TRAKS MAGAZINE #52

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Numero 52 - maggio 2023 www.musictraks.com STUDIO MURENA DA MILANO AL DESERTO traks magazine LIMARRA UNDERDOG VIRGINIA TIZIO BONONCINI
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STUDIO MURENA DA MILANO AL DESERTO

Si intitola “WadiruM”, come l’omonimo deserto giordano, il nuovo disco del sestetto milanese, ricco di collaborazioni eccellenti (da Ghemon a Layla al Habash a Paolo Fresu) e di sperimentazione musicale

Mi raccontate un po’ la storia di questo disco uscito a “soli” due anni dal vostro esordio?

Subito dopo l’uscita del primo disco, parliamo di febbraio 2021, abbiamo avuto la possibilità di fare il nostro primo tour. E durante quel tour abbiamo avuto la possibilità di incontrare moltissime persone che sono poi nel disco.

cover story

Abbiamo anche iniziato a scrivere le canzoni che sono nel disco, che effettivamente è stato poi registrato pochissimi mesi dopo. A novembre avevamo l’85% del disco registrato. Poi abbiamo aggiunto un paio di pezzi negli ultimi mesi, li abbiamo registrati a inizio 2023. Quindi la genesi del disco è stata abbastanza veloce, tanto che inizialmente pensavamo di rilasciarlo un anno fa. Poi si sono allungati un po’ i tempi. E’ sia una fotografia di quel momento lì, in cui abbiamo iniziato a uscire dalla Lombardia dopo la pandemia, e abbiamo potuto incontrare Ga-

brielli, Arya, Layla al Habash e i personaggi che sono poi nel disco. Fortunatamente ci sono stati quei due anni perché sono nati altri due brani e ci sono stati ragionamenti su come produrlo e altro. Non siamo stati due anni fermi insomma. Anzi abbiamo quasi due altri dischi pronti...

Il deserto, che costituisce l’ambientazione dell’album, mi sembra molto “urbano”, collegato anche al disco precedente. Vorrei sapere che cosa vi ha ispirato questo tipo di idea.

L’ispirazione arriva dal deserto di Wadirum e dalla fascinazione per

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questo luogo, che si chiama anche “Valle della Luna”, ci sono tanti rimandi, anche storici, interessanti. Il concetto di deserto come punto più distante dalla metropoli e dalla realtà urbana che viviamo tutti i giorni. La fusione di questi due elementi, unite dal testo di Carma e che abbiamo cercato di ricreare a livello sonoro. Un pianeta è stato il luogo dal quale siamo partiti per i nostri racconti, in questo caso è stato il deserto e quindi continua la narrazione per “luoghi altri”. Siamo partiti da un luogo altro per descrivere un luogo concreto, siamo partiti dalla città di Milano per scrivere di WadiruM, inteso come deserto mentale, aridità concettuale, non tanto come luogo fisico, anche perché è veramente iconico in duemila film e un sacco di foto Instagram. La nostra idea era di elevarlo un po’ a concetto di qualcosa che stesse attorno. Recentemente a un concerto una ragazza che studia in Giordania ci raccontava che quel deserto è super inflazionato e sta perdendo molto di quel piglio di originalità e genuinità che magari aveva nel

visitarlo qualche anno fa. Noi ci sentiamo di dire che non ci siamo mai stati, nella Valle della Luna, ci siamo fatti semplicemente ispirare e suggestionare da racconti e dalle immagini che vedevamo. Anche perché poi è stato traslato a livello visivo: quando abbiamo fatto le foto le abbiamo realizzate nella cava di marmo, per un collegamento più immediato con la città di Milano e il suo collegamento con il Duomo. Essendo un luogo della mente e non un luogo reale può essere traslato anche per ogni ascoltatore verso uno spazio altro. Un po’ paradossale dirlo a voi che siete già piuttosto “liberi”, ma mi sembra che questo disco goda di una libertà musicale ancora maggiore rispetto alle vostre uscite precedenti.

Assolutamente, diciamo che ci ha aiutato molto in questo il lavoro di Tommaso Colliva: è stato fondamentale nell’aiutarci a partire da quella che era la nostra idea, dal nostro primo disco, e svilupparla in una cosa molto più a fuoco e concreta, più definibile forse. Anche con le collaborazioni lui

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faceva il discorso che possono sembrare tutte molto diverse ma come è anche molto difficile dare un genere a noi. Però se prendi il Danno, se prendi Arya, se prendi Fresu, se prendi Gabrielli, dalla somma di questi puoi capire che genere fa Studio Murena. Comunque il lavoro di produzione sul disco è stato molto interessante. In un certo senso è stato più lungo in minore tempo: abbiamo fatto tutto un lavoro sulle pre-produzioni, cosa che non avevamo fatto con il primo disco. E poi il tempo in studio è stato per fortuna molto maggiore. Se nel primo disco abbiamo fatto tutto in due giorni, a parte qualche voce che siamo andati a fare di notte, però di base abbiamo preso, siamo andati in una stanza e abbiamo registrato, qua c’è stato questo lavoro di registrazione a priori, quindi siamo andati dopo le preproduzioni e le riunioni varie con Tommaso in studio in due giorni abbiamo registrato tutto, nella saletta come se stessimo suonando un live. Poi però per i successivi cinque giorni c’è stato un lavoro incredibile sul

suono: prendi la chitarra, scegli il suono specifico, fai quel lavoro per ogni sezione. Una ricerca sonora molto più ampia, e soprattutto non ci ha messo in una gabbia, ci ha dato libertà totale. Non c’è stato alcun dettame, anche se siamo sotto etichetta, è il prodotto che deve finire da qualche parte in modo riconoscibile. Ma lui ci ha detto: voi siete già riconoscibili. Non c’è bisogno di incastrarlo in un genere o di andare a sporcarlo, andando in una direzione altra che non è la nostra. Anzi ci ha detto di arricchirlo, più che trattenerlo.

Qualche parola sugli ospiti che hanno lavorato con voi?

Come premessa siamo molto contenti di questi nomi, non è stato nulla di preparato a tavolino. Sono persone, amici, conoscenti che ci hanno seguito dall’inizio. Alcuni, come Ghemon, ci hanno dato una spinta, quindi averli nel disco è fonte di grande orgoglio. Diciamo che è nato tutto molto genuinamente, erano tutti nella cerchia delle persone con cui ci eravamo trovati bene a parlare e discutere

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di musica. Con alcuni di loro c’è stata una sorta di magnetismo.

Veramente Ghemon ci segue da quando avevamo mille followers... Va be’ ora avremo duemila followers... Però comunque quando ti si approcciano personaggi così e tu non sei nessuno e sei abituato a vedere la musica concepita come un fattore numerico, dici boh, ma allora sicuramente è un fattore numerico, però dal punto di vista qualitativo noi ci siamo e qualcuno se ne accorge. Quindi in realtà è stato molto semplice. Abbiamo scritto un messaggio su whatsapp: “Se lo facciamo te lo accolli?” E tutti hanno detto che se l’accollavano e lo abbiamo fatto. Dal punto di vista creativo poi è venuto da sé: tutti questi artisti fanno generi diversi ma che ci riguardano, quindi è stato anche naturale questo processo.

Anche Fresu ha detto che se l’accollava?

Quasi un sogno, molto di noi hanno iniziato ad ascoltare jazz grazie a lui. Mi ricordo di aver comprato

“Jazzit” dieci anni fa e ci siamo appassionati a tutti i suoi lavori. Ab-

biamo iniziato a fare jazz a Nuoro Jazz, che sono i suoi seminari. A volte si presentava alle jam session e tutti lo guardavamo tipo...

“E’ arrivato Gesù Cristo”

Ecco, tipo... Quindi lui è stato veramente incredibile. Ci aveva scritto già lui facendoci i complimenti per il primo disco. Quando abbiamo avuto la possibilità di avere un pezzo in cui potesse funzionare molto bene gli abbiamo scritto. E lui nel giro di pochi giorni si è registrato tutto a casa da solo diverse improvvisazioni, con anche tutti effetti e pedali. Ci ha mandato le tracce separate, ci ha detto di prendere quello che ci piaceva di più, di fare l’arrangiamento e poi di girarglielo. I pezzi erano tutti belli e abbiamo avuto soltanto l’imbarazzo della scelta, è stato veramente un grande.

Siete nati nel 2018 e in cinque anni avete già sfornato due dischi e svariate altre uscite: programma o creatività traboccante?

Mah ce n’è uno che dobbiamo inserguire e si fa fatica a stargli dietro (indicano Matteo e tutti ridono,

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Ndr) perché è un vulcano di creatività. Abbiamo avuto un sacco di materiale su cui mettere mano, da cui selezionare, per decidere che pezzi prendere, da cui partire. La produttività non è mai stata un problema per noi per fortuna. In più la programmaticità è qualcosa che sappiamo che esiste ma non è che ci riusciamo molto... Metterci a tavolino a progettare ci viene molto più difficile che seguire l’idea di uno quando funziona. Però in alcune situazioni siamo anche riusciti pian piano a sbloccare questo effetto, grazie a Dardust in

primis che ci ha chiesto di collaborare al suo disco uscito l’anno scorso. Già lì siamo dovuti stare dentro un brano che aveva creato lui e noi abbiamo dovuto metterci dentro dei colori. Il secondo esempio, sempre con Dardust alla Notte della Taranta abbiamo dovuto intanto riportare questo brano che avevamo fatto lui nel disco e poi riportare degli arrangiamenti suoi con citazioni di Bregovic. Anche con Guadagnino abbiamo fatto lavori in questo senso. Va detto che quando abbiamo scritto il disco non avevamo ancora

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un’etichetta, quindi il disco poteva uscire ora come un anno fa. Ma magari questo può essere un punto di partenza e speriamo magari di fare ancora più uscite. Siete tutti di Milano, che sui giornali è tutto uno scintillìo e prezzi impossibili. Voi come vedete la città dal punto di vista musicale, prima di tutto? Milano è una città in cui magari per un mese non c’è mezzo concerto, adesso venerdì ci sono quattro concerti a cui mi piacerebbe partecipare. Abbiamo un sacco di posti dove suonare, ci sono trentun giorni al mese... C’è un venerdì in cui mi sento disonesto andando da una parte e non dall’altra... Quello che da anni si cerca di mettere su è una scena, che tuttora non è coesa, ma ci stiamo provando. Ci sono tanti progetti ma mancano anche gli spazi, di luoghi dove si fa musica abitualmente, però gli artisti internazionali iniziano a scarseggiare perché costano troppo. Ma credo che sia un problema non soltanto di Milano ma generale.

Diciamo anche che Milano è dif-

ficile da identificare con un suono solo

E’ difficile fermare una “wave”, si può fermare su alcuni generi. Ma se penso a Bologna mi viene in mente automaticamente che cos’è. E’ vero anche che a Milano convogliano un po’ tutti quelli che cercano di spiccare o tirarsi fuori dal provincialismo italiano. Milano è super-commista. E’ una figata da un punto di vista di varietà e stratificazione, dall’altro fai fatica a identificarti come Bologna. Avete già avuto contatti, episodici ma significativi, con il cinema. Ma se doveste identificare un film di cui scrivere tutte le musiche quale sarebbe e chi sarebbe il regista?

Nanni Moretti... No dai scherzo...

Probabilmente un Lynch. Ci piace tanto, quell’idea onirica, distopica della realtà. Be’ in ambito italiano Guadagnino, anche se ci abbiamo già un po’ lavoricchiato. L’ultimo Tarantino sarebbe una figata. Oppure qualcosa di cattivissimo coreano terribile che non si capisce...

O un Marvel, che ci facciamo due soldi.

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LIMARRA

“Riconoscersi” è il nuovo album del cantautore siciliano, con una collaborazione eccellente come quella di Cesare “Mac” Pietricich dei Negrita

Ci racconti chi è e che progetto rappresenta Limarra?

Limarra è tutto ciò che sono stato nei miei vent’anni di musica tra paLchi e bettole dal sapore notturno, un agglomerato di esperienze artistiche che convergono in un unico contenitore dal quale, quando sento il bisogno di scrivere, attingo linfa musicale per nuove idee e suoni che voglio sperimentare. Nonostante a un primo acchito potrebbe rimandare a una dimensione di negatività e di stallo, in verità Limarra ha tutto un altro significato: se da un lato coincide con la parola “fango” dall’altro fa riferimento a tutto ciò da cui la vita nasce, un miscuglio liquido di elementi organici e “detriti” vegetali che fondano le basi per nuove esistenze, nuove forme

l’intervista

di vita.

Ci sono molte istanze che si muovono nella pancia di questo disco. Ci racconti su quali ispirazioni e quali moventi hai scritto?

Sentivo la necessità di raccontarmi attraverso le storie degli altri, attraverso gli occhi di chi come me ha vissuto momenti bui apparentemente insormontabili. Non riuscivo a parlare mai in prima persona (e spero quanto prima di poterlo fare… se ne troverò il coraggio) quindi, per permettere alla coscienza di straripare come un fiume in piena, mi sono servito di otto storie diverse (a cavallo tra il romanzo e la verità) che non fanno altro che raccontare la mia ansia e la mia paranoia, le mie paure ma anche i miei successi. L’uomo e le sue “convinzioni” di grandezza sono stati il punto di partenza per descrivere invece il nostro lato umano, la nostra verità, senza abbellimenti né troppi giri di parole.

Che cosa ha regalato Cesare

“Mac” Petricich a questo album?

Credo che il l’asse Sicilia - Arezzo sia stato un vantaggio nel rapporto che durante i due anni di lavoro

con Cesare si è man mano delineato sempre con più chiarezza. Inizialmente i confini erano netti e i percorsi musicali di entrambi facevano riferimento a canovacci artistici differenti ma non lontani. Ecco, è proprio qui, in questa diversità “non diversa”, che tutto ha cominciato a prendere forma dando valore a ciò che era più importante, la produzione. Confrontami con un mostro sacro del rock italiano per me è stata una sfida bellissima, che ha rappresentato la base della simbiosi necessaria.

Le sue chitarre, le sue idee d’arrangiamento hanno superato le idee primordiali degli otto brani che compongono il disco, la sua rielaborazione dei suoni che inizialmente avevo scelto mi ha stupito, donando all’intero lavoro un tocco anni ’90 in puro stile Negrita.

Quali sono state le canzoni più difficili da scrivere e con cui confrontarsi?

Una su tutte è stata la più difficile ma quella che, d’altro canto, ho scritto in meno di 24 ore: Questa terra è mia. Da circa tre anni mi

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occupo attivamente di ambientalismo, coinvolgendo, attraverso l’associazione di volontariato di cui faccio parte, scuole primarie e istituti superiori in azioni di valorizzazione del territorio (dalla mera pulizia di un campo a operazioni più complesse come la riqualifica di aree verdi). Bene, sulla base di tutto questo ho scritto Questa terra è mia, un brano che, come ha fatto Appino (Zen Circus) nella sua Canzone contro la Natura che racconta una storia dal punto di vista dello “sporcaccione”, vuole essere altro che una semplice canzone, ma un monito, un suggerimento, una linea. Sono stanco di vedere poco rispetto per tutto ciò che sta al di fuori dei nostri giardini, c’è bisogno di amore per il nostro pianeta. La difficoltà nello scrivere il brano è stata preventiva, cioè mi sentivo emotivamente troppo coinvolto ma ero sicuro che veicolare la mia rabbia in un testo e in una successione armonica di accordi avrebbe dato giustizia alla mia sete di civiltà. Che programmi hai per i prossimi mesi?

Il 28 maggio presenterò il disco nella mia città (Ragusa) e per l’estate sono in fase di costruzione della tournée ma al momento non posso rivelare altri dettagli tranne una cosa soltanto: il 7 giugno sarò uno dei 1000 musicisti che suonerà per Rockin’1000 a Roma. Spero di conoscere uno a uno chi ha avuto la forza e il piacere di ascoltarmi in questi mesi e portare il mio progetto a una dimensione live mi dà quell’emozione che non provavo da prima della pandemia.

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UNDERDOG

Si intitola “Underdog vs. Underdog” il nuovo lavoro della band, che ha cambiato pelle e formazione ma non ha perso il gusto per le sfide

Prima domanda ovvia: perché più di dieci anni di attesa dopo l’ultimo disco?

Perchè per vicissitudini varie i sette membri storici che avevano prodotto i due dischi hanno preso strade differenti, non è facile sopportare la vita di una band underground fatta di furgoni, live, spostamenti lunghi, gioie e dolori.

Proprio mentre iniziavano le richieste di live all’estero, quindi più impegnative. Io e la cantante

Basia ci siamo guardati e abbiamo deciso di tornare a quella che era l’idea iniziale del progetto: un gruppo aperto a molte collaborazioni dove musicisti di diversa estrazione entravano e uscivano in base al periodo, al tipo di tour. Volevamo mettere su disco quella che era ormai la nuova musica degli Underdog, una metamorfosi creata tra un live e l’altro collaborando e andando in tour con diversi musicisti. Mai turnisti però, abbiamo sempre voluto un pro-

l’intervista

getto suonato d’insieme, che ci ha dato la possibilità di avere sempre nuovi stimoli portati da chi in un determinato periodo faceva parte a tutti gli effetti della band. Ci abbiamo messo molti anni perchè in verità abbiamo sempre dato priorità all’aspetto live, abbiamo portato questi brano nuovi in lungo e largo ma non li registravamo,soffriamo se ci fermiamo in studio. Mi spiegate il titolo e che tipo di idee stanno alla base di Underdog vs. Underdog?

Questo disco incorpora due formazioni differenti. Nei vari cambi di line up di questi anni abbiamo avuto la fortuna di condividere il palco e di registrare nuove idee con musicisti che hanno contribuito molto alla ricerca musicale di questi dieci anni, volevamo immortalare le due formazioni più prolifiche e con cui abbiamo legato di più, una è quella attuale. Il titolo rievoca il contrasto nell’approccio e nella scrittura, nella scelta degli strumenti utilizzati. Una formazione ha il pianoforte che si occupa delle armonie, l’altra è più caratterizzata dalla

chitarra e dall’elettronica, abbiamo osato, in quest’ultima, anche l’utilizzo della lingua italiana. Altro fattore importante è dato dalla sensazione che avevamo di distaccarci dai nostri lavori precedenti, quasi a rinnegare quello che avevamo sin qui fatto, c’è stata una crescita personale e musicale, forse abbiamo perso la goliardia della band liceale giovane di sette elementi e siamo diventati più riflessivi, più intimi. Volevamo prendere la sfida di fare un terzo disco differente dai primi due che sono stati il nostro marchio stilistico per molti anni, provare ad andare oltre.

Vorrei che approfondiste concetti e ispirazioni di Mare Mostrum

Il testo di Mare Mostrum l’ho scritto di getto dopo la mia prima missione di soccorso nel Mediterraneo (sono un operatore umanitario). Mi ha fatto schifo la banalità del male e la (diffusa)

stupidità dell’uomo. Con gli Underdog poi ne abbiamo fatto un brano che mettesse in contrasto i selfie fatti sulla spiaggia con la catastrofe umana che si consumava,

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e si consuma anche oggi, a pochi chilometri dalle nostre coste. Come una telecamera dall’alto che inquadra una donna distesa sulla spiaggia a prendere il sole, concentrata sulla sua abbronzatura, le persone felici, poi la telecamera continua il suo volo e si addentra nel mare fino a raggiungere un uomo che affoga nel mare, in silenzio, a pochi chilometri da noi e dai nostri piccoli problemi borghesi. Ho lasciato la mia parte in

italiano, io odio “cantare” in italiano, ma il messaggio, stavolta, doveva essere chiaro e diretto. Avete una notevole esperienza live: c’è in progetto un tour a sostegno di questo disco?

Presenteremo il disco il 22 giugno a Roma nella bellissima location del Casilino Sky Park del Fusolab, da lì inizieremo con l’attività live concentrata principalmente da settembre in poi. Non vediamo l’ora di ricominciare.

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TIZIO BONONCINI

Dopo la pubblicazione di una serie di singoli esce il terzo album del cantautore bolognese “Tutto il mondo è un palcOSCENO”

Questo disco ha avuto una gestazione piuttosto lunga. Ce la racconti?

Sì, in effetti sono pezzi che ho iniziato a scrivere nel 2017. Io do la colpa alla pandemia, che ha rallentato tutto, compresa la produzione dell’album! Mi fa ridere che abbiate usato il termine “gestazione”, visto che per me un album è a tutti gli effetti come un figlio e perché , questo nello specifico, è stato prodotto esattamente tra la nascita della mia prima figlia nel 2017 e la nascita della seconda, lo scorso 30 aprile! Dicevamo? Ah sì. Purtroppo o per fortuna non devo rispondere a nessuno se non ai miei tempi artistici, e per questo preferisco che le mie canzoni abbiano un certo periodo di decantazione. Quando abbozzo un pezzo a casa, al piano, capita spesso che poi lo abbandoni per settima-

ne o anche mesi, per poi riprenderlo successivamente. E tutto questo moltiplicato per un sacco di tracce, ben 15! Troppe?! Forse sì, ma per me erano necessarie. Tutte e 15. Un altro rallentamento è stato causato da mie scelte di produzione: ho cambiato studio di registrazione in corso d’opera, rivolgendomi al produttore Stefano Riccò, allo Studio Esagono di Rubiera RE; poi ho avuto contatti con alcune etichette e ho dovuto scegliere con chi pubblicare. In sintesi, avrei potuto rispondere con una sola frase: sono un eterno indeciso, ho difficoltà a prendere decisioni, ecco perché ci ho messo un sacco di tempo!

Parli con ironia di una serie di storture che ci affliggono. Ci racconti la genesi tipica di una tua canzone?

Le mie canzoni nascono guardan-

domi intorno con curiosità. Vivendo. Cercando di lasciarmi stupire da quello che vedo. Tra l’altro, come dicevo, queste canzoni sono nate dopo la nascita della mia prima figlia, evento che mi ha fortemente “sensibilizzato” su quelle storture. Ho avvertito fortissima la necessità di parlarne. Con ironia, perché l’ironia è un filtro che permette di astrarre, di usare un punto di vista trasversale e imprevedibile. Di base poi io sono un gran chiacchierone. Se mi imbatto in un argomento che mi interessa, amo parlarne, sviscerarlo, sentire le opinioni degli altri, di amici, parenti, colleghi. A volte senza neanche la necessità di farmi una mia opinione personale (strano, in questo mondo di tuttologi).

E scriverne in una canzone è un modo per parlarne con una platea più ampia. E’ una mia necessità

l’intervista

comunicativa. Alcune canzoni di questo album, come Uomo Macho e Biscotti, in particolare, hanno avuto una gestazione lunghissima proprio perché erano argomenti che mi premevano molto. E prima di trovare il modo - a mio avvisogiusto per affrontarli, ho scritto e poi gettato pagine su pagine. Solo quando né testo né musica mi annoiano all’ennesima ripetizione, allora propongo la canzone al mio sodale, Vincenzo De Franco, violoncellista che mi segue ormai dal primo album. Vincenzo prova puntualmente a stravolgermi la musica. Io mi oppongo. Poi ci ripenso... un tira e molla creativo che spesso porta a una bellissima crescita delle canzoni.

C’è stato anche un certo cambiamento a livello sonoro. Ci spieghi perché?

Di base perché mi piace cambiare.

In tutti i miei dischi ho avuto approcci sonori diversi. Nel primo, Entrambi Tre del 2012, c’era un suono molto scarno ed essenziale, molto folk. In Non fate caso al disordine, del 2017, è sempre tutto fortemente acustico, ma le sonorità sono un po’ jazzy, swing. Parlo volutamente per approssimazione. Questa volta mi è venuta voglia di giocare con i suoni elettronici, che mai prima avevo usato nelle mie canzoni. Molto dipende anche dagli ascolti che faccio in un determinato periodo della mia vita. Mi

son preso delle cotte musicali incredibili... che corrispondono poi alla veste musicale che voglio dare all’album.

Titolo e copertina fanno riferimento al teatro e del resto c’è una certa dose di cabaret nei tuoi pezzi. Quali sono le tue fonti di ispirazione in questo campo?

Questo album è musicalmente alla ricerca di una fusione tra il pop e il cabaret. Quando dico cabaret non penso a Zelig. Non faccio stand up comedy. Penso più

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al cabaret che in Italia potremmo chiamare teatro-canzone e che rimanda a Jannacci, Gaber, Cochi e Renato... per dire. Che fanno parte della mia formazione, ovviamente. Ma paradossalmente ho ascoltato più Battiato, per questo album. Volevo che avesse un vestito più pop, che potesse suonare “moderno” anche all’ascoltatore distratto, pur mantenendo vivo il gusto per l’ironia e il paradosso tipici del cabaret. Ho scoperto che esiste il punk cabaret. Così ho deciso che il mio genere è il pop-cabaret. Hai già pronta la versione live di questo disco? Ti vedremo in tour?

Più o meno. Alcuni pezzi sono già in rodaggio da un po’. Non aspettatevi di sentirmi live riproporre gli stessi arrangiamenti del disco. Faccio di necessità virtù. Intanto non mi esibisco mai con una formazione fissa: porto i miei pezzi in solo, in duo o trio. Per cui ogni live è necessariamente a sé stante. Un po’ come se io fossi la cover band di me stesso. Per tornare al concetto di pop-cabaret, durante i miei concerti la performance, lo

spettacolo e la comunicazione e il gioco tra i musicisti e con il pubblico la fanno da padrone. Le basi le ho prese in considerazione, ma penso che ammazzerebbero un po’ il bello del mio live. Forse. Una volta Lorenzo Kruger, che conosco e a cui ho avuto il piacere di aprire un live, su facebook scrisse una interessantissima analisi di questo argomento, che faccio mia. Metteva a confronto teatro e cinema con musica live e musica registrata. Prima il cinema era il teatro filmato. Poi il cinema si è differenziato, con l’aumentare della tecnologia, ed è diventato un’arte a sé stante. E il teatro così ha avuto modo di acquisire più forza, senza bisogno di ricorrere il cinema. Allo stesso modo potrebbe essere vista la musica live, come il teatro, e la musica registrata, come il cinema. In quest’ottica io cerco di presentare un live che non punti quindi a riproporre esattamente il mio disco: il mio live è uno spettacolo in cui racconto le canzoni sono messe in scena, e in cui cerco (e spero) di coinvolgere il pubblico.

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GENNARO PORCELLI

Da anni accanto a Edoardo Bennato, il chitarrista arriva al terzo album, “Me, You and the Blues“, tra passione, amore e sacrifici

l’intervista

Ci racconti quali sono gli ingredienti principali del tuo terzo disco?

Gli ingredienti principali sono tanta passione, amore, sacrifici, dedizione e verità. Miscelati con una buona dose di studio e ricerca.

Qual è la traccia del disco alla quale sei più legato e perché?

Sicuramente è Smiling eyes. Smiling eyes parla di una storia d’amore fatta di sguardi tra un padre e una figlia di cinque anni. Gli sguardi si incrociano quando la piccola si sveglia tra le braccia del suo papà dopo aver fatto un brutto sogno, in quel momento lo sguardo rassicurante e pieno d’amore del genitore fa sì che la piccola si riaddormenti serenamente immaginando e sperando per lei un futuro meraviglioso come quell’incontro di sguardi…

Ci parli degli ospiti del disco? Più che ospiti sono miei amici coi quali condivido il palco da anni. Con Edoardo Bennato ci suono dal 2005 e ci lega molto la nostra passione per il blues, e da lui continuo a imparare cose nuove ogni giorno. Con Guy Davis ci conosciamo da qualche anno e subito si è creato un feeling pazzesco sia in studio che dal vivo. Credo sia uno dei migliori blues man in circolazione (nominato ai Grammy

Awards nel 2017)… Mario Insenga è il mio maestro da sempre oltre che mio caro amico con cui ho scritto il brano Johnny dedicato a Johnny Winter. Daniele Sepe è un musicista stratosferico! Vince Pastano è uno dei chitarristi che stimo di più ed è anche un grandissimo arrangiatore oltre che produttore. Sono felice che le nostre strade si siano incrociate in questo disco e nella vita.

Che cosa ti hanno regalato gli

anni di musica accanto a Bennato?

Mi hanno regalato un sogno che si è avverato.

Che progetti hai per i prossimi mesi?

Da Giugno partirà il mio tour Me, you and the blues seguito da Barley Arts e Sound inside records e anche il tour con Edoardo Bennato dove come al solito cercherò di dare il meglio di me e trasmettere a chi mi ascolta good vibes.

VIRGINIA

“Viaticum” è il primo ep (ma è già in arrivo anche il secondo) di una cantautrice che si autodefinisce “sognatrice ambiziosa, generosa e leale” Ciao, raccontaci chi sei e come nasce il tuo progetto Sono fragile ma tenace, solare ma inquieta. Il mio essere una sognatrice ambiziosa, generosa e leale mi ha sempre dato la forza di affrontare i miei demoni interiori con coraggio e di trovare la costanza e la voglia di andare avanti sebbene, anche solo per un istante, avrei voluto mollare tutto. Sono Virginia. Ho tanto da raccontare e altrettanto da donare, per questo sono nata musicista. Il mio progetto nasce proprio dal sentirmi nata per la musica: ho sempre avvertito l’esigenza di parlare agli altri attraverso una lingua che potesse esprimere al meglio le mie emozioni e condividere i miei pensieri e alcuni vissuti personali. Il modo mi-

l’intervista

gliore per arrivare al cuore delle persone è stato rivolgermi all’arte e, in particolare, alla musica. Come ho già avuto modo di raccontare, Viaticum rappresenta solo una parte delle prime pagine del mio ‘Caro Diario’ ed è l’inizio di una storia che si racconta in capitoli. L’ep è solo il primo e fremo dalla voglia di presentarvi il secondo.

Quelle che hai messo insieme sono canzoni che hai nel cassetto da un po’ oppure sono state composte per l’occasione?

Sono canzoni che conservo da un po’ di tempo. La prima traccia dell’ep, Closer, è nata nel 2017 ed è stata la prima vera canzone che ho deciso di tenere, tra le tante che avevo tentato di scrivere prima di questa, e che mi ha fatto capire che la strada da artista solista era quella giusta che avrei voluto e dovuto intraprendere. Ho voluto unire canzoni che già in partenza creano tra loro un legame armonico solo sulla base del significato che celano. Qual è stato il contributo di Angelo Epifani al disco?

Angelo Epifani ha dato vita al progetto. Lui mi ha trovata, mi ha incoraggiata, ha creduto in me e ha dato ai miei brani un valore aggiunto e tuttora continua a farlo. Il suo contributo? Essere il mio compagno di strada.

Quali sono i tuoi punti di riferimento musicali? Si avverte un’aria molto internazionale nei tuoi brani...

Ho sempre amato la musica internazionale da cui ho assorbito influenze e suggestioni, dando vita a uno stile eclettico che sfugge a definizioni troppo precise. I miei punti di riferimento variano molto: spazio da generi come il pop, l’alternative e l’indie a generi come la musica d’ambiente e la musica cinematografica. Trovo ispirazione in vari artisti tra cui Ed Sheeran, SYML, Novo Amor, Aquilo, Hans Zimmer, James Newton Howard e qualsiasi musicista si muova in un’atmosfera chillout.

Quali saranno i tuoi passi (artistici) successivi?

Attualmente sto lavorando ad un progetto di songwriting in italia-

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no ma mi piacerebbe anche avere l’opportunità di fare esperienze nell’ambito della musica per il cinema e della musicoterapia.

GORILLA PULP

“Mask Off!” è il nuovo lavoro della band, alle prese con influenze morriconiane, rock delle origini e una sorpresa in arrivo...

La band esiste dal 2014, ma potete raccontarci chi sono i Gorilla Pulp oggi?

I Gorilla Pulp oggi sono un animale selvaggio che ha appena compiuto i 9 anni d’età. Siamo la stessa band con l’assurda voglia di palco che aveva quando e per come è nata, con una visione più

l’intervista

ampia di quello che è la musica oggi. Siamo la band che scrive ancora di Tufo Rock e va in tour con la stessa attitudine, quella che ci tiene legati come una famiglia. La nostra ricetta per rimanere incollati è questa: Sesso, Birra & Tufo Rock.

Che cosa avete messo dentro il

nuovo disco?

Il nuovo disco è i Gorilla Pulp un po’ più maturi, ma senza il compromesso di dover per forza scrivere qualcosa di diverso. Dentro abbiamo inserito tutto quello che per noi sono le vere radici: l’heavy blues, lo stoner e il garage rock d’annata. Tutto quello con cui siamo cresciuti, ma in chiave Gorilla sarà ciò che potrete trovare nel nuovo Mask Off! Dall’inno alla nostra Tufo Rock Army, lo zoccolo duro di ragazze e ragac-

ci che non smette mai di seguirci, alla slide guitar accompagnata da whammy e fuzz a cannone. Insomma, non abbiamo per niente snaturato la nostra essenza. Le vere novità però sono però quelle che riguardano un intro/ tributo acid western a cui teniamo molto e l’inserimento, per la prima volta, di una ballad come ce la sentivamo da tempo e non avevamo mai scritto. Per noi una vera rivelazione, poiché non eravamo mai riusci-

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ti a scriverne una, forse perché non era il momento. Inoltre c’è un grande novità che “abbiamo messo dentro al nuovo album” nella versione lp gatefold: l’inserto è in realtà un pop up da tagliare, incollare e costruire, in pieno stile 70’s. Ci sono riferimenti “morriconiani” nell’album: da cosa nascono?

Esattamente, e questa costa che avete notato ci fa troppo piacere. Come dicevamo prima è una delle nostre “fisse” che non avevamo sfogato prima d’ora. Il nostre umile e speriamo gradito tributo al Maestro dei Maestri, Ennio Morricone. Ci trovavamo a finire di ascoltare le prove Master quando abbiamo ricevuto in studio la notizia della sua morte. Ci siamo guardati e ci siamo trovati d’accordo nell’intitolarla Ennio’s Dusk in The Desert. La nostra musica nasce da lì, dai film di Sergio Leone e da quel luogo chiamato Deserto. Chi sono i vostri punti di riferimento nel rock di oggi?

Oggi quello che ci piace sicuramente tanto sono ancora le band ispirate ai pilastri del rock

70’s in tutte le loro sfumature. Il

rock english style caratterizzato dai duelli di chitarre armonizzate dal suono “brown fuzzoso”, il basso legnoso e la batteria groovy sono di certo quello che ci piace sempre più ascoltare e riscoprire. Per fare qualche nome si riassume tutto nella nuova corrente del garage/stoner moderno come Hellacopters, QOTSA, Kadavar e Graveyard, per citarne alcuni. Che progetti avete per i prossimi mesi?

Stiamo per tirar fuori un nuovo format che ci farà divertire da matti. Per la prima volta lo diciamo a voi di TRAKS in un’intervista: stiamo per aprire il nostro profilo ONLY FANS. Si è tutto vero e ci sarà da divertirsi. A brevissimo e basterà seguirci nei prossimi giorni per scoprire tutti gli aggiornamenti. A parte questo, i prossimi mesi saranno dedicati esclusivamente alla promozione di Mask Off! Tra date singole, festival e un tour da finalizzare per l’autunno. Siamo super concentrati e non vediamo l’ora di suonare veramente forte e al massimo volume in ogni data!

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ANDREA CANIATO

“Storie di carta” è il nuovo lavoro del cantautore di origine novarese, che ci racconta le nuove canzoni e i progetti in arrivo Direttore di scuola di musica, membro di una band thrash metal, compositore di colonne sonore, ora cantautore... Ci spieghi esattamente chi sei?

Diciamo che sono una persona molto curiosa. Amo la musica da sempre e in tutte le sue forme e stili. Tutte le esperienze che ho fatto hanno un comune denominatore la passione, ogni progetto mi doveva e mi deve coinvolgere ed emozionare. Ho sempre pensato che per ogni età ci sia un linguaggio perfetto per esprimere ciò che si ha dentro e i generi nei quali mi sono sempre cimentato rispecchiano le caratteristiche dell’evoluzione e la maturazione di un individuo.

Come hai scritto queste “Storie di carta”?

Quasi tutto a casa durante il lock-

down. Avevo trasferito il mio studio a casa anche per fare le lezioni online e avevo deciso di investire questa pausa per imbastire un nuovo album.nel tempo poi ho decisodi aspettare con l’uscita curarne i dettagli. In più rispetto al primo disco composto da one man band c’è stata un’evoluzione inserendo una band vera e propria composta da Roberto Guald, Antonio Lupi e Mario Zara. Professionisti e persone straordinarie che hanno regalato al disco colori e sfaccettature, rendendolo vivo. Qual è il brano a cui sei più legato e perché?

Difficilissimo! Se mi permettete ne scelgo 2. La prima è Come una nuvola canzone dedicata a mia moglie.La prima composta per il disco , sul terrazzo mentre guardavo mia figlia giocare. Ogni volta

l’intervista

che la suono sorrido quindi posso dire che è una canzone speciale. La seconda è Ultimo round, una canzone che parla di un pugile con sogni e determinazione. Cambiando da pugile a musicista il salto è breve e rappresenta un po la mia voglia di lottare ed emergere in ciò che amo. Spero davvero

sia un brano che sproni e carichi chiunque per raggiungere i propri obiettivi.

Com’è la scena musicale (se c’è) della zona di Novara?

La scena novarese è ampia e varia. Ci sono sicuramente diverse eccellenze, colleghi stimati. Anche tra i giovani ci sono emergenti di qualità. Unica pecca ma credo sia così dappertutto, la chiusura e il poco spirito collaborativo. Altro grosso problema i luoghi dove poter far musica ormai rari e che bisogna ringraziare per la loro determinazione nell’investire in serate musicali rischiando di avere degli incassi miseri.

Che progetti hai per i prossimi mesi del 2023?

Progetti per il futuro... live ma non solo. Per i live con la band abbiamo riarrangiato i brani del primo disco e c’è già l’intenzione di incidere nuovamente i brani con il complesso. Poi scrivere nuovo materiale e tracciare il percorso dei prossimi anni. I propositi ci sono e l’impegno non manca, vedremo cosa riserverà il futuro.

DARKHOLD

Fiabe in tinte metal: “Tales from Hell” è il disco d’inediti d’esordio della band, che si è fatta le ossa come tributo dei Testament

Ciao, ci raccontate chi sono i Darkhold?

Ci siamo formati inizialmente Come The Preachers, unico tributo europeo ai thrashers americani Testament, tributo che è tuttora attivo, ma fin da subito abbiamo sentito l’ esigenza di far nascere un progetto di musica originale, appunto i Darkhold. Siamo tutti musicisti che hanno militato in solide realtà della scena metal , cito Methedras, Nefastis, Self Disgrace, Syndrome. La line up è formata da Claudio Facheris alla

voce , Eros Mozzi chitarra solista, Giuseppe Celeste al basso, Jacopo Casadio alla batteria e Giovanni Casagrande alla chitarra ritmica. Perché avete deciso di “ri-raccontare” alcune fiabe?

Il concept dell’album è stato ideato dal nostro cantante che, diventato padre, ha preso spunto dalle fiabe che racconta al figlio la sera , ma ha immaginato per ognuna di esse il protagonista di turno prenda decisioni diverse da quelle originali, è quindi il finale della storia prende una direzione diversa, e

l’epilogo potrebbe anche non essere lieto! Vi invito dunque a mettervi comodi e ascoltare il disco con il booklet alla mano per leggere anche i testi, vi assicuro che ne rimarrete sorpresi. Quali sono i vostri punti di riferimento musicali?

I nostri punti di riferimento si possono trovare nel thrash anni 80/90, nel metal classico e più moderno e groovoso. Qualche nome?

Testament naturalmente, Metallica, Megadeth, Forbidden , Pantera, Maiden, Machine Head e così

via.

Che progetti avete per l’estate?

Be’ sole mare e birra! A parte gli scherzi, in questi mesi saremo intenti a preparare la nuova stagione live, infatti stiamo sondando il terreno per trovare una buona agenzia di booking che ci aiuti a trovare spazi live. Suonare dal vivo è la dimensione che preferiamo e pensiamo che sia il miglior modo per farsi conoscere, soprattutto per una band al suo esordio.

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