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EDITORIALE Renato Nicolini

La grande dimensione è stato il motivo dominante nell’architettura italiana degli Anni Sessanta. La troviamo nelle previsioni di aumento della popolazione urbana (i cinque milioni di abitanti previsti dal PRG di Roma del ’62); nel tema dei nuovi centri direzionali che avrebbero dovuto duplicare (a Torino, a Milano, a Reggio Emilia, a Napoli, etc.) i centri storici esistenti. La nuova dimensione implicava la crescita delle città oltre i loro confini, mettendo in discussione la separazione tra città e campagna (cara a Federico Engels ma anche a Mao Tse Tung che nel 1950, appena conquistato il potere, abbatte le mura di Pechino per consentire alla campagna di penetrare nella città) con la città territorio; e una riformulazione delle scale del progetto, introducendo una dimensione intermedia (il planivolumetrico, il town design, …) tra la scala urbanistica e la scala della progettazione architettonica. Queste tesi hanno avuto il miglior teorico in Manfredo Tafuri, in particolare il suo libro dedicato a Ludovico Quaroni, presentato come figura paradigmatica del rinnovamento dell’architettura italiana; con in copertina il disegno, altrettanto paradigmatico, del progetto di Barene San Giuliano, in cui la progettazione si ferma volontariamente alla definizione formale del volume. Di questo si disegna anche il riflesso nelle acque della Laguna, ma non si va oltre. Com’è noto, Tafuri ha quasi immediatamente abiurato quelle sue posizioni, per approdare ad una lettura assai critica dei velleitarismi progettuali dell’architettura italiana, di cui denunciava l’ideologismo politicista che finiva per mascherare la realtà anziché trasformarla. Da questo giudizio negativo salvava gli architetti che sceglievano il silenzio, il valore unicamente poetico ed estetico della loro opera, assegnandosi un ruolo volontariamente marginale, di estraneità politica di fronte a processi di trasformazione del territorio sempre più regolati dal mercato e dalla speculazione. Ci si può domandare quanto, nel cambiamento teorico di Tafuri, abbia pesato la caduta in Parlamento della Legge Sullo di riforma urbanistica, che separava dalla proprietà dei suoli il diritto di costruire. Dalla metà degli anni Sessanta la cultura della pianificazione in cui gli architetti italiani erano cresciuti (fin dai tempi degli scritti su Quadrante, la rivista di Bardi, Terragni e Bontempelli, dei giovani BBPR e del giovane Adriano Olivetti – assieme all’economista Gaetano Ciocca – che lanciavano l’idea del Piano Regolatore Nazionale e della “città corporativa”). Il decennio della grande dimensione tuttavia ha prodotto architetture, anche notevoli. Per limitarmi a Roma, di Passarelli, Barucci, e soprattutto Mario Fiorentino: che hanno seguitato a credere assieme a Bruno Zevi sia all’Asse Attrezzato sia alla prefabbricazione. Corviale, Laurentino, Vigne Nuove, … La stessa Tor Bella Monaca… Vestigia colossali, che oggi appaiono, ancor più che fuori scala, testimonianze scomode di un’altra idea dell’abitare da quella espressa dal mercato. E contro cui si richiama in servizio persino Leon Krier (approdato dall’iniziale razionalismo a Novoli ed alle nostalgie regressive di Carlo d’Inghilterra), incaricato dall’ultimo Sindaco di Roma Gianni Alemanno di trasformare il famigerato quartiere ghetto di Tor Bella Monaca in una Garbatella alta quattro piani dai gotici tetti a falde … Questi quattro grand ensembles romani testimoniano un’idea di architettura andata rapidamente fuori corso, comprensibile correttamente facendo riferimento alle grandi infrastrutture che avrebbero dovuto sostenerle e che non sono mai state costruite (salvo il frammento della tangenziale di San Lorenzo, diventata da noi tragica occasione d’ironia fantozziana, mentre a New York Diller & Scofidio recuperano come parco lineare un’analoga soprelevata …). Nell’idea di città oggi convivono necessariamente più idee di città. Quali tipi di edificio oggi possono rappresentarla? Di fronte ai quartieri di grattacieli residenziali che compongono il paesaggio urbano di Shangai, di Hong Kong, di molte città cinesi, come Kungmin in rapida espansione, non sfigurerebbe certo, come diversa proposta di rapporto col suolo, il grande vuoto segnato solo dalla costruzione in linea lungo un chilometro di Corviale … Impressionante sopravvivenza dell’idea di fondo del futurismo, la città che sale di Boccioni, ma adagiata al suolo, quasi presentendo Rem Koolhaas, ed i grattacieli coricati lussuriosamente adulteri dei cartoni animati di Madeleine … Il grattacielo coricato di Mario Fiorentino probabilmente pensava di segnare un’epoca, riproponendo in modo modificato lo schema formale sul territorio della teoria dei tre insediamenti umani di Le Corbusier - la linea delle residenze che spartisce i campi - all’interno della città degli anni Settanta. Perché l’idea stessa della grande dimensione urta oggi così profondamente l’opinione pubblica italiana formata dal grazioso televisivo tipo Amici? Si può pensare che la grande dimensione presuppone un corrispettivo ugualmente grande di spazi e d’infrastrutture pubbliche… Ma più probabilmente si tratta di rinuncia al rapporto con la realtà … Ai problemi reali che il progetto può affrontare si preferisce la loro sostituzione con i sogni, con la morbida dimensione in cui tutto è possibile … Per colmo d’ironia, il simulacro di progetto che più di ogni altro sostituisce la realtà è nel segno della grande dimensione, quella che più grande non si può: il Ponte di Messina.


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Molti architetti sedotti dalle sirene del potere lo giustificano non in relazione alla sua effettiva miseria progettuale, ma tirando in ballo l’utopia di Giuseppe Samonà e degli altri partecipanti al concorso degli Anni Sessanta.


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VIAGGIO SULL’ASSE MEDIANO Francesco Sorrentino “Molte volte, guidando sulla San Diego mi è capitato di vedere, quando l’auto davanti a me svoltava per imboccare una rampa d’uscita, la ragazza a fianco del guidatore abbassare la visiera parasole per sistemarsi la pettinatura. Le prime volte che assistetti a questa scena non vi prestai molta attenzione, perché mi sembrava estremamente naturale, ma dopo aver rivisto più di un paio di volte lo stesso episodio, improvvisamente ne capii il significato: l’uscire dalla superstrada equivale ad uscire dalla porta di casa” Reyner Banham1

È lunedì pomeriggio, come al solito faccio ritorno da Napoli verso casa attraversando un pezzo della provincia partenopea, il tragitto è breve, circa tre quarti d’ora d’auto, buona parte dei quali trascorsi sull’Asse Mediano, la statale che collega Napoli con il suo hinterland settentrionale, da Giugliano ad Acerra. Il sole accende le nuvole all’orizzonte, l’asfalto luccicante scorre libero, per fortuna oggi non c’è traffico. La strada così mi somiglia, il mio stato d’animo ne assume le infinite sembianze, legandosi al suo mutare, dagli stanchi tramonti invernali, ai lucidi mattini di gelo, alle soffocanti ore del caldo estivo che tutto sembra bruciare, al suo vomitare indigesto le migliaia di auto che ogni giorno la percuotono, al suo inesauribile distribuire il flusso di vite rinchiuse nella solitudine dell’abitacolo, avvolte nell’oscuro alone dei propri pensieri. Dopotutto è la mia strada, e mi somiglia. Il circolo dei miei pensieri è continuamente distratto dallo spettacolo che la strada, nel suo strisciare tra le viscere di questa brulicante, immensa e tuttavia addormentata periferia, mi offre, a tal punto da non riuscire a pensare più a nulla. Il fluire ininterrotto del paesaggio circostante assorbe completamente la mia attenzione. Spesso quando sono a casa, quando penso al luogo in cui vivo, alla città che pulsa in lontananza, lontano dalla periferia, l’immagine che assale il ricordo è quella di un paesaggio visto in movimento, dall’alto della soprelevata: una sterminata serie di tetti, case in costruzione, depositi, strade, parcheggi, linee ferroviarie, antenne, insegne pubblicitarie, centri commerciali, qualche giardino, sprazzi di terreno coltivato, cumuli di rifiuti, ruderi e case, case, e ancora nuove case in costruzione, non finite, abbandonate, già vecchie. Riflettendo e dando corda al circolo dei pensieri, mi rendo conto che la strada che percorro crea un certo “ordine” all’interno del magma senza forma che scorre ininterrotto dal centro della città, mostrando una tale indifferenza che sembra alludere ad un’espansione all’infinito. L’Asse Mediano fu costruito intorno agli anni ‘80, dopo il terremoto dell’Irpinia, un’infrastruttura che serviva a collegare la zona a Nord di Napoli con la provincia, ora vera e propria periferia, ai poli industriali di Acerra e Pomigliano D’Arco, inseguendo il sogno di un’area metropolitana industrializzata e ricca, un sogno che gli ingenti fondi statali per la ricostruzione avrebbero dovuto contribuire a realizzare. Un’occasione mancata, fallita, perduta nel disastro dell’assenza di ogni piano o disegno, invito alla repentina ed inevitabile “abbuffata” di politici, colletti bianchi e mafiosi, affamati di terreno, di spazio da occupare, di merce da scambiare, di denaro da ripulire, e allora giù con case, palazzine, strade, in un intreccio inestricabile, che si estende da Secondigliano a Melito, Casandrino, Grumo Nevano, Frattamaggiore, Cardito, Afragola, Acerra … e poi Marigliano … e poi Nola e poi via all’infinto fino alle Puglie! A dare forma a tutto ciò sembra essere proprio la strada che si dispiega nitida e splendente nella pulizia del liscio asfalto, perfettamente orizzontale, che scorre al di sopra delle case, perdendosi all’orizzonte, dietro alle colline mangiucchiate dalle cave di inerti per il calcestruzzo. Una forma mentale. Ormai da anni la strada ci ha restituito la forma di un territorio “in transito”, di un luogo in cui è impossibile “stare”, unica possibilità è il muoversi, lo spostarsi, sfruttando il nastro trasportatore, come in aeroporto i bagagli, quasi in automatico. Essa ci ha abituati ad una “geografia dello spostamento”, costringendoci sempre allo stesso percorso, che parte dal garage della nostra abitazione e raggiunge uno degli imbocchi della statale, tutti simili, con le case in costruzione della camorra, i terreni abbandonati a monito dell’ulteriore e prossima speculazione, il cumulo di rifiuti, cartelloni pubblicitari e l’immancabile pila di cartelli con le destinazioni, tra cui quello «NAPOLI», che sembra essere posto lì ad indicare un’eterna meta, un eterno centro attrattore, onde immetterci sulla statale ed osservare il paesaggio fatto di tetti e di finestre fino all’uscita, simile all’imbocco appena lasciato, ancora con le case in costruzione della camorra, i cumuli di rifiuti e la pila delle indicazioni stradali. 1

Da R. Banham, Los Angeles, trad. it. di A Castellano, Costa e Nolan, Genova, 1983, p. 191.


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La forma del territorio, costituito dalla densa fascia edificata della periferia che si estende intorno alla città di Napoli per un raggio di una quindicina di chilometri, non si è configurata come una sorta di «città lineare», che si snoda lungo la rete infrastrutturale, espandendosi a raggiera dalla città; piuttosto è la rete infrastrutturale che sembra sovrapporsi al tessuto circostante il quale si sviluppa al di sotto di essa in maniera totalmente autonoma ed indifferente. In alcuni casi vi è un legame tra tessuto ed infrastruttura che può sembrare quasi di natura biologica, come quello tra il parassita e il suo ospite, un legame che nasce proprio al di sotto della soprelevata, sotto al flusso di automobili in viaggio, là dove i piloni di cemento che la sostengono, vengono, a volta adibiti a depositi per materiali di ogni genere, a volta trasformati in stenditoi per asciugare i panni, come tra i balconi nei vicoli della città, a volta destinati a baracche per il ricovero dei derelitti della periferia, “i parassiti”, immigrati rom, senegalesi, nigeriani, rifiutati dalla città e respinti dalla periferia in una sorta di periferia della periferia, un limbo che si sviluppa tra sottopassaggi, cavalcavia, piloni di calcestruzzo, immondizia e miseria. Schiaccio improvvisamente il piede sull’acceleratore, come per sfuggire da questi pensieri, e come quasi sempre in questi momenti, sollevando poi il piede dal pedale e osservando la luce del tramonto che volge al viola preludendo alle luci della sera, un senso di conforto rilassa e distende i miei nervi; tutta quella vita che si apre davanti ai miei occhi, dalle centinaia di case e fabbriche che affollano il paesaggio, sembra condividere con me, chiuso nell’auto, gli stessi pensieri. È come se facessimo tutti parte di un gioco di scatole cinesi, in cui ogni cosa o persona rimanda ad un’altra all’infinito, l’auto alla persona che la conduce, quest’ultima alla palazzina in cui abita, al suo appartamento, ad una stanza con i suoi armadi e cassetti pieni di foto, lettere, oggetti provenienti da un qualsiasi altro posto nel mondo, ed insieme a questo flusso materiale, quello ancora più imprevedibile delle vite appese alla rete tra i flussi di informazione che avvolgono l’intero globo. Un tempo tutta la periferia napoletana era un territorio destinato alla coltivazione dei campi, in particolare la zona tra Acerra e Nola, dove oggi sorge l’Interporto, era una delle terre più fertili dell’intero meridione d’Italia: qui bastava scavare con le mani per trovare l’acqua, ed i pomodori venivano su a filari di due metri d’altezza. Negli ultimi trent’anni tutto questo territorio è stato destinato dalla politica regionale ad accogliere i flussi abitativi che la città di Napoli continua ad espellere. Insieme alle case sono arrivati i centri commerciali e le attività produttive e si è passati da un modello territoriale che riproponeva il classico dualismo città-campagna a quello della «città diffusa». Non è soltanto la quantità di edificato e l’aumento della densità abitativa ad aver mutato il rapporto città-periferia, ma è la particolare tipologia di edifici che si diffondono sul territorio ad essere la principale responsabile di tale alterazione. Le attrezzature che richiedono una grande quantità di spazio, difficile da reperire nell’immediata periferia della città e addirittura impossibile al centro, invadono lo spazio circostante spingendo sempre più all’infuori l’espansione dell’edificato: centri commerciali, con la loro ingente richiesta di spazio per il parcheggio, centri per lo sport ed il benessere, locali per il divertimento, ristoranti, cinema multisala, stazioni ferroviarie, aeroporti. Attorno a queste strutture si creano in breve tempo i presupposti per la costruzione di nuovi quartieri residenziali, attraverso un meccanismo dichiaratamente speculativo, che gioca con il semplice incremento di valore dei terreni interessati dall’intervento delle grandi opere. Tali quartieri sono spesso destinati ad accogliere le nuove ondate migratorie provenienti dalla città, che svuotandosi lascia il posto alle attività direzionali o al terziario, quello anche delle minuterie sopraggiunte con gli immigrati. Tutto questo processo avviene nella totale assenza di un piano che sia effettivamente vincolante, capace di disegnare un futuro assetto del territorio in maniera certa. Che non sia proprio tale assenza la forza propulsiva della nuova dimensione urbana, l’assenza di indirizzo la sua nuova vitalità? La nuova dimensione urbana, quella della città diffusa, non è forse il prodotto di una semplice giustapposizione sul territorio di una serie di interventi susseguitisi nell’assenza di una regia in grado di controllarne le reciproche relazioni ed effetti? Lontano dagli studi delle grandi firme internazionali dell’architettura, dalle aule delle facoltà e dall’intero mondo accademico, il destino del territorio viene spesso deciso sulla scrivania di qualche compiacente dirigente comunale o sindaco, nelle stanze dell’esercito di studi professionali minori presenti sull’intera provincia di Napoli. Dietro tutto questo si cela la natura puramente affaristica della pratica edilizia presente in queste zone, pratica che in larga misura agisce in netta simbiosi con gli interessi della finanza malavitosa e che tramuta il territorio da risorsa da valorizzare in materia prima destinata al puro consumo. Non posso fare a meno di pensare che dietro quella finestra illuminata, che scorgo al di là del guard rail, vi sia un architetto, ingegnere o geometra intento nel trovare la soluzione per sfruttare al massimo il lotto assegnatogli dal costruttore di turno, di pensare a come quest’ulteriore intervento vada ad aggiungersi sulle “macerie” del già costruito, di chiedermi se sia possibile trovare una logica, un criterio di intervento che risolva l’inutile diffondersi di una pratica edilizia sempre più volgare ed arrogante. Forse dovremmo rassegnarci, arrenderci ed accettare la logica imperante, essere funzionali alla conservazione dello status quo, abbandonare l’ipotesi di un ruolo trasformativo dell’architettura nei confronti dell’esistente, spostandoci su ottiche “pseudo nichiliste” o “pseudo


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realiste”: dato che il prodotto della modernità è lo «junkspace» della periferia, e data la perdita di senso dei valori di identità con il territorio, l’abitare non può che trovare destino in questo spazio generico e depersonalizzato, in questa piatta distesa di abitazioni, anestetizzata dalle luci delle insegne al neon che indicano il più vicino bar o shopping center in cui riversarsi ipnotizzati da una folle euforia consumistica. È probabile che queste idee vengano a colui il quale lo «junkspace» non lo abita, preferendo un lussuoso attico di Manhattan o di Pechino, e che percorre come un turista le strade di periferia armato di macchina fotografica, agenda e pennarello ad inchiostro, alla ricerca di quel fascino del degrado e del brutto, di quella “fatiscente bellezza” di una modernità già vecchia ed abbandonata, eppure foriera di una nuova e profetica vitalità urbana. Tuttavia non mi sento così severo nei confronti di questa periferia che mi accompagna quasi fino a casa e che disegna l’habitat in cui vivo. In fondo anche io non la trovo così brutta, specialmente a quest’ora quando la sera ormai è calata e dalla soprelevata è tutto un brulicare di luci e persino la torre dell’inceneritore di Acerra sembra addolcirsi ed assumere un tono meno minaccioso e funereo, assimilandosi quasi al monte Somma, di là del quale si cela il Vesuvio, ora solo un’ombra lontana sconfitta dal bagliore del nuovo “vulcano”, quello «buono», ennesimo centro commerciale che nasconde al di sotto del suo involucro verde il grigio delle tonnellate di calcestruzzo, nel vano tentativo di manifestare, pur nello sfacelo da cui è circondato, una coscienziosa attitudine “green”, una finta volontà ecologica, che tradisce il cinismo dell’escamotage pubblicitario il quale, proprio nella folcloristica iconicità della figura, trova il possibile successo di un consumo fatto di cemento. Un desiderio però prima di arrivare a casa e di tuffarmi tra le pratiche del lavoro serale lo esprimo, pensando a tutte le occasioni e scenari possibili, a tutte le sfide poste in campo ancora da affrontare nella pratica del mestiere dell’architetto: vorrei che l’architettura contasse in misura maggiore, che riuscisse ad incidere e ad imporsi sul territorio come pratica spirituale, prodotto della cultura e del pensiero, capace di relazionarsi con l’ambiente circostante tracciandone le linee di sviluppo, slegata dal fango dell’affare, dagli interessi di una classe imprenditoriale rozza ed ignorante, senza scrupoli, incapace di vedere al di là del metro cubo di cemento. L’architettura qui non riesce ad essere esigente, rimane schiava delle necessità di un’imprenditoria che la costringe alla povertà, non formula richieste, rimane appiattita in routine, prassi consolidata, schema da ripetere all’infinito sul territorio, compiacente nei confronti di una committenza ormai miope e assuefatta alla mediocrità. L’intera classe professionale è debole, legata al circuito malato che tutto avvolge, mondo politico e malaffare. I pochi che scelgono di tenersi fuori dal sistema che incide sul territorio si sentono in trincea, con le mani legate, impossibilitati ad agire, destinati a raccogliere le briciole, i pochi scarti che non interessano l’imponente macchina affaristica. Rimane comunque un sogno, un’utopia pensare che l’architettura possa mutare lo stato delle cose, frenare e controllare la crescita senza regole della città, il continuo distendere tentacoli, brandelli di costruito, consumo e spreco di terreno. Non bisogna chiedere all’architettura di essere di nuovo eroica, di mostrare la sua corazza avanguardistica sfidando la miopia del presente, tanto meno lasciare che sia sedotta dalla pura logica di accettazione del reale e che abbandoni qualsiasi inclinazione critica. È necessario riscoprire nuove logiche, concentrarsi su prassi operative e metodologiche in grado di affrontare le sfide che la nuova «grande dimensione» delle nostre metropoli offre. Sento ancora il ruggito della città che lascio dietro di me, con il rumore delle auto, il trambusto dei suoi abitanti che affollano strade e piazze, negozi, bar, ristoranti, musei, gallerie, facoltà universitarie e mi sembra quasi che il distendersi della periferia sia l’eco del ruggito che a poco a poco si smorza, facendosi sempre più debole e fioco, al punto che è impossibile distinguerne il suono, il senso, in fine diventando sordo rumore insignificante. Se la città è ancora il centro di un territorio reso ormai più vasto, centro a cui è attribuito una serie di valori, tra i quali anche e soprattutto quelli culturali ed identitari, la periferia, sembra porsi come negazione e annullamento di tale centro che essa circonda e sovrasta, destinata a non trascinare con sé e con la sua crescita le logiche della città di cui pure è figlia, piuttosto essa acquista una sua autonomia, denuncia un sua alterità, un altrove indefinito che necessita di una nuova attribuzione di senso. O forse è tutto il suo non senso il senso del nostro odierno abitare?


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LA BIGNESS E LE MACCHINE DESIDERANTI Carmine Piscopo

Ibridazioni vegetali, deserti che avanzano, nuove nature. Se l’uomo è in movimento, per effetto del suo stesso viaggio, lo è anche la natura, secondo una relazione che include il cambiamento. Se da questo incontro si sono generati nuovi paesaggi, e con essi un’euforia di progetti tesi a interpretarne il campo semantico, dentro questo stesso viaggio abbiamo visto l’emergere di dinamiche diasporiche, di flussi globali, di nature profondamente mutate per effetto della mano dell’uomo. Geocittà, aggregazioni antropiche, nuove geografie come nuove immagini del pianeta: la Grande Dimensione inizia da qui, dai cambiamenti bioclimatici, dai flussi demografici che correggono i saldi naturali dell’Occidente, dalle popolazioni in cammino per effetto delle guerre, delle carestie, dei disastri naturali, delle povertà che avanzano. Dalle nuove frontiere del pianeta. Dagli Stati Uniti d’America agli iperterritori della Catalogna, ai paesaggi delle downtown, quali luoghi simbolici e, insieme, cuori concreti della costruzione delle pulsioni della vita delle città, una nuova stagione di studi, che attraversa i primi dieci anni del Duemila, prova a descrivere relazioni sinora considerate non misurabili, con l’obiettivo di tessere in filigrana dinamiche finora estranee all’architettura. Al centro, il conflitto, sempre più radicale, tra architettura e città, stili di vita, modi di fare o di sentirsi comunità. Un conflitto, che reca con sé un monito oramai non più eludibile: l’abbandono, di fronte al cambiamento, di una ragione autoreferenziale, che si nutre di un postmodernismo cinico. Un racconto fatto di mappe, di indici, di diagrammi, di immagini inedite che si propongono come icone del cambiamento. Una modalità, che se da un lato estende il proprio campo applicativo verso la statistica, a favore di immagini di un mondo diagrammatico sempre più proiettato verso scenari di un “Disegno Globale”, dall’altro guarda sempre più alle discussioni che investono le scienze umane e i retroterra antropologici. Così, gli stessi autori di un lessico per il paesaggio scoprono oggi l’urgenza di decrittare il linguaggio di un pianeta in movimento, la cui istantanea non porta la firma dei grandi della terra. Da luogo della relazione e del movimento (mouvance), il paesaggio diviene così emblematica connotazione di nuove immagini che si nutrono del cambiamento (mutation). Dentro questo scenario di conflitti, di mutazioni, dove nuove sinossi e antiche tassonomie si incontrano, la Grande Dimensione non può ridursi, come in Koolhaas, all’idea di un manifesto dilemmatico, quale è Bigness. Proveremo ad affrontare questo tracciato. La Grande Dimensione è una delle cifre costitutive della Modernità. La quale è da sempre impegnata a porsi in essere in comportamenti, idee ed eventi “in grande”. La città, ad esempio, dal secondo Ottocento in qua si dispone in concreto come simbolo per eccellenza di questa tensione. Ce ne dà una profezia nel 1911 da Vienna (e dall’interno dei dibattiti della sua scuola) Otto Wagner in Die Grossstadt, dove è disegnato il profilo della moderna metropoli. In realtà, già prima a Stuttgart ci si era confrontati con moduli architettonici dirompenti e formidabili di manufatti urbani, con destinazione per abitazioni di operai organicamente strutturate in un contesto industriale. Ma altre suggestioni di futuro (con i suoi ritmi sempre più intensi e travolgenti e con le sue masse umane in irrefrenabile e tumultuosa crescita) provenivano sia dai progetti per la città industriale di Tony Garnier, sia dai dialoghi fra città e campagna proposti dalle nuove pianificazioni di Barcellona, sia, in maniera cogente, dagli accadimenti (quasi epici) degli sviluppi urbani negli Stati Uniti, dove strade ferrate irrompevano fra foreste e deserti e collegavano un oceano con l’altro, dove stazioni ferroviarie, porti sul mare, palazzi giganteschi che si alzavano fino a “grattare” le nuvole, accennavano a scenari improbabili tranne che nei sogni dell’utopia. Nel corso del Novecento, poi, le metropoli si sono materializzate e legittimate con le loro megastrutture monumentali accompagnate dalle relative infrastrutture flessibili e microstrutture mobili. Quindi, in sintonia con il mito del progresso e con l’ottimismo olocenico di popolamento di tutti gli spazi esistenti e inventabili, come materiale magmatico, difficile da contenere, il connettivo metropolitano ha preso a diffondersi e a discentrarsi irraggiandosi, per lacerti, per grappoli, per nuclei satellitari all’intorno formando nella sostanza un reticolo senza soluzioni di continuità, dove le apparenti discontinuità hanno la funzione di supportare i complessi giochi relazionali di un progetto infinito autodecisionale e autoreferenziale, che ha messo in crisi sia il campo teorico che l’immaginario architettonico che fonda sull’idea di città. Questo nuovo profilo e questi nuovi comportamenti della realtà urbana hanno preso ad agire come “macchine desideranti”, secondo la proverbiale espressione inventata da Deleuze e Guattari in riferimento a ben altre fenomenologie1, su suggerimenti (non troppo) segreti o remoti di Duchamp (cfr. la Mariée mise à nu par ses célibataires, nota come “la macchina per fare l’amore”). Tali macchine, come hanno spiegato i loro scopritori e 1

G. Deleuze e F. Guattari, L’anti-Edipo. Schizofrenia e capitalismo, Torino, Einaudi, 1975.


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descrittori, si connotano per un’azione eterodiretta non da ragioni conoscitive (“come e perché avviene questo”?), ma da schemi che richiedono un procedimento tautologico (“che cosa fare per fare funzionare il congegno per una ripetizione all’infinito”?) d’impulso di una forza oscura, che Deleuze e Guattari identificano con l’inconscio. Il quale, in natura, è naturale e induce effetti naturali, ma, nell’ambito della modernità fondata sul primato dell’artificio, non può non essere artificiale e non richiedere la collaborazione dei tecnocrati per esistere però (paradossalmente) nel concreto della naturalità, ma in armonia col ritmo del cuore meccanico delle macchine desideranti, ingordo di appropriarsi del mondo come oggetto di piacere e tenerlo soggiogato nel reticolo di una ludicità artificiale. Sotto tale aspetto, la situazione si denunzia da sé come giunta a un punto critico, che richiede coraggiose e radicali opzioni. Entro questo clima di urgente, coatta criticità, si spiega il manifesto sulla Grande Dimensione lanciato nel 1995 da Rem Koolhaas, Bigness2. Vediamo il contesto. La modernità, insieme col mito di un progresso unidirezionalmente e universalmente ineludibile, è sotto il tiro incrociato di motivate e robuste obiezioni. Le grandi narrazioni e le grandi spiegazioni della storia sono in difficoltà o in ritirata. Dopo il crollo del muro di Berlino, l’Unione Sovietica si viene sgretolando. Sulla scena dell’attualità appaiono come protagonisti incontrastati e vincitori il Capitale e il Libero Mercato. Alla loro ombra crescono e si diffondono con arroganza i panegirici della “deregulation” e del fare “comunque” senza dover render conto di nulla a nessuno. Tutto sembra implodere fra gorghi di autoreferenzialità e di tautologia, mentre la soggettività è assunta a bussola di orientamento e di navigazioni a vista. Nel giardino dei sogni e dei passi perduti, ci si aggira a trovare un senso alla vita e al fare partendo dal reale, per quanto sgradevole, impoetico, dissonante esso sia, e partendo dalle prassi e dalle tecniche sperimentate, quali griglie di ipotesi sostenibili entro i ritmi franti e compulsivi del presente. Si rottamano le teorie palingenetiche, le mitologie eroiche, gli schemi narratologici costituiti sulle diacronie del prima e del dopo, della causa e dell’effetto. Se il re è nudo, bisogna prenderne atto. Come? Riconoscendo, senza giochi e rinvii d’evasione, la fine della storia, la postumità, l’implosività e la falsità dei (pretesi) eventi, l’incombenza desolante dei non luoghi. Non più garantito da patti di scuola, di accademia, di gruppo, di corporazione, lo star system dell’architettura, consapevole di dover contare sulle occasioni reali, sulle risorse inventive e sulle abilità di dialogo con altri operatori (ingegneri, esperti di economia, politici, sociologi, filosofi) si mette in campo in proprio, sapendo di non poter delegare ad altri la guerra del presente, rapinoso, confuso, dilacerato. Per parte sua, Rem Koolhaas, abituato a mettersi in gioco da sempre su versanti radicali e sovversivi, oltre che in materia di suggerimenti di idee (tutte terrene, niente affatto metafisiche), nel clima del crollo delle grandi ideologie e tra i veleni delle decomposizioni delle grandi speranze, a metà degli anni Novanta fa deflagrare il suo manifesto dittatorialmente postavanguardistico e cinicamente provocatorio della Bigness. Probabilmente, a dettargli le parole, intervengono anche pulsioni latenti innervate in uno stato d’animo collettivo (o di massa aizzata, come direbbe Elias Canetti3) di solitudine e di trepidazione escatologica di fronte all’imminenza della cesura tra vecchio millennio e vecchio secolo da un lato e nuovi rispettivi cicli dall’altro. Il che ispirerebbe maggiore impazienza nei confronti dei nodi da sciogliere, che diventano da tagliare gordianamente nell’addensarsi del disincanto della modernità. Pertanto, Koolhaas si decide a informare freddamente e implacabilmente i contemporanei nec spe nec metu sull’ineludibilità di andare avanti, chiudendo il libro dei sogni (e delle teorie) e affidandosi al proprio istinto vitale, magari alla propria idiozia, pur di non perdere l’appuntamento con l’attualità, che macina contraddizioni, distorsioni, indirizzi a prescindere dai calcoli e dalle pretese strategiche della ragione. Che non ammette rigidità e schizzinosità di pensiero e di azione. Che si fa beffe delle verità abbaglianti di luce. Che apre solo ad anfibologie, ambiguità, opacità e discontinuità. Se la modernità è stata ostaggio di una ragione che ha prodotto in ultimo il junkspace, è allora con questa modernità che bisogna “chiudere i conti”. Giacché, come afferma Koolhaas, solo ciò che è morto può risorgere: è questa la condizione moderna4. Secondo Koolhaas, se tali sono le dinamiche del reale, il compito dell’operatore è di esserne pienamente cosciente, per agire all’interno degli spazi consentiti alla probabilità del successo. Altrimenti, è il suicidio: equivarrebbe a consegnarsi a un passato che seppellisce se stesso fra i cimiteri dei pregiudizi e delle museificazioni. 2

R. Koolhaas, Junkspace. Per un ripensamento dello spazio urbano, a cura di G. Mastrigli, Macerata, Quodlibet, 2006, p. 11 e segg. 3 Cfr. E. Canetti, Massa e potere, Milano, Il Saggiatore, 1972. 4 Cfr. B. Steele, Supercritical. Peter Eisenman meets Rem Koolhaas, London, Architectural Association Publication, 2007, p. 23.


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L’auspicio di Koolhaas è che l’architetto del nuovo tempo sia disposto a uscire dalle maglie, che egli giudica inattuali e troppo strette, delle iconografie del passato, sia mentalmente lucidissimo e atleticamente allenato ad affrontare l’azzardo di lavorare con altri compagni di strada in un tempo dai ritmi travolgenti, che accumula montagne di non senso e di sprechi. Anzi che sia così astuto da calarsi nelle contraddizioni, nelle situazioni magmaticamente complesse, nei silenzi del progetto, nei rifiuti della ragione solare, per cercare in una sorta di apocalisse i varchi di uscita e di riuscita, grazie al soccorso di canali (oscuramente) comunicanti che mettono a contatto il sì col no, il positivo col negativo, il fallimento con l’attesa di cambiamenti. La città con l’anticittà, con la non-città. Le quali si richiamano puntualmente come interfacce della medesima medaglia. Perché la presenza si nutre di assenza e viceversa. Perché non esiste affermazione se non nello specchio della negazione e viceversa. Perché il reale si pone in essere con la collaborazione simultanea della ragione ragionante e della ragione sragionante e si costituisce come cifra di inclusività dei contrari. Il rispecchiamento di questa inclusività, che si dispone per fenomenologie sintomatiche ed esemplari su coordinate orizzontali, è all’inizio e alla fine nell’istituto stesso e nei codici dell’architettura. Essa, infatti, è sé stessa ed è non sé stessa e, curiosamente, quanto più ambisce ad essere sé stessa, diventa meno sé stessa, perché si immiserisce fra gli aridi deserti delle astrazioni mentalistiche e scolastiche, come, ad esempio, accade nel concetto di misura, di dimensione, di composizione. Di contro, quanto più è disponibile a giocare all’aperto con altre squadre, più ha probabilità di affermazione (sovversiva). “La Bigness”, egli scrive con deliberato atteggiamento desacralizzante, che non è di sua invenzione, ma, piuttosto, di derivazione dalla tradizione del nuovo, “è il punto in cui l’architettura diventa insieme massimamente e minimamente ‘architettonica’: massimamente, per via dell’enormità dell’oggetto; minimamente, per la sua perdita di autonomia – diventa strumento di altre forze, diventa dipendente. La Bigness è impersonale: l’architetto non è più condannato al divismo. Anche quando la Bigness entra nella stratosfera dell’ambizione architettonica – il puro fremito della megalomania – essa può essere realizzata solo al prezzo di cedere il controllo, di una trasmutazione magica. Implica cioè l’esistenza di una rete di cordoni ombelicali con altre discipline la cui prestazione è altrettanto critica di quella dell’architetto: come scalatori legati uno all’altro dalle corde di salvataggio, coloro che realizzano la Bigness costituiscono un team (termine mai più pronunciato negli ultimi quarant’anni di polemica sull’architettura). Al di là della cifra stilistica personale, la Bigness significa resa alle tecnologie, agli ingegneri, agli appaltatori, ai politici, ad altri ancora. Promette all’architettura una sorta di status post-eroico, un riallineamento alla neutralità” 5. In questo affresco fantasmagorico di nuova (ed eteroclita) relazionalità fra discipline, competenze, interessi, situazioni, c’è di tutto, ma c’è di tutto allo stato fermentante. C’è, innanzitutto, una volontà (piuttosto crudele) di demitizzazione e di dissacrazione della figura dell’architetto e della funzione dell’architettura, un compiacimento (tardoavanguardistico) di loro abbassamento e involgarimento (estetico e sociale) sul marciapiede a contatto e in confronto alla pari con tutti, anche con i committenti dei lavori, con i mediatori di affari, con i politici e i loro disorganici avvicendamenti. Una tale impennata non dovrebbe meravigliare chiunque abbia un po’ di familiarità con la modernità e con i suoi attentati terroristici alle mitografie passatiste, a favore del riavvicinamento energizzante di arte e vita, di intellettualità e realtà quotidiana. Semplicemente, con Koolhaas, si spalancano porte e finestre, perché entri aria nuova anche nel campo dell’architettura, come già è avvenuto nella letteratura, nelle arti figurative, nel teatro, nella musica. Quell’aria nuova, che a opera del futurismo, da Sant’Elia, Chiattone, Prampolini, Marchi a Fillia, al Sartoris del dialogo coi razionalisti, al Fiorini delle “tensistrutture”, aveva cominciato a sollecitare l’architettura a definire una nuova sintassi compositiva, che tenesse conto delle compenetrazioni fra il dentro e il fuori, dei processi di lievitazione e di dilatazione degli spazi urbani, delle inedite occasioni consentite dalle nuove tecnologie e dai nuovi materiali, del dinamismo sempre più accelerato della città moderna e della sua identificazione con “un immenso cantiere tumultuante, agile, mobile”, il quale rendesse “il mondo delle cose una proiezione diretta del mondo dello spirito”, come propone Sant’Elia6. Il quale, in anticipo su Koolhaas, prescrive che il manufatto architettonico sia alto e largo, “quanto più è necessario”, a sfida delle misure e delle norme istituzionali, proiettandolo così verso l’avventura dell’azzardo. Ma, in Koolhaas, si introduce, nello stesso tempo, qualche elemento in più di tensione e di rottura, ed è nella direzione di una deliberata opzione a favore della “neutralità”. È quanto viene esplicitamente definito come “un riallineamento alla normalità”. Nella tradizione del nuovo, pur tra varie oscillazioni, non s’incontra mai una dissonanza o un ossimoro del genere. Perché ogni invito all’incontro con l’esistente, nella sua incombenza e rudezza, è funzionale 5 6

R. Koolhaas, op. cit., pp. 22-23. A. Sant’Elia, Manifesto dell’Architettura Futurista, “Lacerba”, Firenze, 11 luglio 1914.


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costantemente e unicamente al rinvigorimento dell’espressione in senso sia linguistico-estetico, sia antropologico (per la costruzione di una nuova qualità della vita). Lo sguardo è rivolto a una situazione altra e diversa da quella trasmessa dal passato con i suoi istituti coattivi e deformanti (il museo, l’accademia, la biblioteca), si attesta quindi su un versante polemologico e sovversivo. L’avvicinamento, invece, proposto da Koolhaas, delle punte di sovversione e di “neutralità” è stridente, non comprensibile, perfino nell’ambito delle anfibologie e delle inclusività. L’architettura, se deve essere architettura, non può essere neutrale, proprio come le arti figurative, proprio come la ricerca più in generale, compresa quella scientifica e tecnologica. A meno che non si sia disposti alla nostalgia della restaurazione attraverso l’omologazione. E’ evidente, attraverso questa smagliatura, che il manifesto sulla Bigness di Koolhaas si apre a rischi, non di ambivalenza, ma di ambiguità ideale, se, nel trattare un tema di inquietante complessità, quale quello del ridisegno dei rapporti fra architettura e attualità, va a cacciarsi nel vicolo cieco di quella che possiamo, anzi dobbiamo chiamare omologazione delle istanze e dei valori, ovvero la “neutralità”. Che, poi, è una resa oggettiva allo status quo7, al potere dei meccanismi di spoliticizzazione e di ingovernabilità, al loro autogoverno e alla loro autoreferenzialità. Una resa al rafforzamento di chi è già forte e alla penalizzazione di chi è già penalizzato. Così, più che un manifesto sulla fine della città, nella Bigness di Rem Koolhaas leggiamo il suo manifesto capitalistico, dove il jukspace si fa pulsione profonda, portatrice di sfruttamento radicale e di inibizione totale. Un manifesto che richiama le culture dei poteri forti, dove si esalta la Grande Dimensione come un principio irrinunciabile, a partire dal riconoscimento dell’incapacità di sottrazione alla realtà della sofferenza e dello sfruttamento che ne costituisce il fondamento. Questo manifesto, che vige su un sentimento di impotenza, contrariamente a quanto afferma Toni Negri8 nel testo di presentazione congiunta con Rem Koolhaas della Bigness, si costituisce su una realtà radicale di sfruttamento. La Bigness è così lontana dal funzionalismo o dal razionalismo perché non riesce a costruire alcun manifesto alternativo alla condizione cinica del nostro tempo. Così la accetta, la esalta, la radicalizza, la rende visibile nella Grande Dimensione, la mistifica sotto il nome di “postmodernismo cinico”. L’ambigua e complessa attualità diventa per tale via, un principio di difesa dello status quo, della sua dittatorialità, che si assume come modello primo e totale di riferimento. Si parte da dove consiste, quale una nuova Grande Muraglia, il “riallineamento alla neutralità” e si torna obbligatoriamente ad esso, perché esso è il limite. Perché esso è la condicio sine qua non per avviare l’azione e, insieme, per verificare il senso dell’operato. Perché esso dà probabilità di successo alle ipotesi. Perché esso è l’energia, che non ha bisogno di spiegazioni, che rifiuta ogni spiegazione. D’impulso di questa energia indiscussa e indiscutibile si delineano indirizzi operativi che sconvolgono il vecchio assetto di convinzioni e di valori. L’architettura ne viene non solo secolarizzata, ma straniata rispetto alla griglia precedente di relazionalità ideali. Perduta la sua autonomia, essa è sfidata a provarsi nell’ambito delle sinergie con altri saperi e con altri linguaggi e a legittimarsi sul terreno delle disarticolazioni e delle disgiunzioni, ovvero dell’anticittà che svuota la città e si nutre dei suoi (dis)valori. La sua riconduzione coatta fondamentalmente alla produttività del cantiere è così descritta da Koolhaas: “La Bigness non ha più bisogno della città: è in competizione con la città; rappresenta la città; si appropria della città; o, ancora meglio, è la città. Se l’urbanistica genera delle potenzialità e l’architettura le sfrutta, la Bigness schiera la generosità dell’urbanistica contro la grettezza dell’architettura. Bigness = urbanistica contro architettura.” 9 A questo punto, la cortocircuitazione dei contatti e l’abbattimento dei tempi fisiologici del discorso precipitano verso frontiere dove l’ermetismo si intreccia e interagisce con i rischi del nichilismo e dell’autorappresentazione dei miti originari. Ed è a questo punto, che entra in questione il mito. Con il suo funzionamento per simboli e immagini polisemiche, con le sue veicolazioni di messaggi perentoriamente premonitori, con le sue comunicazioni affidate più a quello che non dice, che a quello che dice, per la quale peculiarità presso i greci esso fu contrapposto al “logos”, che invece si fonda sull’argomentazione e prevede l’applicazione del procedimento dimostrativo.

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Cfr. M. Ilardi, Rem Koolhaas. L’architetto che difende lo status quo, in www.archphoto.it. (Archphoto: Laboratorio di architettura e arti multimediali, Genova, Plug-In). 8 T. Negri, Presentazione di Junkspace di Rem Koolhaas, Firenze, Fondazione Targetti, novembre 2007. Il testo avrebbe dovuto essere letto da Toni Negri in occasione della presentazione del testo di Koolhaas, Junkspace, nell’ambito di una manifestazione che si sarebbe dovuta tenere a Palazzo Vecchio, nella quale avrebbero dovuto prendere parte anche Antonio Scurati e Rem Koolhaas. L’iniziativa fu negata dal Comune di Firenze, a seguito delle proteste di Alleanza Nazionale (Firenze 20 novembre 2007). 9 Op. cit., p. 23.


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Di esso non si può non parlare in questo testo, per molteplici motivi, ma per due in particolare: 1. per gettare luce su un aspetto particolare del pensiero e della comunicazione di Koolhaas, quello dell’oscurità quasi sibillina e dell’oracolarità, che in questo manifesto sulla Bigness appare più marcato rispetto agli altri suoi scritti; 2. per allargare l’orizzonte dell’attenzione sulla questione della Grande Dimensione, che risulta centrale nell’immaginario umano da sempre e, pertanto, fa da spia di un’attesa, di un richiamo non banali per la nostra vita profonda. Certamente, occorre prudenza nell’uso di questo lemma. Perché la parola “mito” è un contenitore semantico di significati che sono variati nel corso dei secoli, a cominciare dagli interventi di Platone sia nel Fedro, sia nella Repubblica. Da allora, se ne sono occupati filosofi, teologi, psicoanalisti, antropologi, sociologi, semiologi. Secondo le indicazioni più persuasive delle nuove scienze umane, esso è un linguaggio che affonda le radici nella latenza e parla la latenza per fare riaffiorare alla coscienza pulsioni e istanze rimosse (Durkheim, Mauss, Malinowski). Ma questo funzionalismo è negato da Kerényi, che invece considera il mito una realtà simultaneamente umana e cosmica. Come è negato da Mircea Eliade, per il quale esso fonda sulla ierofania, in un misto di valore umano e valore archetipico universale. Comunque è innegabile che il mito fa da congegno di scambio tra il dentro e il fuori ed è decisivo per le strutture antropologiche del nostro immaginario10. Oltre ad essere decisivo perfino per la retorica del pensiero, come sostiene Hillman nello scandaglio delle fenomenologie del potere, riguardo appunto al potere dei miti11. Sotto (inconscia) suggestione mitologica è anche la narrazione, seppure in chiave postmoderna, del costruire necessitato di Koolhaas in ubbidienza di un ordine, che si sottrae alle interrogazioni della ragione e che si alimenta di una ragione ancora più forte, in quanto essa sta al di là delle nostre possibilità indagatrici, nietzscheanamente al di là del bene e del male, come è detto esplicitamente dal teorico della Bigness12. Lo scenario che delinea Koolhaas, - e siamo al primo aspetto proposto -, è sostanzialmente dominato da una forza oscura, una specie di fato o di “ananche”, da cui dipendono sia gli svolgimenti di quelli che chiamiamo avvenimenti, sia i destini di tutti, progettisti, ingegneri e tecnici compresi. I quali sono per Koolhaas condannati alla marginalizzazione e all’insignificanza e a recitare la parte grottesca di “buffi” per i loro atteggiamenti di sterile vanità. Perentoriamente nel manifesto della Bigness si afferma più volte che non c’è salvezza, non c’è via di uscita, se non nell’accoglimento di quello che la Grande Dimensione vuole totalmente da noi. “L’assenza”, scrive Koolhaas, “di una teoria della Bigness – qual è il massimo che l’architettura può fare? – è la più estenuante debolezza dell’architettura. In mancanza di una teoria della Bigness, gli architetti vengono a trovarsi nei panni dei creatori di Frankenstein: artefici di un esperimento parzialmente riuscito, i cui risultati stanno impazzendo e sono perciò screditati” 13. Questa identica coazione ad agire, perché i fatti siano proprio essi e non altri, è nel racconto mitologico, dove ogni personaggio sostiene, in piena coerenza e fedeltà con l’impegno preso, la parte che gli è assegnata, dove ogni circostanza ricorre secondo gli appuntamenti voluti da “ciò che deve essere e non può non essere”. Dove, nel medesimo tempo, tutto si svolge sul filo del rischio e del dubbio fino alla fine, entro atmosfere di suspense e di mistero. Proprio come è nelle prescrizioni del manifesto sulla Bigness, dove è scritto: “Là dove l’architettura pone certezze, la Bigness pone dubbi: trasforma la città da una sommatoria di evidenze in un accumulo di mistero”14. Se proviamo poi a guardare alla rilevanza nell’immaginario sociale del tema della Grande Dimensione secondo il mito, indicativo sia della sua innervazione profonda nell’essenza dell’esserci, sia del suo fenomenizzarsi come risorsa della conoscenza dell’essere, di particolare importanza sotto questo profilo risulta la cosmogonia. Che è la madre di tutti i miti e, nello stesso tempo, il racconto primo che l’uomo fa a sé stesso dell’organizzazione dell’universo e dell’avvento della vita all’alba del mondo. Oltre tutto, questo mito si proietta fisiologicamente coi suoi simboli sugli scenari della costruttività, della “poiesi”, dell’architettura. E’ di casa, quindi, nell’ambito della cultura della compositività, come rileva Mircea Eliade, per la sua esemplarità archetipica. La cosmogonia, pressoché in tutte le sue versioni, ribadisce che la nascita del mondo, che si dispone sulla scala massima di tutte le misure, avviene per opera di un grande attore, il quale è al di sopra delle fenomenologie comuni e dispone di poteri eccezionali. Che il passaggio avviene dal caos e dall’informe all’esattezza e all’evidenza delle forme. Che l’evento accade a spese di qualcuno, che in genere versa un tributo di sangue, o di qualcosa che viene attinto dalla materia originaria (anonima, indefinita, preesistente) e viene ridisegnato in nuovi 10

Cfr. G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario. Introduzione all’archetipologia generale, Bari, Dedalo, 1972. Ma cfr. anche G. Bachelard, La psicoanalisi del fuoco, ibidem, 1972; idem, La poetica della reverie, ibidem, 1972. 11 Cfr. J. Hillman, Il potere. Come usarlo con intelligenza, Milano, Rizzoli, 2002, p. 245 e segg. 12 R. Koolhaas, op. cit., p. 15. 13 Ibidem, p. 19. 14 Ibidem, p. 15.


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profili. E’ singolare questa concordanza del sacrificio nelle tradizioni e nelle saghe di tante e fra loro disparate culture. In Persia, si raccontava del dio Mitra ovvero Ahriman che crea il mondo col sangue e le carni di un toro da lui ucciso. Nei Rig Veda indiani, si parla degli dèi che ammazzano un essere mostruoso primordiale, il gigante Purusha, e che così danno vita all’esistenza materiale e spirituale. Presso gli indù, era\è diffusa e forte la credenza che il mondo è posto in essere sugli effetti della lotta sostenuta dalle divinità contro mostri molteplici e orrendi e contro gli asura, che sono dei demoni. Nelle leggende scandinave, si parla del gigante Ymir, che viene sbranato e che con il suo corpo straziato dà il via al sorgere dell’universo. Particolarmente intrigante, al riguardo, è uno dei testi cosmogonici più fortunati dell’antichità, che contiene la leggenda mesopotamica di Marduk e della guerra degli dèi. Così, è singolare che, come nei racconti cosmogonici, il sacrificio sia altrettanto discriminante per la svolta verso il nuovo mondo nel manifesto di Koolhaas. Solo il sacrificio, infatti, autorizza l’installazione della prospettiva della Bigness. Alla quale si riconosce che essa sta già intervenendo di suo nella storia, ma che potrà esercitare pienamente la sua missione di sovversione e di svolta nella cultura contemporanea, solo se essa diventa, attraverso la teoria critica, una nuova interpretazione della realtà e un valore ideale da nuova frontiera. Il sacrificio è il postulato e il medium dell’intero discorso del manifesto. Esso entra in scena come antefatto della Bigness, secondo la lettura (tutta ideologica) datane da Toni Negri15. Il quale viene scelto (significativamente in quanto proverbiale esponente di posizioni radicali) da Koolhaas come suo interlocutore nell’occasione della presentazione della nuova edizione del manifesto in Italia, che si sarebbe dovuto tenere a Firenze nel 2007 e che poi non si terrà. Nel tracciato esegetico, che avrebbe dovuto supportare il dibattito e che Toni Negri diffonderà successivamente in internet, si sostiene la tesi secondo cui la Bigness si giustifica come il manifesto della contemporaneità, in particolare dell’immolazione delle speranze, delle attese, degli sforzi e dell’alienazione del lavoro e del prodotto dei diseredati e dei ceti marginali. Dunque, pensa Negri, come cifra che si costituisce su un cumulo di torti, di violenze, di massacri di energie e di vite su cui si è formata, sotto gli occhi e la connivenza di tutti, la metropoli moderna con le sue dismisure, con la sua violenza cieca, con la sua irrazionalità feroce. Pertanto, è da questo cumulo di malesseri, che la Bigness annuncia se stessa. Di fronte a ogni ipotesi di rovesciamento dell’ordine (sadico) costituito, non resta, dunque, che fare del disastro e dello scacco della città moderna una risorsa di sovversione e di (escatologica) palingenesi. A prescindere, però, dalle ricezioni di lettura e di interpretazione da parte di terzi, come, ad esempio, qui da parte di Toni Negri, il sacrificio è esplicitamente invocato da Koolhaas, sia nel corso, sia a conclusione del manifesto sulla Bigness, dove si prospetta il sacrificio dell’architettura, che è la vittima sacrificale designata (non solo dagli altri, ma anche da sé stessa). Ovviamente, attraverso l’immolazione si apre il varco alla catarsi e alla riabilitazione. Solo passando attraverso la (crudelissima) prova della morte, la vittima può ambire a una vita ulteriore, anzi a un suo legittimo e decoroso accoglimento nella storia, ma sotto mutate spoglie e funzioni16. Ed ecco il vaticinio (oracolarmente espresso da Koolhaas) del sacrificio dell’architettura: “La Bigness è l’ultimo baluardo dell’architettura – una contrazione, una iper-architettura. I contenitori della Bigness saranno i punti di riferimento in un paesaggio post-architettonico – un mondo da cui è stata raschiata l’architettura nello stesso modo in cui nei dipinti di Richter è stato raschiato il colore: inflessibile, immutabile, eterno, prodotto da uno sforzo sovrumano. La Bigness lascia il campo al dopo-architettura” 17. E’ ancora il trionfo della mitologia 18. Con ciò non si vuol prendere posizione contro le mitologie moderne o postmoderne. Si vuole piuttosto rilevare criticamente quanto oggi occorra proiettare la nostra osservazione e il nostro impegno verso un più complesso razionalismo, per riconoscere una condizione di necessaria crisi, dalla quale non potremo uscire attraverso uno sforzo volontaristico. Se è questa la condizione odierna, di aver perso una lingua comune e un fondamento collettivo, allora il valore di un metodo starà nella sua infinita capacità di sollevare interrogativi sepolti, secondo una disposizione sempre risorgente, contro cui tutta l’aspettativa del mondo non può prevalere. È questa una condizione che non “chiude”, ma apre e destabilizza, per illuminare la sua apertura senza fine. Come una scena primitiva e influente che interviene su frammenti di castelli ideologici, per mostrare quanto la fonte si faccia confluenza, quanto il sapere sia un universo reversibile che necessita dell’esperienza di tutti. 15

Cfr. T. Negri, op. cit. E’ questa, per ammissione dello stesso Koolhaas, la condizione moderna. Cfr. B. Steele, Supercritical, cit. 17 R. Koolhaas, op. cit., p. 15. 18 Ovviamente, con questa particolarità: che il discorso classico della mitologia riguarda il passato, cioè eventi accaduti nel passato, quale scenario fisiologico delle rivelazioni della verità e della bellezza, mentre il discorso moderno si proietta in avanti, verso il futuro, il quale è, nelle assunzioni culturali del nostro tempo, la sede in cui finalmente si riveleranno al mondo verità e bellezza, ovviamente in declinazioni morfologiche molto diverse da quelle che abbiamo conosciuto finora e che conosciamo attualmente. 16


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È su questa e su altre tracce, che si sono mossi gli studi e le ricerche di inizio secolo scorso, allorché, in Avventura novecentista, Massimo Bontempelli scriveva che il compito più urgente del nuovo secolo sarebbe stato quello di ricostruire il tempo e lo spazio. O, allorché, in Racconti e romanzi, in una galoppata a perdifiato con il suo compagno Filippo Tommaso Marinetti, Bontempelli ammoniva contro i rischi della velocizzazione del tempo. Se l’intero Novecento si è confrontato con questi temi e con queste prospettive di rovesciamento delle mitografie e di richiamo a un pluralismo della ragione, è con la medesima situazione di crisi che viviamo oggi, di conflitto tra città e architettura e di fine dei grandi racconti, con cui le utopie degli anni ’60 e ’70 hanno fatto i conti, rendendo alla modernità la sua sfida, come un progetto imperfetto, fatto anche di inganni e di autoinganni. Per tornare a sondare quanto la realtà si offra al campo delle sue possibilità. Non, dunque, immaginando un’altra realtà, ma provando a illuminarla in un gioco complesso di prolungamenti, di idées e di rêveries. È questa la straordinaria forza dell’utopia, la sua capacità di costruire, nelle pieghe del reale, un reale alternativo, in un viaggio a ritroso dal realismo alla realtà, per illuminarne un volto nascosto. Attraverso, dunque, il ricorso a un più complesso pensiero teorico e critico, non basato su sistemi chiusi o sull’accettazione dell’esistente, ma che connetta tracce, ricostruisca nessi, disveli nuovi possibili intrecci per nuove pratiche architettoniche. Si pensi, in tema di Grande Dimensione, al lavoro di Archigram, Metabolism e Archizoom, al “monumento continuo” e ai “superprogetti” di Superstudio. Si pensi ai progetti per No-Stop City, organismo infinito e disteso in orizzontale, una musiliana città “senza qualità”, senza monumenti né storia, nel suo disporsi come un’opera d’arte seriale, senza centro né confini, come una estesa, gigantesca serigrafia di Warhol. Ognuno di questi progetti rappresenta un’immagine teorica e provocatoria legata al conflitto architettura/città, e all’idea - non diversamente da quanto affermerà Koolhaas in Bigness - di un’apertura alla sfera dell’urbano, contro il potere del singolo progetto, pensato come un congegno definitivo. Una prospettiva, questa, dentro cui scorrono, non diversamente dalla prospettiva critica del teorico della Bigness, l’idea del suicidio dell’architetto e della sparizione dell’architettura19. Alla base delle loro idee e delle loro utopie, Manfredo Tafuri20 ha scritto che vi erano i miti di Flash Gordon e di Superman. Che la loro era certamente una generazione arrabbiata, ma disposta a riversare il proprio furore e la propria carica ideale nell’orgia della psichedelia. A una distanza consentita dal tempo, dobbiamo riconoscere quanto quell’ideale psichedelico abbia costruito una logica per immagini che non rinnega l’ordine, se non quello schiacciante dell’anticittà (dove si origina il sostrato colturale della Bigness di Koolhaas). Traendo le mosse da premesse analoghe a quelle che Koolhaas riverserà nel suo manifesto, queste utopie disvelavano quanto la città vivesse dentro un filo spezzato che la poneva in antagonismo al mito del progresso, all’idea di un’interna continuità, alla nostalgica evocazione di un soggetto collettivo. Così, nel suo manifesto Per un’architettura non figurativa21, Andrea Branzi, riprendendo gli studi e le ricerche degli anni ‘70 degli Archizoom, evidenzia quanto la rescissione di questo legame costituisca una condizione del nostro tempo, come una fase di sperimentazione duratura. Quanto l’urbano si disponga come una prospettiva infinita, fatta di materiali magmatici e di realtà innervate, portatrici di profonde trasformazioni. Ma da qui in poi, le scelte, le valutazioni si fanno diverse. Perché per Branzi, la modernità, per superare l’incertezza (e, dunque, il ricorso a un gesto forte dell’architettura) dovrà disporsi, di fronte all’artificio, come un progetto debole e diffuso entro scenari di complessità e di flessibilità, per procedimenti variantistici, per assaggi ermeneutici del nuovo tempo, per riconoscimenti di fallimenti, per suggestioni delle tecnologie avanzate, per attivazioni di sinergie multi\interdisciplinari, per accoglimenti di attese ambientali. Una prospettiva, questa, che si afferma disarmando il cemento armato e aprendosi a sistemi imperfetti, rappresentativi di una condizione urbana dispersa, introflessa, relazionale, analogamente imperfetta. Così, a differenza di Koolhaas, Branzi afferma quanto sia necessario oggi pensare a metropoli del futuro, più simili a favelas ad alta tecnologia, che ai grandi oggetti delle città americane o asiatiche. Quanto, infine, più che alla grande dimensione dell’edificio, oggi si debba guardare alla grande dimensione delle masse, alle loro presenze espressive, come a un grande paesaggio umano mobile, corporeo, dalle dimensioni inusitate, che attraversa il pianeta e indebolisce ciò che abbiamo chiamato architettura. È forse questa, della grande massa e del corpo, delle popolazioni in movimento, dei grandi cambiamenti e delle comunità che verranno, la nuova frontiera della Grande Dimensione.

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Cfr. R. Gargiani, Dall’onda pop alla superficie neutral. Archizoom Associati 1966-1974, Milano, Electa, 2007. M. Tafuri, History of Italian Architecture 1944-1985, Cambridge, Mass: The Mitt Press, 1990, p. 383. 21 A. Branzi, Modernità debole e diffusa. Il mondo del progetto all’inizio del XXI secolo, ibidem, p. 10. 20


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L'AVANGUARDIA INCOMPIUTA. UTOPIA, INFRASTRUTTURA E TERRITORIO NEI PROGETTI DELLA "NUOVA (GRANDE) DIMENSIONE" IN ITALIA - 1959/1977 Aldo Aymonino*

Arrivando a Roma nel 1993 per una serie di conferenze alle Università di Roma e Pescara, Rem Koolhaas guardando il Palazzo della Civiltà del Lavoro, che dall'alto dello sperone tufaceo su cui sorge segnala i prodromi dell'area metropolitana a chi arriva dall'aeroporto, chiese le misure dell'edificio alle persone che lo accompagnavano (51 m di lato per 58 di altezza). Non ottenendo risposte precise disse comunque che, ad occhio, quelle dimensioni volumetriche gli sembravano pressoché identiche al suo progetto di concorso per il ZKM di Karlsruhe concludendo poi con un'affermazione apparentemente sorprendente: "Non c'è dubbio che, se devo pensare nella volumetria dei miei progetti ad una fonte d'ispirazione, essa è l'architettura romana antica e moderna." L'aneddoto riportato credo possa segnalare due momenti, uno più puntuale, l'altro più generale (o meglio, meno precisato) della stessa medaglia. Da una parte l'EUR (e alcuni altri esempi dell'architettura fascista) come "prolegomena" ai temi emergenti della "nuova dimensione", dello scambio tra edificio e territorio e a quello del nuovo ruolo dell'infrastruttura come elemento architettonico capace con la sua presenza di disegnare il nuovo spettacolo urbano (si pensi al disegno prospettico del progetto di Luigi Moretti per la piazza Imperiale del 1938 dove il fuoco di tutta la composizione è costituito dalle platee inclinate che guardano verso l'autostrada centrale la via Imperiale - rendendo così il traffico veicolare vero protagonista di quello spazio). Dall'altra, l'apprezzamento dell'architetto olandese rende esplicita quella che al fondo vuole essere la tesi di questo scritto: la cultura e la sperimentazione architettonica italiana tra il 1950 e il '70 (oltre a quella storico/critica o sul dibattito urbano) come avanguardia di alcuni temi del contemporaneo, dal modello insediativo al disegno del territorio, alla "nuova dimensione" appunto (basti confrontare, al proposito, la planimetria della Pilotengasse di Herzog e de Meuron a Vienna con quella del Villaggio Olimpico romano o vedere quanto Saverio Muratori si incontri nelle "textures" di molti nuovi insediamenti abitativi spagnoli e austriaci e quanto siano debitori alle ricerche sul rapporto tra architettura e infrastruttura, ricerche che ruotavano intorno allo Studio Gregotti nei primi anni '70, molti degli edifici costruiti nella Francia mitterandiana a cominciare dal Ministero delle Finanze di Chemetoff). Tuttavia è questa la storia di un’avanguardia debole e imperfetta, incapace di confrontarsi e di incidere in termini operativi con delle strutture pubbliche provinciali e spesso velleitarie e con una classe politica clientelare (si veda ad esempio la scellerata gestione delle aziende pubbliche dalla metà degli anni '60 ad oggi) che abbandonata di fatto ogni seria politica di programmazione, si avviava precocemente ad un modello di controllo della pianificazione basato su veti incrociati che avrebbe reso inefficiente e superflua - dal punto di vista operativo - la pratica concorsuale, innescando viceversa il meccanismo della "procedura d'urgenza" nell'affidare gli incarichi di progettazione che ha fatto sì che non esista de facto (caso unico nella storia patria) un monumento dell'Italia repubblicana ad eccezione, forse, delle Fosse Ardeatine. La "nuova dimensione" dunque (e con questo termine vogliamo indicare la totale indipendenza dell'oggetto architettonico dal contesto urbano che lo circonda e, di conseguenza, la sua autonomia formale come radice morfogenetica di un nuovo rapporto con il territorio e con le reti) viene sperimentata, sia pure in maniera non totalmente consapevole, nei progetti di concorso d'anteguerra, ma è nei tre lustri che vanno dal 1959 al 73 (con due eccezioni, una precedente, l'altra successiva) che emergerà come uno dei punti cardine della ricerca italiana. Una prima avvisaglia che qualcosa sta cambiando nel binomio sino ad allora considerato irrescindibile tra forma e significato è costituito dal progetto elaborato per un imprenditore romano dallo studio Monaco e Luccichenti tra la fine degli anni '40 e i primissimi anni '50 (la data è a tutt'oggi ancora incerta) per un grande trade center posizionato sull'area di via dei Fori Imperiali che aveva visto svolgersi il I° grado del concorso per il Palazzo del Littorio e su cui Terragni e Lingeri avevano proposto di erigere il Danteum1. Messi a confronto con alcune delle rovine più significative (e meglio conservate) della romanità, Monaco e Luccichenti ne assumono parzialmente la strategia volumetrica e figurativa adottando una forma primaria e disegnando un edificio triangolare di 250 metri di lato che va a contrapporsi al parallelepipedo della basilica di Massenzio e all'ellisse del Colosseo. A questa geometria elementare corrisponde un'immagine architettonica molto modulare e ripetitiva che però riesce a diventare aggressiva e "moderna" attraverso una rampa carrabile che si snoda (per due chilometri) dal piano terra al tetto e che configura un oggetto allo stesso tempo enigmatico e permeabile. Ma è con la "entry" del gruppo Quaroni per il concorso della Barene di San Giuliano a Mestre del 59 che i rapporti ponderali tra segno, infrastruttura e architettura subiscono una drastica mutazione.2 1 2

A. Aymonino, Riscoperta di un progetto dimenticato, in Abitare, ottobre 1995, p. 163. F. Garofalo, Grande è bello nell’Italia del boom, in Italia: gli ultimi trent'anni, Zanichelli, 1988, p. 63.


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"Sotto qualsiasi angolo visuale, comunque, noi esaminiamo quest'opera, essa ci appare contemporaneamente come sintesi di tutte le esperienze precedenti e come decisa apertura verso nuovi orizzonti operativi, verso nuovi modi di considerare i problemi dell'architettura, dell'urbanistica, della città stessa."3 E, in effetti, col lavoro di Quaroni vengono poste le basi per un progetto che è motore d'avviamento di una serie di processi di medio/lungo termine di cui il progetto stesso rappresenta l'immagine, non la forma finita. Le Barene, infatti, sono il primo esempio in cui gli elementi architettonici vengono posti in secondo piano o addirittura cancellati in favore di un'immagine volumetrica (e in questo vi è una grande differenza con l'esempio kahniano di Philadelphia), di un disegno infrastrutturale e di un rapporto con il territorio che rendono l'immagine del partito architettonico semplicemente superflua. Il progetto si pone come baricentro, non solo geografico ma anche figurativo, del sistema metropolitano Venezia/Mestre e i quattro edifici semicircolari che dominano la composizione (i "monumenti" che innervano a raggiera tutto lo sviluppo del "tessuto" circostante) sono oggetti a molteplice significato simbolico: insenature e baie lagunari certo, ma anche snodi, ingranaggi e centri motorii. La ricerca sulla grande dimensione verrà portata da Quaroni a conseguenze figurative e formali ancora più radicali nel progetto per la Kasbah di Tunisi del 1965, in cui l'enorme oggetto architettonico della nuova cittadella si sovrappone al minuto tessuto della città storica come una sfinge calata dal cielo i cui unici interlocutori (come nelle piramidi di Giza) sono Dio e i movimenti geologici del terreno intesi come contributo al disegno morfologico del territorio. Nel 1962, alla fine del grande boom della ricostruzione (e all'avvio dell'unica grande operazione di pianificazione pubblica applicata - e riuscita - dell'Italia del dopoguerra, la costruzione della rete autostradale) il concorso per il centro direzionale di Torino segna un'altra importante tappa della ricerca: la linea di tendenza a concentrare in aree (in questo caso centrali) della città buona parte della struttura terziaria e, simmetricamente, il tentativo di dare a tutto ciò un'immagine finita porta a risultati tra i più convincenti nella messa a punto di vere e proprie icone formali capaci di sottendere da sole a differenti metodologie sintetiche e flessibili, capaci di affrontare le numerose richieste, peraltro piuttosto generiche e contraddittorie contenute nel bando.4 Due (e tra loro diversissimi) i progetti che in questo senso meritano di essere ricordati. Il secondo premio assegnato al gruppo Samonà (il primo era andato al gruppo Quaroni - che veniva così parzialmente compensato della mancata affermazione al concorso delle Barene - che presentava una proposta che articolava un gruppo di torri alte 120 m su di un basamento, mimando così l'immagine di una "city" americana) premiava una soluzione a piastra molto complessa nel suo andamento planimetrico, ma che aveva nella sensuale enigmaticità del suo sviluppo volumetrico (esaltata da una magistrale prospettiva dell’architetto siciliano) il suo punto di forza. All'altro estremo semantico e morfologico può collocarsi il progetto"Locomotiva 2" del gruppo lombardofriulano dei giovanissimi Polesello, Rossi e Meda. Qui un enorme cubo di dimensioni assolute (la stessa altezza del neo-costruito grattacielo Pirelli per 300 metri di lato; interasse strutturale di 100 - dicasi 100! - metri; 2,5 milioni di metri cubi) domina la città risolvendo in un sol gesto la complessità del rapporto col costruito circostante, col territorio e col paesaggio alpino incombente. Al suo interno viceversa questo smisurato volume virtuale si svuota lasciando posto ad una meta-corte piena di segni e di grandi oggetti: i nastri di due strade sopraelevate, la sfera d'acciaio del centro congressi, i muri in pietra dei negozi, gli spalti verdi. L'indifferenza alla scala edilizia dell'intorno, l'articolazione tutta interna all'inviluppo dell'edificio, il suo porsi a cavallo delle reti infrastrutturali (come punto di interscambio di molteplici funzioni) ne fanno un vero e proprio manifesto paradigmatico delle ricerche sulla grande dimensione in Italia e un futuro serbatoio formale di riferimento per i suoi autori (va segnalata, in dimensioni ed esiti formali del tutto diversi, la similitudine tipologico/figurativa del progetto sopracitato con il palazzo di giustizia di La Spezia di Ignazio Gardella appena inaugurato). Negli anni successivi al concorso di Torino nella ricerca italiana sembra prendere maggior vigore quella corrente megastrutturalista, per altro già presente nei concorsi summenzionati, di diretta derivazione nord/europea e nipponica. Sia i corsi compositivi degli ultimi anni alla facoltà di Roma (1962/64), sia la proposta per il centro direzionale di Bologna (1962/67), sia la ricerca dello studio Asse (1967/70) sembrano indicare un'inversione di tendenza rispetto alla poetica dell'unico "disegno" capace di evocare una chiara direttrice propositiva e, al contempo, una distaccata flessibilità alla ipotetica realizzazione. In altre parole sembra che man mano che si complessizzano e si precisano i rapporti tra le parti (cioè l'architettura), venga meno l'idea di modello insediativo, capace di aprire da solo, con la sua iconicità, una pluralità di relazioni a scala territoriale. La progettazione (1970/71) e la successiva realizzazione in quegli anni del quartiere Rozzol Melara a Trieste (da parte di un numeroso gruppo di progettisti coordinati da Carlo Celli) rappresenta un ulteriore scarto dal doppio significato, segnalando sia che la "nuova dimensione" non è soltanto (o non è più) patrimonio esclusivo di

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M. Tafuri, Ludovico Quaroni e lo sviluppo dell'architettura moderna in Italia, Edizioni di Comunità, 1964, p. 158. Casabella n. 278, agosto 1963.


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funzioni terziarie sia che, per la prima volta, il lessico segnico dell'infrastruttura viene citato esplicitamente nell'architettura dell'edilizia abitativa. "L'aver sollevato l'intero edificio da terra mediante la creazione di piani orizzontali artificiali "portati" da strutture che ... ricordano quelle stradali ha permesso di svincolarsi da un'orografia molto tormentata, di poter ripristinare, alla fine, il terreno naturale come era prima. Le strutture portanti sono .... molto simili a quelle dei viadotti automobilistici".5 La corte triestina, grazie anche alla sua inusuale dimensione riesce, con una bilanciata crasi a rendere omaggio sia alle ricerche lecorbusieriane più estreme (Plan Obus) sia a quelle che lavorano sull'impianto, sulla tipologia e le sue variazioni (la corte contraddetta della Tourette ... ma anche Locomotiva 2). Nel 1971 il concorso per la nuova università di Firenze (il primo di una serie che vedrà in rapida successione svolgere anche quelli per gli atenei di Salerno, Cosenza e Cagliari) rende palese l'abbandono da parte dell'amministrazione pubblica della politica di investire tutte le risorse di immagine (e non) della città futura nel terziario, inaugurando, nel tentativo di raggiungere un’effettiva pax socialis, una stagione di maggiore attenzione alle attrezzature di base, prima tra tutte l'istruzione universitaria. Il concorso fiorentino dà anche la possibilità al gruppo di lavoro che ruota intorno a Vittorio Gregotti e al suo studio (Franco Purini collabora con Gregotti dal ‘68, Emilio Battisti viene cooptato proprio con questo concorso, Pierluigi Nicolin arriverà nel ‘72) di mettere a punto un'icona "manifesto" del lavoro degli anni precedenti. Il progetto Amalassunta, infatti, riesce a riunire in un'unica immagine forte e convincente tutti gli studi dei rapporti tra eccezione dimensionale del manufatto architettonico, multifunzionalità, infrastruttura e città che lo studio aveva già cominciato ad indagare nei tardi anni '60 e che avevano avuto nei progetti per le sedi Rinascente di Torino e Palermo, nel quartiere ZEN e nei laboratori universitari del Parco d'Orleans (sempre nel capoluogo siciliano) i risultati più puntuali. A queste premesse il progetto Amalassunta aggiunge una dimensione territoriale e metropolitana sconosciuta ai lavori precedenti. Non va scordato che Gregotti aveva indicato già da quando era stato caporedattore della rivista "Edilizia Moderna" (a cui aveva dedicato un numero monografico) e sin dal titolo del suo libro più importante - "Il Territorio dell'architettura" (1966), nel dialogo tra la "forma" orografica e morfologica del territorio e il "disegno" dell'architettura la possibilità di rapporti che esulassero dal continuo dualismo "interruptus" tra architettura e urbanistica in funzione di una nuova scala (dimensionale concettuale ed etica) della gestione del progetto. Il risultato progettuale del lavoro su Firenze (ma sarebbe meglio dire sull'area fiorentina) riesce a mantenere un miracoloso equilibrio di chiarezza - grazie anche ad alcuni spettacolari disegni di Purini - tra modello insediativo territoriale e immagine architettonica "forte" e, nella sua accezione plastica, finita. Le cinque barre dell'Università (ma che delimitano anche zone destinate al governo regionale, ad attrezzature commerciali ricettive e sportive, a servizi generali e ad un grande scalo merci ferroviario) poste con ritmo irregolare a cavallo del fascio infrastrutturale della direttrice Firenze - Prato - Pistoia, disegnano al contempo una iper-centuriazione tecnologica nel paesaggio ed il recinto di una città di fondazione che coniuga, asciugandole e rendendole credibili, le immagini dei ponti abitati degli autogrill autostradali e i virtuosissimi infrastrutturali delle visioni utopiche megastrutturali. Gli anni 1972/73 rappresentano per l'architettura italiana della "nuova dimensione" da un lato l'apertura verso alcuni nuovi temi di progetto, dall'altro una brusca interruzione di quel filone di ricerca spiegabile soltanto con la inconfessabile consapevolezza da parte dei protagonisti che un ciclo di sviluppo economico e morale del paese si stia chiudendo e che altre forme d'indagine progettuale stiano rapidamente rendendosi più necessarie. Nella mostra del 1972 al newyorkese MOMA "Italy: the new domestic landscape" il gruppo fiorentino Superstudio presenta il suo progetto per un "Monumento continuo" (1969/71): un traslucido parallelepipedo ininterrotto corre lungo la Fifth Avenue inglobando il basamento di tutti gli edifici.Totalmente autoreferenziale (la sua unica cifra architettonica è una maglia quadrata che segna tutta la sua superficie) e indifferente al contesto riesce, con la sua sola presenza a cambiare totalmente le regole del paesaggio urbano. Il progetto (che anticipa di poco un'analoga proposta dell'OMA - Exodus or the voluntary prisoners of Architecture) darà al Superstudio e al movimento per l'Architettura Radicale tra i primissimi (e in seguito molto rari) momenti di fama internazionale all'architettura italiana del dopoguerra. Ma è al già citato Franco Purini, una delle poche figure di "razionalista visionario" del dopoguerra (inserita in un filone poetico che va da Sant'Elia al primo Rossi passando però nel caso specifico per Cattaneo e Sacripanti e con alcune spregiudicatezze lessicali degne di un Giò Ponti), che vanno imputate due tra le elaborazioni più interessanti dell'età matura della ricerca sulla "nuova dimensione". I suoi progetti per il centro direzionale di Latina (1972) e per la sistemazione delle cave di Monte Ricco (1973) introducono e sistematizzano il doppio rapporto tra terreno e territorio come elemento cruciale nella definizione strutturale della città/regione. A Latina un terrapieno a croce di 1200 metri di lunghezza "fonda", riprendendo gli etimi connotativi dal paesaggio artificializzato circostante (filari d'alberi e argini dei canali di bonifica), una nuova struttura territoriale che ha 5

C. Celli, Pubblico e privato nell'insediamento Rozzol Melara, in Casabella n. 437, 1978.


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come scala referenziale a 360° lo scenario geografico del basso Lazio (non a caso uno dei bracci della croce è orientato verso l'unica emergenza morfologica della costa - il promontorio del Circeo). Nel progetto di Monte Ricco invece, un involucro murario recinge l'emergenza naturale esaltandone l'andamento con le modalità di un antico acquedotto: attraverso il variare della sua quota d'imposta a terra. Vera cinta muraria trasfigurata, posta a guardia delle "misure" della Natura, essa divide il paesaggio limitrofo in un "di qua" e un "di là" che ricorda molto da vicino le coeve ricerche di Javacheff Christo nel californiano "Running Fence" o per il "Valley Curtain". Accomunabile al progetto puriniano per Latina per l'iconicità assoluta della figura geometrica primaria e per il protagonismo architettonico dei movimenti di terra, e simile al contempo, nelle modalità dell'inglobare al suo interno un inalterato lacerto territoriale, sia a Monte Ricco sia alle sperimentazioni delle landscape art, il progetto di Gabetti e Isola per il centro direzionale Fiat a Candiolo (1973) prosegue a scala topografica la linea della ricerca inaugurata dagli architetti piemontesi nel Centro residenziale Olivetti a Ivrea (1969). Un'architettura fatta soltanto di terra e vetro disegna una circonferenza perfetta di un chilometro di diametro. Soltanto l'andamento della rete infrastrutturale di attraversamento e di servizio e il disporsi della sezione dell'edificio in maniera traslata e non speculare sulle due semicirconferenze (la parete vetrata è sempre orientata a nord, il terrapieno a sud (alterano la perfetta equivalenza delle due metà, disegnando un edificio che, si pone all'interno del sistema territoriale in maniera più articolata e complessa di quanto il suo "segno" formale faccia sospettare. Il concorso per il Centro direzionale di Firenze chiude, nel 1977, la vicenda dei concorsi pubblici e privati dedicati a questo tema. Dei protagonisti del concorso di Torino il solo Quaroni è assente. Le soluzioni presentate mostrano un generale infiacchimento della carica utopistico/ottimistica di 15 anni prima per far posto a soluzioni articolate e ragionevoli, maggiormente connotate dal punto di vista architettonico e dalla cifra stilistica dei vari progettisti. L'unica eccezione è rappresentata dal gruppo di Gianugo Polesello che a tre lustri di distanza riprende, invertendolo, il tema simbolico/volumetrico di Locomotiva 2: ciò che nel progetto torinese era pieno qui è vuoto e viceversa. Le nove torri fiorentine ricompongono e volumetrizzano nella loro compattezza figurativa, ottenuta attraverso la reiterazione dello stesso elemento, l'interno vuoto del cubo apparente di Torino, mentre la grana dei materiali da costruzione (basamento opaco in c.a., fusto traslucido in acciaio e vetro) ne disegna il contrappunto materico. Due altre forme euclidee poste volumetricamente (ma non planimetricamente) in sottordine rispetto alle torri un triangolo rettangolo e un parallelepipedo - chiudono la composizione con bassi volumi che vanno ad agganciare il sistema infrastrutturale regionale, disegnando lo spazio collettivo alla quota del terreno. Questo progetto chiude in Italia, con un segno iconico di rara efficacia, la ricerca sulla "nuova dimensione". Da allora, come sempre più spesso è accaduto nelle vicende intellettuali del nostro Paese negli ultimi due decenni, essa è emigrata verso altre parti del mondo.

*aprile 1996


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LA GRANDE CITTÀ Alberto Cassani

“Western metropolitano” è forse l’ossimoro più famoso della storia del cinema. È un segno di quanto l'ambiente in cui i personaggi si muovono può connotare il film. Di quanto, anzi, può diventare importante per lo spettatore nella comprensione di ciò che sta guardando. Nella corretta identificazione dello spettacolo cui sta assistendo. Pensateci: nessuno spettatore definirebbe mai Guerre Stellari un western, eppure la trama del primo film (il quarto, se chiedete a George Lucas) non si discosta di molto da quella di un qualunque classico western dei tempi di John Ford, col settimo cavalleggeri travestito da Han Solo che sbuca inatteso a salvare i protagonisti proprio come nel finale di Ombre Rosse. Perché non è un western? Perché non è ambientato nel vecchio west, e poiché all'epoca la critica cinematografica non cercava così ossessivamente le etichette come fa invece oggi, non è un western spaziale bensì, più propriamente, un film di fantascienza. La città, però, non è un ambiente cinematografico come gli altri. Spesso si limita a fare da “semplice” ancorché affascinante scenario al cui interno i personaggi si muovono di vita propria – come succede ad esempio nella Latina ritratta da Paolo Sorrentino ne L'amico del cuore – e può facilmente connotare il tipo di film fino a fargli assumere (o fargli perdere) una particolare caratteristica di genere, ma rispetto agli scenari naturali può essere plasmata dal regista fino a diventare parte integrante della storia. Non solo a dare alla storia una precisa connotazione geografica, ma proprio a guidarne lo sviluppo, avvolgendo i personaggi tra i suoi palazzi e nei suoi quartieri, influenzandone le azioni fino a diventare un loro alleato. O la loro nemesi. È contro la città, più che contro i suoi abitanti, che lotta Iena Plissken in 1997: Fuga da New York, forse l'esempio più riuscito proprio di quel western metropolitano di cui si diceva all'inizio. Al di là dell'ambientazione fantascientifica, la New York immaginata da John Carpenter non è diversa da quella reale, come non sarà diversa da quella reale la Los Angeles del sequel/remake Fuga da Los Angeles. In entrambi i casi, Iena è costretto a superare sfide che derivano dalla natura stessa della città che sta cercando di attraversare: se nel violento Bronx è protagonista di un incontro di wrestling estremo, nella luccicante città degli angeli è costretto a giocare a pallacanestro; se nella grande mela si ritrova prima a teatro e poi in una stazione ferroviaria, a Los Angeles incontra prima un chirurgo plastico e poi un surfista. Perché non è Iena che si muove in una città, è la città che si stringe attorno a lui. La stessa cosa che succede al personaggio di Griffin Dunne in Fuori orario. D’altra parte, è un film diretto da Martin Scorsese, che al fascino delle strade della sua New York ha sempre prestato grande attenzione. In questa occasione ambienta la storia a SoHo (“South of Houston Street”), quartiere degli artisti vivace e piuttosto bohémien, dove si possono trovare decine di gallerie d’arte e di jazz club. Un quartiere forse meno coreografico del vicino Greenwich Village ma decisamente più intellettuale, in cui le costruzioni in ghisa sembrano quasi sculture postmoderne. La storia immaginata da Joseph Minion non avrebbe potuto funzionare in nessun altro quartiere. O meglio: in un altro luogo sarebbe diventata un’altra storia, proprio perché SoHo ne è parte integrante e insostituibile. Come detto, poi, Scorsese è sempre stato un regista attento all’ambientazione metropolitana – basta come esempio la New York attraversata dal tassista Robert De Niro in Taxi Driver e dal lettighiere Nicolas Cage in Al di là della vita – ma mai era riuscito a fare della città un personaggio così forte. In realtà, già negli anni Venti del secolo scorso la città aveva iniziato a essere vera e propria protagonista, al cinema. Si trattava però quasi sempre di film documentari o d’avanguardia, che spesso non avevano alcuna componente narrativa al di là del concetto che ne stava alla base. L’esempio più fulgido è senz’altro À propos de Nice, in cui nel 1930 Jean Vigo e il suo operatore Boris Kaufman mettono alla berlina la Nizza opulenta e scollacciata che festeggia il carnevale. Ma l’occhio di Vigo è puntato soprattutto sulle persone, non sulla città: pur essendo un film “a proposito di Nizza”, è soprattutto un film sull’umanità. In questo, il cinema sperimentale è stato sicuramente più attento, a partire da Manhatta (volutamente senza la finale) di Paul Strand e Charles Sheeler del 1921 fino all’Empire di Andy Warhol del 1964 passando per il progetto mai realizzato Dinamica della metropoli di László Moholy-Nagi, che avrebbe dovuto essere un film puramente visivo, capace di sfruttare le possibilità della macchina da presa per esaltare la propensione che la grande città ha di arricchire l’individuo e la sua percezione sensoriale attraverso le sue componenti tecnologiche. Qualcosa di molto vicino all’idea di Moholy-Nagi la realizzerà Walter Ruttman nel 1927 fondendo magistralmente immagini e musica in Berlino – Sinfonia di una grande città, ma un punto di vista tutto sommato simile a quello dell’artista ungherese era stato espresso nel decennio precedente dai futuristi italiani. Per quanto i pochi film realmente girati dal gruppo di Marinetti non siano a livello delle intenzioni di partenza, nel Manifesto della Cinematografia Futurista presentato nel 1916 si legge che «il cinematografo futurista acutizzerà, svilupperà la sensibilità, velocizzerà l'immaginazione creatrice, darà all'intelligenza un prodigioso senso di simultaneità e di


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onnipresenza». Considerando che i futuristi vedevano la grande città come ambiente naturale della modernità e luogo principale dello sviluppo tecnologico, ritenendo la velocità e il dinamismo elementi fondamentali della modernità stessa, non è difficile pensare che nelle loro intenzioni la grande città avrebbe dovuto essere al centro della loro cinematografia. Però, per quanto vedere King Kong sulla cima dell'Empire State Building (o del World Trade Center, nel remake del 1976) possa essere emozionante, e per quanto l'omaggio che Spike Lee fa alla New York post-11 settembre ne La 25a ora possa essere commovente, non si può negare come sul grande schermo le esagerazioni delle città fantastiche sappiano colpire lo spettatore molto più delle città reali. Dalla megalopoli di Blade Runner andando indietro nel tempo fino al Metropolis di Fritz Lang, i palazzi giganteschi, le luci perennemente accese, i pedoni che affollano i marciapiedi e i mezzi di trasporto che sfrecciano nelle strade hanno sempre saputo affascinare maggiormente lo spettatore quando gli paiono irrealizzabili. Seppure oggi il ricordo di Metropolis sia legato soprattutto alla figura dell’androide femminile interpretato da Brigitte Helm, in realtà il film di Lang mette in scena una città davvero sorprendente, che rende giustizia al titolo del film. Ispirata alla leggenda della Torre di Babele, Metropolis è divisa tra sotterranei bui e tristi, dove gli operai si ammazzano di lavoro e vivono in povertà, e una parte superiore luminosa e opulenta, in cui i padroni vivono invece nel lusso e all’insegna del divertimento e dove i mezzi di trasporto viaggiano su strade sospese in aria e si fatica a vedere il tetto dei palazzi. Una cosa simile a quella che accade con la Los Angeles del 2019 di Blade Runner, ispirata più a Hong Kong che non alla vera città degli angeli ma strutturata esattamente come la città immaginata da Fritz Lang e dai suoi scenografi, con in più i colori, le insegne pubblicitarie, il fumo e lo sporco. Al 1927, lo stesso anno di Metropolis e di Berlino – Sinfonia di una grande città, risale però anche Aurora, in cui F. W. Murnau ci racconta con straordinaria perizia tecnica la storia di una giovane coppia il cui legame è minacciato da una femme fatale. Uscendo dal paesino in cui vivono i protagonisti, Murnau ci porta in visita alla grande città, colpendoci prima con le sue luci e le sue feste, quindi con il suo caotico affollamento di persone e automobili e poi di nuovo con la sua mondanità. Al di là del tema principale del film, le scene ambientate in città sono essenziali per lo sviluppo della storia, che non avrebbe mai potuto essere ambientata in un altro luogo o in un’epoca precedente senza perdere ogni sua particolarità. Non esattamente una dichiarazione d’amore per la città, che pure rende felici i due sposi, ma comunque un attestato della sua centralità nella vita moderna. Le dichiarazioni d’amore vere e proprie, il cinema le riserba infatti alle città reali. In Italia si può ricordare il Gente di Roma di Ettore Scola, ma in generale l’esempio più riuscito è il film a episodi Paris, je t’aime, che ha di recente avuto un seguito in New York I Love You e la cui serie proseguirà in futuro con altre città. Ideato dal regista televisivo Tristan Carné e sviluppato dai produttori Emmanuel Benbihy e Claudie Ossard, Paris, je t’aime mette insieme ventuno registi di estrazione – non solo geografica – estremamente diversa, che danno così vita a un film variegato in quanto a storie e stili, capace di riproporre sullo schermo l’anima cosmopolita della capitale francese senza sembrare una cartolina studiata a tavolino. Ogni regista ha ambientato una piccola storia d’amore in una diversa zona di Parigi, innalzando così la città a vera protagonista della pellicola. Perché la città sa essere molto più che un semplice ambiente cinematografico, molto più che uno sfondo davanti cui far muovere i personaggi. E spesso il cinema ha saputo sfruttarla al meglio, fotografandola nelle sue tante anime.


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LA CITTÁ INFINITA Alberto Cuomo

Appare abbastanza singolare, rispetto al rifiuto del passato proprio al “moderno”, che uno dei suoi temi privilegiati sia quello relativo alla progettazione di un insieme urbano unitario, ordinato nei suoi settori secondo definite gerarchie tipologiche, disegnato in ogni sua parte quale unità architettonica conclusa, quello insomma del disegno di una tradizionale “città ideale” la quale, solo nella sua estensione, sembra negare le trascorse conformazioni. Singolare anche perchè, enunciando l’aspirazione a definire una cesura rispetto al passato, l’architettura moderna finisce invece, non solo con il dibattere una questione caratterizzante la storia trascorsa, ma anche con il replicarne, a scala maggiore, gli esiti teorici e formali posti sin nel Rinascimento. L’analogia con il dibattito rinascimentale può ritrovarsi tanto nella organizzazione complessiva dei due modelli urbani definiti, quello moderno e quello classico, tanto nelle implicazioni estetiche che pongono, tanto nei più generali contenuti culturali o politici sottaciuti. Così, la città ideale di Leonardo, cui in prima istanza si riferisce il Garin in un suo saggio sul tema, che ne riporta la descrizione dal Manoscritto B dell’Istituto di Francia, si svolge secondo regolate geometrie e, come sarà per tante ipotesi di città moderne, secondo due livelli di traffico, quello pedonale superiore, che congiunge l’intera città senza che, teoricamente, possa mai discendersi, e quello inferiore per i carri e le bestie da soma, essendo il primo riservato, secondo le dizioni del Codice Atlantico, a “li gentili omini” ed il secondo a “la poveraglia”1. È sintomatico, di un retaggio che permane lungo tutta l’architettura moderna, come un tale modello sia, a partire dagli anni ottanta, alla base delle scelte urbanistiche di una delle città più complesse e contraddittorie degli Stati Uniti, del tutto antiurbana nella sua estensione, Houston, la capitale del Texas, una regione che unisce al più alto sviluppo tecnologico il più acceso richiamo alla tradizione ed allo spirito comunitario d’America, oltre al più esasperato razzismo. Tanto più che in tale città la doppia articolazione dei percorsi non appare giustificata da alcuna motivazione funzionale, essendo il clima per sua natura mite ed il down town agevolmente percorribile a piedi, quanto assunta esclusivamente sulla base di valori simbolico-propagandistici, estranei anche al progetto americano di una artificiosità paradisiaca, il cui senso ultimo è nella aspirazione alla confluenza di capitale e bellezza, ovvero a mostrare la bellezza del capitale: Houston per i texani sarebbe dovuta essere, non solo la città più ricca degli USA, quanto la città più bella d’America, la città più bella del mondo. Ma, se nel caso di Houston la bellezza è stata posta in definitiva quale carattere esornativo, termine accessorio, plusvalenza, rispetto ai contenuti di grandiosità e ricchezza del Texas, per essere infine essa stessa valore autonomo da capitalizzare nell’uso e nella valorizzazione dei suoli, nella visione leonardesca, come ricorda ancora il Garin, nei consigli offerti a Ludovico il Moro per rendere “bella” la città, essa non è disgiunta dalle determinazioni funzionali, ponendosi in stretta connessione, proprio come accade nelle versioni del “moderno”, con le necessità d’uso intese nel loro stretto legame con i motivi sociali. E del resto, secondo il Garin, la città ideale è sempre anche organizzazione politica della collettività, dal momento che le gerarchie architettoniche, armonicamente belle, ordinano anche le gerarchie della società2. È anzi la stessa nozione di città che, con la sua forma concentrica verso il palazzo ed il tempio, nella teoria del cancelliere fiorentino Leonardo Bruni, si pone momento di organizzazione politica e sociale, nella misura in cui ogni potere che ambisca a legittimarsi attraverso l’armonizzazione dei molteplici, deve costituirsi all’interno di una società comunitaria caratterizzata dalla reciproca conoscenza e dallo scambio informativo tra i cittadini, in misure territoriali limitate quindi, potendosi definire maggiori unità politiche e territoriali attraverso la costituzione di leghe di città. In tal senso la città ideale rinascimentale, lungi dal definirsi in termini di utopia, è una città realistica che tenta di configurare un modello di organizzazione fisica alle forze sociali e culturali in conflitto, pianificando secondo un disegno razionale il “disordine” della città medioevale3. Secondo i termini del Garin: “la città ideale di tante scritture del XV secolo è una città razionale; una città reale portata a compimento, svolta secondo la sua natura; è un piano o un progetto attuabile … La città ideale del quattrocento è in terra, e non si confonde né si confronta con la città celeste. Bene

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E. Garin, La città ideale, in Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano, Laterza, Bari, 1965, p. 33. Ibidem, pp. 38-39. 3 Ibidem, p. 34. Sull’adeguarsi della città medioevale verso il vertice del palazzo del potere e della cattedrale corrispondente ad una organizzazione sociale verticistica, cfr. C. Sitte, L’arte di costruire la città, trad. it. di L. Doni, Vallardi, Milano, 1953, in particolare il capitolo Piazze e edifici nei paesi del nord, p. 71 e segg.

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individuata, colloca la propria condizione di vita nell’autonomia, nell’armonia dei molti, nella molteplicità coordinata …”4. Pertanto, data la possibilità evidente di attualizzare la definizione del Garin verso la comprensione delle stesse concezioni urbane moderne, può dirsi che, dal Rinascimento, la città ideale si pone come realistica ipotesi di ordinamento dell’ambiente dell’uomo, priva quindi dei tratti dell’utopia e caratterizzata semmai da un anelito profetico, una forte carica ideologica, quale rappresentazione di possibili assetti sociali e politici5. Sarà piuttosto la medesima realtà storica cui essa si offre, con le sue contraddizioni impossibilitate a disporsi in ideologici ordini conclusi, a rendere la città ideale, dalla Sforzinda di Filerete alla città per tre milioni di abitanti di Le Corbusier, vagheggiato e fantastico luogo di astrazioni, politiche, sociali, economiche, potendosi affermare che, probabilmente, già nella trattatistica rinascimentale viga la sottile coscienza della irrealizzabilità delle regole proposte, essendo in essa continuo, come del resto nel testo politico parallelo del Machiavelli, il riferimento alla “fortuna”6. Se è vero cioè che la dialettica posta dall’Alberti tra edificio e città tende alla “razionalizzazione critica dei tessuti polistratificati” della città storica, se è vera l’adesione di Leonardo, nelle sue configurazioni urbane, alla realtà politica, economica e sociale del suo tempo, se è vero che “la casistica urbana di Francesco di Giorgio è ancora estranea all’utopia” in quanto tesa a definire “un campione di laboratorio deformabile all’infinito al confronto con la complessa fenomenologia dei siti”, è altrettanto vero che sarà proprio l’Alberti a perdersi, nel tempio malatestiano, nelle fascinazioni delle polistratigrafie della storia, proprio Leonardo a svolgere le sue concretezze, la sua scientia, verso la più evanescente rarefazione della materia pittorica, mentre nella molteplicità dei modelli del di Giorgio può intravedersi, oltre il realismo, nel tentativo di controllare l’infinita pluralità degli assetti urbani possibili, sfuggente ad ogni ordine, già la consapevolezza della inanità a fondare possibili equilibri. A ben ragione infatti Manfredo Tafuri può sottolineare come, a partire da tali crisi, si configuri, da un lato, l’atteggiamento laico di una pura utilizzazione strumentale degli schemi rinascimentali in ragione dello sfruttamento economico dei suoli e, dall’altro, la reazione controriformista che interpreta quegli stessi schemi in figurazioni metafisiche, città-simbolo, nuove improbabili città di Dio, le quali appaiono del tutto aliene alla reale pluralità degli interessi e delle parti cui gli architetti rinascimentali avevano tentato invano di offrire una armonia. Per il Tafuri, infatti, già “le utopie del riformismo sociale del Moro, dell’Agostini, del Patrizi, del Doni, di Valentin Andreae, sono testimonianze di un profondo scetticismo sul possibile ruolo ‘progressivo’ dell’intellettuale europeo. Le città del Sole, le nuove Gerusalemmi terrene, le società perfette e comunitarie, il comunismo economico e sessuale, il deismo – temi costanti di tali sogni politici – non sono proposte immediate di razionalizzazione sociale: in essi va piuttosto riconosciuta l’ultima drammatica testimonianza del razionalismo umanistico che, di fronte al fallimento palese dei propri programmi sociali, sancisce con le sue escatologiche aspettazioni il declino della propria immediata funzione civile a favore di quella che sarà l’ideologia dello Stato egualitario borghese”7. Sarà di qui che la città manifesterà sempre più il suo carattere di luogo di contrasti, sede di una pluralità di interessi aperta e contradditoria, fino a divenire, chiusa in articolate cinte fortificate, essa stessa il simbolo del conflitto, relegando l’architetto ad un servizio sempre più accessorio. “Il Bellocci potrà quindi ironizzare crudelmente sul ruolo degli architetti invitandoli a limitare i propri studi alle sovrastrutture formali: è il teorico militare ormai, e lui soltanto, il nuovo ‘scienziato’ dei fenomeni urbani. Il tramonto definitivo delle ideologie sovrastrutturali dell’umanesimo è così sancito. Ai secoli successivi non rimarrà che accettare il ruolo di retroguardia riservato all’architettura nei confronti delle trasformazioni urbane, o coprirlo con il rigoglioso ma patetico fiorire di una evasiva civiltà dell’immagine”8. È già in questo quadro, allora, che si traccia anche la parabola della città ideale moderna, tra la White City ed Houston, dove la rinnovata fiducia in una nuova integrazione delle parti sociali in conflitto rappresentata in un insieme urbano armonico e fondata sulle possibilità offerte dall’industrializzazione e dalla tecnologia di ampliare la produttività e la ricchezza verso una migliore qualità della vita, si muove sulla coscienza ormai acquisita della difficoltà a determinare un equilibrato e compiuto disegno urbano che costituisce il lavoro dell’architetto solo come esornativo mestiere. 4

E. Garin, op. cit., pp. 52-53. L’attualità della “città ideale” così come trattata nel Rinascimento è stata posta, sia pure indirettamente da Lionello Puppi in Sul mito della città ideale come coscienza del conflitto città-campagna nel Rinascimento italiano, in AAVV, Dalla città preindustriale alla città del capitalismo, Il Mulino, Bologna, 1975, dove il tema della armonia urbana identifica una contraddizione caratterizzante il moderno. Qui è utilizzata la nozione di “profezia” nei termini illustrati da Filiberto Menna in Profezia di una società estetica, Lerici, Roma 1968, in particolare alle pp. 109 e segg. e 131, mentre il concetto di “ideologia” come “idea-forza” positiva (non falsa coscienza) è ripreso da Louis Alhusser, Per Marx, Editori Riuniti, Roma, 1967, pp. 206 e segg. 6 E. Garin, op. cit., p. 53. 7 M. Tafuri, L’architettura dell’Umanesimo, Laterza, Bari, 1972, pp. 309-314. 8 Ibidem, p. 314. 5


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La White City fa certamente riferimento a tale coscienza di crisi che tenta comunque di mutarsi in progetto onde ritrovare all’architetto ancora un ruolo. Sorta come esposizione di merci, con l’assunzione del linguaggio neoclassico, reso più astratto nel bianco degli stucchi ed inteso quale lingua unitaria convenzionale attraverso cui dire i diversi modi d’abitare, la città espositiva di Chicago, con le sue finte facciate in cui già si rende la sfiducia nella continuità posta in quegli anni da Sullivan tra forma e funzione, forma e senso, allude esplicitamente alla nuova politica americana tesa ad introdursi nel panorama internazionale attraverso il mercato, sulla base cioè di una garanzia finanziaria, forte certo di una potenza produttiva, ma posta esclusivamente nei termini di un convenzionamento tra i valori delle diverse ricchezze dei paesi, in un sistema economico che aveva già del tutto fatta propria la dissociazione tra valore d’uso e valore di scambio e che, anche nel conflitto per la leadership finanziaria, vedrà il crollo di Wall Street. E sarà proprio la città americana, ovvero la traduzione americana della città rinascimentale, che meglio realizza lo stesso progetto europeo di sfruttamento dei suoli, ad ispirare Le Corbusier nel suo disegno per la città di tre milioni di abitanti, prima, e per la Ville Radieuse poi, in cui è evidente l’innesto di Central Park tra le maglie dei redents, le quali esplicitamente alludono, con i grattacieli, a Manhattan. Vale a dire che è da quella stessa crisi post-rinascimentale, riflessa nell’accettato ruolo, per l’architetto, di muovere solo un universo di maschere, come è nella White City, di convenzioni in cui ritrovare comunque una lingua comune e comuni valori, a fondarsi la necessità e l’attesa a definire un patto sociale tra i molteplici il quale, sia pure non promuovendo armonie celesti, possa determinare i termini convenzionali di riferimento per una reciproca comprensione. E del resto l’aspirazione a ritrovare una nuova unità alla città è già agita da Le Corbusier tra la fine dalla prima guerra mondiale e, proprio, la grande crisi del ’29, dove la tensione a ricostruire l’urbano in una ‘forma’ appare omologa a quella che, in politica, si manifesta nell’intenzione ad offrire ai popoli ed alle nazioni una forma-stato fondata sulla sovranità dei molti, ed agli stati una forma sopranazionale organizzata attraverso cui convenzionare i loro rapporti e pervenire ad una più ampia unità. Centrale nel decennio postbellico, che vede l’architetto svizzero impegnato su progetti urbani o comunque su progetti di singole unità edilizie tendenti a definire disegni a scala urbanistica, è quindi la vicenda della Città mondiale, cui lo stesso Le Corbusier offrirà le sue invenzioni formali confluenti nel progetto del Mundaneum. Rinviando, per la ricostruzione della vicenda al testo di Matteoni e Gresleri, che documenta in maniera esauriente il clima storico e culturale in cui Andersen, Hébrard e particolarmente Otlet si mossero, perché fosse riconosciuta dagli Stati l’esigenza di una città simbolo dell’unità del mondo, mediatrice dei diversi interessi, modello di una nuova organizzazione sociale, appare indicativo, di una incomprensione di parte della critica storiografica circa il farsi estetico dell’ideologia negli architetti, che tali studiosi, rilevato come il tema della città mondiale abbia origine nella cultura esoterica olandese “che unisce al pacifismo l’esaltazione del ruolo degli intellettuali e la fiducia nel progresso scientifico e tecnico”9, sembrano aderire al giudizio del Teige a proposito del Mundaneum, di cui viene criticata l’artisticità posta oltre ogni analisi sociale, “tanto più se nell’uomo moderno la viva sete di bellezza trova soddisfazione molto meglio altrove, nel dramma della vita che nella cosiddetta arte”10. Senza voler affrontare il tema dell’improbabile accorciamento dello iato che vige tra arte e vita, è da annotare che sono proprio i saggi di Matteoni e Gresleri a far emergere i significati ideologici dell’opera corbusiana con cui si lega l’arte al vivere collettivo, ascendenti ad una cultura ed una coscienza ben più profonde rispetto al più emergente problema della costituzione di un organismo sopranazionale a tutela di una pace impossibile, dati i conflitti internazionali interni alla borghesia capitalista. E’ probabile cioè che il senso della città corbusiana, ed in particolare del Mundaneum, possa rintracciarsi attraverso il rilievo dei valori simbolici che i due studiosi pure indicano con la citazione di uno studio di Marcello Fagiolo e sui quali sorvolano11. I temisimbolo del Mundaneum, infatti, manifestano esplicitamente come, caduta già dal Rinascimento ogni organicità a progetti politici, ogni possibilità di ordinare nella pietra il sociale, in Le Corbusier sia viva la consapevolezza che l’eventualità di offrire un nuovo ordine all’urbano possa essere posta, non in una adesione ai contenuti storici portati da questa o quella classe, quanto in una “ricerca paziente” sul corpo stesso della convenzione costruttiva che offra alle diverse parlate architettoniche, storiche e contemporanee, una lingua comune e, quindi, una comunicabilità tra gli uomini nei modi del loro abitare. E’ questo infatti il senso della ricostruzione della Ziqqurat di Babele, del tema della torre e della croce, della messa in opera di simboli che, oltre i progetti di Andersen ed Hébrard, gli provengono direttamente dalla sua formazione culturale di architetto. In un suo noto saggio Paul Turner ricostruisce le letture del giovane Le Corbusier tra il 1904 ed il 1910 ritrovando tra esse “L’art del demain” dell’architetto-filosofo Henry Provensal, nella edizione del 1904, “Les grands initiés” dello Schuré e lo Zarathustra del Nietzsche, letto probabilmente prima del 1909. Il Turner fa risalire, da 9

G. Gresleri e D. Matteoni, La città mondiale, Marsilio, Venezia, 1982, p. 14. Ibidem, p. 209. 11 Le simbologie del Mundaneum sono interpretata da M. Fagiolo, La nuova Babilonia secondo Le Corbusier, in “NAC” n. 5, 1976, citato anche nel testo di Gresleri e Mattoni a p. 8. 10


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un lato, il pensiero del Provensal a quello di Platone e, quindi, di Kant ed Hegel, a proposito del dualismo tra mondo reale e mondo ideale, matiére ed ésprit, rivolto alla sua soluzione in una unità armonica, mentre dall’altro mostra come il pensiero dello Schuré sia esplicitamente riferito alle dottrine orientali ed ai termini rituali iniziatici della scuola pitagorica12. E’ indubbio che questi scritti influenzeranno moltissimo l’architetto svizzero ed è indicativo, in proposito, che il progetto del Mundaneum sia pubblicato, quale esempio di architettura, in un saggio di Matyla Ghika, lo studioso dell’esoterismo amico di Paul Morand e Marcel Proust che, conoscitore delle geometrie auree pitagoriche e rinascimentali e della cultura orientale, era stato allievo di Henry Bergson13, a sua volta tributario, nel concetto di una évolution creatrice della matiére verso l’unità della coscienza, del pensiero di Rudolf Steiner, il teorico dell’antroposophia, della possibilità di avere accesso allo spirito attraverso gli stati concreti del corpo, espressa nel suo progetto del Goetheaneum, “edificio vivente dell’intero mondo spirituale” sorto a Dormach nei pressi di Basilea, cui si ispira l’architettura dello stesso Provensal e, probabilmente, nell’insorgenza di un volume puro in continuità con la plasticità organica del cemento, quella del Mundaneum. Oltre il suo congiungersi ai valori sociali, è quindi al confluire dei dualismi di spazio e tempo, matiére e memoire, durée e simultaneité, differenza e somiglianza, meglio illustrato nel pensiero bergsoniano14 che, per Le Corbusier l’architettura si rivolge, concependo la possibilità di una nuova armonia, non costituita, come nel Rinascimento, sull’equilibrio delle parti, quanto sulla scoperta di un fondo comune alle differenze, un motivo fondante e finale insieme, un punto in cui la prospettiva appiattisce in uno “vista” e “fuga”, un termine che si offre alle infinite variabili dell’esistenza come limite e come origine, coefficiente regolatore, nucleo virtuale in cui convergono e da cui si dipartono le linee del tempo e della memoria: l’élan vital15. Vale a dire che è in questo termine, il quale sopravviene al maestro svizzero attraverso altre letture che non quella del Bergson, a potersi comprendere, da un lato, l’espressionismo occultato dalla clarté geometrica, quello dei cementi plastici, dei tetti-giardino, delle forme pure la cui corporeità materica si slancia oltre i limiti della materia rapprendendo l’ésprit e, dall’altro l’interpretazione della città con il suo vivere, dell’urbanistica cioè, come clef, chiave dell’architettura, suo perno centrale di apertura alla forma, essendo architettura, in una applicazione paradossale dell’albertismo, l’intera città. Comprendendo come le nuove grandi misure dell’urbano potessero annientare ogni elemento vitale, anche il gesto singolare, inventivo, dell’architettura, in sé interprete del mondo, Le Corbusier, cioè, riconduce la stessa grande dimensione all’élan creativo sì che la città, come è nei suoi tanti progetti urbani, dalla Ville Radieuse ad Algeri, a Chandigarh, sia, tra tracciati regolatori armonici e forme dinamiche, un insieme organico, una architettura e, all’inverso, l’architettura, come è in termini espliciti nelle unità di abitazione, un urbanismo, non solo chiusa forma urbis albertiana, quanto luogo di differenze (si pensi agli infiniti modi di allestire la cellula abitativa) sottese da un unico fondo vitale. Un concetto che trova il suo simbolo proprio nel Mundaneum, incrocio di misticismi, tra le religioni d’occidente e d’oriente, disposto intorno alla forma di un tempio in cui le tre navate interne, che intersecano il tempo passato con quello presente e quello a venire, sono sormontate dai sette anelli del labirinto ascensionale e discensionale insieme, base e culmine dell’incontro tra materia e spirito, divinità e mondo, secondo la disposizione del “teatro della memoria” che lo rende segno dell’approssimazione-distanza del linguaggio, quello della creatività memoriale dell’architettura, alle cose, all’abitare, sul luogo centrale in cui si intrecciano, nei bracci della croce stradale, la morte e l’eterno16. La grande dimensione dell’urbano, sembra dire Le Corbusier nel suo progetto, è l’elemento della dispersione, della vita stessa, perduta nelle differenze che innervano i conflitti mondiali, per cui una città del mondo che voglia simboleggiare e detenere il senso dell’unità dei popoli, e pertanto ogni città, non può che costituirsi nel segno più alto del fare dell’uomo, quello artistico, in cui si manifesta il confluire di ogni differenza, il congiungersi di materia e spirito, il rapporto tragico tra abitare e forma costruttiva, il risolversidissolversi del dire nel silenzio, del vivere nell’eterno, divenendo tutta intera architettura, là dove l’arte del co12

P. Turner, La prima educazione di Le Corbusier 1902-1907, in B. Bruce Taylor, Le Corbusier a Pessac, trad it. a cura dell’editore, Officina, Roma, 1973 e dello stesso autore La formazione di Le Corbusier, trad. it. di C. Guarneri, Jaca Book, Milano, 2001. 13 Il Mundaneum è riportato da Matyla Ghika in Le nombre d’or, di cui è stata consultata la 17ª edizione, Paris, 1931. Tale saggio è coevo a quello sulla Esthetique des proportions dans la nature et dans les arts (V edizione, Paris, 1927) tanto frequentato dagli artisti e dagli architetti europei ed italiani (una copia era posseduta da Mario Radice, amico di Terragni), in cui abbondano le citazioni dal Timeo di Platone, dallo Spengler, dal Novalis e dal Bergson. 14 Sul dualismo bergsoniano cfr. G. Deleuze, Il bergsonismo, trad. it. di F. Sossi, Feltrinelli, Milano, 1983, in particolare le pp. 23-29. 15 Ibidem, cfr. l’ultimo paragrafo. 16 Non appare possibile dilungarsi qui sui molti sensi che assume il simbolo della spirale labirintica con i suoi sette anelli tanto usata da Le Corbusier. Per il suo significato di itinerario memoriale (v. i musei corbusiani) si è consultato il saggio sul Lullismo di Frances A. Yates, L’arte della memoria, trad. it. di A. Biondi, Einaudi, Torino 1972, mentre sul rinvio alle origini del linguaggio, ovvero al rapporto di approssimazione e allontanamento della parola rispetto alla cosa cfr. A. Tagliaferro, intervento al Convegno sul “Labirinto”, tenutosi a Milano nel 1981 riportato in “Alfabeta” n. 42 dello stesso anno.


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struire è essa stessa, nella sua chiave di volta, urbanismo. Non solo, ma è nella stessa convenzione costruttiva, nella sua memoria, esplicita nelle forme del Mundaneum ed occultata in altri progetti nelle misure auree, che l’architettura incontra l’intuizione creatrice in cui si fonda l’intelligenza sociale ad auspicare, secondo un motivo proprio alla modernità, la possibilità per tutti gli uomini di essere architetti, creatori. Se pertanto, da Le Corbusier, il tema della città ideale di grande dimensione si pone, nel moderno, ancora come tema politico, questo è però interpretato dall’interno dell’arte costruttiva, nel senso che, tra le differenze del sociale, anche l’architettura, con il suo particolare, i suoi stessi specifici modi costruttivi, evoca uno spazio comunitario in cui sia risolta ogni singolarità, ogni abitare, per cogliere fuori da ogni sclerosi formale lo stesso dinamismo del vivere, in una forma cioè che, pure nella sua sintesi, neghi se stessa, ogni suo congelarsi in definite misure e, nei redents, nelle geometrie asimmetriche ed incommensurabili, nella natura libera tra i pilotis, nella differenziazione delle cellule, ogni volontà a porsi luogo definitivo, essendo la stessa grande scala dell’urbano modo del manifestarsi della informale definitezza formale del vivere, del costruire. L’architettura è allora non solo metafora del sociale e della sua organizzazione politica, né solo allestimento di luoghi al vivere, quanto linguaggio che muove da un nucleo vitale originario, manifesto nel suo agire creativo, da cui e verso cui si dispone anche la rappresentatività sociale, essendo pure l’azione politica movimento creativo fondato su uno slancio vitale rappreso nella memoria dei popoli. Dopo la prima guerra mondiale, cioè, la nuova, più grande, dimensione del mondo, riflessa nella espansione metropolitana, è avvertita quale espansa superficie della dispersione del soggetto e del sociale, foriera di incolmabili ed incontrollabili conflitti, cui gli architetti offrono, più che una adesione a progetti politici di collaborazione fra i popoli, l’idea del possibile risolversi dei contrasti nella sacralità della bellezza mossa da un intimo, comune, anelito creativo, intendendo, non l’arte ancella della politica, quanto la politica stessa arte. Un concetto questo che si sviluppa particolarmente nella cultura architettonica italiana, che legge il fascismo, cui in gran parte aderisce, quale ideologia dinamica, di perenne movimento rivoluzionario fondato su un nucleo spirituale compreso di tradizioni ed interpretato nei tanti campanili riflessi in Roma, la città per eccellenza la quale, oltre l’estensione metropolitana, promuove l’imperio oltrenazionale a partire dalla propria anima, dal proprio retaggio storico, raccolto nella immagine del Dux. Si spiega qui infatti lo scarso misurarsi degli architetti con progetti urbani, come è solo per la Milano Verde di Pagano o per la Città Universitaria di Roma, data l’interpretazione della costruzione, anche nella definizione delle intere città nuove della bonifica pontina, quale luogo della rappresentazione sociale, forma della identificazione del popolo fuori da ogni distinzione tra i ceti, promossa dalla creatività artistica comune all’architetto ed al capo. E si spiega altresì qui il parallelismo tra l’incanalamento della disgregazione sociale, conseguente alla industrializzazione ed alla grande dimensione metropolitana, verso la coesione dei ceti promossa nei “fasci”, ovvero tra la volontà del fascismo di tradurre la grigia spersonalizazione della massa, della folla che anima la grande città, verso la configurazione di un “popolo” il quale, riconoscendosi nelle tradizioni, affida il proprio futuro, la propria gloria, al capo in cui si riflette e l’idea, sperimentata da Terragni già a Como, nel progetto della Casa del Fascio, di inoltrare la dispersione urbana, la sua anonima crescita numerale, verso un disegno che trovi nei monumenti e, particolarmente in quelli simbolici, oltre che funzionali, del confluire popolare verso i luoghi della identificazione collettiva, gli elementi onde offrire un carattere, anche estetico, alle nuove dimensioni territoriali. Ed è infatti con questo tema che lo stesso Terragni più maturo, dopo il ’30, si cimenta nel suo progetto per il concorso del Palazzo Littorio a Roma. Cattolico, fervidamente credente, legato alle radici della propria terra, Terragni concepisce, dai maestri comacini, la “forma” quale distillazione da un composto di differenze, tale da costituirsi luogo di comunione tra i molteplici. Anche in tale visione possono intravedersi i riferimenti al Bergson tramite il futurismo e Papini, ma, distaccatosi dall’avanguardia futurista cui aveva partecipato il suo conterraneo Sant’Elia, è probabile che in lui agiscano altre indicazioni, pure prossime al pensiero vitalista bergsoniano. Se infatti in tale periodo pare dorma con il “Contratto Sociale” di Rousseau sotto il guanciale17, per altro verso, autenticamente fascista, sicuramente non evita, dato il tema del progetto, di approfondire i termini della concezione dello Stato nel fascismo. Il Palazzo Littorio può così leggersi, particolarmente nella interpretazione dell’architetto comasco, quale scena ed interprete del dibattito che si svolge in quegli anni tra Gentile, Gramsci e Croce sul Principe, i cui motivi più nascosti possono ricondursi al pensiero del Sorel, che agisce direttamente in Gentile e Gramsci, ed alla lettura dell’eroe machiavelliano svolta dall’Ercole, di cui lo stesso intellettuale sardo chiede i libri dal carcere18. Nella interpretazione dell’Ercole infatti il Principe non è che una sorta di espediente letterario, appunto un motivo poetico – Gramsci dirà un “mito” – una 17

La testimonianza mi è stata donata dal nipote Emilio che, per la verità ha narrato di come lo zio usasse il Contratto sociale come sostegno per una gamba zoppa del letto 18 Sul rapporto tra il pensiero di Gentile con quello di Gramsci si è intrattenuto in particolare Augusto Del Noce, Gentile e Gramsci, in “Il Veltro” n. 3-4, 1977. Il saggio dell’Ercole sul Machiavelli è richiesto da Gramsci già nella lettera a Tania del 27 dicembre 1926 riportata in A. Gramsci, Lettere dal carcere, Einaudi, Torino 1965, p. 27.


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entità noumenica in cui precipitano le diverse fenomenologie sociali, una forma vuota in cui si intersecano i motivi della cultura popolare, il simbolo diafano di una statalità fondata sulla coscienza collettiva che si autodetermina dinamicamente, violentemente secondo Sorel, o nella immedesimazione di ragione e prassi secondo l’attualismo gentiliano, fuori da ogni istituto ma lungo la linea della memoria storica nazionale19. Per questo, considerandosi il popolo medesimo Principe, questo è “dissoluzione” di ogni principio formale affermato oltre i movimenti del sociale, essendo la politica, dal Machiavelli al Croce, dialettica aperta, dissolutezza amorale, azione che al di là del bene e del male irrompe in ogni equilibrio statico per proporre momenti sempre più alti di aggregazione collettiva sino alla totale identità del popolo20. Ed è qui che probabilmente può riconoscersi il senso della ideazione della pesante parete piena che chiude il Palazzo Littorio nella prima soluzione progettuale, la quale, innalzata da Terragni verso il cielo e divenuta, da parete portante, qual’era in una iniziale ipotesi, trave, portata e portante insieme, avrebbe dovuto mostrare tutto il suo dinamismo interno, le isobare, le linee di forza della materia, tracciate sulla sua superficie. Per Terragni, quindi, sono le singole istanze materiali a sopravvenire nella forma, così come le diverse necessità sociali e soggettive a congiungersi nella unità nazionale e le diverse conformazioni della città, la Roma antica della Basilica e dei Fori con quella futura già ipotizzata oltre le mura verso il mare, a raccogliersi nell’ansa curva della sua architettura, sebbene questa non si offra mai in una pienezza, per mostrare tutta la sua convenzionale finzione, quella del pesante sipario di cemento, disposto nel progetto, aperto su un vuoto nucleo, il buio vano del palco di Mussolini, che nessun principe potrà mai veramente riempire se non la materia stessa, il popolo, la città, dissolti progressivamente in una assoluta trasparenza spirituale21. Se così l’inarticolazione della forma meglio si manifesta nella seconda ipotesi progettuale con i tralicci strutturali vuoti, sostegni di un diafano soffitto in vetro rivolto ad accogliere il cielo, è indicativo, della sfiducia in un possibile principe in cui si riunifichino popolo, forme, città, che, mentre il concorso riguardante l’edificio del fascismo è ancora in atto, Terragni, nel medesimo sito, ipotizzi un edificio in onore di Dante pure sormontato da una vitrea e vuota copertura. Il ritorno a Dante, oltre Machiavelli, appare infatti un esplicito collegamento ai motivi dello spiritualismo cattolico inteso quasi in contrasto al fascismo, e se la simbologia cristiana della spirale e della croce posti a base del Danteum rinviano alla interpretazione del cattolicesimo e della Chiesa offerta dal Gentile in chiave politica, nella concezione di una statalità fatta di popolo misticamente compreso in un unico corpo rivolto all’azione, essa ricorda anche lo stesso neoplatonismo corbusiano, la concezione greca ed orientale del progressivo dissolvimento della materia verso lo spirito, di cui i poeti, come Dante, sono gli interpreti, o, anche, secondo quanto aveva scritto Ezra Pound in quegli anni, il politico medesimo, se egli pure creatore, interprete dello spirito popolare22. Una concezione che era stata recepita dall’architetto comasco anche attraverso l’oscuro filosofo napoletano, animatore del circolo degli astrattisti e dei salotti culturali milanesi, il gallerista Franco Ciliberti, alla cui rivista “Valori Primordiali” aveva collaborato con l’amico Bontempelli e dal quale, conoscitore delle dottrine orientali, aveva appreso la nozione del ritorno all’origine, alla trasparenza dei primordi, attraverso l’attraversamento delle definizioni, ovvero dei molteplici stati in cui si offre l’essere. Ma se in Terragni l’idea corbusiana di dare forma architettonica all’intera città in una prospettiva estetica per l’intera società si traduce nel dissolversi della solidità della pietra e, quindi, dell’urbano, verso la definizione di puri luoghi dello spirito comunitario costituito nella cultura e nell’arte, è nel concetto di un altro architetto, tedesco, rivolto al confronto con la Grosstadt, che la metropoli, ancora il suo modello americano, diffondendosi all’intero globo con caratteri tellurici, immersa cioè nella terra e nel lavoro contadino foriero del comunitario, organizza il suo disciogliersi verso un centro spirituale, una pura cattedrale di cristallo, una architettura stellare: Bruno Taut. E difatti nel suo testo sulla Stadtkrone – ma si potrebbero citare anche Die Auflösung der Städte o Der Weltbaumeister – egli si sofferma, attraverso il Nietzsche, sui termini della rappresentatività dello Stato, intendendo questo nelle parole del Gleichenrusswurn “non fine a se stesso come forza organizzata, ma struttura di servizio delle richieste e degli interessi di tutti i suoi componenti, i quali a loro volta hanno il diritto di controllare l’adempimento di tali richieste e l’attività degli organi statali”23. In un certo senso, diffondendosi già sull’intera terra, l’abitare, più che organizzarsi in stabili assetti, in rigide conformazioni urbane, per Taut, si articola secondo le attitudini ed i bisogni dei singoli componenti la comunità, ovvero, attraverso l’osservazione sulla similitudine tra la città medioevale e la metropoli americana, aderenti e distese lungo il suolo, concentrate verso il vertice cen19

Si vedano i saggi di F. Ercole, Lo Stato in Machiavelli, in “Politica”, settembre 1919, Roma, L’etica di Machiavelli e Machiavelli, nella stessa rivista rispettivamente ai numeri di settembre 1920 e 1921. 20 B. Croce, Elementi di politica, Laterza, Bari, 1925. 21 Sul progetto del palazzo Littorio di Terragni e la metafora teatrale della parete e del vano del palco cfr. M. Tafuri, Il soggetto e la maschera, in “Lotus” n. 20, settembre 1978. 22 Sul tema del politico artista cfr. il saggio di E. Pound, Jefferson e Mussolini, tradotto in “Europa fascista”, Milano, 1938, p. 152, dove il poeta teorizza un “istinto di governo” analogo all’istinto artistico. 23 La frase è in B. Taut, La corona della città, trad. it. di M. Carrara, Mazzotta, Milano, 1973, p. 39.


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trale della cattedrale o delle torri del down town, nella espansione sulla terra, nella terra, dal momento che è il lavoro agricolo a fomentare, secondo il citato Kropotkin, lo spirito comunitario, per riconoscersi, oltre i palazzi della rappresentazione sociale, alla loro sommità, nella corona centrale, nel vuoto palazzo di cristallo da cui il sole si irraggia rendendo il suo universo terreno un paradiso stellare. In tal senso, nella organizzazione della Stadtkrone, definita secondo anelli concentrici rivolti, dalle quattro direzioni cardinali a formare, lievitando verso l’alto, un monte e una croce, il suo ideatore non pone alla sommità gli edifici del potere, quanto, secondo la figura cruciforme, i quattro edifici della cultura, la musica, la prosa, l’incontro sociale ed il teatro, incoronati tutti da un puro volume di cristallo: “La croce di questi quattro edifici…coronamento superiore dell’area centrale…è solo il basamento per la costruzione sublime, quella che completamente svincolata da ogni limitazione pratica, troneggia su tutto il resto come architettura pura. E’ il palazzo di cristallo, costruito in vetro, il materiale da costruzione che rappresenta, trasparente e rilucente, qualcosa di più di un semplice materiale comune…il palazzo non contiene niente altro che uno splendido spazio…”24. Riassumendo in sé tutte le arti, nella misura in cui sorgendo su quelle collettive trascolora ai bagliori del sole divenendo pittura e scultura, l’edificio di cristallo è, a sua volta, elemento solare volto a “suscitare un sentimento cosmico di una religiosità che non può essere espressa che nel silenzio”25. Esso è quindi puro spazio che racchiude in sé tutte le differenze delle spazialità vissute, definito in una materia ignea, originaria, terranea, che si tramuta in una aurea e stellare distillazione finale. Tutti gli espressionisti difatti concepiscono, con Taut, montagne incantate, palazzi di vetro, città ascendenti al cielo, ma anche caverne ed anfratti oscuri ad indicare la necessità dell’oltrepassamento di tutte le storie, tutte le particolarità e della stessa Grosstadt per pervenire alla sintesi pura in cui è racchiuso il mistero dell’origine, il nucleo comune ad ogni uomo e fondante la convivenza sociale oltre ogni dimensione, la scintilla che ravviva ciascuna anima partecipandola alla grande fiamma dello spirito. L’oltrepassamento della metropoli virato nel fuoco dello spazio di cristallo dove si accende lo slancio creativo potrebbe essere riferito a Nietzsche, i cui testi sono rintracciabili tanto nello scaffale di Le Corbusier che degli architetti espressionisti e di Terragni, o al Bergson, sebbene il riferimento più profondo nella distinzione/riflessione tra la terra e le stelle possa essere individuato nel pensiero kantiano il quale, interno alla cultura artistica tedesca, trova tratti comuni in quella del maestro americano Frank Loyd Wright. Ed infatti la poetica wrightiana appare a sua volta densa dei motivi del trascendentalismo degli Emerson, Thoureau, e, particolarmente, del Whitman, in linea diretta con il romanticismo tedesco (basti pensare alla nozione del ‘verso sospeso’ nella poesia americana rilevato dal Matthiessen) ed alla base della stessa visione sociale del nuovo mondo fondato sulla esaltazione della singolarità cui scoprire il fondo comune, categoriale, che determina, pure negli impulsi più istintivi, una aspirazione all’organico, al corale26. Del resto è probabilmente per tali motivi, espliciti nell’opera di Wright, che si spiega l’immediata comprensione dei suoi progetti da parte degli architetti olandesi di ascendenza teosofica27, i quali dovettero leggere negli incastri formali, negli slanci delle strutture incrociate, nelle geometrie froebeliane, quella stessa tensione all’armonia, alla scoperta di un motivo generatore originario, comune nelle proprie ricerche. Non desta così meraviglia che, ad introdurre il suo saggio teorico più compiuto, Wright chiami a proprio testimone Paracelso, in un passo in cui la scoperta del divino è auspicata mediante la medesima fisicità dell’umano, la sua più concreta materia, “suolo da cui quel che nell’uomo è immortale attinge la propria forza”28, laddove abbondano nel testo le citazioni da LaoTse con espliciti riferimenti alla sapienza quale etereo ed autonomo dato spirituale interno al profondo di ciascun essere, essendo propriamente “organica” l’architettura che si costruisce dall’interno, si direbbe dell’anima, verso l’esterno29. Per l’architetto americano quindi la città è essa pure organismo vivente, materiale, priva di fissazioni in un luogo definito, sede cioè di ogni luogo, di incroci di località diverse, in una motilità che non si circoscrive in spazi conclusi e che, fondata nel tempo, fagocita e sfugge ogni storia per riconoscersi nel comunitario dello spirito creativo con cui si offre luogo alla vita. Essa cioè non ha limiti e, esasperando i sensi della stessa simbologia utilizzata dagli europei, tra Le Corbusier, Taut, Terragni, pone al proprio centro l’elemento piramidale, pure culminante nella trasparenza del vetro, offerto a funzioni commerciali e culturali insieme, dal momento che, eliminate le convenzioni finanziarie, il danaro – si ricordi che Wright era di origine irlandese, di luoghi cioè in cui era in vigore, ancora nel novecento, il baratto, da lui stesso utilizzato con studenti e maestranze nel periodo della grande crisi – lo scambio dei beni elide da sé il senso alienato del consu-

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Ibidem, p. 49. Ibidem, sul silenzio e sulla luce pp. 49 e segg. 26 F. Menna, op. cit., pp. 95-97. 27 B. Zevi, Poetica dell’architettura neoplastica, Einaudi, Torino, 1974, p. 86. 28 F. L. Wright, La città vivente, trad. it. di E. Labò, Einaudi, Torino, 1966, pp. 13-14. 29 “… diciamo che l’architettura organica coltiva lo ‘spazio interiore’ come una realtà invece del tetto e dei muri: significa costruire dall’interno al di fuori, invece che il contrario”, ibidem, p. 104 25


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mo per concepirsi, prioritario rispetto alla stessa produzione, quale luogo dell’incontro sociale e del desiderio, puro gioco di riconoscimento dell’altro privo di bisogni30. E qui, veramente, la profezia offerta nella città ideale incontra il suo limite ritrovando, al modo del Rinascimento pure negato, proprio nella dispersione, nella organizzazione centrifuga di Broadacre, nella sua libera disposizione tra le diverse unità di Usonia, cellula sociale unitaria di un urbanismo diffuso nella natura dove la macchina non opprime la terra, una possibile centralità, da riconoscere in un fondo categoriale trascendentale che dispone al comunitario ed altresì alla bellezza. Se negli europei la coscienza del convenzionalismo del linguaggio impone di risalire la convenzione per scoprire i nessi fondativi del costruire oltre gli orpelli stilistici del passato, nella città wrightiana è proprio l’informe, la pluralità delle parlate, l’eliminazione di ogni convenzione, a scoprire lo spirito comunitario che informa l’abitare e, quindi, la sua organizzazione architettonica, dove ogni unità urbana come Broadacre, o anche l’edificio alto un miglio, sottratti alla logica mercantile imposta all’uso dei suoli, sia uno dei possibili luoghi allo stare i quali, diffusi sulla terra, ripropongono, sia pure in chiave più libera, naturalistica, quella organicità tra le singole città proposta attraverso regole armoniche dai trattatisti rinascimentali. E’ quindi la California, sede delle ultime opere di Wright, o meglio Los Angeles, la nuova Firenze, la quale, pur nella grande dimensione, attraverso le fitte maglie delle comunicazioni, le high way, le molteplici reti televisive, appare vissuta dai suoi abitanti in ogni cantone, persino più pienamente dei centri rinascimentali o degli arcadici borghi europei. La caduta di ogni fiducia in un comunitarismo internazionale, resa del tutto esplicita nel secondo conflitto mondiale, non può non condurre gli architetti, nel dopoguerra, ad una riedizione dei disegni moderni nel tentativo di farne rivivere i sensi, svolti tuttavia nella consapevolezza di una ulteriore inanità alla loro realizzazione, oltre quella che, nella saputa assenza di ogni principio, di ogni verità, propria alla modernità, pure era presente nella loro iniziale progettualità. Lo stesso Le Corbusier rompe così le sue griglie a Chandigarh, mentre il disperdersi della città nella grande dimensione metropolitana, dopo i tentativi del suo controllo attraverso l’urbanistica, in Inghilterra, con le città-satellite, o mediante la forma architettonica di grande scala, in Italia, come è con il progetto di Quaroni alle Barene, nel loro fallimento, si illustrerà nelle giocose ed improbabili utopie degli Archigram (ma anche in quelle prive di ironia ed ugualmente irrealizzabili di Buckminster Fuller e Frei Otto) o in tragici gesti, quale quello di Mario Fiorentino al Corviale. Pur nelle esperienze diverse, europee ed americane, quindi, già nel modernismo e nell’immediato dopomoderno, in qualunque sua latitudine, appare viva la coscienza della crisi dell’oggetto architettonico e dell’urbano, ovvero delle stesse discipline dell’architettura e dell’urbanistica, conseguente alla grande dimensione. Né può ritenersi, come tende a fare la cultura americana, che tale coscienza sia stata più esplicita sull’altra riva dell’oceano, se le analisi sulla grande città si devono ascrivere particolarmente agli europei e la stessa dizione Grosßtadt è tedesca, mentre il termine metropolis viene diffuso ancora grazie al regista europeo Lang. Non è quindi condivisibile neppure il giudizio di alcuni studiosi europei, come Zevi, che hanno voluto leggere nelle esperienze americane il primato modernista, cui far conseguire la maggiore, successiva, consapevolezza critica circa il moderno. Tra questi Hubert Damisch, il quale, rilevando la scarsa conoscenza del mondo statunitense nell’avanguardia europea e scoprendo in Rem Koolhaas, “un grande storico”, ne spiega il percorso americano onde ritrovare un proprio retroterra avanguardistico, altro rispetto all’avanguardismo storico, in cui fosse già in atto l’odierno delirious del progetto31. In realtà la scoperta di Koolhaas, circa l’incontrollabilità, per l’architettura, della grande dimensione non è, come si è detto, affatto nuova (né nuove sono le analisi sociologiche, filosofiche, economiche, sulla realtà metropolitana) sebbene, se nel passato l’ipotesi di una città globale che fagocitasse l’architettura e ogni misura incontrava l’interrogarsi degli architetti, il suo compiersi nella nostra realtà vede oggi i progettisti piuttosto assuefatti e condiscendenti alle odierne dismisure, anche economiche, cui si offrono con oggetti che sfidano ogni scala metrica, non tanto per determinare con la colossalità costruttiva possibili polarità e nuove identificazioni ai luoghi nella grigia distesa oltreurbana, quanto al fine di imporre la loro singolarità sugli anonimi tessuti della città globale, nella adesione ad una mera logica immaginifica con cui, attraverso le modalità della comunicazione e del con-

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Ibidem, pp. 90 e segg. H. Damisch in Skyline, trad. it di L. Perrona e D. Nicolai, Costa e Nolan, Genova Milano, 1998, al fine di valorizzare la cultura architettonica americana ed i riferimenti a questa di Koolhaas, rileva nei modernisti europei la scarsa conoscenza della grande scala e del grattacielo, attribuibile, ad esempio, in Le Corbusier alla “visita tardiva a New York nel 1935” (p. 141). L’inattendibilità di tale giudizio, dimostrata dal fatto che già con il Plan Voisin del 1925 il maestro svizzero utilizza una griglia metropolitana per edifici alti, rende inattendibile anche il giudizio sulle capacità storiografiche di Koolhaas, il quale, invero, se ci si vuole affidare alle categorie psicoanalitiche utilizzate dal medesimo Damisch, sembra voler ricercare a New York le proprie radici, la vecchia New Amsterdam, ovvero il proprio Edipo culturale, inventandosi retroattivamente un delirante avanguardismo di cui vantare la filiazione. 31


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sumo, sublimare in un presunto appeal artistico-culturale le più ardite speculazioni sui suoli attivate da regimi economici e politici32. La proiezione in oggetti molto grandi, come è noto anche attraverso una superficiale cognizione del freudismo, indica la volontà infantile di pareggiare il padre che porta con sé sensi di colpa ed, in fine, possibili ritorsioni verso il sé. Se poi si traduce, attraverso Jung, la figura soggettiva in quella archetipa, collettiva, emerge come il gigantesco si ponga, secondo quanto è esplicito nei grattacieli, quale sfida umana al cielo, al divino che, da un lato, si ritorce nel tramutarsi del gigante in elemento terrifico e distruttivo e, dall’altro, provoca la collera divina rivolta alla distruzione del mondo creato e delle stesse grandiose creazioni umane33. Si può cioè dire, così come è stato analizzato di recente da Emiliano Ilardi, che, paradossalmente, il grattacielo, elemento intrinsecamente metropolitano, conduca con sé l’idea della catastrofe e del crollo, nell’annientamento della stessa metropoli34. Questo dualismo si manifesta anche nella teoria (ma dire “teoria” è un termine improprio) di Koolhaas sulla cosiddetta Bigness, la grandezza, quella degli edifici e della città, che l’architetto olandese scopre essere il luogo della fine dell’architettura e dell’urbano in termini tanto banali da non rilevare la contraddizione intrinseca al gigantismo costruttivo odierno che, fondato sulla tecnologia, su dispositivi cioè destinati ad essere presto superati, tenta invece proprio nel maestoso di pervenire all’eterno. La contraddittorietà del monumentale tecnologico praticato dallo stesso Koolhaas si prolunga quindi nella sua riflessione. Spingendo l’ironia di Venturi circa la noia del meno verso il capovolgimento dell’aforismo miesiano, Koolhaas sembra dire quindi, a proposito della grandezza, che “il più è un niente”, ovvero che quanto più grande, in senso quantitativo, è l’architettura, tanto più essa perde la sua qualità originaria divenendo altro da sé, sì che ad una sempre più ampia costruzione corrisponda una sempre minore presenza dell’architetto e della sua arte35. Una tale idea rivela, anche sul piano logico, una modalità della riflessione del tutto differente da quella dei moderni. Mentre infatti nella nota frase miesiana “il niente è più” si pone una intensificazione del soggetto, dove il “più” spinge il “niente” verso una nientità sempre maggiore, diremmo assoluta, che sovrasta il progettista36, nel suo possibile rovesciamento, secondo i postulati di Koolhaas, il senso manterrebbe in sé l’inversione e “il più è un niente” indicherebbe la compresenza dei due termini opposti, ovvero che proprio là dove c’è più architettura vi è anche il suo annullarsi. Si apre quindi un pensare per contrasti compresenti, ermafrodito, dove il gioco della coincidenza di affermazione e negazione non invita a permanere nel linguaggio, nel “dire”, per mostrare, come è nella tautologia wittgesteinina, “ciò di cui non si può dire”, quanto, data la creabilità e la costruibilità di qualsivoglia forma, anche la più capricciosa, a pareggiare l’indicibile, Dio stesso, termine in cui si danno appunto tutti i contrari, ovvero, nel tramonto della storia quale luogo del farsi materiale del divino, a cavalcare tutti gli eventi che si inanellano nel tempo, ogni novità, ogni moda, quella pure del tutto opposta al credo appena affermato37. L’architetto, secondo le indicazioni di Koolhaas, sarebbe quindi un 32

E’ lo stesso Rem Koolhaas a scrivere in La città generica (1994) in Junkspace, trad. it. di F. De Pieri, Quodlibet, Macerata, 2006, p. 43, “La città generica intrattiene un rapporto (alquanto a distanza) con un regime più o meno autoritario, locale o nazionale. Di solito gli amichetti del ‘leader’ (chiunque egli sia) decidono di ristrutturare un pezzo di ‘centro’ o di periferia, o magari di iniziare a costruire una città nel bel mezzo del nulla, e così scatenano il boom che fa apparire le città sulle carte geografiche” 33 La “grandezza soprannaturale”, attribuita al padre ed all’analista dagli analizzati, è annotata da C. G. Jung in L’io e l’inconscio (1928), in Opere, volume settimo, trad .it. di E. Schanzer e L. Aurigemma, Boringhieri, Torino, 1981, pp. 131 e segg. Jung si occupa più esplicitamente dei Giganti e del “gigantesco”, in Risposta a Giobbe (1952) in Opere, op. cit. vol. undicesimo, Torino, 1979, pp. 402-403, dove illustra il racconto dei figli di Dio nel libro di Enoch, risalente al 100 a.C., quello degli angeli caduti dal cielo, che, innamorati delle belle figlie degli uomini, generarono giganti alti 3000 cubiti insegnando ai terrestri, in cambio, l’intero scibile, conducendo appunto l’uomo al “gigantesco”, ad “un’inflazione della coscienza culturale dei tempi” che, “come ogni inflazione è sempre minacciata da un contraccolpo dell’inconscio”, vale a dire il diluvio distruttivo inviato da Yahwèh e la stessa distruzione promossa dai giganti che iniziarono a divorare il frutto del lavoro degli uomini e gli stessi uomini. 34 Sul carattere autodistruttivo della metropoli rivolto a nuove frontiere cfr. E. Ilardi, La frontiera contro la metropoli, Liguori, Napoli, 2010, il quale sembra ribaltare le tesi del Damisch, op. cit. rivolte a leggere nell’universo metropolitano americano un compiaciuto narcisismo di cui è prigioniero. 35 Mies è citato in R. Koolhaas, La città generica, op. cit., pp. 50-51, come “noioso”, mentre per il Mies pure ritenuto “interessante”, quello espressionista, viene sostenuto che “aveva torto” nell’arrendersi alla propria noiosità, così come dimostrerebbero le architetture che gli rendono omaggio. In Bigness (1994) in Junkspace, op. cit. pp. 13-24, quasi parodiando Mies, Koolhaas scrive: “La Bigness è il punto in cui l’architettura diventa massimamente e minimamente ‘architettonica’: massimamente, per via dell’enormità dell’oggetto; minimamente per la sua perdita di autonomia – diventa strumento di altre forze, diventa dipendente”, e ancora “La Bigness è l’ultimo baluardo dell’architettura – una contrazione, una iper-architettura … La Bigness lascia il campo al dopo-architettura”. 36 Sul nichilismo ed il platonismo di Mies cfr. M. Cacciari, Res aedificatoria. Il ‘classico’ di Mies van der Rohe, in “Casabella” n. 629, dicembre 1995. 37 In tutti i testi di Koolhaas emerge il gusto della contraddizione, dello scompaginare quanto appena detto onde non determinare una teoria, così come anche nei suoi atteggiamenti culturali, quali il creare improbabili copyright, dichiarare il fasti-


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possibile ubermensch, in grado di creare sempre nuove disposizioni all’abitare secondo i desideri determinati dal mercato, laddove al contrario, proprio il suo essere surdeterminato dalle necessità mercantili ne fa una ridicola caricatura di Zarathustra, sul cui carattere metafisico, oltretutto, si è comunque soffermata la critica filosofica38. Certo anche l’architetto koolhaasiano fa del mondo “favola”, ma questa più che rivolta al mito dalla creatività divina, dionisiaca, tragica del superuomo, appare voler allestire un disneyano mondo di finzioni di finzioni le quali, oltre il tragico, si dispongono solo al consolatorio gioco del consumo dove il divino della creatività si avvilisce in una compiaciuta, celibe, autoriflessione, Dioniso in Narciso. Ma, lasciando alla miseria dell’architetto olandese le aspirazioni divine/narcisistiche (il padre e l’infante insieme, secondo un ulteriore ossimoro) è indubbio che la grande dimensione determini, come già ben sapevano i moderni, una mutazione dell’architettura e della città, la loro possibile dissoluzione, quella anche dello stare comunitario, sociale, che essi affrontarono non tentando di offrire alla dismisura una possibile misura, quella del colossale con cui pure si confrontarono, quanto rivolgendosi alla ricerca del senso originario dell’abitare, da riscoprire, per gli europei, attraverso il risalimento delle sue più alte forme storiche, o per l’americano Wright, mediante il ricorso alla natura di cui è compenetrata l’anima. In definitiva può ritenersi che nella global city si concluda il delirare connaturato all’urbs con i suoi dualismi, il dentro e fuori le mura, il centro e la periferia, la città e la campagna, l’urbano e il territoriale, nei quali si rifletteva la sua originaria struttura binaria39. Se infatti la megalopoli contemporanea appare caratterizzata dalla perdita della centralità, dal fatto che “la città è ovunque” tanto che “dunque non vi è più città”40, dal rendere ogni suo luogo centro e periferia insieme, non può dirsi ad essa vi sia un fuori, una uscita dal solco (de-lira), appartenendole piuttosto anche il sito più decentrato. La città globale è cioè senza misura, un paradossale spazio nonspaziale e, si direbbe, nella comunicazionalità diffusa, non solo senza storia, senza progresso, ma anche senza tempo, per cui qualsivoglia metro, sebbene gigante, non può esaurirla, sì che appare fuorviante il ritenere le si addica il colossale, o il complesso, da cui gli architetti sarebbero, secondo Koolhaas, esclusi. Semmai può dirsi che, compiendosi in essa, l’urbs ritrovi, nella sua estensione comprensiva di ogni luogo e, quindi, unitaria, totalizzante, l’unità della polis, la quale, oltre le partizioni offerte ai latini, si costituiva come rocca41, escrescenza della terdio per la “firma” delle archistar ed invece promuovere un proprio brand, esprimere il desiderio di perdere all’architetto la specificità in un lavoro collettivo mostrando fastidio di fronte alle imitazioni, rilevare lo junkspace come spazio residuale ed insieme spazio proprio del nostro vivere, attribuirsi da Dalì la paranoia critica di per se stessa un ossimoro, sino al doppio studio con le sigle capovolte OMA ed AMO, il primo rivolto alla operatività il secondo alla teoria, ovvero, alla critica della stessa operatività cui si dedica. 38 La cattiva coscienza rispetto al mal digerito Nietzsche, citato in Delirious New York, emerge nella reticenza con cui il filosofo viene richiamato da Koolhaas nell’intervista a Francois Chaslin, Architettura della tabula rasa, trad. it. di F. Tommasi, Mondadori Electa, Milano, 2003, introdotta proprio da un aforismo nietzshiano (“Ognuno deve organizzare il caos che trova in sé”). A p. 30 Chaslin chiede esplicitamente a Koolhaas se, riconoscendosi nicciano, come qualcuno lo ha definito, non pensi di essere tra coloro che furono indicati dal filosofo come “porci” sguazzanti nella propria dottrina, mentre l’architetto, identificandosi nel superuomo, dichiara di avvertire fastidio verso i propri “cloni”. A p. 43, interrogato su se abbia letto Nietzsche, dopo aver risposto rinviando a Rowe e Frampton, i quali spesso scrivono del filosofo del “negativo”, finisce con l’ammetterne la lettura, ma rifiutando decisamente quella di Heidegger, ovvero quella di Norberg Schulz ritenuto, superficialmente da Chaslin, un epigono heidegerriano, per rilevare che “l’universo heidegerriano suscita in me una sorta di angoscia. Lo trovo molto malsano…”. Oltre l’ignoranza dei due interlocutori sui termini filosofici di cui discutono, è indicativo che sia stato proprio Heidegger a rilevare il carattere metafisico del pensiero nietzschiano, per cui può dirsi che il povero Koolhaas avverta, inconsapevolmente, ritenendosi l’incarnazione di Zarathustra, una “angoscia” nei confronti del pensiero heidegerriano che rivelerebbe, proprio nelle sue teorie affermate in antitesi all’ideologia, il carattere ideologico e addirittura metafisico già attribuito al pensiero nicciano. 39 La città occidentale, secondo quanto ha esposto Massimo Cacciari in La città, Pazzini, Villa Verrucchio, 2004, è di per se stessa duale, mobile - Roma mobilis era definita la città per eccellenza - rivolta ad uscire da sé, come mostra anche la doppia definizione latina urbs e civitas riflessa nelle doppie definizioni delle lingue europee, essendo l’urbs elevata all’interno del solco e la civitas, attraverso le porte previste con il sollevamento dell’aratro dal terreno onde non determinarne la sacralità, rivolta alla espansione, fisica, sociale, politica, augescens. E’ pertanto già l’urbs a fondarsi sulla vocazione a venir via dai limiti, a de-lirare, per cui il delirious di New York non rileva che il compiersi di un destino proprio alla città che Koolhaas avverte inconsapevolmente nella ammirazione per Roma, la capacità dei romani di realizzare urbanità complesse e diverse con oggetti architettonici standardizzati. 40 Massimo Cacciari ha messo in luce in Nomadi in Prigione, in AAVV. La città infinita, B. Mondadori, Milano, 2004, p. 52 e segg., come la postmetropoli, la non-città, abbia condotto all’estremo limite il Nervenlben della metropoli moderna illustrato da Simmel, per cui l’energia che l’anima e la caratterizza è de-terrorializzata, non solo priva di luoghi, ma proprio antispaziale, legata solo al tempo e, nella comunicazione istantanea resa dagli odierni mezzi, rivolta a superare, per gli uomini divenuti senza connotati spaziali, senza corpo, puri angeli, la stessa dimensione temporale. 41 La polis, secondo la ricostruzione dell’etimo pelasgico, mediterraneo, invece che indoeuropeo, svolta da Cacciari in La città, op. cit., p. 21, indica la rocca, il luogo fortificato. La sua identificazione nell’acropoli, tanto più nel perdersi della zona a-


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ra, universo totale antesignano della global city, a sua volta escrescenza del mondo, della Terra. Pertanto, anche nella città globale, come nella polis, più delle babeliche ascensioni al cielo o delle esaltazioni della sua caoticità, valgono i cammini tra i labirintici percorsi terreni, la ricerca delle strade del dialogare-convivere dei polites, il quale per i greci non si dava in ciò che oggi, con un banale accostamento tra gli etimi, diciamo politica, quanto, come ci indicano anche gli architetti moderni, nel riferimento ad una misura sovrastante ogni dimensione, pure quella smisurata della città globale: l’immisurabile della città ideale. Certo, nella Repubblica Platone manifesta come ogni ordine, e quindi anche quello dimensionale della polis, debba riferirsi alle disposizioni numeriche cui devono essere educati i “guardiani” onde controllare il “numero nuziale” che governa il ciclo delle nascite dal quale deriva l’armonia dello Stato42. Ma la molteplicità delle interpretazioni di tale numero armonico indicano appunto che, infine, esso pure si pone quale riflesso di un termine ideale. Riferite alle diverse componenti della mente umana le forme di governo dello Stato, necessario agli uomini incapaci di essere ciascuno per sé autosufficiente, appaiono carenti, foriere di conflitti che minano l’unità della polis e, per questo, il governo migliore appare essere quello dei guardiani-filosofi i quali, rivolti a quell’ideale, aspirano alla verità ed al bene. Non che il filosofo non sia a sua volta direzionato dalle limitate disposizioni della mente, animosa, razionale, concupiscente (oggi diremmo, sentimentale, scientifica, desiderante o consumistica), ma la sua educazione ne determina, come è spiegato nel mito della Caverna, la “conversione”, la capacità di attendere al Sophos, di guardare al bene, il “volgersi” cioè verso esso, “voltarsi” dalle tenebre alla luce43, cosa che manifesta non il possesso della verità quanto l’apertura, l’amore, l’essere-per, il lume del vero, appunto philo-sophos, i cui discorsi, pur germogliando dall’anima, sono consapevoli dei propri limiti, sì che come dice Socrate a Fedro “chiamarlo sapiente mi sembra, Fedro, eccessivo e conveniente solo a un dio”44. Consapevole della inaccessibilità del vero, su cui pure misura il proprio sapere, il filosofo coltiverà quindi l’equilibrio dello spirito, suo e dei suoi concittadini, la “temperanza” e la “giustizia”, contro l’eccesso delle passioni, che lo condurranno, non alla politica del proprio paese, ma alla diversa politica propria a “quello stato che esiste solo a parole” privo di località in terra, presente “forse in cielo”45, quella città ideale cui conformare il nostro abitare la quale non si offre né ad una architettura rigidamente conclusa in leggi costruttive aderenti a norme funzionali e stilistico-formali, né a quella incline programmaticamente ad infrangere ogni regola nella esaltazione della ca(o)sualità post-situazionista-sessantottina alla Koolhaas e dei cosiddetti decostruttivisti, per darsi sede in convenzioni, linguistiche, tettoniche, spaziali, originate dalla delimitata misura del nostro corpo, le quali mostrino quella misura altra che le fonda, l’aperto che le informa e che rende possibile il dischiudersi di luoghi nello stesso senza-luogo postmetropolitano, essendo la sua vera patria, come sapeva Wright, l’anima.

bitata caratterizzata da edifici in legno, fa quindi anche riferimento al nome, ovvero alla interpretazione della parte fortificata come nascente e, quindi in continuità unitaria, con quella alla base. La parte alta della città greca, cioè, destinata alla vita pubblica, ai templi, agli edifici amministrativi ed alla difesa, è circondata da mura le cui porte si aprono verso le strade più importanti che segnano il fitto e labirintico tessuto abitativo della parte bassa, riunito intorno all’agorà, la piazza degli scambi, detto non a caso chora, data la sua fusione con la terra che si stende, coltivata, dalle case verso la natura aperta. Pure distinta in due conformazioni, pertanto, la polis è unitaria, una totalizzante città-stato, la cui parte alta sorge quasi naturalmente da quella bassa, a differenza di quanto accadrà a Roma che, pur disegnando l’urbs tutta all’interno delle mura, si differirà nella civitas estesa, attraverso le porte, all’intero universo, in un impero comprendente più città.. 42 Platone, dopo aver parlato, nel libro quinto de La Repubblica, in Opere Complete volume 6, trad. it. di F. Sartori, Laterza, Bari, 1987, pp. 173 e segg. del necessario contenimento del numero degli abitanti della polis, affronta, nel libro ottavo, l’argomento della possibile degenerazione dello Stato perfetto causata dal difficile calcolo numerico circa il controllo delle nascite, pp. 261 e segg. 43 Ibidem, nel libro settimo, dedicato al mito della caverna, Platone affronta il tema della “conversione” intesa come un voltarsi, un rivolgersi. 44 La frase di Platone citata chiude il Fedro, in Opere Complete, op. cit. 45 Platone, La Repubblica, op. cit., pp. 312-314.


COKETOWN DELENDA EST Raffaele Nappo

Sono l’Impero alla fine della decadenza, che guarda passare i grandi Barbari bianchi componendo acrostici indolenti dove danza il languore del sole in uno stile d’oro. Paul Verlaine, Languore, da Jadis et naguère

Charles Dickens nel testo Tempi difficili (1854) descrive la tristezza dell’usurata città di Coketown in cui la fiorente lotta marxista e l’esigenza della nuova struttura sociale tralasciano i valori consolidati. Coketown “era un trionfo di fatti: in essa non c'era nemmeno l’ombra di fantasia [...]. Era una città con mattoni rossi o, per meglio dire, di mattoni che sarebbero stati rossi se fumo e cenere lo avessero permesso: così come stavano le cose, era una città di un rosso e di un nero innaturale come la faccia dipinta di un selvaggio; una città piena di macchinari e di alte ciminiere dalle quali uscivano, snodandosi ininterrottamente, senza mai svoltolarsi del tutto, interminabili serpenti di fumo”1. Il personaggio, Thomas Gradgrind, fedele alle certezze pitagoriche, in età senile cede alle pulsioni dell’irrazionale, con la consequenziale fuga dalla ideologizzata Coketown. La decadenza delle città postindustrializzate induce necessariamente ad una politica di distruzione piuttosto che ad una di sussidio. La Coketown europea è terminata poiché si è trasferita a Chinatown. Signor Gradgrind cosa possiamo fare delle Coketowns europee? Ne restano solo gli aspetti più inquietanti della vita, trasgressione, tenebrosi scenari, miserabili non luoghi? Cosa fare? Forse viviamo in un Neodecadentismo del XXI sec.? Forse siamo come l’Impero Romano che è morto perché abbandonò il culto della misura? Agli interrogativi posti, Gradgrind risponderebbe: “Ora quello che voglio sono Fatti. A questi ragazzi e ragazze insegnate soltanto Fatti. Solo i Fatti servono nella vita. Non piantate altro e sradicate tutto il resto. Solo con i Fatti si plasma la mente di un animale dotato di ragione; nient'altro gli tornerà mai utile. Con questo principio educo i miei figli, con questo principio educo questi ragazzi. Attenetevi ai Fatti, signore!”. È evidente che la città tradizionale europea sia scomparsa e la città contemporanea sia sempre di più una noncittà. Questo cambiamento pone l'errore semantico di identificare porzioni di territori con nomenclature obsolete e per questo motivo forse è il caso di addurre un nuovo termine alla vituperata città. L’odierno ha nuove esigenze abitative per L’uomo Flessibile 2, infatti adattabilità ed incertezza sono le ripercussioni che lo sviluppo economico ha sull’abitare contemporaneo. Divergenze dal senso dello stare della pólis greca, in cui il singolo è identificato con il génos, ovvero le sue radici e dal senso dall’abitare romano legato alla città mediante la ratio costituzionale. L’uomo contemporaneo abita nella città generica ed è regolato da un unico mercato mondiale ma con sistemi legislativi differenti. Tale condizione ha destabilizzato le forze egemoni del secondo novecento ed il senso dell’abitare la polis è mutato nella condizione di meteco della global civitas. Il meteco è flessibile, cioè non determina il luogo, ma è ospitato dal luogo inteso come frammento di territorio. Esso è perciò libero di abitare tra i luoghi seppur non avente i génos del luogo stesso. Mobilità antropica, in cui l’evangelizzazione fallimentare della città che sale a crescita illimitata ha ceduto al nuovo paradigma della riconversione dei territori depressi. Che cosa chiediamo alla città?3 Preso atto che l’idea rigida di un’unica immagine di città, ossequiosa dell’entropia dei vissuti, con crescita costante, sia del tutto sparita, ci resta coltivare lo strumento della progettualità secondo esigenze private. Le trasformazioni sono sponsorizzate da società a fini di lucro che, con alchimia pitagorica, investono su quei territori depauperati e inattivi. Questo atteggiamento formativo prevede un tempo breve di decisione ed esecuzione in cui l’interferenza della politica è ridotta al minino: “Vastissime aree architettoniche indifferenziate rigurgitati di funzioni di rappresentanza, finanziarie, direzionali, accatastate intorno aree periferiche residenziali, Ghettizzate, le une rispetto alle altre, aree commerciali di massa, ‘avanzi’ di produzione manifatturiera, il tutto collegato da ‘eventi’ occasionali, al di fuori di ogni logica urbanistica e amministrativa. Le case per la grande massa saranno quelle del mini appartamento standardizzato” 4. E’ uno scenario che non arreca tristezza o posizioni di radicale contraddittorietà ma apre nuove opportunità, poiché perpetuare la trasformazione globale garantisce un soddisfacimento della civitas globale. Non si può non concordare con Massimo Cacciari quando so1

C. Dickens Tempi difficili, Newton, 2010, p. 25. R. Sennett, L’uomo flessibile, Feltrinelli, 2009. 3 M. Cacciari, La Città, Pazzini, Villa Verucchio, 2009, p. 24. 4 Ibidem p. 34. 2


stiene che “i vernacoli localistici, il richiamo ad un’arte regionale è del tutto insensata”5, ma viene da chiedere se il suo etichettare l’architettura infuturata come “puro gioco formale, che le fa perdere ogni potenza costruttiva, ogni serietà e responsabilità”6 sia accettabile. La progettazione necessita di una visione futura e di un'alchimia di fattori economici che determinano il pro-oggetto. I prodotti delle star dell’urban-design sono legati stabilmente ad un ritorno economico, in cui gli attori della trasformazione, sempre a scopo di lucro, auspicano le tendenze e l’impulso delle nuove icone o dei nuovi modi di usufruire lo spazio. La città è un oggetto non più programmabile nella sua totalità, l’architettura si impone con nuove icone, sfida il tempo fisiologico del consumo, del logorio seduttivo dei brand o del singolo io: “… non è in nessun modo dato di sapere-calcolare dove, per esempio, finiscono i confini di Firenze e dove inizia Scandicci. La perdita di valore simbolico della città cresce proporzionalmente e assistiamo, o ci sembra di assistere, ad uno sviluppo senza meta, cioè, letteralmente, insensato, ad un processo che non presenta alcuna dimensione organica. E’ davvero la metropoli dell’intelletto astratto, dominato soltanto dal fine della produzione e dello scambio di merci. E’ assolutamente naturale che il cervello di tale sistema consideri ogni elemento spaziale come un ostacolo, un’inutile zavorra, un residuo del passato, da spiritualizzare, da volatilizzare. Ma, nello stesso tempo e per la medesima ragione, ciò produce l’improgrammabilità dell’insieme e sui nessi tra le parti, sulla logica delle relazioni, che è l’essenziale, nessuno è sovrano. Domina il gioco per definizione imprevedibile degli interessi privati. L'occupazione del territorio non conosce più alcun nómos (poiché nómos, legge – non dimentichiamolo – significa all’origine suddivisione- spartizione di un territorio o pascolo determinato)”7. Gli strumenti regolatori tanto mitizzati, come la legge ponte, oggi rappresentano un’icona utopica del fallimento di una generazione poiché oltre all’evidente inefficacia dei piani e del potere politico locale anche su larga scala si individuano delle interforze di sistema che bloccano le mutazioni dei territori e quindi discrasie tra la vocazione dell’abitato ed il normato inteso come overdose legislativa. La struttura di suddivisione e tutela delle zone omogenee è stata respinta dal singolo e quindi dalla forza produttiva che ha sancito la non città. Sulle intuizioni radicali di Natalini e del gruppo Superstudio si basa il senso contemporaneo di “Monumento Continuo”, ovvero un’unica città su unico territorio antropizzato che abbraccia tutto il globo. Il gruppo fiorentino ripropone il tema della città lineare, assimilata ad un treno in cui la locomotiva è alimentata dalla grande industria espressa mediante il PIL o GDR, seguendo tutti i territori incapsulati in vagoni distinti da differenze apparenti. La velocità di crociera della grande fabbrica antropizzata, esplicitata nel testo Città nastro a produzione continua, è di circa 37 cm/h. La grande fabbrica è sempre più lontana dal vecchio continente e allora cosa ne resta? Forse vagoni composti da strade, terre post-industrializzate, luoghi post-abitati ed un tessuto storico sempre più schiavo di se stesso. L’uomo ha posto le mani sulla natura, creando la grande fabbrica da cui dipende, per affermare il proprio sé. Il moto del vecchio continente diretto dalle virtù dell’identità storica, ideologizzata, affermata e difesa dai salotti dell’eticamente corretto è sempre più lontano dalla fermata tramonto. Questa progressione per Claudio Magris è assimilabile alla “foresta del viandante moderno che è la città, con i suoi deserti e le sue oasi, il suo coro e la sua solitudine, i suoi grattacieli o le sue osterie di periferia, le sue strade rettilinee in fuga verso l’infinito. Il passante con gli occhi e i sensi aperti è forse il viaggiatore più autentico, il suo sguardo penetra e disfa lo scenario urbano come un’insurrezione, come accade alla sacrale e stravolta Milano di Luca Doninelli nel suo possente Crollo delle Aspettative. Paesaggio è paesaggio, è anche un’andatura, come uno stile della scrittura. Ognuno attraversa un luogo con un suo ritmo: uno va svelto e uno si ciondola. Una città – una pagina- si percorrono in mille modi: attento, lento, sincopato, frettoloso, distratto, sintetico, analitico, dispersivo”8. Quindi l’azione del moto del Monumento Continuo è evidente quando si attraversa il territorio, che appare come una cloaca di oggetti abitati, pieno di relitti del vissuto archeologico, con disparate oasi di elevato glamour e con aree dormitorio per tutti i gusti e tutte le possibilità sociali. Tutto ciò è espressione della nuova non società in cui il termine Ubermensch non indica un superuomo ma solo una nuova individualità. La consapevolezza dell’uomo di esser frammento si manifesta esplicitamente durante il viaggiare in cui l’io si relazioni al contesto, contrapponendosi al già vissuto. L’uomo nel costruire ciò che desidera ha attuato multipli di oggetti adattabili al territorio in cui lo slogan lo voglio anche io ha alimentato le ruspe per la demolizione e per il trasporto a rifiuto delle secolari tradizioni e dei parametri culturali consolidati. Ciò rappresenta la vittoria dell’uomo sui propri demoni ed è, invece, inadeguato per chi ostacola il decorso degli eventi che per suo cinismo oppone false certezze. L’intraprendenza economica è uno strumento capace di dare possibilità, di consumare oggetti e desideri e non si può considerare l’azione del dandy arrampicatore sociale come scellerata poiché, come sostiene Magris, la storia è un “mattatoio”. L’uomo eticamente corretto fotografa e tutela il vicolo delle lupanare di Pompei per poi scandalizzarsi alla mercificazione del corpo odierno. E’ 5

Ibidem p. 39. Ibidem p. 39. 7 Ibidem p. 53. 8 C. Magris, L’infinito viaggiare, Mondadori, Milano, 2006, p. XVII. 6


uno spettacolo storico che, eliminato il fattore temporale, determina solo l’elemento di spettacolarità. Gli amministratori della produzione del reale lavorano nel mondo virtuale della finanza, in cui la competizione è sempre più famelica di investimenti e di nuovi sviluppi di rami aziendali. La virtualità della finanza incide profondamente sulle trasformazioni del territorio in cui il rapporto abitanti/metri quadri è surclassato dall’indice GDP o PIL dell’area in cui investire e gli standard urbanistici, trionfi della democrazia degli anni ‘60 e ‘70, rappresentano sempre di più la loro inutilità. L’utilizzo dei capitali, provenienti dal mercato creditizio, mercato mobiliare, mercato assicurativo, mercato monetario, e quelli più sofisticati e di ultima generazione mercati dei prodotti derivati, sono i nuovi strumenti su cui, i neo-urbanisti, devono attuare strategie economiche, stabilire aree e trovare coperture finanziare per permettere alle aziende architettura di progettare soluzioni in cui la sola quantità non è più condizione sufficiente, essendo l’obiettivo quello di attirare nuovi consumatori e quindi di aumentare il valore dell’investimento iniziale. I migliori urbanisti europei hanno sede nella city di Londra ed inorridiscono dinanzi alle lezioni tendenziose dei cattivi maestri, epigoni del mito de Le mani sulla città che bloccano le nuove trasformazioni urbane. La porzione di territorio ricadente nel vagone Italia, in particolare l’area napoletana, è sempre più devastata dalla nefasta amministrazione pubblica, schiava della metastasi tradizione che è rigettata dal mercato e rinnegata dalla next-generation. Dinanzi ad un simile scenario non resta che rottamare i metri cubi del costruito, proporre nuove icone nel cuore del tessuto consolidato, creare il desiderabile e avere il coraggio di poter offrire abitacoli contemporanei e non solo metri cubi del vecchio, seppur riadattato mediante lifting filologici. Quindi abbattere, demolire e riciclare porzioni di città è la nuova prerogativa. Il volto è sempre pitagorico, numero, share, % di abitanti, % di potenziali consumatori, incidenza produttiva, % di crescita, % di GDP. Cosa è successo del resto nell’eurobond del dopoguerra? Ha accettato la seduzione dei prodotti industriali e l’euritmia della maschera/volto insegue il POPular. Thatcher ha riconvertito le aree tipo Coketown per avviare nuovi programmi di sviluppo a costo zero per il debito pubblico e nuovamente l’impero dei numeri finanziari ha apportato produzione architettonica. Perché tanto sgomento sulle scelte della London Dockland Corporation di effettuare autonomamente il progetto esecutivo, seppur rispettando gli accordi preliminari Comunali? E’ un investimento che si è rivelato fallimentare nel breve periodo con insufficienti ritorni di capitali e ciò ha causato il fallimento delle società Olympis e York (investitori nella trasformazione di Canary Wharf, London) ma, nel medio tempo (circa 25anni) ovvero oggi, il valore della trasformazione del quartiere di Canary Wharf è consolidato e rafforzato dalla presenza di numerose società e vetrina per le prossime olimpiadi London 2012. La programmazione o la non programmazione urbana ha comunque rigenerato Londra. Perché non adottare tali strategie nei deserti napoletani? Le demolizioni sono inevitabili come ammette anche Bohigas, commentando la trasformazione di Barcellona gestita secondo il volere del comune: “Le demolizioni erano inevitabili dove le case del centro storico erano insalubri, invivibili”9. Anche se Bohigas, per Mario Fazio, non è un fondamentalista dell’innovazione“la forma tradizionale della città rende vivibile e riconoscibile la città stessa”10 cosa c’è di tradizionale negli interventi generati da Bohigas? Barcellona è al pari di Londra nell’utilizzo dell’ingegneria. Gli architetti/urbanisti, anarchici, cortigiani viaggianti, mostrano nei vari CDA o ai vari Sindaci molteplici soluzioni. Alle riunioni l’architetto contemporaneo, munito sempre di più borse, per prima apre la borsa marketing da cui mostra i contratti o i pre-contratti con produttori cinematografici, case editrici, società di eventi. La successiva esposizione è il concept del proprio Brand che segue la sua poetica aziendale ed il suo Cv. A tal punto la noia domina gli investitori, ma non appena il project manager mostra le analisi di mercato e la plusvalenza del flusso finanziario, la sala acquista nuovo entusiasmo. Il dado è tratto ed il territorio avrà un nuovo oggetto per esser consumato, le aziende di costruzioni fameliche di profitto acquisiscono debito ed il mercato finanziario ha nuovi flussi. Da qui la liquidità per attivare l’opera ed alimentare il suo desiderabile. Il nuovo oggetto chiamato Attrazione XXX piace e funziona. Le critiche per l’eccesso, per lo spreco, rappresentano un leggero eco del manifesto apparso per la prima volta nel 1848 sulle mura di Coketown. Dopotutto l’uomo abita il proprio sé all’interno delle sue apparenze illusorie. Della città ne resta solo l’idea, un viaggio interattivo con dei set cinematografici del tempo trascorso. Il presente/futuro, pertanto, come riconosce per Umberto Eco, “non potrà individuare l’ideale estetico diffuso dai mass media del XX secolo e oltre, ma dovrà arrendersi di fronte all’orgia della tolleranza, al sincretismo totale all’assoluto e inarrestabile politeismo della bellezza”11 e forse Baudelaire non avrebbe esitato a definire la signora Thatcher come l’urbanista della corrispondenza sensibile. Il nostro nuovo lessico urbano potrebbe consistere nell’apporre il suffisso “non”, da cui la non-città, la zona non-omogenea, il piano non-regolatore e cosi via. In questo senso possiamo dire bello lo spot della socialpolitik di Cacciari sindaco, “Venezia si trasforma”, con Porto Marghera che diventa green (un lifting basato su un po’ di verde per la nuova corsa al consumo) e l’ingresso a Tessera progettato da Ghery, che aumenterà il flusso turistico in una percentuale su cui il comune acquisisce un debito, le banche 9

M. Fazio, Passato e futuro delle città, Einaudi, Torino, 2000, p. 140. Ibidem. 11 U. Eco, Storia della Bellezza, Bompiani, Milano, 2004, p. 428. 10


emetteranno il credito sui fondi emergenti e gli investitori, saranno rassicurati dall’utilizzo del brand-Ghery e dagli accordi commerciali che legano gli spot pubblicitari alla Venezia trasformata. La pubblicità del nuovo oggetto incuriosisce, cresce il desiderio per il soggiorno veneto ed ecco i numeri per l’eroismo urbano veneziano. Piazzale Roma, il nuovo Arsenale, il nuovo Lido sono tutti progetti che incrementeranno il mercato il cui esito ci sarà comunicato con chiarezza quotidianamente durante la colazione. Demolire porzioni di costruito, per avviare un ammodernamento della rete commerciale industriale con aree no-Tax particolarmente depresse, potrebbe essere una soluzione alla profonda crisi economica. Ma i territori sono frenati nella trasformazione da normative rigide ed obsolete. In Campania, ad esempio, la porzione del territorio con il suo centro iconico Napoli, avrebbe molto da lavorare ma è bloccata da un’inutile e non democratica ingessata legislazione urbanistica. Lo scenario italico è stato ben esplicitato, mediante scatti cinici e a tratti surreali, dal fotografo e regista David Lachapelle. Le foto della sezione Deluge, in particolar modo Statue (2007), Museum (2007), Diluvio (2006) hanno come tema l’inondazione dei valori universali ravvisabili nell’arte passata mediante un’azione distruttrice della natura. Allegorie della Verità nella Calunnia di Botticelli, simboli dell’intellettualismo pret a porter fusi con i simboli dell’establishment internazionale, il Caesars Palace di Las Vegas, Burger King, Gucci, Starbucks, sono le immagini che l’artista propone, in cui i volti dei soggetti appaiono sgomenti ed attoniti alle conseguenze del moto nel movimento globale continuo. Uomini di ogni età immersi nell’acqua della speranza di salvezza medievale che sono in attesa di una rinascita universale. Nella sezione Destruction and Disaster, seppur ambientata nel territorio della North Carolina, ritroviamo il senso della periferia delle aree post-abitate, post-industrializzate ed il tema della distruzione delle case, consumate dalla maligna natura, è protagonista. In the House at the End of the Word una donna alto borghese indossa una sontuosa vestaglia chic, alienata dai suoi desideri e, senza rinnegare ciò, convive con la distruzione del proprio abitacolo tradizionale. Il riferimento è alle Hollywood Homes in chiave ironica. L’artista evidenzia la distruzione o meglio il consumo di ciò che ha prodotto la favola mediatica del secondo novecento, la casa del mito americano composta da ballon-frame, stilemi del New Palladianism, case unifamiliari, icone borghesi poste in rovina. Forse le case rappresentanti il tema distruttivo di Lachapelle rimandano, come nella foto Can you Halp Us? (2005), ai paradigmi odierni in cui le modelle rappresentano l’ingegneria del glamour e sono portatrici della schizofrenia del perfetto, ossessione del bello sociale sedotto da istinti sessuali, il tutto per render più efficace il messaggio pubblicitario. L’artista esaspera i toni per sottoporre tale processo a denuncia sociale e per evidenziare il perverso meccanismo in cui siamo chiamati a intelaiare i frammenti dell’io. La gente ha fame sostiene James Champsy perché “il mercato sta per esser guidato dai consumatori in un modo che non si era mai visto prima”12, poiché esso è troppo dinamico per la programmazione di lungo periodo. Per l’economista Bennett Harrison la necessità del flessibile nel breve periodo è data dall’impazienza dei capitali, legata a rapidi profitti e ad un ciclo di vita aziendale monoproduttivo. Il suggerimento del professor John Kotter, docente all’Harvard Business School, è di abbandonare i modelli di fedeltà consolidati ed istituzionalizzati poiché rappresentano trappole, dato che“i concetti commerciali, la progettazione dei prodotti, la conoscenza della concorrenza, la disponibilità dei capitali hanno una vita potenziale ridotta”13. Per Massimo Cacciari il “trauma metropolitano, analizzato dai Weber, dai Simmel, dai Sombart, dai Benjamin, parla ormai del nostro passato. Lo sradicamento dell’homo-economicus dai luoghi simbolici dell’antica «città» e la loro «sostituzione» con la rappresentazione delle funzioni dello scambio, della produzione, questa «grande trasformazione» che ha omologato i luoghi urbani in uno spazio unico, in un disegno uniforme (e di conseguenza lo stesso linguaggio architettonico), ha già fatto la sua epoca. Noi viviamo oggi la forma delle metropolisimbolo della contemporaneità come quella delle antiche città-comunità, città-organismo. La metropoli è divenuta classica sotto i nostri occhi. Tokio, Shanghai, Città del Messico non sono più metropoli ma sono territori e questo processo sta avvenendo ovunque, compreso a Milano. Nel «territorio» suona forse la stessa radice di terreo inteso come spavento, terrore, ma anche qualcosa di «meravigliosamente» ignoto e la Città infinita significa dunque catastrofe della città nel senso più sobrio e disincantato, nel senso che essa si è irreversibilmente trasformata in area vasta, dai confini imprevedibili. Una sfida che deve colmarci di paura? Forse, ma di una paura piena di idee, che oggi sembrano paurosamente mancare. Vi è chi continua a fingere di governare-amministrare la «città infinita» come fosse il «comune antico»; vi è, poi, l’ideologia della speculazione, che insegue l’esplodere della città, dividendosi tra nostalgici e futuristi vuoti […]. La vecchia metropoli è ancora organizzata per spazi rigidi, per «corpi» di riferimento pesanti, ingombranti, «congelati» nelle loro specifiche funzioni. Nel mondo attuale dove ogni spazio si va trasformando in tempo, le nostre antiche metropoli sono ancora organizzate in spazi chiusi ed impenetrabili, segmentate per funzioni e zone rigidamente distinte. Nel mondo dove tutti sognano (o delirano?) di poter essere ovunque «in tempo reale», il movimento nelle metropoli-territorio è bloccato. Il nostro spirito è no12 13

J. Champy, Re-engineering management, HarperBusiness, New York, 2005, pp. 39-40. J. Kotter, The new rules, Dutton, New York, 1995, pp. 81 e 159.


made e il nostro corpo vive in prigione, schiavo di una schizofrenia che deve e può essere guarita solo attraverso il fare e una nuova fantasia urbanistico-architettonica «al potere». Per queste «aree vaste» dai confini imprevedibili serve più fantasia al potere”14. Ne deriva che gli epigoni del carattere stanziale, cui si deve l’agonia e l’inettitudine di quelle porzioni di territorio sempre più degradate, saranno sempre più fuori mercato. Si farà strada la concorrenza tra luoghi, la concorrenza tra porzioni di territorio in cui la gestione è sempre più tipica dei villaggi turistici, porzioni di territorio gestite e programmate da gestori non pubblici, in cui city marketing, sicurezza, qualità dei trasporti, attività ludiche sono sempre più programmate e rassicurate da privati che non dall’instabilità pubblica. Investire in zone depresse per pura parvenza è spreco di danaro con l’inevitabile inefficacia dei risultati e ciò determina e determinerà la morte naturale di molte aree, come la provincia napoletana e casertana. Forse la crisi che sta destabilizzando il fordismo del tradizionale italico potrà esser una risorsa per la fioritura di nuovi sistemi legislativi capaci di attirare a sé le luci degli investitori. Il consiglio dato ai giovani laureati in architettura da Giancarlo de Carlo è più che comprovato poiché“il linguaggio che fluisce dalle cattedre e dai critici è incomprensibile. Aggiungo colpevolmente incomprensibile, perché si tratta di un imbroglio premeditato. Come possono reagire gli studenti? Mettendosi in ascolto con altri suoni autentici-credo che ce ne siano ancora, sparsi qua e là. Qualche studente lo fa, molti cadono in uno stato di apatia, altri mangiano la foglia e cominciano precocemente a parlare lo stesso linguaggio”15. La necessità di demolire per riutilizzare quel suolo non è un grido all’antistoria o imitazione dei maestri ma è semplicemente attestare con le tecnologie del tempo e con l’impulso sociale-economico la nostra presenza. Il territorio è una rete di oggetti a cui la società dà un valore in base alla % del suo usufruito, al desiderato ed al necessario. La rete di oggetti, la rete dei valori espressi dall’artigianato di un tempo o dall’industria odierna determina lo spazio in cui l’uomo vive. La città è morta e la riconversione è dominata dal potere dei numeri economici che hanno tradotto gli stati in modelli aziendali ed i territori in padiglioni aziendali in competizione tra loro. Gli amministratori dell’azienda pubblica e gli amministratori delle aziende private immettono sul mercato, quindi sul territorio nuove opportunità di consumo con l’auspicio e la consapevolezza di uccidere porzioni di territorio consolidato in nome dell’euritmia mascheravolto.

14 15

M. Cacciari, Nomadi in prigione, in La città infinita, 2004, p. 51. M. Fazio, op. cit., in M. Cacciari, 2004, p. 194.


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DALLA GROßTADT ALLA ‘METROPOLI DIFFUSA’ Renato Capozzi

Il presente scritto muove da una tesi di fondo: ogni idea di città premette un’idea di architettura e viceversa. Se pensiamo, infatti, al famoso schizzo in cui Le Corbusier dispone architetture diverse - una cattedrale, un tempio, una basilica ed una casa (Villa Savoye) in differenti condizioni morfologiche e posizionali - questo assunto diviene esplicito: è l’architettura a ‘fondare’ i luoghi ed a determinare il loro carattere specifico. Il ragionamento qui proposto si articola didascalicamente in alcuni punti logicamente interrelati che a partire dall’analisi critica della condizione urbana attuale e delle sua complessa genealogia provano infine a proporre una alternativa plausibile e auspicabilmente perseguibile. Idea di città Parlare di ‘idea di città’ significa in definitiva parlare di ‘forma’ dell’insediamento, di ordine complessivo della costruzione urbana. In altri termini significa mettere in questione e riflettere sulla struttura d’ordine soggiacente, sulla nozione di impianto, di tessuto, di elementi eccezionali e ricorrenti, sul tema della configurazione generale della città, della sua finitezza/misura/in-finitezza. L’idea di città, quando è perseguita ed esposta con chiarezza, è sempre una risposta razionale al problema dell’informe, del caotico, dell’indistinto, dell’inconoscibile ed incommensurabile attraverso alcuni principî descrivibili che ne definiscono i caratteri di generalità ed intelligibilità. Le idee di città compiutamente fondate sono poche ma le loro applicabilità e declinazioni sono estremamente varie. Nella relazione specifica con i luoghi, con le “inerzie del reale”, ogni idea di città, per quanto ‘apollineamente’, compiuta ritrova ogni volta una sua individualità efficiente nella dialettica con la realtà fisica immanente ed i condizionamenti di luoghi che ogni volta costruisce. In ogni caso la città e le idee (eidos) che la sottendendono rimangono la “costruzione umana per eccellenza” (Lévi-Strauss, 1958) ed in definitiva la più complessa e densa di valore. La città giardino e la Großtadt Il problema della crescita incipiente della città industriale a cavallo tra il XIX e il XX secolo divenne il ‘problema d’elezione’ cui furono attese le migliori riflessioni della cultura architettonica europea. Alla città dell’Ottocento (Stübben-Baumaister-Sitte) che oramai saturava i suoi asfittici isolati fino al punto di diventare un’unica grande ed indistinta “città di pietra e di caserme d’affitto” (Hegemann, 1930) e della rendita di posizione (Bernoulli, 1951) la riflessione ‘moderna’ oppone sostanzialmente due grandi modelli alternativi: la città giardino (città natura) e la Großtadt (città ideale). Le due idee poi sono, nei fatti e nelle esperienze concrete, due risposte complementari alla saturazione e omologazione della città ottocentesca ma con conseguenze ‘assolutamente divergenti’. La città giardino in qualche modo rappresenta un’alternativa alla città di pietra – da cui però dipende in termini di relazioni funzionali ed economiche – nel tentativo di opporre alla città compatta e ‘chiusa’ una città ‘aperta’ al territorio in un rinnovato rapporto con la natura e la campagna. Uno dei suoi limiti sta proprio nella precisa rinuncia ad una compiutezza formale e quindi ad un principio di limite (peras) essendo anch’essa - come è facile riscontrare nella città americana - in un certo modo potenzialmente estensibile ad infinitum. La Großtadt d’altro canto è, prima di tutto, un tentativo generoso ma anche utopico di ricomporre, di riorganizzare e riordinare la città compatta esistente a partire da alcuni principî: il controllo della densità e il rapporto tra il tipo edilizio e la morfologia urbana. La Großtadt a partire dalle riflessioni di Karl Scheffler nel suo Die Architektur der Grosstadt (Scheffler, 1913) che in realtà lavora sulla espansione della città consolidata, trova una sua prima chiara impostazione metodologica in Ludwig Hilberseimer, la cui ricerca, in questo ragionamento, verrà assunta come paradigma per orientare la comprensione del passaggio tra la grande città moderna e la metropoli diffusa di questi anni. La Großtadt di Hilberseimer Hilberseimer è il primo che propone una vera e propria teoria della grande città: un “sistema ordinato di proposizioni” (Grassi, 1967) trasmissibili. Il suo lavoro avrà degli sviluppi assolutamente consistenti con le trasformazioni della città contemporanea e si articola in due momenti principali: il primo inerente la Großtadt, che è a ben vedere è una riflessione sulla città di Berlino; il secondo, coincidente con la sua stagione americana, che si appunta sul rapporto tra territorio geografico ed insediamento urbano, sulla questione della dimensione estensiva alla grande scala, sul riequilibrio tra città e campagna e sulla relazione tra insediamento umano e natura. La Großtadt di Hilberseimer nelle sue parole «non può essere considerata come un organismo indipendente ma è indissolubilmente legata al popolo che l’ha creata. La grande città non rappresenta solo un mutamento di


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dimensione della città essa si distingue per la dimensione ma anche per la sua natura ». I due testi di riferimento (Hilberseimer, 1925-1927) che descrivono compiutamente le posizioni di Hilberseimer sono Grosstadtbauten (Architetture per la grande città) e Großstadt Architektur (Architettura della grande città): entrambi - come ha chiarito Gianugo Polesello - sono «due punti di vista architettonici sulla città moderna». Il primo scritto ha un carattere più architettonico e compositivo, il secondo tende al manuale ed è però significativo che ‘nestorianamente’ il primo e l’ultimo capitolo dei due saggi – “Architettura”/ “Grande città” - siano pressoché identici. In Grosstadtbauten gli esempi sono progetti dello stesso Hileberseimer, in Großtadt Architektur i riferimenti si allargano ad altri autori in una sorta di campionatura. In quest’ultimo scritto Hilberseimer, dopo una critica alla città per tre milioni di abitanti di Le Corbusier (poi Ville Radieuse) propone una idea di città fortemente determinata dal suo impianto (e dai problemi del traffico) in una circolarità tra piano/densità/tipo edilizio/forma della città (Grassi, 1967) che negli approfondimenti tipologici e morfologici rimanda all’assunto albertiano: «... e se è vero il detto dei filosofi, che la città è come una grande casa, e la casa a sua volta una piccola città, non si avrà torto sostenendo che le membra di una casa sono a sua volta piccole abitazioni (...)». L’idea di città di Hilberseimer è una risposta ‘strutturale’ al fenomeno dell’Urbanesimo che non rinuncia ad un suo centro, a proporre un ordine riconoscibile attraverso tipi edilizi, elementi primari, e riconoscibilità formale delle parti. Questa ‘città verticale’ - come ha lucidamente rilevato Aldo Rossi - in sostanza premette l’analisi e la comprensione della natura essenziale della ‘città della storia’, non rinuncia ai caratteri distintivi della città compatta (isolati/strade/luoghi centrali) ma li sottomette ad un principio generale omnipervasivo trovando nella ripetizione di alcuni elementi la sua ragione costituitiva in cui «la necessità di plasmare grandi masse eterogenee secondo una legge generale dominando la molteplicità» divine l’obiettivo prioritario. Ma non si deve pensare a questo modello di città solo come un’ipotesi astratta ed utopica, in quanto ritrova i suoi ‘antecedenti conoscitivi architettonici’ nei progetti di Mies (Alexander Platz, Friedrihstrasse), dello stesso Hilberseimer (per l’Unter der Linden e per l’Università di Berlino) e nel progetto per la Città resideziale (Trabatensiedlung) in cui - qui su un piano veramente astratto - si definiscono con grande chiarezza: l’ordine generale, l’impianto, l’unità ripetibile ma soprattutto le architetture in un rapporto di coerenza lineare tra il manufatto e la struttura urbana. Questa idea di città, con tutti i suoi limiti, non si è realizzata se non nel Cinema (Metropolis di Fritz Lang, 1927) o come sfondo in alcuni disegni (La città analoga di Arduino Cantafora, 1973). Essa mantiene il suo forte legame con la città antica in una sua ‘razionabilità’ molto evidente nel collage per il progetto di isolati nel Gendarmenmarkt a Berlino, o nel contro canto ‘radicale’ del Plan Voisin o dell’Ilot 6 di Le Corbusier a Parigi. Il passaggio tra la grande città e la metropoli Il passaggio tra la grande città (ancora definibile) e la metropoli (smisurata e inconoscibile) è analogo a quello filosofico tra la condizione ‘moderna’ e quella ‘post moderna’: persi i Grand récit (Lyotard, 1979) della tradizione, la metropoli programmaticamente rinuncia ad un ordine (cósmos) e persegue il disordine (cáos) come unico dispositivo riproducibile. La città europea - nella teoresi di Cacciari (Cacciari, 2004) - da pólis diviene urbs o meglio civitas augescens (sine ullo limite): la pólis si basava sul ghénos, sulla comunità ed aveva in sé l’idea di péras, di ‘limite/confine’, di nomos inteso come ‘norma’, la urbs come ciò che è definito dalle sue leggi amministrative contiene invece la possibilità di una crescita infinita (a-péiron), essa de-lira, esce cioè dal solco, dalla lira - dal recinto che delimitava la città - che in corrispondenza delle porte segnala la ‘soglia’ sacrale. Maurizio Ferraris a conforto di tale interpretazione afferma che «l’estetica postmoderna è [appunto] un’estetica della metropoli» (Ferraris, 1983). In qualche modo le ‘moderne’ costruzioni filosofiche (Heidegger - Benjamin Weber) ma anche quelle letterarie (Bodelaire - Proust - Balzac) restano legate all’idea di pólis in cui era chiaro il rapporto tra ‘interno artificiale’ ed ‘esterno natura’ circostante. La città-pólis (cultura) - per Ferraris - è oppositiva alla natura (chora) che la circonda e la delimita, essa è un luogo circoscritto, definito e riconoscibile “artificio isolato” in un territorio naturale, di contro «nella tarda modernità la metropoli non è semplicemente un’estensione della città più grande e tecnologizzata. La metropoli non si oppone ad un esterno naturale – luogo dell’Essere contrapposto alla Cultura - abolisce radicalmente ogni riferimento alla Natura [si pensi all’Illuminismo] ogni riferimento all’origine [al ‘fondato/fondamento’ al Grund], dichiara il trionfo della Cultura, degli enti, delle tecnologie [intese] come ‘volontà di potenza’ […] si riferisce [- nell’oblio dell’Essere -] semplicemente a se stessa è causa sui e index sui, è spazio omnicomprensivo e sconfinato privo di intervalli» (Ferraris, 1983). La metropoli/megalopoli – pur derivando da mèter-pólis - non ha più il senso di città ‘generata’ da una città madre, da una altrice, è slegata dai caratteri specifici dei territori che invade e come in Heidegger è un ‘costruire’ senza un ‘abitare’ e quindi senza un ‘pensare’. La metropoli, abilmente descritta da Derrida (Ferraris, 2010) e da Deleuze, comunica e si connette – ma mai si relaziona – con altre metropoli che prima o poi toccherà nella sua ‘crescita agglutinante’. Come aggiunge ancora Ferraris: «è difficile cogliere la complessità della cultura [se non è diventata già la Halbbildung (Adorno, 1959)] quando è scomparsa la natura come referente altro » (Ferraris, 1983) la città così si riduce all’evento, alla performance.


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La ‘metropoli diffusa’ Nella metropoli diffusa (leggi dispersa) si ‘scioglie’ il necessario rapporto tra residenza / lavoro / luoghi civili (alla base di una qualità urbana accettabile) e si ‘installa’ quello tra ‘residenza’ individuale (i villini) o collettiva (condomini) e ‘consumo’ (ipermercati / shopping mall). Oggi la metropoli globalizzata smarrisce i suoi luoghi identitari e si costruisce come un insieme di ‘recinti impermeabili’, tende sempre più all’omologazione livellante dei sui modi di costruzione diluendo e smarrendo i centri di rappresentazione pubblici e collettivi in una ‘nebulotica’ dispersione di spazî privati (Monestiroli, 1994) che si auto-riproducono a tutte le latitudini sempre uguali a se stessi: in ogni suo punto è periferia, dislocazione rispetto a centri inesistenti o virtuali, diviene pervasivamente un ‘non-luogo’ (Augè, 1992). La non-città dei nostri anni si reifica in un deposito confuso di individualismi, congestione, consumo indiscriminato del suolo, invidia del centro (Stellario d’Angiolini, 2004) e ricerca dell’in-forme (Valéry, 1938). La ‘città diffusa’ è un’espressione che tende all’ineffettuale descrizione, alla‘constatazione’ di uno status quo (Gregotti, 2008) che «in nulla aiuta ad individuare strumenti, modi, metodi di controllo né tantomeno di sviluppo» (Stellario d’Angiolini, 2004). È l’ipostasi della ‘ripetizione pura’ che rinuncia alla “differenza critica” tra essere ed ente e diviene una mera ‘rappresentazione’, un’estetica del simulacro e delle de-territorializzazione, che non ha più origine né tanto meno fine: tutto ‘diviene’ incessantemente. La dispersione, la deflagrazione delle megalopoli contemporanee – si pensi a quelle dell’estremo oriente – determinano condizioni urbane e di vita basate sull’esperienza ‘distratta’ del movimento, del grande e dello smisurato: una post-città ‘nomade’ ed ‘errante’ dove «nulla merita di essere ‘rammemorato’» ma solo ‘consumato’ in fretta sino allo Junkspace di cui parla festosamente Koolhaas. È lo spazio infinito dello sprawl, della disseminazione, dove non vi è niente in cui potersi riconoscere e rappresentare. Non è certo quella ‘città diffusa urbano-rurale” di cui parla Agostino Renna nel suo testo L’illusione e i cristalli, che aveva ancora un rapporto essenziale e primario con la ‘terra’, con il disegno del suolo, con i suoi segni, con le sue regole, con il suo uso sapiente e ordinato sfruttamento, ma è solo continuum indifferenziato dell’esperienza sensibile dell’inedito, dello stravagante, dell’aggressione sensoriale obnubilante senza materialità dove tutto tracima nella virtualità (Maldonado, 1992). Questo grande e ‘cangiante simulacro’ è puro ‘evento’, installazione provvisoria, dove il nichilismo disumanizzante si afferma nel prevalere dell’individuo (mònade) sulla comunità. Per superare e risolvere tale condizione de-realizzata non bastano le risposte ‘deboli’ di un Baudrillard (1980) o di un Vattimo (Vattimo – Rovatti, 1987) riecheggianti la “gaia erranza” di cui parlava Tafuri (1987): un vagare tra grandi outlet nel più assoluto disorientamento fisico e psicologico. Un’alternativa possibile Cosa opporre a questa “perdita di forma” (Calvino, 1975), di fondamento, a tale delirio / metastasi, che sta erodendo e consumando il territorio confondendone i caratteri, le identità specifiche, rinunciando ad ogni possibile riformulazione e razionalizzazione? Anche nell’inabilità contemporanea a definire una forma urbis compiuta e definitiva si possono però individuare alcuni ‘frammenti’ che alludano ad un ‘ordine possibile’. Come affermava Le Corbusier compito dell’architettura diviene sempre più quello di “ordinare l’esistente” anche se questo meccanismo pervasivo di costruzione forse è proprio da ascrivere alla acritica riproduzione del dispositivo domino che assunto come “mera res” (mero fatto tecnico) ha reso possibile - sotto l’egida della speculazione immobiliare da Real Estate ma anche dell’autocostruzione - l’attuale moltiplicazione dell’identico. Il grande sforzo rifondativo del Movimento Moderno - come sottolinea Monestiroli nel saggio “L’arte di costruire la città” (Monestiroli, 1994) - rimane un ‘progetto incompiuto’ (Habermas, 1980) e proprio all’interno dei suoi sviluppi è necessario ritrovare un ‘origine’, un nuovo auspicabile ‘inizio’ (arché) da cui poter ripartire (Cacciari, 1990). Penso all’esperienza americana di Hilberseimer e di Mies nel Lafayette Park a Detroit, ai Qvartal (settori urbani) di May in URSS, al Piano di Chandigarh di Le Corbusier, ad alcuni progetti di unità di insediamento di Adalberto Libera: sono modelli teorici ed esempi realizzati non certo una ‘panacea’, ma dai quali occorre muovere per rinvenire nella città dei nostri anni quei luoghi aperti in cui una ‘collettività consapevole’ possa ancora identificarsi. Il settore urbano si pone come unità conforme di costruzione della città basata sulla mescolanza di tipi residenziali differenti: unità finita che ritrova al suo interno le gerarchie tra costruito e spazi liberi, quali ‘ferri d’attesa’ per una sua iterabilità. Questa unità elementare si combina con altre tramite precise procedure compositive: ripetizione/variazione, ribaltamenti/simmetrie. Ma la ripetizione non è indifferenziata o isotropa è regolata dagli intervalli prodotti dai vuoti-natura per le attrezzature collettive, in un rapporto figura/sfondo dove prevale il vuoto sul pieno. Il settore inoltre è dotato di una ‘duttilità morfologica’ che gli consente di razionalizzare e riconfigurare i contesti ‘dis-uniti’ (Monestiroli, 2002) delle nostre periferie partendo da una loro analisi/scomposizione formale (Rossi, 1960-1961) e non da mera descrizione/lettura di tipo letterario (Ricoeur, 1994), selezionando e distinguendo i fatti decisivi e ‘definiti’ da quelli ‘confondenti’ per radicare opportunamente nelle “resistenze del reale” (Grassi, 1967) questo principio insediativo. L’unità elementare diviene così ‘dispositivo’, ‘telaio’, ‘impalcatura generale’ che si adatta e riassume l’esistente introducendo nuove misure,


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scansioni e differenze interne. Questo approccio rende possibile una compiutezza formale ‘per parti’ che rivela gli ‘indizi’ della presenza di una regola e indica una ‘linea tendenziale’: una chiara direzione da percorrere. L’opportuna collazione - lungo grandi sistemi infrastrutturali – e l’individuazione di nuove centralità possono rappresentare le ‘pause’ riconoscibili nella ripetizione controllata della residenza. Una ‘città policentrica’ (Monestiroli, 1995) quindi – come la città greca ma senza suggestioni ‘aurorali’ – una nuova sed antiqua forma insediativa che ristabilisce un corretto rapporto con le infrastrutture (oggi solo ‘flusso continuo’ che sfigurano nel loro sovrapporsi indifferente i territori che attraversano) e che prova a introdurre una possibile forma d’ordine: una struttura soggiacente che non sia ‘astratta’ ma ‘estratta’ (Pezza, 2005), verificata ogni volta nei contesti territoriali specifici in cui “la realtà modifica e invera l’astrazione”. Una costruzione ‘condivisa’ dove il contesto di riferimento ridiviene la natura (Monestiroli, 1995), in cui la costruzione ‘per parti compiute’ (Aymonino, 1975) sia rapportabile ad un tutto (Hòlos) o quanto meno aspiri a comporsi in un ‘mosaico intelligibile’ in cui i ‘condizionamenti’ ineludibili vanno sempre interpretati criticamente (Adorno, 1959 e1979). Una città che sia capace d’interpretare le singolarità geografiche e morfologiche e le nuove dimensioni multiscalari della cittàregione, che obbligano ad una ri-semantizzaione dello “strumentario disciplinare” (Spirito, 2003), aggiornando le tecniche compositive di controllo dello spazio urbano e dei manufatti. Una città ‘equilibrata’ in cui tra le diverse parti non via solo ‘connessione’ materiale e/o immateriale (link) ma bensì ‘relazione’ formale e sintattica (ratio), dove il ‘vuoto tra gli oggetti’ ritorni ad essere un ‘campo topologico’ di relazioni a distanza - un ‘aperto’ che si fa struttura ordinatrice che ogni volta va svelato e interpretato - dove ‘avvengono’ le architetture, dove cambiano le metriche di controllo, le dimensioni, i problemi e la complessità generale. Una città ‘auspicabile’, dove la ‘foresta’ confusa si fa ‘radura abitabile’, capace di rimandare ad una costruzione collettiva della “scena fissa per la vita degli uomini” (Rossi, 1966), dove poter ancora conoscere e spiegare il mondo. Per trovare di nuovo nella città del nostro tempo i dimentichi valori civili e quei «luoghi silenziosi e spaziosi, di ampia estensione per riflettere, luoghi con alte e lunghe gallerie per il cattivo tempo o il troppo sole, dove non penetri il rumore delle carrozze e degli imbonitori e dove il più fine senso dell’educazione proibirebbe anche al prete di pregare ad alta voce: costruzioni e giardini pubblici che nel loro complesso esprimano la sublimità del meditare e dell’appartarsi» (Nietzsche, 1882).


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GRANDE DIMENSIONE E FORMA DELL’ARCHITETTURA Rosario Di Petta

Nelle considerazioni che Rem Koolhaas svolge sul tema della bigness, è abbastanza agevole riscontrare un certo grado di cinismo e di malcelata disillusione verso gli esiti cui l’architettura perviene quando siamo in presenza di manufatti caratterizzati da una dimensione considerevole. L’architetto olandese vede nella nascita della Grande Dimensione la forma estrema dell'architettura contemporanea che si svincola dal segno univoco di un solo architetto, pervenendo ad una organizzazione di parti autonome che fanno riferimento ad un mondo di leggi complesse. L'architettura della Grande Dimensione diviene così il nuovo territorio dell'immaginazione, organizzato da scale mobili e reso possibile dall'aria condizionata e dalla luce artificiale, che annulla ogni corrispondenza tra lo spazio interno e l'involucro che lo delimita. Koolhaas ravvede quindi una vera e propria impossibilità di controllare una mole immensa con un solo gesto architettonico; e, partendo da una simile premessa, giunge ad una serie di considerazioni, dal sapore profetico e rivoluzionario, su cui vale la pena di soffermarsi in dettaglio. In primis, occorre riflettere sulla presunta mancanza di qualità architettonica, descritta dall’architetto olandese, dovuta sostanzialmente all’autonomia delle parti ed al conseguente svuotarsi del repertorio classico dell’architettura (scala metrica, proporzioni, dettaglio), con un impatto dell’edificio indipendente dalla sua qualità. E’ sufficiente ripercorrere alcuni interventi esemplari che propongono una progettazione a livello intermedio fra architettura e urbanistica, per accorgersi di come tali proposte contengano, invece, quei temi eterni della composizione architettonica che sono indipendenti dalle dimensioni dell’edificio e che, pertanto, non possono essere cancellati dalla sua mole. Le Corbusier, ad esempio, affronta la questione sin dal 1930 con il viadotto abitato del project obus di Algeri, proponendo non solo una innovativa autostrada sostenuta da una struttura in cemento armato, in cui sono previsti alloggi per 180.000 persone, ma anche un centro affari ed un quartiere residenziale le cui morfologie architettoniche, dall’andamento sinuoso, sono pensate anche in funzione urbanistica. Si tratta di oggetti alla grande scala che nulla lasciano al caso, e che rispondono ad una logica del tutto simile a quella del design, confermando così l’unità delle scale di progettazione. Quando poi il maestro svizzero si troverà a concepire l’Unità d’abitazione di Marsiglia, lo farà ponendo la massima attenzione non solo alle questioni tecniche e funzionali che questa “città-giardino verticale” poneva, ma anche a quella componente plastica che conforma ogni elemento della costruzione, dagli spessi pilotis che contengono la rete idrica agli elementi prefabbricati in cemento della facciata, per finire con il coronamento scultoreo che connota il tettogiardino ospitante un asilo nido ed una palestra. Tra i progettisti che operano nel campo macrostrutturale un posto di rilievo spetta di sicuro a Richard Buckminster Fuller, il progettista che nel dopoguerra elabora le cupole geodetiche aprendo un territorio di ricerche destinato ad influenzare molti protagonisti della ricerca architettonica contemporanea. Egli parte dallo studio della rappresentazione cartografica della terra e dalla struttura dei metalli costituita da tetraedri per comprendere che la cupola è una conformazione che racchiude il massimo spazio con il minimo di superficie d’involucro. Inizia così a realizzare prototipi in plastica, in metallo ed in cartone che presentano sempre un notevole grado di resistenza; ed arriva a concepire il progetto di ricoprire l’intera Manhattan, assicurandole una condizione climatica costante. L’intervento di Louis Kahn per la Yale Art Gallery costituisce evidentemente una interpretazione in chiave massiva della leggerezza delle strutture spaziali cariche di misticismo di Buckminster Fuller, ma anche una trasposizione della tarda estetica miesiana. In tal modo egli riesce a fondere alcuni aspetti della storia con un’immagine di tecnologia avanzata, realizzando una immagine di sintesi profondamente contemporanea. La storia viene così fatta interagire con un profondo ordine geometrico che riflette senza dubbio l’apporto critico di Anne Tyng, restituendo l’effetto di una tecnologia avanzata. In particolare, la struttura spaziale utilizzata nel primo progetto della Philadelphia City Tower evidenzia l’interesse profondo, mutuato da Buckminster Fuller, da parte della giovane progettista per le strutture reticolari composte da tetraedri e ottaedri. Questa geometria ‘dell’archetipo’ è proprio ciò che origina una monumentalità senza tempo ed introduce un’aura di potenza simbolica nelle architetture, in grado di travalicare le contingenze, le diversioni programmatiche ed i nodi funzionali all’interno del meccanismo compositivo che egli adotterà da questo momento in poi. Ed è proprio la tensione ideale, insita nella geometria e nella poetica della grande dimensione, ciò che a Louis Kahn ed Anne Tyng interessa della lezione di Fuller, e non certo l’entusiasmo nei confronti delle nuove tecnologie. In particolare, Tyng intuisce il valore della geometria “energetica-sinergetica” che regola la crescita delle cupole di Fuller, possiede il fondamentale libro di D’Arcy Thompson (On growth and form) e partecipa ai dibattiti dedicati alla tematica delle proporzioni in architettura. La tematica della grande dimensione si esplica, in particolar modo, nella torre per il nuovo centro di Philadelphia, pensata come una struttura dotata di una forte valenza simbolica.


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In questo progetto del 1956 Kahn concepisce il centro della città come un locus servito e circondato da torri circolari adibite ad uffici e a parcheggio delle auto, partendo dall’analogia delle strade coi fiumi. Tali strutture hanno chiari riferimenti all’urbanistica del passato e devono sicuramente qualcosa, nella loro immagine complessiva, alle forme potenti della Roma piranesiana. Jan Lubicz-Nycz è sicuramente tra quei protagonisti della poetica della grande dimensione, impegnati a dimostrare come le macrostrutture polifunzionali possano incidere qualitativamente con la particolarità della loro forma architettonica sulla scena urbana. Nei suoi progetti per il Golden Gateway e per il Diamond Heights di San Francisco, ma soprattutto in quello di concorso per la sistemazione dell’area fra Tel Aviv e Giaffa, è espressa l’idea di grandi contenitori a forma di cucchiaio, destinati ad accogliere residenze ed attività commerciali, veri e propri punti fissi di riferimento, tendenti a sostituire la dispersione edilizia con una concentrazione polifunzionale, che sia eloquente da un punto di vista della qualità morfologica. Il richiamo al neoplasticismo, unito con una ispirazione ai villaggi medio-orientali, è la chiave di lettura adatta a comprendere la carica utopica dell’habitat realizzato da Moshe Safdie a Montreal. Qui siamo in una logica opposta a quella corbusiana, in quanto il progetto vuole difendere l’identità delle singole casette che vengono prima costruite a terra e poi sollevate e poste nel punto assegnato, realizzando una articolazione di unità monocellulari con i ballatoi inseriti tra le volumetrie sfalsate. Il tutto viene a realizzare un insieme articolato che, nel suo rapportarsi alla dimensione dell’arte, non tralascia affatto la logica formale, ma piuttosto la esalta attraverso la tendenza ad una vera e propria concettualizzazione dell’atto progettuale. “Il fuori scala e, in particolare, ciò che non può essere contenuto in una forma avente una dimensione tale da permettere una fruizione totale e immediata, è, paradossalmente, la concretizzazione, in un’unica opera e nello stesso tempo, dell’illimitato e del finito”. Il tema della grande dimensione è sicuramente presente nell’architettura italiana sin dagli anni Sessanta e ancor maggiormente nei Settanta, con esiti di estremo interesse, che ancora oggi dimostrano l’efficacia e l’importanza del contributo italiano fornito al dibattito architettonico internazionale in quegli anni. La soluzione fornita da Quaroni al concorso per le Barene di S. Giuliano a Mestre rappresenta proprio il momento embrionale di tale interesse nei confronti del disegno d’insieme teso all’invenzione di un nuovo paesaggio urbano. Un disegno che attribuisce alla plasticità dei grandi semicerchi il ruolo di creare la forma unitaria della città satellite. Si inizia ad assistere così ad una idea di zonizzazione formale che caratterizza molte delle ipotesi progettuali sviluppate nei concorsi di idee dell’epoca. Come acutamente rileva Alessandra Capuano: “L’immagine era allora portatrice, oltre che di una poetica, di un’istanza ideologica e, nel proporsi come segno misuratore dell’ambiente, capace di modificarlo e di rivelarne l’essenza, invocava un ritorno assertivo e autoreferente all’Architettura come fondamento teorico-didattico e canone geometrico-compositivo”. Le ricerche di un’architettura a grande scala di Mario Fiorentino (il grande edificio lineare di Corviale che rappresenta la volontà di dare ordine all’insieme confuso della periferia romana), di Vittorio Gregotti e Franco Purini per l’Università di Cosenza, di Gabetti e Isola (residenze a Ivrea e centro direzionale Fiat a Torino) mostrano la volontà di ricercare nel segno territoriale l’alternativa alla logica della zonizzazione, pervenendo ad una dilatazione della misura degli interventi progettuali tale da determinare un fuori scala non più afferrabile simultaneamente, e che richiede quindi un coinvolgimento maggiore da parte dello spettatore, divenuto nel frattempo interprete attivo oltre che fruitore dell’opera. E’ evidente come tali opere conservino però un grande interesse ed un impegno quasi programmatico nei confronti delle valenze legate alla qualità formale, mostrando anche interessanti analogie e compenetrazioni con le logiche proprie del mondo dell’arte, ed in particolare con gli interventi territoriali praticati dalla land art. Una interessante ipotesi di zonizzazione formale è ad esempio quella sviluppata nel progetto dell’Asse Attrezzato, il centro direzionale mai realizzato di Roma. Qui si assiste all’articolazione di una struttura policentrica, tenuta insieme da una rilevante infrastruttura viaria che persegue il tentativo di un controllo compositivo del paesaggio attraverso lo studio delle direttrici territoriali, la configurazione tipologico-formale degli insediamenti, l’uso del grande segno e del fuori scala. Sono infrastrutture concepite quindi come macro-architetture che contraddicono pienamente le tesi koolhaasiane in merito alla supposta mancanza di qualità o perdita di dettaglio della bigness. “Ah, la Bigness, che magnifico nuovo slogan, caro Rem Koolhaas, come se bastasse trasformare in sigla ogni cosa perché diventi improvvisamente attuale”. E’ palese come la stagione italiana della grande dimensione trovi il suo limite nell’uso talvolta ideologico che è stato fatto della ricerca progettuale, ma è altresì chiaro il suo merito nell’aver posto l’accento sul sistema delle reti dei trasporti metropolitani, dei percorsi, degli attraversamenti, da intendersi non più unicamente come luoghi di interscambio, ma come nuovi luoghi urbani, dotati di una propria identità ed autonomia. E’, infatti, abbastanza agevole notare come tali strutture non siano caratterizzate unicamente dalla conformazione planimetrica, ma al contrario appaiano esaltare proprio i valori della superficie, della luce, della materia, del dettaglio costruttivo, di quell’espressione plastica che sempre appartiene alla vera architettura, al di là delle dimensioni che la connotano.


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SPLENDORE E PAURA DELLO SMISURATO METROPOLITANO Antonino Terranova

Nel 2011 ci attende il decennale anniversario dell’attentato tragico alle (ex) Torri Gemelle, 11-9-2001 (“ancora scolpito nella mente e negli occhi increduli di tutto il mondo”), che già comincia ad essere annunciato da alcune immagini. Soprattutto riappare – oltre alla televisiva e smisuratamente serializzata esplosione, alle infinite copertine editoriali ed oggi, al MACRO Future di Roma, alla collezione di un artista delle prime pagine dei giornali internazionali sul day after – quella delle due colonne prismatiche di luce laser che puntano ben oltre l’altezza dei due edifici, concettualmente o emblematicamente verso l’infinito celeste, che malgrado ogni secolarizzazione mantiene ritornanti valenze magico-simboliche: laconicamente ed immaterialmente fortissimo urlo di silenzio, uno smisurato spirituale per assenza. Continua per contro la celebrazione dei fattori della più recente e ineditamente traumatica rivoluzione postindustriale, la miniaturizzazione smisurata del calcolo digitale da un lato, dall’altro lato la smisurata globalizzazione economica, soprattutto quella misteriosamente finanziaria, non più solo internazionale ma cosmopolita e insomma planetaria. Dimensione smisurata, di fatto e di aspettativa, possiedono anche le applicazioni conoscitive, informazionali e comunicazionali, delle reti elettronico-satellitari, dalle enciclopedie ai mondiali motori di ricerca ai socialnetwork ed agli auspicati forse cervelli collettivi. Continua poi la produzione artistica. Mi hanno affascinato alcune opere di arte visiva, come gli ominidi miniaturizzati o gigantizzati di Mueck, comunque straniati e desolatamente destinati ad una solitudine cosmica. I giganteschi topi neri situati in cerchio a Venezia. I bambini e le bambine affette da escrescenze falliche dei Chapman brothers, gli animali sezionati in formaldeide di Hirst, e tutto un insieme di figure dell’umano sproporzionate, adulterate, mostruose. Ci parlano, forse, dello stato attuale della condizione dell’uomo metropolitano? Continua lo smisurato sprawl metropolitano. Forme degradate e paradossali di garden city diffuse come villettopoli sfrante in spreco insieme di suolo di economia e di socialità, in una antropologia anomica per vite da supermarket e multisala e parchi naturali di weekend senza passeggiata senza museo, senza la società del caffè o del corso. E però per venirne a capo occorre prendere il toro per le corna. Prendere in esame i fattori e gli elementi delle nuove configurazioni dell’urbano-post-urbano, dei paesaggi metropolitani. Mettere a punto giuste miscele, forse non sempre uguali, di effetto urbano anche eccessivo per alte densità, e di effetto extraurbano, agricolo naturale naturalistico … spesso però illusoriamente arcadico. Forse non proprio per caso nella primavera del 2001, ovvero appena prima del Ground Zero, segnalai i Mostri Metropolitani, cioè le manifestazioni eclatanti di una architettura dell’irrazionalità, o di un ordine superiore di razionalità nell’età dell’”anomalia paradigmatica”, che si era andata disseminando nel pianeta, rafforzando alcuni luoghi ed eventi di eccezione o di eccellenza, proponendo piuttosto che un nuovo codice o canone di regole comunicabili e trasmissibili ed imponibili (alla maniera palladiana o napoleonica o haussmaniana o international style) una efflorescenza di quelli che saranno poi definiti “oggetti singolari” valutabili non tanto e sempre per qualità alte di linguaggio architettonico socialmente condiviso (anzi, presto fu coniato il termine negativo di “archistar” per corsari creativi svincolati da etica ma anche estetica condivisa, e quello altrettanto critico o almeno delimitante di “archisculpture”), quanto piuttosto proprio per una loro inappartenenza sia sintattica sia contestuale. Non sempre ma spesso contavano i fattori dimensionali, come il cubo sotto-vuoto atmosferico della Grande Arche di Parigi, circa cento metri di lato, tuttavia caratterizzata anche da un linguaggio di alta tecnologia però dissimulata con effetti illusionistici e di alta rarefazione, anzi quasi sparizione, dell’articolazione plastica secondaria. La replicazione della idea di una “porta della città” per Parigi sull’asse della sua grandeur classicista già segnato dal Carrousel e dall’Arco di trionfo della crescita napoleonico-haussmaniana, confrontata peraltro con la spazialità virtuale immateriale contenuta tra i quattro “libri” aperti angolari della Grande Biblioteca, riconduce quei dimensionamenti pressoché smisurati, o difficilmente commisurabili alla città tessutale dei dintorni, e piuttosto confrontabili con le grandi opere architettoniche del passato, dalla Notrê Dame, abitata dall’anima religiosa ma anche da quella mostruosa, alla Tour Eiffel di cui Barthes fa risuonare gli smisurati valori evocativi,


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particolarmente negli ambiti artistici, ridicolizzando le coeve critiche degli intellettuali ed artisti anche più avanzati. Il conservatorismo esercitato nei confronti del già prezioso Panorama (un concetto del paesaggismo che era a sua volta una invenzione della modernità) della città si sposava facilmente con una sorta di disprezzo per la grande dimensione, la gigantizzazione senza qualità etica ed estetica consentita dall’esercizio duro e puro della Tecnica, allora ancora emblema del trionfo moderno del Ballo Excelsior ma già antagonista, inteso come asettico avaloriale, da parte dello spirito di finezza del poetico, del letterario alto, della innovazione dei linguaggi affidata piuttosto a preziosi dettagli capaci di contenere Dio. Paradossalmente la Tour diventava massima caratterizzante del Panorama della Parigi contemporanea, e tuttavia la circostanza partecipava ad introdurre una ulteriore sospettabilità ideologico-culturale, ovvero la sua bizzarra prevalenza in termini di Icona, di figura emblematica e strana, fuori codice e fuori canone, piuttosto che di Forma qualitativamente accreditabile. Sappiamo infatti che la figura della Tour risulta dal compromesso non risolto tra caratteri tettonici rilevanti, riappaesamenti decorativi nei linguaggi accademici degli archi e delle plastiche secondarie, e che la sua “sagoma” incisiva sulla skyline rimane comunque nell’area delle forme uniche, bizzarre, irripetibili e inimitabili. E’ un peccato che l’idea di Smisurato e di evocazione dell’Infinito sia stata finora impedita alla inventività sintetica di Jean Nouvel, prima con l’inedificata Torre senza fine ed ora con la sovrapposizione di cubi spaziali della Tour Signal bloccata dalla crisi economica degli Anni zero. Solo in parte e fino ad un certo punto le modificazioni epocali segnalate in apertura sono raffigurabili dallo spostamento, ed insieme l’innalzamento ad altezze finora impensabili e solo immaginabili (il grattacielo alto un miglio di Wright) delle torri più alte del mondo, dalle Gemelle di Kuala Lumpur a Taipei 101 ed infine la per ora definitiva Burj Khalifa. Un genere di edificazione, e di pubblicistica specializzata, che ha in sé una sorta di difettosità concettuale. L’uso dello Smisurato soltanto dimensionale e quantitativo – tecnico – confermato ma anche spesso rinnegato dalla distrazione ludica della icona smagliante sorprendente scultorea indisciplinata, appare grossier e riduttivo rispetto alle categorie qualitative dell’architettura, ed è stato detto che ci vorrebbe un nuovo Vitruvio per risistemare la triade di firmitas, utilitas, venustas nei nuovi contesti, peraltro aperti a dilatazioni e frammentismi, a indeterminatezze ed informità con ingegnerizzazioni high-tech, capaci di problematizzarla profondamente. Sembra che generalmente la grandezza dimensionale sia antagonista della bellezza qualitativa esercitabile sul piccolo e sul dettaglio, la scatola di cristallo di Mies van der Rohe con il miniaturizzato capitello come gioiello di cancellazione e concentrazione ed impreziosimento metallico, ulteriormente smaterializzata dalla “atmosferologia” di trasparenze di vetrate misteriosamente tettoniche della Sejima dei Sanaa. Sembra che la movimentata e smaccata e sovente architettonicamente sradicata Iconicità certo formalistica degli Oggetti singolari contrasti, di nuovo, con le caratteristiche autoriflessive e linguisticamente volentieri metaarchitettoniche della sottile cura della qualità spazializzata e spazializzante di grandi piccole Opere realizzate piuttosto da architetti artigiani non troppo divistici e non troppo produttivistici, che si affidano volentieri a laconicità degli involucri, ad una paradossale anonimità ed aniconicità. Un minimalismo iconoclasta erede cool del minimal davvero conceptual. Non ebbe successo una proposta editoriale di noi autori di due libri-strenna su Grattacieli e poi su Nuovi Giganti, quando intendemmo evidenziare ironicamente il contrasto con questo titolo: Nani eleganti e Giganti trompe l’oeil. Eppure non mi lascia l’impressione che alcuni Giganti di figura strana riescano a detenere valori di qualità architettonica disciplinare, con il valore in più di una forte incidenza sulle nuove, nel bene e nel male ma spesso più nel bene, configurazioni di alcuni Panorama di grandi città a proiezione planetaria. Mi rimane in mente la veduta dall’alto della nuova Barcellona dove la torre Agbar, il famigerato inequivoco ambiguo perturbante consolador, si confronta con la Sagrada Familia. Smisurato Barcellona Gaudì. C’è questa immagine dal cielo di Barcellona per il turismo, vi si stagliano differenti ma analoghi la Sagrada Familia di Gaudì e la Torre Agbar di Nouvel. Entrambi i monumenti pongono la grande città moderna di fronte ad una dimensione oltrante, saliente, simbolicamente forte, smisurata se non incommensurabile, tendente all’infinito celeste. In modi diversi. La Sagrada funziona per faticoso e perciò umanamente glorioso accumulo saliente di materia sempre più extra-geometrica e insieme smaterializzata e materializzata in analogia con le stalagmiti e simili formazioni naturali, organiche. Una Spiritualità guadagnata con sacrificio e fatica salendo più in alto possibile e quindi liberandosi dal peso della materia, tuttavia fondante. La Sagrada si propone come centro spirituale saliente della grande città. La Torre Agbar sposta e forse intende moltiplicare quella centralità, sbilancia la skyline, senza fatica apparente (apparente), si eleva ad altezza inusitata e, con le sfuggevolezze geometriche e materiche e coloristiche della sua figura geometricamente indefinibile, un cilindro che sfuma in una cupola a curvatura variabile, sembra porsi giocosamente e con leggerezza. Si piazza


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nell’impianto urbano in un sito ibrido, di intreccio tra le ultime tessutalità stradali e le geometrie eretiche della viabilità veloce. Contiene, e mette in scena urbana, attività non sacre ma profane. Più duro da digerire, dunque, che non una problematizzata ma non negata prevalenza della religiosità tra le emergenze dell’urbano. Nel 2010 il parlamento europeo ha approvato la riforma dell’architettura finanziaria europea – leggo Il Sole 24 ore – unificando in un sistema complesso sistemico, micro e macro, tre autorità per la vigilanza. Tower 42 è la sede della European Bank Authority: sorge come il monolite di 2001 odissea nello spazio, al di sopra delle tradizionali architetture urbane con finestre e colonne, archi e cornici, mansarde e portali bugnati, architetture che hanno nel tradizionale marciapiedi il rapporto basico con la città, ed è non commensurabile programmaticamente, grazie al dispositivo modulare dell’involucro, che privilegia i montanti verticali ininterrotti rispetto alla misura ripetibile dei piani, che intravvedi arretrati e vetrati. Siamo ancora nella fase International Style dell’architettura moderno-contemporanea, quando il Dio si direbbe è appunto nella serialità super-umana e super-urbana. Finance makes form? Fiction makes form? Il contrario, insomma del razional-funzionalista Function makes form? Analogie con figure totemiche della letteratura, dei comics, o della filmografia fantascientifica o fantasy. Mi rimane in mente il famigerato gherkin di Londra, la RE Swiss tower che ho rovesciato come un guanto, parte notevole di quella Città storica che però è anche Città vivente. Però non vorrei rappresentare lo Smisurato solamente con grandi skyscraper, e confrontare il Monumentale, e la sua problematicità nella Modernità modernizzante, soltanto con la non misura delle dimensioni. Monumentale Metropolitano è l’idea perversa che non mi abbandona, mi fa cercare esempi esemplari difficili da trovare, o da digerire, e mi rievoca le denunce di problematicità del Monumentale Moderno, modernistico o modernizzato, a partire dall’insospettabile Giedion. Lo Smisurato sembra non conforme alla corrente idea umanistica e razionale, illuministica, che noi vogliamo credere di possedere davvero, anche se poi non sempre corrispondono le parole nostre e le nostre azioni politicamente meno democratiche delle parole. Lo Smisurato mi conduce al confronto con l’Altro, l’Alien, non l’altro democrat mitizzato come il prossimo tuo … la dimensione del Mistero che non si lascia spiegare. Lo Smisurato non è popolare oggi, quando un senso dimezzato se non sbagliato di eguaglianza democratica facilita piuttosto lo scellerato patto al ribasso, ad una desolata orizzontalità senza punte nemmeno di potenziale urbano. Smisuratamente sbriciolato lo sprawl metropolitano. Informemente smisurato smisuratamente informe. Lo Smisurato e l’Incommensurabile, il Colossale, il Mastodontico. Il Monumentale, come fattore mnestico cioè memoriale ed ammonitorio, nonché come fattore urbano cioè emergenza ordinatrice gerarchica o meno sulle grandi dimensioni della città e del territorio, fisico ma anche socioeconomico e politico. Il Monumentale non si misura soltanto sulla misura metrica, così il Guggenheim di Bilbao con la forma inedita fa rete planetaria da New York a Venezia ed oltre, e tuttavia colpisce la riluttanza dell’architettura contemporanea a sfruttare le occasioni della grande dimensione, ed anzi addirittura a scoraggiarla e disprezzarla (lasciandole, nei fatti, sovente, ai produttori edilizio-immobiliari di quantità senza qualità). Smisurato Policleto, il Canone celebratissimo di Policleto è la statua di un umano bellissimo, secondo criteri che fanno pensare all’ideale platonico dell’Uomo. Dopo Orfeo che muove con la musica le pietre, dopo Dioniso, il Classico come Emergenza, scrive Settis, drammatica nella sua bellezza di armonico Apollineo. Condizione non stabile e tranquilla, condizione faticosamente guadagnata nelle misure politiche della Polis. L’Uomo nel cerchio, o nel quadrato, di Leonardo da Vinci. Il Modulor di Le Corbusier. Il ritorno del Classico, però, anche, nel Novecento. La misura umana, l’esigenza dogmatica di proporzionare l’architettura ad una idealmente inventata misura d’uomo, è propria dell’architettura occidentale, moderna e contemporanea, della sua pretesa di razionalità contro la sproporzione simbolica che l’architettura monumentale spesso offre in quanto fattore simbolico con riguardo cioè al significato incarnato dall’edificio, vedi una vicenda che va dalla prima cattedrale gotica fino alla Sagrada Familia dalla titanica sezione anche tettonica, ma anche con riguardo alle relazioni del grande edificio pubblico non solo con il singolo individuo abitante quanto con lo strano organismo della massa, della moltitudine cui viene spesso attribuita una psicologia analoga eppure perturbante. O viceversa: talora l’emergenza monumentale, carica di senso simbolico facilmente sacrale, e magari rafforzata dalla singolarità di una figura eccentrica e da manifeste anzi enfatiche miniaturizzazioni, consiste della vividezza comparativa della chiesetta in stile gotico tra i giganteschi building di Wall Street, o della Colonna di Londra ricordata da Rykwert. Poi c’è il Tempietto di San Pietro in Montorio del Bramante, quasi un modello per la prova d’artista nella direzione di San Pietro in Vaticano (una vicenda nella quale entrano tanti altri, e nel corso della quale la misura d’uomo viene via via travolta dalla misura del Dio).


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Ho incontrato lo Smisurato anzitutto con i Grattacieli, così desueti da noi in Italia e così crescentemente eccessivi negli ultimi decenni, ma dopotutto simbolicamente fin dall’inizio. Basta pensare ai doccioni in forma di testa di aquila del Chrysler ... Ho incontrato di nuovo lo smisurato con una tesi di dottorato, che però non riuscii a seguire nelle sue svarianti declinazioni orientali, che mi sembrarono infine ridotte a Mazinga ed alla circostanza strana che i giapponesi non avessero la nozione linguistica dello Smisurato, ovvero del non essere conforme a Misura. Ho incontrato lo Smisurato di nuovo, recentemente, facendo i conti con l’opera di Marcello Piacentini. Che, una volta dichiarato il più grande architetto italiano del Novecento da uno storico di centrosinistra, mi è sembrato stranamente poco Smisurato. Gerarchico? Di fatto sono sempre stato incline a non accontentarmi della razionalità programmatica di molti autori dell’architettura moderna, trovavo una irrazionalità non paradossale nei cristalli di Mies, soprattutto esplicita nei grattacieli di Berlino e concretizzata con ovvia maggiore moderazione nel Seagram … Mi sono sempre piaciute le Grand Central Station, utilizzate da molta filmografia … insomma le spazialità monumentali entro le cui cavità sproporzionate il protagonista si muove con avventurosa identità dentro un mare di folle, dentro un Collettivo che in quel caso non rimanda ad un Soprannaturale che venga dall’alto ma ad una Superumanità del collettivo medesimo, la sensazione che provi quando nelle strade di Manhattan ti senti appartenente ad un flusso umano-superumano che non impedisce di ritrovare identità individuale, umanistica e freudiana, come Woody Allen ed Annie … in Manhattan. Il cubo di Koolhaas e l’Hyperbuilding di Zenghelis come risposta all’altezza. Il cubo frattale e l’anonimo postumano senza misura proporzionale se non con la misura infinita indefinita dei Paesaggi? Lo Smisurato mi incontra di nuovo infine mediante il cubo frattale di Sierpinsky citato da Steven Holl, che lo coniuga con i suoi concettuali Spiroidi. Il cubo frattale si fonda su misure smisuratamente metamorfiche, ma anzitutto smisuratamente indifferenti alla misura dell’uomo. Astratta geometria cubica smisuratamente estensibile sul territorio, alla stessa stregua del Monumento continuo radical oppure del Kilometrorosso di Nouvel a Bergamo. Un dopo rispetto alle operazioni di land art titanica di Christo che sezionano vallate contrassegnaano declivi impacchettano Monumenti. Lo Smisurato come Misura adeguata allo Smisurato metropolitano?


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IL ”COLOSSALE” IN ARCHITETTURA Luigina de Santis

In Junkspace (trad. it. Macerata, 2006), Rem Koolhaas affronta il tema della Bigness. L'incipit del saggio omonimo recita: “Quando supera una certa scala l'architettura accede alla dimensione della Bigness”. Questione di misura, Bigness è categoria omnicomprensiva che nelle molteplici forme del fuori-scala accomuna grattacieli, complessi industriali, centri commerciali, infrastrutture di collegamento, insediamenti dispersi. Nella versione italiana, significativamente, la parola non è tradotta: Bigness è un temine generico, potremmo dirlo povero, che nella relativa neutralità o leggerezza semantica elude ogni confronto con prefigurazioni di significato e contesti teorici. Non a caso Koolhaas afferma che non è mai stata elaborata una teoria in senso stretto e la sua stessa riflessione – che definisce «latente teoria» - non prelude ad alcuna critica o consapevolezza di azione, limitandosi piuttosto ad aderire allo status quo in nome di un malinteso realismo svilito a esaltazione dell'esistente e delle sue dinamiche evolutive. La grande dimensione è caratterizzata in 5 «teoremi» (Le Corbusier docet!): la relazione parti/tutto, che garantisce l'unitarietà dell'oggetto articolato in parti autonome; il superamento delle nozioni classiche di «composizione, scala metrica, proporzione, dettaglio»; la totale autonomia tra interno ed esterno, nella differenza tra nucleo e involucro; il prevalere della quantità sulla qualità; il totale affrancamento dal contesto fisico, oltre che da quello teorico tradizionale. Di nuovo definizioni generiche a supportarne la 'novità', anche se, confrontato con la realtà attuale, il pensiero di Koolhaas sul ruolo dell'architetto e sulle modalità di conformazione dell'architettura 'big', tutta letta in chiave di generico «spazio spazzatura», si rivela estremamente labile, prova ne sia il successo planetario delle archistars con i loro edifici 'griffati', tutti centrati sull'identità dell'immagine e sulla riconoscibilità del 'marchio'. Quello 'big' è anzitutto un edificio-icona: smisurato, ma fino a un certo punto, perché comunque non rinuncia al controllo formale della figura delegato alla formula comunicativa, che, con Mc Luhan, diviene il contenuto più proprio del messaggio. E' questione di scala – quantità – risolta figurativamente in forma – qualità - e spettacolarizzata in immagine seduttiva, anche grazie al complesso di dispositivi tecnologici di cui si dota. Declinata in 'verticale' nei grattacieli, che nella fantasmagoria di forme spettacolari compensano la non leggibilità del nucleo e delle funzioni, o in 'orizzontale' in aeroporti e centri commerciali, talmente articolati da farsi essi stessi città mimandone le regole compositive - non a caso spesso si chiamano village, essi sì vera incarnazione del villaggio globale preconizzato da Mc Luhan –, la Bigness dà vita a contenitori-icone che assegnano a un involucro ad elevato tasso di tecnologia l'identità di contenuti multipli e scarsamente rilevanti. Come nel package il prodotto si copre e si organizza in funzione del messaggio pubblicitario. Torri che sfidano la gravità, accartocciate o teoricamente infinite, strutture in sospensioni miracolose, facciate e sagome cangianti ... il catalogo delle forme è funzionale al regime della marcatura. Gli edifici della Bigness, prodotti e confezionati con le stesse risorse linguistiche delle tecnologie comunicazionali nelle quali sono veicolati, si risolvono in brands riconoscibili, ridotti a pura immagine di superficie. Land marks, privi della pienezza 'ammonitoria' del monumento tradizionale, non rappresentano altro che se stessi: presentano l'addomesticamento tecnologico dell'assolutamente grande, in un'epifania squilibrata verso l'esteriorità. Affrancati da costrizioni strutturali e impiantistiche, si conformano liberamente nel perimetro di una superficie avvolgente. La forma, declinata anoressicamente come pelle, risponde a una dinamica di esteriorizzazione, sia nella versione degli Shapers: la 'sagoma' dell'edificio-totem che esibisce l'allestimento materico della superficie in una sorta di messa in immagine del procedimento tecnico della costruzione – o, con Semper, della tessitura – dell'involucro; sia nella versione dei Movers: il 'diagramma' direttamente derivato dalla metodologia operativa, che si fa 'indice' del processo generativo - secondo il doppio paradigma formale delineato da Robert Somol (12 Reasons to get back into Shape, R. Koolhaas, OMA, Content, Colonia 2003). L'eccesso connota lo stesso processo di formalizzazione, laddove ex-cedere ha fin dall'etimo commercio con il fuori (ex-), con ciò che esce e mette in questione il limite. La questione della dismisura – la Bigness – si profila dunque su un orizzonte modale: non è tanto il quantum di contenuto aggiuntivo, ma il modo in cui il tutto si dà. La sommatoria e la moltiplicazione degli elementi non è semplice entità aritmetica astratta, ma dimensione «supererogatoria» e «supplementare» del tutto, qualità variabile della spinta bulimica al superamento. La forma è calata come un abito che deve stupire. A un fuori che suscita meraviglia fa riscontro un dentro perfettamente autonomo e mantenuto neutro per garantire una flessibilità di funzioni, in una sorta di vuoto controllato. La differenza esterno/interno conferisce all'architettura 'big' una connotazione anti frattale (Nikos A. Salingaros, No alla archistars. Il manifesto contro le avanguardie, Firenze, 2009). Concepita nel 'grande' della figura o nel 'piccolo' del dettaglio, la Bigness è priva di scale intermedie, a differenza dell'architettura tradizionale


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che, grazie alla ricchezza inesauribile di spazi interstiziali racchiusi nel bordi frastagliati e nelle interfaccia irregolari, vede un'analoga strutturazione alle differenti scale - «la casa come piccola città e la città come grande casa» di albertiana memoria. La configurazione esterna è tutto, perciò si astrae da quanto sta intorno e riproduce e risucchia dentro quanto sta fuori. Dentro e fuori, sono speculari, si configurano e costellano vicendevolmente, in un'accelerazione della dialettica reciproca, cui si accompagna il gioco – o piuttosto il giogo – delle dimensioni e delle forme, che si fanno sempre più grandi fantasmagoriche e molteplici nello sforzo di contenere l'incontenibile, sempre sul punto di implodere e infrangere i limiti. Nella corsa al sempre-più-grande e al sempre-più-spettacolare, si disvela l'impossibilità di un'esperienza vera e assoluta dello smisuratamente grande. Da un lato l'ancora-più-grande, dall'altro la crescente aleatorietà e compenetrazione degli involucri ... la Bigness è un dispositivo assolutizzante, votato sì a contenere, dirigere e informare i flussi della realtà spaziale, ma sempre costretto a superarsi, in una corsa iperbolica all'oltrepassamento. Del resto, l'iperbole è figura retorica dell'eccesso, che, positiva o negativa, ha vita breve e perde velocemente la sua forza, e figura geometrica del doppio, curva conica che mantiene costante l'eccentricità volgendo all'infinito. Nella dinamica iperbolica è perfettamente funzionale al capitalismo e alla tecnica, entrambi intrinsecamente votati all'eccesso che muove processi di produzione, di scambio, di circolazione e di consumo. Nel dominio incontrastato e incontrollato dell'apparato tecnico divenuto presupposto di se stesso, il mercato è il più straordinario volano dell'innovazione tecnologica, sempre offertaci sotto forma di merce. Nella logica dello 'smisurato', dunque, vengono a coincidere mercato e tecnica, entrambi divenuti fine, scopi in sé. Il denaro vuole se stesso e la crisi finanziaria degli ultimi anni ha rivelato tutto l'effetto devastante della spinta bulimica a una dismisura catastrofica. La tecnica vuole se stessa, come dimostra la continua e inarrestabile innovazione tecnologica, che agisce, invece, omeopaticamente, con sollecitazioni a bassa intensità che non ci fanno quasi avvertire il cambiamento. A dosi omeopatiche e quasi impercettibili, la tecnica inocula la dismisura nella realtà, rendendo la realtà stessa eccedente. Ogni novità della tecnologia rappresenta, a suo modo e per quanto apparentemente minima e di portata ridotta, un surplus, una «forma supererogatoria» rispetto a quella precedente; il suo effetto sorpresa più che al futuro, è rivolto al passato, come sperimentiamo tutti ogni volta che, adeguate le nostre esperienze al dispositivo tecnologico lanciato sul mercato dell'high-tech, ci sorprendiamo al pensiero di quando non c'era, ci ricorda Massimo Carboni (Di più, di tutto. Figure dell'eccesso, Roma 2009). Riflettendo i processi di produzione e valorizzazione del new-capitalism, anche la Bigness propone l'eccesso in forme omeopatiche: è dismisura tradotta in misura, eccesso costretto in forma e quindi funzionale alla normalità e allo standard. Tra ipertrofia e limitrofia, la sue peculiarità più propria, che sfugge a Koolhaas, è il paradosso di un eccesso costretto nel limite, poiché, come ci insegna una lunga tradizione filosofica, il limite è la condizione di esistenza dell'ente che nella determinazione spaziotemporale trova la sua qualità. E' l'apparato ontologico che trasmuta l'essere vuoto e indeterminato nell'esserci intrinsecamente finito e mutevole. La riflessione di Jacques Derrida su “Il colossale” (La verità in pittura, trad. it., Roma 1981) ci offre molti spunti sul ripensamento del 'grande', mettendo in questione la «taglia», non semplice fuori-misura, ma «cesura (...) taglio (...) incisione (...) per definire un limite, una figura o una quantità». In uno dei tanti giochi di parole così cari a Derrida, è “detail e dettail (...) passaggio di taglia, esagerazione del fuori-taglia”, ma anche 'dettaglio', 'particolare', dove il grandissimo e il piccolissimo sono entrambi funzionali alla figurazione finita dello smisurato. Se, con Kant, le «produzioni d'arte» sono a «taglia dell'uomo» che ne determina la forma e ne delimita la dimensione, il fuori-taglia colloca il 'colossale' accanto al sublime: altissimo (erhaben) - sopra-elevazione che sfida la misura eccedendo il controllo della mano e dell'occhio – e prodigioso (ungheuer) - eccentricità di una taglia che travalica il suo fine e la sua determinazione concettuale pur avendo una fine e un limite. Il 'colossale' presenta un concetto «quasi troppo grande», oscuro nella sua taglia eccessiva, in pericoloso avvicinamento al limite, dove il 'quasi troppo' inerisce la possibilità di presa percettiva, la comprehnsio aesthetica. La sua taglia non è proporzionata al fuori-taglia di ciò che presenta. «Colossale è l'esperienza di un'inadeguatezza tra il presentante e il presentato nella presentazione». Inadeguato e sproporzionato alla nostra facoltà di rappresentazione, può essere appreso invece dall'immaginazione, la cui presa che travalica l'occhio e la mano. Collocandosi tra bello e sublime, il colossale nei suoi lineamenti (e lineamenta Leon Battista Alberti chiama gli elementi esteriori dell'edificio-corpo) incornicia e definisce l'infinito, lo costringe nel limite. La «cesura», il 'taglio' che esso produce, «delimita e de-limita»: ha la taglia di quanto limita e di quanto in essa si libera dal suo limite. Il fuori-taglia non è dunque questione di dimensioni. Ci ricorda infatti Jean-Pierre Vernant (Mito e pensiero presso i Greci, Torino 1970) che in origine il kolossós è caratterizzato non dalla taglia, ma dalla pregnanza figurativa. Statua-pilastro o statua-menhir fissata al suolo come monumento funerario, è un «doppio» del morto, «figura di sostituzione» che nella pietra incarna un'ambigua presenza, perché al contempo esibisce la non


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appartenenza del defunto al mondo dei vivi, la sua alterità, la sua assenza. La Bigness, allora, nella finitezza di una dismisura 'tagliata' a misura, è il «doppio» di un impossibile desiderio di infinità, quello stesso anelito che muove la tecnica e il denaro e che sempre si traduce in apologia della realtà così com'è, quasi a volerci convincere che l'attuale è il migliore dei mondi possibili, tanto che vale la pena di replicarlo, ma mai di cambiarlo.



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LA CITTA’ VOLANTE DI KRUTIKOV Giacinto Cerviere

Dalle ebollizioni politico-culturali della Rivoluzione d’Ottobre, nel 1920 a Mosca venne fondata una prestigiosa scuola superiore d’indirizzo progressista, Il “VChUTEMAS” (Atelier Superiore d’Arte e Tecnica). Molto simile al progetto didattico avviato un anno prima in Germania da Gropius, con la Bauhaus, l’istituto russo raccolse artisti d’avanguardia già fortemente influenzati dai futuristi italiani dall’inizio degli anni Dieci e dalle estetiche geometriche, meccanicistiche e dinamistiche che emersero nell’arte europea con l’avanzare dell’industrializzazione. Al Vchutemas l’insegnamento non era solo ristretto alle discipline figurative. Anche architettura e urbanistica entrarono a far parte del suo ciclo di studi completamente votato alle cifre stilistiche del modernismo per dare risposte ai bisogni della città socialista. In Unione Sovietica era necessario ridisegnare non soltanto una nuova visione della società e dello Stato, ma anche reimmaginare un territorio, ancora in gran parte rurale e urbanisticamente arcaico, usando i nuovi linguaggi dell’estetica e della tecnica. Il Vchutemas, che dal 1928 sarà rinominato VChUTEIN, aveva un percorso scolastico di quattro anni. Qui potevano essere scelti otto indirizzi dopo aver superato un corso di quattro sezioni: grafica, colore, volume e spazio. I suoi docenti furono i maestri del Costruttivismo e del Suprematismo russi: da Golosov a Ladovsky, da Leonidov a Melnikov, da Rodcenko a Tatlin, da Kandinsky a Malevich. Al Vchutein, un giovane allievo di Ladovsky, Georgij Krutikov, eseguì per il suo diploma un progetto sbalorditivo di radice fantascientifica basato su un’estrema concezione post-territoriale della città. Era “La città del futuro. Studio analitico delle questioni essenziali dell’architettura”. Krutikov (1899-1958) emergerà tra gli studenti grazie alla forza utopista di quel lavoro grafico che raffigurava una Città volante disegnata nel 1928. Il suo progetto faceva parte delle sperimentazioni dell’ASNOVA, l’associazione di architetti d’avanguardia voluta proprio da Ladovsky, concentrata sulle teorie della Gestalt e ispirata alla cultura razionalista. Lo studio radicale di Krutikov sulla Città volante era, per complessità di sistema, molto simile alla Città Nuova del 1914 di Antonio Sant’Elia. Naturalmente Krutikov si spinse oltre l’architetto futurista, rimuovendo il limite di permanenza territoriale e di immutabilità spaziale alla città del futuro. Tale confine, tuttavia, già era stato intaccato da Sant’Elia introducendo massivamente i temi della mobilità

contemporanea nella griglia urbanistico architettonica della metropoli moderna. Anche altri, a ben vedere, avevano sperimentato dopo l’architetto italiano, ma con meno efficacia, il tema della città dinamica. La Città Volante di Georgij Krutikov è utopia alla massima potenza. Per questo provocherà scandalo e il suo autore sarà attaccato da alcune riviste che lo soprannomineranno il “Giulio Verne sovietico”. La Città Volante fa proprie le preoccupazioni crescenti della densità urbana e dei nuovi auspicati temi della permeabilità territoriale tra città e campagna. Per tale motivo il giovane studente ipotizza il distacco dal suolo degli edifici residenziali, a vantaggio dell’integrità paesaggistica. Pensa a una città definita da unità di funzione separate, in questo non discostandosi dalla tradizionale cultura dello zoning che Krutikov tende ad esaltare non solo sul piano terrestre ma anche in direzione altimetrica. Grosso modo, La Città Volante si componeva in strutture aeree destinate alle residenze, agli uffici e ai terminali di stazionamento degli autovelivoli; la seconda, notevolmente più pesante, era riservata alla produzione industriale, ancorata al suolo, collegata alle infrastrutture impiantistiche e al trasporto delle merci su terra, dove si sviluppano anche i luoghi per il tempo libero. Tre sono le tipologie residenziali, o dimore volanti. La prima, più semplice, è costituita da una torre circolare di otto piani, con quattro alloggi per piano dove si può “innestare” su ogni livello il proprio velivolo. L’ultimo livello, in basso, rappresenterebbe uno spazio comune da cui si può accedere da un passaggio tubolare verticale ad ulteriori tre piani collettivi posti dentro una grande sfera retta da cavi. La seconda dimora è un hotel. Gli alberghi sono concentrati alla periferia della Città Volante. Questi si presentano a forma di lungo pallone cilindrico perpendicolare dove gli spazi comuni sono posti in cima, all’interno di una grande cupola. Discendendo, si dispongono camere e alloggi collegati da ascensori (l’uso delle scale, non visibile nell’unica sezione lasciataci da Krutikov, potrebbe essere stato da lui ritenuto obsoleto, come prefigurato peraltro dal manifesto dell’architettura futurista di Sant’Elia quattordici anni prima). Sempre in sezione, è individuabile la modalità di stazionamento dei velivoli autonomi. La terza tipologia, la più complessa architettonicamente, è una grande loggia rotonda orizzontale nervata al suo estradosso, nel cui interno scorre un corridoio pedonale. La “ciambella”, che rappresenta il settore


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pubblico della costruzione aerea, ha un diametro di circa ottanta metri e custodisce le cellule mobili che si agganciano in nicchie parallelepipede alle sue pareti esterne. Da qui sarà possibile accedere alla corona di edifici posta sopra. Le torri con gli alloggi, anche loro in grado di essere agganciate dalle unità mobili, alte sei piani, sorreggono la grande loggia mediante una raggiera di funi d’acciaio. Nella Città Volante non vengono specificate le tecniche di sospensione, né i materiali utilizzati. La fisica nucleare fece passi da gigante dopo la metà degli anni Venti. Si capì che era possibile ottenere dal nucleo atomico un’enorme quantità di energia. Questo avrebbe consentito alle architetture del futuro, secondo Krutikov, di staccarsi dal suolo ad altezza programmata. I velivoli della Città Volante sono studiati anche all’interno dell’abitacolo monoposto dotato di un ampio parabrezza. All’esterno, la cellula aerodinamica “di comunicazione” si mostra a forma di proiettile ovaloide. Il velivolo è considerato un’appendice dell’abitazione, un piccolo luogo di soggiorno

temporaneo anche in grado di navigare in acqua o di circolare sulle strade terrestri per raggiungere il luogo di lavoro. La Città Volante può essere immaginata da Krutikov anche come una megaestensione spaziale, come raffigurato in alcuni disegni in cui si descrive un diagramma planetario di una città del futuro: un gigantesco volume cavo paraboloide ellittico contiene una città luminosa e pulsante che sembra vagare nello spazio oscuro e infinito. Dopo questa fantastica avventura progettuale, Georgij Krutikov, appena trentenne, continuerà ad occuparsi dei problemi della mobilità con più senso pragmatico. Assumerà nel tempo un ruolo “controrivoluzionario”, dedicandosi negli anni ’30 alla tutela dei monumenti storici di Mosca. Realizzerà progetti di scuole, abitazioni e una stazione della metropolitana per la capitale sovietica. Muore a Mosca nel 1956, a causa di un attacco cardiaco.

BIBLIOGRAFIA L. Komarova, Vchutemas e il suo tempo, Roma, 1996. S. O. Han -Magomedov, Georgij Kroutikov, Mosca, 2008. S. O. Han-Magomedov, “Georgij Krutikov. Project de ville volante”, in Les Chaiers du Musée national d’art moderne, Paris-Moskow, n. 2, 1979, pp. 241-247, catalogo della mostra tenutasi al Centre Georges Pompidou di Parigi nel 1979.


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MASDAR CITY. “Una città completamente ecosostenibile nel deserto” Francesca Buonincontri

Nel 2006 un'agenzia per lo sviluppo di Abu Dhabi, l'Abu Dhabi Future Energy Company (ADFEC), una società di proprietà di Mubadala Development Company, ha presentato l'iniziativa "Masdar" con l'obiettivo di dare "soluzioni ad alcune delle più pressanti questioni del genere umano: sicurezza energetica, cambiamenti climatici e sviluppo realmente sostenibile". Il progetto è finalizzato alla creazione di un istituto di ricerca per lo sviluppo di tecnologie ambientali, alla realizzazione di una serie di attività di investimento, di commercializzazione e distribuzione dei prodotti derivanti, e alla costruzione di una città ecosostenibile in cui applicare tutte le idee ecosostenibili derivate. Il progetto "Masdar" è finanziato, oltre che dall'ADFEC, da vari altri soggetti, fra cui un sultano, la Rolls-Royce, Mitsubishi e la General Electric Ecomagination Center che sarà il primo inquilino aziendale e che svolgerà, in una struttura di 4000 metri quadrati, attività tese a soluzioni di business sostenibile e allo sviluppo di tecnologie pulite con l'appoggio scientifico del Massachusetts Institute of Technology (il Mit di Boston). La costruzione della futura città, Masdar City, in arabo "città sorgente”, è già iniziata negli Emirati Arabi Uniti. L’emirato di Abu che controlla il 90 % delle risorse degli Emirati, i quali, a loro volta, attualmente gestiscono il 9% delle riserve di petrolio al mondo e il 5% delle riserve di gas, resosi consapevole che il petrolio, ai tassi attuali di estrazione, è destinato ad esaurirsi a breve ha iniziato a investire sulle energie rinnovabili e, attraverso la costruzione di Masdar City, si propone di dimostrare che anche in luoghi in cui vige un alto consumo di risorse e di energia, si può cambiare la mentalità delle popolazioni e tutelare l'ambiente. Il motto di Masdar City è: “Credi, Realizza e Rendi Sostenibile”, la città infatti verrà totalmente alimentata da energia prodotta dal sole, dal vento, dall'idrogeno e dallo smaltimento dei rifiuti, l'acqua sarà fornita da un impianto di dissalazione alimentato dal sole, ci saranno rugiada-catchers per la raccolta di acqua piovana e sensori elettronici per dare l'allarme in caso di tubi che perdono, l’80% di acqua già utilizzata verrà poi reimmessa in circolo una volta depurata e purificata, il verde sarà creato con piante resistenti alla siccità, i rifiuti saranno riusati, riciclati, finiranno in compostaggio e termovalorizzatori e solo il 2% sarà depositato in discarica.

Lo studio inglese Foster & Partners è impegnato nel progetto della nuova città, una città speciale che dovrà diventare, secondo l'intento di Norman Foster, modello per ogni futuro sviluppo urbano e "laboratorio vivente di convivenza sociale e buone pratiche". L’attenta pianificazione di Masdar City ha già fissato nuovi parametri di riferimento per le future città sostenibili e ha ideato un sistema integrato di energia eolica, solare, fattorie, piantagioni e centri di ricerca che ne dovrebbe garantire la completa autosufficienza. Purtroppo l'obiettivo di una città a zero emissioni di carbonio appare ancora troppo utopistico, la città, infatti, a causa della sua dipendenza dai pannelli solari, e per le tecnologie non ancora efficienti per conservare l'energia, non può produrne a sufficienza per alimentare se stessa di notte e sarà costretta ad importare energia a gas dalla rete di Abu Dhabi, scambiando l'energia solare in eccesso alla rete durante il giorno e calcolando le emissioni di carbonio. La nuova città sorge tra la riva del mare e il nuovo aeroporto, a 17 chilometri dalla inquinatissima capitale Abu Dhabi, a cui è collegata da una nuova ed efficiente rete di ferrovia metropolitana, si presenta come una vera cittàfortezza protetta da bastioni che consentiranno alla città di difendersi dai venti caldi del deserto e dal disturbo dell’aeroporto di Abu Dhabi e circondata da alberi che contribuiranno ad attenuare la polvere e la sabbia portata dal vento. L'orientamento scelto è quello Nord-Sud più adatto a proteggere gli abitanti dal bagliore del sole. Masdar City a regime ospiterà circa 50 mila abitanti che dovranno sottoporsi a corsi di formazione per vivere ad impatto zero, prima di insediarsi su di un territorio di sette chilometri quadrati su cui saranno localizzate anche 15.000 imprese commerciali e industrie per la fabbricazione e la vendita di prodotti ecocompatibili, inoltre saranno presenti in gran numero centri di ricerca, di formazione e in parte anche produzione nel campo delle energie alternative, oltre a società di finanziamento e commercializzazione specializzate nel settore. La città avrà un fabbisogno energetico compreso tra 200 e 240 mW che verranno ottenuti solo da fonti rinnovabili, delle quali circa l'80% sarà prodotto dal sole. Tetti, tettoie e una larga striscia di terra, di circa


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21 ettari, ai margini della città, saranno utilizzati per i pannelli solari, di cui circa 41 tipi di pannelli derivanti da 33 diversi produttori sono stati testati per scegliere quelli che funzionano meglio nelle condizioni di deserto caldo e polveroso. Il megaimpianto fotovoltaico fuori città, da 10 mW, realizzato anch'esso con materiale riciclato, sarà dotato di 87mila pannelli per metà tradizionali e metà in film sottile, lungo le mura della città verranno inoltre creati parchi eolici, fattorie fotovoltaiche e saranno sperimentate nuove coltivazioni, con l'obiettivo di realizzare un sistema completamente autosufficiente, capace di fornire ogni giorno, ad ogni abitante, una quota prestabilita di acqua ed energia: 30 kW di elettricità e 80 litri d'acqua (quantità sufficiente ma inferiore di circa 9 volte al consumo medio di un cittadino americano). Uno spazio è stato inoltre conservato per creare stagni di alghe che potranno un giorno produrre del biocarburante e che per il momento saranno utilizzati per la ricerca. La temperatura del deserto arabo raggiunge spesso i 50 gradi e ad Abu Dhabi il 70% del consumo energetico viene utilizzato per la climatizzazione degli edifici, Foster ha dovuto quindi ideare un modello di design intelligente attento a ridurre al minimo l'utilizzo dell'illuminazione artificiale e ad evitare lo spreco delle troppe risorse necessarie ad una buona climatizzazione. A Masdar City gli impianti di climatizzazione sono azionati da energia prodotta da pannelli fotovoltaici ed impianti eolici, e sarà ridotto il fabbisogno energetico dei climatizzatori mediante pompe che porteranno in superficie il fresco dal sottosuolo. Norman Foster ha progettato Masdar City entro un quadrato perfetto rialzato su di una piattaforma per dare un più facile accesso alle tubazioni e ai cavi che normalmente sarebbero interrati, ciò renderà più facile installare in futuro eventuali nuove tecnologie. Modello di riferimento sono state le architetture tradizionali delle città arabe, con strade strette e riparate dal sole, con case addossate fra loro e di modesta altezza, è stata creata una fitta rete di strade disposte ad angolo per essere maggiormente in ombra, di passerelle ombreggiate in modo da favorire la possibilità di andare a piedi, di parchi perimetrali stretti e lunghi che catturano e raffreddano i venti prevalenti e migliorano la ventilazione della città. La città si svilupperà su due livelli: il livello sotterraneo per il trasporto di persone con circa 1500 taxi-navette, automatizzati, senza conducenti, per sei persone, mossi da magneti posti a terra su percorsi predefiniti, e con fermate distanti fra loro solo duecento metri, e il livello stradale per pedoni e biciclette. Su questo livello saranno edificati negozi, scuole e case, ciascun

edificio sarà realizzato con materiali riciclati, avrà le pareti esterne rivestite con uno speciale vetro che respinge il calore e lascia entrare la luce naturale e i tetti saranno quasi interamente coperti da pannelli fotovoltaici. Il costo di Masdar City si aggirerà intorno a 22 miliardi di dollari, ma la costruzione potrà in parte essere autofinanziata rivendendo nei prossimi 21 anni, in base al sistema dei crediti verdi, circa un milione di tonnellate di CO2 l'anno che si eviterà di produrre. Nel settembre 2010, dopo due anni di lavoro, è stata inaugurata la prima cellula della città, il Masdar Institute of Science and Technology (MIST), sede dell'unica università al mondo dedicata esclusivamente all’innovazione a alla ricerca nel campo dell’eco-sostenibilità, fondata sulle energie rinnovabili. Ha un campus accademico ed un istituto di ricerca scientifica all’avanguardia, ideato in collaborazione con il Massachusetts Institute of Technology, offre corsi di laurea, master e dottorati sulla scienza e l’ingegneria di tecnologie avanzate per l’energia e tecnologie sostenibili, con l'obiettivo di attrarre scienziati e ricercatori da tutto il mondo. Il Masdar Institute of Science and Technology è un complesso di edifici, collocati l'uno vicino all'altro per impedire al sole di surriscaldarne le pareti e favorire la ventilazione delle strade strette. Gli edifici si affacciano su di una piazza al centro della quale si innalza la wind tower, una struttura conica che sfrutta le correnti d'aria che soffiano sugli edifici per ventilare gli ambienti cittadini. Le pareti dell'edificio residenziale sono in parte ricoperte da pannelli ondulati simili a terracotta con disegni traforati che hanno la funzione di schermare l'edificio dal sole lasciando passare il vento.


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ESTREMISMO DIMENSIONALE E DINAMICO A DUBAI Massimo Squillaro

Dubai è la capitale di uno dei sette stati che compongono gli Emirati Arabi Uniti (EAU), una federazione nata in seguito al ritiro della Gran Bretagna dalle colonie nel 1971. Una città caratterizzata da architetture sperimentali, uniche al mondo, in costante gara al grattacielo più alto e con la forma più particolare. I cantieri continui stanno trasformando il deserto degli Emirati in oasi artificiali e numerosi sono i progetti che usano il mare come territorio di conquista con edifici o vere e proprie nuove urbanizzazioni, come dimostra la costruzione della terza megapalma residenziale nelle acque del golfo. La vocazione internazionale di Dubai poggia su un impianto modernissimo, concepito e realizzato dalle grandi imprese immobiliari e dai grandi studi di progettazione con edifici in grado di segnare e definire uno skyline che punta verso il cielo. Superare un nuovo record in altezza è uno degli obiettivi dei progettisti, secondo un approccio che ha sempre effetti positivi anche sui valori di mercato, come dice Gerard Hines. Punto di partenza per la costruzione di Dubai è stata l’idea di realizzare nel deserto uno dei più grandi porti del Golfo – completato in quindici anni – e di circondarlo con la Zona Franca di Jebel Ali, estesa per 75.000 ettari, in cui sono oggi insediate 6000 imprese provenienti da più di 100 paesi con un totale di 130.000 addetti, attratte da elevati vantaggi fiscali e localizzativi. Dubai è sempre più la porta di collegamento tra Occidente ed Oriente, snodo tra luoghi della produzione e luoghi del consumo, area in cui si intrecciano la produzione energetica, la trasformazione della materia, la produzione di beni di lusso e di servizi per il tempo libero. Dubai mira a diventare un potente attrattore di popolazione, di operai, imprenditori in cerca di vantaggi, professionisti della progettazione e del management, commercianti ed espositori per le importanti fiere che stanno nascendo, amministratori pubblici in cerca di finanziamenti, turisti e consumatori alla ricerca di qualità e lusso. Sebbene siano questi anche i suoi presupposti per il futuro, la città manca di un disegno urbano: il sistema infrastrutturale è insufficiente, il livello dei servizi non omogeneo e la qualità architettonica non eccelsa, diversamente da quanto si sta concretizzando nella vicina Abu Dhabi che sta investendo proprio nella qualità dei progetti. Nonostante i molti detrattori della sua architettura spettacolare, che mira allo stupire ed al caratterizzare un brand o un finanziatore, Dubai si

contraddistingue anche per la continua ricerca nel settore della sostenibilità ovvero dell’efficienza e dell’autonomia energetica, in un regolato rapporto con la natura. Malgrado la città si trovi in una delle regioni più aride del mondo, il consumo pro capite di acqua è quattro volte più alto della media mondiale ed essa è ricca di vegetazione. La quasi totalità delle sue riserve idriche proviene però dalla desalinizzazione di quella marina e l’acqua di rifiuto viene sempre riciclata ed usata per irrigare i numerosi parchi artificiali. In questo senso, Dubai e gli Emirati Arabi Uniti hanno intrapreso una decisa politica ambientale volta alla promozione di edilizia ecocompatibile ed alla riduzione dell’inquinamento nelle aree urbane, che si sta concretizzando in una serie di importanti iniziative in questo campo. Tra queste, la prima, più significativa, appare essere la scelta di approntare un nuovo Regolamento Edilizio Ecologico basato sulle normative statunitensi LEED. La preparazione del Regolamento è stata affidata alla “Emirates Green Building Council”, che muove verso l’edilizia verde, l’uso di energie alternative, il risparmio energetico, la riqualificazione delle periferie, gli spazi a verde, la revisione dei piani regolatori etc. Le autorità locali hanno preso atto che l’emergenza ambientale per gli inquinanti da combustione e l’esaurimento delle fonti fossili di energia, impongono un’inversione di tendenza. Serve un deciso cambiamento di rotta anche nella progettazione degli edifici soprattutto in una regione dove sino ad oggi il parco edilizio residenziale pubblico e privato è ancora lontano dagli standard qualitativi del mondo occidentale, tanto più che a Dubai gli edifici consumano quantità spropositate di energia. Il continuo aumento dei costi e la pericolosa dipendenza da risorse naturali in via di esaurimento nonché i minacciosi cambiamenti climatici, impongono rapide prese di posizione e nuove sfide che i governi del Paese vogliono affrontare con impegno e determinazione. Sia Dubai che Abu Dhabi hanno assunto infatti il compito di creare le condizioni di legge e tecnologiche necessarie a garantire una edilizia efficiente dal punto di vista energetico e rispettosa dell’ambiente per cui i criteri e le specifiche tecniche di tutte le nuove costruzioni devono rigorosamente seguire standard e normative ecologiche. I nuovi mega sviluppi immobiliari costituiscono infatti tutti esempi eclatanti di questo nuovo trend.

Il Burj Khalifa

Particolare della guglia


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Ognuno dei nuovi progetti e delle nuove costruzioni, di fatto vere e proprie città all’interno di distretti urbani esistenti, rappresenta quanto c’è di meglio e di più ambizioso nell’ambito dello sviluppo ecosostenibile. Una progettazione “bioclimatica”, sia per le nuove costruzioni, sia per le ristrutturazioni, permetterà di ridurre notevolmente anche la richiesta di condizionamento estivo dell’aria che, rappresenta un segmento di domanda di notevoli dimensioni. Inoltre l’applicazione dei principi bioclimatici negli spazi aperti tra edifici (scelta dei materiali, ventilazione, vegetazione, ecc.) permetterà di ridurre il fenomeno delle isole di calore, caratteristico nelle aree densamente edificate. Per quanto riguarda invece la richiamata “gara” all’edificio più alto del mondo, è stato ufficialmente inaugurato nel 2010 il Burj Dubai, il quale strappa il record al Taipei 101 di Taiwan (508 m) diventando il grattacielo più alto del globo. Firmato dagli architetti dello studio di Chicago SOM - Skidmore, Owings & Merrill LL, la “torre del deserto” vanta misure sconcertanti: 160 piani per 828 metri di altezza (se si include la guglia), con una superficie di 334mila metri quadrati e 58 ascensori che viaggiano ad una velocità di 10 metri al secondo. L’ambizioso progetto – al quale hanno lavorato oltre 380 ingegneri – è stato costruito in cinque anni ed ha comportato una spesa di oltre 4 miliardi di dollari, per un impiego di circa 45mila metri cubi di calcestruzzo, 330mila tonnellate di cemento e 31400mila tonnellate di acciaio. Il design strutturale a nido d’ape, con molti elementi di rinforzo simili a quelli della struttura dei velivoli, è stato realizzato con ben 430mila mq di pareti, pari ad una superficie doppia rispetto a quella dei solai. Di chiara ispirazione islamica, la geometria del Burj Dubai ricorda il fiore del deserto, tipico della regione. La torre si compone di tre elementi in vetro e calcestruzzo che si sviluppano attorno ad un nucleo centrale salendo verso il cielo come scalini. Un arretramento su ciascun elemento snellisce il corpo dell’edificio man mano che questo continua la sua ascesa nello skyline. Giunto all’estremità, il cuore della torre emerge come uno stelo d’erba. La base particolarmente larga della torre – a forma di Y – consente di ridurre l’impatto delle correnti d’aria dovute ai vortici che spesso nascono nelle zone più alte dei grattacieli. All’esterno del Burj Khalifa, e con un costo di 217 milioni di dollari, sorge un sistema di fontane da record progettato dalla WET Design, la compagnia responsabile della costruzione della fontana dell’Hotel Bellagio di Las Vegas. Illuminate da 6.600 luci e 50 proiettori colorati le fontane si estendono per 275 m e riescono a sparare getti d’acqua alti 150 m verso il cielo, accompagnati da musiche arabe classiche ed internazionali.

Il dinamismo, la grande dimensione, la tecnologia accompagnano anche il progetto dell’architetto italiano Fisher che con il suo grattacielo “verde” introduce la quarta dimensione (il tempo) come superamento delle tradizionali dimensioni (lunghezza, larghezza, altezza). Il Dynamic Architecture è un edificio costantemente in movimento in grado di cambiare la sua forma e di generare energia elettrica per sé e per gli edifici circostanti grazie alle sue 48 turbine eoliche ed ai suoi pannelli fotovoltaici che producono energia grazie al vento e alla luce del sole con una stima del valore di produzione di circa 7 milioni di dollari l’anno. Il moderno design dell’edificio e la fibra speciale di carbonio si prenderebbero cura dei problemi di acustica impiegati in un complesso e avveniristico sistema di insonorizzazione che impedisce, anche nelle peggiori condizioni di vento forte, che gli occupanti degli edifici possano in alcun modo risentire di rumori o vibrazioni prodotti dagli elementi mobili delle turbine eoliche. Non solo, ma la produzione di energia elettrica con i suoi impianti, generalmente piuttosto invasivi, non hanno alcuna conseguenza sull’aspetto estetico del palazzo compiendo un passo rivoluzionario per le fonti energetiche alternative. Il Dynamic Architecture fa dipendere innanzitutto il suo nome dalla possibilità di poter modificare la propria forma grazie alla sua struttura a piani separati che ruotano in modo indipendente l’uno dall’altro per adattarsi e seguire le esigenze dei propri abitanti. Con l’Architettura Dinamica cambia così anche la stessa filosofia dell’abitare: non dovendo più essere costretti a subire la severa matita del progettista con le sue fisse forme, l’utente si troverà infatti al centro di una struttura che cambia a seconda delle esigenze dei propri occupanti. L’edificio dovrebbe essere inoltre di esempio per il mutamento dei tempi di realizzazione delle costruzioni, dal momento che il progetto prevede la produzione in fabbrica di qualsiasi soluzione costruttiva, ovvero quella di elementi pre-assemblati e pronti per essere installati in loco. Le “unità” saranno finite completamente in fabbrica, attrezzate di tutte le condutture idrauliche ed elettriche, rifinite dal pavimento al soffitto, già dotate di bagni, cucine, illuminazione e altri elementi d’arredo per essere solo agganciate sul posto l’una all’altra meccanicamente, consentendo di realizzare l’intero edificio in tempi molto brevi. Gli architetti sembrano finalmente riconoscere la necessità di una sintesi tra economia ed ecologia nonchè di nuove strategie ambientali e architetture che tengano conto dell’incremento demografico, dell’ambiente, del consumo del territorio, delle esigenze dell’uomo. Vale a dire che tutto, in questi progetti, sembra adombrare un nuovo umanesimo, il

La fontana esterna al Burj Khalifa

Il Dynamic Architecture

Vista notturna del Dynamic Architecture


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rispetto delle prerogative della nostra vecchia Terra, dove l’uomo ricava il suo spazio per abitare, sebbene sia proprio il superlativismo delle misure, delle economie, delle quantità che caratterizza gli edifici di Dubai a rendere sempre più piccola la Terra e l’uomo ed a determinare si direbbe una inabitabilità.


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I GIGANTI DELLE CITTA’ Nello Luca Magliulo

Sicuramente tra le immagini che meglio identificano la sfida dell’uomo a superare la gravità della pietra nella costruzione e spingere l’architettura verso grandezze sempre maggiori la più adatta è quella del grattacielo. Questo tipo di edificio rappresenta, oltre che una sorta di sfida al peso, quasi il desiderio di affermazione dell’uomo sul territorio, simboleggiando la sua capacità tecnologica e, perché no, quella del suo imporsi sulla natura, manifesto nella capacità di superare le leggi fisiche. In una intervista di Stefano Bucci al decano della storia dell’urbanistica e dell’architettura, Leonardo Benevolo, questi, alla domanda “perché sono nati i grattacieli?” risponde: “… Building come il Rookery o il Tacoma sono nati nella Chicago di fine XIX secolo, in primo luogo sull’onda dell’evoluzione dei materiali e dei metodi di costruzione. Andare oltre i 46 metri di altezza, oltre i dodici piani fino ad allora raggiunti sarebbe stato impensabile utilizzando i vecchi sistemi. E così quando al ferro è venuto a sostituirsi l’acciaio è stato possibile realizzare strutture sempre più leggere e resistenti …”1. Ma, è anche vero che questi giganti urbani, i quali rappresentano un campo di applicazione della grande dimensione in architettura, sono serviti a risolvere problemi di spazio, così come sosteneva Frank Lloyd Wright parlando in proposito di “stratagemma meccanico per moltiplicare le aree tante volte quante volte è possibile vendere e rivendere il terreno originale” o, come sosteneva Louis Henry Sullivan, alla autoesaltazione dell’uomo nella colonizzazione del proprio pianeta, dal momento che “ogni pollice di un grattacielo deve essere qualcosa di orgoglioso e di sublime”. In ogni caso, qualunque sia la verità, oggi le nostre città sono rappresentate anche da queste costruzioni, dai grattacieli, quasi loro guardiani, silenziosi nel proprio gigantismo, “presuntuosi” nella propria imponenza rispetto agli altri edifici. Con il passare degli anni la sfida di raggiungere vette sempre più alte sembra avere appassionato in maniera crescente le nazioni del mondo, al fine di rappresentare con edifici di maggiore entità ed altezza il proprio potere economico e commerciale. Come è noto già il primo grattacielo costruito nella storia dell’età moderna, realizzato nel 1902 dall’architetto Daniel Hudson Burnham, il Flatiron, con i suoi 86,9 metri di altezza, regalò alla città americana di New York due importanti primati che 1

S. Bucci, Benevolo: «La tecnologia ci spingerà sempre verso l’ alto», in Corriere della Sera, 26 settembre 2001.

segnarono l’avvento degli USA tra le grandi potenze internazionali: quello di edificio più alto del mondo e quello di primo vero grattacielo (in termini tipologici) della storia dell’architettura. Oltre agli aspetti celebrativi, questo edificio ha raggiunto un’importanza storica anche per la sua conformazione. Realizzato dalla ditta di costruzioni Fuller (che avrebbe dovuto imporgli il nome), esso riuscì a dimostrare come un impianto di base di forma triangolare, non strutturalmente simmetrico quindi, potesse essere sfruttato per l’edificazione. Oggi l’edificio è diventato una meta turistica e quando si raggiunge a Manhattan il n. 175 della Fifth Avenue, all’incrocio con Broadway, si comprende perché alla fine fu chiamato Flatiron, pur solo con i suoi 22 piani e la sua inconsueta forma triangolare che ricorda un ferro da stiro. Ovviamente questo non fu il primo vero è proprio grattacielo in quanto, già sul finire dell’Ottocento, lo stesso Burnham aveva sperimentato a Chicago edifici sul modello della torre in acciaio. Da questo momento in poi, però, in America si costruiranno edifici sempre più alti fino alla celebrazione del record delle Torri Gemelle del Word Trade Center, costruite tra il 1966 e il 1973 che, con i loro 110 piani e 415 metri su pianta quadrata (lato 63,4 metri) segnarono la vittoria della Downtown di Manhattan2, sebbene durata poco tempo, dal momento che il loro primato in altezza, oggi ampiamente superato, nello stesso anno di ultimazione fu battuto dalla Willis Tower di Chicago, progettata da Bruce Graham e Fazlur Khan, che con i suoi 443 metri e la sua struttura tubolare segnerà l’ultimo grande record statunitense. Da questo momento in poi anche negli altri paesipotenze mondiali si inizieranno a costruire grandi edifici sempre più alti e se la Willis Tower, meglio nota con il nome Sears Tower, è ancora oggi fra i quattro più alti grattacieli al mondo, i primi tre sono stati realizzati nelle nazioni che oggi rappresentano i maggiori centri di espansione economica e tecnologica del mondo. Nel 1998, con successiva chiusura del cantiere nel 2003, a Kuala Lumpur (Malesia) furono realizzate le Petronas Twin Towers, note anche con il nome di Menara Petronas (dal nome della ditta petrolifera che le ha 2

Dopo il 1908 iniziò una vera e propria battaglia tra la Midtown (il centro di Manhattan) e la Downtown (la parte meridionale) nella costruzione dell’edificio più alto, competizione che coinvolse organizzazioni finanziarie, progettisti, investitori e ditte di costruzioni.


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finanziate e realizzate), due torri gemelle alte 452 metri che rappresentano una delle più imponenti opere realizzate dalla mano umana. Il progettista, l’architetto argentino Cesar Pelli, le disegnò tra il 1995 e il 1998, servendosi della più avanzata tecnologia presente sul mercato ottenendo il risultato di un ponte (denominato Skybridge) posto a 171 metri di altezza dal suolo che collega i due edifici tale da permettere, oltre la sua funzione statica, all’utenza delle torri di spostarsi facilmente da un edificio all’altro senza aver bisogno di raggiungere il pian terreno. Ognuna delle due torri presenta uno schema geometrico di pianta che fa da richiamo alla tradizione architettonica islamica, composto di due quadrati (si ricordi che il quadrato secondo la cultura religiosa locale rappresenta il mondo materiale) ruotati e sovrapposti così da ottenere l’immagine di una stella iscritta all’interno di un cerchio, rivolta a diffondere la cultura islamica con i suoi simboli di unità, armonia, stabilità e razionalità. Le due torri sono dedicate in gran parte alla economia connessa al petrolio e, mentre nella torre Uno sono stati collocati gli uffici della compagnia petrolifera statale, nell’altra torre sono presenti quelli delle compagnie associate e di altre ditte, laddove, scendendo ai piani inferiori, ci si imbatte in un teatro che può ospitare fino a 864 posti, sede della Malaysian Philharmonic Orchestra e, affiancata a quest’ultimo, un’ampia biblioteca sul tema dell’energia, del petrolio e di tutte le produzioni correlate. Il secondo grattacielo più alto del mondo è il Taipei 101 che prende il nome proprio dai suoi 101 piani. Collocato a Taipei in Taiwan, è alto 508 metri (in proporzione quattro volte il nostro Pirellone di Milano). Il progettista, l’architetto Chung Ping Wang, che ha guidato la C. Y. Lee & Partners nella realizzazione, ha cercato di riproporre l’immagine di una pianta di Bambù attraverso un sistema di 8 moduli posti l’uno sopra all’altro che partono da un basamento a forma piramidale. Anche qui ritroviamo un forte simbolismo di facciata con i quattro prospetti su cui poggiano 4 enormi monete e sculture-fregi a forma di nuvole che dovrebbero rappresentare, secondo la cultura locale, la felicità. Per comprendere il suo gigantismo basti dire che nei suoi circa 200.000 metri quadrati, destinati agli uffici, lavorano quotidianamente centomila impiegati, mentre, nel piano interrato, il garage arriva ad ospitare quasi millenovecento auto e circa tremila moto. Tali numeri, così grandi, hanno posto ai progettisti il problema dei sistemi di risalita, sia in termini di capienza, sia di velocità e per questi motivi gli ascensori sono progettati e realizzati con due piani e con una velocità tale da impiegare circa quaranta secondi per portare gli utenti dal piano terra all’ultimo livello. La struttura, unica nel suo

genere, è formata da 8 colonne d’acciaio che, collocate a coppie negli angoli della pianta, sono state riempite di cemento dal primo al sessantaduesimo piano, al fine di aumentarne il peso nella parte inferiore. Le colonne, secondo un intervallo di otto piani, sono collegate mediante travi con un’anima statica costituita da 16 piloni. Per realizzare i prospetti è stata applicata una griglia metallica modulare. Del tutto originale appare poi la soluzione del problema delle oscillazioni dell’edificio dovute al vento per l’elevata altezza, realizzata con una sfera di acciaio dal diametro di 5,5 m e dal peso totale di 660 tonnellate che, sostenuta da otto pompe idrauliche e collocata nel cuore dell’edificio ad un’altezza calcolata, oscillando in controtendenza rispetto alle sollecitazioni laterali, svolge il ruolo di contrappeso durante i movimenti dell’intera struttura, le quali possono giungere addirittura fino a 1,5 metri. Sembra ovvio che la necessità di risolvere problematiche così complesse portino alla ricerca di soluzioni sempre più avanzate in termini tecnologici tanto più in edifici come il Burj Khalifa realizzato a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti (UAE) che detiene attualmente il primato mondiale di altezza, ma anche a quello della più grande struttura costruttiva mai realizzata dall’uomo nella sua storia. Completato il 1º ottobre 2009 e finanziato dall’Emaar Properties, l’edificio, con i suoi 508,9 metri, insiste su un’area di circa 2 chilometri quadrati la quale, ancora oggi in corso di completamento, è denominata Downtown Burj Khalifa. La progettazione dell’edificio è stata affidata alla Skidmore Owings and Merril, LLP di Chicago. L’intero intervento per la realizzazione della torre è costato circa 1,5 miliardi di dollari, mentre la sistemazione dell’intera area circostante circa 20 miliardi. Anche in quest’ultimo caso i progettisti hanno conferito alla torre un forte simbolismo, che, a quanto pare, sembra essere una richiesta ricorrente probabilmente per attenuare il senso di imperiosa potenza economica e tecnologica che questi edifici rappresentano. La pianta, infatti, è stata disegnata secondo la forma di un fiore, e più precisamente dell’Hymenocallis, tipico di questa area geografica e particolarmente popolare a Dubai. L’intera torre si articola su una megastruttura formata da tre elementi che si restringono verso l’alto con un nucleo centrale che rappresenta il cuore pulsante dell’edificio. Sul Burj Khalifa sono presenti 27 terrazze il cui andamento in senso verticale genera la forma di una spirale che culmina nella sua parte più alta in un’antenna. Il suo design ed il suo assetto architettonico ricordano in qualche modo il “Grattacielo Illinois”, nella visione disegnata e pensata da Frank Lloyd Wright nel 1956. Anche per il Burj Khalifa si son dovuti risolvere molti problemi


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legati all’elevato numero di impiegati che tutti i giorni lo affollano ed alla sua grande altezza, e per questo motivo l’edificio possiede gli ascensori più veloci del mondo che si muovono ad una velocità di 18 m/s (64,8 km/h). Non si sa per quanto tempo questo grattacielo manterrà il record della costruzione più alta del mondo ma è certo che già si pensano e si progettano edifici più alti in altri luoghi. In ogni caso, dai primi del novecento ad oggi, sono stati realizzati talmente tanti edifici di questo tipo da farne nascere un vero è proprio studio soprattutto in termini tipologici. Oggi i grattacieli sono classificati in base alla loro forma ed al loro impianto al piede secondo definiti modelli architettonici quali quelli a “campanile”, a “ziggurat” e “a plaza”. La prima tipologia è anche la più vecchia ed occupava, in pianta, tutto il lotto a disposizione. Si conformava con un edificio di base che non doveva superare i sedici o diciassette piani, al di sopra del quale si erigeva una torre più piccola in pianta che poteva avere altezze illimitate. In questo modo, oltre ad ottenere l’immagine della torre campanaria tradizionale che ha offerto il nome alla tipologia, si evitava di togliere troppa luce agli edifici circostanti, come è nel caso del Woolworth Building il quale, con la sua forma di campanile nella parte superiore, raggiunse già nel 1913 un’altezza pari a 241 metri. Il modello a “ziggurat”, che prende il nome dalle famose costruzioni mesopotamiche, nasce dalla necessità, anche ideologica, di far culminare le torri in un sistema che tende a restringersi verso l’alto per aumentarne lo slancio e l’imponenza. Come si può ben intuire, si tratta anche di un modello statico che ha permesso ai progettisti di risolvere problemi legati alle oscillazioni fino ad una certa altezza. L’esempio più rappresentativo di questa tipologia è certamente il Rockefeller Center progettato dall’architetto Raymond Hood che utilizzò gli ormai noti set-backs (o più semplicemente “rientri del fronte”) riuscendo ad elevarsi fino a 260 metri di altezza. Infine, il modello definito a “a plaza”, è la più recente tipologia elaborata ed utilizzata in quanto rappresenta la soluzione più tecnologicamente avanzata e complessa per le problematiche legate all’estrema elevazione di questi edifici. Secondo questo modello (che richiama il tradizionale sistema delle chiese cristiane) il grattacielo è collocato al centro o su un lato del lotto di terreno edificabile, lasciando libera l’area circostante o anteriore che viene così ad essere pensata e progettata come una vera e propria piazza, come un luogo di aggregazione e di socializzazione. Lo stesso Burj Khalifa è un esempio di questa applicazione, che, oltre a migliorare le possibilità di elevazione dell’oggetto stesso, trasfigura il tema del “grattacielo” dal suo carattere

edilizio-strutturale (rifiutato in ambito architettonico perché frutto di prodotti di fabbrica e della produzione in serie) a quello architettonico urbanistico, data la ricerca di un rapporto con la città ed il contesto, tanto più che, mediante la “plaza”, vengono anche risolti i problemi di illuminazione per l’edificio e le stessa aree circostanti e nei grattacieli più recenti, data la loro altezza, quello di condurre aria più salubre ad altezze maggiori. Va anche detto però che gli interventi che si rifanno a tale modello vivono una situazione urbana “appartata”, come fu per il capostipite Seagram Building progettato da Mies a New York cui seguì, in tutto il mondo, l’imitazione che diede vita all’International Style divenuto oggi Global Style, per cui se essi in passato tendevano quasi a costituirsi come quartieri autonomi con una propria e forte identità, gli attuali più ampi cambi di scala, che ne hanno anche mutato il nome, da “Building” in “Tower”, otre a manifestare forse il più alto livello di fusione tra la tecnologia, l’architettura, l’ingegneria ed il design, legandosi alla mancanza di terreni edificabili ed alla necessità di accogliere una popolazione in continua crescita in termini mondiali, manifestano anche una mutazione del nostro abitare dove al più alto livello di socializzazione corrisponde il superlativo grado di solitudine.


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IL PARCO NELLA CITTA’ CONTEMPORANEA. PARIGI E BARCELLONA Gaetana Laezza

Viviamo nello spazio, in questi spazi, in queste città, in queste campagne, in questi corridoi, in questi giardini. Ci sembra evidente. Forse dovrebbe essere effettivamente evidente. Ma non è evidente, non è scontato. E’ reale, evidentemente, e probabilmente razionale, quindi. Si può toccare. Geoges Perec

Il dibattito contemporaneo sulla definizione della struttura urbana delle nostre città è legato strettamente alla trasformazione del paesaggio ed alla diffusione dei parchi urbani. Mentre nella città del medioevo il costruito dava vita ad un spazio pubblico chiuso e delimitato da volumi, nell’Ottocento il rapporto tra pieno e vuoto ha generato una serie di spazi pubblici (vie e piazze) sulla quale prendeva forma il costruito. Nel Novecento la progettazione di aree verde è diventata fondamentale nella pianificazione urbanistica della città; in questo secolo l’architettura ha dato un nuovo significato al ruolo del parco urbano, poiché la progettazione dei giardini ha assunto un significato innovativo con la ridefinizione della periferia. “I parcheggi, da quelli disegnati ai nuovi piazzali di stazionamento per pullman ed autocarri, gli slarghi senza disegno distribuiti sui tracciati recenti, le aree di risulta spesso inaccessibili comprese negli svincoli autostradali o inserite nel tessuto urbano come ritagli privi di un’apparente misurazione; i rilevati ferroviari con le loro scarpate, i loro raccordi, i loro muri di contenimento; gli aeroporti le cui piste, vere opere di land art, nascondono la loro forma assoluta nella vastità adimensionale della scala geografica; le infrastrutture per la viabilità con il loro corredo di argini, viadotto, fossati, zone di rispetto … Nel loro insieme questi ‘non luoghi’ rappresentano il tessuto connettivo della città contemporanea, l’autentico fattore coesivo del paesaggio urbano”. 1 Il parco della città contemporanea è stato concepito come elemento generatore di forti trasformazioni urbane basate principalmente sul recupero dei valori del territorio, allontanandosi dalla vecchia idea di esclusiva configurazione di uno spazio verde recintato ed isolato. Tutte le trasformazioni subite dalla città hanno definito delle nuove strategie d’intervento ponendo lo spazio pubblico al centro del dibattito sulla città contemporanea. Oggi la città e lo spazio pubblico risultano strettamente correlati: la strada, la piazza, i 1

Purini F., Corpi ambientali virtuali, in “Casabella” n. 597-598, gennaio-febbraio 1993, p. 77.

parchi, i giardini sono gli elementi che formano la struttura urbana. Il Novecento è stato un secolo segnato da una crescita selvaggia dell’urbanizzazione, che ha determinato la distruzione degli ambienti naturali; tutto questo ha concentrato il dibattito sulla questione ambientale che ha dato un nuovo significato al Parco visto ora come elemento di costruzione della città e del territorio. La progettazione del parco è collegata strettamente alla trasformazione delle città poiché esso nasce nei spazi vuoti e di risulta dei grandi sistemi infrastrutturali, nelle aree abbandonate nate dall’inserimento o dalla dismissione di complessi industriali e/o commerciali. Il processo di realizzazione dei parchi e dei giardini pubblici, nato nella maggior parte delle città europee, si basa sulla necessità di riqualificare le aree industriali dismesse, i sistemi infrastrutturali, ..: necessità principale della città contemporanea è la riconquista del paesaggio visto come spazio percettivo. Il disegno della parco contemporaneo è determinato non solo dalla relazione con il costruito ma anche con il territorio circostante, con la sua ubicazione all’interno del tessuto della città. Oggi riproporre la vecchia definizione di parco appare superata; il parco contemporaneo è relazionato strettamente al sistema insediativo, trasformandosi in una componente fisico-spaziale di un insieme articolato di vuoti e di pieni. L’obiettivo dell’architettura del paesaggio è di progettazione i nuovi spazi verdi in città, stabilendo strette relazioni tra città ed il suo contesto, in questo modo il parco diventa uno spazio vivo in simbiosi con la città. Secondo la paesaggista francese Dalkony “I paesaggisti spesso non conoscono la città e non capiscono l’architettura. Si direbbe che non sappiano nemmeno cosa sia la natura, dal momento che sembrano capaci solo di ridurla a praterie verdi e alberate. Invece la natura di cui devono occuparsi è altrove”. Per anni l’architettura del paesaggio all’interno delle città aveva come unico obiettivo quello di inserire la vegetazione nello spazio pubblico, ma a


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partire dagli anni ’80 in Francia i paesaggisti hanno assunto un ruolo determinante nella configurazione dello spazio urbano con architetti-paesaggisti come Desvigne & Dalnoky, Michel Corajoud, Alexandre Chemetoff, … La Francia si è quindi resa “interprete di un’architettura dello spazio aperto che a partire dalla Villette., passando per i quartieri Citröen e Bercy, ha prodotti numerosi parchi … capaci di riqualificare un tessuto edificato attraverso una forte caratterizzazione del cosiddetto spazio vuoto.2 Il dibattito stimolato dal concorso per la realizzazione del Parc de la Villette a Parigi è stato visto come una fondamentale occasione per riflettere sulla nuova definizione del parco pubblico nella città contemporanea. «… La città tradizionale, la città che la nostra cultura europea conosce maggiormente, è stata definita dal rapporto tra via urbana e costruzioni: un rapporto rigido, perdurante e sicuro. La nuova città si realizza seguendo altre regole, meno rigide perduranti e sicure: il rapporto tra strada divenuta via e costruzioni è diverso, funzionalmente rigido ma morfologicamente labile. Le tipologie presenti sono le più varie, ma sempre aperte, svincolate dalla via, con costruzioni intervallate da spazi non edificati …».3 Nelle sue continue trasformazioni la città ha genera al suo interno situazioni spaziali indefi-nite, quali i vuoti nati da progetti falliti, gli spazi interstiziali tra forme compiute, i manufatti inutilizzati, le infrastrutture obsolete e le aree abbandonate. Questi spazi sono resti, frammenti di progetti, scarti della vita della metropoli, ma sono considerato come il luogo in cui la città esprime oggi la sua creatività. “A Barcellona gli spazi pubblici si disvelano. In una soleggiata domenica di marzo come questa si possono vedere dozzine di persone, giovani e vecchie, divertirsi in una semplice terrazza alla rinnovata Placa del Països Catalans. Giocano, parlano, leggono, bevono, camminano e riposano in questo spazio esterno, talvolta esuberante, che è stato disegnato con attenzione e amore. Non per nulla Barcellona è ancora considerata l’icona della progettazione degli spazi pubblici esterni … Si può osservare che l’architettura del paesaggio e lo sviluppo urbano sono largamente provati e determinati in relazione con l’architettura”.4

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Il paesaggio come alternativa. Geometrie essenziali nella progettazione urbana contemporanea in Francia, (a cura di) F. Alberti, Alinea, Firenze, p. 69. 3 Macchi Cassia C., Il grande progetto urbano. La forma della città e i desideri dei cittadini, Carrocci, Roma, 1991, pp. 46-47. 4 H. Harsema, Suggestioni da Barcellona, Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio, Firenze University Press, n. 5, gennaio - giugno 2006, p. 42.

Il Concorso per il Parc La Villette a Parigi Il concorso internazionale per il parco de La Villette bandito nel 1983 è stato vinto dall’architetto svizzero Bernard Tschumi ed occupa lo spazio del vecchio mattatoio parigino. Il progetto è stato realizzato in linea con lo volontà di riqualificazione le aree in disuso della città e fa parte del piano di rinnovo urbano “l’aménagement de l'est de Paris”, voluta dal Consiglio Comunale parigino il 23 novembre del 1983. Il programma del concorso aveva come esplicita richiesta la realizzazione di un parco che fosse fruibile in tutte le stagioni e in tutte le ore della giornata. Per Tshumi il parco doveva essere concepito “come incontro di diverse culture che hanno il diritto di esprimersi, uno strumento culturale all'aria aperta". “La Villette ha segnato una nuova tendenza, che possiamo definire antinaturalistica … Il progetto di Bernard Tschumi è originale per la sua concezione di struttura fondata sulla decomposizione degli elemnti costruttivi classici. Invece di avere una sequenza gerarchica di percorsi e architetture, la forma del parco è definita dalla folla che in esso si muove e si sposta fra un ‘oggetto’ (folies) e l’altro. Il movimento è appena sottolineato dagli alberi che sono posti su direttrici geometriche che servono da pretesto per definire lo spazio”. La linea generatrice del progetto è basata sulla combinazione di tre sistemi, progettati singolarmente: il sistema degli oggetti, il sistema dei movimenti e il sistema degli spazi, ognuno con una propria logica, ma tra di loro sovrapposti così da rendere il parco dinamico. Bernard Tshumi, con il suo progetto, da una lettura nuova dell’architettura del paesaggio. Il primo layer (linee) è il sistema della circolazione composto da due assi principali, rettilinei e ortogonali tra loro, sottolineati da pensiline ondulate, che si intersecano e collegano gli accessi al parco. Il secondo layer (superfici) è definito dalle aree verdi grandi estensioni, destinate a prato, definite nella loro forma come spazi di risulta ottenuti dall'intersezione dei diversi percorsi. Infine le folies (punti), un sistema di punti posizionati nell'intersezione di una maglia ortogonale che si sovrappone al sito. Si tratta di piccole costruzioni, quasi delle sculture costruttiviste, chiamate folies. Si tratta, dunque, di tre sistema autonomi che se sovrapposti danno vita ad una molteplicità di combinazioni in cui ogni folies ha funzioni e forme diverse, assumendo così il ruolo di protagonista in sostituzione al verde. Si tratta di un nuovo modo di concepire il parco contemporaneo, completamente distante dal classico


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modello di parco che siamo abituati a conoscere, poiché la nuova idea compositiva si basa non più sulla progettazione del paesaggio ma sulla dinamicità considerata “l’essenza stessa dei comportamenti degli uomini”. Si tratta di un nuovo sistema di verde progettato per la città contemporanea: una città fatta di rumore, sovraffollamento, di vuoti urbani, di grandi densità, di caos. Ed è proprio da questi elementi che prende vita l’idea progettuale dell’architetto svizzero, cioè un parco che non sia più esclusivamente aree verdi e specchi d’acqua, e che non sia più fruibile solo in determinate ore e da alcune fasce sociali e di età, ed abbia al suo interno spazi culturali e funzionali assiduamente frequentati. Il parco diventa l’elemento attrattore del quartiere, il luogo in cui è possibile divertirsi, incontrarsi, apprendere, ma anche le classiche attività come il trascorrere il tempo all’aperto, passeggiare, giocare.

Il Forum 2004 di Barcellona L’evento del Forum 2004, nasce dalla precisa volontà di creare una nuova centralità urbana a Barcellona, rappresentando per la città l’occasione di uno slancio verso una nuova concezione della città contemporanea e per dare una nuova identità alla Avinguda Diagonal, attraverso la definizione di un nuovo modello urbano, aperto all’innovazione tecnologica e ai temi della sostenibilità ambientale. Il tema predominante è stato quello di riconvertire e trasformare la linea di costa, sede di attività industriali, di un inceneritore, di un impianto di depurazione e di una centrale elettrica. La riconquista del mare è stato alla base del progetto di riorganizzazione della città catalana e, di conseguenza, dell’area del Forum. Il progetto ha previsto la realizzazione di un nuovo waterfront che collega la città di Barcellona con la vicina Badalona, attraverso la realizzazione di un percorso unico che ha abbracciato la spiaggia e le aree laterali, aprendosi sulla piazza e si colleghi ai nuovi edifici quali la nuova sede universitaria ed al sistema residenziale dell’area conosciuta con il nome Ronda Litoral. Nella zona compresa tra l’Avinguda Diagonal ed il mare si è attuato un processo di trasformazione urbana, in cui oltre alla realizzazione di un parco urbano sono state predisposte anche una serie di attività con funzioni pubbliche e residenziali. All’interno, di questo progetto di trasformazione urbanistica, si inseriscono una serie di parchi: il Parc Litoral Nordeste (detto anche Parco della Pace), il Parc Litoral de Sudoeste (noto come Parco degli Auditori) e il Parc Diagonal Mar.

Il Parco Litorale Nord (detto anche Parco della Pace), è stato progettato dagli architetti Abalos & Hereros (2000-2004). Il progetto prende avvio dalla necessità di affrontare la questione ambientale e riconvertire il waterfront, creando un fascia che non sia più concepita come semplice linea di congiunzione tra terra e mare, ma sia composta da una serie di sistemi spaziali interconnessi. Per realizzare il parco l’amministrazione ha dovuto ampliare la linea di costa, costruendo una spiaggia artificiale. Il Parc Litoral de Sudoeste, opera di Alejandro Zaera, è posto alle spalle della Zona Dei Bagni di Beth Galí, caratterizzato da un percorso sul waterfront. L’area ospita due cavee per spettacoli all’aperto. Quest’area è caratterizzata da una serie di dune ricreate attraverso muri di contenimento che senza alcun tipo di interruzione nascono come risvolto o onda della pavimentazione. Il parco ha reso evidente la relazione fra superficie e architettura, comprendendo nell’architettura i consistenti movimenti di terra, la plastica del suolo e tutti i saliscendi della explanada verso il mare. L’Explanada del Fòrum, degli architetti José Antonio Martinez Lapeña ed Elìas Torres Tur, è il centro di tutto il progetto, protendendosi verso il mare. Si tratta di un sistema di rampe e terrazze, che superano un dislivello di circa dodici metri, raggiungendo la quota della spianata, cioè l’area detta il Parco degli Auditori e la zona balneare. Si tratta di una grande piazza che collega l’Avenida Diagonal al mare. Disegna un grande pachwork in cui si concentra il senso e il significato del progetto. E’ uno spazio indifferenziato e senza gerarchie, non ha una tessitura né un un orientamento prevalenti. Si presta pertanto a coinvolgere in sé tutte le preesistenze eterogenee nell’area: edifici residenziali, alberghi, centri commerciali, impianti di depurazione, persino un inceneritore. “Il collage è espressione della molteplicità disordinata di funzioni e usi del luogo. La veste cromatica del suolo allude a un carattere giocoso che fa dell’improvvisazione un tema importante e alla natura caleidoscopica che spesso connota lo spazio pubblico della metropoli contemporanea: il luogo potrà variare nel tempo in modo imprevedibile ed estemporaneo”.5 Il Parc Diagonal Mar, opera degli architetti Enric Miralles e Benedetta Tagliabue (EMBT), inaugurato nel 2002, è stato realizzato in continuità con gli edifici del Forum. La costruzione di quest’area ha portato a completamento il processo di riconversione urbana della zona. Il parco si articola intorno a una serie di percorsi che, come i rami di un 5

A. Metta, Paesaggi d’autore: Il Novecento in 120 progetti, Alinea, Firenze, 2008, p. 238.


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albero, si espandono in tutte le direzioni. Un paesaggio artificiale materializzato nei percorsi che con andamento sinuoso attraversano tutta l’area. Il parco si estende tra l’Avenida Diagonal e si collega al mare attraverso una intelaiatura di percorsi che, riproducono i rami di un grande albero, ricoprendo l’intera area e si trasformano in aree di sosta e di gioco. Il cuore del parco è un grande lago, anche questo definito da strutture metalliche leggere e sinuose – presenza assidua nell’opera dello studio catalano – costituiscono un ulteriore livello di ramificazioni e corrono liberamente a coprire i sentieri, l’acqua, la vegetazione, trasformandosi in pergole e in fontane. Benedetta Tagliabue così spiega il progetto: “I primi schizzi per il parco della Diagonal Mar sono mappe dei desideri”. I segni che indicano i percorsi diventano sentieri, modellazioni del suolo, acqua, aree di gioco. “Queste linee indicano innanzitutto il desiderio che nella città possa stabilirsi un “universo naturale”, una nuova dimensione alternativa all’ambiente urbano che rimanda alle immagini di giardini paradisiaci che dimorano nella memoria di ognuno”.6

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Ibidem, p. 214.


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I CONTENITORI DEL COMMERCIO: NONLUOGHI O SUPER-LUOGHI? Giuliano Zerillo

Tra i fenomeni più rilevanti nel campo della costruzione urbana c’è sicuramente quello di nuovi luoghi per il commercio articolati secondo la tipologia dei cosiddetti centri commerciali, grossi “contenitori del commercio”, scatole che concentrano al loro interno una moltitudine di attività commerciali di media-piccola dimensione con l’obiettivo di ridurre al minimo i tempi dell’acquisto, offrendo all’avventore una vasta scelta di prodotti con brevi spostamenti. La loro diffusione nasce e si sviluppa negli Stati Uniti dal secondo dopoguerra, negli anni ’50, quando nelle zone periurbane delle città iniziano a sorgere i mall, così venivano denominati i primi centri di aggregazione di strutture commerciali. Mall curiosamente è una parola di origine italiana e trae spunto da un gioco medievale detto Pallamaglio, l’antenato del golf, che in epoca barocca fu esportato alla corte britannica. Era dedicato alla pratica di tale gioco una larga striscia del famosissimo St. James Park di Londra e il toponimo di Pall-Mall, che identificava, con il gioco, la passeggiata tra gli alberi, evolverà in mall, identificando il percorso tra le vetrine del centro commerciale. In Italia i primi centri commerciali iniziano a svilupparsi negli anni Settanta, anche se trovano larga diffusione, soprattutto nelle regioni settentrionali, negli anni Ottanta con l’avvento di un benessere generalizzato, fornendo il luogo ideale per l’esercizio del consumismo più esagitato. Di solito i grandi centri commerciali si localizzano in aree periferiche servite da vie di comunicazione a grande scorrimento, e si presentano come delle vere e proprie città con una loro autonomia, luoghi, dove trascorrere parte di un weekend. Per questo motivo iniziano a occupare aree estese, configurandosi come unità insediative complesse, centralità periferiche, luoghi alternativi alla città, deputati alle attività di consumo e contraddistinti dalla compresenza di servizi ed attrezzature, dalla forte accessibilità viaria, dalla dimensione monumentale. Si caratterizzano per la rapida evoluzione dei modelli insediativi e dall’altrettanto rapida dismissione dei manufatti, dalla relativa autonomia tra la loro articolazione funzionale e la città costruita, spinta fino alla sottrazione delle attività tipicamente urbane, all’affiancamento e alla sostituzione del ruolo urbano del centro-città. Il fattore scatenante, alla base della loro diffusione, è il tempo; più precisamente il risparmio del tempo. E' un’esigenza diffusa che riflette quella “frenesia del vivere” che caratterizza

particolarmente la realtà suburbana statunitense, dove tutto deve avvenire con estrema rapidità e gli spostamenti con l’automobile da casa al lavoro e viceversa avvengono tramite grandi arterie che facilitano i collegamenti rapidi. Principalmente i centri commerciali nascono utilizzando come grosso attrattore un ipermercato, dal nome e dalla struttura commerciale affermata, attorno alla quale si sviluppano attività di vendita medio piccole. Nulla è lasciato al caso e tutto al loro interno è calcolato con precisione: il numero dei decibel, dei lux, la lunghezza dei percorsi, la frequenza dei luoghi di sosta, il tipo e la quantità di informazione. Tale logica ha totalmente escluso il fattore “relazionale” dell’acquisto relegandolo a un puro fenomeno di consumo, escludendo inutili sprechi di tempo, esaltando il desiderio frenetico di consumare o di accelerare le operazioni quotidiane. Ben presto da luoghi per l’acquisto veloce i centri commerciali si trasformano in luoghi dove spendere il tempo libero, includendo al loro interno una moltitudine di funzioni che hanno come collante il commercio, e la necessità dell’acquisto, in tempi brevi, lascia il posto allo shopping dai tempi lunghi. Tant’è che Victor Gruen, antesignano della progettazione di centri commerciali, scrive: ”Lo shopping è un’attività completamente diversa dall’acquistare. L'azione dell’acquistare è il risultato di uno scopo predeterminato e chiaramente definito.[…] L’attività dello shopping è affrontata con una certa assenza di scopi e generalmente con un’abbondante dose di tempo libero e un’atmosfera variabile di fonti. […] Lo shopping è diventato un tipo di vocazione professionale. […] Lo shopping, quando sia preso in seria considerazione, è un’attività che occupa molto tempo e che stanca notevolmente. Il centro commerciale che intende attrarre a sé, trattenere l'acquirente, così detto ‘professionista’, dovrà pertanto offrirgli luoghi di riposo e di ristoro”. I grandi spazi del commercio sono anche il frutto della globalizzazione, dove la loro omogeneizzazione non è vissuta con noia, assumendo anzi per il consumatore una valenza positiva. Attraverso il “franchising”, ovvero la ripetizione nelle diverse strutture di prodotti e allestimenti commerciali simili, gli utenti, godendo della sicurezza derivata dal poter trovare in qualsiasi angolo del globo la propria catena di ristoranti preferita o la medesima disposizione degli spazi di vendita, poco si preoccupano del fatto che i centri commerciali siano tutti uguali e che non si


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manifestano i caratteri definiti di una nazione e, dal momento che il cibo, l’architettura, i vestiti, la pubblicità, hanno ovunque un carattere internazionale, in essi è difficile rendersi conto in quale paese ci si trova: si è a casa ed insieme ovunque e dappertutto. Questi grandi centri per il commercio che cercano di sostituirsi funzionalmente alle città, con un’architettura tanto invadente quanto anonima, sono definiti dal sociologo francese Marc Augé nonluoghi, in contrapposizione al più classico dei luoghi, quello urbano, possedendo un carattere non relazionale, non identitario e non storico. L’individuo nel centro commerciale, secondo l’Augé, perde egli stesso tutte le sue caratteristiche identitarie e i ruoli personali per continuare ad esistere solo ed esclusivamente come cliente o fruitore. Il suo unico ruolo è quello dell’utente, ed esso è definito da un contratto più o meno tacito che si firma con l’ingresso nel nonluogo. Augè sostiene inoltre che i nonluoghi sono incentrati solamente sul presente e sono molto rappresentativi della nostra epoca, caratterizzata dalla precarietà assoluta (non solo nel campo lavorativo), dalla provvisorietà, dal transito, dal passaggio e da un individualismo solitario. Le persone, infatti, transitano nei nonluoghi, ma nessuno vi abita. In Italia, soprattutto nel Nord, i centri commerciali, nuove “piazze” extraurbane, determinando comunque la possibilità dell’incontro, di fatto stanno svuotando le città sostituendo, pur con la loro socialità alienata, i tradizionali spazi sociali, tanto da determinare la chiusura dei vecchi negozi del centro, privi di affari, che lasciano spazio ai soli uffici amministrativi sino alla eliminazione del tradizionale passeggio sul corso. Una ricerca effettuata, proprio nel nostro paese, su un vasto campione di studenti delle scuole superiori (Lazzari & Jacono, 2010) ha mostrato come i centri commerciali siano uno dei punti di ritrovo d’elezione per gli adolescenti, che li pongono al terzo posto delle proprie preferenze d’incontro dopo casa e bar. Secondo Marco Lazzari i “nativi digitali” sono nativi anche rispetto ai centri commerciali, nel senso che non li percepiscono come una cosa altra da sé: sfuggendo le analisi sui nonluoghi e ogni snobismo intellettuale, i ragazzi sentono il centro commerciale come un luogo vero e proprio, di frequentazione non casuale e non orientata soltanto all’acquisto, dove si può esprimere la socialità, incontrare gli amici e praticare con loro attività divertenti e interessanti. In epoca recente lo stesso Augé, in effetti, ha successivamente convenuto che “qualche forma di legame sociale può emergere ovunque: i giovani che s’incontrano regolarmente in un ipermercato, per esempio, possono fare di esso un punto d’incontro e

inventarsi così un luogo”. Secondo questo stesso studioso del resto il concetto di nonluogo non deve essere inteso in senso assoluto, dal momento che il luogo di qualcuno può essere il nonluogo di un altro e viceversa, ed anzi anche gli spazi virtuali di comunicazione, come gli attuali social network, che permettono alle persone di scambiarsi messaggi, contenuti, relazioni, non possono facilmente essere definiti nonluoghi. E’ innegabile oltretutto che gli attuali grandi spazi del commercio siano diventati importanti snodi territoriali, anche sul piano sociale, essendo molto frequentati, in gruppo e in famiglia, per passarvi intere giornate. Gli stessi contenitori, dopo aver cercato di miscelare i luoghi tipici urbani all’interno di una scatola, hanno fatto evolvere il desiderio di emulazione della città in una nuova forma della vendita in ambienti definiti fashion district o più volgarmente outlet. Gli outlet sono grandi spazi per il commercio di prodotti di marca venduti a prezzi notevolmente convenienti perché fuori produzione. La differenza sostanziale tra centro commerciale ed outlet consiste sia nel tipo di vendita sia nel tipo di architettura che li contraddistingue, infatti nei primi c’è comunque una ricerca formale e di marketing ed un tentativo di creare un luogo “nuovo” e concentrato, compositivamente appetibile, negli outlet c’è invece un forzato tentativo di imitare borghi e città esistenti, come è ad esempio per l’outlet di Barberino del Mugello, vicino Firenze, che tenta di imitare un borgo rinascimentale toscano. Il primo outlet in Italia risale al 2000, in epoca abbastanza recente, e si tratta del Designer outlet di Serravalle Scrivia in provincia di Alessandria. Il prototipo di Serravalle è il più grande d’Europa, si estende su quasi quattro ettari e, indipendentemente dal fatto che è situato in Piemonte, simula l’architettura di un centro storico veneto, con la piazza e le barchesse, dove gli edifici dalle alte arcate simili a quelle delle ville del Brenta sono adibiti a rimesse e depositi alimentari. La riproduzione, il kitsch, l’assemblaggio di stili – il finto borgo medievale, la finta Roma antica, la finta città rinascimentale, il finto country – sono la cifra di tutti gli outlet italiani, ormai alcune decine, senza contare quelli in progettazione, e ad essi si accostano masse sempre più ampie di visitatori, non sempre acquirenti. L’outlet piemontese, ad esempio, è visitato da tre milioni di persone ogni anno, più degli scavi di Pompei. Questa alta presenza di masse che utilizzano i luoghi del commercio in termini urbani può ulteriormente far sostenere la trasformazione dei nonluoghi commerciali addirittura in super-luoghi, essendo essi, almeno in parte, spazi di scambio


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sociale, spazi cioè prediletti per l’interazione sociale tipica della città, sia pure nell’ottica del consumo, dato che si tratta sempre di realtà strettamente dipendenti dai consumi. Stazioni ferroviarie, aeroporti, ma soprattutto centri commerciali e outlet hanno perso da tempo le caratteristiche di contenitore anonimo e senza identità, di zona vuota di senso e di storia, e si sono trasformati in oggetti architettonici che dominano il territorio in cui sorgono, invadono il paesaggio, spesso lo aggrediscono. Questo passaggio di stato è avvenuto nel corso del tempo, attraverso generazioni diverse, attraverso trasformazioni che riguardano anche l’architettura, l’urbanistica, la sociologia urbana e il vasto mondo della tutela, in particolar modo del paesaggio. Ancora l’Augè ritiene la realtà dei super-luoghi diversa dalla periferia tradizionale, “perché da un certo punto di vista i super-luoghi sono i nuovi centri della città allargata. Sono il sintomo dell’estensione del tessuto urbano che caratterizza la crescente urbanizzazione del mondo. L’architettura è quasi sempre poco curata e caratterizzata soprattutto dal kitsch e dall’imitazione, per creare l´illusione della città o del villaggio. In futuro gli sforzi per un’architettura più originale diventeranno

forse più marcati, magari dando luogo a una nuova estetica modernamente barocca”. Appare lecito chiedersi se i super-luoghi siano in qualche modo delle nuove città e a tal proposito la risposta è certamente negativa dal momento che essi appaiono come luoghi che ripropongono gli aspetti formali della città, ma di fatto realizzano un concetto di vita nuovo, concentrato esclusivamente nell’aspetto commerciale e speculativo. Per Vittorio Gregotti essi costituiscono anzi proprio l’anti-città, con un “insensato consumo del bene finito del territorio”, e “costi infrastrutturali molto alti” che si è ribaltata “sulla stessa città consolidata con risultati grotteschi, ma purtroppo permanenti”, mentre in termini analoghi Giancarlo Consonni sostiene che i super-luoghi commerciali rappresentino e siano di fatto “una rinuncia alla città”, sintomo evidente del suo annichilimento: “ancora mezzo secolo fa il mondo umanizzato era fatto di luoghi e di paesaggi concepiti per accogliere la vita individuale e sociale: teatri che avevano il carattere di interni a cielo aperto. Questa condizione è ora progressivamente erosa. E per mitigare l’inospitalità dei contesti metropolitani si predispongono dei simil-luoghi e delle simil-città. Quel che basta per dare una parvenza di libertà alla simil-vita”.


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ALCUNE RIFLESSIONI SUL TEMA DELLA GRANDE DIMENSIONE IN ARCHITETTURA Claudio Roseti

In questa nota si vogliono analizzare sinteticamente nei limiti concessi in questa sede l’ideologia, i presupposti e le forme di applicazione inerenti il recente rilancio della Grande Dimensione in architettura attraverso l’operato del suo principale fautore entro un parallelo a livello tipologico con le architetture di dimensione contenuta con attenzione verso gli aspetti linguistico-formali. Storia Uno è fondamentalmente il movente e il catalizzatore della prassi della Grande Dimensione in Architettura ed è il Potere nelle sue varie forme: politico, religioso, economico, culturale rappresentato nelle relative espressioni a partire dalle piramidi egizie, tombe e monumenti al tempo stesso, compimento del paradigma loosiano. La Grande Dimensione non ha mai cessato di orientare e caratterizzare l’Architettura. Dai templi e i teatri greci, agli archi di trionfo romani, al Colosseo, alle cinte murarie, alle cattedrali gotiche, alle cupole rinascimentali da S. Maria del Fiore a S. Pietro, all’Illuminismo che, per reazione all’irrazionalismo barocco, riprese e ricompose l’architettura classica che deviò poi nel più fantasioso e poliedrico eclettismo. Ma dalla fine ’800 le aspresioni architettoniche vanno sempre più perseguendo le scelte determinate dalla spinta del potere economico che sono riscontrabili nelle Esposizioni universali di Londra, col Crystal Palace di John Paxton, e di Parigi con la Tour Eiffel, primato storico imbattuto anche sul piano del simbolismo estetico e della gara verso il cielo iniziata alla fine ’800 nei downtown nordamericani e tuttora in pieno svolgimento. E’ di pochissimo tempo fa infatti la notizia dell’abbattimento del record assoluto di altezza raggiunto a Dubai con gli oltre 800 metri dal grattacielo realizzato in pochi anni dagli Emirati Arabi, testimonianza e vanto dell’affermazione delle economie asiatiche nei confronti di quelle occidentali ormai da diverso tempo in piena crisi. Ma ritornando agli inizi del XX secolo si deve rilevare che anche il migliore Movimento Moderno non ha rinunciato ad usare la forza della grandeur architettonica esemplificata dall’Unité d’Habitation (1947-52) realizzata da Le Corbusier a Marsiglia mentre negli USA sorgono i grattacieli di Gropius e Mies van der Rohe che incentivano l’avanzamento di questa tipologia di cui si è poi popolata Manhattan dando luogo al conseguente “manhattanismo” ovvero il culto dello skyscraper nordamericano. Negli anni ’60 la corrente del new brutalism, oltre a

decretare l’uso totalizzante del cemento facciavista, promuove utopie urbane come il Piano per Tokyo ad opera di Kenzo Tange, il maggiore esponente, che realizza altri grandiosi progetti in tutto il mondo; riguardo tale tendenza è riscontrabile una partecipazione italiana, praticata a livello linguistico-formale più che dimensionale, i cui rappresentanti sono stati Leonardo Ricci e Leonardo Savioli docenti della scuola fiorentina 1. In Italia oggi, a parte le utopie di Archizoom e Superstudio che non hanno avuto gran seguito e sono rimaste quali manifesti, la Grande Dimensione è quella eterogenea della città diffusa in cui è da comprendere il famoso Corviale, un chilometro di edilizia abitativa sovvenzionata il cui esito non è stato però molto soddisfacente. In questo contesto, dove la bigness è diventata espressione di una molteplicità di poteri, si collocano i ben noti studi di Rem Koolhaas (la cui opera è, tutto sommato, l’oggetto principale di questo studio) una delle più significative archistar del panorama mondiale che ha rilanciato la bigness quale figura rappresentativa dell’attuale temperie che è stata compresa entro una revisione decostruzionista dell’architettura attuale attraverso una serie di trasformazioni radicali che chiamano in causa il mai del tutto risolto rapporto architettura/urbanistica. Principi e caratteristiche fondamentali Rem Koolhaas è stato uno degli architetti “decostruttivisti” espositori al MoMA di New York nella famosa mostra Deconstructivist Architecture del 1988, ma di fatto è sempre stato un decostruzionista e può essere collocato, con Eisenman e Libeskind, tra coloro che teorizzano, che scrivono, praticano la progettazione come ricerca. E nella sua non trascurabile produzione scientifica spiccano il famoso Delirious New York del 1978 che ha venduto 28.000 copie e l’altrettanto famoso S,M,L,XL del 1995, un testo bigness anche nell’edizione contando 1.346 pp. in formato A3, che di copie ne ha vendute ben 140.000. Rem Koolhaas quindi si può considerare un decostruzionista tra i decostruttivisti2 anche senza 1

Di ambedue i docenti sono stato allievo laureandomi poi con lo stesso Savioli nel ’69. 2 Particolare importante per chi scrive che da quindici anni si occupa di questa tematica cui pertengono due pubblicazioni: C. Roseti, La decostruzione e il decostruttivismo. Pensiero e forma dell’architettura, Roma, Gangemi Editore, 1997, e C. Roseti, La decostruzione e il


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che lui stesso debba professarlo espressamente, giacché è il suo comportamento che denuncia la corrispondenza con la filosofia derridiana nel relativo rapporto con l’architettura. E’ noto infatti l’enunciato di Derrida il quale puntualizza che la decostruzione “accade, non attende la determinazione del soggetto” ed infatti un esprit decostruzionista è sistematicamente identificabile pressoché in tutte le sue concezioni e nelle sue iniziative a partire dal gusto per il paradosso unito ad uno spirito destabilizzante, “contestatario” per dirla col ’68, a cui Koolhaas ha partecipato, il tutto cosparso da una ben collocata ironia.3 In realtà Koolhaas non teorizza su Derrida ma attua la decostruzione architettonica in forma diretta e palese come nell’assai nota Villa Dall’Ava, realizzata a Parigi nel 1991, dove la decostruzione è riconoscibile a partire dalla desemantizzazione dei pilastrini tipo “Mikado” la cui “ridondanza sintattica” (Eisenman) ne destabilizza la funzione statica, ed anche nella contaminazione di temi e spunti presi tra Mies van der Rohe e Le Corbusier secondo la logica dell’inclusione, dell’ibridazione, del collage. Così scrive Prestinenza Puglisi, che riconosce acutamente (e appropriatamente, cosa rara, perché i più usano i due termini indifferentemente, come sinonimi) gli aspetti decostruzionisti di Rem Koolhaas e nel commento alla Kunsthal di Rotterdam (opera del 1993) afferma: “Vista da questo punto di vista, la Kunsthal potrebbe apparire come un saggio di Derrida, un brano di raffinata scrittura critica in cui i due corni di una contraddizione sono messi a confronto, fatti convivere e scontrare.” “Il risultato finale, comunque, nonostante la fumosità intellettualistica di certi assunti, avrebbe avuto un impatto notevole e, insieme, sarebbe stato la testimonianza della ricerca di una nuova spazialità: contorta, complessa, disturbata, moderna. Una sorta di manierismo decostruttivista di rito francese, rivolto a sondare la dialettica fra libertà e cos trizione, tra forme ed eventi.”4 E precisa più approfonditamente Prestinenza Puglisi collocando Koolhaas nell’ambito degli altri espositori del MoMA: “Se Koolhaas è decostruzionista, lo è nello stesso modo in cui il platonico Mies van der Rohe è stato un modernista: per rispondere a un’impellente necessità

decostruttivismo vent’anni dopo. Bilancio critico e prospettive, Reggio Calabria, Edizione CSd’A, 2007. 3 Bisogna anche tener presente che Rem Koolhaas ha insegnato all’Architectural Association di Londra, così come sono professori universitari Peter Eisenman, Daniel Libeskind e Bernard Tschumi mentre Frank Gehry e Zaha Hadid a quanto si legge sono stati episodicamente “chiamati” a svolgere dei corsi. 4 L. Prestinenza Puglisi, Rem Koolhaas. Trasparenze metropolitane, Testo &Immagine, n. 14 , 1997, pp. 18-19.

storica, per dar forma a una laica religiosità dell’intelletto”. Koolhaas infatti registra con spirito laico e con disincanto la perdita di ideali dell’architettura contemporanea già rileggibile nella struttura del suo ultimo trattato basato sulla bigness dove la sua produzione per un ventennio di attività è suddivisa, per l’appunto, in categorie semplicemente dimensionali mentre, come vedremo qui di seguito, le sue formulazioni sulla Grande Dimensione (e non) risultano per lo più collocabili nell’ambito del pensiero derridiano ovvero con questo corrispondenti. Con uguale disincanto rinuncia alla ricerca di un recupero di unitarietà della città attuale, in realtà pressoché impraticabile, di cui vengono invece assunte la frammentazione, la temporalità destrutturata, diversificata e ibridata dove l’interconnessione è data prevalentemente dalle reti che contribuiscono alla globalizzazione e che, a giudizio di Koolhaas, è vano cercare di esorcizzare e andrebbe piuttosto accettata, assunta e teorizzata. Lo studio sulla bigness si basa sulla decostruzione dei principi del Movimento Moderno, tuttora operanti, fondati sulla necessità ineludibile di perseguire una logica unitaria basata sull’interrelazione inescludibile tra “composizione=struttura=ordine=progresso” in una temperie in cui ciò non appare più praticabile e quindi col risultato di una impossibilità di scegliere e di procedere. L’alternativa proposta da Koolhaas è implicita nella sua bigness ed è quella dell’elenco che demolisce lo strutturalismo e annulla la gerarchia, già parte delle fondamentali “invarianti” derridiane. In tal senso la città diviene una sommatoria di parti non concepite come tessuto “ma come una semplice coesistenza, una serie di relazioni tra gli oggetti non più articolati in base a relazioni visuali o formali, o strutturati da interconnessioni architettoniche”5, parti situate entro uno spazio di cui Rem Koolhaas dichiara la “amoralità”, nella mancanza voluta di un ordine, una gerarchia, una struttura preordinata, ma è anche enunciata la sperimentalità da espletare nella direzione suggerita dall’andamento ormai acquisito dalle parti stesse che incredibilmente, per la maggioranza in sé mediocri, una volta assemblate in maniera agerarchica e neutrale si arricchiscono sinergicamente e vanno a formare un significativo e apprezzabile comparto di Architettura urbana. Tale accorpamento si può considerare indipendente dall’urbanistica come dall’architettura per la sua unitarietà e autonomia e per il relativo calibro. Tale genere di intervento riguarderebbe in prevalenza i centri commerciali, gli aeroporti o i downtown dotati di grattacieli, tra i principali ambiti di sperimentazione della Grande Dimensione. 5

Ibidem, p. 20.


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Interessando tali specifiche categorie e per la sua posizione intermedia tra urbanistica e architettura, la Grande Dimensione appare aperta a nuove spazialità per le quali Rem Koolhaas indica cinque possibilità di sperimentazione. In primo luogo vi è l’“autonomia non frammentata delle parti” che restano sempre legate tra loro. Vi è poi l’unificazione dei vari livelli in verticale (e anche in orizzontale) grazie a veloci ascensori e tappeti mobili interni che annullano le distanze. Koolhaas aggiunge inoltre la decostruzione della dialettica interno/esterno essendo il primo talmente vasto da rendere autonomo il secondo che, non più esposto a trasparenze, si carica di una sorta di fascino interiore. E’ segnalato infine il predominio della quantità sulla qualità che si impone “con il suo stesso esistere”. Per i motivi suesposti analogamente la Grande Dimensione prescinde dal tessuto edilizio e dalla sua struttura rispetto alle quali coesiste in autonomia. La complessità e la portata dei fattori elencati, afferma tuttavia Koolhaas, postulano la collocazione di questi enunciati entro una teoria di cui denuncia la carenza attuale e, a tal proposito, afferma: “La grande dimensione è il territorio teorico di questa fine secolo: in un paesaggio di disordine, dissociazione, smembramento e rifiuto, la sua attrattiva sta nella possibilità di ricostruire l’unita, di far risorgere il reale, reinventare il collettivo e rivendicare il massimo di possibilità.”6 “Superata una certa scala, l’architettura assume la peculiarità della Grande Dimensione” “è l’architettura estrema” “proliferazione eterogenea di eventi in unico contenitore”7, all’interno del quale si moltiplicherebbero eventi complessi (che si possono riferire all’ibridazione decostruzionista) al punto di sfuggire alle regole della composizione tradizionale addensandosi in accumulazioni secondo i principi della bigness. “In altri termini, concepiamo il progetto come una strategia piuttosto che come un design: si tratta perciò di trarre il miglior partito dall’impianto efficace ed esplosivo di un certo numero di attrezzature e di offrire al tempo stesso un’esperienza estetica (relativamente) stabile. Alla base del concetto formale, il principio di indeterminatezza programmatica autorizza ogni tipo di mutazione, modifica o sostituzione, senza tuttavia inficiare

l’ipotesi di partenza”8 realizzando delle cose di tipo neutrale ma in maniera “intelligente” e con “relativa eleganza”. Rem Koolhaas pur sostituendo alle ideologie il pragmatismo rifiuta comunque il funzionalismo, quale rapporto lineare tra causa ed effetto, cui oppone l’indeterminazione per lasciare spazio alla successiva e più cosciente integrazione mentre il programma riporta al pragmatismo e all’accumulazione. Le opere Un primo livello di bigness Koolhaas la raggiunge con il vasto Complesso di Euralille, sia pure come coincarico, derivato da un concorso a inviti, con Jean Nouvel, Claude Vasconi, Christian de Portzamparc. Su 120 ettari complessivi sono posti, oltre alla stazione del Tgv, 52.000 metri quadrati di centro commerciale con cento negozi, ipermercato, servizi di ristoro e tempo libero, e tre torri, una sede del Crédit Lyonnais, una del Sea Trade Center e l’altra con un hotel di duecento stanze. Ma Koolhaas successivamente compie il coronamento della bigness con la CCTV Television Station and Headquarters (Beijing, China, 2002-08) un edificio estremamente vasto e complesso che ospita una stazione televisiva con annessi che impegna diecimila persone (una città). Questo notevole prodotto della creatività koolhaasiana non ha una collocazione tipologica e decostruzionisticamente “è e non è” (Derrida) un grattacielo e un volume orizzontale9; un riscontro si può avere nel “L cube” realizzato da Eisenman nel periodo delle Houses in ordine al quale la definizione geometrica deriverebbe per sottrazione parziale di volume da una forma cubica che è la più accreditabile perché un procedimento di giustapposizioni e giunzioni non renderebbe giustizia alla plastica unitaria complessiva dove si attua un’efficace e apprezzabile continuità che è la componente più significativa di quest’architettura di tipo geometricamente complesso. In effetti un volume di queste proporzioni “fa” da solo la città specie se, come in questo caso, non è soggetto ad una concorrenza apprezzabile da parte dell’ambiente in cui si colloca data la media costruttiva del contesto che anzi viene messo fuori scala, esautorato da questa nuova presenza che non dialoga

Museo d’Arte dell’Università nazionale, OMA/Rem Koolhaas Seul, (Corea), 19992005.

UFA Cinema Palace, Coop Himmelb(l)au, Dresda (Germania), 1993-98.

8

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Ibidem, p. 22. 7 R. Koolhaas, “Bigness, or the problem of large”, in OMA-Rem Koolhaas, X,M,L,XL, New York, the Monacelli Press, 1995, citato in: F. Bilò (a cura di), Rem Koolhaas. Antologia di testi su Bigness. Progetto e complessità artificiale. Roma, Edizioni Kappa, 2006, p. 18.

OMA-Rem Koolhaas, Parco della Villette, Parigi 198283, in J. Lucan, OMA. Rem Koolhaas, Electa, Milano, 1991, p. 86. 9 E su tale aspetto vi sono diversi studi critici a partire da un saggio di Pierluigi Nicolin su “Lotus” n. 123 seguito da vari altri a cui rimando in questa sede in cui ci si deve limitare alle osservazioni inerenti il tema di base per cui si è prodotto questo studio.

CCTV Television Station and Headquarters, OMA/R. Koolhas, Beijing (China), 2002-08 .


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col contesto ma si impone autocontestualizzandosi confermando in tal modo le teorie di Koolhaas sulla bigness. La Casa della Musica realizzata ad Oporto (19992005) e la Biblioteca di Seattle (1999-2004) saranno analizzate più approfonditamente qui di seguito offrendo maggiore spunto allo svolgimento della presente ricerca. Il primo edificio è riferibile al più recente atteggiamento progettuale di Koolhaas che appare orientato verso volumi compatti originariamente definibili secondo geometrie elementari, dove le superfici componenti assumono poi diverse inclinazioni, con aggetti e scavi, dando luogo a una sorta di prisma irregolare composto da superfici variamente inclinate. Per questo edificio Koolhaas esclude il centro urbano di Oporto e sceglie una zona esterna più libera dove crea una piazza quale complemento e spazio di risonanza dell’edificio e di ciò che contiene. L’auditorium principale è denunciato da una grande apertura vetrata mentre al colmo un’altra vetrata apre la visuale del ristorante posto all’ultimo livello di questo volume che, nel suo complesso, per la prevalente chiusura, appare un po’ distaccato, quasi ostile verso il contesto. La Biblioteca di Seattle, macrointervento ottenèto per concorso in cui l’OMA supera Norman Foster, Steven Holl, Cesar Pelli, ripercorre per certi versi la geometria dell’edificio di Oporto ma la prevalenza della curtain wall dotata di una texture romboidale, il basamento controbilanciato dal volume prismatico triangolare di coronamento e la maggiore complessità geometrica la differenziano dalla Casa della Musica portoghese pur avendo in comune la tipologia volumetrica a blocco articolato e variegato. L’interno è inoltre informato ad una complessità innovativa data inoltre dalla Book Spiral che attraversa gli undici piani suddivisi in cinque piattaforme. La spirale inoltre contribuisce notevolmente all’articolazione estremamente dinamica e variata dello spazio interno reso continuo da tale componente che è coronata dalla quinta piattaforma contenente le sale riunioni sospese nell’insieme. Estremamente attraenti e accattivanti sono infine i percorsi perimetrali vetrati, una sorta di promenade con le relative zone di sosta, il verde ed un’ampia visuale verso l’esterno. La critica In un sintetico bilancio sugli enunciati e le formulazioni espresse da Rem Koolhaas in tale contesto risulta evidente una marcata sfiducia nell’attuale rapporto architettura/urbanistica dove il contraltare offerto dall’OMA rischia tuttavia di scadere nel puro arbitrio a fronte della mancanza di una teoria specifica nel campo, carenza peraltro ripetutamente rilevata da Koolhaas. L’atteggiamento antistrutturalista e di rifiuto delle vecchie regole,

unito a un’istanza di rinnovamento anche ibridato, ha origine, come la quasi totalità degli enunciati e delle formulazioni di Koolhaas, nella decostruzione derridiana. Sconcerta un po’ l’imposizione qualitativa scaturita da un dato quantitativo mentre positivi appaiono l’unificazione e il riordino urbano attuati passando di scala nelle componenti elementari che, ridotte di numero, si renderebbero meglio gestibili anche se si dovrebbe ridurre il tutto ad una coesistenza priva di relazioni interne e ad un assemblaggio in forma di elenco. La Biblioteca di Seattle, se pure molto diversa dall’edificio di Oporto già per la collocazione in pieno centro in un isolato con vincoli di preesistenze, ed anche per la complessa articolazione del volume giocato su aggetti molto pronunciati fa tuttavia rilevare alcune affinità a partire dall’inclinazione verso l’interno di un lato del basamento (mentre gli altri due allargano) con la conseguente riduzione delle pareti perimetrali relative all’attacco a terra che in tal modo va ad assimilare quello di Oporto. Molto diversa è la tamponatura esterna costituita da una curtain wall a maglia romboidale comune a tutto l’edificio, sia nelle parti vetrate che tamponate che libere a formare degli spazi porticati al piano terra. I due interventi a Seattle e ad Oporto possono ritenersi quindi esemplificazioni di una tipologia di architettura bigness ed esprimono, con il volume variegato geometricamente, ma in sé compatto, quella compiutezza e quell’unitarietà geometricospaziale ascrivibili alla grande dimensione. La Biblioteca ha in comune con la Casa della Musica la volumetria “a blocco” che Rem Koolhaas ha saputo gestire architettonicamente creando un’alternanza di aggetti triangolari e trapezi, di piani inclinati con un gioco sapiente di superfici rapportate con lo spazio interno che è organizzato dalla strutturante book spiral. La Casa della Musica è caratterizzata da una pianta di forma pentagonale con un vertice smussato dove le sezioni e i profili hanno una forma esagonale il cui raccordo si attua attraverso una serie di piani inclinati con il risultato di una complessiva convessità. Tale forma si può ipotizzare come una tipologia dal volume ovoidale dove sezionando orizzontalmente la parte rastremata l’attacco a terra si restringe, mentre la maggiore superficie di pianta si ha in mezzeria con la massima ampiezza del corpo di fabbrica. Un approfondimento sui principi seguiti nella progettazione è rileggibile nella relazione di OMA che accompagna la pubblicazione su “Casabella” n. 721 di cui si riporta uno stralcio: “Considerando l’edificio come una massa solida da cui eliminare le due sale da concerto e altre strutture pubbliche, nel

Biblioteca Centrale di Seattle, OMA/R. Koolhaas, Washington (USA), 1999-2004.

Biblioteca Centrale di Seattle, OMA/R. Koolhaas, Washington (USA), 1999-2004.

Casa della Musica, OMA/R. Koolhaas, Oporto (Portogallo), 1999-2005.

Casa della Musica, OMA/R. Koolhaas, Oporto (Portogallo), 1999-2005.


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progetto si propone un blocco scavato in grado di suscitare emozioni sia in chi lo osserva dall’esterno sia in chi vi si trovi all’interno. L’edificio rivela il suo contenuto senza essere didattico e nello stesso tempo mette in mostra la città come non era mai accaduto prima. Suddividendo il programma in spazi collettivi e aree secondarie di servizio – circolazione verticale, impianti tecnici, uffici, depositi, ecc. – l’edificio è al contempo chiaro e misterioso: il diagramma è diventato un’avventura architettonica.”10 La Biblioteca di Seattle ha in comune con la Casa della Musica la volumetria a blocco dove è riconoscibile la strategia delle scelte architettoniche adottate superando il condizionamento del lotto assegnato, un isolato semicostruito in pieno centro urbano limitato per un lato e con ovvie necessità di sfruttamento del volume realizzabile, Rem Koolhaas ha risolto comunque il tutto molto elegantemente, da par suo, attraverso una forma opportunamente articolata che è quanto interessa maggiormente in questa sede unitamente alla tipizzabilità dei caratteri architettonici, più che la Grande Dimensione come quantità e superficie in sé stessa. Le conformazioni sopradescritte sono rinvenibili anche con maggiore frequenza nell’edilizia abitativa riportata a raffronto qui di seguito dove le minori dimensioni hanno conseguito la produzione di caratteri ingentiliti e ugualmente attraenti. Si segnalano pertanto senza troppi commenti, dato lo spazio disponibile: la Casa monofamiliare progettata da Satoshi Okada a Kanwasaki (Giappone) (2005-06) dove una parte del volume è dislocato attraverso le vetrate con un particolare sdoppiamento che attua un surplus di articolazione; la Refraction House realizzata ad Anjio-Aichi in Giappone su progetto di Amorphe e K. S. Takeyama nel 2000 che, al contrario, è caratterizzata da volumi corposi e introversi con un contenimento notevole delle aperture; la Cappella progettata da J. C. Osinaga e S. M. Fernandez realizzata a Valleaceron (Spagna) nel 2000, le cui elevate qualità architettoniche mancano forse di un pur minimo quoziente di simbolismo e di una qualche metafora che riveli l’importante funzione religiosa. E il complessivo raffronto tra queste architetture di entità ridotta con quella precedentemente analizzata consegue una risultanza del tutto paritetica se non a favore di queste ultime con legittima soddisfazione dei cultori dell’“architettura piccola”11; proseguendo nel confronto si cita poi Le Manege Theatre (2002-06) a Mons, (Belgio) progettato da P. Hebbelinck e P. de

Witt, dalla sezione parzialmente identica a quella della Biblioteca di Seattle, peraltro frequente in servizi di questo genere, ma con una trasparenza forse eccessiva data anche la funzione, ma tutto sommato vi è una notevole affinità con un’architettura dell’OMA del 2005 di forma analoga ugualmente in gran parte vetrata che è però un Museo d’Arte dell’Università nazionale di Seul in Corea. In altri due casi le forme psudolitoidi sembrano scaturire dal suolo come nell’UFA Cinema Palace a Dresda progettato dai decostruttivisti Coop Himmelb(l)au (1993-98), mentre nel progetto del decostruzionista12 Daniel Libeskind per l’Ampliamento del ROM-Royal Ontario Museum (2002-07) a Toronto, Ontario (Canada) sembrano piuttosto essersi conficcati nel terreno precipitando da alta quota. Per tutti e due gli esempi le forme molto dinamiche dei volumi, più massicci nel primo, più taglienti nel secondo, suggeriscono le due opposte origini metaforicamente ipotizzate. In un sintetico parallelo con le architetture di Koolhaas qui presentate appare evidente la relazione tipologica dove il livello di complessità e di qualificazione architettonica di tali esempi risulta in grado di sostenere il confronto effettuato in questa sede. Da questa pur breve analisi si deduce che la ratifica di una tipologia non è facile da comprovare documentatamente soprattutto perché le miriadi di poetiche individuali, e la decostruzione di molte regole formali, estetiche e costruttive, hanno fatto decadere da tempo la validità dei parametri e delle categorie tipologiche che restano identificabili prevalentemente per fini analitici in ricerche individuali. In ogni ricerca tuttavia il giudizio, la scelta e l’analisi da cui deriverà la conseguente classificazione (che resta sempre un fatto personale perché un’oggettività assoluta non può esistere) restano comunque un’operazione indispensabile quale categorizzazione fondamentale da porre alla base della ricerca stessa che da Le Corbusier in poi (la recherche patiente) fa parte di ogni sperimentazione progettuale. Per un’Architettura che sia degna di questo nome.

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R. Koolhaas, OMA, “Casa da musica”, in “Casabella” n. 721, p. 37. 11 Cfr. L’architettura ‘piccola’, di A. De Martini, in “Op.cit.” n. 115, 2002.

Su D. Libeskind e Coop Himmelb(l)au cfr. nel libro già citato di C. Roseti La decostruzione e il decostruttivismo vent’anni dopo. Bilancio critico e prospettive i paragrafi del capitolo VII dedicati a questi architetti.

Casa monofamiliare, S. Okada, Kanwasaki (Giappone), 2005-06.

Ampliamento del ROM-Royal Ontario Museum, SDL-Studio D. Libeskind. Toronto, Ontario, (Canada), 2002-07.

Ampliamento del ROM-Royal Ontario Museum, SDL-Studio D. Libeskind. Toronto, Ontario, (Canada), 2002-07.


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base della ricerca stessa che da Le Corbusier in poi (la recherche patiente) fa parte di ogni sperimentazione progettuale. Per un’Architettura che sia degna di questo nome.



C. De Seta La città europea; Origini, sviluppo e crisi della civiltà urbana in età moderna e contemporanea Il Saggiatore, Milano 2010

concorsi; mancano i pannelli fotovoltaici e le facciate ventilate; mancano le architetture neovernacolari; mancano i contributi di Kenneth Frampton, Peter Eisenmann, Franco Purini, Franco La Cecla, Saskia Sassen, Stefano Boeri, Luca Molinari, Marco Casamonti; manca un’intervista a Renzo Piano; manca un’intervista a Massimo Cacciari; manca la recensione all’ultimo libro di Vittorio Gregotti; mancano le ville con piscina in Polonia e in Portogallo; manca l’architettura d’interni; manca l’architettura del paesaggio; mancano i caratteri tipologici e distributivi degli edifici; manca la museografia; manca la domotica; manca l’architettura digitale; manca il disegno di architettura; manca Massimo Scolari – e l’elenco potrebbe continuare ancora a lungo. Tutte queste cose semplicemente mancano, e non vi è alcuna giustificazione per la loro assenza.

La civiltà in cui viviamo è per definizione una civiltà urbana, ma è a partire dal XV secolo che si sviluppa una ricca trattatistica volta a progettare la crescita e la trasformazione dell’organismo urbano. Da Leon Battista Alberti in poi sociologi, filosofi, architetti e umanisti hanno riflettuto su questo tema, ciascuno nel proprio ambito di competenza. Integrando tutti questi aspetti in un’innovativa ottica pluridisciplinare, Cesare De Seta ha dato vita, in vent’anni di studi, alla nuova disciplina della storia urbana. Un testo che spazia dall’ideologia delle città ideali, virtuali e reali del Rinascimento, ai problemi della realtà urbana nella società industriale e post-industriale, fino alla ricostruzione dopo la Grande Guerra.

M. Ferraris Ricostruire la decostruzione Bompiani, Milano 2010

GIZMO, MMX a cura di M. Biraghi, G. Lo Ricco, S. Micheli Zandonai, Rovereto 2010 Dalla Premessa. In questo libro mancano molte cose: mancano le ultime opere di Frank O. Gehry, Richard Meier, Steven Holl, Peter Zumthor, Paulo Mendes da Rocha, Alvaro Siza, Rafael Moneo, Antòn GarciaAbril, Valerio Olgiati, Cino Zucchi; manca la 12. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia; mancano Dubai, Mumbai, Lagos, Las Vegas, Seattle, Chicago, Rio de Janeiro, Buenos Aires, Barcellona, Lisbona, Rotterdam, Parigi, Tokyo, Sidney; manca la questione degli indici di edificabilità; manca l’analisi del PGT di Milano; manca il G8 alla Maddalena; manca la discussione del DDL 1905 sull’università; manca la ricostruzione del sistema gelatinoso dei

Il passaggio dal vecchio al nuovo secolo ha visto le promesse di liberazione del postmoderno trasformarsi nel populismo mediatico. E ciò che lega le teorie dei postmoderni alle pratiche dei populisti è il principio secondo cui non ce un reale “là fuori”, ma solo un gioco di interpretazioni e manipolazioni che fanno sparire di scena il mondo vero. La posta in gioco non è solo la verità, ma anche la giustizia. Negli ultimi anni della sua riflessione Jacques Derrida (1930-2004) era solito ripetere che la giustizia è l’indecostruibile, intendendo con questo che tutto lo smontare, lo smascherare, il decostruire, appunto, era animato da un intento di giustizia. E al tempo stesso intendeva che tutta l’attività di smontaggio non poteva spingersi sino a toccare la giustizia, come nel cinismo che dice che dietro alla richiesta di giustizia ci sono altri argomenti, meno puliti e confessabili. La tesi di fondo di questo libro, che propone una ripresa autonoma e originale dell’eredità derridiana, consiste nel fornire una versione realista della decostruzione. Proprio perché c’è un mondo solido e impermeabile alle nostre manipolazioni e interpretazioni, ci possono essere verità e giustizia, e l’avvenire della decostruzione sta nella ricostruzione. Perché non si capisce cos’altro se non la realtà si possa offrire come alternativa filosofica e politica in un mondo ammalato di favole.

E. Ilardi La frontiera contro la metropoli. Spazi, media e politica nell'immaginario urbano americano Liguori, Napoli 2010 È da almeno un secolo che l’America assiste, attraverso romanzi, film, serie TV e videogiochi, alla distruzione delle sue città (meteoriti, uragani, terremoti, alieni, rivolte, attentati). Possibile che proprio la cultura americana contenga una forte carica carica antimetropolitana? Eppure la parola metropoli evoca immediatamente i grattacieli di New York, lo sprawl di Los Angeles, le luci di Las Vegas. Scopo di questo lavoro non è la ricostruzione storica del pensiero antiurbano degli Stati Uniti, ma capire le ragioni ragioni che impediscono alla cultura americana di convivere con la metropoli, di accettarne le relazioni sociali, di mediarne politicamente e simbolicamente i conflitti. Alla metropoli gli americani affidano un’unica grande funzione: quella di creare spazio, di inventare nuove frontiere. È quel luogo magico in cui tutte le forze della nazione (economiche, politiche, sociali, culturali, tecnologiche) si alleano per produrre nuove dimensioni spaziali. Una volta raggiunto lo scopo, non serve più e va abbandonata o distrutta il prima possibile.



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