10 minute read

STUDIO MURENA DA MILANO AL DESERTO

Next Article
DARKHOLD

DARKHOLD

Si intitola “WadiruM”, come l’omonimo deserto giordano, il nuovo disco del sestetto milanese, ricco di collaborazioni eccellenti (da Ghemon a Layla al Habash a Paolo Fresu) e di sperimentazione musicale

Mi raccontate un po’ la storia di questo disco uscito a “soli” due anni dal vostro esordio?

Advertisement

Subito dopo l’uscita del primo disco, parliamo di febbraio 2021, abbiamo avuto la possibilità di fare il nostro primo tour. E durante quel tour abbiamo avuto la possibilità di incontrare moltissime persone che sono poi nel disco.

Abbiamo anche iniziato a scrivere le canzoni che sono nel disco, che effettivamente è stato poi registrato pochissimi mesi dopo. A novembre avevamo l’85% del disco registrato. Poi abbiamo aggiunto un paio di pezzi negli ultimi mesi, li abbiamo registrati a inizio 2023. Quindi la genesi del disco è stata abbastanza veloce, tanto che inizialmente pensavamo di rilasciarlo un anno fa. Poi si sono allungati un po’ i tempi. E’ sia una fotografia di quel momento lì, in cui abbiamo iniziato a uscire dalla Lombardia dopo la pandemia, e abbiamo potuto incontrare Ga- brielli, Arya, Layla al Habash e i personaggi che sono poi nel disco. Fortunatamente ci sono stati quei due anni perché sono nati altri due brani e ci sono stati ragionamenti su come produrlo e altro. Non siamo stati due anni fermi insomma. Anzi abbiamo quasi due altri dischi pronti...

Il deserto, che costituisce l’ambientazione dell’album, mi sembra molto “urbano”, collegato anche al disco precedente. Vorrei sapere che cosa vi ha ispirato questo tipo di idea.

L’ispirazione arriva dal deserto di Wadirum e dalla fascinazione per questo luogo, che si chiama anche “Valle della Luna”, ci sono tanti rimandi, anche storici, interessanti. Il concetto di deserto come punto più distante dalla metropoli e dalla realtà urbana che viviamo tutti i giorni. La fusione di questi due elementi, unite dal testo di Carma e che abbiamo cercato di ricreare a livello sonoro. Un pianeta è stato il luogo dal quale siamo partiti per i nostri racconti, in questo caso è stato il deserto e quindi continua la narrazione per “luoghi altri”. Siamo partiti da un luogo altro per descrivere un luogo concreto, siamo partiti dalla città di Milano per scrivere di WadiruM, inteso come deserto mentale, aridità concettuale, non tanto come luogo fisico, anche perché è veramente iconico in duemila film e un sacco di foto Instagram. La nostra idea era di elevarlo un po’ a concetto di qualcosa che stesse attorno. Recentemente a un concerto una ragazza che studia in Giordania ci raccontava che quel deserto è super inflazionato e sta perdendo molto di quel piglio di originalità e genuinità che magari aveva nel visitarlo qualche anno fa. Noi ci sentiamo di dire che non ci siamo mai stati, nella Valle della Luna, ci siamo fatti semplicemente ispirare e suggestionare da racconti e dalle immagini che vedevamo. Anche perché poi è stato traslato a livello visivo: quando abbiamo fatto le foto le abbiamo realizzate nella cava di marmo, per un collegamento più immediato con la città di Milano e il suo collegamento con il Duomo. Essendo un luogo della mente e non un luogo reale può essere traslato anche per ogni ascoltatore verso uno spazio altro. Un po’ paradossale dirlo a voi che siete già piuttosto “liberi”, ma mi sembra che questo disco goda di una libertà musicale ancora maggiore rispetto alle vostre uscite precedenti.

Assolutamente, diciamo che ci ha aiutato molto in questo il lavoro di Tommaso Colliva: è stato fondamentale nell’aiutarci a partire da quella che era la nostra idea, dal nostro primo disco, e svilupparla in una cosa molto più a fuoco e concreta, più definibile forse. Anche con le collaborazioni lui faceva il discorso che possono sembrare tutte molto diverse ma come è anche molto difficile dare un genere a noi. Però se prendi il Danno, se prendi Arya, se prendi Fresu, se prendi Gabrielli, dalla somma di questi puoi capire che genere fa Studio Murena. Comunque il lavoro di produzione sul disco è stato molto interessante. In un certo senso è stato più lungo in minore tempo: abbiamo fatto tutto un lavoro sulle pre-produzioni, cosa che non avevamo fatto con il primo disco. E poi il tempo in studio è stato per fortuna molto maggiore. Se nel primo disco abbiamo fatto tutto in due giorni, a parte qualche voce che siamo andati a fare di notte, però di base abbiamo preso, siamo andati in una stanza e abbiamo registrato, qua c’è stato questo lavoro di registrazione a priori, quindi siamo andati dopo le preproduzioni e le riunioni varie con Tommaso in studio in due giorni abbiamo registrato tutto, nella saletta come se stessimo suonando un live. Poi però per i successivi cinque giorni c’è stato un lavoro incredibile sul suono: prendi la chitarra, scegli il suono specifico, fai quel lavoro per ogni sezione. Una ricerca sonora molto più ampia, e soprattutto non ci ha messo in una gabbia, ci ha dato libertà totale. Non c’è stato alcun dettame, anche se siamo sotto etichetta, è il prodotto che deve finire da qualche parte in modo riconoscibile. Ma lui ci ha detto: voi siete già riconoscibili. Non c’è bisogno di incastrarlo in un genere o di andare a sporcarlo, andando in una direzione altra che non è la nostra. Anzi ci ha detto di arricchirlo, più che trattenerlo.

Qualche parola sugli ospiti che hanno lavorato con voi?

Come premessa siamo molto contenti di questi nomi, non è stato nulla di preparato a tavolino. Sono persone, amici, conoscenti che ci hanno seguito dall’inizio. Alcuni, come Ghemon, ci hanno dato una spinta, quindi averli nel disco è fonte di grande orgoglio. Diciamo che è nato tutto molto genuinamente, erano tutti nella cerchia delle persone con cui ci eravamo trovati bene a parlare e discutere di musica. Con alcuni di loro c’è stata una sorta di magnetismo.

Veramente Ghemon ci segue da quando avevamo mille followers... Va be’ ora avremo duemila followers... Però comunque quando ti si approcciano personaggi così e tu non sei nessuno e sei abituato a vedere la musica concepita come un fattore numerico, dici boh, ma allora sicuramente è un fattore numerico, però dal punto di vista qualitativo noi ci siamo e qualcuno se ne accorge. Quindi in realtà è stato molto semplice. Abbiamo scritto un messaggio su whatsapp: “Se lo facciamo te lo accolli?” E tutti hanno detto che se l’accollavano e lo abbiamo fatto. Dal punto di vista creativo poi è venuto da sé: tutti questi artisti fanno generi diversi ma che ci riguardano, quindi è stato anche naturale questo processo.

Anche Fresu ha detto che se l’accollava?

Quasi un sogno, molto di noi hanno iniziato ad ascoltare jazz grazie a lui. Mi ricordo di aver comprato

“Jazzit” dieci anni fa e ci siamo appassionati a tutti i suoi lavori. Ab- biamo iniziato a fare jazz a Nuoro Jazz, che sono i suoi seminari. A volte si presentava alle jam session e tutti lo guardavamo tipo...

“E’ arrivato Gesù Cristo”

Ecco, tipo... Quindi lui è stato veramente incredibile. Ci aveva scritto già lui facendoci i complimenti per il primo disco. Quando abbiamo avuto la possibilità di avere un pezzo in cui potesse funzionare molto bene gli abbiamo scritto. E lui nel giro di pochi giorni si è registrato tutto a casa da solo diverse improvvisazioni, con anche tutti effetti e pedali. Ci ha mandato le tracce separate, ci ha detto di prendere quello che ci piaceva di più, di fare l’arrangiamento e poi di girarglielo. I pezzi erano tutti belli e abbiamo avuto soltanto l’imbarazzo della scelta, è stato veramente un grande.

Siete nati nel 2018 e in cinque anni avete già sfornato due dischi e svariate altre uscite: programma o creatività traboccante?

Mah ce n’è uno che dobbiamo inserguire e si fa fatica a stargli dietro (indicano Matteo e tutti ridono,

Ndr) perché è un vulcano di creatività. Abbiamo avuto un sacco di materiale su cui mettere mano, da cui selezionare, per decidere che pezzi prendere, da cui partire. La produttività non è mai stata un problema per noi per fortuna. In più la programmaticità è qualcosa che sappiamo che esiste ma non è che ci riusciamo molto... Metterci a tavolino a progettare ci viene molto più difficile che seguire l’idea di uno quando funziona. Però in alcune situazioni siamo anche riusciti pian piano a sbloccare questo effetto, grazie a Dardust in primis che ci ha chiesto di collaborare al suo disco uscito l’anno scorso. Già lì siamo dovuti stare dentro un brano che aveva creato lui e noi abbiamo dovuto metterci dentro dei colori. Il secondo esempio, sempre con Dardust alla Notte della Taranta abbiamo dovuto intanto riportare questo brano che avevamo fatto lui nel disco e poi riportare degli arrangiamenti suoi con citazioni di Bregovic. Anche con Guadagnino abbiamo fatto lavori in questo senso. Va detto che quando abbiamo scritto il disco non avevamo ancora un’etichetta, quindi il disco poteva uscire ora come un anno fa. Ma magari questo può essere un punto di partenza e speriamo magari di fare ancora più uscite. Siete tutti di Milano, che sui giornali è tutto uno scintillìo e prezzi impossibili. Voi come vedete la città dal punto di vista musicale, prima di tutto? Milano è una città in cui magari per un mese non c’è mezzo concerto, adesso venerdì ci sono quattro concerti a cui mi piacerebbe partecipare. Abbiamo un sacco di posti dove suonare, ci sono trentun giorni al mese... C’è un venerdì in cui mi sento disonesto andando da una parte e non dall’altra... Quello che da anni si cerca di mettere su è una scena, che tuttora non è coesa, ma ci stiamo provando. Ci sono tanti progetti ma mancano anche gli spazi, di luoghi dove si fa musica abitualmente, però gli artisti internazionali iniziano a scarseggiare perché costano troppo. Ma credo che sia un problema non soltanto di Milano ma generale.

Diciamo anche che Milano è dif- ficile da identificare con un suono solo

E’ difficile fermare una “wave”, si può fermare su alcuni generi. Ma se penso a Bologna mi viene in mente automaticamente che cos’è. E’ vero anche che a Milano convogliano un po’ tutti quelli che cercano di spiccare o tirarsi fuori dal provincialismo italiano. Milano è super-commista. E’ una figata da un punto di vista di varietà e stratificazione, dall’altro fai fatica a identificarti come Bologna. Avete già avuto contatti, episodici ma significativi, con il cinema. Ma se doveste identificare un film di cui scrivere tutte le musiche quale sarebbe e chi sarebbe il regista?

Nanni Moretti... No dai scherzo...

Probabilmente un Lynch. Ci piace tanto, quell’idea onirica, distopica della realtà. Be’ in ambito italiano Guadagnino, anche se ci abbiamo già un po’ lavoricchiato. L’ultimo Tarantino sarebbe una figata. Oppure qualcosa di cattivissimo coreano terribile che non si capisce...

O un Marvel, che ci facciamo due soldi.

Limarra

“Riconoscersi” è il nuovo album del cantautore siciliano, con una collaborazione eccellente come quella di Cesare “Mac” Pietricich dei Negrita

Ci racconti chi è e che progetto rappresenta Limarra?

Limarra è tutto ciò che sono stato nei miei vent’anni di musica tra paLchi e bettole dal sapore notturno, un agglomerato di esperienze artistiche che convergono in un unico contenitore dal quale, quando sento il bisogno di scrivere, attingo linfa musicale per nuove idee e suoni che voglio sperimentare. Nonostante a un primo acchito potrebbe rimandare a una dimensione di negatività e di stallo, in verità Limarra ha tutto un altro significato: se da un lato coincide con la parola “fango” dall’altro fa riferimento a tutto ciò da cui la vita nasce, un miscuglio liquido di elementi organici e “detriti” vegetali che fondano le basi per nuove esistenze, nuove forme di vita.

Ci sono molte istanze che si muovono nella pancia di questo disco. Ci racconti su quali ispirazioni e quali moventi hai scritto?

Sentivo la necessità di raccontarmi attraverso le storie degli altri, attraverso gli occhi di chi come me ha vissuto momenti bui apparentemente insormontabili. Non riuscivo a parlare mai in prima persona (e spero quanto prima di poterlo fare… se ne troverò il coraggio) quindi, per permettere alla coscienza di straripare come un fiume in piena, mi sono servito di otto storie diverse (a cavallo tra il romanzo e la verità) che non fanno altro che raccontare la mia ansia e la mia paranoia, le mie paure ma anche i miei successi. L’uomo e le sue “convinzioni” di grandezza sono stati il punto di partenza per descrivere invece il nostro lato umano, la nostra verità, senza abbellimenti né troppi giri di parole.

Che cosa ha regalato Cesare

“Mac” Petricich a questo album?

Credo che il l’asse Sicilia - Arezzo sia stato un vantaggio nel rapporto che durante i due anni di lavoro con Cesare si è man mano delineato sempre con più chiarezza. Inizialmente i confini erano netti e i percorsi musicali di entrambi facevano riferimento a canovacci artistici differenti ma non lontani. Ecco, è proprio qui, in questa diversità “non diversa”, che tutto ha cominciato a prendere forma dando valore a ciò che era più importante, la produzione. Confrontami con un mostro sacro del rock italiano per me è stata una sfida bellissima, che ha rappresentato la base della simbiosi necessaria.

Le sue chitarre, le sue idee d’arrangiamento hanno superato le idee primordiali degli otto brani che compongono il disco, la sua rielaborazione dei suoni che inizialmente avevo scelto mi ha stupito, donando all’intero lavoro un tocco anni ’90 in puro stile Negrita.

Quali sono state le canzoni più difficili da scrivere e con cui confrontarsi?

Una su tutte è stata la più difficile ma quella che, d’altro canto, ho scritto in meno di 24 ore: Questa terra è mia. Da circa tre anni mi occupo attivamente di ambientalismo, coinvolgendo, attraverso l’associazione di volontariato di cui faccio parte, scuole primarie e istituti superiori in azioni di valorizzazione del territorio (dalla mera pulizia di un campo a operazioni più complesse come la riqualifica di aree verdi). Bene, sulla base di tutto questo ho scritto Questa terra è mia, un brano che, come ha fatto Appino (Zen Circus) nella sua Canzone contro la Natura che racconta una storia dal punto di vista dello “sporcaccione”, vuole essere altro che una semplice canzone, ma un monito, un suggerimento, una linea. Sono stanco di vedere poco rispetto per tutto ciò che sta al di fuori dei nostri giardini, c’è bisogno di amore per il nostro pianeta. La difficoltà nello scrivere il brano è stata preventiva, cioè mi sentivo emotivamente troppo coinvolto ma ero sicuro che veicolare la mia rabbia in un testo e in una successione armonica di accordi avrebbe dato giustizia alla mia sete di civiltà. Che programmi hai per i prossimi mesi?

Il 28 maggio presenterò il disco nella mia città (Ragusa) e per l’estate sono in fase di costruzione della tournée ma al momento non posso rivelare altri dettagli tranne una cosa soltanto: il 7 giugno sarò uno dei 1000 musicisti che suonerà per Rockin’1000 a Roma. Spero di conoscere uno a uno chi ha avuto la forza e il piacere di ascoltarmi in questi mesi e portare il mio progetto a una dimensione live mi dà quell’emozione che non provavo da prima della pandemia.

This article is from: