LEO PARI E’ NECESSARIO CRESCERE
Si intitola “Amundsen”, dal nome del leggendario esploratore norvegese, il nuovo disco del cantautore e produttore romano, che prova a raccontare il gelo che arriva da dentro e dal quale spesso siamo circondati
Partiamo dalla scelta di pubblicare il disco anche in vinile
Apprezzo molto di più il supporto fisico che lo streaming ma non per un discorso di feticismo ma di qualità. Poi cambia di piattaforma in piattaforma, ma già, senza fare nomi, con lo streaming più diffuso ha una qualità pessima per quanto mi riguarda.
Quindi sono un amante del supporto fisico anche perché faccio musica pensandola per un supporto in vinile, partendo proprio dal tipo di mix, dal tipo di mastering, dal tipo di attrezzature utilizzate nella realizzazione del disco, dai musicisti che chiamo per suonare. Mi piace fare musica ancora in questa maniera.
Perché Amundsen e che tipo di esplorazione stai facendo?
È un tipo di esplorazione sonora
perché nel disco c’è stato spazio per lavorare nel dettaglio a sonorità molto particolari. Ho utilizzato
tantissime tipologie di sintetizzatori, spesso stratificate. In alcune tracce questo è molto evidente, soprattutto nella title track Amundsen e in altre tracce come Fenici o
Un anno freddo diciamo che i synth la fanno da padroni all’interno dell’arrangiamento. Fa proprio parte del mio stile produttivo e compositivo, e anche del mio suono. Per quanto riguarda le canzoni nude e crude, c’è stata una ricerca interiore. Arrivato a questo punto mi sono detto: faccio l’ennesimo disco pop o è il momento di guardarsi veramente dentro. Non che prima non lo avessi mai fatto, però ho deciso di raccontare questo iter, questo mio mettermi in gioco con me stesso, di guardarmi allo specchio e di dirmi: ok, chi è Leo Pari oggi, a quarantaquattro anni? Cerchiamo di raccontarlo nel modo più diretto e semplice possibile. Con l’idea che raccontando se stessi si incontrino anche gli stati d’animo degli ascoltatori. In tempi di riscaldamento globale, molte canzoni del disco fanno riferimento al freddo. Come si arriva a questo contrasto?
Dal punto di vista ambientalista, che mi preme molto, quello del riscaldamento globale è un tema che mi preme molto. In generale quello della natura, dell’inquinamento. Io per esempio non ho la macchina, per scelta: ci tengo molto al discorso ecologico e ambientalista. Nella fattispecie questo freddo che ricorre è un freddo interiore, è un gelo del quale mi sono reso conto di essere vittima, ma che spesso riscontro in molte persone, soprattutto nei ragazzi più giovani. La tendenza è quella di essere “apatici”, nel senso buono della parola. Proprio “a-pathos”: cercare di non mostrare mai troppe emozioni, perché è “cool” restare impassibili.
E visto “cool” cosa significa originariamente in inglese (cioè freddo, fresco) direi che ci sta…
Eh diventa un gioco di parole… Ma in realtà penso che sia la piaga più grossa dei nostri tempi: da questo tipo di chiusura emotiva nascono problematiche sociali ma anche psicologiche dei singoli individui. Tutti questi ragazzi che stanno continuamente in analisi
da quando hanno vent’anni; credo che sia un grandissimo problema della nostra società attuale, dato molto dall’isolamento, dall’alienazione che anche i media, i mezzi di cui disponiamo oggi, come la tv in streaming, la musica in streaming, i social, le chat spesso possano amplificare questo tipo di alienazione. Quindi in qualche modo ho cercato di raccontare questo gelo interiore, del quale io stesso sono stato vittima, quindi lo racconto in prima persona. Questo fil rouge del gelo, dell’Antartide, dell’esplorazione in territori avversi e ostili, in qualche modo è una metafora per spiegare questo tipo di fenomeno sociale. Credo meriti qualche parola anche questo “glaciale” set fotografico con le immagini di Ilaria
Magliocchetti Lombi
Molto bello: non smetto di complimentarmi con lei, che secondo me è una tra le più forti ritrattiste in questo momento. Ma va oltre il ritrattismo “puro”: c’è sempre un’idea e sa cogliere sempre molto bene l’anima che c’è dentro un lavoro e riesce a tradurla sempre
molto bene con le immagini. Vedo che molto spesso si utilizzano delle immagini cheap: anche in questo caso io ho puntato sulla qualità, perché spesso dietro la qualità si nasconde una potente forma d’arte. Diciamo che ho puntato alla bellezza, all’interno di questo disco. Questo tipo di consumo musicale e artistico, delle cento serie che escono ogni anno, delle cento canzoni, il dover fare uscire un singolo ogni due mesi perché se no si perde grip sugli streaming, lo trovo assolutamente anti-artistico. Il mio processo è stato assolutamente contrario in questo caso.
Vuoi raccontarmi qualcosa del video di Roma Est, che ho trovato piuttosto toccante?
Il video di Roma Est è stato realizzato da Marco Brancato, che secondo me è un altro bravissimo illustratore ma anche animatore. Ho avuto modo di incontrarlo grazie ai suoi lavori. Vidi un video che aveva realizzato per Aida di Rino Gaetano, e da lì mi scattò la scintilla individuandolo subito come la persona giusta con cui
collaborare per questo video. Il progetto comunque nasce da una
mia idea: poi confrontandomi con lui e con il suo team creativo ho raccontato questo flash di questo foglio su cui un ragazzo scriveva parole nella sua cameretta. E che questo foglio in qualche modo si animasse e passasse di persona in persona, portando una sorta di messaggio positivo nelle vite delle persone che andava a incontrare.
Partito da questa idea, poi lui l’ha sviluppato in un modo incredibile, per quanto mi riguarda.
Mi racconti qualcosa anche di Un anno freddo, forse il testo più intenso del disco?
Uno dice: quanto ci hai messo a scrivere questa canzone? Ci ho messo all’incirca tredici anni a scrivere Un anno freddo. Da quando ho perso mio padre. Era qualcosa che mi riproponevo sempre, anche per esorcizzare un po’ questo grande dolore che affianca la perdita di un genitore o comunque una perdita in generale. Ho dovuto metabolizzare veramente per un decennio prima di trovare le parole giuste. A quel punto ho
pensato di descrivere esattamente con le parole dirette, senza seconde letture. Quello che dico in quel pezzo è il mio animo che parla.
Diceva Lennon in una canzone “I speak my mind”: faccio parlare la mia interiorità, ma nel modo più semplice possibile. Mi permetto come sempre di usarti come “testimone interno”
rispetto alla musica italiana perché pochi come te possono vantare un bagaglio di esperienze e collaborazioni così trasversali. Come sta il pop italiano?
Secondo me il pop italiano e in generale la canzone d’autore italiana può vantare grandissimi autori e grandissimi interpreti. Quello che purtroppo sono costretto a notare è che tendenzialmente chi fa questo lavoro anche in maniera un po’ più profonda, che cerca di addentrarsi in maniera che sia un po’ più approfondita della semplice superficie fa un po’ fatica. Sono pochissimi i casi di artisti che fanno una grande ricerca in questo senso: mi viene in mente Niccolò Fabi che appartiene a un’altra generazione e viene da un altro per-
corso. Artisti che facciano una grande ricerca, lessicale e sonora, mi viene in mente Iosonouncane, Laszlo De Simone, fanno fatica: per quanto riescano, come me del resto, a continuare la propria carriera e avere il proprio pubblico, però più una cosa è ricercata e più fa fatica a insinuarsi nel senso comune. Secondo me questo fatto è dovuto anche alle proposte che le major musicali continuano a propinarci. Quest’ultimo Sanremo ne è stato secondo me l’esempio più lampante, è stata l’apoteosi della superficialità, per quanto mi riguarda.
L’itpop nasce e rimane legato a sentimenti adolescenziali. Ora è vero che siamo tutti post adolescenti a prescindere dall’età, ma vedi possibile una maturità all’interno di questo genere di canzoni?
L’itpop o indie pop o pop può assolutamente prestarsi a una maturazione: in fondo è un genere che esiste da dieci anni. E lo stesso pubblico che dieci anni fa ci seguiva è cresciuto con noi. Quindi io credo che sia anche un discorso
di età. Non ci si può rivolgere, in generale, allo stesso tipo di pubblico, ma anche al pubblico nuovo, con lo stesso linguaggio che si utilizzava dieci o dodici anni fa. Sarebbe sleale, rappresenterebbe una grettezza e una mancanza di crescita di cui mi vergognerei. L’artista, l’autore, il cantante o anche il pittore ha il dovere di crescere e di esprimere questa crescita con un linguaggio che vada di pari passo con quello che si diventa. Amundsen, il mio album, credo sia anche una dimostrazione di questo. Anche la presa di coscienza di alcune cose. Ma è anche la vita: iniziano a esserci figli, nipoti, si incomincia a perdere qualcuno della generazione precedente. Quindi la situazione è in evoluzione e secondo me anche l’artista e il genere musicale deve esserlo. Non si può continuare tutta la vita a esprimersi con frasi da diario.
E’ giusto farlo quando ci si trova dentro, ma è necessario e dovuto crescere.
A Sanremo Tananai ha portato
nella serata dei duetti il tuo testo per Vorrei cantare come Biagio...
Non mi aspettavo onestamente che un artista che mi sta anche simpatico come Tananai andasse a ripescare questo vecchio brano. Dietro a lui c’è una scrittura tutt’altro che inconsistente, c’è un team di autori che lavora benissimo, per esempio Paolo Antonacci che lavora con lui. Esprime sensazioni giovani ma in maniera ben fatta. Poi è un ragazzo gradevole e ha l’età giusta per fare questo tipo di percorso, quindi ci sta.
Chiudo con “la domanda della playlist”: ci puoi indicare i dieci brani secondo te più importanti per inquadrare quello che è (stato?) l’indie pop-itpop?
Dumbo - Il Solito Dandy
Quella te - Gazzelle
Avvicinandoti - Tiromancino
Senza - Thegiornalisti
Dolce vita - Galeffi
Andare oltre - Niccolo Fabi
Che Noia - Vipra
Game Over - Legno
Aeroplanino di Carta - Lost Kids
Londra - Gazza
VALENTE
“Radio Sky” è il nuovo album del cantautore di Mestre: nove nuove canzoni che nascono dall’ispirazione new wave e rock
Che tipo di periodo fotografa il tuo nuovo disco?
Da un punto di vista musicale il mio nuovo disco fotografa un momento di sintesi delle mie esperienze degli ultimi anni: le mie radici new wave, ma anche la mia passione per il kraut rock e l’elettronica in generale, che prima hanno preso vita in forma di demo solitari, caratterizzati solo da synth e drum machine, per poi svilupparsi nell’arrangiamento in studio con l’aiuto del mio produttore artistico e bassista Andrea Lombardini e degli altri musicisti: il batterista Davide Colletto, che ha contribuito molto sia con le parti ritmiche che con le programmazioni e poi Alberto Milani e Gianni Rojatti, entrambi formidabili chitarristi, con stili diversi,
ma per certi versi complementari; il primo è presente su gran parte dei brani e anche nella band dal vivo, il secondo ,invece, suona in
l’intervista
alcuni brani tipicamente adatti al suo stile, cito tra tutti A dance in the night, col suo mood groovy e dancey che recupera un’estetica 80’s aggiornandola. L’idea alla base è stata di “suonare“ tutto, in maniera tale che l’elettronica diventasse una suggestione resa più umana e vera dalla band: quindi i groove di basso sono tutti suonati anche quando sembrano dei sequencer, idem per le ritmiche dove la batteria vera e alcune parti di drum machine convivono e talvolta si sovrappongono; ci sono tastiere e programmazioni, ma molti pad e ed effetti sono solo frutto di un uso creativo delle chitarre e relativi effetti. Infine, ho avuto il privilegio di avere come ospite in Love of my life”, sorta di elettro pop ballad che chiude il disco con una visione di luce, Jason Lindner, fantastico tastierista e pianista americano, a me partico-
larmente gradito dato che è stato anche (ma non solo) il tastierista dell’album capolavoro Blackstar di David Bowie! Da un punto di vista personale, questo momento mi trova elettrizzato e ispirato e desideroso di tornare sul palco, ma anche di ritornare a scrivere: è come se con Radio Sky avessi aperto il rubinetto di una botte da cui sta uscendo ancora un sacco di vino buono che devo imbottigliare.
Da che tipo di ispirazione nasce “Radio Sky”?
Musicalmente nasce dal mio amore per l’elettronica e il kraut rock tedeschi frullato insieme al mio DNA new wave, un genere che mi scorre nel sangue, (ahaha!) fin dai tempi dei miei Art Dèco, la mia band d’esordio. Questa volta, le canzoni sono nate direttamente in lingua inglese, un ritorno dettato semplicemente dalla natura di queste nuove songs che però fotografa anche il consapevole respiro internazionale del nuovo album.
Da un punto di vista più generale e oserei direi “cosmico”, Radio Sky è un disco che riflette sulla
magia che al momento mi sembra che manchi del tutto in questo mondo travolto da mercantilismo ossessivo, guerre, volgarità e superficialità culturale spesso indotta dai media: un’incapacità di vedere quello che conta davvero, oltre il “visibile”: in questo senso Fly e Bring back the Magic sono canzoni particolarmente significative nell’indicare il desiderio di “volare” al di sopra di tutto questo, di abbandonare le vie più battute e nell’affermare l’importanza di saper recuperare, anche in senso esoterico, una sapienza dimenticata, ma quanto mai necessaria per fare un passo avanti. Perché hai scelto “Fly” come singolo e video?
In realtà Fly è il secondo singolo, dopo Radio Sky, ma è una scelta ragionata in quanto ritengo che Fly sia la canzone perfetta per presentare il contenuto musicale di tutto il disco, con il suo arrangiamento che unisce momenti di psichedelia elettronica, un beat
deciso da dancefloor e un riff post punk che definirei un classico senza tempo, ormai.
Il video mi è particolarmente caro per due motivi: innanzitutto la presenza di un grande ballerino come Dmytri Savinov, di Kiev, per molti anni nel Teatro di San Pietroburgo, attualmente in Italia presso L’Academìa di Danza e Balletto di Clara Santoni, la direttrice e coreografa del video; il secondo motivo è che nel clip, Dmitry insegna a “volare” sopra le difficoltà contingenti (evidentemente anche quelle della sua patria d’origine) ad una bimba, che poi è mia figlia Emma Sole Valente, sua allieva sia nel video che nella realtà: realtà, quindi si può immaginare la mia emozione! Il regista Giorgio Ricci, col quale ormai ho instaurato un sodalizio artistico e di amicizia da diversi anni, ha saputo ancora una volta rappresentare sapientemente col suo bellissimo bianco e nero, la tensione verso l’alto di “Fly”. Che cosa stai ascoltando in questo periodo?
Be’…Neu, Kraftwerk, Can, Popol
Vuh, l’ultimo fantastico album degli Arctic Monkeys,(lo adoro) i Roxy Music e St.Paul & the Broken Bones, molto northern
soul di cui sono appassionato. Quali sono i progetti che porterai avanti nei prossimi mesi?
Innanzitutto torneremo a esibirci dal vivo con una prima serie di date partendo dal Veneto, dove vivo e nel nord est, in club molto attenti al format che proporremo che allo show live unirà sempre un dj set mirato in ambito new wave e elettro pop. Inizieremo
dall’Argo 16 a Marghera il 24 marzo, poi seguiranno l’Astroclub a Pordenone, il Vinile a Vicenza e altri. Inoltre, dall’album verrà sicuramente estratto un altro singo-
lo, infatti è prevista anche una versione remix di…be’ questa notizia a sorpresa me la tengo per ora!
REGIONE TRUCCO
“Mi sono perso” è il nuovo album della band piemontese, che scalpita per tornare a suonare dal vivo
Mi pare di capire che il disco abbia richiesto fasi di lavoro particolarmente articolate. Ce ne volete raccontare la genesi?
Mi sono perso è un disco che nasce in sala prove, dove Umberto arriva con il chitarra-voce delle canzoni. Lì, sotto il comando generale di Andrea, arrangiamo i pezzi in una prima veste. Poi li suoniamo dal vivo nelle occasioni più intime, come per esempio nei pub. A quel punto abbiamo il primo e per noi più importante riscontro:
la reazione della gente. Scegliamo quindi i pezzi che ci sembrano emozionare di più le persone e passiamo alla seconda fase che è quella delle pre-produzioni, che facciamo principalmente in home recording. Da qui in avanti, i pezzi passano nelle mani di Enrico Caruso (sound engineer con sede a Vercelli) nel cui studio registriamo voci e tutto quanto non è possibile fare in home recording: lui ci aiuta con piccoli grandi suggerimenti di adding production, oltre a mixare i brani. Oltre a questo processo artistico, sono subentrate etichette discografiche, un manager nuovo (Federico Borruso), nel mezzo una pandemia e tanto altro...
Dite che non è un concept album, ma c’è un fil rouge: quale? L’ironia in primis e una ricerca davvero minuziosa dei suoni. Qual è stato il pezzo più difficile da realizzare?
Sicuramente Giuliano: la sua struttura nonché l’approccio compositivo fanno decisamente parte della tradizione cantautorale italiana. La difficoltà è stata quindi
quella di “cucire” su questa canzone un arrangiamento che non risultasse anacronistico. E’ stata dura, ma siamo molto contenti del risultato.
Quali sono le band che guardate come modelli di riferimento?
Le nostre influenze musicali, essendo una band composta da più persone, sono molto varie, ognuno ha le sue, peraltro molto diverse tra loro: Umberto ha una formazione più cantautorale; Andrea è un amante dei grandi classici della musica internazionale, come per esempio i Pink Floyd; Manuel ha macinato tanto rock, mentre Massimo ha spaziato a lungo nell’afrobeat.
Che cosa ci dobbiamo aspettare da voi, dal momento dell’uscita del disco in avanti?
Sicuramente ci vedrete suonare
dal vivo! Per noi è vitale, che siano palchi prestigiosi o piccole location è la benzina che fa andare avanti una band
BONNY JACK
Un doppio singolo “come una volta” per il progetto/one man (blues) band, in attesa del tour primaverile ed estivo
Ciao, ci racconti qualcosa del tuo progetto musicale?
Ciao, sono un one man band e suono musica folk/blues. Per chi non lo sapesse one man band significa che suono più strumenti da solo, nel mio caso chitarra (o banjo), grancassa, rullante e voce... Una piccola e minimale orchestra! A oggi ho pubblicato due dischi e un doppio singolo fresco di stampa!
Perché hai scelto di pubblicare un doppio singolo?
Mi ha sempre affascinato l’idea del doppio singolo, side A e side B in vinile 7”, come si faceva una volta. Il disco da dj! Sono un ro-
mantico ma ho voluto dare valore a due brani che hanno segnato un momento importante della mia vita. Mi è sembrato giusto farli uscire da soli e non all’interno di un lavoro più lungo e complesso come un disco.
Ci racconti la genesi delle due canzoni?
Nell’ultimo anno ho viaggiato molto e ho vissuto molte esperienze bellissime. Ho scritto i due brani in questione durante il tour e hanno risentito sicuramente dell’energia dei vari posti in cui sono stato! Uncle Jack e Tell Me rappresentano dei cambiamenti a livello personale, artistico e lavorativo che ho attraversato e che sto attraversando e questo li rende davvero speciali per me.
Che cosa seguirà questa uscita?
Be’ per ora sono concentrato su questa uscita e sul tour che avrò in primavera ed estate. Sono davvero molto carico e sto preparando una nuova scaletta per i prossimi concerti. Quando avrò macinato chilometri e chilometri si vedrà ma il 2023 lo dedicherei a questi due brani.
Tre canzoni che hanno influenzato particolarmente il tuo sviluppo musicale?
Vediamo: Smokestack lightnin di Howlin Wolf: un brano che mi smuove le budella ogni volta, non ballo e non mi piace farlo ma quando parte questa canzone faccio fatica a stare fermo. Mi ha insegnato quanto sia importante la semplicità. Se alla base c’è qualcosa di valido e forte a volte non serve altro. Venus in furs dei Velvet underground: una delle mie canzoni preferite. Ha tutto: un testo incredibile, un’atmosfera da incubo a occhi aperti, completamente ipnotica, ti cattura nel suo vortice oscuro e ti schiaffeggia per poi abbandonarti di nuovo alla realtà... Incredibile. Paranoid dei Black Sabbath: ricordo la prima volta che l’ho ascoltata in un cd compilation di brani anni ‘70, la chitarra fuzzosa, è stato amore a primo ascolto... Avevo messo il “repeat” sullo stereo e ho consumato il cd...
Ancora oggi quando mi capita di ascoltarla devo farlo almeno due tre volte di fila, una non mi basta mai!
FERMOIMMAGINE
Partiamo dal titolo del disco: che significato ha Io volai?
“Io Volai” è l’anagramma di “Io Viola”, il nome della mia prima figlia che ci ha lasciato prima di poter nascere. E’ un ricordo molto doloroso ma allo stesso tempo estremamente personale, vivo ed importante: la sua scomparsa ha di fatto dato la possibilità di nascere a sua sorella, la secondogenita. E’ un titolo che si sposa bene anche con l’immagine della copertina (tratta da un quadro di mia moglie, anch’esso dedicato alle nostre figlie): due colibrì in volo, così piccoli e apparentemente fragili potrebbero rappresentare la ricerca per qualcosa di importante per noi stessi, o semplicemente una ricerca del proprio io...
La realizzazione del disco è stata laboriosa. Ci racconti perché?
Premetto che sono piuttosto lento per quanto riguarda la scrittura dei pezzi, e prima di partire ci ho messo un po’: vuoi per poco tempo libero, vuoi per una buona dose di pigrizia iniziale. Il primo pezzo Verso casa di fatto l’ho composto nel lontano 2018. Dopo sono successe un po’ di cose che hanno rallentato il tutto: la famiglia si è allargata e tutti gli equilibri sono cambiati drasticamente.
Poi è arrivata la pandemia che ha rallentato questo processo già di
Un pezzo di vita doloroso ma anche molte speranze contenute nel nuovo album, “Io volai”
l’intervista
per sé molto lento. Alla fine ce l’abbiamo fatta, e siamo qui a parlarne.
Qual è il brano a cui sei più legato?
Il brano a cui sono legato di più è sicuramente Ti racconterò perché è dedicato alle mie due figlie: la primogenita non ce l’ha fatta, la seconda sta crescendo e si sta dimostrando un’esperienza unica e indimenticabile, sicuramente bellissima. Le difficoltà non mancano ma essere padri è un viaggio incredibile: e pensare che fino a non molti anni fa non ci pensavo nemmeno... La vita sa sorprenderti sempre, e ora che ci sono dentro sono felicissimo di aver fatto questa scelta.
Il disco vede la presenza e la collaborazione di numerosi ospiti. Ci racconti qualcosa del tuo rapporto con ognuno di loro?
Nel singolo “Nella stasi” ci sono i Delenda Noia (Massimo Canu e Lara Tanda) nostri amici musicali che abbiamo avuto la fortuna di conoscere a Bologna, al primo concerto per il nostro secondo disco “Frammenti” (2015). Da allora è rimasto un sincero rapporto di amicizia, senza dimenticare il fatto che mi piace molto quello che fanno. Li trovo autentici e gentili, affabili: qualità molto rare tra molti colleghi in ambito musicale. Nel terzo pezzo La speranza ci
sono Gioia Gurioli e Silvia Valtieri: la prima è la mia ex-insegnante di canto nonchè amica, mi ha seguito in quasi tutto il mio percorso musicale riguardante i FermoImmagine; Silvia Valtieri è una giovane e bravissima pianista jazz che suonò con noi nei primi due anni di FermoImmagine, poi ha preso altre strade ma l’amicizia è rimasta intatta. Nel quinto pezzo del disco Frontiere distratte c’è di testo di Roberto Laghi, un mio caro amico ed ex-batterista in un
paio di esperienze musicali per me molto importanti. Giornalista, scrittore, blogger e appassionato di bicicletta qualche anno fa fece un viaggio in bici che partii dai Balcani e attraversò Grecia, Turchia, Caucaso, Iran, Asia centrale e finì in Cina. Proprio durante quel viaggio gli dissi di scrivere un testo su questa esperienza. Nel sesto brano del disco Cantico c’è la poesia di Luca Barachetti. Giornalista e scrittore curò la promozione del nostro secondo disco Frammenti (2015) con Macramé, insieme a Corrado Maffioletti. Da allora è nato un rapporto sincero di amicizia, fatto di reciproca stima. Grazie anche al loro lavoro abbiamo fatto un bel salto di qualità: non smetterò mai di ringraziarlo per questo. Il nono pezzo Ti racconterò... ancora, è una rilettura di Ti racconterò ma stavolta senza cantato e testo: semplicemente il suono di una chitarra classica suonata dal bravissimo insegnante di musica Andrea Cavina, grande amico nonchè chitarrista nella mia prima esperienza musical-teatrale Altrocanto (1998).
Perché hai scelto di chiudere l’album con “Come ogni volta” dei La Crus?
“Come ogni volta” lo sentii la prima volta nel lontano 1997: stavo facendo ancora servizio civile e avevo letto dei La Crus su un inserto musicale di Repubblica. Mi incuriosirono e acquistai il loro cd Dentro me: rimasi folgorato, mi innamorai immediatamente della loro musica, della malinconia e allo stesso della poesia, raffinatezza e delicatezza che trasmettevano. Era un perfetto connubio di elettronica, chitarra classica, tromba e c’era una voce vellutata, profonda, suadente. Quella di Mauro Ermanno Giovanardi era ed è ancora una delle più belle voci degli ultimi 30 anni in Italia.
I La Crus sono stati per me un vero riferimento, mi hanno fatto capire che tipo di musica volevo fare. E’ anche grazie a loro se ancora suono e scrivo canzoni.
GIANCARLO GABBANELLA
Alla scoperta di “Extraction”, il nuovo lavoro del chitarrista
Ciao, ci racconti chi sei?
Chitarrista di professione, la mia passione per la musica inizia all’età di 6 anni. Sono nato in provincia di Roma e attualmente vivo in provincia di Pavia. Come nasce l’ispirazione per questo tuo nuovo lavoro?
Il mio progetto musicale è basato su materiale scritto da me in vari periodi. Materiale scritto e tenuto nel cassetto per futuri lavori. Racchiude un po’ tutta la situazione di cui stiamo vivendo negli ultimi periodi e condizioni attuali, Sonorità e influenze diverse ma molto melodico.
Quali sono i tuoi punti di riferimento musicali?
I miei Punti di riferimento Musicali sono il rock in generale, sopratutto chitarristi che hanno la-
sciato il segno, mi piace il blues, la fusion e altri generi, Gruppi che mi hanno influenzato, sono stati i Van Halen, Deep Purple, Led Zeppelin , Pink Floyd, Dream Theater e molti altri. Quali sono i tuoi progetti in corso?
Ci sarà una preparazione per alcuni Live e sto facendo un cambio organico della vecchia band per progetti nuovi con un frontman, quindi genere sempre Rock Metal ma cantato.