TRAKS MAGAZINE #20

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Numero 20 - Gennaio 2019

MIZA MAYI ho smesso di nascondere le emozioni LUCA BURGIO NERO KANE

THE PRICE SQUE


sommario 4 Miza Mayi 8 ThePrice 12 Sque 16 Luca Burgio 18 Lo-Fi Poetry 20 Nero Kane 24 Roberto My 28 A Red Idea 32 I miei migliori complimenti 36 Medicamentosa 40 Nevica 44 Ground Control 48 Andrillo 52 Quellochesentivo

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MIZA MAYI ho smesso di nascondere le mie emozioni

Un esordio ricco di anima: dopo esperienze in band ecco il primo disco “Stages of a Growing Flower”, tra influenze nu soul, electro pop, electric jazz, lounge, funky Stages of a Growing Flower è il tuo esordio: perché hai deciso ora di tentare questa avventura solista? Come hai capito di essere pronta? Ero molto gelosa delle mie composizioni soprattutto dopo aver avuto delle esperienze negative in questo ambito. Ho capito di essere

pronta per l’avventura da solista dopo l’uscita della compilation Pinkpolkadots vol. 1. Si tratta di un progetto nato insieme a Jessica Cochis ed Eros Cristiani, lavorare con loro è davvero stimolante, sono dei grandi professionisti, mettono il cuore in tutto ciò che fanno. Si è creata una bella siner-


gia, loro mi hanno compresa in quanto artista e io mi sono affidata a loro, niente di più semplice. Presenti il disco come un concept album autobiografico: è stato complicato “aprirti” nelle canzoni che scrivi e canti? C’è molto della mia vita in questo disco, è tutto reale, ogni immagine è stata vista, ogni sensazione è stata sentita da me in prima persona. Ho semplicemente smesso di nascondere le mie emozioni, non è stato facile ma è un percorso che prima o poi un artista deve fare, quando pubblichi qualcosa la tua esperienza diventa a portata di tutti, è un concetto che inizialmente può spaventare. Europa, Africa e (almeno a livello di ispirazione) America: quanto pesano nella tua cultura e nella tua musica i continenti? Non mi sono mai posta limiti geografici, mi definisco afro-eclettica, mi piace selezionare tutto ciò che mi ispira a livello ritmico e sonoro. Sono cresciuta ascoltando Paolo Conte, Dave Brubeck, Lokua Kanza perciò ho un infinito mondo di suoni dal quale attingere. Ri-


cordiamoci che la race music, oggi nota come black music, contiene una varietà di generi incredibile, parliamo di spiritual, gospel, blues, jazz, swing, R&B, rock&roll, fino ad arrivare al soul, funk, hip hop, tutta questa musica si è ge-

nerata e si è evoluta solamente grazie al bagaglio culturale che gli schiavi africani hanno portato con sé. L’Africa è una madre musicale generosa, molto generosa. Inoltre avvalendomi delle conoscenze musicali di Eros e 6


cede appunto al brano una connotazione mistica e morbida. Le ritmiche sono state studiate intorno alla musica e Roberto Gualdi (PFM-Vecchioni ) con la batteria ha creato un ottimo flow, che si sposa perfettamente con le nostre intenzioni. Testualmente qui ho voluto raccontare di un amore bellissimo, che profuma di olio di cocco e vaniglia, un’intensità carnale e spirituale, qualcosa di cui non possiamo fare a meno. E’ un amore che ci fa perdere la testa, una passione terrena che mette in connessione il nostro io profondo con tutto ciò che ci circonda. E’ un tipo di amore che ognuno di noi vorrebbe di vivere.

Jessica Cochis che sono co-autori arrangiatori e produttori del cd, abbiamo esplorato alcune nuove tendenze di questo millennio. Difficile “evadere” da una domanda che ti chieda un giudizio sulla gestione del fenomeno migrazione in questi anni... Siamo figli di questa Terra, siamo tutti fratelli, fosse per me non esisterebbero né nazioni, né religioni proprio come cantava John Lennon. Il problema è che chi è al potere ha la capacità di annebbiarci la mente, ha la capacità di dividerci, creare un nemico da combattere, divide et impera: la storia insegna. Per me i nemici non esistono, esiste solo l’intelligenza e la stupidità. Vorrei sapere qualcosa sulla genesi di Kundalini Love Kundalini Love è un brano scritto e composto insieme ad Eros Cristiani, la musica è sensuale e mistica. Il piano di Eros è conduttore, dopodichè ci servivano dei suoni un po’ magici. Quindi abbiamo fatto suonare il dobro e le chitarre acustiche a Nicola Oliva (Pausini, Vanoni), e il dobro con7


THE PRICE

Il nuovo progetto del chitarrista Marco Barusso si dipana tra le esperienze del passato, film noir e collaboratori eccellenti Vuoi raccontare come sei approdato al tuo nuovo progetto, The Price? Nel corso degli anni, oltre a occuparmi di musica come “addetto ai lavori�, ho anche fatto parte

di due band, prima degli Heavy Metal Kids e successivamente dei Cayne, con i quali ho scoperto di essere in grado di scrivere anche brani miei. Quando si è interrotta la mia collaborazione con i 8


Cayne, per un certo periodo non ho più voluto saperne di fondare un’altra band. Però il lupo perde il pelo ma non il vizio, quindi piano piano nella mia mente ha preso forma l’idea di raccogliere i brani che avevo scritto negli ultimi dieci anni, fino ad allora rimasti in un cassetto, e di registrare un album coinvolgendo un po’ di amici con cui da sempre avrei voluto collaborare. In seguito questo progetto si è anche sviluppato in una vera e propria band, con cui ho già fatto diversi concerti. Oltre che chitarrista e autore, sei ingegnere del suono, produttore e arrangiatore: che idee sonore volevi portare nell’album? L’album, essendo costituito da brani scritti in diversi periodi della mia vita e in collaborazione con cantanti diversi, ha per sua natura molte influenze stilistiche e attinge di volta in volta dal metal, dal grunge degli anni ’90, dal nu-metal, dalla new wave anni ’80 e dal rock alternativo moderno. Per me è stato importante fissare quelli che io chiamo “paletti” per delineare la strada del progetto; è

un procedimento che adotto ogni volta che affronto una produzione e che mi permette di stabilire le caratteristiche stilistiche dentro cui muovermi, per dare al lavoro un suono coerente, mantenendo però una certa eterogeneità. I brani dovevano essere riproducibili dal vivo, potenti ma non troppo pesanti, e con un forte impatto melodico; volevo che fossero divertenti da suonare ma non cervellotici o troppo intricati. Non amo l’autoreferenzialità di chi “si suona addosso”. Infatti, malgrado io sia un chitarrista, molti dei miei pezzi non hanno nemmeno un solo di chitarra e non se ne sente la mancanza. Come nasce la collaborazione con Enrico Ruggeri? La collaborazione con Ruggeri è nata prima di The Price, quando ho avuto il piacere di produrre alcuni suoi brani, tra cui Il primo amore non si scorda mai, che gli è valso il 4° posto in classifica al Festival di Sanremo 2016. Proprio mentre stavamo lavorando al pezzo, chiacchierando, Enrico mi ha svelato che è da sempre un fan del 9


spingersi in acuti lancinanti. Gli ho fatto ascoltare Jonas Renske dei Katatonia, Peter Steele dei Type O Negative, gli HIM, i 69 Eyes, gli Amorphis, i Paradise lost, etc… Mentre stavo preparando il mio album ho contattato Giordano Adornato, il cantante dei Cayne, che avrebbe dovuto interpretare il brano On the Edge of Madness, scritto insieme alcuni anni prima. Giordano mi disse che non era più disposto a cantarla e che avrebbe voluto farne una sua versione con l’attuale formazione dei Cayne, (la canzone che nel loro disco è diventata A new day in the sun). Dato che lui non voleva prestare la sua voce a due versioni diverse dello stesso brano, ho pensato a chi altro avrebbe potuto interpretare efficacemente la canzone. In quel momento mi sono ricordato della chiacchierata con Ruggeri e ho deciso di proporlo a lui. Enri-

rock più pesante. Mi ha parlato del suo amore per Alice Cooper e del fatto che negli anni ’80, malgrado facesse dei concerti quasi metal, tutti gli dicevano che la sua voce bassa e profonda non era adatta per quel genere, che secondo l’immaginario comune richiede un cantato su registri molto alti, tipicamente femminili (come Robert Plant e i Motley Cure per intenderci). A quel punto ho deciso di fargli ascoltare un po’ di brani di band che, mantenendo una musica comunque oscura e pesante, avevano dei cantati molto efficaci ed espressivi, ma perfettamente in registro maschile e senza 10


co ha immediatamente accettato e dopo averla cantata si è anche detto disponibile a partecipare al video. Devo dire che mi ha fatto un bel regalo! All’album è legata anche una serie di cortometraggi a tema noir: ce ne vuoi parlare? Volevo dare al progetto anche una connotazione visiva che si distaccasse dai soliti cliché delle band rock, fatte di tatuaggi, smorfie di sofferenza, capelli al vento e mossette da atteggiati eccetera, e che conferisse un’omogeneità stilistica al lavoro. A tale scopo ho contattato diversi registi e tra le varie proposte sono stato colpito dalla creatività di Francesco Collinelli, Vincenzo Ricchiuto e Davide Debenedetti (Framers). Con loro abbiamo pensato di ingaggiare due attori principali ai quali affiancare come comparse, di volta in volta, chi aveva preso parte alle registrazioni dei brani. L’idea era quella di creare dei video interconnessi tra loro ma che potessero avere anche una vita a sé, come dei piccoli telefilm, dentro ai quali raccontare delle storie noir incentrate sui

rapporti patologici tra le persone e sulle vicende umane “estreme” che possono portarci sul bordo della follia. Non nascondo che l’idea di arrivare a un film vero e proprio ci sta “solleticando” molto, anche se è un progetto davvero impegnativo, sia a livello di lavoro che a livello economico. Come nasce l’idea di inserire una cover di Strange World di Ke? Quel brano mi è sempre piaciuto molto; ha una tristezza intrinseca notevole ed è spiccatamente introspettivo, ma ha anche una proiezione positiva verso il futuro. Volevo da tempo darne una mia personale lettura, diversa dall’originale ma anche diversa dalla versione fatta qualche anno fa dagli HIM, che a mio avviso non gli ha realmente reso giustizia. Secondo me è un buon brano per chiudere l’album. È un po’ come dire: “Vabbè, al mondo ci sono tanti pazzi e tante ingiustizie, ma cerchiamo di tenere i piedi per terra, di credere in noi stessi e andare avanti cercando di dare il meglio”. 11


Sque (A.K.A. Luca Squeglia) pubblica Something’s Happening, un ep da cinque canzoni che riunisce le varie attitudini del cantautore, romano ma trevigiano d’adozione,

con varie esperienze e vicende interessanti alle spalle. Vuoi raccontare la tua storia fin qui? Nasco nel 1991 a Roma. Fin 14


SQUE Luca Squeglia è un cantautore romano, ma trevigiano d’adozione, che ha concentrato le sue esperienze nel nuovo ep “Something’s Happening”

dall’età di 9 anni comincio a prendere lezioni di canto e chitarra. A 16 anni, una volta trasferito a Treviso, sono entrato a far parte dei “Rent Mind”, progressive

rock band. Una volta compiuti i 20 anni ho fondato assieme ai miei amici la prima band che mi ha portato a fare esperienze di grandi palchi, i Groov A Nation 15


reggae band. Dopo che la band si è sciolta ho ripreso in mano un vecchio progetto, dedito a riarrangiare le canzoni che più mi hanno ispirato in chiave acustica. Con questo progetto ho cominciato a suonare per strada in molte piazze d’Italia: Bologna, Milano, Torino, la mia città adottiva Treviso... Con l’inizio dell’attività da busker è nato anche il primo ep Something’s happening, primo passo di un cammino. Sei partito dalla strada, nel vero senso della parola. Che cosa ti ha lasciato questa esperienza? Questa esperienza (il suonare per strada) è quella che ogni volta che si ripete è diversa, magnifica, e che ogni volta mi fa capire che sto camminando dalla parte giusta. Amo vedere la gente felice, che ascolta ciò che ho da dire e se addirittura riesco a mandargli un messaggio sono ancora più felice. Questo mi lascia la strada; alle volte è addirittura più bello che suonare su palchi enormi. Puoi spiegare la scelta di cantare sia in inglese sia in italiano? Tutto nasce dal fatto che sono

cresciuto ascoltando artisti come Stevie Wonder, Aretha Francklin, Etta James, The Police, Jimi Hendrix, Cream, Otis Redding... Naturalmente amo anche artisti italiani quali Ivano Fossati, Fabrizio De André, Paolo Conte, Celentano, Dalla... Ma per la maggiore son cresciuto con artisti stranieri. Ogni giorno mi sento ripetere: “Perché non canti in italiano?” E io rispondo sempre: “Bella domanda”. Come nasce la title track, Something’s Happening? Something’s happening perché qualcosa è effettivamente successo. Questa collaborazione con Alter. (A.K.A. 16


E invece raccontaci come nasce l’idea di fare la cover di Attenti al lupo. Attenti al lupo? Amo Dalla, l’ho sempre amato. L’aver poi scoperto che ha studiato nella stessa scuola dove ho studiato io qua a Treviso, mi ha dato la marcia in più per rendergli omaggio con un mio riarrangiamento di quella che è forse la sua canzone più conosciuta.

Giovanni Pezzato), amico e super produttore, mi ha aiutato a migliorare l’espressione musicale e testuale della mia musica (è stato per me un po’ come Quincy Jones per Michael Jackson). Se vi capitasse di scovare qualche mio lavoro precedente, noterete un abisso rispetto a quest’ultimo (che è il primo lavoro del quale vado veramente fiero).

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LUCA BURGIO “Versi da bancone” è il nuovo ep del cantautore “giramondo”, come sempre accompagnato dalla fedele Maison Pigalle viamo in affitto e cambiamo casa, città e lavoro sul ritmo frenetico del tempo. Per questo ho deciso di fare un breve omaggio alla mia generazione, anch’essa di passaggio. Anche la scelta del live in studio, in cui ampio spazio è lasciato all’improvvisazione, sta a sottolineare la frugalità di un momento irripetibile che passa… in attesa

I generi musicali cui fai riferimento stanno stretti in un ep... Versi da Bancone si propone come un lavoro di passaggio, un veloce momento che unisce la fine di un periodo e l’inizio di un altro. Il bancone si consuma in fretta, è frugale e il formato breve è il formato dei nostri tempi! La mia gente è sempre in movimento, vi16


del prossimo album. A giudicare da qualche canzone si direbbe che il rapporto con il genere femminile non sia sempre idilliaco... Au contraire, per fortuna posso ritenermi soddisfatto sotto quell’aspetto, ho sempre avuto esperienze piacevoli, interessanti e divertenti che nella loro “frugalità” o longevità mi hanno sempre comunque arricchito e reso una persona migliore. Proprio per questo ne Il terzo incomodo mi sono preso la libertà di fare ironia su quei momenti da single che tutti conosciamo ma che passano in fretta… qualche volta. Perché dedicare “La confessione” alla monaca di Monza? Marianna de Leyva era una donna dotata di una mirabile forza, e la sua sincerità trova risposta oggi più che mai nella direzione che stiamo prendendo. E’ come se stessimo sull’asse dove il tempo si piega, la fine di un ciclo e l’inizio di un altro, finiscono le religioni, i matrimoni, le razze e nascono convivenze fra coppie miste per lo più atee o non praticanti che

danno alla luce figli di razza mista perdendo qualunque traccia di distinzione. Ma noi siamo ancora un passo prima di tutto ciò, il momento di passaggio, quelli che tutto questo lo stanno iniziando, mentre le religioni perdono tutto quello che era sacro in favore di un più veritiero istinto, come racconta appunto La Confessione, e l’intolleranza etnica ha raggiunto i suoi livelli più estremi vedi In fondo al mar. Un tuo punto di riferimento? Senza alcun dubbio Sono solo canzonette di Edoardo Bennato. L’ho conosciuto da piccolo, quando non avevo la minima idea che un giorno sarei divenuto un cantautore, lo amavo perché raccontava la storia di Peter Pan. Ma crescendo su quelle note ho cominciato ad apprezzare il vero significato e credo di non aver mai ascoltato un album che raccontasse così bene la vita dei musicisti. I dubbi e le scelte di una vita in continuo contrasto con un’idea del “crescere” basata su schemi che non ti appartengono riesce ancora a strapparmi qualche lacrima. 17


LO-FI POETRY

“La mia band” è il nuovo ep del trio Veneto: molte sensazioni alternative, molta ironia e pensieri molto chiari (?) sull’indie italiano teristi e bassisti (a Vicenza quelli bravi sono metallari o amanti del jazz). Be’, anche cantanti. Il batterista poi l’abbiamo trovato, un cantante no. E forse meglio così. Diciamo che è già un miracolo essere ancora qui e pensare di avere vent’anni. Chiamare l’ep La mia band sembra quasi una dichiarazione d’intenti... Ci piace il suono della parola “band”, anglofono, ironico, un po’ cazzone. Ci ricorda di essere nati negli anni ‘80 e aver visto The

Qual è la vostra storia fin qui? Guarda, ti direi: “Niente, assolutamente niente. Non abbiamo fatto un cazzo per 10 anni”. Però poi magari la pubblichi ‘sta roba, allora meglio inventarsi qualcosa. No dai, a parte l’aver prodotto un primo ep, nemmeno andato tanto male a livello di critica, aver suonato qua e là -mai su palchi importanti- ed essere entrati con una nostra canzone, Omnisessualità, nella compilation del Vicenza Pride 2013, abbiamo passato la maggior parte del tempo a cercare bat18


Blues Brothers una ventina di volte e quasi mai sobri. Quando le idee e i contenuti della tua musica ti rispecchiano, è facile indentificarsi con la band. Abbiamo richiamato la canzone meno rappresentativa del repertorio, ma ci permetteva di realizzare l’idea di video che avevamo in mente: un orsacchiotto arriva a una festa, si spacca, ci prova con l’unica orsa presente; gli va male e uno stronzo un po’ più sobrio di lui gliela soffia. Ovviamente non c’è alcun tentativo pedagogico in tutto questo. Sembra anche un manifesto anti-indie. Ne parliamo? Preferiremmo di no (cit). Sì, sì, ne parliamo: i musicisti indie sono tutti un po’ dei coglioni, noi inclusi. La scena indie degli ultimi anni è fantastica, ha sfornato fior di supergruppi e di musica grandiosa, ha delle peculiarità e dei tratti originali che all’estero non si trovano. Ma molti atteggiamenti e rituali di questi anni sono davvero ridicoli, basta aprire un profilo Instagram per accorgersene. Non siamo certo i primi a fare canzoni autoironiche sul movimento, ci

sono pezzoni come C’è vita oltre il Rockit dei Luminal, Sono così indie degli Stato Sociale, Tropico del cancro di Appino. E vogliamo parlare delle parodie delle Coliche? Le vostre band di riferimento? Intendi da quali gruppi abbiamo copiato? Per il secondo brano il riferimento è ai Giorgieness (avevamo chiesto alla cantante di farci un featuring ma senza successo) e un pochino ai Gomma, per l’approccio iniziale al cantato e all’urlato finale; il terzo brano ci è stato ispirato -diciamo così- dai Luminal (abbiamo chiesto anche a loro di mettere la voce venendo brutalmente ignorati), per la quarta canzone abbiamo preso in prestito qualche idea di arrangiamento da John Frusciante in Before the beginning e dai Funkadelic di Maggot Brain, presenti nella colonna sonora del porno d’autore Love 3D, mentre l’ultima è un plagio dei Bachi da Pietra (Enigma, vi facilitiamo il compito). Per il resto Afterhours, Marlene Kuntz, Nirvana, Frah Quintale (per il prossimo ep), Verdena, Placebo, Rammstein, Debussy... 19


NERO KANE Con l’aiuto di Joe Cardamone, “Love In A Dying World” è un debutto ricco di malinconie, decadentismo e influenze americane In un’intervista di qualche anno fa ci hai spiegato come i temi trattati nelle tue canzoni sono principalmente autobiografici.



Se è vero anche per quest’ultimo disco, ne esce una fotografia non troppo allegra dell’ultimo periodo… Le mie canzoni nascono sempre da momenti o situazioni difficili. Ma non è tanto il periodo che influisce sulla mia scrittura quanto piuttosto la mia visione delle cose.

Sono tendenzialmente un pessimista cronico, decadente e che “ama” perdersi in un certo tipo di malinconia. Ma è anche vero che la realtà del mondo che ci circonda non può che agevolare determinate sensazioni di straniamento o di profonda tristezza/insicurezza. 22


Che cosa ha regalato il lavoro a Los Angeles con Joe Cardamone a questo disco? Oltre all’esperienza umana, unica e importante che ho vissuto, in termini tecnici ha regalato una dimensione precisa e spaziale al disco. Lavorando con i loops, in una maniera vicina a quella usata da Warren Ellis (con il quale Joe ha anche collaborato) abbiamo creato un certo tipo di spazialità desertica, ma anche onirica e malinconica, che ben si accosta al mio tipo di songwriting. Come nasce “I put a spell on you”, posto che sulle prime pensavo fosse una cover di Nina Simone, che tutto sommato sarebbe stata anche molto adatta all’atmosfera del disco? Il brano è nato molto velocemente dopo una telefonata. In questo caso riff e parole sono state scritte assieme subito dopo che ho chiuso la comunicazione con la persona alla quale è dedicata la canzone. Il testo parla di perdita, di fine, e di quel poco che ne rimane. E’ uno dei brani che caratterizza di più il disco e che ancora mi coin-

volge molto quando lo suono. Avete realizzato anche un film sperimentale per accompagnare il disco. Che tipo di esperienza è stata? Il film è stato un’esperienza magnifica e a tratti anche divertente. Magnifica in primis per i luoghi nei quali ci siamo trovati a girare. Posti che ti entrano nell’anima e che ti rimarranno impressi per la vita. In secondo luogo intensa per le modalità con il quale è stato girato. Essendo un film “on the road” tutto si è svolto in maniera molto spontanea e libera, ma allo stesso tempo ricercata e con un occhio sempre attento, da parte della regista Samantha Stella, nel ricercare la cura di certi particolari e nel dare un certo tipo di narrazione. Ti va di fare tre nomi di artisti che ti hanno particolarmente impressionato o colpito di recente? Impressionato credo nessuno. Se devo fare dei nomi ti cito però tre belle scoperte fatte negli ultimi tempi: Medicine Boy, Laura Carbone, Wild Daughter. 23


ROBERTO MY “Flares” è il disco che segna il ritorno sulle scene del cantautore, già attivo negli anni Novanta e all’inizio del nuovo millennio con la sua vecchia band, i Volcano Heart Dieci anni dopo la fine della tua re, perché dopo 5-6 anni di totale band, eccoti a pubblicare l’edigiuno musicale la mia fame era sordio da solista. Che cosa ti ha enorme. La lontananza dalla muspinto a questa ripartenza? sica suonata è iniziata con il mio In realtà Afternoon Pleasures, l’ultrasferimento per motivi di lavoro timo disco dei Volcano Heart, la a Roma, dove vivo. Nel 2012 ero band da me fondata a metà anni anche riuscito a rimettere su una Novanta, nei miei primi anni di band con la quale avevamo iniziavita universitaria a Bologna, è to a scrivere e arrangiare dei nuovi uscito nel 2005. Quindi di anni, brani, ma il tentativo è naufragaprima di questo mio nuovo album to quasi sul nascere. Quando non Flares, ne son passati tredici. Vesi hanno più vent’anni, per stare ramente tanti. Era già da qualche in un gruppo che vuole scrivere e tempo che avevo provato a ripartisuonare la propria musica bisogna 24


po oppure scritte di getto? I brani di Flares sostanzialmente appartengono a due periodi. Uno un po’ più datato, che coincide col 2012, l’anno in cui ho tentato di rimettere su una band. A questo periodo appartengono canzoni quali Last Summer Ruins, My Sign on You (Part 1) e Black Sky, brani in cui credo sia forte l’influenza del grunge e dell’indie rock americano. Ci sono poi brani scritti più a ridosso della registrazione del disco: Motherland, World of Sound, My Sign on You (Part 2) e Congo. Credo che in questi brani si possono cogliere influenze molteplici, che travalicano i due generi di riferimento che citavo prima. Immagino sia cambiato molto nel modo di lavorare rispetto a quando eri con la band. C’è qualcosa che ti ha sorpreso, anche a livello di sensazioni, nel rimettere le tue canzoni su disco? Effettivamente sì. Prima con i Volcano Heart, gran parte del lavoro di scrittura veniva fatto in sala prove, insieme alla band. Flares invece è un disco che è nato in solitudine con un lungo lavo-

essere davvero motivati, perché c’è il lavoro, magari per qualcuno i figli, e quindi ci siamo sciolti prima ancora di scegliere il nome della band. Ma ormai io avevo riassaporato il piacere di tornare a fare musica e non volevo più smettere. Ho continuato quindi con l’aiuto di un pedale che produce loop per chitarra (il mio “amico immaginario”), perché per me è fondamentale tessere trame polifoniche, e in questa veste ho fatto pure qualche concerto in dei piccoli club a Roma, tipo il Klamm o il B-Folk, posti ai cui gestori non smetterò mai di essere grato per l’ospitalità che danno ai musicisti indipendenti. Nel 2017 ho deciso che i tempi per un nuovo disco erano maturi e ho chiesto alla mia amica Micol Del Pozzo (che nel disco suona il basso) e a Pasquale Montesano (il batterista della band romana Mia Wallace) se avevano voglia di darmi una mano nell’arrangiare e incidere i brani che avevo scritto e per fortuna la risposta è stata positiva. Come nascono le canzoni di Flares? Lavoro distribuito nel tem25


ro preparatorio, soprattutto per le canzoni scritte a ridosso della registrazone. Ovviamente è stato soltanto andando in sala a suonare con Micol e Pasquale che i brani hanno potuto sviluppare appieno la loro energia. Il loro è stato un apporto preziosissimo, così come quello di alcuni ospiti quali Federico Festino (della band danese Me after You) al piano elettrico in due brani e di Gianluca Varone che suona il sax tenore in un brano. Entrambi in passato hanno fatto parte, per un breve periodo, dei Volcano Heart. Ho provato 26

vera e propria gioia nel tornare in studio dopo tanti anni, anche perché ho registrato il disco con Danilo Silvestri nel suo GreenMountainAudio a Roma, ed è stato bello vedere le canzoni assumere una forma compiuta. Sono grato a Danilo per il suo sapiente lavoro sui suoni e per avermi messo completamente a mio agio durante la registrazione dell’album. Quali sono i dischi che hai ascoltato di più durante il lavoro sul disco? Di musica ne ascolto veramente tanta, e anche di generi differen-


ti. E’ un vero nutrimento per me. Giusto per citare un paio di nomi che ricordo aver messo spesso sul piatto durante il periodo della registrazione dell’album direi Here Be Monsters dei Motorpsycho e Micah P.Hinson and the Opera Circuit di Micah P.Hinson. Flares contiene sei brani: si direbbe che stai testando un po’ l’acqua ma che magari stai già pensando più in grande. E’ previsto un lp all’orizzonte oppure è una prospettiva ancora lontana? Per la verità io Flares, che ha una

durata di circa 35 minuti, lo considero un lp. E’ vero che sono solo sei brani, ma molti di essi sono assai lunghi. My Sign on You per esempio è in due parti, una cantata e una strumentale, e insieme fanno quasi dieci minuti di musica. Molti dei dischi delle band che ho amato di più, penso ai primi dei Karate e di Will Oldham/Bonnie Prince Billy, o a Insignificance di Jim ‘O Rourke, hanno più o meno la durata di Flares. Se devo pensare in grande dovrei rispondere che il prossimo sarà un doppio album! E perché no? http://www.minollorecords.com http://www.facebook.com/RobertoMyBand 27


A RED IDEA


Preceduto dai singoli “Fear” e “My Memories” esce “Bed Sea Walks”, il disco d’esordio del musicista veneziano, (Beautiful Losers), tra echi anglosassoni e continua voglia di variare Bed Sea Walks è il tuo esordio: vuoi raccontare come sei arrivato fin qui? Ci sono arrivato a poco a poco, tra dubbi, pause, e repentini passi avanti... Le canzoni le ho compo-


ste negli ultimi anni, poi quando ho contattato Andrea Liuzza di Beautiful Losers, le cose si sono messe in moto e abbiamo lavorato sugli arrangiamenti e i mix. In pratica è il risultato di un lungo processo di maturazione, frutto degli anni trascorsi a suonare nei contesti più vari, con altri autori, in formazioni jazz e così via. Volevo un disco che si ispirasse al rock più classico, ma allo stesso tempo accogliesse e rielaborasse le sonorità più contemporanee della scena musicale odierna. In altre parole, un disco moderno ma con radici solide! Mi sembra che a livello sonoro tu sia andato alla ricerca della varietà: si va dall’alternative al blues, dall’acustico all’elettrico, hai anche affidato le voci a Teresa Sartore talvolta… Sì è vero. Credo che ogni volta che finisco una canzone, poi per quella dopo vado a cercare qualcosa di completamente diverso. Come se avessi voglia di mettermi alla prova... ‘Ho fatto una canzone con chitarre elettriche? Allora adesso una acustica, oppure piena di

sintetizzatori.’ ‘Una lenta? Allora la prossima sarà molto ritmata’, e così via. Proprio a proposito di Teresa: come nasce la vostra collaborazione? Direi principalmente dal fatto che mi piace l’idea di poter collaborare con qualcuno che abbia delle caratteristiche vocali completamente diverse; offre la possibilità di esplorare nuovi territori. Come un pittore che avesse accesso a dei colori nuovi. Teresa ha una voce da cantante americana di soul o jazz, che può cantare note che io non raggiungerei neanche se cantassi in falsetto. Ovviamente fare cantare una canzone a qualcun altro è difficile, non hai più il controllo che hai sei fai tutto da solo, hai la sensazione che la canzone ti possa sfuggire di mano... Ma con Teresa ne è valsa la pena! Come nasce “My Memories”? È la canzone composta più di recente. È una canzone melodica, un po’ beatlesiana, forse un po’ triste e con un testo che vorrebbe trasmettere un senso di nostalgia. Anche l’uso di Mellotron, di cam30


panelle e di percussioni da bambini, contribuiscono a creare un’atmosfera di altri tempi. Volevo che fosse una canzone allo stesso tempo orecchiabile ma non scontata, spero ci siamo riusciti. Ascoltando il disco mi sono venute in mente comparazioni internazionali con il pop anglosassone, come Badly Drawn Boy e Prefab Sprout. Ma quali sono i tuoi capisaldi musicali? Sicuramente i miei riferimento sono internazionali, e principalmente anglosassoni. Comunque negli ultimi anni mi hanno segnato i dischi di artisti come Unkown Mortal Orchestra, King Krule, The Antlers, Fleet Floxes, Thundercat, Midlake. Tra gli italiani Giorgio Poi e Andrea Laszlo de Simone. Ma se ne potrebbero citare tanti altri… Ci puoi regalare una playlist dei brani migliori da “accompagnare” all’ascolto del tuo disco? Se guardo a quanti bei dischi e

canzoni escono adesso, credo non saprei neanche da dove cominciare. Quindi forse meglio ripescare qualche classico, ascolti fondamentali, se qualcuno non li conoscesse. Per esempio: - Ballade de Melody Nelson (Serge Gainsbourg) - Sad eyed lady of the lowlands (Bob Dylan) - Ol 55 (Tom Waits) - And you and I (YES) - Harold the Barrel (Genesis) - Oh my love (John Lennon) - Next to you (Police) 31


I MIEI MIGLIORI COMPLIMENTI #cinqueminuticon venture amorose di Walter e Carolina, primo ep uscito nel 2015 che ha smosso le acque dell’itpop, ha messo in fila una serie di singoli ora raccolti in Le cose cambie-

E’ partito raccontando le vicende di un amore fallimentare e ha continuato così. I Miei Migliori Complimenti, alias Walter Ferrari, dopo aver parlato de Le disav32


ranno, che ne hanno amplificato il successo. Ed eccolo qui, a parlare di sua madre, di Shazam, di Aladdin e di tette piccole. In Colazione da Gattullo dici che tua madre al 93% ha sempre ragione, e quindi devo chiedertelo… quel 7% di errore a cosa si riferisce? Ti sei mai pentito di non aver dato retta ai suoi consigli? La verità è che mia madre ha sempre ragione. Mi sono tenuto quel 7% come margine mio ma è prettamente simbolico. E’ incredibile come abbia avuto ragione in tutto: con la mie ex, sugli amici, sul lavoro. Non mi pento di non avere seguito i suoi consigli perché sono quello che sono sbagliando. Ogni scelta che faccio devo sempre tenere conto del fatto che mia madre avrà ragione e quando e se avrà torto allora sarà quel 7%. I tuoi brani sono tutti potenziali singoli. Li hai raccolti in due ep, Le avventure amorose di Walter e Carolina e Le cose cambieranno. Quali sono i pezzi a cui sei particolarmente legato? Shazam e Ricalcolo sono quelli

che prediligo in questo momento. Però vado a molto a periodi. È una cosa che mi dicono in molti tra quelli che si sono affezionati al progetto. È come se I miei migliori avesse vari livelli di lettura. Parliamo di Sabato… Ma poi hai confermato la teoria “Piccole tette grande cuore”? Così regaliamo speranza alle nostre lettrici non particolarmente formose! Scherzi a parte, mi ha molto incuriosita la tua frase “esprimo un desiderio e poi libero il genio, meglio libero lui che un altro desiderio a me”. Hai bisogno di protezione da quello che desideri, come dice Capossela? Che le tipe con le tette piccole abbiano un grande cuore è ovvio. A una data del tour una tipa mi ha dato del maschilista per questa frase, diceva che era poco rispettoso verso le ragazze. Però sapeva tutte le canzoni a memoria. Esprimo un desiderio e poi libero il genio è una citazione al film della Disney Aladdin. Con il terzo desiderio Aladdin libera il genio. E’ una grande dimostra33


zione di amicizia e di gratitudine. È chiaramente la parte più bella del film. Aladdin libera il genio perché non ha più nulla da desiderare. Non è così avaro da volere desiderare qualcosa in più di inutile e superficiale. E’ felice così com’è. Secondo me quando una persona è felice e ha la possibilità esprimere un desiderio dovrebbe liberare il genio. Per esempio: soffi

sulle candeline al tuo compleanno, puoi esprimere un desiderio ma se sei a posto con te stesso allora potresti liberare il genio delle candeline del compleanno. Insegnerò questa cosa ai miei figli. Visto che con ironia ti lamenti di chi utilizza Shazam per scoprire i mostri sacri della musica, dicci la verità… quali sono le ultime shazammate che troviamo nella 34


tua app? Bello: Pino Daniele - Resta quel che resta Calabi - Le terrazze Thirty Seconds to Mars - Rescue Me Fleetwood Mac - The Cain Level 42 - Running in the Family La metà non ho idea di cosa siano. Chiudiamo con la playlist: qualche brano che magari non è trop-

po conosciuto, o piccoli grandi capolavori che tutti conoscono e che ci facciano compagnia finito di leggere questa intervista! Mia Martini - Piccolo Uomo The 1975 - TOOTIMETOOTIMETOOTIME Bad Bunny - Tenemos Que Hablar Mèsa - Oh Satellity Ida Maria - Oh My God Chiara Orsetti 35


MEDICAMENTOSA “Flood” è il terzo ep per il producer Bruno Mari, dopo “Iraglas” (2015) e “Ubuntu Cola” (2018). Un lavoro diviso marcatamente in due parti (una più sospesa e meditata, l’altra più psichedelica)

Vorrei sapere da quali presupposti (soprattutto sonori) hai iniziato a lavorare su questo tuo nuovo ep? I presupposti erano quelli di fare dei pezzi che sfociassero l’uno nell’altro e che seguissero un filo, un sentiero comune. Dal punto di vista sonoro ho ascoltato molta musica psichedelica negli ultimi




tempi e volevo che ci fosse quella componente di fluidità, di morbidezza ed evocatività. Ma anche che ci fosse un certo ritmo calzante e a tratti ballabile. Ho riunito varie idee e le ho accostate per creare un discorso, anche sonoro. Il concept dell’ep fa riferimento a una possibile vita futura sottomarina. Come ti è venuta l’idea? L’idea mi è venuta in parte da una mia fissa storica riguardo a Darwin e all’evoluzionismo. Mi piacerebbe davvero vedere il frutto del tempo che passa e che migliora la genetica umana per renderci diversi, anche capaci di vivere sott’acqua o in aria. Io poi sento di stare veramente meglio quando sono in acqua, è un po’ più facile per me fluttuare che camminare e sentire il peso della gravità (o nella gravità). Inoltre ci sono stampe dell’epoca del futurismo che immaginandosi il futuro ritraggono uomini sott’acqua a cavallo di delfini e di balene. Mi piaceva molto l’idea e rientrava nel concept che si stava formando quando scrivevo il disco. “Avremo le ali e le branchie” è 39

pezzo centrale nel disco, forse non solo per collocazione. Vorrei sapere come nasce Il pezzo nasce essenzialmente dal riff di chitarra. Da lì mi è venuto tutto molto spontaneo: l’arrangiamento, i suoni, il testo. Si è trattato solo di metterla giù. Quel riff mi dava l’idea di qualcosa in volo che guarda con malinconica gioia la terra e si immagina un futuro diverso, una strana piega degli eventi. È uscita molto naturalmente. Tre nomi dell’elettronica contemporanea di cui consigli l’ascolto Ci sono tanti artisti validi in questo campo ma mi sentirei di consigliare The Blaze, Rival Consoles e Daniele Sciolla.


NEVICA

Torna sulle scene il musicista e produttore Gianluca Lo Presti per dar vita a un nuovo percorso musicale in cui fondere le anime dei suoi precedenti progetti Nevica su Quattropuntozero e Nevica Noise Murakami, Scardovelli, Lo Presti: mi spieghi in che modo questo “triangolo” dà fondamento ai concetti del tuo nuovo album? Più che un trangolo mi immagino una linea curva dove Murakami e Scardovelli sono dei punti “guida” e io un punto immensamente più piccolo in movimento. Cronologicamente ho conosciuto prima Murakami attraverso la lettura del romanzo 1Q84, me ne sono innamorato e ho divorato quasi tutti i suoi libri nel giro di poco tempo. Di Scardovelli mi fece vedere un

video su Youtube un caro amico circa 3 anni fa e anche qui è stata una folgorazione. Diciamo che queste due figure sono riuscite a darmi delle risposte concrete a cose che cercavo nella mia vita senza averci avuto contatti reali, molto più di tante persone che ho incontrato. Nel loro pensiero ho trovato una chiave di lettura del mondo che mi appartiene totalmente o quasi. Sono i cosidetti rapporti “animici” cioè quando entri in risonanza perfetta con qualcuno o qualcosa. E sono ac40


cadimenti molto rari. L’album fondamentalmente racconta tutto questo percorso interiore rivisto coi miei occhi e anche con immagini autobiografiche. Si chiude la tua Trilogia dell’anima: in te prevale un senso di “completezza” oppure ti sei reso conto di aver lasciato fuori qualcosa di importante? In realtà Tengo è il secondo capitolo della trilogia iniziata con Sputnik, il lavoro precedente di natura strumentale. Nei miei progetti dopo ci sarà un terzo album che completerà il tutto collegato a essi. Il senso di completezza non lo avverto mai, mi concepisco come un’anima in cammino sempre alla ricerca di qualcosa. Non ritengo corretto fermarsi nella vita ma andare

sempre avanti. Magari percepisco che sono sulla strada giusta allora più che completezza provo un senso di soddisfazione e appagamento che è il carburante indispensabile per proseguire. Dal punto di vista sonoro trovo che il disco sia più eterogeneo dei precedenti. Scelta progettuale o spontanea? E’ stata una scelta spontanea. In realtà volevo fare un album che suonasse tutto come Il nostro suono, il brano di apertura, che ritengo da un punto di vista di sound come una perfetta sintesi dei miei lavori precedenti. Poi man mano

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le cose sono andate diversamente, ne è uscito un disco molto più eterogeneo, sono d’accordo. E’ importante non forzare mai il processo creativo in quanto non sei tu che decidi certe cose ma sei solo “un’antenna” che capta dei segnali e non puoi far altro che ritrasmetterli filtrati al massimo dalla tua personalità. E’ un concetto difficile da accettare. Trovo molto curiosa proprio Il 42

nostro suono, anche per la sua storia, relativa a un acufene... L’acufene è un problema comune di molti musicisti. Tra gli esempi più famosi c’è Caparezza e il cantante dei Coldplay, per non parlare di Beethoven. Ho iniziato a soffrirne proprio nel periodo che mi accingevo a comporre questo disco ed è singolare come coincidenza. Infatti Il nostro suono è proprio il primo brano che


le relazioni umane sono diventate inesistenti. I social ne sono la testimonianza. Il denaro è la cosa più importante persino del nostro tempo. Ci si trova dentro un vuoto esistenziale senza precedenti per cui se è vero che l’arte è lo specchio della società che rappresenta, non puoi sperare di questi tempi di incontrare un nuovo De Andrè o Battiato. Ci sono però delle eccezioni rare ma sono nascoste nel sottobosco della musica, si devono cercare, non stanno in superficie. Per essere onesto eviterò di citare artisti coi quali ho lavorato ma un paio di musicisti della mia zona che reputo decisamente sopra la media: Aldo Becca e Pieralberto Valli entrambi cantautori “trasversali”, dei veri e prorpri outsider fuori dagli schemi, consiglio di ascoltarli. Qui capisci che per fortuna c‘è ancora speranza che il bello esiste e difficilmente morirà. Al massimo viene tenuto in ombra perché potrebbe creare qualche scomodità. Ma qui si aprirebbe un discorso che allungherebbe troppo l’intervista!

ho composto. Ho letto molte cose sull’argomento e da un punto di vista energetico-spirituale rappresenta un richiamo a se stessi, un monito che viene dalla nostra anima che ci invita a non farci distrarre dal mondo esterno spesso superficiale e mutevole, a mantenere la concentrazione su noi stessi sul nostro io. E’una teoria molto affascinante che ti aiuta ad accettare meglio una cosa con la quale sai che dovrai convivere per sempre. Per fortuna nel mio caso non mi ha dato problemi particolari per cui continuo tranquillamente a fare la mia professione, ma inizialmente ero preoccupato. Dall’alto della tua esperienza, chi ti ha colpito di più negli ultimi tempi, nella musica italiana? Avrei sperato di evitare questa domanda ma risponderò con sincerità: trovo l’attuale panorama musicale italiano molto desolante e povero di idee e contenuti. Ma è assolutamente al passo con la società attuale quindi è coerente. Viviamo un mondo dove abbiamo dimenticato noi stessi,dove abbiamo mercificato tutto, anche 43


GROUND CONTROL

“Untied” è il disco d’esordio della psycho-stoner band emiliana che trae evidente ispirazione “ideale” da Bowie ma anche dal mondo della cinematografia Volete raccontare la (non lunghissima) storia della vostra band fin qui? La band nasce casualmente il 10 di gennaio del 2017 a un anno esatto di distanza dalla morte di Bowie, quindi da qui l’idea del nome della band come una sorta di omaggio. La band è formata da Marco Camorani alla chitarra, Pietro Albera alla batteria e Marco Ravasini alla voce a cui dopo sole poche settimane si è aggiunto Jambo Iori al basso, siamo tutti musicisti da diversi anni in attività 44

nella scena emiliana. La ricerca di un sound particolare ci ha portato sin da subito a sperimentare, metterci alla prova per cercare una nostra identità che fosse la perfetta espressione dell’unione delle nostre quattro differenti sensibilità artistiche; dopo poco l’abbiamo individuata con la musica che facciamo, un genere che ci piace chiamare psycho-stoner ma un genere che forse in realtà nemmeno esiste ufficialmente... Quello che potete ascoltare nel nostro disco Untied uscito a dicembre.


Dal punto di vista sonoro direi che il vostro disco punta verso un suono molto compatto e potente. Avete un metodo di scrittura delle canzoni o vi affidate all’ispirazione del momento? Grazie. Quello che cerchiamo di fare è non darci limitazioni, cercare di non seguire cliché e strade troppo battute. Non seguire a tutti i costi una struttura precisa di canzone nella quale debba per forza esserci una strofa o un ritornello piuttosto che un assolo di chitarra nel punto in cui tutti se lo aspetterebbero... Seguiamo il più possibile l’ispirazione e ci lasciamo andare completamente, senza rimorsi. Una dimensione fondamentale dove abbandonare l’autocontrollo e dove sen-

tirsi davvero liberi, dove trovare conforto e sentirsi parte di qualcosa, esprimere sé stessi attraverso la musica intesa come creazione, senza la paura di sentirsi assoggettati a regole e dogma predefiniti. Come nasce “Kaputt Mundi”? Kaputt Mundi nasce da una jam session strumentale di sole batteria e chitarra, materiale registrato insieme a tanto altro per un successivo riascolto a freddo. La cosa che ci colpiva riascoltando il riff di chitarra e il groove di batteria era la ripetitività a ciclo chiuso, il fatto che potenzialmente poteva

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essere suonato all’infinito. Abbiamo quindi cercato di sviluppare questa idea e questa sensazione attraverso l’utilizzo ripetuto del sample di Benigni e attraverso un testo che esprimesse questo tipo di disagio in modo parossistico e in modo ossessivo e claustrofobico esprimesse l’incomunicabilità del nostro tempo. Il testo di fatto è ispirato alle tematiche belliche

dell’omonimo libro di Ben Pastor, attualizzate ai giorni nostri. Un altro brano che mi ha incuriosito molto è Italiani brava gente: potete raccontarne la genesi? Italiani Brava Gente chiamata tra di noi anche IBG, è il primo brano che abbiamo scritto insieme. Nasce da un’intro strumentale quasi noise sul quale è stato inserito un 46


Posto che l’ingrediente Bowie è piuttosto evidente nel vostro mix, quali sono gli altri capisaldi della vostra discografia? Le influenze sono senz’altro innumerevole e a volte anche molto diverse tra loro. Altri artisti che in qualche modo ci ispirano e ci contaminano sono senz’altro Nine Inch Nails, Biffy Clyro, Queen of the Stone Age, Kyuss, Metallica e Dream Theater ma anche i nostrani Afterhours e Ministri.

testo, in parte già scritto in precedenza, che parla di quanto sia difficile continuare a confrontarsi con la società odierna, che osteggia e disincentiva le diversità in favore di comportamenti massificati e omologati. Anche qui c’è un sample molto interessante recuperato dagli archivi storici Rai, un telegiornale andato in onda nel 1971 che parlava di politica ed esteri che ci fa capire che in quasi cinquant’anni di fatto le cose non sono migliorate poi molto.

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ANDREA ARDILLO Tra guerre antiche ed emozioni contemporanee, esce “Uomini, bestie ed eroi”, primo disco appartenente a una trilogia con protagonista un’umanità dolente ma capace d’amore de generosità e di poesia. Un po’ come siamo fatti tutti, no? Forse questo è il motivo per il quale UB&E sta arrivando a tanta gente, pur non essendo un disco facile. Molte delle canzoni del tuo disco parlano di guerre lontane nel tempo e spesso dimenticate, ma mi sembra che il tuo sforzo sia quello di mostrare le analo-

Uomini, bestie ed eroi è il primo capitolo di una trilogia. Vuoi raccontarne i concetti base? Sostanzialmente potrebbero essere una serie di racconti con protagonista un’umanità dolente, non priva di dignità, talvolta affetta da viltà e cattiveria, talvolta vittima di sé stessa, eppure in qualche modo capace di amore, di gran48


gie con le guerre presenti, che saranno anche più tecnologiche ma non fanno meno schifo. Fanno ancora più schifo proprio perché tecnologiche. Al progresso materiale non siamo ancora riusciti ad affiancare un progresso della mente e dell’anima. I testi di questo disco sono legati a filo doppio con la poesia, dalla citazione shakespeariana del primo brano in avanti. Che cos’è per te la poesia, a parte un’evidente fonte di ispirazione? Ho chiarissima la distinzione fra poesia e canzone, seppure credo siano nate assieme come un’unica cosa attorno ai fuochi dei nostri antenati costretti a rifugiarsi nelle grotte. Se parliamo di poesia in senso lato, c’è poesia ovunque, soprattutto nelle piccole cose, nelle quali più facilmente intravediamo l’ombra di cose più grandi. Mi spiego meglio: tu vedi una mela e puoi fermarti lì. Poi passa un matto, o un poeta, e vede la stessa mela. E il miracolo della vita; e il suo colore che cambia col trascorrere della giornata, o se una nuvola oscura il sole. E si interro-

ga sul suo sapore, sul perché a te piace e a me no. E tutto questo, se espresso con i dovuti accorgimenti, quasi fosse uno sciamano che sta preparando una pozione magica, diventa poesia. O, alternativamente, se non sta lì a tirarsela, magari diventa canzone. Cosa ti ha spinto a chiudere il disco con una canzone così significativa e controversa come Gorizia, tu sei maledetta? Nel 2005, su un giornale trovai riportata la notizia che a Massa Carrara, durante una delle manifestazioni sostanzialmente farlocche che fingono rispetto per il Milite Ignoto e per i Caduti di tutte le Guerre, una signora fra la folla aveva intonato questa canzone ed era stata subito identificata ed espulsa dalla piazza dai carabinieri. Ancora nel 2005, una canzone del 1916! In quel momento ho deciso che un giorno avrei cantato quel brano. Ed è successo. Quando ho registrato Su Patriotu con Marti Jane Robertson, a fine sessione, negli ultimi quindici minuti, ho buttato giù la versione del brano che sta49


Ho cominciato a collaborare con Giovanni Coda quando lui ha realizzato Xavier, un corto per il quale ho buttato giù una parte di chitarra di un paio di minuti. Per Mark’s Diary, che ha una struttura narrativa complessa, anche a causa del tema non proprio facile - ovvero il rapporto fra disabilità e sessualità – serviva qualcosa di

vo provando da un paio di giorni. Che poi è quella che senti in chiusura del disco. Hai rinnovato la tua collaborazione con Giovanni Coda firmando la colonna sonora di Mark’s Diary, che comprende cover e originali interpretati da te. Che cosa ha rappresentato per te questo lavoro? 50


incisivo ma semplice. E qui arrivo io, con le mie versioni “andrillizzate”, ovvero riarrangiate fino al midollo, ma in qualche modo riconoscibili e godibili di brani di Smiths, Blondie, CCCP, De Andrè… e con diversi miei brani inediti. Il film è anche un omaggio alla danza, alla poesia, oltre a essere una fucina di interrogativi, un pugno nello stomaco dato con dolcezza (ma neppure tanta), quando vai a curiosare finalmente dietro alle porte delle stanze nelle quali vivono reclusi, carcerati eterni, tanti disabili che anelano a una carezza d’amore, o anche a una sana e salutare scopata. E non la possono avere. Per me andare oltre quelle porte è stato entrare in un mondo che neppure immaginavo esistesse. Ma è anche stato collaborare con artisti favolosi, performer, danzatori, trasformisti,

pittori, cineasti, altri musicisti – ricordo Cosimo Morleo e Arnaldo Pontis, che con me firmano la colonna sonora del film. Ho allacciato le cinture, come raccomandava Giovanni, e ho fatto un meraviglioso balzo nel vuoto. Questa esperienza diventerà il secondo capitolo della mia trilogia, un album che uscirà entro pochi mesi con sette “andrillizzazioni” e quattro inediti. Poi per il 2020, sempre se sarò vivo, romperemo ancora gli schemi per un ultimo salto nel vuoto, con le canzoni, si spera, a fare da cuscinetto fra la dura terra e il cielo.

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AFTERHOURS “PADANIA” #quellochesentivo Padania è il nono album degli Afterhours, uscito il 17 aprile 2012. La canzone omonima è il secondo singolo estratto dal disco e vede una doppia versione del video, la prima con Manuel Agnelli protagonista, la seconda con Giorgio Prette.

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puoi quasi averlo sai! tu puoi quasi averlo sai! E non ricordi cos’è che vuoi

Il confine tra quello che hai e quello che vuoi è impercettibile. È disegnato in un campo di una zona industriale qualsiasi, cancellato dalla pioggia che ha sostituito la neve creando un pantano. In quel pantano ci affondano i piedi, ci rimangono incollati i pensieri, si sporcano e si inzuppano. Ed è proprio quando provi a infilarci le mani che ti rendi conto di non saper sbrogliare la matassa di idee confuse che ti ritrovi davanti.

Ha ancora un senso battersi contro un demone quando la dittatura è dentro te? lotti, tradisci, uccidi per ciò che meriti fino a che non ricordi più che cos’è puoi quasi averlo sai! puoi quasi averlo sai! tu puoi quasi averlo sai e non ricordi cos’è che vuoi

La sigaretta con il vento non riesce ad accendersi, il demone che ti abita con questo freddo si rintana ancora di più tra le tue pieghe, cucito addosso come il vestito delle occasioni mancate, pronto a ricordare che puoi lasciarti andare, ma che anche questa volta cadrai… nel nulla di sempre.

Fare parte di un amore anche se è finto male fare parte della storia anche quella più crudele liberarti dalla fede e cadere finalmente tanto è furbo più di noi questo nulla questo niente Chiara Orsetti

Due ciminiere e un campo di neve fradicia Qui è dove sono nato e qui morirò Se un sogno si attacca come una colla all’anima tutto diventa vero tu invece no Ma puoi quasi averlo sai! 53



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