TRAKS MAGAZINE #17

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Numero 17 - settembre 2018

Nathalie luce dopo l’oscuritĂ

Diana Setti Jocelyn Pulsar

Alfonso Me, Pek & Barba Medison


sommario 4 Nathalie 10 Diana 14 Alfonso 18 Me, Pek & Barba 22 Setti 26 Jocelyn Pulsar 30 Recensioni 34 Medison 38 Masstang 42 Vorro 46 Tommaso Talarico 50 Francess 54 Quellochesentivo Questa non è una testata giornalistica poiché viene aggiornata senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n. 62/2001. Qualora l’uso di un’immagine violasse diritti d’autore, lo si comunichi a info@musictraks.com e provvederemo alla rimozione immediata

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NATHALIE luce dopo l’oscurità

“Into the flow” è l’ultimo lavoro discografico di Nathalie. Un concept album con al centro l’acqua, che racchiude le diverse anime di un’artista poliedrica, dalla voce delicata e graffiante che regala melodie magiche e piccole perle di saggezza. Le sue canzoni nascono dall’ispirazione del momento in una lingua o nell’altra, senza perdere mai il loro fascino etereo


Le copertine dei tuoi album sono sempre piccoli capolavori: immagini in cui sei rappresentata come una creatura angelica, fatata, un essere che appartiene al mondo della fantasia… è così che Nathalie sente di essere Nathalie? Nella mia musica e nei miei testi sono molto “visuale”, e in gene-

rale sono una persona che pensa molto per immagini. Le copertine dei miei album sono una sintesi del mio mondo artistico... A dir la verità quell’aspetto più fantasioso, fatato lo vedo soltanto come una delle varie parti di me, sento di avere vari aspetti. Un aspetto di fantasia c’è sicuramente, ma ci sono anche elementi più forti,


tua riflessione sul modo “giusto” di amare? Si, esattamente, nella canzone mi riferisco anche agli Specchi Esseni. Le relazioni, soprattutto quelle più intense e vere, ci portano a specchiarci l’uno nell’altro, a trovare e riconoscere aspetti di noi nell’altra persona o a riconoscere alcuni nostri comportamenti attraverso questo “specchiarsi”. Ogni rapporto è in grado di insegnarci qualcosa su noi stessi e di farci

grintosi, “materici”, meno eterei, nella mia musica. Nelle mie canzoni c’è sia luce sia oscurità, mi piace esplorare vari stati d’animo, immagini e atmosfere. “Siamo specchi” è uno dei brani del tuo ultimo album che, a mio avviso, rappresenta la tua essenza e riporta alle sensazioni provate quando per la prima volta ho ascoltato “In punta di piedi”. Mi chiedo se c’entrano qualcosa gli Specchi degli Esseni in questa

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coraggiosa e testarda di portare il tuo brano rifiutando quello scritto per l’occasione da Pacifico che alla fine si è rivelata vincente. In cosa ti ha arricchito partecipare, arrivando sul gradino più alto del podio, a un talent di tale portata, a fianco a un maestro come Elio? L’esperienza a X-Factor è stata molto intensa, a tratti difficile ma anche molto gratificante: Elio è stato molto rispettoso della mia personalità artistica e mi ha sempre dato ottimi consigli, tuttora siamo in contatto ed è sempre un ottimo consigliere! Lui è un musicista e artista puro, con una gran-

evolvere, se lo vogliamo. “Siamo specchi” è la canzone della luce dopo tanta oscurità, mi ha accompagnato e mi accompagna in tutti i miei cambiamenti... Mi ha insegnato a dare un senso ad alcune cose nella mia vita passata e presente. La tua scrittura è sempre stata estremamente fluida, ti esprimi con la stessa sicurezza in italiano, in inglese e anche in francese… Quando nascono le tue canzoni hanno già una lingua madre, o l’idea di utilizzarne una si costruisce in corsa? E’ la canzone che decide in quale lingua essere scritta! A parte gli scherzi, in un certo senso è davvero così, la scelta della lingua è sempre molto naturale, assecondo molto la direzione in cui mi porta l’ispirazione. Ogni lingua permette cose diverse, sia a livello di suono, sia il contenuto del testo... Il suono varia moltissimo cambiando lingua in cui si canta... ed è bello poter esplorare senza porsi limiti. Ricordo perfettamente la tua esperienza a X-Factor, la scelta 7



– itpop attuale? Degli artisti dell’attuale scena sarebbe interessante collaborare con Brunori Sas, abbiamo sicuramente in comune molti degli ascolti musicali con cui sono cresciuta! Sei musicista, ma anche attrice, autrice, doppiatrice… Che progetti ci sono nel tuo prossimo futuro? Mi sento soprattutto cantautrice, musicista... Tutto ciò che riguarda l’approccio musicale mi appartiene e lì mi sento totalmente a mio agio. Il mondo della recitazione, del doppiaggio, sono qualcosa in cui mi sento più un’apprendista curiosa, in cui posso esplorare, anche se magari con meno strumenti a disposizione, almeno per ora... Mi piace continuare a imparare e non escludo di voler approfondire quel mondo. Nel futuro più prossimo sicuramente suonerò dal vivo e ho anche voglia di scrivere nuove canzoni... Mi piacerebbe anche comporre per il cinema, sarebbe un modo molto bello di unire due mie grandi passioni... chissà! Chiara Orsetti

de competenza e sensibilità musicale... Ricordo che nel momento in cui ero indecisa se accettare il brano di Pacifico o insistere con la mia In punta di piedi, Elio mi lasciò libera di decidere, senza forzarmi in alcuna direzione, rispettò la mia capacità di scegliere cosa fosse la cosa più giusta per me. In “Anima di vento” hai duettato con Raf. Puoi raccontarci qualcosa di questa esperienza? Avevo conosciuto Raf due anni prima, quando mi aveva chiamato a cantare nel suo brano Numeri... è stata una bella esperienza e da lì è nata un’amicizia, quindi mi è venuto naturale coinvolgerlo per Sogno d’estate. Raf è un artista di grande sensibilità, un artigiano del pop di qualità, mi ha insegnato molto vederlo all’opera... Ha firmato anche una parte del testo e ricordo che mi colpì la sua naturalezza nello scrivere la sua strofa in pochissimo tempo... Parole molto belle e che si incastravano perfettamente nello stile del brano. Con chi ti piacerebbe collaborare tra gli artisti della scena indie 9


DIANA

la battaglia interiore più difficile Roberta Arena assume un alias divino e lunare, e pubblica nove canzoni elettroniche e lunari, per mezzo delle quali pubblica “And You Can’t Build The Night” nasce il progetto che le sta alle spalle? Sicuramente non ho scelto il nome di Diana perché è la dea

Diana, dea della caccia, della luna (e della morte improvvisa, ma comunque…): come nasce la scelta del tuo nome d’arte e come 10


alla doppia faccia di una stessa medaglia. Lei è la parte di me che preferisco, difficilmente saprebbe rivelarsi in altro modo se non con la musica. Ho scelto questo nome anche perché può accostarsi a tanti significati come tu ben scrivevi. La luna è sicuramente una fonte inesauribile di ispirazione, compongo quasi sempre di notte, magari con un bel bicchiere di vino accanto. Racconti che pubblicare questo disco è stato un prevalere dell’esigenza di rendere noti i brani, rispetto a quella di tenerli nascosti… Da quanto tempo li serbavi e quanto è durata questa battaglia interna? È la battaglia interiore più difficile che io abbia mai combattuto e credo che durerà per sempre. I brani sono per la maggior parte storie di vita vissuta e questo “raccontare” al mondo ciò che si è, senza filtri, svelando le proprie debolezze, raccontare dei propri dolori e delle proprie emozioni non è mai facile. In realtà è un po’ la mia terapia. L’essere onesti con se stessi non è mai semplice. Ci sono brani

della morte improvvisa ahahah, anzi è proprio lei a darmi linfa vitale! Diana è il mio secondo nome, e quindi l’accosto sempre 11


che ho scritto da più tempo parecchi anni fa, altri invece sono più recenti. Spesso rimangono scritti lì per poi essere ripresi quando sarà il momento, quando magari si è concluso un ciclo. Il tuo non è l’unico album contemporaneo influenzato da sensazioni “cosmiche”: posto che non è più epoca di grande popolarità delle esplorazioni spaziali, a che cosa è dovuta tutta questa voglia di fuga verso le stelle? Le stelle e l’universo sono l’emblema dei Sogni dell’essere sospeso, della libertà o forse della fuga come tu ben dici o comunque della scoperta. Non posso dirti perché molti siano influenzati da questo, però sono sicura che in questo momento storico abbiamo tanto bisogno di sognare, di eva-

dere, di andare in un posto dove non ci siano pregiudizi, dove tutto è possibile! L’ignoto affascina sempre e questo posto così bello e irraggiungibile è un po’ l’idea dell’amore più puro… E’ tutto così incerto che tutto lì sembra possibile... Sono incuriosito dal titolo del disco e dalla canzone omonima: vorrei sapere da che tipo di ispirazioni nascono l’uno e l’altra. Ho scelto di chiamare così l’album perché è stata la prima canzone che ho deciso di scrivere volontariamente. Nel momento in cui la scrivevo non era solo un “buttare giù degli accordi, un’idea fine a se”, lei doveva essere una canzone, un inizio di un percorso. Questo pezzo è proprio la nascita di Diana, una notte di novembre iniziai a scrivere di botto questo testo e questi accordi accompagnati da un riverbero che risuonava nelle mie cuffie, in quel momento ho deciso che stavolta dovevo essere io a raccontare senza filtri né paure. Avevo raggiunto questa maturità. Quando si soffre per qualcosa non riesci a “costruire” la notte, 12


non riesci a mettere insieme i pezzi della mente, non riesci a dormire, se c’è una cosa che ti fa soffrire. La notte è per me un momento fondamentale, perché si tirano le fila della giornata, si svuota la mente e inizi a pensare. Di notte si dice sempre la verità. Tre nomi di artiste senza le quali non saresti qui ora a parlare del tuo nuovo disco. Dato che mi parli di artiste donne posso dirti dei nomi di artiste senza le quali non avrei imbracciato

la chitarra e imparato a suonare. PJ Harvey, Janis Joplin e come nostrane Carmen Consoli. Ti rispondo così di botto perché tra due minuti mi verranno in mente cento nomi e mi mangerò le mani ahahah. Solitamente quando compongo non ascolto musica di proposito per evitare influenze, ma sicuramente un’artista donna che mi ha fatto appassionare all’elettronica è Grimes. Fabio Alcini 13


ALFONSO

Accompagnato dalla sua inseparabile chitarra “Brigida”, arriva al debutto il giovane cantautore di Lodi con un concept album dal titolo “1 kg di problemi e due etti di insalata” Ci vuoi raccontare la tua storia? La mia esperienza iniziò circa quattro anni fa, dopo essermi licenziato da un postaccio presi la mia liquidazione e andai diretto in un negozio di strumenti musicali, avevo voglia di imparare a suonare la chitarra, in un nanosecondo mi innamorai di una Epiphone dove-pro, venne a casa con me e la chiamai “Brigida”; Da quel giorno

posso dire di aver iniziato a essere Alfonso. Portavo sempre un quadernino appresso dove annotavo qualsiasi cosa, in una maniera maniacale mi ritrovavo a descrivere qualsiasi situazione: il mio stato d’animo, le mie perplessità e qualche ricordo… Presero vita così le prime canzoni. Di sicuro prevalse la voglia di esprimermi come volevo io. 14


“1 kg di problemi e 2 etti di insalata” è un concept: qual è l’ispirazione alla base del disco? “In un mondo preconfezionato dove il prodotto perfetto si trova in prima fila sullo scaffale, io sono uno di quelli che sceglie il prodotto finito in fondo perché non lo ha ancora toccato nessuno, sono proprio io quel prodotto. Scartato, schiacciato, quello dietro agli altri. 1 kg di problemi e due etti di insalata parla di tutto quello che si vede da quaggiù per ricordarvi che la vita da imperfetti è quella che vi portate a casa ogni volta che scegliete di essere voi stessi”. Queste sono le parole che ho scelto per descrivere il lavoro svolto finora, il titolo e il senso di tutto l’ho realizzato il giorno dello shooting fotografico per la copertina del cd. Avevo in mente qualcosa ma ero

molto indeciso perché cercavo un titolo che con poche lettere potesse descrivere al meglio 30 minuti di musica, e se ci pensate non è per niente facile! Per la copertina avevo questa malsana idea di mettere il mio testone in un contenitore per alimentari, brutto e impacchettato stando li a guardare il coltello che da lì a breve mi avrebbe fatto a pezzetti… Ok detto così non si capisce molto, ma il senso di questa immagine nella mia mente è che per me la musica (intesa come entità paranormale)

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è qualcosa di veramente sacro, la puoi studiare una vita e darle tutte le forme che vuoi ma non riuscirai mai a dominarla, nonostante questo, secondo me la musica viene trattata male, anzi quasi data per scontata proprio come un prodotto del supermercato che dove vai trovi sempre, per questo motivo mi sono infilato in un contenitore per alimenti aspettando la mia fine, dentro quel contenitore c’è Alfonso, un ragazzo che dai per

scontato, imperfetto ma che ha tanto da dire… Hai scelto un registro ora ironico ora amaro per le tue canzoni. Ma dietro quella maschera lì, veramente, che tipo sei? Ciao, mi chiamo Valerio Alfonso Savini nato a Codogno il 05/06/1994, sono daltonico, ho la “R” moscia e da che ho memoria scrivo con la mano sinistra, però non suono come Jimi Hendrix, bensì come tutti i destrorsi. Scusa16


nomi imprescindibili per la tua crescita musicale Guarda, mentre in casa si ascoltavano i grandi della musica italiana, il mio primo amore fu il punk americano. Questo non vuol dire che ho distrutto i dischi di mio padre (anche se nei testi dei gruppi che ascoltavo ci si andava vicino), anzi piano piano mi sono avvicinato alla musica italiana, la amo ogni giorno. Più che nomi di artisti ti darei tre titoli di album che mi hanno davvero lasciato senza respiro. Nero a metà - Pino Daniele , Dalla - Lucio Dalla e Artide Antartide di Renato Zero.

mi, adoro avere due identità, una delle cose più belle è avere la possibilità di indossare una maschera prima di salire sul palco e (passami il termine) avere “carta bianca” per potersi esprimere nel modo che si ritiene più opportuno. Mi dicono che questa cosa è tipica dei “Gemelli”, bene! è il mio segno zodiacale preferito :) “Son contento” è una canzone basata sui contrasti e sulle aspettative (social) tradite. Come nasce la canzone? La storia di questa canzone è molto particolare, per quel che mi riguarda è un chiaro attacco alla mia personalità, nonostante le difficoltà che si possono trovare tutti i giorni, pur dormendo su un pavimento perché non avevo più un tetto sopra la testa ero felice. La felicità in questione si riduceva a essere al passo con le tecnologie o il semplice apparire, tralasciando gli optional più importanti e con delle radici molto significative, come una casa… Chiudo domandandoti tre 17


ME, PEK & BARBA

La folk band di Parma ha appena celebrato i quindici anni di attività e ha pubblicato da poco l’album “Vincanti”, dedicato al vino e ricco di ospiti “Vincanti” è un concept album sul vino. Che cosa vi ha convinto a pubblicare un disco così “alcolico”? L’idea è nata coltivando la vite. Federico, nostro fisarmonicista e autore insieme a Sandro delle canzoni, qualche anno fa, ha proposto allo zoccolo duro del gruppo di aiutarlo nell’impianto e nella coltivazione di un nuovo

vigneto. Questa esperienza ci ha insegnato tante cose: la fatica del lavorare la terra, la gioia della vendemmia e anche la delusione che giunge quando purtroppo la pianta si ammala e il raccolto viene compromesso. Questa esperienza di vita, oltre ovviamente al fatto che amiamo bere buon vino, ci ha spinti a scrivere “Vincanti”. La produzione del disco è fir18


mata da Elisa Minari, che oltre a essere una musicista esperta è parte della band dal 2015. In un mondo, come quello della produzione, dominato dai nomi maschili, finalmente una novità significativa, va detto. Com’è stato per Elisa lavorare sul disco in questa doppia veste? E’ stata un’esperienza impegnativa e appagante per me, che ho sempre privilegiato le situazioni che permettessero di lavorare con la musica in modo personale e creativo. Inoltre la proposta di seguire la produzione di Vincanti è arrivata al momento giusto, fresca com’ero di esperienze e mansioni simili a quello che mi veniva richiesto. Nel caso dei Me Pek e Barba la complessità è data dal numero di strumenti e musicisti da gestire, ma allo stesso tempo questo prezioso organico ha consentito di sviluppare al meglio armonie e arrangiamenti. Il fatto di essere anche componente del gruppo serve perché si conoscono le caratteristiche dei propri compagni di viaggio, e io credo sia fondamentale sfruttare le ca-

ratteristiche di ogni musicista. Sì, è prettamente ancora un mondo maschile quello della produzione, ho testato personalmente la cosa. Te ne accorgi dall’atteggiamento che gli addetti ai lavori hanno nei tuoi confronti, a volte basta una frase, o avvertire la difficoltà di un uomo che deve fare quello che gli chiede una donna in regia. Al contrario in questo gruppo non c’è stato nulla di tutto ciò, c’è stato molto rispetto per i reciproci ruoli, cosa non scontata da trovare! Sono numerosi gli ospiti del disco (c’è anche un winemaker…): potete spendere qualche parola per ognuno di loro? Con piacere. Omar Pedrini: Sandro era rimasto colpito qualche anno fa da un’intervista nella quale Omar raccontava della nuova vita, iniziata a seguito del primo importante intervento chirurgico subito al cuore; in sostanza, diceva che era comunque felice perché i medici gli avevano comunicato che avrebbe potuto continuare con una delle sue grandi passioni, ossia bere, con moderazione, buon vino. Un’esperienza musi19


cale ci fece incontrare e quando gli raccontammo del progetto e gli proponemmo di scrivere un testo, accettò subito con entusiasmo e di seguito venne in studio a fare le seconde voci. E’ un grande! Roberto Cipresso: E’ un winemaker di fama mondiale. Da un suo racconto dedicato al vino Madeira, Sandro ha preso ispirazione per scrivere il testo della canzone “Saudade”. Digitando il suo nome

su Google scoprimmo che è anche un appassionato di musica e chitarrista. Gli scrivemmo una mail raccontando del progetto e della canzone e lo invitammo a suonare la chitarra come ospite del brano. Tra un viaggio e l’altro per vigneti sparsi in mezzo mondo, passò dallo studio di registrazione, non portando con se la chitarra, bensì una borsa in pelle piena di armoniche, che poi suonò divinamente 20


e interventi: come nasce il brano? Il brano nasce dall’idea che i vini, come i dialetti, essendo così diversi tra loro da zona a zona, da regione a regione siano un importantissimo patrimonio della nostra bella Italia. Abbiamo così ideato una filastrocca cantata da Michela in italiano e da Sandro nel nostro dialetto, inviata poi ad alcuni amici per chiedere loro di cantarla ed elaborarla nel rispettivo dialetto, o per meglio dire: in alcuni casi una vera e propria lingua. Gigi Sanna degli Istentales in lingua sarda, Franco Giordani (chiamato il Mé, Pék e Barba in Friuli) in lingua friulana, Puccia degli Aprés la Classe in lingua salentina, Dario Canossi dei Luf in lingua camuna.

all’interno del pezzo! Andrea Grignaffini: condirettore di “Spirito di vino” e curatore della guida vini della rivista L’Espresso, parmigiano DOC, ci ha onorati del dono di una prefazione con la quale si apre il libretto del nostro cd. Marino Severini: Cantante dei Gang ci ha scritto un bellissimo racconto che ripercorre la lunga storia del vino nelle diverse culture, contenuto sempre all’interno del booklet che accompagna il cd. Siamo suoi grandi fan. Nel precedente album dal titolo CartaCanta, pubblicato nel 2015 e interamente dedicato ai libri, fu ospite nella canzone “La Tigre d’Ogliastra” ispirata dal libro “Memorie del vuoto” di Marcello Fois. Gli ospiti musicali sono stati Rocco Rosignoli che ha suonato il mandolino nella canzone Riempi la tua testa di vino e Davide Guiso che ha suonato le launeddas ne i brani Vitalia e Filastrocca. In quest’ultimo brano ha curato la parte musicale cantata in lingua sarda. Poi ci sono tutti gli ospiti di Filastrocca. “Filastrocca”, che avete scelto anche per il video, mescola dialetti 21


SETTI

“Arto” è il successore di “Ahilui”: costellato da numerose collaborazioni, nasce a distanza di quasi quattro anni dal disco precedente ed è un condensato di quattro anni di scrittura paziente e non semplice Hai lavorato quattro anni al disco e, se capisco bene, non sono stati quattro anni facili... La lavorazione del disco è durata quattro anni per varie ragioni. In ogni caso sono contento delle canzoni che sono finite nel disco (ne ho scartate moltissime), di come lo abbiamo realizzato e delle persone che mi hanno aiutato a farlo. E’ stato a tutti gli effetti un lavoro in team. Non è stato facile

perché anche il processo di scrittura richiede abbastanza scavo per me, come anche quello di arrangiamento che ho fatto insieme a Luca Mazzieri e Luca Lovisetto che sono stati fondamentali per ottenere il risultato che cercavo. Sono stati difficili ma è stato un bene. Mi piacciono le sfide stimolanti, il difficile è stato arrivare a cose semplici. Poi ci sono aspetti della vita che non riguardano di22


rettamente la musica che hanno altri livelli e tipologie di difficoltà, conciliare la passione col lavoro e gli altri impegni. In ogni caso amo molto anche la parte di home recording, quindi sono usciti svariati ep non ufficiali nel frattempo e penso ne usciranno altri. L’album non è un concept, tuttavia sono piuttosto evidenti alcuni temi di fondo che uniscono le canzoni. Per esempio da dove nasce il lato “americano”? Non è un concept perché non è nato come tale in effetti. Le canzoni sono state scritte indipendentemente e poi si sono messe insieme da sole. Sono una strana comitiva queste canzoni ma per me hanno una loro compattezza insieme, sono una squadra. Non ci ho mai riflettuto sulla ragione del lato americano ma penso che derivi dall’immaginario delle opere letterarie, cinematografiche, musicali che amo. Probabilmente ha influenzato la mia immaginazione. Poi l’Emilia, in cui vivo, mi fa pensare a tratti ad alcuni paesaggi americani. Il Po è una specie di piccolo Mississipi, i campi

sono piccole praterie. Secondo una visione molto astratta e personale. Lo trovo anche gotico a suo modo. A volte ho detto che è una visione salgariana perché parlo di posti in cui non sono mai stato e li uso per raccontare altro. Ci saranno di certo dei fili rossi, oltre alla mia visione delle cose, ma al momento penso ancora di essere nel labirinto. E’ un viaggio che vorrei fare con chi ascolta, ci penserò. I titoli con gli Stati Americani li ho usati da quando ho iniziato nel 2008 più o meno, era un omaggio al progetto di Sufjan Stevens, che amo molto. Poi è diventato un gioco tutto mio, un confine fatto a tavolino. L’album è dedicato ad Arto Lindsay e nell’arco del disco citi altri artisti e band, ma qual è stato il disco che hai ascoltato di più mentre lavoravi al disco? L’album si chiama Arto per molte ragioni diverse. Tra queste il fatto che era il titolo di lavorazione e non ho trovato un’altra parola che lo rappresentasse meglio. Non posso dire che sia dedicato ad Arto Lindsay, ma lo amo molto, 23


ci che mi consigliano. Quando scrivo e registro in realtà cerco di non ascoltare molto per non essere troppo influenzato ma penso che qualcosa defluisca nei pezzi. Ho ascoltato molti dischi e canzoni ma non uno in particolare,

in particolare il pezzo Simply are. È una delle mie canzoni preferite: cercare di fare cose che “semplicemente sono” poi mi sembra un buon metodo. Detto questo ascolto davvero molte cose, sono piuttosto curioso e ho molti ami24


compresa una cella frigorifera... Quello nel frigo è stata una delle cose più belle che mi siano capitate. Diciamo che il mio modo di fare le cose è questo: guardo quello che ho a disposizione e mi chiedo “che cosa potrei fare di bello e stimolante qui? Che cosa mi piacerebbe fare?”. Quindi parto dalla realtà e cerco di pensare a cose che mi piacciono e che reputo belle. Per i concerti ad personam nel frigo mi aveva invitato Alessandro Formigoni a suonare nella sua galleria Hiro Proshu. La galleria era una vecchia macelleria con un frigo in muratura, con un’acustica bellissima. Ho fatto un sopralluogo e ho pensato: “io sto nel frigo, entra una persona alla volta e faccio un pezzo soltanto a lei, soltanto noi due”. Fare un pezzo a una persona guardandola in faccia, isolati dal resto, penso sia la vera essenza di quello che cerco di fare. Poi c’era anche il lato ironico di fare una performance à la Marina Abramovich, in una galleria, ma senza pubblico. E’ stato davvero molto intenso, mi è piaciuto davvero molto farlo.

anche perché la lavorazione è stata molto lunga. Forse l’unico pezzo in cui ho cercato di catturare il mood di un gruppo filtrandolo nel mio modo e immaginario è stato Woods che è nato in qualche minuto e racconta una storia vera, quasi una cronaca di un concerto a cui non sono riuscito ad arrivare. Per farlo ho ascoltato molto i dischi dei Woods ovviamente, in particolare era appena uscito il bellissimo City Sun Eater in the River of Light. Poi mi avevano regalato l’ultimo disco di Devendra Bahart. Ho ascoltato moltissimo II dei Wolther Goes Stranger, Vacation dei Baseball Gregg, Everyday Robots di Damon Albarn, i dischi dei The Drums, quelli di Arthur Russell, quelli di John Grant i singoli della Sarah Records, Durante un assedio degli Havah. I R.E.M. e Beck li ascolto molto spesso. Così come Conte e Battiato. Forse quello che ho sentito di più in quel periodo è stato Carrie and Lowell di Sufjan Stevens, che penso sia davvero un capolavoro, ma non credo abbia influito sul disco. Hai suonato un po’ ovunque, 25


JOCELYN PULSAR

Provocatorio fin dal titolo, “Contro i giovani” è il nuovo album del cantautore romagnolo che ha all’attivo quindici anni di carriera. E che ha ancora qualche sassolino nelle scarpe da levarsi, qui e là Direi che il titolo, paradossale e ironico, meriti una spiegazione. Perché “Contro i giovani”? “Contro i giovani” è naturalmen-

te una provocazione data dal fatto che tutto ciò che esce sul mercato oggi, dalla musica alla televisione, al cinema, è prevalentemente 26


destinato a un pubblico di giovanissimi; nel suo piccolo, questo disco no: è il disco di un quasi quarantenne che parla principalmente ai suoi coetanei, e che ritiene (ma probabilmente a torto) che i giovani della sua generazione avessero qualche risorsa in più rispetto a quelli di oggi, che sono veramente facili, troppo facili da “fregare”. Ci hai messo due anni per finire questo disco: per un iperproduttivo come te è tutto sommato anomalo. Cosa ti ha “frenato”? È vero, è un tempo atipico per me: la verità è che le prime quattro canzoni sono state registrate in un primo momento, e dovevano uscire in autonomia, senza un’idea precisa: volevo forse creare una mia label, ci avevo anche pensato, ma poi ho lasciato perdere perché non è cosa per me. Così ho semplicemente caricato i pezzi su Youtube, nient’altro; poi, quest’anno ho avuto nuove idee, sono tornato a registrare da Enrico (Berto, del MushRoom Studio) e ho pensato di creare un unico disco da queste due sessioni, così lontane tra di loro. Non è che

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si senta poi tanto, in effetti. C’è chi si spaventa molto di fronte alla definizione “disco della maturità”: tu come la vedi? Ne ho fatti tanti di dischi, quello della maturità temo sia già passato, questo è già il disco dell’inizio del declino: scherzi a parte, la maturità in sé forse non esiste, si va sempre un po’ più avanti, dunque la trovo una definizione discutibile. E poi, i dischi d’esordio di solito sono i migliori, proprio perché immaturi. Ho trovato particolarmente “vera” (e amara) “Bangladesh”: come nasce? “Bangladesh” è una canzone che


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pur parlando, unica nel disco, di musica indipendente in senso stretto, rimane comunque fedele al clima generale: ovvero, il tema è il suonare in giro, con gli anni che passano, quando diventa sempre più difficile, con la famiglia, il lavoro il giorno dopo. È una canzone che piace molto anche a me, un po’ amara, e che riserva alla fine una benevola (ma mica tanto) tirata d’orecchie alla stampa musicale “specializzata”. Domanda da “veterano” del settore: che cosa ti piace di più e che cosa ti piace di meno della scena (scena?) indipendente italiana? Fatico a farti dei nomi: il disco di Calcutta l’ho comprato per esigenze di copione (vedi il nuovo videoclip), non mi dispiace ma nemmeno mi fa impazzire. Altro non saprei: gli Zen Circus si sono un po’ incattiviti, inscuriti, mi convincevano di più prima, per il resto c’è tanta trap, sono cose che non seguo, che non mi interessano. È molto bello il singolo di Riccardo Sinigallia, lui è un fuoriclasse.

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TURCO, “VIA ROMA” Turco, cantautrice e polistrumentista tarantina, pubblica Via Roma. Aperto da una rumorosa Intro, il disco inizia in modo effettivo con Ti vedi, un pop elettronico dotato di buona eleganza e morbidezza. Si prosegue con Ansia che racconta di piccoli disagi continui. Nella testa si presenta in modo più inquieto e fervido, con un lungo ingresso elettronico che piano piano lascia spazio a sonorità dance. Treni, molto giocosa e vivace, è sbilanciata sul lato pop, con stimmate di freschezza. Spunti televisivi applicati alla realtà sono al centro di Ho visto Laura Palmer, canzone dai ritmi marcati e di nuovo molto vicina alla dance. Sharon dice che la vita è un tropismo evanescente è uno strumentale delicato ma vivo. Ogni volta riparte da una struttura acustica che viaggia a ondate 30

RECEN

successive. Eroi vede l’intervento di Molla, per un pezzo che narra piccole storie di grandi persone. Volevo dirti va sul personale ma non sul melenso: il pezzo anzi è robusto e ha un drumming martellante. Si chiude con Buona vita (per te), pezzo dolce e quasi del tutto vocale, che rappresenta un congedo gentile dall’album. Un disco significativo e talvolta sorprendente, costellato di canzoni ben scritte ed eseguite con cura. GRANDI INSEGNE IL GRANDE ALLIBRATORE “AD OGGI MANCANO” Scarso rispetto per la sintesi e qualche problema con le d eufoniche. Ma Grandi insegne il grande allibratore pubblica Ad oggi mancano è un disco di notevole interesse. Si parte da Sottomarino, tra immagini di autoreclusione e di soddisfatto odio per il mondo. Su panorami bdsm si costruisce una cruda e inquietante Rossella. Ad oggi manca-


NSIONI

Si chiude con l’eponima Grandi insegne il grande allibratore, con la quale si torna all’acustico, per un’ultima scheggia di tristezza, condita da particolari reali quasi alla Carver. Fra problemi di lavoro e stiratura. Un disco violento, doloroso, che parla con il tuo fegato e gli tira dei pugni. Ma come non se ne sentono tanti.

no, la title track, apre acustica ma raddoppia subito con l’elettricità e un cantato rabbioso. Parte con un coretto anche Camposanto, che per legge di contrasto ha un percorso rock allegro. Il re dei topi arriva da lontano e poi inserisce accordi acustici su idee folk e indie. Si va piano con Aria buona, ballata che parte dalla gentilezza per alzare la voce. Albero filtra la voce e organizza una sorta di canzoncina ottimista, provvedendo poi a mandare in vacca tutto. Si va sull’onirico con Una casa tutta per noi, tra le più malinconiche del disco, su ritmi rallentati. Neve parte pesante, con risonanze sinistre che si sviluppano in un allargamento vocale che sa di hardcore. Perderti è stato meglio che incontrarti è molto più cantautorale e narrativa, con archi, fiati, incisi, un’atmosfera da festa triste.

NODe, “RCADE” I NODe, acronimo di “Not ordinary, dead”, pubblicano Rcade. Su basi elettroniche pure si innestano elementi spuri provenienti dall’indie, dal punk, dalla new wave. We are, we are cala l’ascoltatore fin dall’immediato in una selva di suoni elettronici scintillanti. Danny rules again propone atmosfere pop con molti synth. Si passa a elementi giocosi con S.O.D.A., per uno sviluppo funkeggiante, tra videogame e cocktail. Voci 31


robotiche presiedono We can’t save the world, today, a cerchi concentrici. Le citazioni anni Ottanta sono letterali all’interno di Wrecked Star. Inizio gentile e sviluppi ambigui per Precious treasures. Ritmica continua e oscurità nel cuore di This human kills. Tocca poi a Summer of ‘69, ricca di chitarra ma diretta e semplice. Theme from “We are, we are”, ripropone il brano d’apertura con variazioni. I NODe hanno sviluppato la propria storia arricchendosi il suono, fino a risultati barocchi ma anche molto spassosi. PIQUED JACKS, “THE LIVING PAST” Ne parlano come del “figlio” di un periodo complicato: i Piqued Jacks tornano con The Living Past. Che il disco sia sofferto lo si capisce subito: Loner vs. Lover è “dilaniata” tra una prima parte compatta e una seconda che si scompone con echi, rimanenze di sogni e incubi. P.A.I.N.T. è semistrumentale di raccordo e di resi-

RECEN

piscenza. The Living Past, la title track, rimette a posto le cose con un pezzo di rock diretto. Idee melodiche quelle di Eternal Ride of a Heartful Mind, che assomiglia a una ballata. Sogni di distruzione presiedono a Sublunary, elettrica e gridata. Dusty Shelves lascia molto spazio al drumming. Si parlava di dolore e Being Hurt affronta l’argomento in modo diretto. Né si esce dal discorso con la seguente Mount Bonnell, che vede il pianoforte utilizzato accanto alla chitarra elettrica. Il disco si chiude con Don’t Hope, Believe, che comincia piano e poi sbarella. I Piqued Jacks lavorano bene mettendo a segno una serie di pezzi che colpiscono e, a volte, segnano. VALENTE, “IL BLU DI IERI” Valente pubblicaIl Blu di ieri. Le coordinate del nuovo lavoro di Valente sono il ritorno a un beat sostenuto e a certe atmosfere elet-

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NSIONI

tropop e new wave. Sogni di te apre, con passi e modi rapidi, il disco. La rapidità non si smarrisce con Giardino. “Ci piace veloce, elettrico” dichiara Volume altissimo, che ricorre a metafore musicali per esprimere stati d’animo piuttosto agitati. Si rallenta con Un mondo nuovo, in cui il basso disegna movimenti nervosi. Stai opta per idee più intime e si dimostra guizzante. Si torna a correre e a ballare con Il Blu di Ieri, title track che spinge l’ascoltatore in avanti. Più tetra Arrendersi, ammantata di dark wave. Notti senza sogni parla di fiori neri e pietre umide. L’album si chiude con una cover di All Cats Are Grey dei Cure. I suoni della new wave sono esplorati in tutte le direzioni e danno vita a un album ispirato e vibrante.

SINFONICO HONOLULU, “THOUSAND SOULS OF REVOLUTION” Steve Sperguenzie e i suoi Sinfonico Honolulu colpiscono ancora: l’orchestra composta soltanto da otto ukulele, basso, percussioni e vocalist pubblica Thousand Souls of Revolution, una raccolta di cover provenienti soprattutto dal post punk e dalla new wave. Se la copertina omaggia i Clash di London Calling, nel disco trovano spazio pezzi come Personal Jesus dei Depeche Mode, Killing Moon di Echo & The Bunnymen, Love Will Tear Us Apart dei Joy Division, fino ai PIL, agli Stranglers, ai Cure, per finire con un remake di Lonely Boy di Black Keys. Tutto con il solo aiuto delle corde corte degli ukelele, per risultati spesso sorprendenti. 33


MEDISON

Nati in Puglia una decina d’anni fa, hanno vissuto molte evoluzioni nella propria carriera. L’ultima svolta è il nuovo singolo, intitolato “Il tempo della sera suona in quattro” con la voglia di raccontare delle storie. Per esempio c’è stato un periodo in cui abbiamo frequentato un centro di accoglienza della nostra città, dove abbiamo stretto

Siete una band ma anche una compagnia teatrale: potete spiegare questa interazione originale alla base del vostro gruppo? Siamo principalmente una band 34


amicizia con alcuni ragazzi provenienti dal Pakistan e dal Gambia con il desiderio di raccontare del loro viaggio fino all’Italia. Ascoltando le loro storie ci è venuta l’idea di raccontarle sul palco insieme a loro durante un concerto, e da lì è nato uno spettacolo che abbiamo chiamato “INdiVISIBILI”. Si tratta in pratica di un concerto in cui le canzoni vengono intervallate dai racconti di questi ragazzi, anche nella loro lingua madre, e dagli interventi emozionanti di un’attrice e di una ballerina che spiegano le sensazioni di chi sta dall’altra parte del mare, ad accogliere oppure soltanto a guardare. Come nasce “Il tempo della sera suona in quattro”? Di sera, all’aperto, con in braccio la chitarra, viene spontaneo

suonare un giro di accordi su un tempo calmo, malinconico e capita mentre si suona di formulare pensieri e considerazioni al termine della giornata. Ci sono sere in cui ci sfiora il pensiero di chiudere una storia per darci la possibilità di andare avanti lasciandoci dietro il passato. Sicuramente le storie, non solo quelle d’amore, finiscono per la mancanza di dialogo: “tu leggevi senza mai capire e io leggevo senza leggere - certe cose le capisci al volo e certi voli non si come comprenderli” sono le frasi che frullano in testa in quel momento in cui si deve prendere una decisione drastica e quel pensiero diventa un atto di volontà come quello di chiudersi una porta alle spalle. I pensieri e gli accordi si sono mescolati ed è nata Il tempo della sera suona in quattro. Indicate l’incontro con Davide Pannozzo come decisivo per la vostra carriera: in che cosa ha contribuito? La collaborazione con Davide è stata preziosa da ogni punto di vista. L’incontro con una persona di spessore culturale e morale è 35


senza dubbio arricchente, ma qui si parla di soprattutto musica. La sua esperienza, il gusto e ovviamente la sua bravura, hanno dato ai nostri pezzi un’identità che una

band all’inizio della sua carriera non trova se non attraverso l’orecchio di un professionista che sa guardare alle potenzialità inespresse dei musicisti mettendole

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in luce. La scelta dei suoni e degli arrangiamenti costituiscono parte fondamentale dello stile di una band alla cui formazione Davide ha contribuito in modo decisivo. Di che cosa è l’anticipazione il nuovo singolo? Quali sono i vostri progetti futuri? Il nuovo singolo, assieme al precedente Anche se scorro come il Tevere, anticipa l’uscita del nostro disco. Dunque il primo obiettivo è senz’altro quello di portare a termine questo lavoro. L’album conterrà all’incirca una decina di canzoni. Abbiamo inoltre intenzione di portare la nostra musica in tutta Italia e per questo organizzeremo un piccolo tour per il prossimo anno che ci permetterà di ampliare il nostro pubblico, o almeno così ci auguriamo! Avete una consistente attività live alle spalle. Che cosa si può aspettare chi viene a vedervi dal vivo? Riusciamo a fare una decina di concerti l’anno con a volte un pubblico di 500 persone quando siamo in teatro. Chi viene ai nostri

concerti ascolta musica inedita e poche cover con cui omaggiamo gli artisti che hanno contribuito alla nostra formazione musicale e alle scelte che facciamo rispetto ai messaggi che vogliamo trasmettere attraverso i testi. Tutto è suonato rigorosamente dal vivo, da musicisti che studiano e lavorano ogni giorno sul loro strumento. Non siamo una band da tormentone estivo o da talent e chi ci segue lo fa per la ricchezza dei nostri messaggi e delle storie che raccontiamo durante i concerti e che lasciano un segno, invitando a guardare alla vita con positività e speranza.

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MASSTANG

A distanza di quattro mesi dal lancio di “Perle Nere” è uscito “Il giorno”, un nuovo singolo inedito. Quattro chiacchiere con un quartetto molto attento al concetto di “evoluzione”, anche in campo sonoro Come nasce il progetto Masstang? Il progetto Masstang nasce quattro anni fa, come “evoluzione” del progetto Swordfish. Abbandonate

le sonorità più ruvide che appartenevano alla scena crossover di fine anni ’90, abbiamo cercato di sviluppare di più la parte elettronica. Poi con l’ingresso di Mari nella 38


band si è aperto tutto il mondo delle melodie vocali che prima non utilizzavamo e quindi molte alternative in più. Inoltre la ricerca di un genere musicale che in Italia non c’è o perlomeno non c’era, ci ha portati a dove siamo ora. Mi sembra di capire che il concetto di “evoluzione” sia molto importante per voi: potete chiarire il discorso? Per noi evoluzione significa essere sempre alla ricerca di una novità, della sperimentazione continua. Un progetto musicale non può rimanere “fisso” su un modo di suonare o di cantare, ma, a nostro avviso, deve sempre mutare e sorprendere, anche se questo comporta uscire dai confini di genere. Si sentono in giro e soprattutto in radio troppe cose

uguali… Cantano tutti allo stesso modo, ripetono tutti gli stessi concetti, si vestono tutti uguali… Non crediamo che in Italia esistano soltanto questi personaggi e non crediamo che si debba per forza fare indie o trap. Evoluzione è anche superare concetti e avere coraggio di proporre voci fuori dal coro. Coniugate influenze palesemente anglosassoni con testi in italiano: qual è il processo di costruzione alla base dei vostri brani? Lavorare sulle strumentali è una parte fondamentale della nostra musica, e lo sarà sempre di più,

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infatti il più delle volte la costruzione dei nostri brani nasce da un suono o da un beat che poi spira lo sviluppo della strumentale e poi del testo. Diciamo la verità con il genere di musica che facciamo cantare in inglese è molto più facile e funziona anche di più e infatti abbiamo anche dei brani totalmente in inglese, ma la nostra idea è quella di far passare alcuni concetti e visto che viviamo e suoniamo in Italia abbiamo sempre dato la precedenza alla nostra lingua. Come nasce “Il giorno”? Il Giorno è un brano che è nato velocemente e di getto, e come tutte le cose fatte di getto è uscita particolarmente bene! Ci piace la notte, ci piace divertirci… a volte anche oltre i “limiti” e quindi non è stato difficile riportare quelle sensazioni da “gior-

no dopo” in un testo. Anche la strumentale è stata di veloce costruzione… volevamo un brano downtempo incalzante che facesse muovere e così è stato.


Potete citare tre brani fondamentali per la vostra storia? Domandina difficile… son tanti gli artisti che ci ispirano… Sicuramente i Prodigy e i Pendulum, Depeche mode, Rudimental, Chase n Status, Mo, Chemical Brothers, Subsonica e tanti altri… Tre brani… Smack my bitch up > The Prodigy Waiting all night > Rudimental Get it right > Diplo


GIUSEPPE VORRO

In attesa di un prossimo ep e anche di un futuro lp, il cantautore pubblica “I’m here”, singolo e riproposizione della sua “Sono qui”, però cantata in inglese e da una voce femminile. Per vedere l’effetto che fa

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persona. Un modo per uscire fuori da me stesso e sentire una mia canzone in terza persona per vedere l’effetto che fa. Inoltre, questo è il primo passo per un prossimo ep di diversi miei brani remixati e cantati in inglese da un cantante, a mio avviso, molto bravo non italiano. Vorrei provare ad affacciarmi all’estero. Visto che ora hai sentito un tuo brano cantato da altri, puoi raccontarci che effetto fa? L’effetto è piacevole anche perché sembra un buon lavoro. E’ come estraniarsi da sé e ascoltare la canzone con un altro filtro riuscendo ad analizzare meglio la parte melodica, di cui io non sono mai soddisfatto. Puoi raccontarci del video? Il video di “I’m Here” è nato con l’idea del contrasto buio/luce. Una lotta tra inferi e paradiso durante la ricerca di se stessi in un periodo di profonda crisi personale. Simone Tarca ha colto l’idea e l’ha implementata con maestria. In passato hai collaborato con Lele Battista: che cosa ti ha lasciato? Pensi di lavorare ancora

“I’m here” è la versione in inglese della tua “Sono qui” del 2014: perché hai deciso di riproporla ora e perché in questa nuova versione? E’ da molto tempo che volevo adattare un mio brano in lingua inglese e farlo cantare a un’altra 43


con lui? Lele Battista mi ha fatto capire l’importanza del produttore artistico, che ha altre orecchie rispetto all’artista e senza pressioni consiglia e propone idee nella realizzazione di un brano. Ovviamente ci deve essere un’intesa artistica e una reciproca stima. Sicuramente ci ritroveremo di nuovo da qui non molto tempo in là nel suo studio a Milano. Nel 2019 è previsto il tuo prossimo lavoro contenente canzoni inedite: che cosa ci puoi anticipare in merito? Spero che nella seconda parte del

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che ti hanno influenzato? Battisti per la maestria delle linee melodiche e degli arrangiamenti. Prince per la sua potenza ritmica e il suo groove sensuale. I Beatles per gli impasti vocali formidabili oltre alla forza del loro songwriting.

2019 si riesca a produrre un nuovo disco con nuove canzoni. E sicuramente Lele sarĂ della partita. Vorrei far saltar fuori canzoni azzardate e adagiate. Difficile e facili. Veloci e lente. Vorrei non usare tempi medi. Puoi dirmi i nomi di tre artisti 45


TOMMASO TALARICO Il cantautore di origine calabrese, nato a Catanzaro nel 1974, comincia a esibirsi nei locali della scena fiorentina fin dal 2006. A fine novembre 2016 esce il video de “Il tempo delle favole”,( con la regia di Claudia Sicuranza e Vittoria Spaccapietra), pezzo che fa parte dell’album (il primo), intitolato “Viandanti (canzoni da un tempo distante)” 46


ritrovato con un po’ di materiale, la scelta è caduta su quei pezzi che mi pareva fossero legati da un filo conduttore, ossia delle storie, che racchiudono anche il mio punto di vista sul mondo e sulla realtà circostante. I personaggi delle canzoni sono tutti “viandanti”, attraversano il tempo e lo spazio senza avere più molti punti di riferimento. Mi interessava raccontare lo sfilacciamento dei rapporti interpersonali, dei sentimenti e delle idee, cui assistiamo oggi. E la solitudine, anche. Mi interessa anche il sottotitolo “Canzoni da un tempo distante”: che influenza ha avuto il tempo, in tutte le sue accezioni, sui pezzi di questo disco? Alcune di queste canzoni sono state scritte tempo fa. Credo che le canzoni siano un po’ come le persone. Cambiano, soprattutto nella testa di chi le ha scritte, maturano, invecchiano. Però non si poteva aspettare oltre, questo era il momento giusto per regalare loro una seconda vita. Detto ciò, credo che piantino bene i piedi nella contemporaneità. Se sono arrivate

Che cosa ti ha spinto a raccontare dei “Viandanti”? Credo che chiunque scriva canzoni, su qualunque cosa, parta dell’esigenza di dire qualcosa, di raccontare. Non c’è un progetto organico, almeno nelle intenzioni, dietro al disco. Quando mi sono 47


fin qui, vuol dire che il tempo non le ha scalfite. Le ha soltanto rese più consapevoli. Perché hai scelto Il tempo delle favole come singolo e video? Il tempo delle favole è una canzone particolare, costruita su un giro di accordi che si ripete sempre uguale, pur variando la linea melodica, e con una miriade di protagonisti. Semplicemente, non so perché, ho pensato che sarebbe stato divertente fare un video di questo pezzo, e ho immaginato che si potesse girare in un luogo semiabbandonato oppure in un sottopassaggio, uno di quei luoghi di transito pieni di murales. Credo di averla sempre ritenuta una canzone molto “cinematografica”. L’ho scelta perché mi andava di fare questa cosa, ecco tutto. Il disco è a nome tuo ma da come lo racconti nelle note introduttive sembra evidente che sia frutto anche di un lavoro di squadra: puoi spendere qualche parola su quello che ti hanno regalato e hanno regalato al disco i tuoi collaboratori? Il disco è a nome mio perché le 48

canzoni le ho scritte io. Io ho scritto il testo e io la musica, per cui mi pare ovvio. Per il resto credo che sia abbastanza raro che un album di musica leggera sia frutto del lavoro di una sola persona. La produzione artistica è stata fatta da me e Gianfilippo Boni, con un confronto continuo sugli arrangiamenti da scegliere, le soluzioni da adottare, cosa chiedere ai musicisti che avrebbero suonato di volta in volta in ogni pezzo. Poi il sax,e come viene suonato, dà un certo “colore” a una canzone, la chitarra bossa nova un altro, mi pare evidente che questo produca un effetto decisivo su “come suona” un disco. Anche il missaggio, il mastering,


sono passaggi importanti. Credo che una buona canzone funzioni bene anche solo con chitarra e voce, ma l’ apporto di grandi musicisti ti permette di realizzare quello che hai in testa. Per me è stato fondamentale collaborare con artisti di questo calibro. Ho imparato molto, tecnicamente e umanamente.

Mi piacerebbe sapere come nasce “Storia di Lillo” Molti anni fa prestai servizio civile in una comunità per tossicodipendenti. Durante quell’anno conobbi molte persone, alcuni mi raccontarono le loro storie, le loro paure e fragilità. Storia di Lillo nasce da quel contesto, molto tempo dopo. 49


FRANCESS

“Follow me”è il nuovo singolo e video della cantante italo-giamaicana, che ha messo radici a Genova e che si fa apprezzare per la versatilità, come si può apprezzare nell’ultimo disco “Submerge” 50


come hai affrontato il lavoro sul nuovo disco, con quali criteri e con quale maturità? Il nuovo disco è nato in modo abbastanza naturale. Tutto il lavoro fatto negli ultimi anni mi arricchita e guidata nella direzione scelta per creare questi nuovi brani. Ho acquisito consapevolezza e mi riconosco sempre di più nel mondo sonoro che abbiamo creato. Come nasce “Follow me”, che hai scelto come nuovo singolo e video? L’anno scorso ho lavorato a un album chiamato A Bit of Italiano in cui ho rivisitato e tradotto canzoni della tradizione musicale italiana in inglese. Questa unione culturale mi ha spinto a scrivere una nuova canzone che mischiasse le mie due lingue e quindi i due mondi che coesistono dentro di me. Follow me è un invito a seguirmi in questo incontro. Le tue radici sono in due continenti, ma sei legata a Genova in modo particolare. Che cosa ti senti di dire a questa città in questo momento particolare e che cosa ha regalato a te e alla

Stai seguendo il ritmo di un disco ogni due anni, ma il tuo ultimo disco di inediti era del 2014: 51


tua carriera? A Genova ormai ho affondato una radice. La prima volta che ho cantato la mia versione di Ma se ghe pensu di fronte al pubblico genovese avevo paura. Mettere mano a una canzone così sentita è sempre un rischio. Quando ho cantato l’ultima nota e aperto gli occhi per osservare la reazione del pubblico però, ho visto sorrisi ma soprattutto qualche lacrima. In quel momento ho capito che era successo qualcosa di speciale. Insieme all’orchestra del teatro Carlo Felice ho avuto l’onore di viverla e cantarla assieme al pubblico genovese che mi ha regalato forse le emozioni più forti che abbia mai vissuto su un palco fino a ora. Per quello che è successo non ho molte parole. Io sono solo una cantante e quello che posso fare è continuare a cantare questo inno con orgoglio ma soprattutto con tutto il cuore. Che cosa ti ha portato a scegliere “The Man I Love” per la cover che chiude il disco? Il jazz è sicuramente uno dei generi musicali che ha influito di


piú sul mio modo di sentire e poi di fare musica. Dopo aver reso omaggio alla canzone italiana ho voluto questa volta attingere dal mio bagaglio culturale americano. Quali saranno le prossime tappe della tua carriera? Che cosa vedi nel tuo prossimo futuro? Per me fare musica è una ricerca costante. Sono pronta a continuare a sperimentare facendomi guidare da istinto e passione. Dove finirò non lo so ma intanto mi godo il viaggio.


RICCARDO SINIGALLIA “BELLAMORE” #quellochesentivo Bellamore è il singolo che avvia la carriera di Riccardo Sinigallia, uscito nel 2003 ad anticipare l’album Riccardo Sinigallia, qualche tempo dopo l’interruzione della collaborazione con i Tiromancino

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cura, la medicina contro il tempo che è trascorso.

Amore bello, Bellamore... Sai bene che il dolore a volte serve, che può portare in luoghi dove anche la pace sembra di nuovo possibile.

E non pensare tutto contro te, Tutto contro te Amore che torni allontanando la pazzia

E ridi amara Su un’altra ferita

Bellamore che vai via

Che ti ha guarito

Bellamore... infinito come il mare, sincero come la gratitudine, profondo come l’estasi della gioia.

Bellamore... so che sai anche che il passato va lasciato alle spalle, che le occasioni perse possono regalare incredibili opportunità inaspettate lungo la strada, dietro l’angolo che ancora dobbiamo girare insieme.

Come un’onda che non ha confini Provare felicità Chiara Orsetti

Per ogni occasione Persa E camminare insieme a te, Insieme a te Bellamore... sai che cambierà, che camminare insieme sarà la nostra 55



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