KAIROS
# 02 aprile 2016
RIFLESSIONI, PENSIERI “è questa sfortunata terra in cui occorre passare inosservati, che necessita di eroi.” Abbiamo la fortuna di poter ospitare sulle nostre pagine, con il suo assenso, qualche poesia o breve riflessione di Giovanna Mulas, scrittrice e poetessa più volte candidata al premio Nobel per la letteratura. Sappiamo degli apprezzamenti e dei riconoscimenti che Giovanna ha già ricevuto in ambiti accademici e culturali. Quello che veramente ce la fa amare, però, è la sua capacità di trasmettere con la parola, e che parola, la profonda passione femminile delle terre del Mediterraneo. Il calore, la forza, la vita, così moderni e così antichi.
Amo entrare nelle antiche chiese quando la messa è finita, e le persone fluite come sgorga acqua dalla roccia sicura,migrate tutte, o quasi, in quell’ulteriore rifugio che è, o dovrebbe essere, la propria casa; per giungerci il ponte da valicare, come la Vita stessa, è questa sfortunata terra in cui occorre passare inosservati, che necessita di eroi, che non sa riconoscere i padroni, ne’ i servi. Amo le chiese che sfidano il cielo, che lo toccano, e ancora più amo le chiese povere, raccolte, odorose di lacrime amare ed incenso, di fiori marciti. Le amo nei momenti in cui sono vuote e taciturne, ne divento amante prIvilegiata: serro il portone legnoso -
Giovanna Mulas
se posso - mentre all’esterno continua, confuso, il circo del mondo. Io leggo, ozio guardandomi attorno, sfoglio due pagine e chiudo tra l’indice ed il pollice della mano destra, il muso si alza e ritorna bambino: già filtro un poco il semibuio spezzato, in tratti non casuali, dai simboli e i vetri, i ceri nell’altare, le nicchie, dallo scivolare del vento soltanto laddove si è voluto che frangesse la quiete di un’anima, questa costante ricerca di risveglio mentre il Tutto, appena a un passo dal portone, continua a dormire. Giovanna Mulas (da ‘Riflessioni, Pensieri’)
1
“NI UNA MÁS”
Ipazia D. # 02 marzo 2016
La storia che vorremmo cambiare
Questa è una storia che non vorrei raccontare e che nessuno vorrebbe ascoltare. Una storia recente ed oscura, diventata simbolica nella ferocia cruda ed estrema che la connota, della violazione dei diritti minimi di tutela della dignità umana. Questa è la storia di Marcela che lavorava nelle maquiladoras, di Marisol che ha provato a denunciare l’orrore. Ed ancora di Lilia Alejandra, Guadalupe, Angelica, che questa storia non potranno mai raccontarcela. E’ anche una storia di povertà, di migrazioni, di droga, ma è, soprattutto, una storia di violenza di genere: di femminicidio. Questa storia comincia a Ciudad Juárez e, se l’inferno potesse essere associato ad un luogo avrebbe certamente casa qui, nello Stato del Chihuaua (Messico), in questa città soleggiata, brulicante frontiera verso gli Stati Uniti, al confine, tra le rive del Rio Grande e del Rio Bravo. Uno di quei luoghi che ci riporta alla memoria le cavalcate dei film western, montagne brulle che si fondono all’azzurro del cielo, gli sceriffi, le carovane, le corse all’oro. La fantasia si ferma davanti alla realtà che ne fa, invece, uno dei posti più pericolosi al mondo, crocevia di traffici umani e di droga. Luogo di demarcazione e passaggio. Frontiera della violenza più sanguinaria. A Ciudad Juárez vige la legge della prevaricazione: la legge del più forte, che tutto può e tutto compra, anche l’impunità. I più forti qui sono le multinazionali, vista l’enorme concentrazione di fabbriche di assemblaggio nelle quali l’80% della manodopera è composta da giovani donne provenienti dall’intero paese, p o v e r e , m a l q u a l i fi c a t e e p a g a t e miseramente ed i “signori” della droga, che gestiscono un giro miliardario di traffico di cocaina, circa 300 tonnellate che ogni anno penetrano, attraverso questo passaggio, dalla Colombia agli Stati Uniti. Interessi economici e guerre di narcotraffico, affari e connivenza tra autorità locali e bande criminali, in mezzo
2
ai quali finiscono stritolati sogni e speranze di migliaia di migranti latini che qui cercano accoglienza, lavoro ed il “passaggio” verso una vita migliore. Ma c’è di più, e di peggio. Juárez è considerata per tutti “la città che uccide le donne”. Ogni giorno qui scompaiono 1,5 donne, praticamente tre ogni due giorni. Giovani ragazze, tante, anche bambine, rapite e sequestrate, in molti casi “desaparecidas” o rinvenute cadaveri nei campi e nelle discariche che circondano l’agglomerato urbano. Cadaveri orrendamente mutilati, con evidenti segni di torture e violenze sessuali. Manichini nudi e martirizzati. Omicidi efferati che perdurano da oltre 20 anni nell’indifferenza generale e nella acquiescenza sociale, rimasti impuniti quasi totalmente, di cui ancora non si svelano le origini, collegati a diverse ed agghiaccianti ipotesi di movente quali riti satanici, commercio di organi, snuff movies (video amatoriali che riprendono torture culminanti con la morte della ‘protagonista’). Sacrifici umani in nome di un non identificato profitto. Rituali macabri di cui le donne, ed il loro corpo, diventano interpreti obbligate e protagoniste involontarie. Ossessioni di una cultura maschilista che qui, più che altrove, odia le donne. “Ni una muerta más!” è il grido di dolore delle madri, che urlano la loro pena, il diritto alla giustizia e alla vita di queste figlie violate, calpestate, offese. “Non una di più” scrivono sui cartelli che espongono per le piazze, ad attirare attenzione oltre i confini dell’inferno. E sono le donne ad alzare la voce, sole e disperate, ma coraggiose come solo le donne sanno essere, impavide nella volontà di cambiare la storia, nel denunciare crimini e responsabilità. Come Susana Chávez, la poetessa che ha coniato lo slogan; un’attivista dei diritti umani che ha dedicato la sua giovane vita a battersi contro questa cultura di morte e di prevaricazione, ed il cui corpo seminudo è stato rinvenuto una sera per la strada, un sacco di plastica nera sulla testa, una mano mozzata: senza vita,
senza voce. E senza più poesia. Come Maria Elisabeth, che a Juárez faceva la giornalista e non ha potuto tacere di denunciare traffici illeciti e corruzione delle autorità locali. Capelli lunghi e sorriso dolcissimo, Marisol, come la chiamavano, l’hanno decapitata in una sera di settembre del 2011. Ancora una volta come monito a quante provano a sfidare lo status quo. Questa è dunque anche una storia di resistenza. E da Juárez si sposta ovunque una donna viene uccisa per mano di un uomo, o per degenerazione collettiva; ovunque il potere maschile usato come forma di controllo, culmina con l’abuso e la sottomissione del genere femminile; ogni volta che c’è un progetto misogino tacitamente favorito da una società complice, stupri commessi come armi di offesa, spose bambine, lapidazioni senza processi. Perché la misoginia non ha confini: è un linguaggio di potere, il più antico, e, come tale esportabile, trasversale a tutti gli ambiti sociali, culturali, religiosi. Ed è per questo che la lotta contro la violenza sulle donne deve essere globale, condivisa: deve partire da Juárez, dal Messico, e deve passare per la Nigeria, l’Afganistan, la Cina fino ad arrivare a Colonia o Roma. Io non voglio dimenticare Susana, Marisol e tutte le donne tolte a quella vita che il loro grembo genera, il loro sacrificio. E voglio onorare ogni giorno non il loro coraggio, ma la loro paura. Sentirmela addosso, come una preghiera. Perché la paura, più che il coraggio connota gli eroi: quelli che nonostante la consapevolezza del pericolo a cui si espongono non esitano ad abbracciare la propria croce. Nella bara di Susana, sono stati posati i versi di una sua poesia. Adesso nostra. “Sangue mio, di alba, di luna tagliata a metà, del silenzio. Sangue chiaro e nitido, fertile e seme. Sangue che si muove incomprensibile, sangue liberazione di se stesso. Sangue fiume dei miei canti, mare dei miei abissi. Sangue istante nel quale nasco sofferente. Nutrita dalla mia ultima presenza.” Che la terrai ti sia lieve.
La redazione Dopo il rituale propiziatorio nel Tempio con mia sorella Ippolita, l’altra regina delle Amazzoni, eravamo pronte per la battaglia con Teseo. Sarebbe stata dura, lo sapevamo, ne andava della nostra stessa esistenza di femmine libere e con esse della dignità di Madre Terra. Correvamo sui nostri magnifici destrieri verso Atene e… non so cosa sia successo ma mi sono ritrovata in questo strano luogo, con odori sconosciuti, con oggetti ignoti, in compagnia di altri più spaesati di me.
Le nostre lingue diverse non consentivano di capirci, di superare lo sbigottimento. L’unica altra donna lì presente mi dava l’impressione di una compagna amazzone, seppure raffinata, con un alone di conoscenze e saggezza, ma anche lei apparteneva a tempi e luoghi diversi dai miei. Ho capito che venivo da tempi più antichi, perché lei conosceva la mia lingua mentre io non comprendevo la sua. Mi ha riconosciuta e, meravigliata, mi ha raccontato strane storie che girano, nel suo tempo, su di me.
Che sarei morta sul campo di battaglia e sarei stata seppellita vicino al Tempio di Madre Terra oppure che sarei stata presa da Teseo e costretta ad essere la sua concubina. Figurarsi questo è difficilissimo, so che mi sarei data la morte. Poi mi ha detto che anche a lei era successa questa stranissima cosa di ritrovarsi, all’improvviso, da un’altra parte mentre, sul terrazzo della sua casa di Alessandria d’Egitto, tracciava la linea della terra, la sua traiettoria intorno al Sole, un’ellisse. Aveva impiegato anni di studio
Antiope sui papiri della Biblioteca e di osservazione degli astri per comprendere. Lo sapevo che era colta, me ne ero accorta subito. Intanto ci stava ascoltando, come se ci capisse, un tipo serio, con la faccia da guerriero ed un sorriso stanco da combattente sconfitto. Lo sguardo intelligente, fiero, di chi sa che, pur avendo perduto la sua battaglia, aveva combattuto per la Libertà e la Giustizia. Portava con sé il colore tufaceo della sua terra, che in qualche modo ho riconosciuto. Il suo idioma aveva delle assonanze con la mia lingua e con quella di Ipàzia. Ci ha fatto intendere che era nel pieno di una battaglia quando si è ritrovato qui.
C’era poi un tipo strano, bruno; sembrava un vagabondo, un aedo d’altri tempi ed altri luoghi. La sua era una lingua musicale, bella, piena di suoni e colori di altri popoli. Ci ha descritto a gesti che anche a lui era capitata quella strana cosa mentre era su un sentiero in una foresta umida, intricata e stava andando in un villaggio magico, Macondo, ripeteva, Macondo. E poi Rio delle Amazzoni, Rio delle Amazzoni. Mi chiedo se non sia un po’ matto, noi non abbiamo mai dato il nostro nome a nessun rio, non abbiamo diritto sulle cose di nostra Madre Terra.
Non me ne ero accorta, ma ci guardava con un sorrisino ironico e leggermente sprezzante, un signore vestito in maniera stranissima, irrigidito dentro degli indumenti che non si capisce se siano da battaglia o da divertimento, con in testa un oggetto che non è un elmo: a che servirà
mai? Mr. George Lusk, dice e lo zingaro Melquìades fa una faccia allarmata, ci guarda e sbotta: la perfida Albione, lo sapevo, anche qui la perfida Albione. Mr. Lusk non si scompone, prende una cosa che somiglia ad una piccola pergamena e traccia dei segni: 1888, Londra, come se per tutti noi fosse ovvio e chiaro quello che volesse intendere.
In un angolo della stanza intravedo poi un ragazzo magrissimo, con il volto segnato da una precoce consapevolezza della vacuità delle cose, ma negli occhi un lampo di ironia e divertimento. Ci osservava tutti dall’inizio ed ora viene avanti. Sono il giovane Holden, dice rivolto a Mr. Lusk. Ero a New York, cercavo mia sorella Phoebe, le avevo dato appuntamento al Museo di Storia Naturale e mi sono ritrovato qui.
Mr. Lusk ed il giovane Holden si comprendono, parlano la stessa lingua, per noi, più antichi, completamente estranea; pare che sia la lingua usata dalla maggior parte degli abitanti di questo continuum: schematica, semplificata, efficiente. Il suono non è sgradevole, ma il tono con cui viene usata dà la sensazione della lingua del comando. Non ho sentito altri linguaggi qui: l’eccessiva povertà di idiomi di questo mondo denuncia la povertà dell’animo dei tempi, secondo me.
Sognano poco qui, sorridono poco.
Spero di tornare tra le mie compagne quanto prima, la battaglia con Teseo va assolutamente vinta. Qui ho intravisto cosa significherebbe per Madre Terra una nostra sconfitta.
3
Usciamo dal petrolitico!
Segni dei tempi e segno del Tempo “Bisogna discernere i segni dei tempi” ci dicono da pulpiti religiosi e laici, ci dice (ci impone) il baraccone massmediatico di fronte ai cambiamenti sempre più veloci, sempre più violenti, del nostro vivere quotidiano.
Ma cosa sono, esattamente, questi segni? Sono univoci o sono tutti diversi fra loro?
Segni dei tempi che corrono sono le conquiste democratiche dei Paesi del Sudest asiatico, per troppi anni ridotti nell'immaginario collettivo a semplici paradisi esotici. Segni ulteriormente positivi possono essere le conquiste in campo tecnologico del MIT di Boston, che accelerano la ricerca per la cura delle malattie più spaventose del nostro secolo.
Ma segni dell'epoca sono anche i naufragi dei migranti sulle coste della classicità greca, fallimento eclatante dell'Europa dei diritti e accusa fatta carne agli egoismi di Turchia e Arabia Saudita. Simbolo di questo momento storico è anche l'omicidio a un festino omosessuale a base di droga, stupro e immoralità nella Roma un tempo cristiana, compiuto “per vedere che effetto fa”.
4
Tutti segni, di uguale potenza ma contrario effetto, che mostrano un'epoca febbrile, che non sa neppure essa cosa voglia essere: sviluppo o immoralità, vita o morte, assoluta libertà o licenza assoluta di uccidere. Ma chi li deve interpretare, poi, 'sti segni? La massaia che vive nel bozzolo caldo e stretto della propria cittadina di provincia, o il magnate della Silcon Valley che riceve 50 mail al giorno da ogni punto del Globo? E a chi deve comunicarli?
La verità è che di segni ce ne sono moltissimi, molti li sanno capire, ma nessuno riesce a spiegarli univocamente, perché c'è sempre un parere diverso, una lettura ulteriore, una prospettiva che dissente. Solo su una cosa sono tutti d'accordo, dallo spazzino che alle 6 di mattina pulisce le strade ancora deserte alla modella delle sfilate milanesi con 1 centimetro di trucco sul volto: il segno del Tempo sui corpi, sulle
LANDONE II
cose, sulle anime. Il Tempo, quello vero, scorre, e nessuno lo può fermare: perfino i Greci, che pure davano agli dei poteri che neanche Superman, affermavano che lo stesso Zeus non poteva fermare lo scorrere continuo dei secondi.
E' questa la differenza, che tutti discerniamo stavolta, fra equivoci segni dei tempi e univoco segno del Tempo. I primi sono soggettivi, perché toccano l'esterno della realtà. Il secondo è oggettivo e universale, perché tocca l'intima realtà di ognuno di noi, di ogni cosa che ci circonda. Davanti a un omicidio sadico, dire che esso sia simbolo della nostra epoca decadente è opinabile, ed è un'opinione che troverà sostenitori e denigratori. Ma davanti a una ruga, o a un capello argenteo, tutti saranno d'accordo nel dire che il tempo sta passando, e un pezzo di vita se n'è andato per sempre.
Tutti, eccetto i poeti. Ma questi sono giustificati: non vivono nel Tempo, ma durano per sempre.
Sofia va alla guerra Sofia Gatica, e le altre donne - le Madri di Ituzaingò - che l'hanno poi affiancata, sono riuscite nel tempo a ricostruire la mappa delle ricadute drammatiche dell'uso dei pesticidi irrorati nei campi di soia transgenica che si estendono non lontano dal loro centro abitato.
Sofia non si è arresa alla diagnosi per la morte della sua bambina avvenuta a tre giorni dalla nascita: grave difetto congenito. Caparbiamente ne ha voluto indagare le cause, andando casa per casa, domandando, raccogliendo dati.
Siamo in Argentina nel 2001 ed è un decennio che seguendo le disposizioni del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale si è dato corso alle coltivazioni intensive gestite dalle multinazionali dell' agro-chimica; Monsanto in testa. Coltivazioni, per lo più di sementi OGM, che prevedono un largo uso di pesticidi ed erbicidi come il Roundup contenente Glifosato (nel 2008 uno studio ha rivelato che anche a basse concentrazioni può provocare la morte delle cellule embrionali e placentari) e l'Endosulfan, un pesticida altamente tossico.
Comincia così la sfida di Sofia alla Monsanto. A chi le ha avvelenato la terra, la comunità, la vita.
Tassi tumorali del 40% superiori alla media nazionale, mortalità infantile alle stelle, malformazioni. Una guerra. Chimica.
Una guerra che Monsanto ha già combattuto. In Vietnam lungo tutti gli anni '60 l'esercito degli Stati Uniti fa largo uso dell'Agente Orange (Napalm), un defoliante, tossico per l'uomo - prodotto anche dalla Monsanto - per stanare dalla foresta i guerriglieri Vietcong che lo tengono in scacco. Ad oggi, centinaia di migliaia tra veterani dell'esercito statunitense, di quello vietnamita ed i discendenti di entrambe le parti ancora ne patiscono gli effetti.
Monsanto afferma che i suoi prodotti sono rispettosi dell'ambiente, le sue tecnologie mirate a ridurre la fame nel mondo ed a prevenire le crisi prossime venture (aumento demografico, cambiamento climatico) che andranno ad impattare sulla produzione agricola .
Monsanto si è spesa, e si spende, molto per negare gli insuccessi delle sue sementi geneticamente modificate: nessun
Holden Caulfield significativo aumento delle rese dei raccolti, aumento dell’uso di erbicidi e pesticidi per contrastare le resistenze sviluppate da infestanti e parassiti.
Gli effetti nefasti di questa agricoltura industrializzata e chimica sono evidenti nell’attacco alla biodiversità, nella predazione dei mezzi di sussistenza dei piccoli agricoltori, della loro stessa vita: si pensi all’escalation dei suicidi tra gli agricoltori indiani dovuto all’indebitamento causato dal dover riacquistare le sementi per ogni raccolto, maggiori quantità di Roundup ed un progressivo calo delle rese.
Dell’impatto sulla salute dei contadini, degli abitanti delle zone di produzione e dell’ambiente in genere ci raccontano le lotte delle comunità locali del sud globale, soprattutto, che con determinazione e coraggio sfidano il potere di una delle multinazionali più potenti.
Sofia Gatica è attualmente impegnata a contrastare l’insediamento del più grande impianto di trattamento delle sementi di mais al mondo che la Monsanto ha progettato di costruire a Malvinas Argentinas.
Proprio a casa di Sofia.
5
MARMO A Foggia, città dove per anni ho lavorato, studiato e dove, forse, ho anche vissuto, in una stradina nelle vicinanze della facoltà di Lettere c’è una stele.
In quel punto c’era un carcere e in quel carcere fu brevemente rinchiuso Antonio Gramsci prima di essere trasferito in quello di Turi.Sono passato spesso da quelle parti, andavo a studiare dopo il lavoro, a volte nonostante il lavoro. L’ho osservata diverse volte quella stele; ci ho riflettuto.
Turi, Foggia, terre tra le più disperate d’Italia al quel tempo. Patria di emigrazioni transoceaniche fino agli anni ’50 e di trasferimenti di massa al nord negli anni del boom industriale. Gramsci conosceva bene quelle terre. Studiosi con letture più sagge e complete delle mie ci confortano su quanto le conoscesse.
Gramsci poi conosceva bene la Sardegna, primo sud del nord, e così Gramsci parlò del sud. Gigi Di Fiore cita Gramsci in libri ed altri interventi, parla di brigantaggio e risorgimento ed io vado a rileggermi un brevissimo scritto
6
Ninco Nanco del nostro, riportato su “La questione meridionale” e scritto per il “Il grido del popolo” (1 Aprile 1916). Tratta di mezzogiorno e guerra. Mi sforzo di reincasellare le mie conoscenze scolastiche e soprattutto non scolastiche su Gramsci.
Ripercorro le polemiche sullo “Spirito” di Croce, l’affermazione della concezione dialettica della storia, il valore della prassi e l’enorme lavoro di sottolineatura della sovrastruttura culturale così facilmente liquidata anche dai marxisti ortodossi. Gramsci non accetta schemi, idealisti o positivisti che siano, la prassi è regina come e più della teoria. Gramsci conosce il potere della cultura ed il valore dell’uomo, ed anche il suo disvalore.
E così rileggo. Fatelo anche voi.
Rileggete questo testo, rileggete anche gli scritti sul risorgimento. Riflettiamoci su, perché quanto ne ricaviamo è illuminante.
Ma eccolo, il dubbio. Gramsci, come chiunque, poggiava le sue riflessioni su un pezzo, per quanto grande, di realtà e storia, quello che conosceva.
E sulle differenze tra nord e sud aveva un quadro preciso, ma se potessi gli chiederei di spingere, alla luce di tanti dati economici e storici ora e non allora disponibili, trama paradossale del tempo, ancora di più la sua riflessione su alcuni pensieri:
Quanto l’Italia fu il risultato non eccelso anche di un imperialismo ‘di sinistra’?
Quanto l’originale programma cavouriano pesa ancora sulle condizioni socio-economiche del sud?
Quanto invece agevolò lo sviluppo industriale della Regione Lombardia l’appartenenza all’impero centrale e la vicinanza ai mercati nord europei, in una parola la sua accezione meno italiana?
Rifletto sull’attualità di questi quesiti e su quanto possano spiegare l’Italia di oggi; e ricordo: ”Il Mezzogiorno non ha bisogno di leggi speciali e di trattamenti speciali.
Ha bisogno di una politica generale, estera ed interna, che sia ispirata al rispetto dei bisogni generali del paese, e non di particolari tendenze politiche o regionali”.
Cent’anni! e sembra scritto oggi!
STATI DI ALTERAZIONE SENSORIALI PERMANENTI
MELQUÌADES
OVVERO: TU CHIAMALE SE VUOI….EVASIONI!
Ogni giorno danno notizia di ingenti quantitativi di sequestri di droga da parte delle Forze di Polizia. Si parla di sequestri di tonnellate di “sostanze stupefacenti”: cocaina, hashish, marijuana, pasticche, eroina, di tutto di più. Un vero e fornito supermercato delle emozioni, in grado di soddisfare qualsiasi gusto e sballo. Si può presumere che il quantitativo intercettato e sequestrato sia solo una minima parte di quello che viene smerciato capillarmente e anche quotidianamente sul territorio nazionale, dalle Alpi agli Appennini, coast to coast, isole comprese. Le organizzazioni criminali stanno applicando tutte le regole del marketing con un drugstore aperto h24, manca solo il 3x2, con consegna a domicilio negli studi di molti professionisti convenzionati (come si evince dalle agende sequestrate agli spacciatori). Per gli altri esiste un commercio al minuto, la spicciolata, la folla che si accalca nei punti vendita nei posti prestabiliti organizzati in vari punti della città, il passaparola funziona benissimo. Gira un fiume di “roba” e vagonate di soldi.Un affare che fa gola ed è appetibile ed i morti ammazzati sono all’ordine del giorno, perché in questo settore florido della nostra economia la concorrenza si elimina fisicamente. Le Opa per l’accaparramento delle piazze e dei traffici si esercitano a colpi di pistola e mitra. In questo scenario inquietante in
cui si muovono e operano le bande organizzate di trafficanti e spacciatori il problema vero e drammatico è il consumo eccessivo, esagerato, smodato da parte di una “clientela” di massa. Una clientela obnubilata, alterata nel suo rapporto con la realtà. Una realtà dalla quale si cerca di fuggire, perché dolorosa, crudele, lontana dalle aspettative, difficile da cambiare, da migliorare. Un senso di vuoto, di precarietà che non si riesce a colmare; più comodo costruirsene una propria attraverso uno stato di “alterazione permanente”. E ci vuole poco: basta alzare il telefono ed ordinare e la roba sarà subito consegnata a domicilio, oppure scendere di casa andare al “drugstore” dietro l’angolo e scegliere tra il vasto assortimento chimico. La chimica offre tanto e procura ogni tipo di sballo: hashish e marijuana impastati e mischiati con ammoniaca, paraffina e altri additivi chimici per uno sballo veloce e assicurato, cocaina tagliata con amfetamine, polvere di marmo, e nel migliore dei casi con bicarbonato, eroina (di nuovo in gran spolvero), ecstasy, cobret e le nuove droghe sintetiche che stanno avendo un boom tra i giovani, quali: yaba, shabu, popper, ketamina, speed, superpill. Ed altre da nomi inquietanti: cannibale, stupro, pazzia. Insomma di tutto di più e sempre peggio. Il livello di dissociazione sociale e individuale ormai ha raggiunto livelli allarmanti. Sostanze stupefacenti scorrono a fiumi
negli stadi, nelle discoteche, nel parlamento, nelle sale operatorie, nei tribunali, nelle scuole: nessuno luogo pubblico è escluso da questo consumo. Tutti hanno bisogno di evasione, indistintamente. La trasversalità sociale è stata raggiunta in questo settore. Questo supermercato allucinante genera u n a v i o l e n z a d u p l i c e c o n e ff e t t i devastanti sulla vita di noi tutti; i morti quotidiani sparati, bruciati per le strade stanno ad indicare la feroce guerra tra bande per il controllo delle piazze di spaccio e del traffico. La violenza spicciola di una micro delinquenza che ha trasformato le nostre città in un terreno di caccia per procurarsi soldi attraverso rapine, furti, scassi, che sparano con facilità come se stessero davanti ad un video gioco. Le famiglie dei clan camorristici nei loro lauti banchetti domenicali, e non solo, portano in tavola morte e sangue, cibandosi di cadaveri, di quelli a cui sparano o rendono tali per overdose. E, troppi partecipano con il loro contributo economico ad imbandire queste macabre tavolate.
KAIROS web La parola che si sposa con il Tempo rivista periodica di cultura
numero 02 Aprile 2016
In attesa di registrazione Tribunale di Napoli
Direttore Responsabile: Gabriele Gesso
Editore: P.S.
Stampato in proprio
contatti: info@kairos-web.it WEB: www.kairos-web.it Facebook. Kairos-web
7
7 buone ragioni per votare SI:
1 Il tempo delle fonti fossili è scaduto: in Italia il nostro Governo deve investire da subito su un modello energetico pulito, rinnovabile, distribuito e democratico, già affermato nei Paesi più avanzati del nostro Pianeta. 2 Le ricerche di petrolio e gas mettono a rischio i nostri mari e non danno alcun beneficio durevole al Paese. Tutte le riserve di petrolio presenti nel mare italiano basterebbero a coprire solo 7 settimane di fabbisogno energetico, e quelle di gas appena 6 mesi. 3 L’estrazione di idrocarburi è un’attività inquinante, con un impatto rilevante sull’ambiente e sull’ecosistema marino. Anche le fasi di ricerca che utilizzano la
8
tecnica dell’airgun (esplosioni di aria compressa), hanno effetti devastanti per l’habitat e la fauna marina.
pesca, produzioni alimentari di qualità, biodiversità, innovazione industriale ed energie alternative.
4 In un sistema chiuso come il mar Mediterraneo un eventuale incidente sarebbe disastroso e l’intervento umano pressoché inutile. Lo conferma l’incidente del 2010 avvenuto nel Golfo del Messico alla piattaforma Deepwater Horizon che ha provocato il più grave inquinamento da petrolio mai registrato nelle acque degli Stati Uniti.
6 Oggi l’Italia produce più del 40% della sua energia da fonti rinnovabili, con 60mila addetti tra diretti e indiretti, e una ricaduta economica di 6 miliardi di euro.
5 Trivellare il nostro mare è un affare per i soli petrolieri, che in Italia trovano le condizioni economiche tra le più vantaggiose al mondo. Il “petrolio” degli italiani è ben altro: bellezza, turismo,
7 Alla Conferenza ONU sul Clima tenutasi a Parigi lo scorso dicembre, l’Italia - insieme con altri 194 paesi - ha sottoscritto uno storico impegno a contenere la febbre della Terra entro 1,5 gradi centigradi, perseguendo con chiarezza e decisione l’abbandono dell’utilizzo delle fonti fossili. Fermare le trivelle vuol dire essere coerenti con questo impegno.