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IGA: FACCIAMO IL PUNTO
Le Italian Grape Ale, o IGA che dir si voglia, godono oggi di grande considerazione. All’inizio erano più apprezzate all’estero e dal solito nugolo di appassionati. Ora mi capita di sentirmi chiedere cosa ne penso “di queste birre con il vino, le Italian Grape Ale”, nei posti e dalle persone da cui meno me lo aspetterei. Dunque, il concetto sta uscendo dalla nicchia ma questo non rende comunque semplice capirlo né darne una spiegazione esaustiva.
Le nuove “Guidelines” del BJCP
Sul finire del 2021 le prime indiscrezioni sull’uscita delle nuove “Guidelines” a cura del BJCP hanno permesso ulteriormente alle IGA (orrendo ma comodo acronimo di Italian Grape Ale) di salire agli onori della cronaca visto che l’associazione americana che aveva sdoganato nel 2015 proprio lo stile Italian Grape Ale (ecco spiegato il perché del nome in inglese) paventava l’intenzione di eliminare “Italian” dal nome (se IGA non mi piace granché GA è anche peggio…).
Alla fin fine si è giocato a lascia o raddoppia e il BJCP ha… raddoppiato lasciando le IGA dove stavano, negli stili locali, categoria X3, e aggiungendo alla categoria 29, quella dedicata alle birre con la frutta, la categoria “29D. Grape Ale”. Le nostre amate Italian Grape Ale sono dunque salve ma secondo il BJCP se prodotte fuori dall’Italia non possono avvalersi dell’aggettivo Italian - con buona pace delle American IPA, APA e compagnia bella.
In ogni caso perdere il suffisso “Italian” non sarebbe poi stato così grave se consideriamo che le Pils Boeme non esistono più sul BJCP 2021 ma sono confluite nella categoria 3B col nome di Czech Premium Pale Lager (con alcol tra i 4.2% e i 5.8%) mentre le German Pils hanno ancora una loro categoria, la 5D. Questo almeno a livello di storicità, visto che le Pils sono nate in Boemia oltre 180 anni fa. Tanto per sottolineare l’arroganza americana di cui il BJCP non fa difetto.
Uno stile non facile da definire
Di norma uno stile è rappresentato con dei paletti che vanno dalle tipologie di ingredienti alle modalità produttive, a dati ancora più tecnici e stringenti, come le unità di amaro, il colore e l’alcolicità; le IGA restano invece un campo aperto, tanto quanto le Grape Ale, che hanno parametri leggermente più limitati.
X3 - Italian Grape Ale:
Vital Statistics:
OG: 1.045 – 1.100
IBUs (unità di amaro): 6 – 30
FG: 1.005 – 1.015
SRM (colore): 4 – 25
ABV: 4.5 – 12%
29D - Grape Ale:
Vital Statistics:
OG: 1.059 – 1.075
IBUs: 10 – 30
FG: 1.004 – 1.013
SRM: 4 – 8
ABV: 6.0 – 8.5%
Poi fa sorridere che nella categoria Grape Ale, che ha il limite superiore dell’alcol a 8,5%, vengano indicate come esempi di etichette in commercio Il Tralcio del Birrificio del Forte che è al 12% o la Firestone Walker Feral Vinifera da quasi 10%. Le idee sono un po’ confuse oltre Atlantico ma le Italian Grape Ale non rendono la vita facile a nessuno.
Analizzando i dati raccolti dal Progetto Grape Ale (www.italiangrapeale.org) su oltre 250 IGA censite le differenze produttive tra un birrificio e l’altro sono no- tevoli, tanto da rendere complicato creare delle categorie. Il concorso IGA Beer Challenge, giunto alla seconda edizione, si basa su una distinzione tra sour e non sour e alto e basso grado alcolico. Trovo invece inutile se non fuorviante l’idea del concorso Birra dell’Anno di dividerle tra bacca bianca e bacca rossa: in molti casi l’uva a bacca rossa viene vinificata in bianco o sta comunque a contatto per tempi molto brevi con le bucce (la fermentazione potrebbe iniziare prima del voluto); esistono poi – pochi, pochissimi ma esistono – esempi di birre prodotte sia con uva a bacca rossa sia a bacca bianca. Il colore della birra non dipende necessariamente dall’uva utilizzata: un Sangiovese o un Nebbiolo potrebbero essere integrati in una birra chiara. Infine, il compianto Luigi Veronelli dimostrava con assaggi alla cieca come bacca bianca e bacca rossa, in molti casi, fossero indistinguibili.
Un’espressione del terroir
Si può dire – con le dovute eccezioni –che le IGA sono un’espressione del terroir, concetto normalmente effimero nel campo brassicolo moderno, ma da qui a ricavarne uno stile la strada è lunga e impervia. Probabilmente è anche sbagliato il concetto di stile in sé in questo contesto: le Italian Grape Ale sono un caleidoscopio del panorama brassicolo italiano. E non solo per gli aromi, i profumi, i sapori e le sensazioni tattili: sono anche lo specchio della creatività dei nostri birrai, già ampiamente esibita nella reinterpretazione di stili canonici e che con queste birre raggiunge nuove frontiere, rendendo di fatto impossibile scrivere i dettagli di uno stile.
Lo stile della birra base
Anche solo analizzando la ricetta della birra base, lo stile di partenza o quanto meno l’ispirazione iniziale, si nota che i territori esplorati sono praticamente tutti. Oggi la maggior parte dei birrifici si ispira al Belgio, che in fondo è la scelta più ovvia visto che l’uso di ingredien- ti non canonici, l’aggiunta di spezie, frutta o altro, è abbastanza disinvolto e storico nel panorama delle birre locali e anche molto conosciuto dai birrai italiani. Si spazia però dalle Blonde Ale alle Saison, passando per Blanche e Tripel, senza scordare Dubbel e Strong Ale ma anche Blanche e poi il mondo delle fermentazioni spontanee e miste. Altri birrifici però guardano anche alla Gran Bretagna e in effetti la prima nata, quanto meno a livello commerciale, la BB10 del birrificio Barley, fu (ed è tuttora) una Imperial Stout. Ci sono birrifici, pochi per la verità, che guardano al nuovo mondo, alle birre di ispirazione nordamericana e ancora meno che guardano alla solida quanto normalmente rigida tradizione della bassa fermentazione tedesca.
La scelta dell’uva Questo, la scelta della birra base, solitamente è il secondo passaggio: il primo è la scelta dell’uva. Qui solitamente, ma non sempre a dire il vero, gioca il territorio attorno al birrificio: spesso le birre sono scelte da cantine con cui in qualche modo si collabora o che comunque il birraio frequenta e conosce molto bene. Siamo pur sempre italiani e il vino è una costante, una certezza. Difficilmente conosciamo tutti i vitigni italiani e tanto meno tutti i vini italiani, ma quelli della nostra zona li conosciamo piuttosto bene e i birrai non fanno eccezione. A volte, è direttamente la cantina vinicola che propone a un birrificio di fare una Italian Grape Ale. Può sembrare un passaggio innocuo ma non va sottovalutato, basti pensare che la sola Sardegna ha più vitigni autoctoni dell’intera Francia!
L’utilizzo dell’uva
In ogni caso la scelta del vitigno e il come è stato scelto è solo un primo passo perché a questo punto occorre decidere come utilizzare l’uva. Anche qui, ça va sans dire, le strade si dividono in un incrocio con molte possibilità. Nicola Perra nel 2006 scelse la sapa (mosto cotto a lungo) ma c’è chi sceglie di usare diret- tamente uva, marmellata di uva, mosto diraspato, mosto fresco, mosto fiore, mosto pastorizzato, uva pigiata, uva o mosto termizzati (trattamento termico atto a stabilizzare il prodotto), tanto per fare alcuni esempi dei più utilizzati senza entrare nel merito di ogni singolo birrificio. Qualcuno usa anche le vinacce che però sarebbero illegali in ambito birrario visto che contengono, benché in percentuali molto basse, alcol. Ciò va contro le indicazioni della legge n. 1354 del 16 agosto 1962 che norma la produzione della birra e la sua denominazione, lo si evince dall’articolo 1 in cui si legge che “La denominazione “birra” è riservata al prodotto ottenuto dalla fermentazione alcoolica con ceppi selezionati di saccharomyces [sulla Gazzetta ufficiale è riportato saccharonyces, con la N… NdA] cerevisiae dei mosti preparati con malto di orzo torrefatto e acqua, amaricati con luppolo. […]” ed è esplicitato dall’art. 4 al comma d): “È vietato nella preparazione della birra […] aggiungere alla birra o, comunque, impiegare nella sua preparazione alcool, sostanze schiumogene o sostanze amare diverse dal luppolo” e nel caso rimarcato nel comma e) in cui è fatto divieto di “impiegare ogni eventuale altra sostanza, il cui uso non sia stato specificatamente autorizzato dal Mini- stro per la sanità, sentiti i Ministeri dell’agricoltura e delle foreste, dell’industria e del commercio e delle finanze, ciascuno per la parte di rispettiva competenza, e il Consiglio superiore di sanità”. Per lo stesso motivo è vietato miscelare birra e vino; cioè, lo si può anche fare ma non si può poi chiamare il prodotto né birra né vino, ergo non sarebbe nemmeno una Italian Grape Ale. Ma torniamo a parlare dell’uva (o delle sue varie forme) e di come il birraio può decidere di utilizzare o forse sarebbe meglio dire quando, perché anche qui i casi di analogia sono pochi. Si può aggiungere al mosto della birra durante la bollitura (solitamente verso la fine). Ha un vantaggio dato dalla temperatura che pastorizza l’uva, impendendo così un contributo nella fermentazione da parte della flora naturale (che dipende anche dai trattamenti prece- denti, a cura della cantina) ma allo stesso tempo la temperatura tende anche ad annichilire il contributo aromatico. Discorso analogo per l’aggiunta in fase di whirlpool, dove la temperatura è comunque più bassa ma ancora sufficiente a stabilizzare.
Altri birrai scelgono il fermentatore come campo di azione ma anche qui si può intervenire in vari momenti: dall’inizio della fermentazione fino a fermentazione quasi conclusa o a inizio maturazione, ogni momento è buono. In questo caso la scelta se aggiungere un mosto o un’uva senza un precedente trattamento termico o una stabilizzazione può cambiare parecchio le carte in tavola, aprendo ulteriori sviluppi non sempre sotto il reale controllo del birraio. In ogni caso, l’uva qui offre un maggiore apporto aromatico.
La fermentazione
Parrebbe essere arrivati alla fine della questione ma manca un elemento fondamentale: la fermentazione e dunque la scelta del lievito o dei lieviti, perché alcuni birrai hanno iniziato a lavorare con dei blend di saccaromiceti differenti e, nel caso delle IGA, affrontano anche il mondo enologico utilizzando lieviti selezionati per il campo vini - colo. In effetti la questione è complicata: i lieviti da birra sono abituati a lavorare con il maltosio, con zuccheri che derivano da un mosto di cereali; se il mosto di uva viene aggiunto in concomitanza con il mosto di birra possono abituarsi al nuovo ambiente ma potrebbero comunque andare in difficoltà verso fine fermentazione. I lieviti da vino, al contrario, faticano con il maltosio ma alcuni ceppi sono in grado di esaltare le proprietà aromatiche di un determinato uvaggio. Dunque, anche qui le scelte sono molteplici e si affidano all’esperienza e allo studio del birraio oltreché alla sua sensibilità. In linea di massima trovo che l’utilizzo di due lieviti differenti (uno vinicolo e uno brassicolo) aiutino nel risultato finale ma ci sono ovviamente eccezioni che non permettono di stilare un vademecum certo e assoluto.
A queste esperienze vanno aggiunte anche quelle di chi cerca la fermentazione mista o spontanea, con apporto o meno di botti e barrique, uso di starter indigeni (pied de cuve) o attesa che l’uva faccia il suo corso e non si devono neppure trascurare le scelte in fase di confezionamento che vedono alcuni birrifici lanciarsi nel metodo classico con tanto di sboccatura.
Appare chiaro, a questo punto, che le Italian Grape Ale sono tuttora un mondo più che uno stile, un macro-contenitore di idee, di tecniche e di soluzioni per una serie di risultati nel bicchiere spesso davvero emozionanti.
La difficoltà, in molti casi, è legata alla stagionalità di queste produzioni (sono ancora pochi i birrifici che riescono a conservare uva o mosto e a produrre con continuità): una cotta all’anno limita molto la crescita tecnica, l’affinamento produttivo, spalmandolo anziché su qualche mese su svariati anni.
Il concorso internazionale legato al Progetto Grape Ale
La crescita del settore e le conferme arrivano analizzando i risultati del concorso internazionale legato al Progetto Grape Ale.
Si evince che il Centro e il Sud Italia non abbiano nulla da invidiare al Nord nell’interpretare al meglio l’uva a disposizione e, a fronte di un numero minore di birrifici, ottengono importanti riconoscimenti: nell’edizione conclusasi da poco, con Opperbacco che ha mostrato un percorso di crescita notevole arrivando a sbancare, letteralmente, la categoria 3 di cui ha monopolizzato il podio, Alveria si conferma riportando a podio la Regola Zero e imponendo la Regola Aurea nella categoria 1.
Enrico Ciani, di Birra dell’Eremo, si prende la categoria 2 ma soprattutto dimo-
Risultati 2021
Categoria 1 - Italian Grape Ale non acide, bassa gradazione alcolica (minore o uguale al 7%)
1° posto: Tonda di Malaspina Brewing (Lombardia)
2° posto: Gadduresa di Harvest Sardinian Craft Beer (Sardegna)
3° posto: White IGA di Fèlsina Birrificio (Toscana) menzione d’onore: Politianus I.G.A. di Birrificio Montepulciano (Toscana) menzione d’onore: Polyphemus di Birrificio dell’Etna (Sicilia)
Categoria 2 - Italian Grape Ale non acide, alta gradazione alcolica (superiore al 7%)
1° posto: Casana 2018 di Crak (Veneto)
2° posto: Genesi di Birra dell’Eremo (Umbria)
3° posto: Vulpus Barrel di 61Cento (Marche)
Risultati 2022
Categoria 1 - Italian Grape Ale non acide, bassa gradazione alcolica (minore o uguale al 7%)
1° posto: Regola Aurea di Alveria (Sicilia)
2° posto: Vineyard di Birra Gaia (Lombardia)
3° posto: La Baronz 2022 di An.Gi.Bi. (Sicilia) menzione d’onore: Inevitabile di Sei Terre / Birrificio Lyon (Veneto) menzione d’onore: IGA di Birrificio Quattro Venti (Abruzzo)
Categoria 2 - Italian Grape Ale non acide, alta gradazione alcolica (superiore al 7%)
1° posto: Monogram di Birra dell’Eremo (Umbria)
2° posto: Selva di Birra dell’Eremo (Umbria)
3° posto: Genesi di Birra dell’Eremo (Umbria) menzione d’onore: Naviga di Birra Le Corti di Porana (Lombardia) stra che il lungo e complicato lavoro che ha fatto (e sta facendo) sui lieviti sta dando i suoi frutti.
Nella categoria 4 Fèlsina (o Podere La Berta che dir si voglia) vince tenendo i piedi tra Nord (Emilia Romagna) e Centro (Toscana).
Un concorso come questo permette dei confronti raramente possibili: nella maggior parte dei casi le IGA si bevono a sé, magari con altre birre, raramente con altre IGA e praticamente mai in un confronto così ampio. Le sorprese non mancano com’è giusto per una categoria di birre che sono, per loro natura, sorprendenti. ★
Categoria 3 - Italian Grape Ale acide, bassa gradazione alcolica (minore o uguale al 7%)
1° posto: Gargan-IGA di Birrificio Agricolo Sorio (Veneto)
2° posto: Nature Terra 2019 di Microbirrificio Opperbacco (Abruzzo)
3° posto: Insolita di Fabbrica della Birra Perugia (Umbria) menzione d’onore: Old River #3 di Birrificio Castagnero (Piemonte)
Categoria 4 - Italian Grape Ale acide, alta gradazione alcolica (superiore al 7%)
1° posto: Regola Zero di Birrificio Alveria (Sicilia)
2° posto: Merlot Riserva 2017 di Crak (Veneto)
3° posto: Nature Terra 2020 Cuvée di Microbirrificio Opperbacco (Abruzzo) menzione d’onore: Nature Viva 2020 Terraviva di Microbirrificio Opperbacco (Abruzzo)
Categoria 3 - Italian Grape Ale acide, bassa gradazione alcolica (minore o uguale al 7%)
1° posto: Nature Terra 2019 di Microbirrificio Opperbacco (Abruzzo)
2° posto: Nature Terra Cataldi Madonna 2021 di Microbirrificio Opperbacco (Abruzzo)
3° posto: Nature Terra Cuvée di Microbirrificio Opperbacco (Abruzzo)
Categoria 4 - Italian Grape Ale acide, alta gradazione alcolica (superiore al 7%)
1° posto: Tèra Sour di Podere La Berta (Emilia-Romagna)
2° posto: Selva Sour di Birra dell’Eremo (Umbria)
3° posto: Regola Zero di Alveria (Sicilia) menzione d’onore: Nature Terra Passito 2020 di Microbirrifcio Opperbacco (Abruzzo)