TRAKS MAGAZINE #15

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Numero 15 - luglio 2018

Joan Thiele volevo essere Jimmy Page

MaĂŤlys RadioLondra Minor Swing Quintet

Carmine Tundo Alisia Jalsy Andrea Labanca


sommario

Dutty Beagle 4 Joan Thiele I Fiori di Mandy 8 Maëlys Alèxein Mègas 12 Carmine Tundo Dentone & Ghezzani 16 RadioLondra Fabio Cuomo 20 Alisia Jalsy Bluvertigo 24 Minor Swing Quintet 28 Andrea Labanca 30 Chris Agnoletto 32 Ellen River 36 Fabio Curto 40 Le Hen 44 Giorgio Stammati 48 Enjoy the Void Questa non è una testata giornalistica poiché viene aggiornata senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n. 62/2001. Qualora l’uso di un’immagine violasse diritti d’autore, lo si comunichi a info@musictraks.com e provvederemo alla rimozione immediata

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JOAN THIELE volevo essere Jimmy Page

Scelte inaspettate e altre probabilitĂ di canzoni in italiano per la cantautrice italo-colombiana, forte di un disco, “Tangoâ€?, scritto proprio mentre ripercorreva le proprie forti radici sudamericane


Vestito arancione, sorriso e un po’ di curiosità negli occhi: Joan Thiele si muove con grazia negli uffici Universal di Milano. La ragazza italo-colombiana è qui per presentare alla stampa il suo nuovo Tango, un ballo molto pop ed estremamente colorato, ma anche con strati multipli che prendono origine dalle radici di Joan. “C’è un riferimento alle mie origini sudamericane, ma per me rappresenta il fatto di toccarsi, emozionarsi, arrivare alle persone. Tango è nato due anni fa in Colombia, ad Armenia, vicino a Bogotà, dove vive mio padre con suo fratello gemello. E’ stato un viaggio molto forte per me. Sono partita e sono andata a trovarli in un periodo difficile, in cui mio padre stava molto male. Il viaggio mi ha portato ad affrontare le mie paure e la mia vita in quel momento. E’ stato molto bello e importante, perché a un certo punto mi sono completamente liberata e sono nate le canzoni. Sono riuscita a esprimere tutto quello che avevo dentro, quindi piano piano canzoni e suoni hanno preso forma. E’ stato


molto importante avere questa duplicità nella mia vita e nel disco: la Colombia, la natura ma anche la parte più elettronica che rappresenta la mia casa, la mia parte più europea, la mia mamma. Per me si tratta di un disco importante perché mi sento molto cresciuta a livello personale di esperienza e di vita. A prescindere dalla musica, che poi il disco piaccia o meno. Scriverai mai in italiano? Probabilmente scriverò in italiano: la lingua non dev’essere limite. Non dovrei dire: “Voglio scrivere soltanto in inglese”. Ho fatto que-

sto pezzo in spagnolo (Azul, ndr) proprio perché volevo far emergere di più il tango. Vorrei che fosse la comunicazione ad arrivare, piuttosto che il limite della lingua, che poi non è un limite perché la nostra è una lingua stupenda. Il giorno che scriverò in italiano sarò molto felice. Ma non la vivo come una pressione, cioè che devo iniziare a cantare in italiano per forza. E uno dei modelli potrebbe essere Calcutta... Stimo molto Calcutta, così come mi piace molto come scrive Colapesce, ci sono diversi artisti italiani che reputo molto validi nella scrittura e che hanno creato uno stile e hanno dato vita a un proprio movimento. Hai dichia6


rato che se potessi scegliere qualcuno con cui collaborare penseresti a Robert Plant Sì! Oppure Paul McCartney... Ho iniziato mitizzando i Led Zeppelin. Io non avevo particolari riferimenti, i miei genitori non sono mai stati appassionati di musica tanto da inculcarmi qualcosa. Però la mia vicina si casa, che era anche la mia baby sitter, che ascoltava i Led Zeppelin tutti i giorni, io avevo 11 anni e ho iniziato ad assorbirli. Poi già strimpellavo un po’ la chitarra e suonavo cose minori o anni Novanta, e volevo diventare Jimmy Page! Poi i miei ascolti sono cambiati tantissimo. Tanto che a volte mi chiedo: “Ma mi piace quello che faccio?” Ci sono cose che ti escono nonostante i tuoi ascolti siano diversi. Quindi non è più una questione di genere, ma piuttosto: sto raccontando qualcosa e a me viene fuori in questo modo qua. “Vestito” e produzione sono un’altra cosa. Ma io in definitiva non posso

essere i Led Zeppelin, o qualche altro cantante che stimo e amo. Devo trovare quello che sono io. A volte combatti con i “mostri” interni, ti dici: “Questa canzone è troppo pop”, ma poi capisci che devi accettare che ci sia la canzone più pop, quella con più chitarra, con meno parole. Devi accettare te stesso e lavorare per migliorare.

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“Mélange” è il primo album u che racconta dei suoi bra il beatmaker italia

Qual è la tua storia fin qui e come hai incontrato Claudio La Rocca? Ho sempre cantato, non ho un ricordo di me in cui io non canti.

Al liceo mi sono imbattuta in due musicisti singolari, Stefano De Vivo e Vincenzo Guerra e li ho sempre seguiti nel loro percorso di 8


sono incappata in Claudio (che fa parte anche dei Think About It), o meglio, è lui a essere incappato in me! Ero in prima fila e conoscevo già tutte le parole di un disco pubblicato quel giorno. Chiese di me e i ragazzi gli fecero vedere alcuni brani di me che cantavo molto intimamente al piano di casa mia. Il giorno dopo mi scrisse per collaborare e da quel momento mi ha introdotta in un mondo, quello dell’elettronica, nuovo e affascinante. I due galeotti di cui parlavo prima sono ovviamente parte essenziale del mio progetto oggi: Stefano De Vivo è alla chitarra e ha composto con Claudio i brani, Vincenzo Guerra è il mio (paziente) produttore artistico. Come nascono le canzoni che sono finite su disco? Nel cassetto da tempo oppure accumulate in fretta prima dell’uscita del disco? Sono nate davvero per caso, non esisteva nemmeno l’idea di fare un disco. Io e Claudio passavamo giorni in studio a buttare giù idee e nel giro di tre ore avevamo già

MAËLYS il tempo adatto

ufficiale della giovane cantante pugliese, ani e dell’incontro con il suo produttore, ano Claudio La Rocca, in arte Sup Nasa

musicisti, la prima fan di un loro progetto hip hop/nu soul, i Think About It. È stata alla presentazione del loro secondo disco che 9


scritto due pezzi. È stato davvero un flusso di coscienza e ho trovato straordinario come alle volte sapeva realizzare qualcosa che avevo in mente senza che lo esprimessi poi cosi tanto chiaramente. Ci sono molte influenze internazionali che si avvertono nel disco: quali sono i tuoi punti di riferimento in assoluto? Ci sono dei nomi della scena internazionale che mi rapiscono totalmente. Penso a Jorja Smith, Thundercat, Sabrina Claudio, Daniel Caesar, Frank Ocean, Sampha, Solange. Perché hai scelto “Apricot Marmalade” come singolo? Che cos’ha di speciale per te? È stato il primo brano che Claudio mi fece ascoltare, prodotto da lui e cantato dalla sua voce. Me ne innamorai subito, anche se lui non ne era molto entusiasta. Me ne sono quasi impossessata, gli

dicevo che se a lui non piaceva sarebbe diventato mio. Rappresenta molto la mia voglia di andar via, di visitare bei posti, anche solo con la mente. Visto che il disco è uscito da qualche tempo, avete già del materiale nuovo? Ho scritto qualche testo nelle ultime settimane, sono tutti molto embrionali e impulsivi, scritti in momenti di pieno trasporto emotivo circa alcune situazioni vissute. Ho tanto da raccontare ma sono ancora nella fase di “vortice di pensieri” che va ancora riorganizzato per far nascere un prodotto autentico e vero. Quasi ogni giorno sento il bisogno di chiudermi di nuovo in studio e dar vita a brani emozionali come è successo con quelli di Mélange, ma ancora lavoriamo molto per il tour estivo (che potete visionare sulla mia pagina artista su Facebook@maelysmusic o sul mio profilo Instagram@egomaelys). Ci sarà il tempo adatto per tutto. 10


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CARMINE TUNDO un’esigenza reale Non ha scopi precisi, non sarà seguito da un tour, fa parte di una trilogia: “Nocturnae Larvae Volume Uno” è il nuovo disco del cantautore di Galatina, ma anche una raccolta di incubi e fantasmi 12


Prima domanda ovvia: perché hai sentito la necessità di dedicare un album, anzi una trilogia, ai tuoi fantasmi notturni? E’ stata una necessità, quella di raccontare la mia parte più oscura, che poi rispetto anche ai miei altri progetti è il mondo sonoro in cui mi sento più a mio agio. Sono tracce raccolte in tanti anni, all’inizio sembravano confuse, però poi mettendole in fila avevano un significato molto profondo per me, e quindi ho deciso di pubblicare questo lavoro senza pensarci molto, seguendo soltanto l’istinto di voler fare quello che volevo senza

filtri. Il disco è potente e molto sperimentale, e sembra lungamente meditato: da quanto tempo lo stavi “preparando”, dentro di te? Parecchi anni, ogni traccia è nata da un’esigenza reale, non c’è nulla di meditato, quindi magari tra un brano e l’altro c’è anche un anno di differenza, ma ogni volta che ne sentivo la necessità, avevo quella “cartella” dove man mano ci buttavo dentro i miei fantasmi, poi arrivato a circa quaranta brani ho deciso di dividerli in capitoli. Considerando i tuoi esordi, di-

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ciamo così, “mainstream”, un album del genere era difficile da pronosticare: come giudichi ora i tuoi primi passi in campo musicale? Guardo sempre al passato con un po’ di ansia, soprattuto al periodo sanremese, per quasi dieci anni non ho riascoltato l’album di “Romeus” perchè sentivo un forte disagio. Poi dopo dieci anni credo che alcune sensazioni ca-

dano in prescrizione :) e quindi lo considero come un tassello fondamentale per il percorso successivo, ritrovarmi in giovane età in quel contesto lì mi ha fatto capire la differenza tra il fare musica e l’industria musicale, così ho avuto modo di scegliere cosa fare, come esprimermi, e ho scelto di farlo con le mie regole. Ti va di spiegare perché l’album non sarà seguito da un tour? 14


ti è venuta l’idea? Mi divertivo a campionare dei discorsi in tedesco per inserirli in un brano, volevo ricreare quell’atmosfera di alcuni brani dei Rammstein, band che amo molto, e mi sono imbattuto nel celebre discorso di Trapattoni quando era allenatore del Bayern Monaco. E così è nato questo titolo,un gioco di parole per prendermi un po’ in giro e per ironizzare su quello che ascolto e mi incuriosisce/diverte/ lascia sgomento della scena trap italiana.

Non è il momento ancora per me di affrontare un certo percorso su questo album, è una questione molto intima, magari quando avrò pubblicato tutti i volumi poi cercherò il modo di portarlo live. Anche se quest’anno farò una piccola anteprima al SEI festival, ma è più una questione di famiglia, ci ho suonato con tutti i miei progetti e ci tenevo a tenere una piccola esibizione in anteprima su quel palco. Il pezzo che mi incuriosisce forse di più è “King of Trap”: come

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RADIOLONDRA è lei che ti salva

Indie pop, itpop, etichette che hanno un senso fino a un certo punto per una band orgogliosa di aver fatto la gavetta e di conservare valori “antichi” come la nostalgia e il romanticismo Molta gavetta per arrivare fino a “Slurp”: vi raccontate un po’? Sì, noi siamo una band che ha fatto la cosiddetta “gavetta” e in fondo ne siamo orgogliosi... saltarla (la gavetta) e passare subito magari a un successo, magari dato da qualche talent televisivo, è una illusione. Perché le prime serate nei locali semivuoti, le prime canzoni pubblicate e ascoltate solo dagli amici e dai parenti, ti fanno crescere più di ogni altra cosa, come



musicista e anche come persona. Abbiamo fatto vari Festival, diverse date, abbiamo suonato tanto, abbiamo anche smesso di suonare per un certo periodo - perché quando senti di non avere niente da dire è meglio stare fermi e aspettare - e poi, in qualche mese, abbiamo scritto Slurp. Finalmente abbiamo trovato il suono che stavamo cercando, e tutto è venuto facile. Nome “antico”, titolo e copertina fumettosa, sotto un vestito

indie-pop (anzi a volte perfino itpop) le vostre canzoni hanno testi spesso cantautorali e nostalgici. Insomma ascoltate più spesso Calcutta o Guccini? Ascoltiamo più che altro Vasco, Dalla e De Gregori. Calcutta è, come noi “figlio” di Guccini e di quella tradizione da cui non puoi prescindere, perché parte di te, è una cosa ineliminabile. Per quanto riguarda la nostalgia a cui fai riferimento, è vero, è presente nelle canzoni. Ma sai, la tristezza 18


dioLondra che si vede su un palco? Abbiamo fatto qualche data promozionale a Milano e ci torneremo a brevissimo, poi suoneremo a Roma, a Rimini ...per queste info siamo sempre attivissimi su instagram@radiolondraband e su facebook@radiolondraofficial. Sul palco suoniamo il disco, così com’è. Vogliamo riproporre lo spettacolo esattamente come lo abbiamo realizzato su disco, perché ci sembra ci sia un bel groove di fondo. Poi chiaramente qualche sorpresa bella la abbiamo inserita in scaletta!

e la nostalgia (che oggi sono sentimenti da cui si cerca di fuggire perché ritenuti fuori moda, per essere fighi bisogna sempre sorridere a ogni costo) sono secondo noi quei sentimenti che invece ti costringono a fermarti e a guardare veramente dentro e fuori di te. La nostalgia è una cosa molto utile, non è da censurare. Come nasce “Quando sei abbronzata”, uno dei pezzi secondo me più significativi dell’album? Quando sei abbronzata è anche una delle nostre preferite, siamo felici ti piaccia. Sembra un pezzo triste ad alcuni, ma in realtà è una vera e propria canzone d’amore. E’ un inno a lei che ti salva, che ti ha preso in braccio quando stavi male, che è presente lì a dirti che i tuoi sensi di colpa devono andare a cagare, che la vita è bella e merita di essere vissuta con tutti i suoi casini. Il disco suona molto “estivo”, pur con le sue riflessioni. Che programmi avete per l’estate? Dove sarà possibile vedervi dal vivo e qual è la versione dei Ra19


ALISIA JALSY momenti di rabbia

Secondo singolo e un ep in arrivo l’anno prossimo per la giovanissima cantante di “Fango”, tra successo ed (esame di) maturità to di fine anno. Ricevendo complimenti e inviti a partecipare ad altri eventi decisi di intraprendere questa strada. La tappa più signi-

Qual è la tua storia fin qui? La mia storia musicale si può dire sia iniziata all’età di 16 quando partecipai con la scuola al concer20


per la maturità): come concili scuola e canzoni? Diciamo che al momento risulta difficile anche per me conciliare entrambe le cose, al momento la cosa più importante è il diploma e per fortuna ho un team dietro che mi sostiene soprattutto nella gestione lavorativa e social. Il tuo nuovo singolo, “Fango”, sta avendo un successo notevole su YouTube: come nasce la canzone? Il pezzo Fango nasce da un mo-

ficativa si può dire sia stata la mia partecipazione a Italia’s got Talent dove arrivai alle semifinali. Contemporaneamente mi iscrissi al Brass, scuola jazz europea di Palermo, dove tutt’ora continuo a studiare sia canto che pianoforte. Durante il periodo di Italia’s got Talent scrissi il mio primo singolo Se solamente Tu grazie al quale ricevetti ottimi riscontri così da decidere di intraprendere la strada del cantautorato. Sei giovanissima (stai studiando

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sono testi scritti di getto con totale spontaneità (apportando poi le giuste modifiche nel momento dell’elaborazione del pezzo) soprattutto come valvola di sfogo sia per me che per chi li ascolta.

mento di rabbia, rivolto a una persona in un periodo particolare della mia vita... il termine Fango a Palermo significa ‘persona poco affidabile’ e infatti tale si è rivelata. Come nel caso di Se solamente Tu 22


Hai qualcosa da raccontare a proposito del video? Stavo impazzendo per trovare un attore, ci stavo quasi rinunciando... Ricordavo di aver visto circa un mese prima delle riprese un ragazzo che usciva dal Brass (la mia scuola di musica) da allora sperai di incrociarlo ma alla fine riuscii a trovare il suo contatto negli elenchi della scuola. Decisi di contattarlo chiedendogli di partecipare al video e accettò subito, spero di aver reso felici gli occhi delle mie fans ahahah. Il video è stato girato a Palermo a Villa Giulia e al centro di Monreale. Fino a qui hai pubblicato soltanto singoli: è

previsto un album? Puoi anticipare qualcosa? Al momento non do nulla per certo. L’unica cosa che posso dirvi è che probabilmente usciranno altri singoli e che a gennaio 2019 uscirà un ep.

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MINOR SWING QUINTET “Minor mali” è il nuovo disco del combo, sei anni dopo “Mapo salato”: un album che evidenzia la ricchezza portata dalle differenze, sia a livello interno, sia su scala globale

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Sei anni dopo “Mapo Salato”, ecco “Minor Mali”: che cosa è successo in questi sei anni e come sono andate le lavorazioni del disco? Come in ogni matrimonio che si rispetti, in questi anni siamo stati tanto insieme, calcato molti palchi, ma ci siamo anche presi una pausetta di riflessione, che ci ha fatto ritornare in sala più carichi che mai e comporre questo nuovo disco..insomma, è passata tanta acqua sotto i ponti ma, come direbbe Vasco...noi siamo ancora qua! Il titolo del disco è leggibile anche come “mai normali”: che messaggio volete lanciare? In un periodo dove le diversità non sono così ben accettate, abbiamo voluto rendere esplicito il nostro pensiero: le differenze sono solamente delle ricchezze! Ci sarebbero domande da fare su ogni brano, ma mi concentrerei per esempio su un paio: per “Tipitappi”, che apre il disco dite che “ammiccate ai Led Zeppelin”. Perciò… che musica stavate 25


ascoltando nel periodo di composizione dei brani? In realtà nessuna musica in particolare, in Tipitappi è venuta fuori di più la nostra vena rockettara, ma gli ascolti rimangono eterogenei per tutti e cinque. Comunque

essere accostati ai Led Zeppelin è un grandissimo onore! Due brani particolarmente significativi del disco mi sembrano “Le Bandit de Bambeeto” e “Vittorio”: volete raccontarne la storia? 26


a Gaza nel 2011. Mi raccontate qualcosa anche a proposito delle collaborazioni del disco, con Fabrizio Bosso e Mbar Ndiaye in particolare? Con Mbar abbiamo avuto il piacere di suonare durante diverse edizioni del Mama Africa Meeting, festival di musica e danza dell’Africa dell’Ovest. Con Fabrizio invece, Alessandro e Tommy avevano collaborato nello spettacolo Mimì è una civetta. Entrambi hanno accettato entusiasticamente alla nostra proposta di un cameo nel disco e noi ne siamo molto grati e onorati.

Le Bandit de Bambeto è ispirato a un quartiere di Conakry, capitale della Guinea, dove, nel settembre 2009, ci sono stati molti scontri e disordini tra polizia e civili. Vittorio invece è dedicato a Vittorio Arrigoni, attivista italiano morto 27


pop. “È bellissimo perdersi per il gusto di non tornare” è una frase del brano che dà il titolo al disco. Da quale luogo, fisico o mentale, stai scappando? Quella canzone l’ho scritta in modo impersonale all’inizio, non pensando a me, volevo solo scrivere una storia di un certo tipo. Mi sono accorto a posteriori che c’era dentro quella canzone molto del mio vissuto di qualche anno fa. Credo che la fuga sia sempre uno spostarsi da qualcosa che non ti permette di essere quello che vorresti. Io ho sempre bisogno di stimoli nuovi e di sfide, anche a costo di sfidare l’ignoto, penso che la mia fuga sia dal già visto e dal già sen-

ANDREA LABANCA #cinqueminuticon Andrea Labanca l’ho scoperto per caso, e spesso per caso succedono gli incontri più interessanti, anche se virtuali. Per non tornare è il suo terzo album, legato alle radici della canzone italiana intelligente ma divertente, con testi mai banali e ritornelli deliziosamente 28


tito. La prigione più grande dell’uomo è da sempre quella di cui si possiedono le chiavi. “Fare l’amore” nonostante il buonumore rende perfettamente l’idea di quanto le paranoie possano condizionarci le storie, e pure un po’ la vita... Quello che succede fuori condiziona l’interno e viceversa ovvio, ma penso che ci sia troppo pessimismo in giro, troppa prostrazione. Dalla politica alla società in generale c’è poca ricerca del bello e di emozioni positive. Guarda i social: sono diventati lo sfogo di frustrazioni e rabbia, creandole talvolta. Penso che questa atmosfera negativa serva solo a tenere gli occhi della gente sulle cose piccole a non fargli guardare il cielo che è comunque più grande di noi e rimarrà dopo di noi. Non si cambia nulla col cattivo umore. Lavorare alle cose che ami, cambiare la tua vita tutti i giorni, amare le persone che ti stanno vicino, queste sono le cose che migliorano l’umore personale e permettono di immaginare un mondo migliore. 29

Fare le stesse cose col sorriso non costa fatica ma cambia la prospettiva. La vita se ne accorge se la stai prendendo in giro o se davvero te la stai godendo, e se te la godi magari sarà lei stessa a decidere di regalarti qualche soddisfazione in più. Un po’ di Rino, un po’ di Enzo... le influenze musicali si intuiscono, ma c’è qualcosa di imprevedibile tra i tuoi artisti del cuore, riferimenti letterari compresi? Be’ Jannacci e Gaber di sicuro sono dei grandi riferimenti per me, non solo musicalmente ma come mondo di intendere lo spettacolo, il rapporto con l’arte. Io mi sono confrontato spesso con la performance e con il teatro e credo che in questo mio rapporto abbiano influito le visioni dei due grandi milanesi. Rino Gaetano l’ho sempre amato, ma è stata una sorpresa quando in studio ho alzato di tonalità la linea vocale di “Facciamo l’amore” scoprire che là mi ero sicuramente ispirato a lui nella scrittura. Tra gli italiani citerei Piero Ciampi e Bennato ma se


a Costanza, una città tedesca che si sviluppa proprio attorno all’omonimo Lago. Costanza è una città davvero suggestiva con un’atmosfera spettrale eppure romantica, piena di leggende. Una mattina mi svegliai attorno alle cinque, un orario in cui si vedono ancora bene gli spettri, e in qualche minuto scrissi la canzone, direi di getto, quasi in trance. Gli spettri a fine notte sono quelli meno addomesticabili, che ti riconoscono e ti chiamano per nome, quelli da cui non si può fuggire e da cui non si vorrebbe tornare. Gli stessi spettri, però, sono anche quelli che permettono di scrivere canzoni, storie, di dare forma a un sentire.Che idea hai della situazione attuale della musica in Italia, ma più in generale dell’intero ambiente culturale? In generale non credo che sia un periodo di grandissima rivoluzione musicale, se ci pensi la novità della trap non è che un rap rallentato e con l’autotune, senza

devo essere sincero la mia adolescenza è fatta anche di tantissimo rap vecchia scuola Run-DMC, De La Soul, Arrested Development. Ora ascolto tanto Wilco e Jack White. È un’arte anche saper scegliere la musica con cui diventare grandi. “Lago di Costanza” è la canzone del tuo album a cui ho dedicato più tempo e attenzione. Ci racconti come è nata è quello che rappresenta? Durante lo Spaghetti Couchsurfing Tour, ci annullarono una data e dovemmo fermarci due giorni 30


nulla togliere ad artisti straordinari quali Ghali, ma non vedo delle vere innovazioni di rottura. A me piacciono le sacche di resistenza, oppure le sperimentazioni pure, in generale cerco di sguazzare nei piccoli mondi sommersi. Per esempio la poetry-slam è un fenomeno che mi interessa molto, sia per l’aspetto aggregativo che per l’uso della parola. I raduni rock’n’roll mi piacciono sempre molto per l’atmosfera, credo che in Italia come anche in Europa, si stia un po’ col naso per aria cercando qualcosa di nuovo. Per chi vuole fare musica e vivere di arte che prospettive ci sono? Be’ ti risponderei come nel mio video di lancio di Carrozzeria Lacan “Intervista alla Televisione spagnola” ma è un’intervista scritta, quindi articolerò. Credo ci voglia tanto lavoro e fantasia, tanto lavoro sul territorio. Qualcuno ci ha convinti che con internet si può diventare famosi, ma io famosi da YouTube ho visto diventare soltanto dei deficienti che si rove-

sciano i bicchieri d’acqua in testa. Se vuoi fare musica devi suonar tutti i giorni e creare un bel rapporto con il pubblico, da lì arriva la possibilità di poter fare questo lavoro per più di sei mesi. Ci consigli qualche brano da inserire nella playlist, che magari ci aiuti anche a conoscere qualcosa in più di te? Italiani quindi? Ultimamente sto amando molto Gemitaiz e Ghali, ma penso che uno dei dischi più belli italiani sia sicuramente quello di Colapesce per linguaggio, intelligenza e scelte sonore. Non ti nascondo che l’idea di collaborare con un rapper mi entusiasmerebbe. Gemitaiz è una mia passione, forse inconfessabile su un magazine come TRAKS. Ma ormai l’ho detto. E non solo: se capitasse una collaborazione tra Andrea e Davide sarei la prima a festeggiare, con un pezzo drammaticamente e irrimediabilmente trap in sottofondo. Chiara Orsetti


CHRIS AGNOLETTO Molte forme di amore (ma anche un po’ di indignazione) nel primo disco del cantautore foggiano, che ha anche un’attività, florida e parallela, di poeta e di scrittore

Hai iniziato a lavorare a questo disco nel 2013: come sei arrivato fino all’album? Dopo un lungo periodo di distacco dalla musica, nel 2013 ho ritrovato l’ispirazione per scrivere nuove canzoni. Ho messo in piedi un paio di band ma non sono riuscito a trovare la formula magica che le facesse suonare come avrei voluto. Fino all’incontro con Alberto Nemo, musicista e produttore di Rovigo, con cui è nata un’intesa 32

umana e artistica incredibile, che ha deciso di arrangiare una parte del mio repertorio e produrla per farci un album. Mi sembra che il disco sia permeato da una certa rabbia di fondo... Il disco è invece permeato di un intenso sentimento di amore, nelle sue varie forme: l’amor proprio, l’amore per una donna, l’amore per un amico scomparso, l’amore per un’umanità disperata, confusa


in programma prossime pubblicazioni? Prossimamente darò alle stampe una raccolta di racconti. Nel frattempo sto scrivendo un romanzo, un’avventura intrisa di esoterismo e fantasy, che continuerò compatibilmente con il mio progetto musicale. C’è un rapporto distaccato tra la le due attività: entrambe hanno dinamiche molto diverse di scrittura, ma talvolta ci possono essere delle convergenze; ad esempio, canzoni come “Parola d’ordine: uccidere!” e “L’uomo senza ombra” sono nate come racconti che poi ho avuto l’esigenza di mettere in musica.

e anestetizzata. Ecco, tutto questo amore si traduce in un urlo di dolore, più che di rabbia, quando l’oggetto o il soggetto a cui è rivolto lo si sente soffrire, lo si crede perduto, lo si vede morire. Come nasce “Il mondo è morto”? “Il mondo è morto” nasce da una profonda indignazione, scaturita dall’osservazione del momento storico nel quale viviamo, dove una società ipnotizzata, addomesticata e frustrata si lascia soggiogare, schiavizzare e impoverire dal potere di una minoranza occulta. Un’umanità impaurita che vede nemici ovunque, che distrugge e si autodistrugge, incapace di creare legami, guidata dalle più basse pulsioni, ormai sempre più slegata dalla propria essenza spirituale, ed è stupidamente felice. Chi è consapevole non può che essere infelice osservando questo mondo, che però, essendo morto, non può che rinascere in qualcosa di meglio. La tua attività di scrittura investe anche poesie e racconti: hai 33


ELLEN RIVER Sonorità americane e collaboratori (eccellenti) italiani: “Lost Souls” è il secondo album della cantautrice modenese e può contare su nomi di spicco come Antonio “Rigo” Righetti, Mel Previte, Robby Pellati Dove sei andata a inseguire le tue “Lost Souls”? Le mie Lost Souls sono sempre nei paraggi, per scovarle basta osservare bene chi ci circonda, a volte sono presenze che si aggirano nei miei pensieri come memorie che riemergono da vite antiche, altre volte sono incontri casuali lungo il cammino, altre invece sono sguardi che si incrociano per una frazione di secondo. Sono le persone che non hanno paura di mostrare

le proprie debolezze, la propria umana imperfezione. Sono anime coraggiose che ogni giorno si fanno strada in questo mondo delirante. Veniamo all’incontro con i grandi musicisti che ti accompagnano nel disco: come è avvenuto? Qualche aneddoto? Ci si aspetta sempre aneddoti divertenti o particolari, nel mio caso è la casualità che mi ha portato a conoscerli di persona. 34


foto di Gabriella Ascari Farei forse prima a dire cosa non mi affascina dell’acqua :-) E’ un elemento essenziale, non a caso noi stessi siamo fatti in gran parte d’acqua. La sua potenza inarrestabile e la capacità di avanzare nonostante gli ostacoli lungo il percorso sono da ammirare, Lei procede senza soste e trova sempre la strada sebbene impervia. E’ l’esempio lampante che a ogni buio segue una luce e che a ogni ostacolo può corrispondere un salto. Come ti presenterai dal vivo per promuovere il disco? Nei live sino a ora abbiamo portato la formazione al completo cercando di portare alle persone il mood dell’album. C’è stata magia in sala di registrazione ed è quella che si cerca di riprodurre nei concerti, si cerca di veicolare alle persone le emozioni che il musicista stesso prova. L’arte è emozione allo stato puro, per come la vedo io ovviamente, per cui l’intento è farsi guidare dal moto che abbiamo dentro facendolo detonare all’esterno.

I loro nomi li conoscevo ovviamente essendo musicisti emiliani con un percorso artistico importante a livello nazionale, ma non li avevo mai incontrati. Una sera ho partecipato da spettatrice a un evento che prevedeva l’ascolto di vinili e ho incontrato Rigo, scoprendo dopo che era tra gli organizzatori dell’evento. A giudicare dai titoli dell’album c’è un forte elemento acquatico: cosa ti affascina nell’acqua? 35


FABIO CURTO

Alle spalle una vittoria a “The Voice”e anche un periodo di silenzio. Oggi il cantautore si è rimesso a navigare con il nuovo “Rive volume 1” 36


coltà tra le quali rimanere fermo per un certo periodo di tempo, almeno a livello discografico e poi tirare le somme per lanciare un messaggio con un sound omogeneo e concreto senza troppa dispersione di energie. Come nasce il disco e perché l’ambizione racchiusa nell’attributo “volume 1”? Il disco nasce da una selezione di brani che avevano qualcosa in comune, una selezione basata su sound e tematiche, spesso di separazione e rinascita. Sono rimasti fuori tutta una serie di brani già composti e in parte arrangiati. Da qui l’ambizione di un volume due che parli anche di loro. Come nasce “Mi sento in orbita” e perché l’hai scelta come singolo? Ho presentato questo brano in Fonoprint il giorno prima che iniziassero le registrazioni ufficiali, avevo una bozza della quale mi convinceva molto il ritornello e in generale il climax, l’ho sentito molto pulp, adrenalinico e noir allo stesso tempo. Tirando

Dopo tre anni, ecco il tuo nuovo disco: vuoi raccontarci che tipo di esperienze hai affrontato per arrivare a “Rive volume 1”? Ho dovuto superare diverse diffi37


le somme e confrontandomi con tutto lo staff della Fonoprint abbiamo deciso di lanciarlo come primo singolo perché sembrava quello più appropriato a dare un messaggio di rottura di cui avevo bisogno. È la traccia più rock dell’album senza ombra di dubbio

insieme a Un’ora fa. Hai presentato il disco con un tour australiano: come mai questa scelta? Sono stato contattato da un organizzatore di eventi australiano il quale mi ha proposto questo Italian National Ball nel quale erano 38


consigliarla a un emergente? Mi ha fatto maturare molto dal punto di vista professionale, ho capito quali sono i pro e i contro della televisione ma ho capito soprattutto quanta determinazione e quanta struttura ci vogliano per affrontare questo mestiere con il sorriso. Dire che è dura è cosa risaputa. Non so se lo consiglierei a un artista emergente, dipende dal carattere, ci vuole molta fiducia in se stessi altrimenti ne esci spappolato e con l’immagine che “loro hanno di te”. Resta sicuramente una grande vetrina.

presenti diverse figure diplomatiche ed esponenti di eccellenze enogastronomiche e aziendali italiane. Ho vissuto come un onore rappresentare l’Italia dal punto di vista artistico nel giorno della festa della repubblica presentando il mio nuovo album in un evento così importante. È stata una bella esperienza anche se tre concerti in dieci giorni con ventiquattro ore di viaggio alle spalle....non è stata una passeggiata diciamo :) Cosa ti ha regalato l’esperienza a “The Voice”? Ti sentiresti di 39


LE HEN

Una curiosità di partenza: qual è la storia della vostra band? Ci siamo conosciute casualmente a una festa di laurea di un compagno di corso di università della Totta, amico comune delle future Hen. Lui, appassionato di musi-

ca, sapeva che la Totta prendeva lezioni di chitarra da anni ma che suonava soltanto in casa da sola quando tutti erano fuori. Quella sera festeggiando tra spritz e gin fizz, ci siamo trovati nella sua villa in un giardino metafisico simile 40


Sono un trio che nasce a Bologna nel dicembre del 2014 e che fa un punk come non si sentiva da un po’: il loro nuovo disco è “Alibi”, concentrato di energia e obiettivi polemici spesso molto precisi

complicità tra quei muri d’amplificatori e riflettori. Arrivarono solo due ragazze stralunate, le stesse vegane con le quali avevo sbranato da poco una ruola gigante di lasagne. Neanche farlo apposta una si sedette alla batte-

a un paradiso rock. Un gruppo hardcore intratteneva la serata e finito il concerto, l’amico invitò la Totta per suonare qualcosa. C: Sì era la mia prima volta, il terrore mi assalì. Mi sedetti imbarazzata e dal microfono cercai 41


Per noi l’alibi è un altrove che ci serve per respirare, per riappacificarci, come un suono che viene da lontano. Le parole sono importanti e amiamo estrapolarle dal loro contesto e inserirle in uno nuovo, a volte affine a volte arbitrario. Questo è il nostro alibi. L’album stesso ha fisicamente un lato A e un lato B. Ogni nostro brano è caratterizzato da giochi di parole, doppi significati e dietrologie varie che cercano di sdrammatizzare. Un linguaggio che definiremmo “anti-infarto” o, come diremmo qui a Bologna, “antismalvino”. Dichiarate di esservi buttate nel disco “senza rete”: come è andata la lavorazione dell’album? Abbiamo registrato allo Studio Spaziale di Bologna cercando di privilegiare la parte più emozionale a quella tecnica perché è il valore aggiunto che riteniamo di avere. Questo ha comportato

ria e l’altra al basso. Non sapevo che sapessero suonare. Purtroppo realizzai subito che come me non sapevano suonare, ma ci eravamo già lanciate, incoscienti e aiutate dall’alcol, in una devastante interpretazione di Venus e Satisfaction. I: Ecco! Tra una laurea, le lasagne e un po’ di rock, sorsero così le mitiche Hen, naturalmente sui famosi colli punk di Bologna. Qual è il vostro “Alibi”? Quali sono le motivazioni del titolo del disco? 42


anche delle imprecisioni, noi le chiamiamo “sporchitudini”, che in certi casi sono volute, si ispirano al mood degli anni ‘60 dove alcune inesattezze erano mantenute per ricreare le atmosfere che potevano nascere in un clima live. Queste sporcature erano aiutate dal suono del vinile ma erano imprecisioni che hanno in sé un loro fascino. Ci siamo date il permesso di mantenerle perché anche l’errore ha la sua bellezza. E dall’errore nasce l’alibi. Abbiamo cercato di trasformare i nostri limiti in un valore aggiunto, in una nostra componente espressiva, aiutate dalla sapiente produzione artistica di John Paoli, che ci ha supportate nel perseguire questa cifra stilistica. Era parecchio tempo che non sentivo un disco che meriti l’aggettivo “militante”… Grazie mille! Per noi è un complimento meraviglioso! Forse il lato vintage è dato, oltre dalla ricerca del clima live, dal fatto che abbiamo una passione per le atmosfere anni

’60 e ’70, momento in cui le varie espressioni del rock hanno avuto origine. Anche se guardiamo alle mode con grande interesse, non ricoprono un ruolo così importante perché, si sa, passano. Ma la personale modalità di esprimersi no. Sicuramente vogliamo metterci la faccia rispetto a temi più difficili da affrontare perché pensiamo che se non si fa niente per cambiare le cose allora si è responsabili, ed è lì che ci si nasconde dietro a un alibi, nella sua accezione negativa.

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GIORGIO STAMMATI Un bambino con il fucile sulla copertina di un disco, “La festa patronale”, che racconta molte storie di provincia con l’occhio del cantautore cresciuto un po’ per volta

Comincerei dalla copertina: che cosa rappresenta il bambino con il fucile giocattolo della cover? Non è stato facile scegliere la copertina del disco. Ho optato alla fine per questa perchè mi serviva qualcosa di emblematico, ma anche imperfetto, sporco. Il bambino armato a una festa patronale ci dice che anche in un tranquillo ambiente di paese, festoso e rassicurante con le sue certezze (come il carretto con il muso di porco), si celano battaglie, frustrazioni e

dubbi. Ringrazio Emanuele e Giacomo Forte e il piccolo Diego per aver ideato e realizzato la foto. Sembra che le canzoni siano cresciute un po’ per volta. Come è nato questo lavoro? E’ vero, il progetto è stato una lenta e mutevole costruzione. Sono partito da solo a scrivere canzoni nei miei primi anni universitari senza troppa cognizione di quello che stavo facendo; nel corso di



cinque anni ho cambiato gusti, ascolti, idee e band alla ricerca di una identità cantautoriale, che ovviamente è ancora in divenire. Questo lungo percorso però mi ha permesso di guardare con un occhio più distaccato (per quanto possibile) il materiale che avevo tra le mani e decidere cosa tenere, cosa buttare e cosa cambiare. La svolta è arrivata con la formazione della band con cui tutt’ora suono, composta da Giovanni Iacovella alla batteria, Marco Agesti al basso e Giacomo Forte alle tastiere, amici con i quali ho trovato subito una giusta dimensione musicale nella quale costruire La festa patronale, che infatti è nato dopo solo qualche mese di lavori in sala. Nel disco dunque ci sono canzoni scritte nei primissimi tempi e canzoni scritte più recentemente, un mix, questo, che conferisce un’idea di cambiamento, dalle più giovanili A clean house o Il parere del timido alle più consapevoli La festa patronale o Il pomeriggio, e crescendo si sa, ci si incupisce. Si sente un’aria da anni ‘90 nelle tue canzoni. Quali sono i tuoi 46

ascolti abituali? Per la costruzione del disco non abbiamo deciso di seguire a priori dei particolari filoni musicali, non mi sono affidato a specifici riferimenti (troppi pochi mezzi e troppa poca tecnica per farlo) ma è stato il naturale mix di gusto e capacità di ogni componente della band. Ovviamente si, il gusto musicale si forma soprattutto con l’ascolto, che per quato mi riguarda è piuttosto variegato anche se pigro: da Manu Chao ai Nirvana, dall’indie italiano a Ozzy Osbourne, da De Gregori a Sufjan Stevens. Mi sembra che “La festa patronale” sia anche il pezzo attorno al quale gira l’ep. Come nasce? Vero, “La festa patronale” è il fulcro tematico del lavoro, per questo ho dato al disco il nome di questa canzone. La festa patronale è per definizione una festa, appunto, ma non sempre ci si diverte. Se non hai mai provato altro, se non hai alternativa è più un rimpiangere quello che non c’è che un godersi quello che ti si offre, è più un soffrire la piccolezza della situazio-


pazione di un album? Consapevole del fatto che si tratti di un inizio posso però considerarla un’opera autonoma. Ho qualche nuovo brano in cantiere nato da spunti e atmosfere molto diverse e che quindi mi piacerebbe raccogliere in un disco nuovo, ma c’è ancora molto lavoro da fare.

ne che il godersi la genuina semplicità della cosa: esci, incontri i tuoi zii, vedi i fuochi (ogni anno più poveri), incotri i soliti amici (ogni anno più stempiati), mangi il panino con la porchetta (che è buono, per carità, pero..), ti compri l’ennesimo laser, vai sulla Nave Pirata e poi torni a casa col motorino tra le imprecazioni in dialetto per il traffico impazzito e pensi ai tuoi amici che vivono fuori, che girano il mondo, che chissà che lingue stanno parlando in quel momento, chissà che avventura assurda hanno fatto quella sera, magari hanno visto i Pirati veri, non quelli della nave giostra. Ma magari no, anzi sicuramente no. In questo contesto si articolano le storie delle varie canzoni: il timido, il solito pub, i pomeriggi persi e le altre. Insomma ognuno parla di quello che più o meno conosce. Come vedi questo disco: opera a sé stante o antici47


tarra, sorretto da un groove molto continuo della sezione ritmica. Si va su toni da ballad con Our Garden, rallentata e melodica. Il basso predomina nelle prime fasi di Doubt, ricca di funk. The Usual Blues segue traiettorie elettriche con un arredamento minimal del pezzo, almeno nelle prime battute. Something Strange vira su un pop elettronico, raffinato e risonante, con qualche nostalgia 80s e 90s. A Prayer accoglie note malinconiche. Dopo la breve Night ecco la cadenzata Don’t Tell me no, dai sapori black stemperati da un’elettricità di provenienza rock blues, con il basso in particolare evidenza. Stay Away prende una via soft con un pianoforte avvolto di situazioni psichedeliche, che poi si diffondono per tutto il brano. Si chiude con Song for the Forgotten One, con ritmi netti, inquietudine sparsa, oscurità minacciosa. Tanti gli ingredienti differenti usati dagli Enjoy the Void, per un risultato complessivamente fresco e realizzato in modo più che soddisfacente.

ENJOY THE VOID Enjoy the Void è un progetto al-

ternative rock nato a Sapri (SA) nell’autunno del 2015, la cui idea originaria risale, però, ai primi mesi del 2014, quando Sergio Bertolino viveva a Manchester. Oggi la band è un sestetto che esordisce con un disco omonimo di rock alternativo. Si parte da The Most Sublime, traccia che ha un ingresso molto graduale, per poi sviluppare tutta un’atmosfera tra electro e new wave, con evidenti venature romantiche. Più acidificata Nanaqui, che presenta sviluppi articolati, fra cui un assolo di chi48


consumismo». C’è un lato di critica ma anche un atteggiamento tutto sommato ironico all’interno di Aperisushi, che apre su ritmi rilassati. Più energica Iammungenn, che sconfina nello ska e nel dialetto. Anche Isola utilizza il dialetto, ma in funzione molto più morbida e meno percussiva. Si procede poi con Fortuna, che vede la collaborazione di Andrea Tartaglia, molto determinata e oscura. Un rappato fitto anche con Vien’ cca’ e vira, che lascia spazio anche alla chitarra elettrica. Molto più melodica Tutturuttuttu, che scivola morbida con un po’ di maliconia e qualche nota di sax. Anche K vuo’ fa’ scende per pendii melodici, accompagnata anche dal pianoforte, ma approda anche a momenti acidi. Si procede con Tra le nuvole, che torna su toni ironici, prendendosela con i social. Chiusura di nuovo melodica e notturna con Mare amaro, storia di risacca e di “luna chiara”. Un disco intenso e motivato, quello di Dutty Beagle, che compila un discorso pregno e sensato.

DUTTY BEAGLE

La campagna del rumore è il nuovo album di Dutty Beagle: nove brani in cui coesistono critica sociale e ironia, il reggae e il folk, il rap e il pop, il funk e il raggamuffin. «Senza voler essere complottista né sembrare troppo serio, il titolo “La campagna del rumore” si riferisce a quello che considero un vero e proprio progetto di destabilizzazione e desensibilizzazione degli esseri umani. Siamo circondati da ogni sorta di rumore: social network, pubblicità, spinte più o meno dirette a uniformarci, a sottometterci alla società del 49


spunto iniziale I Fiori di Mandy procedono, con dolore, lentezza e influssi elettrici. In virtù del piovere si rivela una danza che ha tratti ossessivi, con chitarra e basso completamente ingaggiati nel discorso e ispirazioni che possono far pensare ai primissimi Litfiba. Ma la canzone ha molte facce e si spezza in due, portando con sé un incedere pericoloso e psichedelico. Quelli di ieri parte piano, veleggia su orizzonti dolceamari, con il basso ancora in buona vena e il gusto per le immagini forti sempre presente. Mandria arriva modulando i ritmi, e usa più il fioretto che la spada, spagnoleggiando qui e là. Tra le storie la storia chiude l’ep optando per modalità morbide, sulle prime. Ma poi non ce la fa e rompe gli argini, lasciando ampio spazio di libertà agli strumenti e scatenandoli in una sorta di danza tribale finale. La personalità della band è molto spiccata, la capacità di scrittura da tenere presente, rabbia ed energia talmente evidenti che è inutile anche menzionarle.

I FIORI DI MANDY

Esce il secondo ep ufficiale de I Fiori di Mandy: Carne. «Il titolo “Carne” è dedicato al quadro utilizzato per la copertina del disco, opera di Tonino Mattu, pittore oristanese che ha deciso di prestarci questa sua bellissima creatura”. Gli intenti della band si capiscono dalla prima traccia, Invadere, che cerca da subito di torcere le budella dell’ascoltatore. Si prosegue con Karter, che si rivela presto riferita a “Hurricane” Carter, protagonista della celeberrima canzone di Dylan nonché del film con Denzel Washington. Ma dallo 50


confondere il sogno con la realtà, rischiando di impazzire. Inizia la sua rincorsa verso la gabbia che fino ad allora era stata come una compagna sempre presente, sebbene indesiderata. L’ultima scena ci regala un messaggio sottile: il ragazzo che lascia andare la gabbia per impugnare la chitarra vuole rappresentare la liberazione dalla sua prigionia con l’ingresso in un luogo sconosciuto e spazioso, ma che rappresenta pur sempre una gabbia. A fine settembre uscirà il tuo nuovo lavoro: ci puoi raccontare come sarà? The White Bird sarà composto da dieci tracce: un percorso tortuoso tra stati emotivi, urla di rabbia, bisogno di solitudine e voglia di amore e libertà. Si tratta del percorso della mente di un artista, con ostacoli sul proprio cammino. Emotivamente instabile, esaspera le sue reazioni, rivolgendo le proprie urla verso lo spazio. Soltanto l’amore verso se stesso e verso gli altri, permetterà ai suoi reali sentimenti di venir fuori.

ALEXEIN MEGAS È in uscita il tuo nuovo video e singolo: perché hai scelto proprio questo brano? The White Bird rappresenta uno stato mentale appartenente all’essere umano. Tutti che si affannano per raggiungere i propri obbiettivi perdendo di vista il vero scopo di ogni singolo respiro, di ogni attimo condiviso con gli altri. Lo stato di prigionia delle persone è rappresentato dalla gabbia bianca, che stringe in una morsa la vita del ragazzo, angosciato e dolorante. A metà della storia il ragazzo cade in un sonno profondo e tribolato, tanto da iniziare a 51


STEFANO DENTONE & ANTONIO GHEZZANI Sedici canzoni con testi in italiano e in inglese: “Spirali Impazzite” è il titolo del nuovo lavoro in studio del duo livornese con all’attivo già due album


Siete arrivati al terzo disco: in che cosa è diverso “Spirali impazzite” dai precedenti? Ogni disco che abbiamo fatto è stato diverso. Teatro Staller era un album registrato in diretta come si faceva ai tempi d’oro del rock e aveva un impianto sonoro davvero “roots” con le nostre sole due chitarre e la voce. I Pugilatori aveva un sound molto classic rock con l’utilizzo della full band e le chitarre elettriche in primissimo piano.


Spirali Impazzite è senza dubbio quello dei tre con l’anima più folk. Ovviamente s’è conservato l’impianto full band e le chitarre elettriche graffiano a dovere, ma è caratterizzante il maggior utilizzo di strumenti acustici e della tradizione come mandola, mandolino e chitarre classiche antiche dei primi del Novecento. In più Spirali Impazzite, a livello di testi, ha molti più elementi che riguardano il nostro vissuto. Questo ultimo è stato un anno davvero intenso per noi e lo si può respirare in ogni parola che abbiamo scritto. State mantenendo il ritmo di un disco l’anno e in più questo conta su ben sedici canzoni: da dove deriva questa iperproduttività? Siamo sempre stati produttivi… anche I Pugilatori aveva sedici tracce e Teatro Staller addirittura diciannove. Siamo due autori prolifici e ci piace fare quello che vogliamo senza curarci delle convenzioni. Oggi un disco deve avere al massimo dodici tracce altrimenti rischi di stufare la gente… noi ce ne sbattiamo altamente! Se

abbiamo cose da dire le diciamo e ci prendiamo tutto il tempo per dirle. Essere indipendenti veri (!), come siamo noi, ti permette questi lussi. Come mai la scelta di scrivere qualche canzone in italiano e qualcuna in inglese? Quelle in italiano sono sempre di più. Siamo italiani e ci è più naturale farlo, anche se per il rock è più difficile… però il nostro è un genere anglosassone ed è giusto scriverlo anche in inglese. Bisogna vedere la cosa nella stessa ottica della musica folk: la musica napoletana è scritta in dialetto, quella è la sua lingua madre. La lingua madre del rock’n’roll è l’inglese. Come nasce “Centro benessere”, a mio parere fra le più interessanti del disco? Centro Benessere nasce da una riflessione avvenuta dopo un periodo di sofferenza. Dal fatto che, quando si soffre, ci si affoga nel tormento… alla fine, proprio l’attraversare questo stesso tormento, diventa catarsi e ci si libera dalle scorie del dolore. 54


Qual è la versione live del vostro duo? Che cosa si deve aspettare chi vi viene a vedere dal vivo? Noi siamo due rockettari nel senso tradizionale del termine… quando ci esibiamo live abbiamo tre formule: una full band completa, un trio accompagnato dal nostro percussionista e la versione duo che è quella che preferiamo. In duo siamo semi-acustici con una chitarra elettrica e, appunto, una acustica. Non ci risparmiamo mai… i nostri concerti sfiorano sempre le tre ore e andiamo fieri di dire che sono concerti veri e propri, perché noi suo-

niamo soltanto musica originale. Quindi chi viene ad ascoltarci, si deve aspettare un concerto rock vero e proprio. Ci piace suonare dal vivo e crediamo sia la base per ogni musicista. Se non ti piace farlo o se, come si sente dire tante volte, ti stanca, cambia mestiere che è meglio… oppure non fare il rock’n’roll.

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FABIO CUOMO Fabio Cuomo, polistrumentista da sempre attivo nel circuito underground genovese, pubblica “Sette studi tra quiete e inquietudine”: musica strumentale sperimentale composta e suonata in totale autonomia, i cui ingredienti sono per lo più la musica ambient, jazz, classica, drone e progressive Vorrei capire fin da subito perché hai deciso di concentrare la tua ricerca musicale di questo periodo su un tema come l’inquietudine In realtà quello che ho voluto qui dipingere non è soltanto l’inquietudine, ma il rapporto tra la quiete e quest’ultima; due concetti molto più mescolati e interdipendenti di 56

quanto possa sembrare ad un’analisi superficiale. Diciamo che ho sentito l’esigenza di scrivere i sette brani in questione per “raccontare” lo stare dell’uno dentro l’altro….. per spiegare meglio il concetto dico spesso questo: ”Spesso una persona è quieta solamente perché sa gestire la propria inquietudine, e spesso una persona


decido di esprimere e che sensazioni voglio dare nei vari momenti della composizione e nel suo complesso. - Decidere gli “ingredienti” da usare; ossia scelgo che strumenti, suoni, effetti, tipo di produzione ecc… usare a seconda della prima fase; e soprattutto nel caso di synth e suoni sintetici “creare” dei suoni ap-

è inquieta solamente perché non sa gestire la propria quiete”. I tuoi brani spesso partono dal pianoforte e poi prendono derive difficili da prevedere. Ci puoi spiegare come componi? Il mio modo di comporre si può dividere in tre fasi: - Decidere i “gusti” che si vogliono ottenere; ossia mi chiarisco bene cosa 57


positamente per lo scopo e per le parti che andrò a fare. - Decidere la “preparazione” da usare; ossia scegliere sempre in funzione della prima fase gli arrangiamenti e le armonie da usare. Soprattutto per quanto riguarda i modi, che sono poi i veri e propri colori della musica. Come nasce “Starship Journey”? Starship Journey è stata scritta immaginando appunto un’ipotetica “crociera spaziale” in tutte le sue fasi; la partenza, le varie tappe; sia movimentate tra vortici di stelle che lente e contemplative nella vastità del cosmo, e in fine un tranquillo atterraggio. Una curiosità: sul tuo sito c’è una lista lunghissima di synth, pedali, effetti che utilizzi per le tue composizioni. Quando ti esibisci dal vivo riduci il “bagaglio” allo stretto necessario oppure ami avere tutto a portata di mano? Non uso strumenti virtuali; non tanto perché sia contro o abbia delle riserve sulla loro qualità quanto per il fatto che non è il mio modo di lavorare, soprattutto

per quanto riguarda la fase di costruirmi suoni ad hoc, nella quale uso moltissimo i pedalini che lavorano molto meglio con sorgenti “vere”. Per quanto riguarda il discorso live uso solo una piccola parte della mia strumentazione essenzialmente per due motivi: ridurre il bagaglio come dici te, e ridurre per cosi dire la “libreria” di suoni possibili che non avrebbe senso usare interamente in un live intero per quanto lungo possa essere…. Diciamo che, fatti i conti con la trasportabilità e la gestibilità in generale, mi porto dietro le macchine che mi servono per produrre i suoni che decido di usare per quella determinata situazione.

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THE MINIMAL PIANO SERIES VOL.2 Contest internazionale per la realizzazione di una produzione discograÞca LÕetichetta discograÞca BLUE SPIRAL RECORDS bandisce il Contest Internazionale di Composizione che ha come scopo la realizzazione del Cd ÒThe Minimal Piano Series Vol. 2Ó. Al contest potranno partecipare compositrici e compositori di qualsiasi nazionalitˆ senza limiti di etˆ ed è riservato a composizioni originali e inedite per pianoforte solo, pianoforte e elettronica, pianoforte e archi o qualsiasi altra combinazione che preveda il pianoforte come strumento principale del brano. Il carattere delle composizioni dovrˆ essere ispirato al general minimal. Il Cd sarˆ pubblicato con il titolo di The Minimal Piano Series vol. 2. Saranno scelti un numero variabile fra le 10 e le 14 composizioni per la realizzazione della compilation. Il disco sarˆ realizzato Þsicamente (graÞche, stampa cd label a colori, digipack 2 ante stampato a colori, booklet di 12 pagine, plastiÞcazione lucida, cellophanatura), sarˆ disponibile per la vendita sul sito www.bluespiralrecords.com e distribuito in digitale su tutte le piattaforme audio (iTunes, Spotify, Deezer, Amazon etc.). La Blue Spiral Records si riserva inoltre di distribuire il Cd nei maggiori negozi di dischi. I lavori e la relativa documentazione dovranno pervenire entro e non oltre il 30 settembre 2018. Le decisioni della giuria saranno rese pubbliche entro il 30 ottobre 2018. Per ulteriori informazioni visitare il sito www.bluespiralrecords.com oppure scrivere a bluespiralrecords@gmail.com


BLUVERTIGO, “LA CRISI” #quellochesentivo Singolo estratto da Zero - ovvero la famosa nevicata dell’85 (1999), La crisi fu in qualche modo l’ultimo successo dei “veri” Bluvertigo, quelli della trilogia chimica, quelli impegnati ancora a scardinare i luoghi comuni I Bluvertigo hanno saputo coper la musica suonata, coniugate gliere l’essenza degli anni ‘90, le al genio creativo di un Morgan dai influenze elettroniche e l’amore capelli rossi che ha sempre saputo

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quando arriva una crisi riaffiorano alcuni ricordi che credevo persi cosa penso di me cosa voglio da te dove sono cosa sono e perché

sedurre le parole per ottenere da loro l’effetto ricercato. La crisi è un momento passeggero ma che si ripete nel tempo, che ciclicamente affiora sconvolgendo equilibri e costringendo a fare i conti con le realtà che non avevi preso in considerazione.

Perché poi, alla fine, gli animi inquieti sono quelli che più facilmente vengono additati come folli, soltanto per avuto il coraggio di guardare dentro e ascoltare il rumore del proprio mare.

Sto vivendo una crisi e una crisi c’è sempre ogni volta che qualcosa non va

molto spesso una crisi è tutt’altro che folle è un eccesso di lucidità

Usarla come giustificazione sarebbe un limite, eppure la sensazione di smarrimento deve essere vissuta e utilizzata come arma per allontanarsi dal quotidiano.

La crisi non passa mai del tutto, si mette buona in un angolo, aspetta il momento per tornare a fare rumore. Lascia visibili i cambiamenti che ha causato, la larghezza di vedute, la profondità di pensiero, la lunghezza delle ombre della sera sulla sabbia.

so che rimarrò distratto per un po’ quindi rimarrò altrettanto distante Perché quando succede, quando la crisi incombe, non soltanto ci si perde nei pensieri, ma si deve anche ritrovare il filo rosso che ci lega alle crisi altrui, che meglio rappresentano allontanamenti e riappacificazioni tra legittimi proprietari.

e malgrado sembri male cambia solo il modo di giudicare Chiara Orsetti 61



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