’arte vetraria altarese, la Biblioteca specializzata del vetro e mostre temporanee. Nella zona sono presenti altre costruzioni coeve in stile Liberty e anche se al momento non disponiamo di documenti certi si può ipotizzare che anche in questi casi i laterizi utilizzati venissero forniti dalla fornace di Filomena. Si può quindi ritenere che il «Diploma di Grand Prix e Medaglia d’oro per Materiali da costruzione» assegnato alla Ditta nel 1908 in occasione della partecipazione all’Esposizione Internazionale delle Industrie e delle Produzioni di Genova sancisse, in qualche misura, la posizione di rilievo raggiunta dall’azienda nella produzione dei laterizi. Purtroppo, sfogliando i registri della clientela, denominati ‘Libri dei Conti Correnti’, relativi agli anni 1912, 1913, 1914, 1915 e successivi, è difficile distinguere l’entità delle vendite dei laterizi da quella degli articoli di ferramenta e dei numerosi altri prodotti sopra richiamati perché nelle registrazioni a partita doppia figurano, genericamente, solo i numeri delle fatture con i relativi importi. Tuttavia, analizzando le pagine dedicate ai clienti, laddove appare la natura della fornitura, si rileva, oltre alla vendita di mattoni e coppi, una notevole movimentazione di articoli di ferramenta, legnami, vetri e mobilio, il che rafforza l’ipotesi formulata in precedenza circa il consolidamento dell’attività commerciale di rivendita rispetto a quella più strettamente produttiva. Dai medesimi registri risulta che, rispetto al 1906, la clientela si era notevolmente ampliata contando oramai alcune centinaia di nominativi tra i quali spiccano il Marchese Centurione di Millesimo, la ditta Bonvicini & Rebagliati di Savona, Bar-
30 Sono stati presi in considerazione clienti con singole fatture superiori a £ 100.
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tolomeo Sattanino di Cengio, Giuseppe Ferrando – vendita cicli, attrezzi agricoli, riparazioni in genere – di Calizzano, Battista Bagnasco e Giuseppe Bagnasco, la Società Italiana Prodotti Esplodenti e la ditta Negroni & C. di Cengio, la ditta Talco e Grafiti di Murialdo, Musso G.A. di Monesiglio, la ditta Dionigi Ghiringhelli e l’ing. Morganti di Cengio. Alcuni di questi nominativi, come la ditta Bonvicini & Rebagliati, Giuseppe Bagnasco, la S.I.P.E., Ghiringelli e Morganti ricorrono anche nei registri di Sale delle Langhe e sono la prova di una collaborazione fra le due fornaci allorché si dovevano evadere ordini più consistenti.
Il Ristorante Svizzero Il 17 novembre 1896 viene concessa alla Ditta Filomena Ferrari & Figli l’autorizzazione per l’«esclusiva vendita agli operai della fabbrica» di vino, attività esercitata in Via della Chiesa 123, luogo di abitazione di Filomena. La convenzione per l’abbonamento ai Dazi di Consumo Governativi e Comunali viene poi stipulata per gli anni 1897-1898-1899. Nel 1900, la concessione viene rinnovata a Luigi, il terzogenito di Filomena, esercente il Ristorante Svizzero in Via della Chiesa 123 con l’autorizzazione alla «vendita di vini e liquori con facoltà di abbattere un maiale all’anno». Anche in questo caso gli affari sembra procedessero bene, tanto che nel 1902 Luigi chiede di pagare il dazio di consumo in via forfetaria su vino, liquori anziché «per la minuta rivendita» e di poter abbattere due maiali nell’ambito dell’attività esercitata nel suo Ristorante Svizzero. Un ulteriore rinnovo del contratto di dazio viene accordato sino al 190531; sappiamo per certo, tuttavia, che nel 1906 il ristorante era ancora attivo dal momento che nel Libro-Giornale dello stesso anno appaiono diverse registrazioni contabili relative ad acquisti, rimborsi, somme trattenute agli operai per la fornitura dei pasti. Con tutta probabilità Filomena aveva iniziato l’attività di somministrazione di vino agli operai, pensando poi di fornire anche la mensa nei locali al pianterreno della propria casa di abitazione, che nel frattempo era stata ampliata. È interessante soffermarci sul nome attribuito al ristorante, quasi a ribadire un ‘senso di appartenenza’ di Filomena e della sua famiglia al paese d’origine nonostante la sua permanenza a Millesimo da più di quaranta anni.
La fornace di calce di Millesimo Nel 1907, contestualmente all’avvio della fornace di laterizi di Sale delle Langhe, assistiamo ad una nuova avventura imprenditoriale dei fratelli Ferrari, che si associano all’ing. Scarzella e a Carlo Ferrando per la costruzione e conduzione di una fornace da calce che verrà edificata in Regione San Rocco, lungo la strada che conduce a Calizzano, su terreni di proprietà dello stesso Ferrando. Infatti il 28 settembre 1907 tra i tre viene firmata una scrittura privata con la quale si costituisce una società
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Archivio storico di Millesimo, Fascicolo 249.
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per la costruzione ed esercizio di una Fornace da Calce e produzione di pietrisco per manutenzione stradale
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stabilendo che il Ferrando avrebbe messo a disposizione della Società, e per tutto il tempo della sua durata, mediante l’annuo fitto di £ 150 tutto il terreno necessario allo scopo industriale sopra specificato.
L’amministratore della società, denominata Ferrando, Scarzella & Ferrari, è il figlio maggiore di Filomena, Giovanni; il capitale sociale, fornito in parti eguali dai soci, è di £ 14.000 e la sua durata viene fissata in nove anni. La scrittura privata porta in calce le firme dell’ing. Scarzella, di Carlo Ferrando e un generico Fratelli Ferrari che fa supporre la partecipazione congiunta di Giovanni, Luigi e Angelo. Si trattava di una fornace moderna perché, come scrive Luigi Ferrando, pronipote di Carlo, La nuova fornace presenta una grande innovazione rispetto al passato: il suo funzionamento, infatti, non è più intermittente, ma continuo: la pietra, caricata dall’alto attraverso una passerella, viene cotta da quattro focolari a carbone che, partendo dalla base, sono collocati a circa un terzo del cilindro centrale. Quando l’infornata è pronta, la pietra cotta viene estratta da una bocca posta nella base del cilindro e sostituita dalla roccia immediatamente superiore, che ha però il notevole vantaggio di essere stata pre-riscaldata dai fumi caldi che, invece, nella fornace tradizionale andavano dispersi inutilmente. Il prodotto, inoltre, è di migliore qualità, perché cuoce più uniformemente, ed ha meno scarto32.
Dopo undici anni di attività e a tre anni dalla morte di Filomena, nel luglio del 1918 i Fratelli Ferrari cedono la loro quota di proprietà alla ditta Pregliasco Giuseppe & Figli.
La fornace di calce in Località S. Rocco (Archivio Luigi Ferrando).
32 Luigi Ferrando, La valle dei varchi, «Collana di documenti sul territorio, la storia e la cultura valbormidesi», n. 2, 2006.
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Il dopo-Filomena Filomena, come si è visto, muore alla fine del 1915, quando la Prima guerra mondiale era già iniziata. Poco dopo i fratelli Giovanni e Angelo (Luigi era ormai definitivamente stabilito a Sale delle Langhe e titolare esclusivo della quota dei Ferrari all’interno dell’assetto societario) informavano la clientela che a partire dal 1° gennaio 1916 ognuno di loro avrebbe assunto la direzione di un reparto all’interno dell’attività lasciata dalla madre. Nell’aprile del 1917 si addiviene ad una divisione fra Giovanni e Angelo e a quest’ultimo viene attribuita la proprietà della fornace, dei negozi, di parte dei magazzini e della casa di abitazione, mentre a Giovanni viene liquidata una somma di denaro e assegnati alcuni terreni nelle vicinanze della fornace, unitamente a un ‘fondo merce’ giacente in magazzino. Nel periodo che intercorre fra la morte di Filomena e la divisione fra i fratelli, tuttavia, erano già stati alienati dei terreni acquistati dalla madre. Il 18 luglio 1918 Angelo vende la fornace alla Ditta Pregliasco Giuseppe e Figli e il giorno dopo Giovanni vende alla stessa ditta porzioni di terreni e magazzini circostanti, cosicché si ha, in un certo modo, una ricostituzione dell’intera fornace ed area circostante così come era stata costruita da Filomena. Tuttavia, se la fornace cessa di essere nella disponibilità della famiglia Ferrari le competenze che qui erano andate maturando sembrano in parte almeno trasferirsi altrove. Infatti la figlia di Giovanni, Virginia, moglie del contabile della ditta, Virgilio Sereni, si trasferisce con quest’ultimo e i figli in provincia di Cremona dove proseguiranno nell’attività di produzione dei laterizi. Nel 1932 Angelo ricompra la fornace da quella che era nel frattempo diventata la Società Anonima Pregliasco, costituita nel 1929 a seguito di tragici eventi che avevano colpito la famiglia di Luigi Pregliasco, uno dei titolari della ditta. Si può ipotizzare che il suo riacquisto da parte di Angelo sia riconducibile a diversi fattori: in primo luogo il desiderio di rientrare in possesso di un ‘bene di famiglia’ nella sua interezza, oltretutto confinante con i magazzini del negozio in cui svolgeva la sua attività; quindi il cambiamento verificatosi nei sistemi di trasporto con l’imporsi di quello su gomma su quello ferroviario e il fatto che il primo consentiva maggior elasticità negli orari e la consegna diretta al destinatario: una situazione opposta a quella che, diciotto anni prima, aveva portato Angelo a vendere la fornace, allorché i laterizi dovevano essere trasportati su carri alla stazione di Cengio. Durante la Seconda guerra mondiale la fornace rimase chiusa e fu anche in parte bombardata ed alla morte di Angelo, nel 1946, essa fu riattivata con la ragione sociale Fratelli Ferrari S.r.l. e la proprietà rimase indivisa fra due dei figli maschi viventi di Angelo: Carlo e Luigi. Nel 1947 la fornace viene affittata alla I.L.E.A.M – Industria Laterizi e affini Millesimo, società costituita da Conti, Venturino e Ferrecchi. Quest’ultimo riscatterà le quote dei soci e nel 1956 acquisterà la fornace dai fratelli Ferrari. La fornace è stata definitivamente chiusa nel 1984.
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La fornace di Sale delle Langhe La storia Il primo insediamento di una fornace ‘a pignone’33 per la lavorazione dei laterizi a Sale delle Langhe potrebbe risalire agli anni ’80 -’90 dell’800 anche se, al momento, al riguardo si hanno solo testimonianze orali tramandate di padre in figlio, che però non è stato ancora possibile confrontare con documenti d’archivio che ne attestino la veridicità34. All’inizio del ’900, probabilmente nell’autunno del 1904, vengono iniziati i lavori per la costruzione della nuova fabbrica35, – forse in sostituzione di una preesistente – che nasce come costola della fornace di Millesimo, e dalla quale si trasportarono i materiali necessari alla sua edificazione, per soddisfare la domanda crescente di mattoni in parte legata alla costruzione dei ponti e delle gallerie del tratto ferroviario da Ceva a Fossano e del viadotto sul fiume Stura a Cuneo36 e, al contempo, destinata ad intercettare e soddisfare le esigenze del progressivo sviluppo industriale del basso Piemonte. È bene ricordare che da anni era in corso un acceso dibattito sulla necessità di rafforzare il collegamento ferroviario Torino-Savona in quanto l’esistente linea Torino-Bra-Ceva-Savona era insufficiente rispetto «ai bisogni commerciali del momento»37. Le ipotesi avanzate nel 1908 erano sostanzialmente due: il raddoppio della tratta Bra-Ceva o, in alternativa, la costruzione di una nuova linea fra Fossano e Ceva. In entrambi i casi Sale delle Langhe ne sarebbe stata avvantaggiata in quanto prossima alla vicina stazione di Ceva che comunque avrebbe rappresentato uno snodo importante per i movimenti di merci e persone nelle possibili soluzioni oggetto di studio. Il 1° e l’11 luglio 1909 rispettivamente la Camera e il Senato approvavano il progetto della Ceva-Mondovì-Fossano sotto il titolo Modificazioni alla legge 12 luglio 1908 n. 444 38. Fino al 1948 Sale delle Langhe si articolerà in due frazioni: una denominata nel medioevo Villa di Sale, detta anche Bricco o quartiere Soprano, attorno alla quale era stato costruito il muro di cinta e dove aveva sede il municipio e che, almeno sin dal 1380 «se non prima»39, costituiva il centro amministrativo delle diverse borgate che ancora oggi si possono visitare nella zona, mentre più a valle si situava la borgata detta il Piano, chiamata, a partire dal 1600, della Valle di Sale40 o quartiere Sottano. Nel 1862, con l’unificazione d’Italia, il Comune di Sale aveva assunto il nome di Sale delle Langhe, «per essere distinto da altri comuni omonimi del nuovo regno»41. La ferrovia Savona-Torino correva parallelamente alle case del Borgo Valle ed il comune di Sale aveva contribuito alla sua realizzazione con l’apertura della galleria del Belbo che interessava parte del suo territorio. Essa è lunga 4.285 metri, e per la sua costruzione si impiegarono sette anni di lavoro durissimo (dal 1864 al 1870) con il sacrificio di sette vite umane; all’epoca fu considerata un «vero monumento di ingegneria»42, e la sua realizzazione richiese l’apertura di nove pozzi di cui il più alto misurava 217 metri. La fabbrica di laterizi di Sale delle Langhe era ubicata accanto ai binari della ferrovia, a circa 300 metri a Est della stazione ferroviaria e si stendeva su di un’area
Vedi nota 23. L’unico riferimento scritto sinora trovato è in un testo di Padre Arcangelo Ferro dal quale risulta che una piccola fornace «esisteva già in Sale, ancora prima di quella della Ditta Ferrari, a circa un centinaio di metri a settentrione della cappella di S. Lazzaro, sulla destra del torrente Salizzola […] Questa fornace produceva mattoni, coppi e quadrelli ordinari per pavimenti, vi si facevano in media tre cotture ogni due anni, con circa 50.000 mattoni per cottura, ma fu chiusa verso il 1925» (Padre Arcangelo Ferro, Sale San Giovanni e Sale Langhe. Memorie storiche dall’epoca romana ai nostri giorni, a cura della Pro Loco di Sale S. Giovanni, Savona 1977, p. 220). 35 Questa è la data riportata nel testo del Ferro dove si recita che i lavori «durarano circa tre anni, […] e nel 1907 s’incominciarono ad avere le prime cotture». La data di inizio dei lavori e la loro durata sono plausibili perché siamo in possesso dell’atto costitutivo della Società datato 1905; per quanto concerne le prime cotture potrebbero risalire al 1908, dal momento che abbiamo potuto consultare il primo Inventario e Bilancio Generale della Ditta datato 8 ottobre 1909. 36 Per la cui costruzione vennero inviati dalla fornace più di 800.000 mattoni. 37 Fulvio Basteris, La ferrovia Ceva-GaressioOrmea. Un secolo di sogni verso il mare (18931993), Mondovì 1993, pag. 193. 38 La legge n. 444, promulgata il 12 luglio 1908, prevedeva, fra l’altro, il raddoppio del binario sulla Torino-Bra-Ceva. 39 Ferro, Sale San Giovanni e Sale Langhe, cit., pag. 34. 40 Ibidem, pag. 35. 41 Ibidem. 42 Ibidem, pag. 150. 33 34
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Si arrivò a caricare sino a sette vagoni di mattoni al giorno, ciascuno contenenti da 7.000 a 10.000 pezzi. 44 Costruita dal capomastro di Sale Giovanni Meriano. 45 Nel caso di Sale delle Langhe con il termini ‘fornacini’, equivalente al più diffuso ‘fornaciai’, si intendeva indicare genericamente i lavoratori impegnati in una fornace dotati di una qualche specializzazione (fuochisti, mattonai, …) ad esclusione di coloro che svolgevano mansioni generiche che venivano indicati come ‘operai’. 43
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di circa 5.000 mq. Essa disponeva di un proprio piano caricatore con binario Decauville per il trasporto della terra dalla cava alla fornace e di uno svincolo ferroviario ‘dedicato’ che consentiva l’instradamento della produzione direttamente dal piazzale antistante la fabbrica con conseguente razionalizzazione e velocizzazione delle operazioni di carico e scarico dei vagoni ferroviari. Si tratta ad ogni evidenza di una soluzione tecnica che attesta una visione assai moderna dell’organizzazione del lavoro, che anticipava soluzioni logistiche che andranno diffondendosi soltanto anni più tardi. A determinare la localizzazione dello stabilimento non è più quindi soltanto la qualità dell’argilla disponibile in loco e la relativa prossimità dell’impianto produttivo ad una stazione ferroviaria – in corrispondenza della quale si sarebbe comunque verificata una rottura di carico, come avveniva ad esempio nel caso della fornace di Millesimo – ma la possibilità di gestire direttamente il processo produttivo e logistico dallo scavo della terra al carico del prodotto finito su vagoni instradati sulla rete ferroviaria nazionale, tramite la quale veniva assorbita e distribuita quasi tutta la produzione43. La costruzione della nuova fabbrica innesca un rapido cambiamento del paesaggio del Borgo Sottano e dell’area immediatamente circostante, sino ad allora quasi esclusivamente rurale. Esso verrà via via dominato dalla grande ciminiera alta circa 35 metri44, dall’espansione degli edifici destinati all’attività manifatturiera ed a quelle ad essa connesse, dai piazzali per la movimentazione delle materie prime, dei semilavorati e dei prodotti finiti e dalle abitazioni destinate ad ospitare la manodopera locale e dare alloggio alle famiglie di ‘fornacini’45 che si spostavano da altre regioni italiane per prestare la loro opera nella fornace. Il progetto industriale concepito a Millesimo da Filomena e dai suoi figli inciderà in modo significativo sul tessuto sociale locale, contribuendo, unitamente alla ferrovia, a favorire il passaggio di quest’area da una economia esclusivamente agricola ad una di carattere agricolo e industriale. Un’attenta osservazione della struttura urbanistica e dell’organizzazione del territorio degli attuali due comuni di Sale San Giovanni e di Sale delle Langhe consente di scorgere i differenti nuclei a partire dai quali tale strutturazione ha avuto luogo. Nel caso di Sale San Giovanni, così come in gran parte dei centri di origine medievale di questa zona, il centro storico principale era disposto su di un poggio e dominato dalla chiesa parrocchiale e dal castello dei marchesi Incisa di Camerana intorno al quale si sviluppavano, in cerchi concentrici degradanti, le abitazioni. Per quanto riguarda Sale delle Langhe è più difficile identificare un vero e proprio centro, ma siamo in presenza di una serie di costruzioni edificate intorno alla fornace che, insieme alla ferrovia, funge da fulcro e da motore della trasformazione urbanistica del borgo. All’evoluzione economica si accompagnerà, alcuni decenni più tardi, un cambiamento di tipo amministrativo; infatti, come già accennato, il trasferimento della sede del municipio dal Bricco nella Valle, dove quarant’anni prima era già stato trasferito l’ufficio postale, determinerà, nel 1948, il distacco della storica borgata Bricco e la costituzione dell’autonomo comune di Sale San Giovanni. Dai documenti in nostro possesso risulta che la fornace viene costituita ufficialmente nel 1905 con la denominazione di Società di fatto F.lli Ferrari & C. – con decorrenza dell’attività dal 1° marzo 1905 – avente per scopo «la fabbricazione e la vendita di laterizi e segnatamente tegole, mattoni e materiali da costruzione».
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I soci fondatori erano l’Ing. Alberto Scarzella e Giovanni, Luigi e Angelo Ferrari. Allo scopo di «dare forma legale alla Società di fatto»46, il 23 aprile 1909 viene costituita la «S.n.c. Ditta Fratelli Ferrari & C. con sede legale in Sale Langhe, circondario di Mondovì e specificamente nel suo stabilimento». Oggetto della Società era l’esercizio di «Fornace sistema Hoffmann, l’acquisto terreni per l’esercizio della Società stessa, lo smercio di laterizi e la fabbricazione specialmente di tegole, mattoni ed altri materiali da costruzione». Il Capitale Sociale ammontava a £ 93.00047, ed era stato conferito per £ 46.500 dall’Ing. A. Scarzella e per L. 46.500 da Giovanni, Luigi e Angelo Ferrari in ragione di un terzo ciascuno. Gli utili e le perdite eventuali sarebbero stati «ripartiti i primi e sopportate le seconde a perfetta metà» tra l’Ing. Scarzella e i fratelli Ferrari e questi «in ragione di un terzo ciascuno». Nel medesimo atto «L’esistenza della Società si fa risalire al primo marzo 1905» e la durata viene stabilita sino a tutto dicembre 1915, ma prorogabile di 10 anni in 10 anni. La Direzione dello stabilimento viene affidata all’Ing. Scarzella e a Ferrari Luigi «il quale ultimo in assenza dell’Ing. Scarzella potrà agire da solo o farsi coadiuvare dai fratelli Giovanni ed Angelo tanto unitamente che separatamente». L’Ing. Scarzella fungeva anche da amministratore. «Per parte dell’Ing. Alberto Scarzella si dichiara a termine dell’art. 112 Cod. Commercio, che egli non ha nulla in contrario che i predetti Luigi, Giovanni ed Angelo Ferrari facciano o seguitino a far parte di una Ditta che abbia per suo scopo anche la fabbricazione di laterizi e loro smercio», ovvero della Ditta Filomena Ferrari & Figli di Millesimo della quale la nuova fornace costituiva una sorta di gemmazione. Dal successivo atto del 191048 col quale si ratifica una situazione ormai consolidata, emerge un nuovo assetto della compagine sociale con l’inserimento di due nuovi soci: Enrico Bonelli e Giovanni Conti e modifiche nell’organigramma dell’azienda imposte sia dal suo sviluppo interno, sia dalla necessità di adeguarsi all’evoluzione del mercato e della tecnologia. Infatti i due nuovi soci, presenti nell’azienda dall’anno precedente, sono ingegneri, con ogni probabilità esperti nel settore. Per quanto riguarda l’aspetto amministrativo, con successivo mandato del 2 dicembre 1911, risulta, per converso, rafforzata la figura di Giovanni, il primogenito di Filomena, per il quale si prevede il diritto di firma e dai successivi documenti contabili emerge che gli venne anche attribuita una funzione direttiva all’interno dello stabilimento, tanto da risultare l’unico socio a percepire uno stipendio mensile49. È interessante soffermarsi a riflettere sul ruolo di Filomena Ferrari, che pur non comparendo nominalmente negli atti relativi alla fornace di laterizi di Sale delle Langhe sopra richiamati, sembra tuttavia essere l’animatrice del progetto. L’atto costitutivo della Ditta Fratelli Ferrari & C. del 1909 viene sottoscritto «in una camera al piano primo della casa della signora Filomena Ferrari e figli in Via della Chiesa numero 125», quasi a sancire la centralità della fornace di Millesimo dalla quale quella di Sale delle Langhe nasceva come costola e consentire la presenza a questo evento di Filomena che, a 73 anni, assisteva alla nascita di un nuovo progetto industriale di cui sarebbero stati protagonisti i suoi tre figli maschi, ma di cui lei sarebbe stata un’attiva partecipe. Al riguardo è significativo che sulla prima pagina del Libro matricola degli operai n. 1 relativo al periodo 1911-1912 oggetto del presente studio, compaia il nome di Ditta Filomena Ferrari & Figli anche se, all’interno, troviamo i nominativi dei dipendenti della fornace di Sale delle Langhe, alla
Atto notaio Cesare Denina, repertorio n. 46/35, registrato a Cairo M.tte il 26 aprile 1909 vol. 68 n. 556. 47 Pari a circa B 350.000. 48 L’atto in data 18 settembre 1910, notaio Cesare Denina rep. 170 registrato a Cairo M.tte il 24 settembre 1910 al n. 164 fog. 148 recita come segue: «…I Signori Scarzella ing. Alberto, e Ferrari Luigi, Giovanni ed Angelo costituenti e comproprietari della Ditta Fratelli Ferrari e C.ia corrente in Sale Langhe per lo smercio e fabbricazione di tegole mattoni e laterizi […] di unanime consenso accettano che vengano a far parte della Ditta suddetta, ed in qualità di nuovi soci i Signori Bonelli Comm. Ing. Enrico e Conti Ing. Comm. Giovanni e questi accettano». Il capitale sociale viene aumentato a £ 180.000 ed era così conferito: per un terzo, pari a £ 60.000, dall’ing. Alberto Scarzella; per £ 60.000, dai signori Ferrari Giovanni, Luigi e Angelo; e per £ 60.000, dai signori ingegneri Bonelli Enrico e Conti Giovanni, il primo nato e residente a Torino e il secondo nato a Firenze e residente a Carrara. Sono amministratori della società i signori Ferrari Giovanni, Luigi ed Angelo, Scarzella ing. Alberto, Bonelli ing. Enrico e Conti ing. Giovanni, ma i tre ultimi non hanno obbligo alcuno di prestare la loro opera personale nell’azienda. I benefici e le perdite sarebbero stati ripartiti come segue: un terzo all’ing. Scarzella, un terzo a Ferrari Giovanni, Luigi e Angelo, un sesto a Bonelli, un sesto a Conti. 49 È del 1911 la partenza di Luigi Ferrari per San Francisco, in California, e la sua conseguente rinuncia al diritto di firma per la Società. 46
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quale, peraltro, corrisponde il numero di matricola della polizza di assicurazione stipulata dalla S.n.c. Fratelli Ferrari & C.: si tratta quindi molto probabilmente di una svista dell’impiegato che ha compilato il frontespizio del libro, ma è indicativa del ruolo svolto da Filomena. Inoltre nel Libro mastro del periodo marzo 1913febbraio 1914 le pagine dedicate alla Ditta di Millesimo evidenziano una molteplicità di operazioni che testimoniano stretti rapporti non solo riguardanti lo scambio dei materiali prodotti, ma anche di natura contabile. Si tratta di testimonianze che rafforzano l’idea della perdurante centralità di Filomena anche all’interno della fabbrica di Sale delle Langhe, un ruolo che però già si accompagnava alla necessità, come abbiamo visto, della presenza di figure competenti dal punto di vista culturale e tecnico, capaci di preparare il terreno per fronteggiare quei cambiamenti e quelle innovazioni che sicuramente intuiva essere alle porte. Per quanto riguarda le dimensioni dell’impianto, dall’atto costitutivo e dall’inventario del 1909 apprendiamo che si trattava di una fornace di tipo Hoffmann «a 18 bocchette» o forni, alimentati sia da legna50, sia da carbone, ognuno capace di contenere 10.000 mattoni, con una cottura media giornaliera di circa 20-25.000 pezzi. La produzione, secondo quanto risulta dallo stesso inventario, consisteva in mattoni crudi e cotti, pianelle cotte grosse e crude, quadretti cotti e crudi, tegole (coppi) cotte e crude, tegole piane, tegole grandi curve, paramani crudi, mattoni da ciminiere. Inoltre risulta che all’epoca giacevano in magazzino mattoni di 2a categoria, 20.000 kg di carbone e mattoni scadenti. Negli anni seguenti la fornace viene rapidamente ampliata, con un parallelo incremento non solo nei volumi produttivi ma anche nella gamma dei prodotti. Infatti dall’inventario del 1911 emergono, giacenti in magazzino, oltre ai manufatti già elencati nel 1909, copponi, tavelloni e una copiosa produzione in cemento fra cui: «gradini, soglie, architravi, teste di pilastri, lavandini piccoli, mezzani e grandi,
L’alimentazione con la legna divenne predominante dopo la prima guerra mondiale giacché all’epoca «il carbon fossile era salito a prezzi proibitivi». Essa «era provveduta in massima parte dalla popolazione di Sale, e veniva segata a mezzo di una sega circolare installata nello stabilimento della fornace» (Ferro, Sale San Giovanni e Sale Langhe, cit., pag. 218). 50
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Veduta della fornace di Sale delle Langhe e di parte dell’abitato (Archivio Stefania Ferrari).
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quadri, esagoni (questi due ultimi riferiti a piastrelle), camini e gesso ed in quello del 1919 anche mensole di 4 diversi formati, finimenti, lucernai, triangoli, vasi da ornamento, mattoni forati da 2 piccoli, pianelle grandi e piccole, forati da 6 buchi, tegole marsigliesi, mattoni a cuneo, mattoni sagomati e tubi di terra». Soffermando in particolare l’attenzione sulla voce ‘Atrezzi’ (sic) del medesimo registro relativo al 1910, è inoltre possibile farsi un’idea più precisa di quella che poteva essere la dotazione di una fornace per mattoni dell’inizio del XX secolo. Fra gli strumenti di lavoro oltre al comune materiale di ferramenta come lime, pialle, scalpelli, martelli, trapano, squadre, chiavi, compasso, cacciavite…, troviamo «10 banchi per fornaciai e 2 banchi fornaciai piccoli, 2 banchi grandi per coppi, 10 carrette per acqua fornaciai, 64 carrette di cui: 25 per fornaciai, 5 senza ruota, 4 nuovo sistema, 8 rinforzate, 20 a tramoggia, 2 portategole; 20.000 telarini per tegole, 25 mc di listelli di abete per stendaggi tegole, 17 zappe da fornaciaio, 40 cavaletti per fornaciaio, 2 stampi mattoni da pozzo nuovi, 18 pale, 3 badili e 24 traversine ferrovia». Il primo periodo di attività, dal 1905 al 1909, costituisce con molta probabilità un banco di prova per l’allargamento del progetto industriale concepito a Millesimo, che in breve va consolidandosi. Confrontando i bilanci della Ditta Fratelli Ferrari e C.ia di Sale delle Langhe relativi agli anni 1909 e 1910 è infatti possibile notare un notevole incremento delle voci dell’attivo patrimoniale. Di conseguenza, si può ipotizzare che in breve tempo si sia reso necessario un consistente ampliamento dello stabilimento. Nel giro di poco più di un decennio si assiste quindi ad uno sviluppo progressivo e consistente della fornace di Sale delle Langhe che ha reso necessario non solo l’allargamento della compagine societaria con l’ingresso di due nuovi soci e l’apporto di capitali ‘freschi’, ma anche l’ampliamento degli impianti, l’acquisizione di nuovi terreni da utilizzare sia come cava di argilla sia per la costruzione di abitazioni per gli operai e di uffici per l’impresa. Inoltre si può ritenere che il favorevole andamento economico registrato nel primo decennio del ’900 e le prospettive di ulteriore sviluppo siano state alla base della decisione di realizzare un nuovo binario ferroviario con relativi scambi in aggiunta a quello costruito nel 1909 e di progettare, nel 1914, il raddoppio di quello esistente51.
Il lavoro Dall’analisi dei registri della fornace al momento disponibili, è stato possibile ricostruire la consistenza della manodopera, l’organizzazione del lavoro, l’entità della produzione e, più in generale, il patrimonio mobiliare e immobiliare e il movimento di capitali e forza lavoro. Sulla base dei dati contenuti nel Libro di matricola degli operai relativo all’anno 1913 intestato alla Ditta F.lli Ferrari & C., con posizione assicurativa n. 29731 rilasciato dalla Società Anonima di Assicurazione Contro gli Infortuni con sede in Milano, si è proceduto all’analisi del genere dei lavoratori, delle classi di età computate dall’anno di nascita al momento dell’assunzione, della provenienza con riferimento al comune di nascita e di residenza, della mansione esercitata e della retribuzione.
Nel Bilancio al 28 febbraio 1914 nella parte prima (Attività), alla voce contrassegnata con la lettera N appare l’annotazione «Cauzioni colle Ferr. Stato – Ragioneria di Torino, per spese studio nuovo raccordo», per un ammontare di £ 600.
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Genere
Età
Numero
%
Femmine
< 15 16-20 21-30 31-40 41-50 > 50
0 3 3 3 1 2 12
0,00 25,00 25,00 25,00 8,33 16,67 100,00
< 15 16-20 21-30 31-40 41-50 > 50
13 25 21 9 4 11 83
15,66 30,12 25,30 10,84 4,82 13,25 100,00
Totale femmine Maschi
Totale maschi
Tabella n. 4 – Composizione della forza lavoro della fornace di Sale delle Langhe per genere e classi d’età nel 1913.
In quell’anno la manodopera era costituita da 100 unità lavorative regolarmente inscritte nel Libro matricola tenuto dall’azienda per motivi assicurativi in base alla Legge (testo unico) 31 gennaio 1904 n. 51 «per gli infortuni degli operai sul lavoro». Di questi 88 erano maschi e 12 femmine. Di 83 lavoratori maschi e di tutte le donne si conosce la data di nascita. Per i primi, la classe di età che si presenta con maggior frequenza è quella dai 16 ai 20 anni (30,12%), seguita da quella compresa fra i 21 ed i 30 (25,30%) e dei minori di 16 anni (15,66%); venivano quindi nell’ordine, quella dei lavoratori di età superiore ai 50 (13,25%), quella fra 31 e 40 (10,84%) ed infine fra i 41 ed i 50 (4,82%). Da un’accurata analisi dei dati relativi ai minori di 16 anni emerge che la loro età variava dai 12 ai 15 anni. Per quanto riguarda invece la manodopera femminile, essa risulta equamente distribuita fra i 16 ed i 20 anni, i 21 ed i 30 e tra i 31 ed i 40, con un 25% di presenza in ciascuna classe, seguita da lavoratrici di età superiore ai 50 anni (16,67%), quindi da quelle fra i 41 ed i 50 (8,33%) con una assenza totale di unità lavorative al di sotto dei 15 anni, come previsto dalla legislazione vigente. Stagionalmente, le famiglie dei lavoratori si spostavano al completo, comprese le donne e i ragazzi, da luoghi di residenza anche assai lontani per convergere su Sale, dove si stabilivano per tutta la durata della stagione lavorativa, che come sappiamo andava dalla tarda primavera alla fine dell’autunno. In particolare dai registri si rileva la significativa migrazione di intere famiglie da S. Romano e La Rotta, due piccoli paesi toscani, il primo in provincia di Lucca ed il secondo una piccola frazione del comune di Pontedera, in provincia di Pisa che peraltro, come abbiamo già visto, aveva fornito piccoli contingenti di operai alla fornace di Millesimo. Siamo quindi in presenza di un gruppo abbastanza consistente (31%) di migrazione dalla Toscana di nuclei a base famigliare che si muoveva seguendo una ‘catena migratoria’ avviatasi almeno un quindicennio prima. Essi erano formati da un capo-mattonaio, che era l’operaio maggiormente specializzato del gruppo, spesso il padre o il figlio 194
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maggiore, accompagnato dalla moglie, i figli, i fratelli, le nuore o i suoceri e, a volte, da uno o più coetanei dei figli. Si rileva infatti che molto spesso al seguito di una famiglia vi erano altri giovani non appartenenti a quel nucleo familiare. Per quanto riguarda l’origine di questi lavoratori, risulta tuttavia che la maggior parte di quelli provenienti da S. Romano erano nativi di Monopoli e per essi si può quindi configurare una doppia emigrazione, con un primo passaggio dalla provincia di Bari alla Toscana, dove probabilmente avevano acquisito la professionalità nella fabbricazione dei mattoni, tanto da meritare il titolo di ‘capo-mattonaio’, e quindi da quella a Sale delle Langhe, dove però è possibile che alcuni di essi fossero stati chiamati da dipendenti dalla medesima origine geografica già alle dipendenze di Filomena nella fornace di Millesimo. A Sale questi operai costituivano un gruppo abbastanza numeroso: il 20% della manodopera totale, che unito all’11% dei lavoratori provenienti da La Rotta formavano più di un quarto dell’intera manovalanza sia specializzata sia comune, in contrapposizione ad un 56% di salesi (la manodopera locale) seguiti da lavoratori provenienti da Millesimo (6%), da Alba (4%) e Farigliano (2%), comuni, questi ultimi, in provincia di Cuneo. Composizione della forza lavoro nella fornace di Sale delle Langhe nel 1913. 1%
6% 56%
31%
6%
Sale delle Langhe Altri Prov. Savona
Millesimo Prov. Pisa Altri Prov. Cuneo
Una volta inquadrati come dipendenti della fornace, gli operai erano inseriti in gruppi che costituivano altrettante distinte unità di produzione, ciascuna delle quali aveva un responsabile, di solito l’operaio più esperto, che prendeva in carico gli attrezzi necessari allo svolgimento delle mansioni impegnandosi a restituirli alla risoluzione del rapporto di lavoro, e talora percepiva l’intera retribuzione attribuita al gruppo di lavoratori da lui guidato, provvedendo successivamente alla ripartizione del compenso tra i membri dell’unità produttiva. Si può azzardare l’ipotesi che questa particolare organizzazione del lavoro, articolata su base familiare o di provenienza, rispondesse ad una duplice ragione. Da un lato l’avere un unico referente responsabile dell’attività e del risultato conseguito dall’intero gruppo così da semplificare i rapporti di lavoro e dall’altro rispondere a problematiche che potremmo definire di ‘comunicazione’. Infatti, probabilmente all’epoca i vari gruppi di lavoratori parlavano le lingue od i dialetti delle aree di provenienza e pochi erano quelli in grado di utilizzare l’italiano come ‘lingua franca’. In un tale con195
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52 Questa espressione è da intendersi nel senso che la retribuzione era al lordo delle spese sostenute dal capo famiglia per il vitto del garzone, altre volte il vitto era computato a parte e quindi detratto dalla retribuzione. 53 Probabilmente mattoni ancora da cuocere. 54 Lavoratori addetti, solitamente, alle operazioni di fornaciatura e sfornaciatura. Erano divisi in due squadre: la ‘squadra rossa’ estraeva i mattoni cotti dalla camera di cottura ed era composta da quattro persone di cui due portavano le carriole dei mattoni fuori dal forno ed altri due li mettevano in pignone. La ‘squadra bianca’ era costituita da quattro operai che impilavano i mattoni crudi nella camera di cottura. 55 Il termine manovale comprende, tra l’altro, funzioni come: carrettiere, ‘calo telarini’ (mansione solitamente svolta dalle donne che consisteva nel calo – dal verbo calare, togliere, abbassare – del telaio sul quale venivano appoggiate le tegole ad asciugare che il bertoliere portava poi a cuocere nel forno), pulitura cava, scavo manuale della terra, posa dei mattoni ‘in gambetta’, ‘impignonatura’, meccanico, cementista, ecc. 56 Dal Libro matricola degli operai del 1913, si rileva, ad esempio, che Caverni Luigi di 62 anni, proveniente da S. Romano, lavorava a cottimo col figlio «nella proporzione di 1/3 del lavoro totale». Il figlio Adolfo di 22 anni, capo-mattonaio, era a capo di una squadra di cui facevano parte il padre, come già detto, e un garzone da lui direttamente retribuito con £ 45 con la dicitura ‘vitto valutato’. 57 Ad esempio sempre nel Libro matricola degli operai nell’anno 1913 accanto ai nominativi femminili si leggono le annotazioni: «lavora col marito Battini Agostino in proporzione di 1/3 del lavoro totale» o «lavora col figlio Battini Ezio in proporzione di 1/4 del lavoro totale» o ancora «lavora col fratello Battini Ezio in proporzione di 1/3 del lavoro totale»; oppure «lavora col marito Deri Bergentino in proporzione di 1 settimo del lavoro totale», o «lavora col padre in proporzione di 21/2 di un settimo del lavoro totale» e «lavora col suocero in proporzione di 11/2 di un settimo del lavoro totale».
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testo, al fine di facilitare la trasmissione delle informazioni era relativamente più semplice veicolare le stesse all’interno di un gruppo linguisticamente omogeneo che comunicava con i quadri superiori attraverso una figura apicale in grado di interloquire con gli stessi in italiano. Ad ogni dipendente sono dedicate più pagine sul Registro Fornaciai e operai; per ciascuna famiglia veniva registrato il nome del capo-famiglia seguito dai componenti del nucleo familiare. Quindi erano annotati gli attrezzi e i materiali consegnati, la produzione e il salario. Ad esempio se prendiamo il Registro riferito all’anno 1913 alle pagine 50, 51, 52 e 53 troviamo la famiglia di Marconcini Leopoldo di S. Romano, costituita dal capo-mattonaio, Leopoldo, la figlia Vienna ed un garzone di 15 anni, Capponi Giuseppe, anch’egli di S. Romano. Al Marconcini veniva corrisposta una retribuzione a cottimo di £ 5 per mille mattoni comuni, la figlia «lavora con Marconcini Leopoldo in proporzione di 1/4 del lavoro totale», il garzone «viene retribuito dal Marconcini con £ 50 mensili compreso vitto»52. Gli attrezzi presi in carico sono: 4 carriole, 2 pale in ferro, 1 pala in legno, 3 zappe, 1 raschietto, 1 crivello, 2 secchi in ferro, 1 ‘carabbo’, 2 secchi in zinco, 1 banco, 1 banchetto, 1 cassetta per acqua. Nelle pagine successive è indicata in dettaglio la produzione, suddivisa in mattoni, mattoni grossi, ‘mattoni gelati’53 e paramani per un totale, da aprile 1913 a settembre dello stesso anno, di 274.836 pezzi di cui 1.040 mattoni gelati per i quali è stato corrisposto un compenso di £ 2,50 per mille anziché di £ 5 o 6,50 rispettivamente per i mattoni e i mattoni grossi, per un importo totale di £ 1.695,10. L’organizzazione del lavoro all’interno della fabbrica si fondava su un duplice criterio, funzionale e gerarchico. Ogni squadra svolgeva specifiche mansioni, cosicché si avevano quelle dei: mattonai, cottimisti, fuochisti e ‘bertolieri’54 e ad esse si affiancavano con funzioni generiche i manovali55. Le squadre, ciascuna con un suo capo, di solito erano formate da quattro persone e potevano essere sia gruppi familiari sia gruppi di singoli. Esse si articolavano al proprio interno secondo un criterio gerarchico, cosicché vi era un capo-mattonaio con dei mattonai o garzoni; un capo-cottimista con dei sotto-cottimisti e/o dei cottimisti; uno o più fuochisti e uno o più sotto-fuochisti, un capo-bertoliere ed uno o più bertolieri. Come abbiamo visto la retribuzione dei componenti di una squadra era spesso ritirata dal capo che provvedeva poi a consegnarla ai singoli lavoratori e a volte compariva la dicitura «vitto valutato» ovvero senza ulteriore pagamento per il vitto o somministrazione in natura dello stesso; nel caso in cui questo fosse stato fornito l’importo corrispondente veniva decurtato dalla retribuzione; il capo era spesso la persona più esperta e qualificata ma non necessariamente la più anziana56. Le donne venivano retribuite in riferimento al marito, al padre, o al fratello secondo una percentuale della retribuzione dei primi che poteva variare da un minimo di «un mezzo a 1/7 a 1/3» del valore del lavoro complessivamente prestato dal gruppo57. Il capo-bertoliere, a sua volta, retribuiva altri bertolieri che con molta probabilità lavoravano nella stessa squadra, fermo restando che tutti i dipendenti erano registrati nel Libro matricola per motivi assicurativi. I ragazzi al di sotto dei 15 anni erano inquadrati come «operai-manovali» e assunti per periodi molto brevi, anche di soli 15 giorni; tra di essi coloro che si erano spostati con un gruppo familiare lavoravano con la qualifica di «garzoni» e venivano retribuiti in misura fissa mensile (dalle 40 alle 50 Lire) «vitto valutato».
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Tra il 1911 ed il 191358 la mansione più diffusa era quella di operaio-manovale generico (52,50%), seguita dal capo mattonaio e mattonaio (20%), dal fuochista (8,75%) e dal bertoliere (6,25%). Figura inoltre una percentuale del 5% di garzoni aventi per lo più un’età di circa 15 anni. Vi erano inoltre le mansioni di coppaio, fornacino e assistente per i quali non si dispone però di dati che consentano di rilevarne l’incidenza percentuale59. Vi era infine l’impignonatura, che consisteva nella disposizione dei mattoni cotti uno sull’altro sino a formare una sorta di costruzione che poteva avere dimensioni diverse. Per quanto riguarda le tipologie dei rapporti contrattuali intrattenuti con i dipendenti e le relative retribuzioni si sono rilevate quattro distinte categorie: i salariati, i giornalieri e i cottimisti ai quali si affiancavano i garzoni la cui retribuzione mensile era però corrisposta, come abbiamo visto, da un altro dipendente. I salariati percepivano uno stipendio mensile di 105 o 115 lire60; gli assistenti, che però non figurano nel libro paga relativo al 1913 ma in quello successivo, ricevevano anch’essi una retribuzione mensile di £ 85. I giornalieri percepivano un salario da 1 Lira e 30 centesimi a £ 5 a giornata; alcuni venivano pagati settimanalmente dal capo-squadra. I cottimisti, infine, venivano pagati 30 centesimi all’ora oppure 5 millesimi di lira per mattone, 5 o 11 millesimi per coppo, 6 lire per la sfornaciatura; lo ‘scarico’ era retribuito in misura differente a seconda che si trattasse di scaricare vagoni di carbone, nel qual caso la paga ammontava a £ 6, o a £ 4 per lo scarico di vagoni di altro materiale; le operazioni di carico erano retribuite con una lira ogni mille mattoni, cifra però ripartita in parti uguali fra i quattro cottimisti impiegati in questa operazione. La ‘fornaciatura’ e la ‘sfornaciatura’ venivano pagate alla squadra del bertoliere £ 384 a giro, così come il cosiddetto ‘giro di fornace’ che consisteva nel controllo dell’alimentazione dei forni da parte del fuochista, a volte coadiuvato dal sottofuochista. In ogni caso la paga veniva corrisposta per tutte le categorie di lavoratori con cadenza quindicinale. L’analisi dei libri paga per il periodo che va dall’agosto 1911 al luglio 1913, consente di esaminare più in dettaglio l’andamento nel corso dell’anno sia dell’occupazione, evidentemente correlata a quello della produzione totale e delle quattro tipologie di lavoratori, sia del peso che ciascuna categoria (e quindi tipologia di retribuzione) aveva nei vari mesi. Il numero complessivo dei lavoratori impiegati nel corso dell’anno registrava una fluttuazione ciclica, con modesti scarti tra un anno e l’altro. La forza lavoro aveva una consistenza minima nei mesi di gennaio e febbraio, allorché gli occupati si riducevano a poche unità di stipendiati e talora non vi erano neppure quelli, mentre erano sempre del tutto assenti i lavoratori giornalieri ed i cottimisti. Sebbene la produzione di norma iniziasse a fine primavera, tra la metà di dicembre e l’inizio gennaio – e nel 1913 anche tra la fine di febbraio e la fine di aprile – potevano presentarsi momentanei incrementi nell’occupazione, immediatamente seguiti da un azzeramento. Tale modesto incremento, anche tenuto conto dei dati forniti dal giornalmastro dai quali risulta la pressoché totale assenza di attività produttiva in quei periodi dell’anno, si può spiegare con necessità tecniche di manutenzione degli impianti, cui si sopperiva richiamando temporaneamente operai pagati a giornata. Il livello degli occupati aumentava poi rapidamente a partire dai mesi di
58 I libri paga disponibili si riferiscono a soli due distinti periodi: il primo va dal 5 agosto 1911 al 19 novembre 1913, il secondo dal 16 aprile 1915 al 16 agosto 1916. Tuttavia, poiché nel secondo periodo si era nel pieno della guerra mondiale 1914-1918, con i conseguenti e ben noti effetti sulla composizione della manodopera in termini sia di genere che di classi di età, si è ritenuto opportuno prendere in esame unicamente la prima serie di dati. 59 Purtroppo nel periodo esaminato non figurano addetti per queste mansioni, la cui presenza è tuttavia attestata da registri relativi ad altre annate, che però in quanto incompleti non consentono di valutare l’incidenza di tale componente sulla forza lavoro impiegata nella fornace. 60 Nel 1913 era a libro paga un solo salariato retribuito con £ 115.
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aprile (nel 1912), o maggio (nel 1913), per raggiungere il suo massimo nella prima quindicina di luglio, e quindi declinare di nuovo, tanto che nel mese di ottobre essa era, di norma, già la metà di quella registrata a luglio e a metà gennaio si contavano meno di una decina di addetti a fronte della quarantina che in media si registrava alla metà di luglio61. L’unica componente della manodopera a presentare un andamento congruente con quello dell’occupazione totale è costituita dai giornalieri, mentre tanto l’andamento dei cottimisti quanto quello degli stipendiati se ne discosta anche in misura sensibile. Il numero dei primi è sostanzialmente stabile, salvo un leggero incremento nell’estate del 1912; al contrario quello dei cottimisti risulta decisamente più variabile, con punte che dovevano corrispondere ai momenti di maggiore attività aziendale. Lavoratori occupati nella fornace di Sale delle Langhe dal 7.8.1911 al 17.7.1913. 60 50
Occupati
40 30 20 10
1/6-15/6
Totale
Andamento della composizione professionale dei dipendenti. 100 90 80 70 60 50 40 30 20 10
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Periodi retributivi Stipendiati
Giornalieri
Cottimisti
1/5-15/5
1/4-15/4
9/3-22/3
9/2-22/2
12/1 -25/1
----------
15/12 - 28/12-1912
20/10-2/11
25/8-7/9
2219-5/10
2717-6/8
1/7 - 13/7
6/6-15/6
6/5-18/5
8/4-20/4
11/3-23/3
12/2-24/2
15/1-27/1
18/12 - 30/12-1911
23/10-4/11
20/11 -2/12
2/10-14/10
4/9-1819
61 Il dato è solo apparentemente contradditorio con quanto riportato più sopra: infatti, in quel caso, ci si riferiva al numero complessivo dei dipendenti iscritti a libro paga nel corso dell’anno mentre in questo caso ci si riferisce ai dipendenti simultaneamente presenti in azienda.
7/8 - 21/8-1911
0
1/7 - 15/7 - 1913
1/5-15/5
1/4-15/4
1/7 - 15/7 - 1913
Cottimisti
9/3-22/3
9/2-22/2
12/1 -25/1
----------
15/12 - 28/12-1912
20/10-2/11
25/8-7/9
2219-5/10
2717-6/8
6/6-15/6
1/7 - 13/7
6/5-18/5
Giornalieri
1/6-15/6
Periodi retributivi Stipendiati
8/4-20/4
11/3-23/3
12/2-24/2
15/1-27/1
18/12 - 30/12-1911
23/10-4/11
20/11 -2/12
4/9-1819
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0
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Mattoni posti ad asciugare ‘in gambetta’ (Archivio Stefania Ferrari).
Da tutto ciò consegue che anche la composizione percentuale della forza lavoro classificata in base al tipo di rapporto contrattuale (e, si badi bene, non di mansione svolta) variava anche sensibilmente nel corso dell’anno. Come ovvio in linea di massima prevalevano i giornalieri, tuttavia in corrispondenza delle fasi in cui la produzione attingeva i suoi massimi la percentuale di cottimisti aumentava improvvisamente e talora diveniva addirittura superiore a quella dei giornalieri. Occorre però rilevare che in alcuni casi, i giornalieri lavoravano come cottimisti in periodi in cui la produzione era maggiore per poi tornare a lavorare a giornata, percependo quindi retribuzioni diverse a seconda della mansione svolta. Purtroppo i dati a disposizione non consentono di stimare la produttività del lavoro nel corso dell’anno, ma dall’analisi della produzione dei cottimisti nel periodo esaminato, laddove le indicazioni sul libro paga lo consentono, si può affermare che ciascun lavoratore produceva in media circa 600-800 mattoni pieni per giornata lavorativa62.
Aree di mercato e risultati economici Sfogliando il Libro mastro relativo al periodo 1° marzo 1913 - 29 febbraio 1914 è possibile avere una mappatura delle aree di mercato della ditta. La clientela era principalmente piemontese e ligure e localizzata, oltre che ovviamente in Sale delle Langhe, in diverse località del Piemonte63 e della Liguria centro-occidentale64. Alcuni clienti, tuttavia, si distinguono per l’entità degli ordini. Fra questi Dionigi Ghiringhelli, Morganti e Bittinelli e la Società Italiana Prodotti Esplodenti di Cengio che peraltro, erano anche clienti della fornace di Millesimo. A questi venivano inviati alla stazione di Cengio, in particolare nel 1914, spedizioni variabili da
Libro paga degli operai quindicinale (Registro A). 63 In Piemonte si avevano clienti a: Ormea, Nucetto, Ceva, Niella Tanaro, Cuneo, Priero, Camerana, Mombarcaro, Battifollo, Bagnasco, Gorzegno, Saliceto, Mollere, Ciriè, Prunetto, Torresina, Castellino, Garessio, Paroldo, Priola, Lesegno, Perlo e Sale delle Langhe. 64 Nella Liguria centro-occidentale si avevano clienti a: Genova, Savona, Celle Ligure, Albissola, Altare, Carcare, Cengio, Castelnovo, Montezemolo, Calizzano, Bardineto e persino Seborga. 62
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Irma Dematteis, Cengio. Dai campi alla fabbrica: storia di un paese tra Ottocento e Novecento, Millesimo 2009, pag. 95. 66 1 macchina semifissa R. Wolf di Magdeburg di 56 HP, 1 gruppo per la lavorazione dei mattoni pieni composto di 1 rompizolle, 1 brojeur a cilindri, 1 impastatore orizzontale, 1 mattoniera ad eliche, completato di nastri; 1 mattoniera a rulli con impastatore sovrastante, 1 pressa a ‘tigi’, 1 mattoniera piccola ad elica (il gruppo dei mattoni pieni e la mattoniera a rulli della fabbrica S.A. Officina Manfredi di Fossano, la pressa a ‘tigi’, la mattoniera ad elica piccola della fabbrica E. Tazel di Troppau) con cinghie e parte di spesa di piazzamento – il tutto per un valore di £ 46.903,05. 67 Per margine operativo lordo si intende la differenza fra l’importo incassato dalla vendita dei laterizi e il costo sostenuto per la loro produzione. 65
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100.000 a un milione di mattoni pieni e vagoni completi di tegole. Si può ipotizzare che quantità così considerevoli siano da collegare all’espansione della Fabbrica di prodotti esplodenti di Cengio che a partire dal 1912 aveva avuto un nuovo slancio grazie alla guerra di Libia (1911-1912) diventando «la più importante industria italiana nel campo della produzione degli esplosivi»65 e l’espansione era destinata ad aumentare con lo scoppio della Prima guerra mondiale. Questa ripresa economica era stata accompagnata da un’opera di ristrutturazione architettonica e di ampliamento degli edifici dello stabilimento con nuove costruzioni all’interno del suo perimetro ed abitazioni all’esterno per ospitare i quadri e i lavoratori dell’azienda. Fra i principali clienti è da citare inoltre la ditta S. Spotorno & C. di Savona che ordina, negli anni 1913-1914 numerosi vagoni di mattoni, in particolare «pieni a mano» che venivano inviati alle stazioni di Savona e di Vado Ligure. Anche in questo caso si può facilmente ipotizzare un collegamento, nel primo caso con l’espansione urbanistica della città, ed in particolare la realizzazione di Via Paleocapa e dell’ampio quadrilatero compreso tra Corso Italia e la linea ferroviaria e nel secondo, con il nascente polo industriale di Vado Ligure, immediatamente ad occidente della città. Altri nominativi significativi sono quelli delle ditte Bagnasco di Millesimo, Soc. Acetati e Derivati di Bagnasco e i Fratelli Agostinelli di Mondovì. Con riferimento agli ordinativi della clientela e sfogliando il Libro inventario è infine possibile stimare il volume d’affari e il risultato operativo del conto «Lavorazione Laterizi» per completare l’analisi della situazione della fornace di Sale delle Langhe all’inizio del secolo da un punto di vista finanziario. Il consistente potenziamento della fornace, reso necessario con molta probabilità dalla crescita degli ordinativi e dalla possibilità di smercio avanzata nel primo paragrafo di questo capitolo, trova la sua giustificazione nell’analisi comparata dei bilanci degli esercizi 1909 e 1910. Infatti, se nel bilancio datato 8 ottobre 1909 la fornace veniva appostata in attivo con un valore stimato di £ 37.000, nel bilancio successivo le viene attribuito un valore di £ 61.264,43 così come le case e i mobili sono registrati nel 1909 rispettivamente con valori di £ 25.846 e £ 151 mentre nel 1910 viene attribuita loro una valutazione rispettivamente di £ 37.620,49 e 723,60. Nel 1910, inoltre, compare a bilancio la voce «Macchinario» per un importo di £ 13.219,73 assente nel conto dell’anno precedente e il valore delle aree di cava passa da £ 40.042,15 a £ 44.113,43. Il bilancio al 28 febbraio 1914, poi, evidenzia un ulteriore salto di qualità nei valori di cui sopra giacché la fornace è iscritta per £ 63.002,30, le case per £ 49.720,20 e venivano descritte in dettaglio come segue: «casetta ufficio, casa nuova (per l’abitazione degli impiegati di amministrazione), casa Braja (per abitazione operai), tettoia cemento», mentre il macchinario è iscritto per un valore di £ 172.063,8. Inoltre fa la sua comparsa un’officina meccanica. Nell’inventario successivo la voce «Macchinario» presenta in modo dettagliato le attrezzature meccaniche66 e ne emerge il quadro di uno stabilimento al passo con i tempi. Per completare il quadro della fornace di Sale delle Langhe dall’inizio della sua attività agli anni 1914-1915 è necessario analizzare il volume d’affari, l’utile e il margine operativo lordo67 del conto «Lavorazione laterizi». Analizzando in dettaglio i conti e il bilancio dell’esercizio finanziario del 1914 risulta che il fatturato complessivo del conto «Lavorazione laterizi» dal 1° marzo 1913
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al 28 febbraio 1914 è di £ 79.171,56 con un utile lordo di £ 23.187,58 ed un utile per la lavorazione del cemento di £ 1.133,01 e un utile totale di £ 24.320,59. Infine è possibile comparare la consistenza patrimoniale dell’azienda negli anni 1909 e 1914. Nel 1909 essa era di £ 203.539 e nel 1914 di £ 263.735,45, a riprova della validità delle ipotesi di rapida crescita formulate in precedenza. Sulla base degli elenchi relativi alla consistenza del materiale giacente nella fornace alla chiusura di ogni esercizio finanziario è possibile ipotizzare una giacenza media di mattoni di circa un milione di pezzi, oltre a quantità minori delle altre produzioni. Una tale quantità di mattoni poteva essere agevolmente immagazzinata parte al coperto e parte sul piazzale antistante la fornace. Come è stato detto in precedenza, gli anni che hanno formato oggetto di indagine sono quelli sino all’esercizio 1914-1915, che coincide con la morte di Filomena. È interessante notare che da una rapida analisi dei bilanci dell’immediato dopoguerra, quindi dei primi anni ’20 del Novecento e l’inizio degli anni ’30 risulta un volume d’affari di quattro, e talora cinque volte inferiore a quello dell’immediato anteguerra qui esaminato.
Le ultime vicende Dopo la morte di Filomena e gli eventi della Prima guerra mondiale si assiste a diversi cambiamenti sia nella tecnica della lavorazione dei laterizi, sia nell’assetto societario della ditta, con il ritorno dall’America di Luigi al quale, nel novembre del 1914 era stata ceduta dai fratelli la loro quota di proprietà della Ditta F.lli Ferrari e C.ia68. Luigi si stabilirà permanentemente a Sale delle Langhe insieme alla moglie Emilia ed al figlioletto Ferdinando Elio. Nell’aprile del 1929 un violento incendio distrusse quasi completamente la fornace risparmiando soltanto la ciminiera. La fabbrica fu ricostruita tenendo conto dell’evoluzione verificatasi nel frattempo nei macchinari e nei sistemi di lavorazione dei laterizi. Un cambiamento che si accompagna a non meno rilevanti trasformazioni nel contesto territoriale, emblematicamente illustrate dall’arrivo, grazie al contributo della Ditta Ferrari e delle ferrovie, dell’energia elettrica nella frazione Valle. Negli anni ’30 del ’900 la compagine societaria si allargò per l’ingresso degli eredi dell’ing. Alberto Scarzella, inoltre si può supporre che Luigi iniziasse ad avviare al lavoro nella fornace il figlio Ferdinando Elio il quale, alla morte del padre, nel 1952 prenderà la direzione dello stabilimento. Durante la Seconda guerra mondiale, nonostante le difficoltà, la fornace rimase in attività e negli anni ’50 essa contava 120 dipendenti stagionali che, come ai tempi di Filomena, iniziavano a lavorare dopo Pasqua e smettevano a fine ottobre. Dalla testimonianza che abbiamo potuto raccogliere dalla vedova di Ferdinando Elio, signora Stefania Ferrari, risulta che anche all’epoca c’erano delle famiglie al completo che venivano a lavorare dalla Toscana portandosi i figli che aiutavano a girare i mattoni. Venivano prodotti dai 30.000 ai 40.000 mattoni al giorno. Il ricarico sul mattone poteva essere del 20%, quello sulla tegola anche del 25%; un ‘fornacino’, negli anni ’50’60 del Novecento guadagnava in media 55-60.000 lire al mese e poteva arrivare anche a 70.000 lire, mentre un operaio era pagato a ore e guadagnava in media 30.000 lire al mese.
68 Atto di vendita-Assegni in divisione in data 5 novembre 1914 a rogito Notaio Carlo Mazza di Murialdo.
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Sempre dalla testimonianza della signora Ferrari risulta che negli anni ’50 del Novecento dalla stazione di Sale delle Langhe partivano sino a 10 vagoni al giorno, con un carico di 40-50.000 mattoni. Nel secondo dopoguerra si assiste ad una rapida evoluzione delle tipologie di mattoni prodotti; si passa dal mattone pieno, al semipieno, al multifori e nel 1956 il mattone pieno esce di produzione; negli anni ’60 del ’900 le ‘gambette’ furono sostituite da moderni essiccatoi ad aria condizionata. Sino al 1975 il combustibile utilizzato nella fornace Hoffmann era il carbone; con la trasformazione di questo tipo di fornace in quella a ‘testa tagliata’69 il combustibile impiegato divenne la nafta.
Ferdinando Elio e Stefania Ferrari
Ferdinando Elio Ferrari ritratto nel piazzale della fornace di Sale delle Langhe (Archivio Stefania Ferrari).
Prima di terminare l’analisi delle vicende della fornace di Sale Langhe si reputa doveroso dedicare anche solo un piccolo spazio a Ferdinando Elio e Stefania Ferrari, quest’ultima essendone stata l’amministratrice dal 1962, anno in cui rimase vedova, sino alla sua chiusura definitiva nel 1985. Ferdinando Elio nasce a San Francisco il 30 maggio del 1914, rientra in Italia con la mamma nel novembre dello stesso anno quando la Prima guerra mondiale era già scoppiata, tanto che la traversata via mare durò un mese e fu particolarmente rischiosa a causa dei combattimenti già in pieno svolgimento nell’oceano e i passeggeri furono testimoni dell’affondamento di alcuni bastimenti che attraversavano lo stesso tratto di mare70.
Tale denominazione deriva dal fatto che le due parti terminali del forno Hoffmann venivano tagliate per consentire ai mezzi di trasporto un più agevole accesso all’interno dell’area di cottura. 70 Dalla testimonianza di Stefania Ferrari. 71 In particolare in Francia, Inghilterra, Germania, Spagna e Portogallo. 69
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Come detto in precedenza, Ferdinando Elio cresce nel ‘recinto’ della fornace, frequenta le scuole commerciali a Savona e alla morte del padre assume la direzione dell’attività commerciale. Nel 1949 sposa Stefania Ronzini Pallavicini e da lei avrà due figli. Nel 1962, a soli 48 anni, è stroncato da un infarto. Di natura affabile e dal carattere gioviale ed estroverso, era anche estremamente serio e scrupoloso nel lavoro, che negli anni ’50 e ’60 del Novecento lo portava a numerosi spostamenti in Europa71 per visitare nuovi impianti e seguire da vicino le innovazioni e le trasformazioni tecnologiche così rapide in quel periodo. Rappresenta quindi la nuova figura dell’imprenditore che accetta le sfide del mercato ed è consapevole della necessità di un bagaglio di conoscenze che lo aiutino a fronteggiare un futuro che è già presente. Stefania Ferrari, rimasta vedova con due figli, Emilio di quasi 5 anni ed Antonella di poco più di due, riesce a superare con notevole forza d’animo le avversità seguite alla morte del marito e dirige l’azienda sino alla sua chiusura definitiva, dopo aver riscattato le quote societarie degli eredi dell’ing. Scarzella, nel 1979. Questa figura di donna, tutt’ora vivente, non può che farci tornare con il pensiero a Filomena: in tempi e in condizioni sociali assai diverse, entrambe vedove e con figli, per necessità indipendenti dalla loro volontà si sono trovate, loro malgrado, a scrivere una piccola storia, «la storia segreta» dell’imprenditoria femminile.
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Conclusioni Al termine di questo percorso si ha la sensazione di aver trovato delle risposte ma di avere anche aperto nuovi scenari che meriterebbero di essere approfonditi. Durante le mie ricerche nell’Archivio storico del Comune di Millesimo, per un caso singolare, mi sono trovata a percorrere un itinerario parallelo a quello di un certo Carlo Ferraris, di professione scalpellino e della di lui sorella Filomena, ostessa, quindi quasi omonimi dei miei antenati. Queste vite si incrociavano perché i quattro erano coetanei e, come già richiamato in precedenza, molto spesso il cognome Ferrari veniva trascritto come Ferraris. Carlo Ferraris era nato in Uruguay e Carlo Ferrari in Malcantone: entrambi avevano lasciato la loro terra d’origine e si erano stabiliti in quel piccolo paese fra Liguria e Piemonte per cercare fortuna e, come è poi successo a Filomena, anche per creare nuove opportunità di cui avrebbero beneficiato altri. Mi piace immaginare che le due donne si conoscessero e si frequentassero anche se Filomena Ferrari per capacità personali, coraggio e sicuramente un po’ di fortuna era riuscita ad avere successo e diventare una delle poche donne imprenditrici dell’epoca. Ciò che colpisce di più in lei è la sua modernità e al tempo stesso la sua inconsapevolezza che, unita ad un sostanziale tradizionalismo, la portava a far propri i modelli culturali di cui erano portatori gli imprenditori uomini e i padri di famiglia del suo tempo. D’altronde, nonostante sapesse leggere e scrivere, cosa relativamente eccezionale per una contadina, la sua cultura era quella delle comunità rurali del tempo, priva di quegli stimoli che altrove, specie nelle aree urbane, spingevano le donne a iniziare un percorso di emancipazione. La sua vita è trascorsa all’interno di uno spazio estremamente circoscritto dal momento che la casa di abitazione si trovava di fronte alla fornace e non c’era distinzione né di spazio né di tempo fra il lavoro e la casa e i giorni trascorrevano all’interno di un ‘recinto’ poco più grande di un campo di calcio. Si era trasferita dal triangolo racchiuso fra Molinazzo, Ramello e la Lisora a quello fra la casa e lo stabilimento della fornace e purtuttavia, in quel micromondo, aveva fatto la sua rivoluzione industriale e contribuito ad avviare il processo di industrializzazione di Millesimo che da allora non si è mai fermato. Questa donna svizzera, vedova, che combatte la sua battaglia per continuare con ostinazione quello che il marito aveva iniziato e per creare condizioni di vita migliori per i figli, l’accomuna, nei fatti ancorché ne fosse inconsapevole, a tante altre donne che, in contesti o situazioni diverse, hanno avuto il coraggio di superare il ruolo di subalternità loro attribuito dalla cultura dominante e affermare la propria individualità. La storia delle donne imprenditrici è ancora tutta da scrivere.
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Silvio Morandi, un grand-père acteur de la rÊvolution industrielle Jean-Pierre Dresco
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Silvio devant les bureaux de lâ&#x20AC;&#x2122;usine de Corcelles-Payerne (1968). Silvio a 85 ans.
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Préambule
Évoquer le destin de Silvio Morandi (1883-1977) revient à raconter la ‘succes story’ d’un gamin, gardien de chèvres dans un hameau de la montagne tessinoise, devenu capitaine d’industrie, et qui apporte une contribution significative au développement de l’industrie céramique. Son histoire est d’autant plus intéressante que la période de sa vie correspond à une phase essentielle des changements que la société européenne traverse depuis le XIXe siècle. La révolution industrielle, dont les prémices remontent à la Renaissance, puis au siècle des Lumières, se développe en Europe au XIXe siècle, notamment en Angleterre et en Allemagne. Sa généralisation modifie fondamentalement les rapports sociaux des populations de ces pays. Dans toute l’Europe, les nouvelles conditions qui accompagnent cette révolution offrent à des personnages entreprenants, n’appartenant pas aux classes dirigeantes, des perspectives d’enrichissement qui étaient réservées à la noblesse au cours de l’ancien Régime. Durant le XIXe siècle, la bourgeoisie affirme son pouvoir en le fondant sur ses succès économiques dus notamment au développement de l’industrie naissante. Ce que les sociologues désignent comme ‘l’ascenseur social’ passe dorénavant par l’esprit d’entreprise et non plus par l’église ou l’armée qui furent longtemps, pour les Suisses déshérités, les voies traditionnelles de leurs ambitions. Ironie de l’histoire de cette époque, les perspectives des anciens Maîtres du Tessin, (les cantons de la Suisse centrale) fidèles au modèle traditionnel (par exemple la garde papale) s’avèrent de moins en moins ‘rentables’ par rapport à celles de leurs ex-sujets, dont les compétences favorisent les carrières et les succès, particulièrement dans les domaines techniques. Le contexte régional vers la fin du XIXe siècle Imaginons Bombinasco vers la fin du XIXe siècle: ce hameau est pauvre depuis toujours. Son territoire nourrit difficilement la population qui y vit toute l’année, les femmes, les enfants et les vieux. Les hommes sont saisonniers ou ont émigré en attendant de déplacer leur famille, parfois à l’autre bout du monde. Selon Silvio, Bombinasco comprend, au moment de son départ, une centaine de personnes dont suffisamment d’enfants pour justifier un asilo. La vie est simple, essentielle, économie de subsistance, à base d’une agriculture développée en terrasses autour du hameau. On exploite la forêt environnante où l’on récolte les châtaignes, ramasse les feuilles pour la litière des quelques vaches et des chèvres que le petit Silvio accompagne dans les bois avec, pour son dîner, 207
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Photo de mariage du père et de la mère de Silvio (1875). Léonard Agostino Morandi (1840-1898), Giustina Delmenico (1853-1905).
une tranche de polenta et un morceau de fromage. Le hameau se fait beau à la fin de l’année avec l’arrivée des hommes qui racontent leurs aventures à la veillée de l’osteria. Les évènements du monde pénètrent ainsi jusqu’au fond de ces vallées isolées. On passe les fêtes en famille, on conçoit quelques descendants, et on repart bientôt pour une nouvelle saison de travail. Les premières traces de notre famille Morandi dans le Malcantone remontent au XVIIIe siècle. Vers la fin de 1700, l’Europe est secouée par la Révolution française et les remous successifs qui en sont les conséquences. Après les guerres napoléoniennes, l’Italie reste sous l’emprise de puissances étrangères. La Lombardie est occupée par la Maison d’Autriche, tandis que les Souverains savoyards luttent contre l’influence française. Le Val Veddasca, qui débouche sur le lac Majeur, se situe aux confins alpins de la Lombardie de l’époque. Tout en haut de cette vallée étroite se trouve Monteviasco, hameau perdu à presque 1000 mètres d’altitude, sur le versant nord du Monte Léma dont le sommet appartient au Tessin, territoire occupé à l’époque par les cantons suisses. On se connaît bien entre villageois des deux versants car les pâturages de Monteviasco jouxtent ceux des villages malcantonais du versant sud, ce qui implique des relations régulières, mais aussi des procès et pourquoi pas quelques amourettes. Le décor est planté pour que plusieurs Morandi, dont Giacomo, l’ancêtre de la branche de Silvio, mais également Gaspare, Ambrogio et plus tard Innocente, quittent Monteviasco et s’établissent dans les villages du haut Malcantone et notamment à Bombinasco (hameau de la commune de Curio). Des représentants des familles Delea, Cassina et Ranzoni quittent eux aussi Monteviasco, passent la crête de la montagne et trouvent des épouses dans les villages du versant sud. Avec les Morandi, ils héritent du surnom de montitt qui s’entend encore aujourd’hui. Pourquoi ces départs? À l’échelle d’un village comme Monteviasco la perte de ces hommes en pleine force de l’âge a dû représenter un affaiblissement de cette communauté montagnarde. Leurs décisions a sans doute pour origine la précarité des conditions de vie mais peut-être quelque événement violent? Il se raconte, autour de la cheminée, que ces gaillards auraient décampé devant la maréchaussée pour éviter de partir à la guerre ou à la suite de quelles frasques? De toute façon, ces ‘nouvelles souches’, bonnes races de montagne, étaient fortes puisqu’elles fondèrent des familles qui prospèrent encore aujourd’hui au Tessin et par le monde.
L’émigration tessinoise De très nombreuses études ont relevé le nombre considérable d’artistes, d’artisans et d’entrepreneurs provenant des vallées tessinoises et oeuvrant dans toute l’Europe. Dans les chapitres précédents, Madame Giulia Pedrazzi analyse de manière approfondie l’émigration liée à la fabrication des briques et des tuiles. Elle démontre comment s’explique le flux migratoire des vallées alpines vers la plaine italienne, puis vers d’autres régions plus éloignées, notamment par la nécessité de compléter le manque de ressources des lieux d’origine de ces hom208
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Frères et sœurs de Silvio (1902?). En bas, de gauche à droite: Irma Delmenico (†1905), la mère Giustina, déjà veuve, Léonie (1898-1980), Ida Massarotti (1888). En haut, de gauche à droite: Silvio (1883-1977) et Giovanni-Costantino (1877-1933).
mes qui doivent louer leurs services pour nourrir leurs familles. Le phénomène qui voit les régions pauvres fournir la main d’œuvre aux régions plus développées existe depuis la nuit des temps et il reste encore aujourd’hui largement (et tragiquement) d’actualité. Cependant, la migration des Tessinois se singularise par le fait qu’elle a produit, au cours des siècles, une multitude d’artistes, d’artisans de haut niveau et des chefs d’entreprise comme Silvio Morandi, phénomène qui reste mal expliqué. Il est évident que la majorité des émigrants tessinois se consa209
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cre aux tâches de base, manoeuvres, ouvriers de chantiers, d’ateliers et des usines naissantes. Néanmoins, une minorité inhabituelle se forme à des métiers qui leur permettent de s’élever aux sommets des hiérarchies artisanales et artistiques, peintres, sculpteurs, architectes mais également fondateurs d’entreprises comme les briquetiers. Pour ne citer que les diverses branches de la famille de Silvio Morandi, au cours du XIXe siècle, on compte plus de 10 fondateurs ou dirigeants d’usines situées en Suisse et en Italie. La même émigration, de régions de montagnes vers la plaine plus riche, a existé sur tous les continents; toutefois la proportion particulière de personnages ayant acquis une situation supérieure sur leurs lieux d’émigration répond vraisemblablement à des conditions spécifiques des vallées du sud des Alpes. Le sujet justifie des analyses qui dépassent largement les limites du présent témoignage, mais on peut néanmoins tenter une hypothèse fondée sur la proximité des vallées et des riches villes du Nord de l’Italie qui ne se situent qu’à une ou à quelques journées de marche. Cette région à la richesse économique et artistique exceptionnelle devait être un milieu très favorable à la formation de nos Tessinois et à leur esprit d’entreprise. Le grand nombre de spécialistes de la brique et de la tuile provient sans doute du fait que la plaine Padane est riche en gisements d’argile tandis que les carrières de pierre pour les constructions sont situées à de longues distances des lieux d’utilisation, d’où une forte différence de prix en faveur des matériaux locaux. La prédominance de la brique a créé une longue tradition qui explique l’excellence des artisans de la plaine du Pô dont on retrouve les œuvres, dès le XIVe siècle, par exemple en Suisse romande. Plusieurs monuments du pays de Vaud, sous influence savoyarde jusqu’au début du XVIe siècle, en portent le témoignage aujourd’hui encore. Nos Malcantonais ont ainsi participé à ce mouvement en faveur d’un matériau dit pauvre, mais dont la mise en œuvre hautement qualifiée a permis l’édification de nombreux chefs d’œuvre de l’architecture. Il est également probable que l’ascension professionnelle des émigrés tessinois profita de la structure socio-économique des régions dans lesquelles ils déployaient leurs activités. En Italie du Nord, comme dans le reste de l’Europe, l’essentiel des richesses provenait de l’agriculture et du commerce de ses produits. Les familles locales occupaient ce secteur économique et leurs descendants prolongeaient ces traditions en vivant de la rente foncière ou en entrant dans les Ordres et dans l’armée. Nos Tessinois avaient ainsi le champ libre pour se profiler dans des activités ‘de service’, comme la construction ou les métiers artistiques, où ils prirent une place souvent prépondérante, au côté d’une bourgeoisie régionale en formation. Ultérieurement, l’implantation définitive de familles tessinoises en terres étrangères est le prolongement naturel du travail saisonnier. Comme toujours, l’expatriation est causée par la dureté des temps, mais elle est moins traumatisante pour des gens habitués à des siècles d’émigration périodique. Cette émigration ‘douce’, étalée sur plusieurs siècles, se différencie d’autres émigrations brutales du XIXe siècle. Ces dernières sont caractérisées par l’afflux massif et relativement rapide de populations agricoles vers des centres industriels comme l’Angleterre ou le Nouveau Monde. Les travailleurs sans formation, qui n’ont jamais quitté leurs terres, sont brutalement déplacés et intégrés dans les processus de production. 210
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Au contraire de nos Tessinois, bien préparés à de nouvelles responsabilités, ces déracinés sans formation n’ont que très peu de possibilités de sortir d’un ‘lumpen prolétariat’ sans espoir d’améliorer leur statut. Le parcours des parents de Silvio est comparable à celui de nombreuses familles tessinoises et de quelques autres branches de la famille Morandi qui s’implantent en Italie du nord. Le père de Silvio, Léonardo Agostino (1840-1898), possède une expérience certaine puisqu’il a déjà travaillé en Roumanie et dans une briqueterie à Cossonay dans le canton de Vaud, avant de s’engager dans la petite briqueterie de Corcelles-près-Payerne. En 1889, après quelques saisons, il l’acquiert et s’y installe. Selon la tradition familiale, il se passe un certain temps avant qu’il transfère définitivement sa famille en Suisse Romande. Silvio arrive à Corcelles en 1894, à l’âge de 11 ans, et se met directement au travail au côté de son père et de son frère aîné Giovanni. Il me racontait que sa scolarité ne fut pas le premier souci familial et qu’il profita de ce transfert pour faire croire aux autorités de Corcelles qu’il fréquentait encore l’école tessinoise et vice-versa. Sa formation scolaire, pour le moins abrégée, le fut encore ultérieurement suite au décès de son père en 1898, (il a 15 ans!) et de l’obligation de seconder sa mère (décédée en 1905) et son frère Giovanni dans la poursuite de l’exploitation de l’usine. En 1933, suite au décès de son frère, Silvio devient seul responsable de l’entreprise.
Le patron Le chef d’entreprise Silvio Morandi est un ‘produit’ typique de son époque et de son environnement social. La population des vallées tessinoises, au début du XXe siècle, conserve les caractéristiques d’une société à dominante rurale où la femme joue un rôle essentiel du fait de sa permanence au foyer. L’homme émigrant conserve néanmoins son rôle de chef de famille, et ceci d’autant plus que ses expériences hors de sa vallée lui apportent une notoriété et une autorité supplémentaires. En se fixant dans leurs lieux d’émigration, nos Tessinois conservent leur système d’autorité et pratiquent à l’égard de leurs familles et de leurs collaborateurs le ‘paternalisme’ qu’ils ont toujours vécu dans leurs vallées et qui est la règle, sous des formes plus évoluées, dans le monde industriel naissant de l’époque. Le Larousse définit ainsi ce type d’autorité: «Le paternalisme est une doctrine selon laquelle les rapports entre patrons et ouvriers doivent êtres régis par les règles de vie familiale, caractérisée par l’affection réciproque, l’autorité et le respect». Il est fort probable que le jeune Silvio, au début de ses activités, se soumet à l’autorité de son père relativement âgé, et à celle de son frère, majeur au moment du décès du père. Et puis, avec le temps, il se construit son propre système d’autorité, toujours fondé sur des rapports ‘paternalistes’, mais enrichis et ‘modernisés’ par la force de son caractère et la vivacité de son intelligence. Son charisme se constitue par une pratique journalière où il sait s’imposer par des idées claires, par l’exemplarité de son engagement et par la qualité toute latine des relations qu’il établit avec ses interlocuteurs. Les succès de son entreprise s’expliquent aussi par sa capacité à faire évoluer ses méthodes de direction en fonction du développement considérable de l’entreprise. Il comprend bien vite que l’on ne dirige pas de la même manière une usine artisanale et une entreprise formée de 211
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La famille de Silvio (1922). Silvio a 39 ans. Au centre: Alice Bertha Fischer (1885-1948). Dans ses bras: Gérad Ernest (1920-1988). A gauche: Robert Armand Léonard (1912-1997). A droite Léonie Claire Dresco (1910-1994).
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plusieurs unités de production, dont la maison-mère de Corcelles, qui comptent environ 350 ouvriers au cours des années d’après guerre. Au début de sa carrière, son rôle répond aux structures artisanales de l’usine du début du XXe siècle. Puis, grâce à ses initiatives novatrices, la fabrique évolue vers des systèmes industriels de plus en plus mécanisés dont l’importante production exige une administration moderne et une délégation de certaines prérogatives à des cadres intermédiaires. Malgré cela, et par le fait qu’il a pratiqué toutes les tâches de production, il conserve jusqu’au bout une connaissance détaillée de l’ensemble des opérations de l’usine, ce qui l’autorise à intervenir sur n’importe quel segment de la fabrication. Je l’ai vu – en blouse de travail et avec le Borsalino sur la tête – prendre la place d’un ouvrier pour lui démontrer le geste correct à accomplir, ce qui force évidemment le respect de ses employés. Silvio démontre une imagination technique qui étonne les spécialistes; il réfléchit constamment à des améliorations de l’usine et invente des procédés et des installations qui participèrent directement au succès de son entreprise. Ses rapports avec les réalisateurs de ses projets, collaborateurs, ingénieurs, entrepreneurs, fournisseurs, sont généralement courtois et amicaux, mais avec des entêtements typiques de sa formation d’autodidacte. Combien de fois je l’entendis se moquer de mes connaissances fraîchement acquises en me rappelant que «les ingénieurs ne sont pas toujours ingénieux!». L’autorité de Silvio se fonde également sur une stricte discipline personnelle de travail; premier au bureau, en même temps que ses ouvriers, omniprésent sur tous les fronts de l’entreprise, connaissant chaque ouvrier par son nom et n’élevant que rarement la voix. Il ne montre pas sa désapprobation par des gesticulations, mais plisse le front pour que les ailes de son chapeau s’agitent de haut en bas. Le charisme d’une personne comme lui est un phénomène complexe, fait de maîtrise professionnelle, mais aussi et surtout d’un soin naturel apporté aux relations humaines qu’il établit avec ses collaborateurs et ses clients. Son paternalisme ne se limite pas aux relations qu’il établit avec ses interlocuteurs; sa vision sociale porte également sur la structure de la société et sur le rôle d’un patron d’entreprise. Il est fortement conscient que les dirigeants de l’économie ont une responsabilité directe à l’égard de leurs collaborateurs et qu’ils doivent agir en conséquence dans leurs propres affaires. Cette philosophie est pour lui un système global et cohérent, s’appliquant aussi bien dans les relations de la vie courante que dans celles du domaine professionnel. Son attitude s’applique aussi bien dans l’organisation de l’usine qu’en faveur d’initiatives sociales, à l’époque en avance sur leur temps, par exemple, la création d’un ‘fonds de prévoyance’ qui aide les employés en difficulté. L’ambiance ‘paternelle’ de l’usine de Corcelles est aussi due au fait qu’un nombre important d’ouvriers provient du Tessin et d’Italie. En effet, au cours des premières années d’après guerre, le personnel est encore composé d’une importante proportion de saisonniers; l’usine est mise en veilleuse durant les fêtes de fin d’année, ce qui permet à ces émigrés temporaires de rentrer chez eux, de passer quelque temps avec leurs familles et de revenir en février avec d’exquises réserves de salamis et de vins nostrano. Ces ouvriers vivent sur place, organisent leur propre cuisine, jouent aux boules et forment une sorte de village autonome où les odeurs, les bruits et les chansons rappellent directement le sud des Alpes. Il est bien évident 213
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Silvio et Léonie à Vichy en 1957, Silvio a 74 ans.
qu’un patron qui parle leur dialecte, apprécie leurs vins et leurs plats en connaisseur, établit avec ses collaborateurs des relations d’une tout autre nature qu’un chef qui n’émerge de son bureau que pour rejoindre son golf ou son tennis! L’éthique de Silvio s’applique également à la conduite financière de l’entreprise. Tout au long de sa vie, il considère l’argent comme un moyen de développer son projet d’entreprise. Il fait vivre confortablement sa famille sans marques ostentatoires de fortune. Il n’a jamais compris ni admis que l’argent puisse se gagner autrement que par le travail et l’intelligence productive. Ses spéculations ne sont pas financières; les risques qu’il prend portent sur des améliorations techniques de l’usine où il investit afin de matérialiser des idées parfois révolutionnaires. On retrouve chez lui le goût de l’invention scientifique qui est typique de l’esprit du XIXe siècle et qui est à la base de la révolution industrielle. L’usine de Corcelles est longtemps considérée comme un exemple de technologie grâce à des investissements (avec un recours minimum à l’emprunt) consacrés à l’introduction des meilleurs outils de production. Silvio applique également la même logique paternaliste dans le règlement de sa succession; le patrimoine industriel doit rester exclusivement en mains de la descendance mâle. Les enfants de la sœur et de la fille sont généreusement soutenus, notamment dans leur formation, mais ils sont écartés de la société qui conserve ainsi son nom de famille, Morandi, de père en fils. C’est ainsi qu’à la suite de Silvio, son fils Robert, et finalement son petit-fils Claude entrent dans l’entreprise. Après le décès de son père, ce dernier dirige seul l’entreprise jusqu’en 2010, date à laquelle il vend la Société Morandi Frères SA. ‘L’aventure’ de l’entreprise Morandi de Corcelles-près-Payerne aura ainsi duré 4 générations s’étalant sur 121 ans.
Le ‘pater familias’ Silvio épouse en 1909 une jeune fille du lieu, Alice Fischer, pour qui il construit une belle maison située bien entendu entre le village et la briqueterie. Position symbolique, le foyer familial se rattache ainsi à une communauté villageoise (qui au début ne considère pas d’un très bon œil ce fringant Tessinois), mais conserve un rapport direct et privilégié avec l’œuvre de sa vie qu’est son usine. La maison qu’il bâtit lui ressemble, carrée, généreuse, sans chichis ni fantaisies. Le jardin et les dépendances sont le domaine d’Alice; jusqu’aux années d’après guerre, on y trouve les légumes, les fruits, le poulailler, l’atelier de menuiserie, les réserves de bois, pour une vie et une cuisine qui satisfont les racines paysannes de la maîtresse de maison. Un paradis pour les enfants, grimpant aux arbres, disputant aux chats les recoins des galetas, des toits et des réduits, se cachant dans les rhubarbes, au grand émoi de la grand-mère et sous le regard indulgent du grand-père Silvio. Sa place est en tête de la table; on doit être assis en même temps que lui, à des heures précises. La conversation est ouverte car ses intérêts sont multiples. Si un doute apparaît, il envoie l’un des gamins chercher l’encyclopédie d’où il a tiré les connaissances qu’une scolarité interrompue ne lui a pas apportées. Il n’intervient que très peu dans l’organisation de la maison, monde de son épouse puis de sa fille, mais la décision finale sur les choses importantes lui revient de droit. Le sys214
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tème est cohérent, l’homme au travail apporte les moyens matériels du ménage que la femme gère selon sa propre logique et son éducation. À la maison, on parle français par égard pour Alice qui ne comprend pas l’italien et encore moins le dialecte. Il suffit ensuite d’une génération pour que les enfants et les petits-enfants perdent ainsi la connaissance de la langue d’origine. La vie de Silvio se partage entre son industrie et sa famille; il ne participe que peu à la vie sociale du village et de la région. La Commune de Corcelles le nomme néanmoins citoyen d’honneur, ce qui le touche profondément. Cette distance à l’égard de la politique et des activités locales s’explique probablement par une difficulté réciproque d’intégration entre l’industriel tessinois (presque un Italien) et les paysans vaudois dont les habitudes et l’éducation restent fortement liées à l’agriculture. Il est tout de même curieux qu’un personnage aussi important pour l’économie de la Commune n’ait pas été tenté de jouer un rôle dans la politique locale et pourquoi pas régionale. Il est probable que cette distance à l’égard de l’administration communautaire provienne de son engagement total envers son entreprise. Mais il est aussi possible que la forme plus ou moins démocratique de la ‘chose publique’ s’accorde mal avec le paternalisme malgré tout autocratique de Silvio qui a horreur des palabres et des ‘byzanteries’ de la politique. Il vote pourtant régulièrement, selon des convictions libérales sans ambiguïté, en toute cohérence avec son mode de vie et ses convictions professionnelles. Il serait intéressant de comparer le niveau d’intégration sociale de patrons provenant de la bourgeoisie locale avec celle de chefs d’entreprises, comme Silvio Morandi, développant ses œuvres en terres étrangères. J’ose supposer que l’émigré est moins enclin à consacrer du temps et de l’énergie aux institutions politiques et culturelles que les collègues mieux enracinés dans leur milieu social. L’engagement totalement professionnel de nos patrons émigrés les empêche ainsi d’accéder pleinement à la dimension culturo-sociale qui fait partie intégrante de l’image des grands chefs d’entreprises.
La maison de Silvio à Corcelles-Payerne (1930).
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La fidélité au Tessin Silvio conserve tout au long de sa vie un lien étroit avec sa vallée d’origine. Jusqu’à la fin des années 50, il vient régulièrement au Tessin avec sa famille, logeant à l’hôtel à Lugano, et se rendant fréquemment dans le Malcantone pour visiter parents et amis. Les voyages vers le Tessin répondent à un ordre immuable et rigoureusement observé par ses accompagnateurs; le départ en voiture de Corcelles est fixé à 5 heures du matin, le parcours d’hiver passe par Lucerne, celui d’été par le Susten, café vers 8 heures à Wassen pour une arrivée à Lugano et plus tard à Bombinasco au milieu de la journée. Au contraire de nombreux Tessinois, enrichis à l’étranger, qui marquent leur réussite par la construction de villas somptueuses, Silvio se consacre à réhabiliter son hameau d’origine, Bombinasco. Il commence par y installer un réfugié de la guerre, Massimo Molinari, originaire du Trentin, qui entretient les quelques propriétés familiales. Plus tard, avec son épouse Silvana, ils auront trois enfants qui constituent une nouvelle génération dont le village a tellement besoin. À cette époque, Bombinasco n’est plus habité que par quelques familles vieillissantes et le hameau présente des signes évidents d’abandon et de décrépitude. À partir de 1957, Silvio décide d’entreprendre des chantiers qui rendent Bombinasco plus accessible et plus habitable. Il me désigne ‘chef de chantier’ et débute une série de réaménagements du village. La famille a conservé la propriété de la maison d’origine, la Cá du Frá qui est peu à peu rénovée et mise à disposition de nouveaux habitants. Silvio rachète ensuite plusieurs maisons abandonnées ou en très mauvais état et transfère de Corcelles deux excellents maçons de l’Italie du Nord, Annibale Spizzo et Giuseppe dal Magro qui s’y établissent après quelques années, s’y marient,
Silvio avec son arrière petit-fils Pierre Sandro (1966). Silvio a 83 ans.
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ont des enfants, et rajeunissent ainsi un hameau en voie d’abandon. Les travaux se succèdent sans interruption pendant une quinzaine d’années. Le ruisseau qui traverse le hameau est placé dans une conduite enterrée, ce qui permet l’élargissement de la route d’accès et la création d’un bassin qui sert de piscine pour les habitants. Les deux ‘rues’ du village sont défoncées pour y installer des égouts qui aboutissent à un digesteur, probablement l’une des premières installations de traitement des eaux usées de la région. Les rues sont ensuite pavées en pierres du pays et plusieurs maisons sont reconstruites. Régulièrement, Silvio se fait un plaisir d’offrir des tuiles aux habitants afin qu’ils puissent rénover leur toit, de même qu’à la Paroisse pour la couverture de l’église. Il achète la Cá da Nina, propriété d’une cousine morte presque centenaire, qu’il rénove afin de retrouver une maison où passer ses vacances. Dès 1958, la famille s’y retrouve régulièrement et le soussigné y habite quelque temps. Tous ces chantiers mettent à disposition un certain nombre de logements où s’installent de nouvelles familles et les descendants des trois ‘pionniers’ des années d’après guerre. Nous nous y installons en 1964 avec mon épouse Irène (née Giovannini), elle-même originaire de Curio. On put ainsi annoncer que notre premier fils Pierre-Sandro devint le 50e habitant de Bombinasco, et notre fille Pascale la 51e, une vingtaine d’années après le début de la renaissance d’un hameau qui doit sa survie à la générosité d’un homme qui avait gardé tout au long de sa vie le souvenir de la pauvreté de ses origines.
En guise de conclusion Raconter la vie d’un homme en quelques pages est terriblement réducteur, mais ce témoignage est tout de même une trace qui peut encourager les nombreux passionnés d’une histoire vivante, composée de trajectoires comme celle de Silvio Morandi. Cet homme, façonné par son époque et son milieu d’origine, a conduit sa vie et ses œuvres sur la base de valeurs que notre époque délaisse au profit d’un matérialisme à courte vue, oubliant trop souvent la solidarité sociale qui est indispensable au succès d’une entreprise. Evoquer son souvenir est peut-être une minuscule participation à la critique de nos temps de crise?
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Situation familiale de l’auteur Une généalogie complète de la famille Morandi est citée dans le livre: Ernesto W. Alther - Ermanno Medici, Curio e Bombinasco dagli albori. La terra, la gente, il lavoro, Locarno 1993. Le résumé ci-dessous montre les liens de parenté entre Silvio et l’auteur:
Silvio avec ses enfants Léonie et Gérard, ses petits-fils Paul et Jean-Pierre, leurs épouses Arlette et Irène, ses arrières petits-enfants, Mireille et Pierre-Sandro.
Silvio Morandi 1883-1977 Alice Fischer 1885-1948
Leonie Dresco-Morandi (1910-1994)
Paul Dresco (1933) Jean-Pierre Dresco (1936)
Robert Morandi (1912-1997)
Danielle Morandi (1938) Claude Morandi (1943)
Gérard Morandi (1920-1988)
sans descendance
La mère de l’auteur, Léonie, se sépare de son mari Georges Dresco en 1947 et s’établit provisoirement chez son père Silvio avec ses 2 enfants Paul et Jean-Pierre. L’année suivante, l’épouse de Silvio, Alice, décède subitement et Léonie décide de rester auprès de son père qu’elle soutiendra jusqu’à son décès survenu en 1977. Silvio devient ainsi le deuxième père de ses petits-enfants Paul et Jean-Pierre auxquels il inculque ses principes et sa ‘vision du monde’. Il prend en charge leurs études, Paul, HEC à l’université de Neuchâtel et Jean-Pierre en architecture à l’Ecole polytechnique de l’Université de Lausanne. Paul entre dans l’entreprise comme responsable de l’usine de Payerne tandis que Jean-Pierre, le soussigné, fait carrière dans l’administration cantonale vaudoise comme responsable de la planification hospitalière puis Architecte de l’Etat de Vaud de 1969 à fin 1998.
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Le fornaci dei malcantonesi Schede di sintesi Bernardino Croci Maspoli
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Le schede che seguono costituiscono un tentativo di sintetizzare le informazioni attualmente disponibili circa il numero e la localizzazione delle fornaci possedute oppure gestite da malcantonesi. In modo molto schematico dichiarano il cognome e il nome (quando noto), il comune d’origine, la localizzazione della fornace. Dal punto di vista cronologico le informazioni sono spesso semplicemente indicative, dal momento che è solitamente difficile conoscere la data di apertura e, ancora di più, di chiusura; in alternativa si riporta la data del documento che certifica l’esistenza di una fornace, pur se il suo esercizio è già avviato da un numero imprecisato di anni. Per semplicità non sono indicate le società formate da più soci, caso non raro, e i nomi dei proprietari sono inseriti separatamente nell’elenco. I dati riportati si basano su informazioni provenienti da fonti disparate, sono poco organici, contengono molte imprecisioni e, con ogni probabilità, qualche errore. Si consideri che l’esistenza di una fornace è a volte testimoniata unicamente dall’intestazione di una fattura fortunosamente pervenutaci, da una comunicazione orale frutto di un lontano ricordo, dalla scritta su un laterizio, dalla citazione in un articolo di quotidiano. Ci sembra comunque importante proporre queste schede, sia perché danno un’idea quantitativa del fenomeno, sia perché si spera che con il contributo dei lettori, in particolare dei discendenti delle famiglie che hanno gestito delle fornaci, si potranno correggere e ulteriormente arricchire.
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Famiglia e comune d’origine
Localizzazione della fornace / Provincia, cantone o dipartimento
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Alberti – Bedigliora Andina – Croglio Andina – Croglio Andina – Croglio Andina – Croglio Andina – Croglio o Curio Andina – Croglio o Curio Andina – Croglio o Curio Andina – Curio Andina Arcangelo – Curio Andina Carlo e Giuseppe – Curio Andina Francesco – Croglio Andina Giovanni – Croglio o Curio Andina Modesto – Curio Andina Pietro – Curio Andina Pietro – Curio Antonietti della Costa – Sessa Anzi – Caslano Anzi – Caslano Anzi – Caslano Anzi – Caslano Avanzini – Curio Avanzini Costante – Curio Avanzini Enrico – Curio Avanzini Nicola – Curio Avanzini Pio – Curio Azzi – Caslano Azzi – Caslano Azzi – Caslano Azzi – Caslano Azzi Anastasia – Caslano Azzi Cristoforo – Caslano Azzi Michele – Caslano Baroni Martino – Croglio Bernardazzi – Cademario Bernasconi Luigi – Miglieglia Bertogliati – Sessa Bertoli Antonio – Novaggio Bertoli Antonio e Fulvio – Novaggio Bertoli Antonio e Fulvio – Novaggio Bertoli Colomba – Novaggio Bertoli Dante e Elvezio – Novaggio Bertoli Dante e Elvezio – Novaggio Bertoli Dante e Elvezio poi Gianni – Novaggio Bertoli fratelli – Novaggio Bertoli Giovanni – Novaggio
Guidizzolo / Mantova Acqui / Alessandria Bocca / Novara Mede / Pavia Suno / Novara Cressa / Novara Bergamo Savona San Leonardo / Parma Moncalvo / Asti Colorno / Parma Lomello / Pavia Clusane sul Lago / Brescia Mornese / Alessandria Casaleggio Boiro / Alessandria Zola Predosa / Bologna Mombaruzzo / Asti Sale di Grava / Alessandria Casale Monferrato / Alessandria Pavia / Pavia Peceto (Valenza) / Alessandria San Sebastiano Curone / Alessandria Cossonay / Vaud Einsiedeln / Svitto Montesilvano / Pescara Brignano Curone / Alessandria Bressana Bottarone / Pavia Carpenedolo / Brescia Castellazzo Bormida / Alessandria Pinerolo / Torino Montichiari / Brescia Montichiari / Brescia Pontecurone / Alessandria Lomello / Pavia Alice Belcolle / Alessandria Stanghella / Pavia Cavallermaggiore / Cuneo Iasi(Jassi) / Bociumi, Moldavia Bannia di Fiume Veneto / Pordenone Cordenons / Pordenone Piavon di Oderzo / Treviso Casale sul Sile - Fornace Borin / Venezia Casale sul Sile - Lughignano / Treviso Casale sul Sile / Venezia
Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Svizzera Svizzera Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Romania Italia Italia Italia Italia Italia Italia
S.Vito al Tagliamento / Pordenone Novi Ligure / Alessandria
Italia Italia
Anno o periodo di insediamento / prima notizia certa metà ’800
Chiusura
Fonte
1895 1900 1900 1881 1919 1919 1930
6 6 14 3 14 1 1 1 3 4 3-26 22 1891 17 3-26 1900 4 1985 1-3-4-15-16-22 3 3-26 7 7 9 3-26 6 4-6-22 4-22 1-7 7 6-25 1 1 6-25 6-25 1-3-26 1-22 7 1-3-26 6 1914-18 3-10 1915-1918 7-10-10b 1915-1918 10b 1909 10b 1946 10 10 2009 10
inzio ’900 inizio ’800
1915-1918 1832-33
fra ’800 e ’900 seconda metà ’800 fra ’800 e ’900 1877 fra ’800 e ’900 1882 1901
prima metà ’900 fra ’800 e ’900 fra ’800 e ’900 1892
1897 1818 fra ’800 e ’900 1877 fra ’800 e ’900
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Famiglia e comune d’origine
Localizzazione della fornace / Provincia, cantone o dipartimento
Paese
Voghera / Pavia
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Bertoli Giovanni e Giuseppe Novaggio Bertoli Giuseppe – Novaggio
49 50
Bertoli Giuseppe – Novaggio Bertoli Giuseppe – Novaggio
51
Bertoli Giuseppe poi Dante e Elvezio – Novaggio Bertoli Luigi – Novaggio Bertoli Tancredi – Novaggio Bettelini Antonio – Caslano Bianchi Luca – Agno Biasca – Caslano Biasca – Caslano Biasca – Caslano Biasca – Caslano Biasca Costante – Caslano Biasca Girolamo – Caslano Biasca Girolamo – Caslano Biasca Luigi – Caslano Biasca Pietro – Caslano Boffa – Agno Boffa – Agno Boffa Francesco – Agno (?) Bornaghi – Pura Boschetti – Fescoggia Boschetti – Fescoggia o Vezio Cantoni – Mugena Capponi Ubaldo – Agno Carbonetti Domenico – Aranno Carbonetti Luca – Aranno Casserini – Pura Cerutti – Croglio Comisetti – Monteggio Conti – Monteggio Contini – Magliaso Crescionini Andrea – Magliaso Crescionini Giovanni – Magliaso De Ambrosi – Monteggio De Franchi Pietro – Novaggio De Grandi Antonio – Novaggio De Leone Pietro – Novaggio De Lorenzi – Miglieglia De Lorenzi – Miglieglia De Lorenzi – Miglieglia De Marchi – Sessa
Casale sul Sile - Fornace del conte Giustinian / Venezia Fagarè della Battaglia / Treviso Villanova di Prata di Pordenone Pordenone Carbonera e S.Floriano di S.Biagio di Callalta / Treviso Iasi(Jassi) / Bociumi, Moldavia St.Pierre d’Allevard / Isère Montichiari / Brescia Invorio / Novara Mornico al Serio / Bergamo Sforzatico / Bergamo Villongo / Bergamo Clusane sul Lago / Brescia Colombaro di Corte Franca / Brescia Colombaro di Corte Franca / Brescia Rovato / Brescia Adro / Brescia Borgonato di Corte Franca / Brescia Calcinato / Brescia Novara Montichiari / Brescia Redavalle / Pavia Piacenza Divignano / Novara Cilavegna Lomellina / Pavia Pralboino / Brescia Canale d’Alba / Alba Broni / Pavia Acqui / Alessandria S.Giorgio in Bosco -Cogno / Treviso
47
52 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71 72 73 74 75 76 77 78 79 80 81 82 83 84 85 86 87 88 89
Gambarana / Pavia Acqui / Alessandria Borgomanero / Novara Invorio / Novara Feriolo / Verbano Cusio Ossola Portogruaro / Treviso Feriolo / Verbano Cusio Ossola Conselve / Padova San Bellino / Rovigo Villa Estense / Padova Tortona / Alessandria
Italia
Anno o periodo di insediamento / prima notizia certa inizio ’800
Chiusura 1832-33
10
Italia
1884
1894
10
Italia Italia
1860 1906
1964 1920
1-3-10-22 7-10-10b
Italia
1905
1930
10
Romania Francia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia
1870 seconda metà ’800 1763 1807 1850
1900 1930
10b 6 25 22 1-3-26 1 1 17 17 3-17-26 1-17 1-17 1-17 8 3 6-25 1-3 3 22 1 26 7 1-3-26 1-3 21 3 2-3 3-26 22 22 3 24 10b 24 1 1 1 3
1891 1967-68 1874 1849 1912 anni ’60 del ’900 1700 1756 1863 seconda metà ’800 1823 attiva nel 1739 1911
1742 1807 1647 1860 1650
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90 91 92 93 94 95 96 97 98 99 100 101 102 103 104 105 106 107 108 109 110 111 112 113 114 115 116 117 118 119 120 121 122 123 124 125 126 127 128 129 130 131 132 133
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Famiglia e comune d’origine
Localizzazione della fornace / Provincia, cantone o dipartimento
Paese
De Matteis – Croglio De Vincenti – Croglio De Vincenti – Croglio Del Mollo Antonio – Novaggio Del Mollo Antonio – Novaggio Del Mollo Antonio – Novaggio Del Mollo Antonio – Novaggio Del Mollo Siro – Novaggio Del Moneta – Croglio Del Monico – Astano Del Ronco Beltramo e Gian Domenico – Croglio Della Giovanna – Croglio Della Giovanna Achille – Croglio Della Giovanna Costante – Croglio Della Giovanna Domenico – Croglio Della Giovanna Domenico – Croglio Della Gobba – Croglio Delmenico – Novaggio Delmenico – Novaggio Delmenico – Novaggio Delmenico (Delmenique) Novaggio Delmenico Provino – Novaggio Delprete – Astano Delprete – Sessa Donati – Astano Donati – Astano Donati Domenico Ferrari Giovanni, Luigi, Angelo – Monteggio Ferrari – Monteggio Ferrari Cesare – Monteggio Ferrari Filomena – Monteggio Ferretti – Bedigliora Ferretti – Bedigliora Ferroni – Arosio Filippini Tommaso – Pura Fonti – Miglieglia Fonti – Miglieglia Fonti – Miglieglia Fonti – Miglieglia Fonti – Miglieglia Fonti – Miglieglia Fonti Alfredo Felice – Miglieglia Fonti Pietro – Miglieglia Galeazzi – Monteggio
Castellaro Guidobono / Alessandria Castelnuovo Scrivia / Alessandria Sales / Piemonte Fagarè della Battaglia / Treviso Gavardo / Brescia Piavon di Oderzo / Treviso Villorba / Treviso Gavardo / Brescia Romano (loc. Bardalezzo) / Bergamo Rosario di S.Fé Bergamasca / Alessandria
Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Argentina Italia
Romano / Bergamo Mestre / Venezia S.Giuseppe / Treviso Oriago di Mira / Venezia Preganziol / Treviso Calcinate (loc.Pradello) / Bergamo Castenedolo / Brescia Guidizzolo / Mantova
Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Francia
Eybens / Isère Besozzo / Varese Mirabello di Pavia / Pavia Bagnolo / Brescia Leno / Brescia Bagnolo Mella / Brescia Sale delle Langhe / Cuneo
Italia Algeria Italia Italia Italia Italia Italia
San Salvatore / Alessandria (?) Gornate Inferiore / Varese Millesimo / Savona Gavardo / Brescia St.Croix e Digne / Alpes-de-Haute-Provence Casei Gerola / Pavia Sormano, Pian Tivano / Como Fiesso Umbertiano / Rovigo Grignano Polesine / Rovigo Mestre / Venezia Monselice / Padova Pieve di Sacco / Padova Salvaterra / Rovigo Ruina / Ferrara Piave / Padova Vespolate / Novara
Italia Italia Italia Italia Francia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia
Anno o periodo di insediamento / prima notizia certa
Chiusura
1843 1867 1856 1867 1860 1820 1616
1881 1860 1881 1866 1850
1613 1616 fra ’800 e ’900 fra ’800 e ’900 fra ’800 e ’900 seconda metà ’800 1616 seconda metà ’800 1980 1500 prima metà ’800
seconda metà ’800
1892 circa 1870 metà ’800 metà ’800 circa 1860 1795 fra ’800 e ’900
1985
1984 1932
fra ’800 e ’900 ca. 1870
attiva
1900 fra ’800 e ’900 1850
1922
Fonte 1-3 3-22 3 10b 10b 10b-22 10b-22 10b 18 6 18 18 1-7 7 1-7 1-7 18 5 6 5 5-7 1-3 22 3 3 3 6-25 3-7 22 22 3-7 1 6 1 7 1-3 1-7 1 1 1 1 7 3-26 1-3
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134 135 136 137 138 139 140 141 142 143 144 145 146 147 148 149 150 151 152 153 154 155 156 157 158 159 160 161 162 163 164 165 166 167 168 169 170 171 172 173 174 175 176 177 178
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Famiglia e comune d’origine
Localizzazione della fornace / Provincia, cantone o dipartimento
Paese
Gambazzi – Novaggio Gambazzi Andrea – Novaggio Gambazzi Battista – Novaggio Garbazzi (Gambazzi?) Francesco – Novaggio (?) Giani – Breno Giovannini – Curio Giovannini – Curio Giovannini Carlo – Curio Gobba Carlo – Croglio Gobba Fortunato – Croglio Grandi – Breno Greppi Matteo – Caslano Indeme (Indemini?) – Croglio Indemini – Pura Indemini – Pura Indemini – Pura Indemini Giovanni – Pura Lorenzetti – Bedigliora Lozzio Domenico – Novaggio Lozzio Ettore – Novaggio Lozzio Ettore – Novaggio Lozzio Ettore – Novaggio
Robecco d’Oglio / Cremona Gottolengo / Brescia Feriolo / Verbano Cusio Ossola Farafengo / Brescia
Italia Italia Italia Italia
Piacenza Pontenore / Piacenza Valle di Gropparello / Piacenza Chivasso / Torino Mede / Pavia Mede / Pavia Carpaneto / Piacenza Montichiari / Brescia Calcinate (loc.Pradello) / Bergamo Carrù / Cuneo Farigliano / Cuneo Monforte d’Alba / Cuneo Chivasso / Torino Arona-Dagnente / Verbano Cusio Ossola La Mure / Isère Mansuè-Oderzo / Treviso Piavon di Oderzo / Treviso Villanova di Prata di Pordenone Pordenone Lozzio Louis – Novaggio La Mure / Isère Lozzio Pietro – Novaggio La Mure / Isère Lozzio Pietro – Novaggio Prunières / Isère Lozzio Pietro – Novaggio Sousville / Isère Lozzio Pietro – Novaggio Villard-Saint-Christophe / Isère Lozzio Pietro e Giovanni – Novaggio La Motte-Saint-Martin / Isère Luvini – Pura Incisa Scapaccino / Asti Maina Giuseppe – Caslano Piadena / Cremona Mainini – Caslano Garlasco / Pavia Mainini – Caslano Tromello / Pavia Manfrini – Monteggio Marcoli – Croglio Baraggia / Como Marcoli – Croglio Bressana / Pavia Marcoli – Croglio Calcinato / Brescia Marcoli – Croglio Calusco / Bergamo Marcoli – Croglio Carpenedolo / Brescia Marcoli – Croglio Cislago / Varese Marcoli – Croglio Margna / Como Marcoli – Croglio Medolago / Bergamo Marcoli – Croglio Olgiate Comasco / Como Marcoli – Croglio Pozzolengo / Brescia Marcoli – Croglio Riviera d’Adda / Bergamo Marcoli – Croglio Senna / Como
Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Francia Italia Italia Italia Francia Francia Francia Francia Francia Francia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia
Anno o periodo di insediamento / prima notizia certa
Chiusura
1 6-25 24 6-25
1892 inizio ’600 1892
1860 1890 inizio ’800 1811 fra ’800 e ’900 prima del 1826 1616 fra ’800 e ’900 1905 fra ’800 e ’900 inizio ’800 metà ’800 seconda metà ’800 1917 1897 1906
1880 1920 1930 1920
1880 inizio ’800 inizio ’800 inizio ’800 inizio ’800 inizio ’800
1914-1918 fine ’800 fine ’800 fine ’800 fine ’800 fine ’800
fra ’800 e ’900
1875 1880 1880 1892
1800 1839 1820
Fonte
1982
3 1 1 10b 2-3 2-3 3 6 18 3-26 1-7 7 10b 6 10b 10b 3-10b-22 7-10-10b 10b 7-10b 7-10b 7-10b 7-10b 7-10b 6 3-26 1 2 3 1 1 3-22 1 6-25 1-22 1-3 1-22 7 25 1 1
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210
193 223
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Famiglia e comune d’origine 179 180 181 182 183 184 185 186 187 188 189 190 191 192 193 194 195 196 197 198 199 200 201 202 203 204 205 206 207 208 209 210 211 212 213 214 215 216 217 218 219 220 221 222
Marcoli – Croglio Marcoli – Croglio Marcoli Candido (Dino) – Croglio Marcoli Luigi – Croglio Maricelli – Bedigliora Masina – Caslano Mercolli – Vezio Messi – Croglio Mina – Croglio Mina – Croglio Mina – Croglio Mina – Croglio Mina – Croglio Mina – Croglio Mina Giovanni Domenico – Croglio Mina Giuseppe – Croglio Morandi – Curio o Astano Morandi – Curio o Astano Morandi Agostino – Curio Morandi Aurelio e Luigi – Curio Morandi Aurelio e Luigi – Curio Morandi Aurelio e Luigi – Curio Morandi Aurelio e Luigi – Curio Morandi Aurelio e Luigi – Curio Morandi Eugenio – Curio Morandi Eugenio – Curio Morandi Eugenio – Curio Morandi Eugenio – Curio Morandi Eugenio e Luigi – Curio Morandi Innocente – Curio Morandi Innocente – Curio Morandi Leonardo – Curio Morandi Leonardo – Curio Morandi Michele – Curio Morandi Pacifico – Curio Morandi Pacifico – Curio Morandi Piero – Curio Morandi Serafino – Curio Morandi Silvio – Curio Morandi Silvio – Curio Muschietti – Novaggio Muschietti – Novaggio Muschietti Giacomo – Novaggio Muschietti Giovan Battista Novaggio 223 Muschietti Giovanni – Novaggio 224 Muschietti Giovanni – Novaggio
14:38
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Localizzazione della fornace / Provincia, cantone o dipartimento
Paese
Anno o periodo di insediamento / prima notizia certa
Novara Bedizzole / Brescia Gondar / Amhara Montichiari / Brescia Camerlata / Como Borgo Valsugana / Trento Lodi Vecchio / Milano Veneto Bassignana / Alessandria Bedizzole / Brescia Casale Monferrato / Alessandria Lomello / Pavia Lungavilla / Pavia Stroppiana / Vercelli Calcinato / Brescia Frascarolo / Pavia Padova / Rustega / Padova Cles / Trento Arcella / Padova Grottaferrata / Roma Portogruaro / Venezia Torre dei Passeri / Pescara Venegazzù / Treviso Camposampiero / Padova Strà / Venezia Pontevigodarzere / Padova Zero Branco / Treviso Campodarsego / Padova Padova Varese Corcelles-près-Payerne / Vaud Cossonay / Vaud St.Bronet / Hautes Alpes Gap / Hautes Alpes Gap / Hautes Alpes Strà / Treviso Romallo / Trento Payerne / Vaud Peyres-Possens / Vaud Badoere / Treviso Casale sul Sile / Treviso S.Giuseppe (di Treviso?) / Treviso Montichiari / Brescia
Italia Italia Etiopia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Svizzera Svizzera Francia Francia Francia Italia Italia Svizzera Svizzera Italia Italia Italia Italia
fra ’800 e ’900 fra ’800 e ’900 fra ’800 e ’900 fra ’800 e ’900 fra ’800 e ’900 fra ’800 e ’900 fra ’800 e ’900 fra ’800 e ’900 1865 1865 fra ’800 e ’900 fra ’800 e ’900 fra ’800 e ’900 1889 1880 ca. fra ’800 e ’900 fra ’800 e ’900 fra ’800 e ’900 1865 fra ’800 e ’900 1934 1944 fra ’800 e ’900 fra ’800 e ’900 1857 1768
Castelfranco Veneto / Treviso Cogno / Treviso
Italia Italia
fra ’800 e ’900 fra ’800 e ’900
Chiusura
Prima metà del ’900 1826
Prima metà del ’900 1820 1820 1847 1875 1898
1950 1931
1981
2010
1890
Fonte 7 7 23 6-25 3 7 3 3 22 7 1 1-3-22 1 1 7-22 1 7 1 3-26 3-26 26 26 3-26 7-26 7 7 1-7 1-7-26 1-3-7-26 7 7 4-7-22 4-7-22 4-6 4-26 7-26 1-3 3-26 4-7-22 4-7-22 1 1 10b-22 6-25 1-3 10-13
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14:38
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Famiglia e comune d’origine
Localizzazione della fornace / Provincia, cantone o dipartimento
Paese
Muschietti Giovanni – Novaggio Muschietti Giovanni – Novaggio Muschietti Giovanni – Novaggio Muschietti Giovanni – Novaggio Muschietti Giovanni – Novaggio Muschietti Giovanni – Novaggio Nava Pierantonio – Agno Notari – Curio (?) Palli – Pura Palli – Pura Palli – Pura Palli – Pura Palli – Pura Palli – Pura Palli – Pura Palli – Palli – Pura Paltenghi – Croglio Paltenghi – Croglio Paltenghi Carlo – Croglio Papis – Pura Papis Giovanni – Pura Pardi Gaspare – Monteggio Parmesano Pietro – Miglieglia Pedrotta Battista – Breno Pelli – Aranno Pelli – Aranno Pelli – Aranno Pelli – Aranno Pelli Domenico – Aranno Pelli Mazzini, amministratore delle fornaci Muschietti – Aranno Pelli Paolo – Aranno Pelli Paolo fu Carlo – Aranno Pelli Paolo fu Paolo – Aranno Pelloni – Breno Pelloni Francesco – Breno Peroni Domenico – Astano Perseghini – Pura Perseghini – Pura Perseghini – Pura Perseghini – Pura Perseghini – Pura Perseghini – Pura Perseghini – Pura Perseghini Edoardo – Pura Pianca Carlo – Cademario
Curtarolo / Treviso Fontaniva / Treviso Loraia / Treviso Morgeno / Treviso Treville / Treviso Vidor / Treviso Vimercate / Milano Savona Bressana Bottarone / Pavia Lungavilla / Pavia Pizzale / Pavia Stradella / Pavia Tortona / Alessandria Villavernia / Alessandria Voghera / Pavia Bressana Argine / Pavia Rivanazzano / Pavia Casei Gerola / Pavia Ottobiano / Pavia Calcinato / Brescia Incisa Belbo / Alessandria Acqui / Alessandria Feriolo / Verbano Cusio Ossola Pietra Marazzi / Alessandria Vimercate / Milano Cascina Castana di Broni / Pavia Conselve / Padova Gropello Cairoli / Pavia Sant’Angelo Lodigiano / Milano Rendsburg e dintorni, varie fornaci Castelfranco Veneto, Treville, Fontaniva / Treviso Somma (Lomellina) / Pavia Villanterio / Pavia Siziano / Pavia Casalpusterlengo / Milano Caorso / Piacenza Alessandria Albenga / Savona Incisa Scapaccino / Asti Lusignano / Savona Pontecurone / Alessandria Torbolano / Alessandria Viguzzolo Tortona / Alessandria Villavernia / Alessandria Tortona / Alessandria
Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Danimarca Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia
Anno o periodo di insediamento / prima notizia certa fra ’800 e ’900 fra ’800 e ’900 fra ’800 e ’900 1890 fra ’800 e ’900 fra ’800 e ’900 fine ’600
Chiusura
1914 1914 1914
1712 metà ’700 metà ’700
metà ’700 fra ’800 e ’900 fra ’800 e ’900 1847 fra ’800 e ’900 1635 inzio ’600 fine ’600 1809 prima metà ’900 1840 fra ’600 e ’700 1914 fra ’800 e ’900 1890 fra ’800 e ’900 1842 1651
1810
1810 fra ’800 e ’900 1829
1930
1939
Fonte 10-13 10-13 10-13 10b-22 10-13 10-13 11 1 1-7 1 7 7 1 1 3-22 7 6-26 3-22 3 22 1 1-3-26 24 18 11 1 19 1-2 1 12 10b 3-26 1-3 1-26 3 7-22 11 1 6 1 7 1 1 1 3-26 22
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315
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Famiglia e comune d’origine 271 272 273 274 275 276 277 278 279 280 281 282 283 284 285 286 287 288 289 290 291 292 293 294 295 296 297 298 299 300 301 302 303 304 305 306 307 308 309 310 311 312 313 314 315 316
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Localizzazione della fornace / Provincia, cantone o dipartimento
Poncini Pietro – Curio Albens / Savoia Ponzellini – Monteggio Possi Angelo – Caslano Montichiari / Brescia Possi Antonio – Caslano Montichiari / Brescia Possi Bortolo – Caslano Montichiari / Brescia Possi Domenico – Caslano Montichiari / Brescia Possi Giovanni – Caslano Montichiari / Brescia Quadri – Agno Couvet Val-de-Travers / Neuchâtel Quadri – Agno Montichiari / Brescia Quadri – Agno Verolanuova / Brescia Quadri Cristina – Agno Montichiari / Brescia Quadri Domenico – Agno Vimercate / Milano Quadri Enrico, Piero, Ulisse – Agno Leno (fraz.Milzanello) / Brescia Quadri Ulisse – Agno Bassano Mella / Brescia Ravazzini – Caslano Livorno Righetti – Aranno Canonica d’Adda / Bergamo Righetti – Aranno Casarile / Milano Righetti Francesco Montichiari / Brescia Breno o Aranno (?) Righetti Giacomo – Breno Piacenza Righetti Gian Domenico – Breno Roero / Cuneo Righetti Giuseppe – Breno Rottofreno / Piacenza Righini – Bedigliora Villanova Monferrato / Alessandria Rossi – Croglio Castello Brianza / Como Rossi – Croglio Colognola al Piano / Bergamo Rossi – Croglio Mira / Venezia Rossi – Croglio Noale / Venezia Rossi – Croglio Silvano d’Orba / Alessandria Rossi – Miglieglia Alessandria Rossi Battista – Croglio Calcinato / Brescia Rossi Gaspare – Curio Gravellona Lomellina / Pavia Rossi Giovanni – Croglio o Curio Cossonay / Vaud Ruggia Luigi – Pura Saluzzo / Cuneo Rusca – Arosio Fara Novarese / Novara Rusca – Arosio Parma / Parma Rusca Gerolamo Andrea – Cademario Sciolli – Pura Mondovì / Cuneo Signorini – Caslano Ovada / Alessandria Signorini – Caslano Pontecurone / Alessandria Soldati Pietro – Curio Gavardo e Vobarno / Brescia Tamburini Pietro – Agno Vimercate / Milano Tami Pietro – Vezio Balbiano / Milano Tarchini – Croglio Castelletto d’Orba / Alessandria Tosi – Aranno Carpaneto / Parma Trainoni – Caslano Piccolini di Vigevano / Pavia Trainoni Giuseppe – Caslano Trecate / Novara Trezzini – Astano Laragne / Hautes Alpes
Paese Francia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Svizzera Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Svizzera Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Francia
Anno o periodo di insediamento / prima notizia certa fra ’800 e ’900
Chiusura
1856 prima metà ’800 dopo il 1826 1864 1763 fra ’800 e ’900 metà ’800 fine ’600 circa 1965
attiva 1828 attiva 1828 seconda metà ’800 1835 1763 1817 1815
1829 1840 1915 fine ’600 1862
1835 fra ’800 e ’900 metà ’800
7 3 6-25 6-25 6 6-25 6-25 7 25 3-26 25 11 19 19 9 7 7 25 22
1914
1620 ante 1847 ante 1880
1827
Fonte
1900
7-22 3 1 3 1 1 3 18 22 4-22 7-22 7 1 3 22 1 7 1 7 11 22 3 3-26 9 7 6-7-26
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Famiglia e comune d’origine
Localizzazione della fornace / Provincia, cantone o dipartimento
Paese
Valsangiacomo – Curio Vannotti Pietro – Bedigliora Vannotti Pietro – Bedigliora Vanoni – Monteggio Vanoni – Monteggio Vanoni Giuseppe – Croglio Vegezzi – Vernate Vicari – Caslano Visconti Carlo – Curio Zambelli Giacomo – Breno Zanini – Miglieglia Zanini – Miglieglia
Bergamo Lù / Mirabello / Alessandria Lù / Remonte / Alessandria Tortona / Alessandria Villavernia / Alessandria Montichiari / Brescia Piacenza Castagnole Lanze / Alessandria Cossonay / Vaud Caorso / Piacenza Cerea / Verona Pieve di Sacco / Padova
Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Italia Svizzera Italia Italia Italia
Anno o periodo di insediamento / prima notizia certa 1880 1857
1855
1842
Chiusura
Fonte 1 1-22 1 1 1 6-25 1 1 7-22 7-22 1 1-3
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Fonti
1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27.
238
Georges Bonnant e altri, Svizzeri in Italia 1848-1972, Milano 1972. Pierangelo Boccalari, Fornaci & Fornaciai a Mede e in Lomellina, Mede 2001. Virgilio Chiesa, Lineamenti storici del Malcantone, Lugano-Mendrisio 1961. Ernesto W. Alther - Ermanno Medici, Curio e Bombinasco dagli albori. La terra, la gente, il lavoro, Locarno 1993. Aldo Massarotti - Claudio Delmenico, I Delmenico. Raccolta genealogica, storica di immagini, Varese 2004. Informazioni di Mario Alberti, Bedigliora. Archivio Museo del Malcantone. Le maestranze artistiche malcantonesi in Russia dal XVII al XX secolo. Gli uomini, la storia, la memoria delle cose, a cura di Bernardino Croci Maspoli e Giancarlo Zappa, Firenze-Curio 1994. Cornelio Fausto Trainoni, Emigrazione ed avviamento professionale malcantonesi, «Almanacco malcantonese», 1956. Informazioni di Gianni Bertoli , Fagarè e Novaggio / 10b) Piergiorgio Demarta, Novaggio. «Via par mond» ossia l’emigrazione malcantonese, a cura di don Leonardo Tami, Pregassona-Lugano 1991. Carlo Palumbo-Fossati, L’architetto militare Domenico Pelli ed i Pelli di Aranno, «Bollettino Storico della Svizzera italiana», 1972. Nel 1914 - Castelfranco: omicidio nel giorno di mercato, «Gazzettino di Treviso», 30 aprile 1987. Informazioni di Marco Andina, Croglio. Daniela Lombardi, Una famiglia di fornaciai svizzeri nel bolognese: gli Andina. Intervista con Pietro Andina, «Scuolaofficina», gennaio-giugno 1988. Mauro Donini, Quando gli svizzeri emigravano in Italia alla ricerca di un lavoro, «La Tribuna», 10 gennaio 1999. Fornaci a Corte Franca tra storia e memoria. Il lavoro manuale, a cura del Gruppo culturale di Corte Franca, Verona 2008. Luigi Brentani, Antichi maestri d’arte e di scuola delle terre ticinesi, vol. II, Como 1938. Informazioni di Peter Martini, Ponte Tresa. Informazioni di Enzo Pelli, Gentilino. Informazioni di Bianca Conti Rossini, Brissago-Parigi. Vedi il contributo di Giulia Pedrazzi in questo volume. Informazioni di Mammola Bianchi Marcoli, Calcinato. Carlo Alessandro Pisoni, Del nuovo sulla razza de’ cavalli di Feriolo, «Verbanus», Verbania-Intra 2003. Alberto Superfluo, Le fornaci e le calchere nel territorio di Montichiari, in Carlo Agarotti, I segni dell’uomo nel territorio e nel paesaggio bresciano, Brescia 1998. Antonio Galli - Angelo Tamburini, Guida storico-descrittiva del Malcantone e della Bassa Valle del Vedeggio, Lugano-Mendrisio 1911. Silvana Ghigonetto, Maestranze malcantonesi in Piemonte fra Barocco e primo Novecento, Curio 2003
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Demolizione della fornace Delmenico a Guidizzolo (1981).
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Gli autori
Bernardino Croci Maspoli Conservatore del Museo del Malcantone e insegnante alla Scuola media di Bedigliora. Negli ultimi anni ha cercato di rubare un po’ di tempo alle altre mansioni museali per raccogliere, con inguaribile incostanza, documenti sull’emigrazione dei fornaciai malcantonesi. Ha curato la mostra sul tema e la pubblicazione di questo volume. Jean-Pierre Dresco Architetto del Politecnico di Losanna e membro d’onore della Società ingegneri e architetti della Svizzera, architetto dello Stato del Canton Vaud dal 1972 al 1998. Nipote di Silvio Morandi, risiede regolarmente con la moglie Irene e i figli nella casa di Bombinasco (Curio) ereditata da sua mamma Léonie. Collaborò col nonno alla salvaguardia del villaggio d’origine, appassionandosi alla storia del Malcantone e dei suoi abitanti. Donatella Ferrari Insegnante di inglese in una scuola superiore di Savona, da alcuni anni sta ricostruendo le vicende che ruotano intorno alla figura della bisnonna Filomena Ferrari, fornaciaia malcantonese emigrata in Italia alla metà dell’800. Questo viaggio appassionante è iniziato dopo una visita alla mostra sui fornaciai allestita a Curio presso il Museo del Malcantone. Luigi Lorenzetti Dottore in Storia economica all’Università di Ginevra. Attualmente è coordinatore del Laboratorio di Storia delle Alpi dell’Università della Svizzera italiana e redattore capo della rivista «Histoire des Alpes – Storia delle Alpi – Geschichte der Alpen». Ha pubblicato numerosi saggi sulla storia della famiglia e delle popolazioni nonché sulla storia economica e sociale dell’arco alpino in epoca moderna e contemporanea.
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Giulia Pedrazzi Dopo gli studi in storia e geografia all’Università di Zurigo è approdata per una serie fortunata di coincidenze al Museo del Malcantone e per oltre due anni si è immersa nel mondo degli emigranti fornaciai, grazie a una borsa cantonale di ricerca. Attualmente è redattrice presso il Dizionario Storico della Svizzera e collabora con il Museo di Val Verzasca. Mario Vicari Ha curato la pubblicazione di un fascicolo, accompagnato da un disco LP, con testimonianze orali di carattere dialettale ed etnografico sul Malcantone, apparso nel 1983 per la serie Dialetti della Svizzera italiana, edita dall’Archivio fonografico dell’Università di Zurigo. Assunto in seguito quale ricercatore dell’Ufficio dei musei etnografici e del Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana, confluiti dal 2002 nel Centro di dialettologia e di etnografia, è responsabile della collana Documenti orali della Svizzera italiana, uno dei progetti editoriali dell’istituto, nella quale sono usciti finora quattro volumi, affiancati da una scelta di testimonianze orali su supporti audio, dedicati i primi due alla Valle di Blenio e i due successivi alla Valle Leventina. Stefano Zerbi È architetto, assistente e dottorando presso il Politecnico Federale di Losanna. Nipote di fornaciai malcantonesi emigrati nella provincia di Pavia, ha curato nel 2006 la pubblicazione I fornaciai Malcantonesi nel Nord Italia tra XVIII e XX secolo per i «Quaderni del Museo del Malcantone». Il suo contributo è incentrato sulla relazione tra materia prima e evoluzione delle tecniche produttive.
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Questo libro è stato pubblicato grazie al finanziamento di
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Si ringraziano inoltre per il sostegno finanziario Repubblica e Cantone Ticino Dipartimento dellâ&#x20AC;&#x2122;educazione, della cultura e dello sport Centro di dialettologia e di etnografia, Bellinzona Malcantone Turismo Gianni Bertoli Tutti i soci del Museo del Malcantone che con il loro sostegno hanno contribuito anche alla realizzazione di questa pubblicazione
Lo studio di Giulia Pedrazzi qui pubblicato ha beneficiato di una borsa di ricerca della Repubblica e Cantone Ticino
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Si ringraziano per la cortese collaborazione prestata a vario titolo Mario Alberti Carla Andina Marco Andina Pietro Andina Piero Angelo Bergaglio Gianni Bertoli Mammola Bianchi-Marcoli Luigi Bianchi Pierangelo Boccalari Arduino CantĂ fora Nilde Comazzi Bianca Conti Rossini Wilma Della Giovanna Arnoldo Delmenico Piergiorgio Demarta Bruno Ferrari Maria Grazia Foglia-Mina Francesco e Michele Fonti Silvio Giamboni Fernando Giorgetti
Luisa Gobba Gruppo Culturale Corte Franca Fabio Guindani Roland Hochstrasser Gianna Macconi-Paltenghi Lorenzo Mamino Alba Marcoli Clara Marcoli Maria Marcoli Paola Marcoli Peter Martini Carla Mina Claude Morandi Daniele Pedrazzini Carlo Alessandro Pisoni Loredana Rainaldi Barbara Robbiani Carla VerrĂ -Mina Maurizio Valente Lucien Valenti
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Nel testo sono indicate le fotografie realizzate da Roberto Pellegrini, del Centro di dialettologia e di etnografia di Bellinzona Dove non appaiono indicazioni particolari, le immagini sono del Museo del Malcantone e i materiali riprodotti appartengono al suo archivio Le carte tematiche sono di Roland Hochstrasser Impaginazione e fotolito Prestampa Taiana SA Muzzano Stampa Fratelli Roda SA Taverne Allestimento e stampa CD CD Mediacting S.Ă .r.l., St-Sulpice
In copertina: la fornace di Giovanni Muschietti a Castelfranco Veneto, fine â&#x20AC;&#x2122;800.
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Finito di stampare il 27 novembre 2010
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Voci di fornaciai malcantonesi 1. A dieci anni in una piccola fornace della Brianza Curio: Giuseppe Lorenzetti a colloquio con Emilia Andina (10’28’’) 2. Padre e figlio in una fornace nei pressi di Lione Banco di Bedigliora: Giuseppe Ferretti a colloquio con Mario Alberti (5’11’’) 3. Dal 1912 al 1917 nelle fornaci della Savoia Banco di Bedigliora: Ildo Valenti a colloquio con Mario Alberti (10’47’’) Questo CD audio riproduce tre testimonianze di anziani fornaciai del Medio Malcantone. Le prime due furono registrate fra il 1979 e il 1980 per l’Archivio fonografico dell’Università di Zurigo e la terza nel 1982 per l’Archivio delle fonti orali del Centro di dialettologia e di etnografia. I tre intervistati, che si esprimono nei loro dialetti nativi malcantonesi, sono nati poco prima del 1900 e parlano di esperienze migratorie stagionali affrontate fra i dieci e i tredici anni d’età, situabili cronologicamente fra l’ultimo scorcio dell’Ottocento e gli anni Dieci del Novecento. Le notizie, di taglio autobiografico e di prima mano, spaziano dalle tecniche di preparazione dei laterizi, viste però dall’ottica del garzone che li prendeva in consegna da un artigiano esperto e li trasportava sull’aia, all’uso dei forni per la cottura, al vitto improntato a una rigorosa parsimonia, agli scarsi guadagni. Ascoltando le parole dei testimoni, non possiamo che rimanere sorpresi di fronte alla ricchezza di particolari tuttora presenti alla loro mente e riferiti con tanta incisività da consentirci di immaginare, dietro le parole, i gesti dell’uomo. Registrazioni Mario Vicari, Centro di dialettologia e di etnografia, Bellinzona Montaggio Rossano Zanga, Fonoteca nazionale svizzera, Lugano Letture dei titoli Giovanna Guarino
le banche del Malcantone