5 EDITORIALE Renato Nicolini
Poiché il tema è libero, vorrei partire da una citazione da Napoli Angelica Babele, diario del primo degli anni che ho vissuto a Napoli come assessore all’Identità di Bassolino, il 1995. “Le immondizie di Napoli, persino le immondizie, quello che da tutti viene indicato come un ritardo incivile, come una piaga che affligge la città e la respinge in una posizione molto vicina all’invivibilità, hanno allora folgorato la mia immaginazione. C’è un gruppo di cassonetti lungo il fianco della chiesa di S. Angelo a Nilo che mi ha affascinato in modo particolare. Molto del suo fascino dipende dal contrasto, dal sapere che dentro la chiesa, separato dal mucchio di immondizie soltanto da un muro, c’è uno dei capolavori di Donatello, scolpito per il monumento funebre al cardinal Brancaccio. Ma la sua bellezza – uso questo termine con perversa consapevolezza – è intrinseca al suo essere immondizia in modo assieme monumentale e mobile. (…) Se qualcosa dell’immondizia si trasmette al monumento, bisognerà riconoscere che reciprocamente qualcosa del monumento si trasmette all’immondizia. Sembra che uno spirito agisca sulle mani che compongono ogni giorno, secondo una logica rigorosamente novecentesca cioè anonima, il grande mucchio. Verso sera i cassonetti non sono più in grado di contenere altro, già debordano. Ed ecco che gli ultimi depositi vedono accatastarsi in modo ordinato non già sacchetti ma scatole di cartone, contenitori per pasta, o per confezioni di pannolini, o per biancheria intima, con la scritta rivolta verso lo spettatore. Tra l’una e le due della notte viene il camion della Nettezza Urbana e porta via questa effimera architettura del rifiuto, questo spreco rituale di creatività. E la costruzione collettiva ricomincia il giorno successivo, mobile, mutevole, mai identica a sé stessa. A volte un vento informale sembra squassare il monumento, ed anziché ordinate piramidi di contenitori di cartone assistiamo al trionfo del sacchetto di plastica e dei suoi colori. Ecco la trash art!”, ho pensato.“ Quello che è accaduto nel 2008 ed è ritornato nel 2010 sfugge però a ogni possibile estetica. Di fronte ai marciapiedi invasi dalla spazzatura, ai topi ed ai gabbiani che se ne nutrono, al disastro ambientale l’unico sentimento che si può provare è la vergogna, lo Scuorno, come s’intitola il bel libro di Francesco Durante. Ma sono proprio i cittadini di Napoli a doverlo provare? Quando le stesse cose ritornano a distanza di due anni, è sulle cause che hanno provocato questi effetti clamorosi che bisogna interrogarsi. Come l’existenzminimum , l’alloggio razionale dell’architettura moderna, è passato per la cucina di Francoforte; così l’urbanistica degli anni 2000 deve forse passare per l’immondizia di Napoli. Il ciclo di smaltimento dei rifiuti s’impone in Campania (ma anche in Sicilia o a Roma, minacciate di una sorte simile) come centro della progettazione della città. Mentre la cucina di Francoforte era il trionfo della meccanica applicata ai percorsi umani al suo interno (mi viene in mente la celebre sequenza di Charlot travolto dagli ingranaggi in Tempi Moderni), il ciclo di smaltimento dei rifiuti è refrattario all’automatismo. E’ una questione – se è giusto dire così – culturale. Lo è in particolare nella sua prima fase, da cui dipende l’andamento di tutte le altre, la preparazione nella propria casa dei sacchetti dei rifiuti. Aiutarci anche visivamente, nell’organizzazione della cucina, a separare immediatamente vetro, carta, plastica, etc. dai rifiuti alimentari, organici, umidi. E poi, subito dopo? Bisogna ripensare l’attacco al suolo ed il sottosuolo degli edifici (compito particolarmente difficile per una città porosa, sorta sopra le stesse cavità da cui sono stati estratti i materiali con cui è stata costruita, come Napoli). In molte città francesi, oltre alle cantine e ai garage, i piani sotto il livello del suolo degli edifici ospitano i cassonetti per la differenziata. Mentre cantine e garage hanno il loro prezzo di mercato, i cassonetti non potrebbero averlo… Forse è il momento di fare una riflessione su quanto è successo in Italia dopo il 1965 e la rinuncia a una legge urbanistica che colpisse alla radice la rendita fondiaria: abbiamo esagerato nella direzione opposta, nella privatizzazione, assieme ai suoli, dei servizi e della concezione stessa dell’abitazione… Negli spazi privati bisogna sicuramente essere “padroni in casa propria”, ma senza regole il concetto stesso di abitazione (poeticamente abita l’uomo, diceva Heidegger appoggiandosi a Rilke e ad Holderlin) si dissolve… La questione più impegnativa è però la fase successiva. Le discariche non possono essere buchi in cui semplicemente sversare i rifiuti; sono delle officine, dove deve essere possibile ispezionarli, separarli ulteriormente… Senza discariche di questo tipo, da cui il rifiuto umido esce nettamente distinto dal rifiuto secco, gli inceneritori – che non sono che macchine incapaci di miracoli - non funzioneranno mai… Con i miracoli all’antica italiana, con gli uomini della provvidenza, ci siamo trastullati abbastanza. Il territorio non è una risorsa rinnovabile. Dall’idea della disponibilità illimitata di terra, siamo passati alla sua scarsità. C’è una bella poesia di Holderlin, particolarmente cara ad Aldo Rossi, in cui l’essenza dell’architettura è identificata nei muri della casa d’inverno, sottoposti alla pioggia ed alle intemperie, quando il paesaggio è spoglio della bellezza dei fiori e della vegetazione. La lezione che ci viene dalla tragedia di Napoli ci ripropone la necessità di
6 un progetto urbano essenziale. Che sappia staccarsi dai brand e dalle griffe alla moda, dalla subordinazione del suo carattere alle esigenze della comunicazione, e riproporre la propria (indeformabile) specificità. Mi viene in mente Pino Daniele. Napul’è ‘na carta sporca… Il secondo verso spiega il primo: cca nessuno se ne importa… La soggettività della nostra esperienza di vita non va confusa con l’individualismo, soggettività significa interesse per l’altro da sé, in particolare quell’ “altro da sé” per eccellenza che è la città.
7 ARCHITETTURA. MACCHINA DALL’INFINITA RESISTENZA Carmine Piscopo
1. “Fine” è un monema ambiguo. Vuol dire simultaneamente, da una parte, “cesura” o “conclusione”, che sono connotazioni della morte, e, dall’altra, “proiezione in avanti”, “intenzione”, che sono connotazioni dell’esistenza, come meglio di tutti asserisce Husserl1. Non è un caso che il lemma in latino, e in italiano, sia contemporaneamente sostantivo maschile e femminile, come il doppio volto di Giano, che da una parte simboleggia la pace, dall’altra la guerra. “Fine”, in senso femminile, cioè “conclusione”, è facile a usarsi, ma è difficile a decrittarsi. Chi può dire infatti dove risieda, dove inizi, dove e come funzioni, dove termini la “fine”? Si veda quali questioni siano oggi accese sulla questione in ambito bioetico. Si veda quali prospettive siano oggi indotte nel campo delle scienze dalle “proposizioni” (in senso wittgensteiniano) della “fine”. Ogni volta che si varca la “fine”, implicitamente o esplicitamente, si fa riferimento alla (ri)nascita di altro, perché nello stesso processo temporale viaggiano differenti flussi, per cui la temporalità, che è “tempiterna”, è sempre implementata da tensioni temporali che danno dignità ideale a una realtà materiale2. “Fine”, declinato al maschile, è aspetto correlato e complementare al lemma usato al femminile. Esso evoca processi ideali indirizzati verso il dover essere. Sotto questo aspetto, esso è registrato come télos. Per Platone, le idee sono fini e veicolano fini. Per Aristotele, i fini sono le leve ovvero le cause del tutto, compresa la “causa finale”. Dopo Platone e Aristotele, la questione dei “fini” sarà il filo rosso del pensiero teleologico. E se tale questione resta aperta, di “fine” si può e si deve oggi parlare per quanto attiene i modi interpretativi dei termini e dei concetti. Il discorso è squisitamente formale e si costituisce su fondamenti epistemologici e sulla retorica del pensiero. È su tale terreno che appare legittimo discutere di “fine dell’architettura”. 2.Nei tracciati della “fine”, comunemente, l’architettura è agita come un personaggio visto di spalle che si allontana malinconicamente per ritirarsi nell’ombra, nel già accaduto, nell’incomponibilità con l’attualità, per lasciare dietro di sé l’evidenza del vuoto e semi di nostalgia. Nei tracciati di queste immagini, l’architettura è andata via per sempre mille volte e altrettante mille è tornata, per potersi offrire in ultimo allo strazio dell’addio. Un addio per pestilenze, per guerre, per distruzioni, per carestie, per catastrofi, per declino di vitalità delle comunità, che ha visto avanzare le sabbie, le boscaglie, il deserto. Come accade oggi in Italia, dove il deserto avanza, dove le foreste aumentano in estensione, dove nuove isole si formano nei mari, dove fenomeni carsici e di erosione delle coste trascinano le darsene con il loro canto nelle profondità del mare, insieme con un patrimonio di opere costruite dall’uomo. Dalle straordinarie prove della fabbrilità umana alle immagini sempre più vicine di un pianeta in cambiamento: una prova di nichilismo generoso di sé sia nel bene che nel male. Un disastro certamente più splendido della scenografica fine delle civiltà minoica a Creta, dell’abbattimento della sontuosa Babilonia in Mesopotamia, del genocidio dei precolombiani di America. 3. Simultaneamente, dunque, sulla soglia della fine, ma anche sulla soglia del ritorno? “Sic rerum summa novatur”3, recita Lucrezio, in tema di eterno ritorno. Maree anonime, deregulation compositive, pratiche usa e getta, assoldamento e assoggettamento dell’architettura a indirizzi eterodiretti, utopie vissute come già realtà, orizzonti di attesa che parlano della fine delle masse e del silenzio del tempo. Le città vengono affondando, perdendo memoria all’interno di un processo di cantierizzazione massiccio, senza bordi, senza direzione in favore di processi di disgregazione e di reticolarizzazione collassanti, esplosivi, aggressivi nei confronti di potenzialità plurali, lasciando crescere nel loro seno manifestazioni e organizzazioni (quelle che nel Texas sono comunemente chiamate “padelle di sabbia”) di disinfestazione di germi vitali, di disseminazione del deserto. L’addio dell’architettura è un fatto antico. Discontinuità incantatrici, proiezioni del tempo, desideri come già memorie. È forse questo il fascino segreto che avvolge oggi l’architettura: l’idea stessa della sua fine, come un immenso edificio che crolla dopo aver sedotto se stesso. Fine dell’estetica per l’estetica, dell’architettura per l’architettura. E’ l’avvento delle tecnologie dolci, la defibrillazione del corpo estenuato da segni vuoti e tenuto in vita da organi artificiali dolcemente avvolti da pellicole nomadi, metamorfosi del vento. Come in un paesaggio presunto, per certi versi congetturale, l’immagine della città della storia convive con quella della sparizione di ogni forma critica ed estetica, nell’irradiarsi di una neutralità senza oggetto. Così il nuovo non è mai completamente nuovo, ma si costruisce in una sovrapposizione di trame come una griglia 1
E. Husserl, La crisi delle scienze europee, Il Saggiatore, Milano, 1961, p. 234 sgg R. Panikkar, La porta stretta della conoscenza. Sensi, ragione e fede, a cura di M. Carrara Pavan, Rizzoli, Milano 2005, p. 115 sgg. 3 Lucrezio, De rerum natura, II, 75. 2
8 luminescente adorna di una lontananza spettrale, analogamente fluida, leggera e trasparente. In questo gioco di simulazioni, di seduzioni, di sorprese infinite, nel loro continuo apparire e scomparire, il potere dei segni sembra quello di cancellare l’immagine del mondo4. Nella loro crudele bellezza, questi segni favoriscono la più rapida diffusione di linguaggi tecnici, fanno sembrare la progettazione un gioco elementare, esaltano, come una seduzione sovrana, la freccia del tempo. È in questo spazio, dalla bianchezza quasi profilattica, che l‘“uomo riconquisterà la sensazione naturale di essere nuovamente in vita”5. È in questi termini, che i teorici dello Star System oggi promettono il benessere, la restituzione della nostra stessa vita, la riconciliazione con un mondo tenuto in vita dalle immagini di un racconto in stile quasi monista. Ma, come è noto, l’idea stessa di fine, si nutre della nostalgia, del ricordo di qualcosa che racchiude ancora una presenza. Tre prevalenti “ismi” di architettura, afferma Eisenman, concernono egualmente la nostalgia, un malessere connesso alla memoria [letteralmente, dolore del ritorno]: il modernismo, che è nostalgia del futuro; il postmodernismo, che è nostalgia del passato; il contestualismo, che è nostalgia del presente6. Così l’idea della fine lavora su un duplice testo: segnico e narrativo, ponendosi, insieme, come opera e accesso all’opera, in una proiezione di se stessa sul grande schermo della città. Immagini di un mondo in dissolvenza, che accomuna l’architettura all’idea di una mutazione sempre più vicina nel procedere verso un disegno globale7. È qui che l’architettura sembra agita da un sogno infranto, come la nostalgia di un’assenza, in un gioco continuo di oscillazioni tra perdite di memoria e improvvise apparizioni. In questo continuo oscillare, l’architettura si dispone come l’immagine di un reale ritrovato, in un gioco di regole cinico che, per poter funzionare, deve mostrare i segni di una realtà squisitamente cinica. È l’immagine più inquietante del Moïse sauvé che Saint-Amant descrive nel suo poema d’acqua; è il luogo profondo che si presenta agli occhi del popolo ebreo durante il passaggio del Mar Rosso: paesaggio materno, inquietante più per la sua familiarità che per la sua estraneità, ricordo dell’Eden e, insieme, anticipazione della Terra Promessa. Mondo familiare, ma più colorato, del quale il tempo non ha potuto appannare la freschezza originaria8. E seppure le politiche amministrative delle nostre città fondano la loro speranza di rinnovamento su tali seduzioni vissute già come realtà, di questi racconti, oggi, l’architettura tiene conto solo in parte. Nata dalla cooperazione di molti saperi, nel tempo, l’architettura ha imparato a mostrare la sua stessa morte. La sua stessa fine. Profondamente iconoclastica, al gioco delle immagini che il nostro tempo costruisce, essa da sempre oppone il farsi e il disfarsi dei linguaggi, rendendosi libera di illuminare il loro fragile destino, il loro riformularsi dentro universi formali più profondi, fatti di figure e di dialettiche necessarie ed irrisolte, i cui fondamenti si rivelano sulla sabbia piuttosto che sull’argilla. Nel suo rinviare a figure più profonde, essa ricompone il gioco delle immagini nelle immagini di una ragione che sempre si interroga sulla realtà e si fa creatrice di mondi9. Giacché, la sorpresa infinita, che è lo scopo dell’arte, nasce da una disposizione “sempre risorgente”, contro cui tutta l’aspettativa del mondo non può prevalere. Levatrice di scelte, essa da sempre mostra ora il nascere, ora l’invecchiare, ora il morire dei giochi, in un disegno in cui ciò che cade su ciò che resta risale continuamente verso significati più ampi, costringendo il linguaggio corrente a misurarsi con la sua provenienza e le sue ragioni. In questo differire, che si muove come un’onda nel fiume della storia ed evoca nello svolgersi del tempo la tradizione del presente, nuovi significati risalgono un linguaggio comune per trascenderlo verso nuove costruzioni significanti; nuove individualità disvelano, nella parzialità, la contingenza del singolo punto di vista. E’ il gioco delle infinite significazioni che abitano il progetto entro un linguaggio comune, come un differente limite della storia che trasforma la memoria in immaginazione. In questo risalire di linguaggi, ogni replica diviene nuova rivisitazione analogica, figura che porta in filigrana la traccia di un cambiamento. È questa, la vita delle figure10. "È qui che ha veramente luogo l'impresa” scrive Merleau-Ponty “e che il silenzio sembra infranto. […] La sedimentazione della cultura, che dà ai nostri gesti e alle nostre parole un fondo comune inutile a dirsi, ha richiesto in un primo tempo che essa fosse completata da quei gesti e da quelle stesse parole, e basta un po' di stanchezza per interrompere questa comunicazione più profonda. Qui non possiamo più […] invocare la nostra appartenenza a uno stesso mondo, perché è questa appartenenza che è in questione e di cui appunto si tratta di dare conto. […] Occorre che essa insegni il suo significato, sia a chi parla, sia a chi ascolta, non basta che indichi un significato già noto ad entrambi, occorre che lo faccia essere. […] occorre che a un certo punto io sia sorpreso, disorientato, e che ci ritroviamo non più in ciò che abbiamo di simile ma in ciò che abbiamo di 4
J. Baudrillard, Della seduzione, SE Editrice, Milano, 1997, p. 99. T. Ito, L’architettura evanescente, Kappa, Roma, 2003, p. 55. 6 P. Eisenman, Three Texts for Venice, in Cities of Artificial Excavation. The Work of Peter Eisenman 1978-1988, New York 1989, p. 47. 7 cfr. R. Koolhaas, La città generica, 1995, in "Domus" n. 697, Milano, 1997. 8 G. Genette, Figure, Einaudi, Torino, 1966, p. 13. 9 cfr. S. Veca, Modi della ragione, in A. Gargani (a cura di), Crisi della ragione, Einaudi, Torino, 1979. 10 cfr. F. Spirito, Il ritorno della figura, in C. Piscopo, Architettura. Il gioco della figura, Cuen, Napoli, 2008. 5
9 differente. Ciò presuppone una trasformazione di me stesso come dell'altro: occorre che le nostre differenze non siano più come delle qualità opache, occorre che siano divenute”11. È questa dunque la sfida che pone oggi l’architettura nel ciclo della messa in scena di uno scambio impossibile12: costruire, dentro l’architettura, un’altra architettura, come una costruzione diversamente logica in grado di incidere sullo scheletro della storia. Trasformare il quadro delle conoscenze, come una luce limpida fatta di elaborazioni, di ricerche e di immaginazioni differenti, di cui i nostri pensieri e le nostre parole si sono nutrite nel tempo restituendoci l’inizio e la fine di un processo, in un nuovo disegno dentro cui tornare a esperire l’immagine della realtà indagata. Ripercorrere alla rovescia il tempo degli storici e lo spazio dei geografi per ritrovare l’immagine di una realtà diversamente fondata, finalmente sottratta ad un proprio fine originario, come un principio attraverso cui spiegare il rapporto degli uomini con il mondo. Così il valore di un metodo sta nella sua attitudine a scoprire, sotto ogni silenzio, un interrogativo sepolto13. Se le opere sono differenti, e i cammini separati, scrive Octavio Paz, che cosa abbiamo allora in comune? “Non un’estetica, ma una ricerca”. Non una scuola poetica, ma un lignaggio in cui si racchiude una diversità. Perché, sostiene Octavio Paz, la modernità non è una dottrina, “ è l’oggi e il più antico passato, è il domani e l’inizio del mondo. Ha mille anni e sta per nascere […] È il puro presente, che appena dissotterrato scuote la polvere dei secoli si invola e scompare […] Inseguiamo la modernità nelle sue incessanti metamorfosi […] Ogni incontro è una fuga […] un passero che è ovunque e in nessun luogo, trasformandosi in un pugno di sillabe. […] Allora […] appare l’”altro” tempo, quello vero, quello che cerchiamo senza saperlo”14. È questa la mirabile utopia che propone la letteratura, il cui senso non è dietro di noi, ma dinanzi a noi, come una riserva di forme in attesa, l’imminenza di una rivelazione che ognuno deve produrre per sé. Similmente, l’architettura pone il problema di fondare i nostri progetti dentro il reale, isolando, dentro un universo di forme, un altro e soggettivo universo fondato in senso personale, ma potenzialmente orientato in senso collettivo15. Giacchè, come afferma Salvatore Veca, esistono più immagini della ragione (e più architetti hanno costruito questa città), il che pone l’obbligo di indicare un confine, una ragione possibile del nostro agire, precisando, come nel gioco delle ipotesi del Parmenide, ogni volta che lo si fa, perché lo si fa. Perché una linea nel campo dell’architettura è un’esperienza che si precisa nel tempo. È parte di una costruzione più grande, i cui fondamenti si rivelano dentro un mondo di forme per aprirsi a nuove, continue evoluzioni. È qui che l’architettura si dispone come una “macchina dall’infinita resistenza”, la cui verità è nel gioco delle sue figure, come un’impalcatura che si costruisce su frantumi di castelli preesistenti, dove ciò che conta è la realtà del discorso16. Ogni grande opera, scrive infatti André Chastel, contiene alcune “descrizioni involontarie”, che mirabilmente Delacroix già definiva un “testo figurativo”. Questo tradimento dell’immagine è anche il modo in cui l’opera si affida al mondo, il suo fragile destino, il suo prolungarsi in un nuovo universo di idées e di rêveries. Ma esso è anche il modo in cui oggi l’architettura si apre, come l’opera al mondo, all’immensità del suo discorso. Dai suoi contatti col reale, all’istituzione dei codici della rappresentazione, alla costruzione di enunciati informali o formali, fino a un nuovo confronto con la realtà nella varietà delle strade che essa inaugura. “Da testo a testo”, scrive Cesare Segre, “il nostro vivere, il nostro immaginare”17. Così il valore di un’opera fonda sul suo segreto e diviene nel suo farsi spiegazione. Muta seguendo un principio di continuità e si trasmette per risonanze ed echi nel respiro delle generazioni. Acquista coscienza storica. Ma sempre attinge a quella sfera universale e costante dell’immaginario collettivo, come un processo che nutre forze originarie e modella culture. Perché l’architettura è per sua natura osmosi di saperi differenti, che includono il prossimo e il remoto, la gravità e il mito. Di certo mutano le tecniche, gli strumenti, le dimensioni, ma ciò che non muta è il potere dei segni e la loro capacità di ripensarsi in rapporto al profondo e all’elementare18. Intelligenza del mondo, essa “si propone nel suo intreccio inseparabile di opere e pensieri, fatti e immagini, oggetti e idee; vive nella cosa ma anche oltre la cosa; interferisce con la politica e il destino degli uomini, ma è irriducibile ad essi: è costruzione di mondi materiali […] e insieme creazione di sovramondi legati al reale; è sistema di manufatti e di concetti, di utensili e di figure. In questo rapporto singolare tra mondo delle cose e mondo immaginato, sta dunque l’architettura, la sua scienza e il suo problema; e potremmo di nuovo 11
Merleau-Ponty, La prosa del mondo, 1969, Editori Riuniti, Roma, 1984, pp. 143-144. Sull’argomento, cfr. J. Baudrillard, Lo scambio impossibile, Asterios, Trieste 2000; A. Cuomo, La fine senza fine dell’architettura, in “Bloom” n. 6, Napoli, 2010. 13 G. Genette, op. cit. 14 O. Paz, Che cos’è la modernità?, in “Casabella” n. 664, Milano, 1999, pp. 48-49. 15 D. Vitale, Architettura Idee e materiali, in A. Rossi, L. Meda, D. Vitale, Architettura/Idea, Milano, 1981, p. 40 16 cfr. C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano, 1960. 17 C. Segre, Avviamento all’analisi strutturale, Einaudi, Torino 2000, p. 174. 18 D. Vitale, Introduzione, in R. Moneo, La solitudine degli edifici e altri scritti, Allemandi, Torino, 1999, pp. 11-12. 12
10 comprenderla appieno soltanto se, come dice Michelangelo, al calore del giorno guardiamo in noi, e sappiamo infine distinguere, dentro tutto ciò che c’era sembrato realtà, l’unico reale possibile: ciò che è inventato”19. È questa, dunque, la sfida delle figure20: costruire dentro l’architettura un’altra architettura e un altro processo per comprenderli, come un’elaborata impalcatura, un castello provvisorio in cui l’architettura contempla se stessa in un mondo creato da sé. Ciò può avvenire nella misura in cui ogni cosa cessa di essere se stessa per aprirsi a un mondo di rapporti difficili e oscuri nelle profondità della materia. Di questo disegno potente, che tiene insieme astratto e concreto, è pienamente avvertito il mondo antico, per il quale le orme lasciate dagli uccelli lungo le rive sabbiose dei fiumi sono diventate, nel tempo, caratteri e figure di alfabeto. È in questo spazio di primi rudimenti, fatto di rigore e di immaginazione, che gli artisti, afferma Burckhardt, hanno imparato nel tempio a compiere “i primi passi verso il sublime, a separare l’elemento casuale dalla forma, per scoprire tipi e, infine, inizi di ideali”21. Queste forme, scrive Vitale, non possono essere linearmente spiegate, si intrecciano, ma non si identificano con la questione del tipo, ossia, di una forma edilizia che ricorre e si ripete, si precisa nel tempo e si lega a un uso, sino a divenire la rappresentazione concreta di un modo di vita e di una società. Piuttosto, esse rappresentano “un tramite per andare al di là, per scoprire la realtà profonda e interiore delle cose. […] Solo passando attraverso le figure in cui le cose si sono inverate è possibile avvicinarsi all’architettura”22. Così, “ogni figura”, scrive Genette, “è traducibile e porta la sua traduzione in trasparenza, come una filigrana o un palinsesto sotto il suo testo visibile”23 . In questa trama è dunque la coscienza di figura, come un atto di ricezione e di pensiero, dove l’essere della figura sta nell’avere una figura, ossia una forma. Cifratura simbolica del mondo, le figure abitano l’architettura come il suo testo visibile nel loro rendere manifesto un orizzonte di latenza, immateriale radice di ogni fondamento. Ma ciò presuppone un’idea di sostanziale alterità dell’architettura rispetto alla vita degli uomini: un’idea alternativa a quella che, con la modernità, pensava di legare linearmente le scelte dell’architettura a quelle dell’organizzazione sociale e del progresso24. Una prospettiva, questa, che ha molte sue basi nella concezione moderna del pensiero architettonico, i cui confini possono essere ancora indagati. Nella critica al razionalismo scientista e nelle tematiche tese a incarnare di fronte alla modernità il neorazionalismo, come uso di un razionalismo più complesso, che unisce campi di forze generati nell’immaginazione dall’associazione di immagini; nel richiamo all’architettura civile e nella nostalgica evocazione del soggetto individuale, come homo civilis che anticipa il soggetto collettivo ed opera nella volontà collettiva della storia. E ancora, nelle tematiche incentrate sul richiamo all’idea di città come forma visibile della storia e concrezione di architetture, in cui confluiscono forme senza nome, realismo visivo e immaginazione materiale del luogo. Se la storia non è più una realtà certa, ma un divenire in cui si cela la ragione profonda di ogni agire, l’ideazione implica e risolve, nella propria formulazione, un disegno razionale, di cui l’architettura rintraccia e rivela una legge dinamica. Così l’architettura torna ad essere pura ideazione, che risolve nella propria formulazione una diversa rappresentazione della realtà25. Di questa ricostruzione, che tiene insieme realtà e immaginazione, come un reale disegno biografico che si apre al mondo e si converte in mondo, l’architettura diviene allora l’unico autore. Ma più, e forse inavvertitamente, come qualcosa che appare prima e nonostante la volontà collettiva della storia, essa ridefinisce, al termine del processo, il suo stesso soggetto: l’architetto. Non più il poeta umanista, alla ricerca della sua casa nella casa collettiva della città, egli si costruisce in una riflessione che si dà come un principio senza fine, attraverso cui l’identità suggerisce l’alterità. Come la struttura di una sovraimpressione senza fondo, che si dà enabîme. Non diversamente dalla vita delle figure, la cui traccia si rivela in un’apertura senza fine. Nell’ordine della ricerca, come nell’ordine della creazione, è forse giunta l’ora di quella esplorazione auspicata da Valéry26, di sottoporre ad indagine quel campo di forme che si riconosce nel gioco della figura e delle sue metamorfosi. Un’esplorazione, questa, che può esser fatta anche a tentoni, ma non è detto che un giorno non possa essere sistematicamente praticata. Per saggiare quanto la “fine dell’architettura” sia inizio e ricominciamento, infine, apertura senza fine27. Per provare quanto anche ciò che chiamiamo arbitrio possieda una propria struttura. 19
D. Vitale, Architettura Idee e materiali, op. cit., p. 44. cfr. A. Chastel, Favole Forme Figure, Einaudi, Torino, 1986. 21 J. Burckhardt, Sullo studio della storia. Lezioni e Conferenze 1868-1873, Einaudi, Torino 1998, p. 223. 22 D. Vitale, Introduzione, op. cit., pagg. 11-12. 23 G. Genette, Figure, op. cit., pag. 192. 24 D. Vitale, Introduzione, op. cit., p. 12. 25 C. G. Argan, Walter Gropius e la Bauhaus, Einaudi, Torino, 1951; 1997, p. 87. 26 cfr. P. Valéry, Sul cimitero marino, in Paul Valéry. Il cimitero marino (1945), Mondatori, Milano, 1995. 27 P. Eisenman, Re:Working Eisenman, Academy Editions, New York, 1992, p. 55. 20
11 ARCHITETTURA CONTEMPORANEA - CITTA’ STORICA Gaetana Laezza Le città sono un immenso laboratorio sperimentale, teatro dei fallimenti e dei successi dell’edilizia e dell’architettura urbana Jane Jacobs1
Non sempre il rapporto tra l’antico e il nuovo è considerato una realtà positiva, ma è necessario che l’architetto abbia la consapevolezza di ascoltare le preesistenze e sappia in che modo poter intervenire sulle testimonianze di epoche passate. Il problema non dipende tanto dalla scelta del linguaggio adoperato ma dalla capacità del progettista di sapersi misurare con il contesto, conoscere la natura, i luoghi in cui si interviene e i significati del tessuto storico. Ancora oggi l’accostamento tra edilizia moderna e antica suscita molti interrogativi, in particolare nel nostro paese dove coesistono due realtà molto diverse: l’immagine della città stratificata, che presenta un forte legame con il passato, e l‘immagine della città nuova e della sua periferia che segna una frattura considerata da molti quasi insanabile. Il dibattito sul tema del rapporto tra antico e nuovo è sempre attuale proprio per la presenza di due correnti di pensiero completamente contrapposte, quella degli architetti-conservatori e quella degli architetti-innovatori, che si contrastano anche sulla questione della conservazione o meno della città consolidata. Da un lato c’è quindi chi considera il centro antico come un monumento da tutelare ad ogni costo e, dall’altro, chi, invece, vorrebbe costruirvi delle nuove architetture tali da rendere più moderni i centri storici attraverso l’inserimento di nuovi edifici, di nuove funzioni. Tra i grandi protagonisti della storia del recupero dei centri storici ricordiamo Pierluigi Cervellati, che negli anni settanta detto la linea degli interventi e che durante un’intervista di Giovanni De Pascalis sottolinea che il “centro storico non è una parte della città, è una città che dobbiamo salvaguardare e restaurare”. Anche Benevolo offre la sua interpretazione su questo dibattito: la “salvaguardia delle città antiche finisce per confondersi perfettamente col problema dell organizzazione moderna delle città. Non c è niente di più moderno dell eredità antica delle città italiane. Le città contemporanee sono se mai troppo poco moderne per accettare e prolungare una lezione così impegnativa”. Benevolo di fatto con questa affermazione oltre a voler aprire le città storiche alla modernità, intende questa prima di tutto in una dimensione urbanistica da declinarsi poi sul piano edilizio. Lo stesso fa l’architetto Paolo Portoghesi che afferma come il problema relativo al “rapporto tra antico e nuovo” non possa essere “risolto con apodittiche proibizioni o licenze stabilite in assoluto”. Portoghesi osserva come l Italia, già a partire dagli anni cinquanta con architetti come Albini, il gruppo dei B.B.P.R., Scarpa, Gardella, Michelucci abbia dimostrato come il nuovo possa perfettamente integrarsi con l’antico, prevedendo anche la possibilità di accostamenti spesso coraggiosi. Del resto, nella stessa Carta redatta dai CIAM veniva esaminato il problema della relazione tra il centro storico e la nuova espansione edilizia, all’articolo 66: Se gli interessi della città sono compromessi dal permanere di alcune presenze insigni, bisognerà cercare una soluzione che sia in grado di conciliare i due opposti punti dì vista; qualora ci si trovi di fronte a costruzioni ripetute in numerosi esemplari, alcuni saranno conservati come documentazione e altri saranno demoliti; e in altri casi si potrà isolare la parte che costituisce un ricordo o ha un reale valore, mentre il resto sarà utilmente modificato. Lo stesso Paolo Portoghesi, nel catalogo della Prima Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia del 1980, intitolata La presenza del passato, da lui stesso curata, affermerà che «La presenza del passato non è né solo ironica né puramente voluttuaria. Chiusa nel ghetto della città antica, la memoria è diventata inoperante, è diventata un fattore di separazione e di privilegio. La memoria può aiutarci ad uscire dall'impotenza, a sostituire all‘atto magico, con cui ci eravamo illusi di esorcizzare il passato e di costruire un mondo nuovo, l‘atto lucido e razionale della riappropriazione del frutto proibito».2 Anche Rogers affronta questo argomento affermando che: «il problema non è di proibire ma di sapere agire, in ogni modo anche se qualcuno può avere il compito di un‘attività tutoria, il nostro, di architetti, deve rappresentare una delle componenti dialettiche per stabilire l‘equilibrio dell‘esistenza: noi dobbiamo mettere l‘accento sul costruire. […] In ogni caso noi dobbiamo avere il coraggio di imprimere il senso della nostra epoca e tanto più saremo capaci di essere moderni, tanto meglio ci saremo collegati con la tradizione e le nostre opere si 1 Dalla quarta di copertina di Jacobs J., Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane, Edizioni di Comunità, Torino, 2000. P. Portoghesi, La fine del proibizionismo, in La presenza del passato, Prima mostra internazionale di Architettura, Edizioni La Biennale Venezia, 1980. 2
12 armonizzeranno con le preesistenze ambientali. E‘ evidente che modernità non si identifica sempre con ciò che è cronologicamente contemporaneo, ma solo con azioni qualificate: proprio dal giudizio della qualità si può desumere un‘opinione più generale alla soluzione del problema in causa [...] Fare non è un diritto degli artisti, è il loro dovere verso la società di cui fanno parte. Ognuno deve sapere che le sue azioni non possono essere isolate dall‘attività corale e perciò un artista vero, non solo non ha paura dei limiti, ma può agire soltanto in colleganza con quei limiti». 3 Di qui, sono ormai 40 anni, che l’Italia ha cercato di aprirsi verso un fenomeno di riqualificazione della città esistente, non tralasciando mai i piani di salvaguardia e di valorizzazione dei centri storici. Il centro storico è sempre stato considerato come un patrimonio da preservare in una città esistente ancora marginalizzata. Ma conservare le città, ovvero i loro centri storici non significa esclusivamente salvare i monumenti isolandoli dal contesto e dall’inserimento del nuovo, bensì far sì che il nuovo si adatti al preesistente e si integri con l’intero tessuto edilizio antico. In realtà, ancora oggi, per alcuni è considerato quasi blasfemo inserire un nuovo edificio nel tessuto antico, suscitando accesi dibattiti sulla effettiva necessità di tutelare nel senso più stretto i contesti urbani passati. In ambito italiano un ruolo fondamentale spetta allo storico Roberto Pane che sullo studio degli interventi di ricostruzione delle città storiche, sottolinea come la soluzione al problema dell’inserimento dell’edilizia contemporanea non va cercata nella mediazione, nel compromesso ma nella “… coscienza dell‘insieme architettonico che ha innumerevoli vie per affermarsi”. La città deve essere considerata un sistema nel quale, non solo si stabiliscono relazioni, ma come per un organismo in continua evoluzione, vi sia vita per le stesse pietre, le loro forme, tra le quali si deve collocare l’architettura contemporanea. Di recente anche Prestinenza Puglisi è intervenuto nel merito considerando come sia sbagliato vedere i centri storici quali entità esclusivamente da conservare, in un errore che porta alla separazione tra l’antico e il moderno. Eppure molti teorici dell’architettura sostengono l’impossibilità di effettuare interventi nella città storica a causa di una troppo mutata visione dell’architettura contemporanea. Naturalmente il dialogo con il preesistente non può che avvenire in forma dialogica, senza necessariamente effettuare interventi eccessivi, quali ad esempio Beaubourg a Parigi. E’ il caso di Barcellona, considerata oggi una città che ha conosciuto forse le più profonde e radicali trasformazioni le quali, fondate sull’inserimento di molti edifici contemporanei nel tessuto storico non ha perduto, ma anzi ha valorizzato i suoi caratteri tradizionali. E’ indicativo in tal senso che pure un architetto tra i più innovativi, Jean Nouvel, abbia affermato in un’intervista che per lui è più interessante e stimolante progettare nei luoghi storici, dove è fortemente evidente la relazione con la storia, dal momento che solo in questi contesti si evidenzia la modernità dell’architettura consistente proprio nella capacità di interpretare l’ambiente al contorno. Esempi eccellenti di inserimento di architettura contemporanea nei centri storici delle città consolidate possono considerarsi l’intervento di Meier a Roma per l’Ara Pacis e la Haas Haus di Hans Hollein a Vienna. Nel primo progetto infatti è l’Ara Pacis a sembrare voler essere in dialogo con l’architettura contemporanea attraverso il principio di compresenza tra l’arte antica e quella attuale utilizzato dal progettista, non solo sul piano dell’accostamento fisico quanto anche su quello del valore simbolico determinato dalla forma e dai materiali. L’altro progetto realizzato da Hans Hollein, la Haas Haus, nel cuore di Vienna, di fronte alla cattedrale di Santo Stefano pure esprime brillantemente il legame tra l’architettura contemporanea e la città storica valorizzando l’area occupata precedentemente dalla vecchia sede Haas e mettendo in luce i quattro angoli del castrum romano attraverso un attento studio dell'attacco a terra e delle relazioni con gli edifici circostanti. Due esempi questi, del tutto dissimili, eppure dimostrativi di come il linguaggio contemporaneo dell’architettura possa offrire parola allo stesso passato. BIBLIOGRAFIA Baudrillard J. e Nouvel J., Architettura e nulla. Oggetti singolari, traduzione e cura di Renata Volpi, Mondadori-Electa, Milano, 2003. Benevolo L., Una città con tanti “centri”, in “Italia Nostra”, 2006, 416. Bettinelli R., Il centro antico come monumento, in “Italia Nostra”, 2006, 416. Brandi C., Teoria del restauro, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1963, Einaudi, Torino 1977. Jacobs J., Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane, Edizioni di Comunità, Torino, 2000. Mumford L., La cultura della città, Edizioni di Comunità, Torino, 199. Portoghesi P., Riuso dell architettura, editoriale, in “Materia”, 2006, 49.
3 E. N. Rogers, Verifica culturale dell’azione urbanistica in Difesa e valorizzazione del paesaggio urbano e rurale, in “Casabella- continuità”, n. 217, 1957.
13 L’ARCHITETTURA DEL NEGATIVO Alberto Cuomo Il fascino di queste lotte sta nel fatto che chi le guarda deve anche combatterle. F. Nietzsche (Nascita della tragedia)
“Un piccolo si e un grande no”1, in questo slogan si sintetizza forse l’atteggiamento delle Avanguardie e del cosiddetto Movimento Moderno, rivolti a stringere piccoli patti con i poteri economici e politici onde svolgere le proprie attività artistiche e costruttive, per attivare in esse una critica nei loro confronti e valori sociali alternativi al loro dominio. Un atteggiamento che viene in definitiva ancora propugnato da quanti, avversi al comodo adattarsi dell’architettura attuale al mercato globale ed al consumismo di massa, evocano per essa l’impegno a svolgere una critica della realtà data. Invero, già in un saggio del 1969, Julia Kristeva mostrava come, nell’arte, quale suo carattere specifico, più che rivolto al mondo esterno, l’atteggiamento negativo, di critica, fosse agito verso lo stesso linguaggio utilizzato: “La négativité du signifié poétique se distingue aussi de la négation comme opération interne au jugement… La poésie énonce la simultanéité (chronologique et spatiale) du possibile avec l’impossible, du réel et du fictif”2. I riferimenti di tale affermazione sono, come è manifestato nello stesso scritto dalla studiosa franco-bulgara, da un lato, le analisi critiche del formalismo russo, lungo la linea tracciata da Roman Jakobson, secondo cui la poesia esplicherebbe una determinata “funzione” estetico-creativa, mediante procedimenti sovversivi interni agli ordini convenzionali del linguaggio utilizzati, di per sé stessa alternativa al reale dato, e, dall’altro, con la mediazione di Freud, le riflessioni che da Nietzsche attraversano il “pensiero negativo”, l’idea cioè di un principio vuoto, mai determinato o nominato nelle narrazioni, che lo manifestano solo nel loro non detto, movente affabulatorio di interpretazioni e ri-creazioni in cui si dispone l’annullarsi dello stesso soggetto, autore o interprete, si direbbe in un ritorno a Schopenhauer, nella “ascesi” proposta dal pensiero orientale3. La Kristeva manifesta, sin dall’esordio del suo saggio, il rinvio a Jakobson e, a sfuggire ogni possibile addebito di idealismo, ricusa la distinzione tra “prosa” e “poesia” per parlare, con il linguista, di una “fonction poétique” del linguaggio data dalla compresenza nel testo poetico di “affirmation et négation” in cui riconoscere la “duplicità dell’Apollineo e del Dionisiaco”, proposta da Nietzsche nella Nascita della tragedia4, e segna la distinzione tra la “nègation-Aufhebung” hegeliana e la “denegazione” poetica, attraverso l’analisi freudiana del negare, inteso processo che manifesta di una separazione tra la “intelligence” e la “zone rebelle” dell’inconscio5, per rivelare infine nella poesia, secondo un concetto espressamente buddista, il perdersi del soggetto tra i segni, la nozione di un “subjet zérologique”, di una soggettività cioè che, pur non potendosi pensare che “à travers le signe…ne dipende d’aucun signe”6. Sarebbe plausibile affacciare, in questi riferimenti, così come sono esposti, possibili critiche al presunto rifiuto del logocentrismo espresso dalla Kristeva e da tutta un’area negativista della cultura francese, che finisce invece per conquistare nuovi territori all’idealismo. Si potrebbe così muovere, ad esempio, qualche dubbio sullo “spostamento”, attuato dalla analisi “formalista”, del piano dei reali rapporti produttivi che presiedono al testo in quello “sublimato”, ideologico, del linguaggio, della “productivité dite texte”, ovvero sulla lettura linguistica di Freud che eleva la psicoanalisi a religiosità, nel continuo riferimento al verbo7, o, ancora, una critica alla lettura del pensiero negativo nei termini dell’ascetismo orientale che, annullando il soggetto, ne fa il precipitato di una nientità originaria, in una nuova spiritualizzazione8. Tuttavia, oltre le possibili confutazioni all’eventuale idealismo della 1
La frase, di Grosz, è analizzata da Manfredo Tafuri in “Les Bijoux indiscrets”, in Five Architects, Roma, 1976, che mostra come in Gropius, e nello stesso Grosz, si capovolga in “un grande si e un piccolo no”, secondo quanto accade oggi alle cosiddette archistar. 2 J. Kristeva, Σηµειωτιχή Recherche pour une sémanalyse, Paris, 1969, il saggio Poesie et negati vité, p. 254. 3 Ibidem, p. 246 e segg. 4 Ibidem, p. 249. 5 Sul tema della “denegazione” cfr. S. Freud, Die verneinung, tradotto in «Nuova Corrente» n. 61-62, 1973 (ora il testo è in Opere, vol. decimo, trad. it. di E. Fachinelli Torino 1978, p. 197) e la lettura che ne da Jean Hyppolite in J. Lacan, Ecrits, trad. it. di G. Contri, Torino, 1974, p. 884, alla quale la Kristeva fa riferimento, da quanto dice in op. cit. nota 28, citando altresì il commento dello stesso Lacan svolto alle pp. 316-398 . 6 J. Kristeva, op. cit. p. 274. 7 Cfr. Franco Rella, Leggere Freud. Intorno alla verneinung (de negatione), nel numero di «Nuova Corrente» citato, con riferimenti proprio alla Kristeva, alle pp. 249-253. 8 Su questo tema ha scritto Massimo Cacciari in Pensiero negativo e razionalizzazione, Padova, 1977, nel saggio dal medesimo titolo (già apparso nel 1973 come introduzione al Nietzsche di Fink) dove è analizzato il pensiero di Schopenhauer con i suoi riferimenti a quello orientale ed è messo in luce come l’aspirazione al Nirvana sia un tentativo di realizzare una nuova “paradossale sintesi”.
14 Kristeva, freudianamente “negato”, appare abbastanza efficace l’identificazione del poetico quale luogo della “simultaneité” tra reale e fittizio, vero e falso in un concetto riconducibile alla formula logica della tautologia trattata da Wittgenstein9, che ritaglia un luogo di attività negativa all’arte interposto tra la negatività hegeliana e l’idealizzazione del negativo dei romantici. Proprio nel saggio della Kristeva trova posto una citazione da Hegel: “il negativo è dunque l’intera contrapposizione che si riposa su di sé come contrapposizione, la differenza assoluta non riferentesi ad altro. Come contrapposizione esso esclude da sé l’identità, ma con ciò esclude se stesso, perché ogni riferimento a sé si determinerebbe come quella identità che esso esclude”10. Il termine hegeliano che designa il negativo è Aufhebung, e deriva dal verbo Aufheben, che significa non tanto negare, quanto sollevare, raccogliere, custodire, sospendere, annullare, nel senso che il negare, ovvero il continuo negarsi storico dell’Assoluto nelle cose, custodisce il negato, l’Identico, lo sospende, lo solleva, lo differisce, e se per Hegel “positivo e negativo sono lo stesso”11, ciò è non perché sia possibile una contemporaneità tra identità e negazione, quanto perché, nel divaricamento tra l’Identico ed il suo negarsi, l’impossibile identità del negativo si manifesta esclusivamente nella negatività medesima (così come l’Assoluto, positivo, è identico solo a sé) e, quindi, come negazione della negazione, come aspirazione al ricongiungimento ed al ritorno in sé dell’Ideale. Mentre cioè la negatività su cui riflette la Kristeva è intesa come intimamente compresa in ogni affermare, tale da svolgersi in tutti gli istanti finiti del tempo, della parola, come è particolarmente evidente in quella poetica e, per l’“abitare poetico”, in quelli dell’esserci, della vita, dell’esistenza, in una temporalità, si direbbe, estatica, la negazione hegeliana percorre invece una temporalità lineare di tipo aristotelico dove, nel “progresso” tra il prima ed il poi, l’Ideale “cade” nel tempo negandosi per riprendersi attraverso la negazione della negazione e identificarsi oltre il tempo. Vale a dire che se l’Assoluto, per “comprendersi” deve differirsi nel tempo, negarsi, ac-cadere nelle cose, essendo per Hegel la negazione propriamente “tempo”12, la negazione della negazione attraverso cui esso ritorna all’identità con sé non è che negazione del tempo, intemporalità, tempo posto oltre ogni tempo, ogni vissuto, ogni parola13. Si dipartono di qui, in un diverso concetto temporale, i due versanti del negare, e, se si vuole, del criticare che Vittorio Gregotti ritiene essere necessità propria all’architettura: quello che intende il negare come modalità progressiva e, pertanto, secondo quanto ha mostrato Theodor Adorno, ad esempio per Richard Wagner, del tutto integrato al procedere storico che pure critica e, in fine, rivolto ad una spiritualizzazione del reale, da condurre al termine del tempo nell’Ideale, e quello che interpreta la negazione non indirizzata verso alcun fine, connaturata ad ogni proposizione che, superominicamente, si apre, istante per istante, a nuove creatività, nella ipostatizzazione ideale del Nulla, dell’Assenza. E si pongono quindi lungo tali versanti le due possibili posizioni dell’architettura, comunque portatrici di una metafisica, una ideologia, quella che tenta ancora di manifestare un progetto, politico, sociale, in cui assumere nel tempo le cose, e quella che muove il progettare su una scacchiera di istanti isolati, si direbbe perduti ad ogni temporalità, le cui forme riassumano insieme il mondo e la contestazione ad esso. Due posizioni che già in passato hanno investito gli atteggiamenti artistici, regola e caso, razionalismo e organicismo, e che ponevano, da un lato, la “condensazione”, nel linguaggio, nella parola, nella misura, delle determinazioni materiali, sino a spostare l’ordine della prassi nell’ordine della lettera e, dall’altro, nella volontà di adesione alle cose, il continuo “spostamento” delle specificità linguistiche verso la vita concreta sino alla negazione di ogni specificità, essendo sovente tali modalità rapprese in uno stesso movimento, uno stesso autore, una stessa opera14. Sebbene il dualismo appaia fittizio, essendo entrambe le posizioni fondate su analoghi moventi ideologici, esso è stato spesso ulteriormente avvalorato dagli analisti, così come è accaduto ad esempio negli anni 9
Le oscillazioni del dire tra “tautologia” e “contraddizione” sono illustrate in L. Wittgenstein, Tractatus Logico philosophicus, trad. it. di A.G. Conte, Torino, 1964, alle prop. 4.46 e segg. e prop 6.1 e segg. laddove “i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mondo” (prop. 5.6). Lo studio del pensiero di Wittgenstein come pensiero negativo è affrontato in M. Cacciari, Krisis, Milano, 1976, pp. 84-98. Il manifestarsi della tautologia nelle esperienze artistiche contemporanee “concettuali” (cui può riferirsi l’architettura di Eisenmann) è stato analizzato da Leo Aloisio e Filiberto Menna in Analisi delle proposizioni concettuali, Roma, 1975. 10 La frase citata dalla Kristeva è in G.W. Hegel, Scienza della logica, trad. it. di A. Moni rivista da C. Cesa, Bari, 1968 p. 486. 11 Ibidem. 12 “La negatività che si riferisce come punto allo spazio e vi svolge le sue determinazioni come linea e superficie, è nella sfera dell’esteriorità altresì per sé, e pone colà dentro le sue determinazioni, ma insieme in modo conforme alla sfera dell’esteriorità, e vi appare indifferentemente verso la giustapposizione immobile. La negatività posta così è il tempo”. G.W. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, trad. it. di B. Croce 1907/1963, Bari, 1967, p. 217. 13 E’ Martin Heidegger, in Essere e tempo, trad. it. di P. Chiodi, Milano, 1970, pp. 511 e segg. a mettere in luce come lo spirito hegeliano viva insieme nel tempo e fuori del tempo. 14 Emblematica del sovrapporsi di vita e linguaggio nell’arte la vicenda del Surrealismo, la rottura Breton-Bataille, il difficile rapporto posto da Breton tra arte, come azione del rimosso, e realtà, ovvero il proletariato, come rimosso sociale, ovvero lo spostamento del reale, operato da Bataille, tutto all’interno del linguaggio come “esperienza limite”, continuo debordare nella “impossibilità dell’esperienza” dove, in una “opposizione eccessiva”, un “soverchio di negatività”, si sostituisce alla dialettica la continua trasgressione interna al linguaggio. Per questo tema cfr. AAVV, Studi sul Surrealismo, Roma, 1977, ovvero M. Perniola, La trasgressione del surrealismo, ivi, e la bibliografia acclusa di Mariarosaria De Rosa ed Arcangela Cascavilla.
15 settanta, prodromici alle attuali divisioni tra gli architetti, allorchè i due schieramenti, quello italiano propositore di un rifondato rapporto tra architettura e “forma” urbana, critico del laissez faire che caratterizzava la crescita della città, con le sue dinamiche economiche e sociali (della realtà), e quello anglosassone intenzionato a rompere gli ordini linguistici del progetto, ogni assetto formale dell’architettura, della città, del linguaggio costruttivo, rappresentato in Italia dai cosiddetti “radical”, furono identificati sotto la semplicistica etichetta della Presenza/Assenza15, l’egida dell’Essere e quella del Nulla, del Positivo e del Negativo, che individuava l’uno dalla parte della dialettica e l’altro dalla parte dell’analitico, essendo invece entrambi caratterizzati dalla volontà trasformatrice e, insieme, dall’angosciosa coscienza di un annullamento, ovvero intesi a muovere nella storia le “analisi” o nelle analisi la storia16. E’ indicativo infatti, ad indicare il sovrapporsi ideologico dei due atteggiamenti, che, in quelle esperienze, quanti tentavano, nella ripetizione delle parole trascorse, di ristabilire una relazione tra architettura e reale, definizioni costruttive e cose, onde offrire il progetto ad una realtà riformata, come ora vorrebbe Gregotti, finivano con il manifestare una inattuale purezza, un nobile e distaccato attraversamento dei vari dialetti dell’architettura lungo la storia a reperirne l’origine muta, e, già proprio nel rinvio al passato, la decadente nostalgia di un tempo posto oltre ogni recherche e, quindi, oltre ogni storia (come è nell’opera di Aldo Rossi), mentre all’inverso, i “radical”, ponendosi all’interno di una interpretazione dell’arte e dell’architettura come modo per introdursi immediatamente e direttamente tra le cose, sporcarsi con esse, perdere la mediazione della specificità del progetto nell’affermazione di una continuità tra vita ed opera e di un suo effettuale risvolto pragmatico, politico, nel proporre la riappropriazione del “corpo” territoriale nel tempo effimero del magico gesto dell’arte finivano in effetti per affermare una elezione aristocratica, sacrale, dell’artista, dell’architetto, depositario di un potere divino attraverso cui consacrare all’artistico la stessa quotidianeità, leggibile oggi in termini superlativi negli architetti della globalizzaziome. A partire dalle considerazioni della Kristeva, leggendo cioè come le due apparentemente opposte esperienze dell’architettura si muovessero (e si muovono) in un’area della riflessione compresa tra il posthegelismo marxiano ed il pensiero dopo-Nietzsche, che interpreta l’arte quale parte della realtà ed insieme, seguendo Simmel, “esistenza separata”17, emerge per entrambe, pur nella diversa relazione con il linguaggio, nella cui logica l’una assume il reale, o con la realtà, in cui l’altra annega ogni specifico ordine linguistico, la vocazione a porre una finalistica istanza progressiva, rivolta la prima ad una assoluta ragione, la seconda ad un assoluto niente. Se però, appare logico che quanti pongono la negazione, o con Gregotti la critica, del reale dato, sia pure appartandosi, come accadeva agli architetti della “tendenza”, nell’universo separato del linguaggio costruttivo, finiscano per rivolgersi ad una istanza assoluta, cedere all’ideologia, è del tutto contradditorio, ed in definitiva esito di una inconsapevolezza, per chi muove un negare vuoto, ovvero una pretesa pura creatività, elevare altari al nulla e cedere alle più frivole lusinghe del mercato, come fu per i “radical”, i blasfemi architetti pop inglesi e come è per le odierne archistar. E’ invece, oltre le volontà degli epigoni18, che fanno del negativo ancora un logos, a potersi leggere la “insopprimibile istanza tragica del negatives denken”, mostrando come il negativo, pure “fattore determinante dei processi di integrazione e razionalizzazione…non si sostiene che nel contesto di forme che sopportano radicalmente la crisi del sistema dialettico come crisi di ogni possibile rifondazione sintetica del discorso ideologico” non conferendo cioè alla “disperazione alcun significato nichilista” ma tentando di agirla e praticarla “logicamente, teoricamente… produttiva di nuovi ordini” in una “irrisolvibile costitutiva contraddizione tra essi e il permanere della crisi” che riveli “la impossibilità di risolvere in senso sintetico la crisi del sistema classico-dialettico”19. Michel Foucault ha lucidamente messo in luce, a partire da Nietzsche, o meglio, dal Kant che Nietzsche cita, la compresenza di nuovi ordini alla Critica, riferendosi alla lettura privilegiata del linguaggio poetico dove, tra Sade e Ba15
La definizione dei due modelli interpretativi dell’arte contemporanea è di Renato Barilli in Tra presenza e assenza, Milano, 1974, dove viene affermata anche la loro intersezione e compresenza quali “due varianti sovraculturali conseguenti come ipotesi subordinate ad una unica ipotesi di fondo” (p.11). Lo “schema” è ripreso malamente per l’architettura, irrigidito cioè in una opposizione tra la Presenza, come privilegiamento del “momento dialettico” ,e l’Assenza, come “creazione di una totalità in vitro” in F. Irace, Assenza-presenza due modelli per l’architettura in «Op.Cit.» n. 37, 1975. 16 La effettualità (anche dialettica) del pensiero negativo (se si vuole, analitico) è messa in luce da Massimo Cacciari, a proposito di Max Weber, in Krisis, op. cit. Altri studiosi hanno rilevato la complementarità di analiticità e dialettica nel pensiero dell’assenza come è in N. de Feo, Analitica e dialettica in Nietzsche, Bari 1965. All’inverso la compresenza di analiticità e dialettica nel pensiero della presenza è stata posta in evidenza in numerosi scritti di Enzo Paci sulla rivista «Aut Aut», ovvero nel saggio Tempo e relazione, Bari 1965, dove è affrontato il tema della “positività” e “negatività” in autori del tutto contrastanti come Wittgenstein e Dewey. 17 G. Simmel, Arte e civiltà, trad. it. di L. Perucchi, Milano, 1976, ovvero i saggi dal titolo L’ansa del vaso e Metafisica della morte. 18 Il divario tra la razionalità formale della “seria apocalisse viennese” e la lucida follia della scuola di Francoforte si colma nel convergere di entrambe in una visione idealistica, come ha mostrato Massimo Cacciari in Metropolis, Roma, 1973, a proposito del “ritorno” nostalgico di Simmel, o Giangiorgio Pasqualotto ne L’estetica francofortese: morte per utopia, «Il Verri» dic. 1976, a proposito della contraddizione di Adorno e Marcuse tra l’affermazione di una incapacità dell’arte ad intervenire nel mondo e l’utopia del trasferirsi della sua istanza negativa nel sociale. 19 M. Cacciari, Krisis, op. cit., pp.7-8.
16 taille è dato assistere al gioco tra il limite e la trasgressione. “Questa filosofia dell’affermazione non positiva, vale a dire della prova del limite – scrive Foucault – è quella, io credo, che Blanchot ha definito con il principio di contestazione. Non si tratta qui di una negazione generalizzata, ma di una affermazione che non afferma niente: in piena rottura di transitività. La contestazione non è lo sforzo del pensiero per negare delle esistenze o dei valori, è il gesto che riconduce ognuna di queste esistenze ed ognuno di questi valori ai propri limiti e quindi al Limite in cui si compie la decisione ontologica: contestare è andare fin nel cuore vuoto dove l’essere raggiunge il suo limite e dove il limite definisce l’essere”20. E tuttavia, posto oltre la critica progressiva, quella in definitiva perorata da Gregotti, questo stesso negare intrinseco al discorso, forse proprio perchè sembra non occupare alcuno spazio, “nessun discorso già pronunciato” per essere “gioco istantaneo del limite e della trasgressione”, oscillando tra critica ed ontologia21 rischia di finire con l’offrire il suo affermativo consenso, pur fuori dalla sintesi dialettica, allo status quo delle cose, del mondo. Estremamente calzante, a questo proposito, appare, proprio per l’architettura, la differenza tra Loos e Wittgenstein nella lettura offerta da Massimo Cacciari, dove si manifesta l’inanità del pensiero negativo, nella interpretazione loosiana, ad intraprendere nuove scalate ad una falsa comprensione, pur nella critica, del reale, il tentativo cioè, nel “disgusto” del filosofo-logico viennese, di fare del nihilismus una formula del costruire, uno stile da trasferire all’urbano e al reale22. Più in generale, Dino Formaggio ha mostrato, nell’arte, i modi in cui l’attività negativa si tramuta in un agire presieduto da una sorta di assoluto istinto di morte23, offrendo al nulla una costituzione ontologica, risvolto ideale dell’essere. Questo studioso definisce infatti l’atteggiamento che oppone al “nulla metodologico” un “nulla ontologico” come “nichilismo incompiuto” e lo rileva proprio in certe forme dell’avanguardia, del suo “nichilismo anarchico”, del tutto conservativo. Egli scrive infatti nel 1973, con sorprendente preveggenza: “spesso è questa inadeguata coscienza dell’arte, e del rivoltiamo confuso e velleitaristico che implica che certe forme di pretesa avanguardia finiscono per consegnarsi ad un destino di retroguardia anche oggi. La confusione dei concetti, ed il velleitarismo del nuovo a tutti i costi, fino a diventare solo fumo negli occhi, sono, in forma consapevole o meno, un modo di affiancare i movimenti della conservazione e della reazione. Confusione e velleitarismo sono sempre dalla parte dell’oscurantismo, anche quando ad agitarli è qualcosa che si chiama avanguardia. In tal senso queste forme di avanguardia sono un gettarsi avanti fantomatico, che nei tempi medi e lunghi finisce per guadagnare in retroguardia, per confondersi con la coda e persino con il codinismo”24. Proseguendo nella sua analisi Dino Formaggio giungerà ad un concetto dell’arte, e del nulla di cui si fa portatrice, come proiezione, progetto di “possibilità” inattuali, in una storica “possibilità di progetto”, negando ogni costituzione oggettuale, generatrice di norme di organizzazione formale, se non come manifestazione della propria corruzione e del proprio farsi. Un carattere ‘informale’ dell’opera, strettamente legato ai meccanismi produttivi dell’uomo (nei termini estesi che vanno dalla corporeità al linguaggio a quelli più astratti dell’universo meccanico, o, diremmo oggi, informatico) ed insieme, alla negazione di una loro rigida definizione, che in un altro scritto definisce, con il Pareyson, quale “formatività”, un formare cioè sempre aperto ad ulteriori definizioni, in una interpretazione della morte dell’arte non come sua fine definitiva, ma come fine della forma e di ipostatiche norme, sì che essa invada la vita stessa, concludendosi in una esteticità diffusa25. E’ indubbio come, negli stessi anni in cui Dino Formaggio scrive nei termini esposti, l’architettura che sembra meglio interpretare la compresenza di progetto e negazione, una formatività cioè aperta che, interrotta la forma, mostri i modi del suo possibile farsi e delle diverse possibilità formali del fare, come invito a rompere ogni dominio costituito, sia quella di provenienza “organica”, sebbene Reyer Banham riveli, proprio nell’esperienza che maggiormente tenta di frammentare forma e tradizione nel manifesto gioco dei materiali, nel “brutalismo” di cui era stato profeta, ancora una propensione all’ordine, all’equilibrio ed all’armonia formale26. Oltre anche il “brutalismo” però, permane in quegli anni l’aspirazione a formalizzare l’informe, a fare della dissonanza la regola, particolarmente nell’architettura connessa alla cultura ebraica, che trova nelle “invarianti” dell’antisimmetrico proposte da Bruno Zevi, la nuova Bibbia del progetto, tanto più che lo stesso Zevi mostra come sia del tutto interno al pensiero ebraico, ovvero ad una religione, il senso dello spazio-non spazio che egli perora27. E del resto, più 20
M. Foucault, Scritti letterari, trad. it. di C. Milanese, Milano, 1971, p. 60 “Il gioco istantaneo del limite e della trasgressione potrebbe essere forse, ai nostri giorni, la prova essenziale di un pensiero dell’origine al quale Nietzsche ci ha votato sin dall’inizio della sua opera. Un pensiero che sarebbe, in assoluto e nello stesso tempo,una Critica ed una Ontologia, un pensiero che penserebbe la finitezza e l’essere”, ibidem. p. 61. 22 M. Cacciari F. Amendolagine, Oikos da Loos a Wittgenstein, Roma, 1975. 23 Dino Formaggio, in Arte, Milano, 1973, a p. 64 analizza l’esaltazione dei sentimenti di morte nell’arte romantica. 24 Ibidem, p. 64-65. 25 D. Formaggio, L’idea di artisticità, Milano, 1962, particolarmente alla Sezione prima, § 18, p. 155 e segg. 26 Reyer Banham, scrive in The Newbrutalism, London 1966: “I Johnson, i Johansen e i Rudolph della scena americana furono più veloci di me nel comprendere che i brutalisti erano in realtà i loro alleati, e non i miei; impegnati come erano nell’ultimo ritorno alla tradizione classica e non a quella tecnologica”. 27 B. Zevi, Il linguaggio moderno dell’architettura, Torino, 1973, che aveva appunto come sottotitolo Guida al Codice anticlassico. 21
17 che nei ludici esperimenti dell’architettura anglosassone sostenuta da Banham, è un architetto di fede ebraica, cui si ispirerà Gehry, a sua volta ebreo, John Johansen 28, dopo essere stato, allievo di Gropius ed esaltatore di Mies, esponente dell’international style, a meglio rappresentare l’ideologia che interpreta la frammentazione della forma come luogo critico di ogni reale dato ed apertura messianica ad un principio mai raggiunto. Infatti proprio i progetti dell’architetto americano mettono in luce la possibilità di un processo “formativo” aperto per l’attività costruttiva, dove i singoli oggetti, le singole “parti” perdono, nel loro frammentismo, come accade alla coeva pop-art americana di Rauchemberg, la loro rigida strutturazione, per essere, per così dire, reinventate, esse stesse luogo di reinvenzione, nel loro senso simbolico e funzionale, attraverso l’assemblaggio di volta in volta costituito. I riferimenti di Zevi come quelli di Johansen sono esplicitamente nelle dissimmetrie wrightiane, ed è però nella volontà di irrigidire, l’uno in una normativa, quella delle sette invarianti, l’altro in un procedimento metodologico, la fluidità dell’architettura organica a riproporre una ideologia, forse già propria a Wright, alla sua aspirazione ad un antistile a sua volta stile, da trasferire al mondo, alla città (Broadacre) come al deserto, dove il concetto del superamento infinito di ogni definizione stabile, connesso alle “invarianti”, denuncia la possibilità di una idealizzazione del negativo che comunque confluisce in un formalismo29. E difatti l’architettura di Johansen, posta la “nuova frontiera”, irraggiungibile west mai superato, nella emancipazione delle periferie urbane dal degrado fisico e sociale, intende tale emancipazione come dovere, Sollen, da espletare nel senso della integrazione del periferico in una “forma” urbana comprensiva, sintetica, di ogni difformità, un nuovo paradiso. Se però i tentativi di Zevi, come in fondo quelli della Kristeva30, di normare l’azione negativa all’interno del linguaggio, lasciano intravedere la formulazione di nuovi ordini ideali, resta comunque chiaro che per essi l’azione critica, negativa, si pone nel limite stesso della parola come azione intrinseca ai procedimenti del dire, ed anzi come modalità interna ai dispositivi del linguaggio, laddove, proprio a proposito dell’architettura, chi, come Renato De Fusco analizza, negli stessi anni, i caratteri linguistici del costruire, il suo essere testo materiale autotrasgressivo, mostra anche la sua impossibilità, legato com’è a necessità concrete, di essere pratica altra, “materialisticamente” negativa del reale cui si offre31. Vale a dire che, proprio chi, come De Fusco, maggiormente analizza per l’architettura la sua disposizione ad essere un linguaggio costituito con cui dire le cose, sembra ritenere impossibile l’esercizio di una critica alla realtà, quella che vorrebbe Gregotti, dall’interno di una pratica fortemente vincolata dalle esigenze, economiche, sociali, d’uso, della realtà stessa, per cui, ancora una volta emerge come la negazione dei dati reali che determinano l’architettura possa esercitarsi o solo all’interno del linguaggio costruttivo, come contestazione alle sue convenzioni formali, poco incidente sul reale se non per tempi forse lunghi, o nell’uscita dallo specifico linguistico, come è per gli architetti pop anglosassoni o i ‘radical’ italiani rivolti alla irruzione diretta nelle cose. La possibilità dell’architettura ad essere altero costruire, pratica “altra”, è data di solito nell’esempio dell’unica opera di Wittgenstein, o di quelle di Mies, e tuttavia, a manifestare l’eventualità del fare architettonico quale attività negativa sono alcune esperienze degli stessi anni settanta: quelle dei Five Architects, e più in particolare di John Heiduk e Peter Eisenmann. Così, mentre il primo nei suoi giochi “intertestuali” ci mostra, già nell’inutile rincorrersi dei lessici, a tentare, con nominazioni reciproche, di conchiudere la realtà, l’abitare cioè, del tutto sfuggente invece ai segni costruttivi, sì che questi si manifestano, non solo oppositivi, quanto persino avulsi dal mondo, il secondo, nei suoi progetti, esibisce le difficoltà della medesima logica costruttiva, di cui manifesta le continue infrazioni, a catturarsi in un ordine definitivo che deponga testimonialmente su se stesso. Facendo reagire tra loro logiche desunte dall’esperienza pittorica o letteraria con le logiche riferibili al costruire 32, Hejduk manifesta infatti l’esclusiva possibilità dei segni di rinviare a se stessi, estranei come sono alla realtà esterna, o, al più, ad una stratificazione di idiomi, desunti da diverse regioni linguistiche che, sovrapposte lungo la storia, si ripercorrono e si riflettono in una circolare teoria di separate definizioni. Così, se per lui la parete può 28
A proposito del riferimento di Gehry a Johansen cfr. A. Saggio, Frank o Gehry, architetture residuali, Torino, 1997. Cfr. il mio scritto sulle invarianti in «L’architettura cronache e storia», n. 241, novembre 1975 30 L’insistenza, qui, sulle analisi della Kristeva si deve al fatto che questa studiosa sintetizza gli studi di una vasta area della critica formale, da Jakobson a Tynjanov a Sklvskij a Mukarowski sino alla “Nouvelle critique” francese, applicata all’arte contemporanea cui guarda anche Bruno Zevi. 31 La questione del testo come produzione materiale è affrontata in AAVV. La materialità del testo, Verona 1976, in particolare il saggio di Adrea Calzolari su Diderot. Renato De Fusco in Avanguardia e sperimentalismo nella storia dell’architettura moderna, Milano, 1975, dopo aver definito l’Avanguardia, nei termini di Poggioli, con i concetti di “attivismo, antagonismo, nichilismo” (p.65) o in quelli di Enzensberger con le nozioni di “improvvisazione, caso…vuotezza…azione pura” riconosce nella sola “architettura disegnata… il fenomeno più peculiare dell’avanguardia” (p. 88) affermando che “per l’architettura vera e propria, ossia per gli edifici effettivamente realizzati non si può parlare di avanguardia…è lecito invece parlare di sperimentalismo” (p. 94) dove “lo sperimentalismo tende ad un fine preciso” e “l’avanguardia non può rinunciare a un certo grado di gratuità”. Ne consegue l’impossibilità dell’architettura costruita ad essere priva di “scopi…antagonista e nichilista” mentre l’avanguardia è mossa solo in un “discorso su l’architettura priva di significanti, ossia di tangibili esempi di edifici portatori delle istanze di questa o quella poetica” (p. 96). 32 Vedi La Diamond House, versioni A,B,C e l’opera di Mondrian Foxtrot o i progetti “I testimoni silenziosi”, “Il cimitero per le ceneri del pensiero” per le Biennali del 1975/79 dove sono evocati Dante, Céline, Proust, Robbe-Grillet, Melville, ecc. 29
18 inscenare la simbiosi con la pagina (House 16) a mostrare la tautologia che vige nel continuo rispecchiarsi dei linguaggi, Eisenmann lascia apparire negli stessi “sistemi di relazione” costruttivi, “il lineare, il planare il volumetrico”33, nelle loro asettiche “reazioni”, l’oscillazione tra vero e falso che rende contradditoria la enunciazione di significati e sensi che comprendano le cose. Così è per travi e pilastri (il lineare) intrecciati in un reticolo privo di necessità strutturali (House I e II) che manifestano il convenzionalismo della stessa struttura statica moltiplicata in raddoppi di travi, vere (o false?), e per pilastri dichiaratamente falsi che, sospesi dal terreno, si assimilano a quelli veri inducendo a confondere il vero ed il falso. E ancora, per i piani orizzontali (il planare) che si interrompono ad escludere ogni possibilità di solaio e per i piani verticali che si aprono negli infiniti modi di essere di una apertura nella parete sino a rendere la parete stessa vuota apertura. O ancora per gli slittamenti e le rotazioni (il volumetrico, House II, II, III, IV) di volumi regolari a negare ogni finitezza formale, ogni compiutezza dell’oggetto, onde definire spazi che si compenetrano contradditori, chiusi all’esterno ed aperti all’interno fino a fingere spazialità dove ci sono solo vuoti, ascensioni nel nulla, inutili camminamenti tra una inutile selva di reperti edili. Ma per quanto queste architetture nella loro “estraniata solitudine”, nel “laconico stupore”34, si ritraggano da ogni ideologica coesione tra segni e cose e, persino, come annota Manfredo Tafuri, dalla sintesi rappresentata dalla forma35, in esse si agita ancora il fantasma di una metafisica istanza originaria che lega i linguaggi diversi (Hejduk) o che promuove la ricreativa generatività del linguaggio (Eisenmann). Lo stesso concetto di “inconscio collettivo” utilizzato da Eisenmann, manifestando le sue “strutture” negli “integrali sintattici” del Chomsky citato dall’architetto, si conforma come un fondo categoriale, a-priori, informatore delle definizioni36 ed agente dell’immaginario, una ragion pura che innesta i dispositivi del dire e che si riflette in uno spirituale Principio. Del resto lo spiritualismo appare essere del tutto esplicito in un altro architetto americano, pure intriso del trascendentalismo pionieristico, a sua volta ebreo che, formulando spazi e forme diversi da quelli proposti da Eisenmann, e tuttavia rivolti ad un analogo nulla, è stato sovente assimilato inopportunamente dalla critica all’Aldo Rossi amato dai Five, Louis Kahn In realtà la differenza tra Kahn e Rossi si manifesta proprio in un diverso modo di interpretare il negativo, inteso, nel primo, attraverso l’impossibile circoscrizione di spazi rivolti di fatto all’attesa messianica di un principio spirituale posto, così come in Eisenmann, oltre le definizioni, e, nel secondo, come azione interna al linguaggio rivolta all’insorgenza di forme originarie, non tanto intese recinti d’attesa del divino (come pure era per l’ispiratore di Rossi, Saverio Muratori) quanto fantasmi dell’inconscio costruttivo o, anche, di un proprio personale abitare. Così, ad esempio, il gusto materico delle tessiture in Kahn, il rincorrersi degli spazi attraverso vuote occhiaie che dilatano il tempo oltre lo sguardo, il suo presente, l’imprigionarsi della luce (Sinagoga di Huvra) ed il suo improvviso liberarsi (Salk Institute, Monumento ai martiri ebrei), denotano la volontà di convogliare il molteplice in una forma comprensiva di ogni singolarità37, dove, all’inverso, l’estrazione da ogni particolare delle somiglianze e delle analogie, imparentate da Rossi nella freddezza bianca degli intonaci, tende al rinvio di ogni figura ai suoi diversi significati e, insieme, a nessun significato, sintetica solo di sé nella espulsione di ogni varietà38. Accade cioè che mentre Kahn, profondamente americano39, pure nella presentificazione eidetica degli elementi che concorrono alla configurazione architettonica, le materie, gli spazi gerarchizzati40, aspira comunque ad una Presenza, vagheggiata oltre il quotidiano, cui rimanda la Forma, celebrativa di una intemporale Istituzione e 33
Sulle architetture e la teoria compositiva di Eisenmann negli anni settanta cfr. i suoi scritti per «Casabella» n. 345/1970, n. 359-60/1972 e n. 386/1974 ed il testo di Mario Gandelsonas per il numero 374/1973 della medesima rivista. 34 K. Frampton, Five architects, in «Lotus» n. 9/1975. 35 A proposito di Eisenmann Manfredo Tafuri, in “Les bijoux indiscrets”, op. cit., pp. 16/18, scrive: “L’abitare in tale concezione non realizza il linguaggio. Anzi l’abitare è qui sfida ai limiti che il linguaggio si impone ed impone all’esistere. La forma si impone come sfida e ostacolo da superare. L’uomo che pretende di vivere la forma è condannato a una doppia alienazione, dalla quale è possibile sfuggire solo aggredendo la forma, accettandone la sfida”. E, a proposito di Hjduk: “la poetica dell’oggetto viene così evocata e subito distrutta. Ciò che conta è l’esposizione lucida e perversa dell’inutilità del gioco intrapreso” 36 I riferimenti di Eisenmann a Chomsky sono ricorrenti nei suoi scritti, ed è il concetto chomskyano di “struttura profonda”, come “struttura astratta sottostante che determina l’interpretazione semantica della frase”, avente “carattere universale” (v. N. Chomsky, Saggi linguistici vol. III, La filosofia del linguaggio, trad. it. di A De Palma, Torino, 1969, pp. 272-273) che lascia emergere, nell’aspirazione a rintracciare una garanzia di verità alle definizioni, il carattere ideologico delle sue analisi e di quelle dell’architetto. 37 Louis Kahn interpreta la forma quale luogo dell’Istituzione, comprensiva della varietà del singolare, manifestando il proprio carattere americano riferibile al trascendentalismo dei Thoreau, degli Emerson ed al kantismo di Coleridge che scopre agli “io” individuali il fondo comune di un “Io” agglutinante le varie singolarità: “Io celebro me stesso, io canto me stesso / e ciò che io presumo devi tu presumere / perché ogni attimo che mi appartiene è come appartenesse a te”. W. Whitman, Foglie d’erba, trad. it. di E. Giachino, Torino, 1965, p. 42. 38 Cfr. Ezio Bonfanti su Rossi in Autonomia dell’architettura, in «Controspazio» n. 1, 1969. 39 Manfredo Tafuri apre il suo saggio sui Five, op. cit. nel riferimento a Kahn ed al suo essere profondamente americano. 40 E’ Louis Kahn ad illustrare il proprio progetto per il Salk Institute mediante la concisa nominazione dei suoi materiali messi in parentesi, quasi in una volontà a manifestarne l’epoché: “malta, cristallo, pietra, acqua”. Cfr. «L’Architecture d’Aujourd’hui» n. 142, 1969. Sulla fenomenologia in Kahn ha scriito Christian Norberg-Schulz, Idea e immagine, Roma 1980, mentre sulle gerarchie spaziali ed i riferimenti alla storia si veda Vincent Scully, Louis Kahn, trad. it. di E. A. Cotta e A. Barcolli, Milano 1963, ripreso da Manfredo Tafuri in «Comunità», n. 2, 1964 e da Francesco D’Amato in «Controspazio» n. 1, 1977.
19 rappresentativa dell’eterno, Rossi, invece, contraendo i vari sensi ed i vari significati in un unico segno, per così dire primario, se rischia a sua volta di cadere nello spiritualismo, nel possibile intendere tale primarietà figura di un termine metafisico, aspira a rendere nella forma tutto l’inventario delle altre forme analoghe che attraversano la storia, reperite mediante una verticale recherche, anche autobiografica, onde invitare ad una analisi che, per quanto interna all’autonomia del costruire, per dirla con Anceschi, sia testimone di una eteronoma, storica, impossibilità dell’architettura a dire ciò che le è estraneo41. Se proprio vuole trovarsi una cifra comune ai due architetti può dirsi che, sia pure in termini diversi, nelle loro opere aleggi un analogo senso di morte, data la museificazione comune, attuata attraverso il progetto, dell’architettura passata42. Ma anche qui se l’immaginario kahniano, utilizzando la “mémoire” come “creativité” tende a prolungare l’esalazione dell’architettura negli infiniti respiri vuoti che si aprono nei suoi monumentalizzati sudari, nell’opera rossiana, “al di là del principio di piacere” in cui si pongono le fredde forme che neppure i colori riscaldano, è lo stesso bacio che congiunge in un analogo segno “sensi” diversi, a manifestare, per la costruzione, un inappellabile rigor mortis43. Ed è qui che si apre forse una ulteriore modalità del negare, nel senso che, se la critica al reale proposta da Gregotti, ovvero ai domini del nostro mondo sempre più aperto quanto costrittivo, appare esercitabile solo dall’interno del linguaggio architettonico come azione contestativa dei modi linguistici medesimi, e se tale tipo di contestazione rischia di cadere nella ideologica ipostasi di un principio – pieno o vuoto poco importa – di fatto alieno alle concrete determinazioni sottoposte a contestazione, rimane forse come possibilità dell’architettura ad essere critica, di sé e del reale che in essa comunque si manifesta e rappresenta, la sua volontaria improduttività, una ineffettualità che sia effettuale in quanto a contraddizioni, una architettura cioè che spinga il suo limite oltre ogni spazialità, ogni costruibilità, ogni economia, ogni funzionalità, ogni sempre addomesticabile e sintetizzabile negazione, ovvero una architettura dell’inutilità che veda l’architetto ritrarsi persino dal suo fare, riaffermato in una altera presenza, quel modo d’essere cioè, altresì ricorrente nella storia, del progetto come puro disegno o pura parola critica. Una esperienza, quella del “disegno di architettura”, ricorrente nelle fasi di flesso della storia, che non intende il disegno come metalinguaggio, lavoro critico sul progetto o esso stesso proiezione verso realtà nuove, aspettativa di tempi migliori, quanto pratica autoesaustiva, priva di ogni rappresentazione, e calata nella storia di una attuale impossibilità di parola, ovvero parola che testimoni del proprio silenzio. Bisogna cioè distinguere, in questa pratica ‘cara’ agli architetti, tra l’assimilazione del disegno ad una sorta di architettura virtuale, che dilazioni il nientificarsi del progetto, il nulla, nelle proprie rappresentazioni esaltandolo in una idealità, ed un disegnare che, a dispetto di ogni virtualità si agisce realisticamente come storica possibile pratica propria ad un progettare vuoto. Il riferimento obbligato è allora a coloro che praticano nel disegno, nella azione della matita sul foglio, l’architettura quale costruttività incostruibile, gli architetti come Piranesi, Leonidov o, negli anni settanta, Scolari, Grumbach, forse Purini, o alcuni architetti attuali d’oriente, che, pur rinviando nei loro disegni ad un progetto, si attardano nella pastosità dei colori, nei giochi cromatici che riflettono solo se stessi. Proprio Scolari e Purini44 hanno definito il disegno come materiale lavoro, “dietro il proprio tavolo” di fronte alla lastra o al foglio – ma ciò vale a maggior ragione nella intransitività del computer – per cui, mentre il tempo del disegnare, dell’incidere, del guardare, si rapprende sul piano a negare altri tempi che non il presente, il disegno stesso si pone pratica altra, affermandosi e negandosi quale progetto, nel suo rinviare all’architettura, al costruire, e attestandosi insieme nella eliminazione di ogni edificabilità, perché il tempo, l’abitare, viva e si fissi solo negli inchiostri e nei colori. Ed anche qui potrebbe rivelarsi un idealismo, addirittura il riferimento platonico dell’Alberti e degli architetti rinascimentali, sebbene la stessa critica che rilevi le contraddizioni ideologiche del progetto e del suo negarsi non può non riconoscere che il suo negare l’architettura non può non aprire alla introiezione, nei suoi modi specifici, dell’opera, per cui, se appare opportuno che la critica propriamente detta analizzi la caduta del negativo dell’arte e dell’architettura in ideologia, ciò non può condurre ad ipotizzare per essa alcun luogo critico assoluto sostituti-
41
Nella ristampa del 1976 di Autonomia ed eteronomia dell’arte, Milano, 1976, Luciano Anceschi, nelle “Intenzioni” introduttive, si chiede se “l’autonomia possa ancora trovare… qualche forma attiva di significato nella realtà” diversa da quella ipotizzata nel ’36, anno della prima edizione, riaffermando, successivamente, “la continua dialettica tra il principio dell’autonomia del campo estetico e quello dell’eteronomia” (p. 225). 42 Si è detto del riferimento alla storia in Kahn, per Rossi cfr. A. Rossi, Architettura per i musei, in Scritti scelti sull’architettura e la città, Milano 1975. 43 L’indugiare nel sogno e nella récherche autobiografica di Rossi rende legittimo il ricorso alla psicoanalisi, ovvero la lettura nei testi architettonici rossiani della coazione a ripetere le forme ed il loro passato, che induce a pensare al desiderio di ricostruire un luogo mitico originario in cui la volontà al piacere (del testo) sia già congiunta con l’istinto di distruzione, l’affermare al negare, palese anche nella teorizzazione di una scientificità dell’architettura che, mostrando i tratti poetici, finisce con il professare una antiscientificità, così come è per ogni ragione che si sostiene su più profonde affezioni irrazionali. 44 Per Massimo Scolari si veda in particolare il catalogo della mostra Disegni per UNA architettura, tenuta a Milano alla Compagnia del Disegno nel 1976, e per Franco Purini il catalogo della mostra delle stampe, Pareti. Sette incisioni, alla Galleria Romero a Roma con la lettura critica di Francesco Moschini, Note sul progetto grafico di Franco Purini, Roma, 1977.
20 vo dell’arte, come pure accadde negli anni settanta 45, foriero a sua volta di visioni ideologiche. Vale a dire che una critica la quale voglia sfuggire a sua volta il ruolo di essere “metalinguaggio in base al quale illuminare distorsioni, mistificazioni, errori” rispetto a principi ideologicamente affermati come veri, non può che essere essa stessa “progetto effettuale di crisi, messa a nudo di contraddizioni determinate” senza cioè “dispiegare l’oggetto, risolverlo e chiuderlo in una interpretazione vera, ma renderlo formulabile nella sua reale e determinata complessità… proprio come oggetto contradditorio”46, fino a rendersi anzi “cosciente dell’artificiosità delle proprie operazioni” e “rivelare la strumentalità delle proprie attribuzioni di senso”47, le proprie affezioni, la propria ideologia, in una parola esemplare che, mostrando le proprie evoluzioni, saggi il proprio limite sospendendo il giudizio a restare in silenzio perché ancora si possa costruire, parlare… tacere.
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Lungo questa linea della critica come negazione dell’arte Giorgio Pasqualotto, op. cit. M. Cacciari, Krisis, op. cit. e la lettura che ne offre Franco Rella in «Aut Aut» n. 159-160. 47 M. Tafuri, Teorie e storia dell’architettura, Bari, 1968, p. 264.
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21 THIS IS TOMORROW Vs THIS WAS TOMORROW Sulla fine delle logiche del secondo novecento Koolhaas dichiara, in un'intervista di Lynne Cooke (critica d’arte ed Art curatrice del Dia Foundation, New York, dal 1991) al Fairmont Olympic Hotel, Seattle, 2004 sul senso della mostra “The Art and the 60s: This Was Tomorrow”1, la fine dei sistemi generativi del POP made in UK. Alle domande di Lynne Cooke, Koolhaas risponde con sagacia e cinismo. E’ da sottolineare che la mostra POP patrocinata da Banham era intitolata THIS IS TOMORROW (questo è domani inteso ora è domani) mentre la mostra alla TATE cui si riferisce Koolhaas è intitolata THIS WAS TOMORROW (questo era domani inteso ora era ieri) in un duello di tempi che adducono a scenari differenti. Di qui il titolo THIS IS TOMORROW Vs THIS WAS TOMORROW con cui l’intervista, che ho personalmente tradotto, è riportata nella mia tesi di Dottorato sull’attività didattica e culturale della Architectural Association di Londra. Raffaele Nappo
L. C.: Se vedessimo il punto centrale di Richard Seifert o ogni altra essenza degli edifici medi degli anni 60 è ancora oggi riscontrabile una linea Vittoriana o Edwardiana. Nonostante tutte le discussioni sui radicali cambiamenti delle strade o delle nuove urbanizzazioni di Londra, sembra che queste aree medie diffuse siano legate da qualcosa che fondamentalmente non sia cambiato nel tempo. R. K.: Questo è un punto interessante poiché in Europa cambiare su larga scala mostra delle resistenze. A Londra, per esempio, ti meraviglieresti osservando le “accumulazioni delle trasformazioni” ed il modo poco intelligente di cambiare. Ho sempre sentito delle motivazioni del tipo l’Inghilterra non ha acute ambizioni teoriche perché il sentimentalismo lì ha un' interessante non abilità ad implementare cose su un livello teorico. Se tu vedessi la Kelling House di Denys Lasdun, vedresti quanto è sensazionale proprio per questa ragione. Mai pretendere che l’intero contesto debba essere cancellato ed il British solitamente proponeva proprio questi tipi di interventi. Nel frattempo ogni persona in Europa stava provando a cancellare ogni cosa, perdendo il punto della creazione di questa eloquente interferenza tra il vecchio ed il nuovo. L. C.: Ma pensi che tali edifici siano compromessi inevitabilmente con questi tipi di interventi? R. K.: Ironicamente si, perchè in questo modo molti di essi sono stati costruiti per un pubblico vantaggio e noi ora tendiamo a pensare che essi siano compromessi semplicemente perché non erano unici ed erano carenti di firme. La cosa era generata in uno spirito di benevolenza e, guardando al nostro impoverimento, ci rendiamo conto che abbiamo bisogno delle icone per iniziare a prestare attenzione. L. C.: Così noi ora parliamo di Patrick Hodgkinson, in particolare del Brunswick Centre housing project, che non era il peggiore per molti significati? R. K.: No, noi possiamo, sicuramente, alzare tali prodotti di qualità ma allo stesso tempo ci rammarichiamo per le nostre aspettative che inizialmente sono state troppo alte e afflitte dall’estetica e dalla richiesta dei materiali. Alcune volte ci troviamo in difficoltà. Se guardassimo Alexandra Road Estate potremmo vedere la pretesa di erte tessiture che potrebbero essere epurate. L. C.: Quest'implicazione degli aspetti estetici è qualcosa che ricopre e che può essere aggiunta, sottratta o integrata dall’inizio? R. K.: Essenzialmente si e questi di solito sono immediatamente e direttamente connessi tra architettura e un'ideologia di eguaglianza. Oggi questi concetti estetici sono difficili da capire. Questa connessione è largamente ed inconsciamente abbandonata e perfino il nostro cuore è piuttosto rassegnato e siamo eccitati per l’eccezionale e per i giocosi capolavori. Per me questa situazione cancella una questione non solo evidente qui in Inghilterra, ma specie quando transito dalla Berlino ovest alla Est o quando viaggio a Mosca, cioè il livello di lusso ed eccesso nei quali noi indulgiamo ora è diventato molto appartenente in quelle zone di un passato egualitario. L. C.: E’ questo un prodotto tipico dell' architettura che ha dominato dal 1990? Edifici generati dai privati come opposti al settore pubblico? R. K.: La produzione architettonica connessa al profitto ha cambiato le città ma non l'intero contesto urbano. L. C.: Vorresti dire che gli interventi privati erano isolati ed autonomi piuttosto che integrati? R. K.: Si. Una personale conseguenza del movimento del profitto è rappresentata più che dal cambiamento delle città dalle realizzazioni prodotte in disaccordo con ogni affermato programma o ambizione urbana. Molti degli 1
Si tratta di un'esibizione che rompe il campo d’azione della Tate Britain attraverso un percorso mix della fine dell’arte, architettura e fotografia. Art and the 60s: This was Tomorrow looks at new forms of art that emerged in Britain between 1956 and 1968. 30 June - 26 September 2004.
22 edifici del 1960 erano realmente goffi e sgraziati ma seppur loro avessero poca virtù estetica o qualità, avevano un senso di essere deliberati nonostante il loro legame con un piano o una giuda. L. C.: Come per la Piccadilly Plaza di Manchester o il Bull Ring in Birmingham, molte città inglesi hanno il loro centro, il loro cuore ridisegnato. Questi esempi sono identificabili o distinguibili tra gli altri? Tu pensi che questo sia importante? R. K.: Le persone sono convinte che la bellezza, per esempio ,della Piccadilly Plaza di Covell & Matthews, sia riscontrabile ai loro sensi nell'aspetto programmatico di città come Londra o Manchester. Io sono sempre più meravigliato della semplicità della produzione di tale architettura. Per contrasto oggi è quasi oscena tale riproposizione. Ironicamente l'identità è diventata un'obbligazione. Noi siamo in un invidiato grande momento nel senso che, sebbene probabilmente non esplicitiamo un condono delle virtù capitalistiche, contribuiamo al taglio dell’identità spesso al costo dell’autenticità che facilmente coesiste con la più naife architettura dei nostri immediati predecessori. L. C.: Vuoi dire che la progettazione delle case pubbliche non è più possibile? R. K.: Non c’è più possibilità o nessuno ci crede più. L. C.: Tu hai parlato a lungo di Cedric Price e della sua importanza ed hai anche discusso sull’ideologia o teoria che non ha realmente giocato un grande ruolo in Inghilterra. Dato che lui non ha costruito quasi nulla, come spieghi questa apparente contraddizione? R. K.: Io penso che Cedric Price ha fatto incredibili cose. Lui era un ideologo ma non un teorico. In genere io sono molto scettico sul fatto che qualcuno possa essere teorico dell’architettura perché realmente non ci sono teorie. Ci sono precedenti direzioni e movimenti che generano forme ed è molto importante separare questo dalla teoria. La cosa più interessante di Price per me è che mentre lui era, in un certo modo, un architetto nostalgico e conservativo il suo più radicale ed innovativo contributo era l'implacabile e senza fine questione della richiesta e pretesa dell’architettura e degli architetti. Lui era uno scettico che torturava una disciplina conservativa. Cosi nel 1960 il suo fascino era duplice: su un braccio c’era la misura della sincerità e serietà degli sforzi e su un altro la spietatezza della messa in discussione di tale sforzo da parte di persone come Price. Presumibilmente c’è un’interna connessione tra i due e lui poteva solo essere spietato poiché il periodo produceva difficili e competitive forme. L. C.: Ci sono curiose anomalie in questa situazione. Per esempio, non solo la storia dell’architettura di Nikolaus Pevsner ma anche Peter e Alison Smithson provarono a preservare i paesaggi urbani del XVIII secolo di Bath e l'Arco di Euston a Londra. Quindi c’è sia la posizione conservativa che la più avanguardista appartenente ad un forte senso della storia attribuito in un ruolo o ad una posizione nel presente ma quasi nessuno propose una tabula rasa. R. K.: L'intera pubblicazione della tabula rasa è realmente interessante poiché credo che un senso della storia è radicato in architettura probabilmente in modo più tacito che in ogni altra professione. Ad esempio l’avanguardia in architettura è conosciuta molto di più rispetto alle avanguardie artistiche da parte degli studenti di architettura. Il nostro fondamentale materiale genetico è antico ed io non sono sorpreso e non lo definirei come una forma di conservatorismo poiché questi elementi, come la Euston Arch ,sarebbero una pubblicazione per la conservazione. Non posso immaginare un architetto singolo al momento che propone di liberarsi dal senso storico, eccetto, forse, solo per gli interessi dello sviluppo commerciale. Il mito della tabula rasa ha avuto un' interessante vita in architettura basti pensare che era proposto nel 1920 come una poetica nozione letterale. Poi dopo la seconda guerra mondiale il mondo si è capovolto, iniziando il più serio crimine che un architetto potesse mai commettere. Esso era una forma di propaganda usata per gli architetti per produrre le loro ragioni più vivamente e presumibilmente anche per avanzare nella loro carriera ma poi divenne la propaganda dei non architetti contro gli architetti. L. C.: Il caso più estremo potrebbe essere Le Corbusier? R. K.: Non ho mai creduto che ci fosse un serio sforzo di Le Corbusier di essere un antistorico, egli è per lo più un mito che ha spostato l’architettura come un'impensabile forma di peccato originale. L. C.: Vuoi dire che non intendeva eseguire i suoi programmi? non era intenzionato a radere al suolo una grande parte di Parigi? R. K.: No. Io sono sicuro che lui scelse la più bella parte di Parigi semplicemente per dimostrare il suo punto di vista. Bisognerebbe ricordare che dopo la seconda guerra mondiale c’erano molte situazioni in cui si era riconfigurata la tabula rasa. Penso che qualcuno dovrebbe scrivere realmente una seria storia della tabula rasa e cosi potremmo scoprire alcune incredibili discrepanze comparate con la storia ufficiale. Per esempio sono totalmente convinto che un progetto come il Robin Hood Gardens di Peter e Alison Smithson era in ogni suo senso concettualizzato e coesistente con tutto il contesto. L. C.: In un modo differente Richard Hamilton e R. Banham sembrano essere un’altra chiave della figura di questa era. Per quanto riguarda questi punti, forgiando una nuova alleanza tra l’evidente moderno e la storia,
23 Banham, nel testo Theory e Design in the First Machine Age, essenzialmente riscrisse la storia del primo novecento con il futurismo e regole formative e allo stesso tempo stava scrivendo sull’innovativo design automobilistico e sui nuovi oggetti industriali. R. K.: Credo che il cosiddetto purismo, di cui gli architetti sono spesso accusati, sia una proiezione, quasi una speranza. L'architettura è un tropo strano per esser associata con l'eliminazione sia all’interno che all’esterno del proprio dominio del purismo e dell’intolleranza e, al di fuori di ogni sorta di ambiguità, è considerata incongruente. Per il mondo esterno la consistenza dell’architettura è un dato di fatto da cui si devia a proprio rischio e pericolo. L. C.: Nel 1960 c’era un grande contrasto tra l’Inghilterra e l’America, dove la nozione di tabula rasa era polemicamente invocata per gli artisti che vanno da Barnett Newman a Tony Smith e Donald Judd. Quando tu scrivesti Delirious New York in New York all'inizio del 1970 sentivi che stavi scrivendo in un ambiente con nozione di rivalità? R. K.: Questa probabilmente sembra una sottile differenza ma è importante e Delirious in New York è stato scritto come una polemica contro la prima composizione e firme del post-modernismo in architettura piuttosto che come un argomento contro la modernità. Questo è definitivamente un libro tra Europa e America infatti è dissacratorio con la mentalità europea che mi guidava ma allo stesso tempo usavo “una forma di America” contro il Post modern americano. Cosi, in questo senso,esso aveva una doppia agenda. La mia ambizione, con Delirious New York, era di identificare e porre chiaramente un altro modernismo. Noi Europei siamo responsabili e pratici di idee Suprematiste, Dadaiste, Surrealiste, ma conosciamo ben poco del mondo delle sperimentazioni che di fatto occupa il parallelo negli U.S.A. tra le guerre del modernismo americano. Le identificazioni di particolari forme di Modernismo, negli USA, sono state glorificate con lo storicismo ed il post modernismo. Se osservassimo il 1970 ci accorgeremmo che c’erano momenti in cui i nostri uffici, insieme a pochi altri, realmente sembravamo isolati nella ricerca e nel mantenimento delle istanze del Modernismo. L. C.: Perché lasciasti l’Inghilterra per gli USA? Eri insoddisfatto per quello che era successo in architettura in Inghilterra? R. K.: Se ora guardassi indietro a quando ero studente potrei rispondere positivamente sul puritanesimo, guardando le immagini dell’Inghilterra del 1960. Successivamente il puritano aspetto dell’architettura mi sconvolse e da qui la ragione per cui lasciai l’Europa ed i motivi furono la frustrazione dell’imposizione delle limitazioni sull'architettura e sul senso dell’interesse della città storica con veemenza lanciata da persone come Aldo Rossi, i quali era soliti a discreditare i nuovi sviluppi dell’architettura. L. C.: Hai lasciato l’Inghilterra nel 1972 dopo che Banham era rientrato, con molte persone a suo seguito, dagli ambienti americani degli anni 60. Cedric Price non era tra questi e lui non costruì quasi nulla. Tu pensi che il suo contributo sarebbe stato differente se avesse lavorato in America o lui dipendeva dai sui confronti? R. K.: Questa è veramente un’interessante questione. Lui partecipò a competizioni internazionali per esempio alla realizzazione della Villette a Parigi. Se la mia memoria è corretta, io penso che lui propose anche un progetto per la realizzazione di un quartiere in Florida. Viaggiava regolarmente in America ed in altri continenti che erano considerati come avamposti delle discussioni di Londra. Erano incantevoli le sue risposte ed io non sono sicuro che qualcuno conoscesse realmente il loro significato e forse in qualche modo lui rappresenta le nostre colpevoli coscienze. L. C.: Sull’inesplorata direzione? R. K.: Si, infatti se considerassimo la nuova biblioteca di Seattle, forse in un patetico modo e provassimo ad essere Cedric Price, potremmo notare la piegatura e le sfaccettature di questo edificio piuttosto vicine in termini diagrammatici e meccanici a quelle dell’Aviary di Price per il London Zoo. L. C.: Meraviglioso se tu potessi tracciare un altro riferimento architettonico ispirato al Fun Palace di Price, essendo un edificio non gerarchico delineato da una buona cultura in cui le persone costantemente riposizionano elementi in ordine a differenti forme artistiche giunti come un gioco, tutto ciò è tipico nel Center Pompidou nel suo concepimento originalmente o nel tuo progetto per la Los Angeles County Museum of Art? R. K.: Io non conosco una singola persona che non creda che il Pompidou sia derivato da qualche connessione con il Fun Palace. Il LACMA non è libero per tutti e rappresenta più un tentativo di accordo con il museo enciclopedico in generale. Il Pompidou invece è essenzialmente un edificio loft su parecchi livelli. Con la proposta LACMA io tentai di esplorare quale potesse essere teoricamente il grandissimo potenziale di un museo enciclopedico che mostrasse il suo sviluppo parallelamente allo scorrere del tempo. Esso offre una panoramica delle varie linee del tempo. In un comune museo storico, il soggetto è la gerarchizzazione degli spazi periodi e le categorie sono poste nel giusto posto infatti hanno sezioni o padiglioni. L’assenza di tali gerarchie ha condotto LACMA ad esser progettata su un solo piano ed è stata presentata come un griglia storica nella quale ogni cosa può essere posizionata in modo da poter vedere lo sviluppo delle culture nel tempo e dare risalto alle differenze. L. C.: Ma il suo cuore è posto all’interno di una neutrale intelaiatura?
24 R. K.: Penso che il modulo non è stato neutrale forse lo era solo nella prima proposta. Dovevamo presentarlo il 12 settembre 2001 ma dopo l'11 settembre la presentazione è stata rinviata e nel frattempo lo abbiamo modificato drasticamente. L. C.: Quali sono stati i paradigmi che vi allontanarono dalla neutralità? R. K.: In qualche modo dopo l’11 settembre abbiamo sentito la neutralità troppo fredda. Le ragioni nell’architettura sono delicate perché i progetti sono presentati come ragioni o come ragionamento, anche se sono semplicemente azioni intuitive o adattamenti alle contingenze. L. C.: Tu pensi che l‘idea del Fun Palace non sia più fattibile in questo momento? R.K.: Io penso che potrebbe essere cosi e forse la mostra al TATE MODERN evidenzia il grado nel quale non sia più possibile. Lo spazio vuoto del TATE potrebbe essere visto come il Fun Palace, ed esso risulterebbe moto eccitante se potesse essere applicata l’idea di Price ma esso è diventato un rigido programmato spazio museale […]. Sebbene non ci siano più multi discipline attive oggi esso sembra troppo rigido per esporre le scoperte che poi sono state fatte. L. C.: L’altra idea di Cedric Price su cui desidero chiederti riguarda la sua nozione di magnete come distinzione dal icona comunicata, costruita ed integrata in un contesto. Magnete implica un certo grado di coesione piuttosto di esclusione come un comunicato firmato? R. K.: Bisogna pensare che Price era fortunato in qualche modo, più del suo lavoro e più delle sue dichiarazioni, erano interessanti le idee della necessità della firma in architettura, come successivamente poi è emerso. Essa è la più corrosiva idea del tradizionalismo accademico. In questo momento ciò crea un incredibile pressione perché essa è inevitabile. Non c’è modo di superarlo con la sola astuzia, forse può essere ignorata con più o meno sforzo. L. C.: C’è un implicita rivendicazione nella mostra ‘Art & the 60s’ basata sulle differenze tra 1960 e il 1990 che sono stati momenti straordinari nella cultura Britannica. R. K.: Il 1990 era emozionante per lo più per l’internazionalismo della nazione ma non ha alcun intima relazione con il 1960. La cosa speciale del 1960 nel UK è individuabile nella capacità delle persone di essere simultaneamente parrocchiali, creative e innovative e di solito questi tre fattori sono separati. C’erano bizzarre fiabe, molti miopi ed intensi appariscenti sodalizi con affascinanti campi di scoperta. Penso che la principale differenza tra il 1960 e il 1990 stia nell’ultimo parrocchiale momento usato quasi come “un arnese”. Quando io andai all’Architectural Association nel 1968 c’era una stanza da pranzo con posate e camino e questa era un'incredibile scena perché il più moribondo elemento della cultura inglese stava per esser usato come proposta contro l’avanguardia. C’era una mutuale rassicurazione ed interdipendenza per le istanze dell’avanguardia in cui, nel suo sfondo, noi identifichiamo l’ultimo spasmo di una particolare cultura che non poteva perdere. Penso che c’era un gradito piacere in esso. Questo tipo di regola-gioco è quasi assente ora perché, essenzialmente oggi, non si può più avere il lusso dello sfondo e contemporaneamente del primo piano poiché ogni cosa è diventata primo piano. L. C.: Cosi anche al Courtauld Istitute of Art, poi trasferito al Robert Adam house, le separazioni dei ruoli tra la docenza destinata alla grande scala cerimoniale e gli studenti-disegnatori destinati all’utilizzo del retro scala , era collassato. Tutti mangiavano insieme nella piccola caffetteria di cattivo gusto che poi è stata valorosamente gestita da una sola donna. Anche se pieno di contraddizioni il Courtauld è stato effettivamente molto produttivo. R. K.: Probabilmente si può rintracciare l'appiattimento di una certa cultura con la modernizzazione dei bar dagli interni Minimalisti. L. C.: Questo ci porta indietro all’idea che lei ha recentemente affermato e oggi noi richiediamo sempre più adattamenti lussuosi. Questa azione mira all'improvvisazione? R. K.: L’improvvisazione è una bella parola poiché essa connette Banham e Price ma non possiamo più far fronte a questo.
26 UNA BIENNALE SENZA UTOPIA Maurizio Cecchetti
Il primo indizio inquietante di questa dodicesima Biennale d’architettura veneziana è venuto qualche giorno prima dell’apertura della mostra, quando la giuria internazionale ha reso noto di aver attribuito il Leone d’oro alla carriera a Rem Koolhaas, ovvero all’architetto olandese che oggi esprime più di tutti il logos del supercapitalismo mondiale, l’architetto che in un saggio ho definito il capofila del "realismo collaborazionista". Il realismo collaborazionista è il principio etico delle archistar, che per lasciare il loro segno sulle città globalizzate sono pronte a scendere a patti con qualunque realtà politica o con quei sistemi che, pur nati sotto l’influenza occidentale, praticano oggi un’etica contraria a quella che l’Occidente ha messo a punto faticosamente nei secoli e che ha al suo centro il bene comune e il bene della persona (non genericamente della “gente”). Si può dire che questo supercapitalismo metta in atto su scala mondiale una visione del mondo che fa all’uomo ciò che il comunismo ha fatto alle società sovietizzate con la retorica e con le seduzioni estetiche del gigantismo architettonico: lo rende servo di interessi che sono quelli di una oligarchia (economica e politica: oggi, infatti, il principio “produttivo” diventa elemento discriminante dell’etica pubblica). Koolhaas crede, in sostanza, che nel mondo globalizzato non ha alcun senso mettere in atto un atteggiamento di astensione o di rifiuto verso realtà che, pur esibendo un sistema di valori in contrasto col principio di libertà nelle sue molteplici dimensioni, sono soggetti dominanti sulla scena mondiale. Sarà casuale che il mercato più florido delle archistar oggi sia in Cina e nei Paesi arabi? E com’è accaduto che nello spazio di vent’anni l’Occidente, che un tempo ha combattuto i mondi liberticidi, è disponibile ogni giorno al compromesso pur di salvaguardare i propri interessi economici? È questo il progresso portato dalla globalizzazione? Sia chiaro, l’economico è stato il termine di paragone fra mondo libero e mondo totalitario fin dall’epoca che ha visto cadere i regimi coloniali, ma da quando la Cina ha scelto l’economia di mercato pur rimanendo sul piano politico un paese comunista, tutto si è complicato, perché questo ibrido economico-politico ha costretto l’Occidente a venire a patti con chi in passato avrebbe condannato senza mezzi termini (se non altro è perché c’è sempre qualcuno pronto a prendere il posto di chi rifiuta il compromesso: questa è la cattiva coscienza del “realismo collaborazionista”). Aver chiamato alla direzione della Biennale la giapponese Kazuyo Sejima, fresca di premio Pritzker (il Nobel dell’architettura), avrebbe potuto es-
sere un segno del ritorno all’architettura dopo la Biennale del 2008 curata da Aaron Betsky con uno spirito che il presidente Paolo Baratta definisce di “gioioso pessimismo”, insistendo ripetutamente sul termine gioioso, mentre è sul pessimismo che i conti non tornano, perché bisognerebbe dire che quella di Betsky è stata una Biennale di “gioioso nichilismo”, cioè un’edizione dove si faceva piazza pulita dell’architettura. In un’epoca dove tutto è immagine e lo statuto disciplinare dell’architettura è sempre più vago (per questo gli architetti invadono il campo delle arti visive) Sejima prometteva maggior rispetto dell’arte di costruire. Può essere che gli architetti parlino meglio con lo spazio di quanto non facciano con le parole. È forse per questo che all’Arsenale, in apertura di mostra, c’è un video di Wim Wenders che celebra una delle architetture più note di Sejima, quella del Rolex Learning Center di Losanna, e che in una delle prime sale del Palazzo delle Esposizioni ai Giardini un’enorme plastico mostra il progetto di Sejima & Associates per l’Art House dell’isola di Inujima: scelta di cattivo gusto che un direttore dia tanto spazio alla propria opera? Per carità, se Le Corbusier avesse diretto una Biennale d’architettura e avesse esposto il plastico e i disegni per l’Unità d’abitazione di Marsiglia quanti oooh di meraviglia e di adorazione avrebbe suscitato… Ma appunto, stiamo parlando di valori infinitamente diversi sulla scala graduata del genio, per quanto si possa o si voglia criticare l’opera di Le Corbusier (come accadde nella sala di Tom Sachs). In Le Corbusier l’utopia aveva la concretezza consentita dai calcoli della ragione e da un mondo plasmato dalla tecnologia, un sogno dell’immaginazione diventato realtà; in Sejima il realismo gioca di fantasia, ma resta tale: celebrazione della lingua dominante. E infatti questa Biennale è l’espressione, un po’ più architettonica, ma sempre “estetica”, della lingua dominante (compresi certi pauperismi etnici, pur interessanti, come il WorkPlace di Mumbai Architects, che allestisce uno spazio di carpenteria suggerendo il ritorno al “lavoro” nell’architettura). Quasi un secolo fa Henri Focillon, scrivendo di Hokusai, cercava di mettere in luce cosa distingue l’arte occidentale da quella giapponese: l’Occidente lotta contro la materia usando la materia stessa, “i suoi trionfi sono bagnati di sudore”, mentre il Giappone “si limita: riduce lo spazio, scaccia la notte, semplifica e affina il suo sapere”. Di questo c’è ben poco nella Biennale di Sejima: il grottesco si tocca quando, di fronte all’opera “leggera”, ragnatela di essen-
Padiglione del Bahrain
Amateur Architecture Studio, “Decay of a Dome”
27 ze colorate presentata da Andrés Jaque Arquitectos (che vuole raffigurare con un intreccio visivo le conflittualità che si creano in una casa dove vivono cinque persone a Madrid), qualcuno commenta: «ah, sì, questo è molto giapponese». Naturalmente, ti viene da pensare che lo spettatore alluda al gusto per la leggerezza con cui il direttore della Biennale ha scelto di esporre quel progetto spagnolo, ma poi ti rendi conto che per trovare qualcosa di giapponese in questa mostra lo devi cercare fuori dal Giappone (anche le macrostrutture di Toyo Ito, uno dei più interessanti architetti nipponici, sposano il gigantismo - la bigness - vestendolo di un’estetica fitomorfica). La domanda che dovrebbe farsi chi organizza una Biennale di architettura è questa: come sfuggire all’incudine e al martello di una mostra pensata allineandosi allo spirito estetico-ludico della Biennale d’arte, quasi dovesse riempire il vuoto dell’anno di passaggio da un’edizione all’altra; superando, d’altra parte, i limiti impliciti che si manifestano quando si vuole “mostrare” l’architettura con plastici, video o disegni, cioè con rappresentazioni di
qualcosa che si può comprendere e valutare pienamente soltanto quando si entra nello spazio costruito? Si dovrebbe tentare una strada nuova a cominciare dalla scelta del direttore: basta con gli architetti, i quali, sentendosi tecnici pieni di cultura, mostrano la tipica prosopopea da primo della classe: si affidi la Biennale a una persona di cultura con formazione interdisciplinare, e gli si dia carta bianca nella scelta di due o tre collaboratori esperti nei diversi campi del sapere: antropologia, architettura, urbanistica, cinema, letteratura, comunicazioni di massa... Si crei, insomma, un team-laboratorio dove ciascuno è chiamato a collaborare a un progetto d’insieme, senza ambizioni particolaristiche e consorterie culturali, con la volontà di esprimere una visione dell’architettura molteplice e concreta, sociale e immaginativa, utopica e realistica, visiva e musicale (si ricordi, per esempio, la collaborazione fra Xenakis e Le Corbusier). Forse solo pensando l’architettura come mosaico antropologico, come forma dell’abitare, si può approdare a uno sguardo rinnovato del suo stesso futuro.
28 L’ARCHITETTURA DELL’ESATTEZZA. LA NEUE NATIONALGALERIE DI BERLINO DI MIES VAN DER ROHE* Renato Capozzi
Il presente scritto, redatto nell’ambito di una ricerca MURST-PRIN 2000 – poi approfondito nell’ambito del Dottorato di Ricerca in Composizione Architettonica presso lo IUAV1 – e per l’occasione parzialmente integrato, intende proporre, a partire dall’analisi di un opera paradigmatica quale è la Neue National Galerie di Mies van der Rohe, una riflessione più ampia sul portato teorico e conoscitivo della ricerca di questo Maestro inarrivabile dell’architettura. L'analisi, quale procedura opposta alla mera descrizione e basata sul principio di discretizzazione del tutto architettonico in parti descrivibili, si sviluppa secondo tre momenti metodologicamente correlati: l’ideazione o se si vuole la riflessione sul tema e sul senso del manufatto; la costruzione come passaggio ineludibile e verifica dell’architettura; la composizione come dis-velamento delle tecniche e delle procedure sintattiche che presiedono alla costituzione dell’opera. L’ipotesi di fondo che è sottesa ai ragionamenti di seguito esposti, afferma che questi tre momenti – proposti in analogia con la triade vitruviana da Salvatore Bisogni – si pongono come dispositivo analitico-conoscitivo delle opere di architettura. Un dispositivo che può essere applicato in una generalità di casi dove però sia esposto con chiarezza, qui al limite della didascaliticità, una ‘opzione razionale’ sulla disciplina che ne consenta e ne persegua l’intelligibilità delle scelte ‘consistenti’, per mettere in opera ed in scæna ‘forme necessarie’ e non gratuite. Mies è un architetto ‘elementarista’2 che riduce la complessità d’ogni tema a pochi elementi che si emancipano dalla loro individualità astratto geometrica per nominarsi e identificarsi come atti della costruzione. Tali elementi non sono ulteriormente elidibili al pari dei numeri primi nella edificazione dell’impalcato della Matematica. La ricerca della semplicità dell’espressione formale e dell’esattezza della costruzione garantisce la riconoscibilità e la condivisione dei valori universali contenuti nell’architettura.
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R. Capozzi, Il tema dell’Aula nelle architetture di Mies van der Rohe, tesi di Dottorato di Ricerca in Composizione Architettonica (relatore A. Dal Fabbro, controleralore G. Polesello, tutor M. Landsberger) XVI Ciclo, Università IUAV, Venezia, 2004. 2 Cfr. L. Hilberseimer, Architettura a Berlino negli anni Venti, a cura di G. Grassi, Franco Angeli, Milano, 1979.
Ideazione Nel 1962 la municipalità di Berlino affida a Mies van der Rohe l’incarico di redigere un progetto per la costruzione di una Galleria del XX secolo (poi Neue Nationalgalerie) da costruirsi in un’area devastata dai bombardamenti dell’ultima guerra, e dove collocare, sulla base di un piano urbanistico redatto da Scharoun, una serie di edifici rappresentativi della città e dell’intera Germania dell’Ovest: il Museo suddetto, la nuova Biblioteca di Stato, la nuova Filarmonica. Il piano di Sharoun propone per questo particolare luogo della città una disposizione di oggetti legati da relazioni di natura topologica in cui il vuoto realizza e manifesta il sistema di rapporti a distanza e determina la collocatio delle architetture. L’incarico dell’edificio più ‘aulico’ è conferito a Mies “senza limiti di spesa”. Nel Museo di Berlino, come in tutti i suoi edifici civili, dal Teatro di Mannheim alla Biblioteca dell’IIT, Mies produce una profonda erosione/riformulazione del tema dell’edificio pubblico, della sua ragione essenziale, al pari di quanto era stato esperito da parte degli architetti illuministi. L’innovazione tematica o re-invenzone avviene nel senso di in-venire, cioè di trovare nella “cosa” una nuova ipotesi sia di spazio sia di museo ribaltando completamente i modi con i quali tale manufatto era stato concepito dalla cultura ottocentesca ovvero come manufatto che custodiva ma al tempo stesso celava il sapere (in quanto arte) e la cultura. Viene completamente rivoluzionata l’organizzazione convenzionale del Museo con il sistema atrio, quadrerie e successioni di sale come codificato negli schemi combinatori di Durand dei quali non fu immune lo stesso Schinkel nell’Altes di Berlino. Sono superate anche le contemporanee ricerche di Le Corbusier o di Wright sul museo-percorso puntando invece a ricomprendere e a rinnovare l’idea di luogo della ‘memoria e della riconoscenza pubblica’ ricercato da Boullée. Tale scelta ideativa e di senso diviene subito scelta architettonica: l’Aula, il grande spazio rappresentativo unitario, un grande riparo collettivo. Vi è un‘ipotesi di spazio mai raggiunto nell’architettura sino ad allora, vi è l’ordine costruttivo-compositivo, vi è il tetto, vi sono le pareti opache o trasparenti: tutti questi elementi non si sovrappongono mai, le parti dell’edificio si discretizzano, si passa – per dirla con Le Corbusier – dal Plan Paralysé al Plan Libre. Come ricorda Frampton: “Analogamente a Viollet le Duc, Mies considerava il “grande spazio” come la testimonianza definitiva del
29 livello raggiunto da una data civiltà”3. Lavorando sulla ‘sala continua’, sull’eidos di ‘spazio universale’ Mies mira a costruire un’Aula o Halle (i due termini hanno la stessa radice etimologica) che è per eccellenza l’espressione di un luogo collettivo e per questo caratterizza con un unico tipo l’edificio pubblico. La Neue Nationalgalerie, l’ultima opera realizzata da Mies, esemplifica una ricerca ostinata durata alcuna decenni sui fondamenti dell’architettura come arte. E’ la sua opera più discussa, la più amata e odiata al tempo stesso, rappresenta il suo “canto del cigno”, nonché la summa del suo modo di intendere l’architettura. Le ‘Architetture ad Aula’4 vogliono costruire un grande interno: un ambiente continuo a luce unica, in cui è possibile contenere un grande numero di persone e diverse attività essenzialmente di tipo rappresentativo reificando in tal modo l’idea stessa della collettività. Vi è una relativa indifferenza distributiva rispetto ai vari usi previsti, l’elemento distintivo è l’Aula, pur essendo differenti i modi e le forme che la realizzano. Il carattere specifico di questi edifici è la loro grande apertura, che rende possibile osservare e denunciare le attività umane e civili che vi si svolgono senza il tramite di segni architettonici o di parti aggiunte. La scelta sintetica dell’Aula non impedisce però a tali manufatti di affermare la loro ragione costitutiva, bensì consente come in questo caso, un notevole avanzamento nella precisazione del tema assunto. Il carattere appropriato e l’individualità tematica è realizzata attraverso le adeguate soluzioni costruttive in stretto rapporto con le procedure compositive adottate5. In questi manufatti si combinano i due archetipi del muro (témenos) e del portico (il riparo) costitutivi dell’edificio pubblico6, ma anche due modi compositivi fondamentali: quello che lavora sull’ unità e sul volume (stereotomico) e quello che discretezza il continuum architettonico attraverso gli elementi della costruzione (tettonico). In un saggio7 di alcuni anni fa Ignasi de Solà-Morales, richiamando alcune tematiche suprematiste o minimaliste, afferma che: “l’architettura di Mies è ‘autoreferenziale’, spiega se stessa e fa della sua presenza l’atto primordiale della sua significazione. Parlare di contesto nell’opera di Mies risulta inadeguato, le sue opere non commen3
K. Frampton, Tettonica e architettura, Skira, Milano, 1999. 4 Si veda L. Hilberseimer, Hallenbauten. Edifici ad Aula, a cura di L. Lanini e A. Maglio, introduzione di S. Bisogni, Clean, Napoli, 1998. 5 A. Monestiroli, Le forme e il Tempo, introduzione a L. Hilberseimer, Mies van der Rohe, Clup, Milano, 1984. 6 C. Martì Aris, Il portico ed il muro come elementi dell'edificio pubblico, in (a cura di) R. Neri, P. Vigano, La modernità del classico, Marsilio, Venezia, 2000. 7 I. de Solà-Morales, Mies van der Rohe e il grado zero, in “Lotus”, n. 81, 1994.
tano un luogo, non si relazionano ad esso, ma al limite lo determinano. L’architettura di Mies nella sua autoreferenzialità, nel voler rappresentare l’aspetto artistico come significato in sé (Malévič e Ad Reinhardt) non vuole ricordare niente al di fuori di essa, non vuole essere monumento, ma espressione esatta del proprio tempo”. Il grado zero di Mies, il beinahe nichts (quasi niente) delle sue architetture manifesta lo sforzo di pervenire attraverso l’architettura, le sue semplici ma antichissime regole, e non con sistemi ‘eteronomi’, alla definizione del manufatto. L’edificio pubblico per la sua evidenza logico-costruttivosintattica si impone al contesto e in special modo alla natura, non come sfida né come mimesi ma come parte di un tutto. Le architetture civili di Mies non si adattano né si mimetizzano nel contesto, ma si costruiscono come oggetti autonomi che stabiliscono relazioni topologiche a distanza, non commentano un luogo, un tessuto, ma lo determinano riformulandone i caratteri e le relazioni d’ordine8. Le Aule di Mies, in altri termini, vogliono selezionare una parte speciale della “stanza smisurata” della Natura riproducendo nel finito l’idea di infinito (apeiron) di ‘spazio universale’, cioè di uno spazio adimensionale o per meglio dire multiscalare quasi privo di massa, completamente aperto ed attraversato dalla natura o dai contesti urbani in cui questi edifici si collocano realizzando sub specie architetturae quella “vertigine del vuoto” tanto presente nelle composizioni di Malévič.
Costruzione Mies viene spesso considerato come ‘l’architetto della tecnica’ o della tecnologia, riducendo così l’enorme portata del suo contributo alla costruzione del complessivo progetto stilistico del Movimento Moderno. “L’architettura è chiarezza costruttiva portata alla sua espressione esatta”, questa celebre definizione dell’arte del costruire (baukunst) proposta da Mies van der Rohe contiene - come osserva Antonio Monestiroli9 - “i due poli della questione, e cioè la costruzione come fatto tecnico e l’architettura come fatto rappresentativo”. Secondo Mies infatti “L’architettura nasce quando si supera il problema tecnico”, in ciò probabilmente sta la fondamentale distinzione tra ingegneria ed architettura. Quando gli elementi della costruzione, superato il problema costruttivo di cui sono il risultato, si pongono tra loro in rapporto, ovvero ‘in composizione’, con l’obiettivo - attraverso il principio del decoro di rappresentare le loro identità in rapporto al tutto, allora c’è architettura. L’architettura in qualche mo8 I. 9
de Solà-Morales, op. cit. A. Monestiroli, Intervento, in Bau-Kunst-Bau, a cura di C. Scortecci, C. Zucchi, Clean, Napoli, 1994.
30 do rappresenta - attraverso gli elementi - l’atto costruttivo, e non coincide strettamente con esso. A Berlino l’aula è poggiata su un podio realizzato attraverso una maglia omnicomprensiva (7,20x7,20) di pilastri in cemento armato con solaio in soletta strutturale. La copertura consiste in una piastra nervata di 180 cm di spessore (1/36 della luce libera) strutturata su 18 moduli x 18 moduli e misura 64,80 x 64,80 metri. Il modulo base dell’intera costruzione sia in pianta che in alzato è di 1,20 x 1,20 metri. La copertura in acciaio Krupp montata a piè d’opera per parti compiute pre-assemblate e sollevata da otto martinetti idraulici fino alla quota di 8,40 metri, pesa circa 1280 tonnellate. Queste cifre danno conto dell’importanza e dell’eccezionalità di quest’opera, tenendo presente anche che a tutt’oggi non è stata costruita una copertura con tale luce libera e con simili condizioni d’appoggio. L’enorme piastra poggia su soli otto pilastri disposti secondo la sequenza 5-8-5 che risulta essere l’ottima per avere momento flettente minimo e deformata minima al centro della piastra e coincide anche con rapporti aurei sia in pianta che in alzato, verificando una corrispondenza tra gli aspetti compositivi e proporzionali e quelli statico costruttivi. I pilastri cruciformi sono leggermente rastremati verso l’alto per alloggiare le cerniere sferiche che li collegano alla lastra di copertura. Il fronte della copertura è ritmato dalle teste delle travi che ribadiscono il modulo organizzativo. E’ da notare che la struttura dell’aula risulta chiaramente leggibile anche a livello inferiore ove, anche se non denunciata esplicitamente, è centrata e indipendente rispetto ai moduli dei pilastri che sorreggono il piano del podio. Il rapporto con la Tecnica o per meglio dire con le forme tecniche - per la prima volta si trova un’estetica adeguata e rigorosa, “vera” (“il bello è la luce del vero” – Sant’Agostino) e non banalmente analogica delle tecniche e dei nuovi materiali contemporanei, in un’opera che spinge la struttura alle sue estreme possibilità come lo erano state in differenti condizioni il Pantheon o la cupola del Brunelleschi, in una ipotesi di finitezza, di perentorietà delle forme tecniche e non di una loro serialità e assemblabilità meccanica. La tecnica non è un fine ma un mezzo per ottenere le forme architettoniche.
Composizione La fabbrica ‘sintetizza e contiene’ tutte le architetture di Mies, tutti i suoi modi di comporre. La perfezione logica degli edifici costruiti da Mies, la loro apparente banalità cela un lavoro paziente su pochi ma essenziali elementi che di volta in volta sono messi ‘a contrasto’ a partire da regole e relazioni d’ordine chiaramente espresse. La volontà di misurare e misurarsi con la natura naturata si tradu-
ce in leggi, regole, moduli, misure, in elementi, piani, sostegni di cui Mies si serve per portare alla perfezione - come direbbe Boullée - i suoi edifici10. I progetti e le opere che Mies produsse dopo la sua partenza per gli Stati Uniti modificano e raffinano non poco le tecniche compositive da lui utilizzate in Europa. Si passa dal reticolo discreto dei sostegni disposti su maglie ordinate, dai piani-parete, e dal tetto-lastra, ad un’ipotesi conformativa ancor più radicale: i sostegni sono espulsi all’esterno, la copertura diviene un piano continuo potenzialmente infinito, l’edificio così è completamente aperto all’esterno o meglio contiene una sezione “particolare” della Natura. Le primissime soluzioni per il Museo di cui si conservano pochi disegni ed un plastico, configurano due versioni principali: la prima riguarda un’aula quadrata coperta da una piastra nervata in cemento armato precompresso di 20 moduli x 20 moduli (XX secolo?) sostenuta da un colossale pilastro centrale a sezione variabile; la seconda ripropone per così dire una trance del teatro di Mannheim sempre riferendosi però ad un quadrato sorretto da quattro pilastri che attraverso due telai paralleli con travi reticolari sostengono la copertura cassettonata. Rapidamente queste due iniziali ipotesi sono scartate e Mies ritorna (com’era suo solito) alle soluzioni sperimentate nelle Bacardi e nel museo Schäfer, riuscendo in definitiva a sintetizzarle mirabilmente. Del primo riprende il basamento-crèpidoma nel quale alloggiare le collezioni permanenti del museo e del secondo la struttura a sezione costante in acciaio, forse il materiale più idoneo a rappresentare l’era tecnica. L’edificio risulta determinato dalla giustapposizione di due parti distinte: lo spalto concepito come un volume compatto di tipo stereotomico e l’Aula a sua volta composta di parti ed elementi distinti quali la copertura, i pilastri con la loro ripetizione controllat e la parete vetrata che conferma però nella sua partizione l’assetto tettonico generale. Il podio rivestito in granito di altezza variabile, data l’acclività del sito, misura circa 105 x 110 metri e consta di due quadrati traslati e sfalsati in corrispondenza delle scale d’accesso con l’aggiunta di un rettangolo 80 x 20 che contiene un patio per le sculture. Osservando la pianta del piano posto a quota – 4,00 metri dal calpestio dell’aula e collegato ad essa per mezzo di due scale simmetriche in acciaio, si rileva, a meno dell’ala degli uffici, una perfetta simmetria di impianto, organizzato sul modulo di m. 7,20 x 7,20 con pilastri quadrati e scandito da una 10
Alla inaugurazione della Neue Nationalgalerie un radicale berlinese, come è riportato da Zevi, affermò: “E’ un edificio che rende furiosi perché si è costretti ad ammetterne la perfezione”.
31 sequenza di spazi ben definiti. Sembra quasi di ritrovare l’assetto tipologico di una domus con la successione vestibolo - atrio tetrastilo - peristilio, ma, superato l’atrio quadrangolare, si incontra una sala ipostila 4 moduli x 11 moduli che nelle prime versioni doveva essere liberamente attraversata da pareti disposte in vario modo e distaccate dai pilastri che erano lasciati in vista. Questa sala ipostila, come anticipato, si apre su di un patio destinato all’esposizione protetta delle sculture. Ritornano in mente il progetto per la Casa a tre corti, ma anche e soprattutto quello per il Museo per una piccola città. Nelle parti più interne o nelle pareti controterra vengono sistemati gli uffici, i servizi igienici, i locali tecnici e a sinistra trova posto una rampa per il carico e lo scarico delle opere. Il trattamento degli spazi è assolutamente neutro: le pareti sono dipinte di bianco al fine di far emergere le opere esposte, che riguardano le avanguardie artistiche del Novecento, con una specifica sezione sull’espressionismo tedesco. A questa densità distributiva, necessaria al funzionamento del museo, fa riscontro al piano superiore, che poi è il piano di ingresso, una quasi totale assenza di partiture e di segmentazioni: vi è un podio nobilissimo in granito sardo, basse pareti in legno, du alti monoliti in marmo nero ed una grande e ‘severa’ copertura d’acciaio sostenuta da otto pilastri. Verrebbe quasi la voglia di non aggiungere altro a tale perentorietà e assolutezza. Siamo per così dire al quadrato nero (l’aula) su fondo bianco (lo spalto) di Malévič. A cosa serve, cosa vuole significare questo enorme vuoto? Che cosa si vuole rappresentare attraverso questo prodigio tecnico? Premesso che l’utilizzo pratico di tale spazio è abbastanza evidente nell’essere destinato a atrio di ingresso e sede di mostre temporanee, di cui la più famosa fu quella inaugurale dedicata a Mondrian, questo spazio diafano a cosa vuole alludere? Per rispondere a questi interrogativi è forse necessario analizzare la successione delle differenti condizioni spaziali che ‘avvengono’ sul podio. Si passa da uno spazio sollevato dal suolo ma completamente aperto ad uno spazio coperto ma aperto ben definito dalla parete vetrata e dai pilastri che lasciano significativamente liberi gli angoli, fino a ritrovarsi in uno spazio coperto da questa enorme piastra fluttuante, a rigore uno ‘spazio confinato’, chiuso dalla parete vetrata, ma a ben vedere completamente proiettato all’esterno, un esterno che è quasi più concettuale che reale. E’ l’esterno della Philharmonie o della Biblioteca di Scharoun, di quel luogo urbano specifico, ma è anche l’esterno del ‘tutto natura’11, dello spazio infinito cosmico della natura del 11
Cfr. S. Bisogni, Considerazioni sull’Arte e la Scienza del costruire, in “Restauro”, n. 139, 1997.
quale questo è una parte speciale, solo una porzione ‘attrezzata per la vita’, che però riesce a dar conto del tutto e delle sue leggi: nel patio la natura è circoscritta, sul podio-tempio diviene totalizzante. Questo spazio continuo, ‘spazio universale’, rappresenta non solo la natura ma anche il ‘luogo delle Muse’ come accadeva nel Museo di Boullée. La forza di quest’opera sta proprio nell’essere sintetica di una ricerca che è quella del moderno in architettura, e al contempo di denunciare il riferimento ai temi della classicità, della sala ipostila, del tempio e della casa romana, o alle architetture di Schinkel che di queste sono una prima sintesi. Un rapporto con la storia che non è affatto nostalgico ma sempre legato alla necessità di esprimere la modernità, l’architettura del proprio tempo, una “nuova e antichissima bellezza”. La storia ancora una volta è il ‘carattere letterario dell’architettura’, la storia è il terreno delle scelte, essa diviene un repertorio, un ‘deposito di umane fatiche’ da cui attingere selettivamente. Come afferma Mies: “Ogni epoca ha una sua grandezza”. L’immensa copertura è un tutt’uno, è una concrezione (anche se fatta con travi d’acciaio) che non può crescere, è come nel Pantheon, un monolito. Il sistema proporzionale apparentemente forzato che Mies impone a quest’architettura con l’obiettivo di ricercare le forme necessarie vuole ribadire la non arbitrarietà delle scelte compositive: anche nel fare un “semplice quadrato” ci si deve porre il problema dei rapporti armonici, delle relazioni tra le parti, del controllo trasmissibile e verificabile dello spazio12. In ciò sta probabilmente la grandezza di quest’opera nell’essere assoluta e raffinata, nelle relazioni con i mondi formali e culturali che invoca e nell’essere pur così concreta, così mondana, così costruita con arte.
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Mies, in tal senso, esprime questo concetto con estrema chiarezza: “Credo che l’architettura non ha niente a che vedere con la creazione di forme inedite, né con il gusto personale; l’architettura per me è un’arte oggettiva che nasce dallo spirito del tempo”.
32 DILLER SCOFIDIO E RENFRO, UN MODO NUOVO DI FARE ARCHITETTURA Francesca Buonincontri
Lo studio Diller Scofidio + Renfro Architects propone un modo nuovo di fare architettura finalizzato alla trasformazione dell’utente in soggetto cosciente del farsi e dell’uso dell’architettura e basato sulla sperimentazione artistica nelle discipline più diverse ovvero sull’utilizzo delle più moderne tecnologie comunicative. Le diverse discipline cui si ispirano vanno dalle arti visive, al teatro, la letteratura e la meccanica, mentre le tecnologie di comunicazione utilizzate sono video, immagini in movimento su grandi schermi, monitor, microchip. La metodologia progettuale dello studio Diller è basata sulla riproposta del ruolo politico e sociale delle arti, in primo luogo dell’architettura, resa più popolare e comprensibile a tutti, ed è alla continua ricerca di punti di vista innovativi e originali sull’uso della città contemporanea. Gli interventi realizzati da questo studio stanno modificando le città americane e soprattutto New York. Qui l’attuazione del masterplan per il parco sopraelevato sulla High Line, costato circa 65 milioni di dollari, ha trasformato uno spazio dismesso in spazio verde, attirando, con enorme successo, oltre 20.000 visitatori al giorno. A sua volta il progetto di ristrutturazione del Lincoln Center for the Performing Art, di cui la parte maggiore consiste nel recupero e ampliamento della Jullian School, in collaborazione con FxFowle Architects, inaugurato a febbraio del 2009, si è rivelato un interessante intervento di riconfigurazione di una architettura che era ritenuta ostile alla città. Lo studio Diller Scofidio + Renfro Architects è considerato attualmente tra i più innovativi di New York sia per la capacità di operare in un ampio ambito, che va dagli edifici ai masterplan urbani, dalle installazioni e performance, al teatro multimediale, dai media elettronici alle pubblicazioni, sia per l'intento dichiarato di voler realizzare un’architettura democratica e rispettosa delle proprie radici, capace di modificare non solo gli edifici ma l’anima stessa della città e di disegnare il nuovo aspetto dell’America. La filosofia progettuale alla base dei lavori degli architetti dello studio ha come obiettivo principale dunque la trasformazione del’'identità dei luoghi d’intervento, o, più precisamente come dice la stessa Diller, si propone “di far riemergere ciò che è stato rimosso nei decenni scorsi”. Nel caso dell’Institute of Contemporary Art di Boston (ICA), edificato nel 2006, la nuova struttura, modificando fortemente l’immagine degradata del
settore meridionale del porto di Boston, crea un importante punto aggregazione dell’intera città. Il nuovo ICA, protendendosi a sbalzo sulla baia, realizza infatti 6 mila metri quadrati di spazi espositivi, per spettacoli pubblici, per attività culturali e per accessi al lungomare della baia di Boston, in perfetta sintonia con l’esposizione di opere d’arte contemporanea e in stretta relazione con il paesaggio e con l'acqua. L’ICA é descritto dai progettisti come una macchina che raccoglie vedute del mondo esterno e che, incorniciandole in forme diverse, le trasforma in arte. Combinando l’architettura con elementi di altre arti visuali, l’istituto museale si pone il duplice obiettivo di creare uno spazio contemplativo in cui confrontarsi con l’arte contemporanea, ma anche, di svolgere la funzione di edificio pubblico con un forte ruolo sociale. Nella relazione di progetto Elisabeth Diller, polacca di origine e docente alla Princeton University, una dei tre componenti con Ricardo Scofidio e Charles Renfro dello studio Diller Scofidio + Renfro Architects spiega che l’edificio “pubblico è sviluppato dalla terra; l’edificio intimo, dal cielo in giù”. Qui infatti sono collocati gli spazi espositivi, formati da gallerie modulabili e flessibili, con pareti vetrate, illuminate da lucernari adattabili ed espansibili che permettono alla luce naturale di giungere filtrata dappertutto. La ‘lunga galleria’, essa stessa spettacolare spazio espositivo, è un lungo corridoio sospeso che pende dal soffitto delle gallerie e che termina sul lato nord con un muro di vetro formato da lenti verticali microscopiche riflettenti diverse visioni dell’Oceano Pacifico, secondo il punto di vista perpendicolarmente frontale o da un angolo. Uno sfondo vetrato sull’acqua fa da fondale al palcoscenico del teatro-mediateca di 325 posti, circondato da muri di vetro che possono essere parzialmente o totalmente oscurati. La struttura all’esterno è completamente ripartita da fasce verticali in cui si alternano vetro trasparente, vetro traslucido e metallo, quasi a voler formare una pelle continua che annulli le distinzioni tra muri, porte e finestre. Nel masterplan per il parco sopraelevato sulla High Line, a New York, che trasforma la linea ferroviaria sopraelevata sul West Village, a Manhattan, in passeggiata urbana, lo spirito ecologista e il riuso delle infrastrutture generano un design urbano alternativo, dove non è il verde ad essere utilizzato per nascondere una speculazione costruttiva ma è l’architettura a trasformarsi in struttura visibile, quale dichiarato supporto innaturale per il verde.
33 Partendo dallo stato d’abbandono della zona gli architetti realizzano quasi due chilometri e mezzo di parco pensile che, seguendo l’Hudson e perimetrando un intero quartiere, collega il centro di Manhattan al Meanparking Districe. L’operazione è il risultato dell’unione tra architettura e agricoltura, in cui la natura, servendosi dell’infrastruttura urbana, trasforma i binari ferroviari dismessi in una rotaia vegetale, utilizza gli spazi sottostanti in spazi urbani, e modifica le regole e le proporzioni tra l’uomo e la natura, tra il pedone e le piante. Si concretizza così uno spazio, originato dalla spontaneità e dal caso, in cui è possibile la contemporanea coesistenza di una natura selvatica e di un giardino coltivato, la riservatezza dello spazio privato e la socialità del luogo pubblico. Lungo la strada numerose e differenti aree di sosta per i pedoni mostrano l’alternanza di essenze vegetali e superfici pavimentate formate da moduli longitudinali in calcestruzzo, appositamente disegnate per permettere al verde di infiltrarsi, mentre le sedute poggiano su ruote poste sulla vecchia strada e le zone più boscose sono state pavimentate in legno. Lo studio è stato anche incaricato della ristrutturazione del Lincoln Center for the Performing Art, tra i più importanti centri culturali al mondo, sede di importantissime istituzioni quali il Metropolitan Opera, la New York Philharmonic, la School of American Ballet, tutte collocate fra la 65th Street e la Broadway. Il centro culturale voluto nel 1962 da John Rockefeller III fu progettato dai maggiori architetti del tempo, Marcel Breuer, Alvar Aalto, Philip Johnson, Eero Saarinen e gli architetti del DS+R per niente intimiditi dal complesso, ma anzi giudicandolo la parte peggiore di una certa architettura degli anni ‘50 e ‘60, si sono proposti di cambiare “da cima a fondo le forme e i contenuti del Lincoln Center”, giungendo addirittura a dire, secondo le dichiarazioni della Diller, che “più che un edificio è l'anima di New York che stiamo cambiando”. Giudicandola l’architettura del Lincoln una architettura elitaria, lo studio Diller Scofidio + Renfro interviene quindi con una ristrutturazione radicale, ritenendo giunto “il tempo di riaprire alla strada e alla gente sia l’arte che l'architettura” al fine di offrire anche “un contributo all’apertura democratica della società... Noi decostruiamo a pezzi il Lincoln per rimontarlo in forme più felici e divertenti. L’anima di New York aveva un urgente bisogno di una profonda analisi per riportare in luce ciò che è stato rimosso”. La Juilliard School rientra invece in un più ampio progetto che comprende la riprogettazione dell’Alice Tully Hall, la ristrutturazione dell’ingresso del New York State Theater e la progettazione di alcuni spazi pubblici e del Hypar Pavillion Restaurant. Gli architetti intervengono modernizzando gli spazi esistenti della Juilliard School, or-
mai insufficienti, costruendo nuove strutture, visibilmente e volutamente estranee al preesistente, ma, soprattutto, dando una nuova identità alla scuola. Elizabeth Diller illustrando il piano di sostituzione dei muri bianchi con il vetro lo ha definito come uno “spogliarello architettonico” ed ha aggiunto che gli interventi soddisfano le “potenzialità non realizzate del centro”, dal momento che la scuola è stata trasformata e aperta alla città e tutte le attività didattiche e le sale prove sono visibili dai passanti. Lo spazio aggiuntivo non è stato posto, per ragioni strutturali, sopra l’edificio, ma è diventato un volume di tre piani a sbalzo sulla piazza lungo Broadway creando al di sotto una serie di spazi pubblici. Se si pensa che il Lincon Center ha rappresentato per i suoi fondatori il luogo dove riunire tutte le forme artistiche della società, e, se come scrive Fuksas, “La New York Philharmonic, la Metropolitan Opera o l’American Ballet sono state viste e appartengono a quando il sogno americano riusciva a interpretare anche cultura e arte”, il progetto di Diller e Scofidio, pur con qualche perplessità, può essere letto come il tentativo di voler continuare a concentrare nella città i momenti migliori dell’arte e dell’espressione umana, con l’obiettivo ulteriore di catturare una generazione di clienti che hanno largamente ignorato queste istituzioni perché ritenute troppo elitarie. In questo punto di vista, i nuovi progetti possono quindi considerarsi “risposte indirette ai massicci spostamenti demografici, prima al centro, e poi a Brooklyn, che hanno modificato la mappa culturale della città” e, diremmo, la mappa sociale di New York.
34 CATALIZZATORI SOCIALI E URBANI: UN NUOVO CONCETTO DI STAZIONE FERROVIARIA. Nello Luca Magliulo
Quando nel 1839 venne inaugurato il primo tratto ferroviario della penisola italiana, che univa Portici e Napoli con circa sette chilometri di binari, erano passati solo quattordici anni dall’inaugurazione della Stockton and Darlington Railway1 e poco più dall’invenzione della locomotiva a vapore. In quel momento i treni erano considerati sistemi di trasporto per le merci e solo più tardi, durante il ‘900, si trasformeranno in un mezzo di trasporto pubblico. Le stesse stazioni ferroviarie, vista la grande utilità, erano collocate sempre in luoghi strategici per i collegamenti commerciali, ovvero all’interno della città e vicine agli altri luoghi di commercio. In altri casi sarà proprio intorno ad esse che la città si “allargherà” nel tempo. E’ ovvio che la presenza di un sistema di collegamento così forte sia un elemento importantissimo all’interno dell’impianto urbano, ma è anche vero che visivamente, nell’immaginario collettivo, il quartiere che si sviluppa attorno ad una stazione ferroviaria è sempre stato visto come un luogo di basso livello sociale e le stesse stazioni come posti poco sicuri. Tutto questo a causa della “monofunzionalità” di queste strutture che esaurivano la loro utilità nel semplice ruolo di luogo di partenza o di arrivo. Ancora oggi, leggendo il “Regolamento Circolazione Treni”, delle Ferrovie dello Stato italiane, il termine “stazione” è così definito al punto 4: “Diconsi stazioni le località di servizio normalmente delimitate da segnali di protezione, utilizzate per regolare la circolazione treni, munite di impianti atti ad effettuarvi le precedenze fra treni nello stesso senso e, sul semplice binario, gli incroci fra treni in senso opposto”. Leggendo la stessa definizione all’interno del vocabolario Treccani: “Fermata, sosta in un luogo, o, con significato più ampio, cessazione di un movimento. In partic.: a. Fermata, stazionamento di veicoli, nel corso di uno stesso viaggio o nell’intervallo fra un viaggio e quello successivo”. E’ evidente quindi come oggi, guardando in cosa si stanno trasformando le stazioni ferroviarie, ci si rende conto che andrebbe riformulata la definizione delle stesse. Da un punto di vista architettonico il loro ‘stile stazioni’ non è cambiato molto nei decenni. Solo sul finire dell’800, le stazioni più importanti furono caratterizzate da uno studio e da una valenza architettonica che ancora oggi è visibile e riconoscibile 1
Il primo tratto di ferrovia pubblica nel mondo fu il Stockton and Darlington Railway inaugurato in Inghilterra nel 1825, dove per la prima volta si presentò l’invenzione della locomotiva a vapore.
dall’uso di una forte simmetria, dalla presenza di colonne di ghisa e da coperture di ferro e vetro caratteristiche di una forte monumentalità. Nel corso degli anni, sia da un punto di vista stilistico che concettuale, l’idea di stazione ferroviaria è stata superata oltremodo perché è stato intuito il loro grande potenziale di essere, non solo di luogo di “collegamento” o di “sosta”, ma anche di “catalizzatore” urbano e sociale delle città stesse. Oggi i “terminal” ferroviari sono considerati come delle sorte di portali di ingresso alla città e hanno perso il loro ruolo unico di luogo dei trasporti diventando dei veri e propri spazi di vita sociale. Nel 1991 è partito in Italia il progetto della TAV (treni ad lata velocità) con l’obiettivo di realizzare stazioni che potessero accogliere la nuova linea ferroviaria nelle maggiori città quali Napoli, Roma, Bologna, Firenze e Torino. Si è trattato di un’occasione importantissima per il rinnovo dei trasporti su strada ferrata della penisola. Per questo motivo sono stati banditi una serie di concorsi internazionali che hanno dato la possibilità ad architetti di fama mondiale di poter intervenire. In tutti i bandi di concorso le richieste sono state più o meno comuni, partendo dal concetto di riqualificazione o risistemazione urbana e dall’idea di realizzare nuove strutture che potessero essere in grado di rispecchiare le attuali esigenze in termini di “terminal” ferroviario. E’ il caso della stazione di collegamento della TAV di Napoli collocata ad Afragola. Il concorso, vinto dall’architetto Zaha Hadid, è un’occasione per la riqualificazione e la valorizzazione di una grande zona di espansione del napoletano. Infatti, l’intervento si colloca al centro di un nuovo parco naturalistico ed è concepito come una sorta di passerella che collegherà le due aree del parco dove sorgeranno laboratori e centri di sperimentazione agricola. La stessa stazione, concepita come una galleria di vetro con struttura completamente metallica e vetrate a filo, ospiterà gli accessi ai treni al piano terra, mentre al piano superiore sarà realizzato un centro commerciale contenete diversi servizi. Agli estremi (ad est e ad ovest della passerella) sono stati collocati i due accessi alla struttura, al fine di far confluire gli utenti che, attraversando l’intera area commerciale, si convoglieranno nel nodo centrale, ovvero nella sala passeggeri. Quest’ultima è stata concepita come un grande atrio, che trova una connessione visiva con il contesto circostante (il parco) attraverso un sistema di ampie vetrate. Uno degli elementi che maggiormente segnalano questo nuovo modo di
35 concepire la stazione ferroviaria è rappresentato proprio dalla presenza dei servizi (negozi, bar, luoghi di divertimento) che fanno comprendere come tali luoghi siano anche occasioni di svago, e non solo per viaggiatori, grazie anche al rapporto che la stazione stessa instaura con il territorio circostante. Questo oggetto architettonico non è trattato singolarmente e fine a se stesso ma fa parte di una sistemazione territoriale più ampia. Nel caso del progetto della stazione Tiburtina di Roma, il tema della ricucitura urbana è molto forte. Il bando proponeva la progettazione di un elemento che fosse in grado di ricucire una spaccatura urbana creatasi tra i due quartieri di Nomentano e Pietralata, separati proprio dal passaggio della rete ferroviaria. Inoltre si richiedeva la realizzazione di un sistema che oltre alla funzione di scambio e di trasporto potesse ospitare funzioni commerciali, direzionali, ricettive e culturali, per un totale di 48.000 metri quadrati. In poche parole si chiedeva di dar vita ad una nuova “centralità” urbana. Il progetto vincitore, di Paolo Desideri, risolve queste richieste attraverso un grande contenitore che passa al di sopra dei binari e che ospita al suo interno dei grandi volumi sospesi e trasparenti che conterranno al loro interno un grande numero di servizi. Il nuovo impianto mette in evidenza il tema di una forte assialità tra i due quartieri esistenti risolvendo il collegamento fra questi ultimi attraverso un ponte che li riconnette. Gli stessi sistemi di piazze discendenti in prossimità dei due quartieri sono dei veri e propri portali verso la città, donando ad essa, in un punto sprovvisto, una serie di servizi inseriti nella maglia urbana. Stesso scopo di riqualificazione è stato perseguito con il progetto per la nuova stazione di Porta Susa a Torino. Il concorso, vinto dal gruppo francese AREP con gli architetti Jean-Marie Duthilleul ed Etienne Tricaud, metteva in evidenza la necessità di intervenire all’interno del centro storico della città attraverso un’operazione delicata di ricucitura e riqualificazione e che allo stesso tempo potesse diventare un’icona del “viaggio”. Il progetto vincitore propone un nuovo edificio – simbolo dell’idea del movimento, del “viaggio”, quasi ad attestare con forza e vigore la presenza del sistema ferroviario all’interno della città storica. Una galleria di acciaio e vetro lunga circa 385 metri che si conclude in una grande torre che le fa da quinta urbana. L’intera galleria asseconda l’andamento in quota del terreno attraverso una serie di aperture per l’accesso degli utenti dalla strada. Elemento portante del progetto è la luce che, attraversando le grandi vetrate, sottolinea la continuità con la città stessa attraverso la trasparenza. Poiché l’intero elemento segue gli assi viari preesistenti esso si innesta di fatto all’interno della maglia urbana storica diventando un attraversamento fruito non solo dai “viaggiatori” ma anche
da tutti gli altri cittadini. Come si può comprendere, si tratta di interventi che mirano ad una plurifunzionalità della stazione stessa, che non può essere più intesa solo come il luogo di arrivo e di partenza dei treni, ma che assume un ruolo urbano, architettonico e sociale all’interno del contesto della città. Su questa stessa linea si muove anche il progetto di Arata Isozaki per la nuova stazione dell’alta velocità di Bologna. Anche in questo caso il progetto si propone come obiettivo quello di ricostituire la rottura della maglia urbana generata dai binari. L’intero oggetto architettonico è un enorme parallelepipedo bianco che gira intorno a tre elementi fondamentali: una piastra, un tubo ed un’isola. La piastra è il ponte di passaggio centrale, organizzata su due livelli, la cui complessità di vuoti e pieni, che giunge fino in copertura, vuole richiamare la complessità del centro storico bolognese. I vuoti in copertura scendono attraversando i due livelli e portando la luce all’interno della stazione. Il tubo è l’elemento di collegamento tra la piastra e l’isola ed è una sorta di ponte intermodale che, attraverso una serie di scale e percorsi mobili, permette l’attraversamento di tutta la parte commerciale interna. L’isola, infine, è l’edificio collocato in prossimità della nuova sede comunale, ed è il cuore energetico di tutta la stazione in quanto ospiterà la centrale termica che produrrà energia pulita per alimentare l’intera struttura. Si tratta di un intervento che riesce a coprire molti aspetti differenti in quanto è allo stesso tempo un “catalizzatore” sociale ed urbano, un sistema energetico a zero impatto ambientale oltre ad un perfetto inserimento nel contesto circostante. A Reggio Emilia non è stato da meno Santiago Calatrava con il progetto di risistemazione urbanistica comprendente anche il progetto della stazione TAV. La sua proposta verrà realizzata in un’area dove sono già presenti molti attrattori urbani come l’Ente Fiera, lo stadio e il più grande distretto produttivo della città. Si tratta di un intervento che ben si inserisce nel territorio frammentato di Mancasale. La stazione presentata da Santiago Calatrava, come un sistema in forte movimento, è caratterizzata da una ossatura bianca che porta la struttura all’esterno rendendola leggibile. Il progetto si sviluppa attraverso la ripetizione di un modulo di lunghezza pari a 25,40 metri che, in successione, genera tredici portali in acciaio differenti. Il ripetersi di questo sistema per tutta la struttura sviluppa un impianto di circa 480 metri che, letto a distanza, da l’idea di una successione di onde in movimento per richiamare l’idea del moto. Il sistema di copertura, solo sopra le banchine ed i treni, diventa un elemento vetrato per permettere alla luce di entrare ed è sorretto da una struttura mista in acciaio-calcestruzzo con una trave a “cassoncino” longitudinale che trova appoggio ogni 25 m su due supporti in calcestruzzo. Al di sotto
36 del livello delle banchine sono collocati i locali della stazione vera e propria, un unico contenitore che racchiude i vari servizi previsti: la stazione per l’utenza con le tutte le attività commerciali, il sistema di interscambio con la linea regionale e una vasta area adibita a magazzini, depositi e servizi vari. La pianta dell’intero complesso si sviluppa, quindi, lungo il tracciato dei binari su due livelli differenti: il primo livello è all’altezza delle banchine, ossia all’altezza del piano di percorrenza dei treni; il livello inferiore è quello di accesso alla stazione e che rappresenta il cuore pulsante di tutto l’impianto. La differenza di quota fra i due livelli viene risolta mediante l’uso di scale e gruppi meccanizzati che trovano posto lungo i corridoi laterali, compresi tra il viadotto dei treni e la parte inferiore della copertura, con quattro scale mobili per lato e due ascensori panoramici predisposti nel punto centrale della stazione. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una necessità di ricucitura urbana e fusione fra strutture preesistenti, anche se in un contesto molto più libero rispetto a quello storico di Bologna. Diversa è la situazione della stazione di Firenze progettata da Norman Foster in collaborazione con la società di ingegneria Arup. Anche in questo caso, tutto il progetto gira intorno al modo in cui la luce attraversa la copertura in vetro per illuminare tutto l’interno della stazione fino ad arrivare ai binari. L’impianto si presenta con una forma semplice che
però diventa complessa nella sua strutturazione: una copertura di vetro a forma di vela che non è trattata come un elemento unico ma formata da tanti pezzi come un puzzle dove ogni singolo elemento è, a sua volta, una piccola vela al vento. Il tutto sorretto da strutture leggere in acciaio e un box sotterraneo che accoglierà la fermata dei treni. L’intera stazione si sviluppa quindi su tre livelli: il primo piano a quota dei binari, il secondo per tutti i servizi e le numerose attrezzature commerciali ed il terzo per la terrazza, dalla quale sarà possibile veder arrivare e partire i treni. A Firenze, questa stazione sarà la prima realizzata dopo ottanta anni dalla vecchia stazione di Santa Maria Novella, progettata dal Michelucci. Appare chiaro come questi interventi rappresentino un nuovo modo di pensare i terminal ferroviari ma essi sono anche frutto di una nuova immagine della società moderna che, in un’ottica di globalizzazione, si riconosce sempre più nel collettivo e sempre meno nel singolo, in continua ricerca di attrazioni e spettacolarizzazioni. Di conseguenza, non solo le stazioni ferroviarie, ma molte architetture attuali hanno sempre maggiormente un ruolo di coinvolgimento della collettività molto più profonda di quella del passato con il compito di ricreare spazi e luoghi che siano in grado di ampliare la possibilità di socializzare e che possano, ove possibile, recuperare quelle situazioni urbane che per anni si sono identificate con un’immagine di negatività.
37 TRA DECOSTRUZIONE E MEDITERRANEITÀ. UNA CASA A PATIO A CONDOFURI MARINA (RC) Claudio Roseti
Questo breve saggio riguarda la casa realizzata a Condofuri (RC) da Giovanni Laganà e costituisce di fatto il prosieguo della presentazione che, congiuntamente a quella del libro Asfalti dello stesso G. Laganà, il 27/6/2007 ha dato luogo a uno degli “Incontri in Biblioteca”, presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria, organizzati dallo scrivente, Direttore della Biblioteca stessa, e dal Presidente della Commissione Cultura Prof. Franco Zagari. L’invenzione architettonica che avvalora questo edificio, una casa unifamiliare a patio di dimensioni contenute, consiste nell’utilizzazione “trasgressiva” di una componente che, di fatto, esiste nell’architettura storica ma con tutt’altro ruolo1 . Il progettista ha infatti composto le facciate principali della casa incrementando le finestre reali, necessarie all’illuminazione e l’aerazione e commisurate agli ambienti in cui si aprono, con una serie di finestre “in falso”, riquadri ciechi di dimensioni, in linea di massima, uguali alle varie aperture (che in totale vengono pressoché raddoppiate) a formare una composizione variegata e complessa dove il gioco mutevole delle ombre assume trame e spartiti di apprezzabile qualità architettonica. Prima di valutare gli aspetti specificamente compositivi e plastici dell’insieme vorrei fare delle considerazioni sugli aspetti concettuali che collocano tale progetto nell’ambito della decostruzione derridiana2 in ordine ad una lettura e una valutazione personale degli esiti progettuali rileggibili in chiave decostruzionista. In questo edificio di linguaggio moderno, dove è tuttavia riconoscibile il modulo storico della facciata, il gioco complesso delle bucature e degli scavi decostruisce la tripartizione classica basamento/corpo/coronamento destabilizzando al tempo stesso la composizione specifica del fronte; questo assume un aspetto astratto di vago sapore neoplastico il cui agente si basa, in prima istanza, sulla defun1
Le finestre cieche erano usate per regolarizzare i prospetti , ma se ne trovano anche di recente, vedi il fronte della postmoderna Fiera di Francoforte progettata a metà degli anni ’80 da Osvald Mathias Ungers. 2 Sia pure non programmatica: giacché “la decostruzione ha luogo, è un evento che non aspetta la deliberazione, la coscienza o l’organizzazione del soggetto, né della modernità. Si decostruisce” Derrida J. in Roseti C., La decostruzione e il decostruttivismo. Pensiero e forma dell’architettura, Roma, Gangemi, 1997, cap. 1, par. 1 p. 19.
zionalizzazione delle finestre (che corrisponde in tal modo al dettato delle famose invarianti derridiane3) il cui ruolo diviene principalmente formale secondo un obiettivo puramente architettonico che riporta quindi, ancora una volta, all’obiettivo derridiano di una “architettura come tale”, della ricerca dell’essenza dell’architettura. In tale operazione si può riscontrare un parallelo con Peter Eisenman, il maggiore architetto della decostruzione che, nella desemantizzazione dei pilastri esuberanti delle prime Houses autodestituentisi dal ruolo e dalle significazioni funzionali e strutturali, a fronte dell’impoverimento semantico a livello percettivo superficiale, acquisiscono una ridondanza sintattica propria del livello concettuale profondo. L’analogia con l’operazione svolta da G. Laganà appare evidente: la riconoscibilità, non sempre palese, delle finestre e delle pseudofinestre, ne revoca in dubbio l’effettivo ruolo, per cui ne risulta una desemantizzazione, ovvero una perdita di significanza con una caduta del livello percettivo semantico a favore della ridondanza sintattica in tal modo acquisita, il cui livello concettuale profondo costituisce la principale qualità architettonica dell’edificio. Delle diciassette aperture (totali o parziali) del fronte principale otto sono vere (sette finestre e una porta) altre nove sono scavi di identica dimensione e di profondità variabile per i quali si deve rilevare anche l’inversione, operazione frequente nella decostruzione, del relativo ruolo plastico; infatti il famoso corbuseriano “gioco sapiente dei volumi puri sotto la luce” qui avviene all’inverso, non vi sono volumi, vi sono dei vuoti e dei semivuoti, ma il grado di luci ed ombre continuamente variato non è per questo meno apprezzabile rivestendosi anzi di una notevole originalità, dove il “bassorilievo”, decorazione tipica dell’architettura classica, diviene invece strumento d’espressione di un’architettura genuinamente contemporanea, mediterranea o internazionale che sia. La profondità degli scavi nella parete prodotti dalle finestre fittizie variano da nove a quindici centimetri, con differenze assolutamente non trascurabili perché, al variare della luce e delle sue angolazioni, l’allungamento o la contrazione dell’ombra diventa notevole creando effetti diversi che rendono il fronte sempre mutante nelle molteplici e continue vibrazioni chiaroscurali. Piante, prospetto e sezioni 3
Roseti C., op.cit., cap. 2, par. 3, p. 43.
38 E qui si ritrova la fondamentale tematica decostruzionista della dialettica presenza/assenza cui Derrida contrappone, al rapporto assolutistico ed esclusivista delle opposizioni dialettiche quello della differenza e della traccia, quale rapporto ibridato e variabile dove la differenza è nell’alternanza pieno/vuoto in cui la presenza è data dalla semplice finestra forata e con infissi mentre le sue tracce murate derivano dall’assenza dell’infisso sostituito dal semplice tamponamento su cui la traccia delle bucature (variabile in profondità) qualifica il testo architettonico complessivo. Analizzando da vicino la geometria che regola la composizione si può osservare come il progettista mantenga il controllo dell’assai variata e un po’ spericolata ridondanza contenendo entro il numero di sei le giaciture orizzontali dei riquadri sia forati che scavati, mentre raggiungono il totale di undici gli sfalsamenti verticali, secondo una composizione libera ma che, dovendo tenere conto degli aspetti funzionali ed utilitari per quel che riguarda le finestre vere, punta sul sistema degli scavi per controllare la morfologia complessiva risultante. Un attento equilibrio ponderale è poi ricavato entro il rapporto vuoto/pieno già a partire dalla facciata
complessiva che è stata alleggerita di un piano per un quarto della superficie del fronte che fa posto ad una terrazza aprendo l’edificio verso la strada. La terrazza comunica col patio che caratterizza tipologicamente l’alloggio il quale poi si conclude con un ulteriore vuoto verso l’interno. Niente da dire sulla facciata laterale che prosegue con gli stessi principi accrescendo ulteriormente il gioco complessivo di luci ed ombre. Il tutto entro una tonalità che, per avere saputo ottenere apprezzabili risultati agendo con sobrietà e discrezione su pochi elementi, si può definire certamente minimalista ma, al tempo stesso, per il genere di materiali e l’assetto complessivo, quest’architettura non può collocarsi entro il less is more miesiano e nemmeno ascriversi al contemporaneo neominimalismo (v. l’architettura giapponese), e può forse quindi trovare una sua definizione nella più lata e plurivoca mediterraneità che gli è già stata attribuita in altre sedi critiche. Fermo restando naturalmente la lettura decostruzionista che permane tale secondo il principio enunciato nella nota 2.
Scorcio del fronte strada; in primo piano il vuoto della loggia.
portunità di ridefinire il proprio statuto, ripensando la questione dei bisogni dell’essere umano, e ripensando la stessa bellezza come un peculiare bisogno.
Jean Luc Nancy Le Muse Diabasis 2006 Nancy mostra in questo libro come l’arte apra all’infinito il mondo della significazione: colore, ritmo, profumo, pesantezza, profondità, spessore... Per liberare questa molteplicità nell’unità egli sostiene che occorre saper mettere fine a una certa idea di arte romantica con la maiuscola. Ci sono le arti e, con esse, i sensi (un tema classico di Nancy), il senso dei sensi, e la tecnica, di cui l’arte non è che la traduzione. Questo e gli altri temi (la nascita hegeliana delle arti – Nancy passa in rassegna l’estetica in Kant, Schelling ed Hegel fino a Wittgenstein e Deleuze – l’idea di soglia, la pittura primitiva, le vestigia dell’arte e la lotta fra arti, l’opera d’arte come dono) concorrono ad affermare che è proprio con le arti che il senso del mondo e la nostra idea di esso sono rimessi in gioco.
Ludwig Mies van der Rohe Gli scritti e le parole A cura di V. Pizzigone, Einaudi 2010
Gli scritti di Ludwig Mies van der Rohe sono apparsi fin dal 1947 in antologie critiche, ma questa raccolta riporta la totalità pressoché esaustiva dei suoi scritti e dei suoi interventi, quale finora non era mai stata pubblicata né in Italia né all'estero. La sproporzione fra i pochi scritti di Mies e i molti studi di cui sono stati oggetto conferma che il suo noto aforisma “less is more” non vale solo per le sue architetture. Celebre per la bellezza dei suoi edifici con struttura a telaio, per la monumentalità delle sale prive di sostegni interni e per l’eleganza degli arredi, la personalità di Mies emerge da questa raccolta attraverso la forza e la chiarezza comunicativa delle sue parole. A fianco di testi già noti, questo volume propone un gran numero di scritti inediti o mai tradotti in italiano che mostrano in una nuova complessità l'insieme della sua produzione teorica.
Ettore Rocca Estetica e architettura Il Mulino 2008 Da Kant a Derrida, da Schopenhauer a Heidegger, da Nietzsche a Ricoeur e a Vattimo, il volume presenta una serie di testi fondamentali per comprendere il rapporto tra l’estetica moderna e l’architettura. Nel percorso che l’architettura ha compiuto dalla nascita dell’estetica nel Settecento fino ai giorni nostri emerge come essa, inizialmente esclusa dalle “belle arti”, e considerata gradino più basso tra le arti nella prima metà dell'Ottocento, assuma nel Novecento una nuova centralità per la riflessione estetica. Se da un lato l’architettura rischia così di diventare l’arte suprema dell’estetizzazione della quotidianità, e l’architetto l’erede della volgarizzazione del mito moderno del genio, dall’altro essa offre oggi all’estetica l’op-
Alfonso Gatto Scritti di architettura A cura di G. Lupo con un saggio di O. Scelza, Aragno 2010 Gran parte degli interessi architettonici di Alfonso Gatto matura a Milano, nella prima metà degli anni Trenta, a contatto con Edoardo Persico e gli altri intellettuali radunati intorno alla rivista «Casabella».
Oltre la metà dei quarantuno capitoli di cui si compone questo libro, viene pubblicata sul mensile milanese, all’interno della rubrica “Cronaca dell’architettura”, tra il gennaio del 1936 e il novembre del 1937. Tutti gli altri contributi escono su quotidiani, riviste o pubblicazioni monografiche e coprono un arco cronologico di quattro decenni, dal 1935 al 1976. Attraverso questi scritti, che svariano dalla “città radiosa” di Le Corbusier alla Usonia democratica di Frank Lloyd Wright, dal concetto di architettura integrata di Walter Gropius ai principi principi di razionalità di Giuseppe Pagano Pogatshing ed Ernesto N. Rogers, Gatto non solo partecipa alle polemiche tra stile funzionale e stile mediterraneo, mostrando peraltro una straordinaria competenza in materia di urbanistica, ma giunge ad affermare con fondatezza metodologica quei legami ideali fra letteratura e utopia, che ispirano tutta la sua produzione poetica, a proposito della quale Oreste Macrì avrebbe usato la formula di «ermetismo attecchito nel paese di Campanella».