Bloom 2010 01

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Bl o o m

t r i me s t r a l ed ia r c h i t e t t u r aac u r ad e ld o t t or a t odir i c e r c ai nc ompos i z i onea r c hi t e t t oni c ade l l af a c ol t Ă dia r c hi t e t t ur adina pol i

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ANARCHISTAR Architettura e Anonimato


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ARCHI TETTURAEANONI MATO EDI TORI ALE1 Al ber t oCuomo

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DI TORI ALE2 Ant oni oF .Mar i ni el l o

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Mat er i al i ARCHI TETTO! . . . . LEQUE( U) X?* Al ber t oCuomo

a l b e r t oc u o mo c omi t a t os c i e nt i f i c o

f e l i c eb a i o n e r ob e r t oc o l l o v à a l b e r t oc u o mo ma r i od e l l ' a c q u a a n t o n i of . ma r i n i e l l o l ui g ip i c o n e gu i d or i a n o c l a u d i or o s e t i s e r g i os t e n t i ga b o rs z a n i s z l ò

I LPRI NCI PED’ ARGENTO FOTOGRAFATO ALLAFONDAZI ONEPRADAI NLARGO I SARCO AMI LANO Raf f ael eNappo

Test i FABRI ZI O CAROLA,UN’ ARCHI TETTURAPERL’ ANONI MATO Gi ovanniBar t ol o L’ ARCHI TETTURANASCOSTADINI ETO &SOBEJANO Rosar i oDiPet t a UNGI OVANEARCHI TETTO FI NLANDESE:OLAVIKOPONEN Fr ancescaBuoni ncont r i

r e da z i o ne

gi o v a n n ib a r t o l o a n d r e ac a r b o n a r a gi a n l u i g if r e d a ga e t a n al a e z z a c a r mi n el oc o n t e

UN’ ARCHI TETTO NAPOLETANO DI MENTI CATO Car mi neLoCont e

Est r at t i

PREMI O PRI TZKERPERUNARCHI TETTO NORMALE Massi moSqui l l ar o L’ I SOLADELLEROSE.UNAMI CRONAZI ONEADRI ATI CA Gi aci nt oCer vi er e

Quar t adicoper t i na



ARCHITETTURA E ANONIMATO Renato Nicolini

La questione dell’ anonimato spacca in due la concezione dell’architettura nel XX° secolo. Massimo Bontempelli scriveva su “’900”, la rivista che usciva in francese nell’Italia del primo fascismo, prima della svolta del ’26 che “l’aspirazione più alta dell’arte è di essere anonima”. L’anonimato è l’aspirazione del Novecento italiano, quello riunito da Margherita Sarfatti, nel suo doppio movimento di programmatico ritorno alle origini, a Giotto ed ai romanici piuttosto che ai preraffaelliti, dove maestra d’arte è più la tradizione che l’artista singolo, e di suggestione delle grandi folle (doppiamente anonime) delle grandi fabbriche (un bello scritto di Edoardo Persico sulla FIAT) e della grande città. Un desiderio di mediocrità, di confusione nella norma dopo gli eccessi del pesante liberty cementizio del Sommaruga, è all’origine di opere come la Ca brutta di Giovanni Muzio. Il desiderio di produrre architetture anonime, che più che all’architetto loro autore appartengano subito alla vita della città, piuttosto che da motivazioni architettoniche in sé proveniva dalla nuova sensibilità che portava a intendere l’architettura come fenomeno urbano. L’anonimato dell’abitante della grande città, un volto tra la folla, si trasforma facilmente in caratteristica della grande città, la metropoli. Dall’uomo senza qualità (Musil) deriva la città che si riconosce, piuttosto che dai caratteri dei suoi luoghi, dal passo della grande folla che la percorre (sempre Musil). E viceversa. L’avanguardia futurista propone invece il rimedio a questa perdita nell’accentazione della soggettività, nel protagonismo dell’io, nell’introiezione estetizzante del dinamismo della metropoli nella propria vita (“la strada entra nelle case”), negando in ogni modo possibile l’anonimato. Il fatto che il futurismo non riesca ad affermarsi come un vero movimento architettonico, oltre i disegni di Sant’Elia, i manifesti, figure di secondo piano come Chiattone e Virgilio Marchi, e le predicazioni marinettiane, potrebbe essere interpretata come la logica conseguenza di questa intenzione in fondo contro corrente. Quanto alle altre avanguardie, il surrealismo per primo, si appoggia proprio all’anonimato della grande città come tessuto connettivo. L’anonimato è parente stretto della derive urbana; anzi una città anonima (ad esempio la Grosstadt orizzontale di Ludwig Hilberseimer) potrebbe creare una condizione permanente di spaesamento, parente stretto della derive. Il tono anonimo della città permette la sorpresa, la meraviglia, la scrittura secondaria sopra la situazione di base. In un certo senso, il neoplasticismo tende, nel suo afflato teosofico verso l’unità, all’anonimato. La sensazione viene depressa a favore del concetto, i tre colori fondamentali riassumono l’intera gamma cromatica, l’angolo viene ridotto al piano, persino la composizione in diagonale viene guardata con sospetto, ed è all’origine della rottura tra Mondrian e Theo van Doesburg. Il razionalismo sposta – in sintonia con la neue sachlickeit – il carattere autoriale dell’architettura nell’uso corretto degli schemi funzionali e delle tipologie, anche in questo caso nella direzione dell’anonimato. La prevalenza dell’edificio sull’autore viene affermata anche da Louis Kahn, quando afferma che è l’edificio ad avere una sua volontà. E’ interessante osservare come questa tendenza venga solo parzialmente negata dal post modern (penso in particolare ad Aldo Rossi e a Giorgio Grassi, ma anche a Gianni Braghieri o ad Antonio Monestiroli, dove la tipologia assunta come principio di architettura inibisce individuazioni troppo particolari). Mentre viene negato dall’architettura come griffe, come volontà di comunicazione prima ancora che di costruzione o progettazione, della deconstruction: che non casualmente si appoggia nei suoi riferimenti programmatici al futurismo italiano e russo, poi costruttivismo sovietico.


SLOW ARCHITECTURE? Luigina De Santis

Il titolo propone in forma di dubbio una possibile interpretazione della diade architettura-anonimato. Il riferimento - evidente - è al movimento Slow Food, che, in nome di una sorta di autenticità del cibo, ne rivendica il valore culturale, promuovendo la salvaguardia delle biodiversità e delle tradizioni culinarie legate al territorio, in difesa del diritto al piacere e al gusto. Slow, in opposizione al fast dei fast-food, è il tranquillo piacere materiale di una vita legata ai tempi e ai luoghi di realtà differenziate, che sfuggono alla velocità e alla superficialità omologanti della globalizzazione. Se slow è ciò che si sottrae all'omogeneizzazione de gli s cambi, all'ossessione de ll'immediatezza, alla p erformance d ella c omunicazione, non è poi tanto azzardato pensare a un'architettura slow. Del resto la retorica della 'lentezza' ha sempre contrassegnato la lettura dell'architettura come 'mestiere': saper-fare complesso che vede il concorso di mente e mano nella produzione delle c ostruzioni. Il mestiere è, dunque, esercizio di un ministerium – servizio e funzione – compito sociale e lavoro esperto. Beruff lo dicono i tedeschi, come ci ricorda Max Weber connotandolo come motivazione e vocazione. E' il mondo che chiede di fare, contro ogni onnipotenza narcisistica, e le cose che si fanno sono inevitabilmente connotate dall'intenzionalità di chi fa, nel connubio di circostanza esterna e sollecitazione interna. Il mestiere è quello dell'artigiano, un saperfare teorico e pratico. E l'artigianato, come pratica consapevole, contrapposta a lla m era produzione, è stato un importante paradigma di riferimento per una modernità che faticosamente andava elaborando un proprio stile, legato ai modi, alle tecniche e a lle istanze della produzione industriale. E' un m odello per definire-limitare il ruolo dell'architetto, agito da Adolph Loos per opporre all'estetizzazione omnipervasiva degli architetti contemporanei l'autenticità delle sedie del vecchio Veillich e la ripetitività dei suoi gesti, per nulla inclini all'invenzione gratuita e piuttosto fedeli alle regole acquisite. Può essere, allora, l'architetto-artigiano la risposta all'architettura globalizzata degli Stars Architects? La possibile declinazione di un'architettura no logo, che si oppone alla firma-marchio, rifiuto lo stile inteso come maschera e si sottrae alla teatralizzazione che scinde forme e contenuti, e, in nome di un malinteso realismo, si limita a rappresentare i problemi piuttosto che a metterli in questione? Nel suo The Craftsman, pubblicato nel 2008 e tradotto in Italia nel 2009, R ichard Sennet ripropone proprio la figura dell'uomo artigiano come antidoto al modello globalizzato della produzione e come figura salvifica dall'alienazione e dall'anomia dell'attuale organizzazione del lavoro. Craft è l'arte, il mestiere, la tecnica. La 'maestria' di un lavoro ben fatto, frutto di competenza e impegno, esercizio e sperimentazione: testa e mano all'opera a m anipolare materiali e r endere più facile la vita, mosse da necessità e ispirate da occasioni. Ars dicevano i latini, epurando la techné greca della dimensione enfatica della produzione entusiastica per privilegiare l'astuzia della mêtis. La ra dice i ndoeuropea *ar-, che significa 'ordine', è comune anche a artus e ritus, a sottolineare la ripetitività dei gesti, la fedeltà alle regole, la familiarità dell'esercizio. E' la ripetizione di tecniche e pr ocedure che diventa mestiere e può poi rinnovarsi con salti intuitivi e s oluzioni originali, consapevole del legame tra mezzi e fini. In fondo è la lezione di Loos: fare buon uso della con tingenza e d ei v incoli. Individuare i pr oblemi pe r po rli i n questione e ' scioglierli', magari a mpliandone il senso, interrogandosi non solo sul come si fa, ma anche sul suo perché, chiedendosi responsabilmente qual'è il mondo cui si vuole contribuire a dar vita. Ne deriva una profonda intonazione etica, che implica passione e cura per quel che si fa. Ricerca - quasi dedizione - del giusto mezzo, perché il lavoro 'fatto ad arte' è quello quasi perfetto, che tollera una certa dose di incompletezza e di irresolutezza, che elabora positivamente contingenze e limitazioni e che sa quando è il 'momento di smettere' e abbandonare l'opera al suo destino. L'anonimato, allora, più che cancellazione dell'autore in nome di un'architettura banale o spontanea - l' Architecture Withuot Architects promossa da Bernard Rudofsky con l'esposizione al M oma ne l 1964 o quella vernacolare di vulgata da Giuseppe P agano e Giuseppe D aniel con la Mostra dell'Architettura Rurale alla VI Triennale di Milano nel 1936 - è, loosianamente, consapevolezza dei limiti del proprio disegno e della responsabilità del proprio ruolo. Architetto, etimologicamente, è chi dispone della tecnica (archôs tôn technôn) o chi dirige i tecnici (archôs tôn techichôn). Chi governa i l pr ocesso costruttivo, dall'ideazione alla r ealizzazione, in virtù dell'autorità conferitagli dal s uo sapere. E' l a pa dronanza di pr incipi e t ecniche a r enderlo auctor - autore - responsabile delle proprie actiones, contro l'imperversare degli auctioneers, banditori venditori di fumo che trionfano in un


mondo di riflettori e microfoni, di scene e performance, di media e spin doctors, per dirla con il Baudrillard de “L'illusione della fine” (1993). Allievo di Hanna Arendt, Richard Sennet ricompone la distinzione che la maestra poneva tra l'animal laborans, che, quasi bestia da soma, fatica per garantirsi la sopravvivenza materiale, e l'homo faber, artefice e creatore. Il lavoro dell'artigiano è comunque mosso dal pensiero, il suo fare è ripetitivo, ma può essere anche creazione: accorda la volontà di vita dell'animale con la virtus infuturante dell'animale-uomo i n una techné capace di disporre e di t essere, di produrr e cioè secondo un proprio ordine. Il paradigma di quest'attitudine umana è individuato in Efesto, il fabbro zoppo che ama il suo mestiere e ne ha dedizione e cura. Chiuso nella sua fucina, cesella instancabilmente gioielli e armi, scudi e trappole. Il ritmo del suo passo claudicante e il battito cadenzato del suo martello dicono il tempo lungo di un lavoro di aggiustamenti pazienti e di rifacimenti meticolosi, necessario perché l'idea sedimentandosi maturi e si distacchi da ogni impazienza e da ogni contingenza. E' di Efesto la tecnica che Prometeo ('colui che vede il futuro') trafuga per donarla agli uomini, come ci racconta Platone nel “Protagora”, nel tentativo di garantirne la sopravvivenza dal momento che le facoltà messe a disposizione da Zeus per proteggere la vita delle stirpi di tutti i mortali, improvvidamente, sono state dissipate da Epimeteo ('colui che giudica col senno di poi'), che le ha assegnate tutte agli animali. La sapienza tecnica, insieme all'arte del fuoco, muove il linguaggio e l'insediamento, la costruzione e la religione, ma è i nsufficiente a d ifendere da gli as salti de lle f iere. Interviene nuovamente Z eus, che i nvia Hermes con un nuovo dono: Aidós (pudore) e Díke (giustizia), perché l'uomo possa perseguire la phília, la serena e pacifica convivenza.Regolando la relazione con l'altro, nel rispetto reciproco che è anche autolimitazione, e, al tempo stesso, definendo spazi interiori di sovranità, il pudore diventa riserva di libertà e forma di resistenza. Muro invisibile che si frappone tra mondo interiore e realtà esterna, per costituire la forma stessa della coscienza individuale, l'essere se stessi, la propria autenticità come autorispecchiamento nelle azioni e nelle parole. Cifra di un'autenticità che la trasparente complessità del mondo, con la sovrabbondanza di informazioni, respinge al bordo - ai margini - in un'ascetica solitaria del senso, i l pudore è d isciplina de l limite, pr esidio del confine, continua marcatura di zone di ri spetto. S uo simbolo materiale è il velo, membrana che separa e custodisce, plica o barra in movimento tra animalità e um anità, s pirito e c orpo, i ndividuo e s ocietà. Lavorare s ulla propri a m arginalità, fare della distanza una riserva di profondità, preservare nel nascosto la densità del senso, sembra essere il viatico che il mito ci consegna di fronte alla superficialità della società dello spettacolo e all'ultra piattezza dello schermo planetario - dove gli eventi si manifestano e per il quale si confezionano - che tutto schiaccia nella superficie liscia e operativa della comunicazione, come stigmatizza Mario Perniola in “Contro la comunicazione” (2004). Le cose perdono spessore e senso, “non offrono più sostanza, distanza o resistenza (...) diventano immanenti ed elusive in un eccesso di fluidità e luminosità”. Baudrillard chiama questo processo Blanchissement (imbiancamento generalizzato): una sorta di trasparenza definitiva. Come per l'uomo senza ombra, tutto diventa trasparente alla luce che lo attraversa, come se fosse illuminato da tutte le parti, sovraesposto senza difesa a ogni fonte di luce. Anche il pensiero è come privato di attrito, gravità e r esistenza. Nulla r imanda pi ù ad altro che alla pe rformance della c omunicazione, perché l a scena si è fatta unica. L' “imbiancamento” è anche 'incanutimento': invecchiamento del mondo e del suo arsenale teorico che racconta la realtà come immagine del mondo, nella continuità che lega l'occhio onnivedente della conoscenza e quello pervasivo del regime televisivo. Il trionfo di una società eterea - del simulacro, del marketing, della comunicazione generalizzata - non fa che portare fino in fondo l'idea di luce, di visione, di manifestazione che sottende da sempre il pensiero filosofico. In fondo, c on Jacques Derridà, la storia della filosofia non è appunto “fotologia”? Allora, preservare zone di ombra, ritagliare spazi di opacità, salvaguardare ambiti alla fatica del saper-fare è i l compito di una cultura non e terea, una cultura del corpo e del lavoro materiale, perché nel silenzio sordo dell'opacità le cose possano manifestarsi i n tutta l a pesante de nsità de l loro senso e l 'esercizio irrinunciabile del pudore possa i ndicare qualcosa nella direzione del vero. Contro il “regime scopico” della modernità, il pudore, come consapevolezza della propria situazione di confine, nella tensione tra opacità e trasparenza, protezione ed esibizione, è anche una forma di resistenza al glamour facile. Una cultura slow - come un'architettura slow fa dell'esercizio del pudore la propria regola, rinunciando alla fascinazione dell'immagine e alla veicolazione della griffe, per essere ogni volta interrogazione di una realtà, risposta a un compito, esercizio paziente di un saper-fare.


ASPIRAZIONE ALL’ANONIMATO COME AUTOLIMITAZIONE Francesco Sorrentino

Nell’introduzione al testo Hausbau und dergleichen 1 di H. Tessenow, Giorgio Grassi si esprime in termini molto chiari sulla relazione città-architettura, e sulle implicazioni che tale relazione comporta per l’attività progettuale: «Il fatto è che in architettura il capolavoro, l’opera cioè che sembra segnare il tempo, e l’edilizia o la maniera, tutto quanto concorre quindi alla costruzione della città, stanno molto vicine, legate da una relazione di reciproca necessità. E questo fatto è peculiare dell’architettura. L’impronta individuale è un attributo che l’architettura riesce a non subire soltanto riconducendola, per così dire, a un comune destino – la città – e a un obiettivo unitario di chiarezza». In queste righe Grassi sostiene la tesi secondo la quale l’opera d’architettura non può essere un fatto isolato, essa è in stretta relazione con ciò che la circonda, a tal punto che «il capolavoro, l’opera che sembra segnare il tempo» non costituisce un superamento di quelle che l’hanno preceduta, piuttosto «non c’è architettura che emerga senza esaltare contemporaneamente quanto essa stessa sembra superare» 2. Da tale tesi Grassi giunge alla conclusione secondo cui, affinché l’opera d’architettura si relazioni con la città, abbia come «destino» la città, essa deve rinunciare all’impronta individuale, deve diventare cioè un fenomeno collettivo. Giorgio Grassi, convinto che l’architettura possa configurarsi come «costruzione logica», sapere certo e logicamente trasmissibile, dal quale derivare ogni opera, vede in Tessenow l’architetto a lui più vicino, colui il quale, in seno al Moderno, ha sostenuto una visione dell’architettura come fatto collettivo, «momento in cui il fare, gli obiettivi e la definizione procedurale (pratica e teorica) del fare si identificano in un medesimo processo, che ha come condizione necessaria la sua completa descrivibilità»3. Per Grassi l’architettura non può prescindere dal suo “auto-relazionarsi”, ovvero non può che relazionarsi con se stessa, con ciò che può essere ricondotto all’ambito dello “strettamente architettonico”. Tale ambito deve costituirsi, però, come un sapere logico e razionale, presupposto necessario alla sua completa trasmissibilità. L’individuazione della disciplina architettonica come insieme logico e trasmissibile sancisce il fine didattico dell’architettura e la sua comprensibilità, diventando condizione imprescindibile dell’architettura quale pratica collettiva. Il riscoprire l’aspetto collettivo dell’architettura ci spinge a riflettere sull’attuale panorama architettonico, su quello che accade oggi nelle nostre città, in una stagione dell’architettura in cui esporre la cifra individuale del gesto architettonico sembra essere parola d’ordine nel vocabolario progettuale, parola d’ordine che spesso si tramuta in arrogante monologo. La capacità di relazione con il costruito, ed il tentativo di riconnettere l’architettura al territorio, ormai “questioni demodé”, sono stati sostituiti da un’architettura a scala individuale (è paradossale notare quanto sia “globale” tale “individuale”), che genera oggetti sempre più chiusi nella loro “solitudine”, in una estenuante ricerca del nuovo e dell’originale a tutti i costi … e che costi! Non è andata forse perduta quell’attenzione verso l’urbano, cioè quell’attitudine progettuale volta alla comprensione degli “effetti” del costruire sul territorio, capace di farsi carico di una responsabilità politica ed in grado di condizionare le scelte che da tale responsabilità devono comunque scaturire? Non sono forse dovuti all’assenza di adeguati strumenti teorici, capaci di guidare il processo di edificazione dell’urbano, e alla conseguente concentrazione degli sforzi progettuali sui singoli interventi, improbabili solutori, i problemi delle nostre città? D’altra parte la strategia di affidare alla singola opera il compito di riqualificare, attraverso una sempre più vuota ricerca dell’“effetto” e dell’“eccezionalità” del manufatto, fenomeni di degrado urbano, si è dimostrata, tanto nelle zone centrali che in quelle periferiche, un fallimento. Nella maggior parte dei casi l’opera architettonica (attrattore economico, turistico, culturale), che avrebbe dovuto fare da catalizzatore per interventi volti alla riqualificazione dei contesti limitrofi, è servita a rilanciare e giustificare meri interessi speculativi. La propensione per un’architettura intesa come fatto collettivo, sapere condiviso, mestiere tramandato all’interno del lavoro di “bottega”, nasceva in Tessenow da un senso di critica e di rifiuto di imposizioni stilistiche che provenivano dal Movimento Moderno, il quale rischiava di sostituire alle vuote formule dell’accademia una “contro-accademia” 4, che agiva sotto la spinta di una volontà di rinnovamento tanto 1

G. Grassi, introduzione a H. Tessenow, Osservazioni elementari sul costruire, Franco Angeli, Milano, 1974, pag. 25. Cfr. Ibidem. 3 Cfr. Ibidem, pag. 35. 4 Grassi riporta un intervento di Tessenow rivolto agli studenti del suo corso, in cui è evidente la volontà da parte di Tessenow di vagliare attentamente le motivazioni che stanno alla base di ogni nuova proposta formale fatta dall’avanguardia, in questo caso il disegno di una finestra: «Ha forse ragione Poelzig quando mi chiede perché mai voi continuate a disegnare delle finestre così antiche, alte e minutamente suddivise, piuttosto che basse e larghe? Già, ma la domanda è appunto: perché questo è sbagliato e questo è giusto? Me lo chiedo davvero seriamente…». I929-1932 – Appunti di uno studente di architettura della Technische Hochschule di Berlino-Charlottenburg, Cit. 2


velocemente da limitare il tempo necessario per un’adeguata riflessione. Per Grassi, il ritorno ad una visione dell’architettura come mestiere, prosegue di pari passo con la «rifondazione disciplinare»; il mestiere diventa allora quel sapere condiviso e trasmissibile su cui la disciplina necessariamente si fonda. Ma non può ritenersi che la propensione ad un’architettura come fatto collettivo, così come Grassi la definisce, nasca da una sorta di timore nei confronti di una “degenerazione individualistica” dell’architettura? Non è da ritenersi possibile che tale timore per una eccessiva libertà e spregiudicatezza, propri del processo creativo del fare artistico, timore che in Grassi diventa preoccupazione assillante, conduca il pensiero dell’architetto milanese su posizioni tanto rigorose da escludere ogni componente artistica dal processo creativo, riconducendo la disciplina architettonica nella sola sfera della costruzione? Siamo certi che l’estromissione di tutte le componenti soggettive, irrazionali e immaginifiche dal processo creativo, come antidoto ad inevitabili distorsioni e pericolose deviazioni, non comporti un vero e proprio sacrificio per l’architettura, un prezzo troppo alto da pagare per una pratica che, seppure “corretta”, corre il rischio di recare con sé l’orrore della monotonia e la negazione della bellezza del “genio creativo”? Eppure mai come in questi ultimi tempi, di fronte ad eventi che tendono sempre di più a spingere l’architettura al di fuori del proprio campo d’indagine, ormai confuso con il mondo della produzione in generale, vicino più ai meccanismi della moda e del marketing, che all’impegno della riflessione estetica, sembra ritornare più attuale la questione della «rifondazione disciplinare».Se da un lato il sacrificio della libertà creativa, l’aspirazione all’anonimato, a favore di una responsabilità collettiva nei confronti dell’architettura e della città, del progetto e della storia, ci lascia intravedere il pericolo dell’appiattimento della regola e dell’intervento “corretto”, dall’altro non possiamo negare l’esistenza di una tale responsabilità, di una chiamata al rigore e all’impegno etico, proprio della pratica professionale degli architetti, destinati ad essere “un po’ costruttori, un po’ artisti”.

in H. Tessenow, Op. cit. A tal proposito, si pensi anche alla cosiddetta «guerra del tetto», che vide accademia e avanguardia lottare la prima a favore del tetto a falde, ritenuto elemento tradizionale dell’architettura, e l’altra a favore del tetto-piatto. Giorgio Grassi riporta la posizione di Tessenow su tale questione. Tessenow pensa al tetto come elemento d’architettura, come soluzione architettonica per coprire un edificio: «Il fatto che noi ci battiamo in favore del tetto-piatto, che cerchiamo di migliorarlo e in determinati casi lo scegliamo, per così dire, per il suo carattere di negazione, dovrebbe apparire normale a qualsiasi architetto; ma pensare che la copertura piana dovrà vincere entro breve tempo su tutta la linea significherebbe sottovalutare assurdamente il tetto a falde…». H. Tessenow, Il tetto, in Das neue Frankfurt, n. 7, ott.-dic. 1927, pag. 202.


S.A.A. SOCIETA’ ANONIMA ARCHITETTURA Claudio Roseti

Si premette in apertura che appare evidentemente sequenziale per chi, come il sottoscritto, ha redatto tutti e due gli articoli sul tema del rapporto tra architettura e mercato, una concatenazione col primo saggio dedicato alle Archistar. Le categorie coinvolte nell’anonimato dell’architettura restano, così come per le Archistar, inevitabilmente parziali rispetto alla totalità secondo una scelta che segue la linea ideologica portata avanti in questi saggi in coerenza con la propria linea di ricerca più generale. Seguendo in prima istanza un ordine temporale si citano per primi gli artefici di quelle architetture anonime che, nella storia della città, hanno connotato un quartiere o un intero agglomerato urbano che la vox populi sa essere dovuto ad un unico progettista e proseguito poi da suoi eredi entro ambiti che, tuttavia, più che la storia pertengono la leggenda e tali dati pertanto, per la loro vaghezza, sono difficili da esemplificare, anche se sappiamo tutti che esistono e non infrequenti. Passando quindi alla contemporaneità, una categoria generale potrebbe essere costituita da tutti coloro che vogliono prescindere da quei rapporti extradisciplinari e soprattutto di mercato che generano condizionamenti in nome di una creatività senza limiti sia in senso progressista che conservatore, di ipercreatività o di neominimalismo di vario tipo. Approssimando in una certa misura il tutto, ma non i linguaggi e le poetiche individuali, potrebbero presentarsi in forme pressoché anonime tutte le architetture di quei “maestri” citati nel saggio precedente giacché il prodotto, palesemente riconoscibile, si impone già solo per la sua provenienza e pertanto non ha bisogno di casse di risonanza che l’accompagnino, essendo tale da potersi autorappresentare. In tale ambito, al di là dei “maestri”, si possono includere tutti coloro che sanno di aver prodotto buone architetture e ne attendono il giusto riconoscimento (dalla critica, dall’utenza quale potenziale ulteriore committenza) senza doversi prestare a molto di più della debita presentazione ai destinatari e ai committenti o di altre minime formalità standard. E’ da precisare che non si sta parlando di un anonimato letterale, giacché un progetto non può essere, ovviamente, presentato senza una firma, ma di una istanza di discrezione, una sorta di privacy che lasci più libera la scelta nelle direzioni più o meno indicate dalle strategie del marketing che, come sappiamo, nella riduzione di tutto ad immagine si è aperto ormai da tempo alle varie forme dell’arte a partire dall’architettura. Bisogna osservare tuttavia che forme più disinteressate di rapporti intermedi tra arte e marketing e di elevato tenore culturale, sono esistite già circa un secolo fa con la nascita del Deutscher Werkbund in Germania, struttura adottata poi anche dalla Svizzera e dall’Austria, curata e gestita dai più elevati esponenti della cultura dell’epoca. Il Werkbund tedesco infatti fu fondato nel 1907 da H. Muthesius e curava i rapporti tra arte e industria, dove gli intermediari erano gli architetti, tra i quali vi furono maestri come Peter Behrens, supervisore artistico dell’AEG, e Walter Gropius per la Fagus. Ne fecero parte anche H. Poelzig e H. van de Velde, e fu il Werkbund ad organizzare nel 1927, al Weissenhof di Stoccarda, la famosa mostra di architettura residenziale “dal vero”. C’è chi vede delle analogie in tale struttura con l’operato di Adriano Olivetti, che tutti ricordiamo nel nome di Comunità (sigla di un periodo parziale) svolto durante il periodo del secondo dopoguerra in cui, nella vastità e complessità di tutto ciò che questo straordinario personaggio riuscì a fare, sono rinvenibili molti temi comuni col Werkbund. Un’analisi comparativa tuttavia che investa gli ambiti politici, economici e sociali che Olivetti ridisegnò in maniera radicale e rivoluzionaria, tali da rendere assolutamente unica la sua attività di riformista e mecenate (prematuramente interrotta all’età di 59 anni) appare molto difficile da svolgere a fronte della plurivocità e multiformità assolutamente fuori del comune che hanno caratterizzato la sua opera. Lasciando poi da parte la moda più tipica e corrente, quella cioè del vestiario con i vari accessori e, più in generale, del superfluo, dove l’immagine risulta assolutamente fondamentale in quella che ormai può attualmente definirsi la “società dell’immagine” (ovvero “dell’apparire”) che non si può ormai ignorare in tutti i campi e a tutti i livelli, e andando ad analizzare le “contaminazioni” con gli altri ambiti più di recente coinvolti, si può rilevare che il punto cruciale è il filo su cui viaggia la componente culturale. La cultura è infatti quella che si può ritenere il discrimine tra il più esasperato marketing e ciò che sancisce invece l’ambito culturale quale componente differenziale rispetto a quella preminentemente mercantile all’interno di ogni operazione che implichi un coinvolgimento con l’architettura e l’arte in genere. “La presenza delle aziende nella sfera culturale


sta diventando pervasiva: sembra che, ormai, nessuna icona culturale sia immune da un marchio commerciale” (Rifkin, 2000) […] attori, pittori, scultori, cantanti lirici e pop si sono prestati e tuttora si prestano a sostenere performance, retribuiti e sostenuti organizzativamente dalle grosse multinazionali; musei che, su lauta ricompensa, accettano di esporre collezioni d’alta moda; […] gallerie d’arte che si improvvisano, per una notte, passerelle per sfilate […]. La lista è interminabile, tanto che, all’inizio del nuovo millennio, si può affermare con certezza che il sodalizio cultura-azienda è un vero e proprio fenomeno. L’architettura evidentemente risulta coinvolta in questo torbido groviglio di ‘sacro e profano’. […] ‘oggi le aziende usano spesso l’architettura per rendere riconoscibile la loro immagine, la loro identità di marca, perciò realizzano per il proprio consumatore e per il proprio personale ambienti capaci di trasmettere il carattere e l’orientamento dell’impresa’ (Meyhöfer, 2001).” i Una forma di rapporto tra moda, produzione industriale e architettura, direi indolore, senza la fatica di esibizionismi onerosi, ed intercambiabile a scala planetaria, senza che il progettista debba piegarsi a compromessi né altro, se pure con un grado di coinvolgimento relativo, è la location, ovvero la ricerca e la scelta della localizzazione dell’oggetto da reclamizzare che si va a collocare entro un ambito architettonico attraente. L’immissione sul mercato della produzione automobilistica utilizza da tempo gli spazi pubblici per esporre e fotografare la nuova vettura da “lanciare” che, già dallo sfondo architettonicamente qualificato, acquista in valore e, quando si fa poi la tradizionale presentazione al potenziale mercato, la bellezza dell’ambiente circostante incentiverà un’atmosfera gradevole e invitante. Citiamo per tutte la location di un’Alfa 147 presentata davanti al padiglione di Mies van der Rohe all’Esposizione di Barcellona ii che, in questa immagine, si vede parzialmente così come l’auto, mentre sul lato opposto alla 147, in piedi su un muretto, è posta una modella a chiudere la composizione che risulta molto ben composta e studiata, quale esempio di marketing culturalmente apprezzabile. Il design è in sé già un fatto culturale, e così situato e composto acquista sinergicamente un “plusvalore culturale”, si carica di “valore aggiunto”. Ci si può immaginare (o forse è impossibile) quanta pubblicità è stata fatta usando come location gli infiniti scorci del Museo Guggenheim a Bilbao di Frank O. Gehry? Per questo edificio, che ha siglato l’inizio di una nuova era in architettura, citiamo per tutte l’uso del tetto come pista di schettinaggio adottato dalla modella Megane Gale per conto di una ditta di cellulari. Analogamente avviene per le strutture e i viadotti di Santiago Calatrava dal raffinato biomorfismo, l’unico capace di creare rapporti metaforici sfumati, criptati, di natura velata e reinterpretata, non banali, non volgarmente palesi. Quali le conclusioni di queste sintetiche descrizioni? Così come per il precedente saggio sulle Archistar sono state descritte in questa sede delle situazioni intermedie, ibride, qualità proprie di questa temperie, a compimento del noto proverbio “la virtù sta nel mezzo”; giacché gli estremismi sono più difficili da sopportare ed è più facile che creino vittime. Per ambedue le figure, Archistar e anonimato, i ruoli assumibili devono essere contenuti entro certi limiti trattandosi di assetti variegati di recente estrazione, per cui il tutto è da leggersi con una quota di approssimazione entro la quale è collocata anche questa nota che, in definitiva, cerca di tener conto, così come raccomandato da Mies van der Rohe, “dello spirito del tempo”, un confronto indispensabile per l’architettura da sempre detentrice di una fondamentale componente sociale che non si deve mai dimenticare. E in ordine a questa raccomandazione mi sembra giusto concludere con una considerazione che forse andava più congruentemente posta alla fine dell’articolo sulle Archistar. E se la generazione dell’immagine, per la collocazione raggiunta dall’architettura nel campo intellettuale, ci induce a criticare l’elogio delle Archistar, bisogna rammentare (la mia generazione se ne ricorda bene) quanto l’architettura sia stata trascurata e ignorata nei tempi passati; e se oggi si pecca in eccesso, e talvolta con i vari apparati si sconfina nella banalità e nella volgarità, viene comunque portato avanti il nome dell’architettura e dei suoi fautori con le sue qualità, i suoi ruoli, i suoi valori. E quando adeguatamente compiuta, i suoi meriti.

i ii

G. Lo Ricco, S. Micheli, Lo spettacolo dell’architettura. Profilo dell’archistar, Milano, Bruno Mondadori, 2003, p. 153. V. Lo spettacolo dell’architettura. Profilo dell’archistar, cit., pag. 126.


ANONYMOUS INTERNATIONAL STYLE Luigi Picone

L’architettura si può definire l’arte del comporre con mezzi tecnici e costruttivi spazi utilizzabili per i bisogni umani. E’, pertanto, architettura tutto ciò che l’uomo modifica sul paesaggio, gli edifici, le infrastrutture, i parchi, i giardini e quant’altro appartiene ad opere costruttive e quindi alle arti figurative. Il movimento per una nuova architettura ebbe inizio con una precisa definizione enunciata da William Morris in una conferenza alla London Institution del 10 marzo 1881 1: "Il mio concetto di architettura – egli dichiarava – è nell’unione e nella collaborazione delle arti, in modo che ogni cosa sia subordinata alle aree e con esse in armonia, e quando stasera userò tale parola, questa sarà il significato, non uno più ristretto. E’ una concezione ampia, perché abbraccia l’intero ambiente della vita umana; non possiamo sottrarci all’architettura, perché facciamo parte della civiltà, poiché essa rappresenta l’insieme delle modifiche e alterazioni operate sulla superficie terrestre, in vista delle necessità umane, eccettuato il puro deserto. Né possiamo confidare i nostri interessi a un èlite di uomini preparati, chiedendo loro di sondare, scoprire e creare l’ambiente destinato a ospitarci, meravigliandoci poi dinanzi all’opera compiuta, e apprendendola come una cosa bella e fatta. Questa spetta invece a noi stessi, ciascuno di noi è impegnato a sorvegliare e custodire il giusto orientamento del paesaggio terrestre, ciascuno con il suo spirito e le sue mani, nelle porzioni che gli spetta, per evitare di tramandare ai nostri figli un tesoro minore di quello lasciataci dai nostri padri." Il Movimento Moderno si mosse in questo scenario proprio riferendosi a due aspetti: il tecnologico e l’utopico. Contestalmente in Inghilterra nasceva il movimento delle “Arts and Crafts” e le utopie urbane di Fourier e Owen, in Italia il “Liberty”, in Germania il “Jungendstil”. In questo clima di rinascita culturale si formò Walter Gropius. La sua teoria sosteneva gli insegnamenti del Bauhaus, scuola da lui fondata nel 1919. Sinteticamente egli riteneva che l’architetto dovesse essere un soggetto mediatore tra industria e società. L’architettura del Movimento Moderno per circa un ventennio si diffuse in tutto il mondo subendo una omologazione nella logica della civiltà contemporanea di internazionalizzare qualsiasi progresso evolutivo. Alla prima mostra Mondiale di Architettura curata da Henry-Russel Hithcoch e Philiph Johnson tenutasi al M.O.M.A. (Museum of Modern Art) di New York nel 1932, seguì una pubblicazione dal titolo “The International Style” con l’obiettivo di far conoscere al pubblico americano l’architettura contemporanea. Il Movimento Moderno, pertanto, riteneva che il funzionale potesse coincidere con il bello ma allorché si accorse che ciò risultava utopia, si creò una rinascita del decorativismo come espressione di elementi ornamentali e stilemi revivalistici. Ne sono state di esempio le architetture di Ricardo Bofill che, pur se rappresentano felici soluzioni tecnologiche, compositamente risultano infelici ibridi stilistici. Più recentemente la ricerca architettonica si è orientata nell’individuare le scale di progettazione, sia dal punto di vista urbanistico con analisi scientifiche e economiche, sia decisamente architettonica. In molti paesi, ad una ricchissima stratificazione del passato, si è contrapposta spesso una immagine nuova, quella di un’architettura anonima realizzata all’insegna di un profondo equivoco estetico, storico e formale. Il passato, nel migliore dei casi è diventato un museo di reperti architettonici dal quale estrapolare dettagli, ritenendo che da soli fossero in grado di dare una pur minima dignità architettonica alle fabbriche. Purtroppo senza rendersi conto che questi complessi edilizi diventavano mostruosi disturbando non soltanto coloro che sanno distinguere una architettura autentica da una’altra falsa ed anonima. Il destino dell’architettura oggi, nonostante lo sforzo creativo di pochi Archistar più dotati che progettano spazi urbani e architettonici con nuovi linguaggi, si spinge verso la creazione di paesaggi antropizzati fra i più squallidi esempi realizzati dall’uomo. Né è opportuno ritenere che la povertà di forme, di materiali, di visione estetica possa giustificare la povertà inventiva di un linguaggio di progredita civiltà, consona ad un modello di vita contemporaneo. Si cade, talvolta, nell’errore di ritenere che un’architettura moderna, anche se di particolare qualità, non possa essere realizzata in un contesto storico, mentre si accetta che si realizzi una mimetica edilizia, orribilmente falsa ed anonima. Senza esaminare il problema della paternità di edifici sorti in età classica nell’anonimato dei progettisti, realizzati in secoli di grande operosità e limitandosi ad esempi che vanno dal Rinascimento in poi, tralasciando i fattori economici, tecnici ed esecutivi, che pure sono spesso preponderanti per far attribuire l’opera più ai committenti ed alle maestranze che all’architetto, poche sono le opere che si possono far interamente risalire, dalla concezione all’attuazione, ad un singolo architetto. Spesso per le opere di architettura dell’antichità l’anonimato derivò dal debole interesse per la personalità dell’artista o, 1

W. Morris, The Prospects of Architecture in Civilisation, conferenza del 10 marzo 1881, in Id., On Art and Socialism, Londra, 1947.


anche, dalla poca importanza attribuita dallo stesso autore alla sua opera, rendendo impossibile talvolta l’attribuzione di molte importanti opere d’arte. Più comunemente il termine “anonimato” oggi viene attribuito a tutte quelle opere prive di qualsiasi carattere originale, anche se ne è noto l’autore. Sono, spesso, opere di brutta edilizia, realizzata con pessimi materiali e che non hanno alcun rapporto con il contesto, con la storia e la natura dei luoghi. L’architettura moderna non supera questi dubbi, anzi li evidenzia. Infatti non è spiegabile che molti architetti hanno prodotto solo poche opere di grande qualità e decine di altre mediocri. Ciò è dovuto a fattori estranei che non permettevano loro di esprimersi liberamente. Per molti anni Le Corbusier, Gropius, Wright, Mies Van De Rohe non hanno costruito edifici importanti; avevano forse esaurito la loro fonte creativa o li aveva condizionati la crisi economica oppure venivano soggiogati da una nuova architettura accademica? In molte loro opere l’esecuzione è così scadente da incidere sul loro valore artistico; essi spesso rifiutarono di riconoscerle come proprie poiché erano state interpretate e modificate dal committente o dal costruttore. La conclusione che si trae dall’esperienza del passato è valida anche oggi. Gli architetti-artisti sono pochi, anche se di alcune loro opere non ne seguono la realizzazione. L’architettura non si conclude nei progetti, che documentano soltanto la interpretazione dei contenuti edilizi; è impensabile che il progetto di un autore possa essere adeguatamente eseguito da un altro, poiché nemmeno un monumento costruito, malgrado rilevi precisi, ha mai dato luogo ad una copia di eguale valore; il passaggio dall’idea all’esecuzione non ammette cesure. Il fatto che di ogni età e in ogni paese le opere d’arte siano poche non può creare dubbi in coloro che osservano le vicende contemporanee. Quale numero delle migliaia di edifici che si realizzano in un anno nel mondo ha assoluta validità? E perché si suppone che nel passato tale percentuale fosse maggiore? La selezione dei monumenti è stata operata dal tempo, spesso molte splendide architetture sono andate perdute, mentre numerosi edifici, artisticamente insignificanti, si sono salvati. In quanto al rapporto tra progetto ed esecuzione, bisogna rilevare che in nessuna attività artistica le fasi di ideazione e di realizzazione sono disgiunte come in architettura. L’architettura contemporanea, ormai meccanizzata, non aiuta a comprendere una tale figura di progettista. Con l’industrializzazione edilizia, il rapporto tra progetto ed esecuzione è diventato schematico; l’esecuzione si è ridotta ad un montaggio di parti determinate fuori opera previste fino alla più piccola rifinitura del progetto esecutivo, senza ammettere varianti in corso d’opera. Ma l’affermare che l’architettura è compiuta solo quando l’opera è realizzata non implica che i progetti, e tanto più i disegni autografi, non siano importanti per la comprensione dell’opera d’arte. Al contrario, se il valore artistico non è considerato staticamente, l’impegno critico consiste nella identificazione del processo creativo che va dalla prima intuizione fissata in uno schizzo al progetto preliminare, da questo alla stesura esecutiva ed infine all’opera costruita; ogni elaborazione grafica, dall’appunto sommario al dettaglio di cantiere, è utile a questo fine poiché testimonia una fase di tale processo. In tal senso la produzione dei disegni originari degli architetti non è assimilabile a quella dei progetti. Questi hanno un valore ben diverso dagli elaborati geometrici riguardanti le piante, i prospetti e le sezioni di un edificio: i grafici dei progetti sono di regola affidati a disegnatori di mestiere e perciò anonimi, mentre gli schizzi di maestri si possono considerare opere d’arte compiute. Il disegno di un autore è valido in se non come prefigurazione del non finito. Il pregio degli schizzi architettonici è indipendente dall’edificio che eventualmente potrà realizzarsi, dando luogo ad un’altra opera, affatto distinta.


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ARCHITETTO!....LE QUE(U)X?* Alberto Cuomo

La porta presenta un grande arco con accanto altri due ingressi più piccoli posti ad una quota maggiore, accessibili da due scale. L’aspetto quindi più che di una porta urbana, la quale non presenta di solito che una sola apertura, è quello di un arco di trionfo con i tre classici fornici e, del resto, l’autore del disegnoprogetto, Jean Jacques Lequeu scrive nella didascalia: «porte de Parisis qu’on peut appeller l’arc du peuple», porta cioè di una città analoga di Parigi che sia anche arco di trionfo del popolo. Alla sommità del suo arco maggiore infatti, ai due lati della chiave di volta, sono impresse le parole «peuple libre» ed un gigante, dal cui copricapo si riconosce il libero citoyen della rivoluzione, depositario della nuova «autorité Royale» manifesta nei simboli di cui è portatore, la sormonta, con i nuovi segni della libertà, della pace e della forza, rappresentata da una clava retta in una mano per la guardia dell’ingresso. La grande apertura, la perdita nell’arco del valore della porta, allude quindi, da un lato, all’abbattimento simbolico del confine murario della città, essendo consentito, nella tripartizione degli ingressi e la vastità della volta centrale, ampio spazio al passaggio, ovvero alla scomparsa del confine tra le classi nel riconoscimento di tutti quali eguali cittadini, mentre dall’altro, impone l’attraversamento proprio all’arco di trionfo che, porta interna alla città, all’urbs, concede al vincitore, con l’acclamazione del popolo e del sovrano, sia pure con tutti gli onori, di ritrovare nella pace il suo status di civis, così come, nel disegno di Leque, offre a chiunque, anche al bourgois di essere citoyen, cittadino, qualora riconosca, sottopassandola, il potere del libero popolo in cui ritrovare se stesso 1. Da diversi studiosi è stato mostrato come, dalla fondazione di Roma, la città viva la tensione tra l’urbs, la città fondata nel solco (urbs da urvare, tracciare il solco, o anche da vurbs, elevare, far crescere) quella materiale, di pietra, sede della sovranità politica (rex da regere fines, tracciare le frontiere in linea retta, è il reggitore della sede, necessariamente uno, secondo l’annotazione di Cicerone nel De Republica, oltre il dualismo del Lari rappresentato da Romolo e Remo ricondotti, mediante il sacrificio, al solo Romolo) cui si assimilano le genti, il loro concreto vivere, e la civitas, il luogo del ius, la città giuridica, augescens, in crescita, rivolta all’esterno quindi ed aperta allo straniero che ne accetta le leggi 2. Proprio per offrire all’urbs una osmosi tra l’interno e l’esterno, la porta, a differenza delle murazioni, del recinto, del confine, del solco che le fonda, tutti sacri (sacellum, sacer, sacrum, sacrificius hanno tutti il medesimo etimo) non è santa, tanto che nell’atto della fondazione, colà dove essa dovrà trovare posto, l’aratro viene sollevato, onde consentire nel suo spazio la possibilità dei passaggi, l’ingresso dell’estraneo o l’uscita dei cadaveri, quali movimenti che hanno a che fare con uno statuto giuridico non attinente la sacralità connessa al sovrano, ed alle genti che vi si rappresentano. E’ quindi questa tensione tra sacro e giuridico, quella tra le due città, l’urbs e la civitas, che le tiene in vita, ed il loro stesso dualismo ad essere messi in crisi nel disegno di Lequeu, dove alla fusione tra la porta e l’arco, corrisponde il confondersi della civitas, cui si riferisce la porta, con l’urbs rappresentata dall’arco della potestà, detta non a caso «autorité Royale», esercitata dal popolo, ovvero, parafrasando Derrida, da un Chiunque che raccolga tutti i chiunque 3. E’ indicativo di come la porta-arco sia manifestazione propria all’espansione della grande Parigi fuori le mura, abbattute in realtà solo dopo la prima guerra mondiale, segno spettrale del dualismo della città antica che rivive nel mito topografico, il fatto che Walter Benjamin, nel rilevare come le antiche porte siano nella ville moderna al suo interno, luoghi di sosta, meri archi che non vivono neppure la centralità dell’arco di trionfo a l’Étoile, ne assimili il carattere di soglia a quello dei passages, luoghi vuoti, di compresenza di

*Il presente testo costituisce il canovaccio di un saggio in via di definizione. 1 Il disegno è presente sia nel volume di Emil Haufmann, Tre architetti rivoluzionari, trad. it. di M. Grandi e V. Savedi, Franco Angeli, Milano 1976, fig. 251, p. 377, che in quello di Philippe Duboy, Lequeu an architectural enigma, tradotto dal francese da F. Scarfe, Thames and Hudson, Londra 1986, p. 240. 2 Gli studiosi cui qui si fa riferimento sono molteplici, tra essi Cacciari, Carandini, Schiavone, Ryckwert, tutti citati in D. Gentili, Topografie politiche, Quodlibet, Macerata 2009, cui si riferisce qui in gran parte l’analisi della porta-soglia e dell’urbs-civitas. 3 Su Derrida, la soglia tra il chi ed il chiunque, ibidem, p. 14


passato e futuro, sonno e veglia, in cui ancora vive il fantasma dell’antica città sdoppiata4. E del resto non è forse Parisis, cui si riferisce la porta del disegno, il nome che si aggiunge alle città esterne a Parigi, nella val d’Oise dell’Île de france? Il disegno della porta, fu esibita da Leque al Comitato di Salute Pubblica nel procedimento mosso contro di lui ed il disegno immaginario, da «castello in Spagna» di un Jur-Jeur, fu tanto apprezzato da essere esposta nella Salle de la Liberté, consentendo a Lequeu di sfuggire la ghigliottina. Nella vicenda di Leque e del suo disegno si manifestano pertanto due possibili sensi. Da un lato cioè la porta-arco, alludendo all’espansione urbana, perde il dualismo proprio alla città, già con la rivoluzione divenuta cité, riunione di banlieux (luoghi banali), e con esso l’identità stessa dell’architettura ridotta ad inverosimile disegno, dall’altro, segna una zona franca nell’urbanizzazione, come Çerdà chiamerà lo sviluppo della città, ovvero nella civilizzazione ad essa connessa dove l’anonimato del soggetto, divenuto un chiunque, proprio nel cedimento della soggettività salva e tiene in vita il suo chi. Se la ghigliottina, recidendo la testa, sede del cogito, taglia lo stesso emergere del soggetto, per cui da essa ci si salva, si mantiene in vita il sé annullando paradossalmente non solo i propri privilegi ma proprio lo stesso sé, analogamente la città, rendendosi territorio – e territorio possiede lo stesso etimo che terrore – urbanismo, elimina se stessa come urbs, come luogo fondato e, quindi, l’architettura come fenomeno creativo, autofondata nella costruzione con la sua propria interrogazione dell’arché, per renderla anonima, ovvero per salvarla quale fenomeno «inverosimile» 5. Già alla fine del Settecento, quindi, con l’abbattimento dei confini, sociali e della città, può dirsi abbia origine la doppia possibilità d’essere del soggetto e dell’architettura, da un lato anonimi onde manifestare un egualitarismo, e ciò sino ad essere mero numero, dato statistico, o nel caso dell’architettura pura ripetizione del tipo nell’urbano, dall’altro fenomeno singolare, offerto alla curiosità dei molti, quale spettro, fantasma, del soggetto e, ancora nel caso dell’architettura, della sua sacralità artistica. L’ipotesi del mescolarsi di campagna e città nell’ampia porta di Lequeu, il «delirare» della città, attraverso la sua grande apertura, oltre i propri confini, già allude cioè alla attuale territorializzazione ed al rischio di perdere all’architettura il suo ruolo di pratica distinta che offre ai luoghi le stimmate di una sacralità, di una riconoscibilità sociale, dal momento che là dove tutto è urbano niente più è veramente urbano. Urbanistica contro architettura quindi: questo il dissidio che si origina in quella porta-arco dove l’architetto accetta il giogo di offrirsi al territorio, in cui ogni luogo è invero anonimamente uniforme, per continuare a vivere. E’ indicativo a questo proposito che Philippe Duboy introduca il suo saggio su Lequeu con una frase di Janneret in cui questi afferma come le arti dal medioevo sino alla rivoluzione fossero «nate dalle persone per le persone», mentre con la rivoluzione, cadute in preda ad «uomini poco istruiti» siano pervenute al loro «disastro». Tra i moderni infatti forse è proprio Le Corbusier, e qui la sua continuità vera con il settecento, ridotta dal Kaufmann ad una mera inclinazione stilistica 6, ad intendere la necessità di colmare il disastro, ricondurre l’urbanistica all’architettura, rendendo questa stessa urbanismo, più che urbana, come è nelle unità di abitazione, ovvero rendendo l’urbanismo architettura, come è nei grandi progetti di città o a Chandigarh. L’eroismo del cosiddetto Movimento Moderno sarà cioè, dalla porta di Parisis, quello di offrire, anche 4

«La rottura della simmetria romana tra porta di confine e porta di trionfo, tra urbs e civitas, segna l’altrettanto decisiva recisione della civitas dal suo atto di fondazione che irrecuperabile nella memoria storica diventa mito. Le porte di confine di Parigi non sono all’incrocio della prospettiva dominante come l’Arco di Trionfo, bensì sono nascoste nella topografia della sua ville moderna, sono soglie misteriose, che, interrompendo l’apparente uniformità della cité, separano e al contempo confondono interno ed esterno, urbs e civitas, passato e presente, sogno e veglia» scrive Dario Gentili in op. cit. p. 47 riprendendo i Das Passagen Werk di Walter Benjamin. 5 Su Haussmann e Çerdà e, particolarmente in quest’ultimo, sul sovrapporsi di urbanizzazione e civilizzazione, cfr. D. Gentili, op. cit. pp. 40-41. Quanto alla porta-arco, Emil Kaufmann, in Tre architetti rivoluzionari, op. cit. a p. 376 afferma essere il progetto della porta «un’accolta di elementi incongrui, o, come avrebbe detto Blondel, un mélange mal assorti», mentre il Duboy, citando Condillac, in op. cit. p. 16 intende i disegni dell’architetto castelli in aria o «castelli in Spagna», informando che è lo stesso Lequeu a definirsi Jur e Jeur, giudice e giocatore, nella sua «Architettura Civile» (ivi p. 29). Il termine «inverosimile» (très forcée) è invece riferito da Lequeu alla «spiegazione» (ivi p. 15) aggiunta alla sua opera onde accattivarsi il consenso del pubblico, cui si era rivolto, più drammaticamente, con il progetto della propria porta. 6 Emil Kaufmann, in Da Ledoux a Le Corbusier, trad. it di C. Bruni, Mazzotta, Milano 1973, mette in luce come la continuità tra i due architetti sia, certamente, in un comune «idealismo», nel riconoscere cioè la necessità di connettere l’architettura alla costruzione di un modello ideale, urbano e civile, ma anche come essa sia nell’esperire questa possibilità in una architettura che autonomamente sappia rendere in trasparenza il concorso dei suoi singoli componenti


nell’architettura, una soglia in cui si incontrino uguaglianza e singolarità, in un compito che oggi forse, nella globalizzazione urbana, nella urbanizzazione diffusa, ancor più sembra appartenere all’architetto. Sulla propria pelle Lequeu sperimenta come la rivoluzione che avrebbe dovuto annullare ogni confine nella perfetta integrazione dei ceti e nella armonia di ogni singolarità nel popolo, tracci tuttavia nuovi limiti, nuovi recinti, sia nel sociale che nella realtà urbana. Il disegno per Parisis, con l’eccessiva statua del cittadino-Ercole che incombe maneggiando una clava, mostra come l’architetto ricercasse, alla violenza che pure caratterizza la presunta assenza di divisioni tra i ceti, ancora un luogo protetto dove un aperto discrimine, la porta-arco, lasci almeno traspirare il delirio, il dentro-fuori che rimane ineluttabile nella nuova società inaugurata come in ogni costruzione che circoscriva un stare. Interno ed esterno, ovunque vi sia un muro, sembra dirci Lequeu, sono ineludibili, sebbene, oltre la possibile violenza che pure permane nell’illusione di una società priva di muri e confini, totalmente pareggiata, di un territorio totalmente urbanizzato, proprio la capacità dell’interno di aprirsi all’esterno, allo straniero, ed al diverso, quella dell’architettura di manifestare all’esterno l’interiorità, gli spazi che si racchiudono sotto gli archi, può ancora trovare una identità autentica al soggetto ed un valore al costruire. Se si pensa come, nei tempi attuali in cui sembra veramente crollato ogni limite materiale nella globalizzazione sociale ed urbana, gli architetti non sembrino saper individuare le nuove divisioni che comunque si irradiano nella nostra realtà, emerge il senso profetico del disegno di Leque ed il possibile monito circa gli attuali disimpegni dell’architettura. Rem Koolhaas è l’architetto che ha mostrato nella metropoli, nel delirio dei grattacieli, il sopravvivere del doppio status dell’urbs/civitas. E tuttavia il medesimo architetto ha indicato come sia concluso, nella stessa metropoli, divenuta Bigness, città generica, illimitata, il suo delirare, con la perdita di confini nello sconfinato in cui non vi è più spazio per l’architettura, laddove l’urbano, che pure, egli afferma, vi permane, appare affidato all’urbanistica, non specifica disciplina, quanto pura spontaneità all’urbanizzazione. L’urbs/civitas, prodottasi oltre le mura sino alla metropoli, era determinata da confini e determinava confini, una archi-tettura, in senso derridiano, come costruzione di sistemi di significati e valori che chiedeva una legittimazione politica, un Chi da riconoscere come principio, principe-sovrano. L’assenza di ogni principio, dell’arché, che muove l’urbanizzazione spontanea, sembrerebbe abbattere quindi ogni sovranità, ogni gerarchia, per affidare a chiunque, di volta in volta, il potere del senso. Opportunamente Koolhaas ha definito lo spazio generico della postmetropoli Junkspace, spazio-spazzatura, costituito dai resti, dagli scarti e dai residui della storia, dove chiunque può determinare un urbanismo aperto alla propria dissoluzione, alla decostruzione di ogni architettonica. Ma, se da un lato lo stesso Koolhaas non si astiene dall’elevare monumenti all’assenza di architettura, dal ricercare al Junkspace punti nodali, ancora architettonici che, cioè, sia pure in un effimero loisir, nel vaporoso glamour proprio alla moda, esplicitamente richiamata, comunque determinano valori, economici, sociali, urbanistici, dall’altro egli stesso sembra interrogarsi sul terrore, sul nuovo autoritarismo, che pure promana dalla territorializzazione dell’urbano: «inevitabilmente, la morte di Dio (e dell’autore) ha generato uno spazio orfano; il Junkspace è senza autore, e tuttavia sorprendentemente autoritario…Nel momento della sua più grande emancipazione, il genere umano è soggetto alle trame più dittatoriali» 7. Ed invero, come già mostra di sapere Lequeu, la caduta dei confini storici, l’aprirsi dei limiti dell’urbs e dei ceti, non istruisce solo linee di liberazione ma, come mostra il cittadino-Ercole armato di clava, su di esse allestisce ancora trame autoritarie di inclusione/esclusione che tocca ancora rompere, magari con una architettura che, perduta l’arché, sappia mostrare la perdita, far traspirare in uno il chiuso e l’aperto, far divenire soglia il confine, far combaciare l’interno e l’esterno necessariamente posti anche dal più provvisorio limite. Naturalmente, non solo la consapevolezza di Lequeu rispetto al fantasmizzarsi delle divisioni storiche nelle nuove divisioni di una più ampia Parisis si poneva ad uno stadio solo aurorale, ma è indubbio che anche la stessa confusione rivoluzionaria agisse sull’anima verso una volontà di annullamento. Nelle età di profonde trasformazioni e di drammatici stravolgimenti dello stato delle cose, quali sono le fasi rivoluzionarie, infatti, accade sovente che l’artista, volontariamente o inconsapevolmente, aderisca ai mutamenti agiti spingendosi verso un annichilimento, in una volontà a cancellare la propria arte e rendersi anonimo. Sembra quasi che l’arte, luogo della creatività del soggetto compensativa alla grigia routine dei gesti quotidiani riconosciuti dall’ordine collettivo, nell’epoca in cui è dal corpo sociale stesso mossa la rivendicazione dell’azione creativa, debba farsi da parte e incanalarsi 7

Su Rem Koolhaas e le citazioni dai suoi testi, cfr. D. Gentili, op. cit. pp. 37-39.


nel generale atto di reinvenzione dei sensi o, al più, divenire nocchiera, mero mezzo di trasmissione, mediante le proprie rappresentazioni, dei nuovi valori. Esplicito esempio è la pittura di Jean Louis David, la quale diviene emblematica manifestazione della rivoluzione francese attraverso la conservazione delle convenzioni rappresentative, l’acquattarsi in esse, nello stile aulico neoclassico caro alle corti d’Europa, della specifica spinta innovativa dell’arte, sostituendo solo l’oggetto della rappresentazione, i protagonisti rivoluzionari in vece di nobili ed ecclesiasti. E’ indicativo che, sebbene David usi gli stilemi più raffinati della scuola pittorica tradizionale, non l’ordinario classicismo, ma la relazione ombraluce del Caravaggio, il fermo senso della morte di Poussin, il freddo realismo delle cose degli scrittori suoi contemporanei, egli arrivi «utilizzando in sostanza vecchi materiali (da Caravaggio ad Hogart) ad una nuova concezione del quadro storico: la storia non è più fatto memorabile ed esemplare, né dramma o episodio; è la logica e, insieme, la morale degli eventi» 8. Vale a dire che la novità più rivoluzionaria di David, l’assunzione della storia, quasi banale movimento delle cose, nelle espressioni pittoriche, si offre nella aulicità del linguaggio classico e della pittura più alta del passato tesi a banalizzarsi con gli eventi descritti, secondo modi che rendono i più elevati modelli pittorici alla realtà quotidiana, quasi che la pittura ed il pittore si nascondino nel rendersi cronaca e mero descrittore dei fatti. Il movimento che vede la ragione rivelarsi/assentarsi negli avvenimenti storici offerti nelle morte spoglie del quotidiano accadere, illustrato da David, il movimento cioè della deprivazione di ogni mitologia dallo scorrere del reale, illuminato solo da una fredda ed intrinseca ragione che finisce però per illustrarsi ancora in una classica monumentalità, o se si vuole il movimento che induce ogni classica monumentalità, ed il mito di cui è portatrice, a cedere il passo alle cose che, però, in tal modo si sostituiscono esse stesse all’oggetto del mito, ravvivandolo, è, nell’analisi di Theodor Adorno, proprio all’Illuminismo. Secondo lo studioso tedesco, l’eroe che anticipa l’uomo borghese è Odisseo, padrone, nell’astuzia, di tecniche sprezzanti del mondo naturale con i suoi miti le quali, a propria volta, si rendono ad una nuova mitizzazione, una nuova natura con i suoi necessari cicli. La superiore ragione tecnica di Odisseo cioè si manifesta nell’astuta adesione al mito naturalistico al fine di azionare, mediante il perdurare della ritualità sacrificale che a questo si congiunge, il superamento dello stesso spazio mitico: «e la formula dell’astuzia di Odisseo è proprio quella che lo spirito separato, strumentale, aderendo docilmente alla natura, dà ad essa quello che le appartiene e così facendo la inganna». E’ quindi una tale astuzia ad orientare l’accettato percorso che fronteggia gli scogli delle sirene. Queste, come tutte le figure mitiche, sono tenute a fare ineluttabilmente sempre la stessa cosa, ripagando giuridicamente la colpa dell’opposizione agli Dei. Odisseo si oppone a tale ineluttabilità destinale soddisfacendo la norma giuridica ma facendole perdere il potere nell’atto stesso di riconoscerla. Di fronte all’isola egli avrebbe potuto sfidare le «maliarde» forte del suo sapere superiore, decidendo di navigarvi contro, o avrebbe potuto eluderle cambiando rotta, e invece «segue il suo corso fatale e prestabilito» comprendendo che «per quanto possa distanziarsi dalla natura, le rimane, come ascoltatore, asservito», per cui allestisce il noto stratagemma di farsi legare dai suoi marinai cui tappa le orecchie, onde consentirsi di ascoltare la natura, ma di non rimanerne totalmente soggiogato e vittima. L’astuzia secondo cui il corrispondere al mito senza sottrarsene per tuttavia ingannarlo, rinvia, secondo Adorno, al carattere proprio dell’homo oeconomicus moderno il quale si stacca dalla società nell’avventura del mercato, apparentemente solitario ed indifeso, per ottenere, utilizzando strumentalmente gli altri uomini, adeguando astutamente la ratio da cui si separa al suo opposto, all’irrazionalità degli imprevisti rischi dello scambio, ragione di questi. La «dissoluzione del contratto» con la natura ed i miti, ancora secondo Adorno, muta anche la posizione storica del linguaggio, e la parola che si confondeva con la cosa mediante l’unione dettata dalla divinità viene già da Odisseo ricondotta alla sua autonomia di significare cose diverse, come accade al suono del proprio nome che, nell’antro di Polifemo, confondendosi con quello del termine Udeis reso al mostro, acquista il significato di Nessuno, determinando al negarsi nella nominazione la scomparsa attraverso cui l’eroe ha salva la vita. La scissione tra la nominazione e la cosa, sostituita dal più variabile significato, sempre nel mito di Polifemo mostra come il soggetto, allo stesso modo di quanto avverrà nella metropoli borghese, si adatti, nel gioco Odisseo-Udeis, ad uno stato di coscienza non cristallizzato in una stabile identità, ad un io che «rinnega la propria identità che ne fa un soggetto, e si conserva in vita assimilandosi all’amorfo». Vale a dire che, e qui il carattere dell’illuminismo nell’analisi adorniana, separando il nome dalla cosa e 8

G. C. Argan, L’arte moderna, 1770/1970, Sansoni, Firenze 1970, pp 39-42.


giocando ogni definizione sul significato, sempre mutevole nello scambio comunicativo (e del mercato), è la stessa affermazione del sé a darsi attraverso la propria negazione, sì da far ricadere il soggetto, la ragione, nel circolo vizioso della necessità naturale, del mito, cui si assimila tanto da rinnovarne l’hibrys, la follia che condurrà Odisseo, fuggendo, a non trattenersi dal deridere il gigante rivelandogli l’identità, di nuovo sottoposta in tal modo alle traversie indotte da Poseidone, il mondo mitico, naturale, in una dialettica tra ragione e natura, luce ed oscuro, non resa nella metafora luministica. Sarà pertanto proprio la fase rivoluzionaria all’origine della ragione moderna ad essere il luogo maggiormente esplicito di una tale dialettica ai suoi albori, la quale, attraversando anche personaggi e vicende dell’architettura, si rende in questa non solo nel conflitto tra rigorismo ed ornamentarismo, quanto nel sovrapporsi, sovente, in una stessa opera, in uno stesso autore, delle due opposte visioni. E sarà in quella stessa dialettica, probabilmente, che avrà origine il gioco, oggi tanto evidente nel mondo delle archistar, tra l’anonimato dell’autore rispetto all’opera che si adegua al pubblico con lo spettacolo consumistico e l’esaltarsi del primo nella hybris dell’affermazione della propria celebrità, superiore persino a quella dell’opera. E’ indicativo del darsi palese nella rivoluzione, alla fine del settecento, dei poli della dialettica tra luminosità razionale ed oscuro mitico, naturale, istintivo, della loro compresenza che caratterizzerà il moderno, come la storiografia, pur nel distacco del giudizio, individui, con il Kaufmann, sotto un unico segno il rigorista Boullée, il composito Ledoux ed il più oscuro Leque, sebbene rispetto alle letture che vedono la più esplicita rappresentazione dell’età dei Lumi nelle pure geometrie di primi due, è proprio nelle tenebre esposte dal terzo che si illumina e si rivela il lato buio dell’Illuminismo e della nostra civiltà 9. Nelle rivoluzioni, quanto induce ad appiattirsi nella massa, anche nel grido e nel gesto eversivo, è una spinta all’annullamento del sé, comunque alla omologazione del sé, e ciò particolarmente negli eventi francesi della fine del settecento, che videro Lequeu, pure ansioso di una propria presenza nel mondo sociale, porsi in una lateralità, oltre quella del grigio anonimato dell’oscuro dipendente del Ministero degli Interni, cui era stato costretto dopo la luminosa carriera di studente presso l’Accademia Reale, aiuto di Francois Soufflot e di adjoint (associato) dell’Académie Royale des Sciences, Belles Lettres et Arts de Rouen, la sua città di nascita 10, quella di rendere la stessa professione di architetto esclusivamente nel disegno e nella illustrazione di architetture improbabili. Ma il nascondersi di molti artisti, scoperti solo in seguito, tra tutti Sade, che fece della prigione il riposto luogo in cui annodare le proprie trame rivoluzionarie, aliene alla stessa rivoluzione, non deriva solo dalla paura nei confronti di eventi incontrollabili, quanto dal senso stesso dell’età illuministica e borghese moderna, che, ai suoi albori si mostra in tutta chiarezza. Si direbbe che, alla fine del settecento, la morte di Dio, non ancora celebrata da Nietsche nell’esaltazione del superuomo, ceda il passo ad una ragione la quale, oltre l’enfasi dei lumi ed il suo riferimento al dio deista, puro assoluto privo delle aggettivazioni delle singole fedi, già conosce, con Kant, la “critica” di sé: «il pensiero dunque di un oggetto in generale mediante un concetto puro dell’intelletto, può in noi diventare conoscenza solo in quanto questo concetto è messo in relazione con oggetti dei sensi», sì che non si dia una ragione pura, senza categorie, assoluta, come sarà per Hegel, quanto una ragione per così dire impura, che si determina ed è altresì determinata, cioè, nella relazione con l’esperienza concreta della cosa. 11 E’ quindi una tale ragione bisognosa, onde rivelarsi tale, del fango della realtà, a non accendere, nella volubilità dei fatti tanto evidente nel tempo della rivoluzione, cieche fiducie nei suoi sacerdoti, sì che, la sua professione, non sia che in un esoterismo, nascosta sotto gli altari che pure eleva, non a caso, insieme con la ghigliottina. Sarà ponendosi tra i 9

Jean Jacques Lequeu viene associato a Boullée e Ledoux, pur distinguendo il curioso “Barocco” romantico del primo dal classicismo degli altri due architetti, da Emil Kaufmann, particolarmente per il comune essere interni alla rivoluzione, come manifesta già il titolo del saggio Tre architetti rivoluzionari Boullée Ledoux Lequeu (1952) op. cit., ripreso ne L’architettura dell’Illuminismo (1955) trad. it. di R. Pedio, Einaudi, Torino 1966. Nel primo saggio comunque il Kaufmann scrive: «le fantasie di Lequeu, al pari dell’architettura eroica di Boullée e dell’opera riformatrice di Ledoux, riflettono le tendenze principali dell’epoca, la sua passione per la grandiosità, la sua ansia del nuovo». 10 Lequeu, con la rivoluzione, vide confiscate tutte le proprie sostanze e dovette rinunciare alla propria carriera di architetto, divenendo nel 1793 funzionario del Catasto e, quindi cartogafo del Ministero dell’Interno. La biografia di Leque è riportata in E. Kaufmann, Tre architetti rivoluzionari, op. cit. p. 339 e segg. 11 I. Kant, Critica della ragion pura, trad. it. di V. Mathieu, Laterza, Roma-Bari 1996, p.118. Il paragrafo 22 da cui è tratta la frase si intitola significativamente “«La categoria non ha altro uso alla conoscenza delle cose che d’essere applicata agli oggetti d’esperienza»”. Nei paragrafi precedenti Kant si sofferma sulla non necessità delle categorie, apprensive dei dati dell’esperienza, per una ragione che fosse del tutto “pura”.


suoi fedeli assertori infatti, che Lequeu, pur glorificandosi architetto, nel nome del primo architetto che informa il suo credo massonico 12, la circonfonderà d’oscuro, sottraendosi alle perfette e pure geometrie luminose celebrate da Boullée e Ledoux e manifestando, con le sue composite ed ombrose forme, il buio che quella ragione regge, il visionario ed il misterico che muove le stesse grandiose volumetrie classiciste dei primi due13. Il Duboy mostra come l’attività di Lequeu «sembra essere stata quella di un progettista architetto», il quale, secondo la definizione del Blondel nell’Enciclopedia, è «un maestro artista impegnato nelle arti meccaniche». Il dubbio del Duboy insorge in presenza di un documento di Lequeu al termine del testo sull’ «Architettura Civile», riguardante «comment j’ai ecrit certain des mes livres»” (Come ho scritto alcuni miei libri) il cui discorso tende ad offrire la «spiegazione inverosimile per imitare (anche) i propri compagni d’arti, ma da ben lontano…». Lo studioso si sofferma cioè sul senso doppio da offrire alla espressione «spiegazione inverosimile», modo per Leque di accattivarsi il pubblico, il popolo, pubblicizzare i propri disegni annullandosi in esso, e, mostrandone la magia, ergersi altresì al di sopra di ognuno, mago, ovvero «juge souvrain», i cui poteri sono offerti direttamente dall’architetto dell’universo. Il gioco di Lequeu sarebbe quindi questo: offrirsi al pubblico, nascondersi persino in esso, onde detenere ancora un primato, essendo rivelativo di tale gioco il fatto che egli si assimili a Gesù, divulgatore popolare della parola divina, parte del popolo quindi, e tuttavia divino 14. Il dispositivo del rendersi volontariamente anonimo, un nessuno “senza qualità”, nella adesione alle dinamiche della metropoli che saranno analizzate da Simmel, onde, proprio in ciò, riemergere dal grigio mare, dall’antro del gigantesco mostro che è la massa, quale portatore della metis, di una ragione produttiva, si conferma in Lequeu, quindi, nell’aspirazione ad una architettura divulgativa di sé, che proprio nel suo essere popolare sia aulica, rappresentativa di una ragione più alta, ovvero nell’azione divulgativa del disegno e della scrittura che manifesta/nasconde sensi e valori di una più elevata cultura. Non solo, ma la rivoluzione e le nuove scoperte scientifiche e tecniche sul disegno e la sua riproducibilità, inducono l’occultarsi dell’artista nel mero citoyen, nell’essere senza nome onde rendere al popolo la propria opera, la cui popolarità lascerà tuttavia che egli finisca comunque con l’essere riconosciuto, assurgendo al successo, all’empireo, come un Cristo che si sacrifichi per indicare al popolo la parola di Dio e congiungersi a lui. Se da un lato la rivoluzione gli impone di offrire una composizione eccentrica, come la Porte de Parisis, tanto da non essere individuata nello stile aulico dei nobili e, quindi, aderente allo spirito del popolo, onde salvare la testa, la conoscenza dei metodi rappresentativi e della teoria delle ombre che esalta la riproducibilità tecnica verso la divulgazione di massa invoglia, dall’altro, l’uso politico del proprio fare, anticipando, se si vuole Walter Benjamin, nel senso che già il suo sapiente uso della riproduzione grafica, rivolto, nell’uso della pressa al modo della ghigliottina, più che ad assecondare la domanda sociale ad educare i cittadini aderendo ai loro bisogni, pone l’idea dell’intellettuale quale nascosto agente politico, segreto cospiratore della rivolta dei sensi che traduce, secondo il credo massonico cui egli aderiva, l’esoterico proprio all’avanguardia nell’essoterico della comprensione pubblica. E’ perquesto quindi che egli più che ad un architetto viene assimilato ad un artista e ad uno scrittore 15, essendo l’abile disegnatore che, mediante il metodo di Monge, riporta la luce e l’ombra, al di qua della simbologia tramandata tra Caravaggio, Rembrandt, Durer, alla verità delle cose, onde manifestare, nella 12

«tratterò del vero effetto delle ombre sui piani, sui prospetti e sui profili, etc, della mia opera di Architettura Civile, e questo con il potere del grande (architetto) dell’Universo» è la frase rilevata da Philippe Duboy in Lequeu an architectural enigma, op. cit. p. 15, che l’architetto aggiunge ad uno dei suoi manoscritti sul «Nuovo Metodo applicato ai principi elementari del disegno». (Le traduzioni dal francese sono mie). 13 «Quegli eccessi frenetici e il testo talvolta confuso di una nota non datata scribacchiata su una carta intestata del Ministère de l’Intérieur con Année 181 (sic) potrebbero confermare la prima reazione di chiunque davanti ai disegni di Lequeu, che egli fosse anormale sin dall’inizio» scrive il Kaufmann in Tre architetti rivoluzionari, op. cit. p. 346, per poi affermare una continuità tra gli scritti del Blondel ed i disegni dell’architetto («è assai significativo che molti brani del Blondel potrebbero essere illustrati con i disegni di Lequeu, e che i curiosi progetti di quest’ultimo si possono spiegare con i commenti del primo» p. 354) salvo sostenere che «nei progetti di Lequeu è rinvenibile la confusione di stili presi a prestito duramente condannata da Blondel» p. 357. 14 Ciò anche sulla sua presunta tomba dove è la didascalia«Sépulchre de l’auteur, frère de Jésus; il a porté sa croix toute sa vie», v. E Kaufmann, Tre architetti rivoluzionari, op. cit. p. 346. 15 Il Kaufmann nei suoi scritti, parla sovente di Lequeu copme di un artista invece che architetto, mentre il Duboy rileva, op. cit. p. 21 come lo stesso architetto abbia voluto essere «lo scrittore che avrebbe dotato la sua opera di un fascino senza tempo»


realtà stessa resa nella sua evidenza, l’elemento misterico, la ragione che la muove e che in essa si muove. ………………………….. Lequeu è nato nel 1757, ma non si hanno notizie d’archivio verificate circa la morte. Riferendo dei disegni per la sua tomba con l’iscrizione “J.J. De Queux”, il Kaufmann in maniera semplicistica sostiene che l’errore, «se non è di mano altrui, rivela la distrazione dell’artista»16, senza avvedersi del gioco, del tutto consapevole, da un lato, di mantenere l’anonimato che lo aveva contraddistinto ma, anche, di volere in ciò, dall’altro, giocare la morte, il tumulo, rivolto a raccogliere le spoglie di un maître, certo, ma di un maître di cucina, le queux, il cuoco che forse sentiva di essere nel filettare i lacerti dell’architettura mescolandoli quali ingredienti di un disegno da consumare oltre la costruzione. Un gioco, analogo a quello di Odisseo che muta appena il suo nome in uno stesso suono, con cui egli sfugge la resa alle ineluttabili leggi della natura e, senza offrirsi il monumento che lo tramandi alla storia, la continua a vivere, veramente immortale, negli architetti futuri, sì che possa dirsi che forse ancora si aggiri fra noi.

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E. Kaufmann, Tre architetti rivoluzionari, op. cit. p. 346.


IL PRINCIPE D’ARGENTO FOTOGRAFATO ALLA FONDAZIONE PRADA IN LARGO ISARCO A MILANO Raffaele Nappo

Anarchistar è una figura del processo produttivo architettonico che non ha raggiunto il successo hollywoodiano, non per assenza di qualità ma poiché si tratta di un lavoro oscuro svolto all’ombra di un attore protagonista che, per motivi di marketing, di egocentrismo o progressione concorrenziale del proprio io, porta a sé tutte le conseguenze delle idee sviluppate da una quantità di soggetti sconosciuti. Cercherò di affrontare tale tema, evidenziando il ruolo del brand Prada inteso come soggetto gregario del processo produttivo culturale ed architettonico, soffermandomi sulle relazioni tra Koolhaas e il Centro Prada in Largo Isarco a Milano. Le soluzioni koolhaasiane mostrano il ruolo, le ambizioni e le necessità del brand anarchistar. In questo senso credo che sia giusta l’esistenza dello Star System poiché così l’attenzione è posta sull’attore, anziché basarsi sulle relazioni normate di una precostituita, quindi fittizia, comunicazione del già detto. François Truffaut scrive:«Una buona sceneggiatura non fa un buon film perché si resta sempre legati, schiavizzati dalla struttura letteraria, dalla struttura narrativa, i film migliori sono quelli che non si fanno schiavizzare dalla sceneggiatura …»1. La struttura narrativa non si può eliminare, esiste nel cinema, nella musica e nell’architettura perché esiste un tempo, però noi non pensiamo prima alla canzone nella sua compiutezza e poi la creiamo, ma il pro-oggetto è una creazione di una cosa trovata in quel momento ed è proprio questo ciò che il regista francese cerca di filmare: il momento, l’interpretazione di un attimo che agli occhi di colui che sa disvela l’infinito. Se Nietzsche è l’ultimo dei metafisici che ha cercato Dio ed ha contrapposto la volontà di potenza e il superuomo al vuoto del non senso causato dal crollo dei valori, questo per Heidegger è il naturale destino del pensiero occidentale. L’ente, svuotato del proprio senso metafisico, è un ente vuoto e ne resta solo la volontà di potenza, cioè azione di un soggetto sull’oggetto. Per i Presocratici la verità è nel disvelamento dell’essere (totalità del reale), per Platone l’idea è essenza della cosa, per Nietzsche lo strumento ragione che ha condotto all’idea, oggi è svuotata del proprio significato, e ne resta solo l’operazione strumentale che ha condotto all’idea stessa. Quindi l’idea diventa un oggetto prodotto da un soggetto che rappresenta il punto di partenza del nichilismo per Heidegger. Il nichilismo per Galimberti è «l’ospite più inquietante» ed è sempre più presente nella generazione post-muro di Berlino ed è entrato nella configurazione tipica del quotidiano del nostro tempo, celato dalla seduzione della tecnica. Un primo effetto di tale evoluzione è l’assenza del futuro come promessa sociale, tipica degli anni 60. Oggi il futuro è una sorte di inquietudine, quindi l’unico tempo osservabile è il presente, il domani è adesso e non c’è spazio per la rassegnazione e tutto spinge ad agire. Il presente è caratterizzato da una multidisciplinarità di fattori, divagati dalla seduzione delle luci e dai frastuoni del capitalismo come unico strumento assodato. Il nichilismo non deve essere esorcizzato o nascosto ma affrontato e solo l’amore per il proprio sé ci spinge a disvelare la propria presenza, seppur con una struttura ontologica del proprio io, «il sogno è il tuo destino». La capacità di scelta del singolo soggetto relega la società, svuotata di senso e non intesa dall’alto verso il basso ma come sommatoria dei singoli, a svolgere compiti di ordinaria amministrazione e casi di eccezionale imprevedibilità. L’arte del vivere contemporaneo non disvela una speranza nel senso cristiano ma è un’espressione di sé, manifestazione delle proprie capacità testimoniate dai siti più cliccati, dai luoghi di maggior consumo e da quelli più glamour. Glamour è fascino, esercizio consapevole o inconsapevole della curiosità, della seduzione dello scoprire sia il corpo (architettonico) sia il percorso intellettivo (il nascosto architettonico). Da Brentano abbiamo l’elemento dell’intenzionalità, sviluppato poi da Husserl secondo il quale la coscienza è diretta verso una cosa (direzione intenzionale). L’essere non è più avvolto da struttura metafisica ma c’è intenzionalità, Heidegger giungerà così a scrivere la parola Sein cioè essere pensato come evento atto alla quadratura (terra, cielo, divini e mortali). Il singolo liberato da condizionamenti si accinge alla quadratura mediante l’epoché e l’esserci, secondo 1 Dal Film Waking Life (Risvegliare la vita) diretto da Richard Linklater 2001, capitolo: The holy moment

Figura 1- T. Friedman, installazione alla Fondazione Prada, Milano 2002


misura, si dirigere verso il suo oggetto intenzionale. Allora perché delegare a condizione di margine, con snobismo intellettuale ed ingiustificato tipico del red thought di una parte dell’accademia architettonica italiana, l’intenzionalità, il desiderato della Fifth Avenue di New York e il senso del Brand Prada? Perché ostacolare lo sviluppo tecnologico della diversità (senso artigianale) secondo un unico processo industriale dove il veicolo tecnologico è sempre più un’estensione della propria personalità? L’evoluzione della specie concepisce l’uomo contemporaneo mediante l’utilizzo del digitale (intelligenza artificiale) e l’analogica (biologia molecolare, clonazione dell’organismo) che si incontrano nella neurobiologia. Nel vecchio modello evoluzionistico un essere moriva mentre l’altro cresceva e dominava, ora secondo il nuovo modello esistono entrambi contemporaneamente con una struttura complementare e non in conflitto. Il neoumano è indipendente dalle classi sociali o dal senso fideistico, morto nel ‘900, ma tutto incentrato sul singolo, sui propri desideri e sui bisogni dell’individuo che, con la volontà di potenza, abbatte il muro tra il virtuale ed il reale. E’ Il più costruttivo crollo dall’inizio del nuovo millennio. Dal dopoguerra la ricerca e l’attuazione della tecnica all’interno dello sviluppo architettonico italiano ha avuto un percorso evolutivo lento, la visione marxista ha legittimato prima Banfi poi Paci a porre giudizi negativi sui prodotti industriali, da ciò deriva la negazione dello sviluppo modernista espressa dal New Liberty. Il derivato tecnico/economico per Paci ha la capacità di autopurificarsi mediante l’apparato fenomenologico e l’utilizzo dell’epochè però, nella prefazione di Paci al testo «Idee per una fenomenologia pura» di Husserl, tradotto in italiano da E. Filippini (allievo di Banfi) nel 1965, è evidente la sua direzionalità: «Qui la fenomenologia è entrata nell’economia politica che opera in se stessa la propria autopurificazione. Questa autopurificazione è soprattutto affidata all’epochè, alla fondazione delle scienze e alla riscoperta del loro significato di verità. Ciò che allora si impone è il superare e il negare, come Husserl fa, il valore puramente industriale delle scienze. Bisogna ricondurre le scienze e l’uomo al loro vero telos. Leggiamo, per limitarci ad un solo esempio, un passo del III volume di idee nel quale si vede che Husserl condanna la scienza tecnico-industriale nella misura in cui essa è concepita come puro dominio sulla natura e sull’uomo» 2. Husserl scrive: «L’arte di inventare sempre nuovi procedimenti simbolici, la cui razionalità è appunto di ordine meramente simbolico e presuppone il lavoro conosciuto del simbolo, senza alcun tentativo di comprensione evidente, viene praticata in modo sempre più perfetto; ciò che da un grado inferiore era relativamente evidente, a un grado superiore viene simbolizzato e viene dell’evidenza comprensiva (considerata un superfluo gravame per il pensiero) e così le scienze diventano quello che sono, fabbriche di proposizioni praticamente utili, in cui si può lavorare come operai o come tecnici scopritori a cui, in veste pratica, si può attingere anche senza un’intima comprensione, cogliendo nel migliore dei casi, semplicemente la razionalità tecnica. Gli specialisti, cioè gli ingegneri dell’arte scientifica, possono essere anche molti soddisfatti di questa situazione, consapevoli della sua grandezza e delle sue prestazioni infinitamente feconde nell’ambito della collaborazione organizzata nella grande industria scientifica. Anche i tecnici in senso usuale possono essere soddisfatti, perché il loro scopo è quello di giungere a dominare la realtà. Per loro la conoscenza è fin dall’inizio equivalente a una serie di industriose prestazioni nella prassi del dominio della natura sugli uomini»3. La dominazione della realtà è un’intenzione dell’uomo, una presa astorica, in cui «troveremo in noi stessi l’autorità della fenomenologia e il vero senso» 4. Paci considera la tecnica condizione a priori mentre la fenomenologia fa a meno di questa ipostasi. Un efficace esempio è il caso Prada, un’azienda che non produce solo vestiti ma qualcosa di più profondo capibile solo se analizziamo il fenomeno tra il noesis (l'atto mentale) ed il noema (fenomeno a cui tale atto è diretto). Prada è uno stile, è radicale, è inessenziale incompiutezza, è un tassello del sistema welfare privato che occupa forse un vuoto istituzionale ed è combinazione di tutta l’artisticità del contemporaneo, Prada è Fondazione Culturale 5. Si tratta di un sistema no-profit, formalmente, ma 2 E. Paci, Prefazione del testo La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1961p.14 3 Husserl, Idee per una fenomenologia pura, trad. it. di E Filippini, Einaudi Torino 1965 p.871 4 M. Merleau Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano, 2003, p.16). 5 La fondazione è un ente privato senza finalità di lucro, che ha a disposizione un patrimonio da destinare a determinati scopi (religiosi, culturali, educativi, scientifici) costituiti da uno o più fondatori.


con un’elevata ricaduta d’immagine, quindi, forse, è operazione di marketing: «Dopo più di 15 anni di attività, la fondazione Prada ha avuto necessità di ampliare il suo stesso spazio di esibizione e di ampliare la propria prospettiva culturale. Il corso di arricchimento della ricerca che ci piacerebbe intraprendere sarà espresso attraverso l’espansione di progetti realizzati in un dialogo con artisti e in una futura collaborazione con i principali musei internazionali istituti per l’arte contemporanea, architettura e design, oltre a partners per le esibizioni temporanee. Per questa ragione noi abbiamo commissionato all’OMA, guidata da Rem Koolhaas, il piano di trasformazione di un sito industriale di inizio ‘900 nel sud di Milano. La fondazione Prada prevede uno spazio espositivo che sarà collocato in un’area che include edifici in disuso risalenti al 1910. Il progetto di Koolhaas aggiungerà un edificio, un auditorium, torre e sale per esposizioni permanenti e temporanee. Esso sarà un unico approccio all’idea di far coesistere l’architettura contemporanea con la rigenerazione di un’area storica, rappresentando l’evoluzione dell’industria milanese»6. Le logiche costituenti la Fondazione Prada possono essere accostate alla forza innovatrice del Bauhaus. Gropius fondò a Weimar nel 1919 più che una scuola una palestra per il pensare paragonabile al giardino di Epicuro. P. Klee ha definito l’architetto tedesco il «principe d’argento» 7 poiché l’oro sarebbe stato troppo sgargiante. Gropius nel dire «ripartiamo da zero» 8 non voleva bruciare la storia ma strappare il fare dalla consuetudine, infatti sua moglie, Alma Mahler, definì l’architettura proveniente dal Bauhaus dal sapore d’aglio per la moda, per il glamour delle attività spirituali come il Mazdaznan, applicate con diete vegetali. «Ciò nonostante era bello, puro, pulito, glorioso… ripartire da zero! » 9, prendendo le distanze da un decoro e da un’artigianalità di fine ‘800 per occuparsi della produzione e distribuzione artistica di massa (operaia) e forse in questa visione aderì alla moda politica del socialismo architettonico. L’anti borghesia di inizio ‘900 diede voce a «ripartire da zero! » per un’architettura destinata agli operai (massa), con l’ obiettivo di riunire insieme tutte le arti «sotto l’ala di una grande architettura» che sarebbe stata «impresa del popolo intero». Gli antiborghesi come Gropius, Mies van der Rohe, B. Taut e J.J.P. Oud permisero al Bauhaus, al De Stijl e al Novembergruppe di sviluppare l’attuale senso di fondazione culturale, poiché tali organizzazioni non possono definire accademie o aziende. Gropius nel “ripartire da zero” dava il suo consenso a qualsiasi esperimento che gli allievi intendessero compiere, purché fosse in nome di una visione futuristica. I falsi valori politici emersero quando nel 1919 egli era favorevole all’ammissione «nel Bauhaus di semplici artigiani, onesti lavoratori, gente dalle sopracciglia congiunte e dalle unghie a spatola che avrebbero fatto a mano cose per l’arredamento, semplici mobili in legno, semplici suppellettili in vetro, semplicità qua e semplicità là» 10. Inoltre Gropius manifestò pubblicamente il suo interesse per i disegni curvilinei di architetti espressionisti come Mendelsohn e la cosa apparve estremamente borghese. Nel 1922 durante il Primo congresso internazionale di Arte Progressista, Theo van Doesburg criticò le curve espressioniste e i genuini artigiani ed esclamò: «…Borghesissima Idea». Solo la capacità d’acquisto dei ricchi poteva permettere oggetti fatti a mano, come dimostrò l’evoluzione inglese espressa dall’Art and Craft. Per i non borghesi l’arte doveva esser fatta a macchina, questo è un punto cruciale dell’evoluzione architettonica, poiché tale processo illumina l’evento architettonico del per sé ovvero divulgazione di massa dell’atto creativo. L’illusione di esser padrone dei frutti del proprio lavoro ha unito le masse, facendo coincidere il per sé con in sé: è un momento rivoluzionario che, una volta raggiunto l’obiettivo, adduce nuovamente una scissione dei sé. E’ utopia, una teoria della rivoluzione permanente che Gropius intuisce e cosi si discosta dal senso socialista antiborghese, creando il nuovo spot per il brand Bauhaus: «Arte e tecnica una nuova unità!». E’ un accostamento che evidenzia il suo impegno per la grande distribuzione architettonica ed artistica, principio che ha condotto alla globalizzazione economia-architettonica. Ben diversa è la considerazione del «patetico» 11 di Grassi e dei Tettonici che 6 G. Celant, R. Koolhaas; Unveiling The prada Fondation, Fondazione Prada, Milano 2008 p 5 7 T Wolfe, Maledetti Architetti, Bompiani, Milano 2009, p.10 8 T. Wolfe, Maledetti Architetti, Bompiani, Milano 2009, p.1 9 Ibid,p.12 10 Ibid, p.18 11 A. Cuomo, Nichilismo e Utopia nell’architettura tedesca contemporanea, Franco Angeli, Milano, 2009 p184


considerano patetici i tentativi dei maestri di ispirarsi all’avanguardia. Inoltre Frempton, nel descrive lo sviluppo ontologico abbinato alla tettonica, elimina l’operato di Gropius. «Che Gropius non sia da interpretare come un costruttore? Che egli non sia stato, sebbene inventore della serializzazione e prefabbricazione dei componenti, un innovatore del sistema costruttivo contemporaneo? E pure proprio Frampton dedica molto spazio all’architetto tedesco e alla Bauhaus nella sua lettura della storia dell’architettura moderna. Cosa dunque turba di Gropius nei tettonici, cosa fa in lui scandalo?» 12. Nuovamente la presunzione fideista, di sponda marxista, in nome di un presunto realismo antiborghese censura chi ha operato ieri e nell’odierno. Koolhaas, al pari di Gropius, è criticato e delegittimato dai tettonici. Entrambi Archistar che oscurano i più autoilluminanti gregari o committenti e in definitiva, poi, non ci sono sostanziali differenze tra il CCTV e il Pan Am. Miuccia Prada e Patrizio Bertelli hanno creato la Fondazione Prada nel 1993, affidandone la direzione artistica a Germano Celant nel 1995. Dall’inizio della sua attività, la Fondazione ha commissionato esibizioni in stretta collaborazione con artisti quali Eliseo Mattiacci, Nino Franchina, David Smith, Mark di Suvero, Anish Kapoor, Michael Heizer, Louise Bourgeois, Dan Flavin, Laurie Anderson, Sam Taylor-Wood, Mariko Mori, Walter De Maria, Marc Quinn, Carsten Höller, Enrico Castellani, Barry McGee,Tom Friedman, Andreas Slominski, Giulio Paolini, Francesco Vezzoli, Steve McQueen, Tom Sachs, Tobias Rehberger e Thomas Demand. Inoltre ha promosso iniziative nel campo del cinema finalizzate alla riscoperta e al restauro di pellicole storiche di registi italiani, cinesi, giapponesi e russi, in collaborazione con il Festival del Cinema di Venezia, ha organizzato eventi culturali insieme al Tribeca Film Festival di New York e alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia. Altre attività svolte comprendono l’organizzazione di simposi di filosofia ed esposizioni di architettura dedicate ai progetti di Rem Koolhaas e Herzog & de Meuron. Nel 2003 inizia la lunga collaborazione con l’Università San Raffaele di Milano, facoltà di Filosofia diretta da Massimo Cacciari. L’intesa attuata mediante sostegno economico è finalizzata alla promozione di innovative soluzioni per la divulgazione dell’arte contemporanea e dell’estetica lontana della sue sedi convenzionali. «Il ruolo del filosofo è di porre attenzione alla realtà, al di là di ogni pregiudizio, preconcetto, la nostra aspirazione è di creare una comunità di pensatori liberi dalle confessioni o marchi ideologici, creando condizioni sotto le quali gli studenti sono una parte attiva di questa comunità, perché loro sono l’unica origine di un costante stimolo di un rinnovamento del pensiero» 13. La trasposizione del senso artistico culturale contemporaneo ha generato l’idea in Largo Isarco a Milano per la sede sperimentale Prada: si tratta di una specie di laboratorio di ricerca per la ‘Mcdonalizzazione’ del prodotto creativo distribuito su scala planetaria, goals che non afferiscono più alla progettazione del semplice negozietto tipica del primo novecento, ma che conducono al disvelamento della necessità e del bisogno, quindi atti creativi, divulgati su spazi pubblicitari digitali e fisici. E’ arte che disvela e non conduce alla sola commercializzazione e capacità d’acquisto tipica delle gallerie d’arte e dei negozi plurimarche. Potrebbe sembrare assurdo, ma gli unici che si interessano della società, che capiscono le nuove tendenze giovanili o le necessità dell’età adulta sono appunto le società di marketing, con lo scopo di condurre al consumo o ad una promessa derivata da una necessità sociale, producono infinite soluzioni e forme. Il sollecitare una curiosità di ciò che sei e di ciò che vorresti diventare porta al piacere di conoscere, dello sperimentare, quindi Prada è una strategia che cerca soluzioni infinite ma non eterne. «Da quel giorno che venne a me il grande liberatore, quel pensiero che la vita potrebbe essere un esperimento di chi è avvolto alla conoscenza e non un dovere, non una fatalità, la vita come mezzo di conoscenza, con questo principio nel cuore si può non soltanto valorosamente ma anche gioiosamente vivere e gioiosamente ridere se Nietzsche, padre del nichilismo, si alimenta di questa speranza fondata sulla conoscenza di sé, curiosità di sé, il piacere di sé»14. Per questa ragione dal 1995 gli investimenti di Miuccia Prada e Patrizio Bertelli hanno creato un campo di forza nel quale tutti i linguaggi artistici convergono ed irradiano energie al di là del muro del conformismo culturale, 12 Ibid p171-172 13 G. Celant, R. Koolhaas; Unveiling The prada Fondation, Fondazione Prada, Milano 2008 p.230 14 U. Galimberti la Condizione dei Giovani http://www.youtube.com/watch?v=KO8L04WNb1Y&feature=PlayList&p=D8D2C7C8B3C12CA2&playnext=1&playnext_from=PL&index=6


accademico ed istituzionale. La Fondazione Prada è come un contenitore svuotato di “significato assoluto comune” ma riempito del senso del singolo io, che è chiamato ad interrogarsi o semplicemente ad avere una possibilità di incuriosirsi attraverso elaborazioni artistiche che disvelano la necessità, atte a creare il contemporaneo. «E’ sorprendente che l’enorme espansione del sistema arte ha preso posto in un ridotto numero di tipologie di esposizioni. Sembra che l’apoteosi dell’arte sia in crescita in un sempre più limitato repertorio di condizioni spaziali; le gallerie (bianche, astratte e naturali), gli spazi industriali (poli attrattivi poiché condizioni prevedibili di non cambiare le intenzioni artistiche) ed il museo contemporaneo (velata visione del grande magazzino e il purgatorio dell’arte affabile). La Fondazione Prada in Largo Isarco è un progetto che converte un ex complesso industriale in diversi ambienti spaziali. La nostra organizzazione aggiunge tre nuove strutture che estendono la disposizione dei suoi impianti e degli alloggi. La nuova Fondazione è destinata come una collezione di artefatti che incontrano un’associazione di tipologie architettoniche e traspare la volontà di estendere la sua condizione spaziale ed il suo contenuto. Gli spazi sono dedicati alle assemblee e alle attività artistiche ma anche all’apertura degli archivi Prada e di Luna Rossa, istituendo così una continuità di creatività ed impegno intellettuale» 15. Largo Isarco è una reinterpretazione del Fun Place di Cedric Price ed è composto da una riconversione degli spazi esistenti come il Great Hall, Installations area, Gallery Office, Haunted House, Archivio Prada, Archivio Luna Rossa con le aggiunte di nuovi corpi come la torre usata come catalogo con differenti condizioni d’architettura, il Box come uno spazio indipendente per l’incontro di più funzioni, il museo Ideale come combinazione di spazi con le intime qualità del museo tradizionale ma associate ad una varietà dimensionale e predisposizione tecnologica più avanzata e la corte ricavata dalla demolizione di un edificio centrale. Il centro Prada è quindi topos centrale nella storia delle civiltà e dell’individuo contemporaneo, una sfida legata al bisogno dell’identificarsi, elevarsi, distinguersi, «la pubblicità non sceglie per nessuno, permette solo di scegliere meglio» 16. Il far desiderare un prodotto e la seduzione vista come un’attività non imperativa “ognuno vede ciò che sa” potrebbe sembrare l’acclamazione dello shopping fuso con il lusso, una nuova forma di divismo culturale ma Koolhaas smentisce: «Il lusso è stabilità. Il lusso è spreco. Il lusso è generoso. Il Lusso è impetuoso. Il lusso non è Shopping» 17. Egli riprende forse il cammino esplorativo iniziato da Loos nel campo dell’architettura-moda. Loos è stato uno dei primi architetti che ha disegnato un negozio per moda, ovvero la sede viennese di Goldman & Salatsch. L’edificio è pensato secondo l’idea di fashion di fine ‘800, ovvero un mix di materiali preziosi, tecnologia, lavorazione accurata ben lontano dall’applicazione di ornamenti. Loos, interessato alla moda, individuò nella sartoria inglese la perfetta espressione della modernità e la logica determinante la capacità di scelta quindi la capacità d’acquisto di fine ‘800. Nel 1898, scrivendo sul senso della moda, distinse due modelli: il tedesco e l’inglese/americano. «Esser vestito bene - chi non lo vorrebbe? Il nostro secolo ha fatto piazza pulita di ogni gerarchia obbligatoria nel vestiario e ognuno ha oggi il diritto di vestirsi come il Re. Si può misurare il livello culturale di un paese dal numero dei suoi abitanti che fanno uso di tale conquista della libertà. In Inghilterra e in America tutti, nei paesi balcanici soltanto le diecimila persone di condizione più elevata. E in Austria non ho il coraggio di rispondere a questa domanda. Un filosofo americano afferma da qualche parte: un giovane è ricco quando possiede intelligenza nella testa e un buon vestito nell’armadio. Questo filosofo è uno che la sa lunga. Conosce la sua gente. A che cosa può servire l’intelligenza se non si è in grado di imporla alla considerazione degli altri, presentandosi ben vestiti? gli inglesi e gli americani esigono che tutti siano vestiti bene. I tedeschi invece vogliono qualche cosa di più. Vogliono che i vestiti siano anche belli. Se gli inglesi indossano pantaloni larghi, i tedeschi vogliono subito dimostrare loro- non so se con l’aiuto del vecchio Viscer o della sezione aurea- che sono antiestetici e che bello può dirsi soltanto il pantalone stretto. Ogni anno però, pur strepitando, imprecando e maledicendo, si fanno allargare un pochino i pantaloni. La moda è una vera tiranna. Ma che cosa capita tutto ad un tratto? E’ l’inizio di una trasvalutazione dei valori? Gli inglesi portano di nuovo i pantaloni stretti e di nuovo, esattamente 15 G. Celant, R. Koolhaas; Unveiling The prada Fondation, Fondazione Prada, Milano 2008 p23 16 Jacques Séguéla. Non dite a mia madre che faccio il pubblicitario... Lei mi crede pianista in un bordello, Lupetti, Milano, 1986 17 D. Sudjic, Il Linguaggio delle Cose, Editori Laterza, Bari, 2009 p.69


nella stessa maniera, si oppone come unico canone di bellezza il pantalone largo. Chi ci si raccapezza più! » 18. Il senso del lusso nel percorso evoluzionistico ha acquisito vari sensi, dal sollievo per la lotta quotidiana per la sopravvivenza al piacere dell’utilizzare cose fatte con cura ed intelligenza, dalle sensazioni tattili e visive di un oggetto ideato dal genio di un designer al segno di uno status che differenzia gruppi sociali. Il lusso è consumabile, quindi con un dato ∆t, genera forze propulsive dell’economia occidentale dove il made in Italy è più di un’etichetta normata. Condizione che auspicherebbe l’Italia tra i primi posti per l’esportazione del prodotto architettonico al pari della moda, del design, invece la superbia accademica e l’estensione politica-culturale ci ha relegato tra i primi importatori di prodotto architettonico, condizionando l’esistenza stessa di tale professionalità. «L’utilità degli articoli valutati per la loro bellezza dipende strettamente dalla loro costosità […] Un cucchiaio d’argento fatto a mano, di un valore commerciale sui dieci o venti dollari non è generalmente più utile […] di un cucchiaio del medesimo materiale fatto a macchina con qualche metallo ‘vile’ come l’alluminio, il valore del quale non può essere superiore a dieci-venti centesimi […] Se poi un attento esame dovesse rivelare che il cucchiaio che si suppone lavorato a mano è soltanto l’imitazione abilissima di un articolo fatto a mano, un’imitazione però tanto abile da dare la medesima impressione quanto alla linea e alla superficie salvo che all’esame minuto di un occhio espertissimo, l’utilità dell’articolo, compresa la soddisfazione che chi l’usa trae dalla sua contemplazione come oggetto di bellezza, scemerebbe immediatamente di ottanta o novanta per cento o anche di più […]. La maggiore soddisfazione, che deriva dall’uso e dalla contemplazione di prodotti costosi ritenuti belli, è ordinariamente in gran parte una soddisfazione del nostro gusto della dispendiosità, mascherato sotto il nome della bellezza. […] L’esigenza di uno sciupio vistoso non è coscientemente presente in linea di massima nei nostri canoni del gusto, ma è ciò nonostante presente in linea di massima nei nostri canoni del gusto, ma è ciò nonostante presente come norma costrittiva che foggia e sostiene con la selezione il nostro senso di ciò che è bello e dirige la nostra discriminazione rispetto a ciò che può essere legittimamente approvato come bello e ciò che non lo può.» 19 Thorstein Bunde Veblen 20 teorizza il senso di lusso in base alla capacità della proprietà privata di distaccarsi dalla fredda e fideistica necessità, per addurre a una diversità sociale, a una differenza di possibilità di consumo, di capacità e di qualità di scelta e per questo la ricchezza non viene solo prodotta ma mostrata in società attraverso l’apparire con beni costosi. Ovviamente è una visione perversa di senso liberale capitalistica che conduce il lusso in stretto contatto con gli attori della grande catena sociale della produzione. Inoltre Veblen intuisce che tra i soggetti non c’è stabilità di posizione duratura, per i detentori del lusso è una continua richiesta con continui capovolgimenti di attori. E’ una visione che, a causa della presenza dell’ospite inquietante nella società contemporanea, delinea una vacuità, un’assenza di senso, un’inutilità negli obiettivi regolati sempre più, miserabilmente, da un rapporto economico di tipo Veblen e non è un caso che in famiglia una promessa di promozione scolastica valga un motorino, una laurea forse una macchina, una vita un’eredità. Oggi post Credit crunch, con la ridistribuzione mondiale della capacità d’ acquisto e quindi di ostentamento, la sfida del lusso è cambiata ed è sempre più fusa tra il carattere artigianale e la serialità industriale. Il lusso contemporaneo è inteso come prodotto di difficile produzione quindi aderisce alla spinta innovatrice della tecnica, al possedimento di unicità e rarità come sono i beni storici. La fondazione Prada può esser vista come un consumo di lusso con ritorno non egoistico ma che si apre alla società o meglio ai probabili acquirenti, ed il significato di tale atteggiamento è riconducibile a qualsiasi brand/architettonico. Quindi il Sistema Prada può rappresentare l’assenza di valori collettivi oppure essere la sommatoria di tutti i valori, ma ciò che risalta è la posizione del singolo IO che, liberato dalla capacità d’acquisto, rientra in un tour artistico culturale per capire se stesso e per coltivare la curiosità di conoscere le proprie pulsioni. La vita come mezzo di conoscenza è secondo Nietzsche azione per allontanare il senso della perdita dei valori supremi e dello spaesamento del fare quotidiano. Largo 18 A. Loos, Parole nel vuoto, Gli Adelphi, Milano 2005 p.9-16 19 T. Veblen, La teoria della classe agiata, trad it di F. Ferronetti in T. Veblen Opere, Utet, Torino, 1969, pp. 156-157). 20 T. Veblen è stato un economista e sociologo statunitense, uno dei principali esponenti dell'istituzionalismo economico. La sua opera principale è La teoria della classe agiata (1899)


Isarco disvela a chi è volto alla conoscenza non un dovere ma un piacere individuale di scoprire, mediante i propri sensi e virtù, una crescita del singolo e quindi una crescita della collettività. L’operato di Prada è paragonabile a quello di A. Olivetti, P. Guggenheim, L. de’ Medici, relazioni extraproduttive risalenti fin all’impero di Augusto con Gaio Mecenate, rapporti produzione/consumo che affermano una necessaria condizione individuale dell’artista e dell’architetto, ben lontana dalla tendenziosa, anonima e normata architettura ipotizzata nel secondo ‘900 dal red thought italiano. Prada con la sua ricerca multidisciplinare crea sviluppo culturale, interferenze tra materie e pensieri, liquefazione del tutto in un unico prodotto e manifestazione della vacuità della cosa. Disvela necessità afferite al desiderabile, crea libertà di espressione ben lontane dalle estensioni bigotte di un marxismo tutt’oggi presente nell’ accademia italiana e bloccata in forme stereotipate pre-moderne, in cui la resistenza di convivere con il derivato industriale evidenzia e giustifica la vacuità nel fare (forse finito tra il 1989-92) e la non originalità nel dire. “Quant'è bella giovinezza, Che si fugge tuttavia! Chi vuol essere lieto, sia: Di doman non c'è certezza” 21

21 L. de’ Medici, da Canzona di Bacco, in Canti carnascialeschi” da Lorenzo il Magnifico, Poesie, ,Biblioteca Universale Rizzoli, Milano1992

Figura 2- Fondazione Prada Largo San Isarco progettata da R. Koolhaas.



FABRIZIO CARÓLA Un’ architettura per l’anonimato Giovanni Bartolo

Dopo aver affrontato l’ennesimo saggio sulle archistar, sul rapporto tra architettura e marketing, e su come sia difficile oggi parlare di un architettura che sia completamente anonima rispetto alle riconoscibili forme di ipercreativi o virtuosi dei computer, che continuano a stupirci pubblicando e vincendo numerosissimi premi di design e di urbanistica, vorrei parlare non di un architettura completamente anonima ma di un'architettura che nasce dalla libertà e dal sapiente rispetto del luogo. Dal coraggio di confrontarsi all’estero non per stupire o fare business ma per il piacere di progettare e creare qualcosa di veramente utile con poche risorse e tantissime idee. Di un’architettura che partendo da Napoli entra in punta di piedi nel panorama internazione per quei popoli che non hanno bisogno di edifici simbolici o mega icone del Marketing, ma di edifici funzionali, di infrastrutture, di luoghi essenziali per la vita dell’uomo, quelle strutture “anonime” che a mio avviso sono più importanti di grossi centri commerciali o mega complessi residenziali che hanno un nome, una griffe, uno slogan per restare impressi nella memoria della gente. Strutture anonime che nella loro composizione e nella loro tipologia costruttiva rappresentano la massima espressione di organicità dell’architettura contemporanea. Non voglio elogiare nessuno in particolare ma credo che una nota di merito va spesa per un architetto napoletano che ha impegnato la sua esistenza alla causa africana e che ha saputo rappresentare quell’ideale di architettura rispettosa del luogo ed geomorfologicamente integrata che molti grandi personaggi, oggi Archistar, non riescono ad ottenere. L’architetto in questione è Fabrizio Caròla che, nato a Napoli, si diploma alla Scuola Nazionale Superiore di Architettura di Bruxelles nel 1956 e dopo aver conseguito la laurea in Architettura a Napoli, inizia il suo percorso che dall'Italia a Parigi lo porta, nel 1972, in Africa. L'Africa del Sahel libera il pensiero progettuale di Fabrizio Caròla che con umiltà e semplicità da vita ad una architettura fatta di terra, modellata, come una scultura, dalla mano dell'uomo, nata dal profondo amore e dalla puntuale conoscenza di un paese e frutto di una logica tesa alla più completa valorizzazione delle risorse locali. Guardando l'architettura africana di Caròla si ha la sensazione di trovarsi a contatto con qualche cosa di familiare, accogliente, spartanamente confortevole; la sua architettura non "urla", le sue cupole ogive, gli archi e le volte, si adagiano sull'arida terra senza far rumore e accompagnano il paesaggio nell'assoluto rispetto di chi le vive da dentro e da fuori. Instancabilmente Caròla parla di forme logicamente derivate dalle condizioni contingenti con cui ha dovuto confrontarsi: "se c'è una certa somiglianza con le architetture del luogo è solo fortuita, o almeno non c'è volontà di somigliare, in quanto la logica seguita si basa sul soddisfacimento dei dati del problema"; attraverso una sequenza, quasi matematica, che parte dalle condizioni sociali, economiche e climatiche, Caròla arriva infatti a compiere una selezione sui materiali, escludendo il cemento e il ferro, in quanto materiali di importazione e quindi altamente costosi, eliminando il legno, contribuendo questo alla desertificazione, scegliendo infine la terra o la pietra "quando questa è nei paraggi". La terra cotta sotto forma di mattone ha incanalato le decisioni strutturali, essendo un tipo di materiale che lavora bene in stato compresso, nel prediligere volte, archi e cupole che si sono ben presto rivelate "economiche e di facile e rapida esecuzione anche per la manodopera non qualificata"; "gli archi e le volte sono realizzati a mezzo di centine in legno mentre per le cupole ha utilizzato una sorta di compasso: è un sistema ritrovato dall'architetto egiziano Hassan Fathi nella tradizione nubiana. Nel progetto dell’ Ospedale di Koedi in Mauritania la superficie totale dell’edificio è di 3000 mq e il costo dell’opera è stato di 780.000 euro. Realizzato in tre anni dal 1981 al 1984 il mattone ha determinato le scelte tecnologiche e formali del progetto. Infatti, per utilizzare il mattone anche in copertura, bisogna ricorrere alle strutture compresse: volte, archi e cupole. Questa scelta lo ha fatto scoprire una geometria quasi abbandonata dall’architettura moderna: la geometria polare. Gli archi e le volte sono realizzati con centine in legno mentre per le cupole ha utilizzato il compasso. Il compasso indica al muratore la posizione e inclinazione esatta di ciascun mattone nello spazio e consente di costruire le cupole senza centine o casseformi. Modificando il modello, che consentiva di realizzare solo cupole sferiche ha ottenuto cupole ogivali aprendosi a una gamma più


estesa di forme e volumi. L’organizzazione planimetrica dell’ospedale nasce per volontà di consentire alla famiglia di accamparsi nei pressi del paziente. La presenza continua dei familiari da fiducia e ne facilita la guarigione: familioterapia. Per questa ragione le camere hanno due porte: una comunica con il corridoio tecnico, riservato a medici e infermieri, l’altra con il giardino verso i parenti. Grazie a questi semplici, ma non scontati, ragionamenti, Fabrizio Caròla ha messo in grado di fare chi lo ha voluto seguire nel suo coinvolgente cammino; l'incessante ricerca del più appropriato materiale, delle giuste tecniche, di una geometria, quella polare, capace di essere facilmente gestita, ha foggiato un'architettura "umana", autocostruibile, libera da tutti i vincoli e non certo priva di sentimento. Ciò che infatti emerge dalle sue forme architettoniche è il lavoro di un uomo per altri uomini che grazie a lui hanno visto uno spiraglio di autonomia nei confronti di un dominio economico e sociale che ormai da troppo tempo li affligge. Con un'architettura che si sforza di interpretare le esigenze e le possibilità reali di un luogo, Fabrizio Carola attraverso opere come l'Ospedale di Koedi in Mauritania (1981-1984), il Centro di Formazione e Ricerca sulle Tecnologie di Costruzione per il Sahel a Mopti in Mali (1995), il Mercato per le erbe mediche nel quartiere Medine a Bamaco in Mali (1995), raggiunge l'obbiettivo di rendere consapevoli i popoli di quelle terre delle loro potenzialità e capacità. L'opera di Carola, senza aver bisogno di nessun tipo di etichetta, rappresenta un prezioso esempio di come in punta di piedi si possa fare architettura senza bisogno di soffocare qualsivoglia territorio sia esso africano, napoletano..." il paesaggio va guardato, goduto, apprezzato, deve far parte della vita dell’uomo non dominato dall’uomo. Concludendo credo che la figura di questo architetto, simbolo di come si può realizzare un architettura tecnologicamente non avanzata, ma sicuramente all’avanguardia sul concetto di spreco delle risorse e di ecosostenibilita, sia un esempio da seguire per le nuove generazioni di architetti, una figura antagonista alle più affermate Archistar.


L'ARCHITETTURA NASCOSTA DI NIETO & SOBEJANO Rosario Di Petta

Nel panorama internazionale che caratterizza l’architettura contemporanea è facile constatare come, sempre più spesso, l’ansietà della novità ad ogni costo e l’ostentazione di vuote complicazioni formali abbiano sostituito quella preziosa attitudine alla ricerca paziente, tipica della composizione architettonica. Per tali ragioni non può che destare profondo interesse il coerente lavoro che Fuensanta Nieto ed Enrique Sobejano portano avanti con grande entusiasmo e con una intelligente capacità di variazione all’interno dei pochi ed eterni temi dell’architettura. Nei loro progetti, spesso consistenti in interventi di ampliamento di edifici esistenti, mostrano sensibilità e notevoli capacità di lettura all'interno delle complesse stratificazioni della storia, unite alla consapevolezza dell’importanza di portare alla luce i segni della contemporaneità, integrandoli e fondendoli in un equilibrato contrasto con ciò che di importante rimane del passato. Tale fusione tra antico e nuovo sembra essere il tema ricorrente del loro avvicinarsi alla composizione dell’architettura, e viene attuata in forme ed ipotesi sempre nuove e sorprendenti. In definitiva, è come se i due architetti di Madrid, a differenza di quanto avviene per molti altri architetti contemporanei, non si preoccupassero affatto di definire un linguaggio con cui essere più facilmente riconoscibili tra le molte voci del dibattito architettonico, ma proiettassero piuttosto tutta la loro energia verso una riflessione profonda ed estremamente poetica sulle condizioni reali e su quelle problematiche presenti nei singoli temi progettuali di volta in volta affrontati. Al pari di quanto accade per altri importanti protagonisti dell’architettura contemporanea, i due architetti madrileni sembrano aver preso coscienza del fatto che, attraverso il processo d’astrazione e semplificazione, le forme acquistano un incremento di significato ed una superiore qualità estetica. A tal proposito, già negli anni ottanta Costantino Dardi sosteneva che l’architettura deve comprendere la sua sovrastrutturalità e quindi pervenire al proprio azzeramento. Appaiono inoltre consapevoli della perdita di significato tipica di molti esiti architettonici attuali, e si sforzano perciò di riportare l’architettura nell’alveo dell’arte, grazie ad un sapiente lavoro analitico, mostrando anche una certa unità delle diverse scale di intervento, dal territorio all’architettura, e dando spesso vita ad una dimensione territoriale dell’architettura, in cui trova spazio una proficua relazione tra la scala del paesaggio ed il linguaggio dell'architettura. Nel progetto del Museo Canario i progettisti cercano di trovare il giusto equilibrio tra due condizioni contraddittorie, da un lato il carattere unitario tipico dell'istituzione museale, dall'altro la condizione frammentaria di questo quartiere di Las Palmas ricco di stratificazioni. Propendono quindi per una addizione di edifici diversi, in cui gli spazi funzionali siano articolati intorno ad un patio; gli edifici sembrano quindi generati da operazioni plastiche, declinazioni diverse dello stesso tema, e caratterizzati da una certa introversione, essendo nascosti dietro la facciata della vecchia residenza. Solo uno di tali edifici si presenta all'esterno con una nuova facciata. Il materiale ed i ritmi che scandiscono la composizione sono gli stessi che ritroviamo nella città canaria. Un’analoga attenzione la ritroviamo nell’intervento di ampliamento del Museo Moritzburg ad Halle, in Germania, dove assistiamo ad uno stimolante dialogo tra presente e passato intessuto su una sola idea, ovvero sulla creazione di un nuovo tetto che si piega e che sembra infrangersi in alcuni punti, al fine di accogliere la luce naturale e generare la nuova area espositiva; la regola sembra quella di un’articolata unità. La plasticità delle nuove forme adottate nell’intervento progettuale entra in un dialogo creativo con la severa architettura del castello, e la torre di metallo posta in corrispondenza dell'antico bastione porta nel progetto i segni inequivocabili del pensiero architettonico contemporaneo, fondendo in un interessante e miracoloso equilibrio la storia dell'antico castello con il suo presente museale. Questo dialogo tra presente e passato che i due architetti madrileni sembrano prediligere come un asse portante all'interno della loro riflessione sulla composizione architettonica trova felice applicazione in due interventi di ampliamento compiuti nella città austriaca di Graz. In particolare, nel progetto per il museo Joanneum si assume la memoria ed il senso profondo del valore che la particolare conformazione dei tetti ha in questa città per dar vita ad una ipotesi progettuale tesa alla fusione e


valorizzazione degli edifici di epoche diverse di cui si compone il museo. Al fine di realizzare questo programma viene ideata una nuova pavimentazione, ricca di episodi plastici, concepita come elemento di connessione fra i diversi edifici, che conduce agli spazi espositivi sotterranei. I rilievi presenti in questa nuova pavimentazione che sembra un tappeto “minerale” nascono dalla collaborazione con un artista contemporaneo, istituendo quindi un nuovo ed efficace rapporto tra arte e architettura. Questo progetto di architettura in negativo si connota per la sua spazialità sobria e al contempo significativa, rispettando ed esaltando, senza interferenze nelle volumetrie preesistenti degli edifici, i valori storici della città austriaca. In modo analogo, nel progetto di ampliamento dell'edificio Kastner & Ohler il tema dei tetti di Graz viene assunto quale spunto progettuale per una interessante ipotesi compositiva che prevede nuovi spazi di aggregazione, caffè, punti di ristoro, terrazze ricche di suggestive visuali. Il tutto sembra generato da una geometria che non è affatto limitativa della libertà formale, ma che diviene proprio la ragion d'essere dello spazio e che si propone di riequilibrare le irregolarità dei diversi edifici. Dalle articolazioni del tetto nascono quindi le terrazze che accolgono i nuovi spazi di ristoro e socializzazione, ma prende vita anche un dialogo intenso e ricco di articolazioni talvolta drammatiche con lo skyline della vecchia città austriaca. Una simile attenzione verso il contesto in cui si insedia la proposta progettuale è alla base anche dell'intervento di ampliamento del museo San Telmo a San Sebastian. Qui infatti gli architetti madrileni risolvono brillantemente il problema di un adeguato rapporto tra paesaggio naturale e paesaggio artificiale, dal momento che il museo sorge ai piedi del maestoso monte Urgall che domina in modo inequivocabile il paesaggio. L'intuizione progettuale prevede la dissoluzione del monte nel paesaggio grazie ad una barriera verde, un muro definito dalla topografia esistente, che alloggia al suo interno due padiglioni espositivi. In questo modo viene risolta una difficile situazione topografica e si fornisce al contempo una risposta valida per le nuove esigenze museali e per gli spazi di socializzazione che questa terrazza offre. Il nuovo muro è previsto in acciaio traforato che accoglie sulla sua superficie varie specie vegetali, segnando in tal modo anche i diversi colori delle stagioni in una suggestiva metafora dello scorrere inesorabile del tempo. Un discorso analogo può essere fatto per quanto riguarda il progetto di un centro vinicolo a Logrono; infatti qui assistiamo ad un poetico intervento sul paesaggio piuttosto che ad un progetto di architettura. L'idea è quella di resistere all'impulso di costruire un edificio, per restituire in maniera originale l'immagine delle distese di viti che coi loro diversi colori arricchiscono e caratterizzano il paesaggio. Queste nitide geometrie danno vita a piattaforme metalliche che divengono i tetti dell'architettura proposta. E’ come se la tipologia venisse dissolta in una sottile rete di relazioni topologiche che generano una nuova ipotesi di spazialità ricca di significati profondi radicati nella nostra memoria. A ben riflettere, il tema della memoria che porta in superficie ricordi e cose vissute o soltanto immaginate, determinando la genesi di nuove configurazioni spaziali, risulta essere la chiave di lettura più appropriata per tentare di comprendere a fondo il percorso compiuto dai due architetti spagnoli nel territorio dell’architettura. Le ipotesi progettuali sono il risultato di una ricchissima sensibilità e di una profonda capacità di lettura dei contesti in cui di volta in volta sono chiamati ad intervenire. Molto stimolante è, ad esempio, l'immagine concepita per il nuovo centro di arte contemporanea di Cordova, nata da suggestioni tipiche della cultura islamica. Le cellule espositive qui proposte sembrano nate da un gioco combinatorio che consente differenti tipologie di usi e spazialità sempre variate. I materiali del progetto accolgono anche le moderne tecnologie multimediali in un gioco metamorfico teso a favorire differenti possibilità percettive e di uso degli spazi destinati alle varie esposizioni. Frutto di un sapiente equilibrio compositivo è la realizzazione dell'auditorium di Merida, che si presenta come un volume dal carattere massivo dotato di una grande terrazza che consente uno sguardo panoramico sulla città e che funge da nesso tra i due auditorium e da perno compositivo per le diverse aree di cui si compone l’edificio. I tagli ben calibrati dell’edificio determinano spazialità suggestive da cui si aprono visuali e scorci inattesi sul paesaggio circostante. Sulla superficie dell’edificio spiccano i pannelli concepiti dall’artista Esther Pizzaro, riprodotti con un processo industrializzato, che raffigurano la planimetria della città, restituendo l’impressione degli antichi muri romani presenti a Merida. Il passato della città viene così riassorbito nel nuovo edificio realizzato. Ciò a testimonianza


anche del fatto che il ruolo assunto dalla decorazione in architettura non è per nulla sminuito nella nostra epoca, anche se sono fortemente mutate le modalità con cui esso si esplica. Infatti, nell’architettura moderna, la decorazione non consiste più in un abbellimento aggiuntivo dell’edificio, ma piuttosto è espressa dall’iterazione di uno stesso elemento che preso singolarmente non ha alcun valore estetico, ma ripetuto in serie acquista un incremento notevole della sua bellezza, conferendo ritmo e significato all’intera composizione. L’intelligente attenzione al contesto urbano e la continua reinterpretazione delle sue regole in nuovi linguaggi capaci di fondere la tradizione nel presente sembra quindi essere il tratto dominante delle loro proposte progettuali; ipotesi formali che sfuggono con sapienza alla tentazione delle mode architettoniche, per attingere piuttosto ad una dimensione progettuale senza tempo. In questo arco di esperienze sembra affinarsi una propensione a dare le risposte più adeguate alle diverse esigenze dell'uomo. Tale linea 'umanistica', sempre presente nelle eleganti composizioni di Nieto e Sobejano, intende così riportare con rinnovata consapevolezza l’architettura verso quella idea plastica intesa come sfida alla tecnologia, di cui poeticamente parlava Giancarlo De Carlo.


UN GIOVANE ARCHITETTO FINLANDESE: OLAVI KOPONEN Francesca Buonincontri

In tempi di archistar, di esasperazione progettuale e di forme spettacolari, non si può non rimanere colpiti dalla nuova architettura finlandese, dalla sua particolare sensibilità verso l’ecosostenibilità e dai suoi caratteri di essenzialità, che i giovani architetti finlandesi, in controtendenza rispetto all’archsystem, propongono, mediante la semplicità delle linee, il ritorno alle tradizioni, all’uso elegante di materiali naturali, al rispetto per l’ambiente e per il paesaggio. L'osservanza di un corretto inserimento nel contesto ambientale è caratteristica essenziale di quest’architettura, mediata dalla lezione del neoempirismo scandinavo, espressione matura del Movimento Moderno, che, con l’insegnamento di Alvar Aalto, ha reso la Finlandia quel luogo particolare in cui una somma sintesi progettuale, di raffinata eleganza, prende forma in straordinari spazi paesaggistici. Le nuove architetture dei giovani architetti, accomunate da apparente facilità e semplicità di disegno, non sono il prodotto di una “stagnazione delle idee” ma piuttosto mostrano una sensibilità rinnovata per la centralità dell’uomo; i nuovi edifici, progettati con grande coraggio e consapevolezza, non si impongono solo per il loro carattere estetico ma per le risposte che sono capaci di fornire all’uomo e al suo desiderio di vivere in ambienti confortevoli. Con altrettanto coraggio la stessa Finlandia, sceglie ed esibisce, anche all’estero, non le opere dei suoi più famosi architetti ma opere di quelli ancora non conosciuti e in cerca di affermazione, rifiutando di celebrare i celebrati. L’architettura finlandese è, si direbbe, ancora un’architettura che privilegia la funzionalità, in cui “la qualità viene prima della spettacolarità”, ma i giovani architetti che la rappresentano sono passati ad una fase nuova, quella di una ricerca che fa riferimento ad alcuni principi fondamentali: l’alta qualità ecologica degli edifici, la piccola scala, la luminosità degli ambienti, l’uso di materiali alternativi al cemento e all’acciaio e più legati alla tradizione, quali il legno e il laterizio. Il risultato è un’architettura eco-compatibile, ridotta a linee essenziali, capace di integrasi perfettamente al contesto, attenta alle esigenze quotidiane dell’uomo e finalizzata a contribuire a un migliore standard di vita. Uno dei maggiori esponenti di questa architettura è Olavi Koponen, la cui filosofia progettuale, radicalmente “sostenibile”, è stata già esposta, in Italia, alla Triennale di Milano del 2006. Attraverso la sua lezione sull’ “Innovazione e sostenibilità in architettura” Koponen propone un percorso progettuale che è quasi un intimo dialogo con la natura, come è nelle abitazioni progettate, dove il rispetto e la volontà di esserne parte integrante sono il segno più rimarchevole. Il più delle volte immerse nei boschi, sempre perfettamente inserite nel paesaggio e nell’ambiente proprio alla cultura locale, esse utilizzano le risorse naturali e sono realizzate in materiali tradizionali, soprattutto in legno, di cui il progettista conosce ed esalta le straordinarie proprietà. Nel 2004 Koponen ha progettato e costruito villa Kotilo, ovvero Seashell House, dalla forma a conchiglia, nell’ambito di un quartiere dimostrativo sperimentale, realizzato nella periferia di Espoo, nel nuovo centro civico Palttina, costituito da 263 unità abitative rispondenti a varie tipologie edilizie, secondo il bando del concorso. Progettata in pianta sul disegno della spirale, in alzato costruisce pavimenti, soffitti e muri mediante una struttura prefabbricata in legno, poggiata su un unico pilastro centrale in cemento armato. In essa Koponen frammenta il legno di larice siberiano per piegarlo e rivestire esternamente tutti gli spazi curvi della conchiglia. Le attività domestiche si sviluppano attorno al focolare. Il corpo principale, con funzione di soggiorno, si articola attorno ad un ambiente unico che, partendo dal livello terreno, dove si trova la cucina, si estende nella spirale della “conchiglia”e genera un’area in salita caratterizzata dalla scala e da una superficie gradinata che ospita spazi con ampi divani. L'intero percorso, poiché il piano terra ha solo piccole aperture, è illuminato da grandi lampade a sospensione. Il primo livello, al contrario, riceve la luce da una grande vetrata a tutta altezza e da un ampio balcone ricavato dall'arretramento e spostamento obliquo della parete. All’interno, come all’esterno, la casa Kotilo testimonia ancora la sensibilità verso l’uso di materiali naturali e la grande attenzione al particolare secondo un carattere proprio alla tradizione artigiana finlandese. Altra realizzazione di Koponen è Villa Lena costruita nel 2002 sempre ad Espoo. Qui la maggior illuminazione e il maggior caldo naturale possibile sono ottenuti attraverso un patio interno. L’idea alla base del progetto è la creazione di un unico spazio interno/esterno, in cui i giardini agiscono come me-


diatori tra elemento costruito ed elemento naturale, i quali appaiono in perfetta continuità, attraverso il filtro trasparente formato dagli ampi infissi vetrati. La casa è perciò concepita come chiusa, quasi inaccessibile, dal lato strada, ma aperta negli spazi interni dove i limiti sono segnati solo da tende od oggetti. La scelta dei materiali è stata determinata dalla condizione di voler sottolineare lo stretto rapporto di collegamento con la natura: i muri e i tetti interni sono di abete rosso non trattato mentre i muri esterni sono di legname di larice siberiano trattati con protezioni osmotiche. La struttura di legno è formata di elementi fatti in fabbrica e coperti e trattati in situ. I pavimenti sono di calcestruzzo ripulito nel quale sono affogati frammenti di vetro rotto misto, provenienti dalla fabbrica di vetro Iittala. La soluzione al problema dell’isolamento termico, gravissimo date le rigide temperature, è ottenuta mediante la coibentazione in lana di roccia mentre gli infissi in vetro sono formati da tre strati di vetro, con superfici aventi spazi vuoti, per il risparmio di energia, riempiti di argon. Infine, la Villa Langbo, costruita tra il 1994 e il 2000, sorgendo sulla splendida isola di Kimito, al margine di una foresta, in cui si occulta per essere solo parzialmente visibile a distanza, sembra manifestare l’idea e la consapevolezza circa l’estrema fugacità dell’umana esistenza rispetto all’eternità della natura, sì da condurre necessariamente l’uomo a contatto con essa ad agire nel modo più rispettoso possibile. Intervenendo su un’isola rimboschita, isolata dal resto del mondo per gran parte dell’inverno, all’interno del territorio implacabile della Finlandia sudorientale, Koponen è stato indotto per erigere la casa ad un metodo di costruzione poco convenzionale e quasi primitivo. La struttura è così molto semplice, sebbene il lavoro per giungere a tale semplicià sia stato particolarmente lungo e complicato, eseguito al riparo del tetto, che è stato costruito prima di ogni altro elemento, poggiato su una struttura autonoma collocata direttamente sulla roccia dell’isola. Inizialmente destinata a casa colonica, anche se fino ad ora è stata utilizzata solo come casa di vacanza, la casa prevede la possibilità di convertire alcuni spazi in strutture a servizio della fattoria. La pianta della villa, composta da singoli corpi isolati disposti secondo uno schema ad U, individua e separa gli spazi privati da quelli pubblici in modo che ogni spazio possa essere utilizzato anche autonomamente e risulti caratterizzato dalla grande variazione di illuminazione e collegamenti. Sotto il grande tetto sono poste le stanze indipendenti che forniscono spazi per abitare, una sauna, una biblioteca e un granaio. L’edificio costruito in legno, variamente trattato, ha un focolare in pietra e due caminetti, uno interno e l’altro fuori, su una delle terrazze esterne. Esigenza prioritaria dell'architetto, da lui stesso ribadita ma costantemente riscontrabile non solo nelle sue opere quanto in gran parte dell’architettura finlandese, è quella di dissolvere il limite tra natura e costruito. Koponen a tal fine aumenta anche in questo progetto al massimo la trasparenza creando ampissime vetrate da cui godersi il bellissimo paesaggio marino. Si direbbe che questo edificio sia la versione contemporanea di una demarcazione territoriale primordiale nata dal bisogno di una abitazione e da quello di un luogo per pregare, e con esso, Koponen sembra mostrare come per tali elementari funzioni basti in fondo poco: delimitare semplicemente uno spazio e coprirlo con un tetto ritrovando di fronte alla natura la propria anima e gli dei.


UN ARCHITETTO NAPOLETANO DIMENTICATO: FRANCESCO FARIELLO Carmine Lo Conte

Spesso non solo gli architetti ma le stesse architetture finiscono con l’essere anonime, e ciò non tanto per un desiderio r iconducibile al l’architetto, loro au tore, quanto per la v ita de lla ci ttà, che s pinge l a tumultuosa pe rcezione de ll’opera ad ann egarla nel pi ù co mplesso fenomeno ur bano. La ci ttà, qui ndi, spesso tende a non far emergere architetture che in un passato non troppo lontano pure hanno contribuito ad offrirne l etture attente, m ai pur amente r etoriche, e con es se g li s tessi autori, s ebbene i n passato apprezzati ed amati. E’ i l cas o delle o pere di Francesco Fariello il qua le, in un periodo di f orte evoluzione, quello degli anni a r idosso del secondo conflitto mondiale ed immediatamente successivi, sebbene po co noto al le masse, è s tato uno dei maggiori es ponenti de ll’architettura ne orazionalista campana e romana. A lui sono ascrivibili molte progettazioni e realizzazioni nella provincia di Avellino e di Roma, e tra esse la sede del Museo Provinciale avellinese che, per la sua particolare composizione armoniosa, attenta al l’ambiente ci rcostante e f ortemente connot ata da un dialogo profondo con il contesto, è una d elle ope re pi ù significative i n Campania t ra que lle r ealizzate n egli anni pos tbellici. L’architetto Fariello, all’apice d i una l ungo percorso professionale che l o aveva v isto interprete di alcune de lle p iù interessanti pa gine d ella s toria d ell'architettura i taliana d el ‘ 900, av eva m aturato un legame c on S averio M uratori e Ludovico Q uaroni, fonda to s ul re ciproco s cambio di opi nioni circa concrete proposizioni progettuali; costante è, come si legge dalle rare testimonianze, anche il rapporto con la s ua nut rita e f ornitissima b iblioteca f amiliare, ne lla qu ale egli g estiva l a c ollocazione de i t esti grazie alla sua acuta memoria fotografica. ”L’analisi progettuale è importante, ma allo stesso modo lo è il lasciare spazio al sentimento, all’ispirazione” era una delle frasi che solitamente ripeteva agli allievi, mutuata dalla lettura dell’attività della Bauhaus e di quella della scuola italiana del periodo pre-bellico. La sua permanenza a R oma per insegnare nella Facoltà di architettura ha fatto si che alcune tra le sue più belle testimonianze siano legate direttamente all’esperienza didattica con Quaroni. Formatosi negli anni venti alla scuola di Marcello P iacentini di cui riconosce “la semplicità nei modi” attribuita “alla piena cons apevolezza che eg li av eva de l s uo valore”, Fariello praticò molti ar chitetti s uoi contemporanei, a propria volta spesso rimossi. Tale è la sua comprensione nei fatti che l o c ircondano che in un intervista a cura di Giorgio Muratori “architettura secondo natura” egli con assoluta lucidità di giudizio offre de lla s toria de ll’architettura i taliana t ra l e due g uerre da ti e notizie che ne ssuna storiografia uffi ciale r iporta, v uoi pe r d ifetto obiettivo di i nformazione, v uoi, innanzitutto, per qu ella deformante do ttrinale ch e, malauguratamente, cont rassegna l a cultura s torica i taliana, attenta pi ù al lo spirito dei tempi che non alle cose che lo incarnano. Volendo cercare di afferrare e collocare la figura dell’architetto Fariello all’interno del quadro culturale dell’architettura italiana ed in particolare di quella romana e campana, si può affermare che egli era uno di quei giovani i quali, plasmatisi alla fine degli anni venti, nel decennio posteriore e f ino all’inizio della seconda grande guerra, sottoscrive molti tra i progetti pi ù importanti de lla nuov a ar chitettura r omana. Nel s uo curriculum i nfatti si a nnoverano i n quegli anni il Palazzo dei ricevimenti e dei congressi, la Piazza Imperiale all’E’42, la Casa Universitaria dello studente e l’Auditorium di Roma. La presenza di Fariello a Roma è costante per buona parte degli anni trenta e parte degli anni quaranta ed insieme ai suoi due compagni di viaggio, Muratori e Quaroni, riempie silenziosamente la scena culturale romana cui si opporrà il clamore critico degli anticonformisti a t utti i costi. C on Saverio Muratori f irma m olti pr ogetti che di venteranno, in breve, argomento di dibattito e di c onfronto pe r l e nuove generazioni d i ar chitetti attivi a R oma. Progetti s ignificativi che rivelano un’attenzione non qualunquista verso quanto accadeva nella cultura europea, in Germania ed in Francia. S aranno propri o a lcuni prog etti de l t rio a ppassionato c he ne gli a nni a venire s egneranno la cadenza pe r i f orti di battiti t ra i g iovani ar chitetti che pur con personalità di verse e pur da t empo affermati, come il Foschini, rivedranno e modificheranno anche le proprie posizioni teoriche. Progetti, spesso dettati, suggeriti, solo da una sollecitazione immediata, un libro o un articolo, ma che hanno la forza e l’immediatezza per mettere in crisi con intelligenza e con ironia nuove o antiche certezze. Certo è che come in tutti i progetti “di gruppo” non è facile far risalire ai singoli autori le responsabilità delle


scelte che comunque restano, per definizione, collettive, ma è fuor di dubbio che la presenza di Fariello nella m essa a punt o strutturale e f ormale de i di versi l avori sia s tata de terminante. P er que sto si pone l’opportunità di ri leggere Fariello oltre l ’affermarsi pe rentorio della pe rsonalità de i s uoi com pagni di strada, Saverio Muratori e Ludovico Quaroni, ed oltre il velo apposto sulla sua opera da una storiografia disattenta, in cerca di protagonisti meglio capaci a propagandare se stessi. Francesco Fariello fu anche profondamente e i ntimamente l egato alla s ua t erra di or igine e pe rciò anche al la cul tura r egionale ed avellinese, nelle sue diverse manifestazioni e nelle ragioni della sua complessità. E’ in questa continuità con la storia locale nell’attenzione al progresso europeo, quindi, che l’azione culturale di Fariello matura e s i t rasforma v erso forme aut onome d i r iflessione e di s perimentazione, dall’adesione g iovanile al le tendenze più radicali, via via evolvendo verso forme di elaborazione più intime fondate sui valori più profondi e meno mutevoli della tradizione, della storia e della vita. Esemplari in questo senso le ipotesi e le r ealizzazioni de lla pr ima metà d egli a nni qua ranta, a p artire d al pr ogetto del centro r urale pe r l a bonifica d i D urazzo in Albania, al qu artiere s emirurale d i N ettuno, f ino alle pr oposte pe r i l cen tro agricolo-industriale d i P ontecagnano. L’architettura r ecupera qu i l a s ua na turale d imensione di “ cosa semplice e be n fa tta” dove a ppunto “ secondo na tura” recupera i s uoi r apporti vitali con la s ocietà, la cultura de ll’abitare e d el costruire, l’ambiente, pi ù in generale. La s ua appa rente “fuga” da ll’impegno architettonico e dalla dimensione didattica della “composizione architettonica” trasfigura così il lavoro successivo di Fariello ne lla di mensione di un’i ncessante a nelito ne i c onfronti di un e quilibrio orm ai perduto tra l a cu ltura d ell’ambiente i rrimediabilmente de vastato nelle s ue qu alità s toriche e cul turali fondamentali ed il rimpianto per i valori di una società che ha ormai perduto, altrettanto definitivamente, la capacità di riflettere sul suo passato come ultima speranza per il suo futuro.


PREMIO PRITZKER PER UN ARCHITETTO NORMALE Massimo Squillaro

Probabilmente, sarà stato per risvegliare la fiducia in una architettura non magniloquente e non rivolta al mercato delle meraviglie, che il Pritzker Architecture Prize è stato assegnato, nell’edizione del 2009, all’architetto svizzero Peter Zumthor. Pur essendo noto, infatti, Zumthor, più che per l’enfasi offerta alla figura dell’architetto o per la pomposità delle opere, è semmai conosciuto per la sobrietà dei gesti e della sua architettura. Certamente non così celebre tra quotidiani e rotocalchi, non essendo mai stato chiamato a progettare famosi musei o grandi concert halls , conosciuto estraneo alla cerchia delle archistar, non avendo oltretutto progettato molti edifici, già uno dei pochi lavori realizzati, legato allo sviluppo dei meravigliosi bagni termali di Vals in Svizzera, lo mette in luce quale sapiente compositore architettonico. Si puo’ dire che egli abbia vissuto relativamente nell’ombra per 30 anni in un villaggio tra le montagne svizzere. Ed ecco che nel 2009 vince il Pritzker Prize 2009, il massimo riconoscimento nel campo dell’architettura, con una motivazione che ne riconosce il dedicarsi ad edifici di grande integrità, liberi dalle mode del momento. Egli del resto, sembra, scarti persino parte delle commissioni che gli vengono offerte, scegliendo di misurarsi solamente con progetti con i quali sente una profonda affinità. La sua devozione alla esecuzione, sia nello stadio progettuale che realizzativo, è totale ed egli segue le fasi del disegno e, poi, della messa in opera, sin nei minimi dettagli. Figlio di un ebanista, Zumthor è stato in contatto ancora piccolo con la falegnameria. Negli anni sessanta ha studiato al Pratt Institute di New York e successivamente ha lavorato a molti progetti di restauro storici che gli hanno permesso di conoscere più a fondo le relazioni tra i vari materiali. I suoi edifici esplorano le qualità tattili e sensoriali di spazi e materiali, pur mantenendo una sensazione minimalista in rispetto con l’ambiente circostante. Per Zumthor, ‘architettura’ è sempre ed unicamente materia concreta ed il costruire è l'arte di conformare una unità dotata di senso a partire da una molteplicità di parti singole. Osservando i suoi lavori come le Terme di Vals o il Museo Diocesiano Kolumba a Colonia, o lo spazio espositivo di Topographie des Terrors a Berlino è chiara la relazione tra l’edificio e le tracce della vita umana. Come egli stesso asserisce, il corpo di un’architettura deve essere sufficientemente sensibile, essere in grado di esporsi alla vita, assorbire le tracce di vita umana o meglio ancora rendersi garante della realtà della vita trascorsa. Al suo interno, poi, si deve avvertire una sorta di sensazione di consapevolezza del tempo che scorre, dove la vita non sia cristallizzata in spazi e luoghi, essi stessi invece pulsanti di energia naturale. L’impiego preciso e sensuale di materiali come il legno, la pietra, il cemento e il vetro sembrano infatti attingere ad antiche conoscenze artigianali, come è nell’arte di Beuys, che ne rivelano l’essenza autentica. Diversi suoi edifici, vedasi il classico e emblematico Padiglione Expo 2000 della Svizzera, fanno intendere tutto il tempo voluto per pensarli, disegnarli, riflettere sui materiali, e poi segarli, gettarli, saldarli, tagliarli, trasportali, sovrapporli e pulirli, e come essi possano assumere qualità poetiche, nel risuonare e risplendere, essere limpidi e trasparenti. Costruire è l’arte di conformare un insieme formalmente compiuto dotato di senso, a partire da una molteplicità di parti singole, e ciò, per Zumthor, deve essere visibile nell’opera, di fronte alla quale è necessario soffermarsi con rispetto a vedervi i gesti sacri del congiungere e conformare mossi dai costruttori, gli artigiani, i carpentieri, i manovali che elevano in comune sempre un tempio all’uomo e alla vita, qualunque sia la funzione. Già le prime costruzioni di Zumthor rivelano quindi la capacità di rielaborazione e sintesi d’esperienze e immagini registrate nei ricordi che costituiranno un abaco personale d’elementi fisici e immateriali: (Atelier Zumthor ad Haldenstein, Cappella Sogn Benedetg a Sumvigt, casa Gugalun a Versam). Le più recenti confermano questo approccio disciplinare e testimoniano una progressiva selezione dei temi trattati, dei committenti interessati, in un affermarsi coerente delle scelte iniziali (Terme di Vals, Museo Kunsthaus a Bregenz). Le Terme di Vals, ad esempio, nascono con l’intento contribuire, con l’edificio, ad arricchire l'atmosfera del luogo, onde lasciare un piacevole ricordo in chi lo visita o vi abita. Esse sono costituite da un organismo immerso in uno splendido paesaggio in cui l’uso dei materiali e la distribuzione interna riescono a creare più di una semplice architettura, un


pattern di emozioni. Il progetto, offre il senso della sosta, affermando la sua “lentezza” in rapporto allo scenario immobile delle Alpi, dimenticando cioè la complessità del disordine architettonico contemporaneo ed altresì rifuggendo il terrifico che c’è nel sublime della montagna. Impossibile pensare di fare a meno del cubo che s’innalza sull’idilliaco sfondo del paesino di 960 anime immerso nel paesaggio alpino dei Grigioni. Il primo impatto lascia perplessi, ma le terme cambiano aspetto una volta entrati: prima la stretta galleria, alta appena due metri, che conduce all’interno della costruzione, della roccia, poi un tripudio di pannelli di calcestruzzo e pareti in quarzite di Vals, lastroni di pietra estratti a due chilometri di distanza dalle terme. Nei bagni, dove la luce del sole non riesce a filtrare, si ha l’impressione di trovarsi nell’antro di una caverna. Solo tre imponenti finestre alte fino al soffitto consentono allo sguardo di spaziare sulla vallata. I confini tra le terme e l’ambiente sono netti, eppure il dentro e il fuori, i bagni termali e la natura si confondono con la massima spontaneità. Questo è il risultato della sapiente tecnica di Zumthor e delle sua scelta dei materiali. La quarzite di Vals è ovunque e in tutti i tipi di lavorazione: spaccata, fresata, levigata, lucidata, frantumata. Il visitatore si muove in un mondo di pietra e acqua, interrotto solo da balaustre di ottone, porte vetrate e finestre. Ma il rigore della forma e dell’estetica non toglie nulla ad una pacata sensualità. Anzi, è la tranquillità dei monti che fa il suo ingresso in questi ambienti, che invitano al silenzio e quindi al riposo del corpo e dell’anima. Nel Museo Diocesiano Kolumba l’involucro si caratterizza per lo spettacolare utilizzo di mattoni di foggia particolare, intercalati con piccoli vuoti, che fanno apparire le pareti dell’edificio come la trama di un tessuto. Questi speciali mattoni, integrandosi perfettamente con l’involucro della facciata e dell’intorno di colore grigio-giallastro, fungono da mediatori con il paesaggio esterno ed allo stesso tempo da filtro per l’interno. Un filtro che, definito da Zumthor “muratura di maglia”, con la sua trasparenza, come quella di un tessuto di trama larga, crea un suggestivo ambiente di luce, perfettamente adatto alle collezioni d’arte conservate nell’edificio. L’accostamento di materiali e forme nuove al fianco degli antichi resti crea inoltre spazi suggestivi e poetici, attraverso gli effetti di luce straordinari e, se si tiene in mente come l’uso accorto del materiale, il dispiegarsi della luce, siano parte delle strategie compositive dei maestri del passato, di ogni tempo, oggi strumenti incompresi perchè lontani dalle interfacce grafiche dei nostri software, si comprende come l’esercizio severo di Zumhor abbia provenienze lontane. In questi lavori non c’è alcun disturbo dell’impressione generale da parte di piccole parti estranee alla proposizione dell’opera. La percezione del tutto non è distolta da alcun dettaglio marginale. Ogni contatto, ogni collegamento, ogni giunto è al servizio dell’idea di una unità formale e consolida la presenza pacata dell’opera. Ritenendo i processi artistici, volti al conseguimento di tale unità, quali tentativi di conferire alla forma una presenza equiparata a quella propria delle cose naturali, Zumthor si è dimostrato critico e scettico verso la rincorsa gratuita dell'impossibile, le facili emulazioni di moda sul mercato delle costruzioni, la velocizzazione delle informazioni, l’uso di tecnologie innovative. Ha compreso valori e limiti della tecnica e ne ha fatto tesoro culturale, interpretandoli in modo da opporsi al loro dominio, mediante il desiderio di materialità delle sue opere costruite o progettate. Solitamente egli mostra poche ma significative immagini nella descrizione dei propri progetti. I suoi disegni espongono un “segno” sintetico, secco, preciso, che li rende riconoscibili non per gli stratagemmi grafici quanto per la qualità architettonica che già vogliono esprimere. I plastici, al pari dei disegni, tendono allo stesso fine. Spesso sono utilizzati come strumento di verifica di situazioni reali quali la luce, le proporzioni, i materiali, e non solo a fini rappresentativi o concettuali. Tutto tende alla concretezza tanto quanto tali scelte espressive. I disegni esecutivi sono infine quelli che maggiormente lo coinvolgono, essendo precisi, esaustivi e obbiettivi. Il lavoro di Zumthor offre speranza a quanti interpretano l’architettura quale servizio, si direbbe sacerdozio, comunitario, modo di comunicare con gli altri e far comunicare gli altri, con la loro vita, il loro sentire, le loro passioni, e rammenta che non è nel numero delle opere realizzate né nel loro strategico dislocarsi, la reale qualità del lavoro dell’architetto. In tempi di crisi economica come la nostra, costruire bene ed infondere passione ed entusiasmo nel proprio mestiere, sono aspetti del tutto sottovalutati. La passione e l’attenzione (se non il rispetto) verso la natura, l’umano operare, mostrato nelle opere di Peter Zumthor fa riflettere su come si possano realizzare architetture straordinarie senza partire dal vizio originario che la genesi della forma fine a se stessa, come è anche nelle attuali elaborazioni progettuali determinate dal computer, sia l’unico ed il solo veicolo per una architettura complessa e, in quanto tale, valida.


L'ISOLA DELLE ROSE Una Micronazione Adriatica Giacinto Cerviere

Quando alla fine degli anni Sessanta i nuovi temi sul futuro della città e dell’architettura scuotevano in Italia le riviste, le università, perfino le Triennali, per allinearsi e cercare di superare le sperimentazioni utopistiche provenienti dai paesi iperurbanizzati e sovrappopolati del Primo Mondo, parallelamente a ciò che emerse dalle battaglie culturali di De Carlo oramai lontano dai CIAM e dall’attivismo eterodosso dei gruppi radicali fiorentini, si verificò un importante avvenimento al largo di Rimini, in Adriatico, a dodici chilometri dalla costa, che suscitò molta curiosità nell’opinione pubblica nazionale e di cui molto presto si smarrì il ricordo. Un anarchico ingegnere bolognese tuttora vivente, Giorgio Rosa, un tecnologo distante da tutti i circuiti artistici d’avanguardia dell’epoca, rese concreta applicazione di un’idea rivoluzionaria sorprendente quanto impossibile: costruire un’architettura non assoggettata alla giurisdizione italiana, appena in acque internazionali, che prese le fattezze di una vera e propria micro-nazione divenuta nota come L’Isola delle Rose. La sua indipendenza, seppure durò pochi giorni, simboleggiò il desiderio di una generazione di considerarsi di fatto libera di disegnare la propria idea del mondo, di sentirsi spiritualmente simile a quella singolare e acerba architettura post-territoriale sfuggita al controllo statale. L’Ingegnere Rosa già dal 1958 sperimentò in mare aperto un innovativo tipo di struttura galleggiante in acciaio tubolare che potesse resistere alla forza delle onde. Tramite la sua società SPIC (Società Sperimentale per Iniezioni di Cemento) iniziò le ispezioni dei fondali. Mise così a punto un brevetto che nel 1968 si materializzò con i lineamenti di una spartana piattaforma di calcestruzzo armato e acciaio di 20x20 metri, sospesa a otto metri dal livello marino, sostenuta da nove pali cavi di 630 millimetri conficcati per quaranta metri di profondità. Fu prevista un’elevazione di cinque piani, così da mettere in piedi anche un ristorante e un albergo, oltre che la lottizzazione di una parte del manufatto per consentire ad altri di aprire negozi, ma di impalcati ne saranno costruiti soltanto due di 400 metri quadrati ognuno. La perizia dell’ingegnere Giuseppe Lombi dichiarò che quella struttura avrebbe potuto sopportare fino a cinquanta piani. La piattaforma fu fissata in prossimità di Torre Pedrera dove l’ingenere Rosa trovò una falda di acqua dolce, più o meno dove oggi si situano le piattaforme metanifere dell’Agip, posizione ora riportata anche su Google Maps. Certo, L’Isola delle Rose sorse per creare non soltanto un’oasi artificiale in Adriatico, a due passi dalla riviera romagnola, dove il suo fondatore poeticamente desiderava “veder fiorire le rose sul mare”, come fece scrivere sul motto della “Repubblica esperantista de la Insulo de la Rozoj”, così da dimostrare le intenzioni pacifiche del nuovo Stato, ma anche nuove forme di commercio libero dalle imposizioni fiscali e dalla burocrazia. Un po’ tutti erano invogliati ad attraccarvi per acquistare souvenir e a bere qualcosa al bar, osservando le navi che viaggiavano anche a cinquanta metri di distanza da quel curioso luogo: dagli intellettuali locali ai playboy accorti; dai borghesi alla ricerca di emozioni forti ai turisti; dai consumatori di sigarette e alcolici a chi voleva rifornirsi di benzina senza versare accise all’Italia. Si racconta che perfino politici, magistrati e agenti segreti frequentassero l’Isola. Rosa tenne sempre a precisare che non cedette alle tante offerte indecenti che gli arrivarono, come quelle riguardanti l’installazione di basi spionistiche, radio pirate o night club. Il 24 giugno del ’68, un mese dopo che a Milano la protesta degli studenti e degli artisti devastò le installazioni alla XIV Triennale dedicata al Grande numero, risvegliati dai pensieri torpidi a cui li aveva appiattiti una cultura massificatrice internazionale che non lasciava nessuno spazio all’idea di autonomia territoriale e di isolamento spaziale dell’individuo, si tenne una conferenza stampa sull’Isola e si issò la bandiera del nuovo Stato. Presto venne aperto un ufficio postale e stampati finanche i francobolli che andarono immediatamente a ruba (si narra che perfino l’ambasciata americana a Parigi ne chiese degli esemplari e che tuttora la Regina d’Inghilterra ne collezioni un pezzo). Si adottò il sistema monetario Mills. Si scelse come lingua ufficiale l’Esperanto su consiglio del padre francescano riminese Albino Ciccanti. Giornali di mezzo mondo e gli italiani Il Messaggero e Panorama, ma anche i meno compassati rotocalchi Sorrisi e Canzoni ed Epoca, si interessarono all’insolito caso scoprendo che l’ingegner Rosa aveva fatto tutto sul serio dilapidandosi cento milioni di lire per quell’impresa “folle” e, soprattutto, seguendo le leggi vigenti. Qualche interrogazione parlamentare iniziò ad informare il Governo per porre


fine alla cosa. I Servizi gli misero sotto controllo il telefono. Il professor Angelo Sereni, docente di diritto internazionale alla Hopkins University di Baltimora, disse a Rosa che era possibile la nascita di una struttura non soggetta a dogana in acque internazionali, quindi di fatto di un nuovo Stato, ma a patto che le merci si importassero solamente. Facendo il contrario si sarebbe generato contrabbando. Non fu però dello stesso avviso il governo italiano. Il 25 giugno le motovedette della Guardia di finanza iniziarono così ad interrompere il già significativo flusso di traffico bloccando le imbarcazioni dirette sulla piattaforma. Seguì l’accerchiamento e l’assalto alla costruzione di Polizia e Carabinieri, che peraltro non usarono violenza e non contestarono agli abitanti reati, illeciti o violazioni, mentre la neonata autorità dell’Isola delle Rose mandava a Roma un ultimo appello al presidente della Repubblica Giuseppe Saragat affichè l’Italia cessasse l’invasione. La Capitaneria di porto di Rimini notificò così alla SPIC un ordine di demolizione dell’opera. La società presentò immediatamente ma senza successo un ricorso al Consiglio di Stato. Il 22 gennaio 1969 la Marina militare piazza 120 chili di esplosivo per far saltare in aria la repubblica indipendente. Il parallelepipedo corpo abitativo, retto benissimo dalla rigida struttura tubolare portante, si deforma ma non cede. Pochi giorni dopo una burrasca termina il lavoro di abbattimento. Un anno fa l’ingegnere Rosa dichiarò al Corriere di Romagna che a boicottare la sua creatura furono la Chiesa, la Democrazia Cristiana e anche i comunisti, concludendo amaro con una considerazione scioccante: “se avessi chiesto l’aiuto della Mafia o della Massoneria l’Isola delle Rose sarebbe ancora lì”. Certe architetture per la loro audacia hanno un destino ineluttabile: se l’Isola delle Rose non fosse scampata negli anni Sessanta alla soppressione statale italiana, voluta di fatto dal ministro dell’Interno Taviani, oggi non sarebbe sopravvissuta alla facile retorica demolitrice dei contemporanei movimenti ambientalisti, che nel migliore dei casi l’avrebbero con leggerezza liquidata come “bruttura” ideologica. Il suo brevetto consentì all’ingegnere bolognese di ottenere quanche piccolo successo professionale, come la progettazione di un trampolino per tuffi al largo della Tunisia e un albergo in Veneto. Il creatore dell’Atlantide degli esperantisti si occupò perfino di concepire seppure in embrione utopiche mega-opere di ingegneria come una enorme versione della sua prima piattaforma, su cui potessero atterrare anche gli aerei, o la creazione di una immensa diga in grado di abbassare le acque dell’Adriatico così da recuperare nuove terre coltivabili alla stregua di quanto fece prima di lui Herman Sörgel col progetto Atlantropa. Il mito e il ricordo di questa piccolissima nazione si è amplificato dopo quarant’anni dalla sua scomparsa e la caccia ai ritrovamenti dei resti si è fatta più intensa tanto che lo scorso luglio sono stati confermati rinvenimenti da un club subacqueo riminese che sta già organizzato visite guidate. L’Isola delle Rose è entrata a pieno titolo a far parte di una cultura della micro-utopia possibile, immortalata perfino in testi teatrali e documentari cinematografici come quello recentemente prodotto dalla casa riminese Cinematica. E’ stata oggetto nel 2008 di un’installazione al museo di Vancouver e ha ispirato un episodio del fumetto di fantascienza Martin Mistère oltre che, probabilmente, la verde isola galleggiante di Robert Smithson.


quar t adic ope r t i na


Vincenzo Vitiello

Grammatiche del pensiero Dalla kenosi dell'io alla logica della seconda persona Nella malattia – aveva scritto Proust, narrando, in Guermantes, la lenta morte della nonna – l’io ‘sente’ il suo proprio corpo estraneo, più che ostile. Come di rimbalzo Valéry annotava nel suo cahier: “Je pense, donc je ne suis pas”. Liberazione del pensiero dall’essere, o non, invece, incapacità dell’io di pensare se stesso, il suo essere proprio? A questa domanda Vitiello risponde mostrando il processo di progressiva implosione dell’io proprio in quele filosofie – da Hegel a Gentile, a Husserl – che hanno posto il soggetto al centro, quanto non a fondamento, dell’universo. Per sottrarsi alla tirannia dell’essere non ha dunque l’io altro destino che il nulla? Vitiello respinge questa conclusione, tracciando, in dialogo con Severino e Levinas, i primi lineamenti di una grammatica della seconda persona, in base alla quale l’io si volge a se stesso come a un “tu”, sì da vivere l’estraneità del corpo come familiare distanza, e l’irriducibilità del pensiero alle proprie categorie come possibile apertura al possibile di un pensiero capace di ridursi, sospendersi, esporsi al mistero, meraviglia e pericolo insieme, oltre ogni certezza e verità. Anche quella dell’”io tu a se stesso”.

Lo straniamento all’interno delle pareti domestiche ha una lunga storia. Sensazioni di sottile o di opprimente inquietudine direttamente innestate nel cuore della normalità quotidiana hanno accompagnato l’esperienza umana da sempre. Scrittori come E.T.A. Hffmann e Poe ne hanno fatto il tema di straordinari romanzi e racconti. Freud ne ha trattato dal punto di vista psicoanalitico. Antony Vilder, in questo libro pubblicato nel 1992 e divenuto da allora imprescindibile punto di riferimento per il dibattito critico e teorico, analizza gli effetti dell’azione del perturbante sull’architettura a partire dalla fine del Settecento, epoca in cui l’angoscia e lo spaesamento moderni hanno incominciato a divenire operanti. Ma è soprattutto ai nostri giorni che il perturbante non soltanto ha assunto il ruolo di fondamentale metafora di una generalizzata condizione d’invivibilità ma è entrato addirittura a far parte della strumentazione linguistica del progettista. Attraverso la raffinata lettura che Vidler ne compie, i progetti e le opere di alcuni tra i più noti architetti contemporanei – Peter Eisenman, Rem Koolhaas, Bernard Tschumi, John hejduk, Coop Himmelblau, Elisabeth Diller e Ricardo Scofidio – mostrano un volto del tutto diverso da quello disimpegnato e ottimistico che solitamente appare: deformazioni, smembramenti, rotture, ben più che brillanti invenzioni stilistiche, risultano essere lo specchio infranto in cui si riflettono, in modo più o meno consapevole, la perdita di radicamento e l’angoscia oggi dominanti nel mondo.

Dario Gentili

Topografie Politiche Spazio urbano, cittadinanza, confini in Walter Benjamine Jacques Derrida Quodlibet Studio

Guido Canella

Architetti italiani nel novecento

Anthony Vidler

Il perturbante dell'architettura Saggi sul disagio nell'età contemporanea

di trent'anni. Con i suoi studi Canella affianca e addirittura integra, pure nel nome di interpretazioni talvolta ideologiche, politiche insomma, tuttavia tanto libere quanto oggettive quelle dei più accreditati e mitizzati critici e storici di professione, attivi tra settima e ottava decade dell'altro secolo. E Canella si vuole ed è, per certo, architetto progettista, ma, nondimeno (da allievo di Ernesto Rogers), intellettuale versato nella riflessione critica alla quale applica uno sguardo non breve.

Grazie ai saperi dell'erudito e all'intelligenza dello storico che non teme di proporre inquadramenti di lunga gittata e quella del critico che bene intende significato e ruolo dei protagonisti dell'architettura italiana del Novecento e delle loro opere, Guido Canella, uno dei maestri della nostra cultura del progetto, attraverso queste pagine ricche di notazioni acute, capaci di cogliere il disegno complessivo e l'interazione fra circostanze specifiche di poetica, di stile e di luogo e intenzioni riferibili a tendenze generali, ai tempi della storia, consegna a colleghi, studenti non sviati dalla ricezione passiva di mode e stereotipi del divismo architettonico moderno, e lettori impegnati, un'attesa, ricca selezione dei suoi saggi più rappresentativi, scritti entro un arco

Uno dei leit-motiv nell’interpretazione della globalizzazione riguarda il superamento della topografia tipica del Moderno e delle forme politiche che la caratterizzano, in particolare lo Stat-nazione e i suoi confini. Questo lavoro risale alle origini di tale topografia, quando le determinazioni topografiche avevano una diretta corrispondenza con quelle politiche e una consistenza materiale: risale alla conformazione spaziale della cità antica e medioevale, ai suoi muri e alle sue porte. Segue, poi, passando per il cambio di paradigma spaziale che la concezione dello Stato di Bodin e Hobbes ha comportato, l’evolversi e il trasformarsi della topografia della città fino alla sua crisi e alla conformazione che assume oggi lo spazio urbano. E’, pertanto, sulla scorta di tale itinerario che s’intende pensare la soggettività politico-giuridica del Moderno e la sua crisi, quella soggettività definita a sua volta dal confine, dal dentro/fuori, come indicano le sue configurazioni più radicali, il sovrano e lo straniero, e il loro rapporto costitutivo con l’istituzione della cittadinanza. Sono walter Benjamin e Jacques Derrida a fornire le categorie filosofiche per interpretare la trasformazione della topografia del Moderno e le sue ripercussioni sulla definizione della soggettività e sulla determinazione spaziale del potere. In un confronto che evidenzia tanto le affinità che le differenze, le topografie politiche di Benjamin e Derrida sono inoltre messe in relazione con quelle di autori che si collocano, rispetto alla spazialità del Moderno, sia all’interno (Schmitt) sia al di fuori (Kafka, Deleuze), sia, come Benjamin e Derrida, sulla soglia (Nancy).


di r e t t o r e

a l b e r t oc u o mo c omi t a t os c i e nt i f i c o

f e l i c eb a i o n e r ob e r t oc o l l o v à a l b e r t oc u o mo ma r i od e l l ' a c q u a a n t o n i of . ma r i n i e l l o l ui g ip i c o n e gu i d or i a n o c l a u d i or o s e t i s e r g i os t e n t i ga b o rs z a n i s z l ò r e da z i o ne

gi o v a n n ib a r t o l o a n d r e ac a r b o n a r a gi a n l u i g if r e d a ga e t a n al a e z z a c a r mi n el oc o n t e


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