Cremona Sport Amarcord

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Supplemento al n° 48 de “Il Piccolo Giornale” del 14 Dicembre 2007

Cremona:

Amarcord Sport

Personaggi dello Sport Cremonese del Passato



«Cremona ha portato l’eccellenza sportiva» Giovanni Biondi Assessore Provinciale allo sport

C

Con piacere porto il saluto dell’assessorato allo sport della Provincia di Cremona all’interno di questa pubblicazione che racconta, con aneddoti interessanti e riferimenti inediti, un sodalizio forte fra la città e l’esperienza sportiva. Dall’altro canto, Cremona trova nella propria storia esempi di eccellenza sportiva sia di squadra che individuali, così ben raccontati dagli autori, per altro in discipline diverse e molteplici. Non si spiegherebbero altrimenti i successi di oggi, certamente non frutto di una estemporaneità occasionale, ma coerenti con una tradizione fruttuosa e radicata. Questo induce ad un che di ottimismo per il futuro dal calcio, alla

pallavolo, dal basket alla pallanuoto, senza dimenticare le molteplici esperienze individuali. Lo sport nel cremonese, mentre riconosce la grandezza del passato, sa guardare avanti, progettare il futuro, ricorrere nuovi e ambiziosi traguardi. Con la consapevolezza oltretutto di trasmettere un messaggio forte, che travalica l’esclusività sportiva, diventando strumento di socializzazione e integrazione. Mi auguro che molti ragazzi leggano questa pubblicazione; che attraverso le testimonianze del passato trovino lo stimolo più autentico per dedicarsi alla pratica sportiva, alla ricerca di risultati lusinghieri ma anche di occasioni di crescita responsabile e civile. Un abbraccio

Amarcord Sport Direttore responsabile: Sergio Cuti Direzione, redazione e prestampa Via S. Bernardo 37/A - 26100 Cremona Tel. 0372 45.49.31 - 45.13.14 Fax 0372 59.78.74 Pubblicità Tel. 0372 45.54.74 Fax 0372 59.78.60 www.immaginapubblicita.it Società editrice: Promedia Società Cooperativa Via del Sale, 19 - Cremona

Supplemento al n° 48 del 14 Dicembre 2007 de:

il

PICCOLO

Amarcord Sport

Indice 4

I primi sport a Cremona Il primo sodalizio nazionale a carattere sportivo nacque con il Tiro a segno

15 Nino, il re del looping Al confine tra sport e spettacolo l’altleta cremonese si fece conoscere in tutto il mondo 18 Scherma sotto il Torrazzo Grandi risultati per l’atleta Gino Belloni, che gareggiò nella squadra nazionale 25

Gran Prix di Cremona Appuntamento che aveva raggiunto dei livelli di valore nazionale

36 I campioni olimpici Egidio Armelloni, un fuoriclasse targato Soresina, fu campione mondiale 39

La boxe sotto il Torrazzo I successi di Pino Facchi, detto «Il Principe», che ebbe la meglio anche su Chiari

45 Catenacci, animale da ring Nato a Castelnuovo del Zappa, definito l’erede di Carnera, fu un gigante della boxe cremonese

Progetto Grafico: Gianluca Galli Testi di: Cesare Castellani Stampa: SEL - Società Editrice Lombarda 26100 Cremona

In copertina: Tazio Nuvolari, in veste anche di motociclista al Gran Premio di Cremona


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I primi sport a Cremona Nacque con il tiro a segno il primo sodalizio nazionale a carattere sportivo La storia sportiva di Cremona è lunga quasi quanto quella della città, forse la più antica in assoluto quando si parli di sport in senso moderno, se è vero che già all'indomani dell'Unità d'ltalia sorgeva proprio qui il primo sodalizio nazionale a carattere sportivo e con esso il primo impianto. La Società del Tiro a Segno si costruì infatti, già nel 1859, il suo poligono, appena dietro il Cimitero, in quella che allora veniva chiamata Piazza d'Armi. Venne inaugurato dal re in persona (nominato presidente onorario) in occasione della prima visita a Cremona in veste di sovrano di Vittorio Emanuele di Savoia: era il 25 settembre. Il re d'ltalia tenne il solito breve discorso di circostanza: «Lasciate le molli abitudini di una vita imbelle cui ci condannava la raffinata tirannia dello straniero, con virili propositi ci ritempriamo gagliardi di corpo e di spirito onde essere validi alla tutela della acquistata libertà e della difesa della patria. Il tiro alla carabina è buona cosa, un'abitudine dell’occhio e del polso, ma credo che la società benemerita che presiedo farà anche benissimo se avesse a congiungere a quell'esercizio l'altro ancor più virile della scherma, che è la vera ginnastica militare e che oltre all'irrobustire e snodare la persona dà gagliardezza di cuore e ardimento di carattere.» Il Poligono di Piazza d'Armi, costruito a dire il vero un po' frettolosamente, fu ben presto abbandonato a causa dell'inade-

Inghilterra. La prima foto in assoluto di carattere sportivo guatezza delle strutture, che non si confacevano più alle migliorate caratteristiche delle armi (bisogna infatti ricordare che i poligoni di tiro venivano usati anche e soprattutto per l'addestramento delle truppe) tanto che, a fine estate del 1869, ne venne definitivamente decretata la chiusura. Questo avvenne con grave discapito per la città intera che rischiava addirittura di perdere, in seguito a questa circostanza, la vantaggiosa presenza dell'intera guarnigione militare. Grazie all'impegno dell'ing. Alessandro Fieschi, presidente effettivo della società, il poligono venne ricostruito, dopo aspre polemiche che si protrassero per un paio d'anni, nei dintorni di Porta Mosa, non lontano dal bastione di San Giorgio. L'inaugurazione avvenne il 2 luglio del 1872 con una

interminabile gara di tiro alla carabina che iniziò alle cinque del mattino e durante la quale vennero sparati più di mille colpi di cui oltre la metà andarono a bersaglio. L'ing. Fini pronunciò poche parole durante un «numeroso banchetto, pieno di brio ed allegria grazie alla comodità che presentò il locale bersaglio con annesso giardino costruito con abbastanza prodigalità e quasi abbondanza.» Nacque sin da allora l'abitudine dei tiratori di farsi accompagnare al poligono dalle rispettive mogli e fidanzate durante le lunghe ore dedicate agli allenamenti: una... prova d'amore inconfutabile che anche al giorno d'oggi qualcuno infligge alla promessa. La competizione fu tecnicamente pregevole per la presenza di molti quotati tiratori e alla fine Augusto

Bergonzi si aggiudicò la carabina che costituiva il premio per il primo classificato, superando Ernesto Fanelli e Ruggero Ruggeri. Erano entrambi campioni di grossa esperienza e, molto sportivamente, rinunciarono alla stessa a favore di un giovane promettente, Andrea Alietti, classificatosi appena dietro di loro. Anche il poligono di Porta Mosa, pur col suo grazioso giardino ed il gazebo ricoperto d'edera, sotto la cui ombra immaginiamo si accomodassero in dolce conversare le signore in attesa dei loro accompagnatori, il 5 maggio del 1875 venne a sua volta dichiarato inservibile e vietato alla Società del Tiro, che si vide costretta ad interrompere l'attività dopo sedici anni trascorsi tra poche floridezze e molte angustie.


5 Si aprì allora un'altra interminabile polemica che tenne desta l'attenzione dell'intera città per molti mesi e, mentre l'apposita commissione stava ancora verificando, in novembre, i lavori di riattamento, arrivò una compagnia militare, che tranquillamente cominciò a sparare. Una ventina di minuti più tardi, giunse notizia alle autorità comunali che due proiettili erano caduti in un orto di Via S. Maria in Bethlem, mentre un fornaio che gestiva il prestino nella stessa strada dichiarava di aver sentito chiaramente il sibilo dei proiettili sopra la propria testa. Allo stesso tempo due militari, posti di guardia lungo la via, avevano notato la caduta di proiettili sul selciato. Ogni attività venne immediatamente bloccata e s'andò quindi a sparare dalle parti di Bosco ex Parmigiano. Qui già esisteva un forte e, nell'estate del 1879, vi si inaugurò il nuovo impianto, poi completamente rinnovato nel 1900: quattro giorni di competizioni per solennizzare l'evento tra il 23 giugno (quando venne presentata la bandiera formata da un drappo tricolore d'un sol pezzo che portava in mezzo lo stemma sociale ed era stata ricamata appositamente dalla Enrica nobildonna Bonaccorsi Maggioni) ed il 26. Si gareggiava dalle sei alle undici del mattino, quindi dalle tredici alle diciotto, in otto diverse categorie. Nella più prestigiosa, che comprendeva tiratori venuti da tutta Italia, s'impose Enrico Basteghi di Bologna, davanti a Italo Olorici di Brescia ed Angelo Mazzoni pure di Bologna. Primo dei cremonesi, il conte Adalberto Suardo (quinto). Re Vittorio Emanuele, nel suo discorso, aveva racco-

mandato ai cittadini cremonesi la pratica della ginnastica e della scherma oltre a quella del tiro. Lo esaudirono, ma ci vollero

Francesco Tigoli

una quindicina d'anni recuperando però, in breve, il tempo perduto e dando vita a quella che sarebbe diventata, di lì a qualche anno, una delle più grandi scuole italiane della scherma. La prima sala d'armi, quindi, quando e dove nacque? Al Teatro Filodrammatici, a partire dal 4 gennaio del 1875. Teneva lezione il maestro Paolo Bianchi dalle tredici alle sedici, poi dalle diciannove alle ventuno: ai soci del Teatro era concessa la “bonifica” di un quarto sulle tariffe, ma già nel gennaio dell'anno seguente la scherma, frequentatissima, si rese indipendente. La prima vera sala d'armi venne aperta in Via delle Carceri al n.1. La ginnastica, invece, cominciò ad esser praticata poco più tardi nelle due nuove scuole elementari, Realdo Colombo, e Trento

e Trieste, costruite in fin di secolo, che furono le prime ad esser dotate di una palestra. L'educazione fisica, di cui appena allora si intuiva l'importanza, era pero riservata ai soli maschietti (per le bimbe ci sarebbe stata solo una decina d'anni più tardi) come del resto accadeva per le “marce ginnastiche”, passeggiate e niente più, che si facevano in compagnia, a volte con la fanfara al seguito. Le accademie (gare o dimostrazioni di scherma) si tenevano, e questo accadde sino agli anni Quaranta del secolo scorso, al Teatro Ricci, poi Sociale, alla fine Politeama, un vero tempio dello sport cremonese per la scherma, la boxe, il sollevamento pesi, la ginnastica, addirittura il ciclismo come dimostrò il celebre Nino allestendovi la sua piccola pista in legno. Val la pena di leggere come si svolgeva un'accademia di scherma al Ricci nella viva descrizione dell'abbagliato cronista dell'epoca: la prima serata di cui abbiamo una cronaca dettagliata è di qualche anno posteriore, ma lo spirito non era certamente mutato. «Un concerto schermistico-jelomelista (jelomelo, la parola puzza un poco di lingua amarica, ma significa, ve lo dico subito, giacché non lo sapevo neanch'io, concerto coi bicchieri. Per lo addietro i bicchieri si usavano per bere o per fare dei salassi, oggi invece con essi si danno concerti numero uno. Ma

procediamo con ordine. Gentilmente invitato domenica sera mi recai ad un trattenimento in famiglia in seno alla Società della Scherma. La sala maggiore era scintillante di luce c'erano belle signore e signorine e molti rappresentanti il cosiddetto sesso forte. Alle 7,1/2 in punto il biondino amico Poli fece rintronare la sala con tutta la batteria elettrica dei suoi ottoni, disponendo qui l 'animo alle più dolci e soavi emozioni, tanto per dirlo in rima. Dopodiché seguì una serie di assalti che io metto qui in ordine cronologico: Un bell'assalto fu il primo, spada, tra il bravo maestro Cicala e l'allievo signor Ferragni, che ha molta agilità e molta passione. Belli gli assalti di sciabola tra i dilettanti Ronconi e Casali, Cardazzi e Boldori se ne togli qualche scorrezione e un po' troppo di foga. Bello per giuoco, per prontezza, per giusta posizione, l'ultimo assalto di sciabola tra il maestro Cicala e l'amico Ronconi. Il più originale di tutti fu quello tra il mio collega in canottaggio Torresani ed il signor Guastalli. Il Signor Guastalli la prima volta che ha preso in mano la sciabola, ha voluto tirar subito d'assalto, ed ha poi completato la sua educazione schermistica procedendo in senso inverso. Credo che lo stesso abbia fatto il signor Torresani. Sono quindi due lame che portano non poca rivoluzione nei canoni dell’arte propriamente detta, ma non cessano per questo d’essere rispettabili. I due campioni hanno i capegli brizzolati eppure per agilità e per resistenza possono dare dei punti ai giovanotti di primo pelo... In un assalto tra Guastalli e Torresani la pedana non è mai sufficiente, perché si rincorrono e spiccano salti sorprendenti».


6 Se nessuno è andato a piombare, bolide inaspettato, in mezzo alle signore, l'altra sera, lo si deve alla vigilanza solerte del giudice di campo, signor Giorgio Mina... A metà degli assalti il maestro Cicala presenta due giovanetti suoi allievi i quali diedero saggio dei primi rudimenti di spada. In complesso la prova data in questa accademia fu buona, e mi congratulo con lui e con la rinata Società di scherma. Dopo gli assalti ebbe luogo una scena buffa tra l'amico Baroschi ed il biondino Poli, truccati tutti e due da clown. Uno suonava l’ocarina in tono di contralto, l’altro il trombone in tono cavernoso ed eseguivano delle variazioni intorno al tema Mira Norma. Seguì un altro scherzo... L‘ultima parte fu la bicchierata, ovvero il concerto jelomelista in onore del quale i tre artisti Baroschi Poli e Maffi, sfoggiarono un costume speciale consistente in abito nero, con frac, pantaloni corti stretti al polpaccio. calze candide e scarpette con fibbia d'oro. Suonarono un valzer, la nota romanza della Marta e lo Spirto gentil. Furono coperti letteralmente da un uragano di applausi e dovettero presentarsi più volte alla ribalta. Il concerto jelomelista farà sempre un certo effetto. perché il suono é dolce, insinuante, patetico. Sono smorzature vellutate e molli. Predispone l'animo all’idillio e alla malinconia. La festa in famiglia si chiuse con quattro salti approfittando d’un pianoforte che era lì per caso e del tenente Barletta che si accinse a suonarlo con generosa abnegazione.» Il «Sociale» (ormai aveva cambiato nome) ebbe

pure l’onore di ospitare la prima riunione di boxe a Cremona. Era il 3 settembre de1 1913: « Dopo la presentazione dei dieci campioni. iniziano le lotte Valli Alessandro. secondo

se. ed Hans Peshelle, campione francese. Il milanese Beretta dimostra subito la sua superiorità e riesce difatti a vincere l’avversario. E siamo così all'ultima e più inte-

inglesi che erano, durante il periodo bellico, di stanza in città. IL pugilato, più di ogni altro sport, ha trovato le sedi più disparate: oltre ai teatri maggiori, il salone del

Una partita di pallacanestro alla caserma di via Massarotti, ora sede della Polstrada campione italiano. contro Galimberti Giovanni. La lotta si svolge rapidamente e dopo alcuni colpi bene assestati, Galimberti. per una botta bene assestata in direzione del cuore. stramazza a terra. Trascorsi pochi istanti si rialza. ma un secondo colpo più violento del primo lo rimanda nuovamente a terra. Accorrono i servi di scena e viene trasportato a braccia nel suo camerino. Il giury dichiara vincitore Valli, vivamente applaudito dal pubblico. Segue la lotta tra Jim Scanloon, campione inglese canadiano (negro) contro Pilotta Eugenio. campione italiano pesi medi. I due competitori si equivalgono per forza. per agilità e per scuola. ma dopo quattro riprese il negro viene dichiarato vincitore per la precisione dei colpi. La terza lotta avviene tra Beretta Amilcare, milane-

ressante lotta tra i due formidabili campioni: Jach Langford. campione negro nordamericano contro Pietro Boine campione italiano assoluto. Dopo tre riprese viene dichiarato vincitore il campione italiano salutato dal pubblico con calorosi applausi». Il Politeama Verdi ospitò il pugilato sino alIa fatidica notte del 14 novembre 1948, quella della sfida cruenta e fratricida tra Pippo Zini e Pino Facchi che convinse il proprietario di allora, il commendator Sacchi. a non più concederlo a manifestazioni agonistiche, ma fin dagli anni della prima guerra mondiale si erano allestite riunioni pure al Ponchielli. La prima volta nel 1918, da ricordare perché fu la prima di due pugili cremonesi, Francesco Tigoli e Franco Lucchi che la “noble art” praticavano sotto la guida di ufficiali

Gruppo Rionale Podestà, quello dell'Odeon in Palazzo dell'Arte e il suo cortile, il Supercinema (Italia-Germania il 17 aprile del 1939 coi cremonesi Bonetti, Somenzi e Gaboardi in formazione), la palestra dell'Asilo Martini e quella della Caserma della Polizia Stradale in Via Massarotti, il Salone di Palazzo Cittanova per i campionati lombardi del '48 (l'ABC ebbe per anni la palestra al piano terra, prima di trasferirsi nella ex chiesa di San Benedetto in Via dei Mille), il teatrino dell'UOEI (attuale Sala Giochi) in Corso Campi ai tempi dei Bonetti e lo scantinato del Bar Italia di Via Palestro (sotto il negozio attuale di Luisa Spagnoli quando fungeva da atleta-allenatore nientemeno che il «Gnaro» Defendi nei momenti che gli lasciava libertà il calcio).


7 Altre sedi erano la Palazzina Liberty del Foro Boario e all'aperto: il Cinema Auricchio, l'Arena Giardino e il Venezia, lo Zini, le Colonie Padane; una volta, addirittura, il cortile del Sanatorio Aselli dove il ferreo regolamento sanitario impedì di entrare e di combattere ai minorenni. Poi ci fu l’epopea della Palestra Pagliari per un decennio almeno dopo la seconda guerra mondiale e, infine la Palestra Spettacolo. Qui si andava rafforzando la pallavolo e si affermava il judo da poco nato in città quando un quartetto di ragazzi in gamba come Sozzi, Manara, Cappelletti e Bignami impararono praticamente da soli i primi rudimenti dell'arte orientale iniziando un cammino che avrebbe portato a vertici dirigenziali insospettati alcuni di loro. Più tardi si costruì il Palazzetto di Ca' de' Somenzi, ma questa è storia troppo recente. Il basket, che era arrivato a Cremona negli Anni Trenta con le squadre maschili e femminili del Guf, trovò poi sfogo in quasi tutte le palestre scolastiche e negli oratori che coi campionati del Csi (S. Luca e S. Agata, il Collegio Sfondrati e il Silvio Pellico fornivano le formazioni più forti) furon teatro di sfide indimenticabili. Forse non tutti lo sanno, ma era fortemente in voga l'ippica nella Cremona dell'Ottocento. La pista era quella di Piazza Castello, costruita sulle macerie del Castello di Santa Croce che gli austriaci avevano sconsideratamente raso al suolo, piuttosto che restaurarlo, con la chiara volontà di distruggere un monumento che avrebbe potuto divenire un simbolo di unità nazionale per le memorie storiche che racchiudeva,

Corsa di motociclette a Cremona sulla pista di piazza Castello

quando se lo ritrovarono tra le mani semidistrutto dal tempo e dall'incuria degli uomini. Quella dei cavalli era un'antica passione che si tramandava da secoli nel popolo cremonese, se è vero che da queste parti, sin dai tempi di re Alboino, si allevavano i puledri migliori. Piazza Castello costituiva l'oasi verde della città: i bambini vi andavano a giocare a «sgningul», a correre sul prato mentre con la coda dell'occhio stavano di guardia ai panni stesi che le donne di casa e le lavandaie di mestiere portavano sin lì ad asciugare nelle belle giornate di sole o di vento. Quell'ampio spiazzo fu pure teatro di altri avvenimenti sportivi che fecero epoca come il levarsi della prima mongolfiera vista a Cremona. Grandi emozioni vennero proprio da una gara per aerostati che fu vinta dal capitano Eligio Quaglia: gli riuscì di volare più in alto di Antonio Oblak aggiudicandosi il premio in palio di 200 lire. Si era nel periodo delle feste d’autunno del

1890, ma la prima esibizione di una mongolfiera in Piazza Castello aveva tenuto la città col fiato sospeso già nel 1847. in un momento, tra l’altro. di particolare tensione in Cremona come in tutto il Lombardo Veneto: di lì a qualche mese sarebbero scoppiati i primi moti rivoluzionari, le insurrezioni di Milano e di Brescia, l’ammutinamento del Battaglione Ceccopieri in città: l’inizio, insomma, del disgregamento dell’Impero austro ungarico. Le poche attività sportive che avevano un che di preparazione militare, naturalmente mal viste ed osteggiate, furono immediatamente sospese dagli austriaci che vi vedevano un modo di addestrarsi alla guerra e alla rivolta. E’ vero che il viaggio dell’uomo verso la conquista dello spazio era cominciato già nel 1783, quando sulla piazza di Annonay i fratelli Montgolfier avevano per la prima volta mostrato il loro rudimentale pallone ad aria calda librarsi nell’aria (a fine estate avrebbero ripetuto l’esperimento a Versailles alla presenza del

re Luigi XVI e il 19 novembre si sarebbero sollevati sino ad un migliaio di metri d’altitudine nel cielo di Parigi), ma l’apparire, anche mezzo secolo più tardi, di un pallone aerostatico nei cieli di casa non mancò di suscitare un entusiasmo ed un interesse al di fuori del comune nella popolazione cremonese. soprattutto in considerazione del fatto che fosse una donna, sola, a volare oltre la palla dorata del Torrazzo: accadde in una limpida giornata autunnale, quando Madame Arban (erano le 17 pomeridiane del 4 settembre, con vento e temperatura ideali) lasciò stupefatti in Piazza Castello coloro che la videro sparire nel cielo dopo che, ad un prezzo d’ingresso di venticinque centesimi, avevano avuto la possibilità di ammirare il «globo aerostatico» esposto nei locali della caserma del Corpus Domini (in contrada Chiara Novella). La Arban si sollevò rapidamente; nel giro di qualche minuto svanì alla vista, trascinata dalle brezze serali verso le campagne del piacentino.


8 Prese terra un miglio oltre l’abitato di Monticelli, poco prima che rabbuiasse, nella tenuta del Conte Artieri dal quale fu ospitalmente accolta e quindi riaccompagnata in città. Si calcolò, abbastanza empiricamente, che l’aeronauta avesse raggiunto un’altitudine di circa 1500 metri visto che la temperatura registrata durante il volo era stata di 11° rispetto ai 18° a terra (secondo una legge elaborata da Gay Lussac la dimi-

del Natale» che venne affrontato da ben due palloni che, prima inerti, incominciarono a dar segni di vita, quasi avessero un’anima, sotto l’azione di fuochi di paglia: nessun incidente salvo la rottura di un cavo e molta trepidazione da parte dei presenti al momento dello scatto. A bordo. il capitano Quaglia ed il suo allievo signor Oblak. Quaglia. un bresciano trentaseienne che era passato attraverso varie esperienze

con un salto di circa 150 metri nel vuoto, l'arrivo in mezzo all'Adige in piena che lo aveva costretto a salvarsi a nuoto e quello sulla vetta d'un monte innevato dopo esser partito da una località della pianura bergamasca. Aveva anche ricevuto, proprio la settimana precedente, i complimenti dei Sovrani che, a San Martino, avevano assistito alla sua solita coraggiosa esibizione. La pista-ippo-

Gino Mascetti in allenamento sulla pista di Piazza Castello nuzione di un grado di temperatura corrisponderebbe a 200 m. d’altitudine): il termometro era l’unico strumento disponibile a bordo. La seconda apparizione di un pallone aerostatico avvenne qualche anno dopo, il 20 settembre del 1898. Vi avevano fatto da preludio alcune corse ciclistiche. Un volo «da non confondersi» precisava il cronista «con quello lamentato da uno che avevo vicino, l’amico Rossi, economo del Ricovero di mendicità, a cui i ladri, con un'abilità piuttosto unica che rara, involarono sette galline, riservate pei simposi

sportive come il canottaggio. la ginnastica e. naturalmente il ciclismo, batté quel giorno un record strepitoso: compi infatti la sua 172ª ascesa che finì, dopo aver lanciato foglietti reclamistici sulla folla sottostante, in un campo vicino al Seminario, mentre il suo collega atterrava poco fuori Porta Po, nella proprietà Gambini. Festeggiato in serata all'Albergo Roma, Quaglia ricordò i molti pericoli corsi nella sua carriera: la caduta sopra il tetto di una casa, l'atterraggio contro un parafulmine, l'incendio del pallone nei pressi di Treviso

dromo di Piazza Castello non era gran ché, fino al 1890 almeno, quando venne completamente rinnovata: si costruirono allora tribune in legno ed un lungo palco d'onore; la distanza, alla corda, venne portata ad un miglio. Le prime notizie ufficiali sulle gare dei cavalli risalgono al 1869, ma già da qualche anno vi si correva ad ogni fiera di settembre: erano gli appuntamenti mondani più attesi e frequentati sin dai giorni piuttosto tranquilli della prima dominazione austriaca. Lo furono ancora nei primi anni euforici e bollenti del

Regno d'Italia. Festa grande si ebbe tra il 22 ed il 25 agosto del 1890 quando si disputarono le gare che inauguravano la nuova pista: corse al galoppo e al trotto, di biroccini e di bighe e si alternarono sul terreno polveroso e, dulcis in fundo, si tenne anche la prima gara riservata ai velocipedisti: la vinse Giovanni Greco di Milano, davanti ad un certo Giuseppe Bresciani, che veniva da Rivarolo del Re e a Baldassarre Gandolfi di Vicomoscano, come dire che i primi campioni del ciclismo nostrano venivano dal Casalasco. In campo ippico, si ricordano il milanese Commessali, vincitore delle bighe, Ferdinando Manini nei biroccini e Gallerano Falzoni di Cento nella gara dei sedioli. I premi erano consistenti: mille lire al vincitore di ciascuna prova e, c’è da giurarci, le scommesse non erano da meno. Col passare degli anni crebbero anche i campioni locali: Makalle, un cavallo di proprietà di Ernesto Manfredi era passato da dominatore su parecchie piste (Legnano, Piacenza, Padova) ma disertò per infortunio l'atteso appuntamento del 21 settembre 1890, il più importante nell'intera storia dell’ippica cremonese. Questo il “cast” dei fantini e dei cavalli di casa: Francesco Tigoli, detto «Paroleta» su Oraggio; Palmiro Raggi, detto «Papadia» su Bigio; Natale Bianchini, detto «Pimpinel» su Drago; Giovanni Ansaldi, detto «Francese» su Cacarella; Attilio Tigoli, detto «Pasta consa» su Norma; Onorato Rossi, detto «Lavaren» su Balelu; Eugenio Piccioni, detto «Gallinetta» su Pipello; Ottorino Dorini, detto «Patatru» su Stelo; Carlo Tigoli, detto «Carloòn» su Puledro.


9 Partì anche Rodomonte, altro campione di casa, che però non si era ancora ripreso dall'incidente occorsogli qualche mese prima, quando era malamente finito nella vetrina del Caffe Soresini: arrivò ultimo in batteria, superato allo sprint da Puledro e da Bigio. I cavalli, allora, per bravi che fossero, non si usava-

legge del più forte, sin dalle prime battute, fu il giornalaio Luigi Broggini «Senza budéele» fissando il tempo di 9'20" e battendo Albino Gualazzi e Francesco Tigoli. Staccatissimi tutti gli altri. L'inaugurazione ufficiale del nuovo ippodromo avvenne però il 14 ottobre di quello stesso anno 1890: festeggiamenti che

vivo applauso, legittima soddisfazione d'amor proprio locale. Anche dal lato pittorico il quadro di Piazza d'Armi con tutto quel formicolio appariva eterogeneo, bello e movimentato, specie nel concorso di molte carrozze eleganti, di un tiro a quattro, e di tre automobili che facevano, al centro, le loro evoluzioni.

1923. Si deve all’organizzazione di Cesare Castellani l’inaugurazione della pista ciclistica intorno al campo dello stadio “Zini”. Nella foto Belloni in volata davanti a Girardengo

no solo per correre: lo sport professionistico non era ancora stato inventato, neppure per loro. Nella seconda batteria, si impose Norma su Cacarella che «non se l'e fatta addosso del tutto» commentava il cronista. Oraggio, invece, vinse nella terza batteria, sicché in finale si trovò la famiglia Tigoli al completo. Vittoria al più giovane Attilio, ma i tre decisero con grande sportività e cavalleria di ripartire equamente i premi con tutti gli altri partecipanti. A chiudere la festa, si disputò una gara podistica sulla distanza di 2500 metri. In 12 al via, e a dettare la

si protrassero per la intera settimana con una serie di competizioni ippiche in cui fece la sua comparsa, per la prima volta, anche il totalizzatore. Il cattivo tempo fece temere per tutta la mattinata un rinvio dell'inaugurazione: pioggia e freddo pungente, ma verso le due del pomeriggio, le condizioni climatiche migliorarono e si diede finalmente il via alla cerimonia: tribune gremite e tifo alle stelle quando Augusta, una possente cavalla dell'allevamento cremonese di Palmiro Groppali fece la sua splendida decisiva voltata, piazzandosi assai bene: «scoppiò nelle tribune un

Le corse furono rallegrate dalla banda sociale che si produsse in una interminabile serie di allegre melodie. Suonate meno liete, viceversa, ci furono al totalizzatore, installato per la prima volta in quest'occasione, ma questa è la sorte del gioco, di calcoli sbagliati, spesso di cattive stelle». Nella prima giornata la gara più accreditata fu il «Premio Cremona», corsa internazionale riservata a «cavalli interi e cavalle di tre anni e più»: Arlecchino trottò la distanza di m. 1609 sul piede di 2'23" e 3/5. Più tardi, Augusta si portò a casa il «Premio

Torrazzo», riservato a cavalli italiani, demolendo la concorrenza nel tempo di 2'35"3/5 e facendo intascare al suo proprietario, soddisfattissimo, la cospicua somma di 300 lire. La giornata si chiuse col «Premio Gentlemen Drivers»: furono alla partenza Oneretillo dell'inglese Sir William, Clara Madison del cremonese Giorgio Grasselli, ancora il famoso Makalle di Manfredi e Forte di Pantariva. Vinse naturalmente il celebratissimo Makalle che siglò trionfalmente la gioiosa giornata prima che tanta bella gente fosse rimandata a casa. «Splendidissimo ritorno» riferisce il cronista «perché la sfilata dei landeaux con belle signore, delle vetture, dei biroccini, della gente che si affrettava essendo l'ora del pranzo costituisce un quadro bello, vivo, animato specialmente per una città come la nostra dove l'animazione non è di casa tutti i giorni». Altre gare si tennero nei giorni successivi, sempre con premi prestigiosi in palio: Il «Secondo Premio Torrazzo», «Allevamento e ... 3T», col totalizzatore preso d'assalto da un gran numero di scommettitori cremonesi galvanizzati dalla novità. In tanti, naturalmente, ci lasciarono maldestramente le penne e parte dei benpensanti insorse immediatamente per chiederne la definitiva chiusura che non avvenne mai. Il giornale «Sera» aveva da tempo lanciato una campagna contro le scommesse, ma ebbe esito negativo, specie in provincia, in considerazione del fatto che, in fin dei conti, la scarsa programmazione delle corse non portava ad effetti così disastrosi come poteva invece accadere nei grandi ippodromi.


10 A Cremona lo Starter-handicapper era un ineffabile notissimo personaggio: Pasquale Valvassura, un «tipo artistico, senza un pelo, che potrebbe fare qualunque parte di caratterista come potrebbe essere un eccellente Nerone, o un personaggio a scelta della Teodora». Gli dava una mano, per richiamare la folla al suono di una campana, un ex pompiere, ma spesso era lui stesso ad impugnare il pesante batacchio e l'eco dei rintocchi si diffondeva allora tutt’intorno nei momenti solenni della partenza e dell’arrivo. L’ippodromo rimase in vita sino al 1913 sempre più frequentato da ciclisti e motociclisti, sempre meno dai cavalli. Quando si decise di dar vita al nuovo quartiere di Piazza Castello, il 21 settembre di quell'anno, l'opera inesorabile del piccone si abbatté allora sulla pista e sulle installazioni che erano state testimoni e teatro dei primi passi e dei giganteschi progressi degli albori dello sport cremonese. Quella pista aveva vissuto grandi giornate: si ricordavano soprattutto quelle del 1892, in occasione dei festeggiamenti per la inaugurazione del ponte in ferro suI Po, e ancora del 1913 quando a Cremona si erano organizzati, il 7 settembre, poco prima dell’abbattimento, i campionati italiani di motociclismo su strada e su pista contemporaneamente al Gran Premio ciclistico dell’Unione velocipedistica italiana, che si risolsero in un epico trionfo organizzativo per la U.S. Cremonese. Successo senza precedenti perché Cremona, dopo la conquista della maglia tricolore da parte dello stayer Mascetti, festeggiava ora

quella di Carlo Curtarelli, il notissimo «Pardon», motociclista gentiluomo, nelle macchine di un quarto di litro. Nel Gran Premio dell'Unione velocipedistica italiana, invece, s'impose il vicentino Sesso davanti a Raffaele Piralla e al cremonese «Orfeo» Pierino Amigoni, protagonisti tutti insieme di una emozionante volata che tenne col fiato sospeso un migliaio di spettatori appassionati che quella sera lasciarono con molta mestizia la pista destinata ad essere distrutta. La passione per i cavalli andò affievolendosi proprio per la mancanza di un ippodromo mentre i ciclisti, orfani per una decina d'anni di un apposito impianto, dovettero accontentarsi di correre su

to vicepresidente della Società in qualità di responsabile del settore ciclistico). Di quella pista, tirata su in pochi mesi, rimane un ultimo baluardo dentro lo stadio: l’albero sopravvissuto dei sei che ombreggiavano la Curva Nord e che erano diventati un simbolo dello Zini: sotto la loro ombra si sono accese le discussioni più accanite, si sono spesso decisi i destini della società, si è parlato di sport e di calcio come forse in nessun altro luogo in città. In quello stesso periodo, Cremona era costretta ad inseguire: già esistevano piste ciclistiche in terra battuta a Bozzolo, a Casalmaggiore e Grumello ed era in costruzione il velodromo in cemento di Crema. La pista dello Zini presen-

perché si temeva che il ciclismo, tanta era la passione con cui veniva seguito, uccidesse il football, ma il 5 aprile del 1922 il direttivo si pronunciò per il «sì», e già il 22 giugno andava in onda la prima competizione, il «Bracciale Piva», riservato ai dilettanti cremonesi, che assicurava al detentore una rendita di cinque lire al giorno per tutta la durata di possesso del primato, ma con l'impegno di accettare la sfida di chiunque. Il primo vincitore fu Roberto Pagani che da poco aveva conquistato il tricolore nella corsa ad handicap: batté l'olimpionico Pino Guindani sui cinque giri di pista. In quella stessa riunione diedero spettacolo Tano Belloni e Costante Girardengo che si affrontarono in un

La pista ciclistica di Casalmaggiore. Sullo sfondo si nota la stazione ferroviaria strada. Ebbero di nuovo una pista in terra battuta solo quando ad un gruppo di dirigenti dell'Unione sportiva cremonese venne la felice intuizione di farla costruire all'interno dello Zini (in testa a tutti Cesare Castellani che era divenu-

tava uno sviluppo di 378 metri e le curve sopraelevate: fu inaugurata sotto la presidenza di Luigi Gabbi e prese il nome di «Motovelodromo di Via Persico». C'era stata subito opposizione in seno al Consiglio della Cremonese

omnium su cinque prove ed una volta tanto il campione di Pizzighettone, davanti ad un pubblico che andava in visibilio per le sue spericolate acrobazie e le sue volate impeccabili, riuscì a spuntarla sul rivale di sempre.


11 In Via Persico, durante la bella stagione, si correva ogni giovedì sera e frequenti erano le presenze di campioni come Belloni e Girardengo, Guerra e Brunero e ancora Pagani e i due Guindani, Dante e Giuseppe. La pista rimase in uso fino al 1929, poi venne smantellata e rifatta solo nel dopoguerra, ma con le curve piatte e lo sviluppo di 400 metri: destinata, naturalmente, all'atletica. Fu eliminata del tutto nel 1956 dopo l'inaugurazione del Campo Scuola, permettendo così l'allargamento delle misure del campo di calcio. A proposito di calcio. A parte le notizie relative ad un gioco del calcio che si praticava nelle campagne già verso la meta dell’Ottocento, in città i ragazzi si radunavano a giocare a palla sulle piazze, soprattutto nell’ampia San Tommaso e in Piazza d'Armi, sovente anche sui prati di Piazza Castello. Un'ordinanza del1887 proibì il gioco per i danni che si potevano arrecare ai vetri delle case e soprattutto ai passanti. Il primo campo di calcio, col fondo stranamente nero, ricoperto di pirite e polvere di carbone sul

quale la Cremonese giocò la sua prima partita ufficiale contro l'Ausonia Pro Gorla (poi annullata proprio per la irregolarità del fondo) il 23 dicembre del 1913, si trovava nei pressi del Budrio di San Rocco. Venne abbandonato solo nel 1919 quando la società trovò un nuovo terreno, più adatto, dietro l'Officina del Gas: lì sorse lo stadio poi intitolato a Giuseppe Zini, uno dei grandi portieri della Cremonese che non tornò dal fronte della Prima Guerra Mondiale: la Cremonese lo inaugurò battendo il Chiasso per 70 e vincendo subito dopo la “Coppa del1e Province Lombarde”. Quasi contemporaneamente al ciclismo era arrivata a Cremona la moda del pattinaggio a rotelle. I primi rudimentali pattini fecero infatti la loro comparsa già nel 1892: i soci della Ginnastica, che per primi li avevano sperimentati, chiesero infatti al Comune che si potesse allargare il baluardo della fiera (poi abbattuto insieme al1e mura) per potervi esercitare il pattinaggio, ma lungo i bastioni, insieme ai velocipedisti, si addestravano spesso anche i pattinatori tra i

Gara di Voga alla Veneta sul fiume Po a Cremona

quali non mancava qualche avvenente e coraggiosa signorina della buona società, sempre che non avesse timore di sbucciarsi gomiti e ginocchia. Canottaggio, canoa e nuoto ebbero la loro stupenda sede naturale nel Po: limpido, pulito, anche se pericoloso più di quanto sia ora a causa delle difformità del corso, poi incanalato. Con una corrente più tranquilla e pacata, il grande fiume offriva scenari naturali meravigliosi e la possibilità di fare sport senza soverchie attrezzature. Il canottaggio venne subito praticato in seno alla Canottieri Baldesio, la prima delle grandi società remiere che avrebbero dato un peso enorme allo sport cremonese nel mondo. Già nel lontano 1829 noleggiatori di barche stazionavano lungo il Po ed il Riglio allora navigabile sino a Crotta d’Adda. Poi nel 1887 con la fondazione ella Baldesio iniziarono le prime gite in barca organizzate, i pic nic sulle spiagge e le prime gare, a Piacenza e a Torino nel 1890 dei coraggiosi vogatori della società da poco fondata. Ma non bisogna dimenticare l’im-

presa, in quello stesso anno, di due dei fondatori della società, Alessandro Cattalinich e Filippo Torresani che l’11 luglio, in sandolino, partirono per raggiungere Venezia: impiegarono sette giorni. La canoa, che già avevano praticato i primi canottieri usando dei rudimentali sandolini coi quali si erano spinti sino a Venezia, prese ad esser conosciuta nel 1935 con la costituzione di un Nucleo Canoa Cremona, di brevissima vita e poca fortuna. Solo intorno agli anni cinquanta ci fu a disposizione la prima imbarcazione inviata dalla Federazione Italiana Canottaggio alla Baldesio, ma rimase per parecchi mesi inutilizzata prima che qualcuno si prendesse la briga di provare quello strano aggeggio certamente malvisto dal gruppo dei canottieri. Il primo ad usarla, per la cronaca, sembra sia stato Francesco Zilioli Lanzini, ma la palma del prima agonista spetta ad Ivan Mascarini coi colori della Bissolati in momenti in cui nessuno, probabilmente, pensava che la canoa, in un paio di lustri soltanto, sarebbe divenuto lo sport cremonese per antonomasia.


12 Anche la pallanuoto, come del resto nuoto, canottaggio e canoa, pur apparendo molto più tardi, ebbe il suo sbocco iniziale negli specchi d'acqua che madre natura metteva a disposizione. Le piscine in Italia erano pochissime: così ci si arrangiava, e solo nella bella stagione, in mare e nei laghi. Il Po era l'unica soluzione per i pochi cremonesi amanti degli sport dell'acqua e siccome per giocare a pallanuoto serviva acqua ferma, la sola possibilità era data dalle lanche. Ce n'erano alcune proprio davanti alIa Bissolati, tra la palazzina ed il fiume, che vennero interrate nei primi Anni Sessanta per dar luogo all'attuale parco della società. Vi si vedeva spesso qualche pescatore con un fascio di canne appoggiate a raggiera sul pelo dell'acqua e quei sugheri enormi bianchi e rossi che ballonzolavano quando il pesce abboccava: tinche, pesci gatti scardole e cosi via: erano bestemmie e improperi quando qualcuno si tuffava disturbando la loro quiete. Ma quando scendeva in acqua una squadra completa allora i pescatori erano costretti a raccogliere tutto il loro armamentario e a spostarsi più in là, in una lanca vicina. Proprio in uno di questi lanconi, agli inizi degli Anni Cinquanta, nacque la pallanuoto di casa nostra, in quell'acqua melmosa, scura e sovente maleodorante, in estate, di fango e alghe in decomposizione, ma per fortuna non ancora inquinata, pur se vi era tanta terra e sabbia in sospensione da renderla d'un bel calor cioccolato subito dopo le prime bracciate. Lì, in mezzo, vennero sistemate due parte galleggianti. Lì cominciarono ad allenarsi

e ad imparare qualche rudimento, i primi pallanotisti. Un ambiente incredibile. Non solo per chi ci pensi ai giorni nostri. Più tardi, quando venne fondata la «Rari nantes» ci si spostò alle Colonie Padane, nella Lanca Livrini, allora anche più

prima, c'era stato l'imbocco del ponte di barche. Il sole batteva a picco e il riverbero sulla candida e abbacinante massicciata era insopportabile, ma rimasero tutti, sino alla fine, mitigando la sete solo con una gassosa e un po' di ghiaccioli.

rea di gioco, ma subito filava via zigzagando, spaventata dal turbinio provocato dai giocatori. Le prime notizie che riguardano il nuoto datano invece 1880 «in quella tratta del fiume Po, in forma triangolare che è posta inferiormente al ponte in

Una partita di pallanuoto nelle lanche antistanti la Bissolati ampia e profonda di quanto appaia oggi. Qualche centinaio di persone tenne a battesimo l'esordio ufficiale della «Rari Nantes» di Capitan Ercole Priori affrontando di primo meriggio la calura asfissiante di via del Sale per portarsi alle Colonie Padane. La curiosità di vedere all'opera una squadra locale in uno sport mai visto a Cremona, ma che già aveva dato un oro olimpico all'ltalia era veramente tanta e in quella prima domenica d'agosto la città evidentemente offriva ben poche altre possibilità di svago. Arrivarono in molti, quasi tutti in bici, e cominciarono a prender posto sulle tribune, quelle naturali, fatte di quei sassi appuntiti e taglienti che solo da poco erano stati scaricati per costruire l'attuale pennello laddove, sino a qualche settimana

Il baracchino fece affari d'oro: alla fine del primo tempo aveva esaurito tutte le sue scorte. Il campo era stato delimitato da quattro corde provviste di sugheri ancorate sulla melma del fondo con alcuni grossi sassi. L'acqua del lancone, nel punto più profondo, era all'inizio abbastanza pulita anche se qua e la cominciavano ad apparire macchie verdi di alghe; i pesci guizzavano vicino a riva, ranocchi e sciami di girini affioravano qua e la con la testa e subito si rituffavano: prese a intorbidarsi quando i primi nuotatori diedero le loro vigorose bracciate, ma vi erano tutti abituati, un po' meno gli avversari lecchesi che s'allenavano abitualmente nelle acque limpide del loro lago. Ogni tanto una macchia scura, fatta di minuscoli pesci gatto, traversava l'a-

chiatte in sul lato sinistro. Vi saranno barche apposite ed esperti nuotatori incaricati a sue spese dal municipio i quali sorveglieranno il nuoto pubblico». Si ha notizia anche di un certo Luigi Pozzoli, esperto nuotatore casalasco cinquantenne, che il 9 dicembre (!) del 1884 attraversò per tre volte consecutive il Po a nuoto fermandosi spesso per lanciare lazzi e scherni all'indirizzo degli amici contra i quali aveva lanciato la scommessa, ma di gare vere e proprie, davanti alla Palazzina della Baldesio si parla solo a partire del 1902 (tre anni più tardi per quelle femminili). Si nuotava ancora la “rana” secondo le modalità stabilite dal tedesco Kluge in quanto l'australiano Riccardo Crawl solo in quell'anno aveva inventato quel suo stile che avrebbe rivoluzionato il mondo del nuoto.


13 Appena il “settebello” si fu calato nella lanca, il tifo si fece immediatamente sentire anche con urla ed invettive contro l'arbitro appollaiato su una barca ancorata a lato del campo sulla quale trovarono posto un cronometrista non troppo coraggioso e un giudice di campo: cosa potessero vedere in quelle condizioni di quanto accadeva in acqua resta un mistero. Tifo sincero e appassionato perché nessuno conosceva una sola regola di uno sport che vedeva per la prima volta, ma proteste, urla, incitamenti, si sprecarono. Proprio il pubblico fu l'unico vincitore di quella gara, tanto numeroso e infervorato da stupire gli stessi giocatori del Lecco pure abituati ad esser seguiti da

sconfitti, soddisfatti di aver finalmente compiuto il primo passo in campionato, contenti dell'esordio davanti al loro pubblico, della simpatia suscitata in quanti erano corsi a sostenerli, e soprattutto di aver imparato qualcosa dai più esperti avversari. Tanto per la cronaca, erano scesi in acqua Piccini, Baderna, Priori, Lusiardi, Foglietti (che passerà alla storia come l'autore del primo gol ufficiale della pallanuoto cremonese) Risari e Ceolin. Il primo Tennis Club cremonese fu costruito in via Castelleone all'inizio degli Anni Venti del secolo scorso, ma alla Canottieri Baldesio la costruzione di un campo di “law tennis”, su cui si giocava rigorosamente in pantaloni lunghi e

Croce, prima della fine di fine Ottocento. Il Tennis Club di Via Castelleone rimase in auge sino alla metà degli Anni Trenta quando tutti suoi effettivi passarono sotto i colori della Baldesio, ma nel 1929 e nel ‘30 i suoi campi “civettuoli” erano stati teatro di acerrime contese in occasione di un grande torneo a livello nazionale che richiamò a Cremona alcune delle migliori racchette nazionali per contendersi la prestigiosa challenge «città di Cremona». A difendere i colori cremonesi si presentarono Giorgio e Gian Franco Groppali (approdarono alle semifinali sia in singolo che in doppio) il forte Grasselli ed il cremasco Giulio Fadini, ma la vittoria finale arrise al rap-

Ivan Mascarini, primo canoista cremonese, con l’allenatore Rinaldo Sacchi

un folto stuolo di tifosi chiassosi. La partita non fu esaltante: troppo superiore la squadra lariana, che già dopo una ventina di secondi era in gol e fini per vincere 8-1, ma alla fine i più felici parvero proprio gli

maglietta bianca venne deliberata già nel 1904. Però bisogna ricordare che il Nobile Grasselli, un campo in erba (l’unico di cui si abbia notizia in provincia), già se l’era fatto in villa a S. Giovanni in

presentante del torinese Juventus Club (il “virtuoso” Sartorio). Nella «doppia mista» si imposero i milanesi Piatti-Buridan mentre nella «singola femminile» poca fortuna arrise alla «concittadina signora

Paola Soldi contro il gioco ottimamente impostato dalla virtuosa juventina signora Sertorio». Il rugby non si è mai giocato a Cremona, ma colui che viene unanimemente considerato il «Papà del rugby italiano», Stefano Bellandi era un cremonese, di Soresina per essere esatti. Questi, che lavorava a Milano, riuscì a costituire la prima squadra intorno al 1927, nell’ambito dello Sport Club Italia. Nel 1928 proprio grazie all’appassionato dirigente soresinese nacque la Federazione Italiana Rugby della quale divenne egli stesso il primo segretario generale, mentre sulla poltrona presidenziale sedette nientemeno che Artemio Franchi. che sarebbe poi passato alla guida della Federazione Italiana Gioco Calcio. Proprio grazie a questi due personaggi di grande spessore nacque il primo campionato italiano nel 1929 e, in seguito., Bellandi fu, per moltissimi anni, il responsabile del settore arbitrale. Di bocce, almeno ad un certo livello, si sentì parlare più o meno negli ultimi decenni dell’altro secolo ed è del 25 luglio 1887 il primo campionato cremonese: il campo più frequentato era quello che si trovava presso l’Osteria Galli, in Via Anguissola: vinse la medaglia d’oro Roberto Galli battendo Andrea Bozzetti. Terzo fu Fiorenzo Giovai. La distribuzione dei premi ebbe luogo alla presenza della Banda Cooperativa. Si giocava soprattutto nelle osterie e solo negli Anni Trenta vennero i primi campi delle Società Canottieri e i primi bocciodromi coperti (Viscontea, Signorini, Ferrovieri) cui seguirono, nel dopoguerra, quelli comunali (Via Gadio).



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Nino, il re del looping Al confine tra sport e spettacolo, un atleta noto in tutto il mondo L'esatto confine fra sport e spettacolo non è forse mai stato definito, tanto meno un secolo fa, quando dentro il concetto di sport nella più pura e decubertinania accezione, cominciò ad insinuarsi l'idea di una certa forma di professionismo, della possibilità di guadagnarsi da vivere mettendo a frutto agilità, forza, velocità: le doti, insomma, acquisite attraverso anni di allenamento e di dure fatiche sportive. Questo avveniva nel momento in cui lo sport diventava accessibile a tutte le sfere della popolazione e non apparteneva più soltanto alla nobiltà che menava vanto di potersi avvicinare allo sport sotto le ali protettive del più puro, anche se spesso falso dilettantismo. Mancavano gli stadi, però, Non v'erano palestre, nessun palazzetto dello sport; ci si doveva accontentare dei teatri (per quanto si potesse fare su di uno stretto palcoscenico) e soprattutto di quei circhi che, retaggio di antiche usanze medievali, proliferavano un po’ ovunque portando in giro sulle piazze saltimbanchi ed acrobati, guitti, prestigiatori e domatori di fiere: furono queste le prime vere palestre di molti grandi atleti dei tempi andati. Vi conobbero grandi fortune la lotta e la scherma, poi il pugilato, addirittura il ciclismo: campioni dotati di forza straordinaria, spadaccini, ginnasti e lottatori esibivano le proprie capacità e sovente sfidavano gli spettatori in qualcuno dei loro esercizi scoprendo in tal

modo talenti eccezionali da valorizzare (un nome su tutti, per fare un esempio: Primo Camera). Taluni divennero veri e propri divi del palcoscenico e delle piste circensi, star paragonabili a quelle dei tempi moderni, capaci di attirare migliaia di persone con le loro mirabolanti e spesso fantasiose prestazioni: famosi in Europa come in America, sovente

ovunque nel mondo, il nome di Cremona, creare attorno alla sua figura una leggenda straordinaria, per alcuni versi irripetibile. Atleta eccellente prima che stella dello spettacolo: non troppo alto, ma dotato di forza erculea, di inusitato coraggio e soprattutto di tanta, tantissima creatività, aveva saputo, giovanissimo ancora, costruire un’insolita fantasiosa aureola attorno a

Nino in uno dei suoi numeri impresari di se stessi, ma anche ingaggiati a cifre astronomiche per esibirsi dinanzi a platee prestigiose, talvolta alle corti reali. Campione tra i campioni nei primi anni del secolo, personaggio capace di tener desto l'interesse di qualsiasi pubblico strabiliando gli spettatori con imprese ogni volta più difficili, al limite del credibile, fu il popolarissimo Nino, atleta eccellente, ma vero “animale da spettacolo”, inimitabile trascinatore di folle. Nino seppe portare alto,

quella sua mastodontica potenza che andava allora esprimendosi sollevando da terra pesi che nessun altro neppure avrebbe saputo smuovere. Le sue dimostrazioni di autentica forza erano sovente ben oltre l'immaginazione dei nerboruti colleghi del tempo. Un mito nel senso vero della parola: il più famoso tra tutti in quel primo scorcio di secolo, capace come pochi al mondo di calamitare le folle, di riempire arene, circhi e teatri, di far innamo-

rare di se belle signore del gran mondo e più d'una nobildonna appartenente alle corti straniere al cui cospetto presentava i suoi spettacoli. Corteggiato dalle più affascinanti danzatrici di flamenco di Andalusia, come da seducenti principesse in Francia e in Italia, da nobildonne in Russia o in Polonia, Nino veniva da Castelponzone: vi era nato il 1 novembre del 1873 e a quella terra tornava sovente durante l'estate, nei brevi periodi di riposo che dedicava interamente allo studio e alla preparazione di nuovi esercizi, di sempre più eccitanti spettacoli che avrebbe presentato nella stagione seguente. A metà strada tra il vero atleta, cosi come oggi potremmo intenderlo, e l'acrobata da circo, era uomo comunque eccezionale per forza e preparazione tecnica, per la capacità di proporsi e l'innata peculiare sensibilità nel focalizzare su di se l'attenzione di qualsiasi platea con imprese mirabolanti, al limite dell'impossibile. Il mito dell'invincibile Nino aveva preso forma già alla fine del secolo quando, poco più che adolescente, si era saputo costruire una complessione fisica fuori dell'ordinario grazie a continui ed estenuanti esercizi nella sala del Club Atletico Cremonese: qui si era distinto come possente sollevatore di pesi, ma poi era passato alla «Forza e Coraggio» di Milano per apprendervi, dai molti campioni che in quel sodalizio militavano, i segreti più remoti della lotta libera.


16 Da lì al professionismo, il passo fu assai breve. Diciottenne appena, emigrò in Francia: la via del successo partiva solo da Parigi, il centro del mondo per quanto concerneva

sollevare due persone sulle braccia, quindi tenerne sospese sei e infine nel sostenere “campati in aria” venti uomini (circa 1150 chili). Già un paio d'anni più tardi

sone. Si drizza l'apparecchio e lo si pone sul petto di Nino che, facendo arco della schiena colle mani e coi piedi, sopporta quel peso per un tempo abbastanza lungo».

Il successo gli arrise giovanissimo spettacolo, sport e cultura. Prese l'abbrivio, il giovane Nino, proprio nella capitale francese per costruirsi la sua grande carriera: il successo gli arrise già in poche stagioni grazie alla superba figura atletica: era alto poco più di un metro e sessanta per oltre ottanta chili di muscoli guizzanti e potenti. Il torace misurava 110 cm, 45 i bicipiti. Bastano queste misure per individuare un fisico capace di sprigionare una forza smisurata, ma era al tempo stesso dotato di agilità e sveltezza: un corpo armonico, perfetto. Nel settembre del 1896, a Roma, il pubblico italiano, accorrendo al Politeama Reale ai Prati Castello gli decretò il primo strepitoso successo quando apparve come principale attrazione del Circo Guillaume. Il manifesto recava a grandezza naturale il suo bellissimo ritratto in zincotipia, come si diceva allora, e la sua esibizione consisteva nel

la sua fama varcava i confini d'ltalia e di Francia: le cronache, infatti, lo danno a Gand, Rotterdam, Strasburgo, Londra e per molti mesi protagonista al Circle d'Hiver di Parigi. Cosi descriveva il suo apparire sulla scena un quotidiano di Ginevra: «Il Nino è dotato di una forza eccezionale. Osservate come tutto in questo atleta indica la forza umana salita al massimo....ciò che attira lo sguardo è soprattutto lo sviluppo dei bicipiti. E' a forza di studio e di applicazione che si giunge a tali risultati. Quando Nino viene fuori si vede sulla scena una grande ruota, girante su un piano verticale, come quelle che si vedono nelle feste ai primi dell'anno: dopo alcuni istanti durante i quali scherza con palle e manubri enormi, come fossero palle di gomma, si fa venire dinnanzi alla scena questa ruota, che sostiene sei per-

Nel 1909 il giornale francese La Nature lo definiva « il più grazioso e perfetto atleta che mai il nostro pubblico abbia potuto ammirare. I suoi movimenti armoniosi e leggeri, la fisionomia avente alcunché di giapponese, il viso rischiarato da un franco e dolcissimo sorriso, lo sguardo vivo e indagatore, il suo corpo mirabilmente proporzionato e d'una solidità a tutta prova, senza quella goffaggine troppo generale in tutti gli Ercoli della scuola moderna, fanno di lui l'atleta più perfetto che si possa immaginare. Modesto sino all'eccesso, rifugge da tutte le arti usate dai suoi emuli per meglio comparire. Egli sa semplicemente di essere dotato di una forza non comune, sviluppata da un intelligente lavoro e ne approfitta per offrire al pubblico il nuovo, l'originale e per toglierlo dall’abituale routine. Egli certamente vi riuscì e non è la teatralità che si

può rimproverare ai suoi esercizi, bensì la soverchia arditezza; e per eseguirli occorrono soltanto di quegli uomini eccezionali dalla tempra dell'antico Milone che portava un bue sulle spalle... e se lo mangiava in seguito. Nino porterebbe pure lui un bue, poiché non si trova imbarazzato a sollevare tre cavalli oppure un cannone da corazzata, ma quanto a mangiarlo, non ha bisogno di un piatto di tale resistenza per mantenere il suo vigore. Nino è altresì insuperabile nel jounglage con pesi di 40 o 60 chili e mette in mostra la sua forte dentatura sollevando con la bocca pesi due-tre volte superiori al suo». E «Le Velò», il quotidiano sportivo da cui sarebbe sorto qualche anno dopo l'Equipe, il giornale sportivo più famoso nel mondo, lo battezzava nientemeno che «il miglior automobilista, perché egli ha l'enorme vantaggio sugli altri, se per caso gli capita un guasto, di caricarsi l'auto sulle spalle e non potendo farsi portare, di portarla sua volta alla più vicina stazione ferroviaria. Quanti chaffeurs lo debbono invidiare». A Parigi come a Vienna, a Varsavia e così a Mosca e Madrid le sue interviste pubblicate sui maggiori quotidiani andavano letteralmente a ruba: addirittura venivano riportate su riviste medico-scientifiche mentre i suoi trionfi andavano moltiplicandosi con la presentazione di sempre nuovi esercizi e, dove arrivava, oltre al pubblico sempre entusiasta.


17 Erano addirittura i medici, i più noti, le celebrità, che lo andavano a studiare con l'intento di scoprire il segreto di quella forza prodigiosa ben superiore a quella di tutti gli altri campioni al mondo; le sue evoluzioni, gli estremi virages sul todesring, la pista smontabile che aveva la forma, se non proprio le dimensioni un'abatjour e ricordava molto da vicino il «muro della morte», gli avevano dato la fama di acrobata per eccellenza in una specialità in cui solo coraggio, forza e resistenza potevano assicurare il successo. Accettava la sfida di chiunque si presentasse al suo cospetto, nel sollevamento come nel tiro alla fune, nella lotta come nel ciclismo, quel ciclismo tutto particolare che praticava nella sua piccola pista in legno. Sollevava di tutto e con tutto: con le braccia, le gambe e con i denti. A Cremona venne ad esibirsi una sola volta, nell'estate del 1904, quando già era celebre in tutta Europa: voleva prendersi una bella vacanza nella sua casa di Castelponzone ove si rifugiava a studiare nuovi spettacoli, ma l’entusiasmo dei concittadini lo indusse finalmente ad esibirsi in città e fu un vero trionfo. Allestì la sua famosa pista ed invitò a corrervi, anzi a sfidarlo, tutti i grandi ciclisti cremonesi dell'epoca, da Alceste Bertoletti a Renzo Mignotti, da Maglia a Carulli, soprattutto quel Gino Mascetti (il popolare Alaimo) che si vantava d'esser un autentico funambolo delle due ruote ed era campione vero, il migliore in Italia, ma che, in quel difficile esercizio, non riuscì mai a prevalere sull'acrobata padrone di casa. La pista fu addirittura montata, per l'occasione

della grande disfida, nella platea del Politeama e per una settimana agli sportivi cremonesi parve di assistere a sfide animose ben degne di una vera e propria Sei Giorni in miniatura. Mascetti, pur bravissimo, un equilibrista sul1e curve rialzate, non riuscì mai, in quel1a specialità fatta di coraggio, determinazione, scatto e colpo d'occhio, ad impensierire le doti acrobatiche dell'atleta di Castelponzone. Quelle rappresentazioni, in un vero tripudio di folla che finalmente applaudiva il suo campione già noto in Europa costituirono un trionfo indimenticabile pure per l'Unione Sportiva Cremonese che aveva approfittato della sua presenza in città per convincerlo ad esibirsi ottenendo cosi, un anno solo dopo la costituzione, il suo primo evidente successo organizzativo. Nino chiuse quelle il ciclo di quelle “recite” con una delle sue performance più strabilianti, lo stacco da terra di un massiccio cannone da undici quintali. Solo la mancanza di spazio gli impedì la sua esibizione più emozionante, il «looping the loop» il giro della morte in una pista spiralica, un esercizio che era rimasto l'unico al mondo a saper eseguire. Cos'era esattamente il «looping»? In italiano lo si potrebbe definire «il giro del cappio»: l'impianto era costituito da una lunga pedana in legno levigatissimo che partiva da un'altezza di una trentina di metri. Arrivata al suolo, si rigirava su se stessa in senso verticale, compiendo un cerchio e risalendo in direzione opposta sino ad un'altezza di circa venticinque metri. Il diametro del cerchio, o cappio, era di una decina di metri. Il ciclista usava una bici speciale, robustissima, pesan-

te circa trenta chili e con due appoggi fissi al posto dei pedali. Entrava nel “loop” ad una velocità di circa ottanta chilometri l'ora, ne usciva a sessanta. Era solo questione di sangue freddo e capacità di autocontroIlo: bastava il minimo errore di traiettoria per uscire di pista colla violenza di una palla di

per l'ennesima trionfale trasferta che lo avrebbe portato in Francia quindi in America ricco di gloria e soprattutto di quattrini. Raccontava intanto la stampa locale che «nei suoi meritati ozi, l'atleta “prodige” sta ideando nuovi progetti di sempre più sbalorditivi esercizi, e poiché l’appetito vien

Un talento come ne esistevano pochi cannone e sfracellarsi al suolo. In effetti, c'era stato solo un altro corridore al mondo capace di tanto: era un certo Vandervoot, mitico americano di origine olandese che si esibiva due volte al giorno all'Acquarium di Londra e che gli inglesi avevano soprannominato «Il Diavolo», ma questi il 6 agosto del 1902 era tragicamente precipitato riportando gravi ferite ed una commozione cerebrale. Nino rimase l'unico. Anche Castelponzone ebbe l'onore d'ospitarne le gesta prima che partisse

mangiando, non é improbabile - lo diciamo sul serio - che il nostro campione mondiale sollevi presto su qualche teatro di Londra o Parigi una... corazzata, o almeno un incrociatore di seconda classe». Fu, in pratica, il primo professionista espresso dallo sport cremonese, figura in ogni modo dai connotati straordinari che ebbe comunque al di la dei meriti sportivi, quello di contribuire anche alla grande tradizione circense di casa nostra, quella dei Bagonghi e dei Cavedo.


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Scherma sotto il Torrazzo Grandi risultati per l’atleta Gino Belloni che gareggiò nella squadra nazionale La scherma italiana, suI finire del secolo scorso, era tra le più fiorenti in campo internazionale, in concorrenza con quelle russa, belga e francese. La spocchiosa quanto apprezzata scuola transal-

altri, neppure dai fasti suggestivi dei Giochi Olimpici che, nonostante tutto, andavano acquistando sempre maggiore credibilità dopo la stravagante edizione di Atene nel 1896 e quelle ancora approssima-

più bravi) aveva trattenuto i pur temuti tiratori italiani dalla tentazione di porsi alla mercé di giudici di cui non si conosceva ne la lealtà sportiva ne la capacità tecnica. C'era pure, nei maestri ita-

La squadra italiana di scherma alle olimpiadi di Stoccolma 1912. Belloni è il primo in ginocchio a sinistra pina, da par suo, aveva trovato, e da qualche decennio ormai, consistenza ed apprezzamento grazie all'azione svolta a suo tempo addirittura da Luigi XIV: a lui andava accreditato il merito di aver chiamato alla corte di Parigi, quali maestri d'arma, i migliori spadaccini d'Europa a partire dal famoso bolognese Girolamo Cavalcabò creatore di una vera scuola italiana oltralpe. I maestri italici, forti di una tradizione vecchia di secoli, non s'erano lasciati abbindolare, a differenza di

tive di Parigi, Saint Louis e anche Londra, quando le gare finivano per durare mesi e mesi, solo facendo da complemento ad esposizioni internazionali e ad altre manifestazioni collaterali. Anche la mancanza di garanzie circa la composizione delle giurie (ancora non erano stati inventati gli strumenti elettrici e il risultato era troppo spesso affidato all'abilità, oltre che alla benevolenza ed equanimità di giurie sovente neppure all'altezza della valenza degli schermidori

liani, una buona dose d'orgoglio, fors'anche di presupponenza, e, a dire il vero, la inevitabile riluttanza a rischiare una fama consolidata di fronte ad avversari sconosciuti, magari pericolosi, quanto poco valutati a livello internazionale: più o meno quel che fecero i presuntuosi “maestri” inglesi quando, ritenendosi i depositari del gioco del calcio e superiori ad ogni altro avversario, non vollero misurarsi con le altre nazioni nelle prime edizioni dei campionati del mondo finendo poi per

essere penalizzati da questo voluto isolamento. Gravava un altro pesante ostacolo sulla partecipazione olimpica dei nostri schermidori: erano quasi tutti maestri d'arme, professionisti veri, che di scherma vivevano: la loro posizione mal si confaceva con le inderogabili disposizioni della carta olimpica. I Giochi di Parigi, come quelli di Saint Louis del resto, s'erano dimostrati non solo privi di serietà, ma pure di quella enfatica e romantica poesia che aveva permeato il debutto ad Atene: quasi esclusivamente frequentati dagli atleti della nazione organizzatrice, troppo prolungati nel tempo e con assegnazioni di titoli a iosa. A Saint Louis, tanto per fare qualche numero, 496 atleti (di cui 432 statunitensi) si divisero qualcosa come 390 titoli olimpici. Solo a Stoccolma, ma si era già nel 1912, alla quinta olimpiade, l'Italia schermistica decise finalmente di presentarsi alla rassegna: lo fece in modo positivo, con una squadra non numerosa, ma tecnicamente eccellente, cui non poterono sfuggire, nell'arma classica del fioretto, i primi due posti nell'individuale. Raggiunse l'oro, tra la generale sorpresa, un diciottenne ancora sconosciuto, il livornese Nedo Nadi (il più grande e poliedrico di tutti i tempi: sei titoli olimpici in carriera nonostante fosse costretto a saltare l'olimpiade del 1916 non disputata per la guerra ed il precocissimo ritiro dalle scene dilettantistiche).


19 A confermare la supremazia della squadra italiana vennero l'argento di Speciale e il quarto posto di Alajmo.

farsi apprezzare da una giuria che badava più all'estetica che al sodo, alla bellezza, classicità e compostezza dell'impostazione

Gino Belloni

C'era anche uno schermidore di casa nostra a far parte dello squadrone azzurro: quel Gino Belloni che della scuola cremonese era. ormai da anni, il portabandiera più esaltato, più valido, e più... discusso. A Stoccolma venne addirittura investito, data la sua grande esperienza, autorevolezza e conoscenza del mondo schermistico, dei gradi di capitano della squadra. Furono i colleghi ad affidare a lui e alla sua dimestichezza con le competizioni internazionali quel delicatissimo ruolo. Nell'individuale non andò oltre il primo turno di eliminazione, sia di sciabola che di fioretto, poiché la sua scherma potente ed aggressiva, non troppo ben vista dai puristi, presentava molte difficoltà a

più che al risultato concreto, alla stoccata effettiva. Nella gara a squadre preferì addirittura mettersi da parte, dopo una litigata furibonda con un giudice, per non compromettere le prestazioni dei colleghi che si stavano battendo con successo: la mancanza di precisione nel giudizio delle stoccate favoriva la possibilità delle giurie di valutarle in modo soggettivo e quando in pedana si scontravano i fuoriclasse, velocissimi, precisi, scattanti, risultava estremamente difficile, ad un occhio non abituato, percepire i momenti precisi delle stoccate e ricostruire l'azione. Ogni scontro si tramutava in una battaglia tra giudici, atleti e tifosi, nella quale spesso il fair play solitamente richiesto allo schermidore, veniva completa-

mente dimenticato. Sbollita la rabbia, Belloni andò abbastanza avanti nella gara di sciabola a squadre dando il suo efficace contributo finché, in semifinale contro l'Ungheria, la compagine azzurra, che pure vantava alcuni tra i migliori al mondo ed era la favorita, incontrò una di quelle giornate negative che passano alla storia per demeriti propri, dei giudici e della sorte insieme (Nedo Nadi era sceso in pedana con la febbre altissima, e alcuni svarioni arbitrali avevano completato l'opera): fu costretta ad abbassare bandiera. Per una sola stoccata, più tardi, le sfuggì anche la medaglia di bronzo e Belloni, il primo olimpionico cremonese, tornò a casa a mani vuote. Peccato. Era partito da Cremona con entusiasmo anche se non al meglio della condizione atletica per quella nuova avventura che andava ad affrontare cercando conferma dei clamorosi successi appena colti nelle rassegne iridate di Praga e di Vienna con la squadra italiana, e non si nascondeva le grosse difficoltà cui la sparuta pattuglia italiana andava incontro. Erano, è vero, i campioni del mondo in carica, ma Belloni dall'alto della sua enorme esperienza, già intuiva che qualcosa non sarebbe andato per il verso giusto. «Ho la convinzione - scriveva qualche settimana prima della partenza - che se la lotta verrà limitata fra quattro schermidori, l'Italia potrà riuscire prima di sciabola (Ungheria, Boemia, Austria e Russia sono gli avversari più forti) e seconda di spada (Francia e Belgio le più pericolose), mentre se la i combattenti in gara d 'ogni squadra dovranno essere otto, la nostra posizione scenderà

di molto perché le nazioni più forti possono vantare un numero di tiratori di pari forza superiore al nostro. Questo fatto avrà il maggior peso anche nelle gare individuali. Qui rischieremo di essere travolti perché ogni nazione potrà presentare non meno di otto campioni per arma. Basti pensare che almeno 14 nazioni saranno a Stokolma con 35/40 rappresentanti. Noi siamo in otto e ci ridurremo a quattro-cinque per arma. Finiremo per perderci nelle interminabili eliminatorie e semiflnali. Anche per questo fatto non so se deciderò di accettare il compito affidatomi dal Comitato Olimpico Nazionale dopo il referendum indetto tra tutti gli schermidori d'Italia. Abituato poi a partire per tornei di pari importanza con la sicurezza di vincere per la grande fiducia nella mia forma, oggi, non avendo quella fiducia perché mi manca, sto per decidermi a non partire più.» Alla fine ebbe un ultimo Sfogo confessandosi sul giornale locale e lamentando la scarsa possibilità di preparare adeguatamente un impegno tanto importante: «Mai Cremona è stata senza schermidori come ora. Lontano il maestro Sanipoli; araba fenice il fortissimo capitano Folezzani, lontano il maggiore Romani; Mori Tonino che sta morendo dietro la coda del suo cavallo; Onofri che si da agli amori ancillari....io solo, troppo solo, vado mendicando un po' di aiuto da Augusto Celli il quale pare stia prendendo la sbornia automobilistica ed ha ben altro in mente che la scherma; e implorando un po' di sacriflcio dal caro e forte Ferretti che non manca mai di cantarmi la sua noia, la sua impossibilita di poter lavorare e che a giorni se ne andrà al campo.


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Lovato e Allocchio con Belloni

E cosi da due mesi, e alla vigilia di una grande prova, mi trovo veramente troppo solo e giù di forma, arrabbiato e avvilito... Quindi, per quanto sia cosa dolorosa, umiliante, non so ancora decidermi a partire». Come si nota, non era tempo ancora di interminabili e pressanti allenamenti collegiali, di ritiri, di preparazioni esasperate alle quali sono abituati gli atleti di oggi. Ci si allenava a casa, nelle propria palestra o accademia e ci si trovava coi compagni d'avventura e di squadra solo il giorno della partenza, alla stazione. Così Belloni, in un momento un po’ difficile, ma già con la testa a quella grande rassegna che lo attendeva protagonista, si sfogava a modo suo; ma era atleta di vaglia, dotato di grande reattività, di incredibili capacità di concentrazione e di recupero, e

alla fine partì per l'avventura svedese ove gettò in pedana tutta la sua possanza, il coraggio, l'aggressività talvolta incontrollata, la sua forza erculea, ma pure quella straordinaria capacità di piazzare colpi inimitabili che, quand'era in giornata, lo rendeva cliente estremamente difficile per qualsiasi fuoriclasse. Purtroppo a Stoccolma la fortuna non sostenne lui e nemmeno la squadra azzurra. Era comunque un uomo da prendersi con le molle, a cui non lasciare mai l'iniziativa per non rischiare d'esserne travolti: lo stesso fenomenale Nadi sarebbe uscito battuto più di una volta dalla furia aggressiva del cremonese: accadde, ad esempio, in una finale, passata alla storia della scherma, del celebre torneo di Desenzano del 1914: diedero vita ad una sfida che

fu seguita a distanza da tutti gli sportivi italiani attraverso la stampa nazionale che le diede un risalto fantastico per quei tempi. In una decina d'anni, tra il 1906 e l'inizio della guerra mondiale, Belloni mise insieme successi eclatanti nel fioretto come nella sciabola (sorretto in quest'arma proprio dall'innata forza fisica) e non solo nei tornei italiani. Gli appuntamenti col titolo mondiale di Vienna (1911) e Praga (1912) lo videro passare da dominatore (l'ultimo proprio alla vigilia delle Olimpiadi), ma già negli anni precedenti aveva vinto a Budapest, Berlino e Monaco e tornei internazionali a Milano, Udine e Venezia oltre alle Grandi Accademie di Nizza, Praga, Milano e Desenzano: una quarantina, in tutto, le grandi manifestazioni che lo videro sul

podio più alto. La delusione olimpica fu grande per un personaggio stravagante quanto impulsivo come lui, ma ebbe modo di rifarsi, sia pure parzialmente, già l'anno successivo, proprio sulle pedane di casa nel campionato italiano che, organizzato a Cremona, la confermava come una delle capitali della scherma internazionale: la frequenza in accademia del maestro Riccardo Sanipoli, ufficiale dell'esercito presso il 4° Artiglieria di stanza in città e considerato uno dei più valenti istruttori nelle tre armi, sanciva, insieme alla presenza di uno stuolo di fiorettisti di prima grandezza, la nostra scuola nel Gotha della scherma. All’estero Cremona era conosciuta per i suoi violini come per la sua scuola di scherma. La Sala d’Armi si trovava in Via del Passeggio, all'altezza di Via Antica Porta Tintoria e vi convennero per i tre giorni di durata delle gare i più accreditati (mancava solo Nedo Nadi) atleti delle tre armi. Il Gala, l’«Accademia» come la si definiva allora, cioè la festa di chiusura, si tenne invece nel Politeama Verdi. L'Associazione schermistica cremonese vantava molte “lame” di primissimo piano oltre a Gino Belloni: si battevano alle tre armi Umberto Onofri, Nando Boschi e Antonio Mori, tutta gente che poteva tranquillamente qualificarsi tra i primi cinque in campo nazionale. La prima giornata, dedicata al fioretto, vide in pedana subito Belloni: era tra i favoriti. Quella inusuale stazza fisica sostenuta da una prontezza di riflessi ineccepibile lo rendeva particolarmente adatto a sopportare le fatiche di un torneo che durava l'intera giornata.


21 Ebbe però un sorteggio sfavorevole e si vide costretto, già nei primi tumi eliminatori, alle nove del mattino, a battersi con il suo omonimo, il bergamasco Belloni, che si trovava, tra l'altro, in un momento di forma particolarmente felice: veniva dall'aver battuto, quindici giomi prima, nel torneo prestigioso di Viareggio, nientemeno che il giovane campione olimpionico che, forse per non andare incontro ad una nuova sconfitta, avendo intuito di non essere in perfette condizioni di forma, aveva preferito starsene a Livorno. Fu epico assalto, tirato sul filo della parità sino alle ultime stoccate, che solo la grande esperienza del cremonese, capace di trarre dal suo bagaglio alcuni colpi imprevedibili, riuscì a risolvere con una sola stoccata di vantaggio. Il turno pomeridiano fu invece più semplice: dopo aver fatto fuori senza problemi alcuni avversari di secondo piano, ebbe un solo ostico oppositore nel milanese Aliprandi che, nonostante una prestazione determinata ed efficace, non gli impedì comunque di finire il torneo imbattuto. A completare il successo di Belloni pensarono gli altri fiorettisti cremonesi: Umberto Onofri fu quarto, il giovane Nando Boschi ottavo, Antonio Mori nono. Due giorni più tardi, Belloni si ripetè nella competizione di sciabola. Iniziò ribattendo Aliprandi al primo turno; più tardi, in uno scontro di altrettanta elevatissima spettacolarità, ebbe la meglio sul modenese Pietro Boine, elemento, ancor più di lui, dotato di una forza fisica fuori dell'ordinario. Boine, era il classico giramondo. Espansivo, intelligente, di agiata famiglia, s'era fatto una grossa cultura umanistica (del resto il fratello

Giovanni era stato uno dei fondatori del modernismo, avversario dichiarato di Croce e Prezzolini) ed aveva trascorso, per ragioni di studio, parecchi anni a Parigi assimilandovi i segreti della scherma transalpina e forgiandosi un suo stile tutto particolare che riassumeva i dettami delle due scuole più famose del mondo. Era un appassionato cultore di tutte le arti marziali e vantava notevolissimo mestiere: già nel 1908, proprio a Cremona, aveva colto il suo primo alloro tricolore nel fioretto, ma stavolta, messo fuori causa da Belloni, fu solamente quarto: era ancora giovane, ma stava pensando di dedicarsi totalmente a quella attività che già stava portando avanti da qualche anno con successo, il pugilato che lo aveva visto primo campione assoluto dei pesi massimi nel 1910 a Valenza Po. Pochi giorni prima di venire a Cremona era stato battuto, sul ring di Lione dal fenomenale campione del mondo dei medi Frank Klaus e a Cremona sarebbe ritornato per battersi, al Ponchielli, con il negro americano Jack Langford. Boine portò lo scontro sul piano della forza fisica (era un gigante dotatissimo) ed il fatto che il nostro lo abbia potuto superare dimostra quale fosse la sua prestanza atletica ed il suo valore quando stava al culmine delle sue capacita schermistiche. Saltato lo scoglio Boine, (che comunque riuscì poi ad aggiudicarsi il tricolore nella spada) Belloni si giocò il titolo in finale con il quotato Pracchi, un milanese di creativo talento, originale e bizzarro quanto indomito e capace di stoccate sorprendenti, ma il brillante stato di forma di cui il cremonese godeva in quel momento fu ancora suffi-

ciente a fargli concludere il torneo senza l'onta di una sola sconfitta. A dare conferma ufficiale ai suoi grandi risultati internazionali venne pure, l'anno seguente, la nomina a Cavaliere Ufficiale della Corona per meriti sportivi e anche in questo fu il primo tra gli atleti cremonesi. Rimase ancora per oltre un decennio a calcare le pedane, tra alti e bassi, ma sempre considerato la bandiera della scherma cittadina, senza dubbio il più dotato di estro e di quell'esuberante talento che presto mise al servizio di molti allievi dedicandosi all'insegnamento. La prima guerra mondiale, purtroppo, lo colse nel pieno ancora della maturità atletica e quando fu il momento di tornare alle pedane, trentaquattrenne ormai, si trovo a fronteggiare una schiera di giovanissimi emergenti che scalpitavano alle spalle degli avversari di sempre, i fratelli Nadi. Lo avrebbero escluso, ma solo dopo estenuanti spareggi, dalla squadra che nel '20 alle Olimpiadi di Anversa, vinse tutto quanto si poteva vincere (al solo Nadi andarono cinque medaglie d'oro). Durante la guerra, però, quella sua sala d'armi, che aveva ereditato da padre, rimase attivissima: a frequentarla non furono soltanto gli allievi cremonesi, ma molti ufficiali inglesi di stanza in città per i quali, addirittura, riuscì a far arrivare da Londra le loro armi predilette. Gli inglesi avevano fondato un proprio circolo, in Via Battisti, consono alle loro più tipiche tradizioni e qui, oltre alle abitudini di quelli che già allora erano i riservatissimi “club” anglosassoni in cui si poteva sorseggiare il the, leggere libri e giornali in lingua inglese, e soprattutto discorrere, trovavano anche il tempo

di addestrarsi in tipiche arti di casa loro come la scherma e la boxe che il Marchese di Queensbeny aveva solo da qualche anno regolamentato. Proprio gli ufficiali inglesi convinsero Belloni ad allestire anche una sala del “ring” ed un'altra con i «pummingh-balles», ove ci

L’arte della scherma si addestrava, per la prima volta a Cremona, anche nel pugilato, sport in cui i militari inglesi si dimostravano già provetti tanto da improvvisarsi essi stessi insegnanti per gli allievi che frequentavano l'Accademia d'Armi. Questa era un vero e proprio circolo dotato di ogni comfort, compreso un pianoforte col quale accompagnavano i canti della loro terra durante le interminabili serate d'invemo. Iniziò qui una lunghissima carriera di insegnamento, prestando la sua opera preziosa, anche il famoso maestro Giardina il quale avrebbe finito per raccogliere l'eredita di Belloni nei decenni successivi.


22 Nel 1922, quando tornarono i campionati d'Italia a Cremona, pressato da molti tifosi, fu ancora in pedana un trentaseienne Belloni cui il fisico appesantito reggeva ormai a mala pena lo sforzo di un torneo impegnativo e di grande selezione. Da anni, il maestro si dedicava quasi esclusivamente all'insegnamento senza badare ad una preparazione specifica. Non era più tra i favoriti anche perché una noiosa forma linfatica alla gamba destra ne mise addirittura

sua Livorno il secondo, ma tutti i più quotati furono comunque al nastro di partenza, dal genovese Vanzetti ai torinesi Thaon de Revel e Canova, dai bergamaschi Belloni e Novati ai fiorentini Molli, Rusconi e Pignotti, i più temibili perché capaci di fare gara di squadra ed aiutarsi l'un l'altro quando fossero giunti al girone finale: una situazione, questa, che Belloni auspicava potesse verificarsi anche per la squadra cremonese che, forte del quotatissimo

Un incontro dei mondiali di Atene 1856

in dubbio la partecipazione sino al giorno precedente, ma si era comunque voluto preparare al meglio nella convinzione che, a quell'eta, sarebbe stata proprio la sua ultima occasione per rimettersi in lizza e fare un pensiero, magari, anche alla squadra olimpica del '24, ma di quell'Olimpiade, purtroppo, non conobbe neppure i risultati. Scomparve infatti, ancora giovane e nel pieno delle forze, proprio nel gennaio del 1924 lasciando un vuoto profondo in tutto il mondo della scherma. Nedo e Aldo Nadi erano ormai da tempo al lavoro come professionisti: a Buenos Aires il primo, nella

mancino Nando Boschi, di Samuele Giardina e di un ritrovato Folezzani, aveva buone probabilità di portare parecchi uomini in finale: lo scontro si prospettava acerrimo proprio tra la scuola cremonese e quella toscana. Belloni volle tirarsi fuori dal pronostico proprio a causa dei dolori persistenti al1a gamba, ma alla fine, quando si trattò di andare in pedana, fu il migliore di tutti, tanto che qualcuno sospettò avesse fatto pretattica fingendosi in condizioni pietose. Fu campione d'Italia e ancora una volta finì il torneo senza subire sconfitte. Solo contro tutti perché i compagni di colo-

ri, ad eccezione di Boschi, sparirono dalla competizione nei primi turni eliminatori. «Non farò mai più tornei!» urlò un attimo dopo aver piazzato l'ultima stoccata, spossato dalla tensione nervosa e da lancinanti dolori all'arto inferiore. La preparazione, durissima, alla quale si era sottoposto per affrontare la gara lo aveva fiaccato anche nel morale. Sentiva che alla sua età, sottoporsi ancora alle fatiche di un campionato, sarebbe stato oltremodo oneroso. Non abbandonò tuttavia la scherma agonistica, si sarebbe limitato alle singole sfide allora tanto in voga e finanziariamente abbastanza redditizie. Quella fu ad ogni modo un'altra grande giornata della scherma cremonese: il trionfo venne completato dal terzo posto di Boschi, costretto, tra l'altro, ad una difesa affannosa in finale per l'improvvisa indisposizione che lo aveva colto dopo aver battuto per ben due volte, nelle eliminatorie e nelle semifinali, l'olimpionico livomese Puliti, erede ed allievo dei fratelli Nadi che del torneo era il favorito numero uno. Quel titolo di campione d'Italia ebbe per Belloni uno strascico polemico, anzi drammatico. Il giornalista Umberto Spotti, redattore del foglio milanese «Il Giomale dello Sport» e schermitore di talento a sua volta, ebbe parole infuocate per Gino Belloni criticando aspramente il suo successo, il modo in

cui lo aveva ottenuto, il suo stile in pedana, il suo duro carattere. Il fatto che anche lo Spotti fosse cremonese alimentò ancor più le polemiche e attirò l'attenzione dei concittadini e di molta parte della stampa su una contesa che andava inasprendo di giorno in giorno. Belloni, alla fine, si ritenne offeso nell'onore e lanciò il guanto di sfida: si giunse al duello. I padrini fecero quanto era possibile per evitare lo scontro. Erano Adolfo Cotronei e Pietro Polverelli (entrambi colleghi giomalisti) per lo Spotti, l'avvocato Ghiraldi e Mario Borsa per Belloni. Lo scontro avvenne il 19 luglio a Milano su di una terrazza privata nei pressi dell'Ippodromo di San Siro. Le condizioni poste dai duellanti erano assai gravi, pericolose: quelle previste dal regolamento della spada francese. Si batterono sulla distanza accordata di cinque assalti diretti dai signori Cotronei e Aldo Di Nola. La conclusione si ebbe solo al quinto scontro quando Belloni, in contrattempo e sull'arresto, feri gravemente al bicipite l'avversario. Dato subito l'alt, la ferita venne esaminata accuratamente dai medici presenti i quali impedirono il proseguimento del duello a causa delle palesi condizioni di inferiorità dello Spotti che a fatica poteva maneggiare la spada. Il duello - come riferirono i presenti - era stato assai drammatico in quanto già al secondo dei cinque assalti, durati ciascuno sette minuti, il campione aveva forato la coffa della spada dell'antagonista e due volte lo aveva posto in condizioni di grande difficoltà, tanto da fargli perdere tutto il terreno e praticamente imprigionarlo contro il muro della terrazza.


23 Solo il pronto intervento del direttore del duello aveva, in entrambe le occasioni, evitato un tragico epilogo. Alla fine, Belloni neppure fu soddisfatto del ferimento dello sfidante e solo dopo insistenti preghiere acconsentì a stringere la mano al suo coraggioso oppositore. Aveva un caratteraccio, mai domo, mai incline a sottomettersi, mai battuto in partenza, ma fu proprio quello a consentirgli, in pedana, di affrontare con successo anche quegli avversari, e non erano poi molti, che meglio di lui erano dotati in fatto di tecnica. Era, del resto, un predestinato e che la maggior gloria alla scherma cremonese sia venuta pro-

vano: Baldesio e Monteverdi. Dal grande Zaneen che con un colpo di spada in singolar tenzone libera la patria dal dominio straniero e imprime la sua sigla immortale sullo stemma della città, al divino Claudio da cui scendono Ruggero Manna ed Amilcare Ponchielli. Scherma e musica: battute e tempi per l'una e per l'altra, le due glorie cremonesi d'inizio secolo. La scherma, era anche e soprattutto, un fatto culturale il che contribuiva a giustificare l'accostamento con la musica. A Cremona la scherma a livello agonistico era nata solo intorno al 1880 con l'apertura della sala del maestro Bianchi, poco dopo costretto a respinge-

se, ma teso ad arrivare alla conoscenza di tutti i segreti della spada in chi soprattutto aspirava alla vita pubblica. Il tirar bene di scherma era una buona misura di precauzione per il politico, per il giornalista, per molti altri professionisti: il codice Zanardelli riuscì infatti solo a limitare il duello, non a sopprimerlo e così aumentarono notevolmente i frequentatori di tutte le sa1e d'arma. A Cremona, per esempio, si allenavano quotidianamente e con assiduità due forti personalità come Leonida Bissolati e Andrea Boschi ed era proprio il periodo in cui venne a stabilirsi in città un altro dei grandi, Ernesto Belloni, preceduto

La prima fotografia che rappresenti un incontro di scherma fatta a Parigi, inizio ‘800 prio dal suo fortissimo braccio non deve assolutamente stupire: con lui si chiuse un grandissimo ciclo il cui inizio i più fanatici sostenitori della scuola cremonese hanno voluto far nascere colla antica presenza a Cremona di Giovanni Baldesio. Cremona uguale a Scherma e Musica, dice-

re la concorrenza di un altro grande insegnante, Cicalò: due scuole in nobile gara. L'una contro l'altra in molte accademie, in feste d'arma. Ci fu una passione crescente che attanagliava non solo i ceti più nobili, più propensi a praticarla, ma tutti i cittadini. Fu non solo amore per lo sport in

da una fama ben meritata di spadista eccellente. Era un trascinatore ed alla sua scuola crebbe, insieme a molti, soprattutto il figlio Gino di cui, purtroppo, non poté vedere gesta importanti come la conquista dei due titoli mondiali di Vienna e di Praga e le vittorie strepitose su molte delle migliori lame

del mondo. Accanto a Gino Belloni, più tardi, giostrarono altri assi di quel periodo, come il maestro Samuele Giardina che colse allori solo in Italia in quanto, essendo militare di carriera, non potè mai gareggiare all'estero, o Sartori, pure di stanza nel 4° bersaglieri e Morettini, eccellente maestro d'arma tra i cui allievi di fine novecento s'erano distinti schermidori come Annibale Grasselli e Peppino Zanotti, Amaldo Boldori e Arturo Rizzini cui aveva fatto seguito, nei primi anni del secolo, lo squadrone dei vari Onofri, Boschi, Celli, Carulli, Locatelli e Lucchi, quasi tutti ufficiali ai quali purtroppo la Grande Guerra interruppe la carriera sportiva se non la vita. Qualche anno prima, intorno al 1905, aveva però furoreggiato lo sciabolatore Giuseppe Bonaveggi, schermidore di classe, allievo di Italo Santelli e tra i migliori in Italia. Di lui, dilettante capace di farsi valere anche tra i maestri, si ricordava una grandissima vittoria che portava la data del 12 marzo del 1904 a Budapest, nella mitica Kerfovarosi, sala tra le più famose nel mondo internazionale della scherma di allora. Era un dilettante, ma in Ungheria lasciò grande impressione: «Nei due assalti sostenuti l'uno col nostro campione ungherese dott. Nagy Bela - scriveva il Magyar Hirlap - egli fu bello ed elegante in guardia e mentre sviluppò una scherma piena di tecnica e di astuzia, fu pure correttissimo opponendo un riuscito gioco di difesa agli attacchi potenti del dott. Nagy Bela. Così pure seppe far riuscire dei bellissimi contrattacchi al gioco dell'altro suo avversario Ing. Kreucsey Geza.»



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Gran Premio di Cremona Un appuntamento che aveva assunto livelli di valore internazionale C'era una volta il Grand Prix. Anche a Cremona! Una vera e propria epopea cremonese nella storia dell’automobilismo sportivo fu infatti vissuta a cavallo degli anni Venti e Cremona, città all’avanguardia in tutte le manifestazioni di sport, non mancò di allestire il suo Gran Premio automobilistico portandolo immediatamente a livelli di assoluto valore internazionale. Non fu, naturalmente, il primo impatto della città con le corse automobilistiche che s'era invece verificato già agli inizi del secolo, nel settembre del 1899, quando da Cremona era transitata la BresciaCremona-Mantova-VeronaBrescia (corsa dalla quale sarebbe scaturita, più avanti, l’idea della Mille Miglia) in tempi in cui ancora non era stato risolto il problema se per una carrozza a motore fosse più vantaggiosa l’adozione delle tre o delle quattro ruote. Macchine in giro, in quei tempi, se ne vedevano poche: la prima, probabilmente, era transitata da Cremona già quattro anni avanti e, in tutta la provincia, ne circolavano forse un paio. Comprensibili, dunque, lo scalpore e la curiosità che creò quel passaggio sferragliante tra il pubblico. Furono parecchie, per quei tempi naturalmente, le auto iscritte alla competizione la quale assumeva subito importanza nazionale e che qualcuno già cominciava a chiamare «Grand Prix d’Italia» derivando la denominazione dal tiro a volo i cui Grand Prix si svolgeva-

8 giugno 1924. 2° Circuito di Cremona. I vincitori assieme a Roberto Farinacci: da sinistra: Carlo Mariani, Roberto Farinacci, Damiano Ragai e Tazio Nuvolari no con molto seguito di pubblico in tutta Europa. Sulle strade si riversò una folla imponente e incontrollabile, mai vista prima: fu addirittura necessario l’intervento di una compagnia di bersaglieri e poi di carabinieri, in appoggio alle guardie di pubblica sicurezza e ai pochi vigili urbani in servizio, per tenere a freno la gente ed impedire il verificarsi di incidenti. I partenti erano stati suddivisi in tre categorie. Alla prima appartenevano i

tricicli di peso non superiore ai 120 Kg. Annoverava: il conte Battista De Fe con un triciclo De Dion Buton con motore di 2 cavalli, 1/4; il conte Alfredo Lechi e i milanesi Fulton e Bugatti a bordo di un Prinetti-Stucchi da un cavallo e 3/4; Giovanni Tommaselli (passato all’automobilismo dopo aver vinto, in bicicletta, il Grand Prix di Parigi qualche anno prima ed era l’unico cremonese in gara) a bordo di un Phebus Aster da 2,1/4; Francesco

Carpani di Milano e Luigi Storero di Torino con Phebus De Dion 1.3/4; Giovanni Meschini con Automoto 2.1/4; infine, i francesi Bender e Martiny con Perfecta Gail da 1.3/4. Luigi Storero fu primo al traguardo nel tempo di 4h41'19'. (per 223 Km.): era transitato da Cremona appena dietro al conte Fe che però, al traguardo di Brescia, accusava a sua volta una decina di minuti di ritardo. Arrivarono in sette su undici partiti.


26 Per la seconda categoria (vetturette e quadricli fino a 400 Kg.) arrivarono in cinque soltanto degli otto partiti: Virginio Benedetti, pilotando un quadriciclo Pinetti-Stucchi con motore da quattro cavalli, riuscì a compiere il percorso in 5h13'58" rifilando un'ora e mezzo di distacco al conte Gianoberto Gulinelli di Ferrara il quale disponeva di un mezzo dello stesso tipo. Poco più di tre ore di distacco subì il padovano Curzio Aspergi. Infine, il fiorentino Giuseppe Alberti, che gareggiava nella terza categoria (vetture a una o due persone di oltre 400 Kg.), a bordo di una Dog Cart Mors con motore da sei cavalli, impiegò 5h02' dimostrando che ancora i tricicli riuscivano ad aver la meglio sulle auto più pesanti. Ciò che più meraviglia di quella gara che aveva visto muoversi in tutto 22 autovetture (con partenza scaglionata ad intervalli di un minuto tra una vettura e l'altra) è il numero elevato degli incidenti: a parte, infatti, quelli meccanici occorsi ai tricicli di Tomaselli e Carpani e alla Orio-Marchand del piacentino Laporte, accadde che a Bagnolo il conte Alfredo Lechi finisse, con il suo poco manovrabile veicolo a tre ruote, addosso al marchese Cappellini facendolo finire in un prato, fortunatamente senza conseguenze fisiche per i due piloti. Cappellini fu in grado di riprendere la corsa ma, nei pressi di Bozzolo, volando su un dosso, gli scoppiarono tutte le quattro gomme. Brutta botta, poi, per Ottolini che al passaggio da Cremona era stato accreditato della seconda posizione. A S. Eufemia, vicino all'arrivo, piombò

pesantemente contro un carro di fieno trainato da un paio di buoi e venne violentemente sbalzato contro un altro carro. Ebbe la sfortuna di rovesciarne addirittura il caval-

che gli curò le ferite e lo giudicò guaribile in una decina di giorni. L'anno dopo, era la fine di settembre del 1900, la manifestazione s'era già conquistata un posto pre-

Enzo Ferrari al circuito di Cremona; sullo sfondo Roberto Farinacci, ras della città lo: davanti alle vibrate proteste dei contadini proprietari dei due carri, i carabinieri arrestarono il conducente del veicolo per accompagnarlo in caserma, ma grazie all'intervento di un organizzatore che garantì per lui, gli venne alla fine consentito di proseguire la corsa. Un cane era stato investito ed ucciso nei pressi di Manerbio dal triciclo di Benedetti; andò meglio, per sua fortuna, ad un certo Giacinto Bertulli di S. Eufemia che finì sotto le ruote della Decauville del ferrarese Mayer: scaraventato a terra, venne soccorso e portato all'«Osteria del Rebuffone», ove trovò un medico di passaggio

minente nel panorama internazionale ed aveva ottenuto la definitiva consacrazione. Fu però una corsa tragica, funestata dalla prima disgrazia mortale dell'automobilismo sportivo italiano. Il nostro cronista, naturalmente in prima fila, avrebbe alla fine annotato che a Volta, nei pressi di Brescia il ventiduenne Attilio Caffarati di Pinerolo che «nella corsa montava un triciclo Darracq Soncin, causa uno sviamento pel terreno fangoso, andò a spaccarsi il cranio contro un fabbricato». Il posto di controllo di Cremona era stato sistemato all'altezza del passaggio a livello di via

Mantova (oggi sostituito dal cavalcavia) e già alle otto del mattino s'era radunata una gran folla in impaziente attesa. «Per una delle tante contraddizioni di cui è lastricato il mondo» annotava il non troppo lungimirante inviato «compreso il mondo dei cicli e degli automobili, alla Zucchereria (che si trovava proprio sull'attuale Via Brescia, di fronte alla chiesa di San Bernardo ed era stata inaugurata da qualche giorno soltanto) non approdò nessun carro di barbabietole, e nessuna barbabietola, cosicché se gli automobili fossero passati anche dal piazzale, come l'anno scorso, era tolto il pericolo d'uno scontro o d'un barbabietolicidio, ma le disposizioni erano già prese e fu scrupolosamente seguita la variante, o rotta, che dir si voglia. Il cielo si mantenne coperto di nubi però non piovve e se qua e la c'era qualche pozzanghera, ci fu anche il gran vantaggio della mancanza di polvere, anzi oserei dire che sotto questo rapporto la corsa riuscì fortunatissima. Gli iscritti erano 48: da Brescia ne partirono 34, da Cremona ne transitarono 37 (sic!). Il primo arrivato, ore 8,40, fu un triciclo, poi a distanza di pochi minuti vennero altri due tricicli. Io mi ero portato sulla strada di Brescia innanzi qualche chilometro per osservare l'arrivo in un punto di massima corsa, e vi assicuro che fu uno spettacolo impressionantissimo.


27 Il triciclo fila con una velocità da trenolampo, e quella massa nera che si avanza vertiginosa e su cui sta un uomo che sembra un palombaro co' grandi occhi di vetro, preceduto dal rumore caratteristico dello scoppio vi fa quasi trattenere il fiato. Per fortuna lo stradone e bello, largo, libero, perché ognuno pensa subito che se il triciclo trova un ostacolo, la macchina e chi la monta va in frantumi. Purtroppo più tardi ho saputo che ci fu un urto fatale ed un morto, la qual cosa mi ha fatto subito presagire che finiranno per abolire anche da noi queste corse pazze, come hanno fatto in Francia. Io capisco che si possa indire una corsa di resistenza: ciò e bello ed è pratico; quello che non capisco è fare, con l'automobilismo, la concorrenza alla ferrovia, ai treni lampo, agli express su strada comune. La quarta arrivata fu una vettura, cosi pure la quinta, la sesta, la settima. Le vetture presentano meno pericoli del triciclo e per lo più sono montate da due: uno che guida, l'altro in posizione più o meno impacciata e gotica, forse per tagliare l'aria con minore resistenza. Tra le vetture ne passò una tutta gialla che mi dissero essere del maestro barone Franchetti. Ho visto anche passare assai bene e con ammirabile velocità due biciclette con motore a benzina. Chi montava la prima bicicletta a benzina aveva le braccia al sen conserte: come potete giudicare è una bella prova di fiducia in se stesso e nelle leggi dell'equilibrio». A Brescia si presentò per primo, dopo aver viaggiato a quasi 83 chilometri orari di media, quel triciclo francese Soncin che da

Cremona era transitato con sei minuti di ritardo rispetto a quello del bresciano Giovita Gugiari. Venti anni più tardi, quando ormai era passata la buriana della prima guerra mondiale, mentre tecnica e progresso andavano facendo passi da gigante, le corse, che il terribile conflitto aveva costretto in sottordine, rinacquero un po' ovunque. La crescente passione per la velocità alimentò la rivalità incessante tra le molte città che si erano votate all'automobilismo sportivo, facendola divenire, a dir poco, spietata. Cremona si pose in immediata e diretta concorrenza con Brescia ove, già nel

Mans. A dire il vero, proprio negli anni immediatamente successivi alla fine del conflitto si era registrato un quasi completo disinteresse verso gli sport del motore (si disputavano in pratica due sole gare di importanza veramente mondiale: la 500 Miglia di Indianapolis e la Coppa Florio a Brescia): le fabbriche si dibattevano ancora tra mille problemi e condizioni economiche precarie. Durante i cinque anni di guerra, avevano dovuto mutare completamente la loro produzione in quanto cannoni, aerei, mitragliatrici e munizioni erano risultati ben più necessari e remunerativi delle vetture, soprattutto da competizio-

nomica si stabilizzava in tutto il mondo, riapparvero le prime formule da corsa e si diede inizio alla produzione di motori a cilindrata frazionata già capaci di regimi di rotazione di 7mila-8mila giri mentre il compressore diveniva d'utilizzo ormai generale. Periodo fecondo, in Italia, in cui nascevano le magnifiche Fiat 804 ed 805: epoca di gloria in tutta Europa, però, anche per le azzurre Bugatti, per le potentissime Alfa Romeo Pl e P2, per le innovative Benz a motore posteriore e le prime Voisin prive di valvole. Tutte le nuove vetture s'erano date appuntamento, il primo ufficiale, nel mese di giugno a Strasburgo in

Tazio Nuvolari sulla Bugatti

'22, sulla spinta del successo registrato da anni dalla Coppa Florio, si era disputato il primo «Gran Premio d'Italia»; in concorrenza pure con Monza che stava inaugurando l'avveniristico autodromo studiato per le alte velocità che era giudicato secondo, in Europa, solo a Le

ne. Affrontavano ora la necessità di doversi nuovamente occupare d'altri settori e ciò ne condizionava le capacità produttive, specie quando si voleva guardare alla progettazione di poco vendibili modelli da corsa. A partire dal '22, però, mentre la situazione eco-

occasione di quello che sarebbe poi divenuto il Grand Prix di Francia (lo vinse Nazzaro su Fiat 804). Più tardi, a settembre, si sarebbe inaugurato l'Autodromo di Monza il quale era destinato ad accogliere, già nel '23, il primo Gran Premio d'Italia.


28 Da par suo, Cremona aveva continuato ad affacciarsi alla ribalta motoristica, se pur di riflesso, anche negli anni precedenti: aveva contribuito alla organizzazione della Coppa Florio (si disputava sul percorso Brescia Cremona-MantovaBrescia), e, appena prima del conflitto, aveva allestito il circuito motociclistico su quel triangolo Cremona-PalvaretoPiadena-Cremona che, una volta aperto anche alle auto, sarebbe, tra lo stupore di molti, risultato il circuito stradale più veloce del mondo. La prima esperienza nel campo motoristico, da parte naturalmente del1'Unione Sportiva Cremonese su quel tracciato, aveva avuto il battesimo ufficiale alla data del 10 maggio del 1912 "nelle soavi ore del crepuscolo, mentre il sole calava lento lento intessendo quel tramonto tanto suggestivo sugli ampi magnifici rettilinei che da Cremona portano a s. Antonio e a S. Giovanni in Croce, gli uomini temerari alla follia, quegli stessi uomini che ieri sulle loro agili sbuffanti macchine, strapparono grido di stupore ai presenti allo scopo precipuo di accoppiare il rispettivo nome con quello della casa costruttrice nella vittoria tanto agognata." Per la cronaca, il vincitore, l'inglese Rolawndson che correva su una Rudge, precedette Carlo Maffeis che montava una Moto Rev compiendo i tre giri del percorso in 2h08', a quasi novanta di media! La tradizione motoristica cremonese continuò, dopo la parentesi della guerra, sino a quando la grande passione sportiva portò alla decisione di allestire il Gran Premio e si fecero subito le cose in grande.

Varzi e Nuvolari L'Unione Sportiva Cremonese si lanciò nell'organizzazione di quella che sarebbe dovuta risultare la più grande parata di sport mai vista a Cremona: affidò alla sezione automobilistica l'approntamento della macchina organizzativa del Gran Premio e già ne primi mesi dell'anno iniziarono i lavori e la raccolta di fondi (si calcolò che la cifra necessaria sarebbe stata di almeno 80.000 lire). L'intera provincia fu coinvolta al punto che tutti i comuni attraversati diedero il loro fattivo contributo di uomini e mezzi. Le Ferrovie dello Stato acconsentirono a bloccare per due giorni le linee che transitavano sul circuito, la via Mantova apparve completamente trasformata: sull'area del Foro Boario si ricavarono i box per le vetture e venne costruito un tabellone capace di contenere tempi e risultati relativi al centinaio di concorrenti iscritti alle corse; all'angolo tra via Ghisleri e via Mantova, un sovrappasso in legno consentiva ai pedoni di attraversare la strada anche durante lo

svolgimento della competizione. L'avvenimento fu grande non solo per gli appassionati, ma per tutti gli abitanti della zona attraversata dalla corsa. «Le vetture passano a notevole velocità» si legge su una cronaca dell'epoca che riferisce di prove e preparativi «sullo stradale ininterrottamente annaffiato schizzando i curiosi che impassibili tengono il loro posto, mentre squadre di operai innalzano tribune che ornano di trofei e bandiere. Oltre il passaggio a livello di San Felice auto e moto filano a diaboliche velocità innanzi ad una vera folla che, cronometro alla mano, profetizza medie orarie fantastiche. Le strade sono ottime. Ogni comitato, nei paesi, ha provveduto ad una solerte preparazione. Le curve di Piadena, San Giovanni e Porta Venezia son protette da sacchi di terra». Le operazioni di controllo ad auto e moto si tennero nel pomeriggio di sabato sul piazzale del Foro Boario. Il galà, la sera all'Hotel Roma alla pre-

senza del neosindaco Giulio Mandelli, di Roberto Farinacci e del cronista Lando Ferretti in rappresentanza della Gazzetta dello Sport: il giornale offriva il suo patrocinio alla manifestazione. Anche il governo mandò un suo esponente nella persona del Sottosegretario di Stato Aldo Finzi che arrivò in treno, non con l’aereo di stato come avvenuto di recente. La kermesse durò l'intera giornata: le moto impegnate al mattino; le attesissime vetture (una quindicina) nelle gare pomeridiane. Vinse la corsa più appassionante, quella delle auto, la Fiat 804: pilotata da Masperi, s'era appena imposta a Strasburgo. A suscitare grandi emozioni fu però la vettura di Ramazzotto che sul tratto cronometrato dei 10 km. toccò la folle, incredibile velocità di 161 Km. orari: al momento del computo, risultò record mondiale: un limite mai raggiunto prima in gara, neppure sul rivoluzionario anello di Indianapolis da poco inaugurato negli Stati Uniti.


29

L’alfa P2 guidata a Cremona da Campari L'entusiasmo popolare fu subito alle stelle. Nelle moto, invece, si imposero Mariani (su Garelli nelle 350 cc.) con Achille Varzi al terzo posto, Malvisi (su Borgo nelle 500 cc.) Robbio (su Scott nelle 750 cc.) e infine Cantarini (su Harley Davidson nelle 1000 cc.). Migliaia di persone, incuranti della polvere sollevata dal passaggio delle auto sullo sterrato e degli spruzzi di fango nei tratti in cui si era provveduto a bagnare la strada (negli abitati, naturalmente), del sole a picco e della stanchezza, si assieparono lungo la strada. Fu un successo tale che, già nella stessa serata, si cominciò a pensare a quell'edizione dell'anno seguente che, infatti, sarebbe risultata di un tale livello, tecnico e spettacolare, da far impallidire, al confronto, tutte le corse dell'epoca. Ben al di là di ogni barriera preventivamente stimata. Il grande evento, destinato a rimanere indelebile nella storia dell'automobilismo sportivo, fu proprio il Gran Premio del '24, perfettamente allestito sulle ali dell'eclatante successo dell'anno precedente.

Attirò a Cremona per due intere giornate (le moto gareggiarono di domenica, mentre alle auto fu riservato il lunedì) il meglio del motorismo europeo nonostante si lamentasse un certo iniziale boicottaggio della stampa nazionale la quale puntava invece sull'Autodromo di Monza come sede ideale per le gare automobilistiche. Si cercò addirittura di mettere in dubbio la valenza tecnica del percorso che venne prolungato, per le auto, a cinque giri (poco più di 300 chilometri). Si lanciò una raccolta di fondi che portò ad in cassare circa 110.000 lire a fronte delle 150.000 stimate necessarie e fioccarono comunque le iscrizioni di tutte le vetture di maggior prestigio. L'Alfa Romeo profittò dell'occasione per collaudare il suo nuovo modello, la P2, che risultò immediatamente la più prestigiosa e innovativa tra quelle prodotte dalla casa milanese grazie al motore da otto cilindri sovralimentato. Andava a sostituire la P1, praticamente abbandonata in fase ancora sperimentale: la si diceva già capace dei 200 all'ora ma, dopo l'infausto collaudo di

Monza costato la vita al pilota Sivocci, era stata completamente trascurata. La P2, a Cremona, venne affidata a due personaggi che più di chiunque altro hanno fatto la storia del-

Mancava la Fiat: «A Cremona» si giustificava il dt della casa torinese «o ci si viene con macchine da duecento all'ora, o si sta a casa». Ed ebbe pienamente ragione perché in quel giorno accadde quanto di più spettacoloso l'automobilismo sportivo mai avesse goduto. Peccato che la stagione poco propizia (era nel pieno la raccolta del baco da seta che allora costituiva uno dei momenti essenziali della vita contadina) e la giornata lavorativa non abbiano, alla fine, consentito quell'afflusso di folla che ci si aspettava e che aveva invece onorato l'avvenimento motociclistico della domenica. Antonio Ascari azzeccò una partenza felice, lanciò immediatamente la sua Alfa al comando, braccato

Campari, acclamato pilota dell’Alfa P2

l'automobilismo sportivo italiano, Antonio Ascari ed Enzo Ferrari: quanto di meglio si potesse trovare in quel momento in fatto di conduttori. Li insidiava il solo Alfieri Maserati a bordo della Diatto.

solo nei primi chilometri dalle altre 27 vetture schieratesi al via. Poi, la stratosferica velocità che la P2 riusciva a produrre, gli permise di tenere indisturbato la testa per tutta la gara.


30 Percorse i cinque giri ad una media che sarebbe giudicata pazzesca anche per i giorni nostri e sulle strade asfaltate di oggi: 158 Km. orari; sul tratto cronometrato dei 10 Km., toccò addirittura i 196, «un record mondiale che non era stato neppur concepito come cosa realizzabile», ma fu purtroppo una delle ultime vittorie del pilota milanese che qualche mese più tardi sarebbe andato a schiantarsi sul circuito di Montlhery. Non fu il solo grande protagonista del giorno: accanto a lui si pose un altrettanto grandissimo Tazio Nuvolari che già la domenica, in sella ad una Norton 500, aveva girato per 342 Km. alla media dei 118 orari. In auto, gareggiando in

Cremona sportiva: Ottorino Barassi, futuro presidente della Federazione Italiana Gioco Calcio e dell'Uefa era amico da sempre dello sport grigiorosso, soprattutto della Cremonese sin dai tempi in cui, da ragazzo, trasferitosi a Cremona, aveva orgogliosamente vestito la maglia numero nove dell'Unitas, una squadretta di calcio che era stata fondata da Lelio Mancini nel 1914. «Contro i 144 Km. orari del G.P. di Monza. stanno i 158 di Ascari per le 200 miglia» annotava Barassi «L’anno precedente Ramazzotto aveva sbalordito tutti con la Chiribiri sulla base cronometrata dei 10 Km. toccando i 161. Quest’anno Ascari ha toccato i 158. Come ci sentia-

dato. ma noi che abbiamo già visto come hanno maltrattato il colossale successo della giornata dei centauri non ci meravigliamo di non vedere valutata appieno, come giustamente merita, la nostra riuscitissima manifestazione». Ascari dichiarò che «Il circuito di Cremona è l’unico degno di ospitare Gran Premi. Se ci fosse stata più lotta si sarebbero passati i 200. In alcuni tratti ho passato i 210». Concludeva Ottorino Barassi: «Il nome di Cremona , coi limiti eccelsi gloriosamente raggiunti oggi, vola al di fuori dei confini dell’Italia e dell’Europa». Purtroppo, però, quella gloriosa impennata della città intera non ebbe seguito immediato: l’anno

1929. La partenza in via Mantova del Circuito di Cremona formula 1500, stabilì il giro più veloce ad una andatura di poco inferiore a quella di Ascari prima d'esser costretto al ritiro. Anche il quotidiano locale fece del suo meglio affidando il commento, per l'occasione, ad un giovane giornalista emergente che, proprio da quel momento si sarebbe indissolubilmente legato alle sorti di

mo di gridare tutta la nostra commiserazione per quei denigratori di ogni prova che non si svolge sotto il loro controllo economico, così oggi hanno dovuto trangugiare il rospo della clamorosa nostra affermazione e cercheranno di rendere la pillola meno amara cercando di esaltare lo sport per la formidabile prova che ha

successivo Cremona rinunciò al suo Gran Premio a causa, si disse, delle interruzioni stradali dovute ai lavori di bonifica del Navarolo su cui si stava costruendo il ponte, ma molto probabilmente per problemi economici. La concorrenza. infatti era esplosa immediatamente, i costi moltiplicati a dismisura e le possibilità di

riportare i grossi bolidi a Cremona, su di un circuito stradale, sembrarono tramontate per sempre. Cremona e la sua gara parevano precipitate nell’oblio anche se il fantastico record di Ascari restava a caratteri indelebili sull’Albo d’Oro dell’automobilismo mondiale e solamente sul nuovo impianto di Indianapolis, avvolto già nella leggenda, si andavano registrando punte di velocita e medie orarie vicine a quelle stabilite a Cremona dallo scomparso pilota milanese. Solo qualche anno più tardi, nel 1928, l’idea di ripristinare la grande giornata motoristica venne a due soci del locale Automobile Club, Mario Gerevini e Camillo Biazzi Vergani: appassionati di corse e infaticabili organizzatori, si trovarono però immediatamente al cospetto di insormontabili difficoltà non solo di ordine economico, ma organizzativo e logistico. L’allestimento richiedeva la mobilitazione di un esercito di addetti al circuito che misurava circa 63 Km: l’intento era anche di assicurare, a chiunque giungesse da fuori, la possibilità di sistemarsi lungo la strada con la massima facilità. Si dovevano poi salvaguardare le colture vicine alla strada e cautelare la sicurezza non solo dei piloti, ma di migliaia di spettatori; bisognava infine sistemare alcuni tratti stradali e inoltre convincere la case automobilistiche a schierare le macchine e i piloti migliori. Era necessario. in sostanza. superare la concorrenza di circuiti come Monza e Spa, come Lione e Strasburgo che avevano dalla loro il vantaggio di tracciati molto più brevi sui quali le spese erano, proprio per questo, dimezzate.


31 A dare una mano intervenne immediatamente la passione sportiva, soprattutto per i motori, di Roberto Farinacci: interessò direttamente Mussolini, il quale ne fu entusiasta: la gara prese enfaticamente la denominazione di «Coppa del Duce». Tanto bastò perché le sovvenzioni economiche arrivassero. Come per incanto, cessò ll’ostracismo della stampa nazionale che aveva invece caratterizzato le edizioni precedenti a favore di Monza e del suo avveniristico autodromo. La ricca dotazione di premi non faticò a convincere i grandi a schierarsi davanti allo starter in via Mantova. Alcune migliaia di addetti al servizio furono mobilitati, il percorso migliorato: si rifece il raggio della curva di Sant'Antonio portandola al tracciato attuale, si raddrizzò il tratto adiacente al «Cantone dei Digiuni», fu risistemato il piazzale del Foro Boario. L'Alfa Romeo, con la fantastica P2, iscrisse subito Campari, il suo pilota migliore, con l'intento di difendere il record ormai vetusto, ma ancora imbattuto del compianto Antonio Ascari. Risposero all'appello anche Bugatti, Talbot e la rampante Maserati coi suoi primi modelli. Tazio Nuvolari, alla guida della splendida macchina del costruttore italiano di Moshelm, pareva il più accreditato a metter nei guai la P2: il suo stile, focoso e capace di trascinare all'entusiasmo, gli avrebbe portato i favori del pubblico con tutta la provincia mantovana che sarebbe venuta ad applaudire lui e l'on. Arrivabene, parlamentare e pilota di un certo valore, pure a bordo di una Bugatti.

La Talbot si affidava allo sfortunato Materassi che un paio di mesi più tardi, a Monza, avrebbe perduto la vita insieme a quella di 27 spettatori in una delle più tragiche giornate dell'automobilismo italiano: pure lui si annunciava in grande condizione. Il pronostico sembrava restringersi a quei tre nomi, ma non mancava il tifo di parte per il cremonese Anselmi alla guida di una Talbot da un litro e mezzo, per l'altro concittadino Facchetti alle prese con una Chiribiri vecchia di qualche stagione e per Aymo Maggi, gentleman bresciano su di una specialissima e sperimentale

della grande battaglia che si sarebbe scatenata suI circuito. Il caldo asfissiante fece intuire un conflitto di pneumatici oltre che di motori e piloti e Campari, il più penalizzato di tutti a causa del maggior peso della sua vettura, fu il primo a non nascondere queste preoccupazioni. Febbrili furono le operazioni di verifica dei commissari durante tutta la mattinata e quando, alle 14,30 sfilarono innanzi alle tribune le autorità Starace e (Martelli, Farinacci in testa a tutti) si calcolò che oltre 100mila spettatori già fossero assiepati lungo il circuito: parecchi provenienti dal-

Sfilarono i trenta partenti prima di portarsi all'altezza di Gadesco ove era fissata la partenza e mentre, alle 15 in punto, Farinacci si preparava ad assolvere alle funzioni di starter insieme alla baronessa D'Avanzo, un lieve incidente alla Talbot di Arcangeli, tamponato da un'auto di servizio, costrinse il pilota romagnolo a tornare al box per sostituire una ruota posteriore. Lieve ritardo, quindi, ma partenza regolarissima e spettacolare col solo Arcangeli, ancora penalizzato da una marcia che non voleva entrare, costretto ad inseguire. Dieci minuti più tardi, par-

Il manifesto del GP di Cremona del 1924 vettura da 1700 cc pure della casa francese. Proprio all'ultimo istante, a sovvertire ogni previsione della vigilia, giunse la massiccia iscrizione ufficiale delle alsaziane: la Bugatti schierò ben dodici vetture e c'erano conduttori del calibro di Achille Varzi, Saccomanni e Fagioli a far da contraltare ai favoriti della prima ora. Già nella giornata di prove s'avvertirono le avvisaglie

l'estero, qualcuno persino dalla Sicilia. La tribuna di Via Mantova presentava un colpo d'occhio fantasmagorico di colori: vi spiccava, in divisa di gala, il gruppo degli schermidori olimpionici che in mattinata, in Palazzo Ugolani Dati, avevano terminato le selezioni per l'Olimpiade di Amsterdam e si apprestavano a salire suI treno che li avrebbe portati in Olanda.

tenza altrettanto appassionante per le vetture meno potenti, quelle da un litro e mezzo. Il primo passaggio davanti alle tribune (a 7 Km. dalla partenza) si preannuncia con un rombo terrificante di motori: Campari fu subito avanti una decina di metri a Varzi, Nuvolari e Bona. Arcangeli, in recupero straordinario, li tallonava a non più di 100 metri insieme a Saccomani e Alvera.


32 Nel secondo gruppo, la Talbot di Materassi distanziava già tutte le vetture della sua classe. L'impressione fu subito che i primi record stessero per crollare e infatti il tempo di Campari suI giro fu di 21'33" (contro i 23'17" del povero Ascari quattro anni prima) alla media di 175,700. Arcangeli stazionava in seconda posizione davanti a Nuvolari, Saccomani ed Alvera, tutti in difficoltà a tenere quel ritmo forsennato. Indescrivibile fu per contro la prova di Materassi che perdeva pochissimo dalle vetture della classe superiore. Prima sorpresa al secondo dei cinque giri: ci si attendeva Campari in testa, ma apparve invece, tra lo stupore generale, uno scatenato Arcangeli braccato da Nuvolari, Saccomani e addirittura Materassi. Gli altri tagliati fuori: Campari, il «negher», era fermo a San Lorenzo Picenardi per il primo cambio di gomme (tre minuti e mezzo soltanto per la sostituzione, un record anche questo!): la sua fiammante P2 transita da Cremona con un quarto d'ora di ritardo, ma a velocità pazzesca e quando venne annunciato il tempo sul tratto cronometrato dei 10 Km, si ebbe subito la sensazione di aver assistito ad un evento fuor del comune. Campari, sentendo di non poter più vincere la 200 miglia, aveva voluto congedarsi con una grande prestazione sulla breve distanza: 2'45"1/5 alla media di 217,654. Nessuna vettura era mai andata a tale pazzesca velocità su di un circuito stradale: il record di Ascari era polverizzato, ma restava in casa Alfa e questo era il miglior omaggio alla memoria del grande pilota scomparso.

Maserati al volante

La corsa a quel punto aveva ancora poche emozioni da offrire: Arcangeli badava solo a conservare la propria posizione di leader incontrastato e Nuvolari, pur recuperando qualcosa, a non perdere la posizione d'onore. Restavano in lizza, oltre a loro, i soli Materassi e Saccomani, mentre Campari girava solo per raccogliere gli applausi di una folIa entusiasta. Motori e pneumatici di tutti gli altri avevano ormai ceduto alle sollecitazioni di un caldo africano e di una velocità inusitata per i mezzi del tempo. Arcangeli, acclamato da una folIa immensa, si portò a casa le 50mila lire che costituivano il premio per la vittoria più le 20mila per aver battuto il primato delle 200 Miglia alla media di 163,037. Emilio Materassi coglieva onori e primati per la classe 1500 cc. mentre in città già la gente cominciava a far previsioni e progetti fantastici per l'anno seguente. L'esultanza degli sportivi,

l'enfasi di tutta la stampa nazionale, le favorevoli impressioni dei protagonisti furono di fatto la molla capace di far scattare il proposito grandioso del 1929 con la certezza che case automobilistiche e piloti si sarebbero presentati ancor più motivati a questa edizione. Luigi Arcangeli, soddisfatto ed esultante, fu esplicito: «Stampate ben in grande» disse ai giornalisti presenti «che il circuito di Cremona è il migliore che io abbia conosciuto in campo europeo; non ho mai trovato tanto entusiasmo, tanto perfetta organizzazione, ben superiore a quella del Tourist Trophy, che è ritenuta per la migliore del mondo: una pista, infine, cosi perfetta che permette ai motori di dare una prova decisiva sul loro rendimento. Sono lieto di aver vinto il trofeo del mio Duce e andate pure orgogliosi di questo circuito che non ha eguali in tutto il mondo». Tazio Nuvolari cercò di mettere in dubbio il successo di Arcangeli sporgendo reclamo, se pure in

ritardo (e per questo non venne accolto): riteneva che la Talbot, portata al successo tra l'altro dalla buona tenuta delle gomme Dunlop, godesse di una cilindrata nettamente superiore ai 2000 cc. A reclamo respinto, la verifica venne effettuata ugualmente, voluta proprio dal romagnolo: la cilindrata risultò addirittura di 1502,96 cc. quindi perfettamente in regola. Il pilota mantovano fu comunque esplicito sulla superiorità della vettura di Campari ed entusiasta del circuito: «Non si poteva competere con Campari perché l'Alfa P2 è insuperabile in rendimento. Avevo fatto la corsa su Campari: quando lo vidi fermo per le gomme rallentai non prevedendo il fulmineo attacco di Arcangeli. Quando decisi l’attacco al romagnolo era ormai un po' tardi e badai a difendermi da Materassi per non perdere anche il secondo posto assoluto. Circuito comunque insuperabile e ben severo per qualunque motore; organizzazione perfetta».


33 Lo sfortunato Emilio Materassi, che non poteva prevedere quanto gli sarebbe accaduto qualche settimana più tardi a Monza: «Non credevo francamente al Circuito di Cremona: oggi devo ricredermi e dichiarare senza riserve che e il migliore e più perfetto che abbia conosciuto nella mia non breve carriera di pilota. Mi ha impressionato la perfetta organizzazione che deve essere citata ad esempio. Ho vinto per la superiorità del mio mezzo che mi ha permesso di precedere avversari di categoria superiore. Cremona conta una pista che troppo attrae per la sua importanza e splendore in campo internazionale. Potete sin d’ora ritenermi sicuro partente nelle prossime edizioni». Campari, neoprimatista mondiale dei 10 Km: «Le gomme! Ecco il mio più temibile avversario! E’ avvenuto quel che prevedevo: le mie gomme dopo i 210 orari mi hanno tradito. Il record sui 10 Km, comunque, ha assicurato all’Alfa un exploit difficilmente vulnerabile. Quando ho capito di non poter competere sulle 200 Miglia ho dato tutto nel secondo giro per cogliere questo record clamoroso. Ho abbordato la curva di S. Antonio a 140 l'ora e lo striscione d 'inizio ad oltre 190. A Gadesco sono passato a 228, ma in qualche tratto ho superato i 230». Con queste premesse si andò al successo trionfale del settembre 1929, grazie ad un'organizzazione ormai ricca di esperienza e ad una consolidata fama del circuito. Fu ancora un'edizione esaltante, densa di primati ed emozioni, purtroppo l'ultima. «La sagra cremonese della velocità» come l'aveva definita Lando Ferretti sulle colonne de

«La Gazzetta dello Sport» ebbe allora i suoi contorni in un delirio di folla, forti emozioni, entusiasmo indescrivibile. Cremona assicurò alle sue strade il nuovo record del mondo ufficiale offrendo allo sport italiano il primato assoluto di velocità sulle classiche distanze dei 10 Km e delle 200 miglia e quelli internazionali per vetture da 2.000 e 3.000 di cilindrata: un successo completo di uomini, di macchine, di organizzazione stavolta completamente italiani. Il costo dell'intero Grand Prix era salito vertiginosamente e si calcolò in oltre 300mila lire, nonostante i premi promessi ai piloti non apparissero certo esorbitanti, ma era tale la fama acquisita in breve dal circuito, che la partecipazione fu subito massiccia, soprattutto da parte di quelle case italiane che avevano snobbato l’edizione precedente ed avevano capito di aver commesso un grosso errore dal punto di vista commerciale e propagandistico. L’Alfa portò i suoi due gioielli Achille Varzi e Gastone Brilli Peri; la Maserati schierò quattro vetture con Borzacchini, Nenzioni, Zanelli ed il sesto rampollo di famiglia, Ernesto; Arcangeli e Nuvolari, dopo le polemiche dell’anno precedente, erano ora compagni di squadra sulle Talbot; presente pure la Mercedes con due vetture ufficiali affidate a Malcoll e Calfish; e ancora le Bugatti con uno squadro-

ne: Biondetti, Campari, Allovati, G. Nenzioni e Foresti i piloti. Arriv6 pure la Salmson con Del Vecchio, Serorio, Clerici e Premoli. II circuito cremonese era il più adatto ad esaltare la potenza, ma soprattutto la resistenza all’alta velocità dei motori e delle gomme, il coraggio e l'audace abilita dei piloti. Per questo continuò ad esercitare il suo indescrivibile fascino suI mondo dei motori anche al di là dei giudizi di alcuna parte della stampa e delle valenze effettive del percorso: era divenuto un rito della velocità e sapeva offrire non solo al pilota, ma all'e-

La giornata di sabato venne dedicata alle prove sui 10 chilometri: il rettilineo prescelto era quel nastro abbacinante di strada che si snodava tra Cremona e la parabolica di S. Antonio: andava percorso nei due sensi e la somma dei tempi avrebbe dato la velocità media del primato. Ai concorrenti era permesso un lancio di ben quattro chilometri prima di tagliare il nastro di partenza. I cronometristi, l'ing. Bonfanti in testa, ebbero un compito improbo (non esistevano i cronometraggi elettronici di oggi) ma assicurarono un anda-

Nuvolari a Porta Venezia

sperto, all'appassionato, allo spettatore, l’ebbrezza ineguagliabile dei 250 all’ora. Sino a quel fatidico 29 settembre 1929 tutte le tabelle internazionali dei record portavano nomi quasi esclusivamente stranieri, piloti e macchine estere, ma l’alba del 30 vide I’Italia dei motori, proprio grazie alle strade della provincia di Cremona, riguadagnare di prepotenza il ruolo ed il riconoscimento che di diritto le competeva.

mento perfetto alIa gara: tabelle e prontuari permettevano di comunicare al pubblico con immediatezza i tempi. le medie orarie e le classifiche di ogni concorrente. L'eroe di quello storico pomeriggio fu il ternano Borzacchini: spinse il suo 16 cilindri Maserati alIa media sbalorditiva di 246.069 (2.26'.30 il tempo medio sui 10 Km) il che significava aver toccato in qualche punto i 250, pressoché impensabili solo un anno prima.


34 Primo risultato: record mondiale assoluto sbriciolato, incenerito. Ma non fu il solo tempo da primato perché qualche minuto più tardi scesero in campo le Alfa di Brilli Peri e Achille Varzi. Le tabelle internazionali portavano ancora, per le categorie di 2.000 e 3.000 di cilindrata i tempi di Eyston e Kaye Don, di poco superiori ai 200 orari (la Federazione internazionale non aveva ufficialmente omologato il primato cremonese di Campari perché ottenuto su un solo tratto di percorso anziché nei due sensi). Le due Alfa da record erano praticamente identiche: solo che quella di Brilli Peri, coi cilindri alesati, vantava una cilindrata leggermente superiore. Anche i loro tempi furono vicinissimi, ma nettamente inferiori a quelli di Eyston e Kaye Don. Varzi volò alIa media di 222.910 (record mondiale per i 2.000 cc.) e Brilli Peri a 223,345 (record per i 3.000 cc.). Al tramonto della prima giornata di prove, dunque, già erano crollati primati mondiali, stavolta ufficiali (la Federazione li avrebbe convalidati qualche mese più tardi) per le vetture da due, tre, quattro litri oltre a quello assoluto. Fu solo l'antipasto alla gara spettacolare della domenica. Bivacchi e banchetti improvvisati lungo i rettifili, si protrassero per tutta la notte; processioni di folla festante si videro lungo tutto il percorso e una sfilata di personalità altolocate dinanzi alle tribune di Via Mantova offri uno spettacolo nello spettacolo. A Sua Altezza Reale il Duca di Bergamo fu riservato l'onore di abbassare la bandierina dando il là al fascinoso duello tra Varzi e Brilli Peri: il pilota di Galliate era già uno dei

beniamini del pubblico cremonese che ne aveva seguito la carriera sin dai giorni in cui, campione delle due ruote, aveva gareggiato da protagonista sullo stesso percorso nell'edizione del 1923; Brilli Peri, nobiluomo

circuito, aveva battuto il compagno di scuderia solo a Tripoli (lo stesso circuito che l'anno dopo gli sarebbe stato tragicamente fatale). Apparve a Cremona il martedì precedente la gara per studiare di nascosto il per-

Gastone Brilli Peri, vincitore dell’ultimo GP di Cremona toscano, notissimo tanto nei salotti-bene di tutta Italia per via di quell'eloquio coloratissimo che lo distingueva portandolo a gustose imprecazioni, quanto sugli autodromi per le doti di virtuoso del volante, era pilota da spettacolo in ogni gara. Ad armi pari, il loro duello assumeva ora una intensità inarrivabile: era iniziato il 15 settembre a Monza quando Varzi s'era portato a casa lo splendido trofeo del Gran Premio d'Italia facendo poi il bis la domenica successiva, il 22, con quello delle Nazioni sulle due ruote, sempre sulla stessa pista. Brilli Peri puntava a rifarsi in fretta: in tutta la stagione, con le Alfa che stavano dominando su ogni tipo di

corso a puntino e, con sua grande sorpresa, vi trovò Varzi già al lavoro. Snocciolò la sua inimitabile sfilza di “moccoli” pittoreschi e si pose immediatamente in perlustrazione: uscite antelucane per provare la strada quando il traffico ancora lo permetteva e prove continue sulle curve di Piadena e Palvareto (oggi San Giovanni in Croce) caratterizzarono le giornate di lavoro dei due compagniavversari: si spiavano da lontano ma evitavano entrambi di incontrarsi lungo il percorso. Alla partenza, Brilli Peri scattò con prontezza: il primato di Campari sul giro cadde immediatamente: cinquanta metri il suo vantaggio su Varzi dopo i 63 Km della

prima tornata; poco di più al secondo, mentre gli altri si sfilavano perdendo terreno. Il dominio Alfa era incontrastato quando, a partire dal quarto giro, Varzi diede corpo al suo deciso tentativo di rimonta. All'ultimo passaggio di fronte alle tribune di San Sigismondo, il toscano era passato ancora in testa, ma il suo motore rombante denunciava segni di stanchezza: un cenno eloquente del pilota fece comprendere a tutti le sue difficoltà. Quando mancavano sette chilometri soltanto all'arrivo di Gadesco, Varzi, minaccioso ormai, transitò a 18" da lui. Brilli Peri non sollevò più il piede dall'acceleratore e Varzi anche se riuscì a vederlo finalmente davanti a se, non riuscì ad agganciarlo mentre, dietro di loro, Emesto Maserati andava a conquistarsi il terzo posto con uno spettacoloso finale. Il tutto si era consumato in meno di un'ora e tre quarti; la media, incredibile, aveva sfiorato i duecento all'ora. La giornata fu memorabile per lo sport automobilistico italiano, soprattutto per Brilli Peri che, per l'ultima volta nella sua vita, gustava il sapore soave della vittoria e della rivincita. Il pubblico cremonese prese a sfollare con ancora negli occhi la visione di quei bolidi sfreccianti e nei timpani il rombo assordante dei motori, pregustando e presagendo nuovi record e nuove emozioni su quel circuito inimitabile, ma mai pensando per contro, che sarebbe stata proprio l'ultima volta del Grand Prix a Cremona: i costi che si andavano paurosamente moltiplicando, il sorgere di nuovi autodromi, il venir meno delle sovvenzioni frenarono gli entusiasmi. Cremona, che era stata un'antesignana, perse per sempre il suo Grand Prix.



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Campioni olimpici nostrani Egidio Armelloni, un fuoriclasse targato Soresina, campione mondiale Nonno Egidio era, fino a qualche anno fa, un arzillo novantenne che nella sua abitazione, una vetusta casa di ringhiera ove ancora si affollano i ricordi della vecchia Milano degli anni Venti, conservava i ricordi sportivi di una vita passata tra anelli, cavalli con maniglie e parallele, gli attrezzi che sono grazie e dolori di ogni ginnasta, ma anche ricordi di una vita vissuta gagliardamente, sempre in difesa delle proprie idee, sempre battagliando contro tutto e tutti, contro le ingiustizie del mondo, forse anche contro se stesso. Egidio Armelloni si muoveva ancora con sicurezza e agilità insospettabili e raccontava di avere oggi un solo grande rimpianto, anche se ha sempre cercato di non lasciarlo mai trasparire: l'Olimpiade di Los Angeles, quella del 1932, oltre settant'anni fa. La chiamarono «Olimpiade degli Italiani» perché mai, come in quell'occasione, gli azzurri avevano raggiunto una cosi alta quotazione classificandosi, per numero di medaglie (dodici), immediatamente alle spalle degli americani, fortissimi padroni di casa. Se non si toccarono i tredici ori guadagnati ad Anversa otto anni prima, infatti, ci furono pure dodici argenti e undici bronzi a dar corpo ad una spedizione che, per numero di partecipanti, era stata nettamente inferiore alle precedenti e aveva affrontato un lotto di avversari ben più agguerrito e copioso. Fattore decisivo all'ottenimento di quei risultati strepitosi fu, con molta probabilità, il clima

derivato dalla nuova mentalità indotta dal governo fascista che era quella di considerare ogni vittoria sportiva come simbolo e glorificazione della bandiera e dell'onore nazionale, strumento di prestigio per cui si attuava una vera e propria esaltazione, da parte di tutti gli enti politici, in favore dello sport. Probabilmente proprio quella mentalità, per assur-

vita” insomma. Egidio Armelloni, nato a Soresina nel 1909, è' stato uno degli allievi seguiti e coccolati da Giuseppe Mazzolari, maestro di vita e di sport e poliedrico creatore di talenti atletici come nessun altro in provincia di Cremona e in quel mese di luglio del 1932 già era considerato il ginnasta più forte dell'intera compagine azzurra.

Egidio Armelloni do, impedì che al numero delle medaglie italiane se ne aggiungesse qualcun'altra che era alla portata proprio di Armelloni: «probabilmente» solo perché, nella storia dello sport, ci sono molti campioni che mai sapremo dove avrebbero potuto arrivare se fattori esterni non avessero tarpato loro le ali impedendogli di esprimersi nella gara più importante della carriera, nel periodo del loro miglior rendimento e nel momento agonistico propizio, nella “gara della

Quando, però, il «Conte Biancamano» salpò da Napoli portandosi via i centodue atleti della pattuglia tricolore, l'Egidio non era imbarcato: pur essendo una delle colonne portante della squadra di ginnastica che faceva leva quasi esclusivamente sugli atleti della gloriosa Pro Patria, la sua società che avrebbe mietuto allori in America ripetendo i fasti di Anversa, Egidio rimase a casa. A bloccarlo in patria era stato proprio quel fascismo con la cui mentalità si era

immediatamente scontrato. Lui, uomo tutto d'un pezzo, senza mezzi termini, non aveva accettato compromesso alcuno: era anzi finito nel carcere di Gaeta con la grave, infamante accusa di antifascismo. A Los Angeles i suoi compagni di colori dominarono la competizione olimpica strappando l'oro nel concorso a squadre. Erano Neri, Guglielmetti, Lertora, Capuzzo ed il grande Corrias. Neri, addirittura, si portò a casa tre medaglie d'oro (individuale, parallele e concorso a squadre); Guglielmetti fu primo anche nel volteggio al cavallo mentre alle parallele, la specialità preferita dal soresinese, in cui stava una spanna sopra tutti, vennero anche il bronzo di Lattuada, il quinto posto di Capuzzo, il sesto di Tognini. Armelloni lesse i risultati dell'Olimpiade sulla «Gazzetta»: era il migliore di tutti e di gran lunga, ma dopo il servizio militare aveva dovuto scontare due anni di galera e, dopo l'amnistia, altrettanti ancora di liberta vigilata. A dire il vero, a Los Angeles avrebbe forse potuto andare: in fin dei conti, era libero da qualche mese, dal 20 ottobre del '31, quando, in occasione del decennale della Marcia su Roma, gli era stata concessa l'amnistia ed era tornato in palestra riprendendo in pieno la sua attività di ginnasta: era pure tornato in accettabili condizioni di forma e gli sarebbe bastato firmare una lettera di sottomissione per tornare a vestire la maglia azzurra.


37 Il regime avrebbe chiuso un occhio (e forse due) davanti alla possibilità di ottenere un oro olimpico, ma a lui non riuscì proprio di stare in pace con se stesso e con la propria coscienza tradendo le idee che aveva propugnato e portato avanti da sempre: situazione difficile per uno che faceva dello

minato gli avversari alle Olimpiadi di Anversa, il suo destino sportivo era segnato: gli era rimasto impresso soprattutto quel Mario Corrias che della compagine era il più giovane, un ragazzino ancora, e che in futuro sarebbe diventato suo compagno di squadra, allenatore e maestro.

accordatagli palesando progressi enormi alla sbarra ed agli anelli ed un'insolita propensione al cavallo con maniglie e al corpo libero, ma furono subito le parallele la specialità per la quale sembrava maggiormente tagliato. Ginnasta completo, però: già dopo un paio d'anni era il miglior giovane in

La formazione della Pro Patria. Armelloni è il 5° da sinistra sport, al pari delle sue convinzioni politiche, una ragione di vita. Nonno Egidio, del resto, è sempre stato convinto che mai il passaporto sarebbe stato concesso ad un tipo come lui che, ogniqualvolta un pezzo grosso del regime capitava a Milano, sentiva bussare alla porta. Veniva un poliziotto e l'accompagnava in questura ove l'avrebbero trattenuto sino a quando l'autorità avrebbe lasciato la città. Si era sentito attratto dalla ginnastica sin da ragazzino: lo avevano affascinato, da sempre, le evoluzioni e i salti mortali degli acrobati che si esibivano nei piccoli circhi equestri che ogni tanto capitavano al paese. Quando, nel 1924 a Soresina, potè assistere ad una esibizione dei ginnasti azzurri che pochi giorni prima avevano sgo-

Il giorno seguente, infatti, era già a disposizione del maestro Mazzolari che gli fornì i primi rudimenti della preparazione fisica, ma siccome alla sua corte si prediligeva soprattutto l'atletica leggera, Egidio decise di trasferirsi a Biella ove gli avevano offerto un posto di lavoro come garzone di drogheria e dove sperava di poter frequentare una buona palestra. Ma anche se nella cittadina piemontese le sue speranze andarono deluse, non mollò: l'entusiasmo dei suoi sedici anni lo indusse a cambiare, e si ritrovò più tardi a fare il meccanico in una fabbrica di macchine per caffè di Milano, e contemporaneamente il ginnasta alla Pro Patria. Era il massimo per un ragazzino precoce ed affamato di sport. Ripagò immediatamente la fiducia

società e lo dimostrava conquistando il titolo di campione lombardo junior. Nel '29, quando la Pro Patria decise di inserirlo in prima squadra, sbaragliò subito il campo classificandosi, ai campionati di società, primo tra i non olimpionici, quinto in assoluto. Non la spuntò nella conquista del titolo tricolore (e mai vi sarebbe riuscito in tutta la sua lunghissima carriera agonistica, neppure nel ‘38 quando i campionati svolsero a Cremona, nella palestra di Via Massarotti e avrebbe dato chissà cosa per vincere davanti ad un pubblico che lo acclamava) solo perché sistematicamente rifiutava di iniziare l'esercizio col saluto romano, come era obbligatorio: ciò lo penalizzava ogni volta di mezzo punto, un vantaggio troppo grosso che

volutamente concedeva ad avversari che, tra l'altro erano i migliori ginnasti del mondo. Nel concorso a squadre, invece, per non penalizzare i compagni, ricorreva ad un piccolo stratagemma: salutava appoggiando il braccio sulla spalla del compagno che gli stava davanti: così metteva a tacere anche la propria coscienza. Fu proprio alla fine del '29, mentre si trovava a svolgere il servizio militare, che venne arrestato con l'accusa di aver fatto propaganda comunista in caserma: fini a Gaeta. Condanna dura, a sei anni, ma la accettò con la serenità di chi è pienamente convinto della giustezza delle proprie idee (del resto ereditate dal padre), addirittura onorato e deciso a difenderle fino in fondo, a qualunque costo. Savino Guglielmetti, vincitore leggendario di due ori a Los Angeles (volteggio al cavallo e concorso a squadre) era l'unico amico rimasto accanto all'antico campione dopo tanti anni e tante battaglie sportive vissuti insieme. Guglielmetti è sempre stato del parere che l'Egidio, in California, avrebbe fatto molto meglio di lui. «Era più forte di me» ripetè spesso «anche se io ero più freddo. Purtroppo pagava spesso a caro prezzo la sua emotività, ma in quegli anni era proprio lui il più forte di tutti». Alla gioia e all'emozione di un'Olimpiade, però, Armelloni non volle proprio rinunciare e fu allora, quando udì il racconto esaltante delle gesta dei compagni rientrati da Los Angeles, che capì di potersi ancora mettere in discussione per i Giochi di quattro anni dopo a Berlino: era un tarlo che lo rodeva incessantemente, senza respiro.


38 Mario Corrias, che dopo le Olimpiadi era divenuto allenatore alla Pro Patria, lo volle ancora con se e due anni dopo lo fece debuttare in azzurro portandolo ai mondiali di Budapest: fu solo diciannovesimo, ma evidentemente la sua perfetta macchina atletica, provata da quei due anni di galera e da un modo di vivere forzatamente lontano dai dettami che lo sport ad alto livello pretendeva, minata anche da mille vicissitudini esterne, sembrava dare i primi segni di cedimento. Tenne duro comunque. Dopo essere stato estromesso dai mondiali del '35 per le solite ragioni politiche, a Berlino non poterono lasciarlo fuori: c'erano con lui Corrias a far da allenatore, il fido Guglielmetti a difendere i suoi due titoli ed un altro grande della Pro Patria: il bravissimo Fioravanti. Gli azzurri, però, non ripeterono l'oro di Los Angeles: furono soltanto quinti a squadre; Guglielmetti undicesimo nel concorso individuale; Armelloni trentaseiesimo e Fioravanti poco più indietro di lui. Si erano allenati poco e male, e non erano più tanto giovani: la ginnastica italiana, dopo i trionfi di Anversa e Los Angeles, attraversava un difficile periodo di involuzione: mancavano talenti nuovi e si stava ancorati a vetusti sistemi di preparazione che altre nazioni più progredite avevano ormai aborrito stravolgendo il mondo e le gerarchie della ginnastica. I nostri, troppo legati al passato, furono nettamente penalizzati. Si avvicinava il secondo conflitto mondiale: per Armelloni tanti altri giorni difficili si stavano preparando, naturalmente al di fuori del mondo dello sport: l'umiliazione più grossa gli venne proprio dalla sua società, la

Pro Patria, da quella compagine i cui colori aveva portato per quasi vent'anni a prezzo di sacrifici indicibili. La sua amatissima Pro Patria gli fu improvvisamente contro: era il 1944 e due dirigenti del sodalizio si recarono a casa sua ordinandogli di restituire la maglietta: non era più degno, per loro, di farne parte. Fu l'oltraggio peggiore che avesse subito, il colpo più duro non tanto al suo dichiarato antifascismo, quanto alla sua dignità di uomo e di atleta, al suo modo di vivere, alla sua famiglia. Aveva subito la galera ed altre privazioni con la pacatezza di chi conosce i rischi che sta correndo e li accetta, ma quella maglia era stata per lui un emblema, una seconda pelle che s'era tolto di dosso, quasi con rammarico, solo per indossare quella azzurra. L'azione degli odiosi personaggi che avevano violato la sua casa e minato il suo orgoglio lo ferì al cuore più di qualsiasi sconfitta, fortunatamente non tanto da fargli perdere l'amore per la ginnastica e per lo sport sicché, a guerra finita e dopo aver collaborato la sua parte facendo propaganda e tenendo pericolosamente i collegamenti tra Milano ed i partigiani che stavano in montagna, si ritrovò di nuovo in palestra. Non più alla Pro Patria però. Il vecchio gladiatore riacquistò ben presto gli stimoli di un tempo: nessuno come lui sapeva togliersi dopo anni la ruggine dal fisico e a trentanove primavere suonate, a Londra, riapparve in pedana per la sue seconda Olimpiade

L’Olympiastadion che ospitò i giochi di Berlino (senza le vicissitudini sue e quelle provocate dalla guerra che portò all'annullamento di due edizioni dei Giochi, sarebbe stata la quinta, un record assoluto per un ginnasta!). Gli azzurri ebbero ancora bisogno di lui, della sua esperienza, della sua encomiabile tenacia: quell'aitante signore cui spuntava qualche filo argenteo sulle tempie, che da vent'anni faceva l'operaio alla Siemens e ogni sera con la borsa appoggiata sulla canna della bicicletta andava in palestra per passarvi un paio d'ore alle prese con gli attrezzi, fu ancora della partita. Rivestì la maglietta azzurra e la nuova divisa della nazionale, con lo scudetto tricolore sul taschino al posto del fascio e dello stemma sabaudo e non portava più la sgargiante cravatta rossa sulla camicia nera che per anni era stato obbligato ad indossare. Era un signore tranquillo e appagato, quasi in pensione, ma tenacemente aggrappato a quella che era stata la grande passione della sua vita. Strano destino olimpico il suo: s'era presentato a Berlino dopo quasi quattro anni di inattività, a Londra dopo una guerra durata ancor più a lungo e trascorsa nel-

l'angoscia di chi rischia ogni giorno la vita sua e della famiglia. A Los Angeles, poco più che ventenne e nel pieno della vigoria atletica, avrebbe potuto dare il meglio dei suoi anni verdi e di quella sua talentuosa bravura sostenuta da una forza eccezionale: forse sarebbe stato solo l'inizio di una carriera capace di proiettarlo nella storia dello sport, nel novero dei grandissimi della ginnastica mondiale. A Londra, sedici anni più tardi, recava le stimmate del vecchio campione deciso a non mollare mai, a dispetto dell'eta e di ogni avvenimento esterno allo sport. Era provato da tante avventure, ma non domo soprattutto nello spirito. Eppure la sua carriera non finì a Londra ove comunque fu ancora quinto con la squadra: otto anni più tardi, a Genova, scese per l'ultima volta, soddisfatto, dalla pedana. A quarantasette anni suonati (era già nonno!) e con l'entusiasmo immutato di quel ragazzino che per amore della ginnastica era andato a fare il garzone a Biella, aveva guidato la sua nuova società, la Ginnastica Mediolanum, al quarto posto nella classifica del campionato italiano a squadre.


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La boxe sotto il Torrazzo I successi di Pino Facchi, detto «Il Principe», vittorioso anche su Chiari Il traffico scorreva piuttosto lento e caotico nei pressi di Piazzale Cordusio a Milano. Non erano ancora stati installati tutti semafori di oggi. In quei primi anni cinquanta tre-quattro vigili urbani, su quelle enormi piattaforme rotonde al centro degli incroci, bastavano

l’autista incurante di tutto il pandemonio che stava causando, con un balzo felino saltò sulla piattaforma ad abbracciare il “ghisa” esterrefatto. Si fece più tranquillo il clamore dei passanti appena i più vicini riconobbero in Walter Chiari l’estempora-

turno. Chi fosse l’avvenente ragazza al suo fianco, Walter, da gentiluomo, non l’ha mai confessato, o più probabilmente, come sua abitudine, l’ha presto dimenticato, ma il vigile che aveva intravisto da lontano ed immediatamente riconosciuto dopo tanti

aveva convinto Walter, a suon di cazzotti, a lasciare il pugilato per dedicarsi a quel teatro che gli avrebbe assicurato il successo non prima di essersi accorciato quel cognome tanto lungo e ingombrante per una stella dello spettacolo; era la persona cui doveva in

Pippo Zini (al centro) prepara Fanfoni all’incontro a convogliare le auto verso il centro e le diverse arterie cittadine. Quasi mezzogiorno, ora di punta: una spider fiammante s’arrestò di botto proprio davanti ad un vigile letteralmente bloccando il flusso dei veicoli sul piazzale: putiferio indescrivibile, clacson, sirene, urla di automobilisti frettolosi, scampanellio di tram, ma

neo automobilista: in quegli anni, all’attore, i milanesi perdonavano tutto. Qualcuno credette addirittura di assistere alla scena di un film che si stava girando, altri circondarono l'auto per tentare almeno di scorgere la splendida vamp rimasta impassibile sull’auto, magari sperando di scorgervi la Lucia Bosè o la Rita Hayworth di

anni, meritava davvero quel lungo abbraccio e l'ingorgo d'auto che solo mezz'ora più tardi si sarebbe completamente risolto: era Pino Facchi, il «Principe» per gli avversari, «Pinòon» per i tantissimi amici, specie di palestra, di Crema e di Cremona. Era l’antico avversario, ma soprattutto l’amico che una decina d'anni prima

parte, anche se indirettamente, la sua fortuna di attore. Da quel giorno i due si ritrovarono abbastanza spesso, a parlare di donne e di boxe, di anni irrimediabilmente perduti e di mille altre cose, sovente a rivivere quei nove minuti di aspra battaglia che avevano segnato un momento decisivo nella vita di entrambi.


40 S’erano conosciuti al centro di un ring: il 13 aprile del ’42, proprio a Cremona. Quel quadrato era piazzato ai piedi del minuscolo palcoscenico del teatrino del Gruppo Rionale Vittorio Podestà, una sala tetra e fumosa, tra le poche agibili in quegli anni, scenario di mille sfide pugilistiche più che di rappresentazioni teatrali. Furono loro due i protagonisti indiscussi di una notte di pugni in cui già, nell’aria, s'intuiva il sommesso brontolio del cannone della seconda guerra mondiale. Pino Facchi lo avevano soprannominato «Il Principe» per quel suo atteggiamento spavaldo e distaccato, che sul palco cordato pareva porlo ogni volta al di sopra dell'avversario; «Principe del ring», capace di passare attraverso le sfuriate degli avversari senza neppure scomporsi i già radi capelli, di andare a segno, sempre e con precisione millimetrica, con noncuranza, quasi; aveva rivinto il titolo lombardo dei pesi welter un paio di mesi prima a Milano e guardava al campionato italiano che gli era sfuggito di mano l’anno precedente: di un niente, è vero, ma di fronte ad un campione di vaglia come l’indomito fuoriclasse Roberto Proietti. Walter, che indossava la canottiera del Dopolavoro «Isotta Fraschini» di Milano, aveva conquistato lo stesso titolo ma nei leggeri. Aveva all'angolo un maestro di eccezionale abilità: Libero Cecchi; nel frattempo, però, era cresciuto di peso; rendeva anche un paio d’anni d'età e d’esperienza al ventenne cremasco. Match attesissimo in città, match da scintille. Ecco, infatti, come il «Regime Fascista» pre-

sentò il combattimento, clou della serata: «Pino Facchi contro Annichiarico. Il campione lombardo contro la grande speranza. Il milanese è avvantaggiato sensibilmente per la sua superiore statura; dotato di una buona tecnica, si muove con facilità ed eleganza sul ring ed è in possesso di un destro formidabile...». Ma lassù il destro di Walter non trovò un solo

seguenza della iniziale sfuriata del cremasco, ma la sua carriera di pugile si chiuse proprio quella notte a Cremona, allo stato di “grande speranza”. La crisalide non si aprì mai più. Per lui si spalancarono altre strade, un’altra grande carriera. A Cremona, Walter sarebbe riapparso un paio d’anni più tardi, ma in palcoscenico, al Politeama stavolta, per un debutto alla grande nel mondo della

Walter Chiari, piu’ celebre come attore spiraglio: la sua tecnica elegante si andò spegnendo, lentamente quanto inesorabilmente, sotto il pesante bombardamento ai fianchi che il «Principe» portò avanti con calcolata determinazione e con quella certosina precisione che gli veniva da una boxe scarna e priva di fronzoli, essenziale e redditizia, tipica espressione del suo carattere fermo e deciso. Walter fu stoico nel reggere la distanza nonostante un dito fratturato e un paio di costole incrinate, con-

rivista: qualcuno ricorda ancora il suo coraggio al limite dell’incoscienza nel prodursi in una grottesca imitazione di Hitler davanti ad una platea gremita di ufficiali tedeschi (era l’inverno del '44) che, ad un certo punto, e dopo un attimo di generale sbigottimento, sbottarono in un applauso fragoroso quanto liberatorio della tensione che attanagliava lo scarso e preoccupato pubblico italiano presente in sala. Di Cremona, della boxe cremonese in parti-

colare, Walter sarebbe comunque stato amico per sempre, ammiratore e tifoso non solo dell’amico Facchi, ma di Pozzali e Gianluppi, più tardi di Molesini, Facciocchi e soprattutto di Penna cui non mancava mai di andare a far visita ogni volta che uno spettacolo lo portava a Cremona. Campione tra tanti campioni coi quali ha dato vita a decine di sfide, Pino Facchi resta tuttora, a mezzo secolo di distanza e nonostante parecchi siano apparsi sulla scena dopo di lui, il miglior prodotto della boxe cremasca. E se il professionismo non vide brillare la sua stella come il suo valore avrebbe meritato, ciò è dovuto solo al fatto di avere perduto, come del resto era capitato ad altri uomini di punta della nostra boxe (Ermanno Bonetti e Pippo Zini in testa a tutti) gli anni migliori a causa della guerra: costretto a rimanere troppo a lungo in maglietta quando probabilmente avrebbe potuto esprimersi al meglio tra i pugilatori di professione. Già alla fine del '40 i primi successi, davvero eclatanti, lo avevano designato come una delle promesse della boxe nazionale: s’era anche permesso il lusso, un paio di volte, di metter sotto il bresciano Barcellandi, randellatore aggressivo e dal destro poderoso, che tutti cercavano di evitare. In Lombardia, pur giovanissimo, non aveva avversari: aveva dominato i campionati regionali infliggendo perentori k.o. al sestese Conelli e al generoso Lamera, entrambi dell’Oberdan di Milano. Purtroppo ai nazionali di Terni, dopo essersi trionfalmente guadagnato la finale, era incappato nella classe eccelsa di Roberto Proietti.


41 Il romano, portento di tecnica, potenza e furbizia, lo aveva battuto sul filo di lana: ruvida battaglia perché in palio non c’era solo la fascia tricolore, ma l’ambitissima possibilità, per il campione, d’essere aggregato al battaglione olimpico, il che, per uno che presto avrebbe dovuto affrontare il servizio militare, significava rimanere lontano dalle zone di combattimento.

sari, per lo più, di scuola inglese e americana, ma qualcuno anche già professionista di grosso talento. Fra tutti gli italiani, però, il solo Proietti riuscì ancora a superarlo nel corso di una manifestazione a squadre, ma dopo che gli avevano ceduto Borraccia e Milandri, atleti entrambi di grossa caratura. Un’altra sola sconfitta, ma per il rotto

Pippo Zini Arruolato invece in Marina, si ritrovò a Taranto e questo almeno gli permise non solo di mantenersi in allenamento, ma pure di combattere abbastanza spesso nei tornei organizzati tra gli appartenenti alle forze alleate imbarcati sulle molte navi da guerra alla fonda nel porto pugliese. Così, bloccato al sud dopo 1’8 settembre del ’43, disputò e vinse una trentina di incontri: avver-

della cuffia, gli era venuta da Mike Montanino, un professionista di prestigio che un paio d’anni avanti, nel Madison di New York, aveva dato del filo da torcere ad un uomo di talento come Michele Palermo. Negli anni in cui rimase a Taranto ebbe comunque l’occasione di scambiare “impressioni” con gente di sicura quotazione facendo i guanti, e combattendo

oltre che coi dilettanti delle rappresentative dell’esercito e dell’aviazione pure con gente di quotazione mondiale: Andy Gibbons, Larry Cisneros, lo stesso Mike Montanino e parecchi altri. Fu questa un’esperienza che ebbe notevole influsso sul suo stile di combattimento: gli venne meno in modo forse eccessivo l'abitudine a lanciare quei colpi precisi e ficcanti, ma troppo isolati, che ne avevano fatto un modello da imitare; si adeguò invece ad una boxe più vicina a quella americana, fatta di scariche al corpo, scambi accentuati, mobilità di tronco più che di gambe: uno stile che infiammava le platee, ma che, a lungo andare, avrebbe anche rischiato di pesare in modo negativo sul suo rendimento futuro accorciandone la carriera agonistica.Quando finalmente poté rientrare a casa, dopo il 25 aprile, era, in assoluto, il più forte dilettante italiano: classico nell’impostazione, con un diretto sinistro capace di raggiungere il bersaglio come la punta di un fioretto e di aprire la strada ad un destro non potentissimo, ma incisivo e ficcante. Poneva comunque nella difesa aggressiva e nell’anticipo l’arma vincente. Mobile sul tronco, capace di millimetrici spostamenti che portavano spesso fuori misura chi gli stava di fronte, sapeva anche essere un “battant” da spettacolo appena l’avversario si confaceva alle sue doti di spericolato contrista. Un paio di mesi di buona preparazione ed il 23 giugno era sul ring allestito all’Arena Auricchio, di fronte alla Stazione, pochi metri da quei mucchi di macerie che i bombardamenti di due anni prima avevano provocato a Porta Milano e che ancora si mostravano in tutta la loro tragica pre-

senza, ma la voglia di tornare alla normalità era tanta, negli atleti come nel pubblico che fu, infatti, assai numeroso. Quel giorno debuttava tra i professionisti il suo amico Pippo Zini, che lo precedeva sulla strada della boxe a torso nudo. Zini, in verità, era passato professionista qualche tempo prima, ma la sua attività era stata talmente sporadica a causa della guerra, che in pratica quello era il giorno del suo vero esordio. Le loro strade si sarebbero purtroppo incrociate nel momento topico della carriera di entrambi nonostante mancasse assolutamente uno spirito di rivalità agonistica tra loro che si erano allenati tante volte insieme, avevano avuto lo stesso maestro e godevano di un'immensa stima reciproca. Mentre Zini aveva la meglio, al limite dei sei tempi, sul milanese Mola, Facchi si sbarazzava, al primo destro, del malcapitato Graziani e siccome i tifosi apparivano piuttosto delusi da quella scarna esibizione, accettava di affrontare subito dopo, senza nemmeno togliersi i guantoni, il professionista pisano Benini, che gli tenne testa per tre round (anche questo, evidentemente, era possibile in quei tempi di vacche magre, di carenze federali e di abitudini consacrate nel periodo bellico). Due settimane più tardi, nella sua Crema, demolì il generoso bergamasco Contini, iniziando la corsa verso quel titolo italiano dei dilettanti che cinque anni prima, diciassettenne alle prime armi, aveva spudoratamente conteso a Roberto Proietti nella finale dei leggeri. Ora, salito di categoria e ricco ormai di un’invidiabile esperienza di ring, era più che mai determinato: nessuno fu in grado di impensierirlo.


42 Vinse il torneo tricolore di Lucca del 1946 e fu subito chiamato a far parte della squadra azzurra che sosteneva la sua prima trasferta postbellica in Irlanda. Qui perse il primo match contro Hide, ma si rifece immediatamente nei due incontri successivi contro Cantwell e Midglay, entrambi sulla distanza inusuale dei sei tempi di due minuti. Nel ’47, si ripeté ai campionati di Vigevano, appena un quarto d’ora dopo che Valentino Gianluppi s’era a sua volta portato a casa il titolo dei leggeri in una serata memorabile per la boxe cremonese che andava ad insediarsi tra le prime scuole della penisola. Chiuse la carriera dilettantistica il mese successivo con una medaglia di bronzo ai campionati europei di Dublino ove il pubblico, che l’aveva conosciuto un anno prima, lo sosteneva come fosse uno di casa, patendo una certa delusione. Aveva debuttato, in quel primo torneo continentale del dopoguerra, mettendo a tacere il tenacissimo fiammingo Dalmine al termine di un match impregnato di scambi violenti, dai contorni da film del brivido, spigoloso e cruento; poi aveva surclassato con facilità irrisoria il finlandese Ramanen, ma, in semifinale, s’era purtroppo arenato contro uno scoglio insormontabile, un vero fenomeno: il francese Charles Humez, il bombardiere di ferro, che a quel tempo non aveva ancora lasciato il duro lavoro in miniera, ma poi, da professionista, sarebbe passato come un ciclone, per tutti gli anni Cinquanta, sopra le pur valide ambizioni dei migliori pesi medi del continente: fu match da scintille, equilibrato ed emozionante, ma, alla fine, guadagnò la posta la miglior stazza fisica del picchiatore bretone. Facchi aveva ormai venti-

sei anni compiuti e tanta fretta, naturalmente, dato che gli anni migliori se li era mangiati la guerra. Entrò nella scuderia del manager milanese Oddone Piazza, con un certo rincrescimento per non essere arrivato ad indossare i pantaloncini rossoverdi dell'Abc, ma purtroppo aveva firmato il contratto qualche mese prima che questa aprisse anche ai professionisti. Ebbe carriera piuttosto breve, pure molto intensa: pochi, pochissimi incontri, due successi sul bresciano Battaglia, il primo un po’ stentato, il secondo avanti il limite a Cremona, poi su Brisci, Romano, Poletti, e qualche altro. Match attesissimo in città, match da scintille. Subito la possibilità di agguantare il titolo italiano, ma prima un ostacolo, arduo e difficile, di quelli che lasciano il segno nell’animo più che nel fisico, l’incontro che mai avrebbe voluto fare: contro Pippo Zini che la F.P.I. aveva designato semifinalista, con lui, per il titolo detenuto da Michele Palermo. Al match si presentò dopo aver patito una discutibile sconfitta, a Milano, contro l’esperto bergamasco Aldo Minelli, da poco rientrato da una lunga avventura americana vissuta insieme ad Ermanno Bonetti ed al fratello Livio, un’avventura che avrebbe poi concluso in Argentina ove ancora si trova. Un'altra battuta d'arresto era venuta per mano del solito Charles Humez, sul ring di Ginevra, ma, dopo dieci round ancora una volta equilibrati in cui solo la maggior prestanza fisica del bretone, avviato tra l’altro alla categoria superiore, dei medi, era riuscita ad avere la meglio Pippo Zini, da par suo, non era inferiore all'amico se non sul piano della tecnica

Pino Facchi, campione d’Italia pesi welters pura, ma sopperiva con l'ardore agonistico ed una continuità d'azione micidiale: una «machine a puign» lo aveva definito L'Annuaire du Ring, la bibbia francese del pugilato, una macchina da pugni con un solo gravissimo handicap nelle troppo deboli arcate sopraccigliari, un guaio che il suo modo spavaldo di combattere rendeva ancor più grave e al quale non si poteva rimediare chirurgicamente come ha potuto fare qualcuno dei campioni di un passato recente. Si trovarono nel ring la notte del 14 aprile 1948. Il Politeama Verdi venne preso d'assalto dai tifosi delle due parti col patema d'animo del cav. Sacchi, allora proprietario del teatro, che per tutta la durata del combattimento vide le

sue poltrone sobbalzare alle grida di incitamento delle due fazioni. Al «Pippo Pip-po» dei cremonesi faceva eco il «Pi-no Pi-no» dei cremaschi. Tifo incessante: un dramma per entrambi, costretti a battersi con in palio la posta di un’intera vita sportiva. Zini andò all'assalto con la ferocia dei suoi colpi assassini nel tentativo di scardinare le difese avversarie. Facchi subì i primi colpi: fu sofferenza atroce, ma tenne duro; la sua classe limpida e i suoi diretti d’acchito ebbero presto la rivincita sulla prorompente offensiva del cremonese. A Zini non riuscì il tentativo di demolirlo in fretta con colpi furenti al bersaglio grosso, mentre i destri di Facchi andavano a bersaglio con la solita distaccata precisione.


43 Facchi appariva in eccellenti condizioni di forma come del resto aveva dimostrato la settimana precedente contro Livio Minelli: il suo era uno splendido momento di grazia: Giuseppe Signori, il migliore dei giornalisti europei di pugilato, dopo aver assistito al match di Milano, era stato l’unico a pronosticare il possibile successo del cremasco al

sangue che colava dal sopracciglio sinistro. La battaglia continuò furiosa, agghiacciante e impietosa, fino alla sesta ripresa. Zini, a quel punto, aveva rimontato lo svantaggio dei primi due round e si batteva con l'orgoglio e la ferocia d'una belva azzannata, in un momento di splendida trance agonistica pur intuendo che la vittoria avrebbe potuto sfug-

vasta lacerazione sopra l'altro sopracciglio, il destro. Volgeva al termine l’ottavo tempo, ancora impietosamente combattuto a centro ring. «Pippo», ridotto ad una maschera di sangue, riuscì tuttavia a tenere ancora il match in equilibrio, ma, controllato dal medico durante l'intervallo, fu costretto a fermarsi. Per sempre. Era stremato,

Durante la guerra si boxava soprattutto nella marina militare quale molti non davano fiducia impressionati dalla foga combattive e dalla determinazione furente di Zini. Anche il secondo tempo, durissimo, fu a suo favore. Alla terza tornata, entrambi sembrarono tirare il fiato: la chiusero, però, scambiandosi una crudele bordata, proprio nell'angolo di Zini. Le fiondate taglienti di Facchi ferirono il volto di «Pippo» che, al quarto round, già si trovò cogli occhi annebbiati dal

girgli banalmente per quelle ferite che s'andavano inesorabilmente allargando: fu allora che uno spettatore amico di entrambi, il quale assisteva in prima fila al combattimento, fu visto cadere all'indietro stramazzando al suolo, colpito da un infarto mortale per l'emozione patita. Zini capì la necessità di stringere i tempi: un paio di montanti al corpo piegarono le gambe a Facchi, ma Pippo uscì dall'ennesimo scambio con un'altra

come del resto il «Principe», ma per lui era la fine della carriera: mai più sarebbe entrato in un ring. Anche per il vincitore s’era accesa la spia della riserva. Avevano profuso tutto quanto ancora tenevano dentro, soprattutto in termini di energie psichiche e nervose, in quella sfida fratricida. Dopo anni di animose battaglie sul ring ed una guerra vera che, sul piano morale, li aveva forse pro-

strati ben più del pugilato, capirono entrambi che la loro splendida giovinezza e la loro vita sportiva s’era chiusa per sempre: flnirono abbracciati, piangendo l'uno sulla spalla dell'altro dinanzi ad un pubblico che li accomunava nell'interminabile ultimo applauso dimenticando le rivalità di un attimo prima. Mentre Zini, dunque, lasciava, Facchi onorava l'impegno sul quadrato per affrontare Michele Palermo nelle cui mani stava ancora il tricolore: era il “monumento” della boxe italiana. Aveva “soltanto” trentasette anni di cui venti e passa di professionismo alle spalle: sedici anni prima, aveva respinto l’attacco al titolo italiano di un altro cremonese, Gino Bonetti; poi era andato a vagabondare sui quadrati di Londra e Parigi, aveva fatto l’emigrante a Buenos Aires e New York ove addirittura aveva sfiorato la chance mondiale divenendo uno dei più apprezzati “battant” del Madison Square Garden; per diventare campione d’Europa avrebbe però dovuto aspettare altre quattro stagioni, all’età veneranda di quarantuno anni. Il match tricolore andò in scena a Crema, allo stadio. Facchi, con l’ultimo bagliore della classe che possedeva, riuscì a spuntarla. Colpo su colpo, anzi astuzia contro astuzia, mestiere contro mestiere: otto round pregni di intelligenza e acume tattico, in punta di fioretto, senza commettere un solo errore che l’avversario mai avrebbe perdonato, senza sbilanciarsi un solo attimo, senza badare allo spettacolo cui pure aveva diritto lo scarso pubblico pagante in una serata funestata dal maltempo e dalla pioggia.


44 Un controllo esasperato ed insperato delle proprie doti agonistiche per non cadere nella trappola della boxe di rimessa del detentore. «Pinòon» come lo chiama vano affettuosamente a Crema, vinse per squalifica nel corso dell’ottava ripresa quando il campione, giocato a sorpresa sul suo stesso piano da quel tatticismo, fu costretto a commettere un paio di scorrettezze di troppo che l’arbitro non gli perdonò. a dispetto del suo carisma. Match non bello, per nulla esaltante, ma fu festa grande, a Crema, in quella serata di luglio imprevedibilmente scura e piovosa che aveva tenuto lontano molti tifosi e rischiato di far rimandare il match, programmato all'aperto. Fu però la conferma, per lui che ben sapeva guardare dentro di se, di non esser più il grande combattente di un tempo: la battaglia di Cremona aveva contribuito a svuotarlo psicologicamente: ora che il posto fisso al Comune di Milano gli assicurava tranquillità economica ed il titolo aveva appagato le sue brame di conquista, si apprestava a vivere di soli ricordi: a Crema batté ancora il magrebino Alì Belaid, antico e spettacolare avversario di Zini a Cremona e a Roma mise a tacere il furbo stoccatore francese Clavel. Gli sarebbe piaciuto chiudere da campione, ma l'offerta di una buona borsa, l’unica in fondo di un’intera carriera, unita al desiderio di difendere il titolo almeno una volta, lo portarono ad accettare la sfida di Fernando Jannilli, un giovane prorompente cresciuto alla stessa scuola di Palermo e Proietti: dai maestri, veri volponi del ring, aveva ereditato furbizia ed intelligenza, acume e capacità di risparmiarsi

L’incontro al Politeama tra Facchi e Zini tanto che pure lui sarebbe a lungo durato sul ring, sino a conquistare, tanti anni dopo, la corona europea dei mediomassimi. Facchi perse ai punti. Non ebbe molto a dolersene: ripose nel cassetto le già sopite ambizioni continentali e continuò ancora per un po’ senza strafare, poi si ritirò tranquillamente, in punta di piedi, con la stessa classe con cui aveva siglato tutta la carriera, a fare il “ghisa” a Milano. Ma parlando di Facchi, troppe volte si incontra il nome di Zini: i due, in effetti, furono amici per la pelle: fra loro non ci fu mai rivalità, se non quella sana e sportiva, e solo in quei terribili quaranta minuti del Politeama. Quella rivalità, che pure avrebbe ben potuto essere nella tradizione tra un cremonese ed un cremasco, era superata da un sentimento d'amicizia fortissimo, da anni di comuni allenamenti quotidiani, da una pari esperienza di guerra, di vita e di sport, dai tanti momenti difficili affrontati e superati insieme. Pippo Zini era stato, appena prima del conflitto, il punto di forza della boxe

cremonese insieme a Michelazzi (Ermanno Bonetti era già approdato da altri più gloriosi lidi americani e in palestra si faceva vedere una volta l’anno, quando tornava dall'America). Aveva alternato successi clamorosi a qualche battuta d’arresto che il suo modo di boxare sempre troppo generoso e spavaldo lo costringeva a subire, ma con lui sul ring c’erano sempre spettacolo e tanta “suspence”. Lo danneggiava, poi, quella fragilità, congenita, delle arcate sopraccigliari che ne determinò il ritiro, precoce, dopo il match con Facchi; prima, lo avevano fermato Nesi ed il pavese Sconfietti per ferita, ma soprattutto il varesino Bignamini che, dopo aver subito per quattro drammatiche e ringhiose riprese, era riuscito a mettergli a segno un micidiale quanto decisivo montante al fegato che Pippo proprio non aveva digerito. Ma innanzi a lui erano anche caduti atleti di buon calibro come Bruno Bisterzo, l’ex campione d'Europa che, sul ring del Palazzo dell'Arte aveva cercato di arginare, con la sua dotta

boxe fatta di colpi diritti di molte finte e di apprezzabili schivate, lo strapotere fisico del bomber cremonese che alla fine era uscito dal match con le arcate sopraccigliari come sempre lacerate, ma con un verdetto di vittoria ben meritato. Quando la “machine a puign” s’inceppò definitivamente, dopo una trentina di incontri a torso quasi tutti vittoriosi, la sua grande passione per la boxe non venne meno. Il giorno dopo la battaglia perduta con Facchi, due grossi cerotti sopra gli occhi feriti, era già in palestra, ma non aveva la sacca con se. Colombo lo volle immediatamente al suo fianco e gli affidò il compito più delicato in palestra, quello di istruire i novizi. Dal maestro aveva ereditato pazienza e abnegazione, capacità di farsi capire e benvolere dai più giovani. Così rimase per anni, sino a quando la salute glielo permise, a bordo ring: per un decennio almeno i pugili cremonesi furono impostati dalla sua bravura prima che dall'abilità consumata di Paolo Colombo.


45

Catenacci, erede di Carnera Nato a Castelnuovo del Zappa, fu un gigante della boxe cremonese Giuseppe Catenacci. Un nome pure emblematico, ma bugiardo, perché colui che lo portava fu tutt'altro che un catenaccio sul ring, ove fece soffrire parecchio alcuni fra i colossi più con-

Iland ed era naturale l'aggancio. Giuseppe Catenacci, il primo gigante della boxe cremonese, era nato vent'anni prima a Castelnuovo del Zappa, un paesino, ricordava, taglia-

lontano dai campi e dal piccolo paese. Aveva già imparato a fare il meccanico quando un giorno qualcuno l’accompagnò nella palestra dei «Diavoli Rossi», un bel

to fuori da tutte le strade, dove la corriera passava, è vero, ogni giorno, ma non si fermava quasi mai! Non era proprio un gigante, ma possedeva comunque una complessione fisica di prim'ordine: un metro e ottantacinque per oltre ottanta chili di peso. Stava a cavallo tra la categoria dei mediomassimi e quella dei colossi, ma le sue braccia sprigionavano una forza straordinaria che gli sarebbe piaciuto sfruttare

gruppo di suoi coetanei che si battevano nel nome di Cremona sotto la guida esperta dei fratelli Bonetti che in quei tempi avevano finalmente trovato una palestra degna di tal nome in una stanzone a pianterreno nel palazzo Ala Ponzone dopo aver lasciato quella di via Meli: qui, a volte, lo stesso Farinacci scendeva a dare un'occhiata a quei ragazzi, a complimentarsi con loro oppure a spronarli prima di

Giuseppe Catenacci siderati del suo tempo. Ma chi era Catenacci? «E' nato l'erede di Carnera» aveva scritto il Regime Democratico il 30 giugno del '33, all'indomani della sua vittoria ai campionati lombardi: aveva travolto, nella mitica palestra della «Battisti» tutti i pesi massimi della Regione. L'articolo figurava proprio sotto l'annuncio della vittoria mondiale del gigante di Sequals su Jack Sharkey a Long

qualche prova importante. Catenacci era il più alto di tutti, aveva stoffa, grinta e una potenza devastante, così Paolo Colombo che aveva appena chiuso la propria breve carriera di atleta e stava iniziando quella di allenatore, non ebbe esitazione a mandarlo suI ring solo qualche settimana dopo avergli impartito i primi fondamentali insegnamenti. Colombo aveva avuto conferma della sua stoffa sin dai primi combattimenti disputati tanto che un anno dopo soltanto vinceva i campionati lombardi. Poco dopo, a Ferrara, ci voleva solo la grande esperienza e la tecnica sopraffina del romano Piero Caponi per impedirgli di conquistare il tricolore, ma lui aveva una quindicina soltanto di combattimenti all'attivo e l'altro un centinaio. Lo notarono i tecnici federali e lo invitarono ai collegiali di Roma (battevano alle porte i campionati europei di Budapest) ma qui spuntò il varesino Angelo Sarruggia, un ex mediomassimo dalle braccia veloci come il vento, che dopo aver messo d'accordo lui e Caponi, andò a difendere i colori italiani in Ungheria.


46 a Tripoli e Bengasi. ri, comeil tedesco Muller, Catenacci, con una trentiAncora pochi incontri, na soltanto di incontri Brunelli e Bertoni ed qualche vittoria per K.O. all'attivo, pensò allora, aveva pure fatto una puncontrobilanciata da un tata a Dusseldorf ove dopo il servizio militare, di paio di sconfitte contro dedicarsi al professioniaveva ceduto, con verdetuomini sempre più forti, smo, ma fu, suo malgrado, to non unanime al poderoveri fuoriclasse come il costretto a constatare che so Witt. campione d'Europa vivere di sport era praticaQuando arrivò d'improvviMusina, lo sfortunato picso la guerra, riportò di mente impossibile: raccolchiatore apuano Enrico se armi e bagagli e se ne corsa la famiglia in Sicilia. Bertola, l'ex campione andò a Tripoli a fare il mecFu subito e di nuovo d'Italia Laria, Giovanni canico. arruolato. Quando tornò Martin, il granQui la passione de Duilio per il pugilato Spagnolo, in non era sopita. un momento in Trovò una palecui tutto lo stra in cui si allesport europeo navano alcuni stava soffrenitaliani e riprese do le ingiurie l'attività con pesanti della passione e con guerra. la solita tenacia. Due incontri In palestra fu in per due buone breve il polo di borse a attrazione: tutti Dusseldorf e a volevano alleColonia nel narsi con lui, periodo in cui i imparare da lui. contatti anche Lo stesso Italo Balbo, quand'esportivi con la ra a Tripoli, non Germania disdegnava di erano frequenscambiare qualti, lo avevano posto in luce che colpo, nella palestra di cui si per l'ultima volta nel pieno servivano i militari con il peso della sua ritroCatenacci con la figlia e il sindaco Bodini massimo più vata vigoria forte che si fisica. vedesse allora in Libia. I giornali tedeschi e italiani dal fronte e dalla prigionia, avevano dato grande risalProprio a Tripoli trovò il bimbo che aveva lasciato a quelle vittorie anche modo di disputare il suo to in fasce andava già a prima incontro da profesperché, proprio negli stesscuola. sionista: il 7 aprile del '35 si giorni, Benito Mussolini Il lavoro mancava e allora si sbarazzò in due round, stava rendendo visita ad riprese la via della palecon un terribile ko, del Hitler a Berlino. Tornando stra. Si pose sotto la guida francese Dumoulin, e a casa, suI treno insieme di Umberto Branchini che trovò anche modo di spoavrebbe dovuto dirigere i al manager Venturi, lesse sarsi con una ragazza sicisuoi inizi prima della parsu un giornale tedesco liana e di mettere al tenza per la Libia, ma preche le classifiche europee, mondo il primo figlio, ma sto passò sotto la tutela di probabilmente esageranla guerra lo colse improvVittorio Venturi, un altro do un poco per dar lustro visamente. dei monumenti della grana quel Muller che lo aveva Era diventato l'idolo degli de epoca della boxe. battuto, lo ponevano al italiani, ma era difficile e Il 30 giugno del '43, dopo terzo posto. dispendioso ingaggiare cinque anni e mezzo di La guerra rendeva comunogni volta avversari inattività, era di nuovo sul que sempre più difficile dall'Europa e quindi l'attiquadrato a Milano e l'attività e quella dozzina vità era stata sempre scarpareggiava con Salvatore di combattimenti che Ruggirello, poi ancora sa. Aveva comunque aveva sostenuto dopo il con Primabassi, antico sostenuto, in poco meno rientro in Italia gli avevano avversario col quale aveva di tre anni una decina di comunque fatto capire di ingaggiato due battaglie, combattimenti battendo, non essere più quello d un una vinta ed una perduta, tra gli altri, buoni avversatempo. Tre anni in Africa e

cinque di guerra e prigionia erano troppi per pretendere che il suo fisico, oltre la soglia ormai dei trentatre anni fosse ancora quello del ragazzo che aveva frequentato la palestra di Via Meli. II 28 maggio del '44 fu per l'unica volta in carriera da professionista sul ring di Cremona. Allo Zini sostenne dieci round di battaglia con il Giovanni poderoso Martin. Gli cedette la vittoria, ma non l'affetto del pubblico che non lo vedeva combattere da quasi dieci anni. Gli impegni di famiglia, ormai, si facevano pressanti e lui abitava stabilmente in Sicilia, a Catania: anche là era difficile combattere e guadagnare. Con tre figli a carico, a trent'anni e passa, non c'era più tempo per tentare la carta della boxe, cosi richiuse un giorno la sua capiente valigia e tornò a fare il meccanico. A Cremona non lo si vide più. Qualche anno più tardi, nel novembre del '51 decise di tentare ancora una volta fortuna lontano da casa. Si imbarcò per Buenos Aires con la moglie, i tre figli piccoli, i suoceri e... il cane lupo. E a Buenos Aires, dove gli avevano offerto un buon lavoro come tecnico in una filiale della Fiat, Catenacci trovò definitivamente la sua dimensione di uomo: fece onore a se stesso, ai suoi e all'Italia. I suoi tre figli raggiunsero la laurea ed una condizione economica invidiabile: il primo è avvocato, il secondo agente generale della Bosch per il Brasile; Olimpia, che l'aveva accompagnato in Italia, gestisce a Buenos Aires un importante studio di traduzioni e fa da interprete a tutte le grandi personalità italiane che visitano l'Argentina.




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