12 minute read
TANTO SE LA BEVONO! Il dilemma della qualità della birra artigianale italiana
Che il 2023 inizi come da tradizione, ovvero con i migliori auspici: fare le pulci al fenomeno della birra artigianale italiana. Anche quest’anno, esattamente come già accaduto nel corso del 2022, mi lascerò ispirare dai fenomeni che ci circondano
– niente paura, non c’è nulla di paranormale –, visti però con gli occhi di chi ha a cuore l’aspetto più squisitamente marketing della birra artigianale.
Il tema di oggi riguarda la logica commerciale e le riflessioni a monte di questo articolo sono state fornite da due occasioni distinte: la prima è l’acquisto da parte del mio babbo di tre cartoni di birra artigianale, la classica scorta di sopravvivenza in previsione delle feste e del ritorno del figliol prodigo in Calabria, mia terra natale; la seconda è uno dei tanti concorsi di bir- ra per homebrewer cui ho avuto la fortuna di partecipare, durante il quale, tra i vari argomenti affrontati, è emerso quello pruriginoso del rapporto tra qualità e prezzo della birra artigianale italiana. Come sempre, evito qualunque panegirico e a sviluppare l’articolo odierno una riflessione alla volta.
Il consumatore medio
Partiamo dal mio babbo. Il signor Antonio può essere considerato un consumatore medio, colui che a seconda del caso acquista “per sentito dire” oppure “a sentimento”, preferendo di gran lunga scegliere in funzione di ciò che gli suggerisce lo stomaco anziché la coscienza. Una vittima del marketing, appunto. A differenza del sottoscritto, non ha nessun particolare background rispetto alla birra, né tanto meno è un esperto assaggiatore di vino oppure ancora possiede qualsivoglia declinazione della gastronomia italiana. Il mio babbo mangia e beve per il puro piacere di farlo, senza troppi fronzoli. Punto.
Ora, cosa succede le rare volte che mio padre va a fare la spesa? Succede che diventa bersaglio di strategie di marketing che hanno individuato in lui la buyer persona ideale, ovvero l’identikit del cliente perfetto. Vittima inconsapevole di condizionamenti esterni che fanno leva sulla propria emotività, mio padre acquista di impulso, portando a casa tutto quello che un abile commerciale oppure un brillante scaffale gli hanno propinato. Un consumatore molto poco attento, facilone, che bada troppo all’etichetta e poco al contenuto e che, in assenza di informazioni, utilizza due discriminanti di scelta assai spicciole: il packaging più bello (perché esteticamente più appagante) e il prezzo più alto, o comunque superiore alla media (perché viene considerato indice di qualità – ma questo non significa che basti fare il prezzo più alto per assicurarsi la vendita).
Un “nuovo” birrificio che non è innovativo Rispetto al suo modus operandi tra gli scaffali del supermercato e tra le piccole botteghe artigiane, io e mio padre abbiamo solo una cosa in comune: ci piace fare la spesa, ci gratifica, e siamo contenti di tornare a casa con le braccia piene mostrando i frutti della nostra uscita. Nell’ultima occasione lui si è portato dietro tre cartoni di birra artigianale locale, complice l’incontro con i soci del birrificio in occasione di un evento. Tempo di tornare anch’io in Calabria, codesti cartoni mi vengono presentati come il frutto succulento dell’ultima avventura imprenditoriale made in Calabria, laddove un altro birrificio nasce con l’ambizione di entrare in un mercato di nicchia che evidentemente continua a fare gola – nonostante le statistiche siano abbastanza chiare sul fatto che della vacca grassa dei bei vecchi tempi è rimasto ormai davvero poco da mungere. Un nuovo birrificio che affronta la sfida attuale facendolo con un approccio fin troppo tradizionale: assieme ai cartoni a mio padre è stata consegnata la classica brochure informativa a tre colonne, indicante nomi delle birre pur creativi ma con riferimenti stilistici piuttosto vaghi – le birre in questione sono classificate come Lager, Rossa e Sunshine Ale – e un packaging, inteso sia come contenitore di vetro che come etichetta, in fondo già visto e rivisto altrove e che non aggiunge nulla alla scena attuale. In soldoni, quella che per mio padre è una bella storia da raccontare, per me è l’ennesima trovata imprenditoriale che – perdona il cinismo – nella migliore delle ipotesi sguazzerà in un mare di mediocrità. L’unica fortuna degli ultimi arrivati è quello di essere la novità: immagina un contesto dai forti connotati protezionistici come la Calabria, dalla forte tradizione vinicola, quanto possa suonare entusiasmante apprendere dell’apertura di un birrificio, riuscendo in questo modo ad assicurarsi la presa sul pubblico pur in assenza di una precisa strategia di comunicazione. Mettici poi la confusione – e questo vale a livello nazionale – sul tema dell’artigianalità della birra ed è scacco matto al consumatore non consapevole.
L’industria sa fare marketing
Lo sa bene l’industria, che scimmiottando sempre più frequentemente gli stili artigianali da una parte – hai visto che persino Heineken si è lanciata in una sua personale battaglia a favore della cultura birraria, tirando in ballo addirittura il Lambic? – e acquisendo birrifici artigianali dall’altra, si è fatta spazio nel cuore (e nel portafogli) di una fetta crescente di consumatori, sottraendo quote di mercato non occupate oppure già occupate dalla birra artigianale italiana. Proprio per via di questa scarsa conoscenza del prodotto, mio padre acquisterebbe tranquillamente una Ichnusa e me la presenterebbe a tavola raggiante, orgoglioso di condividere con me i frutti delle sue ultime scoperte al supermercato e curioso di sapere cosa ne penso della famosa birra “non filtrata”, che piace ed è sulla bocca di tutti. Ovviamente del successo commerciale della birra industriale c’è poco da discutere: è un dato di fatto ed è tutto merito delle leve di marketing utilizzate. Ritornando al mio babbo, invece, vorrei farti notare che per lui sarebbe stato molto utile un’etichetta in grado di descrivere la birra per quello che è, con un riferimento stilistico più preciso di Sunshine Ale, e magari con un accenno di descrizione organolettica. Nulla di tutto ciò è accaduto, mio padre continua a non conoscere la differenza tra birra artigianale e industriale, l’industria continua a vendere giocando sulla sottile linea di demarcazione tra questi due mondi e il birrificio artigianale si accontenta di essersi portato a casa un’altra vendita. Del domani non v’è certezza, almeno per oggi si è portata a casa la pagnotta.
L’importanza dello storytelling…
Purtroppo, è questo che manca: la capacità di ragionare in prospettiva, la visionarietà che è tipica degli imprendi- tori più lungimiranti e delle imprese di maggior successo. Quello stesso birrificio si è lasciato sfuggire l’occasione per trasformare un prodotto senza alcuna identità nel carismatico protagonista di un avvincente storytelling. Oggi sono state le parole dei venditori a convincere mio padre a effettuare l’acquisto, ma stai pur certo che domani la sua attenzione sarà catturata da un’altra novità che metterà in ombra l’anonimo birrificio e le sue birre. Lo storytelling è oggi fondamentale per fare la differenza in un mercato dove la logica dominante è ancora quella del prezzo, dove la birra priva di reale contenuto è paragonabile a una qualunque commodity, ovvero un bene che viene acquistato solo in virtù del prezzo più basso. Il che, considerando i costi di produzione, soprattutto alla luce dei recenti aumenti dei costi dell’energia e della galoppante inflazione, equivale a un suicidio. Pertanto, mi chiedo se il già menzionato birrificio abbia mai realizzato un business plan e una strategia di comunicazione atti a trasformare l’investimento in qualcosa di diverso da un buco nell’acqua. Perché ad affermare di fare qualità sono bravi tutti; la verità – come sottolineato negli articoli precedenti – è che il marketing pensa piuttosto alla percezione della qualità, senza la quale il consumatore non potrà mai spiegarsi il divario di prezzo tra birra artigianale e industriale, trovandosi a preferire sempre quest’ultima.
…e di una comunicazione
Completa E Corretta
Tralasciando volutamente l’assaggio, comunque privo di piacevoli sorprese, vorrei riportarti qui il succo della conversazione avvenuta con mio padre, che per me è stata a dir poco illuminante. Innanzitutto, pur avendo avuto la fortuna di parlare direttamente con il birrificio, mio padre si è portato a casa le birre senza avere la più pallida idea di cosa fossero. Dolci o amare? Chissà! Il colore? C’è “la Ros - sa” ma tutto il resto rimane in dubbio. E il bicchiere ideale oppure la corretta temperatura di servizio? Questi sconosciuti. Ovviamente non pretendo che mio padre fosse in grado di servire la birra nelle condizioni ottimali; tuttavia, avrei tanto apprezzato che conoscesse quantomeno le basi. Facendo un paragone con il vino, chiunque sa che un vino rosso predilige un balloon, mentre un vino bianco un calice. Il che è già un segnale tangibile di come concettualmente il vino si sia radicato nella mentalità del consumatore e aiuta il consumatore stesso a essere critico nei confronti di chi non rispetta questi pur minimi parametri. Se un nuovo birrificio non si rende conto dell’importanza di distinguere bassa e alta fermentazione, limitandosi piuttosto a spiegare la birra facendo riferimento al colore – come si è sempre fatto – forse converrai con me sul fatto che il mercato della birra artigianale italiana non è maturo come si crede, a discapito dei suoi oltre trent’anni di storia. Quando dicono che gli italiani sono un popolo di mammoni hanno ragione, perché come imprenditori faticano a liberarsi dall’amorevole abbraccio della loro comfort zone .
Il rapporto tra qualità e prezzo nella birra artigianale Durante la conversazione con mio padre è venuto a galla un altro elemento importante, lo stesso che mi offre l’assist per introdurre il secondo argomento di oggi: il rapporto tra qualità e prezzo della birra artigianale italiana. Un rapporto ahimè poco vantaggioso, per ragioni che abbiamo già affrontato in precedenza e che in questa sede mi limito a riportare a titolo conoscitivo: l’assenza di economie di scala per i birrifici artigianali italiani e la drammatica sconfitta commerciale al fronte, dove il prezzo della birra italiana perde in partenza contro Paesi più virtuosi quali Germania e Belgio. Senza scendere nel dettaglio delle differenze tra Paesi, se- condo te quanto dovrebbe costare in Italia una bottiglia/lattina di birra artigianale per essere interessante agli occhi del consumatore medio?
In Italia vige la regola non scritta delle cinque euro a bottiglia/lattina, perlomeno al dettaglio nei locali ristorativi, mentre per la spina ci aggiriamo tra dodici e quindici euro a litro a seconda della referenza. Prezzi esorbitanti?
Direi di no, sono più che accettabili, perlomeno finché non vengono confrontati con altre fattispecie che giocano in un campionato diverso. A me, per esempio, è venuto il dubbio di passare al lato vitivinicolo della forza quando, in occasione della spesa per le festività natalizie, mi sono trovato a confrontare i prezzi di due bottiglie di birra al confronto con una di vino. Le prime costano molto di più, praticamente cinque volte tanto quelle di una bottiglia. E non perché sono quantitativamente il doppio, quanto appunto perché la singola bottiglia ha prezzi necessariamente superiori. Il doppione è volutamente inserito perché, vista la ridotta quantità di alcol, tendenzialmente un calice di vino equivale a un bicchiere di birra; pertanto, il consumo di quest’ultima è nettamente superiore. Insomma, come avrai capito per quest’anno mi sono voluto rovinare, perché portare a casa una dozzina di bottiglie da 75 cl è costato tanto quanto una scorta mensile di bottiglie di vino.
Il problema della qualità
Il problema è che la birra sconta la percezione di bevanda popolare, che necessariamente deve possedere un prezzo popolare per essere appetibile al grande pubblico. In questo modo, a parità di prezzo, si scontra con un ventaglio di alternative immenso, includendo anche analcolici, vino e perfino superalcolici. Circoscrivendo l’argomentazione all’ambito birrario, si può ulteriormente scendere nel distinguo tra birra artigianale sui generis e birra buona, senza troppi fronzoli: la prima sfrutta la leva mediatica per vendere un prodotto mediocre, la seconda vale la spesa. Ed è qui che si concentra il “mosto” del mio discorso, che è volutamente partito da lontano per cercare di vagliare tutti i possibili punti di vista, arrivando finalmente al nocciolo della questione: tutte le birre hanno lo stesso prezzo ma non tutte hanno la stessa qualità. Anzi, considerando l’oltre migliaio di birrifici con e senza impianto sparsi lungo lo Stivale, probabilmente la maggior parte non sanno neppure cosa sia la costanza qualitativa e ancora meno sono quelli che riescono a ottenere standard di qualità elevati. Di conseguenza, in cambio di quei famosi cinque euro, ci si trova nel bicchiere una birra mediocre, bevibile per carità ma francamente molto poco memorabile. Il mio babbo, per esempio, era più che soddisfatto di una birra per me deludente. Laddove doveva esserci il luppolo ne era rimasta solo una lontana reminiscenza, sulla bassa fermentazione il livello di pulizia era opinabile e anche sulla birra di punta, l’immancabile doppio malto, sono stati sufficienti un paio di sorsi per apprezzare tutti gli alcoli superiori contenuti nei suoi solo 7,7 gradi alcolici. Per il mio babbo saranno quindi queste tre birre il metro di paragone per confrontare altre birre, siano esse industriali oppure artigianali. Con due effetti contrapposti: il primo, certamente positivo, è quello di apprezzare la differenza tra una birra artigianale e il suo succedaneo industriale; il secondo, assolutamente negativa, è che si innesca un meccanismo tendenzioso da cui è difficile uscire. Di fronte a un pubblico dal palato diseducato il birrificio non ha alcuno stimolo a migliorare la qualità della sua produzione, consapevole che basta poco per vendere l’intero lotto. Tanto il prossimo andrà meglio. E così via, spazio all’approssimazione.
L’INCAPACITÀ DEI CONSUMATORI DI PERCEPIRE I DIFETTI
Per esperienza personale posso dire che l’astringenza, così come l’effetto puzzola, difficilmente vengono percepiti come difetti: l’astringenza viene considerata un fattore che valorizza l’amaro della birra, rendendola una bevanda dal carattere deciso; il secondo non viene neppure percepito perché ficcare il naso nel bicchiere è roba da sfigati, mentre bere la birra a canna dalla bottiglia – o comunque servita in un bicchiere senza schiuma – è da fighi. Fa male riconoscere che questi stereotipi giurassici rappresentino ancora oggi l’immagine comune del consumo di birra in Italia, eppure è così. E se trent’anni di birra artigianale italiana, oltre a non riuscire a fissare nella mente del consumatore la differenza concettuale con la birra industriale, non sono neppure riusciti a palesarne le evidenti differenze sul fronte gustativo, ecco che l’errore di comunicazione si trasforma in orrore.
Le eccellenze sono l’eccezione, non la regola
La situazione appena descritta è all’opposto di un virtuoso regime concorrenziale, dove la sana competizione spinge ciascun attore verso il costante miglioramento. Fortunatamente le eccellenze ci sono, il problema è che rappresentano l’eccezione anziché la regola. I più bravi li conosciamo io, tu e un circoscritto gruppo di appassionati, oppure tutti quei consumatori di prossimità che hanno la fortuna di vivere nelle loro vicinanze. Purtroppo, sono proprio questi valorosi birrifici i principali svantaggiati di questa tendenza involutiva, dove diventa sempre più difficile promuovere il consumo di birra artigianale di qualità al di fuori del suo circoscritto parametro. Potrebbero alzare il prezzo, dici? La vedo dura, visto che i prezzi hanno davvero poco aggio, schiacciati tra l’incudine (il prezzo della birra industriale/crafty) e il martello (il concetto popolare che storicamente caratterizza la birra, prezzo compreso).
La migliore qualità, per intenderci, non può permettersi di praticare un prezzo premium sulla falsariga di un ristorante stellato, perché possiede qualche rico- noscimento più degli altri: semplicemente sarebbe fuori mercato. E questo è un ulteriore incentivo alla mediocrità: la qualità costa e i birrifici preferiscono risparmiare sulle materie prime e sul processo produttivo, preferendo leve di vendita più spicce. E finché il livello di conoscenza rimane basso possono permettersi di farlo.
Segnali positivi
Mi permetto tuttavia di concludere alla mia maniera, ovvero con toni ottimistici – oppure, per contestualizzare, guardando il bicchiere mezzo pieno. L’avrai verificato anche tu sulla tua lingua: seppur pochi, alcuni birrifici hanno veramente fatto della qualità il loro baluardo, migliorando notevolmente la tecnica produttiva rispetto a pochi anni fa; altri, seppur in misura ancora minore, sono stati talmente audaci da affiancare all’ottima produzione un’eccellente strategia di comunicazione, realizzando alcuni dei migliori esempi di imprenditoria birraria in Italia. Purtroppo, siamo in pochi a essercene accorti. Troppo pochi. Questo perché tutti siamo bravi a riempirci la bocca di un termine altisonante come qualità. Ammetterai tu stesso che, andando a considerare il motto di tutti i birrifici presenti sul suolo nazionale, questo termine appare inflazionato più che in altri settori. Il dilemma sta nel fatto che la qualità è nulla se prima non si lavora sulla qualità percepita. In Italia saremmo dovuti partire da lì, quel lontano giorno di oltre trent’anni fa. Purtroppo, non l’abbiamo fatto. Pertanto, la domanda che ti rivolgo è: secondo te siamo ancora in tempo per riparare il danno oppure la birra artigianale italiana è definitivamente destinata a rimanere una nicchia circo- scritta ai soliti noti? Osservando la tendenza in atto nella politica italiana, che di anni sulle spalle ne ha molti di più della birra artigianale, mi sembra chiaro che siamo spacciati.
Tuttavia, come disse il saggio, siedi lungo la riva del fiume e aspetta di veder passare il cadavere del tuo nemico. Il problema è chi è il vero nemico: il birrificio industriale oppure il birrificio artigianale senza pretese? Mentre attendo, mi godo la birra artigianale italiana, quella buona però, consapevole che è un diritto ma anche un sacrosanto dovere del consumatore consapevole utilizzare i propri soldi con parsimonia, scegliendo gli esempi più virtuosi. Del resto, si prospetta un 2023 di ristrettezze economiche e chi sono io per venire meno ai precetti del buon homo oeconomicus? Ascoltali anche tu: il tuo palato ringrazierà, il tuo portafogli pure!★