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BOOSTA la libertà fa paura FANALI
CAL BIRBANTHE
PIN CUSHION QUEEN Numero 49 - novembre 2022
NOVADEAF
sommario 4 Boosta 16 Fanali 20 Cal Birbanthe 24 Pin Cushion Queen 28 Feexer 32 Diamarte 36 Novadeaf 40 Marco Bonvicini 44 Il Dinosauro e i Manichini 48 Umberto Ti 52 Broken Wings
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BOOSTA la libertà fa paura
“Post piano sesssion” è il disco, diviso in sei parti, che mette di nuovo sul piatto tutte le abilità compositive, pianistiche ed elettroniche di Davide Dileo, musicista, produttore, autore e cofondatore dei Subsonica
Abbiamo intervistato Davide Boosta Dileo prima delle polemiche sul “decreto rave”, altrimenti una domandina in merito gliel’avremmo senz’altro fatta. Tuttavia, nelle chiacchiere di presentazione del suo lavoro, Post piano session, diviso in sei ep in corso di pubblicazione in queste settimane, si è parlato molto di libertà, compositiva e non. Durante la conferenza stampa via Zoom di Facile avevi detto che il progetto allora era nato proprio perché c’era stata la sosta obbligata con il gruppo dovuta alla pandemia e quindi l’avevi sfruttata per il tuo progetto. Questa volta com’è andata? Facile ha visto la luce durante l’epoca di pandemia perché purtroppo quella drammatica finestra ha aperto la possibilità solamente fermando la macchina dei Subsonica di poter esprimere quella che è in realtà una parte fondamentale del mio percorso di musicista e di uomo. A me piace tantissimo la musica, non
cover story c’è un modo più semplice per dirlo. E’ il motivo per cui sono sempre curioso. Mi sono reiscritto al Conservatorio per prendere la laurea allo SMET (Scuola di Musica Elettronica di Torino, Ndr). Ho proprio una passione viscerale per il suono e per il pensiero che tutto quanto abbia un suono e un suono che possa essere organizzato. E quindi diventare comunque una composizione. Facile all’inizio è stato un primo passo pubblico di un percorso che faccio da quando suono, con due punti fondamentali: il primo è che io nella mia esperienza solista non ho bisogno di fare i Subsonica senza Subsonica. Non ho bisogno della forma canzone: quella forma di espressione ce l’ho perfettamente realizzato nel mio gruppo. Però ho bisogno di avere uno spazio, come tutti quanti, di crescita, in cui esplorare le tue passioni e la tua attitudine alla musica. Facile
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nasceva così; Post piano session è, mi auguro, un altro passo nell’evoluzione che sto compiendo come compositore. Che è fatta innanzitutto di grande libertà, perché abbandonare la forma canzone ti permette un’espressione più libera, in cui il tempo dell’ascolto è esattamente quello necessario al tuo racconto, non avendo una struttura in cui recintare la tua composizione, quindi strofa-ritornello-strofa. Quello che ascolti è quello che ho da dire in quel momento rispetto a quel pezzo. E poi l’esplorazione delle mie grandi passioni, il pianoforte e l’elettronica. Quindi trovare delle vie sempre più affascinanti, ma per me: questo è un altro grande passo di libertà. Non avere ansie da classifica e ansie da prestazione ti consente di giocare liberamente. Quindi io vorrei cercare di fare musica che per primo mi renda fiero di quello che ho fatto. Questi lavori sono assolutamente in quest’ottica, tant’è che ho deciso di farli uscire tramite la mia etichetta perché in una label convenzionale avrei dovuto riassumere e conden-
sare il lavoro, che era un lavoro a tappe, fatto di sei ep e sarebbe stato improponibile, avrei dovuto condensare e fare una selezione. A me le selezioni non interessano, mi interessa di più il percorso. Io non ho passione per le collezioni di singoli, mi piacciono gli album. I concept album ma nel senso: ho un progetto musicale, ho un’idea musicale e voglio svilupparla in tutte le sue forme, quindi mi prendo il tempo che mi serve per poterlo raccontare. Perché la divisione in sei ep comunque a uscite ravvicinate? Il lavoro si compone di sei ep che arrivano fino a fine dicembre e mi piaceva l’idea di utilizzare questo autunno per il racconto. Se io lo intendo come una mappa, logicamente ha dei punti intermedi di passaggio, degli snodi. E’ una strada che si snoda dall’inizio alla fine. E visto che parliamo di concept, mi è piaciuto pensare all’idea di come proporre quello che ho composto, perché ha significato innanzitutto riascoltare tutto il materiale per rifletterci, analizzarlo, andarci dentro, suddividerlo 6
per renderlo omogeneo, quindi riconoscerti le fasi di scrittura e la tua attitudine mentre stai scrivendo qualcosa, ed è stato un esercizio di analisi affascinante. Ho diviso il disco per quelle che per me sono le macroaree: il primo ep è il punto di partenza e il riassunto di quello che avevo in mente. C’è l’elettronica, c’è il pianoforte che è leggermente destrutturato, rispetto al suono classico, e viaggia con un’attitudine contemporanea. Il secondo è legato alla mia passione per il post rock. Perché poi essere citazionisti non è brutto: o meglio avere degli ambiti di riferimento lo facciamo tutti, ma oggettivamente geni assoluti che creino dal nulla un suono mai sentito io ancora non ne ho incontrati. Tutti quanti pensano al post rock come a un genere prettamente chitarristico. Ma il pianoforte è uno strumento a corda, come la chitarra. Quindi perché non posso distorcere il pianoforte e godermi gli armonici di un pianoforte distorto? Il terzo ep è più legato alla composizione contemporanea come ambito di riferimento, quindi non mi
metto in competizione con i grandi compositori come Berio, Nono, Satie, e altri del secolo passato, ma mutuo dal Novecento, la possibilità di liberare quello che ho scritto in questi pezzi dal rapporto stretto e ogni tanto asfissiante tra melodia e armonia. Quindi non è sempre necessario che l’unica musica ascoltabile sia quella che non disturba e che siamo abituati ad ascoltare. Quindi oltre il giro di do c’è di più, mutuando Jo Squillo. Sempre parlando di “citazionismo”… Il quarto, che uscirà a metà novembre è un regalo ai miei anni Novanta, quindi all’elettronica. Tutto questo sempre con i miei strumenti principali che sono il pianoforte e la mia componente elettronica, quindi le mie tastiere. Ed è legato alla ventata di elettronica che ha rivoluzionato: gli anni Novanta, per tutto quello che stiamo sentendo adesso sono stati veramente fondamentali perché hanno cambiato proprio l’attitudine e la percezione delle persone. Diciamo che se l’elettronica è stata sdoganata negli anni Ottanta, un 9
certo tipo di elettronica e di musica da ballare è stata assolutamente sdoganata negli anni Novanta e poi depredata negli anni a venire dei propri elementi. E’ come quando tu porti una macchina e alla fine la rapini di tutto, dai fari ai fili elettrici, al rame: questo è quello che è successo. Il quinto disco è una stanza più quieta, di riflessione, che io mi porto e sento simile all’attitudine quando io ascolto Harold Budd e quindi una musica per pianoforte più dilatata e più rilassata. Il sesto, che è il punto di arrivo dopo tutto questo periplo, è un disco di piccole melodie per pianoforte. Quindi nella maggior parte delle melodie del disco che esce il 30 dicembre ci sarà il cuore melodico del disco. Questo è il viaggio, aveva bisogno di questo racconto. Sarebbe stato difficile fare “due pezzi per”, in un disco. Sarebbe diventato un pastiche, un’accozzaglia, faticoso. Poi credo anche che sia importante che la musica abbia tempo per essere ascoltata. Cosa a cui noi non poniamo più tanto caso, perché siamo abituati alla musica
come intrattenimento. Quindi “la musica ci accompagna”: certo, la musica può essere tutto, ma c’è un tipo di musica che ha necessità di essere ascoltata e di prendersi il tempo per entrare nella testa delle persone. Mi sembra che l’ultimo uscito sia anche il più sperimentale e forse il meno strutturato dei tre. Un’impressione di maggiore libertà, anche. La libertà fa paura: che sia quella più grande, etica e della società civile, quella della libertà dell’uomo, alla libertà di quello che facciamo nel nostro mestiere, e il mio mestiere è un mestiere d’arte, è un elemento fondamentale ma molto complicato da gestire. Per cui non siamo abituati: è logico che come in tutte le cose, ogni tanto rimani nella comfort zone, aiuta sapere che fai un pezzo che inizia e finisce. Più complicato quando giochi con elementi potenzialmente infiniti e modulabili. E decidi tu quando scendere in mare e quando rientrare in porto. Io l’ho fatto perché penso di avere bisogno di libertà. Quindi ogni tanto 10
spingi di più, ogni tanto spingi di meno. Sarebbe molto complicato fare i musicisti senza permettersi di essere liberi, e per quanto noi possiamo presumere di avere una grande libertà in quello che facciamo perché possiamo fare più o meno quello che vogliamo, come tutti gli esseri umani, alla fine i limiti poi ce li poniamo da soli. I limiti sono sempre il frutto delle aspettative, e le aspettative per un musicista non sono tanto nella qualità del tuo lavoro ma nella paura della percezione che hai degli altri rispetto al tuo lavoro. Io trovo questa uscita molto coraggiosa, perché oggettivamente ignoro che cosa gli altri possano pensare di quello che ho fatto. Ma non vuol dire che non li rispetti: rispetto molto le persone che ascoltano quindi cerco di suonare e di fare il meglio che posso. Sono convinto che ci siano delle persone che condividono questa attitudine ma per rispetto loro
e per rispetto mio non voglio preoccuparmi del fatto “ah se questo è difficile poi non lo ascoltano, questo poi non passa, non entra nella playlist…” Io non lo faccio per questo motivo. Io faccio musica perché ho bisogno di fare musica. Credo che ci possa essere qual-
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cuno che ha bisogno di ascoltare la mia musica. Ma anche se non fosse così, comunque ho bisogno di farla. Mi confermi che Beriomoto è una crasi tra Berio e Sakamoto? Sì! Alcuni titoli sono naturalmente ragionati, altri sono semplicemente di ispirazione, sono titoli di lavoro che rimangono così, perché partendo da titoli di lavoro diventano parte dell’identità di quello che hai composto. Quindi per Beriomoto sono partito dal titolo, perché mi divertiva quest’idea qua. Quindi chiamarlo poi “Fiori d’autunno in un prato verde” non avrebbe avuto altrettanto senso. Una curiosità: appurato che questo tipo di composizioni non rischia di essere confusa con una canzone dei Subsonica, non ti è mai venuta voglia di aggiungerci un cantato in qualche brano particolare? No perché non ne ho bisogno adesso. Non sento vicino a me adesso l’idea di canzone, ne ascolto anche poche, e mi piace seguire questo flusso. Poi magari ci sarà il momento in cui decido che vo-
glio fare un disco solo di canzoni e ne voglio fare settecento perché ho deciso che la melodia è la cosa che mi piace di più. Ma adesso per rispetto anche alle mie scelte no, perché non ne ho bisogno non mi piacciono e non ne ho voglia. La musica è libertà sia nell’ascolto sia nella possibilità di proporre quello che hai in mente. Intersezioni con il lavoro di Casacci, che anche lui si muove in ambito strumentale? No, il punto di contatto sono i Subsonica, per il resto abbiamo passione e voglia di esplorare le nostre cose da soli, perché così non siamo condizionati dai vincoli che un gruppo inevitabilmente ti mette. Nella composizione porti le tue cose e più ti conosci più porti cose che sai possano entrare nelle corde di uno o dell’altro. Quindi alla fine il gruppo è sicuramente un amplificatore perché somma le energie creative di quante persone stanno componendo. Ma per certi versi è anche un limitatore perché più conosci una persona, più cerchi di fare qualcosa per non andare a discu12
tere su quella roba lì. Mi racconti qualcosa del Torino Recording Club? Nasce come piccolo atelier e officina di libertà, quindi si declina sicuramente nella parte discografica che per adesso è a mio appannaggio e diventa poi anche lo strumento operativo di una serie di azioni nel campo dell’arte performativa e della sound art, per cui comunque faccio i miei lavori sotto questo cappello qui. Mi piacerebbe che potesse crescere, come tutti i semi, tu li piani, innaffi, cerchi l’orientamento migliore, poi vediamo che pianta viene fuori. Sono molto curioso e sono felice di essermi dotato di uno strumento così. Perché poi la cosa meravigliosa sono alcuni paradossi legali e meno della musica: io per esempio come musicista, con la partita Iva di musicista non posso vendere la mia musica. O meglio io posso vendere il mio
servizio che è quello di essere creativo e comporla, ma non ho il diritto di vendere il supporto dell’ascolto di quello che faccio. E’ una cosa che mi ha fatto sempre molto ridere. E innervosire, per cui preferisco ridere. Perciò mi sono dotato di uno strumen-
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to per cui se io ho voglia di fare qualcosa, che sia un disco, una cassetta o mettere la mia musica su qualunque tipo di supporto e la possibilità di metterlo in esposizione e in vendita posso anche farmelo da solo. Il tuo tour è già iniziato: fai ondeggiare le tastiere anche lì o è cosa solo da Subsonica? Fare ondeggiare i trecento chili del pianoforte a coda diventa complicato… Il concerto è uno spazio franco dalla quotidianità. La frase con cui lo presento e insisto su questo concetto è che vorrei che il concerto fosse uno strumento, e che fosse la colonna sonora del silenzio di chi lo ascolta. Sembra una frase un po’ ovvia e poetica, che puoi trovare nei baci Perugina. Ma io mi sono accorto che il silenzio delle persone che partecipano vale quanto un applauso se non di più. Perché è difficile: non siamo più abituati a stare in silenzio. Anche quando stiamo in silenzio ad ascoltare musica, le canzoni “cantano”. Invece la musica strumentale ti dà la possibilità di diventare un paesaggio sonoro
in cui poi le liriche virtuali sono i pensieri di chi la sta ascoltando. E’ successo diverse volte che qualcuno venisse da me in lacrime oppure qualcuno mi dice: “Guarda, ho iniziato ad ascoltare ma poi mi sono perso dietro i miei pensieri”. Io dico “bravo”, perché non è un concerto in cui vieni a vedermi e vieni a sentire quanto sono bravo o quanto faccio schifo. Mi piace tantissimo l’idea che le persone che vengono al concerto possano utilizzare il tempo del concerto come meglio credono. Il concerto è tutto “filato”, quindi non ha vuoti, i passaggi sono fluidi da un pezzo all’altro. Quando tu suoni un’ora e venti o un’ora e mezza e finisci, prima che parta l’applauso c’è un momento di sospensione, di silenzio assoluto. E’ un momento in cui ci sono dei distorti ma ci sono anche dei “pianissimo”, il che vuol dire che senti veramente il dito che tocca il tasto, prima ancora di toccare il martelletto. Sentire quel tipo di suoni in un contesto con centinaia di persone, è una gratificazione incredibile. E’ bellissimo. 14
FANALI “Shidoro Modoro” è il disco del progetto multidisicplinare audio/visivo partenopeo composto da Caterina Bianco, Michele De Finis e Jonathan Maurano, tutti musicisti con una solida esperienza alle spalle e attivi in diversi progetti
l’intervista
Iniziamo dal principio... Come e in quale momento avete capito che potevate far interagire le vostre personalità artistiche? Io e Jonathan e io e Caterina avevamo già suonato in altri progetti. Con Jonathan c’era l’idea di evolvere il primo nucleo di FANALI in un senso più simile a quello attuale e quando ci siamo doman-
Avete già in mente ulteriori progetti per il prossimo futuro? Cercare di fare bella musica, sicuramente. Portarla in giro quanto più possibile e magari concretizzare il proposito di lavorare con il cinema o con le serie tv.
dati “cosa mancasse” Ci è venuta in mente Caterina. Tutto è stato come lo immaginavamo da sempre. Dal punto di vista musicale nel trio è molto chiaro chi fa cosa. Ma a livello umano come vi siete distribuiti i ruoli all’interno del gruppo? Anche qui tutto chiaro da subito: Caterina infonde concretezza, Jonathan imprevedibilità e Michele shakera. Che idee ci sono alla base di Shidoro Modoro, il nuovo disco? La volontà di coniugare il suono più abrasivo della “ Prima incarnazione” Con la melodia e la dilatazione. Ci piace chiamarla “la colonna sonora di un film non ancora realizzato”. Ma non ci poniamo limiti di alcun tipo. Visto che è concepito con due facciate, stavate già pensando al vinile anche in sede di realizzazione? A dire il vero no, ma l’idea ha chiuso il cerchio. Certo avessimo potuto prevederne le conseguenze relative alle complicazioni pandemiche sull’industria del vinile... 18
CAL BIRBANTHE “Storie” è il nuovo album dell’artista messinese, frutto di un lavoro durato due anni ed eseguito assieme al producer Riccardo Sindona
Ciao, ci racconti qualcosa di te e del tuo progetto musicale? Mi chiamo Calogero ‘’Carlo’’ Spanò e a scuola, da piccolo, le maestre mi chiamavano ‘’Birbanthe’’ per le mie palesi messe in scena. Produco, scrivo, suono, canto. Mio nonno era un insegnante di musica, mia nonna suonava il mandolino, mio padre un chitarrista… Insomma, sono cre-
sciuto a pane e note come si suol dire. Nasco come strumentista tra l’autodidattica e qualche dritta dalla family, per poi cominciare, dopo il liceo, a studiare seriamente chitarra moderna, trasferendomi a Milano ed iniziando un corso di studi al CPM; tre anni dopo mi iscrivo al conservatorio di Ferrara, per frequentare il corso jazz. Il sodalizio con l’indie/
l’intervista
pop e la nascita del progetto Cal Birbanthe avranno vita più tardi, nel 2019, dopo un’esperienza di 5 mesi a Londra. Al mio rientro in Italia avevo scritto parecchi brani e pubblicato diversi self-released. Uno in particolare è stato Spero di No’, brano di stampo r&b che, con grande sorpresa (non avendo né etichetta, né ufficio stampa), riuscì comunque ad attirare l’attenzione delle radio siciliane e di molti dj locali, che lo suonarono come breakdown hit nei club commerciali. Da lì non mi sono più fermato! L’anno successivo, iniziai a stendere le basi di Storie. Ci racconti come nascono le tue “Storie”? Semplicemente ascolto e vivo, miscelando episodi della mia vita e quella degli altri: amici, conoscenti e delle volte anche sconosciuti. Una volta mi capitò, davanti a una birra, che un amico mi confessasse di essere stato tradito dalla ragazza; mentre lo ascoltavo, stanco di sentire le solite lagne, iniziai a sentirmi attirato da una delle cameriere del locale con cui alla fine cominciai a flirtare. La predica
che avrei dovuto fare al mio amico per incoraggiarlo non la feci, ma la riportai il giorno dopo in un brano. Qual è la canzone a cui tieni di più nel disco? Storie. Riassume i suoni e l’intento degli altri brani, in un certo senso, e poi è la primogenita del disco. Chi consideri i tuoi modelli di riferimento musicali? Miles Davis e Lucio Dalla. Mi piacciono gli artisti poliedrici, che non si cristallizzano in un genere ma esplorano, mettendosi in discussione. Miles ha cambiato cinque, sei volte il corso della storia del jazz. Lo stesso ha fatto Lucio con la canzone italiana. Quali progetti hai per la fine del 2022? Uno è sicuramente quello di continuare a portare l’album in giro per l’Italia, soprattutto tra Bologna e Milano, dato che in estate ci siamo concentrati con un mini tour in Calabria e Sicilia. L’altro e quello di cominciare a fare l’autore per qualche etichetta che sta facendo bene nel panorama emergente italiano. 22
PIN CUSHION QUEEN Una formazione soggetta ai cambiamenti ma sempre coerente: in attesa di scrivere nuova musica con un nuovo membro, ecco “Stories”
Il vostro gruppo si distingue per non avere limiti: cambiate formazione, genere, perfino strumenti dal vivo. Come fate a mantenere ciononostante la vostra identità come band? Difficile dire in cosa consista l’identità di un gruppo. Può essere qualcosa che ha a che fare con le aspettative di chi ascolta o, peggio, con l’“etichetta” che viene affibbia-
ta a una band o artista in genere. In certi casi il gruppo stesso può sentirsi in dovere di non deludere le attese e, quindi, può finire per comporre e suonare in un modo che non è il proprio (o almeno non più), lontano da quello che vorrebbe esprimere. Finisce per essere un atteggiamento disonesto anche se non è quella l’intenzione, che tradisce il motivo stesso
per cui un gruppo sente il bisogno di scrivere e suonare. Forse, in fondo, l’identità la trovi proprio seguendo la tua intuizione, i tuoi desideri, i suoni e le composizioni in cui ti vuoi immergere. Forse questo è il modo più coerente di esprimersi, anche se a prima vista può sembrare caotico o non aderente all’idea che ci si è formati ascoltando la stessa band in altri periodi. Nel nostro caso, ci siamo dimostrati sempre “allergici” ai generi e mai troppo affezionati a uno strumento o a un modo di suonare in particolare. Seguiamo un’idea provando a non farci indirizzare da convinzioni pregresse (anche se a volte è difficile) e usiamo quello che serve per risaltare quell’idea al meglio delle nostre possibilità e secondo la creatività di cui in quel momento siamo capaci. Detto questo, per noi è chiaro un certo filo che unisce tutto quello abbiamo fatto finora, dai primissimi lavori a Stories. Ed è lo stesso che unisce i vari brani dell’album tra di loro, anche se a un primo ascolto per qualcuno potrebbero risultare molto diversi
l’intervista l’uno dall’altro. La nostra identità è in quel filo, anche se è indicibile: è solo qualcosa che si percepisce. Forse. “Stories” chiude una sorta di trilogia: come siete arrivati in fondo al progetto e in che modo vi ha cambiato? Fin dal primo ep, Characters, sapevamo che saremmo partiti solo da “personaggi” fino ad arrivare a questo album, Stories, quindi alle nostre “storie”, passando per le ambientazioni di Settings: il progetto era quello prima ancora di sapere quali brani avremmo scritto, quando e come. Ma in fondo l’idea di una trilogia della narrazione era solo una scusa per dare una cornice ai testi, un limite che ci permettesse di non perderci in un mare infinito di possibilità. È la musica quello che abbiamo inseguito, i testi sono solo un corredo che definisce in modo di poco più preciso, con una vaga suggestione, quello che già dice la musi-
ca. In questi anni non è il progetto ad aver cambiato noi, forse invece è vero il contrario: abbiamo preso direzioni che non avremmo mai previsto e il nostro modo di comporre si è trasformato con noi. Per esempio, come si può immaginare facilmente, nei sei anni che passano fra Stories e Settings sono cambiate tantissime cose, anche se l’idea di fondo del progetto è rimasta la stessa. Qual è stato il brano più complicato da scrivere ed eseguire? Quello che apre l’album, The haunted. È quello che ha richiesto più tempo prima di tutto nella scrittura, tant’è che è anche il più vecchio: la prima idea embrionale risale al 2013, circa. Poi negli anni lo abbiamo preso e ripreso infinite volte cercando di capire che forma dargli, finché non ci siamo arresi all’idea che avesse quella veste “classica” che si può ascoltare nella versione finale, con contrabbassi, corni e synth che fanno le veci di altri strumenti ad arco, per non parlare dei vari simil-glockenspiel. Per questo, con profonda delusione da parte nostra, non riusciamo
ancora a suonarla dal vivo. Almeno per il momento, più avanti forse ci sarà il modo di portarla sul palco, magari con le variazioni necessarie. È qualcosa su cui lavoreremo nei prossimi mesi. Che cosa vi ha colpito della musica uscita nel 2022? Dobbiamo ammettere che quest’anno siamo stati molto distratti e l’unica nuova uscita che abbiamo seguito con entusiasmo è stata quella dei Korobu: il loro primo album Fading/Building, bellissimo, è stato anche il primo prodotto da Locomotiv Records, la stessa etichetta per cui è appena uscito il nostro Stories. Che progetti avete per il prossimo futuro? Scrivere nuovi brani ora che alla batteria abbiamo Paolo Mongardi: lui si è aggiunto al gruppo da poco, cioè dalle sessioni di registrazione dell’album, quando i pezzi erano già pronti. Quindi non vediamo l’ora di comporre cose nuove con lui. A parte questo, l’obiettivo ora è suonare dal vivo il più possibile: è la cosa a cui teniamo di più. 26
FEEXER Da progetto solista a duo, con qualche rallentamento causato dal Covid: “Don’t Bother” è il nuovo lavoro della formazione modenese
Ci raccontate come nasce e si sviluppa il vostro progetto? (Manuel Ciccarelli, chitarra e voce) Feexer nasce nel 2017, inizialmente come progetto solista. Avevo molto materiale già scritto, sia
recentemente che negli anni immediatamente successivi alla mia esperienza con la band Zeroin, con cui avevo calcato diversi palchi in Italia. Quell’anno ho quindi deciso di lanciare una campagna
l’intervista
di crowdfunding che ha ricevuto un buon riscontro ed è lì che nasce il primissimo materiale di Feexer, un demo-album chiamato Headed To di 10 tracce. Nel 2020 ero pronto per pubblicare il primo disco in studio, anche grazie all’interesse di due label e di un produttore Italiano che ora vive e lavora negli Stati Uniti. Purtroppo il periodo del Covid e il conseguente effetto sugli investimenti delle etichette hanno costretto a
rimodulare i piani e a virare sulla strada della pubblicazione indipendente: da quel momento è scattata la voglia di cimentarmi anche sul versante della produzione e si è comunque genera una energia davvero particolare e positiva attorno al progetto. In primis si è unito a Feexer Stefano Mazzoli, batterista degli Zeroin, che ha portato un valore aggiunte enorme. Hanno poi dato il loro contributo diversi altri attori del-
la scena locale emiliana, tra cui Giuseppe Bassi col suo dysFUNCTION Studio: il prodotto è quello che avevo sempre desiderato, nove canzoni che raccontano molto bene questo viaggio, sia a livello umano che artistico. Che ispirazioni e idee si muovono alla base del vostro nuovo disco, Don’t Bother? MC - L’idea di fondo è che la band non sia alla ricerca di un determinato sound, ma che agisca come una fucina di canzoni, ognuna con un suo spirito e con la capacità di far suonare corde diverse nell’ascoltatore. Don’t Bother nasce per forza di cose in un periodo molto complicato a livello storico, ma più che approfondire questi aspetti va a ricercare le dinamiche che ci attraversano ogni giorno, le emozioni profonde del quotidiano umano. Al “lascia perdere” retorico del titolo del disco fanno da contraltare tantissimi passaggi delle liriche, dove la lotta per superare le nostre angosce e i nostri difetti viene sviscerata nelle sue mille sfaccettature. Uno degli elementi che gradiamo di più nella
versione finale di questo disco è l’intreccio tra le chitarre acustiche e quelle elettriche, siamo molto soddisfatti di come dialoghino tra di loro e della loro fusione con l’elettronica. Senza dubbio il prodotto migliore di questo nostro lavoro resta il video del singolo What It Takes, realizzato dai registi Paolo Viesti, Joba e Roberto Zampa. Siamo letteralmente innamorati di quello che sono riusciti a creare. Avete lavorato con molti artisti modenesi. Come descrivereste la scena locale? (Stefano Mazzoli, batteria) Meno vivace rispetto a un tempo. Probabilmente sta semplicemente finendo un’epoca, con le sue ispirazioni ed i suoi impulsi. MC - Sì, certamente meno vivace. Direi soprattutto a causa della minor possibilità di suonare in tanti locali che un tempo rappresentavano il collante della scena. Abbiamo comunque avuto modo di constatare che ci sono diverse ottime band attive ultimamente e che propongono musica interessante. Mi vengono in mente i Vadva, Le Piccole Morti, Kaos India. Ma so30
prattutto i nostri fratelli Timecut. Quali sono i vostri artisti di riferimento? SM - Troppi da elencare! Quelli di sempre sono Nine Inch Nails, Radiohead, A Perfect Circle, il Seattle-sound con Alice in Chains, Nirvana e Soundgarden e quello di Bristol (Massive Attack e Portishead). La lista sarebbe lunghissima, ma chiuderei il tutto con qualcosa di nuovo: una band australiana che si chiama VOWWS, credo meriti molta attenzione. Che programmi avete per i prossimi mesi? MC – Stiamo preparando i nostri
live, faremo una serie di date nella prima metà del 2023 in Italia. Il prossimo anno inizieremo a lavorare in studio al nostro secondo studio-album e contemporaneamente a un EP che andrà a riprendere alcuni dei primi brani di Feexer per renderli nella loro veste più completa, col nostro sound attuale. Intanto ci godiamo l’uscita di “Don’t Bother” il 4 novembre, stiamo percependo un forte interesse già con l’uscita dei primi due singoli e ne siamo molto soddisfatti. Il prossimo paio d’anni sarà sicuramente un periodo interessante per Feexer.
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DIAMARTE Quattro amici da sempre, con l’intento di riportare gli anni Novanta nelle orecchie di chi ascolta: “Transumanza”, prodotto da Carmelo Pipitone, è il nuovo lavoro della band molisana
Come nascono i Diamarte? Siamo amici fin da piccoli e insieme abbiamo iniziato a muovere i primi passi nella musica. Diamarte è l’ultimo progetto nato dopo varie valutazioni, esperienze, ascolti.. quattro teste che seppur
l’intervista
con quattro vite diverse, hanno in comune il ricordo del vero rock italiano. Qual è la storia del vostro album d’esordio? Molti brani erano già stati partoriti molti anni fa, ma il tempo ci ha dato la possibilità di maturarli artisticamente e musicalmente. L’idea, come già detto, è stata quella di riportare il rock italiano anni Novanta nelle orecchie degli ascoltatori… naturalmente non possono mancare le influenze musicali differenti di ognuno di noi: dal cantautorato italiano alle canzoni pop inglesi dei primi anni Sessanta, dalla prepotenza sonora delle percussioni di Mahler al suono diretto e cattivo della chitarra grunge anni Novanta. Tutto questo ha fatto sì che nascesse un disco con un suono originale e armonie ricercate. Il disco si apre e si chiude con immagini del bosco. Qual è il vostro rapporto con la natura e che cosa simboleggia il bosco nel disco? Viviamo in Molise quindi la natura, gli alberi, i boschi, i fiumi,
i tratturi, il gregge sono tutti elementi caratterizzanti di questa terra che tanto bella è, tanto è dimenticata e solitaria. Il bosco, per questo motivo, diventa il luogo ideale per potersi liberare con la mente e fare uscire fuori tutte quelle caratteristiche che ci appartengono. Nel bosco, naturalmente, quando cala il tramonto non c’è luce se non quella della luna e quindi l’ambiente diventa cupo assimilabile proprio alle sonorità dell’album. Dieci le tracce: qual è stata quella che vi ha dato maggiori problemi? E a quale siete più legati? Ogni brano che nasce, come qualsiasi altra opera d’arte, ha vita propria quindi una storia diversa che si porta dietro tutte le proprie sfaccettature. Con questo non mi sento di dire che ci sia stato un brano più difficile di altri, ma ognuno ha avuto uno studio duro e approfondito per poter avere la maturità raggiunta a fine registrazione. Per questo motivo non c’è un brano specifico a cui siamo più legati, ma sicuramente per prima cosa farei ascoltare falso risveglio; 34
bisogna sempre presentarsi in maniera elegante e tranquilla, come ci insegna la buona educazione… non vorrei mai presentare il mio lato estremo al primo appuntamento. Che cosa ha regalato Carmelo Pipitone al vostro lavoro? Con Carmelo Pipitone c’è stato un amore a prima vista, o meglio, a primo ascolto. Con la sua espe-
rienza umana ci ha spinti a fare rock, fregandocene delle persone e delle critiche, che è quello che ci ha sempre bloccato da quando abbiamo iniziato a muovere i primi passi nel rock. Dal lato musicale è stato fondamentale per la chiusura dei brani dando quella spinta in più che nasce dalla sua esperienza di tanti anni sui grandi palchi e nelle grandi produzioni. 35
NOVADEAF “Bellicus” è il nuovo lavoro dell’artista, dedicato non soltanto alla guerra ma a tutti i conflitti umani
Sette anni dall’ultimo lavoro pubblicato. Domanda banale: che è successo nel frattempo? Ho studiato Musica per Film, ho prodotto l’album di debutto di Lorenzo Marianelli (State Sereni), ho suonato dal vivo con un paio di progetti “for fun”, ho preso un diploma di canto.
l’intervista Il tuo nuovo lavoro si chiama “Bellicus”, parla di guerra ma immagino sia stato concepito ben prima del conflitto russo-ucraino. Su che idee e ispirazioni hai lavorato? Più che di guerra parla dei tanti tipi di conflitto che l’essere umano si trova a vivere. C’è la guerra, è vero (nel singolo The Warchild) ma c’è anche il conflitto sociale e fra etnie (No reason to be kind, ispirata al movimento Black Lives Matter), il conflitto religioso (Martyrs) e il conflitto fra due persone che sono gradualmente passate dall’amarsi al detestarsi (B.D.S.M. Baby don’t Shoot Me) . Nonostante il conflitto, in tutte le proprie forme, sia al centro del disco, hai scelto dei suoni piuttosto pop. Ci spieghi questa scelta? Novadeaf è sempre stato un progetto pop, anche quando riempivo le mie canzoni di chitarre distorte. Penso che un musicista debba
cercare sempre di rendere il suo lavoro il più universale possibile. Non è questione di “svendersi al mainstream”, io lo vedo più come un lavorare strenuamente fino a che non giungi a un prodotto in cui tutte e tutti possano in qualche modo riconoscersi, ritrovare un pezzo del proprio vissuto. Che cosa prevedono i tuoi piani per il futuro del progetto Novadeaf? Principalmente pianificare un ritorno al live. BELLICUS è un disco complesso da rendere dal vivo
e bisognerà fare un po’ di tentativi ed esperimenti. Se dovessi scegliere una playlist delle canzoni a tema bellico che ti hanno in qualche modo ispirato, quali indicheresti? The fiddle and the drum - Joni Mitchell; Drowning man - U2 (forse non parla proprio di guerra ma è dentro l’album War...); World Leader Pretend - R.E.M.; 2 + 2 = 5 - Radiohead; O Superman - Laurie Anderson; Time will crawl David Bowie; Red Rain - Peter Gabriel; People are people - Depeche Mode. 39
“Wild Silence” è il nuovo disco del musicista, che per l’occasione si è trovato a fare tutto in totale autonomia
MARCO BONVICINI
l’intervista
Ciao, ci racconti qualcosa della tua avventura musicale fin qui? Ciao! Volentieri... Ho iniziato da ragazzino a suonare la chitarra da autodidatta, poi le prime
esperienze nelle band prima del 2000, come chitarrista ma anche come cantante. Successivamente ad alcune esperienze ho deciso di studiare proprio il canto anche in considerazione del fatto che, cominciando a comporre canzoni mie, volevo essere io a cantarle. Dopo il 2000 sono iniziate le collaborazioni con alcune rock band della zona, diverse produzioni sia di musica trip hop sia di progressive rock, come compositore e come cantante. Tra il 2005 e il 2009 ho fatto parte del corpo insegnanti del dipartimento di canto del Music Academy 2000 di Bologna. Dopo le diverse produzioni con la band MantriKa, e a seguito di alcune esperienze personali, sono tornato a dedicarmi alla musica come solista, come songwriter. Ed eccomi qui, lungo il percorso che sia il rock che il folk, mi hanno aiutato a disegnare. Come nasce Wild Silence, il tuo nuovo lavoro? Wild Silence è un disco che ha voluto lui stesso il suo spazio. Non è stato qualcosa di cercato o progettato precedentemente, ma è nato
dall’insieme di musiche, parole, canzoni che ho composto a seguito delle esperienze e delle emozioni provate durante il periodo del lockdown. Una sorta di testimonianza personale in musica di quello che per me è stato quel periodo. Hai scelto My Skin, che parla di un evento drammatico che ti riguarda, come primo singolo. Ci spieghi le motivazioni? E’ stata una scelta piuttosto ovvia, soprattutto per il fatto che, visto il tema, è la canzone che più rappresenta quanto io abbia vissuto nel 2020, oltre al fatto che musicalmente la trovo la passionale e potente del disco. Tu che hai lavorato con tante band, ti sei trovato a fare praticamente tutto da solo. Ti sono mancate le collaborazioni o hai scoperto un lato “autonomo” che non conoscevi? Sinceramente il mio lato “autonomo” è sempre stato abbastanza attivo negli anni, anche quando lavoravo in band e mi trovavo, comunque, a lavorare da solo alle pre-produzioni di alcuni album. 42
mesi? Sicuramente cercherò di promuovere e suonare Wild Silence dal vivo il più possibile e poi, quando sarà il momento giusto, potrei incominciare a lavorare a qualcosa di nuovo.
Poi, ultimamente, ero tornato a lasciare a ogni interprete e musicista che mi accompagnava il suo spazio. Con Wild Silence mi sono divertito a tornare a suonare e arrangiare tutto da solo. Che progetti hai per i prossimi 43
IL DINOSAURO E I MANICHINI “Canzoni contro la morte” è il titolo del nuovo album della curiosa formazione, influenzata da 60 anni di cantautorato italiano
Ciao, ci spiegate qualcosa del tuo progetto e del nome che hai scelto? Ciao, nasce tutto dal fatto che durante la scrittura di questo album è emersa la consapevolezza del perchè scrivo, del perchè suoniamo e facciamo tutto questo “carosello”, per resistere alla vita.
Canzoni contro la morte mi sembra un titolo piuttosto forte e marcato. Ci raccontate come nascono questi vostri brani anti-mortalità? Nascono in maniera estremamente naturale, tutto ciò che mi accade trova spazio in questa passione, senza neanche molti aggiustamen-
l’intervista
ti, è un disco sincero. Qual è il brano del disco a cui siete più legati? Ognuno ha il suo perché, forse quello che dà il titolo al disco è quello più istintivo e che ha trovato il vero senso di tutto in maniera esplosiva e poi lo ha restituito a tutto l’album, ma non mi sento di estrapolarlo dagli altri. Mi sembra che le vostre canzoni si iscrivano in una certa vena di cantautorato italiano che travali-
ca le generazioni. Chi riconoscete come maestri indiscussi? Ho più di 30 anni e comunque abbiamo radicato nelle vene i mostri della musica italiana di più generazioni, è un percorso lungo che abbiamo conosciuto già da adolescenti con l’aiuto della prima tecnologia, avevamo la fortuna di
fruire già di molto materiale rispetto ai nostri genitori, di conseguenza ascoltavamo i loro autori e i nostri. Se devo fare nomi utili a questo progetto del panorama degli ultimi 60 anni: parto da De Andrè e Battiato passando da Ligabue e Canali arrivando a Bianconi e Appino, non sono i miei
cantanti preferiti ma quelli che hanno influenzato di più la nostra scrittura. Come vedete il futuro prossimo del progetto? Non lo so, noi facciamo tutto col piacere di farlo non abbiamo in programma traguardi o ambizioni, il fare musica è già un fine.
UMBERTO TI PITCH3S “La Casa sulla Sabbia”, prodotto da Giuliano Dottori, è il nuovo disco del cantautore: un sound potente per parlare anche di problemi ambientali
Ciao, ci racconti qualcosa dell’album che pubblichi in questi giorni? L’ album si intitola La Casa sulla Sabbia, sono dieci brani prodotti e arrangiati da Giuliano Dottori e che escono per la New Model Label. È un album molto elettrico, con una batteria dal sound poten-
te. Volevo che il risultato finale fosse come un album suonato in presa diretta, suonato live! Hai scelto La Casa sulla sabbia sia come titolo dell’album sia come primo video. Ci spieghi come nasce la canzone? La Casa Sulla Sabbia tratta di un problema ambientale quello di una
l’intervista
PITCH3S One Man Band alla ricerca del “blues primordiale”, pubblica un doppio singolo e preannuncia importanti novità all’orizzonte petroliera che affonda sul mare. Il all’interno di una stanza scura qui buio come metafora di ogni forma abbiamo girato anche le scene della del male si riversa sulle strade. La pittura scura che scende dalle mani storia tra sacro e profano è visma anche dal mio corpo.Le altre le suta attraverso due persone che abbiamo girate in esterna, in una cercano dentro caos e ingiustizie piccola spiaggia selvaggia dove si qualcosa di perduto. Per descrive- ritrovano il concetto di sabbia e re questo momento molto precaluce. rio in cui stiamo vivendo ho usato Qual è stato il brano che ti ha propio la Sabbia. La Casa, metafo- messo in maggiore difficoltà nel ra della società infatti si appoggia disco? sulla sabbia anziché su solide fon- Il brano che mi ha messo più in damenta. difficoltà è stato Sangue Misto, che Anche il video mi sembra piutto- è anche uno dei miei preferiti. Una sto simbolico: ci racconti qualco- brano molto profondo e lungo.Era sa del concept? da molto tempo che avevo il desiIl video volevo avesse un taglio un derio di raccontare la storia di un po’ più rock rispetto ad altri lavori fotoreporter e di raccontare la stoprecedenti. Si ispira a quei video ria tra lui e il suo cavallo. È da queanni 90, un’ inquadratura stretta sta relazione che parte il racconto sul mio viso mentre canto. Volevo di Sangue Misto. Grazie a Giuliano rispecchiasse anche l’ anima dell’ Dottori poi il brano ha preso uno album in generale. È stato girato sound scarno, il testo è accompada Giacomo Cabrele in due modi, gnato solo da un pianoforte e da un alcune scene sono state girate tappeto di synth, avvolto da armo-
l’intervista nici eterei fatti dal violino di Vito Gatto. È stata una bella sfida ma il risultato devo dire che ci ha soddisfatto molto! Hai già qualche data fissata per poterti venire a vedere dal vivo? E che cosa hai in mente per portare in concerto le nuove canzoni? Per i live ci sto lavorando, soprattutto per queste nuove canzoni. Sto cercando di formare una nuova band. Devo dire che non è facile, ma non mollo e spero di riuscire a portare in giro questo nuovo album.
BROKEN WINGS “Against the Wind” è l’ultimo album della formazione, già al lavoro su nuovi brani
l’intervista
Ci raccontate come nasce il vostro progetto? Il progetto Broken Wings nasce dall’esigenza di mettere in musica le esperienze e le emozioni che sentiamo, senza canoni, liberi da ogni cliché e sopratutto che ci faccia divertire e stare bene.
Il vostro è un disco che racconta molte storie. E’ stato complesso mettere in musica queste vicende che evidentemente vi avevano colpito? In realtà è stato più semplice del previsto, molte canzoni sono nate spontaneamente, quasi subito, altre hanno avuto un processo più complesso per renderle come le avevamo in mente. Quali sono le caratteristiche che deve avere una canzone per essere degna di apparire su un disco dei Broken Wings? Deve essere vera, sentita, ed espri-
mere il nostro stato d’animo di quel momento e per quell’argomento… Ovviamente deve piacerci e avere il sound che cerchiamo. Avete partecipato a diversi contest, alcuni dei quali vi hanno visti vincitori. E’ un’esperienza che consigliate alle giovani band? Certamente, i contest sono belli perchè conosci un sacco di musicisti, e magari come è successo
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2022? Sicuramente scrivere dei nuovi brani (a cui abbiamo già iniziato a lavorare), uscire con un nuovo video e continuare i live.
a noi di fare splendide amicizie, persone e posti per suonare. E’ molto utile per imparare e rapportarsi con i molti bravi musicisti che abbiamo nel nostro paese. Che progetti avete per la fine del
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